Indice
Premessa
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I.
IL «RINASCIMENTO DELLE ARTI» A FIRENZE
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II.
IL RINNOVAMENTO ARTISTICO A NORD DELLE ALPI
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III. L'UMANESIMO ALBERTIANO E LA SCULTURA A FIRENZE
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IV. LA PITTURA DI LUCE IN TOSCANA E IN FRANCIA
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V. LA DIFFUSIONE DELL'ARTE FIAMMINGA IN GERMANIA, SPAGNA E ITALIA
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VI. L'EREDITÀ DEI FONDATORI: LA PITTURA FIAMMINGA NELLA SECONDA METÀ DEL '400
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VII. ARCHITETTURA TARDOGOTICA, MICROARCHITETTURE E MONDO SCOLPITO NEI TERRITORI TEDESCHI
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VIII. L'ARTE NELLA FIRENZE DI LORENZO IL MAGNIFICO
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IX. L'UMANESIMO ARTISTICO A PADOVA, MANTOVA, FERRARA E BOLOGNA
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X. L'ARTE IN LOMBARDIA SOTTO GLI SFORZA
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XI. L'ARTE A VENEZIA NELLA SECONDA METÀ DEL '400
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Apparati
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Note bibliografiche
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Tommaso di Ser Giovanni di Mòne detto Masaccio, Pagamento del tributo, 1425 ca., affresco, 255 × 598 cm, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze.
Tommaso di Ser Giovanni di Mòne detto Masaccio, Adorazione dei Magi, particolare, 1426, tempera su tavola, 21 × 60 cm, Musei statali, Berlino.
no, e che entrambi fossero impegnati nella decorazione della Cappella di santa Caterina, eseguita per il cardinale Branda di Castiglione nella sua chiesa titolare di San Clemente. Gli affreschi, ora largamente impoveriti e in parte perduti, contengono un ciclo di Storie di santa Caterina e sant’Ambrogio e sulla parete di fondo una Crocifissione: un programma iconografico che appare legato alle origini lombarde del committente. Candide e insieme fantasiose, queste storie sono contrassegnate da una fantasia spaziale e narrativa, apparentemente ingenua e affascinante, che a tutt’oggi non ha forse trovato sufficiente apprezzamento. Sull’arco esterno della Cappella la scena dell’Annunciazione si dispiega in un dop-
della Cappella nei primi anni Ottanta del secolo, a opera di Filippino Lippi. Subito dopo questa decorazione interrotta, come ritiene la maggior parte degli studiosi, si colloca l’affresco della Trinità in Santa Maria Novella: opera altissima e vero testamento pittorico di Masaccio, il più perfetto traguardo di un cammino artistico di bruciante brevità. In essa la pittura di Masaccio si rivela saldata intimamente con lo spirito di Brunelleschi e di Donatello: al primo per il rigore della prospettiva e al secondo per l’impostazione scultorea dei personaggi, quasi statue a figura intiera nello spazio. L’immagine della Trinità prende posto in un vano quadrangolare voltato: ai lati del Cristo in croce stanno Maria e Giovanni mentre sui gradini esterni sono inginocchiati i due devoti borghesi, dai volti di intensa precisione ritrattistica, che hanno le stesse dimensioni dei personaggi divini. I personaggi formano così una piramide che si scala in profondità nello spazio e si pongono in rapporto
pio loggiato di così grandi ambizioni prospettiche, da lasciar intravedere l’ispirazione masaccesca, ma risolta con un cromatismo leggero e festoso. Sempre a Roma, è infine da ricordare il perduto ciclo masoliniano di Uomini famosi, un tema tipicamente umanistico dipinto per il palazzo del cardinal Giordano Orsini, la cui importanza iconografica dovette essere notevole, viste le numerose copie che ne derivarono. Collegata con la committenza romana e con la persona del cardinale Branda di Castiglione è anche l’ultima grande opera di Masolino, nata dalla volontà del cardinale di abbellire con importanti opere d’arte contemporanea il paese natio presso Varese.
di misure con l’architettura. Non pochi studiosi ritengono che l’ispirazione e forse l’esecuzione dell’intera parte architettonica sia da ascrivere al Brunelleschi, ma è più probabile che essa sia autografa di Masaccio, il quale si sarebbe servito di un preciso schema prospettico brunelleschiano: di gusto strettamente brunelleschiano sono i motivi dell’architettura stessa, i pilastri scanalati e la volta a botte. Vi è dunque nell’affresco una complessità iconografica e quasi una sovrapposizione di temi, tutti rigorosamente meditativi: il tema centrale della Trinità con il Padre, il Figlio e la colomba dello Spirito e quello della Crocifissione con Maria e Giovanni e infine il tema – caro soprattutto al Nord – del Trono della gloria, ossia l’immagine del Padre che regge il Figlio crocifisso. Tutto fa pensare che questo affresco sia l’ultima opera di Masaccio, morto a Roma probabilmente nel giugno del 1428. Si ritiene che la sua presenza a Roma fosse legata a quella di Masoli-
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Jan e Hubert van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432 ca., olio su tavola, 258 × 375 cm, cattedrale di San Bavone, Gand.
A fronte: Jan van Eyck, Madonna del cancelliere Rolin, 1453 ca., olio su tavola, 66 × 62 cm, Musée du Louvre, Parigi.
Nella Madonna del cancelliere Rolin van Eyck adotta un formato intermedio di tavola e un tipo di opera di devota meditazione. Non si conosce la data di esecuzione del dipinto ma l’età presunta del cancelliere Rolin fa ritenere che essa sia intorno al 1435. Il potente cancelliere di Filippo il Buono sta inginocchiato davanti al trono della Vergine senza la presentazione di un santo, entro una sorta di ricca sala del trono cosicché i due personaggi sembrano fronteggiarsi uguali in primo piano. La stanza si apre attraverso una loggia su un giardino, hortus conclusus di gigli e di rose, e di lì su un paesaggio fluviale che si spinge all’estremo limite dell’orizzonte. Interno ed esterno, natura e architettura appaiono profondamente equilibrate fra loro; tutta la scena è immersa in un’atmosfera di calmo raccoglimento e di silenzio contemplativo.
Con il 1432, come si è detto, hanno inizio le opere datate di van Eyck che si succedono a intervalli abbastanza regolari, tra le quali figura un gruppo di ritratti. van Eyck ama scrutare i volti dei suoi personaggi con sereno distacco, con un’impassibile obiettività che coglie di ogni individuo la sua assoluta unicità. Del 1432 è il primo ritratto noto di van Eyck, che raffigura un personaggio maschile chiamato misteriosamente, in lettere greche, Timoteo, misteriosa è pure l’iscrizione «leal sovvenir» incisa a trompe l’œil sul parapetto di pietra. Si tratta forse di un musicista dell’ars nova, come pensa Panofsky; è comunque un personaggio, dallo sguardo intenso e spirituale nonostante i tratti del volto sembrino piuttosto quelli di un contadino fiammingo. L’ammirevole disegno preparatorio a punta d’argento per il Ritratto del cardinale Albergati fu eseguito proba-
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bilmente nel 1431 durante una breve sosta a Bruges del cardinale, legato pontificio alla Pace di Arras e seguito, forse dopo un certo intervallo di tempo, dal ritratto a olio. Le annotazioni minuziose a margine del disegno di Dresda confermano la prodigiosa acutezza dello sguardo eyckiano.
possa trattarsi di un autoritratto. L’ipotesi, benché del tutto teorica, è interessante perchè l’apparente età matura del personaggio collocherebbe la nascita di van Eyck assai presto. Un doppio ritratto appare quello dei Coniugi Arnolfini, firmato e datato sopra allo specchio 1434. Giovanni Arnolfini, un ricco mercante toscano stabilito a Bruges, vi è raffigurato con la moglie Giovanna Cenami nell’intimità della camera nuziale, dove «ogni nota cromatica è colta con trasognata sicurezza» (Friedländer). Il gesto di prendersi per mano, come ha intuito Panofsky, sta a indicare il gesto di fede scambiato nel matrimonio; così pure all’evento matrimoniale alludono parecchi oggetti simbolici della stanza. L’iscrizione «Johannes de Eyck fuit hic» sopra allo specchio convesso in fondo alla camera starebbe a indicare una presenza diretta, qua-
Del 1433 è il ritratto detto dell’Uomo con turbante di dimensioni particolarmente ridotte (25 × 19 cm); a data con il giorno e il mese è dipinta sulla cornice insieme con l’umile motto di Jan van Eyck «als ich kan» («come posso»). Il turbante rosso compone un bellissimo oggetto tridimensionale quasi astratto e gli occhi dell’uomo guardano, a differenza che in tutti gli altri ritratti, davanti a sè. Questo particolare, il primo piano del volto più prossimo, l’assenza delle mani hanno indotto alcuni studiosi a pensare che
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Rogier van der Weyden, Trittico dei Sette Sacramenti, 1445-1450 ca., olio su tavola, 200 × 223 cm, Musée Royaux des Beaux-Arts, Bruxelles.
Rogier van der Weyden (attr.), Uomo che legge (Sant’Ivo?), 1450 ca., olio su tavola, 45 × 35 cm, National Gallery, Londra.
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Antonello da Messina, Ecce Homo, 1475 ca., olio su tavola, 48,5 × 38 cm, Collegio Alberoni, Piacenza.
Antonello da Messina, Salvator mundi, 1465-1475 ca., olio su tavola, 39 × 30 cm, National Gallery, Londra.
riso beffardo. Di matrice fiamminga è probabilmente la serie degli Ecce Homo, nei quali si avverte uno scrutinio di nuova intensità nella resa della realtà: la corda, la corona di spine, le stille di sangue, le lacrime, le ciocche dei capelli; e questo scrutinio è reso possibile da una tecnica sottilissima, che già il Cavalcaselle ammirava notando, a proposito dell’Ecce Homo, la tecnica delle «velature in piena pratica», cioè pienamente assimilate. Al tempo stesso, l’indagine luminosa della realtà si fonde nella resa del torso leggermente rotante, con una sensibilità che rivela il pieno inserimento di Antonello nella cultura formale e prospettica italiana. Rientra in questo quindicennio anche il Salvator mundi di Londra, la cui data apposta nel cartellino va piuttosto letta 1475 anziché 1465, a causa del calcolo dell’indizione pasquale segnata sul cartellino. L’opera infatti sembra assai meglio legare con il momento più maturo di Antonello: il punto di vista collocato più in basso, lo straordinario ruotare in senso prospettico della mano benedicente, che rivela un pentimento, sono segnali di un ulteriore accrescimento in direzione “italiana”, formale e spaziale. Tuttavia non va sottaciuto il legame con esemplari fiamminghi di Rogier van der Weyden e in particolare la straordinaria, misteriosa somiglianza di questo Cristo benedicente con quello di Memling che recava, sulla cornice ormai scomparsa, la data 1478. Il grande Polittico di San Gregorio commissionato nel 1473 e il grande capolavoro dell’Annunciazione eseguita per la chiesa di Palazzolo Acreide, sono le opere maggiori di questo quindicennio che precede il soggiorno veneziano. Nell’Annunciazione Antonello intreccia in modo magistrale “spazio” italiano e “ambiente” fiammingo: le due stanzette comunicanti illuminate dalle finestre crociate alla Petrus Christus, dove ogni particolare è rivissuto in termini di volumi luminosi, sono racchiuse entro una cornice architettonica di classica misura. Antonello arrivò forse a Venezia già nel dicembre 1474; il suo soggiorno è comunque documentato tra l’agosto del 1475 e il marzo 1476 ed è affollato da una sequenza stupefacente di opere. Al soggior-
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no veneziano si può assegnare il San Girolamo nello studio proveniente anticamente da casa Pasqualino a Venezia. Una tavoletta di piccole dimensioni, alla fiamminga, ma di grande respiro spaziale nell’ambiente misterioso percorso dalla luce e chiuso sul davanti da un arco-diaframma aragonese. Seduto di profilo entro lo studio ligneo che lo accoglie come in una nicchia, il santo acquista una solennità di timbro umanistico. L’opera maggiore del soggiorno veneziano e quella che meglio denuncia il fecondo scambio con Giovanni Bellini è indubbiamente la Pala di san Cassiano, una pala di grandi dimensioni, commissionatagli da Pietro Bon, di cui possediamo solo tre frammenti ora nel Kunsthistorisches di Vienna: la Madonna col Bambino, san Nicola, santa Maria Maddalena, sant’Orsola e san Domenico. Nella sua integrità l’opera doveva rifarsi alla Pala del Bellini per la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, opera perduta ma nota nel suo aspetto attraverso una stampa ottocentesca.
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Francesco del Cossa, Santa Lucia e particolare, 1472-1473 ca., tempera su tavola, 79 × 56 cm, National Gallery of Art, Washington.
di san Clemente per il Collegio di Spagna e la successiva Pala di Pesaro con l’Incoronazione della Vergine, unica opera datata 1471, rivelano una singolare, intelligente rielaborazione di matrici padovane e veneziane, attraverso la scelta di colori trasparenti e lucenti, che rivelano l’adesione alla luminosità pierfranceschiana. Nel 1463 risulta presente a Bologna, dopo il soggiorno napoletano, lo scultore dalmata Niccolò, det-
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to dell’Arca per il completamento appunto dell’arca di san Domenico in San Petronio. La copertura ideata da Niccolò prevedeva degli elementi architettonici riccamente decorativi e una serie di statue in marmo di Carrara, di intensa e lucente plasticità che, ricollegandosi alla tradizione relativamente recente della scultura di Jacopo della Quercia in San Petronio, si aggiorna su influssi, si direbbe, borgognoni. Il nome di Niccolò è però legato soprattutto a un’ope-
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