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PALAZZO REALE DI CAPODIMONTE
LA CERTOSA DI S. MARTINO
CHIESA DELLA CONCEZIONE A MONTECALVARIO
CHIESA DI S. MARIA DELLA SANITÀ
CHIESA DI S. CARLO ALLE MORTELLE
CHIESA DI S. MARIA DEI MIRACOLI
PALAZZO SANFELICE AI VERGINI CHIESA DI S. FRANCESCO SAVERIO
PALAZZO DELLO SPAGNUOLO AI VERGINI
CHIESA DI S. ANNA A PORTACAPUANA
PALAZZO REALE CHIESA DEI SS. APOSTOLI PALAZZO SERRA DI CASSANO A MONTE DI DIO
CHIESA DI S. GIUSEPPE DEI RUFFO CHIESA DELL'EGIZIACA A PIZZOFALCONE CAPPELLA DEL TESORO DI S. GENNARO NEL DUOMO
CHIESA DI S. LORENZO MAGGIORE
CHIESA
DE LA SAPIENZA
PALAZZO DONN'ANNA A POSILLIPO
E LA PIAZZA
COMPLESSO DEL MONTE DELLA MISERICORDIA
CHIESA DI S. PAOLO MAGGIORE
CHIESA DELLA NUNZIATELLA
LA GUGLIA DI S. GENNARO
CHIESA DI S. GREGORIO ARMENO
CAPPELLA SANSEVERO
CHIESA DI S. AGOSTINO ALLA ZECCA
GUGLIA DI S. DOMENICO E LA PIAZZA
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CHIESA DEI SS. GIOVANNI E TERESA
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CHIESA DEL GESÙ NUOVO GUGLIA DELL'IMMACOLATA E LA PIAZZA
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Cartografia
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PALAZZO MADDALONI
CHIESA E CHIOSTRO DI S. CHIARA
CHIESA DEI SS. MARCELLINO E FESTO
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Cartografia
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1 PALAZZO GAETANI D'ARAGONA 2 CATTEDRALE DI S. PIETRO 3 UN CENTRO STORICO DI NUOVA FONDAZIONE 4 CHIESA DELLE DAME MONACHE 5 DUOMO DELL'ASSUNTA 6 CHIESA DELL'ANNUNZIATA 7 PALAZZO TERRAGNOLI 8 REGGIA 9 ANNUNZIATA 10 CHIESA DI S. FRANCESCO 11 CHIESA DI S. MARIA DELLE GRAZIE 12 SANTUARIO DELLA MADONNA DELL'ARCO 13 CHIESA DEI SS. APOSTOLI 14 LE CASE DEI VERGINIANI IN IRPINIA: LA CHIESA DI MONTEVERGINE, IL CONVENTO DEL SALVATORE AL GOLETO, IL PALAZZO ABBAZIALE DI LORETO 15 CASA DELL'ANNUNZIATA 16 CHIESA DI S. RAFFAELE 17 VILLA PIGNATELLI DI MONTELEONE 18 REGGIA 19 VILLA CAMPOLIETO 20 COLLEGIATA DI S. MICHELE 21 CHIESA E ORATORIO DI S. MARIA DI LORETO A FORIO D'ISCHIA 22 CHIESA DI S. MARIA DELLE GRAZIE A LACCO D'ISCHIA 23 CHIESA DI S. MARIA DELLA SCALA A ISCHIA PONTE 24 CHIESA DI S. PIETRO A ISCHIA PORTO 25 BADIA 26 CHIESA DI S. PIETRO 27 CATTEDRALE DI S. MATTEO 28 MONASTERO DI S. GIORGIO 29 CHIESA DELL'ANNUNZIATA 30 COMPLESSO DELL'ANNUNZIATELLA 31 PALAZZO RUGGI D'ARAGONA 32 PALAZZO GENOVESE 33 PALAZZO CONFORTI 34 PALAZZO COPETA 35 CHIESA DI S. MICHELE 36 CHIESA DI S. MARIA DELLE GRAZIE 37 CERTOSA
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Introduzione
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Certosa di San Martino
Pagina precedente: 20. Napoli. Cappella del Tesoro di S. Gennaro, particolare della cupola. Il tamburo con l’ordine di volute in coppia.
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21. Pianta della Certosa di S. Martino a Napoli, con il perimetro di Castel Sant’Elmo (Da Tufari, 1854).
Pagine seguenti: 22, 23. Vedute di Napoli, dal porto alla collina di S. Martino. 24. Napoli. Certosa di S. Martino, il chiostro grande. 25. Napoli. Certosa di S. Martino. Il chiostro grande con il Cimiterino dei Monaci.
Dalla collina di San Martino, accanto a Castel S. Elmo, la Certosa domina sul profilo della città e si affaccia su Spaccanapoli con il Vesuvio sullo sfondo, in corrispondenza dei Quartieri Spagnoli; il territorio circostante, già punteggiato da case rurali fin dalla metà del Cinquecento, è ancora verde e collegato da pedamentine. La disposizione delle varie parti del complesso e la distribuzione dei singoli ambienti, segnate dalla ritualità delle sedi dell’Ordine, risalgono alla configurazione gotica, completata in età della regina Giovanna i d’Angiò. Il primitivo impianto, ancora attestato dalle volte a crociera della navata, del presbiterio e del portico della chiesa e dalle strutture affiorate da saggi in uno dei portici del chiostro grande, fu via via mascherato, dapprima attraverso l’adeguamento ai canoni della Controriforma, poi con il ‘restauro’ fanzaghiano e con gli ammodernamenti tardo-barocchi. Una sostanziale trasformazione della chiesa venne ideata e diretta, in età del priore Severo Turboli, dall’architetto fiorentino Giovanni Antonio Dosio, dal 1591 fino alla sua morte (1609). Questo primo progetto fu poi rivisto e diretto da G. Giacomo di Conforto, architetto attivo a Napoli nei primi trent’anni del Seicento, ed eseguito da un folto gruppo di marmorari; dal 1617 al gennaio del 1622 Felice de Felice lavorava, insieme a Giacomo Lazzari, nella cappella di S. Ugone, e fino al 1618 nelle cappelle di S. Martino di Tours e dell’Assunta; nella cappella di S. Gennaro erano impegnati Salvatore Ferraro e Nicola Botti. L’ingresso di Cosimo Fanzago in Certosa, introdotto dal di Conforto (1623), determinò la trasformazione decisamente barocca del complesso, attuata in due fondamentali tappe (1623-31 e 1631-56) con il ‘restauro’ della chiesa e la costruzione del chiostro grande e del cimiterino, un vasto capitolo dell’attività fanzaghiana che, pur caratterizzato da una grammatica progettuale di impronta classicista, viene messo in forma con la riscrittura degli ordini architettonici, con il decoro della scultura e con rivestimenti in marmi commessi e intarsiati e pavimenti di marmo bianco e bardiglio. Fanzago fu autore del progetto e dell’esecuzione del chiostro grande (Cantone, 1984), articolato dalla sequenza di quindici campate per lato, con volte a vela, poggianti su colonne di tipo dorico, con basi abbastanza alte in modo da ridurne il diametro e con capitelli formati da due collarini piccoli e
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dall’abaco sporgente: in pratica, scolpisce un ordine pseudodorico, più ricco di quello ortodosso, che meglio si predisponeva all’imposta delle volte a vela e all’ornamentazione. Tra le innovazioni stilistiche del chiostro grande, dovute alla tecnica dello scultore prestato all’architettura, vanno menzionati: il lungo triglifo a tre incavi inserito tra le cornici degli archi; il sistema tettonico nei quattro angoli con colonne, a ‘otto’, che sembrano accostate tra loro ma sono ricavate da un unico blocco di marmo che nella faccia posteriore configura un pilastro con eleganti modanature: in tal modo, superato il tema classicista del pilastro a L con semicolonne, gli elementi tettonici furono ottenuti per escavazione da blocchi di marmo. Strepitosi, per sintesi di scultura e architettura, sono i portali gemelli degli angoli dove l’ornamentazione si sostituisce alla tettonica e la positura e raffinatezza dei busti rispondono all’iterazione e alla metamorfosi del codice retorico. Accanto a questo va ricordato che nei due contratti (1623 e 1626) stipulati tra i Certosini e Cosimo Fanzago per la realizzazione del chiostro non vi è alcun cenno a un progetto del Dosio da rispettare o meno e che, in un appunto del 22 aprile 1627, è chiarito che di Conforto ricopriva il ruolo di direttore dei lavori per il nuovo chiostro e la nuova cisterna. Le note, numerosissime, sui blocchi di marmo da lavorare mettono in chiara luce il fatto che non c’è separazione né giustapposizione tra gli elementi della struttura e le parti decorative; la sintesi di architettura e scultura conformò la messa in opera delle colonne, dei pilastri e delle volte a vela sulle campate del porticato e fu Fanzago, scultore che diventa architetto in Certosa, a realizzare il
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26, 27. Napoli. Certosa di S. Martino, particolari del chiostro grande. La soluzione angolare con il sistema tettonico e i portali affiancati con le sculture.
Pagina a fianco: 28, 29. Napoli. Certosa di S. Martino, particolare del chiostro grande. I due portali gemelli con i busti. A sinistra, nella prima immagine, è raffigurato il beato Nicolò Albergati. La seconda immagine illustra più chiaramente le due volute in funzione di ordine architettonico, un’invenzione che lo stesso Fanzago di lì a qualche anno adotterà nella guglia di S. Gennaro.
30. Napoli. Certosa di S. Martino, particolare del chiostro grande.
sistema tettonico del «trino», definito dall’imposta di tre archi scolpiti in uno stesso blocco di marmo dove le parti di destra e di sinistra costituiscono l’imbotte degli archi sul fronte, quello centrale costituisce parte dell’arco compreso tra una volta a vela e l’altra. Il cimiterino dei Monaci (1628-43) fu progettato e realizzato in funzione del ritmo delle arcate del chiostro, come può vedersi dagli allineamenti tra i risalti della balaustra che lo recinge e le colonne del chiostro, tra l’ingresso al recinto sepolcrale e l’intercolumnio. Ebbe grande risonanza per la scultura, di mano dell’autore, specie per i teschi poggiati sulla balaustra che fungono da coronamento dell’ordine di pilastrini. Nella contabilità del 1631 Fanzago viene pagato anche per le statue sistemate «sopra il cornicione» del chiostro grande, San Bruno, San Pietro e San Martino; per statue appena abbozzate, Nostro Signore Resuscitato, San Giovanni Battista, San Paolo, Nostra Signora; per i portali situati negli angoli del chiostro; per le acquasantiere di marmo bardiglio nella sala del Capitolo; per il lavamano nel coro dei frati e nella sala del Capitolo e per il lavamano nel refettorio; per la porta di accesso alla sala del Colloquio; per le finestre con le cancellate situate presso l’appartamento del Priore. Il suo intervento nella chiesa si inserisce nel processo di trasformazione dell’impianto gotico già avviato da Dosio; tra i lavori che gli vengono pagati nel 1631 quando, ammodernato l’altare di S. Michele del Capitolo lo fa spostare nella cappella maggiore, figurano: palle di mischio e bardiglio e i rosoni dei pilastri; la cappella di S. Bruno per intero e alcune opere per la cappella di S. Ugo, dove poi subentrerà Matteo Bottigliero con i quattro
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busti di Santi (1700); alcuni reliquiari; la «spalliera» del coro, la balaustra e la scala dell’altar maggiore; la statua della Mansuetudine, da gettarsi in argento; quattro «putti» scolpiti per la chiesa e, per la sagrestia, un arco e la statua di San Bruno. E molti altri lavori di ornamentazione: le porte marmoree, di cui quattro nella cappella dell’Assunta e quattro nella cappella di S. Martino; gradini d’altare e modanature; tutte le basi dei pilastri e delle paraste, parte ex novo e parte riutilizzando elementi preesistenti; le cimase («con commesso di verde antico») all’imposta degli archi di accesso alle cappelle, iniziate dopo l’ammodernamento della cappella di S. Bruno al fine di ottenere l’uniformità dell’ornato; i riquadri policromi di marmo con il listello nero («di breccia di francia rossa e bianca con un listello di Nigro»); i putti con basi poggiati in chiave d’arco all’ingresso delle cappelle e i vasi («quattro vasi con li zoccoli nelli frontespitij»); i poggiatoi («tavolini con riquadri, grade e balaustre»); i «nove Rosoni nelli contropilastri della chiesa». Un arredo liturgico programmato per accogliere le tele di Jusepe de Ribera, nei pennacchi degli archi, raffiguranti Profeti e Patriarchi (1638-43), opere di straordinaria innovazione figurativa che si raccordano al naturalismo dell’apparato marmoreo. Le cappelle centrali, intitolate a san Bruno e a san Giovanni Battista,
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31, 32. Napoli. Certosa di S. Martino. Particolari del chiostro grande con il Cimiterino dei Monaci. Al rispecchiamento modulare, tra le campate del chiostro e le proporzioni del Cimiterino, fa da riscontro l’ordine architettonico del recinto con le sculture dei teschi in funzione di capitelli. Un pensare all’architettura, indirizzato dalla dimensione classicista, che si fa barocco attraverso la trasposizione tematica, ingenerando la sorpresa. Pagina a fianco: 33. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino, interno verso l’altar maggiore. La struttura dell’impianto gotico affiora anche attraverso il ridisegno delle costolonature della volta. L’arco di trionfo, con la decorazione plastica, tende a mascherare la discontinuità, anche nell’altezza, tra volta della navata e volta del coro.
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34. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino. La volta sul coro con gli affreschi di Giovanni Lanfranco. Pagina a fianco: 35. Napoli. Certosa di S. Martino. La volta sulla navata, con la decorazione ad affresco di Giovanni Lanfranco.
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mostrano temi compositivi che, di lì a qualche anno, Fanzago sperimenterà nei cappelloni delle chiese del Gesù Vecchio e del Gesù Nuovo, l’uso del colore ottenuto con pannelli marmorei, la ricorrenza dei motivi ornamentali, il ruolo principe della scultura. Esito del gioco dell’ambiguità visiva, peraltro in una data assai precoce (1631), appare la giustapposizione nella cappella di S. Bruno tra la scultura del vaso e i fiori ‘dipinti’ con intarsi marmorei. Gli affreschi e le tele di Massimo Stanzione con Storie del Santo furono realizzati dal 1631 al 1640; il busto del Santo, di Fanzago, fu «gettato» da Biagio Monte; le sculture allegoriche della Solitudine e della Penitenza sono di Domenico Antonio Vaccaro. Nella cappella di S. Giovanni Battista l’impronta fanzaghiana va riconosciuta nel paliotto e nella decorazione marmorea. Presenta la tela di Massimo Stanzione, del 1642, con storie del Santo, affreschi nella volta e tele nei lunettoni. Nella prima cappella a sinistra dell’entrata, intitolata a san Gennaro, Fanzago realizza l’apparato di stucco; il ciclo pittorico dedicato al Santo si avvale di affreschi e tele di Battistello Caracciolo, realizzati tra il 1631 e il 1633; sull’altare è il bassorilievo della Consegna delle chiavi di Napoli a san Gennaro, di Domenico Antonio Vaccaro, al quale si devono anche le sculture allegoriche della Fede e del Martirio e i medaglioni con gli Evangelisti (1720 c.). Lo stesso Vaccaro realizza la decorazione di stucco nella cappella del Rosario e gli angeli con i festoni che si avvolgono alle colonne scanalate (1715); gli
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36. Napoli. Certosa di S. Martino, cappella di S. Bruno. Particolare della ‘scodella’ con l’affresco di Massimo Stanzione. 37. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino, cappella di S. Bruno. Particolare dell’ornamentazione marmorea, densa di effetti illusionistici e simile a quella della cappella di S. Giovanni Battista.
38. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino, cappella di S. Giovanni Battista. Particolare del cupolino affrescato da Massimo Stanzione con storie del santo. 39. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino, cappella di S. Giovanni Battista.
stucchi indorati della cappella di S. Giuseppe e gli angeli con drappi accostati alle colonne. La cappella dell’Assunta, la terza a sinistra, dove interviene Fanzago con l’apparato marmoreo, nella volta e nel lunettone mostra gli affreschi con Storie della Vergine di Battistello Caracciolo (1623-26) e le sculture di Giuseppe Sanmartino, Verginità e Ricompensa e i putti in cornici ottagone (1757). Dal lato opposto, la prima cappella è quella di S. Ugo, con tele di Andrea Vaccaro, Sant’Ugo che resuscita un bambino morto e Sant’Ugo che costruisce l’Abbazia di Lincoln e la Madonna con bambino tra i santi Ugo e Antelmo (1644) di Massimo Stanzione. L’ammodernamento prefanzaghiano era incominciato dalle cappelle più vicine al presbiterio, dell’Assunta, a sinistra, e di S. Martino, a destra, che comunica con il coro dei Conversi. Furono rivestite di marmi, lavorati da Salvatore Ferraro e Nicola Botti (1618-22), e messi in opera nel 1626 da Orazio Ferraro. Ma il vero restauro sarà attuato in età tardo barocca. Nella cappella di S. Martino, realizzata dal 1618 al 1635, la pala d’altare di San Martino e quattro angeli (1625) di Battistello Caracciolo e l’affresco con i miracoli del Santo (1632-35), di Paolo Finoglia. Gli affreschi della volta, di Giovanni Lanfranco, raffigurano l’Ascensione di Nostro Signore al cielo (1637-40). L’attuale altar maggiore (1702-03), ampiamente documentato (Cantone, 1984 e 1998), in legno argentato e indorato, fu progettato da Francesco So-
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40. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino, l’altar maggiore. 41. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino. Particolare della balaustra dell’altar maggiore.
limene ed eseguito dall’intagliatore Francesco Jevoli con la direzione dello stesso Solimene che disegnò anche il rilievo del Cristo risorto per la «portellina» del ciborio. Alcune variazioni, rispetto al disegno dell’altare, riguardano i puttini intagliati, posti ai lati del paliotto, opera di Giacomo Colombo, non nuovo all’esecuzione di sculture lignee e alla stessa progettazione di altari. La balaustra del 1761, già attribuita a Giuseppe Sanmartino, è stata ricondotta, di recente, allo scultore Filippo Belliazzi allievo di Sanmartino, per l’esecuzione, e come disegno di progetto al Tagliacozzi Canale, cui va riferito anche il cancello. Al Sanmartino vanno attribuiti il tratto di pavimento dall’altare alla balaustra e i due angioloni reggitorce di capoaltare, lignei e rivestiti di stucco dorato (1768), poggiati su mensole curvilinee, intagliate da Girolamo Selino nel 1703, insieme ad altri motivi ornamentali. Il disegno di Solimene (Cantone, 1998) è di sicuro la base del progetto a meno di modifiche dovute alla necessità di semplificare il lavoro di intaglio. I piani di proiezione del paliotto con la mensa e delle ali, dove la decorazione con la testa femminile occupa uno spazio più ridotto di quello eseguito, sembrano essere disposti su piani paralleli tra loro, cioè non seguono un andamento concavo. In più sono diverse la decorazione del paliotto, la dimensione della base del dossale e la mensola curvilinea. L’angiolone reggitorcia, rappresentato con lo spessore compositivo di un progetto di scultura,
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42. Francesco Solimene, disegno di progetto per l’altar maggiore della chiesa della Certosa. Napoli, Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa, Fondazione Pagliara. 43. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino. Particolare della balaustra dell’altar maggiore.
rimanda, per la predominanza delle ali e la posizione delle gambe, per la torsione del busto e il gioco delle vesti, agli angeli di ponte S. Angelo di scuola berniniana e, ancora meglio, alle due sculture di mano di Bernini, l’Angelo con la corona di spine e l’Angelo con il cartiglio, basi delle copie eseguite per il ponte e poi collocate nella chiesa di S. Andrea delle Fratte. Ma vanno ancora ricordati i due angeli reggiquadro nel cappellone di sinistra della chiesa di S. Maria del Popolo, opere di Mari e di Raggi. Nel disegno di Solimene non compaiono gli intagli con la coppia di angeli ai lati del paliotto e le due mensole con teste femminili addossate alle pareti laterali, mentre ai lati del paliotto appaiono due coppie di puttini sostenuti da una struttura lignea con volute. I due putti che reggono un drappo, sul tema dell’altare Filomarino, si sovrappongono con le gambe alle cornici scavalcando il piano del paliotto, con un effetto scenico comune alle opere pittoriche più importanti di Solimene, La caduta di Simon Mago nella chiesa di S. Paolo Maggiore e Lo sposalizio della Vergine nella chiesa del Gesù delle Monache, e a tutte le altre dove le figure si muovono nelle architetture dipinte, attraverso la sequenza dei piani prospettici. Nell’altare l’espediente compositivo dell’attraversamento degli spazi traspare anche dal grande angelo, che con il braccio sinistro copre il manico della giara, e dalla testa femminile legata, attraverso il velo, alle volute che la fiancheggiano.
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L’altare non ha ancona né portali laterali, sia perché considerato provvisorio sia perché i Certosini non intendevano mascherare la composizione parietale realizzata da Fanzago. Presenta una sagoma poligonale concava ai lati e gradini rettilinei corrispondenti a quelli posti in opera da Fanzago che appaiono riadattati nel punto di attacco alla base inclinata. In tale composizione il dossale, con piccola base lievemente avanzata e secondo gradino abbastanza alto, risulta dominante per il risalto centrale del tabernacolo. L’altare avrebbe dovuto restare in sito fino alla messa in opera di quello definitivo, in rame indorato e decorato da metalli preziosi, da eseguirsi su progetto di Solimene. Durante il soggiorno napoletano (gennaio-aprile 1706) Juvarra progetta per l’altare definitivo, forse in collaborazione con Solimene, cinque soluzioni documentate da disegni di pianta e di alzato, che mostrano una rara capacità di sintesi di ‘modelli’ del Seicento napoletano, specie nell’uso dei portali laterali, di derivazione fanzaghiana, e perché aprono a composizioni di altare sperimentate, nei decenni successivi, da Vaccaro e Sanfelice. Il coro, con stalli in radica di noce dei mastri intagliatori, Orazio de Orio e Giovanni Mazzuoli (1629), è decorato nel catino absidale dall’affresco della Crocifissione di Nostro Signore sul Calvario di Giovanni Lanfranco. Sull’altare è la Natività di Guido Reni e sulle pareti: La lavanda dei piedi di Battistello Caracciolo (1622); La Comunione degli Apostoli, di Ribera (1651); L’adorazione dei pastori, di Guido Reni (1642); l’Ultima cena, di Massimo Stanzione (1639). Vi si conservano le statue allegoriche della Castità, di Pietro Bernini (1598); l’Obbedienza attribuita alla bottega fanzaghiana;
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44. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino. Particolare dell’interno con la cappella dell’Assunta e la balaustra dell’altar maggiore. 45. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino. Particolare di una parasta. Il pannello, realizzato con i marmi intarsiati fanzaghiani, è posto giusto al centro dell’ordine e costituisce la base proporzionale dell’intero rivestimento.
Pagina a fianco: 46. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino, particolare della sagrestia. La quadratura prospettica fu disegnata da Cosimo Fanzago e dipinta da Viviano Codazzi; il Cristo con la Vergine, la Maddalena e san Giovanni Evangelista è del Cavalier d’Arpino; La negazione di san Pietro di anonimo fiammingo. 47. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino, la volta della sagrestia.
l’Immacolata di Gennaro Monte (1691). I pavimenti fanzaghiani, con semiesagoni in marmo bianco e bardiglio, a seguito della notorietà conquistata dalla rinnovata Certosa meta, fin dalla seconda metà del Seicento, anche di viaggiatori stranieri, saranno applicati anche a Roma; quello del chiostro grande fu iniziato nel 1629 e terminato nel 1643; il pavimento del coro fu completato nel 1656; il pavimento della sala del Tesoro fu eseguito da Salomone Rapi, quello della cappella di S. Martino da Fanzago. Il pavimento in marmi commessi della navata fu realizzato tra il 1664 e il 1667, dal frate certosino Bonaventura Presti, con intarsi di rose inseriti da Fanzago e completati nel 1656 da Giuseppe Gallo, marmorario della sua bottega. Nel chiostrino del refettorio si conserva la vasca «a becco di civetta» di Fanzago e nel coro dei conversi il suo lavamano, ricomposto da Biagio Cimafonte su indicazioni di Nicolò Tagliacozzi Canale. Della sagrestia vecchia ricordiamo l’olio su tela, San Nicola e il garzone Basilio, 1636, di Pacecco de Rosa e della sagrestia nuova le splendide tarsie degli armadi (1587-96), di G. Battista Vigilante, N. Ferraro, L. Ducha, T. De Vogel, di ascendenza fiorentina e urbinate che nessun artista presente nella Certosa poteva ignorare, compreso lo stesso Fanzago che dovette farne materia di riflessione per il chiostro grande. Sulla volta sono gli affreschi di Giuseppe Cesari (detto il Cavalier d’Arpino), con Storie della Passione. A Fanzago si deve il disegno delle tele prospettiche dei lunettoni della sagrestia (Cantone, 1984), dipinte da Viviano Codazzi tra il 1642 e il 1644: la scala per la scena di Cristo che esce dalla casa di Pilato, Ecce Homo, con le
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capitello all’inclinazione del corrimano e introducendo l’ordine obliquo. I marmorari e pipernieri di Fanzago furono pagati tra il 1639 e il 1641; la parte più consistente del pavimento fu messa in opera nel 1664; la biblioteca fu realizzata dal frate certosino Bonaventura Presti. Vanno ricordati gli affreschi con paesaggi di Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro) inseriti nelle lunette e nelle volte dell’appartamento (1642-46) e, in particolare, quelli della prima e della seconda galleria, il Battesimo di Cristo e la Veduta della città di Napoli, costruita sul modello della veduta Baratta (1629). Il Quarto del Priore, che già nel Seicento accoglieva una ricca collezione di dipinti, con il recente restauro ha assunto una destinazione museale adeguata al livello del più grande museo d’arte rappresentato dalla Certosa. Tra il 1702 e il 1715, in età del priore Giovanni Nardelli e dell’ingegnere della fabbrica Andrea Canale, Luca Giordano affresca la volta del Tesoro Nuovo, rivestito di armadi di noce e arricchito dal reliquiario. La presenza in cantiere del Giordano, di Lorenzo e Domenico Antonio Vaccaro, di Francesco Solimene, Matteo Bottigliero e Francesco De Mura, accentua le sperimentazioni improntate alla sintesi delle arti. Intorno alla metà del Settecento la regia dell’opera passa a Nicolò Tagliacozzi Canale, già impegnato nel refettorio e nel chiostrino, dove fa ricomporre il lavabo fanzaghiano da Biagio Cimafonte, nella prosecuzione degli ammodernamenti. In seguito la presenza del castello, con le batterie di cannoni, doveva condizionare anche il progetto di Nicolò Tagliacozzi Canale per il refettorio, eseguito dal 1724 in poi dal Cimafonte, al quale si deve il completamento della fontana di Fanzago nel chiostrino del refettorio. Al Tagliacozzi va ascritto anche il completamento del chiostro del refettorio. Lavora quindi nel corridoio della cappella della Maddalena che unisce il
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51, 52. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino, particolari della facciata. Il portico al centro e le due ali rivestite dall’apparato di stucco sono esito di un più complesso progetto fanzaghiano.
53. Napoli. Chiesa della Certosa di S. Martino, particolare della facciata. È leggibile il rapporto del portico con il registro superiore della facciata interna.
chiostro dei procuratori al coro dei Conversi; completa il registro superiore della facciata della chiesa; progetta la decorazione delle cappelle di S. Martino e dell’Assunta, poi eseguita da Giuseppe Sanmartino. A lui si devono la sistemazione dei giardini e il belvedere a forma di gazebo merlato, nonché il rivestimento di stucco, ai lati della facciata della chiesa, disegnato con motivi tratti dal repertorio fanzaghiano e, presumibilmente, con l’intento di proseguire idealmente il mancato progetto per la facciata, che va ricordato per la novità compositiva influenzata dal Barocco romano. Mentre si occupava della facciata (1636), insoddisfatto del risultato ottenuto, Fanzago propose ai Certosini il rivestimento della struttura di piperno, ormai quasi completata, con marmi commessi e intarsiati, che aveva già cominciato a lavorare. Intendeva inoltre inserire quattro colonne di «verde antico» a sostegno della crociera intermedia del portico di ingresso alla chiesa; l’idea, applicata dallo stesso Fanzago nell’atrio di S. Maria degli Angeli alle Croci e ripresa, assai più tardi, da G. Battista Manni nel vestibolo di S. Marcellino, non fu approvata dai Certosini, timorosi che le colonne non fossero sufficienti a reggere l’antica volta a crociera. Della nuova facciata, che avrebbe occupato, oltre lo spessore della chiesa, le due ali, a sinistra in corrispondenza del Tesoro Vecchio e a destra in corrispondenza della cappella della Maddalena, si conserva un disegno del 1681 del Manni, copiato dalla traccia conservatasi su una parete della chiesa delle Donne, dove Fanzago l’aveva delineato con il «carbone» per servirsene durante la lavorazione dei marmi. Questi verranno utilizzati in vari modi: i festoni saranno sistemati nel vestibolo che dal chiostro dei Procuratori conduce al chiostro grande; una parte fu usata per il piedistallo della Madonna nella cella del Priore e per il lavamano del refettorio, mentre la
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scelto il progetto del padre teatino Francesco Grimaldi. L’appalto dei lavori venne affidato a Francesco Mirabella, già impegnato sotto la direzione di Ceccardo Bernucci nell’opera di demolizione e di scavo per fare posto alla cappella. A Cola di Franco, classificatosi al secondo posto, venne affidato l’incarico della direzione del cantiere, dal 1609 al 1615, in sostituzione di Bernucci; fu utilizzato, inoltre, a più riprese fino al 1636, Dionisio Nencioni di Bartolomeo. In pratica furono impegnati gli architetti del primo Barocco napoletano, tra cui G. Giacomo di Conforto, direttore dei lavori nella Certosa di S. Martino dal 1618 al 1625. La prima pietra, incisa da Michelangelo Naccherino, fu benedetta l’8 giugno 1608; il 25 dello stesso mese furono completate le fondazioni e l’opera rustica nel 1615, quando Cola di Franco viene sostituito da Cristoforo Monterosso. L’impianto centralizzato della cappella, a croce greca, allungato di circa un quarto sull’asse ingresso-altar maggiore, traduce l’invaso della crociera di S. Pietro in una più marcata geometria ottagona mediante l’esigua dimensione delle cappelle trasversali, esaltando quell’idea di «Sacello» cui aspiravano gli Eletti della città fin dal 1527, in tempi assai vicini, quindi, al modello di riferimento bramantesco. I sovradimensionati piloni corrispondono ai lati brevi dell’ottagono, impaginati da edicole nel primo registro e dai pennacchi trapezoidali nel secondo; i lati più lunghi sono pari alla larghezza della cappella maggiore, dell’ingresso e delle cappelle trasversali impaginate dalle composizioni parietali che fungono da ancona per gli altari e, in alto, dai lunettoni. Questa ripartizione permetteva un ampio svolgimento del ciclo pittorico di San Gennaro, le cui storie si ricompongono attraverso l’allineamento tra lunettoni e pennacchi trapezoidali. Analogamente alla cappella maggiore, il reliquiario ne completa il racconto attraverso le sculture. L’idea di centralità, sperimentata in una fase di precoce avvio al Barocco, influenzerà la ricerca sulla pianta centrale di matrice classicista, e per essa la diffusione dell’eterno modello di S. Pietro, filtrato dapprima nelle chiese di Cosimo Fanzago, caposcuola del Barocco napoletano che fu impegnato nel Tesoro come scultore e progettista del cancello, e poi in quelle dei suoi epigoni.
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Napoli
57. Napoli. Cappella del Tesoro di S. Gennaro nel Duomo, interno verso l’altar maggiore. 58, 60 (pagina a fianco). Napoli. Cappella del Tesoro di S. Gennaro nel Duomo, vedute dei piloni con edicole. 61 (pagina a fianco). Napoli. Cappella del Tesoro di S. Gennaro nel Duomo. Particolare di un pennacchio della cupola, con l’affresco del Domenichino Cristo affida Napoli alla protezione di san Gennaro. 59. Pianta della cappella del Tesoro di S. Gennaro. Disegno di Sandra Strazzullo (da Strazzullo, 1992). 62 (pagina a fianco). Sezione della cappella del Tesoro di S. Gennaro, con la doppia cupola. Disegno di Sandra Strazzullo (da Strazzullo, 1992).
Il progettista, Francesco Grimaldi, attivo a Roma sullo scorcio del Cinquecento, aveva già delineato una croce greca, poi accantonata, per la chiesa di S. Andrea della Valle, ma va anche considerato il fatto che il tipo di impianto del Tesoro è già in nuce nelle campate ad angoli smussati delle navate laterali della chiesa di S. Paolo Maggiore, base fondante del ritmo alterno per effetto delle campate più piccole assorbite dalla struttura portante. Tuttavia, per spiegare il modello di riferimento bisogna considerare che fin dall’inizio i Deputati avevano programmato un ciclo decorativo fondato sull’iconografia del santo; questo spiega le ragioni di un sistema tettonico, che passa dalla chiesa di S. Pietro alla ridotta dimensione della cappella, non ascrivibile al solo sostegno della cupola che, per quanto impostata su alto tamburo e mutuata da quella di S. Pietro, è comunque una cupola doppia, quindi non necessitante di piloni esuberanti. In altre parole, i pennacchi trapezoidali rispondono all’esigenza di avere più spazio per gli affreschi e non all’esigenza di grossi piloni. I disegni della cupola e i modelli vengono pagati a G. Battista del Pozzo il 3 marzo 1611. Nel 1628, con la direzione di G. Giacomo di Conforto, viene effettuato un primo consolidamento con cerchiatura e dopo il terremoto del 1688 la lanterna fu demolita e rifatta, su progetto di Dionisio Lazzari, in legno di quercia rivestito di piombo. All’esterno le finestre del tamburo con timpani alterni sono affiancate da coppie di volute e da semicolonne corinzie; a metà dell’estradosso – tra la prima e la seconda cupola – si aprono piccole finestre con modanature esagonali e timpani. Dobbiamo ascrivere al progetto di Grimaldi anche l’allungamento della cappella maggiore, visto che è documentata l’attività di Cristoforo Monterosso, dal 1610 al 1612 (quando Grimaldi è ancora vivo anche se poco presente in cantiere), per l’alloggiamento delle colonne nel reliquiario dove, nelle tre pareti, considerando anche la composizione parietale dell’altare, sono sistemate le statue in bronzo di santi che fanno corona al santo patrono raffigurato, nella nicchia centrale, dalla statua in bronzo: San Gennaro in cattedra, di Giuliano Finelli. L’articolazione sintattica di questo spazio, anomala in ambito napoletano, ritrova, per significati e per forma, il suo illustre modello di riferimento nella frons scenae del teatro Olimpico di Vicenza (1579-80), con la sola variante delle colonne giganti; ne conserva, invece, la suddivisione
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realizzate (1686-1688) dallo scultore palermitano Pietro Papaleo. Gli Angeli sul timpano sono opera di Michelangelo Naccherino (1615-18). Il cancello di ottone della più ampia campata centrale venne realizzato su progetto (1630) di Cosimo Fanzago, subentrato al di Conforto, con l’esecuzione degli argentieri Orazio Scoppa e Biagio Monte. Una delle prime soluzioni è documentata da un bel disegno di Fanzago, autore anche di vari schizzi, di un modello ligneo e di modelli in creta per le sculture. Dopo l’eruzione del Vesuvio, il 13 dicembre 1631, un’apposita Deputazione decide di costruire la guglia come segno di ringraziamento al santo che aveva fermato la lava salvando la città. Da quel momento il Vesuvio e san Gennaro, già raffigurati insieme, in antico, nelle Catacombe di Capodimonte, diventano i due grandi protagonisti dell’iconografia secentesca; e non a caso durante la costruzione della guglia, che si prolungò per circa trent’anni, si intensifica l’ornamentazione della cappella che, già avviata dopo il completamento dell’invaso architettonico (1613), acquista nuovo slancio dopo il 1631 con la presenza del Domenichino. Con il completamento dell’apparato decorativo e della guglia (1661), la cappella del Tesoro diventò, assai prima del Grand Tour, meta dei visitatori attirati dal miracolo del sangue. Delle tante opere d’arte conservate nella cappella dobbiamo ricordare almeno quelle più strettamente connesse all’architettura. Quando nel 1630 per l’ornamentazione pittorica chiama il bolognese Domenico Zampieri, detto il Domenichino, la Deputazione ha ormai esperito tutti i tentativi possibili per avere un artista importante e – possibilmente – non napoletano, a partire dalla breve sosta napoletana di Guido Reni. Dalla stesura della convenzione (11 novembre 1630) il Domenichino, eccetto durante l’interruzione del 1634 quando stanco degli attacchi alla sua opera si rifugia in Villa Aldobrandini, lavora nella cappella fino alla sua morte (15 aprile 1641). A lui si devono gli affreschi delle lunette, dei sottarchi e dei pennacchi, tutti dedicati al ciclo del santo patrono: nella lunetta della controfacciata, San Gennaro che salva Napoli dall’eruzione del Vesuvio, testimonianza in diretta dell’eruzione del 16 dicembre 1631; nel sottoarco di ingresso, suddiviso in tre parti come tutti gli altri, Storie di san Gennaro; dipinti su lastre di rame nei piloni, sopra gli altarini, rappresentanti i miracoli di san Gennaro. Tra le opere particolarmente legate al culto del santo patrono invocato per proteggere la città, vanno ricordati gli affreschi nei pennacchi, del Domenichino: La Vergine intercede presso Cristo in favore di Napoli, Cristo accoglie san Gennaro in cielo, San Gennaro, sant’Agrippino e sant’Agnello intercedono per Napoli, Cristo affida Napoli alla protezione di san Gennaro. In quest’ultimo, pennacchio a destra dell’arcone di trionfo, la figura allegorica della Munificenza regale mostra una tavoletta con il disegno di pianta del Tesoro. Fino al 1641 Domenichino lavora all’affresco della cupola che, dopo la sua morte, viene cancellato su suggerimento di Ribera e di Stanzione. Gli succede Giovanni Lanfranco con La gloria del Paradiso (1641-46), una composizione caratterizzata da effetti prospettici ottenuti con gironi concentrici e figure che in sommità della superficie sferica si rimpiccioliscono, con il Cristo, nel secondo anello, e il Padre al centro. Con l’inaugurazione del 13 dicembre del 1646 nella cappella vengono finalmente trasportate le reliquie di san Gennaro: le ampolle del sangue, il busto d’argento del santo e le statue d’argento dei primi sei compatroni della città (i santi vescovi Aspreno, Agrippino, Efebo, Severo, Attanasio, e l’abate Agnello), nonché il reliquiario gotico, già ammodernato nel 1643. Nel 1663 i Deputati danno l’incarico della statua di San Francesco Saverio
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65. Napoli. Cappella del Tesoro di S. Gennaro nel Duomo, la cupola.
Pagina seguente: 66 . Napoli. Cappella del Tesoro di S. Gennaro nel Duomo, particolare della cupola. All’ordine con coppie di paraste nel tamburo e ai marcati pennacchi trapezoidali si sovrappone l’affresco del Paradiso di Giovanni Lanfranco, con Cristo benedicente e san Gennaro che intercede per Napoli.
a G. Domenico Vinaccia. Dieci anni dopo Domenico Marinelli realizza i bronzi di San Filippo Neri e di San Gaetano. Le sculture di Sant’Antonio da Padova e Santa Teresa furono completate da Fanzago nel 1675. Nel vestibolo della sagrestia è alloggiato il lavabo marmoreo con le sculture di delfini, opera di Dionisio Lazzari (1669), al quale fu affidato anche l’incarico dell’arredo ligneo della sagrestia. Al gusto del tardo Barocco è improntato l’altar maggiore che venne realizzato in due tempi, prima e dopo i terremoti del 1688 e del 1694, che inne-
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Cappella Sansevero
69 (pagina a fianco). Napoli. Cappella Sansevero, interno verso l’altare. 70. Napoli. Cappella Sansevero. Particolare del portale di ingresso principale. Il capitello-voluta, figurato, sullo stipite va ricondotto a Dionisio Lazzari. 71. Napoli. Cappella Sansevero. Particolare del portale di ingresso laterale. Configurazione di schietta derivazione fanzaghiana che rimanda alla facciata della chiesa delle Anime del Purgatorio.
La cappella fu realizzata attraverso tre tappe principali: la fondazione con il titolo di S. Maria della Pietà (o Pietatella), su iniziativa di G. Francesco di Sangro duca di Torremaggiore (1524-1604) e primo principe di Sansevero, e con l’utilizzazione di una parte del giardino del palazzo, condotta tra il 1590 e il 1593, come può dedursi dalla Napoli Sacra (1624) di Cesare d’Engenio; la riedificazione dal 1608 al 1613 per collocarvi le sepolture della famiglia, voluta dal figlio Alessandro di Sangro, patriarca di Alessandria e arcivescovo di Benevento ma da assegnare anche al fratello Paolo (1569-1626), secondo principe di Sansevero; la decisiva metamorfosi ideata da Raimondo di Sangro (1710-71), settimo principe di Sansevero dal 1723 e di ritorno a Napoli nel 1730, attuata dal 1749 al 1771. Nata come cappella gentilizia del palazzo Sangro di Sansevero, al quale era legata da un ponte-cavalcavia, la cappella finì con l’identificarsi completamente con la personalità del principe Raimondo, accademico della Crusca, cavaliere dell’Ordine di S. Gennaro, gran maestro della Massoneria napoletana, nonché studioso di fenomeni scientifici e naturali. Possiamo dire che il gusto di cui si ammanta è prevalentemente settecentesco, anche se vi si possono riconoscere temi e modelli secenteschi in alcuni episodi, tra cui i monumenti funebri di alcuni personaggi della famiglia, ricordati da Celano (1692) e da Sarnelli (1697) e sopravvissuti al rinnovamento attuato dal principe Raimondo, e i capitelli a volute figurate del portale, di impronta fanzaghiana ma da ricondurre a Dionisio Lazzari, nonché la decorazione in marmi commessi nella composizione parietale dell’altare. Il fascino dell’opera, affidato a spettacolari episodi di scultura e al mito di Raimondo di Sangro, ha relegato in secondo piano l’architettura della cappella e del palazzo, di grande interesse per essere collocati in un contesto monumentale, in prossimità di piazza S. Domenico, con il complesso conventuale e la guglia omonima e, a lato della chiesa, palazzi di impianto rinascimentale, e del decumano inferiore con palazzo Vietri di Corigliano nell’angolo a destra e a fronte di palazzo Casacalenda e della chiesa di S. Angelo a Nilo. Per il palazzo Sansevero, Celano propone una datazione dell’inizio del Cinquecento e ne attribuisce il progetto a Giovanni Merliano da Nola «ar-
Cappella Sansevero
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74. Schema di pianta della cappella Sansevero.
chitetto e scultore». Nel 1621 venne aggiunto l’attuale portale, progettato da Bartolomeo Picchiatti e messo in opera da Vitale Finelli; la trasformazione della facciata cinquecentesca può rilevarsi dal dipinto di Antonio Luciani, sia per quanto riguarda i particolari del portale, sia per quanto riguarda la facciata. Nel 1626, su committenza di Alessandro di Sangro, Belisario Corenzio realizza affreschi incentrati su eventi della famiglia nelle sale dell’appartamento «del Patriarca»; a questa scelta si riallaccerà Raimondo di Sangro per far proseguire il racconto delle «storie» con affreschi andati perduti nel 1889, a seguito del crollo dell’ala sinistra del palazzo. Le prime date riguardanti l’ornamentazione della cappella, 1608-13 e 1626-53, ricadono nel periodo di attività di importanti scultori attivi a Napoli, come Cosimo Fanzago, nella Certosa dal 1623 al 1656; Pietro Bernini attivo a Napoli dal 1589 al 1605; Giuliano Finelli, attivo nel Duomo dal 1636 al 1648. Nel 1615 Giuseppe Baiano realizzò il coro e nel 1625 G. Domenico Monterosso scolpì due angeli di marmo, presumibilmente collocati al posto di quelli attuali. Sui monumenti funebri, fino a qualche anno fa genericamente attribuiti a Cosimo Fanzago o alla sua bottega, i documenti emersi consentono più puntuali attribuzioni. Quello di G. Francesco Paolo di Sangro, il capostipite, promotore del primo impianto, situato nella seconda cappella a sinistra entrando, fu commissionato dal figlio, Alessandro, il quale nel 1614 affida a Jacopo Lazzari la scultura del guerriero armato di spada e lancia. Il monumento di Alessandro di Sangro (1652), situato a sinistra dell’altar maggiore, è stato ricondotto fin dal 1954 a Cosimo Fanzago. Il monumento del primo Paolo di Sangro, secondo principe di Sansevero, situato nella prima cappella a destra entrando, va attribuito a Jacopo Lazzari e Giorgio Marmorano, attivi nella cappella dal 1629 al 1639 (Nappi). Il monumento del secondo Paolo di Sangro, quarto principe di Sansevero, del 1642, situato nella prima cappella a sinistra entrando, si deve a Giulio Mencaglia e Bernando Landini. L’ultimo rappresentante della famiglia, Raimondo, educato a Roma in Seminario e ritornato dal 1730 a Napoli dove sposa nel 1735 la cugina Carlotta Gaetani, lascerà un’impronta decisiva nel palazzo di famiglia e nella cappella. È ricordato per la Lettera Apologetica (1750), pubblicata nella propria stamperia e messa all’indice. Fu gran maestro della loggia massonica napoletana. Nel 1746 conduce lavori nel palazzo di famiglia, dove inserisce una tipografia. Per l’atrio commissiona scene di baccanali da realizzare in bassorilievi che, già attribuiti a Giuseppe Sanmartino, vanno ricondotti al progetto (1759) di Francesco Celebrano e all’esecuzione di Gerardo Solifrano. Degli affreschi eseguiti nel piano ammezzato da Celebrano restano l’Allegoria dell’Estate e l’Allegoria dell’Inverno. Sul ponte che collegava la cappella al palazzo lo stesso Raimondo fa costruire una sorta di campanile terminante con un tempietto ottagonale, decorato da colonne e da un orologio. Dal 1750 avvia un piano di ammodernamento della cappella e l’ampliamento del piano sottostante, con la piccola sala ellittica che avrebbe dovuto accogliere le tombe dei suoi discendenti. Al suo disegno va ricondotto il cornicione che separa l’impaginato della cappella dalla volta a botte. Invita scultori stranieri, conosciuti o richiamati da fuori Napoli, come Antonio Corradini (1668-1752), al quale affida la realizzazione di tutti i modelli della scultura in modo da controllarne l’esecuzione secondo il proprio progetto iniziale. A Francesco Celebrano si devono il monumento funebre di
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Napoli
72. Napoli. Il portale del palazzo di Sangro dei principi di Sansevero. 73. Napoli. Cappella Sansevero. Monumento funebre di G. Francesco Paolo di Sangro.
1. La deposizione, altar maggiore, Francesco Celebrano, 1767; 2. Angelo con putto in basso, Paolo Persico, 1766; 3. Angelo con putto in alto, Paolo Persico, 1766; 4. Monumento ad Alessandro di Sangro, Ignoto, seconda metà sec. xvii; 5. Affresco del coro, Francesco Maria Russo, 1749; 6. La Pudicizia, Antonio Corradini, 1751-1752; 7. Il Disinganno, Francesco Queirolo, 17531754; 8. Cappella di S. Rosalia, Francesco Queirolo, 1756; 9. Cappella di S. Oderisio, Francesco Queirolo, 1756; 10. La Benevolenza coniugale, Paolo Persico, 1768; 11. La Sincerità, Francesco Queirolo, 17531754; 12. Monumento a Vincenzo di Sangro, ignoto, ritratto di Carlo Amalfi, 1771; 13. Monumento a Raimondo di Sangro, Francesco Maria Russo, 1759; 14. Lapide dedicata a Ferdinando, Michelangelo Naccherino, 1609; 15. Lo Zelo della Religione, Fortunato Onelli-Francesco, 1766; 16. Il Dominio di se stessi, Francesco Celebrano, 1766; 17. Monumento a Giovan Francesco, Jacopo Lazzari, 1614; 18. Monumento a Paolo di Sangro, Antonio Corradini, 1742; 19. La Liberalità, Francesco Queirolo, 1753-1754; 20. L’Educazione, Francesco Queirolo, 17531754; 21. Monumento a Paolo di Sangro, Berardino Landini e Giulio Mencaglia, 1642; 22. Monumento a Paolo di Sangro, Jacopo Lazzari e Giorgio Marmorano, 1629-1639; 23. Il Decoro, Antonio Corradini, 17511752; 24. L’Amor Divino, ignoto, seconda metà sec. xviii; 25. La Mestizia, Antonio Corradini, 1752; 26. Monumento a Giovan Francesco di Sangro, Francesco Queirolo, 1752; 27. Monumento a Cecco di Sangro, Francesco Celebrano, 1766; 28. Cristo velato, Giuseppe Sanmartino, 1753.
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Cecco di Sangro (1766) e il gruppo del Dominio di se stesso (1767); a Paolo Persico, Soavità del giogo maritale (1768) e gli Angeli piangenti ai lati dell’altare, dello stesso anno. Lo spazio della cappella risulta modulato sulla destinazione funeraria: una pianta a larga navata con ridotte cappelle laterali intervallate da pilastri e ricavate nello spessore perimetrale, che sono abbastanza ampie per adeguarsi alla dimensione della volta a botte. L’essenzialità di uno spazio, che relegava le funzioni religiose in secondo piano, traspare anche dalla ridotta profondità della cappella maggiore che, per essere di poco più stretta della navata, se ne propone come prosecuzione e concorre a rendere l’immagine di un’aula congregazionale. A Raimondo di Sangro va ascritto il merito di avere bene interpretato lo spazio scegliendo la giusta «misura» dell’ammodernamento conclusivo che, ove non ci si lasci distrarre dalla esuberanza della scultura, risulta incentrato sulla scena marmorea della Deposizione, di Francesco Celebrano. L’opera occupa lo spazio dell’ancona ma ne oltrepassa la cornice inferiore invadendo lo spazio del dossale e del paliotto diventando un tutt’uno con l’altare: il basamento della pala marmorea assorbe i gradini del dossale, il panno con il volto di Cristo diventa tabernacolo, la base della scena occupa l’invaso della mensa. Un’operazione del genere, indubbiamente suggerita dal principe, trae origine dagli apparati effimeri delle feste funebri per la continuità tra la base naturalistica e il soggetto principale della parte superiore. Accanto a questo, vanno considerate le figure allegoriche di Virtù, su basi a sezione circolare, accostate ai pilastri che, nel loro insieme, sostituiscono i rivestimenti precari tematizzati sul mondo celeste che, ricorrentemente, ve-
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76. Napoli. Cappella Sansevero. La Pudicizia. La scultura è dedicata a Cecilia Gaetani, madre di Raimondo di Sangro. 77. Napoli. Cappella Sansevero, Il Disinganno. 78. Napoli. Cappella Sansevero, particolare dell’altare. 79 (pagina a fianco). Napoli. Cappella Sansevero, l’altare.
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nivano addossati non solo alla facciata principale ma anche alle facciate interne delle chiese. Un’unica grande scena, quindi, che procede dall’ancona si riversa nell’altare e si conclude al Cristo velato, che sostituisce il catafalco degli allestimenti funebri. Realizzata quando Giuseppe Sanmartino (che lavorava anche nel palazzo di Sangro) era quasi agli inizi della carriera, sul modello di Antonio Corradini, l’opera è improntata, quanto è possibile, al virtuosismo tecnico per l’effetto del velo che pare ricoprire la figura scolpita e che in realtà è ottenuto dalla sapiente capacità di modellare il marmo come cera molle. Bisogna considerare il Cristo velato (1753) e la Deposizione (1767) come parte integrante del programma iconografico tracciato da Raimondo di Sangro: il mausoleo di famiglia che si riallaccia al sepolcro di Cristo, ovvero alla morte come passaggio alla vita eterna. Se nella basilica romana di S. Cecilia in Trastevere la Santa Cecilia, di Stefano Maderno per il Giubileo del 1650, presumibile fonte di ispirazione, conserva ancora da morta le ferite del martirio, il velo del Cristo di cappella Sansevero va inteso come sipario tra la morte raffigurata nella deposizione e la vita eterna. Alcuni precedenti della Deposizione si possono individuare ne L’incontro di papa Leone i e Attila (1646-53) in S. Pietro, di Algardi, e la Lamentazione sul corpo di Cristo (1667-76) nella cappella romana del Monte di Pietà, di Domenico Guidi, ma si guardi anche alla scultura dell’ancona nella chiesa di S. Moisè a Venezia, segnalata da Rosanna Cioffi. Ma per essere improntata
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Napoli
80. Napoli. Cappella Sansevero, particolare del Cristo velato.
81. Napoli. Cappella Sansevero, la volta. L’affresco, che raffigura la Gloria del Paradiso, è opera di Francesco Maria Russo. 82. Napoli. Cappella Sansevero, particolare della volta con la scena centrale.
all’idea di attraversamento degli spazi, mutuata dalle composizioni di Francesco Solimene, le sue radici vanno ricercate nell’affresco del Baciccia sulla volta della chiesa del Gesù di Roma, dove le figure affrescate fuoriescono dalle cornici e si fondono con la decorazione plastica. Di qui nascono alcuni momenti espressivi diffusi a Napoli, a partire dallo scorcio del Seicento a tutta la prima metà del Settecento, in pittura e nella decorazione plastica fino ad approdare a cappella Sansevero. Lo stesso tema riappare nell’affresco della volta attraverso il trattamento illusionistico assegnato al trompe l’oeil da Francesco Maria Russo (1749); le figure risalgono dalle prime nervature verso la parte mediana della composizione sovrapponendosi alle cornici e occultando quasi del tutto l’architettura «picta». Ove si ricompongano le nervature dipinte nella loro interezza si scopre la ricorrenza del triangolo, allegoria della Trinità e segno distintivo del maestro venerabile delle logge massoniche, come sembra indicare la lettera greca delta, che pende dal becco della colomba nel riquadro centrale dell’affresco. Il netto distacco tra i due registri della cappella è ottenuto con un cornicione, ideato dallo stesso Raimondo, che da un lato incassa il registro superiore e dall’altro allude al camminamento attraverso le storie dei sei Santi (Randisio, Bernardo, Filippa, Rosalia, Odorisio, Bernardo) e la Gloria del Paradiso, narrate nell’affresco della volta. A sant’Odorisio e a santa Rosalia sono intitolate anche le prime due cappelle più vicine all’altare; per gli altri non si ritrova corrispondenza.
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Chiesa del Gesù Nuovo
83 (pagina a fianco). Napoli. Chiesa del Gesù Nuovo. La facciata. 84. Schema di pianta della chiesa del Gesù Nuovo (da Schiattarella e Iappelli, 1997).
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A Napoli, dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Settecento, la fondazione delle sedi dei Gesuiti procedeva seguendo l’espansione della città: il Collegio Massimo nel nucleo di più antico impianto; la Casa Professa al limite occidentale e il Carminiello al limite orientale; il Collegio di S. Francesco Saverio di fronte al Largo di Palazzo nell’area più rappresentativa dell’espansione occidentale; il Noviziato, immediatamente a ridosso nel quartiere di Pizzofalcone; S. Giuseppe a Chiaia nel contesto conclusivo della trasformazione urbana. La chiesa della Casa Professa, intitolata all’Immacolata ma detta del Gesù Nuovo, pur conservando l’impostazione classicista assegnatale dal padre gesuita Giuseppe Valeriano (1542-96), è caratterizzata da ‘restauri’ messi in opera dal primo Barocco al tardo Barocco. Il suo impianto è dato da una croce greca che risale al modello di S. Pietro per l’ampiezza delle volte a botte e la posizione della crociera, punto fermo della composizione difeso da Valeriano con grande energia; a fronte delle modifiche richieste dalla Compagnia concede il prolungamento dell’invaso con il raddoppio delle cappelle angolari verso la facciata e delle due cappelle che affiancano la cappella maggiore; si tratta, quindi, di una croce greca inscritta, con il braccio longitudinale più lungo. Valeriano colloca la chiesa nel sito del palazzo Sanseverino dei principi di Salerno, di cui riutilizza il paramento di piperno, con bugne a punta di diamante, per la facciata, dove vediamo il portale originario del palazzo contornato da un secondo portale con colonne, timpano spezzato e fastigio, opera di Pietro e Bartolomeo Ghetti (1693-95). La chiesa risale al 1584, l’inizio dei lavori al 1593 e la consacrazione al 1601. Il progetto di Valeriano risulta chiaramente delineato nella veduta Baratta (1629), che mostra una cupola con alto tamburo e, aspetto abbastanza anomalo per l’ambito napoletano – che va riferito alle ben note chiese di Giuliano da Sangallo e Antonio il Vecchio a croce greca –, l’invaso della crociera sollevato fino all’imposta del tamburo. In più la veduta riscatta la sgrammaticatura dell’attuale facciata svelando il secondo conclusivo registro che avvolge il dado della crociera. Le trasformazioni barocche comprendono un primo parziale ammoder-
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namento (1614-32), la costruzione della cupola (1627-34 c.) con la direzione di padre Agatio Stoia, architectus idearum provinciae dal 1623, ma secondo il progetto di Valeriano anche se questi era morto nel 1596; il ‘restauro’ di Cosimo Fanzago, presente nella chiesa per circa cinquant’ anni, a partire dal 1618; la ricostruzione della cupola, simile alla precedente, ad opera di Arcangelo Guglielmelli dopo il terremoto del 1688; un secondo ammodernamento e, ancora, un nuovo rifacimento della cupola dopo il crollo del 1774. I cappelloni della crociera quanto mai pertinenti per composizione alla linearità dello spazio classicista, S. Ignazio (a sinistra) e S. Francesco Saverio (a destra), sono opere di Cosimo Fanzago ampiamente documentate (Cantone, 1984 e 1992), iniziate in concomitanza con l’arrivo a Napoli di Giovanni Lanfranco per realizzare gli affreschi della cupola, di cui restano solo i quattro Evangelisti dei pennacchi. Dalla crociera parte il rivestimento di marmi commessi che doveva rivestire le paraste di piperno e le pareti ricoperte di stucco bianco. Fanzago era stato chiamato dai Gesuiti nel 1618, per la statua di sant’Ambrogio; in seguito lavorò nella cappella di G. Tommaso Borrello, la prima a destra en-
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85. Napoli. Chiesa del Gesù Nuovo. Particolare della facciata. Il portale tardo barocco è composto con temi ricorrenti delle architetture dei Gesuiti: la coppia d’angeli che sostiene le insegne della Compagnia di Gesù e le sculture adagiate sulle ali del timpano spezzato.
86, 87. Napoli. Chiesa del Gesù Nuovo. Particolari con i pennacchi della cupola che conservano, in parte, gli affreschi degli Evangelisti di Giovanni Lanfranco.
trando nella chiesa, dove erano già impegnati nel rivestimento di marmi (1617-19) Vitale Finelli e Costantino Marasi e dove la sua impronta va vista nell’ancona con colonne e timpano spezzato che accoglie un’edicola simile a quelle dei due busti di Sant’Aspreno e Sant’Aniello: il più fanzaghiano dei quali sembra il primo. La decorazione pittorica (1618-20) viene affidata a G. Bernardo Azzolino per la pala d’altare, San Carlo in estasi, e per gli affreschi. Il cappellone di S. Ignazio, come quello di S. Francesco Saverio che lo fronteggia, è caratterizzato dalla presenza delle colonne ai lati dell’altare, e delle nicchie con statue che risultano ordinate nel 1639, e dalla diversificazione delle campate ottenuta con il colore delle colonne e dei marmi. L’alzato, completato in due fasi, mostra una decisa variazione di linguaggio nel registro superiore, ma l’impaginato resta comunque allineato a modelli classicisti, come suggeriscono le coppie di paraste marmoree dell’ordine gigante, negli angoli dove l’effetto delle scanalature è ottenuto con la bicromia dei marmi impiegati; i capitelli compositi, che nell’angolo si congiungono secondo un consueto gioco fanzaghiano, non partecipano alla riscrittura
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dell’ordine e sono assai vicini al modello di derivazione fiorentina. Le ragioni di questa disparità di trattamento risiede nei tempi di realizzazione: furono stipulate due convenzioni, la prima nel 1637 e la seconda nel 1643, per il proseguimento e per le statue, consegnate solo nel 1654, di Davide e del drammatico Geremia, la scultura con cui più dichiaratamente Fanzago tenta di misurarsi con Bernini. Dopo l’apparato marmoreo, eseguito in collaborazione con Andrea Lazzari e Costantino Marasi, Fanzago mise in opera l’ancona e l’altare – dove la pala sarà poi sostituita dalla Madonna con sant’Ignazio e san Francesco Saverio (1715) – che si deve a Paolo De Matteis come pure gli affreschi della volta. Completò, quindi, la composizione parietale, dal limite dell’ancona alla trabeazione, con i riquadri allineati alle nicchie,
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88. Napoli. Chiesa del Gesù Nuovo, cappellone di S. Ignazio. Restaurato, e in alcune parti ricostruito, dopo la seconda guerra mondiale, il cappellone conserva le sculture fanzaghiane e l’originaria composizione architettonica di ‘retablo’. Aderisce per monumentalità classicista alla struttura tracciata da Giuseppe Valeriano.
89. Napoli. Chiesa del Gesù Nuovo, particolare del cappellone di S. Ignazio. La scultura di Geremia, opera di Cosimo Fanzago, rimanda al Bernini per l’aggetto dalla nicchia.
compresi tra lesene rastremate verso il basso e decorate da festoni, e i grossi fastigi. I capitelli, elaboratissimi, mostrano tre differenti declinazioni: il capitello con due volute ioniche è arricchito da motivi plastici; un altro ha assunto la forma di un angelo con ali che formano più volute; il terzo termina, in basso, con due peducci, formati da testine. I dipinti del secondo registro, da sinistra a destra, sono La Madonna col Bambino e sant’Anna, inserito al posto del dipinto di Ribera distrutto nel 1943, cioè Sant’Ignazio che scrive il libro degli esercizi spirituali, la Gloria di sant’Ignazio e Papa Paolo iii che approva la regola di sant’Ignazio, entrambi del Ribera (1641). Danneggiati dal terremoto del 1688, i dipinti furono restaurati da Luca Giordano nel 1690 mentre i marmi da Pietro Ghetti nel 1693.
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Il «retablo» viene replicato nel cappellone di S. Francesco Saverio, con l’altare (1640-42) eseguito da Giuliano Finelli, Antonio Solaro e Donato Vannelli, sempre con la regia di Fanzago. Alla fine del Settecento vi saranno collocate le sculture di Sant’Ambrogio, a sinistra, e di Sant’Agostino, a destra, già nella cappella di S. Carlo Borromeo; la prima risulta commissionata a Fanzago nel 1618. La pala d’altare, San Francesco Saverio in estasi, è di G. Bernardo Azzolino; i dipinti del secondo registro dedicati a Storie del santo (1676-77) sono opera di Luca Giordano. Ai lati, sono le scene di Belisario Corenzio; nella volta gli affreschi di Paolo De Matteis. Nella seconda cappella a destra, dal 1650 al 1667, con Fanzago lavoravano Antonio Solaro e Donato Vannelli, come risulta dalla convenzione, stipulata con Francesco Merlino, marchese di Ramonte, nella quale è specificato anche il lavoro di scultura affidato a Giuliano Finelli e ad Andrea Bolgi. Tra gli episodi di arredo liturgico più significativi dobbiamo ricordare l’arredo ligneo della sagrestia, opera di Fanzago da datare intorno al 1650, dove vediamo in miniatura tutto il suo repertorio linguistico insieme all’altare e al lavabo di Dionisio Lazzari e i due reliquiari sulle pareti laterali della cappella di S. Francesco De Geronimo ammodernata da Arcangelo Guglielmelli. In legno intagliato e indorato, contengono settanta busti di santi e reliquie, sculture in miniature disposte in palchetti; sono il risultato di più modifiche, come è stato attentamente ricostruito (Schiattarella-Jappelli): dalla prima stesura, attribuita all’intagliatore napoletano G. Battista Gallone,
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90, 91. Napoli. Chiesa del Gesù Nuovo, cappella di Francesco de Geronimo. Reliquiario e particolare.
92. Napoli. Chiesa del Gesù Nuovo, altar maggiore. 93. Napoli. Sagrestia della chiesa del Gesù Nuovo. Particolare dell’arredo ligneo con l’ordine architettonico figurato.
Pagina seguente: 94, 95. Chiesa del Gesù Nuovo, particolare dell’interno. Sulla controfacciata: Francesco Solimene, La cacciata di Eliodoro dal tempio di Gerusalemme.
su disegno di padre Pietro Provedi del 1617, alla tappa del 1677 di G. Domenico Vinaccia e poi all’esecuzione di Domenico e Carlo Di Nardo (168082). Come per i due cappelloni fanzaghiani, i due reliquiari sono dedicati a sant’Ignazio e a san Francesco Saverio, raffigurati nelle sculture principali. L’attribuzione della cappella maggiore è abbastanza complessa. Nel 1639, dopo l’incendio che aveva distrutto l’altar maggiore, gli organi e buona parte degli affreschi della volta (1618-20) di Belisario Corenzio, i Gesuiti stipulano una convenzione con Massimo Stanzione (1639-40) per gli affreschi delle Storie mariane. Gli organi furono rifatti dal 1646 al 1650. Per l’abside ancora nel 1672 vengono richiesti disegni a vari artisti. Nel 1673 Vinaccia segue due falegnami per un arredo ligneo (Bösel) che presumibilmente resta in sito fino al 1714, insieme a un altare, commissionato a Cosimo Fanzago che, su richiesta del padre generale Giovanni Paolo Oliva, era stato approvato da Bernini l’8 agosto 1674 e poi messo in opera due anni dopo. La traccia più concreta degli interventi fanzaghiani persiste nelle campate laterali dell’ancona, dove sono le nicchie con le sculture di Sant’Ignazio e di San Francesco Saverio, opera di Domenico Antonio Vaccaro. In definitiva possiamo dire che la composizione parietale, composta dal nicchione e dai binati di colonne trabeate, è un’opera che può collocarsi (come prima stesura poi trasformata) negli anni Trenta del Settecento e che lo stesso timpano rientra nell’ambito di citazioni borrominiane assai orecchiate e si discosta notevolmente dal disegno attribuito a Vanvitelli (G.G.
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Borrelli). Il nicchione centrale con colonne, ingrandito nel 1742 per inserirvi il gruppo della Vergine e della Trinità (1742-43), realizzato in argento dal Vaccaro, è opera dispersa. Ne resta in sito la base eseguita da Matteo Bottigliero e Francesco Pagano su modello del Vaccaro. L’attuale statua della Vergine, opera di Antonio Busciolano, è del 1858. In più vi si sono stratificati più innesti, come l’altare, e un restauro condotto sotto la direzione di Giuseppe Astarita (1759-62) ed eseguito da Aniello Cimafonte e Antonio di Lucca. La controfacciata è decorata dall’affresco di Francesco Solimene, La cacciata di Eliodoro dal Tempio di Gerusalemme, del 1725, che qualifica uno degli ultimi ammodernamenti della chiesa. Nella Casa Professa, situata sul lato destro della chiesa e oggi in parte riadattata a nuova destinazione d’uso, si conserva la biblioteca, realizzata da Cristoforo Schör su progetto di Guglielmelli (Amirante). Del palazzo delle Congregazioni di laici, oggi adibito a scuole, restano l’Oratorio dei Nobili, con gli affreschi di Battistello Caracciolo (Catello, 1984), e la sagrestia con le decorazioni di Vinaccia (1682).
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I progetti delle nuove fondazioni dei Gesuiti venivano esaminati dagli architetti responsabili della Compagnia; dalle lettere di accompagnamento ai disegni si può rilevare, in genere, che veniva lasciata alle sedi delle «province» la possibilità di decidere sulla forma della chiesa mentre l’ultima parola in merito alla progettazione della Casa e dei Collegi spettava alla sede romana che privilegiava la funzionalità. A questo uso fa eccezione la chiesa del Collegio di S. Francesco Saverio, che resta al centro di tutte le mediazioni possibili tra proposte di architetti e valutazioni dei tecnici della Casa madre, a causa della irregolarità del suolo e della vicinanza con il Palazzo Vecchio e il nuovo Palazzo Reale, verso i quali non era opportuno far prospettare la facciata principale della chiesa. Questo condizionamento e i conseguenti aggiustamenti progettuali richiesero più ipotesi. Uno dei primi progetti attribuito a G. Giacomo di Conforto e databile tra il 1628 e il 1630, mostra un impianto longitudinale di navata con cappelle, del tipo «controriformato», che si attuerà a partire dal 1636. Vari tentativi di acquisizioni di suoli, iniziati fin dal 1627, resero necessari altri disegni di progetto, tra cui quello di Agatio Stoia e il «Terzo Disegno», di sicuro il più innovativo, che va attribuito a Cosimo Fanzago (Bösel), dove la chiesa, disposta con la facciata di fronte a Palazzo Vecchio e le facciate del Collegio lungo via Toledo e il Largo di Palazzo, mostra un impianto che, come già visto per il Gesù Nuovo, può leggersi in due differenti modi. Apparentemente è a tre navate con tre cupole e un coro absidato che si raccorda alle due cappelle di testata ma, in realtà, a causa della ridotta dimensione delle navate laterali, è costituito da un’aggregazione di tre cellule quadrate con tre cupole; la prima (quella del presbiterio) si dilata nell’abside curvilinea; la seconda (al centro) funziona da crociera e si dilata nella parte mediana con due reliquiari; la terza si prolunga nel vano di ingresso. Sulla base dell’analogia tra questo disegno e la chiesa di S. Giorgio Maggiore, che presenta al centro una cupola con tamburo, affiancata da due calotte, possiamo attribuire il «Terzo Disegno» a Fanzago, attivo negli stessi anni nel cantiere del Gesù Nuovo, nonché la realizzazione della chiesa attuale per la sua diffusa impronta, riconoscibile in buona parte dell’opera, e massimamente nella facciata. Ma il protrarsi dei lavori lasciò ancora aperta
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l’opera, dove si sovrapposero altri artisti, come può vedersi nella disparità di forme tra i cappelloni, realizzati a partire dagli ultimi decenni del Seicento, e l’impianto generale della chiesa concluso entro il 1665. È da ritenere, tuttavia, che per l’esecuzione non fu usato il «Terzo Disegno» ma quello attribuito a G. Giacomo di Conforto. Che Fanzago ritornasse sul primo progetto rientrava nel costume degli Ordini religiosi, come emerge anche dalle vicende delle sedi dei Teatini e, in particolare, da quella dei Ss. Apostoli. Inoltre dobbiamo considerare che il primo progetto risale al periodo in cui Fanzago collaborava con di Conforto nei cantieri della Certosa di S. Martino (dal 1623) e della chiesa della Trinità delle Monache (1625-28). Di sicuro sappiamo che il 2 febbraio del 1636 si celebrava la cerimonia della posa della prima pietra e, dopo una breve sospensione dei lavori, nel 1641 venne consacrata la prima parte della chiesa. La facciata, di cui non si può ignorare la sostanziale analogia con quella rappresentata nel primo disegno, corrisponde a quella realizzata da Cosimo Fanzago che compare già nelle incisioni di Francesco Cassiano de Silva (168892) e di Petrini (1718); da queste deduciamo che il progetto iniziale fu modificato da Fanzago inserendo la balaustra al posto del timpano, come vediamo nella facciata della chiesa de La Sapienza. L’incisione del Petrini mostra anche il cancello che delimitava il sagrato e che era intervallato da pilastrini sagomati, messi in opera nel 1681. Nel dipinto del Largo di Palazzo, di Gaspare van Wittel, dei primi anni del Settecento, come nelle immagini già ricordate, compare il secondo registro nella sua stesura originaria; l’attuale, invece, si deve a una sommaria opera di rifacimento. Tornando all’interno della chiesa, nelle ultime due campate in prosecuzione delle cappelle, dove su archi ribassati sono inseriti gli organi, è evidente la ripresa del tema già applicato nella chiesa del Gesù Nuovo. La cappella maggiore con gli angoli curvilinei, dove furono aggiunti gli affreschi con nicchie e sculture, rimanda alla soluzione adottata da Fanzago nella chiesa della Pietrasanta; conserva l’ancona d’altare fanzaghiana, come attestano le colonne e la scultura dell’angelo, ed è risolta in continuità con la composizione parietale, come nelle chiese romane dei Gesuiti. È documentato al 1743 un progetto di Domenico Antonio Vaccaro, per l’altare e la balaustra, messi in opera dai marmorari Pietro Nicolini e Francesco Colella (Rizzo, 2001). Il cappellone a destra dell’altar maggiore, intitolato a san Francesco Saverio, è suddiviso in tre campate dall’ordine di paraste ruotate, a giusta ragione rapportate alla facciata del Gesù Vecchio di G. Domenico Vinaccia (G.G. Borrelli); i quattro angeli di marmo con i simboli di san Francesco Saverio, opera di Giuseppe Sanmartino (1760-65), sono situati a coppia su mensole aggettanti dalle paraste; tra queste e la pala d’altare sono inseriti raccordi curvilinei. Le sculture lignee, situate ai lati dell’altare e raffiguranti san Ferdinando e san Giorgio, risalgono allo scorcio del Settecento. Gli affreschi con Storie di san Francesco Saverio, sono di Paolo De Matteis. Il cappellone dell’Immacolata, a sinistra dell’altar maggiore, ripropone la stessa articolazione architettonica, ma con una singolare soluzione di fastigio, risolta con un drappo e la «gloria d’angeli», da ricondurre a Domenico Antonio Vaccaro; nella nicchia di sinistra è la scultura del Davide, di Lorenzo Vaccaro poi proseguita dal figlio Domenico Antonio; nella nicchia di destra, è la statua di Mosè anch’essa di Domenico Antonio Vaccaro, come i quattro angeli con i simboli dell’Immacolata. Gli affreschi con Storie di sant’Ignazio sono di Paolo De Matteis. L’opera di Domenico Antonio Vaccaro più importante, documentata dal 1742 al 1743 (Rizzo, 2001), è l’altar maggiore, esegui-
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Pagina a fianco: 97. Napoli. Chiesa di S. Francesco Saverio, cappellone dell’Immacolata. Il fastigio dell’ancona d’altare con la ‘gloria d’angeli’. 98. Disegno di progetto per una cappella situata, presumibilmente, nella chiesa di S. Francesco Saverio. Napoli, Museo Nazionale di S. Martino. L’ornamentazione, scultura e decorazione di marmi intarsiati, è di ascendenza fanzaghiana (da Museo Nazionale di San Martino. I disegni del Cinquecento e del Seicento, 1999). 99. G. Giacomo di Conforto, disegno di progetto per la chiesa di S. Francesco Saverio. Pianta, sezione e prospetto. Napoli, Museo Nazionale di S. Martino (da Museo Nazionale di San Martino. I disegni del Cinquecento e del Seicento, 1999).
96. Napoli. Chiesa di S. Francesco Saverio. Particolare del presbiterio.
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100. Napoli. Chiesa di S. Francesco Saverio. Cappellone dell’Immacolata: campata dell’ancona con il pilastro ‘avanzato’. 101. Napoli. Chiesa di S. Francesco Saverio. Cappellone dell’Immacolata, particolare dell’ornamentazione realizzata da D. Antonio Vaccaro.
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102. Napoli. Chiesa di S. Francesco Saverio. Altar maggiore. 103. Napoli. Chiesa di S. Francesco Saverio. Particolare della balaustra dell’altar maggiore.
to dai «mastri marmorari» Pietro Nicolini e Francesco Colella, che venne a sostituire dopo molti decenni un altare secentesco, forse in legno. È particolarmente innovativo per due aspetti: il dossale che si sviluppa con un solo gradino fa sistema con la parte basamentale che nelle fasce laterali è completamente libera perché la mensa è piuttosto ridotta, «alla romana»; il paliotto è interamente destinato alla decorazione plastica, di indubbio segno vaccariano per il drappo disteso a sostegno della mensa e piegato ai lati in funzione di pilastrini. Le coppie d’angeli reggifiaccola vanno rapportati a quelli dei cappelloni. Al ciclo di affreschi del De Matteis iniziato nel 1695 risalgono: nella volta sulla navata, le Storie di sant’Ignazio, San Francesco Saverio e san Francesco Borgia; nei due lunettoni della controfacciata, San Francesco Saverio che abbraccia il Crocifisso e San Francesco Saverio in estasi. Gli affreschi della cupola sono andati perduti; restano nei pennacchi le Virtù teologali e La Giustizia, che occupano tutta la superficie dei pennacchi e risvoltano verso l’imposta della cupola, nel segno dell’attraversamento degli spazi annunciato da Baciccia e che a Napoli si ritrova nelle magistrali sperimentazioni di Francesco Solimene, tra le quali va inserito l’affresco già ricordato della controfacciata del Gesù Nuovo. Due splendidi dipinti, La visitazione e Il sogno di san Giuseppe, di Giacomo Farelli, e Sant’Antonio da Padova, di Ribera, furono sistemati nella sagrestia, dopo la demolizione della Confraternita di S. Luigi di Palazzo. Dalla stessa raccolta provengono: la Presentazione al Tempio nella prima cappella a sinistra; nella seconda cappella a sinistra è la Sacra Famiglia (1758) di G. Battista Rossi; nella prima cappella a destra, San Stanislao Kostka, di Nicola
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Pagine precedenti: 110, 111. Napoli. Chiesa de La Nunziatella. L’altar maggiore. La contrapposizione tra la concavità dell’abside semiesagonale e la convessità della balaustra riconduce lo spazio alla dimensione di cappella maggiore. Gli affreschi dell’ancona sono di Paolo De Matteis.
Chiesa dell’Egiziaca a Pizzofalcone
113. Napoli. Chiesa dell’Egiziaca a Pizzofalcone. Particolare della facciata.
ge ad affresco, tra il 1749 e il 1751, nella specchiatura centrale l’Assunzione della Vergine; scene nelle unghie della volta, nelle parti intermedie dei rinfianchi e negli angoli, dove le figure allegoriche accompagnano l’andamento della volta, nella controfacciata la Sacra famiglia nella bottega di san Giuseppe e il Riposo nella fuga in Egitto.
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112. Napoli. Chiesa de La Nunziatella. La volta sulla navata. Nella specchiatura centrale è l’affresco dell’Assunzione della Vergine di Francesco De Mura.
Le date possibili per l’inizio della chiesa sono due. G. Battista Chiarini, nelle note al testo del Celano, lo colloca al 1661 sulla base dell’iscrizione nell’atrio dove viene ricordata la cerimonia della posa della prima pietra (2 aprile 1661). Se invece prestiamo fede alla platea dobbiamo datare la stessa cerimonia al 2 aprile 1651, a meno di non pensare a un primo inizio dei lavori, poi necessariamente interrotto, come in altri cantieri della città, dalla peste (1656). In un caso o nell’altro la documentazione conferma la messa in opera del progetto fanzaghiano, di cui, nel 1665, erano stati completati l’atrio di ingresso, i parlatori e un braccio dei dormitori e «il principio della chiesa», vale a dire la zona presbiteriale. Con la fine (1665) del regno di Filippo iv, dal quale le Agostiniane erano state aiutate per i finanziamenti, si sospende ogni iniziativa. Nel 1678 Cosimo Fanzago muore e nel cantiere gli succede Francesco Antonio Picchiatti (tra il 1680 e il 1687), impegnato nella ristrutturazione degli ambienti conventuali e nel completamento dei dormitori; dopo, subentra Antonio Galluccio, chiamato a sanare i danni provocati dal terremoto del 1688 con il ruolo di «ingegnere del monastero». Nel 1691 per riprendere i lavori la priora, suor Maria dell’Egiziaca, pensa di dare in fitto, come abitazioni, i vecchi parlatori e con il reddito farne costruire dei nuovi e abbellire la chiesa. Ad Arcangelo Guglielmelli viene affidato l’incarico di elaborare nuovi disegni e un «modello» della «nuova chiesa et edificij circumcirca... (da) completare e perfettionare». Già citato nel 1695 come architetto e ingegnere del monastero, è presente nel cantiere dal 1698 al 1716; modifica l’atrio inserendo la scala (che non appare nel disegno di archivio) e si occupa della ristrutturazione dei parlatori, dei dormitori e dei due chiostri. Nel 1714 si procede alla costruzione della cupola, che sarà decorata, nel 1716, con gli stucchi di Pietro Scarola. L’intervento di Guglielmelli si inserisce in un’opera già avviata nell’impianto e nelle strutture principali, come risulta in più parti delle note di pagamento dove, anche quando si fa riferimento ai nuovi disegni e al «modello», si riscontra la precisazione sul fatto che egli deve completare la chiesa. Il disegno d’archivio illustra il progetto di Cosimo Fanzago, come dimostra la comparazione tra una parte degli appunti e altri campioni della sua
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Nel disegno fanzaghiano l’atrio di ingresso alla chiesa, circondato da tre portici con il quarto lato sostituito dalla facciata della chiesa, non presenta la scala curvilinea, con balaustra, che introduce al pronao. La chiesa vi appare impostata su uno schema ottagono, con quattro cappelle grandi absidate, disposte secondo gli assi ortogonali, e quattro cappelle piccole rettilinee, situate sui lati corti dell’ottagono, secondo le diagonali a quarantacinque gradi. Le prime corrispondono all’ingresso, alla zona dell’altar maggiore e alle due cappelle trasversali; le seconde, previste come cappelle secondarie, costituivano anche il necessario rinforzo della struttura portante. Tra le arcate di accesso alle cappelle sono sistemate otto colonne «libere», cioè staccate dai piloni; questo aspetto, suggerito a Fanzago dalla cultura architettonica romana, va connesso alla soluzione del tutto anomala in ambito napoletano dello pseudo-quadriportico di ingresso, di ascendenza borrominiana che, insieme al tiburio che maschera parzialmente la cupola, viene mutuato da S. Ivo alla Sapienza. Gli ambienti conventuali sono delineati secondo una disposizione simmetrica, come risulta dall’allineamento tra l’accesso al recinto conventuale, abside d’ingresso e abside dell’altar maggiore; altra corrispondenza è prevista tra l’atrio e il passaggio tra i due chiostri che si sviluppano a destra della chiesa. Durante la lunga e frammentaria vicenda costruttiva le cappelle diagonali diventano curvilinee e le colonne vengono addossate ai piloni di sostegno della cupola, dove oggi le vediamo. La doppia sagoma curvilinea dell’ingresso e dell’atrio, che appare nel disegno di Cosimo Fanzago, esalta con il segno mistilineo le sue lineari soluzioni di doppia facciata; nel piccolo pronao convesso Guglielmelli aggiungerà di suo le colonne e, davanti, la scala con il rampante curvilineo che tenta di riprendere quella della Trinità delle Monache, realizzata da Fanzago negli anni giovanili. Il pavimento maiolicato fu messo in opera con la seconda tappa di lavori diretta da Arcangelo Guglielmelli e va datato a dopo il 1717. L’altar maggiore, opera firmata e datata di Giuseppe Bastelli, è situato davanti a un arco mistilineo sagomato alla maniera delle ancone d’altare di Cosimo Fanzago; è recintato da una ricca balaustra con trafori intervallati da pilastrini decorati dagli stemmi delle famiglie nobiliari. Nel ripiano sottostante la pala dell’altar maggiore sono rappresentati a sinistra Santa Maria Egiziaca e sulla destra Sant’Agostino. Le tele di Paolo De Matteis nei due cappelloni trasversali (1716) sono documentate: La Vergine con Santi, in quello a sinistra; in quello di destra La Sacra Famiglia e Santi. Le sculture lignee lavorate per le cappelline e il Crocifisso sono opera di Nicola Fumo. Nella prima abside a destra dell’ingresso si può ammirare L’angelo custode (1717), anch’esso opera di Nicola Fumo, assai simile a L’arcangelo Michele. Nicola Fumo, infatti, viene pagato nel 1717 per varie statue, tra cui quella de L’Angelo custode. Le altre sono Santa Cristina e San Giovanni Battista. Un’altra opera di scultura lignea, attribuita al Fumo, è la Immacolata Concezione, alloggiata nella seconda absidiola di destra, che poggia su una base di nuvole. Del pavimento maiolicato, che in origine copriva l’intera chiesa, restano solo le parti dei due cappelloni ai lati dell’altar maggiore. Le splendide acquasantiere in marmo bardiglio, alloggiate sui primi piloni ai lati dell’ingresso, vanno attribuite alla bottega dei Ghetti.
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118. Napoli. Chiesa dell’Egiziaca a Pizzofalcone. Particolare del sistema tettonico. Il pilastro con colonna addossata ha alterato il disegno di progetto, che prevedeva la colonna libera. 120 (pagina a fianco). Napoli. Chiesa dell’Egiziaca a Pizzofalcone. Veduta zenitale della cupola.
119. Napoli. Chiesa dell’Egiziaca a Pizzofalcone. Acquasantiera.
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Le stratificazioni hanno determinato nella chiesa una discontinuità compositiva, riscontrabile in più parti, ma specie nei passaggi tra inviluppo planimetrico e alzato. Il prima e il dopo della costruzione, cioè la parte del Fanzago e la parte del Guglielmelli, si riconoscono da più indizi. I due portali di marmo posti a sinistra e a destra dell’ingresso sono una chiara preesistenza, visto che la riquadratura di stucco settecentesca appare tagliata per lasciare posto alle modanature marmoree. Ma si guardi anche, a quota della cantoria, agli attacchi delle strutture seicentesche alla facciata esterna e a come l’altare risulti troppo ampio per la retrostante apertura mistilinea. I due vani laterali, con portali di marmo uguali a quelli dell’ingresso, nella definizione fanzaghiana avrebbero dovuto assumere, in continuità con l’altare, il ruolo di «portelle». Il piano delle coperture mostra le tracce dell’innesto della cupola su strutture preesistenti. I pennacchi di raccordo tra l’invaso ottagono e l’imposta della cupola, che non è in asse rispetto al centro dell’invaso planimetrico, sono troppo bassi e troppo inclinati verso l’interno e, poiché gli archi delle cappelle disposte sugli assi ortogonali non sono a tutto sesto, bisogna dedurne che c’è stata necessità di abbassare le quote di imposta. In particolare l’abside d’altare presenta l’arco della calotta più basso di quelli delle altre tre cappelle trasversali. A queste incongruenze è stato posto rimedio, volta a volta, ingrandendo o riducendo la fascia di stucco. Gli archi di scarico delle cappelle trasversali sono inclinati rispetto ai lati dell’ottagono su cui si proiettano, il che ha determinato la necessità di legarli alla parete con incongrue sagome di stucco e la dilatazione in profondità
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121. Napoli. Chiesa dell’Egiziaca a Pizzofalcone. Altar maggiore.
122. Napoli. Chiesa dell’Egiziaca a Pizzofalcone. Veduta della cappella maggiore. 123. Napoli. Chiesa dell’Egiziaca a Pizzofalcone. La scultura lignea dell’arcangelo Michele, opera di Nicola Fumo.
delle stesse cappelle, operata da Guglielmelli per inserire le nicchie degli altari, ha consentito di inserire archi di scarico più profondi. Non solo, ma durante i recenti lavori di restauro si è avuto modo di verificare in alcuni piloni che l’attuale profilo è frutto di un riempimento e che dietro lo spessore aggiunto le basi dei pilastri sono rivestite di marmo. In definitiva nell’interno della chiesa si riscontrano due sostanziali tradimenti dell’idea fanzaghiana, la riconduzione delle colonne «libere» a mera decorazione dei pilastri e un’interpretazione troppo timida del sistema della cupola, di cui Guglielmelli non seppe cogliere la proiezione verso l’invaso dei pennacchi, che non sono né perfettamente verticali né decisamente curvilinei. L’opera, falsata in sede esecutiva, ha perso le connotazioni «romane» più significative che possiamo dedurre da qualche particolare e dal disegno di progetto. Costituisce, tuttavia, importante testimonianza della maturità artistica di Fanzago, arricchita dall’esperienza professionale svolta a Roma nelle chiese di S. Maria in via Lata, di S. Lorenzo in Lucina e di Santo Spirito dei Napoletani. È stata anche avanzata da Gerard Eimer l’ipotesi della sua partecipazione al concorso per la chiesa di S. Agnese a piazza Navona, sulla base dell’analogia di impianto con la chiesa dell’Egiziaca. Non solo, ma se la data di avvio dei lavori per la chiesa napoletana è quella del 2 aprile 1651, il progetto di Carlo Rainaldi per la chiesa di S. Agnese a piazza Navona, iniziato nel 1652, costituirebbe – secondo Eimer – una rielaborazione del progetto fanzaghiano e dovremmo ascrivere a Fanzago il primato della centralità imperniata sulla geometria dell’ottagono.
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124 (pagina a fianco). Caravaggio, Le sette opere di Misericordia. 125. Napoli. Il Monte della Misericordia. Particolare della facciata.
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Il Pio Monte della Misericordia, struttura laica di beneficenza alla stregua di confraternite, congreghe, conservatorii, ritiri e orfanatrofi, ospizi e monti di famiglia, cappelle delle corporazioni di arti e mestieri e banchi, fu istituito (1601-03) quando una consistente fetta della popolazione era afflitta da condizioni di drammatica povertà e da forti disagi sociali. I sette fondatori, il marchese Cesare Sersale; G. Andrea Gambacorta, barone di Limatola; Girolamo Lagni, nobile di Capuana; Astorgio Agnese, barone di Rocchetta e nobile del seggio di Portanova; G. Battista d’Alessandro, patrizio del sedile di Porto; G. Vincenzo Piscicelli, patrizio del sedile Capuano; G. Battista Manso, marchese di Villa, iniziano a riunirsi presso l’Ospedale degli Incurabili, dove sperimentano una prima attività assistenziale. Ben presto ratificarono (1603) con statuti e capitolazioni giuridiche un programma di beneficenza che nella sua formulazione risente della temperie post-tridentina e, nel contempo, della contrapposizione alla carenza di strutture deputate allo scopo e alla scarsa collaborazione degli Ordini conventuali. In pratica, i soci fondatori, poi governatori del Monte, intendevano mettere in atto, con il finanziamento di privati, opere di beneficenza di cui non si occupavano i Secolari (diocesi, parrocchie e seminari) e i Regolari, ovvero gli Ordini conventuali, entrambi scarsamente collaborativi. Ognuno dei governatori aveva in cura una delle sette opere di misericordia: nutrire gli affamati, dar da bere agli assetati, assistere gli infermi, riscattare gli schiavi, visitare i carcerati, liberare i detenuti per debiti, alloggiare i pellegrini. In particolare il loro tentativo di evitare le speculazioni degli usurai e i loro prestiti su pegno dovevano crescere a tal punto da sostituire i Banchi privati con i Monti che diventarono Banchi pubblici, come il Banco di Ragione, il Banco di S. Maria del Popolo e il Banco del Salvatore. La veduta Baratta mostra il primo complesso con la chiesa inserita in un recinto e con le case adiacenti che interrompono la continuità dei due cardini. La questione della viabilità, insieme alla piazza con la guglia di S. Gennaro situata dall’altro lato del decumano, dovette influenzare il rifacimento dell’opera, tant’è che la nuova fondazione, occupando lo spessore di un’insula semplice, lascia liberi i due cardini. Per la costruzione dell’attuale Monte si rese necessario l’allargamento del lotto, verso vico Zuroli (dove era un altro
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126, 127, 129. Napoli. Il Monte della Misericordia. Particolari del portico di ingresso con le nicchie e le sculture allegoriche.
Pagina a fianco: 128. Disegno di facciata del Monte della Misericordia (da Petrini, 1718). 130. Schema di pianta del Monte della Misericordia. Disegno dell’architetto Simona Umbaldo.
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ingresso al portico chiuso nel 1730) e vico Carbonari, conquistato dai governatori mediante complesse e decennali acquisizioni, con procedure del tutto simili a quelle degli Ordini conventuali. Fu quindi progettato da Picchiatti conciliando le esigenze della ‘casa’ e quelle della chiesa, decentrando l’ingresso e separando la chiesa da via dei Tribunali mediante il portico di ingresso. La prima fondazione (1606-07) fu opera di G. Giacomo di Conforto che vi risulta impegnato anche come direttore dei lavori ancora nel 1621, per la realizzazione della sagrestia e della «sepoltura». La datazione può ricostruirsi attraverso l’assenso del viceré, Alfonso Pimentel de Herrera, conte di Benevento (10 luglio 1604) e l’assenso apostolico di papa Paolo v (novembre 1605). G. Battista Manso insieme a Fabrizio Guindazzo nel 1605 si occupò dell’acquisto della casa della famiglia Tomacelli e di quella confinante dei Caracciolo della Gioiosa e subito dopo venne affidato l’incarico al di Conforto come documentato nel libro dei conti (1606-07) e in particolare in due note di pagamento, 8 marzo e 8 settembre 1607. Da pagamenti effettuati nel 1613 e nel 1621 e da varie carte, riguardanti la ricostruzione della chiesa tra il 1613 e il 1631, risulta che l’architetto lavorò nel Monte per almeno due decenni. Al Manso, responsabile dell’opera della scarcerazione dei detenuti, si è fatta risalire la committenza a Caravaggio per i dipinti sul tema delle sette opere, che l’artista sintetizzò nella sola tela de Le Sette Opere di Misericordia. La costruzione del nuovo Monte, progettata intorno al 1658 da Francesco Antonio Picchiatti, inizia nel 1659 con la messa in opera dei piperni. I gruppi marmorei del portico avrebbero dovuto essere affidati prima a Bernini, come compare in una nota del 1660, poi a Ercole Ferrata e a uno «statuario siciliano», con bottega a Roma. Furono invece progettati da Cosimo Fanzago, sul tema delle sette opere di misericordia, e realizzati da Andrea Falcone, secondo convenzioni distinte, la prima del 27 gennaio 1666 e la seconda del 5 giugno dello stesso anno, entrambe firmate da F. Antonio Picchiatti. La Vergine con il putto, corrispondente alla prima arcata a sinistra dell’ingresso alla chiesa, per la quale fu approntato «un modello in piccolo» è la Nostra Signora della Misericordia, incoronata da volute, poggiata su una base e inquadrata da una nicchia mistilinea che termina, ai lati, con cornici e vasi sostenuti dalla testa di cherubino che, per la prima volta, nel vasto repertorio degli angeli fanzaghiani, è completamente piegata; il collo, disposto quasi in orizzontale, segue la direzione delle cornici e le ali si prolungano nel festone. La seconda composizione, quella corrispondente alla terza arcata, è un’allegoria di tre atti di misericordia, raffigurati con il putto nudo, coperto dalla veste della Vergine (vestire gli ignudi), che porta alla bocca un pezzo di pane (dar da mangiare agli affamati), mentre la Vergine sostiene «uno ceppo di ferro» (visitare i carcerati e redimere i cattivi). Nella terza composizione le opere di carità furono raffigurate dal putto che con una mano smorza una torcia (seppellire i morti) e con l’altra mano si porta una conchiglia alla bocca (dar da bere agli assetati); tra la Vergine e il putto un portone («bordone») doveva significare l’opera di alloggiare i pellegrini. Il putto con «una borsa de rezza» che lascia trasparire denari fu ideato come allegoria di visitare gli infermi e sostenerli con le elemosine. I temi furono delineati da Picchiatti in collaborazione con Fanzago, e le sculture furono completate nel 1669. La presenza, nel cantiere del Monte, di maestranze della bottega fanzaghiana fu motivata dalla prossimità del cantiere della guglia, dove lavorava anche Andrea Falcone. Questi si impegna a fare modelli di creta «in piccolo et in grande» per avere l’approvazione dapprima di Fanzago e poi dei gover-
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natori del Monte. Nella documentazione appaiono ben delineati i ruoli sostenuti dai tre artisti e il programma iconografico, documentato dalle scelte che Picchiatti sottopone ai governatori del Monte e che furono influenzate dalla sintesi già sperimentata da Caravaggio ne Le Sette Opere di Misericordia, completata entro il 9 gennaio 1607. Poiché Cosimo Fanzago viene chiamato dai governatori nel 1666 non solo per disegnare le sculture ma anche per suggerire «pensieri», deve essere stato il suggeritore delle figure simboliche che prosegue nella linea della fusione concettuale tracciata da Caravaggio, che non necessariamente, come è stato rilevato (Bologna, 1991), doveva dipingere tutte le sette opere di carità. I significati delle sculture allegoriche, consegnate da Andrea Falcone il 14 novembre del 1669, trovano riscontro nella documentazione che contempla tutte le sette opere, ma non sappiamo se la chiesa del di Conforto avesse tre cappelle per lato più la cappella maggiore, anche se l’ipotesi di una pianta di tipo controriformato, ai primi del Seicento, resta assai plausibile. Va tuttavia ricordato che l’opera della redenzione dei cattivi (da intendersi per captivi, ovvero fedeli catturati da altre religioni o dispersi in paesi di altre religioni) era ritenuta dai governatori non praticabile, tant’è che i fondi previsti per tale attività furono assegnati al rifacimento del complesso. Tornando alla chiesa attuale, la descrizione documentaria, dettagliatissima, degli elementi marmorei ripercorre il proporzionamento di pianta e di alzato. Le basi delle paraste sono proporzionate al risvolto marmoreo delle cappelle e la gocciola alla base di marmo con modanatura attica; il tutto fu ovviamente relazionato alla parasta di ordine gigante, secondo il «modello»
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131. Napoli. Il Monte della Misericordia. Veduta dell’interno. Il classicismo dell’impianto ottagono si rivela nella prosecuzione tra il primo registro e il tamburo della cupola.
132. Napoli. Il Monte della Misericordia. Veduta della cappella maggiore. 133. Napoli. Il Monte della Misericordia. Una delle acquasantiere realizzate da Andrea Falcone e Pietro Pelliccia. La composizione si riallaccia all’ordine di paraste e si rispecchia nel disegno del pavimento.
e le indicazioni di Picchiatti rispondenti, anche nelle denominazioni, al gusto classicista dell’archeologo: «Sguscione astragallo, modenatura attica, regoli, derittio, refessi incavati». Il contratto stipulato (8 agosto 1665) tra i governatori del Monte, Pietro Antonio Valentino e Pietro Pelliccia, con la supervisione di Picchiatti, riguarda la parte terminale dei lavori e precisamente il rivestimento della chiesa con marmo bianco e bardiglio. Le paraste che segnano gli angoli dell’ottagono sono notevolmente sollevate da terra e, in basso, presentano il motivo decorativo della mensola raccordata e della «gocciola» di marmo con modanature a «becco di civetta» con una più piccola «gocciola», di segno fanzaghiano come buona parte dell’apparato decorativo. Il 28 maggio 1665 furono consegnati i modelli di stucco delle otto paraste da eseguirsi in marmo. Altra convenzione (24 novembre 1665) con Pietro Antonio Valentino, Pietro Pelliccia e Andrea Falcone, riguarda gli otto capitelli delle paraste, «di ordine composito, cioè con li caulicoli a’ modo del corinteo, et le volute a’ modo di fronde di cerqua», da proporzionarsi al plinto, all’abaco di bardiglio e al collarino, che furono completati il 21 luglio 1667. L’intero rivestimento di marmo fu ultimato il 28 settembre 1668. La costruzione della cupola inizia, con il castelletto, il 30 luglio 1664; viene completata entro il 1665, visto che il 30 gennaio del 1666 Pietro Pelliccia completa gli otto mascheroni da collocare sulla lanterna, completata il 4 marzo dello stesso anno. Le due acquasantiere, completate il 28 settembre 1668 da Andrea Falcone e da Pietro Pelliccia, furono eseguite presumibilmente su disegno di
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Fanzago; nello stesso anno furono messi in opera i cinque coretti lignei. Per contratto tutti i lavori di falegnameria, consegnati il 4 marzo del 1667 da Marco Repestella, dovevano riprodurre lo stesso disegno delle opere di marmo. L’anno seguente lo stesso «mastro d’ascia» mette in opera i coretti, il coro grande, la balaustra dell’altar maggiore, realizzata in «puro castagno» e consegna i mobili della sagrestia. Contemporaneamente Andrea Falcone e Pietro Pelliccia si occupano delle rifiniture in marmo bardiglio della chiesa, Il 28 giugno del 1670 furono completati l’altar maggiore e gli altari minori, opera di Andrea Falcone e Pietro Pelliccia, che realizzarono anche la cornice per il dipinto di Caravaggio da rimettere in sito. Picchiatti resta ingegnere ordinario del Monte fino al 10 ottobre 1682, ma il 23 febbraio 1678, dieci giorni dopo la morte di Fanzago, lascia la direzione dei lavori: non è da escludere, anche se non se ne ha notizia, che tra loro si fosse stabilita, per il Monte, una vera e propria società di lavoro. Il 15 novembre del 1678 subentra Bonaventura Presti, architetto certosino, che si occupa di lavori nel palazzo del Monte. Il 10 settembre 1698 viene nominato ingegnere del Monte G. Battista Manni; questi fa eseguire l’imbiancatura della chiesa (1698), l’imbiancatura dei coretti (8 giugno 1701), il restauro dell’arco situato dietro l’altar maggiore (11 agosto 1702), il restauro dei coretti. La rimanente parte del lotto, lasciata libera dal progetto di Picchiatti, venne sistemata da G. Battista Manni e Giuseppe Lucchese, dal 1717 al 1720, e utilizzata per case da fittare. A questo genere di opere partecipò anche G. Battista Nauclerio. La vicenda costruttiva si conclude con una perizia (25-26 marzo 1763) di Mario Gioffredo e Luca Vecchione redatta per il restauro dei capitelli del portico, che essi propongono di rifare in legno, e con il restauro della facciata e del portico, diretto da Michele Ruggiero nel 1877.
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134. Napoli. Il Monte della Misericordia. Altare di cappella radiale. È uno degli altari realizzati da Andrea Falcone e Pietro Pelliccia.
135. Napoli. Il Monte della Misericordia. Veduta zenitale della cupola.
Tra le opere d’arte conservate nella chiesa ricordiamo i dipinti di ciascuna cappella, incentrati sulle opere di carità: Battistello Caracciolo con San Pietro liberato dal carcere o San Pietro in vinculis o San Pietro liberato dall’angelo; 1608, la Deposizione di nostro Signore, di Giovanni Baglione; Fabrizio Santafede, con San Pietro resuscita Tabitha e Cristo e la Samaritana; G. Vincenzo Forli con Il buon Samaritano; Luca Giordano, con La sepoltura del Redentore, che prese il posto della tela del Baglione; Carlo Sellitto con San Paolino che riscatta lo schiavo. La quadreria del Monte, costituita con il lascito di Francesco de Mura (1696-1782) e con dipinti (dal xvii al xix secolo) lasciati da Maria Capece Galeota, oggi accoglie centotrentacinque opere, di cui quarantuno del De Mura.
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136 (pagina a fianco). Napoli. Chiesa della Concezione a Montecalvario. Interno verso l’altar maggiore. 137. Napoli. Chiesa della Concezione a Montecalvario. La facciata.
L’opera di Vaccaro, pittore, scultore e architetto, è situata nella strada di Montecalvario, uno degli attraversamenti più importanti dei Quartieri Spagnoli che collegava via Toledo alla collina di San Martino e quindi alla Certosa e a Castel S. Elmo, dove fino alla seconda guerra mondiale esisteva un’altra sua opera, il Teatro Nuovo, che fu costruito quasi contemporaneamente alla chiesa. La chiesa era annessa a un collegio per fanciulle vergini, governato dalla Congregazione della Concezione; degli ambienti conventuali oggi resta ben poco. L’attribuzione è confermata da un atto notarile del 1718 che fa esplicito riferimento al «disegno» e al «modello» di Vaccaro, della chiesa eseguita in collaborazione con i regi ingegneri Giuseppe Lucchese e Filippo Marinelli. La datazione si può ricostruire attraverso il pagamento del «modello... per esempio e regola della nuova chiesa facienda», del 5 luglio 1718, sottoposto anche al parere di Cristoforo Schör; sappiamo inoltre che la struttura della chiesa fu completata, al rustico, nel 1722, e che nel 1724 l’apparato di stucco fu realizzato da Giuseppe Cristiano in collaborazione con Domenico Catuogno per la decorazione plastica. Va rilevata, a questo proposito, la citazione dal Pietro da Cortona dei Ss. Luca e Martina, nella decorazione dei pennacchi, ideata e disegnata da Vaccaro, come mostrano le svariate note di pagamento (Rizzo, 2001) e come possiamo vedere anche nella chiesa di S. Maria delle Grazie a Calvizzano. L’impianto su matrice ottagona è articolato con cappelle passanti che si alternano, con diversa «affacciata» e profondità sui lati dell’ottagono: più piccole quelle sulle diagonali di pianta trapezoidale, più ampie quelle degli assi longitudinale e trasversale, di pianta rettangolare. L’aggiunzione di due moduli allunga il percorso ingresso-altar maggiore fino alla resa di una pianta che possiamo chiamare «gigliata», per distinguerla dal tipo di pianta impostato sull’ottagono a matrice quadrata, come nella chiesa dell’Egiziaca e nella chiesa del Monte della Misericordia. Una forte innovazione rispetto all’impianto dell’Egiziaca è costituita dalle quattro cappelle trapezoidali e dai passaggi triangolari che le separano dalla cappella maggiore e dall’ingresso e, soprattutto, dalla ripresa, in alzato, della geometria di pianta, di forma inusitata che concorre a ricompattare
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138. Schema di pianta della chiesa della Concezione a Montecalvario.
l’ottagono di base nell’imposta della cupola, secondo la corrispondenza tra pianta dell’invaso liturgico e pianta della cupola della lezione borrominiana. Il sistema tettonico è dato da coppie di pilastri, con paraste, che sul fronte delle cappelle diagonali sono conclusi da volute in forma di timpano, al di sopra di coretti, in modo che resti libera l’entrata; l’effetto è quello di quattro baldacchini che circondano l’invaso centrale e che rimandano a più disegni di Juvarra preparati per scenografie teatrali. Il tema del baldacchino viene ripreso anche nella parte mediana della facciata, oggi piuttosto rimaneggiata. Il sistema tettonico traforato, insieme alle ampie finestre della cupola, riverbera la luce sul bianco dell’apparato di stucco, rimandando effetti di luminosità studiati anche nelle pause dell’ornamentazione. Nel 1734, abbastanza seccato dalle critiche mosse al suo progetto per il palazzo Abbaziale di Loreto, Domenico Antonio Vaccaro risponde all’abate D. Angelo M. Federici ricordando il successo che aveva riscontrato la chiesa della Concezione: «... sono a rappresentare alla Paternità Vostra Rev. ma quale è, sarà applaudito all’istesso modo che fu, et è, la chiesa della SS. Concezione da me fatta, della quale di continuo ebbi oppugnatori, con dire che veniva oscura, come appunto si dice di questa fabbrica (il palazzo Abbaziale di Loreto), che era di poco commodo, piccola et umida; ma per la Dio grazia, fu tutto l’opposto, conforme si vede, et è applaudita come la Paternità Sua Rev. ma ben sa, e lo sanno tutti». E, più avanti nello stesso documento, ben consapevole delle innovazioni apportate rivendica il fatto di essere architetto di
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139. Napoli. Chiesa della Concezione a Montecalvario. Veduta zenitale della cupola.
Pagine seguenti: 140. Napoli. Chiesa della Concezione a Montecalvario. Particolare del sistema tettonico con il pilastro a baldacchino e il pennacchio della cupola. La decorazione plastica, come nell’Annunziata di Giugliano dello stesso Vaccaro, è dedotta dalla chiesa dei Ss. Luca e Martina. 141. Napoli. Chiesa della Concezione a Montecalvario. Particolare di una cappella radiale. La colonna ‘avanzata’ e l’iterazione dell’ordine predispone un più ampio spazio alla decorazione plastica. 142. Napoli. Chiesa della Concezione a Montecalvario. Particolare dell’altar maggiore. Il capoaltare è innovativo per l’aggetto del dossale e la posizione della scultura. 143. Napoli. Chiesa della Concezione a Montecalvario. Altar maggiore. Incentrato sul culto dell’Immacolata Concezione, con un fastigio a baldacchino che allude all’incoronazione della Vergine.
importanza europea ma questa rilevanza, dovuta alla capacità di sintesi tra struttura e forma, ancora non è riconosciuta appieno perché stenta a farsi strada una lettura d’insieme che guardi alla cupola come a una delle forme espressive del linguaggio architettonico. La chiesa della Concezione costituisce, sulla scia delle sperimentazioni juvarriane, la svolta decisiva delle cupole settecentesche, a causa dei nessi sempre più stretti con l’articolazione spaziale dell’invaso liturgico; il pilastro a baldacchino è parte delle cappelle diagonali, e nella cupola ribassata il tamburo non è più una parte a sé: essendo ricavato nelle costolonature si propone in continuità con la parte sferica. In pratica ma non vi sono più due registri distinti, tamburo e parte sferica. Nello svolgimento degli spazi Vaccaro è talmente ancorato all’idea della continuità da usare negli ingressi alle cappelle diagonali due tipi di arco, l’arco pendulo esterno che si allinea alle paraste e, dietro, un secondo arco pendulo inclinato ma parallelo al fondale delle cappelle; in tal modo ottiene una «bocca d’opera» doppia che da una parte si compone con l’aula e dall’altra con l’ambulacro. I coretti poggiati su un largo triglifo, sostenuto da una spessa mensola di stucco, rendono l’immagine di palchetti, specie nello scorcio che guarda verso la cantoria della controfacciata. Ciascuno dei quattro piloni a baldacchino fa sistema con il suo pennacchio al quale resta agganciato da un timpano, spezzato e ricurvo. Il comunichino delle monache (1724), a destra dell’altar maggiore, coperto da volta a vela, era disposto in simmetria con quello di sinistra, oggi scor-
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porato dalla chiesa e inglobato nella scuola costruita nel 1928 sull’area del convento. La sagrestia, situata a sinistra dell’ingresso e coperta da volta a vela, è completamente priva dell’ornamentazione originaria. L’altar maggiore, finanziato da suor Maria Rosalia Mercurio, priora del convento, ne ricorda la munificenza negli stemmi rappresentati nei pannelli laterali; nel 1723 Vaccaro viene pagato per l’altar maggiore con i gradini e per la nicchia che contiene la statua dell’Immacolata, proveniente dalla vecchia chiesa e che è collegata alla parte sottostante dell’altare con una «gloria d’angeli»; nel 1724 per le mense dei sei altari delle cappelle, per le acquasantiere, per la decorazione dei comunichini e per i due dipinti dei cappelloni. Le ancone delle cappelle trasversali sono incentrate sul tema del drappo che dalla parete è proiettato sulle coppie di colonne avanzate. I dipinti di Vaccaro conservati nella chiesa sono il Martirio di san Gennaro (1724-25), l’Addolorata, la Natività e la SS. Trinità. Vi si conservano, inoltre, San Nicola di Bari, di Tommaso Martini e San Michele Arcangelo, di Nicola M. Rossi. Nel 1738 Vaccaro realizza il belvedere scoperto del convento, la nuova sagrestia, il campanile e alcune camere situate ai lati della facciata della chiesa.
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144 (pagina a fianco). Napoli. Chiesa dei Ss. Apostoli. Veduta delle coperture sul coro, sulla tribuna e sulla navata. 145. Schema di pianta della chiesa dei Ss. Apostoli. Particolare del presbiterio. Disegno dell’architetto Paola d’Antonio. 146. Francesco Grimaldi, disegno di progetto della chiesa dei Ss. Apostoli.
La chiesa faceva parte di un convento di Teatini. Nel 1575 Giovanni Capece Galeota, padre preposito dei Teatini che avevano a Napoli già due sedi, la principale di S. Paolo Maggiore e quella di S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone, ottiene la concessione «in perpetuum» di una chiesa di antico impianto annessa a una casa con giardino; quest’ultima verrà riadattata a convento dapprima nel 1581, poi nel 1596 e infine nel 1608, con la guida dell’architetto teatino Francesco Grimaldi. Un suo progetto per il convento, del 1590, secondo quanto narra Bolvito, venne realizzato fino al 1630, con modifiche apportate da padre Tomaso De Monti. Tra il 1609 e il 1610 lo stesso Grimaldi prepara un progetto per la nuova chiesa, che viene approvato e Camillo Caracciolo, principe di Avellino, si propone come finanziatore dell’opera, ma l’esecuzione della chiesa non fu immediata per contrasti fra i Teatini sul sito da edificare. Questo antefatto, che fa capo al costume costruttivo degli Ordini religiosi, è utile a definire l’attribuzione della chiesa e a capire la scelta, dopo la morte del Grimaldi (1613) e nella fase del primo Barocco, di un impianto di tipo controriformato che viene rimesso in discussione nel 1624, e poi ancora nel 1626 quando i Teatini chiedono il parere di un collegio di tecnici. Alla fine si decide di impiantare la nuova chiesa nel sito di quella preesistente secondo il progetto di Grimaldi che, giudicato il migliore tra quelli presentati, doveva essere eseguito «puntualmente». La costruzione viene affidata a G. Giacomo di Conforto, la cui presenza in cantiere risulta documentata dal 1626 al 1631, anno della sua morte; dal 1631 al 1640 l’esecuzione viene guidata da Agostino Pepe; al 1638 risale la consulenza di Bartolomeo Picchiatti al quale va ascritta la progettazione del campanile. Il di Conforto, riportando nei Ss. Apostoli l’esperienza acquisita nella prosecuzione dei lavori di S. Paolo Maggiore e di altre opere di Grimaldi, interviene sul progetto accorciando il coro e aumentando il numero delle cappelle, che diventano di pianta rettangolare e non quadrata: di conseguenza la loro copertura varia dalle cupolette circolari a quelle ellittiche. Ne coglie a tal punto l’ascendenza alla romana chiesa del Gesù, ben chiara nei raccordi angolari e nel ruolo dell’abside, da farne materia di riflessione per il progetto che sta preparando per la chiesa di S. Francesco Saverio.
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Nel 1637 viene realizzato l’apparato di stucco indorato, nel coro e nella tribuna, per mano di Donato Peri (o Pieri) e, dal 1643, il rivestimento di stucco nella navata, ad opera dei «maestri stuccatori» Silvestro Faiella, Francesco Cristiano e Bartolomeo Santullo. La volta a botte sulla navata, suddivisa da costolonature e riquadri con dipinti, presenta sui rinfianchi un elegante impaginato di finestre con unghie; è decorata dagli affreschi (1630 c.) di Giovanni Lanfranco sul tema del Martirio degli Apostoli, suddivisi in riquadri risultanti dalle marcate costolonature. A Lanfranco si devono anche gli affreschi della calotta dell’abside e la Piscina probatica della controfacciata con la prospettiva architettonica di Viviano Codazzi. Di particolare interesse è l’ornamentazione delle cantorie (1641) con gli organi (1651), che fu realizzata da Simone Tacca, marmoraio della bottega fanzaghiana. Il completamento della chiesa dal 1664 al 1680 viene affidato a Dionisio Lazzari, il quale affida l’esecuzione dell’apparato di stucco a G. Battista d’Adamo. L’affresco del Paradiso nella cupola si deve a G. Battista Benaschi (1680) mentre quelli dei pennacchi (1638-46), con i quattro Evangelisti, furono realizzati da Giovanni Lanfranco. La scalinata di accesso alla chiesa, in piperno, fu costruita nel 1684. Il ciclo pittorico che attraversa tutte le tappe degli ammodernamenti secenteschi della chiesa si conclude con le sedici tele che Francesco Solimene sovrappone agli affreschi di Giacomo del Po sugli archi delle cappelle (1693-98). Il cosiddetto altare Filomarino, progettato da Borromini e inserito, nel 1642, sul lato sinistro della tribuna, in realtà, per la composizione a tutta parete della grande ancona e per la balaustra che lo delimita, corrisponde alla cappella dell’Annunziata, concessa alla famiglia dei Filomarino già nel 1635. Ascanio Filomarino, legato alla corte papale di Urbano viii Barberini, diventa arcivescovo di Napoli nel 1641; l’epigrafe sull’altare, inserita tra la pala e il timpano, ricorda la data del 1642 ma la cappella fu inaugurata solo nel 1647 e nel 1648 lo stesso Filomarino consacrerà la chiesa.
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147. Napoli. Chiesa dei Ss. Apostoli. Particolare della volta sulla navata. 148. Napoli. Chiesa dei Ss. Apostoli, controfacciata. Particolare della Piscina probatica, affresco di Giovanni Lanfranco.
149. Napoli. Chiesa dei Ss. Apostoli. Particolare della cantoria, realizzazione della bottega fanzaghiana. 150. Napoli. Chiesa dei Ss. Apostoli. Veduta dell’interno.
La pala d’altare dell’Annunciazione, con le quattro virtù Fede, Speranza, Carità e Mansuetudine, disposte nelle campate laterali, non fu dipinta da Guido Reni espressamente per la cappella ma tratta da suoi dipinti per la cappella del Quirinale, con la trasformazione dei soggetti in mosaici ad opera di G. Battista Calandra, capomosaicista della fabbrica di S. Pietro durante il pontificato di Urbano viii. Dello stesso Calandra sono i mosaici con i ritratti di Ascanio (1642) e Scipione Filomarino (1641), posti alle estremità della composizione parietale, tratti da modelli dipinti da Pietro da Cortona e da Mosè Valentino. Il «Francesco Fiamengo», ricordato da Celano, è François Duquesnoy, l’autore del coro d’angeli inserito tra l’altare e la pala (1639), già ricordato per quest’opera nelle Vite del Bellori. I leoni che sostengono la mensa furono scolpiti da Giuliano Finelli nel 1647, mentre il medaglione con il bassorilievo del Sacrificio di Isacco (1646) inserito tra i leoni come paliotto, attribuito da Celano allo stesso Finelli, va ricondotto a Giulio Mencaglia. L’intero fregio, con triglifi e metope, è decorato dalle sculture dei simboli dei quattro evangelisti: la testa di toro per san Luca, la testa d’aquila per san Giovanni, il leone per san Marco e i due angeli con la croce per san Matteo. Le colonne furono lavorate a Roma da Francesco Mozzetti, il quale nel 1647, insieme al Finelli, completa la balaustra anch’essa, presumibilmente, inviata da Roma suddivisa in più parti. E, sempre al Mozzetti, va ascritta la lavorazione di tutti gli elementi architettonici. Gli «intagli», che Celano ricorda come opera di Andrea Dolci, sono da intendersi come l’ornamentazione preparata a Roma da Andrea Bolgi e inviata a Napoli tra il 1641 e il 1642, tra cui il pannello al di sopra della mensa, in funzione di dossale, con i puttini e il ricco festone con pendagli. Per quanto riguarda la cappella dell’Immacolata, affidata alla famiglia Pignatelli Monteleone, va precisato che fu posta in opera dall’altro lato della
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tribuna alla fine del Seicento, e che quando ne scrive Celano (1692) si presentava ancora nell’edizione provvisoria di struttura lignea. E tale la trova Juvarra, nei primi mesi del 1706. Il suo accurato rilievo dell’altare Filomarino è da intendersi come studio preparatorio per la trasformazione della cappella dell’Immacolata in una struttura permanente, pienamente rispondente all’opera borrominiana che la fronteggiava (Cantone, 1998). Ma sarà trasformata in struttura marmorea, con una composizione simile a quella del Borromini, solo a partire dal 1713, quando dal cardinale Francesco Pignatelli viene affidato l’incarico a Ferdinando Sanfelice. Interrotta nel 1718, fu completata solo nel 1723 da Bartolomeo Granucci. Il corrispettivo del coro d’angeli del Duquesnoy in questo altare fu realizzato, in bronzo, da Matteo Bottigliero. Le quattro Virtù, disposte nelle campate laterali dell’ancona, furono dipinte su rame, nel 1723, da Francesco Solimene. La composizione dell’ancona replica quella borrominiana, come già detto, invece l’altare risente dell’impronta di Solimene nella soluzione della mensa e del paliotto, mentre per l’uso delle ridondanti mensole a voluta ricorda anche l’altare della chiesa della Redenzione dei Cattivi, una delle prime opere di Ferdinando Sanfelice; il che fa pensare a una collaborazione tra i due artisti per la progettazione dell’altare.
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151. Napoli. Chiesa dei Ss. Apostoli. Altare Filomarino nel cappellone dell’Annunziata, la mensa. 152 (pagina a fianco). Napoli. Chiesa dei Ss. Apostoli. Altare Filomarino nel cappellone dell’Annunziata.
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Convento di San Gregorio Armeno
Pagina a fianco: 153. Napoli. Convento di S. Gregorio Armeno. Particolare del chiostro con la fontana. Le sculture di Cristo e della Samaritana sono di Matteo Bottigliero.
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Due chiostri assai simili tra loro, entrambi costruiti da G. Vincenzo della Monica, quello dei Ss. Marcellino e Festo e quello di S. Gregorio Armeno, fanno da sfondo, dall’età della Controriforma al Settecento, a una storia di secolari stratificazioni architettoniche e urbane della collina di Monterone al limite della Napoli greco-romana. La cronologia tradizionale del convento di S. Gregorio Armeno, che restava circoscritta tra il 1570 e il 1580, non consentiva di stabilire il confronto con il complesso dei Ss. Marcellino e Festo e di ricostruire, come oggi può farsi documentalmente, il succedersi di cicli architettonici e artistici paralleli (Cantone, 2000). La prima chiesa di S. Gregorio Armeno viene demolita per lasciare posto alla costruzione del nuovo convento iniziato nel 1572, su progetto di Vincenzo della Monica, e completato secondo la tradizione storiografica nel 1578; in realtà queste date vanno riferite all’inizio e alla fine di una sola tappa della vicenda costruttiva. Il chiostro non poté essere completato perché a quel tempo via della Campana (ovvero il cardine occidentale) non era stata incorporata nell’insula conventuale, come accadrà solo nel 1638. Anche quando si procede alla costruzione della chiesa, iniziata nel 1574 su progetto di G. Battista Cavagna e completata (ma non del tutto) nel 1580, il chiostro doveva presentare nella sua interezza solo il braccio orientale, mentre il meridionale e il settentrionale si arrestavano a via della Campana e Vincenzo della Monica non perseguì un modello bloccato su tutti i quattro lati dell’insula, come risulta anche dal chiostro di S. Marcellino, ma valutò le scelte al contorno, anche in funzione del panorama. Tra il 1582 e il 1590 nel convento si completavano le logge, con archetti su mensole, e «l’astrico» al primo piano della clausura. Nel 1589 si lavorava al muro del recinto conventuale, su via San Gregorio Armeno, per un’estensione di circa cinquanta metri, dal campanile alla chiesa, dove furono costruite botteghe e case di affitto. La suddivisione dello spazio liturgico in chiesa e atrio, e il loro proporzionamento, dovrebbero corrispondere al tracciato del tempio di Cerere Attica; l’impianto «controriformato», di navata con cappelle, si allunga nella tribuna quadrata e l’atrio, a nove cellule con una facciata bugnata modulata sull’ordine rustico, si allinea allo spessore della navata. Il soffitto
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L’inglobamento consentì di prolungare il chiostro con il portico settentrionale e costruire, almeno in parte, il portico occidentale; inoltre, per chiudere l’insula, nel 1644 le Benedettine comprano tutte le case comprese tra il cardine di via della Campana e il cardine di via S. Nicola a Nilo. L’allungamento del portico settentrionale rese possibile la realizzazione di nuove celle al primo piano e il prolungamento del refettorio, come dai documenti che riguardano i lavori diretti (a partire dalla metà del Seicento) da Francesco Antonio Picchiatti, al quale più tardi si aggiungerà Dionisio Lazzari. I due architetti riorganizzano il grande chiostro quadrato dividendolo in due mediante un portico intermedio, quello che oggi vediamo e che fu realizzato in analogia con i portici preesistenti. La ricostruzione di queste vicende evita gli errori interpretativi derivanti da periodizzazioni approssimate e dall’immagine fittizia di chiostri calati nelle insule secondo geometrie ben definite, ma ci dice, anche, che il tipo di chiostro controriformato su pilastri di piperno modanati veniva costruito ancora nella metà del Seicento. Dopo il 9 settembre del 1676, quando san Gregorio Armeno viene dichiarato «Protettore e Padrone della città», nel convento inizia la fase di ampliamento e ammodernamento condotta da Dionisio Lazzari: i lavori nell’infermeria e nella sagrestia (1677); opere di consolidamento (1678) nelle capriate della chiesa, la pavimentazione del coro principale e lavori di rifacimento nei dormitori. Nell’altar maggiore (1682) Dionisio Lazzari rielabora motivi decorativi fanzaghiani, tra cui i vasi con fiori di intarsi marmorei e la fascia con pendagli della mensa. Le teste d’angelo di capoaltare appaiono compresse nel dossale, ma partecipano al gioco degli aggetti
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157. Napoli. Convento di S. Gregorio Armeno. Particolari del chiostro e della fontana.
158. Napoli. Chiesa di S. Gregorio Armeno. Particolare della navata con l’organo, uno dei due ammodernati nel 1692. 159. Napoli Convento di S. Gregorio Armeno. Particolare del vestibolo di ingresso. Sulla sinistra l’affresco di Giacomo del Po.
delle volute e del paliotto. Più tardi l’altare sarà arricchito dalle sculture sui portali, opera di Bartolomeo Ghetti. La pala d’altare dell’Ascensione è opera di G. Bernardo Lama. Al 1681 risalgono le vetrate della chiesa; l’apparato di stucco nel coro viene eseguito da G. Battista Adamo. Seguirono l’indoratura nella navata e nelle cappelle; l’indoratura dei cancelli e la laccatura delle porte. A Luca Giordano si deve una consistente parte degli affreschi (1671-84), con numerosi episodi: la Gloria del Paradiso nella cupola; le otto Sante benedettine nel tamburo; le Storie di san Benedetto nel coro; l’Arrivo a Napoli delle monache armene nella controfacciata. Nel 1692, come ricorda Celano, vengono rifatti i due organi con «intagli indorati» e l’anno seguente le grate del refettorio nuovo; vengono arricchite le balaustre delle logge e viene fatta la «pennata» della cucina. Nello stesso anno viene realizzato da G. Domenico Vinaccia il comunichino sul lato destro della tribuna, decorato dal Coro d’Angeli di Giuseppe Simonelli. Dall’inizio del Settecento si conducono vari lavori di rifacimento, come le grate delle logge e il rivestimento di marmo e di stucco. Risale al 1704 la sistemazione del vestibolo di ingresso al convento, costituito da una lunga gradonata scoperta; sulle due pareti laterali Giacomo del Po dipinge ad affresco l’architettura «picta» della Pergola con colonne, impostata su un basamento di «riggiole» maiolicate che accompagna l’andamento dei gradini. Nel 1707 sulla facciata del campanile-cavalcavia viene inserito l’orologio, opera di mastro Dionisio Gargiulo. Dal 1711 al 1713 si realizza la nuova sagrestia, poi decorata dagli affreschi di Paolo De Matteis, e iniziano i lavori di abbellimento nella cappella dell’Idria. I lavori realizzati nel dor-
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mitorio dal 1711 al 1716 riguardano l’ampliamento di un braccio della residenza e, sempre nel 1716, vengono effettuate opere di rifinitura nel campanile e negli ambienti conventuali adiacenti. Dal 1720 al 1759 viene messo in opera il ‘restauro’ tardo barocco che si deve alla regia di Nicolò Tagliacozzi Canale. Tra le sue opere più significative vanno ricordate l’elaboratissima balaustra lignea (1745), che delimita l’affaccio del coro principale verso la chiesa, e le cantorie dei due organi che separano la navata dal presbiterio, opere segnate da un gusto dell’ornamentazione mutuato dagli apparati effimeri. Al 1724 risalgono note di spesa per il refettorio e per il muro della clausura. Intorno al 1733 viene inserita nel chiostro la fontana con le sculture raffiguranti Cristo e la Samaritana, lavorate da Matteo Bottigliero. La composizione prospetta verso l’ingresso al chiostro, dove sono conservate le rustiche cisterne, circondate da alberi di agrumi e collegate ai porticati da archi rampanti. Dal 1744 al 1747 si susseguono vari lavori di rifinitura: i piedistalli di marmo inseriti nei pilastri della chiesa; l’apparato di stucco nel coro e nelle cappelle; lo stucco indorato «con oro fino» e «ornamenti» nella controsoffittatura; dipinture nella navata della chiesa e nel coro; lavori di intaglio per cornici; lavori di marmo nelle cappelle dell’Annunziata, del Crocifisso e di S. Giovanni. Nel 1742 Giuseppe Pollio fa lavorare la ghiera di ottone posta sopra la grata del comunichino della Badessa e nel 1745 Matteo Bottigliero realizza il gruppo scultoreo dell’Eterno Padre e Vergine in Gloria posto sull’arco di trionfo; il gruppo di Angeli, sull’arcone che divide la navata dalla tribuna, è opera di Domenico Antonio Vaccaro. Dal 1749 al 1753 si costruisce un nuovo belvedere sul lato del refettorio; si conducono lavori nel «grottoncino», per rinfrescare l’acqua dell’infermeria, e nel giardino per impermeabilizzare le cisterne; si realizzano inoltre ornamenti di marmo e stucchi; indoratura e dipintura delle «bussole», e indorature nel cappellone di S. Ligorio. Nel 1749 le Benedettine prendono in fitto dal Tribunale della Fortificazione il «vacuo» vicino alla Cappella di S. Luciella, prospiciente la cupola della chiesa, dove edificano il piccolo chiostro presente nella mappa del duca di Noja (1750-75). Nel 1751 Pietro Vinaccia realizza i pilastrini nelle balaustre delle logge identificabili con quelli attuali, nell’angolo nord-ovest del complesso, all’ultimo piano delle celle nell’Ospizio Filangieri. Una trasformazione assai delicata fu realizzata nel 1759, con il nuovo «Coro d’Inverno», situato al secondo piano, in corrispondenza dell’atrio di ingresso alla chiesa, al di sopra del «coro principale», situato al primo piano. A questo si accedeva dal chiostro, mentre si poteva accedere direttamente dalle celle del secondo piano al nuovo coro ricavato eliminando una parte del tetto e «...perforando alcuni vani inservibili della suffitta della chiesa». Per quest’opera vengono interpellati un collegio di ingegneri e architetti e il Consiglio dei Medici e, in particolare, l’ingegnere camerale e ingegnere ordinario delle monache Giuseppe Pollio, il regio ingegnere Nicola Tagliacozzi Canale, il regio ingegnere Giuseppe Astarita, il dottore fisico Agnello Fanelli. Negli ultimi decenni del Settecento con la direzione di Giuseppe Pollio vengono condotti lavori di ammodernamento nel vestibolo di ingresso al convento; viene rifatto il pavimento dell’atrio di ingresso alla chiesa (1785); si ristrutturano le logge e le balaustre e nel 1798 si costruisce il mulino del convento.
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Convento dei Santi Marcellino e Festo
160. Napoli Chiesa di S. Gregorio Armeno. Particolare dell’interno con il secondo registro e il cassettonato.
Pagina a fianco: 161. Schema di pianta della chiesa dei Ss. Marcellino e Festo (da Fratta, 2000).
Pagine seguenti: 162. Napoli. Chiesa dei Ss. Marcellino e Festo. Interno. Particolare della controfacciata e della cantoria. 163. Napoli. Chiesa dei Ss. Marcellino e Festo. Particolare di uno dei portali vanvitelliani nella navata. 164. Napoli. Chiesa dei Ss. Marcellino e Festo. Interno. Veduta della cupola dalla tribuna. In primo piano è il capoaltare, opera di Dionisio Lazzari.
La fusione tra i conventi dei Ss. Marcellino e Pietro e dei Ss. Festo e Desiderio, confermata dal primo Sinodo Diocesano del 29 dicembre 1565, fu ratificata il 26 marzo 1566. Il convento, con il titolo contratto dei Ss. Marcellino e Festo, fu assegnato nel 1567 alle monache benedettine. A G. Vincenzo della Monica si deve il nuovo chiostro (1567-95); la chiesa, che una parte della guidistica napoletana attribuisce a Pietro D’Apuzzo, fu iniziata nel 1626 e completata nel 1633, su progetto di G. Giacomo di Conforto. Articolata su un impianto longitudinale, a navata con cappelle e ritmo alterno, è preceduta da un atrio con campate coperte da volte a vela, come quello di S. Gregorio Armeno, che doveva garantire l’isolamento dal convento dei Ss. Severino e Sossio e dalle case limitrofe. I lavori si interrompono dal 1631 al 1633; alla morte del di Conforto (1631) mancava ancora la cupola; la chiesa viene consacrata una prima volta nel 1633, dopo la messa in opera della controsoffittatura, e una seconda volta nel 1645, quando la cupola fu rivestita di riggiole maiolicate. Gli affreschi della cupola, dei pennacchi e degli archi dei cappelloni, con Santi e Storie della vita di san Benedetto, di Belisario Corenzio (1630-40), furono restaurati all’inizio del Settecento da Nicolò de Simone. Le tele centrali della controsoffittatura sono opera di Massimo Stanzione del 1633. Dionisio Lazzari realizza, dal 1666 al 1667, l’apparato marmoreo nel cappellone di S. Benedetto, situato a sinistra della tribuna, e della cappella maggiore, lavorando sull’ancona preesistente, dove Lorenzo Vaccaro aggiunge nelle nicchie le statue di San Marcellino e di San Festo e L. Garzi la tela de La Visitazione, nonché il nuovo altar maggiore, completato nel 1670; queste precisazioni consentono di distinguere la configurazione assegnata alla chiesa dal di Conforto da quella del Lazzari, mentre dal rendiconto dei lavori redatto da Vanvitelli, nel 1762, si possono ricostruire le stratificazioni successive. La lunga stagione di restauri, che doveva concludersi con Vanvitelli, inizia nel primo decennio del Settecento con lavori dapprima incentrati sui dipinti della controsoffittatura della chiesa, poi sull’eliminazione delle infiltrazioni d’acqua e delle lesioni riscontrate nella cupola e nelle strutture portanti, diretti da G. Battista Manni, il quale nel 1720 si occupa della ri-
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Palazzo dello Spagnuolo ai Vergini
190 (pagina a fianco), 191. Napoli. Palazzo dello Spagnuolo ai Vergini. Vedute della ‘scala aperta’ dal cortile.
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La controversa attribuzione dell’edificio all’architetto Ferdinando Sanfelice o all’ingegnere Francesco Attanasio, presente nel cantiere nel 1723, già segnalata da Alfonso Gambardella e poi ricordata anche da altri storici (Blunt, 1975) pone un problema di non facile soluzione: se la sola lettura stilistica risulta insufficiente ad avvalorare un’attribuzione, è pur vero che i documenti ritrovati, sia quello del notaio Giuseppe Ranucci del 1738, che quello del Banco di S. Maria del Popolo, datato 1742 (Rizzo, 1999), che attestano l’impegno di Francesco Attanasio nella fabbrica, potrebbero riguardare la sola esecuzione mentre, per il progetto, possiamo solo formulare ipotesi. Le prime notizie sull’inizio dei lavori risalgono al 1738 quando Sanfelice è impegnato in molte altre opere, giustificando, in un certo senso, l’ipotesi già avanzata (Lorenzetti, 1953) di una sua idea, se non proprio di un suo disegno, fornito al committente senza, però, alcun altro impegno professionale. Ma finora non è stato trovato alcun rapporto fra l’architetto Sanfelice e Nicola Moscati, marchese di Poppano, per cui la lettura formale dell’edificio, inserita nel contesto storico e architettonico di quel momento, appare, ancora oggi, l’unica analisi possibile. Il palazzo di Nicola Moscati svolge, sia nell’organizzazione sia nell’apparato decorativo, un programma che si pone nella scia delle realizzazioni di Ferdinando Sanfelice; la distribuzione dei volumi edilizi, lungo il percorso androne, cortile, scala e giardino retrostante, riprende soluzioni più volte utilizzate dal Sanfelice. Anche la gabbia strutturale, nella sua configurazione spaziale, rimanda all’opera sanfeliciana, nonostante alcune differenze di non secondaria importanza, come l’impiego di pilastri più esili dovuto alla maggiore capacità, da parte del progettista, di controllare il gioco di spinta delle strutture. In tal caso, se accettiamo l’ipotesi dell’idea progettuale, suggerita da Sanfelice nel 1725, e della realizzazione dell’edificio, soltanto a partire dal 1738, è possibile supporre che l’architetto, avendo già verificato nel suo palazzo la fattibilità strutturale della scala, abbia potuto migliorare, in fase esecutiva, la sua prima idea per il palazzo Moscati. L’impostazione del palazzo troverebbe così una sua spiegazione, ma occorre ricordare che le maggiori perplessità, fra gli storici, sono state
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Palazzo Serra di Cassano a Monte di Dio
196 (pagina a fianco). Napoli. Palazzo Serra di Cassano a Monte di Dio. La scala monumentale. L’incrociarsi delle linee oblique dei rampanti sottolinea l’articolato volume della scala, con un chiaro rimando ad analoghe soluzioni realizzate, negli stessi anni, in alcuni edifici austriaci e bavaresi. 197. Napoli. Palazzo Serra di Cassano a Monte di Dio. Particolare della scala monumentale, voluta di raccordo alla parasta e capitello pensile.
L’edificio, situato sulla collina di Pizzofalcone, riflette una diffusa politica edilizia operata, a partire dalla prima metà del xviii secolo, dalla nobiltà napoletana la quale, abbandonate le dimore nel centro antico della città, si sposta verso Chiaia e in prossimità di Palazzo Reale. Di conseguenza a Pizzofalcone, dopo gli insediamenti religiosi, a partire dal xvii secolo si verificherà una sostanziale sostituzione dell’architettura civile, alla quale partecipano attivamente i Serra di Cassano. Nel 1679 il marchese Giuseppe Serra acquista un primo edificio, ma solo nel 1739 all’architetto Michelangelo Porzio verrà affidato l’incarico del progetto di ristrutturazione perché nel frattempo la famiglia acquista nuovi immobili per ampliare la proprietà. Il progetto verrà messo in opera in tempi diversi e con continui aggiustamenti, come appare evidente anche dalla lettura della pianta del palazzo. Ancora nel 1758 la famiglia chiede al Tribunale delle Fortificazioni l’autorizzazione a occupare una strada pubblica che divideva due immobili e il 16 gennaio 1759 ottiene di «poter unire con archi i due palazzi di Casa Serra a Pizzofalcone» (Leone, 2000). La lunga durata dei lavori e i continui cambiamenti di programmi e di maestranze rendono piuttosto difficile individuare il ruolo ricoperto da ciascun progettista tra i tanti che si avvicendarono nel cantiere. La storia costruttiva comincia nel 1679, quando è documentata l’esistenza del primo nucleo edilizio; continua nel 1718, con la presenza in cantiere di Ferdinando Sanfelice, documentata ancora nel 1738, quando Laura Serra di Cassano, napoletana, sposa il genovese Giuseppe Maria Serra di Cassano, e quando l’architetto sta costruendo, per i Gesuiti, la vicina chiesa della Nunziatella; si conclude, infine, con l’intervento dell’architetto Giuseppe Astarita. L’insolita disposizione planimetrica del palazzo è dovuta, almeno in parte, a queste continue «addizioni» volumetriche anche se, con il vestibolo che attraversa il blocco edilizio e il lungo percorso principale, nella seconda metà del Settecento si otterrà una più organica distribuzione delle funzioni e si ricomporrà un’evidente unità almeno al piano terreno e nell’appartamento nobiliare. Recenti ricerche hanno documentato il lungo processo edilizio, con
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198. Schema di pianta del palazzo Serra di Cassano a Monte di Dio. Disegno dell’architetto Lucia Tomeo.
la presenza anche di altri architetti nella costruzione (Leone-Gargano, 1999). Il che non significa sottrarre l’edificio al regesto delle opere del Sanfelice quanto, piuttosto, definirne il ruolo di architetto della famiglia rispetto al lavoro svolto da Michelangelo Porzio nel cantiere della fabbrica (Gambardella, 1974). Inoltre è necessario individuare dove termina il progetto sanfeliciano, visto che l’attuale aspetto verrà definito solo molti decenni dopo con l’intervento dell’architetto Giuseppe Astarita, al quale si deve la riorganizzazione di quanto già previsto dal Sanfelice, ottenuta con lavori di ampliamento, l’attraversamento dell’intero blocco di fabbrica e la nuova facciata su via Monte di Dio, poi rifatta nel 1806 (De Falco, 1999). La facciata presenta un’impaginazione monumentale con paraste corinzie su alto basamento di piperno, che la spartiscono in ben sedici campate di cui tre occupate dai portali di ingresso (attualmente uno risulta tamponato) risolti con una fascia di bugnato e con capitelli antropomorfi, quasi una firma sanfeliciana, sui quali poggiano i balconi del primo piano. L’androne attraversa tutto il corpo di fabbrica collegando l’ingresso su via Monte di Dio con quello principale, su via Egiziaca a Pizzofalcone, realizzato dal Sanfelice e, com’è noto, chiuso nel 1799, in segno di lutto per l’esecuzione del figlio del principe, Gennaro, decretata da Ferdinando iv. Un corpo basso, segnato da paraste doriche, con bugne appena accennate, e concluso da un terrazzo, costituisce l’ingresso principale. La trabeazione di piperno s’incurva includendo l’arco a tutto sesto dell’ingresso dal quale si accede al cortile principale. Questo, di forma ottagona, con quattro lati minori in cui sono sistemate le scale di servizio, ripropone lo schema del primo cortile di palazzo Sanfelice ai Vergini. Nelle facciate sul cortile le campate, in cui sono inserite le aperture, sono
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199. Napoli. Palazzo Serra di Cassano a Monte di Dio. Particolare della facciata. La sinuosità del balcone, che utilizza forme e materiali sanfeliciani, recupera suggestioni tardo barocche. La forte plasticità dei mensolini, risolti con mascheroni antropomorfi, mostra temi del repertorio di Ferdinando Sanfelice.
200. Napoli. Palazzo Serra di Cassano a Monte di Dio. Particolare del cortile ottagonale. La luce proveniente dal cortile esalta il contrasto cromatico della scala monumentale, fra il grigio del piperno e il bianco del marmo e dell’intonaco. L’ampio arco dell’ingresso originario al palazzo, che occupa quasi per intero una parete del cortile ottagono, determina un insolito rapporto tra pieni e vuoti e anticipa la monumentalità della scala.
Pagina seguente: 201. Napoli. Chiesa di S. Anna a Portacapuana. La scala del presbiterio.
separate da paraste di ordine gigante concluse da capitelli dall’insolito disegno. Una balaustra di piperno conclude il corpo basso, mentre, sugli altri lati dell’ottagono, il disegno varia in funzione delle aperture. Così l’arcone, che collega il cortile allo scalone, ritrova una sua impostazione canonica, con le paraste giganti, concluse da capitelli ionici con volute unite da drappi. Nella fluida massa del grigio piperno dello scalone, senza dubbio l’episodio architettonico di maggiore interesse, risaltano i pochi elementi, in marmo bianco, dei capitelli delle colonne che affiancano, sui due lati, il vano del primo pianerottolo, i capitelli pensili ed i rosoni degli archi, ed i balaustrini sagomati e disposti con gli spigoli ruotati rispetto alle balaustre. Lungo le pareti intonacate il percorso dello scalone è sottolineato dagli arrotondamenti angolari dei due rampanti che si ricongiungono sul pianerottolo dell’ingresso all’appartamento padronale. Il portale di bardiglio grigio, con festoni e decorazioni di marmo bianco, affiancato da due mascheroni spegnitorcia, conclude il percorso sul ballatoio pensile retto da due pilastri. Sulla faccia esterna di questi sono collocate due volute capovolte, poggiate su alto piedistallo, che richiamano il motivo utilizzato nella cupola della cappella del Tesoro di S. Gennaro. Nella grande sala d’ingresso all’appartamento padronale solo nel soffitto si conservano le decorazioni originarie di G. Battista Natali, epigono di Giacomo Del Po, mentre il ripristino delle sue prospettive architettoniche ha eliminato ogni profondità agli effetti scenografici. In alcuni ambienti sono state conservate, pressoché integre, le decorazioni a stucco di gusto rococò, con le opere di Giacinto Diano autore di molti dipinti, fra i quali ricordiamo l’affresco (firmato e datato 1770) di Massinissa e Sofonisba rendono onori a Scipione l’Africano, e di molte tele fra cui le Allegorie delle stagioni. Molte altre opere pittoriche sono passate ad altre sedi, come la tela di Corrado Giaquinto, Enea sacrifica ad Apollo, oggi conservata a Roma presso il palazzo del Quirinale. Le decorazioni di alcuni ambienti interni appartengono al repertorio neoclassico ispirato alle rovine pompeiane ed ercolanensi delle quali, ormai da qualche anno, circolavano le prime stampe. Solo pochi mobili di un certo valore, ancora conservati, completano l’arredamento dell’appartamento, oggi sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
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