L’EREDITÀ ROMANICA
SANTINO LANGÉ
L’EREDITÀ ROMANICA LA CASA EUROPEA IN PIETRA
testi di Duilio Citi, Massimo Guidetti fotografie di Duilio Citi, Santino Langé, Vanni Meschini disegni di Osvaldo Garbarino
Sommario
© 2020 Editoriale Jaca Book srl, Milano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana Jaca Book ottobre 1989 Nuova edizione italiana marzo 2020
Capitolo sesto La regione degli scambi
PRESENTAZIONE pag. 7 Copertina e grafica Paola Forini / Jaca Book
Fotolito Target Color, Milano
Savoia, Delfinato, Provenza, Corsica, Ponente ligure Duilio Citi
Europa sedentaria ed Europa in cammino pag. 13
pag. 157
L’organizzazione sociale delle campagne Massimo Guidetti pag. 19
Capitolo settimo Le vie appenniniche verso Roma
La solidarietà nell’insediamento pag. 29
pag. 177
Levante ligure, Emilia, Toscana, Lazio Duilio Citi
Capitolo ottavo L’italia centro-meridionale e gli scali marittimi per la Terrasanta
La casa come evento simbolico pag. 35
Abruzzo, Molise, Puglia, Sicilia
pag. 195
Capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa
Capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale: scambi e differenze
Portogallo settentrionale, Galizia, Asturie, León Stampa e legatura Centro Stampa Digitalprint Srl Rimini (RN) Marzo 2020
pag. 45
Capitolo secondo Il perno tra continente e penisola iberica sul Camino de Santiago
pag. 215
pag. 67
Territori dell’ex Repubblica jugoslava e Grecia
Lombardia, Ticino, Grigioni, Trentino
Capitolo decimo Le vie verso l’Oriente
Castiglia del nord, Cantabria, Paesi Baschi (spagnoli e francesi) e Navarra
pag. 239
Capitolo terzo I Pirenei, cerniera tra Atlantico e Mediterraneo
Elenco bibliografico delle opere citate nelle note pag. 271
Aragona, Catalogna, Ariège, Roussillon
pag. 87
Capitolo quarto L’area atlantica del Nord
Bretagna, Normandia, Isole britanniche ISBN 978-88-16-60608-1 Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
pag. 113
Capitolo quinto Il cuore dell’Europa e della Francia La Borgogna e il Massiccio Centrale
pag. 139
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Presentazione
I
L’oggetto della ricerca
Da questa epoca si afferma un modo di concepire e di realizzare la casa che diventa una costante della cultura europea e si sviluppa e modifica secondo una linea autonoma, che, pur subendo certe influenze, si mantiene libera rispetto alle tradizionali scansioni degli stili e delle epoche della cosiddetta architettura colta; in essa – come si vedrà – vi sono pure aspetti di trasformazione e di evoluzione che appartengono a dimensioni assai differenti. Storia alternativa, come altre ce ne possono essere, sia nel tempo sia nello spazio: le omogeneità e il raggrupparsi delle esperienze e delle forme si svolgono entro contesti che non corrispondono alle perimetrazioni del potere ma sono quelle delle etnie naturali. La trattazione, nei capitoli regionali della seconda parte del volume, segue queste considerazioni e tenta di proporre, a titolo esemplificativo, dieci ambiti territoriali che al loro interno mostrano caratteri di forte omogeneità nella cultura abitare che non sempre, anzi raramente, corrispondono con i confini amministrativi nazionali moderni.
l titolo di questo libro va inteso in un senso estensivo e anche pregnante delle parole che ivi vengono utilizzate poiché la pietra di cui si fa menzione adombra – così nel linguaggio come nell’immagine – il gesto più ampio e misterioso dell’abitare e del costruire e il grande scenario che rappresenta il processo dell’edificare la dimora umana nel mondo. In senso lato si può dire quindi che la ricerca ha voluto cogliere il rapporto che, attraverso l’atto del costruire la casa o il villaggio, l’uomo ha istituito con la natura data, trasformando al contempo la primordiale struttura naturale ma traendo, al di là delle motivazioni funzionali, la misura dell’abitare stesso. Nelle pagine che seguono si è cercato di rappresentare entro un quadro cronologico e geografico ordinato e attendibile, sulla scorta di acquisizioni conoscitive aggiornate, questo fenomeno in quell’area geografica europea dove l’uso della pietra, come materiale simbolico, è più evidente e diffuso; la forma e le caratteristiche delle case sono state messe in relazione con le strutture aggregative della società – la famiglia, la comunità locale e le formazioni sociali popolari – e pertanto si è potuto leggere, in termini non solamente geografici, la logica che sottende alla forma dei villaggi, alla loro distribuzione nel territorio ed alla rete dei collegamenti. Ne è sortito un quadro che collega questi aspetti dell’abitare in una vasta area, appunto quella dell’Europa occidentale, nella quale la valenza simbolica della casa e del villaggio in pietra è in ultima istanza la rappresentazione formale di una cultura e di un sistema di rapporti umani e dell’uomo con la natura, basati su una posizione di solidarietà, nei quali il Cristianesimo rappresenta la matrice esperienziale e ideale, che permane nel tempo a definire in ultima istanza questo volto europeo. L’arco cronologico di questa fioritura è sotteso tra la fine dell’alto medioevo – all’intorno del fatidico anno Mille – e la rivoluzione industriale del Settecento; rare tracce anteriori al Mille ci lasciano infatti intuire – così come è attestato dal Memoratorio di Grimaldo o dagli Editti dell’età di Rotari e Liutprando del settimo e ottavo secolo dopo Cristo – come l’edilizia domestica in pietra si affiancasse, in modo più timido, alle grandi fabbriche religiose, sostituendo progressivamente le precarie strutture di legno o di paglia con i duraturi apparecchi murari di cui i magistri comacini erano diventati esperti realizzatori e divulgatori.
Il metodo L’elaborazione del complesso di materiali, informazioni e dati emersi nel corso di questa ricerca crediamo possa essere oltremodo utile ad avviare un metodo di studio dell’architettura domestica alternativo rispetto a quelli tradizionali, sia di quelli del filone funzionalista sia degli ambiti delle varie definizioni di storia e di cultura materiale. Il superamento della distinzione, ormai consolidata negli studi in materia, tra le forme dell’architettura e dell’urbanistica definita maggiore o colta o monumentale e quelle cosiddette minori o popolari o spontanee – che il funzionalismo architettonico, nel grande alveo del Movimento Moderno, aveva imposto per legittimare alcuni archetipi spaziali e tecnologici – da tempo urge ma, nello stesso tempo, non trova sbocchi storiografici accettabili. Anche la riduzione di tutti i fenomeni che riguardano le trasformazioni dello spazio e dell’ambiente alla loro dimensione materiale e quindi la delimitazione della loro storia all’efficacia deterministica del passato nei confronti del presente, se ha innescato alcune parziali letture archeologiche assai attendibili sotto l’aspetto analitico, ha tuttavia impedito interpretazioni di più ampio respiro.
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In questo quadro assume quindi particolare rilevanza l’affronto sistematico delle testimonianze e delle espressioni e l’indagine approfondita di tutti gli indizi, le fonti e i documenti che riguardano direttamente o indirettamente l’ambito da esaminare, valutati in una prospettiva diacronica. Tutto deve avvenire con l’avvertenza, sempre costante a sorreggere la ricerca, che l’indispensabile bagaglio conoscitivo e di inventario si finalizzi a comprendere il senso della vita che ha dato luogo a tali manifestazioni espressive. Ed è questa la strada per evitare una assunzione ideologica del passato; perché non avvenga di cadere nel rischio di adeguare il nostro progetto al passato o, viceversa, di adeguare il passato alla nostra immagine di sviluppo della realtà, è necessario superare una nozione di storia come coacervo di materiali da interpretare per configurarla invece come sequenza di soggettività con cui stabilire un contatto e un rapporto di libertà; soggettività la cui esistenza è pur sempre consegnata alla vicenda storica attraverso l’impronta che seppero segnare nella realtà della struttura materiale. La storia è capacità di rivivere il rapporto con chi ci ha preceduto nel tempo, attraverso la mediazione delle trasformazioni simboliche avvenute nello spazio e nel tempo. Questo rapporto non è solo di carattere strutturale ma avviene nei termini con cui nasce e cresce ogni rapporto umano: la libertà e la simpatia. Questo atteggiamento porta a scoprire o a privilegiare aspetti che una logica di sviluppo meccanicistico vorrebbe obliterare: “Profondo è il pozzo del passato – dice Thomas Mann nelle Storie di Giacobbe – Non dovremmo dirlo insondabile? Insondabile anche, e forse allora più che mai, quando si parla e discute del passato dell’uomo. Perché appunto avviene che quanto più si scavi nel sotterraneo mondo del passato, quanto più profondamente si penetri e cerchi, tanto più i primordi dell’umano, della sua storia, della sua civiltà, si rivelano del tutto insondabili, e pur facendo discendere a profondità favolose lo scandiglio, via via e sempre retrocedono verso abissi senza fondo... Ma ci sono inizi particolari e circoscritti che formano, praticamente e positivamente, l’inizio primo di una determinata comunità o raggruppamento etnico e religioso, cosicché la memoria, pur consapevole di non poter mai scandagliare l’ultima profondità, può acquietarsi presso questo inizio e ivi segnare, personalmente e storicamente, l’estremo limite delle sue ricerche”.
Ma le architetture che abbiamo analizzate, senza voler anticipare i contenuti dei successivi capitoli, hanno parlato un linguaggio che indubbiamente è da ritenersi più ampio e qualitativamente differente. Anche se il rapporto tra forma e funzione possiamo dire sia sempre rispettato e perciò vi si verifica la correttezza iniziale del presupposto funzionalista in una rigorosa utilizzazione delle risorse, le architetture, e comunque tutti gli spazi realizzati e costruiti dall’uomo, rivelano una precisa intenzionalità simbolica, che va dall’uso del materiale – nel nostro caso la pietra – alla conformazione e distribuzione degli spazi e agli elementi della storia in cui quegli uomini erano immersi e rispetto alla quale esprimevano la propria posizione consapevolmente e non in modo puramente reattivo rispetto all’ambiente. La consapevolezza è consentita, per i temi che trattiamo, nell’aver saputo dar vita a spazi di case e di ambienti lavorativi tali da garantire, o comunque da facilitare, quel tipo di rapporti che, all’interno delle comunità, permettevano in quelle particolari condizioni storiche la tutela della libertà e della dignità umana di ciascuno dei componenti, nella concretezza dello spazio e del tempo. Del resto costituirebbe un’astrazione da ogni limite l’immaginare che tali popoli si siano trovati per tanti secoli accanto al mondo ritenuto e definito colto e raziocinante e non si fossero posti, in un modo o nell’altro, il problema della propria identità rispetto a esso; certo non scrivendo trattati, ma esprimendosi nella pietra della casa e del villaggio. Certamente l’aspetto più rilevante del quadro delle culture popolari – perdurante con queste caratteristiche dal tardo medioevo fino alla recente trasformazione industriale – è legato al mondo rurale e perciò il loro sviluppo è legato alle esigenze, ai tempi e ai modi del processo di produzione agricola e quindi a tutto ciò che evoca la nozione di “vita contadina’’; tuttavia l’analisi dei prodotti di queste società rivelano – così come per la città – l’espressione di intenzioni che, pur inserite in questo scenario, propongono risposte e bisogni che non sono solo quelli di un certo tipo di produzione. Sono questi i bisogni che riguardano l’uomo e la società in quanto tali: quello della libertà, che non è solo libertà istituzionale ma legata alla vita quotidiana; quello della comunione nel rapporto con gli altri uomini, che non è solo contratto sociale ma possibilità reale di scambio, attraverso lo spazio e il tempo; quello della domanda sulla propria origine e sul proprio destino, che non è solo ritualità magica ma necessità di dare significato alla vita di tutti i giorni, radicandola all’oggettività dell’essere. La stretta connessione con le condizioni di vita date e il rispettoso uso di tutte le risorse in funzione della sopravvivenza non devono confondere i modi dell’interpretazione storica a far intendere la cultura popolare come da esse riduttivamente determinate. La cultura non è un prodotto materiale ma è il rapporto tra l’orizzonte delle intenzioni nelle quali si inserisce la coscienza umana e le condizioni date.
L’organizzazione del lavoro L’argomento che viene presentato in questo volume ha avuto origine da una ricerca monografica sull’abitare storico dell’entroterra della Liguria, iniziata nel 1977-78 nell’istituto di Storia dell’Architettura dell’Università di Genova e pubblicata in Langé S., Citi D., Architettura e Comunità di villaggio. L’esperienza storica del Levante Ligure, (Milano, Jaca Book, 1985). La serie di riferimenti e di connessioni che si comincia-
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A questi aspetti più prossimi si deve aggiungere una ancor più ampia consuetudine di lavoro sui problemi della storia dei popoli, iniziata con Massimo Guidetti nel 1973 presso l’istituto di Studi per la Transizione di Milano (istra), intesa alla ricerca dei fattori costitutivi dell’identità europea, e realizzata in particolare sui temi della vita quotidiana e della mentalità delle popolazioni contadine, e sulla comunità di villaggio, l’istituzione sociale che per secoli è stata una delle basi portanti della civiltà europea, oltre che, ovviamente, dell’edilizia qui rappresentata. Si ringraziano tutti gli enti e gli studiosi che hanno collaborato: in particolare si ringraziano tutte le numerose persone residenti nei villaggi, oggetto dell’indagine, che aprendo cordialmente la loro casa e testimoniando a viva voce la vicenda delle pietre nelle quali sono ospitati, hanno reso vivente una storia che è storia di uomini e non collezioni di oggetti.
vano a intravvedere è stata esposta inizialmente nella mostra Popoli e Architettura dell’Occidente Europeo, a cura di Langé S., Citi D., Merisio P., Meschini G., testimoniata da un ampio catalogo illustrato con testo critico (l.c.a. Editrice, Milano, 1983). Si insiste in particolare sulla funzione anche strumentale dei materiali disponibili nella consapevolezza che esistono ancora spazi vastissimi di indagine per una storia dell’abitare in Europa ed è indispensabile proseguire sul doppio binario degli approfondimenti filologici e archeologici a livello locale da una parte, con continui riferimenti al quadro generale degli scambi tecnologici e culturali dall’altra; lavoro aperto ma non impossibile se non ci si rinchiude negli a-priori metodologici delle scuole di settore che limitano gli orizzonti invece che aprirli. Negli ultimi anni, seminari, scambi culturali e dibattiti hanno confermato l’ipotesi di connessioni ben precise nell’ambito delle espressioni dell’architettura e dell’urbanistica europea, ipotesi che vanno oltre alle concezioni che la letteratura di settore assegna al tema del minore o del popolare – ritenuto espressione di condizionamenti abitativi locali e di una tradizione quasi inconscia e comunque non acculturata dell’abitare. Tali nuovi aperture spingono a ritrovare rapporti, intuizioni e scambi in un’area più vasta, in una connessione più precisa con il nascere e il consolidarsi della autocoscienza delle etnie europee. Nello svolgimento di questa indagine hanno costituito un indubbio e utile riferimento tutti gli studi esistenti di carattere etnostorico, antropologico e sugli insediamenti e la dimora, che vengono citati nei testi, più abbondanti per alcune aree regionali, più scarsi o addirittura rari per altre; tuttavia si è ritenuta prioritaria e fondamentale l’indagine sul campo che, se in qualche caso ha confermato ambiti territoriali e itinerari già individuati, spesso ha suggerito ampliamenti di orizzonti, nuovi rapporti e anche scoperte e rivelazioni del tutto inaspettate. Le aree e le località descritte nel testo quindi sono state tutte visitate e indagate, così come sono state percorse le grandi vie storiche europee: in questo contesto metodologico l’annotazione ed il rilievo grafico e fotografico ha costituito uno strumento di lavoro indispensabile. Il materiale fotografico, prima ancora che l’occasione per una più o meno bella illustrazione, ha rappresentato l’archivio di immagini sulle quali elaborare il discorso: per questo motivo esse sono state scattate direttamente, in particolare da Santino Langé con la collaborazione di Vanni Meschini, per la Penisola Iberica, la Francia centro-settentrionale, l’Inghilterra, le Alpi Centrali, la Penisola Balcanica e la Grecia; da Duilio Citi per la Francia centro-meridionale, le Alpi orientali, l’Appennino e le Isole; tale archivio, ben più ampio del numero delle fotografie pubblicate, vuole costituire il nocciolo di una documentazione di un corpus edilizio in via di estinzione o di rapida trasformazione, soprattutto nelle zone maggiormente interessate dagli sviluppi territoriali metropolitani.
Avvertenze: Le regioni campione studiate sono oggetto di un capitolo contenuto nella seconda parte (capp. i-x) del volume. La loro area è ravvisabile all’interno del contesto europeo nella corografia generale alle pagg. 10-11. Nelle mappe analitiche che precedono ogni capitolo sono indicate con punti tondi neri le località visitate e documentate in funzione della presente ricerca: esse sono collocate nella rispettiva circoscrizione amministrativa di cui si dà elenco.
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1-10 aree sviluppate nei capitoli regionali con più ampia mappa introduttiva fascia di transizione tra la predominanza della pietra e quella del legno
SOUTHAMPTON
principali rotte marittime percorsi per terraferma
PARIS
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MONT ST. MICHEL
VEZELAY
LA ROCHELLE
7 GENEVE
5 LE PUY
SANTIAGO
1 SALAMANCA
ASTORGA
2
OSTABAT
PARMA
LYON
6
VERCELLI
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BARCELONA
VITERBO ROMA
8
COSTANTINOPOLI
RAGUSA
SIENA
7 3
AQUILEIA
GENOVA
AIUGUES MORTES
PUENTE LA REINA JACA
TRIESTE
MILANO
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MONTE SANT’ANGELO
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NAPOLI
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10 SIRACUSA
ATENE
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GERUSALEMME
Europa sedentaria ed Europa in cammino 1. Premessa
2. La mobilità
a struttura del paesaggio europeo non urbanizzato è in gran parte conseguente allo sviluppo agricolo e insediativo avvenuto dopo l’anno Mille; ed è quella che, a partire dalle preesistenti e importanti polarizzazioni dell’età romana conservate nel mondo carolingio, rimane come impronta del territorio e forma del paesaggio persistente fino agli anni dello sviluppo industriale. Ancora oggi tale conformazione continua a costituire il substrato ambientale di un mondo in rapida trasformazione, del quale non conosciamo quale sarà l’esito dello sviluppo in atto: sappiamo solo che, se questo processo non terrà conto di tale substrato, ogni nuovo inserimento avverrà sempre più in modo traumatico e contraddittorio e mai come sedimentazione costruttiva. Le componenti che in questo sviluppo si possono mettere in evidenza sono due: la rete delle comunicazioni e della mobilità da una parte, le strutture dell’insediamento e del lavoro stabile dall’altra. Le prime si riferiscono ai due aspetti della mobilità medioevale: quella religiosa e quella mercantile; le seconde si riferiscono agli aspetti del lavoro e dell’insediamento: sono le due dimensioni della trasformazione del paesaggio sia sotto l’aspetto dello sviluppo delle colture del suolo, sia del manifestarsi dei rapporti sociali attraverso la localizzazione dei centri insediativi dai più piccoli ai maggiori. È opinione comune – anche tra gli studiosi – che queste due dimensioni siano appartenute a due sfere non comunicanti. La struttura delle comunicazioni e delle più importanti polarità urbane rappresenterebbe infatti il luogo dello sviluppo della cultura e delle acquisizioni – secondo le leggi di sviluppo che regolano la storia – mentre gli aspetti della vita quotidiana e della stabilità costituirebbero ciò che non entra nella dimensione dello scambio e del confronto a una scala adeguata; sarebbero quindi l’espressione di usanze locali e di reattività alle condizioni naturali: non parteciperebbero alla formazione della coscienza civile alla scala europea e al più si potrebbero valutare positivamente solo per alcuni loro aspetti di aderenza funzionale ai bisogni. Le pagine che seguono vogliono dimostrare che questo schema di lettura è riduttivo anche in una sua declinazione antropologica, e che la distinzione tra i due livelli della storia insediativa in Europa non ha più significato1.
L’Europa occidentale è sempre stata teatro di scambi assai intensi che hanno coinvolto allo stesso modo tanto la sfera dei potenti quanto quella del popolo fino agli strati sociali più umili, contribuendo alla formazione di una cultura unitaria che solamente le astratte divisioni di frontiera degli stati dell’età moderna, consolidate a partire dalla fine del xvi secolo, hanno interrotto o frazionato. Certamente la dinamica dello scambio ha, allo stesso modo del sistema insediativo, un forte incremento dopo l’anno Mille, ma le direzioni e i canali principali restano quelli dei secoli precedenti, che si potenziano e si completano anche grazie alla rimozione di impedimenti oggettivi, quali soprattutto la presenza islamica nella penisola iberica e nell’area provenzale, delle Alpi Marittime e Occidentali fino al Monte Bianco. Nell’analisi del sistema delle comunicazioni medioevali è sempre assai difficile distinguere le motivazioni: le spinte mercantili e dello scambio dei prodotti – da quelle legate alla distribuzione di generi alimentari fondamentali come il sale, al settore dei manufatti, primo fra tutti il panno – si legano sempre strettamente alle motivazioni culturali e religiose che muovono clerici e pellegrini a varcare le montagne e ad attraversare le pianure spinti dalla nuova molla missionaria e dal desiderio di conoscere. Nel medioevo ormai maturo del xiii secolo si costituisce e si consolida, a grandi linee, quello che possiamo considerare l’assetto pressoché definitivo della viabilità europea, destinato a durare a lungo, fino alle soglie della rivoluzione industriale, e imperniato su un asse ideale collegante tra loro le grandi polarizzazioni di Santiago de Compostela, Gerusalemme e Roma: ultima frontiera verso l’Occidente il primo, riferimento ideale all’Oriente come origine, il secondo; centro della cristianità sotto il profilo religioso e culturale il terzo2. I percorsi materiali che si intessevano tra queste polarità erano complessi e a volte variabili, sia perché dovevano tener conto degli ostacoli naturali, quali i grandi monti alpini e pirenaici e le non sempre facili rotte per mare, sia perché era necessario di volta in volta avere presente il quadro degli avvenimenti politici e militari per evitare i pericoli provocati direttamente dagli uomini. Così, anche se la forza della presenza islamica in Spagna si andava affievolendo a partire dal x secolo, le vie che dal resto d’Europa conducevano a Santiago de Compostela si tenevano
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Europa sedentaria ed Europa in cammino a essi si aggiunse l’apertura del San Gottardo (sec. xiii) che rese ancora più spediti e diretti i percorsi verso Zurigo, Basilea e la valle del Reno. La via Emilia, con la successione dei grandi centri di origine romana, poi rinnovatisi come liberi comuni nel medioevo (Piacenza, Fidenza, Parma, Modena e Bologna), fungeva da asse di raccolta e di ulteriore smistamento verso i numerosi passi appenninici, primo fra tutti la Cisa (Mombardone) che immettevano nella Toscana e nell’Umbria, per poi raggiungere Roma; qui le varianti si moltiplicavano, ed anche se rimane, per questo percorso, il termine generale di via Francigena, le possibili alternative sono difficili da ricostruire nel loro assieme6. Roma, pur nella sua importanza fondamentale, non costituiva tuttavia quello che oggi potremmo chiamare il “capolinea” della viabilità occidentale; altre mete nella stessa penisola italiana urgevano il pellegrino e il commerciante. Per i primi il Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo sul Gargano costituì sempre una meta complementare alla visita romana, essendo idealmente legato agli altri santuari dedicati al culto dell’Arcangelo, a Le Puy, a Mont-Saint-Michel, e ad altri minori come nelle Asturie. Sia per i pellegrini che per i mercanti da Roma era ragionevolmente facile poi raggiungere i porti pugliesi e quindi gli imbarchi per Gerusalemme7. Il grande movimento verso l’Oriente, iniziato con i viaggi commerciali delle Repubbliche Marinare italiane, divenne un vero e proprio fenomeno di massa con le Crociate e si protrasse, con enorme vigore, fino alle soglie del xvii secolo, svolgendosi per lo più lungo rotte marittime e solo più raramente attraverso il lungo itinerario balcanico che, facendo tappa a Bisanzio, proseguiva poi attraverso l’altopiano anatolico fino alla costa siriana di Antiochia. Gli scali europei convogliavano pellegrini e guerrieri a Gerusalemme soprattutto concentrandoli nel porto di San Giovanni d’Acri8, ma nello stesso tempo erano tramite di intensi scambi commerciali e di un fenomeno di colonizzazione di intere regioni della penisola ellenica e delle isole e coste mediterranee orientali. Le navi catalano-aragonesi, che muovevano da Barcellona, quelle franche dai porti provenzali (Aigues-Mortes), e poi i Genovesi, i Pisani e i Veneziani danno vita ad un sistema di rapporti di cui l’intero bacino del Mediterraneo è teatro e che vede lo sviluppo di regni e principati, di scali commerciali e di trasmissione di tradizione religiosa e culturale dall’Occidente all’Oriente e viceversa, quale mai si avrà, in modo così intenso, dopo gli irrigidimenti politici conseguenti al definitivo consolidamento dell’impero turco da una parte, e dei grandi stati nazionali dall’altra, sistema ormai concluso nell’ambito degli scambi mediterranei, del quale la battaglia di Lepanto costituì il sintomo rivelatore più evidente9. Attorno ai nodi principali di questo grande sistema di mobilità e lungo le tappe più significative si strutturarono, a partire dall’età carolingia, gli insediamenti monastici e tutta l’organizzazione per l’assistenza e l’ospitalità10, dai centri maggiori a quelli più remoti ed oggi quasi irriconoscibili. A essi, per iniziativa locale, si aggiunse tutta una più minuta rete di sta-
bene al nord nella penisola iberica; esse sfruttavano, per varcare i Pirenei, i passi più vicini alla costa atlantica, nel cuore dei Paesi Baschi, tra i quali il più frequentato è stato senza dubbio quello di Roncisvalle; meno frequenti i passaggi per i passi più orientali, tra i quali comunque erano assai attivi quelli di Somport e della zona di Andorra che facevano capo a poli importanti sul versante francese, radunandosi poi le strade provenienti da questi passi appena ad ovest di Pamplona. A Puente-la-Reina, la via proseguiva unitaria – fatte salve le piccole varianti – per Burgos, León, Astorga, il passo del Cerredo, Lugo e Santiago. Questo asse vide lo scorrere del grande movimento dei pellegrini dal x secolo in poi, ma fu anche la strada principale di collegamento della Spagna latina al resto dell’Europa, come percorso amministrativo, commerciale e culturale. In terra francese il sistema viario diventa più complesso, poiché costituisce come un doppio sistema volto da un lato verso il “cammino” di Santiago e dall’altro verso i valichi alpini sulle strade per Roma; inoltre raccoglie dalle coste settentrionali il flusso delle isole britanniche in corrispondenza degli approdi del Golfo di Biscaglia (La Rochelle), della Manica (Mont-Saint-Michel) e del Passo di Calais3. Le vie per Roma invece avevano come meta intermedia alcuni passi alpini obbligati e assai impervi: di essi i più usati da sempre erano il Moncenisio, che collegava più facilmente con il centro e l’ovest, e il Gran San Bernardo, che raccoglieva più direttamente le strade del nord attraverso la regione del Lemano. Accanto a questi passi principali, furono variamente frequentati in epoche successive alcuni colli delle Alpi Marittime e Cozie (Tenda, Argentera, Maddalena o Larche, il Monginevro, il Piccolo San Bernardo e soprattutto il Sempione, che costituiva un’alternativa del Gran San Bernardo, attraverso la valle di Sion, permettendo lo sbocco diretto verso Milano4. La sutura tra i percorsi delle Alpi e quelli dei Pirenei avveniva preferibilmente attraverso il Massiccio Centrale; tali strade, muovendo da Lione – punto storico di raccordo degli itinerari provenienti da oriente e grande mercato merceologico e finanziario – o più da nord, dalla Borgogna, attraverso Clermont-Ferrand si congiungevano attorno a Le Puy per poi dirigersi verso Tolosa e i passi centrali pirenaici: la prima è ricordata col nome di via Bolena, la seconda come via Regordana5. A questi percorsi più centrali e più antichi si affiancò, con uno sviluppo più accentuato durante la permanenza dei Papi ad Avignone, un percorso trasversale più meridionale che, avendo come riferimento il passo alpino del Monginevro, percorreva la Provenza centrale e la Languedoc, raggiungeva la storica regione catalana, comprendente il Roussillon e parte dell’Ariège, per procedere direttamente verso Barcellona oppure a riprendere, passando per Tolosa, la via verso i Paesi Baschi. In Italia, la Pianura Padana raccoglieva le ricordate strade francesi, ma anche quelle provenienti direttamente dall’area germanica, attraverso i passi delle Alpi Centrali, del San Bernardino, Lucomagno, Spluga e il facile valico del Brennero;
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e terrazzamenti non potevano essere ripagate se non in una previsione di lunga utilizzazione. Dalla boscosa e selvaggia Europa dell’alto medioevo, che aveva quasi dimenticato e obliterato, anche là dove comunque avevano fatto la loro a volte sporadica apparizione, i segni della colonizzazione e della centuriazione romana, nasce il paesaggio agrario moderno che, salvo varianti minori, è ancora quello odierno o comunque quello che soggiace – impronta indelebile – anche a tutti i tentativi di compromissione dell’età industriale. La crescita demografica dopo il Mille, accentuatasi ancora più marcatamente dopo le devastazioni della peste nera del xiv secolo, ha provocato il progressivo e sistematico utilizzo di tutte le risorse ambientali, fino alla saturazione del xviii secolo: dapprima in fase di entusiastica espansione, poi di consolidamento metodico, la comunità rurale in questo arco di tempo mette a punto metodi culturali sempre più perfezionati adeguandoli alla propria strutturazione istituzionale. Certamente alcune modifiche, in alcune regioni anche profonde, si sono succedute nel tempo: basti pensare alle trasformazioni colturali dovute all’introduzione di prodotti provenienti dall’America, come il mais o la patata; oppure all’estensione, in alcune regioni quasi a carattere monocolturale, della vite e della produzione del vino, capace di dar luogo a tipologie edilizie e urbane del tutto particolari (maison vigneronne della Borgogna); o infine alla grande trasformazione dei campi coltivati (per lo più nella forma dei long-fields) in praterie per il pascolo ovino e bovino, che ha avuto come teatro soprattutto l’Inghilterra e la Francia settentrionale a partire dalla fine del xvi secolo e che ha portato alla scomparsa di innumerevoli villaggi di fondazione medioevale15. Tuttavia, al di là di queste trasformazioni particolari e caratteristiche di ogni singola regione storica, si può delineare – con alcune varianti principali – una immagine generale dell’uso del territorio abbastanza comune per tutta l’Europa occidentale, soprattutto per le regioni a caratteristiche collinari e montane che, più di altre, hanno mantenuto nel tempo l’impronta dovuta alla presenza di insediamenti a ordinamento comunitario. La caratteristica saliente di ognuno di questi ambiti territoriali è rappresentata dall’organica promiscuità delle aree utilizzate da ciascun villaggio o da un insieme di essi. In rapporto alle condizioni climatiche proprie di ogni regione, il sistema insediativo tendeva a poter disporre di un ventaglio completo di aree colturali – seminativo, bosco, pascolo e così via – sia per il conseguimento dell’autonomia economica, anche quando uno o più settori produttivi potevano diventare merce di scambio, sia in funzione della ottimizzazione dell’uso delle risorse entro un quadro di sfruttamento duraturo nel rispetto dell’ambiente16. Il villaggio stava quasi sempre in prossimità del seminativo o delle colture orticole; sul fondovalle – quando questo era sufficientemente ampio ed esente da inondazioni o da formazioni acquitrinose – oppure più frequentemente a mezza
zioni di posta, locande, botteghe, soprattutto in corrispondenza delle strade di valico, dove operavano compagnie di guide specializzate, quali i marrones del Moncenisio o i cavallanti del Sempione11, mentre su altri percorsi l’assistenza, soprattutto per i pellegrini, era assicurata dagli ordini religioso-militari, originati dopo la conquista di Gerusalemme, tra i quali i più attivi furono i Templari12. Su queste strade correvano la cultura religiosa e profana dei clerici, l’arte dei cantori e dei poeti di corte, ma anche l’esperienza e la tecnica della vita quotidiana – come quella legata alla trasmissione di nozioni sulla coltura dei suoli e comunque della vita rurale, sui modi di produzione dei manufatti, sulla lavorazione dei materiali da costruzione e sulle tipologie edilizie – più o meno accompagnantesi con il grande movimento – sia in senso proprio che traslato – del monachesimo benedettino, cluniacense, cistercense o di tutti gli ordini ad essi assimilabili. Poiché – e questo è importante da sottolineare – i nodi della maglia delle comunicazioni diventavano i poli dello sviluppo della cultura popolare e quotidiana locale, coinvolgendo non solo la cultura della città, che costituisce uno dei poli privilegiati della rete, ma anche e soprattutto della campagna, che la tradizione storiografica dall’Ottocento ha considerato luogo di emarginazione. Così si formano le grandi culture popolari – ed escludiamo, nell’usare questo termine, qualsiasi sfumatura di subalternità – delle Alpi e dei Pirenei, del Massiccio Centrale e della Cordigliera cantabrica, ma anche quelle più variamente intessute con le presenze urbane della Galizia e del Portogallo, di Normandia e Bretagna, della Provenza e dell’Appennino ligure e toscano ed anche di Dalmazia e Grecia.
3. La stanzialità rurale Anche il mondo rurale medioevale non può essere considerato stanziale in senso assoluto, sia per quanto riguarda la dinamica della sua formazione sia per gli aspetti di comportamento nella vita quotidiana. La presenza in esso di membri svolgenti attività non solamente rurali, spesso concentrate in particolari periodi dell’anno; la necessità di collegamento coi centri principali; soprattutto la pratica del pellegrinaggio che alla piccola scala locale o alla grande scala europea, già ricordata, interessava tutti13, facevano sì che la circolazione delle idee e delle esperienze coinvolgesse i più ampi strati sociali. Quando si parla della stanzialità si vogliono quindi far emergere gli aspetti propri delle trasformazioni del territorio rurale e insediativo, più che una modalità d’essere delle popolazioni rurali rispetto a quelle urbane o mercantili14. Certamente il progressivo sviluppo e l’affinarsi delle tecniche rurali dopo il Mille portarono a un progressivo radicamento alla terra dei popoli europei, spesso ancora animati da un mai sopito spirito nomade originario. Ma ovviamente le fatiche sostenute per i grandi disboscamenti e per i dissodamenti
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Europa sedentaria ed Europa in cammino veri e propri, realizzati nei punti più soleggiati e su terreno conformato a terrazze, con una grande varietà di sistemi di coltivazione ai quali si accompagnavano anche diversissimi accorgimenti architettonici per il sostegno, con pilastri in mattoni, colonnine in pietra, pali e travi variamente fissati ai muri dei terrazzamenti, mediante mensole o anelli; e ancora forme miste con alternanza di viti e alberi tutori di altra natura, come olmi e gelsi. Al di sopra delle colture legnose stanno quasi sempre i prati da foraggio e i maggesi, destinati a fornire il nutrimento del bestiame per la stagione invernale: spesso questi prati, quando sono a ragionevole distanza dal villaggio, ospitano le stalle permanenti oppure stalle intermedie che vengono utilizzate nella stagione primaverile o autunnale. Infine i due aspetti delle terre di più difficile utilizzazione per altura o acclività: il pascolo e il bosco. La tendenza a ridurre il più possibile le terre a coltura ha provocato, anche a partire dal medioevo, disboscamenti eccessivi ma comunque frenati dall’esigenza di avere sempre a disposizione sufficiente legna per il riscaldamento invernale e legname per le costruzioni: il bosco ceduo o d’alto fusto restò comunque confinato o nei fondovalle più impervi e meno assolati o sulle pendici più ripide e sui versanti meno utilizzabili dei monti, poiché, quanto più era possibile, si disboscava per usare i terreni a prato e a pascolo. Sia l’insieme dei boschi sia quello dei pascoli rappresentavano per lo più il patrimonio comune dei villaggi (allmenden, communaux, comunaglie) e venivano gestiti dalle comunità secondo usi e ordinamenti assai precisi che riscontriamo anche negli statuti scritti che appaiono a partire dal xiii secolo18. Ogni regione storica, così come sarà più avanti descritto, mostra varianti e interpretazioni particolari di questo schema, in rapporto alle condizioni climatiche e altimetriche e in connessione alla tradizione istituzionale e alle vicende storiche delle popolazioni insediate. Così nelle estensioni leggermente ondulate della Normandia e dell’Inghilterra predomina la dimensione colturale dei campi aperti e allungati, a seminativo cerealicolo e legati all’impiego organico e coordinato di consistente forza lavoro residente in grandi villaggi19. Gli altri tipi di colture sono marginali, e anche l’allevamento del bestiame avveniva sulle terre coltivate, durante il periodico turno di riposo. Là dove invece la natura del suolo è più accidentata ma al contempo con un clima temperato tale da consigliare un più ampio ventaglio di utilizzazione, predomina il sistema misto che unisce ai campi chiusi coltivati a cereali o a prato, il pascolo comune nelle parti di terreno più elevato, come è avvenuto nelle regioni collinari di Galizia, Paesi Baschi, Bretagna, Provenza, Italia centro-settentrionale. Sono queste le regioni che presentano la più varia utilizzazione del suolo, e nelle quali i prodotti del seminativo, delle legnose e dell’allevamento ovino o bovino si svolgevano senza preponderanze dell’una sull’altra; sono anche le aree nelle quali si verificava
costa o su poggi riparati o soleggiati. La disponibilità d’acqua, preferibilmente sorgiva ma anche da attingersi dai pozzi, era elemento indispensabile comunque per la vita personale e per l’irrigazione, e quindi privilegiava per lo più l’insediamento di mezza costa dove la rottura degli strati geologici facilita l’affioramento naturale delle falde acquifere. Salendo in quota, spesso in contiguità con il villaggio stesso, si trovano quelle colture legnose da frutto di varia natura, oggetto di particolari cure per i prodotti complementari a quelli del seminativo, ma altrettanto indispensabili nell’economia medioevale e post-medioevale. Tra di essi una delle più diffuse e tipiche dei sistemi collinari e anche montani è la coltura del castagno da frutto, risultante da innesti appropriati e sapienti, e oggetto di attenzioni colturali particolari quali potature, concimazioni e pulizia del sottobosco17. Dalle castagne prodotte, attraverso l’essiccamento che si svolgeva in locali appositi e spesso addirittura in edifici isolati costruiti a questo solo scopo, si ricavava una farina in grado di sostituire in modo complementare quelle prodotte dalle colture cerealicole. Diffusa in vaste aree dell’Europa occidentale e dei Balcani, la coltura del castagno da frutto, che si realizza per lo più su gradonamenti di riporto, è concentrata soprattutto nel Portogallo settentrionale; in Galizia, nelle Asturie o nel León; nel Massiccio Centrale francese, in vaste zone della catena alpina; nell’Appennino tra Toscana, Liguria ed Emilia; nelle regioni balcaniche della Slovenia e della Croazia ai confini con il Friuli e l’Istria. Assai diffusa anche la coltivazione di alberi da frutto, tra i quali predomina il melo, il cui frutto può essere trasformato in un prodotto durevole, come il sidro; soprattutto nelle regioni atlantiche, dove il vigneto non trovava un clima ideale, il sidro rappresentò la bevanda tradizionale, sulle coste della penisola iberica settentrionale (Asturie, Paesi Baschi), della Francia (Finisterre, Calvados), nelle Isole Britanniche e anche in alcune regioni italiane dell’Appennino settentrionale ligure-emiliano. La spremitura delle mele avveniva all’aperto in ampi canali circolari di pietra, all’interno dei quali correvano le macine, che si trovano ancora assai diffusi nella Bretagna francese. Infine le colture legnose tipiche delle zone temperate e in particolare dell’area mediterranea: la vite e l’olivo. Complementari alla struttura del villaggio fino al xvii secolo, concepiti per l’integrazione delle risorse locali, diventano progressivamente dal Settecento un prodotto di scambio sempre più ricercato e quindi oggetto di coltivazione estensiva che sostituisce il seminativo. Ogni casa e ogni villaggio aveva, fin dove le condizioni climatiche lo permettevano, la propria vite: spesso appoggiata al muro della casa, a volte a svilupparsi e a dare frutto sopra il tetto utilizzato come un solarium, a volte a formare pergolati nelle vie del villaggio, come avviene in modo straordinariamente suggestivo a Lindoso, presso il confine tra Portogallo e Galizia. Il più delle volte si trattava però di vigneti
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I grandi percorsi di migrazione stagionale degli Aromuni20, i popoli pastori della penisola balcanica meridionale, si svolgevano dalle coste albanesi del Mare Adriatico e del Canale d’Otranto, fino a quelle del Mare Egeo, con un punto di riferimento estivo sui monti del Pindo e della Macedonia interna, dove avevano i loro grandi villaggi. Lo stesso sistema di spostamenti avveniva dall’entroterra montuoso alla costa per l’Italia centro-meridionale (Abruzzo, Molise e Campania), per la Francia mediterranea (Provenza e Delfinato) e la Spagna atlantica (Asturie); ancora più complessi i movimenti di greggi nelle isole Britanniche e in Irlanda, legati in origine a forme di nomadismo quasi perenne21.
un maggiore equilibrio tra proprietà privata e proprietà collettiva, e quindi ove complesse erano le articolazioni nell’espressione dei diritti, nel rapporto tra la famiglia e il villaggio. E in queste regioni che, sui terreni in pendio, si sviluppa in modo più articolato e diffuso il sistema dei terrazzamenti o comunque di tutti i sistemi di riporto e modellazione del terreno, con annesse irreggimentazioni dei corsi d’acqua, che hanno modificato il paesaggio europeo, facendone un fatto simbolico della volontà di messa a coltura. La costruzione di un terrazzamento agricolo, che a seconda delle zone può assumere anche il nome di “fascia” o di “piana”, avviene a partire dalla liberazione e messa a nudo della roccia viva. Il materiale asportato si deposita alla sommità dell’appezzamento da bonificare e si comincia, dal basso, a costruire il primo muro di contenimento in pietrame senza alcun legante; dopo un iniziale corso di scapoli di pietra, inclinato sensibilmente verso l’interno, si riempie il vuoto creato con il materiale di scarto, il quale viene accuratamente battuto e costipato; così per tutti i corsi successivi fino a raggiungere l’altezza voluta. L’ultimo strato è formato da terra setacciata e ripulita, che costituisce l’humus vero e proprio e che ha uno spessore variabile dai 25 ai 40 cm. L’altezza dei muretti a secco varia a seconda della pendenza e dell’ampiezza della superficie che si vuole realizzare. La coltivazione su fasce terrazzate comporta, obbligatoriamente, una doppia attività da parte dell’operatore, il quale deve associare, assieme alla messa a coltura e alla cura del patrimonio vegetale, anche una continua ed intensa opera di manutenzione delle murature di contenimento che solitamente viene svolta durante la stagione invernale. Contrariamente a altre metodologie agrarie tradizionali su terreni in forte acclività, come ad esempio il gradonamento o il rittochino, questa delle fasce terrazzate permette di ricavare una più ampia superficie completamente pianeggiante e di convogliare le acque attraverso una complessa rete di canali di scolo e di fossatelli spesso anche sotterranei. Infine nelle regioni a quota più elevata, alpine e pirenaiche, si impone come prioritario il sistema dell’allevamento che, soprattutto se si rivolge a razze bovine da carne e da latte, richiede una sistematica organizzazione delle fasce di utilizzazione della montagna alle diverse quote, in particolare con il potenziamento delle colture a prato di mezza montagna, sui versanti più acclivi (maggesi), destinati a fornire il miglior foraggio per la stagione fredda. I pascoli alti, utilizzabili solo nei pochi mesi caldi, consentivano di radunare tutte le bestie del villaggio sotto il controllo di poche persone e di rendere liberi gli uomini del villaggio per le cure della fienagione, dei raccolti e di tutte le incombenze da svolgersi nella buona stagione. Più semplice nella sua strutturazione era l’allevamento ovino, basato sull’utilizzazione di pasture estive e invernali in zone climaticamente favorevoli ma più spesso poste a grandi distanze. Il sistema – che non necessita di accumuli foraggieri – era sostanzialmente basato sulla transumanza legata a vie fisse, battute dalle greggi (tratturi) da percorrersi annualmente.
4. Le articolazioni insediative Il quadro generale del popolamento in Europa negli anni a cui ci riferiamo è, seppure con una certa variabilità nel tempo, assai più omogeneo ed equilibrato di quanto se ne possa oggi avere la percezione. L’equilibrio ancora sufficientemente stabile tra attività agricola e mercantile-manifatturiera, se pure evidenzia progressivamente il ruolo particolare della città nel sistema degli scambi, pone la campagna come reale alternativa, anche dal punto di vista demografico, rispetto alla città stessa. Il sistema territoriale tuttavia è assai complesso e sfugge alla semplicistica antitesi tra città e campagna, con una articolazione multiforme che si complica nel breve volgere dei secoli del medioevo centrale (xi-xiv sec.). Lo schema semplice e primitivo del mondo feudale carolingio presenta una struttura territoriale abbastanza elementare, nella quale una popolazione rurale ancora in fase incerta di stanzialità, con insediamenti a volte assai precari, si struttura con riferimento a poli di colonizzazione del territorio. Di essi, i più significativi sono i monasteri della tradizione benedettina antica in tutte le loro varianti, promossi dal movimento monastico, ma utilizzanti le terre in quanto trasmesse dal diritto regio, mentre la struttura insediativa feudale con castelli e torri – spesso coincidenti con la localizzazione delle città del mondo antico, assai ridotte come consistenza demografica ed economica – svolge un ruolo di controllo ma non di propulsione dello sviluppo civile. Il rapporto che unisce la comunità insediata che svolge attività quasi esclusivamente rurali è fondato sulla persistenza del vincolo tribale22, legato alla tradizione orale (fabula o fabula inter vicinos). Esso però si evolve nel rapporto feudale con il dominus loci e si sviluppa con caratteri di autonomia e potere contrattuale variabili in rapporto al tipo di signoria esercitata ed alla forza e consistenza della comunità storica stessa. Quindi si configura molto diversamente da regione a regione e ripropone addirittura strutture e legami che risalgono a tradizioni precedenti alla colonizzazione romana. La situazione insediativa generale si articola enormemente a partire dall’xi secolo entro un quadro di fattori concomitanti tra i quali prio-
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L’organizzazione sociale delle campagne Massimo Guidetti carattere di comunità domestica allargata per configurarsi secondo il modello – urbano appunto – mononucleare. La campagna invece, intessendo un rapporto autonomo e dialettico allo stesso tempo con la città, sviluppa modelli del tutto autonomi o intermedi soprattutto nei casi dei centri di mercato rurali, spesso risultanti da un atto diretto di fondazione del signore, oppure nelle forme di villaggio fortificato (bastide, ricetti, borghi compatti, ecc.) dove, se l’attività degli abitanti è a sfondo rurale, la logica dell’insediamento corrisponde a criteri geo-strategici di altra origine. Il villaggio rurale vero e proprio, nelle sue varianti morfologiche, che si esamineranno più avanti, nasce in rapporto stretto con le risorse ambientali e si sviluppa progressivamente, anche come localizzazione, in rapporto alla possibilità di messa a coltura dei suoli grazie ai disboscamenti, alle bonifiche e alla conquista delle terre alte durante il processo di colonizzazione espansiva perdurato dal xi al xvi-xvii secolo. La sua organizzazione sociale – basata su una famiglia che vuole conservare ed esprimere molteplici legami parentali – e il tipo di attività che richiede un rapporto diretto con l’ambiente e quindi una integrazione con spazi liberi, ampi e facilmente modificabili nel tempo propongono un modello insediativo, all’apparenza casuale, in realtà più complesso e articolato di quello urbano e la cui genesi concettuale è nell’attenzione continua e nella cura che la comunità del villaggio poneva continuamente alla crescita del proprio insediamento, che risulta quindi frutto di una razionalità urbanistica che si svolge nel tempo e – a differenza di quella urbana – non appare in forme di lottizzazione prefissate a priori.
ritari sono: l’incremento demografico, il progresso delle tecniche rurali e manifatturiere, l’incremento degli scambi. Questo sviluppo diviene tumultuoso e massiccio tanto che neppure la grande epidemia della peste nera, che sterminò città e campagne in tutta Europa, e la guerra dei Cent’Anni, alla metà del xiv secolo, riusciranno a fermarlo, dando luogo nella seconda metà del secolo ad una ripresa economica ancor più vivace che nei secoli precedenti, che trova il suo compimento solo alla metà del xvi secolo23. La dinamica di questo processo di sviluppo tocca tanto gli insediamenti a carattere mercantile e produttivo, quella che in genere definiamo città, quanto gli insediamenti a sfondo prevalentemente rurale, cioè la campagna. La città, nella forma istituzionale del comune libero o nell’istituto signorile, cresce urbanisticamente secondo un processo di pianificazione razionale, più o meno espresso in ordinamenti scritti, a partire dalla cellula minimale abitativa costituita dalla casa del mercante o dell’artigiano, accostata in schiere, a formare isolati compatti24. La definizione geometrica del sedime abitabile (il cosiddetto lotto gotico) dalle dimensioni e dalle forme rigorose, permetteva di programmare la città come assieme di quartieri o sestieri risultanti dalla semplice addizione, lungo gli assi stradali principali, di edifici rigorosamente contenibili nei lotti stessi già tracciati, e capaci di adattarsi, con accettabili cambiamenti, all’andamento del terreno o al tracciato viario. L’elemento di casa a schiera si adatta perfettamente alla attività e alla composizione della società mercantile urbana e alla struttura della famiglia che perde progressivamente il suo
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portato all’estensione delle colture, alla creazione entusiastica di nuovi villaggi di varia morfologia: burgi, villae, villenovae, bastides. In alcuni casi, una volta inquadrato, il territorio conserva per secoli l’organizzazione ricevuta, come per i borghi di sommità dell’Italia centro-meridionale1. Sostenitori di questo slancio erano stati i grandi proprietari laici ed ecclesiastici, la nobiltà minore, in qualche caso i sovrani ed i loro funzionari. Grandi protagonisti, e in qualche caso iniziatori, ne erano stati i contadini.
1. La fioritura del mondo contadino nel Medioevo e nell’età moderna
ul finire del xiii secolo, almeno nell’Europa mediterranea e occidentale, il mondo contadino, di cui le dimore presentate sono insieme tardivo documento e monumento, esprime la sua grande fioritura. Il numero di uomini che vivono della terra e l’estensione delle superfici messe a coltura, o comunque sfruttate economicamente, tocca un massimo storico che non verrà superato fino alla rivoluzione agricola del ’700 e alle grandi trasformazioni ottocentesche. Nei secoli compresi tra questi due estremi temporali, infatti, il sistema generale dell’economia rurale appare dotato di meccanismi di regolazione, per cui continua a oscillare sul livello raggiunto, anche se si nota un lento trend secolare di miglioramento dei rendimenti agricoli. Sono le variazioni di congiuntura, ben note agli storici dell’economia, per cui il xiv e parte del xv secolo segnano una crisi, con contrazione della popolazione e delle superfici coltivate; il xvi secolo vede una ripresa produttiva, con conseguente espansione; il periodo tra la fine del xvi secolo e la metà del successivo una nuova crisi, particolarmente grave in alcune aree europee come la Germania centrale; e infine dalla metà del Seicento si delinea una nuova ripresa, su cui si innesterà poi, in diverse aree, lo slancio di espansione settecentesco. Nel tardo medioevo si sono consolidate anche le forme della vita associata nelle campagne; i gruppi sociali hanno assunto conformazioni definite che daranno l’impronta alla società rurale almeno fino ai progetti settecenteschi di ingegneria sociale e, spesso, in aree marginali allo sviluppo economico, fino a tutto l’Ottocento. La rete dei villaggi e degli insediamenti sparsi è estesissima: grazie alle opere di bonifica l’uomo vive nelle basse pianure fluviali, dove l’alto medioevo aveva visto solo foreste e paludi o addirittura su quello che era stato il fondo del mare, come in Olanda. Le zone collinari, gli altopiani e le montagne sono stati via via conquistati alla coltivazione con una paziente e laboriosa opera di dissodamento; con l’organizzazione del sistema dei pascoli e degli alpeggi l’uomo è riuscito a trasformare in utile risorsa anche le terre più in alta quota, sulle Alpi e sui Pirenei. Nella penisola iberica, nelle terre via via conquistate dai regni e dai principati cristiani, ampi spazi di popolazione rada o quasi spopolati venivano rimessi a coltura (è dell’inizio del xvi secolo il completamento della rete dei villaggi in Castiglia). Anche nelle aree di più antica occupazione, l’ondata dei dissodamenti ha
2. Economia contadina, signoria terriera, feudalesimo Alcuni cenni riguardo alle forme giuridiche ed economiche con cui avvenne la trasformazione dell’Europa rurale sono essenziali alla comprensione della società che abitava le case e i villaggi qui presentati, poiché per tutta l’età moderna tali forme continuarono e vennero consolidate e istituzionalizzate. Anche le innovazioni, più che sostituire, si aggiunsero al panorama preesistente, secondo una generale regola di comportamento mentale e sociale che fu valida fino al xviii secolo. Il tratto originario vede l’organizzazione delle campagne fondata sui due principi del bene familiare e della gestione comunitaria di una parte delle risorse2. Il bene familiare, che si ritrova nei primi documenti medievali come mansus, hide, Hufe, massaricio, è una superficie di orto e di terreno agricolo che spetta alla casa contadina, per permettere il mantenimento dei suoi membri. Il funzionamento dell’economia contadina non sarebbe però possibile se non potesse contare anche sull’allevamento di animali, la caccia, la raccolta di frutti spontanei, il taglio della legna, attività tutte che presuppongono l’utilizzo dei boschi e dei pascoli comuni. L’ampliamento della gamma di risorse utilizzate stabilmente rinvia dall’unità domestica al gruppo sociale più vasto che controlla il territorio. Questa struttura, nella quale è stato visto uno degli spartiacque della storia europea3, aveva subito trasformazioni per opera della riorganizzazione economica attuata dal vii-viii secolo in poi nella forma della signoria terriera, e per opera della riorganizzazione politica attuata dal feudalesimo dal ix-x secolo in poi. La signoria terriera prevedeva nella sua forma canonica la divisione delle terre che spettavano al signore in due parti: quella che egli faceva coltivare dai suoi servi, detta riserva, dominicum, indominicatum, e quella su cui i servi erano insediati e che
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L’organizzazione sociale delle campagne doveva servire al loro mantenimento, detta mansus, massaricio, hide, Hufe. Il servo era tenuto a prestazioni di lavoro (corvées) a favore del signore, oltre che al pagamento di una taglia che colpiva lui personalmente o la terra su cui lavorava. La sua importanza per il signore era tale che non poteva allontanarsi dalla signoria, né i suoi figli sposarsi al di fuori, salvo il pagamento di una tassa. Il signore esercitava il potere e la giurisdizione sui suoi servi. Alla fine del medioevo sono poche le aree dell’Europa occidentale dove il sistema funziona ancora con questo concatenamento (l’Inghilterra fino agli inizi del xiv secolo). In maggioranza erano stati trovati altri modi per utilizzare con maggiore redditività la riserva signorile, sotto la spinta dell’aumento demografico, dell’introduzione di innovazioni tecnologiche, della propensione per la diffusione della moneta. Parti della riserva venivano affidate agli stessi contadini, o all’intera comunità, con contratti più favorevoli, di censo, che comportavano un pagamento e limitate prestazioni. Nel caso di grandi estensioni incolte, potevano essere chiamati da fuori nuovi abitanti a dissodarle, concedendo condizioni molto vantaggiose. Parimenti il manso si rivelò essere misura molto estesa. La maggiore produttività che derivava dall’organizzazione più razionale del sistema delle colture (rotazione a due o tre campi, compattamento del territorio del villaggio e organizzazione degli arativi in quartieri) permetteva alla famiglia contadina di mantenersi con una minor superficie di terra, spesso ripartita nei vari quartieri del villaggio. Il manso quindi si era frazionato come unità di organizzazione agricola. In molte regioni, dove i signori non avevano introdotto la forte spinta innovatrice legata alla cerealicoltura, il termine era rimasto per indicare la casa e le terre ad essa pertinenti, oppure solo gli appezzamenti; nel Bourbonnais del ’400 esprime la comune soggezione dei concessionari degli appezzamenti all’autorità del signore e al pagamento del censo4. In Auvergne dalla metà del ’300 mansus viene usato per indicare il nucleo caratteristico, costituito da un numero limitato di abitazioni, ognuna con le sue dipendenze e il suo orto racchiuso da un muro, ed i campi sparsi all’intorno5. Nel tardo medioevo il signore percepiva meno prestazioni d’opera, e molti più censi, oltre alle taglie dovute per il carattere servile delle terre, in qualche caso ancora delle persone, e a quanto doveva ricevere per l’esercizio del suo potere e giurisdizione sui contadini. Quando poi lo sviluppo delle città tra ultimo medioevo e prima età moderna (più precocemente in Italia centro-settentrionale) le portò a controllare il territorio rurale circostante per garantirsi sicurezza militare e approvvigionamento alimentare, nelle campagne intervenne un nuovo potente fattore formativo. Se in alcuni casi agì senza troppo innovare rispetto ai più tradizionali signori terrieri (accontentandosi di moltiplicare e migliorare forme esistenti), altre volte trasformò l’assetto del territorio. Il capitale urbano (che spesso proviene dai signori delle campagne o da contadini arricchiti inurbatisi) acquista terre e le riorganizza in modo da razionalizzare la produzione: crea appez-
zamenti compatti, il più possibile sottratti agli usi comunitari; costituisce case sopra di essi, perché la famiglia contadina abiti sulle terre che lavora; in alcuni casi lascia una parte di territorio allo sfruttamento in comune. Il caso toscano è esemplare per il rigore con cui è svolto l’appoderamento, e la forza innovativa del contratto sviluppato, la mezzadria, che si configura come una libera associazione tra proprietario e famiglia contadina6. La tenuta storica della presa signorile sugli uomini e sulla terra era stata radicata dall’instaurazione del feudalesimo, cioè dall’appropriazione privata dell’esercizio dei diritti pubblici di giurisdizione e di comando. Vi si giunse per vie diverse. Nelle terre dei Franchi, nella debolezza successiva al crollo dell’impero carolingio, era stato facile per i grandi signori terrieri sottrarsi all’autorità regia, per assoggettare poi, con l’accordo o con la forza, anche liberi contadini e comunità, prossimi e meno prossimi, a seconda delle opportunità. Così, l’ambito del potere signorile era definito dalla rete dei vincoli di dipendenza e di fedeltà che legavano al signore i suoi uomini. Naturalmente il gioco delle dipendenze feudali finì per intrecciarsi variamente sul territorio così che spesso l’autorità su un villaggio era esercitata da più signori. Nell’Italia centro-settentrionale era rimasta forte l’eredità romana, che contribuì a dare al sistema feudale un precoce inquadramento territoriale. Ai funzionari regi che si erano accaparrati l’esercizio della giurisdizione e del comando nei distretti rurali cui erano preposti, si erano affiancati i nuovi signori, che avevano via via accorpato i loro possedimenti ed esteso i poteri esercitati sui propri contadini a contadini e comunità circostanti che coltivavano terre di altri padroni. Così si andò definendo un territorio sul quale venivano esercitati i diritti di signoria. Le fitte ondate di edificazione di castelli, castra, dal ix-x secolo non comportarono modifiche brusche nella struttura degli insediamenti, ma la loro rete costituì la premessa per il radunarsi di abitanti attorno a essi che prese l’avvio dalla metà del xii secolo7. Nella penisola iberica, dove il potere regio o comitale aveva guidato le prime fasi della Reconquista, appoggiandosi sulla costituzione di libere comunità di contadini, la presa feudale compare più tardi, quando i signori, in antagonismo al sovrano, si impongono alle comunità contadine, spesso con la forza, e pretendono l’esercizio autonomo della giurisdizione8. In Inghilterra la forza coesiva e la capacità di presa sul territorio inerente al sistema feudale era stata usata coscientemente dai conquistatori normanni, che avevano cercato di realizzare il principio che non esistesse contadino senza il suo signore9. Pur nelle diversità dei processi formativi, il feudalesimo aveva creato un organico sistema di controllo e di estensione del potere che giungeva fino alla singola famiglia contadina, poiché anche il libero era soggetto alla giurisdizione del signore feudale, e in cambio di essa a lui doveva qualcosa. Questo stretto controllo permise ai signori di conservare la presa sul mondo contadino anche dopo che si era rotto il legame della riserva e del manso. Se pur ci sono aree e momenti dove si pongono elementi innovatori, come nel rapporto tra le città
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italiane e le loro campagne, in generale i tratti principali di questa struttura d’inquadramento rimarranno fino al xviii secolo, assunti all’interno dello stato assoluto.
rio, luogo di celebrazione della messa domenicale e punto di riferimento per l’azione di evangelizzazione degli abitanti. La struttura pievana, che in Italia centro-settentrionale era durata molto a lungo, era stata erosa dalla creazione delle cappelle signorili e poi svuotata dalla forza aggregatrice dei villaggi, ognuno dei quali volle che la propria chiesa divenisse parrocchia16. La pieve e il territorio pievano rimasero di riferimento anche per la vita ecclesiastica nelle valli alpine e appenniniche, dove attinsero vigore dalla consistenza delle ampie comunità di abitanti insediate nelle valli.
3. Il contributo della Chiesa all’organizzazione delle campagne Anche la Chiesa aveva contribuito a dare al mondo rurale la forma che presenta alla fine del medioevo. La diffusione del reticolo parrocchiale era stata una risposta adeguata alla rete delle dipendenze feudali e alla stabilizzazione della popolazione in villaggi: si dimostrò sistema elastico, capace di seguire minuziosamente variazioni del territorio, della società, del potere. Nel xiii secolo la rete parrocchiale è estesa nelle regioni qui studiate10. La coincidenza del campanile con il villaggio diviene un elemento dominante della mentalità. La parrocchia favorisce la definizione del territorio del villaggio e l’integrazione a esso di eventuali insediamenti marginali sparsi; sono ben noti i riti dedicati al riconoscimento dei confini. È alla chiesa parrocchiale che si fa riferimento per cerimonie e celebrazioni comuni, in primis il battesimo, la messa domenicale, la sepoltura. Dopo la lotta della Chiesa per liberarsi dal controllo feudale, il parroco è, più che un uomo del Signore, un uomo del villaggio. L’insieme degli abitanti può ottenere di partecipare all’elezione del parroco; in qualche caso questo diritto appare tra gli elementi fondanti la comunità stessa11. Il fatto riprende in nuova forma comportamenti precedenti all’appropriazione feudale: nella penisola iberica, le prime comunità rurali della Reconquista partecipavano all’elezione del rettore delle chiese da loro costruite12. Dal corpo parrocchiale si distacca dal xii-xiii secolo la fabbrica destinata alla manutenzione dell’edificio ecclesiastico e dei suoi annessi. È una maturazione in altro contesto di quella responsabilità per i beni comuni della Chiesa attorno alla quale nel primo secolo dopo il Mille si vede spesso prendere corpo la comunità degli abitanti. La fabbrica è il luogo deputato alla responsabilità dei laici nella vita parrocchiale e diverrà nei secoli dell’età moderna importante riferimento di identità, nonché elemento di possibile antagonismo tra comunità e parroco13. Non sempre, tuttavia, l’organizzazione ecclesiastica minima coincide con un insediamento e il suo territorio. Nelle anteiglesias di Vizcaya la parrocchia raggruppa in un unico corpo i diversi nuclei insediativi sparsi di una valle. L’organizzazione costituisce il modello generale per tutta la cordigliera cantabrica14. Nell’Appennino settentrionale e sulle Alpi in molti casi nell’organizzazione ecclesiastica conserva un ruolo rilevante la circoscrizione della pieve, una struttura molto antica, documentata già nel vii-viii secolo nella fascia di terre comprese tra il sud bizantino e il nord merovingio franco. Ogni pieve originariamente copriva un territorio abbastanza esteso, per il quale è a volte ipotizzabile la coincidenza con i confini preromani dei populi, o tribù15. Al suo centro c’era una chiesa battesimale, matrice di tutte le cappelle che sarebbero poi sorte sul territo-
4. La definizione dei diritti dei singoli e delle comunità Risulta facilmente comprensibile come l’azione di questi diversi fattori evolutivi abbia prodotto una considerevole gamma di stati giuridici dei contadini. Alla fine del medioevo il servo legato da servitù personale (homme de corps) è in via di estinzione, non così invece il servo legato da servitù inerente alla terra che possiede e quindi variamente vincolato verso il suo signore, prima di tutto dall’impossibilità di cederla senza il suo consenso. Ben migliori sono le condizioni di chi tenga terra a censo: i suoi obblighi verso il signore sono decisamente minori ed è possibile anche il trasferimento del bene, purché non pregiudichi i diritti del signore. L’ottenimento dell’ereditarietà, dapprima limitata ai soli beni acquisiti, poi gradualmente e sotto certe condizioni estesa anche ai beni concessi e infine generalizzata, segna un importante passo sulla via del miglioramento dello status giuridico dei contadini. Nei contratti di livello della pianura padana le prestazioni d’opera erano abolite, il corrispettivo previsto veniva spesso formulato in denaro, e i fondi potevano essere trasmessi ereditariamente17. Importa notare che lungo tutto il medioevo il processo era avvenuto gradualmente con mutamenti lenti e progressivi, seguendo la maturazione delle forze interne. Finché a un certo punto il movimento della società rurale era esploso in un’ondata di affrancamenti che avevano interessato tanto i singoli quanto le comunità. In tutta l’Italia settentrionale nel XII secolo le comunità rurali avevano ottenuto l’attenuazione dei carichi e in qualche caso la completa esecuzione, dietro pagamento di un compenso al signore; in alcuni casi era stato riconosciuto il ruolo dei funzionari e la competenza del villaggio a nominarli. Le comunità avevano a volte maturato forza tale da riuscire a ricostruire il loro patrimonio comune recuperando ciò di cui il signore si era appropriato. Nel xiii secolo in Languedoc e in Provenza erano generalizzate le carte che concedevano libertà agli abitanti e forme di autonomia amministrativa alla comunità, i consulat villageois18. Nel nord della Francia la crescita delle comunità si era manifestata clamorosamente nel moltiplicarsi dei documenti di franchigia nel xii e xiii secolo. Nei Paesi Baschi, nel ’400 l’intervento del sovrano liberò interi villaggi da tributi e obblighi servili. Nel 1486, con la famosa Sentencia de Guadalupe il re Ferdinando il
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L’organizzazione sociale delle campagne possedere un tiro per l’aratura, più semplicemente coltivare ed essere tenuto a prestazioni e tributi, o ancora abitare una casa che dia la titolarità24. Più tardi, con la chiusura delle comunità, sarà richiesto un livello minimo di reddito. Ai primi tempi, nei villaggi di frontiera della colonizzazione spagnola, tutti i membri erano chiamati a partecipare alle decisioni, uomini e donne, vecchi e giovani, purché abitanti il luogo25. Si poteva entrare a far parte della comunità dopo la residenza per un certo periodo, impegnandosi a corvées supplementari o pagando una certa somma. In qualche caso si accettava l’accoglimento immediato dei foranei26. Controversa era la posizione del signore: in alcune aree gli si negava il diritto di far parte della comunità, altre volte poteva godere degli usi collettivi, sedere in giudizio, prendere parte all’assemblea, specie se aveva proprie terre nel territorio del villaggio. Il contadino che si trovasse a ricevere terre a titolo di feudo poteva essere costretto a scegliere tra l’una e l’altra appartenenza. Funzionari del signore potevano controllare le decisioni dell’assemblea. L’assemblea si riunisce almeno una volta l’anno, e la partecipazione a essa è obbligatoria; la convoca il suono delle campane o la proclamazione di un banditore. Alla riunione è deputato un luogo, spesso lo spiazzo antistante la chiesa, dove non di rado si innalza un albero dal significato particolare. Le decisioni vengono prese a maggioranza, a maggioranza qualificata, oppure all’unanimità. Quest’ultima forma, che sembra in molti casi essere stata la più antica27, si ritrova in alcune aree arcaiche anche nei secoli dell’età moderna. Il nucleo delle competenze dell’assemblea era indirizzato a garantire la continuità della comunità, tramite la tutela del patrimonio e della famiglia, e il controllo dei rapporti col signore. Nella pratica, l’attuazione variava a seconda del grado di autonomia che la comunità aveva raggiunto. Nei casi di maggior estensione, l’assemblea può nominare propri funzionari, decidere il tipo di colture e il ritmo delle coltivazioni, anche sui terreni privati, determinare il modo di sfruttamento delle risorse comuni. Essa stabilisce il limite della commercializzazione dei prodotti, fissa i salari degli operai agricoli, conquista e aliena beni, determina quali mercanti si possono insediare nel villaggio e per quanto tempo, controlla pesi e misure, cura la conservazione delle strade, decide dell’ammissione alla comunità degli stranieri. A volte esercita attività assistenziale nei confronti dei più poveri, e nei tempi più recenti può anche farsi carico dell’apertura di scuole. La comunità ha normalmente una propria cassa. Per opera dell’assemblea e del signore, oppure del sovrano, tramite i suoi intendenti, si identifica un capo del villaggio che guida l’assemblea e rappresenta il villaggio all’esterno. In Inghilterra esso rappresenta la comunità dei servi nei rapporti col signore, cura il pagamento del dovuto e l’organizzazione delle corvées. In molti villaggi alpini, ma anche nel Leicestershire, la funzione di capo viene ripartita tra due uomini28. In qualche caso si faceva anche luogo a rotazione tra tutti i membri del villaggio. In diverse regioni meridionali i capi del villaggio sono chiamati consoli. Può anche esistere un corpo intermedio, un consiglio dei saggi, anziani, boni homines, che coadiuva il capo.
Cattolico pose fine a un secolo di inquietudini e ribellioni dei contadini catalani, concedendo una carta che sarebbe durata secoli. In base a essa i contadini, in cambio di un censo e di determinati obblighi al signore feudale, potevano disporre dei beni loro concessi: è la radice della stabilità della società rurale catalana e della fioritura delle masías. Sempre la vita dei villaggi e dei gruppi familiari era stata retta da una produzione giuridica fatta di consuetudini trasmesse oralmente, di pattuizioni particolari, di ricognizioni signorili. Nel tardo medioevo si inizia a prestare grande attenzione al documento scritto: con le carte di franchigia, si moltiplicano gli statuti, le carte di regola, i laudi, i fors, i fueros, i forais, che continueranno ad essere prodotti anche nei secoli successivi. Abbiamo delle carte costituzionali delle comunità, che disciplinano minuziosamente attività, titolarità, diritti e doveri di ogni famiglia, competenza e limiti della comunità, oltre che, ovviamente, i rapporti con il signore. Esse costituiscono affermazione della soggettività della comunità rispetto al suo immediato signore e anche occasione della sua integrazione in un sistema amministrativo e politico territorialmente più ampio19.
5. La comunità di villaggio20 La progressiva liberazione dello stato giuridico delle persone aveva messo in evidenza non degli individui isolati, ma delle forme complesse di organizzazione sociale, certamente precedenti, che ora assumevano fisionomia pubblica e compiuta. Il villaggio, in alcuni casi l’unità territoriale più ampia e la famiglia sono le strutture portanti di questa organizzazione. Il villaggio è innanzitutto il luogo della pace, per quanti hanno accettato di vivere tra le croci che ne delimitano il territorio. Pace sancita e imposta spesso dalle carte di franchigia, dall’obbligo di giurare il salvamentum loci (che spettava in Lombardia a tutti gli insediati, comprese, pare, le donne)21. Il termine di pax rusticorum serviva a volte a designare l’intero gruppo insediato22. Friedens-und Rechtsbereich, sfera della pace e del diritto, era il concetto che identificava il villaggio nella tradizione germanica23. Si tratta di una consuetudine antica, inerente alla formazione del gruppo sociale, non imposta dallo stato né dal signore feudale e semplicemente consacrata dalla Chiesa. L’insieme del villaggio, ha diverse denominazioni – universitas, università, universidad, Gemeinde, concilium, concejo, concegium, vicinia, vesindad, visnenza – che indicano il complesso, l’insieme degli abitanti. Questa generalità si manifesta in modo a tutti visibile nell’assemblea. All’assemblea partecipano normalmente i capi famiglia, a volte con l’esplicita condizione che abbiano figli; le donne sono presenti là dove la consuetudine prevede una posizione di rilievo della vedova che continui a gestire i beni del marito. Il capo famiglia deve essere membro a pieno titolo del villaggio, ciò che in alcune aree si esprime nei termini vicinus, convicinus. Questa titolarità ha varie condizioni: l’iscrizione in un registro, il
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Il villaggio aveva poi i suoi funzionari, nominati dall’assemblea o dal signore. A volte la nomina a funzionario, come quella a capo, non era evitabile e chi vi si fosse opposto poteva incorrere in gravi sanzioni. Tra le competenze, particolare rilievo avevano quelle di polizia campestre e di gestione delle acque, che servivano a rendere effettivo il controllo comunitario sulle risorse, e quelle di esazione fiscale, che regolarmente comparivano, poiché la comunità di villaggio costituiva anche un’unità fiscale, con responsabilità in solido nel pagamento del tributo29. In Portogallo e in Catalogna nel xiii secolo compaiono forme di autonomia giudiziaria: per cause di piccola importanza i giudici operano per sé e non per delega regia30. In generale, per le trasgressioni i funzionari della comunità potevano imporre multe.
criterio di rotazione tra i diversi insediamenti sparsi che costituiscono la comunità. Nel Briançonnais l’assemblea confederale dei numerosi villaggi riuniti in comunità aveva il nome di escarton, poiché escartonnait, cioè ripartiva i carichi per ogni comunità34.
7. La vicinia In molte parti dell’area studiata in questo volume, l’insieme degli abitanti si raggruppa in una o più vicinanze o vicinie. Queste costituirebbero il nucleo sociale elementare e, secondo diverse ipotesi, il nucleo originario della comunità35. Vicinus è il termine antico che diviene corrente nelle carte di popolamento e negli statuti; non è però generale: è assente nella Francia del nord, dove si trova solo la dizione communauté villageoise, in Normandia, in Auvergne. Vicinus, convicinus si contrappone immediatamente agli homines de fora parte, agli estrannos. Essere in vicinum vuol dire far parte del villaggio. L’insieme dei vicini individua un mondo all’interno del quale è bene che rimanga il possesso dei beni: spesso è stabilito che in caso di cessione i beni vadano dati al vicino, fatti salvi i diritti del signore. Se qualcuno lascia il villaggio, deve prima radunare i vicini, perché questi controllino se ha saldato i suoi debiti. Forme di aiuto reciproco e di scambio di lavoro sono espressamente previste dagli statuti, come le regole per l’uso delle infrastrutture comuni del villaggio: il forno e il mulino (se non sono signorili), la fontana, il pozzo e l’aia. Il sistema della vicinia presenta un interesse particolare in zone di insediamento sparso, dove crea una serie di legami concatenati che danno coesione alla comunità. In Guascogna, in tutta la regione pirenaica, in una parte dell’Agenais, l’insieme dei vezis (vicini) costituisce la veziau, la comunità. Questa ha la disponibilità di tutte le terre non coltivate e dei pascoli prossimi al villaggio, mentre quelli di quota appartengono alla comunità della valle. La forza della veziau si misura dal diritto di prelazione (retrait) sui beni quando vengono alienati. Anche qui ritornano gli obblighi di aiuto reciproco e di assistenza nel lavoro; tra i diritti di vicinia si menziona quello di prendere fuoco dal vicino (fuero di Navarra, 1237), e tra gli obblighi è importantissimo quello dell’assistenza ai funerali. Una istituzione particolare è quella del primo vicino, per cui ogni nucleo domestico ha un vicino preferenziale al quale riferirsi e due secondari. In questo modo la rete delle relazioni si stende sul territorio con una forza pari, nella pratica, a quella dei legami parentali36.
6. La comunità di valle Si verificano anche casi in cui i nuclei insediativi, grandi o ridotti che siano, sono riuniti in un’organizzazione più ampia. Le estese paludi dei fens della costa inglese orientale erano governate da comunità contadine che riunivano numerosi villaggi (sokes). Nelle Alpi e nell’Appennino settentrionale sono numerosi i cosiddetti comuni di pieve, comunità che radunano più nuclei, ricoprendo un territorio che, pur passato attraverso le vicende della signoria terriera e del feudalesimo, si suppone corrisponda ad antichissimi confini tribali. Una comunità di pieve particolarmente estesa, o più pievi tra loro federate, danno luogo a una comunità di valle, un’unità economica e sociale di grandi dimensioni, che in alcuni casi sembrerebbe riprodurre il territorio federativo tribale (conciliabula) dell’età preromana31. In tutti i Paesi Baschi, “gli insediamenti umani si adattano al concetto geografico della valle, aran e iber nella lingua vernacola. Gli abitanti della valle sono contraddistinti da una comunità di interessi e doveri, alcune consuetudini giuridiche, ecc.”32. Molte di queste comunità, che certamente hanno ascendenze ben più antiche, emergono nel periodo della formazione degli statuti. Non è priva di fondamento l’ipotesi che collega l’ondata di rinnovamento di cui i documenti statutari sono testimonianza alla riorganizzazione del sistema pastorale e delle transumanze. Oltre ai beni del villaggio, ci sono quelli della comunità più ampia; così si ritrovano statuti, assemblee, funzionari. Nel Frignano il conscilium generale delibera attorno al godimento dei beni comuni a tutti i villaggi della valle; ogni consciliarius rappresenta il proprio villaggio, in proporzione ai fuochi che lo costituiscono. La guida della comunità è attribuita a un collegio di consoli; i funzionari sono molto numerosi, poiché devono farsi carico delle esigenze di un corpo sociale ed economico di notevole entità: sindaci generali, notai, nunzi, massarii, scarii, giudici, banditori. Le anteiglesias di Guipúzcoa e Vizcaya radunano le loro assemblee sull’atrio della chiesa o davanti a essa33. I funzionari sono eletti, oppure nominati dagli uscenti. Può anche usarsi un
8. Il patrimonio comune Il villaggio era economicamente fondato e socialmente fondava il principio dell’equilibrio tra gestione familiare e gestione comunitaria delle risorse. Come abbiamo visto all’inizio del capitolo, era questo un principio molto antico dell’organizzazione sociale contadina37. I signori terrieri dovettero confrontare le
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L’organizzazione sociale delle campagne con regole che stabiliscono gli obblighi, i ruoli, le ripartizioni del prodotto, la rigorosa definizione dei confini dei pascoli.
loro esigenze di espropriazione delle terre, di controllo degli uomini, di produzione per il mercato con questo fatto preesistente, a volte adattandovisi, a volte modificandolo. Nel medioevo si giunse alla definizione precisa dei territori competenti a ogni comunità, o alla loro ridefinizione, qualora vi fossero confini più antichi. Il processo era stato favorito anche dalla definizione della rete parrocchiale. Numerose consuetudini stabilivano come fissare i confini, le pene in caso di trasgressione, le modalità con cui effettuarne periodicamente il riconoscimento e rinnovarne la sacralità, il modo con cui trasmetterne la conoscenza da una generazione all’altra. La comunità determinava l’attività agricola e pastorale. Si continuavano a conoscere forme di dissodamento col fuoco (debbio) e di messa a coltura temporanea degli incolti e delle foreste su cui può esercitare i suoi diritti la comunità (Feldgrasswirthschaft); è questa un’iniziativa cui hanno normalmente diritto tutti i membri. Si tratta di regola di un’attività marginale, di compensazione, che diviene importante in congiunture o situazioni particolari. Negli insediamenti di piccole dimensioni, come i vici lombardi o i mas alverniati, a ogni dimora fa capo una quota di terreno agricolo stabilmente in uso, che può essere cintata o meno. Forme di ripartizione periodica degli arativi si conservano a volte su terreni bonificati38. Nelle grandi aree cerealicole, dove l’iniziativa signorile e i dissodamenti hanno introdotto la rotazione triennale e un rigoroso sistema di campi aperti, si impongono ritmi comuni nell’attività agricola: semina e raccolto devono avvenire tutti negli stessi periodi, poiché altrimenti chi lavora sulla propria stretta striscia danneggerebbe inevitabilmente il terreno altrui. I prati erano attribuiti in modo stabile, oppure redistribuiti annualmente; la fienagione era effettuata con ritmi comuni, secondo gli statuti. Era regola generale che, una volta effettuati il raccolto e la fienagione, il bestiame del villaggio potesse pascolare su campi e prati (vano pascolo). Particolari cerimonie potevano ufficializzare quest’apertura come per il Lammas day, il primo agosto in Inghilterra. La ripartizione periodica delle quote arative e di prato veniva effettuata con l’usuale metodo del sorteggio. Oltre ai campi ed ai prati, erano essenziali al funzionamento di quest’economia il bosco e i pascoli. Nel bosco la comunità degli abitanti esercitava numerosi diritti: raccolta del fogliame, raccolta del miele selvatico, preparazione della calce, in qualche caso caccia (che però, pur tra molte controversie, tendeva a divenire prerogativa del signore). I pascoli erano comuni. Nelle zone alpine e prealpine ogni villaggio, come ogni gruppo di piccoli nuclei o di insediamenti sparsi, aveva i suoi monti, che potevano essere dati a ogni vicino dietro il pagamento di un montatico, oppure gestiti comunitariamente. Altre volte l’affitto dei pascoli ad estranei portava denaro nelle casse della comunità. Nel caso di gestione comunitaria tutti gli animali venivano radunati e portati al pascolo dal pastore del villaggio. Nelle forme più complesse, nel villaggio o nella valle sorgono delle vere e proprie corporazioni di pastori,
9. Famiglia e comunità familiari Era, quella fin qui descritta, una società che richiedeva il continuo adattamento del singolo alle decisioni e ai ritmi comuni. In essa la libertà non era un poter scegliere ma un voler appartenere. E di tutte le appartenenze, quella basilare, fondamento di tutte le successive, era la famiglia. In effetti il villaggio, come la più ampia comunità territoriale, si presenta come associazione, o alleanza, di famiglie o gruppi di famiglie. Il rimescolamento delle popolazioni europee dovuto prima all’incontro e scontro tra elementi romani e romanizzati ed elementi barbarici, poi all’ondata delle migrazioni, e infine alle bonifiche e ai dissodamenti, aveva trasformato gli elementi tribali preesistenti. Nella maggioranza dell’Europa che qui interessa, sono i legami familiari e parentali a dominare. Alle ragioni dell’economia e del potere, evidenti da quanto fin qui detto, vanno aggiunte quelle culturali e religiose. Con numerose decisioni, tra le quali il divieto del matrimonio tra stretti congiunti, la Chiesa aveva contrastato tutte le pratiche che anticamente servivano a consolidare nel tempo un gruppo parentale ampio. Il concetto stesso che i beni dovessero rimanere all’interno di una stessa discendenza di sangue fu eroso dall’idea che la Chiesa potesse essere destinataria almeno di una quota di essi. L’accenno posto sul libero consenso degli sposi nella stipulazione del matrimonio contrastava la tradizionale importanza delle decisioni prese dalla famiglia. Così si era delineata un’immagine di famiglia in cui prendevano rilievo la coppia coniugale ed i suoi figli. La diminuzione della forza dei legami parentali doveva essere un’occasione per l’allargamento delle relazioni sociali e della solidarietà, per la multiplicatio amicorum. «In effetti, quando un uomo prende moglie fuori dalla sua parentela, tutti i consanguinei della donna si legano a lui con un’amicizia speciale, come se fossero suoi consanguinei... È così che Agostino può dire: “Una ragione di carità molto giusta ha invitato gli uomini per i quali la concordia è cosa onorevole e utile a moltiplicare i loro legami di parentela: un solo uomo non doveva concentrarne troppi in se stesso, occorreva ripartirli tra soggetti diversi»39. L’immagine proposta e i concreti provvedimenti giuridici ebbero la loro efficacia. Nondimeno la realtà della famiglia europea fu eccezionalmente varia40. La convivenza domestica era sempre caratterizzata dalla messa in comune delle risorse e delle disponibilità, cosicché i membri non disponevano di patrimonio proprio che potessero gestire autonomamente, ma al massimo, specie nei tempi più prossimi a noi, di limitate quantità di argent de poche, di peculio, non di rado in senso proprio: pochi animali il cui reddito non finiva nella cassa comune; in cambio ogni membro della famiglia aveva diritto a essere nutrito, vestito e alloggiato nella casa. Alla guida della comunità domestica c’era normalmente un capo; in alcune regioni tutti i maschi adulti prendevano parte
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Ciò trova riscontro nelle clausole contrattuali, che impongono al mezzadro di risiedere sul podere con la propria famiglia e con essa lavorare43, e parimenti nell’organizzazione interna del nucleo mezzadrile, che implica la convivenza, la soggezione di tutti i membri al capo maschile e a quello femminile della casa, il lavoro e i pasti in comune, la scarsa o nessuna disponibilità di denaro proprio. L’unità di residenza non è però l’unico riferimento che permette di cogliere l’esistenza e l’azione dei legami di parentela nel villaggio. I comportamenti ereditari, che esamineremo tra poco con maggior ampiezza, segnalano legami che l’unità del fuoco non rivela. Il figlio istituito erede può a volte vivere in una casa prossima a quella dei genitori, ma non nella stessa. In alcuni casi sussiste nel mondo contadino il vincolo che sottopone l’alienazione dei beni fondiari all’approvazione di tutto il parentado, associato a volte a forme di prelazione (retrait lignager), che servono a garantire la permanenza dei beni nella stessa discendenza44. Il principio è peraltro contrastato dall’altro, per cui sui beni alienati viene data prelazione ai vicini; si preferisce allora favorire il criterio della prossimità di insediamento su quello della discendenza. Ma i due criteri furono nella pratica meno contrapposti di quanto sembri. Le regioni alpine conservano esempi di piccoli villaggi patronimici45; in Liguria, per il tardo medioevo e l’età moderna, abbiamo testimonianza della coesione dei legami di parentela; a volte pochi clan familiari costituiscono la maggioranza dei fuochi censiti di un villaggio46, a volte si individuano nel villaggio gruppi parentali indipendenti che hanno propri beni in comune e proprie istituzioni47; in Spagna, dove pure i villaggi avevano una forte identità comunitaria, i gruppi di consanguinei potevano essere anche molto estesi48. Le stesse intraprese di colonizzazione avevano visto spesso i contadini muoversi dalle loro residenze in gruppi di parenti, per tentare la nuova sorte49. Quindi, sia pure in una tendenza che porta in primo piano il nucleo insediato attorno al focolare, occorre intendere il villaggio e la comunità più ampia come attraversati e strutturati dalle diverse reti dei legami parentali.
alle decisioni. Al buon ordine della parte femminile della casa ed al buon funzionamento domestico, presiedeva normalmente una delle donne. Quanto alla composizione, il semplice modello coniugale si complica subito quando i figli sposati convivono sotto lo stesso tetto con i genitori. Se il figlio sposato è uno solo, quello che assume l’eredità della casa, si incontra un caratteristico tipo di famiglia dell’Europa occidentale: la famille-souche, o famiglia ceppo. Ma un caso altrettanto frequente è quello di fratelli o cugini sposati che vivono insieme, spesso finché i figli hanno raggiunto l’età adulta. Tali forme di frérèches, o affratellamenti, divengono presenti nella documentazione dal xii-xiii secolo. I contratti d’ affrairement potevano vedere anche estranei unirsi alla comunità familiare. L’utilizzo dello stesso focolare, quindi l’alimentazione comune, ritorna nelle dizioni correnti au même feu et eu même pot, ad unum panem et unum vinum, che sottolineano la convivenza come fatto fondante la comunità. Il patto scritto non era necessario perché essa avesse valore legale: di qui la denominazione corrente di communautés taisibles. Per farle nascere bastava che i figli alla morte del padre continuassero a vivere nella stessa casa e a coltivare le terre. In tempi di uomini rari, la soluzione era tutt’altro che sfavorevole anche per il signore. In qualche caso la communauté taisible poteva svolgersi con la creazione di fuochi separati, ma continuando lo sfruttamento in comune dei beni e dividendo i redditi al modo pattuito41. Facevano regolarmente parte della comunità domestica tutti quei discendenti che non avevano trovato moglie o marito o non avevano voluto accasarsi, e potevano venire a parteciparvi uomini e donne che, rimasti senza famiglia, vi erano accolti come servitori. Si trattava di meccanismi che dovevano servire a compensare una crisi della vita familiare, oppure una congiuntura sfavorevole per il villaggio, permettendo di conservare il tessuto sociale e di ricostruire l’insieme produttivo. Con lo sviluppo dei legami e delle associazioni si incontrano, dal tardo medioevo, comunità familiari estese anche molto numerose. Si citano casi di comunità limosine di più di cento persone “tous parents et vivant en commun”, oltre a quelle famose della Nièvre42. In Francia le aree classiche di questo fenomeno sono la Normandia, il Limousin, l’Auvergne, il Nivernais: in generale pare confermato che le comunità domestiche di grandi dimensioni si sono mantenute più vigorose nelle zone di insediamento a piccoli nuclei e si sono invece più facilmente frammentate nelle zone di insediamento compatto di grandi villaggi su campi aperti. Un caso specifico di comunità domestica, in un contesto economico più sviluppato, è quello della famiglia mezzadrile. Il rapporto giuridico che lega il coltivatore al proprietario terriero è quello tra due liberi contraenti, e la struttura economica è orientata alla produzione per il mercato; tuttavia, resta costante la considerazione del gruppo produttivo familiare, costituito da genitori e figli sposati o anche da fratelli e cugini sposati.
10. Matrimonio e trasmissione dei beni Alla continuazione del gruppo sociale erano finalizzate la disponibilità dei beni e le quote sui beni comuni. Le regole relative al matrimonio e alle successioni dovevano garantire che energia umana e terre – i beni da sempre rari, da sempre difficili da ottenere – venissero assicurati ai discendenti di uno stesso sangue. In occasione del matrimonio, di regola la moglie si trasferisce nella dimora del marito, ma sono ben noti i casi in cui l’interesse a perpetuare la casa fa sì che l’uomo si trasferisca nella casa della donna che è l’unica ereditiera, oppure della primogenita, dove vige un rigoroso principio di primogenitura. Il matrimonio avviene sia all’interno che all’esterno del gruppo. Ci sono villaggi in cui l’insediamento si perpetua tra pochi gruppi e la scelta matrimoniale viene effettuata tra parenti molto stretti,
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L’organizzazione sociale delle campagne Catalogna e i Paesi Baschi; si possono aggiungere l’Aragona, la Galizia, il sud-ovest della Francia. In Auvergne, dove la Coutume prevedeva la successione egualitaria con sola esclusione delle figlie dotate, nel xvii e xviii secolo si usa la successione d’erede57. In Inghilterra l’indivisibilità della trasmissione ereditaria vigeva nelle regioni organizzate con il sistema dei campi aperti. Nel nord della Francia, in base alla stesura cinquecentesca delle consuetudini, in tutta l’ampia regione dei campi aperti che ha per centro il bacino parigino, e che si estende dalla regione di Beauvais a quella d’Orléans ed al Blois, vigeva il sistema dell’istituzione d’erede, variamente temperato dalla possibilità per il figlio di tornare e di chiedere la sua parte di eredità58; il sistema si estendeva in Lorena, Vallonia, Piccardia. In Baviera la devoluzione a un unico erede era la norma, come in Austria, e il sistema caratterizzava in generale tutto il settentrione dell’area tedesca. In Tirolo, fino al xviii secolo, la successione spetta all’ultimogenito. Gli esempi riportati non implicano che il sistema fosse generale. Ci sono aree dove vige il principio della successione egualitaria: alla Provenza e alla Languedoc vanno aggiunti la Normandia, terra per eccellenza della successione egualitaria tra i figli alla morte del padre; il Kent, dove la consuetudine detta gavelkind, risalente all’età anglosassone, prevedeva la divisione tra gli eredi; la Fiandra; la Toscana; l’Italia settentrionale fino a un certo momento del medioevo; la montagna lombarda, e in generale la parte occidentale delle Alpi. Le consuetudini d’eguaglianza si avvicinano a principi di eguale suddivisione tra i figli sanciti dalla legislazione moderna, ma la prossimità non deve ingannare quanto alla loro origine. Esse rinviano infatti a consuetudini precedenti il feudalesimo che privilegiavano il clan, la gens, e davano ai discendenti egual possibilità di utilizzare le risorse comuni, territori normalmente vasti, con bassa densità di popolazione, su cui si esercitavano agricoltura itinerante, poche forme di coltura stabile, raccolta, caccia, allevamento brado. La legge degli alemanni al cap. 81 fa allusione alle genealogie che si dividono le terre disponibili59. In tutta la penisola iberica, fino verso il x-xi secolo, era generale il sistema della divisione dei beni in parti uguali tra i figli60. Il regime dell’uguaglianza poteva funzionare anche in presenza di forme di insediamento più stabile e di popolamento vieppiù denso. Veniva allora bilanciato da altri elementi che garantivano la possibilità di esistenza della comunità domestica: matrimonio ritardato, celibato e permanenza nella casa paterna di alcuni dei figli, trasmissione delle quote ereditarie solo al momento della morte, strategie matrimoniali61. L’aristocrazia feudale aveva reso ben evidenti a tutti i vantaggi economici e di potere della primogenitura; il feudalesimo aveva contribuito in modo rilevante alla diffusione del principio dell’unico erede. Abbiamo già accennato al fatto che inizialmente la servitù personale non prevedeva la possibilità di trasmettere i beni servili ai propri discendenti. L’evoluzione delle consuetudini e dell’interpretazione aveva però aperto lo spazio alla successione dei servi, di regola limitatamente al figlio maschio
con i relativi problemi della dispensa ecclesiale50. Normalmente la scelta all’esterno viene controllata, delimitandone l’ambito, che può essere individuato da una rosa di famiglie, da un certo numero di villaggi e nella maggior parte dei casi dal territorio della parrocchia. Veniva applicata anche la pratica dei matrimoni incrociati, che avevano il vantaggio di non comportare per la comunità domestica gravose cessioni di beni. Agli uomini che il matrimonio garantiva, dovevano essere assicurati la terra, i beni. I termini in realtà non sono del tutto corretti. Come abbiamo visto, il nucleo familiare viveva grazie alla disponibilità di risorse che gli venivano a titolo diverso: concessione, censo, diritto a quote di beni comuni, terre tenute in piena proprietà, bestiame posseduto a vario titolo. Tutto questo complesso doveva essere trasmesso da una generazione all’altra, e insieme a esso i rapporti sociali, che fondavano identità e cultura. In realtà, si trasmetteva una titolarità di quote e più profondamente un diritto di appartenenza alla casa, al villaggio, alla valle, una posizione nella rete delle relazioni sociali51. Nella trasmissione dei beni e delle titolarità si scontravano interessi molteplici. Dall’esterno c’era quello dei signori, attenti a garantirsi propri diritti tramite la continuità della famiglia e la difesa dell’integrità dei beni; ma c’era anche quello della comunità più vasta, alla quale importava che non avvenisse un turbamento degli equilibri costituiti. All’interno si contrapponevano un principio di giustizia, che voleva innanzitutto l’eguaglianza tra i figli, discendenti di uno stesso sangue, e un principio di solidarietà, che si preoccupava innanzitutto della continuità della famiglia, tanto produttrice della sopravvivenza fisica quanto fattore d’identità nel tempo. La prevalenza di uno dei due principi identifica aree dove predomina la divisione dei beni tra i figli e aree dove predomina la nomina di un erede52. A volte, in strutture che restano fondamentalmente patriarcali, il diritto del primogenito è tanto forte da fargli acquisire i beni anche se donna53. Nel caso si privilegi uno dei figli, le figlie ricevono quote dei beni nella forma della dote, i figli possono riceverne nella forma di quote legittime, o anche in quella dell’erezione della casa54. I figli non eredi possono continuare a vivere nella casa, in una posizione di subordinazione all’erede oppure fondare un’altra casa in altra parte del villaggio o della valle. In molti casi se ne vanno in cerca di fortuna, salvo mantenere un legame privilegiato con la casa e il suo capo55. La trasmissione ereditaria avviene per causa di morte oppure al momento del matrimonio del figlio (o della figlia), normalmente primogenito, che viene istituito erede. Egli riceve la disponibilità della casa e dei beni, ed assume parimenti obblighi di mantenimento e di sostegno nei confronti dei genitori e degli altri fratelli e sorelle (riguardo a queste ultime, di particolare rilievo l’obbligo di dotarle). I redditi di ciò che ha ricevuto costituiranno la fonte con cui fronteggiare gli obblighi assunti, spesso, in età moderna, resi gravosi dall’andamento delle congiunture e dalle difficoltà dei mercati56. L’istituzione d’erede è un tratto diffuso in molta parte dell’area europea studiata in questo volume. Sono già state citate la
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che vivesse in comunità. Vediamo la regola imporsi nelle famiglie servili inglesi, con passaggio dal privilegio dell’ultimogenito a quello del primogenito62. A Iranzu, nel xiii secolo, il signore preferisce, e quindi contratta o impone, la successione d’erede alla divisione tra le famiglie63. In Galizia settentrionale il monastero cistercense di Santa Maria di Meira nell’ultimo terzo del xiii secolo impone ai propri contadini il passaggio dal sistema egualitario al sistema d’istituzione d’erede64. L’interesse del signore è chiaro: evitare la dispersione delle quote e garantirsi gli uomini necessari per farle produrre; non va però sottovalutato l’interesse della famiglia contadina: via via che gli spazi si riducono, e il popolamento rurale si fa denso, questo è un modo efficace per garantirsi la continuità e, là dove le condizioni lo permettono, un buon grado di prosperità. Un diffuso compromesso tra gli interessi del signore e l’esigenza di eguaglianza tra i membri della famiglia avveniva nelle communautés taisibles (e ne fu certamente spesso all’origine): qui il signore non imponeva l’unico erede, ma la convivenza degli eredi. Nel Bourbonnais i beni servili potevano esser trasmessi solo ai figli “communs et demeurant ensemble avec le trépassé à l’heure de son trépas’’65. Così in Franca Contea e nella Svizzera di lingua francese erano i figli vissuti in comune con i genitori ad avere diritto all’eredità. Nella Toscana quattrocentesca era corrente che i figli alla morte del padre rimanessero nell’indivisione e sotto l’autorità del primogenito capo di famiglia, convivessero e sfruttassero le terre in comune. Il caso della signoria di Crowland Abbey, dove il gruppo di eredi si comporta di fronte al signore come un unico concessionario66, ha un generale riscontro nella più tarda pratica consuetudinaria francese, per cui, salvo il consenso del signore alla divisione, gli eredi erano tenuti solidalmente al pagamento del censo anche se ognuno gestiva la propria quota67.
degli abitanti a un santo particolare. La croce sull’architrave della porta principale ne segna il carattere cristiano. Nel terreno circostante la chiesa, al momento della fondazione, ogni famiglia riceveva il luogo per i propri morti. Conservarne la memoria era un dovere primario basato sull’osservanza cristiana e su una più antica religiosità: al compito erano preposte in particolare le donne della casa. Questi riferimenti sommari mostrano la profondità del legame tra famiglia e casa e anche la forza, l’oggettività, verrebbe da dire la personalità, che l’edificio finiva con l’assumere. Normalmente ogni edificio veniva conosciuto dalla comunità con un nome che gli dava un’individualità propria, un nome a volte legato a caratteristiche geografiche e a vicende particolari, ma per lo più derivato da quello del primo capo maschile della casa, del fondatore. E quanto più con questo si risaliva, a torto o a ragione, nei secoli, tanto più c’era fierezza nell’abitarla, tanto più radicata e consolidata era l’identità della famiglia nel villaggio. Ciò che infatti permetteva all’individuo di non scomparire nella generica umanità era inserirsi nell’ordine dei predecessori e dei successori, la possente linea che legava passato e futuro. Nella regione pirenaica la forza della casa, che incorpora l’energia dei primi fondatori, sembra quasi debordare su quella degli individui, che passano. Il capo del gruppo familiare che la abita può allora venire identificato con il nome di battesimo, più quello della casa70; il passaggio da una casa all’altra implica un cambiamento di identità sociale; l’uomo che si trasferisce nella casa della donna erede prende il nome di lei o della casa, e questo viene trasmesso ai figli, così che non vada perduto tra le generazioni71.
12. Contrasti e sviluppi nell’età moderna Abbiamo descritto l’organizzazione sociale delle campagne europee con le caratteristiche che presenta nell’ultimo medioevo e nell’età moderna. Molti dei tratti si ritrovano vivaci alla fine del xviii ed anche nel xix secolo nelle aree dove più lente avvengono le trasformazioni politiche e sociali (ragione questa fondamentale della conservazione degli edifici in pietra). Occorre però in conclusione fare un cenno ai principali mutamenti avvenuti in questo arco di tempo quanto all’organizzazione economica e politica. Essi sconvolgono il paesaggio sociale, prima ancora di quello edilizio, solo in alcune aree (come l’Inghilterra delle enclosures e la pianura padana degli affitti), ma individuano il contesto e gli orientamenti in cui le comunità si trovano a vivere. Si trasforma l’organizzazione del potere. Al sistema delle dipendenze personali, caratteristico delle monarchie feudali, si sostituisce uno stato che vuole governare un territorio attraverso i suoi funzionari, come lo stato assoluto francese e spagnolo, e il Polizei-und Verwaltung Staat che prende forma in Germania dalla metà del Seicento. Stato significa innanzitutto fiscalità, quindi maggiori oneri a carico delle comunità, specie quando occorreva finanziare i costi delle grandi guerre dell’età
11. La famiglia e la casa La stabilizzazione dell’insediamento e l’identificazione del gruppo sociale familiare all’interno di esso hanno il loro corrispettivo nella nuova importanza che la casa assume. La sua centralità, il fatto che debba durare nel tempo sono sottolineati anche dalla cura nella scelta dei materiali, nel nostro caso la pietra, più costosa delle ramaglie intrecciate e impastate con fango del primo medioevo, ma più duratura e anche più bella. Elementi antichi continuano a vivere in essa: il focolare, oltre che utile alla preparazione del cibo e al riscaldamento, è il centro sacrale della casa, il punto di riferimento per tutti quanti vi abitano. La comparsa del primo fuoco nella casa è un momento fondante; in alcune consuetudini è il rettore della parrocchia ad accenderlo e benedirlo68. Cerimonie particolari vengono svolte quando una nuova persona viene a far parte della casa oppure quando la comunità domestica si scioglie69. Così l’ingresso, per il quale a questo spazio si accede, è il luogo dei riti particolari e non può essere attraversato se non nei modi prescritti dalla consuetudine. Un angolo sacro, nella casa, manifesta la devozione
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contrapponevano quelli che disponevano solo della terra che permetteva regolare sussistenza, e quanti avevano così poca terra che dovevano integrare il proprio reddito con il lavoro per il signore o per altri contadini. Gli equivalenti si trovano dovunque. In Germania, accanto al contadino in senso pieno, che dispone di tutto il necessario, il Bauer, ci sono i Gärtner, i Kötter, i Kätner, nelle terre austriache settecentesche, anche per ragioni fiscali, i membri del villaggio si dividono secondo i possessi in pieno, mezzo, quarto contadino, oppure sono Kötter, senza terra75. Al processo di stratificazione interna si era accompagnato quello di allontanamento, favorito anche dalle opportunità offerte dallo sviluppo urbano, le guerre, i commerci. Molti membri lasciavano il villaggio per cercare fortuna altrove, in altri dissodamenti o su altre frontiere, nelle città e negli eserciti. Tra quanti restano, si consolida una mentalità comune costruita sui gesti, i riti, i ritmi consacrati che individuano i membri della comunità. In molti villaggi vengono a trovarsi ben presto due categorie di persone: quelli che fanno parte della comunità e i nuovi arrivati, a qualunque titolo. I primi si identificano con i nomi più svariati: originari, masuirs, vicini, regolieri76 e con frequenza si oppongono ad accettare in comunità i nuovi venuti. Essi sono i discendenti di sangue dei primi insediati, oppure degli insediati al momento della rifondazione del villaggio o della creazione degli statuti, oppure ancora discendenti dei detentori di terre che avevano fatto parte dei mansi originari. È sempre l’immagine di una filiazione, reale o fittizia, di una successione storica. A volte sono anche i meglio dotati economicamente e, giocando sull’autonomia amministrativa e sulla gestione dei beni comuni, riescono a concentrare nelle proprie mani la vita economica e politica della comunità. Ovviamente i nuovi arrivati, e i meno dotati, premono perché venga riformulata la costituzione dei villaggi e per avere accesso, o migliore accesso, ai beni comuni. Le controversie al riguardo sono innumerevoli per tutta l’età moderna, quanto le varie pattuizioni e concessioni che via via vengono strappate. Il fenomeno è importante a prescindere dagli esiti particolari: indica che quando le comunità vengono toccate dall’ondata di dinamismo economico che sta iniziando a percorrere l’Europa, non reagiscono in modo adeguato. Esse funzionano, amministrano, ripartiscono, garantiscono anche una vita sociale ordinata e, per molti aspetti, accogliente, ma di fronte alle novità che con sempre maggior frequenza si affacciano sulle loro piazze, sembrano aver perduto quella capacità aggregativa, economica ma insieme sociale e culturale, che per secoli era stata la base della loro forza innovativa. Si dimostrano tuttavia più vigorose di quanto ritengono i loro avversari e continuano ad esistere per tutto l’Ottocento, in qualche caso anche nel nostro secolo; alcuni loro elementi durano fino ai nostri giorni, in una posizione isolata, discosta dalle grandi vicende della società e del potere, ma non per questo meno significativa.
moderna. Se la richiesta giungeva in una congiuntura difficile, o era di dimensioni rilevanti, la comunità poteva esaudirla solo indebitandosi. Il cumulo dei debiti portò molte comunità ad alienare quote più o meno consistenti dei loro patrimoni comuni, con effetti disgregativi che andavano al di là del semplice danno economico, dato il legame fondante da sempre esistito tra la comunità e i propri beni. D’altra parte, l’organizzazione in villaggi e comunità più vaste era assunta all’interno della struttura amministrativa dello stato e diveniva elemento del più grande gioco per il dominio politico, in cui il sovrano e i suoi funzionari si contrapponevano ai signori feudali. In questa battaglia le comunità furono spesso favorite dai funzionari del sovrano, che miravano a creare tra re e popolazione un rapporto diretto, che non passasse attraverso la mediazione feudale72. Questa precaria congiuntura d’interessi si spezzò tuttavia nel Settecento, quando le riforme illuminate da un lato e l’abolizione rivoluzionaria del feudalesimo la notte del 4 agosto 1789 dall’altro, ripudiarono i legami su cui le comunità erano costituite e tentarono di eliminarli73. Anche la società rurale si complica, compaiono nuove figure e vecchie figure si rinnovano. Nobili, artigiani, borghesi, sacerdoti, mercanti, patrizi cittadini, ma anche contadini arricchiti hanno danaro da investire ed apprezzano la sicurezza, la solida continuità che la terra offre. In qualche caso cercano solo la nobilitazione; in altri casi, li attira anche la prospettiva di buoni profitti: li vediamo allora darsi da fare per appoderare le terre, creando aziende agricole compatte, oppure per sostituire i prati agli arativi, quando la lana fa aggio sui cereali (è la ben nota vicenda delle recinzioni – enclosures – inglesi: la pastorizia domina nelle terre sottratte al regime dei campi aperti). In qualche caso sono gli stessi signori a curare la riorganizzazione delle terre e a darle in affitto a una persona che a sua volta le farà lavorare da braccianti. Ovvio lo sconvolgimento prodotto sul tessuto sociale ed economico precedente, ma più interessante la forza che questo mostra. L’individuazione di poderi nel territorio di un villaggio infatti non comportava la fine di tutti i rapporti comunitari. Rimanevano di regola estremamente vivaci i diritti d’uso su boschi e pascoli, e la consuetudine del vano pascolo. Tanta mobilità economica si ripercuote sulla struttura interna del villaggio. Già il complesso e stratificato processo di formazione dei villaggi europei aveva impedito che essi fossero costituiti sulla perfetta eguaglianza tra i membri. Anche nei casi più recenti di villaggi di colonizzazione pianificati, servitori e braccianti agricoli erano comparsi ben presto, quando addirittura non erano previsti fin dall’inizio. Del resto le vicende delle successioni, le venture e sventure familiari, le propensioni degli individui, avevano contribuito a differenziare il villaggio al suo interno. In Inghilterra questo è visibile già nei dati riportati nel censimento noto come Domesday Book (1086); da uno studio su alcuni villaggi trecenteschi74, risulta che ai contadini possessori dei buoi necessari per la coltivazione si
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La solidarietà nell’insediamento
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produttivi rispetto a quelli del dominio signorile; per questo motivo, soprattutto dal xiv-xv secolo, le strutture comunitarie si arroccano preferibilmente sulle terre alte o più difficilmente coltivabili pur di salvaguardare le proprie autonomie. La terra della comunità non è mai posseduta a titolo di dominazione e per esprimere un potere astratto o ideale, ma solamente in funzione di un suo consolidamento e di una sopravvivenza; in questo senso viene amata e custodita anche in modo estremamente geloso, tramandando di padre in figlio l’immagine dei luoghi e dei confini, che diventano quasi il simbolo dell’esistenza della comunità stessa. Della terra tutti i membri hanno il diritto di fruizione e quindi accesso a tutte le parti secondo le quali si articola il territorio in rapporto alla possibilità di coltura. Ogni gruppo familiare aveva quindi accesso a ciascuna di queste fasce colturali, anche se non sempre la proprietà si presentava globalmente e rigorosamente indivisa: ciò tuttavia avveniva sempre per i territori destinati al pascolo, più frequentemente per il bosco da taglio, meno frequentemente per il coltivo, ma sempre era rispettata l’equa distribuzione; così come era garantito a tutti, senza obblighi e servitù, l’uso della fonte primaria di energia costituita dall’acqua, sia destinata all’irrigazione e all’abbeverata sia come forza motrice per molini, magli, ecc. Qualsiasi attività di lavoro veniva gestita dall’intera comunità secondo usanze e regole variabili da regione a regione, ma quasi sempre determinata dall’assemblea dei capifuoco e riconnessa a tradizioni con componenti religiose e magiche. La vita di lavoro dell’intero villaggio era così l’espressione di una ritualità che aveva radici mitiche, fondata sulla dura realtà della sopravvivenza quotidiana e, di conseguenza, anche l’esperienza dello spazio e del territorio si intesseva su una rete di funzioni che diventavano fatti simbolici. La base culturale, che dà significato al contesto materiale, è quindi il senso della solidarietà che – se a volte è anche esclusiva ed ostile nei confronti del forestiero – è tuttavia rigorosamente imparziale verso i membri del corpo insediato. Solidarismo che comporta non solo il reciproco aiuto, e diremmo quasi inevitabile, per i lavori che esorbitano le possibilità dei singoli, ma soprattutto educazione a una vita non competitiva all’interno del villaggio, all’aiuto nelle circostanze difficili ed eccezionali, al sentimento sostanziale dell’uguaglianza pur nella differenza dei compiti, secondo modelli di comportamento che la cultura più accentuatamente urbana, a partire soprattutto dal xvi secolo, progressivamente abbandonava1.
1.Comunità e insediamento
ualsiasi analisi storica si faccia sulle forme abitative a matrice popolare in Europa porta inevitabilmente – come si è visto nel precedente capitolo – a far affiorare lo stretto rapporto tra le manifestazioni dell’insediamento umano, nella tangibile e concreta forma materiale, ed il nesso comunitario che lega i componenti dell’insediamento. Ovunque e con espressioni di multiforme varietà, ma sempre fedeli a tale motivo dominante, lo spazio dei villaggi, dei borghi e dei casolari riflette la tensione a costituirsi come unità spaziale organica, sia nel reciproco rapporto delle case sia nella strutturazione dello spazio pubblico sia nella collocazione dei luoghi comunitari di carattere funzionale, istituzionale e religioso. Certamente esiste una casistica complessa di forme insediative che esprime la varietà del rapporto sociale, che parte dai più modesti aggruppamenti, risultanti dallo sviluppo di un unico e primitivo ceppo familiare allargato, nel quale il rapporto di consanguineità è predominante, per arrivare ai più ampi e complessi villaggi o sistemi insediativi articolati, nei quali il rapporto comunitario è consapevolmente espresso, sia in strutture istituzionali codificate sia in forme urbane ben precise e significative, come si vedrà più avanti. La base materiale della comunità di villaggio si costituisce sul concetto di proprietà e appartenenza comune al luogo dell’insediamento, anche quando in esso interagiscono altre forme tangibili di possesso di altra origine feudale o signorile. Il possesso indiviso della terra era l’elemento sempre presente, anche quando per alcuni settori di colture in particolari terreni si era arrivati a forme parziali di lottizzazioni e chiusura: ma alcuni beni fondamentali – il pascolo e il bosco soprattutto – rimangono della comunità in modo stabile e intestati nominalmente a tutti i capifuochi, almeno fino alle riforme settecentesche e ottocentesche. Tuttavia la terra era intesa non solo come strumento di produzione ma simbolicamente come contesto tangibile dell’autonomia e della libertà della comunità stessa. La difesa del libero possesso del territorio rurale ha sempre costituito il sottofondo costante della dialettica tra comunità rurale insediata e potere feudale e signorile, attraverso battaglie nelle quali le comunità si presentavano per lo più inermi e indifese, e pertanto l’esito appare come la conseguenza di pazienti trattative, di difese silenziose e spesso di ripiegamenti su territori appartati e meno
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La solidarietà nell’insediamento insediamenti4: in posizione elevata o anche in zona di fondovalle, ma ben visibile, la pieve si colloca prevalentemente al centro dei percorsi che legano gli insediamenti con i collegamenti viari principali e sottolinea così il nesso con l’intero sistema territoriale. Il nucleo insediativo a sua volta può essere costituito da un’unica e ben individuabile casa di famiglia patriarcale: questo avviene in quelle regioni nelle quali si conserva più radicata la tradizione del mansus altomedioevale, anche in forme assai modificate nel tempo. Le forme della casona cantabrica, del caserio basco, della masia catalano-aragonese, del meix borgognese, del casale toscano e della masseria della Sicilia orientale, corrispondono a questo modello, che contempla la casa in un contesto poderale del quale si vuole assicurare la continuità da una generazione all’altra. Non sempre la casa di questo tipo di famiglia patriarcale rimane isolata in modo assoluto: spesso si presentano delle piccole aggregazioni, a volte queste aggregazioni crescono a formare un nucleo di villaggio, come frequentemente avviene nei Paesi Baschi o in Aragona arrivando ad avere ciascuno la propria chiesa parrocchiale; oppure con raggruppamenti molto ridotti formano nuclei satelliti di un centro mercantile più importante come avviene nei Paesi Baschi, in Catalogna, in Toscana e in Sicilia. In altre regioni il sistema insediativo discreto è riconoscibile dalla diffusione nel territorio non più di singole case ma di casali più complessi e articolati, seppure non configurabili ancora a livello di villaggio vero e proprio. Sono strutture abitative che ammettono la compresenza di più nuclei familiari o fuochi, ma non necessariamente legati tra loro da stretti vincoli di consanguineità e con un rapporto più complesso con la proprietà terriera, non rigidamente arroccata al mantenimento dell’unità dei beni. È questa la modalità insediativa che predilige un’aggregazione in più ampi sistemi, caratterizzati dalla pieve rurale e dalla gestione comune di alcuni beni fondamentali come il pascolo e il bosco, mentre è caratteristico il frazionamento dei poderi e la loro più limitata estensione; la loro coltivazione avviene, sia per gli aspetti di seminativo che di essenze legnose, in appezzamenti chiusi e vicini a ogni singolo gruppo di case5. Assai diffusa in tutta Europa, certamente la più diffusa nelle aree collinari e montane accidentate, questa tipologia dell’insediamento ha spesso una genesi assai antica: può essere in molti casi infatti il modo secondo il quale si è sviluppato nel tempo un primitivo insediamento altomedioevale o dei primi secoli dopo il Mille, attorno a una casa-torre, trasformata e arricchita con altre residenze ed edifici rustici, come è avvenuto in misura notevole ad esempio nei Paesi Baschi, nelle valli delle Alpi Centrali (Ossola, Ticino, Grigioni), nell’Appennino tosco-emiliano e nel Peloponneso. Altrove questa forma insediativa è di poco meno antica ed è la risultante di aggregazioni o di geminazioni di famiglie contadine più modeste trasferite nel processo di occupazione del suolo caratterizzante il tardo medioevo. In alcune aree questa
Un simile atteggiamento culturale trova alla sua origine evidentemente una continuità precisa con il senso di unità primaria derivante dalla consanguineità, e affonda le sue radici nel substrato ancestrale delle primitive comunità che occupavano la scena europea prima della conquista romana. Ma, indubbiamente, mano a mano che riprende lo sviluppo, dall’età carolingia in poi, e con esso l’articolazione, la crescita demografica e quindi il progressivo distacco dall’antica tribalità, un altro fattore subentra a rendere cosciente e motivato, al di là delle semplici ragioni di sopravvivenza, questo atteggiamento, ed è la diffusione capillare della tradizione cristiana che, presente nelle diverse forme istituzionali (monastero, pieve, parrocchia) dà forma di consapevolezza al comunitarismo primitivo. Questo aspetto, decisivo per la comprensione del popolamento dell’Europa medioevale e postmedioevale, si riflette nella forma dell’insediamento e nella sua ritualità, incomprensibile e riduttiva se analizzata solo a livello dei fatti strutturali.
2. L’integrazione con l’ambiente Il quadro fino a ora indagato ci avverte che la formazione e lo sviluppo edilizio degli insediamenti nel territorio europeo – se si escludono i poli maggiori cittadini – è avvenuto a prescindere dall’applicazione generalizzata di schemi di pianificazione formale e geometrica, ma con un adattamento continuo alle esigenze della comunità, secondo un progetto culturale interno all’insediamento stesso, anche quando a volte il villaggio nasce da un atto di fondazione esterna2. Sembrerebbe quindi di dover scartare la possibilità di proporre schemi e classificazioni morfologiche; tuttavia esistono particolarità che orientano, per condizioni necessitanti ambientali e tradizione culturale, la fenomenologia urbanistico-edilizia di regioni omogenee e nello stesso tempo una ritualità ben precisa della vita quotidiana che accomuna manifestazioni anche lontane territorialmente, per cui si possono, se non stabilire delle rigide categorie, almeno delineare alcuni aspetti costanti. Si può, per ragioni non solo formali ma legate alla struttura economica e alla tradizione culturale e istituzionale dei gruppi umani insediati, distinguere innanzitutto tra la forma dell’insediamento discreto3 e quella dell’insediamento compatto. La caratteristica dell’insediamento discreto è quella di essere formato da una pluralità di case o casolari sparsi in un territorio, una valle o un monte: essi – malgrado le distanze – fanno comunque parte di una unità che in origine non è amministrativa ma comunitaria, nei termini precedentemente esposti, cioè con obblighi vicinali tradizionali reciproci. Quasi sempre il sistema culturale di riferimento è la struttura, per lo più altomedioevale, della parrocchia e della pieve rurale, cioè dell’insediamento religioso del primitivo movimento di evangelizzazione, che diviene luogo della chiesa, del cimitero e talora del mercato, e che non corrisponde a nessuno degli
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disseminazione rappresenta un fenomeno incredibilmente vasto: in alcune aree della valle del Douro nel Portogallo, in Galizia, nel Massiccio Centrale, nella Liguria di Levante, in Croazia e Montenegro, nel Pindo, esistono circoscrizioni amministrative risultanti dalle antiche aggregazioni comunitarie, formate da decine di piccole frazioni la cui origine si può far risalire ai secoli xiii-xv. L’insediamento compatto invece è rappresentato da aggregazioni più ampie, dotate al loro interno di tutte quelle strutture atte alla vita e alla crescita della comunità, non solo di tipo strettamente rurale, ma anche religioso (la parrocchia), istituzionale, amministrativo e commerciale. Si tratta di villaggi veri e propri formati da un numero consistente di fuochi, atto a dar vita a un potenziale di lavoro rurale e artigianale in grado di colonizzare vasti territori. Se l’insediamento discreto rappresenta un tessuto le cui maglie s’intessono minutamente con l’ambiente naturale, escludendo gerarchie e polarizzazioni, l’insediamento compatto diviene esso stesso il baricentro pesante di un vasto ambito sia sotto il profilo topografico sia economico, anche se non sempre ovviamente la distinzione è così radicale tra villaggi di tipo compatto più piccoli e quelli del sistema discreto di maggiori dimensioni. Si è già notato come lo sfruttamento delle aree pianeggianti o in leggero declivio, mediante il sistema del comunitarismo agrario legato ai campi aperti e allungati, che per sua natura richiede una collaborazione continua tra molte famiglie6, ha favorito lo sviluppo di villaggi di tipo compatto, abbastanza distanziati l’uno dall’altro: è il caso dell’Inghilterra e della Francia settentrionale soprattutto, ma anche di altre regioni, non così rigidamente legate alla forma dei campi allungati, come in alcuni grandi villaggi delle terre alte al confine tra Spagna e Portogallo, nei villaggi con sistemi a corte della Borgogna o in quelli fortemente aggruppati della Provenza e della Liguria occidentale, dell’Italia centro-meridionale, dell’Istria o del Campidano sardo7. Certamente a determinare la compattezza dell’insediamento intervengono ragioni non solo legate alle necessità rurali: tra queste le più importanti sono rappresentate dalla necessità di difesa e dalla logica degli scambi, che inducono a raggrupparsi in luoghi elevati e serrati da mura, spesso costituite dalle cortine delle case esterne, oppure a raggrupparsi attorno ai luoghi di transito che diventano così centri di mercato e di scambio, come avviene per lo più nei luoghi di imbocco dei passi montani, in corrispondenza di ponti o all’incrocio delle strade più importanti.
e per lo più rimangono entro la dimensione medio-piccola con aggregazioni che vanno da una decina a una settantina di fuochi. Nello stesso tempo si è visto come la logica stessa strutturale e istituzionale della famiglia patriarcale e del rapporto comunitario di vicinato, abbia prodotto accrescimenti del tessuto edilizio che non sono configurabili come addizioni di cellule elementari una accanto all’altra dal centro alla periferia – come avviene per la città – ma come sviluppo endogeno di ogni nucleo familiare che riempie il più possibile lo spazio del focolare originario, ammassando sempre maggiore volume edificato all’interno dell’abitato storico. Questo sviluppo, in apparenza casuale, segue però dei criteri abbastanza precisi, non determinati da disposizioni formali di governo ma dalla consuetudine che ispirava gli accordi tra i reggitori dei nuclei patriarcali, la cui preoccupazione era costantemente quella di mantenere la continuità dello spazio dell’aggregato in modo comunque da non riuscire di ostacolo all’inserimento al suo interno di nuovi corpi edilizi che, prevedibilmente, si rendevano necessari allo sviluppo delle unità familiari. Del resto, quando tutto lo spazio del villaggio risultava utilizzato, significava anche che il rapporto tra l’insediamento e le risorse ambientali aveva raggiunto un livello di saturazione e si rendeva necessaria la fondazione di nuovi insediamenti oppure si doveva andare incontro a una crisi dell’insediamento stesso, con fenomeni di emigrazione periodica e stagionale, come avvenne in modo diffuso a partire dal xviii secolo. La planimetria del villaggio si struttura attorno a un percorso principale che può essere tangente o attraversare per intero o in parte l’abitato8: se esistono incroci con altre strade, quasi sempre avvengono ai margini del villaggio e sono sottolineati da croci in pietra o da cippi. Attorno al percorso principale si strutturano gli aggregati architettonici, più o meno compatti, per la residenza, i rustici e – ma non sempre – le stalle, intersecati da percorsi secondari che in alcune regioni spesso sono coperti anche a galleria, e che si allargano in spazi aperti formanti corti e aie destinate al lavoro artigianale o agricolo, che può e deve svolgersi nelle vicinanze della casa. Spesso connessi a più di una abitazione – a volte addirittura ricavati all’interno dell’abitazione stessa – questi spazi rappresentano il punto di incontro a livello di vicinato9. Più marginali infine si pongono le aree di pertinenza di ogni casa, utilizzate per alcuni servizi domestici, per l’allevamento degli animali da cortile e per il piccolo orto familiare che ancora fa parte del villaggio. In genere ciascuna unità abitativa familiare cerca di evitare di ritrovarsi totalmente annegata all’interno della compagine edilizia del villaggio, ma tende ad avere sempre un affaccio o uno sbocco facile verso l’esterno, o quantomeno verso i percorsi principali che conducono ai campi coltivati: così, anche nei casi di villaggi più complessi e articolati, la campagna arriva a toccare almeno in parte ciascun isolato o unità abitativa posse-
3. I tempi del villaggio Le osservazioni fatte sulla morfologia del villaggio ci mostrano come la forma più diffusa e comune è quella di aggregati compatti, che raramente raggiungono dimensioni molto ampie
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La solidarietà nell’insediamento casi documentata – al xiv secolo, quando appare con certezza cronologica la grande fioritura di architetture domestiche in pietra, dobbiamo per ora accontentarci di presupporre, molto ragionevolmente peraltro, che seguendo le migrazioni delle maestranze dei lapicidi e dei costruttori ai quali si deve la immensa fioritura dell’architettura religiosa romanica, si siano progressivamente diffusi anche i primi modelli abitativi in pietra che, nei villaggi, compaiono sotto forma di case molto semplici, dalla pianta quadrata o rettangolare, elevati di due o tre piani in altezza13 che con una certa approssimazione oggi definiamo come casa-torre. Generalmente l’osservazione della struttura edilizia degli aggregati compatti ci porta a distinguere, abbastanza facilmente anche alla semplice osservazione visiva, due fasi fondamentali: una prima, che possiamo far risalire al medioevo, che comprende i corpi di fabbrica che costituiscono il nocciolo delle unità abitative, con più spiccati caratteri di monumentalità, più accurata esecuzione dei paramenti murari e dei particolari costruttivi, ma con una semplicità ed essenzialità planimetrica e volumetrica maggiore. La seconda fase, che potremmo chiamare propria dell’età barocca, mostra – assieme a qualche edificio di nuova costruzione – tutta una serie di addizioni di corpi di fabbrica minori che completano i più antichi, li collegano tra loro, riempiono ogni spazio disponibile nel tessuto del villaggio, spesso scavalcando le vie e i percorsi con volti più o meno massicci e continui che, in alcune regioni danno vita ai tipici villaggi di galleria14. Questa successione comunque sta a testimoniare da un lato il progressivo addensarsi, dal xvi secolo in poi, di abitanti e di attività nell’ambito dei villaggi e, nello stesso tempo, la renitenza dei gruppi familiari a scindersi in misura eccessiva e comunque a dar vita a spazi edificati al di fuori di quelli tradizionali.
duta da ciascun nucleo familiare. Il villaggio, che osservato da lontano e superficialmente può sembrare una realizzazione edilizia semplificata e unitaria, in realtà, visto attentamente al suo interno, attraverso la complessità dei suoi percorsi, mostra la caratteristica, comune a tutti gli esempi qui esaminati, di essere realizzata in più riprese e per un lunghissimo arco di tempo, come risulta evidente dal succedersi delle riprese degli apparecchi murari in pietra, con caratteristiche diverse e successioni di cantonali, immersi l’uno nell’altro, e tamponature e riaperture di porte e finestre che nel loro diverso stile ci parlano di fabbricazioni in epoche a volte assai lontane. La cosiddetta architettura senza tempo ci riserva invece una insospettata differenziazione negli strati edilizi del villaggio che possono essere ricostruiti per una esatta percezione del fenomeno, anche se spesso la difficoltà di tali indagini rappresenta un indubbio e grave ostacolo10. Gli indizi e le fonti che ci consentono di datare il processo edilizio dei villaggi in pietra sono numerosi, ma non sempre utilizzabili con un preciso riferimento all’architettura in se stessa. Le fonti scritte servono a testimoniare spesso l’esistenza del villaggio ma non la sua consistenza materiale: si tratta quasi sempre di riferimenti che descrivono lo stato delle giurisdizioni ecclesiastiche o civili, le estensioni di proprietà dei monasteri con relativi lasciti e donazioni, i privilegi e i benefici ecclesiastici o nobiliari. Appare il volto del sistema insediativo europeo già assestato nelle sue localizzazioni, anche minute, sul finire del primo millennio, ma poco o nulla conosciamo per questo tramite della forma delle case, dei materiali impiegati, delle articolazioni spaziali. Un’altra fonte importante è rappresentata dalle date incise sugli architravi dei portali di ingresso; esse costituiscono un motivo ricorrente dell’architettura domestica europea e ci permettono di stabilire riferimenti importanti per ogni villaggio, ma l’uso della datazione diviene un fatto comune e diffuso solamente a partire dal xv secolo, e rarissime sono quelle del xiv. Non bisogna tuttavia dedurre – semplicisticamente – che l’architettura domestica in pietra inizi solamente dalla seconda metà del xiv secolo, in particolare – come è stato affermato – solamente con la ripresa demografica ed economica dopo le grandi epidemie di peste nera11. Se le datazioni incise sulla pietra appaiono solo dopo tale epoca, infittendosi poi tra il xvi e il xvii secolo, può significare solamente che, in età antecedente, non vigeva l’uso di apporre riferimenti scritti, che si diffondono progressivamente con il crescere della alfabetizzazione anche al di fuori del mondo ecclesiastico. Del resto il memoratorio dei maestri comacini ci testimonia che tali maestranze, almeno nell’Alta Lombardia, si dedicavano alla costruzione non solo di edifici monumentali e di case signorili, ma anche di case comuni sia nel sistema cosiddetto romano a grandi conci, sia gallico a conci minuti12. Per il periodo che intercorre dall’età di Liutprando e di Carlo Magno – allorché questa attività è segnalata e, in pochi
4. Gli spazi della comunità La socialità nella comunità di villaggio costituisce una dimensione che riguarda ogni momento della vita quotidiana e non si esprime solamente in alcune circostanze di particolare rilevanza come feste, sagre o ricorrenze particolari. Per queste occasioni festive, pure importanti e significative, alcuni luoghi particolari come la chiesa, il sagrato, il piazzale del mercato o delle assemblee, esprimono il radunarsi e il convenire di uno o più villaggi; ma per quella che possiamo definire la ritualità quotidiana della solidarietà, il suo aspetto feriale, possiamo affermare di ritrovarlo compiutamente espresso già nello spazio del villaggio stesso. Le strette vie, le piccole piazzette o gli slarghi, le aie che integrano, come luogo di vicinato, la dimensione più riposta della casa, i passaggi interni agli stessi edifici, rivelano come la vita familiare più intima – il cui luogo era il focolare – si proiettasse continuamente nello spazio della comunità che non considerava estraneo, ma continuamente appartenente alla sfera
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delle azioni e dei problemi di ogni giorno. Lo spazio esterno del villaggio rivela la più riposta e segreta vita della comunità, che non è privatisticamente asserragliata nella propria sfera di intimità familiare, ma è sempre disponibile a intessere un rapporto con gli avvenimenti, i problemi, le consuetudini, le difficoltà e le circostanze dei vicini. Definire lo spazio del villaggio come assembleare sembra assai appropriato, soprattutto se si pone attenzione al fatto che si tratta di una assemblearità che è costante proiezione, nell’avvenimento comunitario, dei momenti più riposti della vita familiare. Lo spazio del villaggio infatti non era catastalmente frazionato, ed è comprensibile e sostenibile ancor oggi solo se può essere reinterpretato in questi termini: quando infatti un malinteso senso della privatizzazione porta a erigere chiusure e steccati, cancelli e sbarramenti, il frazionamento che ne consegue ne rende insopportabile l’uso, rendendo anguste e insufficienti quelle porzioni di suolo che un tempo integrate con le altre bastavano anche per un numero maggiore di persone15. Il continuum spaziale è quindi un fatto che riflette la globalità dell’esperienza, e in ultima istanza anche un modo sapiente ed economico che, evitando sprechi, porta alla massima utilizzazione in rapporto alle attività e ai movimenti di ogni persona. In conclusione, nella cultura e nella struttura del villaggio di origine medioevale non esiste quella contrapposizione tra spazio pubblico e spazio privato che si afferma nella pratica catastale, fondiaria e urbanistica dal Settecento in poi. Si riscopre al contrario, da tutti gli elementi architettonici della casa e del villaggio, una continuità tra lo spazio e il cuore della famiglia e lo spazio della comunità, entrambi intesi come soggetti reali e concreti, risultanti dagli oggettivi gesti della convivenza quotidiana. Questo processo di formazione dello spazio non può essere considerato spontaneo e, se pure non ci risulta essere sempre regolamentato dagli statuti scritti, nondimeno obbediva a una tradizione di diritti e doveri esercitati da parte degli abitanti e custoditi dalla responsabilità dei capifamiglia, e attuati secondo schemi e modelli che a volte arrivano a piegare al proprio disegno anche la contraria conformazione del suolo o delle preesistenze edificate16. Nello stesso tempo la priorità assegnata al continuum quotidiano non esclude una complessa articolazione che lo intesse con elementi emergenti e significativi di momenti particolari: anzi spesso ciascuno dei due aspetti trae significato dall’altro. Possiamo così distinguere tre grandi categorie di spazi dell’insediamento: la prima è quella che comprende gli spazi legati alla comunità del lavoro, in parte già accennati; la seconda comprende gli spazi legati alla comunità istituzionale; infine gli ultimi riguardano quelli espressi dalla comunità religiosa. Sono ovviamente accentuazioni che servono per l’analisi più completa di una globalità, sono sfaccettature dello stesso solido, tanto è vero che strutturalmente spesso utilizzano gli stessi luoghi. Gli spazi che si riferiscono alla comunità del lavo-
ro coincidono in pratica con lo spazio complessivo del villaggio, anche se accentuazioni particolari ne definiscono alcuni: tra essi è sempre in evidenza l’aia per la lavorazione dei prodotti prima dell’immagazzinamento, che assume forme diverse da una regione all’altra ma, quasi ovunque, è comune a più nuclei familiari costituendo il primo ambito di vicinato a diretto contatto con le porte che introducono ai focolari. L’aia lastricata – sulla quale si battevano i cereali, si asciugavano alcuni prodotti agricoli, si spremevano le mele per il sidro e si disimpegnavano tutte le altre lavorazioni, dall’uccisione del maiale alla pigiatura dell’uva e così via – era ricavata per lo più negli spazi liberi tra casa e casa e, a seconda delle colture dominanti localmente, si trovava in connessione diretta con la strada percorribile dai carri; a volte le aie sono sopraelevate su terrazzi per guadagnare una posizione asciutta e ventilata, a volte si rinserrano in piccole corti, protette da muri e sottolineate all’ingresso da ampi portali ad arco o architravati con motivi assai diversi, tra i quali ricordiamo – in Galizia e nelle Asturie, in Savoia e Valle d’Aosta – le forme a granaio pensile. A volte l’aia è in parte o in tutto coperta e racchiusa entro corpi di fabbrica o delimitata da un porticato, quando il clima è particolarmente piovoso, come nei Paesi Baschi e nelle Prealpi della Lombardia orientale e del Trentino, dove viene realizzata totalmente all’interno dei grandi edifici plurifamiliari. Vi sono anche casi di aie totalmente staccate dagli edifici, soprattutto quando, come in Portogallo e nella Spagna atlantica o nelle Alpi centro-occidentali, i granai e i fienili del villaggio costituiscono un vero e proprio quartiere a sé stante, staccati dalle case e raggruppati esternamente. Anche l’acqua costituisce una risorsa primaria e all’interno del villaggio è utilizzata per gli usi domestici e per l’abbeverata delle bestie. La fonte è sempre un luogo evidenziato e protetto, e spesso si integra con gli slarghi delle unità di vicinato ampliandosi, quando la portata è sufficiente, in vasche per l’abbeverata delle mandrie soprattutto prima del ricovero serale; quanto più l’acqua scarseggia, tanto più è evidenziata monumentalmente la sua origine, come è documentato splendidamente dalle vere da pozzo del Carso e delle isole della Dalmazia, collocate al centro delle piccole corti sopralzate su criptoportici. Al lavoro sono dedicati anche tutti gli edifici che fanno parte del costruito, con funzioni specialistiche, sia all’interno che all’esterno della compagine edilizia. Il più importante di essi è indubbiamente il forno, quando è realizzato in forma isolata e usato da tutta l’unità di vicinato o da tutto il villaggio. Collocato al centro di uno degli slarghi e realizzato in modo tale da minimizzare le conseguenze di eventuali incendi, è preceduto da un portico che, a volte, serviva anche da luogo di riunione dell’assemblea. Il suo ruolo, legato alla simbologia e alla ritualità del pane, era centrale per molte ragioni, come si può vedere nella seconda parte del nostro excursus, e nell’uso si alternavano i gruppi familiari con periodi di panificazione assai lunghi e quindi con la necessità di conservare il pane anche per diversi mesi. Accanto alle singole case o in modo unitario accanto all’in-
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La casa come evento simbolico Nell’Auvergne rimane ancora la designazione di couderc e nell’area britannica il green doveva assumere, assieme ad altre funzioni, anche questo ruolo istituzionale; ma sappiamo che nella cattiva stagione non vi era per lo più un luogo coperto apposito e ci si rifugiava nel forno, quando era grande, oppure nella chiesa parrocchiale. Rari sono i palazzi della comunità, privilegio soprattutto dei comuni a carattere cittadino, di cui si riscontrano esempi rurali in alcune valli alpine soprattutto del settore centrale e orientale. Nel Massiccio Centrale e in alcune aree a esso marginali, esiste l’edificio dell’assemblée17, che ospita sia funzioni istituzionali sia religiose ed educative. Infine gli spazi espressi dalla comunità religiosa rappresentano l’incontro tra l’orizzonte proprio del villaggio e quello dell’ecumene medioevale cristiana. Soprattutto la chiesa, plebana o parrocchiale, e il cimitero a essa strettamente legato rappresentano la conclusione dei percorsi del villaggio, in una unità spaziale che purtroppo, in molti insediamenti, è stata interrotta dalle riforme settecentesche e ottocentesche. Tuttavia in molte regioni della Spagna e dell’Inghilterra, in alcune aree francesi soprattutto del nord, e in qualche residuo caso nelle alte valli alpine italiane, si può ancora leggere quest’aspetto di integrazione tra la dimensione del quotidiano e quella del soprannaturale, reso significante per i vivi e per i morti. Valga per tutte la ricostruzione che è stata fatta da J. Caro Baroja del rapporto tra casa-villaggio-chiesa-cimitero, per il caso di Vera de Bidasoa nella valle del Batzan in GuipÚzcoa, significativa seppure non evidenziata sempre così chiaramente per tutta l’area europea occidentale.
tero villaggio erano localizzati gli edifici destinati all’immagazzinamento dei prodotti, quando non trovavano posto all’interno dell’abitazione, e al ricovero del bestiame. Gruppi di granai di piccole dimensioni, ma di squisita fattura artigianale e altissimo valore simbolico, costellano le alture della Penisola iberica atlantica e delle Alpi, con il caratteristico isolamento dal suolo mediante il sistema cosiddetto a fungo. Ma anche sono importanti i gruppi di fienili esterni, sia dei Pirenei che delle Alpi, o i villaggi per il bestiame, sia quando sono situati in prossimità dell’insediamento, sia quando costituiscono forme di abitazioni temporanee per la stagione estiva, che spesso ricalcano a quota più alta la struttura e la disposizione del villaggio, come nell’Ariège e nelle valli del Monte Rosa e del Ticino. A integrazione delle strutture di lavoro all’interno del villaggio non bisogna trascurare quelle all’esterno, dislocate in corrispondenza della fonte energetica principale del corso d’acqua in pendenza: i mulini e i magli. Soprattutto i primi, con la macinazione dei prodotti del coltivo (grano, mais, olio ecc.), erano legati da percorsi importanti a più di un villaggio, costituendo quindi un nodo di comunicazione e di scambio spesso accompagnato da altri edifici pubblici come taverne, osterie, stazioni di posta e, proprio perché utilizzanti l’acqua, frequentemente situati in prossimità di ponti, veri e propri nodi tra ambiti comunitari differenti. Più difficile è il riconoscimento di luoghi specifici della comunità istituzionale, proprio perché corrispondono assai facilmente ad altri luoghi del villaggio: l’assemblea dei vicini si svolgeva infatti, nella buona stagione, all’ombra di un albero secolare in uno spiazzo, non sempre oggi identificabile, che si privilegiava come spazio comune.
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gnata da fonti descrittive, può indurre a tali posizioni: così anche nelle aree individuate molteplici sono le espressioni e i generi, ma si può affermare che in prima istanza il denominatore comune di queste case è nell’essere la sede di un nucleo primario, complesso, a partire da legami familiari; quello che si può chiamare generalmente famiglia patriarcale o gruppo familiare allargato. Le diverse aree europee considerate hanno avuto – nel tempo – forme istituzionali diverse di questo aggregato familiare, e di conseguenza hanno dato luogo a strutture residenziali differenti, ma senza dubbio queste varietà possono essere raggruppate nella definizione di famiglia patriarcale, intesa come unità di riferimento molto complessa e articolata, risalente alle aggregazioni familiari medioevali, e che può comprendere nella definizione sia nuclei più semplici, quasi a livello di famiglia mononucleare, sia aggregazioni complesse, sia sommatorie di elementi più semplici, in un rapporto continuo e mutevole. Il modello della famiglia patriarcale – fondata sulla solidarietà resa regola di vita – sta nella capacità di aggregazione dei suoi membri al di là dell’elementare, anche se fondamentale e riconosciuto, rapporto di dipendenza tra la coppia degli sposi e i figli generati. Tanto è ampio questo concetto di comunità originaria che, soprattutto nella Francia centrale, si hanno insediamenti e case, di origine medioevale, per le quali la famiglia non era basata solo sui rapporti elementari di parentela, ma fondata sul lavoro e variamente organizzata come unità assoluta e inscindibile (au même pot et au même feu) o come aggregazione regolata di singole unità monocellulari2. La casa della famiglia allargata o patriarcale è sicuramente – al di là di ogni interpretazione spontaneistica – un organismo che cresce liberamente come risposta alla realtà e ai bisogni del vasto e mutevole aggregato umano di cui è l’espressione spaziale. Alla casa è quindi concesso, nell’economia generale di uso dello spazio del villaggio, di crescere con molta libertà col crescere dei componenti, dei familiari e persino degli ospiti, e coll’espandersi e mutare del lavoro, secondo modalità di aggregazione attorno a nuclei distributivi fondamentali. Proprio per questa flessibilità rispetto al nucleo variabile e non precostituito familiare, e per la libertà da imposizioni di pianificazione dall’esterno, la casa si configura anche diversamente nelle varie regioni, a volte aggregandosi attorno ad aie e corti, a volte crescendo attorno a un nucleo centrale in forma compatta, a volte ripetendo cellule più elementari attorno a
1. La famiglia, la casa, il focolare
a caratteristica che accomuna le esperienze dell’edilizia domestica nell’area descritta risulta congiuntamente dall’uso del materiale – la pietra – e dal rapporto culturale tra la struttura della famiglia ed i suoi aspetti di vita quotidiana, dal lavoro alla ritualità domestica. Rimandando ai paragrafi successivi gli aspetti tecnologici e costruttivi, esaminiamo ora quelli relativi al modo di esprimersi, nello spazio della casa, degli atti e dei gesti del quotidiano. Le interpretazioni e le spiegazioni che sono state date da chi ha studiato le forme e le tipologie della casa cosiddetta popolare risentono sempre di un certo funzionalismo meccanico, che vuole spiegare lo spazio domestico come risultante dalla necessità di svolgere alcune funzioni legate soprattutto alla vita rurale. Se è indubbio che nell’edilizia domestica europea è sempre esistita una rigorosa e rispettosa forma di adeguamento e di rispetto delle condizioni ambientali, è tuttavia da riproporre la questione, sia perché non solo le ragioni del lavoro rurale entrano come componenti decisive a determinare forme e tipi, sia perché – a partire da condizioni ambientali analoghe – diverse sono le forme e, viceversa, a forme simili spesso, per ragioni culturali più ampie, corrispondono motivazioni sociali ed economiche differenti1. Tuttavia il procedere per accostamenti, evitando di preventivare un sistema rigido di causa ed effetto, nel nostro campo – data la vastità e complessità della materia non ancora per intero indagata – sembra essere la via migliore, lasciando aperta la strada delle connessioni che le successive conoscenze potranno apportare. Il problema che si pone a questo livello è senza dubbio quello della forma della casa, che sembra essere nei suoi tipi codificati l’espressione costante degli assetti sociali e della struttura del lavoro. Tuttavia, salvo che per alcuni casi molto elementari, nell’ambito dell’architettura popolare non di derivazione urbana, è sempre stato molto difficile definire delle rigorose classi tipologiche, e ciò ha alimentato l’interpretazione della loro crescita spontanea o organica, quasi la casa sia il risultato di un processo di sviluppo indipendente dall’uomo, o nel quale l’uomo entra come variabile inconsapevole, senza un progetto frutto di esperienza e senza acquisizioni tecnologiche e architettoniche. Certamente la complessità delle espressioni abitative e la difficoltà oggettiva della loro lettura, quasi mai accompa-
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La casa come evento simbolico la famiglia nel suo crescere adegua con opportuni sviluppi ed intasamenti al proprio bisogno di spazio. Si formano così quei complessi di carattere organico nei quali è assai difficile riconoscere dove finisce lo spazio pubblico e inizia quello privato, e soprattutto è assai arduo riconoscere costanti planimetriche e volumetriche: spesso è pure assai arduo leggere i confini della casa propria di ciascuna famiglia. Questo aggregato estremamente compatto e di non grandi dimensioni, rappresentativo pur sempre di un sistema familiare di tipo patriarcale, è frequente in quelle aree culturali a sistema misto di campi chiusi e pascolo comune, spesso disseminati in contesti collinari e montani a formare sistemi ampi di comunità territoriali. Ne ritroviamo le tracce nella penisola iberica occidentale (Portogallo, Galizia, Asturie), in Bretagna e nelle Isole Britanniche per lo più nelle zone costiere occidentali (Galles, Cumbria, Scozia, Irlanda); nel Massiccio Centrale e in commistione coi più ampi villaggi, nella Borgogna; nel Trentino e in tutto il sistema dell’Appennino ligure-emiliano e toscano4. Infine nelle strutture di villaggio propriamente dette, cioè in quegli insediamenti di più ampia estensione, corrispondenti almeno alla struttura parrocchiale e con una quota di popolazione dedita anche ad attività terziarie, la casa risulta assai più individuata e frazionata. Anche se si tratta sempre di strutture familiari a sfondo patriarcale, è l’unità del villaggio – che prende forma istituzionale nella fabula inter vicinos ed infine negli statuti scritti – che prevale decisamente sul legame consanguineo. Tutte le terre spesso sono coltivate in comune o, come nei Pirenei o nelle Alpi, prevale un sistema complesso di allevamento che richiede la solidarietà di molte persone. La casa si inserisce allora come elemento abitativo del singolo nucleo familiare in un contesto più complesso che lo lega ai rustici, alle stalle e ai depositi, alle abitazioni stagionali e risulta quindi più semplice nelle sue articolazioni interne, seppure in un sistema generale più complesso. Villaggi di questo genere – oggi spesso non più facilmente riconoscibili come tali – si ritrovano nelle zone nelle quali il sistema dei campi aperti era prevalente, come in Normandia e Inghilterra, oppure dove per ragioni di difesa i borghi si accentravano in posizioni difendibili come in Catalogna, Provenza, Liguria occidentale, Istria e, per cause molteplici, nell’Italia centro-meridionale. Al di là di tutte queste differenziazioni, all’unità familiare corrisponde sempre la struttura edilizia della casa, dalle fondamenta al tetto. Unica eccezione, se si può chiamare tale, è quella delle case doppie, risultanti dalla generazione del primitivo nucleo, che comunque presenta due case unite ma rigorosamente separate nella verticalità. Rarissime le forme condominiali, delle quali forse la casistica più interessante si ritrova nelle zone di passaggio tra le Alpi centrali e orientali, secondo quelle morfologie complesse che coinvolgono le valli della Lombardia orientale, il Trentino, i Grigioni sud-orientali. L’unità del fatto edilizio, come l’unità e perpetuità della famiglia, è rappresentata dal focolare: nella tradizione del diritto, degli statuti e dei censimenti europei dal medioevo
spazi comuni. Nella maggior parte dei villaggi le murature rappresentano il palinsesto sul quale è iscritta questa crescita e trasformazione continua, sia nell’accostamento dei muri e nel progressivo annegarsi dei cantonali sia nella trasformazione di porte e finestre, di cui quelle inutilizzate rimangono – tamponate – a denunciare le vicende del tempo. Le oscillazioni della tradizione del legame familiare sono infatti alla base delle tipologie architettoniche, più ancora che la risposta alle condizioni strutturali. Si veda ad esempio come la casa si presenti come un fatto emergente ed esclusivo, altamente simbolico come episodio individuale e che si impone in termini monumentali all’ambiente circostante, quando i rapporti di consanguineità vengono assunti come base rigorosa del contesto sociale: è allora la casa a definire e quasi a designare il perpetuarsi della famiglia, più ancora che non l’esistenza dei suoi componenti. Ciò avviene ad esempio nella struttura sociale dei popoli baschi, presso i quali la più antica struttura della casa-torre o la più recente del caserio cristallizzano e coagulano in una forma rigorosa, compatta e non confondibile, il rapporto che lega il nucleo familiare con la terra e la proprietà. L’eredità della primitiva struttura del mansus altomedioevale si perpetua non solo nel caso citato ma in forme simili – seppure meno accentuate – nella masia catalana o aragonese, come pure nella casona cantabrica, pur non escludendosi, negli stessi territori, la compresenza di forme insediative dai legami più complessi. Anche nel tessuto edilizio alpino riappare la grande casa isolata, legata alla necessità di perpetuare il più possibile l’unità familiare, assieme all’unità del possesso, anche se l’esempio del maso chiuso o aperto delle Alpi orientali appartiene a una cultura edilizia che è ai margini della presente trattazione; ma se ne vedono riscontri meno rigorosi anche se significativi nelle zone intermedie dal meix della Borgogna alle case avite della Savoia e della Valle d’Aosta, dei Grigioni e delle Prealpi Trentine e nei casali della Toscana. Infine non sono da dimenticare le interpretazioni a volte in chiave architettonica più modesta, sia nelle aree di confine con il mondo balcanico, come nella zona della zadruga dalmata o montenegrina, sia nelle masserie pugliesi, lucane e siciliane, che rispondono ormai ad un sistema economico più complesso e recente basato sul rapporto mezzadrile. Tuttavia nella maggioranza dei casi la dimora si presenta in forme urbanistiche che raccolgono in modo compatto e contiguo più famiglie, per le quali il legame di consanguineità non costituisce un fatto decisivo anche nel rapporto con la proprietà della terra, ma viene esercitato in comune e con ripartizioni più elastiche e frequenti. Anche qui, e già se ne è sottolineata la qualità delle forme urbanistiche, si può distinguere il piccolo insediamento compatto dal grande villaggio3. La caratteristica del piccolo insediamento compatto è quella di presentare assiemi edilizi nei quali il rapporto di vicinato prevale sul legame della consanguineità, anche se non lo esclude totalmente. Si tratta di case molto articolate, risultanti dalla progressiva espansione di nuclei antichi più ridotti, che
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all’Ottocento il termine fuoco è sinonimo di gruppo familiare al di là del numero dei componenti. Le forme del focolare sono varie e spesso complesse: il focolare era il luogo dove si preparavano e si consumavano i cibi, dove a volte si cuoceva il pane, si essiccavano le castagne, si affumicavano le carni da conservare; era in inverno l’unico ambiente riscaldato della casa e pertanto, soprattutto nei climi freddi e umidi, assumeva grande importanza. Ma soprattutto il focolare era il luogo dove l’intera famiglia si radunava e quindi si discuteva delle faccende del lavoro, si ricordavano i fatti del villaggio e della famiglia, si prendevano le decisioni importanti. Raramente esistevano locali di soggiorno all’infuori di quello del focolare, anzi assai spesso il focolare era il centro di un unico ambiente nel quale, soprattutto nella cattiva stagione, si dormiva durante la notte. Per tutte queste ragioni il focolare diviene il primo elemento simbolico della famiglia e della casa: denunciato fortemente all’esterno, come nella casa pinariega delle regioni di Soria e Aragona, o nel fogolar e larin delle Alpi venete orientali; oppure annegato al centro della casa di cui costituisce il cuore portante, come nelle case allungate inglesi e bretoni; oppure infine anche relegato in ambienti in apparenza marginali, come nel caserio basco; in tutti questi casi il focolare rappresenta – come ha sempre rappresentato nella storia umana – il cuore della casa, il punto ultimo di riferimento, il luogo al quale è affidata – assieme alla sopravvivenza del fuoco – la perennità della famiglia.
terranei”6. Queste forme coinvolgono la penisola iberica meridionale, alcune zone della Provenza, buona parte delle coste italiane, soprattutto del sud, e della Grecia, e – in commistione e sovrapposizione con la cultura della pietra – le grandi isole della Corsica e Sardegna fino a Creta e Cipro. In essa gli influssi e le riprese di motivi di diversa origine sono molteplici, ma si può ritrovare una comune caratterizzazione nell’uso delle coperture a volta (lamÍe e simili) estradossate, quasi ovunque assenti nelle tipologie delle aree prima esaminate; inoltre il materiale lapideo usato è ovunque concepito come componente indifferente di una massa muraria continua che – grazie alle disponibilità più diffuse della calce – permette di realizzare senza soluzione di continuità murature verticali e volte con estrema facilità, senza l’obbligo dei tagli ordinati della pietra stessa, quasi si trattasse di calcestruzzo; a livello di utilizzazione dei materiali l’area cosiddetta della casa romanica in pietra si differenzia appunto da essa per il modo di concepire ogni elemento come un pezzo autonomo da comporre – come un gioco di incastri – evidentemente in connessione anche con le più scarse disponibilità, in queste aree di pietra calcarea. Non mancano ovviamente zone, nelle aree esaminate, nelle quali si manifestino eccezioni in un senso o nell’altro, e soprattutto le zone di confine presentano smarginature e reciproche influenze, con variabili cronologiche molto evidenti, come appare chiaramente ai confini tra Galles ed Inghilterra, oppure nelle alte valli della Savoia e in Val d’Aosta, e ancora nei Grigioni o nel Friuli orientale. Infine all’interno dell’area che definiamo come caratterizzata dall’uso della pietra strutturata, si possono trovare zone, a volte assai ampie, dove per ragioni di indisponibilità della materia prima o di tradizione tecnologica, si ricorre a materiali diversi tra i quali predomina la terra impastata o il mattone; tuttavia si tratta di vere e proprie isole ai margini delle quali, non appena è possibile, l’uso della pietra riprende e riassume tutto il suo ruolo. A oriente della linea di demarcazione individuata, comprendendo tutta l’Europa centro-orientale, la penisola balcanica continentale, la penisola scandinava e la parte orientale dell’Inghilterra, prevale l’uso della struttura a base lignea che al suo interno ospita una varietà consistente di forme principali e di varianti, da quella a incastro o block-bau7 a quella molto più elastica a telaio e pannelli o colombage8 fino al tipo elementare e forse più raro delle strutture in legno, a scheletro o post-and-beam9.
2. Le grandi aree dell’architettura domestica europea Dalla serie di osservazioni fatte finora già si è intravisto come una delle caratterizzazioni dell’area esaminata consista nell’uso particolare della pietra per l’edilizia domestica. Se volessimo individuare una demarcazione per l’uso dei materiali in tale storia edilizia europea potremmo tracciare una linea ideale che da nord separa in Gran Bretagna le aree occidentali, affacciate Sull’Atlantico, da quelle orientali volte al Mare del Nord, riprende poi seguendo a un dipresso il corso della Senna e, rimanendo ad oriente della Borgogna, ritrova il crinale principale delle Alpi in corrispondenza con il Monte Bianco. Prosegue poi lungo le Alpi centrali e orientali, coinvolgendo le alte vallate, in zone di varia influenza, i cantoni svizzeri del Ticino e dei Grigioni, il sud Tirolo, il Trentino e la Carnia. Da qui si insinua a marcare i confini dell’Istria e della Dalmazia, rispetto alla Slovenia e alla Croazia continentale, per riaprire uno spazio complesso di influenze e di rapporti col mondo orientale che coinvolgono parte del Montenegro, l’Albania e la Grecia continentale e insulare5. Un altro confine meridionale porta a escludere regioni nelle quali la resistenza o la forte presenza in alcune epoche storiche di altre civiltà, come quelle di matrice islamica, ha introdotto altri modelli che potremmo definire più propriamente “medi-
3. L’area della pietra o della casa romanica Ma qual è la particolarità per cui l’uso di un materiale come la pietra può definire in modo così caratterizzante un’area così vasta e dalla estremamente complessa articolazione e formazione culturale? Già alcuni studiosi hanno, partendo da situazioni locali, accennato a questa peculiarità, chiamando la casa di tale
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La casa come evento simbolico I diversi tipi di pietra si prestano a lavorazioni differenti; così il granito compatto, assai duro ed omogeneo, richiede un grande impiego di energie per l’estrazione e la lavorazione in cava, per cui si preferisce utilizzarlo in grandi blocchi, riducendo al minimo le operazioni di taglio, a costo di una maggiore difficoltà e della necessità di impiego contemporaneo di più uomini nella messa in opera; al contrario le rocce calcaree stratificate si prestano ad essere già approntate in cava secondo conci di non grandi dimensioni, della misura e peso adatti a essere maneggiati da un solo uomo, facilitando così le operazioni di cantiere a fronte di un maggior lavoro in cava. Le murature possono così, di massima, essere realizzate con grandi blocchi per i quali non può essere preordinata la forma, con una dimensione che ricorda assai il sistema murario megalitico, oppure con piccoli conci con altezze costanti e che riproducono nel muro i giacimenti degli strati di cava. La necessità di utilizzare al meglio tutto il materiale disponibile ha tuttavia consigliato, sulla scorta dell’esperienza dei maestri comacini, una differenziazione delle parti dell’apparecchio murario, con l’impiego di pietre il più possibile squadrate e di grandi dimensioni per le parti critiche della fabbrica, quali i cantonali, le incorniciature di porte e finestre e, a volte, la fascia di imposta dei solai, e con l’utilizzazione di conci a spacco più piccoli e di forma varia, spesso intasati da più piccolo pietrisco per ottenere gli allineamenti per le parti piane. Questo sistema, come vedremo, verrà incontro anche alle esigenze di impiegare, accanto ai capomastri specializzati, anche mano d’opera non qualificata nel cantiere. Quale che fosse il metodo impiegato tuttavia, in tutta l’area esaminata, si può notare come l’uso della pietra venga fatto sempre secondo una modalità e intenzionalità plastica, che richiama costantemente la naturalità che le appartiene, prima fra tutte quella di essere un materiale con una forma propria non riducibile a schemi geometrici e che, come tale, va rispettata. Le fasi della lavorazione esaltano questo aspetto, che era già proprio dell’architettura megalitica, e cioè quello di operare per ottenere una forma che, apparentemente, è senza forma13. Il blocco perciò viene prima sbozzato, poi martellinato, appiattito e, in certi casi, anche squadrato o sagomato, per adeguarlo all’elemento – cantonale, muratura, portale e finestra – di cui dovrà far parte; senza però che queste operazioni modifichino più del necessario la sua configurazione originale. Come il ciottolo di un fiume o del mare ha perduto i connotati originari, primi fra tutti le scabrosità e la generale amorfità per effetto dell’azione delle acque, raggiungendo una forma nuova, del tutto irregolare ma precisa, così queste pietre hanno assunto una forma che altro non evoca se non la loro natura originaria, ammansita e resa familiare dalla pazienza e dalla sapienza del lavoro14. L’uso dei blocchi di pietra giganteschi non è semplicemente una ostentazione formale, ma è la rappresentazione simbolica della capacità di lavoro e la testimonianza, nella materia, di una comunità e della forte coesione dei rapporti in essa esi-
area col nome di casa gallo-romanica o italo-romanica10: non è il caso di dare un’ulteriore etichetta o definizione troppo esclusiva poiché, all’interno di un orizzonte comune, nel quale prevale un particolare uso della pietra con valenze simboliche, vari sono i tipi e le forme edilizie; è perciò più utile sviluppare una analisi discorsiva mettendo in luce le sfaccettature della questione senza pre-definirle, a partire dai diversi modi d’uso e d’approntamento del materiale. Esiste infatti una reciproca interazione tra i tipi di pietra disponibile nelle diverse regioni e i metodi della lavorazione che danno luogo a soluzioni formali assai differenti. L’impiego della pietra, così come quello del legname, non ha rappresentato mai un fatto casuale nel processo edilizio, e anche se spesso si utilizzava il pietrame esistente sul luogo o addirittura risultante dallo sbancamento di fondazione, la ricerca del tipo di pietra più adatta alle diverse parti dell’apparecchio murario ha sempre costituito una preoccupazione costante dei costruttori che sulla base di ricerche di tipo geologico hanno costruito progressivamente una competenza e una tecnologia assai avanzata. La molla iniziale di questa ricerca, che portò all’apertura e allo sfruttamento sistematico di cave, nasce appunto con la grande fioritura dell’architettura religiosa dopo il Mille e si trasferisce con naturalezza, seppure con una utilizzazione più sommaria, in quella dell’edilizia domestica. Le ricerche di sempre più complesse soluzioni statiche e di funzionamento razionale del cantiere nell’architettura religiosa romanica hanno affinato una tecnica dell’estrazione e della lavorazione legata alla conoscenza dei pregi e dei difetti e al comportamento nel tempo11. Così il sistema dell’uso della pietra si articola anche con quello delle cave e con la disponibilità di maestranze di cavatori e scalpellini che hanno consentito il realizzarsi su larga scala di tale procedimento costruttivo. Nel Portogallo settentrionale e in Galizia si sviluppa la tradizione dei cavatori di granito, in conseguenza dell’impulso della grande fabbrica di Santiago de Compostela, ma sicuramente a partire da una perizia lapicida anche anteriore, come si può ammirare nelle più antiche fabbriche asturiane; così nella Borgogna si consolida la tradizione dell’uso degli affioramenti di calcare cristallino che raggiunge la più alta espressione nelle cave di Grevilly nel Mâconnais. Altrettanto sviluppato è lo sfruttamento della faglia oolitica di calcare compatto che dalla Normandia sale attraversando in direzione sud-ovest, nord-est l’Inghilterra e che è servita alla costruzione delle grandi cattedrali, ma anche per l’edilizia domestica di tutta la regione. Per la zona alpina ricordiamo infine le grandi cave di graniti, dioriti e scisti delle vallate centrali e delle arenarie e dei calcari delle prealpi padane, che caratterizzano le differenze locali, ma che furono impiegate anche con gravosi e lunghi trasporti; altrettanto possiamo dire dello sfruttamento dei giacimenti appenninici in Toscana, Abruzzo, e in Sicilia dove il calcare cristallino o di deposito ben lavorabile trova precisi punti di approvvigionamento e di lavorazione12.
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ta a terra, e la collocazione in opera veniva anch’essa eseguita con l’aiuto dell’intero villaggio. I materiali di copertura infine davano il volto definitivo alla casa. Nelle forse più antiche forme del tetto in paglia non esistevano grossi problemi tecnici, perché il contadino sapeva come eseguirlo e rifarlo da solo; quando invece, come fu l’orientamento quasi universale del tardo medioevo, si vollero realizzare i grandi tetti coperti da pietre scistose, anche qui si dovevano utilizzare corvées per il trasporto del materiale dalle cave e utilizzare gli specialisti nella lavorazione delle tegole di ardesia o di gneiss. Giunti al tetto, proprietari, maestri costruttori e vicini si associavano nella grande festa che prende nomi particolari15 nelle varie regioni, che si svolgeva con ritualità diverse a sancire comunque l’avvenuto inserimento del nuovo o del rinnovato gruppo familiare nel contesto del villaggio, i cui componenti – nessuno escluso – avevano collaborato, secondo le proprie disponibilità, alla realizzazione dell’impresa. Ancorché l’intera struttura edilizia rappresenti un evento simbolico, come abbiamo visto, alcuni elementi particolari, tuttavia, si impongono per valori significativi particolari.
stenti, poiché il trasporto, la posa in opera dei grandi massi sbozzati chiedeva la collaborazione armonica di molti uomini. Nell’istituto della comunità medioevale, formata da uomini sostanzialmente liberi e in posizione paritetica, il prodotto murario megalitico rappresentava appunto l’unità intera del villaggio e delle famiglie, così come la rappresentava il paesaggio agrario prodotto dalla coltivazione comunitaria.
4. La costruzione della casa Ovunque infatti abbiamo visto come la costruzione della casa è il risultato di un’impresa decisa da tutta la comunità, per la quale si associavano tutte le persone capaci di un lavoro, assieme ai proprietari e ai maestri muratori o carpentieri chiamati a collaborare: le feste che concludevano invariabilmente i lavori testimoniano del valore sociale connesso all’avvenimento. Per costruire una casa si eseguiva prima lo sbancamento, che costituiva la prima fonte di materiale da costruzione. Se esso non bastava ci si rivolgeva, soprattutto per le parti più delicate della costruzione, alle cave dei dintorni. Inoltre bisognava provvedere alla calce bianca in zolle che veniva portata dai forni, quasi sempre lontani dai villaggi, con un trasporto organizzato tra tutti i componenti del villaggio. In genere le pietre, soprattutto quando se ne usavano di grandi dimensioni, venivano sgrossate sul luogo di approvvigionamento ma poi erano ritoccate sul posto; quando ci si approvvigionava da cave che fornivano materiali più regolari e a pezzature più piccole, bastavano solo pochi adattamenti. I maestri murari, oltre a progettare l’insieme dell’edificio, curavano le parti più delicate: fondazioni, cantonali, portali e cornici di finestre; si ha notizia di un’ulteriore specializzazione per cui esisteva il maestro dei cantonali e il maestro dei portali. Il maestro dei portali, dopo aver disposto la soglia, metteva in opera le due grosse pietre inferiori degli stipiti fino all’altezza del cardine, poi praticava il foro nella pietra e, dopo aver collocato la parte fissa del cardine, vi collocava sopra l’altra grossa pietra per tenerlo fermo. Infine si poneva in opera l’architrave, sempre di grandi dimensioni e spesso con simboli, iscrizioni e data di costruzione. Le parti piane del muro, mano a mano che venivano realizzati i cantonali e i portali che costituivano il riferimento geometrico, potevano essere realizzate anche da muratori più improvvisati, con pietre meno lavorate: entrava così in gioco la collaborazione degli uomini del paese che non si limitava così solamente alle corvées per l’approvvigionamento del materiale. Man mano che i muri salivano, si ponevano in opera anche le strutture orizzontali in legno dei solai intermedi e infine del tetto: la carpenteria era fatta, nelle sue parti principali, preferibilmente in rovere o in castagno, mentre le parti minute con legname meno duro, di tipo resinoso; la carpenteria veniva predisposta dall’apposito maestro carpentiere già semilavora-
5. Le evidenze simboliche Tra questi aspetti in primo luogo è necessario ricordare la struttura del portale e in misura minore delle finestre. La forma del portale, ricorrente con una evidenza formale indelebile in tutta l’architettura domestica dell’Occidente europeo, è per lo più architravata, con differenziazioni a volte appena percettibili, a volte più marcate tra regione e regione; in alcune regioni è usato il portale ad arco in relazione a tipologie architettoniche più complesse; a volte infine, e più frequentemente, i due tipi si combinano negli stessi edifici16. Il portale e spesso la finestra architravata, nelle numerose varianti, fanno sempre comunque riferimento al trilite megalitico, con i due sostegni verticali tendenzialmente più aperti e ampi verso la base di appoggio e rastremati verso l’alto e con l’architrave che tende quasi sempre a conformarsi a timpano triangolare o a lunetta più o meno accentuata fino a raggiungere – in qualche caso – un andamento semicircolare. Le varianti non sono poche: per quanto riguarda la forma dei ritti si va da quelli più semplici e monolitici a quelli compositi con pietre inserite anche in senso trasversale e sporgenti, sia all’altezza dei cardini sia in corrispondenza degli appoggi dell’architrave, quasi fossero dei capitelli. Anche il livello di fattura varia assai, dai più rustici delle zone in apparenza più periferiche e dalla cultura più legata all’impressività del materiale (Galizia, Auvergne, Alpi Centrali, Appennino Ligure-Emiliano, Montenegro) a quelle nelle quali la cultura della pietra si è affinata a contatto con correnti e influenze anche colte (Paesi Baschi, Bretagna, Inghilterra, Alpi Marittime e Orientali, Toscana) che presentano architravi elaborati e disegnati con forme codificate.
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La casa come evento simbolico è preponderante il senso della comunità familiare rispetto a quella del villaggio, come nei Paesi Baschi dove si producono veri e propri testi incisi, utilissimi per la conoscenza della storia edilizia18. Il contesto simbolico è infine completato e potremmo dire quasi sublimato dalla presenza delle teste di pietra, a tutto tondo o a semplice rilievo, diffuse in tutta l’area, dalla Penisola Iberica alla Grecia. Per chiarire il significato simbolico di un elemento tanto diffuso quanto difficilmente interpretabile quale è la rappresentazione della testa umana sporgente dalla superficie di un muro, dal quale peraltro sembra essere stata generata, occorre risalire molto indietro nel tempo. Infatti se le protomi, pur concentrandosi spesso in aree di diffusione geograficamente ben circoscritte, sono state rinvenute in tutte le regioni esaminate, e se moltissimi esempi datati confermano un costume che è perdurato fino al xix secolo, è stato praticamente impossibile raccogliere testimonianze che facessero luce su questa consuetudine o segnalare interpretazioni convincenti e accettabili. Anche la loro fitta presenza sugli edifici chiesastici dell’architettura medioevale non ci pare sia stata codificata esaurientemente dai maggiori autori del settore. L’unico spiraglio è stato aperto da coloro che hanno visto, a volte un po’ troppo deterministicamente, un collegamento con le manifestazioni della ritualità propria della cultura celtica la quale, come è noto, non è stata esclusivamente appannaggio dell’Occidente ma intessuta e arricchita da motivi di marca dichiaratamente orientale19. La conservazione della testa dei defunti per mezzo dell’imbalsamazione con olio di cedro e con la sua esposizione fuori dell’abitazione o all’interno di un santuario era un’usanza diffusa presso le popolazioni celtiche20. Materializzazione di una convinzione religiosa che riteneva il cranio sede dell’anima, con questa pratica ci si assicurava che lo spirito del nemico ucciso non potesse più nuocere perché era tenuto prigioniero dentro la sua testa: così come l’anima del parente o del capotribù avrebbe continuato a convivere assieme alla famiglia o alla comunità a cui aveva appartenuto da vivo. L’esempio più significativo è il santuario di Roquepertuse a Velaux in Provenza, dove i pilastri del portico presentano nicchie dentro cui erano state poste teste umane mummificate21. Altra pratica meno cruenta era quella di rappresentare scolpite nella pietra teste umane separate dal corpo a volte senza bocca, segno della cessazione della parola, e quindi della vita. Una grande quantità è stata rinvenuta a Entromont, presso Aix-en-Provence, città gallo-celtica distrutta dai Romani del ii secolo d.C. In sostituzione del sacrificio umano, pare venissero offerte come ex voto o, comunque, per ingraziarsi la divinità22. L’avvento del cristianesimo, come ha combattuto l’idolatria, non ha avuto alcun motivo per rifiutare i simboli che esprimevano la vera religiosità dell’uomo. Offrire simbolicamente l’anima alla divinità attraverso il duplicato della propria testa in pietra aveva come significato ultimo l’offerta della propria vita a Dio.
L’architrave in particolare scorre dalle più semplici forme parallelepipede inserite, seppure evidenziate nel tessuto murario quando si tratta di pietra viva, fino a forme estremamente complesse con simboli e decorazioni. Le forme più usate sono, come s’è visto, del tipo a timpano triangolare o a lunetta, a volte occupanti l’intero spessore del muro, a volte della metà, o di un terzo del suo spessore; tuttavia non mancano forme complesse con foggia ad arco ribassato sull’intero architrave o solamente nell’intradosso; con lavorazioni e sagomature richiamanti forme ad arco inflesse del tardo gotico (Auvergne, Val d’Aosta) e denotanti un tentativo di accostamento alle forme più colte; così come, soprattutto, negli esempi tardomedioevali (xiv, xv secolo). La mediazione tra appoggi e architrave avviene attraverso l’uso di mensole e peducci (Emilia) che si perpetuano nella Spagna (La Alberça) fino al xix secolo. Anche la qualità della pietra serve per mettere in rilievo gli elementi di contorno: ciò è dovuto alla necessità di avere componenti monolitici di rinforzo che non è possibile estrarre dal pietrame che si ha a disposizione; ma spesso vi si può leggere una chiara intenzione figurativa poiché si trascurano possibilità di approvvigionamento più vicine quando il distacco cromatico con la muratura non è sufficientemente accentuato, per reperire materiali non facilmente a portata di mano, ma più idonei a realizzare il contrasto desiderato (Galizia, Auvergne, Borgogna, Val d’Ossola, Liguria orientale). Altrettanto frequenti sono in ogni regione le combinazioni delle aperture in un unico organismo: si va dal caso tipico del portale gemino, variamente determinato da condizioni tipologiche (Portogallo, Val d’Ossola, Canton Ticino, Corsica) a sistemi che compongono assieme porte con finestre, porte con nicchie e nicchie con finestre (Portogallo, Bretagna, Auvergne, Lunigiana); spesso anche la pietra angolare di opportune dimensioni diventa, invadendo la muratura, architrave per porta e finestra assieme (Lunigiana, Val d’Ossola). Ed infine a sottolineare ancor più questo tessuto di bucature, in alcune regioni il parapetto della finestra, dallo spaccato del pavimento al davanzale, è realizzato, per diminuire gli spessori, con una sola grande pietra messa di costa e a vista verso l’esterno, che assume pertanto nel disegno generale un rilievo inconfondibile come si legge nel Portogallo del nord (Montes, Lindos, Pitões) e nella provincia di Lugo in Galizia dove la dicromia tra il rosso degli scisti e il bianco del calcare dei portali e delle finestre raggiunge forse gli effetti più appariscenti. L’architrave del portale, e meno frequentemente i cantonali della casa, ne siglano l’identità e l’appartenenza grazie all’incisione di iscrizioni e date; diffuse ovunque, più spesso sono assai semplici, e tra la data spezzata in due parti evidenziano simbologie più spesso di tradizione cristiana, dalla semplice croce, al trigramma di Cristo, al sole raggiante, o a forme più complesse come angeli, rami di palme o ulivi, simboli mariani e così via17. In alcune regioni si assegna invece una netta prevalenza alle ragioni familiari, soprattutto là dove
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dell’uomo di fronte alle condizioni proposte dalla natura, senza altre mediazioni culturali. Questo forse può essere vero per alcune culture pre e protostoriche agli albori della cultura, ma sarebbe astorico pensare che una sensibilità naturale senza tempo possa essere stata protratta nell’area europea, senza che ne sia nata una coscienza precisa di se stessa, pur ammettendo in essa il permanere, più che altrove, di archetipi ancestrali. Ciò che caratterizza infatti l’architettura popolare in pietra dell’Occidente europeo è la persistenza senza flessioni o decadenze, anzi con un continuo sviluppo, in arco di tempo amplissimo; si va infatti da testimonianze cronologiche verificate intorno al 1000 d.C. (Carmine Superiore sul Verbano)24, a copiosissime datazioni comprese tra il xiv e il xv secolo, che rappresentano probabilmente l’epoca di trasformazione più intensa del villaggio dalle forme provvisorie a forme definitive in pietra, fino all’espansione massiccia in ogni regione europea dalla fine del xvii e nel xviii secolo. Ancor oggi in alcune regioni si può rintracciare qualche capomastro o scalpellino che ha ricordi personali di questa cultura edilizia e ancora qualcuno che costruisce in pietra secondo i vecchi sistemi. L’altra osservazione, abbastanza ovvia, dopo le descrizioni già fatte, è che tale modo costruttivo si diffonde rapidamente dopo il x secolo in un’area molto vasta che va dalla Dalmazia e dall’Italia fino agli estremi lembi conosciuti: la Galizia, la Bretagna, l’Irlanda. Tutto questo complesso di annotazioni, assieme a quelle già fatte in precedenza, costringe a rivedere l’immagine semplicistica dell’architettura senza architetti e comunque spontaneistica25, almeno nella fenomenologia che andiamo considerando, per ricorrere ad un modello interpretativo – per il quale non mancano invece suggerimenti documentari – più complesso ed articolato. Se è possibile presupporre per alcune forme espressive primitive uno sviluppo lineare che, partendo dal rapporto diretto con la natura, porta a espressioni sistematiche e mature valide per un intero filone etnico, nell’epoca in cui cresceva la nostra architettura popolare gli spunti e i condizionamenti culturali erano talmente complessi che il solo pensare a una strada totalmente autonoma rispetto alle altre correnti compresenti – sia di forme colte, sia popolari – risulta semplicemente assurdo. Se si formano quindi in Europa delle costanti formali, è perché esiste anche una consapevolezza di ripetere e conservare certe forme e perpetuarle nel tempo: e inoltre perché tale sapienza costruttiva era affidata a persone che di questo aspetto si occupavano in modo particolare, sviluppando o conservando forme e tecniche, a volte in connessione con altri linguaggi colti, a volte in opposizione. Forse non si è mai sufficientemente posta attenzione al fatto che alcuni grandissimi architetti dell’area cosiddetta colta, primi tra tutti i ticinesi in qualsiasi epoca, provengono da famiglie di costruttori che prima di loro e dopo di loro continuano a operare nel campo del minore e con i quali continuano a intrattenere stretti rapporti; ed è altresì ovvio ricordare, come
La tradizione delle teste di pietra non si è spenta con il cristianesimo ma, ripresa e valorizzata dalla cultura romanica, fu perpetuata in seguito dai costruttori dei villaggi di pietra. Gli specifici connotati, richiamati alla memoria dalla dimensione, dalla forma e dalla disposizione delle pietre, non sono altro che il ricordo vivo del lavoro comunitario, necessario alla loro realizzazione e, perciò, della tensione di quegli uomini a innalzarsi “al di sopra della propria condizione elementare, perché mossi dal senso di un significato superiore della propria esistenza”23. È il livello religioso e la regola morale della comunità che traspaiono e si impongono ogniqualvolta viene manipolata la materia, e la pietra in questo caso costituisce la materialità per eccellenza che, all’interno del contesto naturale, universalizzante e cosmologico, acquista gli stessi requisiti di una cosa viva. Allora la casa, che già vivendo con la famiglia ha assunto le sembianze di un corpo vivo, appare come ricoperta, in questo modo, da un involucro epidermico vivente. Solo in questo senso, allusivo al recupero e al superamento del limite e del bisogno umano, ci sembra sia lecito parlare di uso sacrale della pietra, ritenendo riduttiva, se non in taluni casi fuorviante, ogni interpretazione di qualsiasi altra natura. Non può essere una sacralità che trae la sua origine dalla pietra per se stessa, né può essere sufficiente constatare il ripetersi di forme e di tecniche ancestrali, direttamente discendenti dal megalitismo protostorico, e cioè da espressioni di natura schiettamente religiosa, ma ormai troppo lontane e superate. Il problema è che, se da un lato esiste questo chiaro riferimento al passato più remoto, dall’altro bisogna tener presente che l’epoca cristiana è stata portatrice di un definitivo superamento di certe condizioni storiche. Quindi, anziché parlare di sopravvivenza di forme legate al paganesimo, preferiamo parlare di archetipi precristiani successivamente ripresi e trasfigurati dentro la nuova cultura e civiltà. Così come, per tutti quei fenomeni che sono stati interpretati quasi sempre come ritorni ad antiche credenze o a mai del tutto morte superstizioni, ci sembrerebbe più corretto leggerli come degenerazioni o degradazioni di una cultura nuova iniziata dopo quel definitivo e tanto atteso superamento.
6. I costruttori sulle vie d’Europa Già la scelta e l’attenzione per un materiale innesca un processo simbolico del quale s’è vista la logica, legata al processo che potremmo definire artigianale di realizzazione; ripercorrendo cioè l’itinerario che la materia percorre dallo stato naturale attraverso le mani (la tecnica) del costruttore fino a diventare prodotto finito. Se si limitasse però l’analisi dell’architettura popolare a questo solo parametro si potrebbe in effetti ritornare ad una concezione primitivistica, nella quale l’aspetto determinante consisterebbe appunto nella sola sensibilità primordiale
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oggi definiscono la qualità di tale produzione; vi si leggeva innanzitutto la capacità di esprimere con coerenza e immediatezza tutti i fatti prioritari della vita che si riteneva avessero un significato: l’impiego delle risorse e del lavoro, la struttura e le esigenze della famiglia, il nesso sociale della comunità e il significato globale delle cose. Questo si voleva esprimere con chiarezza, a costo di ripetersi continuamente, poiché la ripetizione rafforzava il senso della cosa e non preoccupava affatto: la base oggettiva (economica, sociale o religiosa) di questa produzione era perciò prioritaria e la definizione del bello, come splendore del vero, secondo la definizione tomistica, può essere considerato il criterio che muoveva sia la richiesta della committenza popolare sia degli artisti. Questo è, senza fare differenze di livelli, pure il criterio con il quale si muoveva in tutto il mondo medioevale, colto o popolare che fosse, e nel quale trova la propria genesi anche la fioritura dell’architettura popolare, non solo come ripetizione di modello ma come invenzione. Il problema che si è posto il romanticismo e poi lo storicismo è quindi falso perché tenta una discriminante tra modelli e concezioni che hanno una origine diversa: l’arte popolare continuava a proporre fino a oggi una concezione di artista che la cultura romantica ha profondamente modificato, sostituendola nella tradizione rinascimentale e illuministica con l’immagine dell’artista-genio, che riassume in sé le tensioni e le problematiche di una intera epoca, dando ad esse volto, parola e figura e proponendo quindi un superamento dialettico dai caratteri universali. Certo il medioevo non disconosce l’apporto delle grandi personalità, ma la concezione globale di una storia che non è fatta solamente dall’uomo sottolinea maggiormente la sequela alla natura, alla vicenda delle cose, alla tradizione, a partire anche se si vuole dalle premesse materiali, che non la capacità sintetica e dirompente del succedersi di sempre nuove, universali e sintetiche visioni del mondo. L’artista – dall’Antelami al più modesto degli scalpellini – sentiva in sé quindi il ruolo di strumento della creazione e non di creatore, di essere artefice al servizio di Dio e dell’umanità e non viceversa; in questo senso, come vedremo più avanti, l’arte popolare può essere definita come comunitaria, perché espressione del nesso comunitario e non di un generico spirito universale non ancora dialettizzato. Queste considerazioni possono anche introdurre metodologicamente un’analisi che spieghi anche i fenomeni di diffusione delle forme, non solo a partire dalle contiguità etniche, secondo la tradizionale visione degli studi antropologici, ma anche e soprattutto da avvenimenti particolari e significativi, coinvolgenti le maestranze nei loro spostamenti, da analizzarsi quindi con il metodo storiografico. È quanto cercheremo di indagare nelle trattazioni monografiche, nelle quali faremo quelle osservazioni che dovrebbero legare in un unico contesto i movimenti dei costruttori che si sono dedicati alle forme architettoniche maggiori con quelli che hanno operato nel campo cosiddetto del minore28.
ancora testimoniano vecchi capomastri, le migrazioni di manodopera dai cantieri urbani e dalle grandi fabbriche alle opere minori e viceversa; il comportamento è tipico di chi passa da un villaggio all’altro, dalla lingua locale alla lingua internazionale, avendo ben chiari i confini e gli statuti linguistici propri di ciascuna. Queste rilevazioni confermano un orientamento già in parte accettato dagli storiografi – e però mai verificato a fondo nell’architettura – che cioè se è giusto parlare dell’arte popolare come di una attività collettiva, nel senso che esprime globalmente gli orientamenti e gli interessi di un gruppo sociale, è altrettanto importante mettere in rilievo l’apporto in esso dell’artista (artigiano, decoratore, costruttore e così via) e lo statuto del nesso che egli intrattiene con il contesto umano in cui opera. In questa direzione vi sono da fare ancora dei grandi passi sulla via di un chiarimento che la storiografia dell’architettura popolare ancora attende e che solo l’ampliamento d’orizzonte – dal locale al sovranazionale – può consentire: tuttavia si possono già trarre alcune conclusioni. È ormai innegabile che per molte zone dell’Italia settentrionale i costruttori affondino le radici nella tradizione delle maestranze comacine e antelamiche, fatto che, una volta verificato sistematicamente, getterebbe nuova luce sui rapporti intercorrenti tra architettura colta e architettura minore, da non leggersi più come mondi autonomi e raramente influenzatisi, ma come aspetti all’origine di un medesimo movimento artistico che, nel tempo, rimane profondamente radicato nel mondo non urbano26. Del resto anche per la Francia è testimoniata la presenza determinante nel mondo rurale delle – più o meno segrete – associazioni di arti e mestieri, svolgenti una funzione itinerante nel territorio e con competenze specifiche sugli apparecchi murari o sulle opere di carpenteria operanti in città o in campagna. Queste compagnie realizzano, così in Francia come in Italia, quell’edilizia derivante da una acquisita sapienza costruttiva che protrae fino al xix secolo i metodi costruttivi medioevali: è solo verso la fine di tale secolo che compaiono progressivamente gli impresari, capaci di realizzare un progetto su disegno di altri e di organizzare le competenze del lavoro in termini moderni di divisione27. Se quindi il prodotto dell’arte popolare non è collettivo nel senso di una capacità di tutti a produrre, ma si articola secondo competenze, capacità di mediazione e tradizioni e segreti artigianali, in che consiste la differenza tra i processi dell’arte cosiddetta colta e quella popolare? Forse innanzitutto in una differente concezione della produzione artistica molto diversa da quella che sta alla base della cultura occidentale moderna: quest’ultima infatti ha teorizzato, tra Settecento e Ottocento, proprio la radicale differenza tra i due livelli di cultura, negando all’una la possibilità di espressione in quanto tale. In nessuna comunità rurale, sia tra i costruttori sia tra gli operatori, si sono mai probabilmente voluti leggere nell’architettura e nell’urbanistica quei valori di arte che per noi
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Aree regionali e caratteristiche ambientali e costruttive
Finis terrae, antica frontiera dell’Europa
Portogallo settentrionale, Galizia, Asturie, León
L
1. Introduzione
L’area che viene illustrata in questo capitolo è più ampia della Galizia attuale, poiché segna a un dipresso i confini occidentali della diffusione della casa romanica in pietra, confini che, a loro volta, nella penisola iberica rappresentano i limiti, per negativo, della più stabile presenza degli Arabi durante la loro espansione. Per questo motivo si è ritenuto di includere a sud innanzitutto le province più settentrionali del Portogallo che, per storia e soprattutto lingua comune, sono da ritenersi parte integrante dell’etnia gallega, ma anche le zone di Cáceres e Salamanca che, seppure in parte non omogenee sotto il profilo etno-storico, sono comunque accomunabili per molti aspetti della fioritura architettonica della dimora popolare in pietra. Si è completata la trattazione con la regione delle Asturie che, parallelamente alla Galizia, rappresentò uno
a Galizia ha costituito per lunghissimi anni la frontiera occidentale della cultura e della civiltà europea, il “punto estremo dell’ecumene”, al di là del quale si apriva l’ignoto dell’oceano. Limite, ma anche punto e polo di riferimento grazie alla presenza della tomba dell’apostolo san Giacomo, meta dei grandi percorsi medioevali e post-medioevali al santuario di Santiago de Compostela e nello stesso tempo coinvolto in quell’area più ampia portoghese-spagnola tesa alle grandi scoperte oceaniche del secolo xvi che aprirono la strada del nuovo mondo.
1. Campagna nei dintorni di Canero, Asturie, Spagna.
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa sui rilievi, alla zootecnia; nello stesso tempo si vedrà come l’abbondanza delle piogge determini strutture e forme insediative particolari, sia nella campagna che nei centri urbani. In questo quadro si colloca il sistema dell’uso del suolo e delle sue trasformazioni che, seppure con alcune varianti, è abbastanza unitario per tutto il nord iberico2. La notevole densità della popolazione diffusa nel territorio, in un paese montuoso, piovoso e spesso dirupato, vede lo svilupparsi di una proprietà molto parcellizzata e strettamente ricollegata alla casa patriarcale; ne consegue una maglia territoriale fatta di piccoli nuclei abitativi disseminati e di piccole parcelle con colture variate, così da coprire l’intero arco dei fabbisogni dell’uomo e del bestiame. Questa struttura, che presenta il villaggio come un microcosmo agricolo, è la caratteristica fondamentale di tutto il paesaggio del nord-iberico, se si eccettuano i pascoli aperti, nelle montagne; solamente in alcune zone più basse del León vigevano alcune forme di coltivazione collettiva del grano su grandi proprietà comunali, anticipazioni sotto l’aspetto agricolo di forme monocolturali moderne, però gestite dalla comunità3. Possiamo dire quindi che, salvo le eccezioni ricordate, il paesaggio si è conformato, fino all’epoca romana, come un assieme di piccolissime parcelle, lavorabili – in origine soprattutto dalle donne – con mezzi e strumenti molto primitivi, e coltivate a cereali, frammiste a zone di colture legnose tra le quali soprattutto il castagno da frutto e la vite nelle regioni sud-occidentali. Particolarmente diffuso al nord è l’allevamento del bestiame ovino e bovino, sotto forma di pastorizia nelle zone di montagna dove non è possibile sviluppare l’agricoltura. Questo sistema, nelle Asturie, si basa su una transumanza ai pascoli estivi chiamati brañas, utilizzati da maggio a novembre, non eccessivamente distanti dai villaggi, gestiti da un vaccaro e occupati da raggruppamenti di edifici a pianta circolare con copertura in paglia, simili alle pallazas. Una impronta di struttura del lavoro, che è anche culturale nel senso più ampio del termine. Prevalente nell’area esaminata è infatti la particolarità dell’espressione linguistica che ne connota l’etnia: il gallego è lingua vera e propria, parlata dai popoli occidentali a nord del Duero; la sua letteratura ci offre una produzione ampia che testimonia anche una fioritura di poesia e canti popolari, specie del mondo rurale; anche nelle Asturie, sebbene con tradizioni e caratterizzazioni meno accentuate, esiste un linguaggio locale (bable) dal quale è possibile trarre indicazioni sulla vita popolare; infine nell’area di lingua castigliana del León compaiono linguaggi legati a particolari mestieri o ceti sociali, come quello dei maragatos, che arricchiscono di particolari elementi significativi la dimensione culturale della regione. Non bisogna dimenticare infine il grande fenomeno dei pellegrinaggi a Santiago de Compostela che rappresentò per secoli il tramite umano diretto attraverso il quale una regione, così appartata rispetto al mondo occidentale, ha
dei punti di riferimento per la resistenza all’invasione araba e, malgrado le differenze linguistiche, intrattenne sempre rapporti molto stretti di legame e di conflitto. Del resto tra le regioni ricordate, alle quali è da aggiungere la regione di León, soprattutto in corrispondenza delle fasce montane settentrionali della Cordillera Cantabrica, gli scambi e le vicendevoli sudditanze, durante tutto il medioevo e anche nell’età moderna, furono intensi e mutevoli, tanto da lasciare, al di là della fissazione di spesso innaturali confini amministrativi, una serie di stretti legami nella cultura dei popoli.
2. Le trasformazioni del territorio Per individuare orograficamente il territorio in esame si può, per grandi tratti, descriverlo come originato dalla grande spina displuviale che inizia a sud con il massiccio galaicoleonese e, proseguendo nella Cordillera Cantabrica, si conclude con gli alti Picos de Europa1. L’andamento di questo sistema orografico si svolge secondo un arco che riproduce all’incirca quello della costa atlantica: ha come punto estremo il capo di Finistère, tenendosi più lontano dalla costa a occidente e approssimandosi alquanto nel nord, soprattutto in corrispondenza dei Picos de Europa1. Si può immaginare questo sistema montuoso come emergente dalla piattaforma della meseta iberica settentrionale, e pertanto contornato da terre alte che ne mediano il passaggio verso la costa atlantica. La meseta caratterizza non solo tutta l’area a sud-est del sistema nella regione del León, di Salamanca e Cáceres, ma anche a sud-ovest nel Portogallo e a nord-ovest nelle province di Lugo e La Coruña. I fiumi e i torrenti che la percorrono si dispongono quindi secondo un ventaglio e, a causa del dislivello spesso molto accentuato, vi scavano profondi solchi: tali sono le grandi valli dei fiumi del sud, Tago e Duero, originatisi dalla meseta centrale, ma ancor più ripide sono le valli più settentrionali a iniziare da quella del Miño, che nasce nella meseta di Lugo, per finire con i ripidissimi Navia, Narcea e Nalon che, scaturendo dalla Cordillera Cantabrica, scorrono verso nord a formare le erte gole delle valli asturiane. L’intero sistema è formato da rocce granitiche e da gneiss variamente trasformati che, soprattutto nell’altipiano, a causa dell’azione alluvionale e meteorica, vengono arrotondati ed enucleati cosi da formare uno strano paesaggio di massi erratici mammelliformi di gigantesche dimensioni, che spesso vengono utilizzati come tali nella costruzione di villaggi, come nel caso più noto di Monsanto nel Portogallo. Sotto l’aspetto climatico, la regione, se si eccettuano i versanti sud-occidentali del León, gode di temperature miti e di abbondantissime precipitazioni, a causa dell’umidità che le correnti atlantiche trascinano nel loro muoversi in senso contrario alla rotazione terrestre: regione quindi verdissima, ricca di boschi e pascoli, propizia all’agricoltura polivalente e,
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potuto intessere rapporti con la cultura di tutta Europa: di questo grande fenomeno, che nella sua globalità è già stato trattato, ricordiamo che l’ultima parte del percorso, iniziando a León e Astorga, attraverso i monti del León e le città di Molinaseca e di Ponferrada, arrivava in Galizia attraverso il passo di Pedrafita del Cebreiro e, passando da Lugo, giungeva alla tomba dell’Apostolo; ma numerosi percorsi alternativi si svolgevano a nord, attraverso le Asturie. E, non lo si dimentichi, a meridione faceva sentire la propria presenza la grande università di Salamanca. I centri di assistenza – con una consistente presenza dell’Ordine dei Templari – e di cultura lungo queste strade, assieme a tutto il sistema figurativo e simbolico connesso, hanno permesso quegli scambi che, nel rispetto della particolarità regionale, hanno riunito tutti i popoli europei entro un orientamento di autocoscienza unitaria.
de Arriba (Asturie), costituiti da unità residenziali dalla pianta circolare, all’interno delle quali si dispongono gli spazi destinati all’abitazione e al bestiame senza soluzione di continuità, poste liberamente a costituire il nucleo abitativo e quasi sempre affiancate dal granaio; i muri delle case sono realizzati in grossi conci di granito sovrapposti a secco, nei quali gli accessi sono sottolineati da megalitici portali con spessore e dimensione del tutto spropositati rispetto all’esile struttura lignea che sorregge il conico tetto di paglia7. Anche il granaio (per lo più espigueiro in Portogallo, hórreo in Spagna) costituisce un indicatore essenziale della vita della regione oltre a presentarsi come rilevanza architettonica e urbanistica8. Sostanzialmente esistono due tipi di granaio: quello in granito della Galizia e del Portogallo settentrionale, stretto e allungato; e quello in legno, a pianta per lo più quadrata e di più ampie dimensioni, proprio delle Asturie; a queste due forme sembrano corrispondere funzioni diverse, e cioè di semplice raccolta delle derrate cerealicole (grano, miglio, mais) per i primi e di più estesa funzione di deposito generico per i secondi9. Al di là di questi aspetti tipologico-funzionali, il granaio rivela la qualità della struttura sociale solidaristica del villaggio o del vicinato. Nel medioevo sembra che il granaio fosse elemento comune per tutto il villaggio10; poi divenne progressivamente, in molte regioni, abbinato all’essiccatoio, elemento proprio del gruppo familiare e pertanto accostato alla casa; tuttavia in alcune regioni si è conservata la nozione di granaio come elemento comunitario, tanto è vero che tali strutture sono raggruppate al di fuori del villaggio stesso, in un’area apposita, spesso disposti a corona attorno a una grande aia comune per la battitura, accuratamente lastricata, come ad esempio a Lindoso (Braga) o a Lovios (Orense). In ogni caso il granaio costituisce la testimonianza simbolica molto arcaica della persistenza della struttura matriarcale del villaggio, la cui sopravvivenza era in origine legata alla raccolta dei prodotti più che alla loro produzione sistematica11. La segnalazione di alcuni elementi particolari, come la pallaza e l’hórreo, è servita a introdurre il più vasto tema del villaggio iberico nord-occidentale che, nelle diverse articolazioni sociali ed espressioni urbanistico-architettoniche subregionali, mostra sempre una stretta connessione della comunità insediata, compatta, autonoma e unitaria e che si esprime in forme culturali rurali complete e diversificate pur nel quadro generale della tradizionale durezza del mondo agricolo medioevale e d’età barocca. I villaggi dell’area in esame, sia portoghese che spagnola, fanno apparire il sottofondo di una civiltà basata su rapporti di vicinato, in stretto legame con la terra gestita in parte comunitariamente senza divisione di proprietà, in parte privatamente, ma con legami di solidarietà: ciò si deve a una progressiva evoluzione della struttura delle comunità protostoriche nell’ambito della tradizione del diritto e della società dell’era tardo-medioevale e moderna12. La sociedad
3. La comunità e gli insediamenti La regione di cui ci occupiamo è storicamente la più fittamente abitata dell’intera penisola iberica con insediamenti estremamente dispersi e polverizzati nel territorio. Tale modalità diffusa di popolamento affonda le radici nella protostoria iberica che vede appunto le tipologie insediative più diffuse e ancor oggi riconoscibili concentrate nel nord e in particolare nelle regioni occidentali (Miño, Galizia) corrispondenti alla forma insediativa del castro strutturato a partire dalla cellula della casa redonda4. A causa di una continuità abbastanza sorprendente fino quasi ai giorni nostri di questa forma insediativa con quelle di alcune aree ben identificabili – in particolare nella Sierra di Ancares al confine tra Galizia, León e Asturie – si ritiene di ritrovare in esse la persistenza dei gruppi di razza celtica insediatisi al nord della penisola iberica5. Il castro era la forma stabile dell’insediamento protostorico, risultante dall’aggregazione di case, dalla pianta circolare o rettangolare con spigoli arrotondati, circondata da un muro e inglobante anche strutture difensive più complesse; tali sono i resti scavati a Briteiros, Trega, Coaña e soprattutto Santa Tecla (che mostra esempi ben conservati) che permettono di ricostruire esattamente l’immagine di questi antichi insediamenti6. Lo scenario che in essi si riflette è quello di una comunità dai legami di sangue e di relazione molto stretti con il territorio, come risulta ancora dai documenti medioevali fino al xiv secolo. La famiglia appare di tipo matriarcale, poiché la donna si costituisce come depositaria e garante del lavoro e della produzione rurale e dell’allevamento, mentre all’uomo sono riservati gli altri compiti più legati alla logica degli spostamenti della caccia e poi del commercio. La forma attuale è la cosiddetta pallaza o pallota di alcuni villaggi attorno alla Sierra des Ancares quali Cebeiro, Vilarello e Piornedo (Lugo), Paradaseca (León), Las Brañas
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa gallega o compañia de familia, da cui si genera la casa petrucial (primogenitale), è comune nel Portogallo del nord, nella Galizia e nelle Asturie e León, ed è accompagnata da forme associazionistiche del villaggio, più a lungo sopravvissute, che radunavano la gente per età, sesso e attività13. La struttura urbanistica del villaggio riflette tale struttura sociale mettendo in risalto l’autonomia della casa e nello stesso tempo la sua stretta integrazione con la comunità dei vicini grazie alla continuità dello spazio comune. Di questo spazio comune abbiamo già visto far parte integrante il granaio (espigueiro - hórreo), sia nella organizzazione serrata portoghese e galiziana, attorno alle aie comuni del villaggio, sia nelle più diluite morfologie asturiane di corrispondenza più stretta e individuale tra casa e granaio. Nelle Asturie orientali il sistema dei granai – corrispondente a gruppi abitativi – costituisce la piazza del quartiere, come nei villaggi della valle del Nalon, così come nella zona centro-occidentale di Brieves formano invece un sistema continuo e quasi autonomo, raccordato alle case per mezzo di ponti. Ma è soprattutto il modo di concepire il rapporto tra la casa e la strada che definisce questo senso di appartenenza dello spazio urbano alla famiglia, intendendo lo spazio urbano non come sistema di strade che disimpegnano i lotti edificati ma come sistema che integra le pertinenze di ogni casa: il tutto fortemente sottolineato e connotato da elementi simbolici, tra i quali si impongono i cruzeiros. Esemplare sotto questo punto di vista è il nucleo più antico di Lindoso (Viana do Castelo) in Portogallo, dove quelle che potremmo impropriamente chiamare le strade del villaggio sono per intero coperte da una vigna a pergolato, che in parte si appoggia ai muri delle case e in parte a sostegni in pietra – monolitici e non – che ricordano incredibilmente per la forma e la collocazione il menhir protostorico. Lo spazio urbano si articola e si avvolge senza soluzione di continuità attorno a questi elementi funzionali e simbolici e accoglie al suo interno elementi naturali e strutturali del villaggio: il torrente e i canaletti di scolo delle acque, la fonte e il forno, le scale di accesso alle case e le rampe per le stalle e i fienili e, al margine, la già ricordata grande aia con i granai. Indubbiamente un elemento di grande suggestione è offerto dalla piattaforma granitica sulla quale sono costruiti gli interi villaggi: le strade appaiono così come intagli nella viva matrice rocciosa, dalla quale nascono, come per germinazione, le case che spesso ne utilizzano gli affioramenti, come a Monsanto, La Alberça e moltissimi centri storici lungo i rias di Pontevedra e di La Coruña. Da questo continuum roccioso nascono con naturalezza al centro di confluenze di vie, spesso con basamenti gradonati ricavati direttamente dal sasso, i cruzeiros. Più frequenti lungo i percorsi verso Santiago, essi costituiscono elementi tipici sia delle vie di pellegrinaggio sia degli insediamenti locali14, riferimento per la pietà e nello stesso
tempo elementi simbolici della unità sociale, sono a volte semplici e nude croci su basamento, ma più spesso rappresentazioni di Cristo e degli strumenti della Passione su un lato e della Vergine Dolorosa sull’altro, il tutto ricavato e modellato entro un solo blocco di granito come nel ricchissimo esemplare della parrocchia di Hio de Aldan15, con chiara autonomia figurativa regionale, ma con un preciso raccordo alla più ampia tradizione europea. Non si deve infatti dimenticare che la croce viaria e il calvario sono sì luoghi della devozione e riferimento per la pietà, ma a essi venne esteso anche quel diritto di asilo, sancito per le chiese dal Concilio di Orleans del 1511, che dà ragione della loro presenza in luoghi frequentati, dove le contese erano maggiori. Nel sud della regione qui esaminata, tra il Portogallo orientale e la Spagna occidentale (province di Guarda e Castelo Branco, Salamanca a Cáceres), il villaggio tende ad assumere una conformazione quasi cittadina, con una individuazione precisa di vie a raggiera che fanno capo a una piazza a volte porticata. Sotto questo profilo gli insediamenti della Sierra de Francia, tra i quali si evidenzia la Alberça16, sono molto simili a quelli della zona di Monsanto, pur se i tipi edilizi, forse anche per successive trasformazioni, sono molto differenti; in entrambe le aree inoltre i massi erratici di granito affioranti dal terreno vengono inglobati nell’insediamento, così da formare un paesaggio urbano insolito nel quale gli elementi naturalistici e quelli artificiali, spesso di raffinata esecuzione, si fondono senza soluzione di continuità. Gli insediamenti del Portogallo settentrionale (province di Bragança, Vila Real, Braga) costituiscono un tutt’uno con quelli della Galizia meridionale (province di Orense e Pontevedra); nessuna divisione si nota infatti tra i villaggi di frontiera e solo un cippo di pietra o un tratto di torrente segna il limite di stato attraverso il quale lo scambio è ed è stato, soprattutto in passato, continuo. Nei villaggi del Barroso o della Pereda Geres, così come nella regione di Miño e del sud di Orense, il senso della continuità dello spazio è forse tra quelli più chiari nell’intera Europa, accompagnato evidentemente dalla organizzazione comunitaria per cui la rappresentazione dei vicini nel conselho si può idealmente paragonare all’unità fisica delle case del villaggio17. Elemento architettonico importantissimo è qui il forno di uso comunitario, per il quale più vicini consociati pagavano al proprietario un corrispettivo in cereali all’anno: costruito interamente in pietra, l’edificio del forno propriamente detto, coperto a volta con arcate trasversali di rinforzo, è preceduto da un porticato aperto all’esterno, con ripiani di pietra destinati all’appoggio del pane, in attesa di cottura e nello stesso tempo come panca per sedere. Sempre acceso, per un uso continuo e scaglionato per ciascuna famiglia, il forno de aldeia, per la sua forma e, soprattutto in inverno, per il richiamo confortevole dei muri caldi, si trasformava
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con naturalezza in spazio per gli incontri e le riunioni del villaggio, tanto che alcuni di essi, per il trattamento dei materiali, le dimensioni e la collocazione urbanistica acquistano una rilevanza simbolica e monumentale, come quelli di Santo André, di Castanheira da Cha e di Pitoes das Junias. Il sistema simbolico urbano è quindi complesso e, articolandosi tra la fonte, il forno, l’aia e i granai, si completa con i calvari, con la cappella e le chiese del villaggio; numerosissime le semplici cappelle con strutture lineari, spesso non distinguibili dagli edifici residenziali e dal forno, anch’esse precedute da un piccolo portico con panche in pietra che fa tutt’uno con lo spazio interno più propriamente dedicato alla liturgia. Strutture simili, in forme spesso più povere e austere, si ripetono nel nord della Galizia e nelle Asturie, con le varianti già ricordate dei granai (hórreos) e delle pallazas. Nella regione di Oscos e nella valle del Nalon (Picos de Europa) ritroviamo gli esempi meglio conservati, perché forse più appartati e discosti dalle vie di comunicazione e dalle zone di sviluppo minerario asturiano; in essi le case si rinserrano attorno a piccoli spazi comuni occupati dai granai che definiscono il villaggio come funzione e come luogo di incontro.
cappa ma lo sfogo dei fumi avviene attraverso un grigliato di legname intrecciato (sequero) sul quale si collocano i prodotti da essiccare che poi vengono immagazzinati nello stesso sottotetto, secondo una tradizione simile a quella di alcune zone del Massiccio Centrale francese e dell’Appennino ligure-emiliano. La casa dell’area galiziana del sud e portoghese del nord è estremamente semplice nella strutturazione degli spazi, anche se presenta infinite soluzioni architettoniche. Si tratta, sotto il profilo funzionale, di una casa elementare, simile alla maison-bloc della Francia centro-meridionale, per lo più sviluppata su due piani: il piano inferiore è destinato agli animali e al lavoro, quello superiore alla residenza. I modi di aggregazione di questa organizzazione elementare sono sostanzialmente tre: il primo, più semplice, è rappresentato da un unico volume nel quale gli spazi della residenza, formati da uno o due locali, sono disimpegnati da una scala esterna e da una loggia; negli esempi più elementari quest’ultima può addirittura mancare e la scala introduce direttamente nell’unico locale di abitazione. Il secondo esempio è costituito dall’aggregazione in serie di tali cellule minime nelle quali la loggia diventa elemento di unione tra casa e casa, ampliandosi anche a formare portici per il ricovero di attrezzi e derrate. Infine, il terzo tipo presenta un particolare sviluppo della parte rustica con ali minori che delimitano una vera e propria piccola corte, spesso chiusa da una porta che, in qualche caso, è sormontata da un granaio. Gli ambienti interni sono ridotti all’essenziale: più spesso l’abitazione è costituita da un solo locale che contiene la pietra del focolare e i pochi arredi per mangiare e dormire e raramente esistono camere da letto vere e proprie; al contrario il sistema dei percorsi esterni, soprattutto le scale e la loggia, è esaltato e sviluppato con ricchezza di forme e materiali, così da costituire l’elemento significativo della casa stessa in continuità organica con lo spazio del villaggio19. La scala esterna acquista così importanza straordinaria, ed è realizzata con enormi gradini monolitici in granito, e anche i parapetti della loggia sono spesso in pietra a lastre disposte verticalmente; altrettanto enfatizzate le mensole che sostengono la loggia e gli altri elementi costruttivi, per cui lo spazio del villaggio dà questa percezione continua e tridimensionale di scale tra quinte continuamente mutevoli e piene di inviti e di accessi coperti da portici, come a Tourem, Pitoes, Lindoso, Villaboa, Lovios, Cortegada, Bande e Santa Comba de Bande, Allariz ed infiniti altri. Assai differente è la casa della Galizia centrale, in particolare della provincia di Lugo e in parte de La Coruña. Si tratta di un edificio compatto, con pianta preferibilmente quadrata, priva di scale e di articolazioni esterne e tetto a quattro falde; la stalla occupa una parte del piano terreno e lascia spazio alla cucina col focolare; le camere da letto, abbastanza ampie e confortevoli, sono al primo piano,
4. La famiglia e la casa Sul sottofondo comune della struttura patriarcale o matriarcale della famiglia – compresa nella più ampia e anche variabile, da epoca ad epoca, comunità di villaggio – si articola la forma della casa, dagli esempi più poveri a quelli più complessi. L’area qui esaminata presenta una certa varietà di tipi edilizi, la cui costante è però quella di costituire elementi della composizione del villaggio, poiché gli esempi di case isolate sono sporadici o già legati a ceti emergenti o signorili, come nel caso del pazo galiziano. Nelle regioni situate più a sud-ovest dell’area qui esaminata, tra le province di Salamanca, Cáceres ed Avila ed in particolare tra la Sierra de Gredos e la Sierra de la Peña de Francia, si avverte la tendenza a realizzare case multipiano nelle quali, pur con molte variazioni subregionali, si tende a portare la cucina (il soggiorno) il più in alto possibile, lasciando la cantina o una piccola stalla al piano terreno e le camere da letto a quello intermedio18. La pietra è sempre usata per il piano inferiore, mentre per i superiori spesso si usa la struttura a graticcio (entramado) più o meno aperta da logge e ballatoi. La particolare ricchezza di castagneti nelle Sierre ricordate ha fatto sì che, assieme all’allevamento del bestiame, la farina di castagne costituisse una risorsa alimentare fondamentale integrativa o sostitutiva di quella di cereali pregiati. Per la pratica dell’essiccazione, nella casa alberçana, la cucina viene collocata all’ultimo piano abitabile e il focolare posto su lastre di granito: non esiste una vera e propria
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa valle del Nalon (Soto e Campo de Caso) è molto più diffuso l’uso del legname da costruzione col quale si realizzano non solo le parti sollevate dei granai, ma anche molti elementi della casa, quali le logge, le soffitte e, a volte, anche gli interi piani superiori, a testimonianza di una diffusa pratica artigianale della carpenteria assai evoluta. Inoltre compaiono alcuni elementi tipici della Cantabria, quali il portico al piano terreno e i muri del timpano sporgenti (esplones), soprattutto al piano superiore: a volte appena accennati, a volte più sviluppati, questi elementi testimoniano di una complessa interazione di culture attorno ai Picos de Europa, sul cui versante sud si attestano, nella Sierra de Riano, interessanti villaggi anch’essi con caratteri misti galiziani e cantabrici, quali Oseja de Sajambre, Lois, Posada de Valdeon23, che ci introducono ormai nei temi propri delle province di Santandér e dei Paesi Baschi.
disimpegnate da una scala interna in legno. Il piccolo spazio disponibile per la stalla spinge poi a realizzare, per gli allevatori più ricchi, vere stalle monofunzionali, così che la casa primitiva si articola entro una più complessa unità produttiva polifunzionale organizzata attorno a una corte. La casa lucense si distingue anche per una più rigorosa codificazione degli elementi strutturali in pietra che la compongono, per cui ogni pezzo si colloca entro un rigoroso sistema funzionale e di rapporti proporzionali20, tanto da far pensare a una origine del tipo più di carattere colto. Infatti non è difficile il collegamento con la tipica fenomenologia del pazo gallego, sorta di dimora rurale della grande o anche della piccolissima nobiltà collocata al centro del podere al quale si riferiscono i villaggi più poveri21. La sua struttura conserva, negli esempi più arcaici, la rigidità della casa-torre medioevale, arricchita e completata nei secoli successivi da elementi propri della dimora signorile di campagna, quali le logge, le scalinate e le ampie sale interne. Di tutti questi elementi la casa popolare lucense conserva, oltre alla pianta, il senso rigoroso del rapporto tra pieni e vuoti, con porte e finestre ampie più di ogni altro esempio – non solo spagnolo ma anche forse europeo – ed evidenziate da contorni in pietra accuratamente lavorata e anche di colore più chiaro, spesso tendente al bianco, della restante muratura. Il confine tra Galizia e Asturie, con implicazioni anche per i villaggi del León addossati alla Cordillera Cantabrica occidentale, mostra ancora i resti delle pallazas, delle quali si è già accennato: aggiungiamo solamente che nei villaggi caratterizzati da tale tipologia edilizia si aggiungono anche, oltre ai granai, case compatte del tipo lucense, inglobate e integrate profondamente nel tessuto più antico, come in alcuni stupendi villaggi della Sierra di Ancares, quali Castelo de Frades, Vilarello, Donis, Piornedo. Le profonde gole della Sierra di Ancares introducono dalla Galizia alle Asturie occidentali, solcate da profondi valloni e dalle comunicazioni assai difficili. La struttura socio-economica basata sull’agricoltura di sussistenza, ma soprattutto sulla pastorizia, presenta tipologie insediative povere ma complesse, perché legate alla periodicità della transumanza. La famiglia asturiana vive quindi su un territorio ampio22 occupando più o meno stabilmente durante l’anno edifici, quali le capanne dei mandriani d’altura, simili agli antichi castros e alle pallazas galiziane, collocate nelle brañas (pascoli) a formare a volte piccolissimi aggregati. Il villaggio di stabile residenza è pure estremamente povero ed austero: nelle valli orientali si distinguono gli insediamenti dell’alta e media valle del Navia e della regione di Oscos, totalmente costruiti in pietra scistosa, con vistose incorniciature e angolari in calcare o ardesia. Privi di scale esterne, le case si rinserrano nel loro volume compatto, ricordando la discendenza dalla austera casa-torre. Al centro e ad oriente della regione, a sud di Oviedo e nella valle del Nalon, ricompare la casa a ballatoio, del tipo già esaminata, ma con alcune varianti. Soprattutto nella
5. La dimensione simbolica e costruttiva L’attività artigianale dominante nell’area galiziana, da sempre esercitata con estrema perizia, è quella degli scalpellini (canteros), legata alla utilizzazione delle cave di granito. Il centro è la provincia di Pontevedra, ma la sua diffusione corrisponde a tutta la regione spagnola e portoghese anche in corrispondenza di giacimenti non solo granitici, ma anche di ardesia, di scisti e altre rocce sedimentarie. Il grande cantiere della cattedrale di Santiago fu indubbiamente un centro di affinamento per le maestranze che vennero in contatto con architetti e scultori di altri paesi, soprattutto francesi; ma anche prima di tale epoca la tradizione dell’uso della pietra dovette essere già matura come testimoniano le chiese visigotiche asturiane e galiziane e anche gli apparecchi murari dei già ricordati castros, molto simili a quelli usati nell’edilizia civile esaminata fino al xix secolo. Sarebbe da studiare attentamente il legame tra i maestros pedreiros di Galizia e Portogallo con gli altri poli fondamentali della lavorazione della pietra di Francia, Inghilterra e Italia, poiché si tratta sicuramente di solidarietà che, tramandandosi gelosamente nel tempo i segreti del mestiere, contribuirono allo sviluppo di quella unitaria cultura europea del quotidiano che si protrasse fino all’età dell’industrialesimo: solidarietà anche nel linguaggio del tutto particolare, la jerga, in parte derivato da altre lingue del nord iberico, quali il basco, sviluppato secondo una logica di appartenenza a mestieri e corporazioni anche propria di altri gruppi24. La testimonianza artistica più affinata dell’opera di questi maestri della pietra sono sicuramente le croci viarie, delle quali si è già sottolineato il significato ambientale; le croci di pietra sono ricavate da un unico blocco e pertanto richiedono un lungo e magistrale lavoro soprattutto quando si realizzano figurazioni complesse. I modelli impiegati,
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di origine medioevale ma ripetuti anche nei secoli successivi, vanno dalla semplice croce nuda a rappresentazioni doppie, con il Cristo inchiodato su un lato e la Vergine col Figlio morto e deposto sull’altro, in figure a tutto tondo e ben distaccate dal supporto principale, pur costituendo un tutt’uno nel materiale. Più estesamente ancora l’abilità degli scalpellini si può leggere nella struttura dei granai in pietra, vere e proprie sculture monumentali in granito, arricchite da simboli di carattere religioso o naturalistico che variano da un manufatto all’altro, secondo le richieste dei committenti; prevale, in corrispondenza del timpano principale, la raffigurazione della croce sul monte triangolare, ma sono frequenti e commisti altri segni a forma di pinnacolo, sfera o cuspide, legati alla pratica degli scongiuri. Ogni elemento, portante o portato, del granaio in pietra ha una sua precisa nomenclatura, per cui si può desumere che gli scalpellini avessero una specie di prontuario di elementi, più o meno raffinati e costosi e con dimensioni standardizzate, tra i quali i committenti potevano scegliere in base alle possibilità e ai desideri: è da escludersi quindi che, salvo in caso di granai più semplici in legno, fosse il contadino stesso a costruirsi il granaio. La stessa intenzione simbolica sta alla base della costruzione della casa, e la stessa attenzione e perizia costruttiva ne guida le fasi, anche nei casi più semplici. Il nesso tra la famiglia e la casa non è solo di natura strutturale e materiale; ma la casa come luogo della famiglia rappresenta una unità morale e quindi la sua personalizzazione è molto profonda25 anche a livello delle strutture e dei materiali componenti. Malgrado la semplicità dei tipi edilizi, la cura della costruzione è molto accentuata e quasi sempre postula, a sottolineare l’importanza annessa, l’intervento di scalpellini specializzati: il maestro muratore (pedrero) affianca il lavoratore proprietario sia in Portogallo che in Spagna26. La perizia del maestro si manifesta soprattutto nella costruzione degli spigoli e nei portali o finestre, mentre le restanti
parti del muro vengono affidate alla buona volontà degli aiutanti, salvo là dove si impiegano ovunque conci perfettamente squadrati. Ogni elemento del muro – quali angolari, spalle, architravi, soglie e così via – ha un suo nome e le relative necessarie varianti nel gergo murario, così da escludere ogni possibile interpretazione spontaneistica. Possiamo altresì sottolineare il senso monumentale di molte case portoghesi e galiziane, nelle quali il portale in particolare assume proporzioni gigantesche in rapporto alle proporzioni del resto della casa e, si badi bene, senza alcuna giustificazione funzionale che non sia quella legata all’intenzione simbolica, come appare evidente nelle aperture in ardesia nella regione di Oscos, o nei portali puramente decorativi di Piornedo. Frequentemente tale intenzione è sottolineata dalla consueta apposizione di date e simboli di ispirazione religiosa, talvolta di fine fattura. Le case de La Alberça sono forse il più complesso sistema simbolico di tutta questa regione; in esse la croce sul monte triangolare è il simbolo più frequentemente utilizzato, ma anche la scritta ihs, con o senza croce centrale oppure racchiusa nella raggiera, oppure il solo simbolo solare, o le scritte in onore della Vergine, o infine le palme intrecciate: simboli semplici ed elementari che nulla hanno a che fare con insegne nobiliari, ma appartengono alla vita e alla gente di tutti i giorni. In questo mondo pietroso e granitico, scarsa importanza ha avuto, come elemento simbolico, il legno se si eccettua il granaio asturiano per il quale, al di sopra dei supporti e dei cuscini in pietra, spesso si assiste a una ricerca degli incastri delle travi e delle tavole di chiusura, che possono avvicinarsi al livello della tradizione della pietra. Anche nella casa asturiana delle valli orientali e del León del nord-est vi è un certo impiego del legno nelle logge e nelle parti superiori della casa con particolari intagliati, soprattutto nei parapetti di squisita fattura e di forte effetto decorativo, ma presumibilmente assai tardi e non anteriori al xviii secolo, secondo schemi assai diffusi nella vicina Cantabria.
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa
territorio
2. Rovine dell’antico abitato di Monsanto, Castelo Branco, Portogallo.
3. Campagna di Cervatos de la Cueza, LeĂłn, Spagna.
4. Abitazioni rurali a Cerdeira, Ourense, Spagna.
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa
territorio
5. Panoramica della Valle del Navia, Doiras, Asturie, Spagna.
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa
comunitĂ
6. Abitazioni rurali a Sabugal, Guarda, Centro, Portogallo.
7. Edifici in pietra a Lovios, Paradela de Albereda, Ourense, Galizia, Spagna.
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8. Uno scorcio caratteristico di Monsanto, Portogallo.
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa
case
9. Casa in pietra e paglia a Piornedo, Donis, Lugo, Spagna.
10. Antiche abitazioni di Pitões das Júnias, Montalegre, Portogallo.
11. Ruderi dell’abitato di Lindoso, Viana do Castelo, Portogallo.
12. Incisioni su pietra ad Allariz, Ourense, Galizia, Spagna. 13. Antica torretta fortificata a San Pedro de AgÜeira, Oscos, Asturie, Spagna.
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa
case
14. Una delle caratteristiche abitazioni in pietra di Monsanto, nelle pianure della Beira interna, Portogallo.
15. Ruderi di abitato in pietra e legno ad Acebo, Molinaseca, LeĂłn, Spagna.
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16. Resti di un’abitazione ad Allariz, Ourense, Galizia, Spagna.
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa
simboli
20. Il castello di Sabugal, distretto di Guarda, Portogallo.
17. Chiesa rurale nei pressi di Chaves, Vila Real, Portogallo.
18. Dettaglio di una costruzione in pietra a San Pedro de AgĂźera, Asturie, Spagna.
19. Dettaglio di un’abitazione di Montes, Vila Real, Portogallo.
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21. Gli Espigueiros attorno al castello di Lindoso: tipici granai in pietra sopraelevati dove venivano messi a seccare i cereali. Viana do Castelo, Portogallo.
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capitolo primo Finis terrae, antica frontiera dell’Europa
simboli
22. Chiesa rurale di Santa Colomba de Somoza, LeĂłn, Spagna.
23. Dettaglio di una struttura in pietra a Pedredo, LeĂłn, Spagna.
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Il perno tra continente e penisola iberica sul Camino de Santiago
Castiglia del nord, Cantabria, Paesi Baschi (spagnoli e francesi) e Navarra
1. Introduzione
Sistema complesso di valli, quindi, molto frantumate nella parte settentrionale dove si svolgono in direzione sud-nord, inoltrandosi precipitosamente nel mare, con imbocchi stretti corrispondenti a piccoli insediamenti marinari; più ampie al meridione dove si sviluppano in direzione est-ovest continuando la conformazione valliva del sistema pirenaico. I grandi insediamenti urbani rifuggono la zona montagnosa interna e si arroccano o lungo la costa, come le città di Bayonne, San Sebastián, Bilbao e Santander, o lungo il sistema vallivo interno, come Saint-Jean-Pied-de-Port, Pamplona, Logroño, Burgos. Quest’ultima serie di insediamenti si colloca su uno dei più importanti percorsi europei, quello che conduceva a Santiago de Compostela e che rappresentò sempre il tratto di collega-
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uesta regione è definita a settentrione dalla costa atlantica e a meridione dalle alte valli, scavate in direzione opposta, del Duero e dell’Ebro; tra le due ideali linee parallele si situa un complesso sistema montuoso che inizia ad occidente con i Picos de Europa e attraverso vari sistemi di Sierre intermedie (Sierra de Isar, Montes de Ordunte, Sierra de Ergueta, Aralar, Urbasa) si congiunge con l’estremo lembo dei Pirenei occidentali che, dalla zona del passo di Roncisvalle, digradano dolcemente verso l’Oceano. 1. Stemma in bassorilievo ad Abadiño, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
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capitolo secondo camino de santiago trasformati in campi di colture a cereali o patate che riflettono un accorpamento della proprietà assai accentuato. Il paesaggio storico si era invece strutturato, dall’età preromana e romana in poi, sull’equilibrio dell’uso delle diverse aree in funzione della disponibilità di tutte le risorse per la vita delle comunità insediate, entro un quadro economico sostanziale di autosostentamento. Per questo motivo ogni nucleo familiare, membro della comunità, doveva poter disporre – e questo è un aspetto che accomuna tutte le regioni da noi considerate – di quel ventaglio di possibilità per rendere completo, a parità di tutti gli altri nuclei, il ciclo produttivo. La comunità di valle o universidad1 determinava, attraverso le ordinanze del consiglio, le modalità d’uso e di sfruttamento del suolo, per garantire l’equilibrato sviluppo di ogni singolo gruppo familiare. Queste ordinanze però riflettono in tali valli anche la particolare situazione di recessione delle proprietà comunali a partire dal tardo medioevo, di fronte all’affermarsi del concetto di proprietà privata legata alla struttura familiare. Per mantenere quindi un sistematico legame ed equilibrio era quindi necessario intervenire minutamente su tutti gli aspetti di diritto civile e servitù reciproche, così come appare nelle ordinanze di valle2. Procedendo con ordine possiamo dire che la forma del paesaggio nasceva dalla seguente individuazione delle aree colturali: nei paesi a fondovalle, più o meno pianeggianti, si trovavano i campi coltivati assieme alla maggior parte delle case; a mezza costa, i prati coltivati misti alle case più appartate e al bosco di rovere o di castagno; ancora più sopra, i pascoli asciutti e i prati tenuti a falce3. La coltivazione più estesa era quella del grano o di altri cereali secondari, quali miglio e avena, mentre il mais è di introduzione del tutto recente e si è sviluppato solo nel nostro secolo. Accanto a esso naturalmente esistevano gli orti familiari con una grande varietà di prodotti, arricchitisi in seguito all’introduzione di piante provenienti dall’America. Altra caratteristica coltura legnosa, che sostituiva la vite, era quella del melo per la produzione di sidro, bevanda assai diffusa in tutto il nord cantabrico. Accanto a esso il castagneto, oggi quasi scomparso, ed il rovereto fornivano prodotti complementari sia per gli uomini che per gli animali ma, a differenza di altre regioni, non sembra che la farina di castagna abbia avuto qui una importanza alimentare fondamentale, a causa dell’assenza di essiccatoi di una certa importanza. La fonte di reddito più pregiata era costituita dal bestiame, seppure con modalità e rapporti diversi da quelli attuali4 poiché era sempre indispensabile mantenere un certo rapporto proporzionato tra le produzioni non essendo sviluppata una economia di mercato a scala sufficiente: oggi all’allevamento bovino vengono dedicate quasi tutte le cure colturali, mentre in passato era meno importante, e subordinato all’allevamento ovino e alle colture cerealicole. La stalla bovina era generalmente situata al piano terreno della casa e, per quanto grande fosse, dimostra che ciascuna
mento principale per terra tra la Spagna e il resto dell’Europa. Naturalmente, come quasi sempre avviene per i grandi percorsi storici, la via principale si arricchì di percorsi secondari ed alternative dettate dalle condizioni più favorevoli in particolari epoche o determinate da ostacoli politici temporanei, per cui tutta la regione risulta innervata da testimonianze di queste percorrenze che si riscontrano o nello sviluppo di piccoli centri di mercato secondari o di monasteri e ospizi diffusi un poco ovunque. Anche le etnie presenti nella regione appaiono assai differenti: i popoli baschi sono insediati nell’attuale dipartimento dei Pirénées-Atlantiques francesi e nelle province di Navarra, Vizcaya, Guipúzcoa spagnole; mentre la tradizione castigliana è viva in Cantabria, Burgos, Soria, Logroño e Navarra del sud: tuttavia una certa comune radice storica, di usi e di cultura, lega le popolazioni del nord, al di là delle pur consistenti differenze di lingua e di struttura giuridica, tanto da poterne sviluppare una trattazione in grado di mettere in luce sia le differenze sia le analogie. Indubbiamente l’identità basca è un fatto emergente e che ha profonde connotazioni rispetto all’oggetto della nostra ricerca: la lingua, il diritto, le tradizioni, la casa stessa rappresentano particolarità che tale popolo ha conservato per secoli gelosamente: soprattutto però, per quanto riguarda la casa e il paesaggio rurale, non in un isolamento asettico ma attraverso uno scambio continuo sia con i popoli immediatamente confinanti sia col più ampio contesto europeo, rispetto al quale il passo di Roncisvalle rappresenta la ideale cerniera.
2. Le trasformazioni del territorio La regione cantabrica e basca, soprattutto in corrispondenza dei versanti settentrionali delle Sierre e dei Pirenei, è esposta alle perturbazioni atlantiche che rendono il clima umido e piovoso, seppure abbastanza temperato; nei versanti meridionali invece, in corrispondenza della Navarra del sud e di Burgos, i venti del sud rendono più asciutte le stagioni e più calda la temperatura media, così da stabilire una differenza assai accentuata di paesaggio e condizioni colturali. Questo paesaggio, pur mantenendo alcune costanti caratteristiche, ha subito, negli ultimi decenni, alcune trasformazioni che lo differenziano assai rispetto alla sua struttura storica che possiamo ricostruire attraverso documenti e deduzioni. Nelle aree dei versanti settentrionali, ad esempio, la zootecnia e le colture legnose intensive, soprattutto di essenze resinose, stanno configurando un paesaggio di tipo alpino con foreste sempreverdi intercalate da prati coltivati a foraggio, che non corrisponde alla distribuzione e qualità del bosco e all’importanza data all’allevamento in epoca storica fino agli inizi del xx secolo. Nelle aree meridionali invece, soprattutto nella regione di Logroño, il vigneto, divenuto estensivo, copre interi versanti esposti al sole mentre i fondovalle si sono progressivamente
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famiglia non possedeva un enorme numero di capi: rare e recenti sono infatti le stalle autonome separate dalle dimore. Più diffuso era l’allevamento ovino che dà luogo a strutture edilizie particolari anche se minori, e a consuetudini civiche assai complesse: la pecora infatti abbisognava molto meno di prati coltivati potendo sfruttare di più il campo silvestre asciutto. Attorno all’allevamento ovino si organizza il sistema dei pascoli estivi e invernali, della transumanza5 con i relativi percorsi e obblighi di passo e si conservano più a lungo le proprietà comunali. In funzione della pastorizia si realizzano anche le dimore temporanee, qui chiamate bordas, espressamente destinate ai custodi del bestiame ma anche per custodire temporaneamente il fieno o le felci per le lettiere. La loro costruzione su terreno comunale era concessa, ma a condizione di rispettare certi vincoli di distribuzione e di distanze, per garantire agli utenti uno spazio di sfruttamento adeguato. Era interesse comunque di tutta la Valle che tali bordas fossero distribuite uniformemente e venissero usate regolarmente, in modo da impedire il degrado dei pascoli e della montagna, come appare dalle ricordate ordinanze6. Da queste osservazioni ne esce un quadro che sottolinea lo sforzo di controllo ordinato degli ambiti propri di valle che ciascuna universidad si sforzava di realizzare cercando di far coincidere l’interesse delle singole famiglie, ormai detentrici della proprietà del suolo, con l’interesse generale; tale sforzo si è tradotto in un equilibrio che, malgrado le trasformazioni pesanti degli ultimi decenni, si legge ancora chiaramente e può costituire la base per uno sviluppo non distruttivo.
particolare, lungo il grande asse viario che da Burgos – attraverso Logroño, Estella, Puente la Reina, Pamplona, il passo di Roncisvalle e Saint-Jean-Pied-de-Port – conduce verso la Francia centrale e lungo le sue varianti più a nord, verso Vitoria, San Sebastián e Bayonne, si accentrano i borghi e le città principali, affiancate da monasteri, ospizi e chiese che costituivano altrettante tappe per i pellegrini verso Santiago de Compostela e comunque per qualsiasi viaggiatore. La Castiglia del nord – in particolare in corrispondenza de la Montaña, tra Burgos e Santander, ma anche fino ai confini con il León e con Soria e Logroño – è caratterizzata dalla presenza di villaggi compatti, abbastanza piccoli e isolati, sulla base dell’antica distribuzione del vicus di età romana9. La morfologia del villaggio è molto variata e determinata dall’aggruppamento, a volte casuale a volte ordinato, degli edifici. Un caso particolare è costituito dal villaggio di Santillana del Mar, dalla pianta a fuso, organizzata lungo due strade che terminano al nord con la imponente Collegiata romanica10, esempio unico di insediamento con caratteri rurali e cittadini allo stesso tempo e con architetture al confine tra la sfera della casa popolare e quella signorile: si può affermare che nessuno dei tipi edilizi della regione sia assente o non vi sia adeguatamente sviluppato. Scorrendo da Occidente verso Oriente è necessario distinguere due regioni dai caratteri insediativi assai differenti: le province basche della costa e le regioni dell’entroterra, quali Alava meridionale, Logroño e Navarra del sud, sottolineata dall’alta valle dell’Ebro. In queste ultime permane il tipo dell’insediamento aggruppato, anche quando la casa assume già un carattere di particolare autonomia, propria della struttura familiare basca, come nelle valli trasversali, a sud delle Sierras de Alguente e de Aralar, che collegano Vitoria con Pamplona. Ancor più a est, lungo il camino di Santiago, il carattere di aggruppamento si accentua, non solo in centri-chiave per l’assistenza o l’ospitalità, come soprattutto Estella e Puente la Reina, ma ancora nei villaggi ormai al confine con l’Aragona, quali Sanguesa o Sos del Rey Católico, dai caratteri urbani assai accentuati11. Al nord invece, nelle verdi valli della regione piovosa che digrada sull’Atlantico, tra le città di Bilbao a ovest e Bayonne ad est, la situazione si fa molto più articolata, sia a causa della estrema complessità orografica sia delle influenze e stratificazioni culturali. I centri aggruppati e compatti si consolidano nell’età medioevale secondo una struttura a strade perpendicolari, prevalenti per importanza in una delle due direzioni: è ancora ben visibile questa disposizione in Vizcaya nei centri di Markina-Xemein, Durango, Guernica e nella vecchia Bilbao; in Guipúzcoa a Tolosa, Mondragon a Vergara e, nei PyrénéesAtlantiques, a Saint-Jean-Pied-de-Port e, in parte, Bayonne. Questi borghi nascono entro la situazione politica ancora dispersa, antecedente alla unificazione sotto la corona di Castiglia, alla fine del Medioevo, ma anche in connessione al nascere delle comunicazioni attraverso i Pirenei che si strutturano come varianti del grande asse giacobeo12.
3. La comunità e gli insediamenti Parlando della Galizia e delle Asturie si è ricordata l’origine comunitaria del vincolo che legava le famiglie di ogni villaggio e come questa struttura giuridica, più o meno conservata fino ad oggi, si rispecchia nelle strutture e negli spazi dell’insediamento. Anche nel nord-ovest tale caratteristica, su base matriarcale o patriarcale, è alla base della vita associativa7, ma si svolge in forme più articolate e differenziate che all’Occidente, soprattutto a causa dell’inserimento in essa della particolare struttura familiare delle province basche. Questa particolarità introduce infatti, accanto alle forme di insediamento raggruppato in villaggi, più o meno grandi, anche quella della casa isolata o comunque raggruppata secondo la rete più ampia della comunità di valle, che coesiste con la prima e si accentua particolarmente nelle province di Vizcaya, Guipúzcoa e dei Pirenei del nord (Alta Navarra, Labourd ecc.)8. A definire la modalità dell’insediamento concorrono anche ragioni orografiche e climatiche locali. Ma importante è anche la presenza dei grandi percorsi storici di comunicazione, lungo i quali l’insediamento tende a raggrupparsi in centri di carattere più marcatamente urbano e commerciale. In
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capitolo secondo camino de santiago A causa del frazionamento del lavoro per singoli nuclei familiari chiusi, è difficile trovare elementi del lavoro comuni, anche se non mancano spazi comuni attorno alle fonti, abbeveratoi, lavatoi e simili, che per lo più sono compresi però nel caserío. Qualche volta si esercitano anche lavori comuni al vicinato: è questa l’istituzione dell’auzolan, esercitato soprattutto per la costruzione delle strade, della chiesa e delle ermitas e al quale non si sottrae nessuno dei vicini, qualunque sia la sua posizione sociale.
La campagna, abitata dalla piccola signoria di guerrieri e coltivatori nello stesso tempo, vive isolata nelle case-torri, ma dal tardo medioevo viene richiamata nei borghi e le strutture a torre, come in Catalogna o in Toscana, si trasformano nei primi insediamenti rurali isolati. È questo il più antico aspetto dell’abitato disperso che, tra Quattrocento e Cinquecento, diviene tipico per i paesi baschi, con la nascita del caserío, quale rispecchiamento vero e proprio nell’edilizia, della particolare struttura giuridica della famiglia maggiorascale. Il paesaggio insediativo si struttura quindi secondo un complesso rapporto di abitazioni isolate del tipo caserío-torre e caserío vero e proprio, in ambiti territoriali, per lo più corrispondenti a una valle o a un sistema omogeneo di esse, facenti riferimento agli antichi centri ricordati, dell’entroterra o della costa. Il sistema rigoroso del rituale che lega la casa isolata con la comunità in rapporto allo svolgimento dei momenti fondamentali della vita, trova un esempio chiarissimo nella struttura degli insediamenti della regione di El Báztan13, nella quale si legge chiaramente il rapporto tra le singole case di famiglia, la chiesa e il suo atrio, il municipio e il cimitero, secondo un sistema di percorsi dettati in particolare dal rito della sepoltura. La chiesa diviene il riferimento non solo per la religiosità personale ma per la struttura della famiglia e quindi della casa: la famiglia tiene nella chiesa la sepoltura che, col passare del tempo, non venne più usata preferendosi il cimitero esterno, ma ne conserva il riferimento simbolico, come possesso di parte dell’edificio comune. Ma la chiesa è anche riferimento per la ritualità civile, poiché essa era anche il luogo delle riunioni, sia all’interno dell’edificio sia all’esterno. Si spiega così il significato del grande porticato (atrio), costruito in legno, in corrispondenza del portale principale, ma che spesso si estende tutt’attorno alla chiesa, destinato a ospitare il concejo de los vecinos, che trova origine nella istituzione medioevale della anteiglesia, tramandatasi in forme più o meno istituzionali fino ai giorni nostri14. La chiesa parrocchiale con portico costituisce quindi il punto di riferimento dell’insediamento e di mediazione tra l’individualismo del caserío – legato alla logica della difesa della proprietà – e le necessità dello scambio e della vita associata. La chiesa, come le cappelle minori, nel quadro della mobilità dell’età medioevale e barocca, svolge poi anche ruoli complementari, legati all’assistenza, all’ospitalità e all’insegnamento15. Edificio diffusissimo è l’ermita, la piccola cappella rurale, edificata con gli stessi criteri della casa e quindi rappresentativa delle intenzioni e delle tecnologie costruttive popolari: l’ermita non è la struttura decentrata della parrocchia, ma nasce da condizioni particolari, quali la presenza di persone pie viventi in eremitaggio o dalla volontà di alcune famiglie, tanto è vero che la custodia è affidata a donne del popolo, chiamate serosas o freylas, che disponevano di una propria abitazione e avevano il compito di tenere in ordine chiese, cappelle e cimiteri, ma anche di dare ospitalità ai pellegrini e fornire assistenza secondo criteri stabiliti dal vicario della parrocchia16.
4. La famiglia e la casa La zona esaminata mostra dei tipi edilizi ben individuabili e caratterizzati sotto il profilo distributivo, costruttivo e formale, rapportabili a situazioni e condizioni storiche e sociali particolari. Il caserío-torre è la testimonianza più evidente della condizione abitativa medioevale, propria di classi sociali legate alla vita rurale e che sono giunte fino a oggi in tale funzione, pur attraverso trasformazioni, a volte anche profonde, della proprietà e della struttura edilizia. Senza dubbio le ragioni difensive erano alla base della morfologia di queste costruzioni medioevali, compatte in pianta e sufficientemente alte per l’osservazione e la difesa, con piccole finestre e con portale spesso elevato rispetto al suolo; ma a partire dal xvi secolo17 persero la loro funzione difensiva e si trasformarono a poco a poco in residenze, adattate alle funzioni del lavoro rurale, sia per la famiglia degli antichi proprietari che rimane sul fondo rurale sia per successivi insediamenti di nuclei familiari senza ascendenze nobiliari. A volte la struttura dell’antica torre si presenta ancora oggi isolata, come nelle regioni di Marquina-Ondárroa, Oñate18, Abadiano e Irurita; in altri casi la torre, più o meno troncata rispetto all’origine, viene completata da un ultimo piano di legno destinato a granaio o fienile, come nella notissima e stupenda casa Aranguren di Ybarra o del caserío-torre di Donamaría in Navarra. Più spesso la struttura dell’antica torre viene utilizzata come elemento angolare di un nuovo e più ampio caserío, come negli esempi di Cebeiro, Gordejuela, Uberuaga (la nota torre Ubilla) o come elemento centrale di un edificio che si sviluppa tutt’attorno, così come avviene nei conosciutissimi edifici di Arrayoz in Navarra. Un caso particolare, nelle regioni di Azpeitia, Azcoitia e Zumárraga, è dato da una forma di rifacimento della parte terminale della torre con l’uso di mattoni e torrette angolari sporgenti secondo un influsso mudéjar19; è questo il caso, tra altri, della torre di proprietà della famiglia Loyola, dove nel 1491 nacque sant’Ignazio, oggi inglobata e ben conservata all’interno del santuario di Azpeitia. La casona della regione cantabrica (Montana) rappresenta lo sviluppo tardo-medioevale e barocco dei precedenti esempi, secondo una ormai più diffusa esigenza del costruire che va dalle più modeste case da lavoratore a quelle più com-
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plesse di possidenti e famiglie nobili20. Si tratta di un edificio compatto, privo di corte, quasi sempre a due piani, racchiuso entro due muri di testata; questi muri, costruiti in pietra, sporgono dalla facciata, svolgendo quindi anche la funzione di muri tagliafuoco; inoltre, grazie a mensole spesso lavorate a gola rovescia e intagliate con motivi a fogliame, permettono al piano o ai piani superiori di sporgere a sbalzo sui sottostanti, secondo uno schema costante, dalle dimore più umili a quelle più ricche21. La facciata, quasi sempre rivolta verso sud, è aperta al piano terreno da un porticato (soportal o estragal) per lo più a due o tre archi a tutto sesto, destinato al ricovero di attrezzi e carri e, al piano superiore, da una loggia (solana) con parapetto in legno, racchiusa tra i due muri di testa. Quanto alla destinazione d’uso degli ambienti, il piano terreno è occupato dai depositi e dal bestiame, mentre quello superiore dalla abitazione, con la grande cucina ed il camino, a volte esterno e pensile, sul lato a nord, opposto al soportal e alla solana. La scala è interna nelle case più ampie e ricche, esterna a vista nelle più povere. Nei villaggi le casonas più ricche, anche quando formano insieme organici, mantengono separati i muri di testa; quelle più povere e più piccole si accostano e si rinserrano le une alle altre, mettendo in comune il muro di testa così da formare dei veri e propri sistemi di case a schiera. Esemplificazioni complete del tipo della casona sono oggi ancora riscontrabili a Carmona e Bárcena Mayor, ma se ne trovano ovunque non solo entro i limiti amministrativi della Cantabria, ma nelle province contigue di Burgos, Vizcaya e Alava. Il tipo edilizio descritto compare tra la fine del xv e gli inizi del xvi secolo e si mantiene inalterato fino al xix secolo, con motivi in pietra eleganti e semplici, che riportano l’eco della tarda architettura gotica con influssi rinascimentali e platereschi: difficile è la datazione precisa di ogni edificio, anche quando ci sono date incise che rappresentano spesso l’epoca della ristrutturazione più che della fondazione. Gli abitanti della Montaña, spinti dalla povertà e anche dal desiderio di conoscere, emigrarono numerosi in America Latina e al ritorno ampliarono e abbellirono le case familiari22 a volte con grande impiego di risorse. Il nesso con la casa riflette infatti – al di là degli aspetti nostalgici – la continuità della famiglia patriarcale, cui è legato non solo l’edificio, ma anche il sito, i campi, i pascoli, il bosco. Ancor più strettamente connesso alla continuità della famiglia è il caserío basco propriamente detto, diffuso nelle province di Guipúzcoa, Vizcaya, Alava, Navarra e HautesPyrénées. La struttura della famiglia e il suo rapporto con la terra, pur non rappresentando un caso unico in Europa, si differenzia comunque dalle confinanti strutture familiari spagnole, pur innestandosi sul comune sottofondo patriarcale o matriarcale del nordiberico23. Il diritto di primogenitura, senza distinzione di sesso, di nobiltà, di beni, è applicato in modo assoluto nella tradizione basca e a esso è legato il perpetuarsi dell’unità del complesso
dei beni immobili posseduti; pertanto la casa del ceppo familiare diventa il simbolo della sua presenza e della sua continuità, oltre che rappresentare il rifugio domestico e il luogo dello svolgimento di alcune fasi del lavoro rurale24. Da questa concezione del diritto familiare nasce un rapporto di dipendenza delle persone dalla casa: “il paese è infatti composto da un numero fisso di case, ognuna delle quali ha un nome particolare, che essa impone a quelli che la abitano; lo sposo estraneo che vi si stabiliva perde la sua personalità e prende la denominazione della nuova dimora”25. Per questo motivo ciascuna casa, presso il popolo basco, ha una sua individualità, sia che si trovi isolata – il caserío vero e proprio – sia che faccia parte di un villaggio. La letteratura sul caserío basco è amplissima e propone schemi interpretativi, classificazioni e datazioni molto complesse26. Si tratta di un edificio totalmente isolato, anche aggruppato in piccoli nuclei; ogni casa, in origine rigorosamente monofamiliare, si è poi adattata anche a ospitare due o più famiglie27. La sua origine può, secondo alcuni autori, ritrovarsi nelle capanne dei carbonai o dei pastori dei monti di Guipúzcoa, detta txabolas o chabola28 o nelle più evolute seles o saltses29, con struttura iniziale in legno poi evoluta progressivamente con l’uso della pietra. Si tratta comunque di edificio a pianta rettangolare tendente al quadrato, organizzata attorno a un ambiente centrale che può essere porticato oppure completamente racchiuso, con funzioni di rimessa e deposito e nello stesso tempo di atrio e disimpegno per gli altri vani della casa; in qualche caso la rimessa è connessa con il porticato, più spesso l’una sostituisce l’altra; a volte, soprattutto negli esempi francesi, la rimessa-atrio (eskarats) si sviluppa su due piani e contiene una scala di dimensioni più ampie30. Quasi sempre, comunque, gli ambienti per il lavoro e il ricovero del bestiame sono al piano terreno che, oltre alla rimessa, contiene le stalle per i diversi animali e gli eventuali laboratori: gli adattamenti ad abitazione sono rari e assai recenti a partire dalla costruzione di edifici di servizio veri e propri. Al primo piano stanno i locali d’abitazione: la cucina, generalmente verso la facciata, la sala e le camere; infine il sottotetto, spesso ampio e grandioso, esempio quasi sempre di ottima carpenteria, ospita il raccolto sia per gli animali (fienile) sia per le persone (granaio). Nella cucina in molte case si conserva ancora il vecchio camino appoggiato al suolo su una pietra e protetto verso il muro da una lastra di ferro con le insegne della famiglia; esempi ancora più antichi, come a Ybarra, mostrano il focolare al centro della stanza con fuoruscita libera dei fumi attraverso l’assito del solaio31. Numerosissime tuttavia sono le varianti allo schema descritto, e già si può dire che, accanto al più diffuso tipo di caserío a due piani, ne esistono altri a un piano solo o a tre e anche più. Inoltre nei casi di abitazione bifamiliare si hanno distribuzioni speculari degli ambienti con opportuni adattamenti e con raccordi verticali interni o esterni. Il motivo
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capitolo secondo camino de santiago Al di là di particolarità distributive e stilistiche proprie delle diverse sub-regioni, ben evidenziate negli studi locali, questa casa in pietra è caratterizzata dalla collocazione centrale, al piano terreno, della cucina, di dimensioni abbastanza ampie e coperta da una grande cappa (campana) a forma conica, che comprende tutto il locale e fuoriesce esternamente dal tetto sovrastandolo spesso in modo assai accentuato. La cucina è il locale più importante della casa poiché serve non solo per preparare le vivande, ma come soggiorno e per lo svolgimento di operazioni speciali quali la preparazione del pane, la mattanza, la conservazione delle carni e così via. Il focolare è appoggiato su un’ampia pietra che fa da pavimento, attorniata da panche, dalla mensa e da travi e mensole, sulle quali appendere e collocare prodotti da affumicare. Quasi priva di finestre, la cucina pinariega riceve una luce diffusa dall’alto, attraverso la campana, che si rivela anche un ottimo accorgimento per una buona ventilazione, garantendo così una temperatura abbastanza calda e asciutta. Gli alti e grandi camini conici in pietra costituiscono una caratteristica immediata del paesaggio edilizio di molti insediamenti e consentono di individuare con chiarezza la consistenza e l’individualità dei nuclei familiari dei villaggi. Le zone marginali di confine, tra la Castiglia, i Paesi Baschi e l’Aragona, presentano comunque consistenti frammistioni di tipi edilizi in pietra e misti – in pietra e graticcio – difficilmente definibili e classificabili, ma da riferirsi in genere al tipo della casa a blocco per i villaggi o della casa a schiera per i borghi maggiori, secondo le esemplificazioni già segnalate per la Galizia occidentale e che si ritrovano, frammiste alla masía, nel pre-pireneo catalano. L’importanza attribuita alla casa, così come tramandata dai secoli, non solo nel suo aspetto istituzionale ma anche materiale, è ed è stata vivissima nell’area che stiamo indagando: lo testimonia il buono stato di conservazione della media degli edifici che, al di là delle inevitabili distruzioni e indebite trasformazioni, rappresentano un patrimonio tra i meglio custoditi dell’intera area europea. Tutto questo grazie a una cultura regionale che non rappresenta un fatto recente, ma si è evoluta nel tempo ad accompagnare l’impatto delle culture tradizionali locali nei confronti della ideologia del rinnovamento. È da segnalare ad esempio il movimento neo-basco, sviluppatosi tra la fine dell’Ottocento e il 1920-30, soprattutto nelle regioni basche francesi (Labourd) – ma dal quale non furono immuni neppure le province spagnole34 – che promosse sia lo studio di nuovi tipi edilizi regionali, sia il restauro e il recupero di quelli antichi, avviando un processo a tutt’oggi in atto che ha consentito una tutela comunque attiva di tale patrimonio.
architettonico della scala esterna (patin) in pietra compare però assai raramente, anche se in qualche caso costituisce un elemento architettonico e spaziale interessante, più frequente invero negli adattamenti delle case-torri che nei caseríos veri e propri. È la facciata del caserío che denuncia le intenzioni simboliche dei costruttori, con una struttura a timpano idealmente frequente nelle tre province basche spagnole o il portale che immette nella rimessa, secondo lo schema della Navarra e dei paesi baschi. Il portico può essere sostenuto da un architrave piatto, in legno, retto al centro da una colonna o da un pilastro: in questo caso, frequente nelle province basche più occidentali e dell’entroterra, il piano superiore è in tutto o in parte realizzato con struttura a graticcio; quando la casa è tutta in pietra, quasi sempre il portico è realizzato con arcate singole o doppie, sopra le quali si aprono le finestre dell’abitazione, spesso di buone dimensioni, dagli stipiti in pietra ben denunciati e a volte decorati. Nelle province occidentali il portico tende a scomparire ed è sostituito da un portale: a volte assai semplice con arco a sesto acuto, a testimoniare dell’origine tardo-medioevale di molti edifici; a volte assai complesso, con una tessitura in pietra a vista – nella quale si collocano iscrizioni, date e simboli – che sale a comprendere la finestra centrale del primo piano, secondo un andamento piramidale, come si può vedere in alcuni grandiosi esempi della Navarra e del Labourd meridionale. In queste regioni pirenaiche, pur mantenendo la casa lo schema distributivo descritto, ricompare la soluzione costruttiva dei muri laterali in pietra a saliente, con mensole aggettanti per ogni piano; in questi casi quasi sempre la chiusura della facciata è allora realizzata in graticcio, con le tipiche tamponature intonacate e le travi di castagno in vista, arricchite da logge. Al di là delle date incise sui portali di questi edifici, che vanno dagli inizi del Cinquecento fino all’Ottocento inoltrato, è assai difficile prospettare un disegno cronologico, anche se indubbiamente non è difficile distinguere una casa cinquecentesca, ancora carica di elementi medioevali, da una settecentesca ormai matura e spesso anche schematica. Gli studi di Julius Caro Baroja danno il più attendibile contributo in questo senso, soprattutto per la regione alto navarrese32, per la quale si propone, come datazione iniziale nella costruzione delle case in pietra, la metà del xv secolo e altresì si individuano i migliori esempi costruiti tra la fine del xvi secolo e i primi del xvii. Ciò vale per le case con piano a sporto e struttura di completamento in graticcio sopra ricordate, ma può essere estesa ragionevolmente a tutta la fenomenologia del caserío. Esempio meno frequente nei Paesi Baschi – della quale si trovano esempi particolarmente nella zona di confine della Navarra del sud – è quello della cosiddetta casa pinariega33, diffusa invece nelle zone meridionali di confine con Burgos, Soria, Logroño e anche più ad occidente con Huesca, soprattutto in corrispondenza della regione compresa tra le valli alte del Duero e dell’Ebro.
5. La dimensione simbolica e costruttiva Forse più che in ogni altra regione esaminata, la casa cantabrica tende ad accentuare il proprio significato simbolico e,
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portante, mentre la parte in graticcio viene tesa a collegare le parti pesanti come un pannello senza peso: l’insistenza sulla immacolata intonacatura delle parti di riempimento che si gonfiano rispetto alla trama lignea sottostante è un più che lecito compiacimento formale che ha profonde radici, oltre a un diffuso impiego recente nel processo di recupero edilizio. Entro la facciata campeggia il portico o la grande porta d’ingresso (atia), nei tipi e forme già descritti, luogo di mediazione tra loro spazio esterno del villaggio e della proprietà rurale e il luogo protetto della famiglia; i più antichi sono costituiti da un arco ogivale, ampio rispetto all’altezza, con grandi conci, soprattutto in chiave, dove è più frequente trovare simboli, iscrizioni o date scolpite: la più frequente è quella che riporta il motto di san Bernardino i-h-s, o il sole o insegne di arti e mestieri specifici, indicanti la bottega di fabbro, di carpentiere e così via. Anche quando il portale è preceduto dal portico può presentarsi in forme monumentali, ma in questo caso è più frequente la soluzione trilitica, comunque adottata anche in altri esempi, con iscrizioni a volte molto complesse, con i nomi dei proprietari e la data di ricostruzione o di rifacimento della casa stessa: numerosi sul versante spagnolo, sono d’obbligo in quello francese dove raggiungono a volte un’estensione considerevole, quasi una storia della casa: è da ricordare tra le altre il bellissimo architrave in pietra rossa della casa Apalasia nella località Gahardu a Ossès, del 1635, di intonazione ancora goticheggiante. Il porticato, quando è in forme architravate, mostra spesso la soluzione della colonna intermedia realizzata in forme colte, con capitelli a scudo per gli esempi più antichi e corinzi per quelli più recenti: in questi casi gli incastri delle travi in legno sono scolpiti con motivi simili a quelli usati nella regione cantabrica. Portali, finestre, insegne, mensole sporgenti ad anello in pietra, blasoni, a volte ricchissimo, rappresentano il lessico simbolico della facciata del caserío, nello sforzo di rappresentare degnamente la continuità del ceppo familiare. Altrettanto si può dire per i simboli connessi alla chiesa parrocchiale, alle cappelle (ermitas) e al cimitero. Calvari e croci in pietra, come in Galizia, così nei Paesi Baschi, sottolineano i percorsi e i crocevia, soprattutto lungo la via di Santiago: più frequenti sul versante pirenaico francese, non mancano neppure in quello spagnolo dove è da ricordare quello stupendo di Elorrio, realizzato sul modello degli esempi doppi galleghi. Ancora più caratterizzante la regione sono le steli (estelas) sepolcrali35 e le lapidi sepolcrali nelle chiese; le prime soprattutto risalgono a un’epoca assai antica e si vorrebbe addirittura a riti delle scomparse religioni astrologiche: in esse colpisce quella che è ormai dagli studiosi accettata come forma antropomorfica, sottolineata da un complesso e vario sistema di decorazioni di carattere naturalistico o più strettamente di derivazione cristiana che alcuni autori mettono in relazione simbolica con la casa36.
se vogliamo, a presentare e rappresentare se stessa come un fatto unico, quasi isolato dal contesto, seppure in armonia con esso. È lo sforzo di dare anche forma materiale al particolare legame della famiglia che dà un significato al luogo nel quale si insedia. Così si impone sul paesaggio e nell’ambiente del villaggio la facciata porticata della casona della Montaña di Burgos e di Santander, serrata tra i due muri a saliente che, al di là della funzione di spartifuoco, fanno di ciascuna quasi un unicum evidenziato rispetto alle altre. La cura del materiale impiegato – l’arenaria giallo-rosa – e la sua precisa lavorazione a conci spesso perfetti distinguono l’accuratezza d’esecuzione di queste case da quelle delle aree contermini. Anche la decorazione si pone allo stesso livello, sia negli elementi in pietra sia in quelli in legno. I motivi decorativi si svolgono per lo più in una tradizione colta, derivata dalla semplificazione del disegno tardo-gotico o rinascimentale: i pilastri del portico, le arcate e le mensole dei muri a saliente sono intagliati con motivi a greca o a stella, con festoni a fogliame e addirittura con testine di putti o mascheroni, così come è consentito anche dalla struttura tenera della pietra arenaria. Altrettanta attenzione viene dedicata agli elementi in legno: le testate delle travi principali e secondarie del tetto e delle logge sono minutamente intagliate con volute, intrecci a tortiglione, dentelli, ovuli, piccole maschere, greche e così via, come pure vengono trattati i balaustrini delle balconate, per lo più realizzati in castagno. I portali e le finestre sono altrettanto enfatizzati con l’uso di elementi in pietra del tutto eccedenti quanto richiesto dalla logica costruttiva, sia nel sistema ad arco – a sesto acuto o a tutto sesto – sia nel sistema trilitico; comuni a tutta la zona sono le bifore o trifore di origine gotica con piccoli archi a sesto acuto, spesso traforate in un’unica lastra di arenaria, sia nelle case-torre sia nelle casonas. I Paesi Baschi ripropongono il tema della casa con il caserío, la cui dimensione simbolica si concentra e si esaurisce per lo più nella grande facciata, che spesso diventa una grande tavola se- miologica. Nella tessitura della facciata tende innanzitutto ad essere rappresentata, con sistematica chiarezza, la struttura interna e la tecnologia costruttiva: così la bipartizione in altezza e la tripartizione in larghezza mettono in evidenza le distinzioni tra lavoro e abitazione e le articolazioni dei due momenti della vita. Inoltre vi si denuncia, attraverso l’evidenziazione delle strutture, anche l’affinamento delle tecniche costruttive, poiché la progressiva sostituzione del graticcio con la pietra conferisce evidentemente nobiltà e senso di durevolezza all’intero edificio. Nell’area dove il graticcio resiste più a lungo, cioè nelle zone pirenaiche della Navarra francese e spagnola, il rapporto tra pietra ed elementi in legno è studiato ed espresso con una minuzia ed efficacia assai raffinata, poiché gli elementi in pietra, quali la zoccolatura del piano terreno e i muri d’ambito a saliente, sono fortemente denunciati a sottolineare il ruolo
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territorio
capitolo secondo camino de santiago
2. Panoramica della campagna di Berriz, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
3. La campagna di Berriz, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
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comunitĂ
capitolo secondo camino de santiago
4. Complesso abitativo a Berriz, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
5. Antica abitazione di Ubilla-Urberuaga, Markina-Xemein, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
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territorio
capitolo secondo camino de santiago
6. Abitazione rurale ad Arrechinaga, Markina-Xemein, Paesi Baschi, Spagna.
7. Massiccia costruzione in pietra a Berriatua, Ondarroa, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
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case
capitolo secondo camino de santiago
8. Facciata di un’abitazione in pietra ad Azkoitia, Guipúzcoa, Paesi Baschi, Spagna.
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9. Portico della chiesa di Elorrio, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
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case
capitolo secondo camino de santiago
10. Fienile ad Arantzazu, Oñati, Guipúzcoa, Paesi Baschi, Spagna.
11. Portone dell’eremo de La Antigua a Zumarraga, Guipúzcoa, Paesi Baschi, Spagna.
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simboli
capitolo secondo camino de santiago
12. Portone di un’abitazione a Bidebarrieta, Biscaglia, Spagna.
13. Colonna in pietra a Elorrio, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
14. Statua scolpita sul perimetro esterno della chiesa di Elorrio, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
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15. Cimitero di Sainte-Engrâce, dipartimento dei Pirenei Atlantici, Nuova Aquitania, Francia.
16. Stemma di un’abitazione a Ubilla-Urberuaga, Markina-Xemein, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
17. Particolare di una finestra, Ubilla-Urberuaga, Markina-Xemein, Biscaglia, Paesi Baschi, Spagna.
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I Pirenei, cerniera tra Atlantico e Mediterraneo Aragona, Catalogna, Ariège, Roussillon
1. Introduzione
La catena montuosa dei Pirenei si sviluppa da est a ovest, dal Mediterraneo all’Atlantico, con rilievi mediamente alti e con passi abbastanza impervi se si escludono le zone più prossime alla costa: passi alti per una viabilità di grande percorrenza ma che non hanno mai impedito gli scambi quotidiani tra le popolazioni pastorali ivi insediate. Più ripido è il pendio sul versante francese, verso nord, più dolce quello spagnolo a sud, entrambi caratterizzati da profonde valli trasversali all’intero sistema. Allo sbocco delle valli le prime depressioni – e sotto questo aspetto si segnala la depressione intrapirenaica spagnola – consentono l’insediamento di quelle città di media importanza che rappresentano i poli della storia locale, come Oloron, Lourdes, Saint Girons, Foix sul versante settentrionale o Pamplona,
L
a storia del popolo europeo ci insegna che gli elementi geografici posti come confini di distinti territori dalla politica e strategia moderna spesso in passato hanno funzionato come catalizzatori di culture e scambi. Questa osservazione vale in modo particolare per la catena montuosa dei Pirenei che dall’viii al xviii secolo d.C. hanno visto svilupparsi sui due versanti, che oggi consideriamo francese e spagnolo, un unico blocco di popolazione, unita tanto sotto il profilo etnico e culturale quanto politico ed economico1.
1. Chiesa romanica di San Clemente a Taüll, Lérida, Catalogna, Spagna.
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capitolo terzo I Pirenei agricoltura di sostentamento esercitata nei fondovalle, per lo più attorno ai villaggi. Il pascolo d’altura – gestito sempre comunitariamente – il bosco e il coltivo di grano o altri cereali poveri – per lo più gestito direttamente dalla unità familiare – rappresentavano i tre livelli delle risorse della montagna, entro i quali si articolava la collocazione dei villaggi con abitazioni permanenti o gli insediamenti temporanei di mezza costa o di altura. Tale è il paesaggio montano tripartito dal Béarn all’Ariège sul versante settentrionale e dalle valli di Roncai e Aragona fino al Ripollese sul versante meridionale. L’introduzione delle colture del mais e i prati artificiali tra il Settecento e l’Ottocento trasformarono però profondamente anche i metodi di allevamento e i tipi e le qualità del bestiame stesso, spostando la preferenza da quello ovino a quello bovino, con conseguenti modificazioni dell’habitat e del paesaggio. Soprattutto sul versante francese2 ciò comportò grandi trasformazioni del paesaggio, in particolare nelle terre meno alte, con l’adozione delle grandi grange-stalle, isolate o unite alla casa, per il bestiame bovino e per la raccolta invernale della fienagione, che hanno decisamente spostato le modalità dell’allevamento dal modello transumante a quello stanziale, salvo a volte il breve periodo dell’alpeggio estivo. Meno evidente risulta questo cambiamento sul versante meridionale, dove si è conservato maggiormente l’allevamento ovino e si è potenziato invece lo sfruttamento del bosco d’alto fusto, soprattutto tra Hecho e Benasque nelle valli occidentali, ampie e profonde, solcate da torrenti assai ricchi di acque, come il rio Esera, Aza, Gallego, Aragona e Noguera-Ribagorzana: soprattutto le zone di Ansó ed Hecho sono state assai famose per l’allevamento di muli, esportati in Francia per usi rurali e militari3. Assai differente è la condizione rurale della parte collinare e litoranea della Catalogna, dal clima assai mite e dal suolo leggermente ondulato e solo raramente interrotto da zone aspre e difficilmente coltivabili. Nel passato l’allevamento vi si è configurato come risorsa complementare rispetto a una agricoltura cerealicola ricca e varia nei suoi aspetti: ne è testimonianza il grande sviluppo assunto dai granai nel sottotetto della masía e la scarsa importanza fino all’Ottocento assunta dalla stalla, spesso limitata all’alloggio dei soli cavalli o degli asini. La struttura rurale è rappresentata da poderi che fanno capo alla casa avita (casa pairal o masía), e il paesaggio si struttura per grandi appezzamenti policolturali ben individuabili gli uni dagli altri in virtù del riferimento alle emergenze edilizie4. La Catalogna ha avuto, malgrado alcune difficoltà che la tennero a lungo estranea dal rapporto diretto con le colonie dell’America, un grande sviluppo economico a partire dal xiv e in particolare dal xv secolo, quando, crescendo di importanza le città mercantili costiere, grazie agli scambi e alle conquiste nel Mediterraneo, crebbe anche il sistema agrario
Jaca, Tremp, Seo de Urgell e Ripoll su quello meridionale. Di fronte a queste localizzazioni, più o meno estesa si apre la zona collinare (pre-pireneo) che digrada verso i grandi bacini fluviali della Garonna a nord e dell’Ebro a sud. Sistema assai complesso, che ha consentito che si formassero al suo interno sub-sistemi culturali assai diversi, e vi si mantenessero etnie, linguaggi, usi e tradizioni che sopravvivono con particolarità significative, pur in un insieme omogeneo. All’ovest la tradizione e la cultura basco-navarrese di cui si è ampiamente trattato, ha approfittato della relativa dolcezza del rilievo orografico per espandersi su tutti i versanti nel tratto che dall’Atlantico sale fino ai passi di Roncisvalle. I più impervi passi del tratto centrale, attorno al Somport, furono invece occupati e, se vogliamo, controllati da piccoli stati, come Béarn o Andorra, che intessevano rapporti con il potere dell’uno e dell’altro versante. Il tratto orientale, dal Col de la Perche al mare, fu infine quasi sempre inglobato nella Contea di Barcellona della quale il Roussillon fece sempre parte integrante fino alla metà del xvii secolo. La Contea di Barcellona, fondata dallo stesso Carlo Magno nell’801, rappresentò infatti una barriera del mondo occidentale contro l’invasione moresca e dal 1137 formò quell’unità confederativa catalano-aragonese che fu una delle componenti fondamentali della Reconquista prima e dell’espansione nel Mediterraneo poi, verso Sardegna, Sicilia, Grecia e Terra Santa. L’affaccio sul Mediterraneo ha rappresentato così lo sbocco più naturale della cultura della maggior parte delle valli pirenaiche e pertanto la costa orientale da Tarragona fino a Gerona e Perpignano si costituì come il terminale di tutto il vasto entroterra catalano, aragonese e del Roussillon fino all’Ariège. Si spiega così la grande varietà e complessità degli insediamenti nelle valli pirenaiche dall’epoca medioevale, con grandi monasteri e chiese plebane agli imbocchi, come Prades, Castell, Valcabrère, Urgell, Ripoll e molti altri al sud. Poli culturali e di comunicazione attorno ai quali si articola un tessuto residenziale per villaggi e case isolate di assai alta qualità e bellezza paesaggistica.
2. Le trasformazioni del territorio La ricordata tripartizione del territorio pirenaico ha dato luogo a modalità di antropizzazione dell’ambiente naturale che ovviamente risentono sia delle condizioni climatiche, di acclività e soleggiamento, sia delle condizioni culturali delle popolazioni insediate, coinvolgendo allo stesso tempo il paesaggio agrario e quello insediativo. Nelle alte valli l’economia tradizionale è legata all’allevamento ovino o bovino, con periodi estivi di pastura in alta quota negli alpeggi e a volte con transumanze invernali in terre basse; a questo aspetto fondamentale si lega una
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figli, ... per il mantenimento dei vecchi genitori, per aiutare i parenti, ... per ovviare ai bisogni causati dalle carestie...”8, per tutto quanto cioè concerne una funzione sociale che si risolveva a quel livello, e a quel livello trovava il modo ideale – nell’economia d’antico regime – per rispondere ai bisogni di tutti. Il rapporto famiglia-casa-podere tende quindi, pur nelle differenze sociali, a stabilizzarsi su rapporti proporzionali fissi e su consuetudini rigorose che chiamano in causa tutti i membri della famiglia, a molti dei quali è perfino richiesto il celibato come norma di vita e di servizio per la conservazione dell’unità familiare stessa9, per potenziarla economicamente attraverso il lavoro e il risparmio e per limitare la parcellizzazione allo scopo di conservare una unità produttiva sufficiente. Queste considerazioni danno luce sulla forma della casa isolata, complessa e all’apparenza assai ricca anche nelle valli più alte: il casal aragonese, la casa del Béarn e Bigorre, la masía della Catalogna sono altrettante declinazioni della concezione dell’eminenza della famiglia, che accompagna una configurazione urbanistica dei villaggi come risultante da elementi singoli, ben definiti e accostati secondo un impianto polinucleare10, nel quale ogni residenza mantiene la sua individualità. Se è vero che l’elemento base della comunità è la famiglia patriarcale e il rigoroso senso della proprietà del podere, tuttavia non bisogna neppure dimenticare il sistema complesso di rapporti che univa ogni famiglia al contesto più ampio del villaggio o della valle. Le operazioni colturali che andavano oltre il livello delle energie disponibili delle singole famiglie dovevano essere risolte in un contesto più vasto, e anch’esso soggiaceva a un complesso sistema di usi civici che il capofamiglia affrontava nei consigli di vicinato11. Come consuetudine erano oggetto della gestione dell’intera comunità i patrimoni comuni degli alti pascoli e dei boschi, ma anche lo sfruttamento di terre arabili, con periodiche redistribuzioni, sicuramente per equilibrare differenze sociali prodottesi nel tempo, come è documentato nelle valli della Catalogna, fino alla metà del xix secolo12. Erano altresì oggetto di gestione della comunità di vicinato o di valle lavori eccezionali o comunque non abitudinari, come la manutenzione di strade o l’irreggimentazione di acque, la regolamentazione della pesca e comunque tutti quei lavori che implicassero rapporti tra i vicini o tra valli contigue. Alcune di queste comunità giunsero a costituire quasi unità politiche consolidate e riconosciute, soprattutto in quelle valli dell’Aragona occidentale (Aspe, Aran, Roncal) e del Béarn (Soule, Oloron, Lavedan) più ricche e appartate rispetto alle grandi vie di comunicazione13. Il villaggio si costituisce quindi, nella sua forma e nelle sue strutture, come momento di aggregazione tra i due poli dell’unità familiare, da una parte, e della comunità di valle dall’altra. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre dall’osservazione della forte unità e autonomia della casa
dell’entroterra. La concezione rigorosa dell’unità familiare (pairalismo) consentì la trasmissione nel tempo di fondi rustici ben organizzati e infrastrutturati, capaci di un’autonomia produttiva integrata che affianca le colture aratorie di cereali a quelle legnose tipicamente mediterranee come l’olivo, la vite e il frutteto. Questa alternanza e varietà, accanto a insediamenti boschivi cedui e d’alto fusto, definisce il paesaggio complesso e mutevole della Catalogna mediterranea, soprattutto dell’entroterra pre-pirenaico occidentale, fortemente antropizzato e cosparso di villaggi e fattorie isolate, quasi a presidiare e a qualificare storicamente ogni lembo.
3. La comunità e gli insediamenti Per comprendere gli aspetti del paesaggio, dell’urbanistica e dell’architettura dei Pirenei è necessario rifarsi alla forma istituzionale e consuetudinaria della famiglia e della comunità di villaggio, in parte simile, anche se meno rigorosa e conservata negli ultimi decenni, a quella delle comunità basche. La comunità domestica è il nucleo giuridico ed economico sul quale si fonda la struttura del vicinato o del villaggio, sia sul versante aragonese e catalano, sia su quello del Béarn, del Bigorre e dell’Ariège, fatte salve le naturali sfumature e differenziazioni da zona a zona. La famiglia è rigorosamente del tipo ereditario5, nel senso che è sua preoccupazione fondamentale di trasmettere il complesso dei beni – casa, terre, diritti – il più integro possibile da una generazione all’altra; non è quindi il diritto astratto e personale della primogenitura, tanto che l’atto giuridico che configura la trasmissione dei beni (heredamiento o partage)6 è un vero e proprio contratto che può essere preferibilmente scritto col figlio primogenito, ma non sempre e non necessariamente7. La famiglia quindi appare come una entità che non si configura come proprietà del reggitore (hereu o heredero), ma come un sistema che lega la continuità del lignaggio alla conservazione della proprietà; per questo motivo si può dire che la proprietà è della famiglia, che si configura nel suo assieme come dotata di personalità giuridica, e per la quale il reggitore svolge la funzione di garante dell’unità e della continuità stessa, tra l’altro coadiuvato quasi sempre da una istituzione importante, a volte decisiva e giuridicamente riconosciuta, quale è il consiglio di famiglia. Piccola o grande che fosse, la famiglia rappresentava la garanzia della sopravvivenza duratura della comunità, e l’equilibrato rapporto tra forza-lavoro e risorse doveva essere garantito per questo: “Il fondo patrimoniale – sostiene Le Play – è una specie di laboratorio sociale da cui escono oltre ai prodotti annuali destinati all’alimentazione pubblica... giovani dei due sessi istruiti... Questo laboratorio... deve anche sostenere tutte le spese necessarie per l’educazione dei
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capitolo terzo I Pirenei gio è data dalla successione degli spazi di interconnessione tra le case, con evidente finalità nelle operazioni rurali, che a volte si configura come una vera e propria aia o corte, a volte rimane indefinito: a differenza dei borghi mercantili la nozione di strada o di piazza è totalmente estranea alla sua struttura urbanistica, nella quale domina la casa con i suoi annessi. Tali sono i grandi e piccoli villaggi delle valli del Béarn e di Bigorre con le poderose case dai tetti – oggi in ardesia – a quattro spioventi, come ad Aramits, dai caratteri ancora baschi, Arrens, Bastanes, Meritein, Lescun e Canterets; più a ovest, soprattutto nell’Ariège, le case si rinserrano maggiormente e propongono i loro timpani spesso con logge, che si accavallano gli uni sugli altri, come a Massat, Samortein, Biert e Bethmale, nelle valli a sud delle pendici del Massiccio dell’Arize, tra Saint-Girons e Foix; o come a Bosóst, Villa e Lès, nella valle dell’Aran oggi in territorio spagnolo. Le alte valli dell’Aragona presentano gli esempi più evoluti di urbanizzazioni con carattere di villaggio, sia nel settore occidentale, tra i passi di Roncisvalle e del Somport (Roncal, Anso, Hecho, Santa Cruz de los Seros) sia nel tratto centrale in corrispondenza della già ricordata zona di Sobrarbe. I riferimenti urbanistici e comunitari non sono frequenti, ma rimangono importanti: la chiesa è sempre il punto focale, anche se nell’ambito polinucleare spesso è collocata al di fuori del villaggio per poter servire più nuclei insediativi. Anche nell’area pirenaica, come nei Paesi Baschi, vale la consuetudine per ogni famiglia di avere, tra i beni ereditari, il luogo in chiesa e nel cimitero, per cui il rapporto tra la casa e la struttura religiosa è di reciproca dipendenza e appartenenza. Nei villaggi più consistenti esiste anche la casa comunale, particolarmente diffusa nella provincia di Huesca, la cui struttura non differisce in modo marcato dalle abitazioni, ovviamente diversificandosi le funzioni degli ambienti interni16.
familiare, molto raro è l’insediamento sparso sui versanti pirenaici veri e propri, dove la tendenza alla formazione di insediamenti, anche di notevoli dimensioni, è assai forte; più disperso invece nelle zone collinari e subcollinari della Catalogna, dove tuttavia la rete delle masías isolate costituisce un tessuto continuo con riferimenti a raggruppamenti più fitti rispetto alla chiesa principale, tale da simulare, su un territorio più ampio, lo schema dei rapporti di villaggio14. È necessario distinguere il villaggio che nasce dall’accostamento di case rurali legate al tipo di famiglia descritta, dal villaggio compatto – meglio borgo – spesso di fondazione, legato a funzioni non propriamente o non solamente rurali, ma commerciali, artigianali e di servizio. Questi ultimi mostrano una struttura compatta, con case a schiera, accostate e alte, e vie e piazze centrali porticate per il mercato. Il borgo di Ainsa è uno degli esempi più chiari e meglio conservati di questa tipologia urbana e trova la sua giustificazione territoriale per essere il centro della assai popolata un tempo Comarca di Sobrarbe che costituiva il centro dell’Alta Aragona; punto di arrivo del grande percorso interpirenaico del Somport. In Catalogna si addossano alla catena montana i borghi compatti di Seu d’Urgell e Ripoll, mentre su scala minore ricordiamo alcuni aspetti “mercantili” di Rialp, Sort, Sarroca de Bellera, Santa Pau e Massenet; infine con frequenza maggiore nella regione subpirenaica si distribuiscono assai numerosi i borghi che fanno da riferimento al complesso sistema delle masías isolate, come Monells, Hostalric, Vic, L’Albi, Guimera e altri tra i quali possiamo anche porre i nuclei antichi di Gerona e Barcellona. Più complesso da districare il senso degli insediamenti mercantili in età recente sul versante francese, sia per le più consistenti trasformazioni intervenute, sia per la minor gradualità del passaggio tra pianura e versante montano, tra i quali comunque si possono citare, oltre ai ricordati Pau, Tarbes e Foix, anche i meno evidenti centri di Oloron-SainteMarie. Montjean, Saint- Girons, Montgaillard e Prades. Secondo taluni autori, la conformazione attuale dei villaggi concentrati fu preceduta nei secoli attorno all’anno Mille (ix- xiii secolo) da una forma di insediamento disperso e localizzato in case familiari (masadas) isolate nella campagna. Durante il xiv secolo le necessità di una maggiore vicinanza in funzione di alcuni aspetti del lavoro e della gestione comune e le conseguenze della peste, che decimò molte famiglie, favorirono la formazione degli aggregati attuali, attorno a nuclei preesistenti15 mentre le antiche abitazioni abbandonate vennero usate come edifici di servizio temporanei o stagionali: in essi si ritroverebbe quindi – soprattutto nella Comarca di Sobrarbe – il tipo originario della casa pirenaica del versante spagnolo. La planimetria dell’insediamento pirenaico sembra pertanto derivare da una disposizione quasi casuale delle case, a volte con un orientamento preferenziale e definito, a volte senza neppure quello: la continuità dello spazio del villag-
4. La famiglia e la casa Elemento centrale della vita e delle attenzioni della società dell’area pirenaica è la casa, che si identifica, prendendone anche il nome, con la già esaminata struttura e vita familiare. Non è facile individuare tipologie schematiche nell’area pirenaica centrale, anche se permane la costante caratteristica dell’isolamento. All’ovest, ai confini con la Navarra e i Paesi Baschi, si avvertono molto forti le influenze del caserío basco, sia nel Béarn che in Aragona; tali influenze vanno attenuandosi nell’area centrale e su tutto il versante settentrionale, per poi riconfluire nella forma della masía altrettanto caratteristica della cultura catalana.
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Il casál aragonese è pertanto un tipo architettonico di transizione che risente, nella sua struttura generale e nei particolari distributivi e costruttivi, di varie influenze dalle aree spagnole dell’ovest e da quelle francesi d’oltre crinale. Si può riconoscere che la struttura basilare è rinvenibile negli edifici più semplici a due locali sovrapposti: al piano inferiore trovavano posto gli animali e in quello superiore, servito da una scala esterna, gli uomini in un unico locale che serviva da cucina e da camera; sembra essere questo lo schema della masada medioevale, che permane raramente isolato e più frequentemente inglobato in successivi ampliamenti17, ed è presente particolarmente nelle alte valli delle province di Huesca e Lerida e dell’Ariège, completate dalle dimore temporanee dei pascoli alti e da fienili e stalle ai bordi del prato da taglio. Aumentando però l’entità della famiglia e la sua importanza economica, la casa si articola secondo uno schema più evoluto che presenta la cucina al piano terreno, assieme ad ambienti per le bestie e il magazzinaggio di prodotti e attrezzi, l’abitazione più riservata al primo piano e infine il grande solaio nel sottotetto. Le varianti planimetriche possono essere molteplici, con la cucina al primo piano oppure con la presenza di ambienti complementari come la dispensa o il forno. Anche l’ingresso, spesso sottolineato da un portale ad arco monumentale, può avvenire direttamente attraverso la cucina, oppure tramite un atrio o galleria che disimpegna ambienti del piano terreno e contiene la scala che porta all’abitazione al piano superiore18. Negli edifici più importanti, la casa si distingue dagli annessi rustici e dalle stalle, per le quali vengono previsti corpi di fabbrica a parte che configurano strutture a corte più o meno chiuse, come avviene frequentemente sul versante francese, dove la grangia-stalla assume un valore edilizio particolare, spesso più importante della casa stessa. In Aragona l’elemento tipico e assai diffuso che connota la casa è la cucina con la cappa a forma di campana, già osservata in alcune aree di Soria e Navarra. La vita domestica, a causa anche del clima assai rigido della regione montana, si svolgeva per molti mesi proprio nella cucina, unico ambiente riscaldabile, nella quale si lavorava, si parlava e anche si dormiva. Il focolare, per lo più centrale, ma con esempi anche addossati a una parete, poggia su pietre appena rilevate sul pavimento ed è sovrastato da un’ampia cappa a forma tronco-conica che fuoriesce dal tetto col tipico e monumentale comignolo che connota il paesaggio urbano dei Pirenei aragonesi. La campana è sostenuta da travi incrociate infisse nei muri che servono anche per appendervi prodotti da affumicare o essiccare e attorno al focolare si dispongono panche e tavoli a ribalta, in modo da utilizzare al meglio tutto lo spazio disponibile. Le varianti, come abbiamo già accennato, sono assai numerose e tipiche da valle a valle, secondo il clima, il costume e la necessità. Alcune zone di più alta quota pre-
sentano corpi di fabbrica assai stretti e sviluppo particolare del fienile che, in corrispondenza del timpano rivolto a sud e munito di ballatoio, permette il completamento dell’essiccazione dei foraggi, come nelle regioni di Massat (Ariège) o di Andorra o nella valle di Arán (Huesca). Nelle zone ad economia più ricca o complessa la casa si articola con edifici più ampi, cucine assai evidenziate, atri e gallerie monumentali (Alto Béarn, valli di Ansó e Benasque). Differente in molti tratti è la casa rurale più diffusa in Catalogna: la masía. Essa conserva e accentua il carattere di isolamento della casa solariega aragonese e fissa costanti tipologiche assai più chiare e individuabili19. La presenza e continuità della famiglia entro il podere e il contesto territoriale è affermata in modo straordinario e quasi unico da questo tipo edilizio, che per molti aspetti ricorda il caserío dei Paesi Baschi: la distribuzione degli ambienti infatti è assai simile, poiché su una pianta sostanzialmente tendente al quadrato si sovrappongono le funzioni della vita rurale, dell’abitazione e dell’immagazzinamento dei materiali, in corrispondenza dei tre livelli orizzontali con cui preferibilmente viene realizzato l’edificio. Si accede infatti all’ampio atrio centrale del piano terreno attraverso un grande portale, e dall’atrio successivamente si passa alle stalle, ai depositi e alla cucina, nella quale sta il grande camino (lar) generalmente appoggiato a una parete. Nel piano superiore, all’atrio del piano terreno corrisponde la sala, locale per le riunioni di famiglia importanti che avvengono con il prete o il notaio20; da essa si accede alle camere da letto. Infine il sottotetto è occupato dal grande fienile o granaio, ben ventilato e realizzato spesso con affinata opera di carpenteria. Naturalmente esistono diverse varianti architettoniche più o meno complesse, adottate a seconda dell’importanza e della ricchezza delle famiglie, spesso frutto di ampliamenti e aggiunte nel tempo. I tipi fondamentali21 sono tre. Quello a pianta rettangolare allungata con l’ingresso su uno dei muri d’ambito, trasversale quindi all’andamento del tetto, è il più povero e si presenta spesso anonimo e scarsamente caratterizzato. Un secondo tipo, il più diffuso, presenta una pianta più vicina al quadrato, con il tetto a due spioventi e il colmo ortogonale alla facciata, sulla quale si apre il grande portale d’ingresso. Il suo schema distributivo è assai simile a quello della casa basca, secondo la scansione tripartita sia in orizzontale che in verticale. Questo tipo può complicarsi ulteriormente in alzato, dando luogo ad una apparente struttura di edificio a tre navate, poiché il solaio per ricevere più aria viene alzato nella sua parte centrale; non è tuttavia da confondere questa struttura con le vere e proprie grange a tre navate della tradizione anglosassone, poiché i muri di ripartizione mantengono la propria interezza per i primi due piani, e semmai solo la carpenteria del solaio realizza una struttura paragonabile alle aisled halls britanniche o del nord Europa. Infine il tipo di masía con caratteri signorili tende ad
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capitolo terzo I Pirenei di calce e solo raramente con argilla, mentre la costruzione a secco, con l’impiego di scisti, è riservata agli insediamenti temporanei e ai ricoveri degli animali. La carpenteria dei grandi tetti, destinati a proteggere il solaio, è realizzata con un sistema di capriate, molto caratteristico nella zona occidentale e centrale, con incavallature molto fitte e controventature diagonali che spesso vengono legate orizzontalmente dalle stesse travi che formano il pavimento del solaio. In queste zone, corrispondenti alle attuali province di Huesca, Alti Pirenei e in parte Lerida e Ariège, la natura sismica del suolo porta a ricercare soluzioni adatte a combinare la leggerezza della copertura con l’inerzia dei grossi muri in pietra così da permettere ripristini e riparazioni eseguibili in breve tempo. Un certo simbolismo generale della casa, oltre a evidenziarsi attraverso il suo volume, affiora anche dalla lavorazione di elementi costruttivi, messi in evidenza e in risalto, come le travi di colmo sporgenti, le pietre angolari di base, i colmi e i comignoli sagomati e così via. L’elemento su cui si concentra però l’espressività popolare è il portale d’ingresso, e in misura minore le altre aperture, finestre o, soprattutto nella Catalogna sub-pirenaica, logge. Il portale enfatizza il senso di appartenenza e di accoglienza della casa: si apre sul grande atrio, quasi un’aia interna, che disimpegna tutti gli ambienti rurali e civili dell’abitazione e solo negli esempi più poveri dà adito direttamente alla cucina. Le sue dimensioni sono quindi assai ampie per consentire anche l’ingresso di animali e derrate, ma non tanto da non potersi serrare facilmente nei momenti in cui occorre protezione23. La conclusione orizzontale del portale è realizzata ad arco, a tutto sesto o ribassato, negli esempi più tardi, oppure ad architrave. Il portale ad arco a tutto sesto si ritrova sul versante francese nelle valli occidentali di Aspe, Ossau, ma è molto più diffuso, e i suoi tratti più marcati, sul versante spagnolo, sia nelle valli di Huesca, sia in tutta la Catalogna: si tratta di grandi aperture a tutto sesto, con conci in pietra ben lavorati e di incredibili dimensioni nel senso radiale, che permettono di valutare a colpo d’occhio l’importanza della casa cui fanno da ingresso. Alcuni sono antichi e la loro forma ad arco leggermente acuto denuncia datazioni possibili al xiv secolo; la più parte risale al xvi secolo, come appare dalle date incise; altri, meno vistosi, ma ugualmente ben costruiti, risalgono al xviii secolo. Quasi sempre la pietra posta in chiave porta la data di costruzione ed altre incisioni relative alla famiglia proprietaria. Un altro tipo abbastanza diffuso di portale è quello concluso in orizzontale, che può essere realizzato con un architrave monolitico, a volte sorretto da peducci, o da una piattabanda vera e propria, con conci trapezoidali opportunamente sagomati. In genere questa soluzione si adatta meglio agli edifici compresi nei perimetri dei borghi mercantili, ma è assai diffusa anche nelle case familiari, soprattutto sul versante francese ai confini con le province
assumere la forma del palazzo o del maniero, a volte anche con piccole torri d’angolo a difesa, con il tetto a quattro falde e pertanto con tutte le quattro fronti trattate con intenzionalità rappresentativa; spesso dalla parte centrale, all’incrocio delle quattro travi del tetto, sporge una piccola torretta che serve per aerazione al granaio e nello stesso tempo costituisce un riferimento simbolico di potere sulla terra, assai convincente. Isolata nel paesaggio rurale e contornata in ordine gerarchico da successivi edifici rurali di servizio, la masía connota l’ambiente della Catalogna e, come in altre regioni – quali appunto i Paesi Baschi, la Toscana, la Sicilia orientale (masseria) – propone una forma di presenza legata a strutture familiari, di tipo patriarcale, che non si fondono nell’unità globale del villaggio, ma affermano continuamente la propria autonomia e preminenza.
5. La dimensione simbolica e costruttiva La società rurale pirenaica, come qualsiasi altra cultura fondata sul lavoro diretto di produzione dei singoli, riunisce sinteticamente la dimensione espressiva, estetica e simbolica nelle acquisizioni tecniche elaborate dagli artigiani, e le esprime nella funzione sociale riconosciuta alla casa e all’universo di conoscenze e rapporti della popolazione locale. Già si è visto quanta fosse l’importanza attribuita alla casa come fatto di permanenza nel tempo e nello spazio: questo valore viene sottolineato dalla perfezione costruttiva e dal particolare trattamento di elementi fondamentali, come le finestre, le porte o il focolare. La storia edilizia, a partire dall’xi secolo, mostra il progressivo intento di rendere stabile e duratura la costruzione e sottrarla agli eventi effimeri, a sottolineare la permanenza del gruppo familiare nel territorio e nel contesto sociale. La pietra, opportunamente scelta e lavorata, è l’elemento base di questo simbolismo, così come la grande carpenteria dei tetti, soprattutto dal xv secolo, completa opportunamente il processo costruttivo. Per lo più la pietra viene estratta in zone prossime alla casa e tratta dal suolo: tuttavia non mancano eccezioni a questo schema, che implicano trasporti di pietra da costruzione da una regione all’altra, come avviene nel Medoc e nella Gironda che utilizza calcare trasportato dalle valli pirenaiche. Anche la scelta dell’utilizzazione prevalente e dell’adozione di costruzioni in legno piuttosto che in pietra sembra corrispondere più a scelte culturali che alla disponibilità del materiale, come avviene nel Béarn e nella Bigorre22. Le valli pirenaiche sono ricche di rocce affioranti di ogni tipo, ma il materiale preferibilmente usato sui due versanti, per la costruzione dei muri, è il calcare: ben tagliato in conci, serve per i muri d’angolo e le inquadrature di porte e finestre; a spacco in blocchi più piccoli per il resto della muratura, che quasi sempre è realizzata con letti di malta
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architravi in pietra rispetto ad architravi più antiche in legno, anch’esse iscritte e ormai deteriorate. Ma la motivazione risiede probabilmente in una ragione culturale, consistente nella acquisizione della scrittura e dei numeri a livello popolare, dovuta a una circolazione e acculturazione maggiore delle classi degli artigiani costruttori e di una relativa apertura e accessibilità ai segreti delle corporazioni dei maestri muratori. L’iscrizione sull’ingresso della casa, più o meno estesa o accompagnata da simboli, rappresenta una apertura e una formalizzazione dei rapporti di vicinato, che esce dalla labilità della sola tradizione orale24 e nello stesso tempo un modo per sottrarre la casa stessa all’effimero e alla precarietà. Il corpus di iscrizioni dell’area pirenaica, Paesi Baschi compresi, è veramente grandioso e attende una sistematizzazione critica: al di là della cronologia, ci informa sulla lingua usata prevalentemente nelle diverse epoche (latino, basco, bearnese, francese, spagnolo, occitano); ci offre dei riferimenti sullo statuto sociale delle famiglie, sul lavoro e la prosperità, sull’appartenenza politica e religiosa, secondo un diagramma spaziale affidabile e sicuro, paragonabile alle rilevazioni che possono scaturire da un archivio cartaceo.
basche. Anche le finestre ripropongono in tono minore e a scala ridotta il monumentalismo dei portali, con soluzioni a volte preziose, come nelle finestrelle a bifora di più antica origine, diffuse nelle province spagnole, oppure con l’esaltazione della incorniciatura, spesso con pietre decorate di reimpiego, del tutto ridondanti per le esigenze funzionali della tecnica muraria, ma utili ad arricchire muri altrimenti assai poveri e uniformi. L’elemento più interessante dell’area in esame è l’infinito numero di iscrizioni, date e simboli incisi sugli architravi e le chiavi dei portali o, in secoli più recenti (xvii-xix), in lapidi apposite sovrapposte agli stessi portali; in questo senso esiste una precisa continuità nella cultura popolare pirenaica che, salvo qualche esclusione di sacche culturali più appartate, coinvolge sia l’area atlantica a partire dai Paesi Baschi sia quella mediterranea, con le province catalane. Le iscrizioni compaiono in misura consistente nel xvi secolo, e solo rarissimi esempi sono anteriori, ma da quel momento la diffusione è consistente e in alcune regioni obbligatoria per ogni casa. Per spiegare il fenomeno si è affacciata l’ipotesi funzionale della sostituzione, avvenuta appunto in corrispondenza delle più antichi datazioni, di
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territorio
2. Il borgo di Sarroca de Bellera, Lérida, Catalogna, Spagna.
3. Panoramica di Taüll, Lérida, Catalogna, Spagna.
4. Chiesa romanica di Santa Maria, Vall de Boí, Lérida, Catalogna, Spagna.
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territorio
5. Chiesa romanica nella valle del Segre, LĂŠrida, Catalogna, Spagna.
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comunità
6. Agglomerato di case a Setcases, Girona, Catalogna, Spagna.
7. Chiesa romanica di Sainte-Engrâce, nel dipartimento dei Pirenei Atlantici, Nuova Aquitania, Francia.
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8. Chiesa rurale di San Pedro de Llorà, Girona, Catalogna, Spagna.
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comunità
9. Complesso abitativo nelle campagne dell’Ariège, Occitania, Francia.
10. L’abitato di Samortein, Bethmale, dipartimento dell’Ariège, Occitania, Francia.
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case
11. Antica abitazione a Salsein, Ariège, Occitania, Francia.
12. Scorcio del borgo di Rialp, LĂŠrida, Catalogna, Spagna.
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case
13. Rovine del monastero di Sant Pere de Rodes, El Port de la Selva, Girona, Catalogna, Spagna.
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14. Edificio rurale in pietra e legno ad Ayet, Bethmale, Ariège, Occitania, Francia.
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case
15. Portici a Sarroca de Bellera, Lérida, Catalogna, Spagna.
16. Fienile a Serraillé, Massat, Ariège, Occitania, Francia.
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simboli
17. Bassorilievo ad Ayet, Bethmale, Ariège, Occitania, Francia.
18. Dettaglio della chiesa romanica di Pedret i Marzà, Catalogna, Spagna.
19. Bassorilievo a Setcases, Girona, Catalogna, Spagna.
20. Crocifisso davanti a un’abitazione rurale di Salsein, Ariège, Occitania, Francia.
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simboli
21. Portone di un edificio rurale di Setcases, Girona, Catalogna, Spagna.
23. Colonna in pietra con crocifisso, dipartimento dell’Ariège, Francia.
22. Dettaglio di una facciata a Ostabat-Asme, nel dipartimento dei Pirenei Atlantici, Nuova Aquitania, Francia.
24. Portone di un’abitazione a Bethmale, nel dipartimento dell’Ariège, Francia.
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L’area atlantica del Nord
Bretagna, Normandia, Isole britanniche
1. Introduzione
elemento di unione e non di separazione, come vorrebbe la scienza dei confini dell’età moderna. Trattandosi come nel nostro studio di espressioni fondamentali e originarie dell’insediamento e della vita quotidiana, si affaccia la questione delle vicende delle storie dei popoli, e delle appartenenze etniche di tali manifestazioni. Indubbiamente questa regione è quella che più di ogni altra in Europa ancora oggi rende palese l’incontro, o lo scontro se vogliamo, tra la cultura celtica e quelle anglosassoni e normanne che si sono succedute nel v e nel x secolo d.C. L’etnia celtica, accompagnata dalla persistenza di linguaggi di origine britannica, permane molto forte in Bretagna, Irlanda, Galles e Scozia, mentre in Cornovaglia, dopo aver a lungo resistito, è andata affievolendosi e scom-
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a scelta di trattare unitamente le regioni che si affacciano sulla parte occidentale del canale della Manica e sui Mari Celtico e di Irlanda, di fronte al grande Atlantico, ha avuto diverse motivazioni storiche, etniche e geografiche; certamente è suggestivo il fatto che le regioni più occidentali di tale area rappresentino il luogo di un unico ceppo etnico, quello di origine celtica, che ha avuto frequenti contatti e migrazioni proprio attraverso le acque che le dividevano: è così che il mare, come spesso la montagna, diventa
1. Abitazione di Duddington, Northamptonshire, Midlands Orientali, Regno Unito.
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capitolo quarto L’area atlantica del nord parendo come lingua dal xix secolo. Dall’altro lato le terre d’Inghilterra vera e propria vedono il progressivo insediarsi dal v secolo dei popoli anglosassoni di origine germanica che introducono altre lingue e altri costumi e che provocano movimenti migratori di precedenti popolazioni celtiche, quali appunto quelli che si stanziarono nell’odierna Bretagna. Infine, a essi succede l’arrivo degli scandinavi Normanni, che dal x secolo costituiscono il loro grande Impero1 posto proprio a cavaliere della Manica, indifferentemente rivolto alla Francia e all’Inghilterra, che tocca nella sua espansione aree occupate dagli Anglosassoni e dai Franchi. Ma quanto queste vicende, al di là dell’utile sfondo di riferimento, servono a chiarire gli aspetti della vita quotidiana di tali popoli? Sarebbe sicuramente antistorico pretendere una corrispondenza meccanica, soprattutto tenendo conto delle sovrapposizioni, contaminazioni e reciproche influenze che, soprattutto dal tardo medioevo in poi, hanno coinvolto le frontiere; certamente si osservano importanti distinzioni nella forma del paesaggio agrario e nella casa. Come si vedrà più avanti il sistema dei campi aperti sembra esser tipico delle aree occupate dagli Anglosassoni prima e dai Normanni poi; quello delle chiusure sembra appartenere più strettamente alla tradizione celtica2, ma al contempo si può osservare che anche la configurazione orografica e la qualità dei suoli differenziano la possibilità di attuare i due sistemi: tipico delle pianure e delle falde acquifere profonde il primo, delle zone accidentate e delle acque affioranti il secondo. Allo stesso modo si pongono alcune questioni riguardanti la costruzione della casa. Se è indubbio che la tradizione dell’uso della pietra è maggiormente consolidata nelle aree di origine celtica, difficile è trovare una uniformità e un filo differenziale costante: in Scozia, ad esempio, accanto all’antica e protostorica tradizione delle black-houses, è altrettanto diffusa quella delle cob-houses, case in argilla, costruite in un giorno grazie all’impresa comunitaria dell’intero villaggio e che ritroviamo anche in altre regioni come il Devon o la Bretagna nella zona a sud di Dinan. Tuttavia la tradizione della pietra si è diffusa ampiamente, anche se in epoche più tarde, dalla fine del xv secolo nelle aree anglosassoni del centro ovest soprattutto nella regione dei Costwolds e del nord, Cumbria e Northumberland, con una fioritura interessante e consistente3. La dimensione dell’origine germanica o comunque scandinava delle case in legno a struttura mista, se sottolinea una indubbia area di appartenenza, rimane poi, nell’applicazione puntuale, assai difficoltosa, come dimostrano le ricerche sulla casa del Pays de Caux che segna storicamente la distinzione tra la Normandia della pietra a occidente e quella del legno a oriente in aree più esposte alla invasione normanna4. Usanze più legate a concezioni tribali molto forti e al senso della proprietà comune del suolo, proprie delle popo-
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lazioni germaniche, sembrano infatti trascorrere nella tradizione celtica non solo nella struttura a proprietà fortemente indivisa – almeno originariamente del clan scozzese – ma anche in alcuni aspetti genetici della forma del villaggio, soprattutto nella concezione dello spazio comunitario del green anglosassone che, come recinto protetto dalle case, compare nei villaggi circolari bretoni. Il consolidarsi stabile, dopo l’anno Mille, di popoli abituati a una mobilità assai accentuata, ha permesso, durante il medioevo centrale, l’attuarsi di un sistema di scambi culturali vicendevoli che sottrae in parte la storia dei villaggi a quella di un ipotetico persistere delle etnie originarie: ciò si deve anche al senso sempre più profondo di appartenenza alla comune matrice morale che rende obsoleti i più antichi criteri di rapporto sociale tribale nella visione di un’ecumene molto più ampio. Alcuni centri di irradiazione culturale e religiosa, come Caen, o gli insediamenti di ordini monastici legati al lavoro della terra, soprattutto i Cistercensi in Inghilterra, accompagnano la trasformazione agraria e i grandi dissodamenti dell’xi e xii secolo, con un’azione culturale che modifica, senza annullarle, le tradizioni tribali. La nascita delle parrocchie e la costruzione delle numerosissime chiese rurali consolida il senso della stabilità acquisita, mentre l’impulso ai grandi pellegrinaggi a Santiago e a Roma, per i quali MontSaint-Michel rappresenta un nodo importante, rafforzano il senso dell’appartenenza a una cultura di cui si colgono i nessi e i confini nello spazio e nei percorsi.
2. Le trasformazioni del territorio Il sistema di regioni qui esaminate, più di ogni altro, porta impressi nella forma del paesaggio i modi delle trasformazioni del lavoro rurale e dell’uso del suolo che si sono avvicendati nel tempo: infatti le più grandi rivoluzioni agrarie non hanno cancellato del tutto i segni delle epoche precedenti, pur lasciando la loro impronta, a volte positiva, a volte devastatrice. Seguendo lo schema di lettura di Bloch5 l’antitesi, che non è solamente francese, tra paesi a strutture rurali aperte e a strutture rurali chiuse definisce due aree differenti che corrispondono a concezioni sociali anch’esse differenti. Ma ciò non è ovviamente – come già fece notare lo stesso Bloch6 – applicabile con rigidità, così che ogni situazione particolare ha una sua connotazione che definisce in modo assai variegato e articolato il rapporto tra la struttura giuridica della comunità locale e le consuetudini, più o meno di carattere comunitario, dell’uso del suolo, da cui territorio e paesaggio traggono forma. In quasi tutte queste subregioni la forma del paesaggio si definisce, a partire dalla metà del ix secolo d.C., con un impulso al disboscamento e alla messa a coltura delle terre, che procederà assai vivace fino al xiii secolo alle soglie delle calamità, delle pesti e delle carestie del Quattrocento.
In questo processo, che ha come componente un grande incremento demografico, si affermano due modi di utilizzazione del suolo e di organizzazione del lavoro rurale: quello detto dei campi aperti e quello delle chiusure. Ognuno di questi sistemi presenta varianti e contaminazioni reciproche: predominante il primo nelle zone di pianura aperta, più frequente il secondo nelle zone collinari e comunque accidentate. Il sistema dei campi aperti, che può essere a sua volta suddiviso in campi aperti allungati e campi aperti irregolari, è stato ampiamente esaminato7. Si tratta di un sistema complesso che alterna, nei campi coltivati, periodi produttivi di semina a cereali e a maggese con periodi di stasi improduttiva, nei quali viene introdotto a pascolare il bestiame. La proprietà del suolo è comune a tutto il villaggio, e i campi non possono essere recintati; la comunità decide di volta in volta quali grandi appezzamenti mettere a coltura e quali far riposare e in genere ciascuna famiglia del villaggio gode di un diritto su ciascuno degli appezzamenti che vengono così divisi in strisce – in genere multiple di un acro – ciascuna delle quali rappresenta la parcella destinata al focolare. Senza entrare in modo approfondito in questo sistema8, si può dire che il paesaggio veniva sottolineato da questa suddivisione del terreno coltivabile in tante sottili strisce, non recintate, ma accorpate a volte in sistemi di appezzamenti più ampi, definiti da strade comunali, da torrenti o da ostacoli naturali; ciò poteva avvenire per intero sul suolo di una comunità poiché nel sistema convivevano tanto le operazioni colturali di semina-raccolto quanto quelle dell’allevamento del bestiame, secondo opportuna rotazione. Strettamente legato al sistema feudale di origine normanna – cui era in sostanza estraneo il senso della proprietà diretta del suolo delimitato da confini permanenti – il mondo dei campi aperti si sviluppa soprattutto nelle terre di dipendenza imperiale o regia, e si afferma in particolare nell’età della conquista del suolo coltivabile dove si distinguono i nuovi ordini religiosi: Certosini, Premonstratensi e soprattutto Cistercensi che impiantano le loro abbazie e grange nelle terre abbandonate e meno facilmente coltivabili. Il fenomeno è particolarmente evidente in Normandia e in Inghilterra nelle zone pianeggianti collinari del centro sud, della Cornovaglia e del Devon – lungo la Manica – per salire nel Nottinghamshire, dove sopravvive il noto esempio di Laxton, nel Lincolnshire e nel Cambridgeshire, per terminare nello Yorkshire. Il sistema dei campi aperti rappresentava un’ottima soluzione nell’impiego delle risorse perché poteva rispondere ai bisogni di una comunità autonoma, priva di eccessivi gravami fiscali, demograficamente stabile e soprattutto operante nell’ottica di una economia di autosostentamento fuori dal sistema più complesso dello scambio. Il xv secolo comincia a far affiorare, in tutta Europa, alcuni aspetti di debolezza
di questo sistema di fronte alle esigenze produttivistiche di una società che entra ormai nell’ottica dell’utilizzazione dei prodotti agricoli, non più per l’autoconsumo ma per lo scambio mercantile. Si aggiungono poi gli altri fattori conosciuti, quali le epidemie di peste che colpiscono le popolazioni rurali, le guerre che coinvolgono le nascenti nazioni egemoni, le ricorrenti carestie ed infine anche le mutazioni climatiche che introducono a quella che dal Cinquecento all’Ottocento è stata definita la piccola era glaciale e che le terre nord occidentali hanno subito con maggior evidenza. In Inghilterra, prima e più che in Bretagna, le trasformazioni del paesaggio sono accelerate, durante il regno di Enrico viii, dall’abbandono della gestione monastica e poi dal movimento per le chiudende a pascolo ovino9. Il progressivo passaggio dei diritti sulla terra alla nuova aristocrazia, connessa con la concezione di proprietà privata, fece scoprire quanto il gregge fosse più redditizio dell’agricoltura e quanto più fosse sfruttabile il lavoro dei contadini costretti a filare e tessere lana più che non a lavorare nei campi. Dalla struttura dei campi comuni si passa così a forme di proprietà compatta, con progressive acquisizioni di terre da parte dei grandi proprietari e trasformazioni in pascoli e prati recintati; è l’età in cui declina ormai la comunità di villaggio, tanto che un grandissimo numero di essi viene abbandonato, soprattutto in Inghilterra; le isolate chiese parrocchiali superstiti nella prateria, o perfino nel giardino paesaggistico di qualche proprietà signorile, testimoniano di questa anche violenta trasformazione10. Nasce così il paesaggio moderno inglese e della Normandia centro-orientale11, che sovrappone, come in un palinsesto, il disegno dei grandi prati per l’allevamento, prima ovino e poi bovino, alla sinopia dell’antico sistema dell’open-field, sminuzzato nei campi e nelle particelle, aderente alla condizione naturale del terreno, ricco di minute sfaccettature, anche se forse meno romantico nella tradizionale lettura ottocentesca della natura. Diversa la situazione nelle terre più accidentate e legate all’insediamento di nuclei etnici, meno permeabili alle trasformazioni avvenute all’inizio del millennio: ivi predominano sistemi più chiusi e legati alla struttura della famiglia patriarcale o del clan più che al villaggio, sia nel bocage bretone-normanno sia nelle varie versioni del sistema infield-outfield irlandese, scozzese o gallese. Il bocage, evidenziato da terreni coltivabili che seguono l’andamento naturale del suolo collinare, chiusi da recinzioni naturali o da muri artificiali, presenta una grandissima varietà di forme e di colture, poiché la sua utilizzazione è legata a una capacità di intervento di nuclei familiari piccoli di contro alla capacità di intervento, come braccia e come buoi disponibili, di un intero villaggio; più variamente12 quindi sono accolte le colture ortive, le graminacee, le legnose come la vite o il melo per la produzione di sidro, o anche il prato da foraggio.
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capitolo quarto L’area atlantica del nord Per il bestiame vengono identificate e destinate zone più specifiche a pascolo che sono gestite dall’intera comunità, e rimangono sempre “aperte” per questo scopo. Si forma così un paesaggio che nelle zone più favorevoli mostra questo sfaccettamento13 particellare, che a volte cessa improvvisamente per lasciare posto al bosco comune o al compascuo uniforme. Assai simile, e ancora oggi ben conservato nel disegno del paesaggio, è il cosiddetto sistema culturale infield-outfield che vede aggruppate, attorno al villaggio, le terre chiuse (infields), per lo più recintate da muri, in forme a scacchiera o spesso anche allungate a simulare una specie di open-field, ma divise da muri in pietra; poco più lontano si aprono le terre comuni (outfields) con un distacco e contrasto visivo che, in particolare in Irlanda e Galles, è effettivamente sorprendente14. Sistemi simili sono quelli adottati nell’ambito della cultura del clan scozzese e chiamati running, che legano in qualche modo, come nel bocage, la proprietà privata delle famiglie con quella collettiva del clan o del villaggio15.
3. La comunità e gli insediamenti I tipi fondamentali di insediamenti rurali di origine medioevale nella grande area esaminata si sviluppano e si distribuiscono nel territorio in stretta relazione con le modalità culturali rispetto alle quali interagisce l’assetto istituzionale delle diverse comunità. Così le regioni dei campi aperti mostrano soprattutto insediamenti aggregati – consistenti sotto il profilo demografico – e comunità di villaggio ampie, molto organizzate nella struttura sociale, rette da una tradizione statutaria sovrapersonale, entro la quale il legame di consanguineità tende a stemperarsi. Al contrario, le regioni delle chiusure (bocage e infield-outfield) rivelano la presenza di piccoli gruppi sociali, molto dispersi, con una debole struttura comunitaria istituzionalizzata e che mantengono invece un grosso legame di consanguineità, di senso del gruppo patriarcale, del clan e così via. Indubbiamente la più complessa articolazione del sistema colturale dei campi aperti potremmo dire che richiedesse una forte struttura sociale alle spalle per essere convenientemente attuata, sia nelle regole sia in rapporto alle energie da destinarsi al lavoro; e, viceversa, solamente una comunità consistente sarebbe riuscita nelle grandi opere di messa a coltura delle vaste pianure dalle quali poi avrebbero tratto un prodotto adeguato. Il sistema delle chiusure invece si sviluppa nelle terre più accidentate e meno fertili nella globalità, e perciò l’intervento puntuale dei singoli gruppi familiari – con una cura più assidua e minuta dell’ambiente, anche se meno efficace nei momenti delle grandi operazioni rurali, di aratura e raccolto – riesce a strappare alla terra quanto serve alla
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sopravvivenza di piccoli gruppi sociali, legati dalla parentela e fortemente solidali al di là di norme e regole statutarie più o meno scritte. L’abitato disperso è tipico perciò delle zone collinari o montuose, ed è diffuso appunto nelle regioni già ricordate del bocage bretone e normanno, nel Galles, in Irlanda, in molte terre alte dell’Inghilterra e, sotto varie forme, in Scozia. Si tratta di piccoli nuclei di case che non superano la ragione di sette o otto fuochi, e che nelle terre francesi assumono in genere la denominazione di hameaux, e in Gran Bretagna quella più generale di hamlets, oltre a inflessioni regionali che mettono in evidenza un particolare rapporto con l’ambiente e la storia locale16. In Irlanda, ad esempio, si assiste ad una grande dispersione di piccoli insediamenti detti clachans, legati a una gestione comunitaria mista del suolo del tipo rundale – simile al più generale sistema dell’infield-outfield17 – secondo uno schema sopravvissuto fin quasi ai nostri giorni e di cui comunque rimangono consistenti tracce18 nel sistema dei raggruppamenti di case. Il clachan, costituito da dieci o venti case19 disposte parallelamente e quasi casualmente, si trova per lo più nelle regioni periferiche dell’ovest, del nord e di alcune penisole dell’est. Ciò lascia supporre che esso sia un “tipo residuo”20, non contaminato dalla stratificazione anglo-normanna e perciò esempio di sopravvivenze di sistemi insediativi molto antichi, anche se molti di essi risalgono a epoche più recenti, tra il xvi e il xix secolo. È molto difficile infatti stabilire priorità o derivazioni a partire dalle strutture e dalle forme degli insediamenti; certamente forme simili al clachan sono diffuse in tutta l’area cosiddetta celtica e meno toccata dalla presenza di popoli conquistatori successivi. Ciò avviene sia in Francia sia in Gran Bretagna, ma è altrettanto difficile affermare che il piccolo insediamento di natura tribale rappresenti l’antefatto cronologico del villaggio e neppure la sua antitesi, così come è altrettanto spinoso sostenere la corrispondenza tra invasioni e introduzione di alcuni tipi insediativi connessi con i campi aperti, il villaggio o ancora tipi abitativi particolari21. Le terre del bocage normanno e bretone non sembrano aiutare in questa ricerca di sequenze cronologiche e appartenenze etniche, anche se a volte appaiono straordinarie similitudini con le aree britanniche per le quali si può prospettare una tipicità di strutture abitative precedenti alla presenza normanna. L’hameau o il piccolo villaggio può presentare infatti una disposizione reciproca delle case nel rapporto coi campi che si sottrae a ogni tipizzazione urbanistica22, e non è difficile riconoscere, nella gran parte degli esempi costituiti da pochi edifici sparsi, la validità di tale teoria; tuttavia, in alcuni insediamenti di maggior consistenza, si ritrovano caratteristiche che propongono una genesi non casuale, ma legata a usi più ampiamente diffusi nell’area di matrice celtica.
Si tratta di hameax o di case isolate disposte secondo sistemi circolari o ellittici23; l’interno dell’anello è concepito come un luogo protetto, molto simile al green dei villaggi inglesi, e destinato al bestiame da custodire o a campi di più pregevole coltura24, mentre all’esterno si sviluppano le colture meno raffinate oppure il gerbido e il pascolo aperto, secondo uno schema adottato anche negli infields-outfields britannici; tale sistema si sarebbe poi complicato – tanto da essere irriconoscibile nella maggior parte dei casi – con lo sviluppo demografico dal xiii secolo che propone strutture di villaggio più organiche, ordinate e pianificate. Senza dubbio la disposizione circolare e lo spazio intercluso hanno avuto, nella formazione originaria del villaggio, ragioni di convenienza funzionale e allo stesso tempo riferimenti di ritualità religiosa e sociale che oggi ci sfuggono, come ci sfuggono anche le particolarità negli usi quotidiani nel quadro dei rapporti e delle relazioni che avvenivano nell’orizzonte dello spazio del villaggio. Anche nella più ridotta dimensione del casale (hameau, hamlet), la piazza comunitaria con fonte e abbeveratoio – che non deve essere intesa in senso moderno di spazio urbanizzato – in molti casi sembra essere l’elemento generatore della disposizione delle case e comunque strettamente inerente al loro modo di organizzarsi. Questo elemento spaziale negli hameaux del bocage bretone ricorda molto, per la sua forma prevalentemente triangolare, il couderc dell’Auvergne che, territorialmente, è in parte simile25. Caratteri assai più marcati in questo senso presenta il green dei piccoli villaggi inglesi. Mito e mistero convergono nella spiegazione della formazione del green, che si vorrebbe derivare dall’usanza delle comunità sassoni di costruire le abitazioni in cerchio, così da definire un riparo sicuro ove gli animali potessero passare la notte custoditi, secondo schemi analoghi della Bretagna e della Brière. Col tempo quest’uso primitivo venne abbandonato, e il green divenne l’area comune del villaggio, usata per gli scopi comunitari, come luogo di ritrovo, di mercato e di scambio, come pascolo per le bestie più piccole o per gli animali da cortile, per le feste, i giochi e le ricorrenze. Così come in Francia, anche nelle Isole Britanniche il confine tra il green e lo spazio di pertinenza della casa, soprattutto l’aia, è molto sfumato, e quindi nel tempo ha dato luogo a non poche prevaricazioni di edifici costruiti entro tale spazio, per cui man mano in molti villaggi si è persa la nozione di esso come spazio centrale e progressivamente è stato ridotto a spazio residuo; i villaggi di Slaughter (Lower e Upper) e di Swells (Lower e Upper) nei Costwolds presentano dei sistemi di green ancora riconoscibili26. Certamente gli insediamenti mostrano, all’inizio del millennio durante la conquista normanna e subito dopo, di darsi strutture stabili sotto il profilo culturale e simbolico, soprattutto con la costruzione di chiese parrocchiali che rappresentano, con il cimitero, il vero e proprio spazio comunitario del villaggio.
Negli insediamenti inglesi spesso la chiesa parrocchiale è associata al green, che a sua volta è sottolineata dal cross, piccolo calvario in pietra, peraltro comune anche nella Francia del nord- ovest: si può ricordare il caso di Cavendish (Suffolk), col green attorniato dalla chiesa, dalle case e dall’osteria; oppure quelli di Barnington (Cambridgeshire) e di Norham (Northumberland), con un cross monumentale del quale rimane la base medioevale a gradoni circolari e la croce, sostituita nell’Ottocento da una cuspide27. Quando il villaggio ha una sua consistenza, possiede sempre una chiesa parrocchiale, ma nelle zone caratterizzate dalla dispersione abitativa non sempre esiste questa corrispondenza: pertanto una sola chiesa serve più insediamenti, costituendosi per lo più come un luogo a sé stante, che in Francia è chiamato burg e ha caratteristiche assai simili alla disposizione della pieve rurale italiana. Si viene così a formare il senso di una comunità più vasta e quindi l’individuazione di un sistema di relazioni più complesse che hanno come orizzonte l’intera comunità di una valle o di un monte. La chiesa accompagna la sorte della nascita, dello sviluppo delle comunità rurali, e spesso è anche testimonianza della loro scomparsa, come avviene per i villaggi abbandonati inglesi, ai quali spesso essa sopravvive, muta e abbandonata reliquia nella campagna ridotta a prateria dopo le trasformazioni del xvi e xvii secolo.
4. La famiglia e la casa La ricerca della forma originale dell’abitazione ha condotto l’indagine su forme assai antiche, sia attraverso scavi e ricostruzioni archeologiche sia mediante l’analisi delle stratificazioni, in seguito a processi di ricostruzione, su edifici ancora esistenti. Ne emerge un tipo arcaico, comune alle regioni del Nord-Europa, che si affacciano verso l’Oceano Atlantico e al Mare d’Irlanda, dalla Bretagna francese alla Scozia, che mostra forse gli esempi più completi e interessanti delle cosiddette black-houses delle Isole Ebridi. Si tratta di costruzioni a pianta rettangolare, con bassi e spessi muri di elevazione in pietra, arrotondati agli spigoli e coperti da un semplice tetto a travature, in paglia; il vano interno è unico e ospitava uomini e animali assieme. All’assenza del camino per il focolare centrale si sopperiva con una apertura nel soffitto, ma l’effetto di affumicamento era indubbiamente consistente, e da esso pare derivare appunto la denominazione28. Altri ritrovamenti e analogie in Galles29, Cornovaglia, Irlanda e Bretagna30, hanno spinto a vedere in questo tipo edilizio l’antenato di tutti i successivi che, a partire da un impianto unitario, tendono al doppio scopo di ospitare congiuntamente uomini e animali: tali sarebbero la vera e propria long-house britannica, che si sviluppa dal x al xvii
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capitolo quarto L’area atlantica del nord secolo, e la maison-longue bretone, anch’essa corrispondente allo stesso arco di tempo. Questa persistenza cronologica in un’area geografica ampia, ma ben definita, ha permesso di ipotizzare, come già per gli esempi analoghi della penisola iberica settentrionale, la comune matrice celtica di queste forme abitative31, ed è doveroso riconoscere che solamente nei paesi di tale tradizione si è conservata a lungo la traccia di una concezione di casa legata a tali usi, funzioni e struttura spaziale. Tuttavia i derivati dalla forma primitiva che si costruiscono dal tardo medioevo in poi portano con sé gli incrostamenti di tali nuovi fattori funzionali, culturali e spirituali, da mediare talmente il ricordo del fattore originario così da renderlo spesso poco riconoscibile32. Non bisogna dimenticare infatti il tipo medioevale della casa-sala33 che, negli esempi noti e secondo la classificazione in uso, esclude la compresenza di uomini e animali sotto lo stesso tetto, ma che comunque propone un tipo di spazio interno unico, in forma di rettangolo allungato, senza divisioni in altezza, almeno nella parte centrale. In questo panorama non è possibile dimenticare anche le case-torri (bastle-houses) che, specialmente diffuse nel nord (Irlanda, Scozia), danno luogo a forme abitative, spesso di tipo con caratteri gentilizi, che nel Galles si avvicinano agli schemi delle hall-houses, ma costruite su due piani, dove il piano inferiore, per lo più coperto a volte, è destinato a rimessa o ricovero degli animali e quello superiore, con entrata apposita dall’esterno, è destinato all’abitazione34. Ciò che emerge da questi tipi edilizi è l’estrema importanza connessa al vano della sala – nella quale si svolgevano tutte le funzioni della vita familiare – e al rapporto tra lo spazio abitativo e il focolare, che è il nocciolo centrale strutturalmente costitutivo della casa stessa. La casa primitiva ricordata, priva di camino, sembra quasi una protezione costruita appositamente per il focolare centrale più che una struttura abitativa nel senso moderno del termine; anche quando nel tardo medioevo vengono introdotti i camini costruiti in muratura, permane il valore dello spazio centrale che non viene diviso in senso orizzontale, ma le capriate, i puntoni e le falde inclinate del tetto (gable) vengono lasciate a ricordare l’ascesa dei fumi verso l’alto, secondo un orizzonte indefinito. Anche i camini successivi costruiti in muratura diventano parte della parete centrale o di testa della casa, e si impongono anche esternamente, nella forma a timpano – caratteristica del paesaggio dei villaggi dei paesi atlantici del nord – come rappresentativi e simbolici del gruppo familiare stesso. Il focolare, la struttura della gable e il tetto sono il segno della permanenza familiare e spesso – nelle diverse regioni – i termini sono sinonimi della famiglia stessa; addirittura tale struttura si rifà a un simbolismo generale dell’universo, dal medioevo dell’Europa del nord-ovest, secondo il quale i due puntoni rappresenterebbero le sfere celesti portanti
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un asse attorno al quale ruota il cielo, in base alle teorie elaborate attorno al 1000 da Nokter di San Gallo35. Questo processo di simbolizzazione implicita e quasi naturale, che porta l’uomo a misurarsi con lo spazio indefinito dell’universo proprio nella struttura definitiva, e al tempo stesso storicamente aperta, della casa, ci testimonia il senso pregnante attribuito alla famiglia, origine e sostentamento della vita, pur entro un quadro di determinazioni funzionali, duro ed essenziale36. Dalle strutture abitative più povere a quelle più ricche, fino al xviii e anche al xix secolo, l’unità della famiglia patriarcale è rappresentata in questo tipo simbolico di sala comune, anche quando – come in Scozia e parzialmente in Irlanda – spesso prevale come dominante la più ampia struttura polifamiliare in condizioni ambientali e produttive legate alla pastorizia e ai movimenti di transumanza. La casa della Scozia sembra infatti riflettere la provvisorietà del nucleo familiare rispetto alla più ampia struttura del clan; nel sud e nel centro della regione erano infatti assai comuni case molto simili alle black-houses delle Ebridi, ma realizzate con murature in fango o argilla e coperte con paglia, materiali sostituiti con la pietra solamente tra la fine del xviii e gli inizi del xix secolo37. La costruzione della casa per le nuove famiglie rappresentava un’impresa comunitaria, chiamata daubing, che l’intero villaggio, mobilitato, realizzava con un lavoro di un solo giorno, che si concludeva con feste adeguate38. Il prodotto era assai precario, ma sufficiente per le prospettive di lavoro e di esistenza, all’interno di un quadro sociale più vasto e di una certa mobilità legata alla pastorizia. Più stabile il tipo della long-house molto elementare, con semplice giustapposizione di abitazione e stalla raggruppata sotto lo stesso tetto, mentre dal xviii secolo compaiono più complessi esempi di farm-houses, costruite su modelli inglesi e realizzate fin dall’origine in pietra. Anche in Irlanda la casa è estremamente semplice, con una tradizione dell’uso della pietra però più costante fino dal medioevo, anche se in alcune zone del sud-est si trova impiegata l’argilla per i muri di elevazione, e la copertura in paglia è quasi una costante per il tetto. Alcuni autori vorrebbero che la tipica casa del clachan irlandese derivi da forme primitive in pietra a pseudo-volta, con pianta vagamente ellittica, simili al ben noto oratorio di Gallarus a Dingle (sec. vi d.C.) ma con doppia entrata contrapposta lungo i lati più lunghi39: da questa forma arrotondata si sarebbe evoluto il tipo prevalente a camino centrale che progressivamente sostituisce il tetto a spioventi con terminazioni arrotondate con quello a timpano, mentre rimane il passaggio trasversale che, analogamente alla long-house inglese, divide all’interno la parte abitativa da quella per gli animali40. Essenziale e povera, ma suggestiva nella sua misurata capacità di rapportarsi con l’ambiente, la casa irlandese presenta due tipi fondamentali: quella del sud-est con camino centrale e tetto a quattro spioventi, e quella del nord-ovest
con camino sul muro terminale a timpano41; in questa area spesso a fianco del camino si dispone l’alcova con il letto, che è denunciata da uno sporto sul muro più lungo (outshot-houses). Particolarmente nel nord-ovest questo tipo viene interpretato molto liberamente come un corpo di fabbrica allungabile, con l’aggiunta di ambienti per i diversi usi della vita rurale e pastorale e, laddove la pendenza del terreno si presta, si arriva anche a realizzare parte dell’edificio su due piani, dove naturalmente al piano inferiore si collocano la stalla e le scuderie. Questi tipi particolari di outshot-houses segnalano i rapporti che l’Irlanda ebbe con la Scozia durante il tardo medioevo42, ma anche con l’Inghilterra e il resto dell’Europa del nord, segnatamente per i tipi del sud-est che rientrano nell’area culturale della long-house. “Gran parte della storia della casa rurale inglese – afferma Eric Mercer – nelle diverse varianti regionali è la registrazione della nascita e del declino della casa a doppia destinazione”43 che è rappresentata sostanzialmente dalla long-house o da derivate da essa, come la light-house o la bastle-house. La long-house inglese è anch’essa caratterizzata da un passaggio trasversale (through-passage) che divide la parte destinata agli animali da quella per l’abitazione: in corrispondenza del passaggio vi è il camino centrale che funge da elemento di separazione ed è rivolto verso la sala, affiancato per lo più da una porta di comunicazione. Gli ambienti possono essere a tutta altezza, e quindi rispecchiare la struttura del tetto a capriate, oppure essere in tutto o in parte divisi con solai piani per ricavare il granaio, il fienile o camere da letto al piano superiore; in questo ultimo caso spesso si aprono i tipici abbaini per illuminare meglio le stanze. La loro presenza, in forme raggruppate o isolate, è segnalata in Cornovaglia e nelle regioni del nord fin dal ix e x secolo, come risulta da scavi archeologici in villaggi abbandonati, ma il loro sviluppo diviene consistente a partire dal xv secolo44. I migliori esempi di questo tipo, con murature in pietra legata con buona malta, sono quelli del Devonshire meridionale come a Widecombe-in-the-Moor, Bucklandin-the-Moor, Cudlipptown, Slaugh Prior e Walkhampton, tutti nel Devon. Nel nord-ovest invece lo sviluppo è più tardo, ma con esempi molto interessanti e complessi come a Levinsham nello Yorkshire e a Westnewton e Kirkoswald nel Cumberland. Allo stesso gruppo edilizio possono esser accostate le statesmen’s-houses del Westmoreland, costruite alla fine del xvii secolo. La long-house in pietra dalla zona granitica del Dartmoor (Devon) si diffuse in tutta la Cornovaglia, nell’isola di Man, nel Galles del Nord e nelle Highlands scozzesi. Particolarmente significativa è l’area di diffusione gallese che presenta molte varianti sia dimensionali sia per la posizione del camino che può essere centrale, come in Inghilterra, ma anche addossato a un timpano o a una parete longitudinale. Frequente
inoltre – anche negli esempi più poveri – la soluzione a due piani con scala di collegamento in pietra incorporata nella struttura del camino, come risulta dai numerosi esempi diffusi soprattutto nelle province del nord-ovest45 attualmente Gwynedd e Clwyd, ma anche nel sud: Glamorgan. Variante della long-house è la cosiddetta laithe-house, che riunisce in un singolo corpo di fabbrica (laithe) la casa, la stalla e il granaio, dove però ciascuna di queste sezioni risulta indipendente e con ingresso separato. È molto comune in Inghilterra nel West-Riding e saltuariamente diffusa nelle altre regioni entro un arco cronologico che va dal 1650 agli inizi dell’Ottocento46. Un tipo molto particolare è quello della bastle-house confinato in una ristretta area del nord del Cumberland e Northumberland, lungo il confine con la Scozia. Si tratta di edifici a due piani nei quali il locale inferiore, coperto a volta, era destinato al ricovero del bestiame, mentre quello superiore, con ingresso indipendente servito da una scala, era destinato all’abitazione. Come risulta da alcuni esempi conservati a Bewcastle (Cumbria) e a Bellingham e Hepple (Nothumberland), a struttura massiccia, le solide aperture, sottolineate da portali ciclopici, denunciano le condizioni di precarietà di queste popolazioni di confine e quindi l’esigenza di difesa, soprattutto tra il xvi e il xvii secolo, quando più tesi furono i rapporti tra Scozia e Inghilterra47. Analoghe classificazioni possono essere fatte per i tipi originari dell’abitazione popolare della Bretagna e della Bassa Normandia, anche se le corrispondenze non possono essere ritrovate in un modo meccanico e semplicistico poiché, se risultano innegabili gli scambi culturali tra le regioni di cui stiamo trattando, è altresì necessario ricordare che i rapporti con il resto della Francia continentale hanno reso assai complesse le evoluzioni e le trasformazioni dei tipi, soprattutto a partire dal xvi secolo. Anche nel mondo rurale del nord-ovest francese si impone all’origine la casa che vede la compresenza di uomini e animali, che si conserva più a lungo nel Vannetais, nel Plumelin e nella zona di Pourlet, mentre si dissolve più rapidamente in Bassa Normandia che vede prevalere a poco a poco l’unità agraria differenziata con stalle e granai autonomi48. Alla long-house britannica corrisponderebbe quindi in Bretagna la maison-longue del tipo primitivo49, senza una separazione consistente e rigida tra gli uomini e gli animali, diffusa soprattutto in Bassa Bretagna, tra Morbihan, Ileet-Vilaine, Loire-Atlantique: gli esempi portati a sostegno – come a Guénin, Bot Col (Morbihan), Cuguen, La Mellerie (Ile-et-Vilaine) – hanno le stesse caratteristiche dimensionali e distributive del tipo con terminazione a doppio timpano e camino all’estremità (gable-hearth) dell’Irlanda nord-occidentale e del Galles; anche la doppia porta contrapposta sui lati più lunghi definisce quel passaggio trasversale che, tipico dell’area anglosassone, verrà poi pressoché abbandonato in quella francese. Più diffusa, e anche cronologica-
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capitolo quarto L’area atlantica del nord mente successiva, è la casa a elementi giustapposti50 assai simile alla laithe-house, dove abitazione, stalla e depositi costituiscono elementi separati da muri trasversali che li rendono indipendenti; è questo senza dubbio il tipo edilizio più diffuso e caratteristico del centro-sud, di cui abbondano gli esempi dal xvi al xviii secolo, con il tetto di paglia sul quale si affacciano gli abbaini per dar luce al solaio e con gli ingressi sia dell’abitazione che dei rustici sottolineati da complessi e a volte bellissimi portali ad architrave scolpita. Non mancano accanto a questi esempi organizzati in lunghezza anche quelli sviluppati in altezza, fra i quali quello di Saint-Goarec a Kerrigodon (Finistère) rappresenta il tipo originario con due locali sovrapposti e scala esterna, del tutto simile alle bastle-houses di Cumbria, anche se non sempre così strettamente legate alla attività della pastorizia. Quest’ultimo tipo propone uno sviluppo in altezza che si diffonde in modo consistente e articolato nella Suisse e nel Bocage Normande, mentre nelle altre regioni della Bassa Normandia la casa in lunghezza rimane il tipo dominante, ma espelle progressivamente le funzioni rurali, dando vita a un’organizzazione a corte chiusa o semichiusa con edifici di tipo agricolo appositi. L’abitazione viene così riadattata o ricostruita, spesso anche a due piani, con scala interna e assume in parte connotazioni architettoniche e spaziali proprie dell’architettura colta del tardo Rinascimento francese, con esempi che stanno a mezza via tra la tradizione della casa popolare e quella del maniero signorile.
5. La dimensione simbolica e costruttiva La dimensione simbolica ed evocativa costituisce l’essenza di ogni gesto della vita quotidiana del villaggio e quindi il substrato del rapporto comunitario; perciò non è solo consegnato a elementi più o meno accessori, ma all’atto stesso della realizzazione dei fatti strutturali più importanti. La costruzione della casa in particolare raccoglie in sé tutta una complessa ritualità, che contiene ed esprime gli aspetti legati alla legittimazione dell’occupazione del luogo e dell’inserimento del nuovo fuoco nella comunità locale, assieme all’affermazione del valore di unicità e permanenza dello stesso attraverso gli aspetti propriamente simbolici, quali evidenza e durabilità, dell’edificio. La possibilità di occupazione del suolo, da cui trarre sostegno per la vita, richiama sempre una dimensione primordiale legata al miracolo della vita e nello stesso tempo al diritto ad essa: non conosciamo il modo con il quale i primitivi gruppi d’area celtica decidessero le localizzazioni delle nuove famiglie, ma qualcosa deve essere rimasto nella tradizione gallese e di alcune parti dell’Inghilterra secondo la quale il diritto di occupazione poteva essere affermato da quella famiglia capace di costruire – entro una porzione
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di suolo incolto – un edificio nel giro di una notte. Le aree più impervie del territorio di molte parrocchie del Galles mostrano ancora le rovine di queste case di una notte o morning surprise51, ovviamente dalla semplicissima struttura, destinate, cosa non sempre realizzatasi, a una progressiva riqualificazione, come ad esempio è avvenuto nella ricostruzione in pietra di molte case in argilla della Scozia. Anche qui l’uso della costruzione della casa per la nuova famiglia, da realizzarsi nell’arco di una giornata, fa parte della ritualità consolidata e chiama in causa la collaborazione dell’intera comunità del villaggio che diviene partecipe dell’impresa e nello stesso tempo la legittima. Nei villaggi presso la frontiera tra Inghilterra e Scozia, dopo aver tracciato le fondazioni della casa e avervi disposto alcune file di pietre, ci si approvvigionava di argilla e paglia in quantità adeguata. Nel giorno fissato per la costruzione, l’intera comunità dei vicini, maschi e femmine, si riuniva con gli strumenti adatti e lavorando alacremente secondo le capacità di ciascuno portava a termine il lavoro entro sera. Naturalmente l’impresa52 terminava con una grande festa con pranzo, grandi bevute, danze e musica che si protraeva fino a notte. La mutua solidarietà è un fatto di aiuto e soccorso materiale ma è anche il modo con il quale il villaggio accetta e fa sue le nuove entità familiari e viceversa. Nei gruppi sociali più evoluti e maturi, ogni fase della costruzione della casa diventa rituale, dalla realizzazione delle fondazioni all’elevazione del tetto, mescolando gli aspetti di partecipazione sociale con quelli religiosi, anche magici e di scongiuro. In Bretagna, ad esempio, l’intervento dell’intera comunità avveniva in occasione del trasporto delle pietre, per cui veniva organizzata una grande giornata di gare per chi ne trasportava in maggior numero e più pesanti; altrettanto avveniva per la realizzazione dell’aia in terra battuta, occasione, come la prima, di incontri, feste e competizioni per tutto il vicinato53. La costruzione della casa, quando si trattava di edifici evoluti e complessi, avviava poi una serie di rapporti tra il proprietario e le maestranze locali, muratori, carpentieri, fabbri, che chiedevano il rispetto di una serie di atti rituali destinati a sottolineare il rapporto sociale con i costruttori stessi e al contempo a mettere in evidenza la perfezione dell’opera realizzata. Infine ogni opera in pietra o in legno era “marcata” da una connotazione simbolica che univa il costruttore con il committente. Soprattutto nelle decorazioni dei portali e nelle iscrizioni, di cui il Morbihan presenta la più grande varietà, si esprime una tradizione ancestrale che accoglie anche elementi colti mescolandoli in un mélange assai originale, come mostra l’esempio della fattoria-maniero di Saint-Jean a Mur-de-Bretagne. Dagli elementi propri della casa la dimensione simbolica va ad investire anche le costruzioni e i luoghi annessi con raffigurazioni più o meno evidenti e diffuse da regione a regione. Già si è accennato alla pregnanza significativa
gronda che la conclude. Altrettanta importanza è destinata alla fonte, al forno e soprattutto al pozzo comune a più case o all’intero villaggio; in Bretagna i pozzi sono assai frequentemente sottolineati dalle piccole teste apotropaiche, immutate nei loro caratteri, dalla iconografia medioevale a quella settecentesca, che evidentemente sottolineano al contempo il valore essenziale dell’acqua per la sopravvivenza e scongiurano ogni sua contaminazione secondo un atteggiamento religioso e magico al contempo.
della struttura del timpano, a volte sottolineata all’interno della incavallatura o capriata lignea dell’area anglosassone e quasi sempre riportata all’esterno con l’evidenza del timpano, terminato dal comignolo; il timpano diventa per se stesso un fatto simbolico che connota la famiglia (il “tetto” è spesso sinonimo di “fuoco”) e a esso vengono dedicate particolari attenzioni nel taglio della pietra e negli incastri tra i corsi e i blocchi di colmo che, per necessità funzionali, devono ritagliarsi secondo la diagonale della falda e la
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capitolo quarto L’area atlantica del nord
territorio
2. Cap de la Hague, Penisola del Cotentin, Normandia, Francia.
3. La campagna di Watendlath, Cumbria, Regno Unito.
4. Hartsop, Cumbria, Regno Unito.
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capitolo quarto L’area atlantica del nord
territorio
5. Chiesa romanica di Savigny, dipartimento della Manica, Normandia, Francia.
6. Farleton, Cumbria, Regno Unito.
7. Il ponte in pietra di Grange in Borrowdale, Cumbria, Regno Unito.
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capitolo quarto L’area atlantica del nord
comunità
8. Abitazioni in pietra a Blanchland, Northumberland, Regno Unito.
9. Chiesa romanica, poi sede di una scuola, Blanchland, Northumberland, Regno Unito.
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10. Complesso abitativo a Éculleville, nel dipartimento della Manica, Normandia, Francia.
11. Edificio in pietra a Les Trois Mariés, nel dipartimento del Calvados, Normandia, Francia.
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capitolo quarto L’area atlantica del nord
comunità
12. L’antico abitato di Duddington, Northamptonshire, Midlands Orientali, Regno Unito.
13. Chiesa romanica nei pressi di Plouguerneau, Finistère, Bretagna, Francia.
14. Abitazioni in pietra a Saint-Pierre-Église, dipartimento della Manica, Normandia, Francia.
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15. Scorcio di Blanchland, Northumberland, Regno Unito.
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capitolo quarto L’area atlantica del nord
case
16. Casa rurale a Hartsop, Cumbria, Regno Unito.
17. Caratteristica abitazione in pietra a Duddington, Northamptonshire, Midlands Orientali, Regno Unito.
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capitolo ottavo L’area atlantica del nord
case
18. Complesso abitativo a Kilnsey, North Yorkshire, Regno Unito.
19. Casa in pietra lungo il fiume Aber-Wrac’h, Finistère, Bretagna, Francia.
20. Abitazione a Saint-Jean, Mûr-de-Bretagne, Côte Du Nord, Bretagna, Francia.
21. Fienile in pietra a Troutbeck, Cumbria, Regno Unito.
22. Abitazione a Hartsop, Cumbria, Regno Unito.
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capitolo quarto L’area atlantica del nord
case
23. Facciata di un’antica casa rurale in pietra a Hartsop, Cumbria, Regno Unito.
24. Abitazione a Saint-Philibert, Finistère, Bretagna, Francia.
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capitolo quarto L’area atlantica del nord
simboli
25. Colonna con croce in pietra a Grouanec, Plouguerneau, Finistère, Bretagna, Francia.
26. Dettaglio di facciata con incisioni a Grouanec, Bretagna, Francia.
27. Scultura religiosa a Guimiliau, Finistère, Bretagna, Francia.
31. Cimitero di Bewcastle, Cumbria, Regno Unito.
32. Cimitero di Poundsgate, Dartmoor, Devon, Regno Unito.
33. Finestra di un’abitazione a Poundsgate, Dartmoor, Devon, Regno Unito.
28. Facciata di un edificio a Kersicot, Finistère, Bretagna, Francia.
29. Finestra con incisione a Saint-Jean, Mûr-de-Bretagne, Côte Du Nord, Bretagna, Francia.
30. Particolare di una colonna in pietra del complesso parrocchiale di Saint-Thégonnec, Finistère, Bretagna, Francia.
34. Dettaglio di un edificio in pietra a Poundsgate, Dartmoor, Devon, Regno Unito.
35. Particolare della chiesa di Hauteville-laGuichard, Normandia, Francia.
36. Dettaglio di un’abitazione a Watendlath, Cumbria, Regno Unito.
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Il cuore dell’Europa e della Francia La Borgogna e il Massiccio Centrale
1. Introduzione
Si tratta da una parte dell’ampia regione storica dell’Auvergne e del Limousin, con le vicine subregioni del Quercy a ovest e di parte dell’Haute-Languedoc a sud est; dall’altra della Borgogna, con una parte del Bourbonnais e del Nivernais a ovest e del Lyonnais a sud. Bourbonnais e Lyonnais rappresentano la zona di cerniera tra i due poli più importanti, per ragioni storiche e geografiche, della Borgogna e dell’Auvergne. L’orografia è caratterizzata dal sistema del Massiccio Centrale, interrotto a oriente dal solco profondo della valle del Rodano, che lo separa dal sistema alpino. A sud e ad ovest le alture digradano con maggior progressività verso la Languedoc, i Pays Toulousains e il Périgord lungo un limite definito all’incirca a occidente dalla valle della Sâone, ma senza che si possa individuare una rigorosa linea di demarcazione. Verso nord invece la pianura della
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a scelta di trattare in un unico capitolo un numero così ampio di situazioni locali, come quelle qui presentate, non vuole dimenticare l’estrema differenziazione delle culture e delle manifestazioni artistiche di ciascuna delle regioni che la compongono; riteniamo anzi che il continuo confronto permetta di meglio evidenziare il fenomeno dell’edilizia insediativa in quello spazio che, per la serie di rapporti e scambi tra le diverse aree culturali, rappresenta uno dei poli di formazione della cultura europea e non solo francese.
1. Facciata di un’abitazione a La Besse, frazione di Mauriac, dipartimento del Cantal, Alvernia-Rodano-Alpi, Francia.
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capitolo quinto Il cuore dell’Europa e della Francia Limagne, con Clermont-Ferrand, lungo la valle dell’Allier e poi della Loire, si ricollega alle regioni collinari del Bourbonnais e infine alla Borgogna, che con le sue cótes calcaree si spinge a settentrione e a oriente in corrispondenza dei dipartimenti dell’Yonne e della Côte-d’Or. Dall’alto medioevo fino al Settecento, come già si è osservato nel quadro più generale dedicato alla mobilità storica europea, qui si incrociavano i percorsi che collegavano l’Occidente: quelli che da nord raggiungevano i porti mediterranei e quelli che scorrevano dall’area alpina a quella pirenaica, passaggio obbligato quindi per le vie di terra, malgrado le difficoltà orografiche. Borgogna e Auvergne furono anche il centro di movimenti religiosi e politici che caratterizzarono tutta la medievalità e lasciarono un’impronta sull’età moderna: dalla presenza delle case madri dell’Ordine di Cluny e di Cîteaux nacquero o si potenziarono i movimenti dei pellegrini verso Santiago de Compostela, Roma, Gerusalemme, che innestatisi sugli episodi delle Crociate – iniziatesi appunto da Clermont-Ferrand – contribuirono a sviluppare quella serie di scambi culturali che non poca influenza ebbero sul fenomeno dell’edilizia e dell’urbanistica popolare che stiamo esaminando. È fin troppo facile leggere, sullo sfondo dell’edilizia popolare in pietra e del paesaggio abitativo di queste regioni, il profilo e l’immagine dei grandi monumenti religiosi medioevali che costituirono a volte un modello edilizio, ma allo stesso tempo mutuarono, dalle maestranze locali, tecniche e forme costruttive. È innegabile il rapporto tra le grandi opere di Cluny o dei Cistercensi – ma anche degli altri gruppi monastici di ClermontFerrand, Le Puy, la Chaise-Dieu, Sainte-Foy-de-Conques, Tournus e Moissac – con la più umile delle case, delle chiese e cappelle medioevali o dell’età più recente, anche se, sulla base dei documenti scritti, così come vorrebbe una troppo rigorosa storiografia di stampo filologico, non potrà mai essere provata perché legata ad una vita essenzialmente legata alla tradizione orale.
2. Le trasformazioni del territorio Il gruppo di regioni storiche di cui ci stiamo occupando può essere descritto, come già osservato precedentemente, a partire dalle due polarità dominanti del Massiccio Centrale a sud e della Borgogna a nord1. Ognuna di queste regioni, assieme alle minori che si aggregano attorno, come il Quercy, il Lyonnais o il Bourbonnais2, presenta a sua volta grandi differenze al proprio interno così da rendere alquanto difficoltosa la lettura della struttura colturale del territorio; questo vale per l’immagine attuale o comunque per l’immagine risultante alla fine della grande evoluzione rurale dell’Ottocento, ma ancor più per ricostruire la dinamica storica delle trasformazioni territoriali soprattutto antecedenti al xvi secolo. Già un grosso quesito storico è rappresentato dalla comprensione dell’influenza esercitata sui fatti territoriali dalla lingua d’oc del sud a quella d’oïl a nord, il cui confine storico si trovava appunto tra la Grande Limagne e il Bourbonnais3. Le differenze di tipo architettonico riguardano soprattutto i materiali delle coperture,
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tegole a coppi (tuiles rondes) per il sud e tegole piane per il nord; ma è tuttavia probabile che le differenze più consistenti, anche se non definitive, debbano essere riscontrate, più che nell’uso di alcuni modi costruttivi, nelle forme dell’insediamento e nella coltura del territorio: probabilmente abitato disperso e costituito da piccoli hameaux per il sud, e organizzato per villaggi più consistenti al nord, con una dispersione di case isolate4, queste ultime cronologicamente più tarde. Più difficile un giudizio sull’evoluzione delle colture, anche se le regioni aggruppate nel Massiccio Centrale, se si esclude la valle dell’Allier, anteriormente al xviii secolo ancora più di oggi, mostrano un carattere più legato alla tradizione montana, con coltura di altura dove predominava la pastorizia unita al compascuo e alla transumanza, e con coltivazioni povere per l’autosostentamento (segale, castagno e simili)5. È possibile più facilmente cogliere i nessi tra le condizioni ambientali e gli insediamenti: innanzitutto le caratteristiche geologiche ed orografiche che ovviamente costituiscono il quadro di riferimento sia dello sviluppo delle colture sia delle tecniche costruttive, pur entro un quadro sostanzialmente omogeneo. Nell’area borgognona sono gli altipiani del calcare giurassico a porre in evidenza una tipicità regionale che è allo stesso tempo di paesaggio e di architettura. La vraie Bourgogne – come è stata chiamata6 – è quella del Tonnerrois e dell’Auxois, con una punta a sud ovest in direzione di Beaune. Qui il calcare duro e chiaro – residuo sedimentario di una antica evoluzione geologica, abbastanza facile da lavorare e nello stesso tempo durevole e consistente – costituisce, con i suoi affioramenti naturali e con l’uso per l’edilizia e per gli elementi di divisione dei campi, un’inconfondibile caratteristica ambientale. Meno vasto e meno caratterizzato in Borgogna è il massiccio cristallino (granitico) del Morvan, corrispondente alle regioni dello Charolais e dell’Autunois, a sud della regione, in una zona ormai di connessione con le montagne settentrionali dell’Auvergne (Bois Noirs e Monts du Forez)7. A questa spina centrale, più o meno ampia, si affiancano a oriente le zone miste della Côte-d’Or e della Saône, a nord e a sud le pianure argillose e marnose dei Pays d’Othe e dello Charolais, e a occidente il Bourbonnais e il Nivernais, paesi dalle forme dolci e ondulate, privi di affioramenti litici e caratterizzati dalla divisione dei campi a bocage legati all’allevamento bovino8. Le zone pianeggianti e sedimentarie del Bourbonnais penetrano nel Massiccio Centrale in corrispondenza della valle dell’Allier (dalla Grande Limagne fino a Devès), dividendo in due parti il rilievo: a oriente il Livradois, i Monts du Forez e del Vivarais per lo più costituiti da rocce granitiche; a occidente i Monts Dore e il Massif Cantalien, caratterizzati da rocce vulcaniche più recenti (basalti, andesite e trachite). Molto pregiata è la pietra cavata a Volvic, presso Riom a nord di Clermont-Ferrand, usata fin dal medioevo soprattutto nel Puy-de-Dôme, almeno per le parti più importanti delle case come portali, cornici, camini9. Il rilievo e la natura del suolo hanno dato luogo dal medioevo al xix secolo al consolidarsi di zone di colture rurali abbastanza omogenee nelle differenti subregioni, con tendenze – dopo il xviii secolo – alla specializzazione, senza tuttavia abbandonare,
soprattutto nelle zone di più antico e complesso insediamento, la policoltura. Così l’area borgognona è d’ordinario descritta secondo una ripartizione che individua le terre dell’ovest (Nivernais, Bourbonnais, Charolais, Brionnais) come destinate quasi esclusivamente all’allevamento di tipo stanziale; la fascia centrale (Auxerrois, Auxois e Côte-d’Or) caratterizzata dalla vitivinicoltura e infine le terre dell’est (Chatillonais, Montagne e Saône) con vocazione cerealicola estensiva10. Nell’area alverniate e negli altipiani dell’est è tradizionale, dal passato fino quasi ai nostri giorni, la policoltura tendenzialmente d’autoconsumo, con coltivazioni – tra le graminacee – soprattutto della segale resistente al freddo, e, dalla metà del xviii secolo, intensivamente, della patata. In tali ambiti la vite, di più recente introduzione, non ha soppiantato al fondo questa struttura pur arricchendola di nuovi elementi11. Nelle montagne dell’ovest (Monts Dore, Cézallirer, Massif Cantalien) già dal xvii secolo si ha la testimonianza di un forte incremento dell’allevamento a detrimento di altre colture. I monti dell’ovest furono infatti mete di transumanza già da prima del ’700, sia per l’allevamento ovino, legato alla istituzione del compascuo, sia per quello bovino, per il quale si vanno progressivamente distinguendo le montagnes a graisse (per l’allevamento di bestie da carne) e le montagnes au lait (per l’allevamento di bestie da latte). Nell’Ottocento tale sistema, legato a miglioramenti generali delle attrezzature, della produzione e della distribuzione, tende a diventare monocoltura12. Un accenno merita il castagneto da frutto, che accompagna tradizionalmente le colture di autosostentamento ed è presente in quasi tutte le zone caratterizzate dall’insediarsi delle comunità di villaggio; quasi del tutto assente in Borgogna, probabilmente in conseguenza di migliori condizioni generali, la coltivazione del castagno per l’alimentazione si sviluppa, soprattutto dopo il periodo della guerra dei Cent’anni, nel nord della Languedoc (Vivarais, Gévaudan, Velay), nell’Auvergne e nel Limousin, grazie anche all’esenzione di tale coltura da alcune tassazioni e decime. La castagna e la farina di castagna divengono così un fattore alimentare molto diffuso tanto da determinare forme di paesaggio e strutture edilizie – gli essiccatoi – inglobati nel villaggio o isolati. Per alcune regioni si può dire che dal ’500 al ’700 il castagno può essere definito l’albero del pane soprattutto per gli strati sociali più poveri per i quali arriva a costituire addirittura un terzo dell’alimentazione glucidica: seppure considerata una coltura inferiore, il castagneto viene coltivato, curato, esteso e, in alcune zone, anche a scapito delle altre colture; si moltiplicano i relativi riferimenti e toponimi, tanto da indicare col termine abbastanza recente di Châtaigneraie un’intera sub-regione del Cantal13.
d’età protostorica e romana, prende l’avvio dalla fine dell’alto medioevo, si consolida tra il xv e il xvi secolo per giungere a completo sviluppo alla fine del xviii secolo14. Se si escludono i pochi centri urbani maggiori, le comunità rurali trovano origine in alcune modalità di aggregazione corrispondenti a fenomeni edilizi-urbanistici che si possono schematizzare secondo tre categorie. La prima riguarda la cellula elementare, isolata nel territorio, corrispondente alla casa occupata indivisibilmente da una famiglia che coltiva, pure indivisibilmente nel tempo, un terreno. Questo tipo di aggregazione, che sembra essere anche la più antica in ordine cronologico, era abitualmente indicata col termine di mansus o maure – dal cui etimo sopravvive il meix soprattutto borgognone e il mas dell’area occitanica – che indica l’edificio e che dà luogo a moltissimi toponimi nella regione in esame; anche i termini di borde e borderie indicano un modo di conduzione che rappresenta una articolazione o divisione del mansus ed anch’essi si riscontrano in numerosissimi toponimi nel Massiccio Centrale15. Un secondo livello è rappresentato dalla comunità familiare più ampia, legata da tacito accordo, giuridicamente e anche storicamente identificabile, il cui corrispondente insediativo è, per lo più, l’hameau, piccolo aggregato risultante dall’unione di alcuni nuclei mansionari o dallo sviluppo e articolazione di uno solo di questi, o dalla spontanea aggregazione di nuclei familiari indipendenti dalla struttura del manso16. Il terzo livello è dato infine dalla struttura, giuridica e urbanistica, del village propriamente detto nel quale la convivenza delle famiglie è regolata da una normativa comunitaria espressa in statuti veri e propri, o in consuetudini e usi civici ben precisi, e in spazi ed edifici comuni chiaramente identificabili. È fin superfluo dichiarare che queste tre tipologie urbanistiche rappresentano schemi interpretativi di una realtà che si è intrecciata nell’evoluzione storica con modalità spesso difficilmente districabili; tuttavia rappresentano nel loro insieme un modo abbastanza costante in tutta la regione esaminata, anche se in alcune sub-regioni prevale o è prevalso l’uno o l’altro di tali tipi. Nell’Auvergne in generale le comunità tacite e l’hameau sono state l’elemento caratterizzante del popolamento del Medioevo centrale. Numerose soprattutto nel nord-est (Montagne de Thiers, Forez), si riscontrano anche nel Bourbonnais fino al Morvan con un abitato disperso di antica origine (oggi pressoché scomparso) dove l’hameau prende il nome di huis17. Anche i monti del Lyonnais e le colline del Mâconnais in età diverse sono stati coinvolti in questo movimento, come all’ovest le Combrailles, i Monts Dore, il Cantal e tutto il Limousin. La struttura del villaggio vero e proprio si riscontra sia come particolare sviluppo di molti hameaux nelle regioni citate (a eccezione forse dell’Allier e del Morvan) sia come struttura risultante dall’aggruppamento di mansi che mantengono la loro individualità. È soprattutto il caso dei villaggi della Limagne, ma in particolare della Borgogna centrale, che mostra una struttura territoriale di villaggi aggruppati di discrete dimensioni, lontani uno dall’altro e risultanti dall’aggregazione di strutture a corte chiusa rappresentanti l’antico meix18.
3. La comunità e gli insediamenti La maglia degli insediamenti – case sparse, villaggi, città – è il risultato di un processo che, pur con premesse importanti
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capitolo quinto Il cuore dell’Europa e della Francia Esistono insediamenti medioevali che sono giunti a noi senza aver subito trasformazioni, sia perché bloccati nella loro evoluzione da eventi catastrofici sia perché abbandonati dagli abitanti. Questo fenomeno fu particolarmente acuto nel xiv secolo in conseguenza delle devastazioni della guerra dei Cent’anni e della peste nera: esemplari nella zona e studiati a questo proposito sono il villaggio presso la Chiesa di Saint-Victor a Massiac (Cantal) e quello di Dracy in comune di Baubigny (Côte-d’Or) e, più a sud, di Saint-Jean-Le-Froid in comune di Salles-Couran (Aveyron), ma costituiscono un campione troppo limitato perché possa essere assunto come rappresentazione di tutto il fenomeno medioevale che richiede altri e più difficoltosi studi di stratigrafia su quanto è stato conservato ma successivamente inglobato negli ampliamenti19. La caratteristica fondamentale della comunità di villaggio è, come già visto20, quella di affrontare la coltivazione di un territorio entro una solidarietà che accomuna tutti i gruppi familiari; inoltre la caratteristica del lavoro rurale è quella dell’integrazione dei diversi tipi di colture possibili sul territorio stesso, integrazione resa possibile dalla struttura di solidarietà. Se si esaminano i villaggi dell’altopiano della Borgogna centrale, questi caratteri appaiono con grande evidenza: non esiste un rapporto privilegiato tra la casa ed il fondo, così come può avvenire per la fattoria isolata – che essa sia a modello dell’antico mansus o della moderna tenuta a carattere monocolturale intensivo –, ma il rapporto è tra la globalità del villaggio e l’insieme dei sistemi di colture possibili su quel tipo di territorio. Le coste calcaree dell’Auxerois, del Tournerois, dello Châtillonais e soprattutto dell’Auxois consentono l’impianto di colture cerealicole sugli altipiani, mentre i fondovalle ampi e solcati dai fiumi irrigano il prato da foraggio e il pascolo bovino; la costa bene esposta all’irraggiamento solare diviene il sedime ideale per il vigneto e il frutteto. Il villaggio si colloca perciò a mezza costa così da consentire a ogni famiglia di avere a disposizione terreni in ognuna di queste fasce ed in modo tale da utilizzare al meglio la posizione delle fonti e delle risorgive poste sotto la più alta costa calcarea. Gli scambi in natura e servizi (usi e diritti civici) costituivano quindi la base sociale dei rapporti comunitari per cui, nel rifiuto globale della specializzazione della produzione, si attiva una solidarietà in cui l’unità di misura è il villaggio e non l’individuo e neppure la singola famiglia21. All’interno del villaggio l’identità del gruppo familiare riemerge nel modo di aggregazione degli edifici: il villaggio è costituito infatti da vie più o meno rigorosamente rettilinee, che si incrociano ad angolo retto e racchiudono case addossate per lo più in corrispondenza di uno dei timpani e organizzate attorno a una corte stretta su cui si affacciano gli ambienti per il lavoro22. A differenza della zona a nord qui esaminata, il sud si distingue per una dispersione abitativa più pronunciata, pur permanendo l’origine comunitaria dell’insediamento. Nelle montagne tra il Bourbonnais, l’Auvergne e il Lyonnais, a comprendere anche il Mâconnais occidentale, i villaggi sono situati in posizione elevata, su colline o dossi tra due fondovalle.
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In questo caso probabilmente prevalse, nelle prime famiglie, il desiderio di insediarsi il più vicino possibile alle zone di produzione dei cereali, ovviamente assai pregiate in zona montana e perciò più fredda. Tuttavia il villaggio rimane al centro di un sistema integrato di colture per cui si vede ancora oggi che dal centro dell’abitato partono i sentieri che conducono al bosco, e altri ai terreni e ai pascoli comunitari. Solo più tardi, quando l’allevamento bovino prese più consistenza, i fondovalle furono disboscati per fare spazio a prati irrigui23. La disposizione delle case nel villaggio è in apparenza disordinata, ma corrisponde alla ricerca dell’ottimizzazione tra l’esposizione, la protezione dei venti e l’utilizzazione del pendio che, non essendo il villaggio a mezza costa, risulta variabile24; molto più raramente si registra una disposizione lineare con localizzazione a mezza costa e costruzioni sui due lati di un asse più o meno allungato secondo una banda molto stretta. Nelle case, fatta eccezione per le non numerose maisons-bloc25, si riscontra una netta separazione tra le abitazioni e i rustici (stalle, fienili ecc.) tanto che spesso, nei villaggi lineari, le strade separano le case da un lato e le stalle dall’altro. Nei massicci vulcanici occidentali la difesa dalle intemperie e la ricerca di una buona insolazione consiglia la ricerca di particolari posizioni arroccate sopra i fondovalle, ma nello stesso tempo protetti da pendii, coste rocciose, dossi morenici. Anche qui però il villaggio si colloca al centro delle zone colturali tra il fondovalle – nel quale veniva alimentato il bosco (faggeto o abetaia) – e le alture, sfruttate per la pastorizia e l’allevamento, con le malghe (vacheries) verso le quote attorno ai mille metri e gli alpeggi (burons) oltre tale quota26. Il villaggio è al centro delle zone di coltura che spesso sono terrazzate e comprendono anche, come già visto, delle aree destinate al castagneto da frutto; l’accesso dal villaggio alle diverse zone colturali è facilitato da sentieri che seguono l’andamento dei corsi d’acqua minori perpendicolari al fiume di fondovalle. L’impianto quasi ovunque generalizzato del villaggio è dato da una disposizione irregolare di sistemi a corte aperta, delimitata da muri a secco, sulla quale si affacciano le abitazioni, le stalle e gli altri rustici e un piccolo orto e frutteto. Tutti questi organismi familiari fanno poi riferimento spaziale a uno o più coudercs27 nel cui ambito è compresa spesso la cappella, il forno e tutte le altre strutture comunitarie. Infatti la consapevolezza del villaggio di costituire una comunità si esprime non solo nel processo economico, che punta alla utilizzazione delle risorse ambientali, ma nella realizzazione di luoghi specifici che rappresentano questa coscienza, al di là delle pur presenti connotazioni funzionali. Il primo e più importante di questi elementi è la chiesa o la cappella, quasi sempre in passato circondata dal cimitero a testimoniare l’unità tra la comunità vivente e quella defunta. Nelle zone di insediamento disperso, invece, non tutti i piccoli villaggi hanno la propria chiesa, che rimane nel villaggio di maggior importanza. Una tipologia particolare di edificio comunitario con caratteri civili e religiosi assieme, che compare soprattutto in Auvergne, è la cosiddetta assemblée o casa della beata, presente particolar-
mente nei villaggi minori privi di struttura parrocchiale; si tratta di un edificio a due piani di modeste dimensioni e molto simile alle case del paese, se si esclude il piccolo campaniletto a vela sopra uno dei timpani. Il piano inferiore era occupato per intero dalla sala delle riunioni; al piano superiore vi era l’alloggio della beata, che custodiva e gestiva l’attività della casa, e uno spazio per gli ospiti e i pellegrini28. L’assemblée era al tempo stesso scuola per i bambini, sala di riunione per i vicini, luogo di preghiera e di culto dove il parroco veniva a celebrare, ospizio e albergo per i viandanti e i pellegrini; era considerata, fino alle riforme ottocentesche, patrimonio della comunità come tutte le altre attrezzature comuni del villaggio, e perciò veniva costruita nell’ambito del couderc. È questo uno spazio, tra le case del villaggio, nel quale si svolge la maggior parte delle attività che non trovano luogo all’interno degli edifici, da parte di tutti i vicini. Proprietà comune e inalienabile, viene usato come aia per la battitura del grano o la seccagione del fieno, come mattatoio o spazio per spaccare la legna e accatastarla temporaneamente; vi si tenevano anche gli animali. Nell’ambito del couderc si raccoglievano le strutture della comunità; oltre all’assemblée vi si trova anche il forno, la fontana, l’abbeveratoio, e quasi sempre lo spazio era sottolineato dalla presenza di un piccolo calvario in pietra. Lontani dal couderc sono invece i mulini, soprattutto nella forma ad acqua, che necessitano ovviamente di accostarsi alle fonti di energia e che erano pure essi considerati facenti parte del complesso di attrezzature comunitarie.
4. La famiglia e la casa Il nucleo costitutivo della comunità di villaggio è la famiglia, che si presenta sostanzialmente nella forma della comunità agricola. Certamente non sono mancate aggregazioni più semplici, legate soprattutto a nuclei familiari privi di diritto di proprietà o d’uso della terra, la cui espressione insediativa è costituita dalla cosiddetta maison du journalier, un semplice ambiente di residenza al piano terreno, un fienile nel sottotetto e qualche limitato spazio per il bestiame e gli attrezzi. I tipi edilizi della famiglia a impronta patriarcale sono sovente assai più complessi e mostrano spesso anche promiscuità nelle destinazioni d’uso; nel nord-est della Borgogna permane molto frequente il tipo della maison-halle, caratteristica soprattutto dell’area germanica e che si ritrova in parecchi villaggi dello Châtillon29 e in alcuni del Gâtine. All’interno di un edificio di circa 12 metri per 8 – dalla muratura in pietra e coperto da un enorme tetto ligneo a falde molto inclinate, realizzato con una complessa carpenteria spesso poggiante su pilastri intermedi anch’essi lignei – vengono raggruppate tutte le funzioni della vita familiare contadina, con opportune suddivisioni interne, in assito, che non interrompono la continuità dello spazio. Sovente l’ambiente è suddiviso in impalcati anche in altezza fino ad ottenere tre piani, e in questo caso quelli superiori servono da fienile men-
tre il piano terreno è sempre destinato alla stalla. L’abitazione compresa in questi grandi contenitori è però completa in ogni suo elemento, dalla sala di soggiorno al camino, al lavatoio, alle camere da letto, separate ed isolate. Una via intermedia è rappresentata dalla cosiddetta chambre d’étable della maison-bloc nell’Auvergne; presso la porta che mette in comunicazione la sala con la stalla, comunque all’interno della stalla stessa, si dispongono, protetti da pareti in assito, i letti spesso costruiti nella forma ad alcova. Questi letti, anche quando esistevano le camere vere e proprie nella zona residenziale, erano destinati ai membri non sposati o più giovani della famiglia e ai domestici, e rappresentavano, soprattutto nella stagione fredda, il prolungamento della vita familiare negli ambienti naturalmente riscaldati dalla stalla dove spesso, come in altre regioni europee, si usava anche soggiornare30. Lo spazio della salle commune rappresenta ovunque il centro della vita familiare; al suo interno è collocato il grande camino appoggiato per lo più a una delle pareti d’ambito, nella forma tradizionale a nicchia o in quella libera saracena, spesso accompagnata dal piccolo forno domestico31. Altro elemento insostituibile della sala comune è la zona del lavatoio (ayguière in Auvergne, più comunemente souillarde), anch’esso individuato da una nicchia, spesso molto profonda e terminante con una sagoma ad arcosolio, nella quale trova posto la vasca del lavello realizzata con una pietra monolitica che sovente scola l’acqua direttamente all’esterno attraverso un piccolo doccione in pietra ricavato nel muro; alle pareti mensole in pietra per le pentole e le provviste completano questo spazio destinato alle donne. Infine, nelle forme più arcaiche e particolarmente persistenti del Massiccio Centrale, la sala ospita anche i letti per i membri più anziani della famiglia, letti che a volte danno luogo a un vero e proprio ambiente nell’ambiente principale, costituiti da alcove delimitate da transenne lignee molto elaborate, decorate e chiuse da tendaggi pesanti32. La corrispondenza tra spazio architettonico e struttura della famiglia patriarcale è da ricercarsi, nella casa della Francia centrale, proprio in questo cuore interno della salle commune poiché la struttura generale degli edifici qui si mantiene molto semplice e ripetitiva. Il tipo dominante e originario, anche di aggregazioni più complesse, è costituito dalla cosiddetta maison-bloc formata dalla semplice giustapposizione, in un unico corpo di fabbrica, della parte di abitazione – inizialmente la sola salle commune – con gli annessi rurali: stalla e fienile in particolare. Questi edifici, molto semplici, sono coperti da un tetto a due falde secondo la lunghezza e terminano con muro a timpano sulla testata. Col tempo il tipo elementare si arricchisce e si complica sia per le migliorate condizioni di vita sia per lo sviluppo delle funzioni agricole – con l’introduzione di nuove colture o la modificazione di quelle più antiche – dando luogo così ai tipi regionali più caratteristici. Spesso anche la crescita della famiglia e il bisogno delle camere da letto separate porta all’ingrandimento, con il sopralzo, della parte residenziale che si stacca nettamente dalla zona
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capitolo quinto Il cuore dell’Europa e della Francia rurale, ed è questa la soluzione più semplice che si realizza assieme ad un ampliamento, sempre secondo l’asse principale, della zona rustica. Lo sviluppo delle diverse attività agricole, nell’ottica di una policoltura più complessa e articolata che non quella tradizionale di sussistenza, porta progressivamente alla formazione della casa a corte, chiusa o aperta secondo le varie regioni. Nell’Auvergne dorienne la casa a corte nasce dalla disposizione su uno o più lati – lasciati liberi dalla precedente struttura a blocco – di ulteriori elementi rurali, quali il fienile, il pollaio, la porcilaia e così via, mentre si avverte l’esigenza in molti villaggi di recingere i lati eventualmente liberi con un muro. È questo anche lo schema già evidenziato dei grossi villaggi della Borgogna centrale (Auxois, Auxerrois e parte della Côted’Or) che dispongono le corti e i corpi di fabbrica dell’edificio principale per lo più secondo un asse perpendicolare alla strada del paese. Diversa e più moderna origine ha invece la casa a corte dello Charolais che nasce da uno schema a u mutuato da quello della villa signorile33. Spesso lo sviluppo e l’aggiunta dei locali accessori avviene in altezza, mantenendo la casa rinserrata nel blocco originario; è questo soprattutto il caso degli edifici legati alla coltura vitivinicola, ma anche ad altre zone colturali. In questo caso il piano seminterrato, o a volte terreno, è destinato agli ambienti fondamentali per l’attività agricola – e cioè la stalla, nel caso delle zone d’allevamento, o la cantina e la tinaia nelle zone vitivinicole – mentre i locali d’abitazione sono disimpegnati da una scala esterna e da un ballatoio spesso nella forma a loggia coperta. Poco frequenti nell’Auvergne centrale, queste case a loggia sono invece più numerose nelle zone periferiche, come il Quercy34 e in quelle di transizione tra il Massiccio Centrale e la Borgogna, in particolare nella Limagne del nord-est, nella Montagne Bourbonnaise35, nel Lyonnais occidentale36, nel Mâconnais37 e nel Clonisois, fino ad alcune manifestazioni che si ritrovano anche più a nord nell’Auxois vitivinicolo38. Se globalmente la famiglia contadina, nelle zone da noi esaminate, può esser classificata come patriarcale – e pertanto la casa definita come comunitaria, nel senso già espresso a proposito della struttura di villaggio – si devono segnalare, soprattutto nell’Auvergne, dei casi di edifici comunitari in senso stretto nei quali avviene la convivenza di diverse famiglie, non necessariamente legate da consanguineità39. Il legame di queste comunità era fondato non sulla naturalità della discendenza, ma su un vero e proprio contratto che le legava alla terra e alla casa; da ciò nascono esempi di edifici comunitari, soprattutto nella Montagne Bourbonnaise, dalla controversa caratteristica: in alcune esiste una sala comune al piano terreno, con un grande focolare e forno, e camere per ciascuna famiglia distribuite da un ballatoio al primo piano; in altre le abitazioni delle singole famiglie sono diverse, e l’edificio si presenta come una sequenza di elementi a schiera con la sala al piano terreno e l’unica camera al primo piano disimpegnata da una scala esterna. Non bisogna dimenticare infine l’abitazione temporanea legata all’alpeggio e al pascolo, ovviamente presente nelle zone
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più alte della regione: jas e jasseries per l’Auvergne orientale e burons nel Cantal e Monts Dore; essi rappresentano tipi diffusi, molto semplici sotto il profilo distributivo, ma che tendono a riprodurre in dimensioni ridotte gli elementi propri della casa permanente, con grande dignità architettonica sotto il profilo sia distributivo sia costruttivo40.
5. La dimensione simbolica e costruttiva Come già si è avuto occasione di osservare rispetto alla cultura europea in generale, ogni atto che riguardava la casa e l’ambiente di lavoro ebbe nella società rurale una fortissima pregnanza simbolica di carattere religioso e magico allo stesso tempo. Non esiste elemento, per quanto ripetitivo e obbligato dalle condizioni materiali, che sfugga a questa concezione generale dell’uso di ogni risorsa per la vita quotidiana41. Per quanto concerne l’uso della pietra, che è uno dei principali fili conduttori della nostra indagine, le regioni esaminate – a eccezione di alcune aree marginali della Borgogna del nord (Senonais, Pays d’Othe) e dell’est (Plateau-de-Langres, Val-deSaône) e in parte nel Nivernais – presentano un uso pressoché assoluto di tale materiale. La Borgogna è caratterizzata dalla disponibilità del calcare sedimentario di età giurassica, ben stratificato, duro e compatto. La sua estrazione in cave apposite, spesso di proprietà comunale, dà luogo a conci che rispettano la giacitura naturale della pietra, con le due facce orizzontali parallele e spianate, perfettamente combacianti nei corsi del muro in opera, così da richiedere il minimo impiego di malta per le giunture. Solamente nel Morvan, nel Brionnais e Mâconnais meridionale esistono strati profondi granitici di più difficile estraibilità che, se pure spesso utilizzati, consigliano a volte l’impiego integrativo di materiali di più semplice approvvigionamento come l’argilla o il legno. L’Auvergne invece è dominata dalla presenza di pietre silicee di diversa origine; grandi formazioni granitiche, affioranti su basi di micascisti e gneiss, costituiscono le alture a oriente della Grande Limagne, quali i Monts du Forez e il Livradois e a occidente gran parte delle Combrailles; i monti del Cantal e del Dore ad occidente sono invece quasi tutti costituiti da rocce effusive più recenti, quali basalti, porfiroidi e trachiti, inframmezzate da rocce di deposito argillose e calcaree, come l’ardesia, particolarmente adatta per le coperture dei tetti. Il granito consente un taglio regolare secondo le tre dimensioni solide e pertanto dà luogo ad apparecchi murari ben ordinati e maestosi nelle dimensioni, anche se spesso la difficoltà della lavorazione ne consiglia l’uso solo per i cantonali e le incorniciature di porte e finestre, mentre il muro è realizzato con pietre a spacco di più piccole dimensioni. In questi casi, come a compensare l’incertezza d’esecuzione, tali elementi granitici vengono enfatizzati e ingigantiti in dimensioni perfino spropositate. Le pietre vulcaniche danno luogo invece a soluzioni estremamente varie e complesse a causa anche della varietà delle giaciture naturali e dei colori; spesso sono usate in combinazione
con gli scisti nelle parti meno delicate della muratura; si sono osservati perfino basalti colonnari impiegati nella forma naturale della cava, come fossero quasi dei tronchi lignei e incrociati sugli spigoli della muratura con una tecnica che ricorda vagamente quella della block-hause germanica. Le murature in elevazione della casa sono quasi sempre costruite con un letto di malta in calce interposto tra i corsi più o meno regolari di pietra allo scopo di evitare infiltrazioni di ogni genere. Spesso la maestria dei muratori e l’esigenza di risparmiare la calce, che era il materiale proporzionalmente più costoso, spingono a ridurre al minimo gli spessori, tanto che – in seguito all’usura del tempo che ha rimosso gli strati più superficiali – molte murature sembrano fatte in pietra a secco, mentre tale tecnica era per lo più riservata ai soli muri di recinzione o alle costruzioni rurali minori non abitate permanentemente. La copertura è costituita da carpenteria di legno, con forme spesso molto elaborate e complesse, soprattutto dove si devono raggiungere grandi luci (maison-halle) o il peso del manto di copertura è considerevole. La scelta della trave di colmo e dei puntoni era particolarmente accurata e oltre all’essenza dell’albero, per lo più rovere, si guardava anche all’ordinato andamento delle sue fibre. Anche per quest’uso i villaggi disponevano spesso del bosco comune d’alto fusto. Infine il materiale di copertura del tetto conferisce alla casa il definitivo assetto esteriore: sia le tegole in pietra molto stratificate (scisti, ardesie) sia la paglia di segale (chaume) sono i materiali di più antico uso. Tegole di pietra sono state ritrovate negli scavi di Dracy e risalgono al xiv secolo, ma sicuramente la scelta preferenziale era per la paglia, più leggera e di facile manutenzione da parte del proprietario stesso. Queste tecniche, in apparenza molto semplici, sono in realtà assai complesse sia per quanto riguarda il taglio dei materiali, sia per il loro impiego e sia infine per la diffusione dei modelli d’uso. Non è quindi più da pensare che il proprietario contadino potesse essere – secondo la ormai inaccettabile interpretazione funzionalista – promotore e costruttore allo stesso tempo42. Le testimonianze indicano l’esistenza di maestranze specializzate. Un’iscrizione scolpita sulle pietre angolari di una stalla-fienile a Ygrand (Allier) – seppure un poco tarda – e su un edificio di una tenuta quasi di tipo signorile ci mostra il quadro completo del processo edilizio antico43. Così recita: «En 1776 la p.re pierre a été posée par Louis de Lau et Marie Dubout son épouse Batie par Jean Peron macon de la marche pour “600” et par M.e Pierre Vrillaid charpantier a Bourbon pour “315”. Les poutres ont été prises en gros bois. La charpente et les pierres sur le lieu. La chaux a Couleuvre. La sable a Villesa. Voie la tuille a Fremiere. L’estraction de la pierre faite par Jacque Tixier dit Finet pour “600” sciage pour “500” coute entout compris le parés “000”». Gli studi apparsi finora però non documentano con chiarezza per questa regione il ruolo costruttivo e sociale delle maestranze prima della seconda metà del Settecento e soprattutto i luoghi d’origine e di formazione. Indubbiamente si doveva trattare di gruppi artigianali fortemente integrati con la base popolare
che servivano, poiché l’atto della costruzione della casa non era mai delegato, come avviene oggi, all’impresario e il ruolo del proprietario e della comunità di villaggio era sempre consistente durante tutta la fase di costruzione. La realizzazione di una nuova casa faceva parte strettamente della ritualità del villaggio, e i maestri impiegati nell’opera erano aiutati non solo dalla famiglia dei proprietari ma da tutti i vicini. Sono tramandati con nomi specifici in Auvergne il trasporto dei materiali a piè d’opera, detto bouade, l’impiego dei migliori buoi da tiro del paese e il sollevamento della carpenteria pesante detta liève. Allo stesso modo i maestri erano presenti nel villaggio durante l’epoca di alcuni lavori urgenti di fienagione e mietitura, e si univano ai contadini in queste operazioni lasciando il cantiere, come risulta da resoconti relativi al Nivernais e al Bourbonnais44. L’analogia, a volte molto stretta, tra gli apparecchi murari delle grandi opere religiose medioevali e la muratura della casa che protrae tale tecnica nel tempo, permette, anche per la Francia centrale, di ipotizzare una certa continuità tra le corporazioni di muratori medioevali e queste più modeste ma numerosissime compagnie itineranti, che allo stesso modo dei frères-mácons si tramandarono oralmente fino al xix secolo l’arte del costruire come segreto geloso. Gli elementi della costruzione in pietra particolarmente evidenziati sono come al solito i portali e le finestre; in secondo luogo, ma non dovunque, i cantonali delle case. È tipico di tutta la Francia centrale, dall’Auvergne alla Borgogna, l’abbinamento del portale con la finestra di illuminazione in corrispondenza dell’accesso alla salle commune, cuore della casa; la separazione tra porta e finestra è realizzata per lo più con un pilastro monolitico che sostiene l’architrave di entrambe le aperture che, più raramente, sono separate da un setto in muratura. Questa soluzione, molto evidente e ripetuta simbolicamente, sottolinea l’elemento centrale della casa e viene curato anche sotto il profilo formale con architravi e piedritti di dimensioni e decorazioni particolari o di contrasto cromatico, come risulta dalle illustrazioni. Spesso l’architrave porta la data di costruzione della casa, simboli religiosi e naturalistici incisi o a rilievo e, a volte, compare anche il nome della famiglia stessa. Questo simbolismo si ripropone anche nell’interno della casa, soprattutto sugli elementi del camino e del lavatoio. Il simbolismo della casa, che si riconnette anche ad altri più rari elementi – quali teste scolpite e inserite direttamente nella muratura e comignoli con elementi terminali antropomorfi o con riproduzioni di animali – si riallaccia al simbolismo che investe tutto il villaggio e l’ambiente rurale, per lo più evidenziato – nei punti più importanti – dalle croci di pietra o dai modesti calvari, quali soprattutto in Bretagne, che protraggono per tutta l’età barocca la forma scultorea di origine medioevale.
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capitolo quinto Il cuore dell’Europa e della Francia
territorio
2. Dolmen a Mané-Bras, Morbihan, Bretagna, Francia.
3. Il suggestivo borgo di Orches, nei pressi di Baubigny, dipartimento della Côte d’Or, Borgogna, Francia.
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capitolo quinto Il cuore dell’Europa e della Francia
territorio
4. Campagna attorno a Soulangy, Sarry, dipartimento della Yonne, Borgogna, Francia.
5. Il paesaggio tra Polignac e Puy-en-Velay, dipartimento dell’Alta Loira, Alvernia, Francia.
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capitolo quinto Il cuore dell’Europa e della Francia
comunità
6. L’abitato di Mont-Saint-Jean, dipartimento della Côte d’Or, Borgogna, Francia.
7. Il piccolo centro di Montréal, dipartimento della Yonne, Borgogna, Francia.
8. Uno scorcio caratteristico del borgo medievale di Digione in Borgogna, Francia.
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capitolo quinto Il cuore dell’Europa e della Francia
case
9. Dettaglio di un’abitazione a Mialet, Cantal, Alvernia, Francia.
10. Facciata a Orches, piccolo borgo nei pressi di Baubigny, Côte d’Or, Borgogna, Francia.
11. Ingresso di un’abitazione a Orches, Baubigny, Côte d’Or, Borgogna, Francia.
12. Abitazione rurale a Peyrabout, dipartimento della Creuse, Nuova Aquitania, Francia.
13. Complesso rurale in pietra a La Fraisse, Alta Loira, Alvernia, Francia.
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capitolo quinto Il cuore dell’Europa e della Francia
simboli
14. Un’abitazione di Villiers La Grange, particolare dell’incisione, Grimault, Yonne, Borgogna, Francia.
15. Niccchia scolpita sulla facciata di un edificio romanico a Noidan, Côte d’Or, Borgogna, Francia.
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17. Dettaglio della Cappella di Saint-Julien, La Fraisse, dipartimento dell’Alta Loira, Alvernia, Francia.
18. Portone di una casa rurale a Le Marazeil, Florac, Lozère, Occitania, Francia.
19. Portone di un’abitazione di Saint-Père, dipartimento della Yonne, Borgogna, Francia.
20. Crocifisso a Laniac, Siaugues-Sainte-Marie, dipartimento dell’Alta Loira, Alvernia, Francia.
16. Dettaglio di un edificio romanico a Rognac, Alta Loira, Alvernia, Francia.
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La regione degli scambi
Savoia, Delfinato, Provenza, Corsica, Ponente ligure Dulio Citi
1. Introduzione
Il giogo alpino, anziché spaccare in due, in direzione nordsud, l’area qui considerata, ne costituisce invece il riferimento costante sia per le valli orientali che scendono lungo il corso delle due Dore, del Po e dello Stura sia per quelle che raggiungono il lungo solco trasversale del Rodano attraverso i più tortuosi corsi dell’Arc, della Duranca e del Verdon. È apparso perciò inevitabile riunire in questo capitolo le regioni storiche francesi della Savoia, del Delfinato, della Provenza e della Contea di Nizza assieme alla Val d’Aosta, al Piemonte e alla Liguria occidentale. L’affermazione di quelle particolarità regionali identificabili all’interno della dialettica tra stabilità delle popolazioni montane e le comunicazioni come fatto di unità e di differenziazione
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ome viene affermato varie volte nella trattazione di altri capitoli, il termine confine, nella dinamica della realtà insediativa europea, non è sinonimo di separazione tra aree culturali differenziate: a maggior ragione nel caso qui considerato – e l’osservazione potrebbe estendersi a tutta la catena alpina – la presenza dell’alta montagna non ha costituito affatto una barriera insormontabile ma è servita da “culla a una comune civiltà”1.
1. Rovine delle mura medievali del villaggio di Oppède-le-Vieux, Luberon, Provenza, Francia.
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capitolo sesto La regione degli scambi appare qui fortemente accentuata. L’esperienza che vi si stabilisce dal pieno medioevo in avanti è plasmata dall’intensità delle correnti migratorie conseguenti alle transumanze e dall’innesto, in seno a questi fenomeni, di arterie fondamentali a garantire i rapporti fra Occidente e Oriente attraverso i passi del Gran San Bernardo, del Moncenisio e del Monginevro e a controllare capillarmente gli scambi per mezzo di una fitta per quanto puntiforme rete di barriere doganali disseminate lungo gli accessi ai valichi più meridionali, dal Colle dell’Agnello al Col de Larche e all’importantissimo Colle di Tenda sulla Strata Salis proveniente da Nizza. Per i pellegrini provenienti dal nord della Francia o dalla Germania era giocoforza intraprendere la strada per i valichi del Gran San Bernardo e del Moncenisio, come attestano i numerosi viaggi la cui cronaca è stata tramandata fino a oggi2. Tra i personaggi illustri che valicarono il Moncenisio, la cui prima struttura ospitaliera edificata sulla riva del lago omonimo sembra risalga alla metà del ix secolo, è da ricordare il re di Francia Filippo Augusto mentre ritorna, nel 1191, dalla terza Crociata3. Attraverso lo stesso valico transitano, il 14 aprile 1267, i monaci provenienti dalle abbazie e dai priorati italiani dipendenti dalla Chaise-Dieu, diretti verso la Casa madre per il Capitolo generale che si teneva, in quell’epoca, il giorno della festa del fondatore San Roberto di Turlande (24 aprile): « Chaudement vêtus, tous quittèrent l’abbaye a l’aube du 14 avril pour gagner le petit hameau de Montcenis, par le vallon de la Cenischia, plus longeant le lac en suivant un sentier à peine dégagé de la neige, ils arrivèrent au col du Mont Cenis à 2000 mètre d’altitude. C’e tait un des grandes passages alpins, bien tenu en main par les contes de Savoie qu’ils s’etaient rendu maîtres, d’un côté de la Maurienne, sous couleur d’y protéger l’eglise, et de l’autre du val de Suse »4. Il medesimo valico è consigliato dalle guide per i pellegrini, come l’ “iter de Londonio in Terram Sanctam” di Matthew Paris, redatta nel 1253, e dalla più completa guida medioevale per Roma, gli “Annales Stadenses auctore Alberto”, compilata tra il 1240 e il 1256, dove vengono indicati entrambi i valichi del Gran San Bernardo e del Moncenisio per attraversare la catena alpina e scendere in Italia5. Se le vie di terra erano sicuramente privilegiate, non si devono sottovalutare le possibilità di rapporti via mare tra Provenza e Liguria, le cui rotte erano state descritte già nel xii secolo dall’arabo Al-Idrisi che indicò come principali approdi Marsiglia, Hyères, Albenga, Savona e Genova6. Ma se nella zona appenninica, pur in una dialettica di continue trasformazioni collegate all’avvicendarsi degli avvenimenti storici, è riconoscibile una tradizione culturale che, iniziata nel vii-viii secolo, non ha subito interruzioni, le plaghe al di qua e al di là delle Alpi occidentali vengono, sul finire del primo millennio, letteralmente paralizzate per quasi un secolo. Forse non è stato sufficientemente soppesato il trauma subito dalle popolazioni rivierasche e dell’interno, tra il ix e il x secolo, da parte degli aggressori arabi. L’imperversare delle
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scorrerie sostenute in Provenza dai pravi christiani7 e continuamente alimentate dai rinforzi che giungevano clandestinamente dal califfato di Cordova, hanno pressoché disgregato quell’organizzazione sociale tendenzialmente unitaria che era stata faticosamente intessuta sotto il Sacro Romano Impero. Il territorio compreso tra la costa da Albenga ad Arles, il Rodano, l’Isère, le Alpi fino al Cervino e tutto il Piemonte meridionale è stato oggetto di una penetrazione capillare avente, in ultima analisi, l’unico scopo di distruggere a tappeto ogni emergenza insediativa a partire da quelle ecclesiastiche. La tecnica di guerriglia posta in atto dai Saraceni colpisce innanzitutto i più piccoli villaggi, recando un danno enorme al substrato sociale del mondo alpino e mediterraneo, già carico di tradizione pure se ancora in formazione. Le precedenti incursioni dei Burgundi, dei Longobardi, dei Sassoni, degli Ungari e la prima fase araba che si vuole compresa tra il 725 e il 739, avevano già martoriato abbastanza questo territorio8. Anche i passi alpini che erano stati bloccati dai Longobardi alla fine del vi secolo, costringendo i romei a intraprendere la via marittima anziché arrischiarsi nella traversata delle montagne, sono presidiati dai musulmani per più di cinquant’anni9. Alla fine del x secolo troviamo quindi un territorio letteralmente semiabbandonato, con tradizioni culturali violentemente interrotte: dal 905 al 923 c’è un vuoto nei cartularia dei monasteri di San Vittore e di Sant’Onorato di Lerins così come, nei primi decenni dello stesso secolo, si interrompono gli elenchi dei vescovi di Embrun e di altre diocesi a oriente di Arles10. Approfittando della desolazione che regnava su questi territori si imposero forme aggregative che nulla avevano in comune con quelle precedenti alle incursioni e che, anticipando nettamente il generale fenomeno affermatosi attorno al xii secolo, costituirono i presupposti delle nuove autonomie comunali. Le antiche contee carolinge furono frazionate in marche, i vescovadi ebbero il sopravvento sui monasteri, le precedenti abbazie vennero ristrutturate e tante altre ne nacquero non più per opera dei benedettini bensì dei cluniacensi e dei cistercensi che, come è noto, ebbero una minore incidenza sulla cultura dei luoghi e sulla vita delle comunità rurali. Le popolazioni, rimaste praticamente senza una guida e senza quell’aiuto sicuro che era stato garantito loro dalle famiglie monastiche altomedioevali, si organizzarono come meglio poterono dando luogo a fenomeni insediativi con caratteri spiccatamente locali che perdurarono per parecchi secoli e che in molte aree, come in quella occitana, possono essere riconosciute ancora oggi11.
2. Le trasformazioni del territorio Per le caratteristiche orografiche che contraddistinguono le regioni qui esaminate, prevalentemente dominate dai più alti massicci montuosi europei, e per le ragioni esposte precedentemente, la configurazione del paesaggio appare estre-
mamente diversificata poiché a zone dove sono evidenti precise modalità di trasformazione del suolo si alternano vaste aree non popolate, dove il complesso degli elementi naturali sembra non essere mai stato violato da alcuno. Non si vuole alludere soltanto ai contrafforti rocciosi dei rilievi, che comunque occupano una superficie rilevante, ma anche ai profondi valloni, deserti e impraticabili, che troviamo ad esempio lungo i corsi del Var e della Vesubie, oppure alle estese foreste alpine rimaste incolumi dall’opera di dissodamento sia per l’elevata altitudine che per la loro potenzialità a fornire legname. Sembrerebbe per questo piuttosto chiaro che, nelle sub-regioni a vocazione precipuamente pastorale come Savoia, Delfinato e il versante italiano delle Alpi occidentali, l’opera di dissodamento e l’impianto di colture agricole, se pure promosso dai primi tempi dello sviluppo benedettino, abbia ben presto lasciato il posto a una economia quasi esclusivamente basata sull’allevamento del bestiame, maggiormente redditizia specie se condotta su terreni impervi e resi inospitali dal grande abbandono del ix e x secolo12. Il quadro per ciò che concerne il versante francese è verosimilmente sintetizzato da Bloch quando afferma che «dopo la fine dell’impero carolingio, le campagne francesi ci appaiono decisamente spopolate, per vasti spazi vuote»13. La rinascita attorno al Mille vide prosperare un gran numero di abbazie accanto a un rafforzamento della piccola proprietà laica che influì notevolmente sui caratteri del paesaggio agrario. Cluniacensi, cistercensi e certosini, l’Ordine di Chalais e gli Agostiniani ereditano le precedenti tenute monastiche notevolmente accresciute dalle donazioni, mentre la politica dei detentori dei pubblici poteri è protesa all’investitura di vassalli ai quali sono assegnati, come premio per aver lottato contro gli invasori, piccoli feudi derivanti dal frazionamento delle proprietà curtensi, dei possedimenti vescovili abbandonati e delle terre da tempo disabitate. I nuovi monaci disboscano, irrigano, promuovono le attività artigianali, forniscono di nuovi servizi ospitalieri le principali arterie di collegamento in un clima sociale che si sta avvicinando a una concezione del territorio molto circoscritta e gravitante su poli e ambiti più limitati quali la parrocchia rurale, il borgo e, ultimamente, la città comunale. Si va facendo strada, dall’xi secolo in poi, una cultura ed una economia pedemontana risalente, a ovest, dalla valle del Rodano e, a est, dalla pianura padana, che si attesta sulla media e alta collina ma che non riesce o non vuole penetrare nelle vallate alpine se non per insinuazioni filiformi coincidenti con le strade di valico. Il contrasto nel paesaggio è palese: alle terre intensamente coltivate della bassa Provenza, della valle del Rodano, della collina valdostana, piemontese e ligure si contrappongono i pascoli della fascia alpina solo qua e là interrotti da minuscoli appezzamenti coltivi e spesso delimitati da estesi castagneti14. La secolare tradizione di lavoro ha abituato a intendere la montagna alpina come il luogo della vita pastorale per
eccellenza, poiché da sempre viene dato come scontato che le condizioni orografiche e climatiche siano state determinanti nel condizionare o favorire questo tipo di economia. Immediatamente dopo la cacciata dei Saraceni le terre erano tutte di stabulatori e di pastori15 così come è verosimile che l’opera delle nuove famiglie monastiche e gli interessi dei comuni in formazione si siano spostati, per le prime, verso la rioccupazione e la bonifica del suolo in plaghe magari desertiche particolarmente care ai cistercensi ma senza troppo spingersi all’interno delle valli, mentre, da parte dei secondi, l’attività artigianale ma soprattutto commerciale dei mercanti di Asti, Alba, Chieri, Vercelli, Novara e Torino abbia proiettato i traffici, oltre che su Genova, verso le fiere di Champagne e delle Fiandre. La montagna, quindi, nel pieno medioevo diventa solo un ostacolo da superare secondo precisi itinerari che, via via, si arricchiscono di servizi e infrastrutture che rendono meno disagevole a mercanti e pellegrini la traversata, così come si moltiplicano lungo i percorsi le stazioni di riscossione di gabelle e pedaggi16. Le popolazioni che, dopo la fuga dalle campagne, si erano rifugiate nelle profonde vallate e sulle pendici delle montagne, magari portando seco qualche capo di bestiame, prive di ogni attrezzatura e su terreni che solo grandi strutture come le abbazie altomedioevali avrebbero potuto permettersi di rendere praticabili alle colture, cercarono di sopravvivere pascolando greggi17. D’altra parte, solo a partire dal secolo xviii, a causa del tracollo dell’industria laniera e per l’accentuato incremento demografico, si estesero le coltivazioni di frumento, segale, orzo e, un poco più tardi, della patata18. L’utilizzazione delle risorse, fattore determinante nel consolidarsi del paesaggio storico, ha seguito uno schema altimetrico verticale corrispondente ad una ripartizione stagionale e spaziale del lavoro. Dal periodo della stabulazione, che generalmente si estende da dicembre ad aprile, il bestiame viene accompagnato a fondovalle o in pianura nel mese di giugno per poi risalire alle quote degli insediamenti permanenti in luglio e lungo le pendici in agosto, fino a raggiungere i più alti alpeggi nei mesi di agosto e settembre. Nei due mesi successivi segue il percorso inverso rispettando le stesse tappe tardo-primaverili, scendendo nuovamente a fondovalle per poi tornare nei paesi durante tutto l’inverno19. I segni dell’antropizzazione alpina sono individuabili nelle radure aperte all’interno della macchia boschiva, nei prati estesi sulle pendici, lungo i coni di deiezione e nei fondovalle dove, spesso, i foraggi da sfalcio vengono coltivati con sofisticati sistemi di irrigazione, normale o concimante, gestiti comunitariamente. Al di sopra dei 1900-2000 metri di altitudine, a seconda del grado di esposizione e della pendenza dei versanti, si estendono i pascoli estivi, dove le greggi o gli armenti sono affidati a pastori professionisti. Tra la zona sommitale a pascolo e quella inferiore a prato, si collocano, solitamente, gli alpeggi, verso cui vengono fatte confluire le acque sorgive e torrentizie.
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capitolo sesto La regione degli scambi Occorre comunque differenziare due tipi di alpeggio: quello cosiddetto della piccola montagna di proprietà di una singola famiglia, la quale, oltre alla gestione dello stesso, si occupa anche della lavorazione dei prodotti caseari, e quello della grande montagna, che viene invece utilizzato da gruppi di famiglie che godono del diritto di pascolo – in Savoia chiamato albergement – su territori comunali avuti in enfiteusi. Come tutte le forme di organizzazione comunitaria, gli alpeggi erano regolati da norme severe afferenti soprattutto alla data di salita (inalpage), alla composizione degli armenti per ciascun communier, ai turni di lavoro per la manutenzione delle strade (corvées, corvé, roide, ruide, rueide) e per la concimazione dei pascoli, e all’obbligo di costruire i ricoveri tutti raggruppati nello stesso luogo20. Nelle Alpi Marittime il regime dei pascoli era fondato sulle bandite, estensioni territoriali che potevano appartenere indifferentemente al Comune, al feudatario o ai privati, sulle quali gravavano le servitù di pascolo dal principio di ottobre alla fine di maggio: l’uso delle bandite veniva sorteggiato ogni anno. L’alpe era invece sorteggiata ogni tre o cinque anni e l’affittuario vi poteva condurre bestiame preso a soccida dalla metà di aprile o dal giorno di San Giovanni (24 giugno) al giorno di San Michele (29 settembre)21. A Bellino, nell’alta val Varaita, un regolamento del 23 maggio 1872 proibisce di pascolare in certi luoghi prima del 27 luglio “come è sempre stato da tempo immemorabile” e di condurre al pascolo più di un certo numero di animali. Gli statuti comunali di Garessio del 1278 regolano l’alpeggio del gregge “De ovibus ascendentibus ad alpes” e determinano l’epoca dei pascoli22. Ma l’allevamento alpino contribuì anche al consolidamento del paesaggio agrario della bassa collina e della pianura. Quasi tutte le zone agricole della Provenza, così ricche di frumento, di viti e di ulivi, favorite dal clima ma caratterizzate spesso da terreni aridi, debbono la loro fertilità alle transumanze, le migrazioni stagionali su lunghi percorsi che nulla avevano a che vedere con l’inalpage effettuato invece all’interno dello stesso territorio comunale. Attraverso il sistema delle vastieres avveniva una interessante integrazione tra il coltivatore e il pastore. Il contadino provenzale rendeva nuovamente fertili terre inaridite retribuendo i pastori che, allo scopo, facevano stabulare gli animali sui terreni da concimare23.
3. Il villaggio e la casa Il riassetto territoriale connesso al ristabilimento insediativo dopo le incursioni saracene, anche nei suoi parametri spaziali e costruttivi, avviene, sulle Alpi occidentali, sopra gli altipiani digradanti verso il Rodano, nelle propaggini collinari e nelle piane provenzali, nelle valli piemontesi, nell’entroterra e lungo la costa ligure occidentale, secondo modalità diverse ma con un medesimo denominatore che ha come punto di
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partenza cronologico l’xi secolo, e come scenario un territorio sconvolto e disorganizzato. Se l’anno mille segna perciò un limite “ante quem”, è anche vero che occorre inesorabilmente avvicinare a quest’epoca i modelli insediativi che hanno caratterizzato e che ancora qualificano gran parte del paesaggio storico del costruito abitativo. Nel nostro caso l’opera di ricostruzione doveva rispondere ad un fabbisogno abitativo enorme. Riesce perciò difficile immaginare dei passaggi evolutivi lenti e graduali, mentre appare confacente e verosimile riconoscere un assetto definitivo già nel suo porsi iniziale. In Provenza, regione dove era andato disgregandosi il sistema economico fondato sulla curtis, tipico dell’organizzazione politica e sociale dei regni carolingi dell’alto medioevo, il territorio da tempo abbandonato venne ripopolato anche dai cavalieri che avevano combattuto contro gli arabi al fianco del Conte Guglielmo, il quale li fece vassalli assegnando a ciascuno dei piccoli feudi, peraltro aspramente contesi, e in parte già occupati da avventurieri che accampavano diritti sugli stessi. Avvenimenti analoghi si verificarono anche nei territori orientali del Nizzardo e della Contea di Ventimiglia. In poco tempo i contrafforti collinari della bassa Provenza e dell’estrema Liguria occidentale vennero costellati da castra, edificati dai nuovi feudatari e dai loro vassalli, e all’interno di questi agglomerati nacquero ben presto “riunioni e leghe tra le famiglie o anche di uomini appartenenti a diverse famiglie stretti assieme da patti, per tutelare meglio e far progredire i loro interessi” che costituiscono il nucleo del comune rurale24. I comuni rurali medioevali, trasformatisi nel tempo in quei grandi agglomerati rurali definiti da Pitt-Rivers agro-towns, e paragonati ai vasti paesi agricoli dell’Italia centro-meridionale e dell’Andalusia, sono ancora oggi ampiamente riconoscibili in quella fascia ininterrotta – che per questo si deve considerare omogenea – compresa tra i dipartimenti delle Bouches-duRhône, del Var, delle Alpes-Maritimes e dell’attuale provincia di Imperia, con riscontri anche nelle aree còrse della Casinca e della Castagniccia. Emergenti ai bordi di un altopiano, sulla sommità di una collina, oppure arroccati sopra una protuberanza del pendio montagnoso, erano caratterizzati da una folta popolazione prevalentemente agricola e spesso dominati, nella zona sommitale, dall’antica dimora del signore o di quel che di essa rimane. Ci si riferisce ai provenzali La Cadière, Cotignac, Rougiers, Pourieres, Rians; a La Tour, Puget-Rostang, Tenda, Saorge nella Contea di Nizza; a Dolceacqua, Pigna, Castelvittorio, Triora, Montalto, Baiardo, Ceriana nelle valli liguri del Roja, del Nervia, dell’Argentina e dell’Armea; in Corsica, a Venzolasca, Campodonico e Cervione. A metà strada tra il villaggio e la città, del primo conservano l’economia rurale e le tradizioni comunitarie a essa legate, quali orti e campi di uso comune, forme di lavoro collettive nell’epoca del dopo-raccolto svolte su aie situate ai margini dell’abitato spesso di proprietà del signore o indivise tra più
famiglie; processioni religiose primaverili ed estive solitamente comprese tra il 1° marzo (San Giuseppe) e il 29 settembre (San Michele). Alla città si avvicinano per le dimensioni dell’abitato, per la dotazione di servizi pubblici e per la presenza di attività estranee all’agricoltura, se pure a essa connesse, come l’artigianato e il commercio. I numerosi esempi di botteghe, dalla inconfondibile forma che unisce in un unico vano porta e finestra, che si affacciano di quando in quando sulle vie principali, sono la testimonianza più diretta di queste attività collaterali. Sotto l’Ancien Régime conducono vita autonoma, regolata da precise norme comunali che vanno dalla sorveglianza sui pesi e sulle misure alla tutela dei pozzi e delle fontane, all’organizzazione delle processioni e dei funerali, alla manutenzione delle torri campanarie, alla regolamentazione dei sistemi di irrigazione, a rendere sicura la produzione del pane nei forni comuni e, in tempi più recenti, al garantire i servizi sanitari e l’istruzione. Alla città, ancora, si avvicinano per la divisione dell’abitato in quartieri che costituiscono dei veri e propri spazi di vicinato dove la solidarietà emerge soprattutto nel mondo femminile attraverso la mutua sorveglianza dei bambini, nei lavori domestici e nelle veglie serali. L’identificazione del quartiere, che può assumere il nome di un Santo, oppure da edifici di uso pubblico quali la fontana, il lavatoio, il pozzo con la veglia, è frequente e denota la viva socialità che, istituzionalmente, si è espressa in un proliferare di confraternite: nel 1783 se ne contavano 12 a Bergemon, 23 a La Cadière e 11 a La Vallette nel 179125. Nella seconda metà del sec. xviii pare che gli oratori esistenti nelle diocesi di Albenga e Ventimiglia fossero più di 60026. In questi grandi villaggi agricoli ciò che più colpisce è il numero dei piani delle case – mediamente di tre, spesso di quattro o cinque, ma a Dolceacqua arrivano fino a sei – e l’esiguità della superficie d’impianto che, a volte, non supera i 25 mq. La ristrettezza del lotto e il pendio hanno favorito l’apertura, al di sotto della residenza vera e propria, di due seminterrati sovrapposti adibiti a stalla o a cantina, il cui accesso può avvenire contemporaneamente tanto dall’interno, tramite una scala, quanto dall’esterno, approfittando delle differenze di quota del suolo sulle quali scorrono le due strade contrapposte. Alla sommità dei due o tre piani su cui si articola l’abitazione è frequente trovare un terrazzo coperto, talvolta con un fronte a forma di loggia, sopra cui vengono posti a seccare i prodotti agricoli ma che talvolta funziona anche da fienile. In tutti i casi, i caratteri tipologici preminenti dell’intero insediamento, contraddistinto da una estrema, quasi esasperata compattezza, danno all’insieme la parvenza di una struttura fortificata dove i fronti esterni delle case, che si svolgono senza soluzione di continuità, costituiscono l’apparecchio murario difensivo così come, protési a salvaguar-
dare l’incolumità della popolazione, sembrano i rari accessi facilmente controllabili e la rete labirintica del tessuto viario interno. Accanto ai comuni rurali sorgono, come filiazione, ma più probabilmente in contemporanea, piccoli insediamenti sparsi per le campagne, chiamati mas in Provenza, e che in Liguria specialmente, ma anche in alcune zone dell’alta Corsica, assumono stilemi tali da essere stati assimilati ad altri fatti insediativi presenti nelle regioni peninsulari e insulari italiane, e per questo classificati sotto il generico termine di architettura mediterranea27. Si tratta di minuscoli agglomerati estremamente compatti dove, a volte, neanche i percorsi interni demarcano il limite volumetrico tra pieni e vuoti, essendo quasi sempre aperti e sovrastati dal costruito. Predomina dappertutto il solaio a volta, che si pone in continuità con la muratura composta da pietrame legato con abbondante malta di calce, e dove la copertura piana ad altana ricopre le numerose e piccole apparecchiature prismatiche di varia altezza e dimensione che contengono residenza e rustici28. Più correttamente sono stati definiti da Scarin “costruzioni a fortilizio”29. Prodotti di una società di tipo patriarcale anche se contrassegnata talvolta da forme di patriziato rurale come a Calvisio vecchia, a Calice e a Magnone nel savonese; derivanti forse da processi evolutivi che mutarono l’assetto dell’originaria comunità di villaggio in seguito a privilegi conferiti a qualche singolo individuo, conservano l’aspetto di organizzazioni difensive strutturate in modo da poter sopportare anche lievi forme di assedio e congegnati distributivamente per permettere una agevole fuga a tutti i residenti. L’estrema continuità spaziale, infatti, che pone in comunicazione una con l’altra le residenze e, queste, con i pochi essenziali passaggi, più simili a camminamenti che a strade (un esempio superlativo a questo proposito è Torri, nei dintorni di Ventimiglia); la percorribilità dell’intero paese anche a livello delle coperture comunicanti fra loro tramite scale accessorie che compensano le differenze di quota e che, per la loro forma piana, danno la possibilità di raccogliere l’acqua piovana in preziose cisterne; ma anzitutto la totale incombustibilità dei materiali impiegati – il legno è pressoché assente – assimilano questi paesi, che sembrano nati in un clima di incombente pericolo e di paura, a molti motivi dell’architettura castellana antica, presente soprattutto nel Finalese e che trova in Castelvecchio di Rocca Barbena un esempio significativo per le affinità anche formali che lo legano ai villaggi qui sopra descritti. È da supporre di contro che le aree occidentali della Savoia e del Delfinato, piane e collinari, dove i villaggi raggruppati tendono a scomparire, abbiano conservato forme di insediamento sparso perché direttamente interessate, in passato, dalla colonizzazione dei cistercensi e dei certosini i quali delegavano ai conversi, coadiuvati da salariati e diretti da un grangiarius, la conduzione delle grandi fattorie isolate, sostegno economico delle abbazie30.
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capitolo sesto La regione degli scambi Nel Vercors e nel Bochaîne, in particolare, i grandi edifici in pietra sono sormontati da imponenti opere di carpenteria, segni evidenti della prolungata utilizzazione e della tradizionale lavorazione del legname proveniente dalle vaste foreste prealpine di cui i monaci della Grande-Chartreuse erano, a un tempo, dispensatori e custodi. Anche il tipo di casa più caratterizzato, sebbene non ricorrente in tutto il Delfinato, ma definito dauphinois o cartusien e che si è voluto far derivare dalle fabbriche del monastero di Saint-Pierre-de-Chartreuse31, potrebbe aver avuto origine non tanto dalla copia degli edifici monastici del complesso principale quanto dall’appropriazione di un tipo già esistente nel territorio, comparso assieme alle prime opere di valorizzazione agraria compiute dai certosini e che venne riproposto e ripetuto sia negli edifici rurali che in quelli a carattere signorile e borghese. Si tratta di una casa la cui area di diffusione corrisponde a una economia prevalentemente pastorale e che, a differenza della maison-bloc diffusa nelle circostanti regioni della Savoia, del Vercors e dell’Oisans, non raccoglie sotto lo stesso tetto residenze e rustici, ma a tutti i servizi agricoli è destinato un altro edificio poco distante dall’abitazione. Come nel caso di La Carlinière, nel comune di SaintPierre- de-Chartreuse, la maison dauphinoise tipo presenta una pianta quadrangolare superiore ai 10 metri di lato, la copertura a quattro spioventi inclinati a 45° e un’articolazione in elevato, su due piani sottostanti a un vasto sottotetto. L’ingresso, al pianterreno, si apre su una grande sala comune pavimentata da grosse lastre di pietra, che comunica con la cantina-dispensa, con la cucina e, tramite una scala di legno, con il piano superiore diviso in quattro camere da letto disimpegnate da un corridoio centrale. Di dimensioni appena superiori nel lato maggiore, la stalla-granaio è distante una quindicina di metri dalla prima ed è occupata, al piano terra, per più di tre quarti dal fienile, mentre il bestiame è ricoverato nel rimanente vano lungo e stretto. Il piano superiore è adibito a granaio e alla stagionatura dei prodotti caseari. Il ripopolamento medioevale delle vallate alpine avvenne secondo modalità che ripresero, in parte, le precedenti forme di aggregazione per gruppi familiari, legati alle corti e ai mansi32. Dall’xi secolo in poi, con l’intensificarsi degli scambi commerciali, alle signorie locali e ai nuovi comuni premeva anzitutto la transitabilità delle strade di valico. Le stesse abbazie, con l’incremento del flusso dei pellegrini, concentrarono l’azione in opere caritative disseminate lungo queste direttrici, mentre traevano sostentamento dai numerosi priorati e dipendenze situati nelle zone più fertili della collina e della pianura o presso i centri mercantili che rapidamente si stavano formando lungo la fascia pedemontana. La società alpina si riorganizza con fatica ma con estrema libertà: fa memoria degli antichi valori germanici arricchiti dal cristianesimo, e pone le basi materiali del proprio ethos nella struttura del villaggio.
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Come altrove, anche qui si vuole indicare con il termine di villaggio l’individuazione di un apparato insediativo formato da un abitato a maglie larghe oppure accentrato che si rapporta, nello stesso territorio, con altri nuclei simili all’interno di un orizzonte di riferimenti, costituiti normalmente da luoghi dove convergono e si sovrappongono gli interessi delle singole comunità. Non si vuole perciò far derivare il villaggio dalla villa piuttosto che dal burgus, né si intende entrare nel dibattito, peraltro minuziosamente già investigato, acceso sulla contrapposizione o sulla sovrapposizione dei due termini33. Si può osservare che sia le case dei nuclei settentrionali della Savoia, poche e distanziate tra loro, come quelle del sud, strettamente raggruppate, si stabiliscono attorno a degli spazi centrali, le piazze, possiedono servizi ed edifici comuni, fontane, abbeveratoi, forni e cappelle, e che gli interessi delle comunità insediate convergono verso un unico centro capoluogo (il bourg)34. Analoghe situazioni sono leggibili in Val d’Aosta, nel Canavese e pressoché in tutte le valli piemontesi dove, alla dispersione sul territorio di nuclei plurifamiliari, corrisponde la congregatio domorum di ogni singolo insediamento35.
4. La dimensione simbolica e costruttiva Gli assunti simbolici e le modalità costruttive sono variamente da collegare ad alcuni parametri fondamentali inidentificabili, soprattutto nelle zone alpine, nella coesione del costruito, riflesso dello spirito aggregativo delle comunità, siano esse state originariamente asservite oppure maturate attraverso processi dove maggiormente concessa fu la libertà di azione e di sviluppo sociale. All’interno poi di questo livello, che comunque abbraccia la globalità di ogni esperienza, giocano ruoli relativamente determinanti: la coabitazione tra uomini e animali, l’utilizzazione promiscua del legno e della pietra e le esigenze di ordine difensivo. In particolare, i primi due aspetti appaiono strettamente connessi nelle fasce elevate, o comunque in quelle dove è prevalsa la vita pastorale. Le manifestazioni frequenti e abbondanti che sono giunte dalla protostoria – val Fontanalba, Valuretta, Valmasca, Col Sabbione nelle Alpi Marittine; le Thil-Maurienne in Savoia; Usseglio nella valle Lanzo; valle Gravio in Piemonte; Ciappo del Sale nel Finalese, ecc. – sono testimonianza di una sacralità del rapporto uomo-natura che ha contraddistinto fin dai tempi più antichi le popolazioni alpine, e che si è mantenuta fino a epoche molto recenti nella immensa produzione di oggetti artigianali in legno variamente istoriati da una molteplicità di raffigurazioni emblematiche. Come è stato osservato, i segni impressi con la lama tagliente sui manufatti d’uso nell’intenzione di “far fiorire il legno” – fiourajar lou bosq nelle aree occitane – rappresentano forme geometriche e si rifanno sempre all’idea di mobilità o di movimento.
L’ossessionante riproposizione di temi circolari quali la rosa a cinque, sei, sette punte, il vortice, la spirale, ecc., sembrano suggerire una radicata concezione della vita intesa in continuo movimento e proiettata verso un destino costantemente presente e atteso: “La linea retta non sempre è il segno dell’orizzonte ma può esser situazione d’attesa”36. Il legame con gli animali è altrettanto evidente se la maggior parte dei manufatti d’uso erano destinati a essi – soprattutto i collari – o alla lavorazione dei loro prodotti, gli stampi per il burro. Il nomadismo ancestrale dell’uomo pastore, che trascorre la vita a seguire gli armenti e che esprime il proprio essere attraverso la carica simbolica impressa su degli oggetti di ridotte dimensioni, trasportabili e modellati con il semplice ausilio delle mani e della lama di un coltello, si riflette sulla scarsità di elementi simbolici propri della casa, così frequenti invece in quelle regioni dove l’agricoltura prevalse sulla pastorizia. La coltivazione della terra, specie là dove la bonifica è stata raggiunta a prezzo di secolari sacrifici, ha coinciso con una obbligata stabilità delle popolazioni e ha corrisposto, solitamente, a una considerazione e a un decoro maggiori per la casa, trasmessi anche con motivi simbolici. La precarietà della residenza alpina è riscontrabile soprattutto negli alpeggi, costruiti poveramente e senza concedere nulla al superfluo, contrariamente alle analoghe strutture dell’Appennino ligure-emiliano, dove il costruito per le sedi stagionali non ha niente da invidiare, per accuratezza di esecuzione, a quelle permanenti. Nelle Alpi occidentali, solo nei periodi in cui è stata riconosciuta una spiccata tendenza a forme di stabilità insediative, verso la fine del medioevo e durante il Settecento, si assiste a un accrescimento del valore della residenza stabile espresso simbolicamente. Si tratta, però, di una simbologia che non è specchio di quegli antichi rituali magico-religiosi che accompagnavano l’edificazione della casa in pietra medioevale, ma rappresentativa del rango sociale della famiglia, della sua ricchezza oppure dell’abilità con cui certe innovazioni tecnologiche e funzionali venivano messe a punto dai costruttori. La sacralità che sprigiona dalla casa di pietra cede il posto al più freddo simbolismo tipologico di case costruite con pietre, sulle cui pareti diventa necessario, quando si vuole esprimere la propria religiosità, far dipingere figure di Madonne e Santi. È infatti stato osservato che tra il xvii e il xviii secolo l’architettura alpina abbandona le forme tradizionali tardomedioevali e va diversificandosi di zona in zona secondo schemi e tipi particolari37. Non è nemmeno da sottovalutare il fatto che proprio in questi periodi si assista, in alcune regioni, a un notevole sviluppo di edifici in pietra che sostituirono preesistenze in legno, in seguito alla proibizione di utilizzare questo materiale, diventato troppo prezioso, avvenuta nel 1727. La cosiddetta casa-chalet si impone per il possente volume quadrangolare, articolato su tre piani che contengono rispettivamente stalla, cucina e cantina, residenza con ballatoi in legno aggettanti sul fronte principale esposto a sud e fienile con balcone-essiccatoio sovrastato dallo sporto del tetto.
La casa a pilastri presenta sulla facciata elementi portanti in muratura, tondi o quadrati, la cui funzione consiste esclusivamente nel sostenere la sporgenza protettrice delle due falde del tetto e le logge o i balconi, ai due piani elevati. Infine la casa può essere dotata sulla facciata di archi e logge in muratura senza balconate in legno, con tre ordini di arcate oppure con due di archi e uno di pilastri all’ultimo piano. I tre tipi si ramificano in una infinità di varianti e conservano a volte evidenti tracce di manufatti precedenti, come a Co’ de Cimuti – Co’ de Simunt – in Val Mala. Esemplare per raggruppare tutti e tre i tipi, questo piccolo ma monumentale insediamento che sembrerebbe essere stato un centro ospitaliero dei Cavalieri di Malta38 contiene, all’interno del passaggio centrale coperto, una teoria di elementi tra i più rappresentativi di quell’architettura di soglia che costituisce uno dei fili conduttori di questo lavoro. Nella Contea di Nizza, il borgo di Valdeblore, vicino alla chiesa romanica di Saint-Dalmas, già priorato fondato forse in epoca carolingia dai monaci di Pedona39, conserva, meglio ancora dell’esempio precedente, portali in pietra di tutti i tipi: lunettati, arcuati, con o senza mensole reggitrave, presenti anche in una stupenda casa dotata di due bifore al primo piano. L’aspetto simbolico, sottolineato dal colore nerastro che ha assunto la pietra nel tempo, è altresì confermato da rose scolpite a bassorilievo sugli stipiti, da incisioni – croci ad ancora –, da alcuni esemplari di portali gemini e da alcuni tratti delle tessiture murarie realizzate a bugnato. La qualità dell’intero complesso è resa preziosa anche dalla rarità dell’esempio, che appare unico in una zona dove compare, in un ambiente ormai decontestualizzato, solo qualche sporadica traccia di manufatti litici pregiati.
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capitolo sesto La regione degli scambi
territorio
2. Il borgo di Brantes, Vaucluse, Provenza, Francia.
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capitolo sesto La regione degli scambi
territorio
3. Rovine delle mura medievali del villaggio di Oppède-le-Vieux, Luberon, Provenza, Francia.
4. Abitazione in pietra a Maubec, Luberon, Vaucluse, Provenza
5. La cittĂ fortificata di Aigues-Mortes, dipartimento del Gard, Occitania, Francia.
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capitolo sesto La regione degli scambi
comunità
6. Uno scorcio del villaggio di Oppède-le-Vieux, Luberon, Provenza, Francia.
7. Abitazione in pietra Oppède-le-Vieux, Luberon, Provenza, Francia.
8. Il villaggio medievale di Oppède-le-Vieux, Luberon, Provenza, Francia.
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9. Complesso abitativo a Savoillan, Vaucluse, Provenza, Francia.
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capitolo sesto La regione degli scambi
comunità
10. Rovine dell’abitato di Oppède Le Vieux, Luberon, Provenza, Francia.
11. Gruppo di abitazioni in pietra a Savoillan, Vaucluse, Provenza, Francia.
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12. Dettaglio del borgo di Gordes, Vaucluse, Provenza, Francia.
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capitolo sesto La regione degli scambi
case
13. Struttura in pietra a Bonnieux, Vaucluse, Provenza, Francia.
14. Abitazione rurale nei dintorni di Gordes, Vaucluse, Provenza, Francia.
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15. Complesso in pietra a Oppède Le Vieux, Luberon, Provenza, Francia.
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capitolo sesto La regione degli scambi
simboli
16. Particolare di un muro ad Aigues-Mortes, dipartimento del Gard, Occitania, Francia.
17. Chiesa di Notre-Dame-d’Alydon, Oppède Le Vieux, Luberon, Provenza, Francia.
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Le vie appenniniche verso Roma Levante ligure, Emilia, Toscana, Lazio Duilio Citi
1. Introduzione
Le aree interessate, perciò, sono comprese nelle zone appenniniche centro-settentrionali, ma dell’arco ligure viene considerata solo la parte nord-orientale e il suo versante emiliano; si collocano, invece su tutta la dorsale tosco-romagnola e altomarchigiana, ma si esclude quella umbra, mentre, a meridione, si estendono all’Alto Lazio, regione in cui venivano a confluire, provenienti da Siena e da Orvieto, tutti i principali percorsi per Roma, attraverso i nodi fondamentali di Bolsena e soprattutto, di Viterbo. Se i più aspri contrafforti appenninici erano stati aggirati ed evitati dalle principali arterie consolari romane – Flaminia e Aurelia – sia per le insidie che celava il territorio montano, sede di popolazioni ostili, sia per l’orografia accidentata che rendeva difficile e impossibile la costruzione di
L’
esigenza di sviluppare, in questo capitolo, la trattazione di zone della penisola italiana caratterizzata da così forti componenti storiche spesso da emergere – in realtà solo apparentemente – come estremamente diversificate fra loro, e di operare scelte che potrebbero sembrare pesantemente selettive nei riguardi delle usuali ripartizioni geografiche e amministrative, è dovuta al fatto che questo territorio, così come si è ritenuto di doverlo raggruppare, è stato la sede dei più importanti tracciati stradali dall’antichità ai nostri giorni.
1. Rovine delle mura medievali del borgo di Cassagna, Ne, entroterra del Tigullio, Liguria.
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capitolo settimo Le vie appenniniche verso Roma strade carrabili lastricate, in seguito, con la costituzione del longobardo Regno italico, l’attraversamento dell’Appennino dovette essere attuato attraverso la direttrice Parma-Lucca, per il passo di Monte Bardone (oggi Cisa) poiché il litorale tirrenico e i passi orientali erano ancora controllati dalle truppe di Bisanzio1. Da questo momento la permeabilità del giogo montano diventa sempre più una realtà poiché dapprima i Carolingi consolidano il tracciato inaugurato dai loro predecessori e antagonisti, che da allora prenderà il nome di Strada Francigena e, successivamente, cominciano ad aumentare le frequenze anche attraverso i valichi da Bologna a Firenze e dal forlivese alla Toscana e all’Umbria. Come è già stato accennato da diversi autori, un così grande afflusso di persone di ogni ceto e rango sociale, provenienti praticamente da ogni regione dell’Occidente, anche da quelle più lontane come le terre islandesi, ha sicuramente giocato un ruolo considerevole nell’affermazione e nella costituzione del substrato culturale delle aree attraversate, non soltanto per gli apporti diretti ma, per quanto attiene la cultura architettonico-insediativa, per gli influssi determinati dalle figurazioni costruttive rappresentate dalla miriade di strutture di servizio quali pievi, cappelle, oratori, ospitali, xenodochi, canoniche, magioni, scuderie, taverne, ecc., disseminate lungo questa “moltitudine di piccoli canali” che è il modo più verosimile, come è stato più volte riconosciuto, di immaginare la strada medioevale2. A un sistema così complesso di scambi e rapporti culturali si contrappone la presenza nel territorio in esame, a partire ancora dalla dominazione longobarda, delle quattro grandi abbazie regie di Bobbio, Nonantola, Berceto e San Salvatore sul Monte Amiata, le quali, attraverso l’opera di bonifica sulle loro vastissime terre, danno forma ai primi e unici centri di coltura in ambiente montano, emanazione del più ampio crogiuolo culturale rappresentato dall’abbazia madre3. Bobbio, in special modo, per le particolari origini dei suoi primi abati irlandesi, si inserisce senza difficoltà nella tradizione celtica di cui doveva esistere, sulla montagna ligure-piacentina, forse qualcosa di più che qualche tenue bagliore: essa, assieme a Nonantola, ebbe “il compito di elevazione delle plebi rurali mediante una saggia amministrazione e una generosa assistenza agli indigeni”4. Altro fattore rilevante è la presenza dei grandi insediamenti urbani attestati pressoché alle pendici delle zone montuose che stiamo trattando. Le capitali della cultura romanica si insediano e si sviluppano a nord, non tanto sul principale corso d’acqua che attraversa la depressione padana, ma piuttosto nei pressi dei suoi affluenti di destra, in localizzazioni geografiche molto vicine alle propaggini appenniniche: anche Piacenza, che invece è bagnata dal Po, sorge nella posizione dove il fiume scorre più vicino all’Appennino. Se si eccettuano Genova e Pisa, i cui interessi graviteranno presto solo sul mare, a meridione si riscontra una situazione pressoché analoga, con Lucca e Pistoia attestate
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contro le immediate colline, mentre Firenze può usufruire dell’acqua dell’Arno proprio in quel punto dove la valle si apre in una piccola piana chiusa da una parte dai monti del Chianti, e dall’altra dal bacino del Mugello. In basso, i rilievi addolciti e spesso lambiti da fondovalle frequentemente pianeggianti permettono a Siena, Arezzo, Orvieto e Viterbo una modalità di insediamenti più sparsi e sovrapposti ai principali gangli posti lungo le strade per Roma.
2. Le trasformazioni del territorio Il territorio in esame si identifica per buona parte con l’Appennino centro-settentrionale e con le zone montagnose e collinari digradanti verso la Toscana e l’Alto Lazio. Più precisamente lo possiamo considerare compreso a occidente dai bacini imbriferi del Tidone e della Trebbia; a nord dalle pendici montuose che affondano nel trasversale lembo meridionale della pianura padana e dalle depressioni lungo la riviera adriatica romagnola e marchigiana. A est può essere scelto come confine il corso del Metauro e le propaggini meridionali gravitanti attorno al monte Fumaiolo; da queste, piegando decisamente verso ovest, il versante occidentale dell’alta valle dell’Arno, fino ad Arezzo e tutta la val di Chiana con la sua confluenza, nei pressi di Orvieto, con il Tevere. Si segue poi il corso di quest’ultimo fin quasi a Roma, racchiudendo gran parte della zona dei grandi laghi vulcanici delimitata, in basso, dalle brevi e poco accentuate catene dei Sabatini e dei Monti della Tolfa. In tutto il territorio in esame si alternano zone montane a zone di alta e media collina che hanno avuto influenza sulla forma e sulla costruttività delle abitazioni, poiché alla natura prevalentemente rocciosa delle fasce alte fanno riscontro, in collina, terreni prevalentemente molli e franosi, che spesso si trasformano in calanchi inabitali e privi di vegetazione. Non di meno è da sottovalutare il riscontrarsi, nell’ambiente montano, di una persistenza e una maggiore conservazione del tipo insediativo, così come si è affermato originariamente rispetto alle aree ad altimetria meno elevata più adatte “alla trasformazione, al rinnovamento e alla mescolanza delle proprie forme e all’insorgenza di nuove”5. In effetti, anche se la diffusione del fenomeno è stata generale, sono le fasce altimetricamente meno elevate, particolarmente gravitanti sulle grandi città, quelle che hanno subito trasformazioni radicali che hanno alterato, nel corso degli ultimi decenni, il paesaggio tradizionale al punto da non poterne ricostruire l’immagine storica se non solo attraverso documenti e testimonianze. L’esodo e il conseguente abbandono della montagna6 hanno corrisposto nella fascia sub-appeninica dell’Emilia, ad esempio, a processi di trasformazione agricola basati sulla utilizzazione di colture legate esclusivamente alla
zootecnia che hanno cancellato ogni preesistente forma di economia rurale basata sulla sussistenza; lo stesso dicasi per gli impianti a viticoltura specializzata in Toscana e nell’Oltrepò pavese, causa di profonde alterazioni rispetto alle policolture tradizionalmente praticate. Con modalità ben diverse era gestito il territorio dalle comunità storiche insediate dall’epoca preromana, organizzate nel primo medioevo dalle già ricordate abbazie longobarde, e presenti massicciamente su gran parte dell’Appennino fino a tutto il secolo scorso. Per esse l’adeguamento alle condizioni climatiche e l’adattamento alla orografia, così come l’utilizzazione attenta ed equilibrata delle risorse locali, hanno avuto come unica finalità la realizzazione di una presenza umana stabile, espressa in una globalità di esperienza di vita. Se si eccettuano quelle zone maggiormente toccate dai contratti mezzadrili, fin dagli inizi dell’epoca moderna, la struttura del villaggio, inteso non solo come unità abitativa ma anche economico-territoriale, con nucleo centrale residenziale composto da case e rustici intervallati da poderi ortivi, circondato dal castagneto e dalle terre comuni, e la piccola proprietà strettamente connessa alla famiglia di tipo patriarcale, formano le caratteristiche più marcate del paesaggio appenninico e sub-appenninico7. La non vasta ma sufficientemente esauriente bibliografia al riguardo e l’ingente numero di testimonianze, materialmente ancora presenti, offrono un quadro piuttosto preciso. Come si vedrà nel paragrafo successivo, il villaggio è riconosciuto come unità giuridico-istituzionale, dal pieno medioevo al xviii secolo, attraverso forme amministrative complesse che assumevano, a volte, dimensioni intervallive. Diverse sono le fasi dei grandi dissodamenti storici, anche se quella che ha avuto maggiori dimensioni, attorno all’xi-xii secolo, corrisponde alla nascita della comunità di villaggio. Dalla natura geologica del terreno sono dipese le varie forme di bonifica e di colonizzazione agricola. Laddove il sedime era roccioso e in pendio fu possibile attuare il sistema del terrazzamento, più sofisticato e laborioso ma certamente più adatto alla conservazione dei versanti acclivi, e maggiormente redditizio, rispetto ad altri sistemi, per il mantenimento dell’humus superficiale produttivo, attraverso un graduale e controllato smaltimento delle acque8. In questo senso è da demitizzare – senza nulla togliere allo straordinario spirito di sacrificio di quelle popolazioni – quella immagine caparbia e quasi schiavizzata, come è delineata in tutta la letteratura sull’argomento, del contadino ligure e toscano il quale, per rimanere attaccato alla sua terra, è costretto a strappare alla montagna, a costo di immani fatiche, lembo su lembo di terreno coltivabile. Allo stesso modo sono ideologicamente assunte da una immagine già moderna di sfruttamento razionalizzato del suolo le osservazioni dei viaggiatori illuministi, o le fredde stime dei funzionari governativi, che reputano poveri e
scarsamente produttivi gli acclivi terrazzati delle fasce più interne. Se la conformazione geologica si presenta prevalentemente argillosa e a debole declività – argille scagliose in Emilia, sabbiose in Toscana e miste a larghi strati tufacei disgregati nell’Alto Lazio – prevalgono altri sistemi, il più diffuso dei quali è quello a rittochino9. La mitezza del clima, anche nelle sacche continentali, e l’economia di sussistenza hanno favorito una gamma di coltivazioni ricca e variata su tutto il nostro territorio almeno fino agli 800 m di altitudine10. Incontrastati dominano il castagno, che attecchisce meglio sui terreni arenacei, elemento base di una alimentazione plurisecolare, e la vite, che a volte troviamo nascosta persino negli angoli più riparati dei villaggi d’alta quota. Accanto a queste, le colture più diffuse sono l’orzo, l’avena, la segale, il frumento, i legumi e la patata, introdotta in epoca moderna, e coltivazioni specifiche come la canapa e il gelso, che erano fiorentissime sull’Appennino emiliano nel xv secolo. Anche l’ulivo, curato nei terrazzamenti collinari meglio esposti del litorale ligure, della Toscana e del Lazio, era presente in Romagna, come albero da frutto, agli inizi del 140011. Alle quote superiori, elementi costitutivi del paesaggio sono i boschi e i pascoli, ed è su questi terreni che venivano esercitati i cosiddetti domini collettivi o usi civici consistenti nel godimento comunitario per soddisfare i bisogni immediati delle famiglie proprietarie quali il reperimento di legna da ardere (legnatico) o il pascolo delle greggi. In Liguria e in Emilia venivano e vengono ancora oggi indicati con il termine di comunaglie12; nelle Marche e nel Lazio con quello di comunanze13.
3. La comunità e gli insediamenti È ormai opinione diffusa tra molti autori che il ripopolamento della campagna italiana centro-settentrionale sia avvenuto, nell’alto medioevo, secondo modalità che ricalcarono le precedenti forme insediative sconvolte dalla colonizzazione romana, costrette a disgregarsi dai gruppi abitativi accentrati disposti sulle alture e a emigrare nei fondovalle o lungo i litorali. Le strade medioevali, come è stato osservato all’inizio del capitolo, abbandonarono il tracciato delle precedenti vie consolari favorendo, nelle plaghe montane attraversate, la formazione di nuovi villaggi che, tendenzialmente, presero a disporsi secondo costellazioni, specialmente se l’area territoriale era geograficamente ben configurata14. Questa forma insediativa antichissima che conserva al suo interno, in posizione pressoché baricentrica, l’edificio chiesastico, è stata definita comunemente pieve rurale, termine che indica non solo una unità amministrativa ecclesiastica, ma anche una vera e propria istituzione religiosa, civile, economica con una precisa identità territoriale e ambientale15.
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capitolo settimo Le vie appenniniche verso Roma La plebs e le univesitates dei capi famiglia acquisteranno una maggior autonomia attraverso svariate forme giuridiche quali i comuni di pieve, i comuni di valle, e in genere tutti quei comuni rurali sorti come confederazione di villaggi. Ma se nel primo medioevo il fenomeno della plebs rurale sembra diffuso ovunque, la nascita delle autonomie rurali di età comunale pare abbia potuto affermarsi solo in quei territori che erano beneficiari di terre regie, e cioè quelli di proprietà degli enti ecclesiastici, in particolar modo delle grandi abbazie16. Le nuove tecniche di coltivazione e la comparsa di nuovi contratti agrari imposti dalla ristrutturazione fondiaria operata dai comuni cittadini provocano, nella collina emiliana e toscana, la disgregazione dei nuclei accentrati e la dispersione disordinata nelle campagne di proprietari terrieri che inglobano forzatamente anche i piccoli proprietari preesistenti, costringendoli a risiedere al centro del podere e a sorvegliare e accudire i loro terreni. Nasce in questo periodo l’insediamento colonico di tipo mezzadrile, che in seguito si perfezionerà nel resedio rurale, definito come “un complesso articolato di spazi organizzati, attrezzature e ambienti nel quale la famiglia rurale concentra le proprie funzioni abitative e aperte delle attività lavorative”17. A partire dal xvi secolo, nel generale sviluppo edilizio in cui sono stati coinvolti praticamente tutti gli antichi nuclei, si assiste alla formazione di un nuovo modello dovuto all’espansione del latifondo anche nelle zone di alta collina, all’interno di quel vasto processo indicato con il termine di rifeudalizzazione. L’antico villaggio acquista perciò caratteri veri e propri di borgo e all’economia prevalentemente agricola di un tempo si aggiungono attività artigiane e mercantili18. Per questo si hanno casi di valli con un versante ancora cosparso di insediamenti fitti e minuscoli mentre sull’altro versante gli abitati risultano distanti e consistenti laddove il corso d’acqua principale segnava un confine19. Come per i sistemi di bonifica agricola, anche l’insediamento storico che, tendenzialmente, occupa i siti acclivi corrispondenti alla quota delle risorgive, subisce i condizionamenti imposti dai requisiti geologici. Molte delle valli romagnole hanno permesso l’edificazione soltanto nei fondovalle per la natura estremamente precaria dei pendii. Nella valle del Bidente, per esempio, si resta impressionati dalla estrema rarefazione della densità edilizia: popolano le alture solo rari e isolati edifici che tendono a scomparire del tutto lungo le convalli del Bidente di Corniolo e del Bidente di Ridracoli, dove il paesaggio montano risulta praticamente deserto. Se le vie appenniniche per Roma favorirono in un primo tempo il ripopolamento e la conservazione di abitati corrispondenti alla struttura della villa aperta, nei tempi successivi sono proprio questi itinerari la causa delle maggiori trasformazioni subite dall’antico sedime insediativo20. Del
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resto basti pensare che i centri nati al servizio delle strade, quali Lucca, San Gimignano, Siena, ecc., sono diventati in seguito potenti poli urbani la cui ricchezza non era certo acquisita dal transito dei pellegrini21. Altrettanto significativo è l’esempio di Grosseto, che pare si sia sviluppata attorno a una stazione ospitaliera dell’abbazia di San Salvatore sul monte Amiata. Il paesaggio del costruito rurale in pietra si è definitivamente configurato, lungo le fasce attraversate dai percorsi romei, attraverso sistemi di gestione del territorio che hanno dato luogo a popolosi borghi all’interno di vasti spazi agricoli semideserti, oppure a un abitato estremamente disperso composto da nuclei di ridotte dimensioni che si sono consolidati, normalmente, attorno a delle torri. Il primo caso è tipico della Lucchesia, del litorale toscano e dell’Alto Lazio, mentre il secondo è più largamente diffuso nella collina emiliana, in parte della Romagna e del Montefeltro; mentre in Toscana, come abbiamo già ricordato, lo sviluppo dei borghi è conseguente a fenomeni relativamente recenti, nel Lazio etrusco il carattere accentrato dell’habitat è riscontrabile già nel medioevo, per cause anche dovute a forti condizionamenti topografici22. Il frazionamento e la ristrettezza dell’abitato disperso non ha impedito ai residenti di realizzare spazi comuni per il lavoro e la convivenza, anche se difficilmente superano i confini del nucleo stesso: a più famiglie appartengono il pozzo, la fontana, l’abbeveratoio, il forno e, in alcuni casi, anche l’essiccatoio per le castagne (il metato). Forni e metati sono situati perciò all’esterno delle case, in appositi ambienti in muratura. Da rituali ugualmente comunitari sembrano derivare le forti sporgenze dei tetti protesi a formare un rudimentale portico, trasformato poi nel più evoluto balco che spesso viene ad assumere caratteristiche di vera e propria loggia. Ma ciò che lega tra loro i vari nuclei e questi al territorio è l’enorme quantità di maestà e di pilastri che tra il xvii e il xviii secolo vengono eretti nella campagna per custodire un’immagine sacra magari portata a casa dopo un pellegrinaggio, o esposta per grazia ricevuta, oppure per segnalare i confini della parrocchia o il percorso delle rogazioni. Vagamente assimilabili ai calvaires francesi o ai cruzeiros della Spagna nord-occidentale, “si tratta in ogni caso di oggetti lunghi e stretti, eretti su terreno (come la persona umana), anzi piantati nel terreno, quasi nascenti dalla terra e slanciati verso il cielo, che diventano punto di riferimento fissi, visibili dal territorio circostante: quello che a scala maggiore è la torre, o meglio il campanile, può esserlo a scala minore il pilastro della maestà”23. La distribuzione dei nuclei segue un ordine che tiene conto delle esigenze delle singole comunità le quali, pur vivendo vicino, hanno bisogno di campi e orti attorno, così come di vasti castagneti da frutto che le avvolgono secondo fasce continue. Una complessa maglia di percorsi si distacca dalla via maestra, sulla quale si eleva la chiesa, e va a raggiungere gli
abitati, li collega e, infittendosi ancora, scende nei terreni coltivati o sale verso le sedi dell’allevamento stagionale, si inoltra nei boschi e nei pascoli gestiti in comunità. L’impianto che ha dato origine all’insediamento è quasi sempre identificabile in una casa più grande, con qualche rustico annesso, che non emerge come le torri tosco-emiliane, ma tende a confondersi nella globalità del costruito tanto che, a volte, è leggibile solo con l’aiuto della rappresentazione planimetrica. Da una serie di confronti effettuati sulle proporzioni, le tecniche costruttive e le localizzazioni di queste fabbriche più antiche, sembra verosimile la deduzione che esse appartenessero a strutture direttamente connesse con la colonizzazione monastica che si irradiò, nelle aree nord-occidentali del nostro territorio, a partire dal cenobio bobbiese.
evolutosi attraverso una dinamica sempre più complessa della famiglia residente26. La presenza del capofamiglia, che non sempre è la persona più anziana ma può venire eletto dagli altri membri, chiamato generalmente capoccia, ma anche guida nel Pistoiese, nostromo nel Casentino e reggitore in Romagna, e le diverse mansioni della massaia, del bifolco, del buttero o del garzone, testimoniano un ethos familiare altamente qualificato27. Anche le torri-case vengono assediate da posteriori corpi edilizi, dando luogo a nuclei articolati, ovvero a veri e propri villaggi, in cui esse visibilmente emergono come i volumi originari del connettivo. Ci si riferisce particolarmente a quel tipo di torre- casa, privo di accessi al pian terreno, con porta al primo piano raggiungibile tramite una scala retrattile, formata da due o tre piani adibiti ad abitazione e a magazzino, con sottotetto usato per l’allevamento dei colombi o per la cattura dei rondoni. Fra le tante interpretazioni date a questo tipo edilizio sembra più convincente quella che ne sottolinea l’uso comunitario-agricolo, in condizioni sociali precarie, perché pare riferirsi anche alla sua funzione originaria28. La memoria dell’appartenenza da parte delle comunità a questa “piccola torre”, rifugio e scampo per sé e per le proprie cose, potrebbe essere l’originale forma di proprietà che, nel ’500, escludeva la torre “dalla divisione dei beni nei vari rami familiari, e la sua proprietà restava comune o divisa simbolicamente tra i capi-famiglia del casato”29. Analogamente si riscontrano, nell’entroterra del Tigullio, grandi case a pianta quadrata, con dimensioni che variano dagli otto ai dieci metri di lato, contro le quali sono stati addossati altri corpi edilizi di dimensioni minori30. Come per le torri, questi edifici di probabile origine monastica rappresentano verosimilmente i nuclei originari dell’insediamento. L’attaccamento della gente alle prime costruzioni in pietra e l’uso comunitario annesso – le grange benedettine erano infatti edifici chiusi dove si depositava il raccolto – è documentato, anche qui, dal ricordo di una casa della val Fontanabuona i cui proprietari possedevano simbolicamente solo uno spigolo ciascuno. Parte integrante della casa appare ovunque lo spazio esterno di pertinenza, che spesso determina anche l’assetto formale del costruito. Nella Liguria orientale e in alcune valli del piacentino, la casa si apre su piccole corti lastricate, racchiuse da muri o da altri edifici, chiamate piazze: sopra di esse è facile che si affacci il seccareccio, piccola costruzione annessa alla casa ed adibita ad essiccazione delle castagne. Scendendo in val di Vara e in Lunigiana, accanto a piccole aie recintate da muretti, compare l’aia pensile della piazzetta, che assume aspetti architettonici rilevanti in quanto retta da monumentali porticati che vengono indicati dalla letteratura con il termine, in realtà improprio, di criptoportici31. Nel resedio rurale della Toscana, attorno alla grande aia a volte circolare e lastricata, si addensano i pagliai e parte
4. La famiglia e la casa Sia che la casa appartenga a un villaggio, oppure sorga isolata al centro di un podere, la famiglia che la abita è comunque di tipo allargato, intendendo con questa terminologia una compagine sociale che raggruppa sotto lo stesso tetto diversi nuclei familiari stretti da grado di parentela a cui si aggiungono in molti casi individui che non presentano alcun vincolo di consanguineità. La grande crisi che coinvolse le campagne attorno al xiv e al xv secolo allentò le pressioni dominicali e dette luogo, nei tempi successivi, all’appropriazione di terre e di edifici rurali da parte di coloni la cui vita associativa elementare era basata sulla famiglia e sul clan. Verso la fine del Trecento si nota una sorta di trapasso: gli abitanti del contado in parte si impossessano dei beni che tengono in enfiteusi dai monasteri e dai nobili. Contemporaneamente una parte della nobiltà, dal momento che la svalutazione della moneta rese irrisori gli affitti che percepivano dai loro possedimenti, vendette la maggior parte delle terre della montagna, i cui acquirenti furono soprattutto gli ex coloni ed i nuovi ricchi che risiedevano nella zona. Col formarsi di una nuova piccola proprietà fondiaria sorse parallelamente il problema della casa: l’ex colono, ormai padrone di un proprio terreno, non si contentò più della capanna di legname in cui aveva abitato come dipendente ma pensò alla costruzione di un edificio solido e duraturo24. A seguito di questo fenomeno caddero in disuso, ad esempio, quelle piccole case isolate, tipiche del contado fiorentino, che erano state la sede di famiglie mononucleari di mezzadri, chiamate case da lavoratore; le più antiche di queste, caratterizzate dalle dimensioni ridottissime con cucina a piano terra dotata di camino e unica stanza a quello superiore, sono state fatte risalire al xiii secolo25. Si ritiene che il resedio rurale possa rappresentare il punto di massima maturità dell’insediamento mezzadrile toscano,
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capitolo settimo Le vie appenniniche verso Roma delle attrezzature per il lavoro agricolo e domestico: in molti casi, anche qui, viene chiamata piazza32. Come nelle Marche settentrionali, questo spazio aperto di lavoro e di convivenza è dotato in Toscana del cosiddetto capanno dell’aia, tipico edificio consistente in una casetta in muratura o di vegetali che serve per ricoverare in fretta i prodotti in caso di maltempo improvviso33. Nelle zone montane della Romagna, oltre all’aia comune posta a valle della casa, è possibile rinvenire una seconda aia realizzata a monte, dalla quale, tramite una passerella in legno, si immagazzina il fieno nel sottotetto; essa può assumere una forma circolare e viene utilizzata per la sgranatura del mais e la battitura del grano34. L’ambiente più importante in assoluto della casa è quello che contiene il focolare, centro della vita familiare quando la stagione, gli agenti atmosferici o la luce del giorno non permettono di risiedere all’aperto. Che esso sia posto al piano terra o al primo piano poco importa: in tutte le case è la prima stanza che si incontra entrando dall’uscio principale. Nella montagna modenese viene chiamato stanza del fuoco; in Toscana i contadini per casa intendono la cucina; in Romagna la cucina è la camera più grande dove convergono tutte le altre stanze; nel Tigullio spesso coincide con il seccareccio, detto seccaèso o gré, così come in Lunigiana dove viene chiamato gradile o gradé35. La cucina-seccareccio o la cucina-gradile ha un focolare centrale oppure poggiato ad una parete, formato da un breve rialzo in lastre di pietra sul quale arde il fuoco: per favorire l’essiccazione delle castagne, che vengono deposte sopra un graticcio a circa m 2,50-3,00 da terra, nessuna cappa o canna fumaria convoglia il fumo che invade tutto il locale uscendo poi da piccole aperture praticate nell’alto della muratura oppure direttamente dalle fessure del tetto36. Questo è sicuramente l’esempio di focolare più arcaico ormai raro a trovarsi, se non in queste zone e nella valle del Reno37. Singolare è il caso rilevato nell’alta val Bidente: nella cucina, in certi periodi dell’anno, si costruisce un sottotetto smontabile formato da un’armatura fissa sopra la quale si gettano delle tavole per farne un piano (palco) che serve come deposito di commestibili e anche come essiccatoio per le castagne che in tal caso “si ammucchiano presso la canna fumaria”38. È probabile che ci si riferisca al focolare aperto quando, a proposito di edifici duecenteschi della montagna modenese, è stato notato che “nelle camere non vi è traccia di camini, per cui si deve pensare che il fuoco venisse acceso al centro della stanza”39. La presenza del focolare aperto di solito esclude quella del forno poiché il pane viene cotto, come gran parte di tutte le vivande, sotto una campana di terracotta (detta testo) che viene fatta surriscaldare appendendola ad una catena che scende dal soffitto oppure da un braccio girevole sporgente dal muro. Un esempio che
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potrebbe rappresentare il passaggio dal focolare aperto a quello più evoluto dotato di sistemi per lo smaltimento dei fumi è stato segnalato in val d’Arda: al di sopra del fuoco il soffitto ligneo viene interrotto da una grande cappa nascosta, ricavata nel sottotetto40.
5. La dimensione simbolica e costruttiva Quando l’architettura del villaggio non è stata oggetto di interferenze estranee, l’omogeneità dei corpi edilizi e l’assoluta continuità con l’ambiente simboleggiano la solidità dei rapporti umani della comunità insediata, così che la chiesa raffigura il simbolo dell’unità che intercorre tra gli insediamenti ad essa circostanti; laddove abbondano le torri, invece, il costruito appare come la figurazione simbolica di un fatto predominante sorto per cause comunque indotte da avvenimenti esterni, attorno al quale si sono pacificamente stabilizzate, quando il vivere si fece meno precario, le diverse dimore rurali. È certo per questo che fino al Settecento le torrette colombaie continuano ad essere edificate sulle nuove case mezzadrili. Per l’Appennino tosco-emiliano la fioritura di motivi allegorici tecnici e figurativi è da associarsi, come molti sostengono, all’opera di quelle maestranze comacine o lombarde le quali, ormai libere dagli impegni assunti con le vicine fabbriche urbane ed extraurbane, a partire dal xiv secolo, sciamarono per le campagne a dar corpo alle nuove residenze in muratura degli ex coloni che si erano emancipati con il possesso di quei beni fino ad allora tenuti in enfiteusi da nobili e monasteri41. In effetti la raffinata lavorazione della pietra arenaria e la straordinaria fattura delle decorazioni simboliche – croci, rosette, date, monogrammi, protomi, ecc. – non incise ma quasi sempre eseguite a bassorilievo sono facilmente attribuibili alla stessa scuola di coloro che prestarono la loro opera negli edifici maggiori del romanico padano, escludendo perciò qualsiasi apporto di maestranze locali. Nelle plaghe dell’arco ligure orientale, dell’Appennino piacentino e in alcune della collina toscana, il soggiorno di maestri lombardi non è documentato se non in qualche sporadico caso42. Nella Liguria orientale pochi sono gli edifici di prestigio riferibili all’età romanico-gotica, e sorgono per lo più disseminati lungo la costa; l’entroterra, poi, a eccezione dell’abbazia di Borzone che risulta stilisticamente estranea ai motivi del romanico, ne conserva solo qualche traccia pressoché insignificante. L’unica fabbrica cui si possa far riferimento è l’abbazia-cattedrale di Brugnato in val di Vara. Eppure è proprio all’interno di queste plaghe che le realizzazioni in pietra sono diffuse con estrema capillarità, giungendo talvolta anche a modellare oggetti d’uso o di arredo domestico, i cui caratteri assumono valori di omogeneità più che in qualunque altra regione. Basti pensare che è difficile distinguere le case dove risiedono le famiglie più
le cui braccia terminano con altre quattro piccole croci, quella posta alla sommità di un monte stilizzato a triangolo, e il Crismon, diffusosi in seguito ai culti del nome di Gesù, introdotto da san Bernardino da Siena, superano notevolmente nel numero ogni altro tipo di simboli; frequentissime sono anche le date e le iniziali del proprietario o del costruttore. Raramente compare la cosiddetta rosa celtica, mentre le uniche figurazioni a bassorilievo sono le mamme, semisferi emergenti dal concio, simbolo di fertilità, e le protomi che sporgono a tutto tondo dalla muratura, o scolpite a bassorilievo sull’architrave del portale. Gli influssi dell’esperienza rinascimentale e post-rinascimentale urbana hanno coinvolto, specie in Toscana e nelle zone adiacenti attraversate da quelle strade la cui importanza è nel frattempo divenuta soprattutto commerciale, gran parte degli edifici rurali costruiti o rimaneggiati dall’xi secolo in poi. Se ne può dedurre che la cultura della pietra e le simbologie ad essa collegate siano arrivate prima nella zona nord-occidentale, favorita tanto dalle risorse geologiche quanto dalle influenze esercitate dal mondo celtico irlandese. In esse l’assenza di gravi eventi traumatici ha favorito poi la trasformazione di scuole locali le quali, sulla scia degli esempi lasciati dai monaci, non solo hanno perpetuato tecniche ed archetipi originari ma, non condizionate dal “segreto professionale” tipico delle maestranze medioevali, hanno reso popolare l’arte di edificare estendendola a tutti i membri della comunità.
agiate da quelle dei meno abbienti, poiché ciò che prevale è il valore simbolico impresso anzitutto dalle modalità con cui sono composti gli scapoli di pietra degli apparecchi murari. Essi mantengono lo stesso grado di accuratezza, quand’anche le tecniche appaiano diversificate per cause che sembrano esclusivamente derivare da momenti cronologici e da varietà di materiale lapideo differenti. Lo stesso dicasi per i rustici, spesso riconoscibili solo dalla loro ubicazione, dalle dimensioni meno accentuate di volumi o, qualora siano raggruppati – come nelle sedi stagionali – dall’impianto planimetrico meno compatto ed ordinato del costruito. Le incorniciature di porte e di finestre tramite pezzature megalitiche architravate non rettificate, che all’interno del quadro generale dell’architettura in pietra rappresentano uno dei motivi conduttori del nostro lavoro in quanto archetipi più dichiaratamente ripetuti, sono qui realizzate ovunque, anche nel piccolo uscio della porcilaia. In genere l’esecuzione, per quanto accurata, appare arcaica e meno raffinata rispetto alle opere propriamente comacine dell’Appennino emiliano dove, è da notare, gli archetipi – che comunque sono reperibili quasi esclusivamente in edifici di pregio – non sono poi così frequenti. Nell’Appennino ligure-piacentino anche i simboli, anziché essere scolpiti a bassorilievo, sono incisi o scalfiti sulle pietre dei portali, sui conci d’angolo, e a volte anche su qualche scapolo dei muri di terrazzamento. I vari tipi di croce, quella semplice, quella cosiddetta longobarda con il braccio verticale molto allungato, quella a doppio braccio orizzontale di tipo vescovile, quella più complessa detta di consacrazione,
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capitolo settimo Le vie appenniniche verso Roma
territorio
2. Prati della Val Cichero, entroterra del Tigullio, Liguria.
3. Il borgo di Borzonasca, entroterra del Tigullio, Liguria.
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4. Paesaggio invernale nei pressi di Borzonasca, entroterra del Tigullio, Liguria.
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capitolo settimo Le vie appenniniche verso Roma
comunità
5. Uno scorcio di Stibiveri, Borzonasca, Entroterra del Tigullio, Liguria.
6. Rovine di un’abitazione rurale nell’entroterra del Tigullio, Liguria.
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capitolo settimo Le vie appenniniche verso Roma
case
7. Particolare del borgo medievale di Cassagna, Ne, entroterra del Tigullio, Liguria.
8. Abitazione del borgo di Case Bancora, Borzonasca, entroterra del Tigullio, Liguria.
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capitolo settimo Le vie appenniniche verso Roma
simboli
9. Rovine dell’abitato di Cassagna, Ne, entroterra del Tigullio, Liguria.
10. Antica abitazione in pietra nel borgo medievale di Cassagna, Ne, entroterra del Tigullio, Liguria.
11. Stradina del borgo di Vicosoprano, Rezzoaglio, entroterra del Tigullio, Liguria.
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simboli
12. Antica costruzione in pietra a Coli, Piacenza, Emilia Romagna.
13. Dettaglio di un’incisione su pietra a Porciorasco, Varese Ligure, entroterra del Tigullio, Liguria.
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14. Portone con timpano scolpito a Montefiorino, Modena, Emilia Romagna.
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L’ Italia centro-meridionale e gli scali marittimi per la Terrasanta Abruzzo, Molise, Puglia, Sicilia
1. Premessa. Il sistema territoriale
del fenomeno della casa in pietra nell’Italia meridionale, ferma restando la difficoltà in quest’ambito a specificarne tutte le sfrangiature e le sfaccettature. Gli insediamenti che presentano forme edilizie ben precisate nel solco della tradizione dell’uso della pietra medioevale si possono individuare infatti in aree assai localizzate rispetto all’estensione dell’intero territorio; li ritroviamo infatti addensati nella dorsale appenninica centrale che, dai Monti Sibillini e della Lega a nord – al confine tra le Marche e gli Abruzzi – scendono attraverso gli alti massicci del Gran Sasso e della Maiella verso i monti del Matese e del Sannio, tra Campania e Molise, per concludersi, in corrispondenza dei rilievi montuosi della Basilicata nord-occidentale, con alcune esemplificazioni più stemperate e variegate allo stesso tempo. La fenomenologia simbolica della pietra riprende poi in corrispondenza della
I
l territorio trattato nel presente capitolo è forse uno dei più vari e complessi sotto il profilo degli insediamenti umani, sia per ragioni di stratificazione storica sia per articolazione di rapporti che ne hanno legato lo sviluppo alle influenze attraverso gli scali mediterranei da una parte e alle vie di terra dall’altra. Nel seguire tuttavia il filo della nostra trattazione, alcuni parametri ci obbligano a restringere il campo e a considerare gli ambiti storici e ambientali particolari che permettono di definire un modello interpretativo comprensibile e accettabile
1. Complesso abitativo rurale a Spelonga, Arquata del Tronto, Ascoli Piceno, Marche.
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capitolo ottavo L’Italia centro-meridionale Sicilia con fioriture evidenti nell’entroterra della costa nord-orientale, lungo le valli dei Monti Nebrodi e Peloritani, nelle regioni sud-orientali a partire dalla zona centrale di Enna e con addensamenti particolarmente insistiti anche sotto il profilo paesaggistico in corrispondenza degli altipiani di Ragusa, Módica e Scicli. Ciascuna di queste due aree si è collocata al centro di movimenti di scambio assai importanti, attorno ai quali si è intessuta la storia del paesaggio e dell’edilizia. Il territorio abruzzese-molisano costituisce infatti l’inevitabile luogo di transito per il rapido collegamento tra la costa tirrenica e quella adriatico-ionica, e pertanto tra Roma e le regioni e gli scali marittimi protesi verso l’Oriente. Le antiche strade romane nella direzione della valle del Pescara e verso le attuali Puglie attraversavano il terreno abruzzese, raccogliendosi in corrispondenza dell’antica Corfinium o scavalcando gli altri passi a sud della Maiella tra Roccaraso e Castel di Sangro, che rappresentano uno dei sistemi abitativi a più alta quota (tra 1200 e 1400 m s.l.m.) dell’Italia peninsulare. Anche la viabilità medioevale si inserì in questi canali obbligati, con varianti determinate dalla presenza e dalla pressione politica e militare nei confronti di Roma, dapprima del longobardo Ducato di Spoleto, in età altomedioevale, più tardi (xiiixv secolo) per l’antitesi politica sveva e angioina nei confronti della sede papale. Certamente, come testimonia anche il resoconto del viaggio di Filippo Augusto del 11911 al ritorno dalla terza Crociata, gli itinerari dai porti della Puglia verso Roma erano fondamentali sia per il commercio sia per il pellegrinaggio, ed erano quindi connessi, in un prolungamento a volte indispensabile, al grande sistema viario che dall’intera Europa conduceva a Roma. Non bisogna inoltre dimenticare in questo contesto l’importanza fondamentale che ebbe per tutto il medioevo e l’età barocca il Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo nel Gargano2, meta di pellegrinaggi che coinvolgono il livello regionale, ma anche quello europeo, e i cui itinerari si confondono con quelli degli scali marittimi verso l’Oriente. Indubbiamente, nella storia religiosa e civile dell’Italia centromeridionale, Monte Sant’Angelo rappresenta il punto di riferimento della cristianità protesa verso Gerusalemme; ma forse ancor più decisivo è il polo della stabilità e della ricerca dell’identità occidentale, rappresentato dall’abbazia di Montecassino e dal sistema degli insediamenti benedettini nella regione, ai quali è da attribuirsi in molte sub-regioni lo sviluppo delle condizioni abitative e dell’utilizzazione delle risorse nei periodi più difficili e delicati del medioevo3. Anche il sistema territoriale siciliano ricordato può considerarsi al centro di scambi assai profondi tra Oriente e Occidente, pur se le motivazioni sono meno complesse: la collocazione degli scali siciliani, in particolare di quelli orientali, sulle rotte per la Grecia, Bisanzio e la Palestina in età normanna diviene poi ulteriore occasione per scambi durevoli con la Spagna nell’età dei Chiaramonte e degli Enríquez; accanto a essi, così come nell’Abruzzo settentrionale e in Calabria, si ritrovano nei
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monti Peloritani tracce di emigrazione dal nord con riferimenti assai precisi nelle strutture dei villaggi e delle case4, a testimonianza di movimenti di popolazioni e maestranze di muratori che tra medioevo e Cinquecento portano al trasferimento di esperienze e acquisizioni tecniche dalla Lombardia verso il sud, non solamente in funzione della realizzazione dei grandi edifici religiosi, quali le cattedrali, ma anche in un contesto di edilizia più generalizzato e socialmente ampio5. Accanto alla viabilità e alle comunicazioni tra i poli principali, la struttura del territorio si articolava lungo i percorsi della transumanza che si definiscono anche in vere e proprie vie per il bestiame: i tratturi. Antichissimi e talvolta anteriori alla sistemazione viaria romana6, i tratturi si presentano come veri e propri percorsi attrezzati, con i muri di recinzione per contenere i grandi greggi di passaggio, che si allargano a definire spazi ampi fino a centro metri, e con stazioni di alloggio e assistenza lungo il percorso. Uno dei più conosciuti, anche per il dannunziano ricordo dell’ “erbal fiume silente”, è quello che dalla Conca del Fucino scendeva attraverso la Valle Peligna e la costa di Raiano verso Sulmona dove, raccogliendosi con gli altri provenienti dalla Maiella, confluiva nella valle del Pescara per raggiungere l’antica Aternum sulla costiera adriatica. Tuttavia i percorsi della transumanza, che si arroccava nella regione centrale abruzzese-molisana e, in Sicilia, nelle alte terre della regione di Enna, erano numerosi e diretti variamente verso le coste del mare Adriatico, del Tirreno e dello Ionio fino alle coste pianeggianti della Lucania e delle Puglie secondo lunghi percorsi di crinale interni al sistema appenninico. Oggi questa rete è difficilmente ricostruibile nella sua topografia originaria, poiché la strutturazione della rete viaria e ferroviaria, riutilizzandone interi tratti, ne ha spesso cancellato le tracce materiali, e la memoria si è perduta col decadere definitivo della grande transumanza nei primi decenni del nostro secolo. Il sistema tuttavia era imponente, e naturalmente in funzione di un mercato della lana prodotta assai ampio, che alimentava l’industria del panno delle città mercantili dell’Italia centrale, a partire dagli inizi del medioevo, e spiega l’interesse delle grandi famiglie mercantili e feudali a presidiare il territorio con città e fortificazioni che rappresentavano il punto di scambio e di raccolta del prodotto principale: la lana. Economia quindi nella quale l’agricoltura rappresentava un fatto marginale e complementare nel quadro delle risorse familiari, e che non caratterizza a fondo, almeno sino alla fine del xviii secolo, le regioni alte dell’Appennino centro-meridionale7.
2. Gli insediamenti Si suole distinguere la modalità dell’insediamento delle regioni interne montane rispetto a quelle litoranee e pedemontane in quanto le prime sarebbero fortemente caratterizzate da forme di villaggi molto compatti costruiti in zone natu-
A volte lo spazio della cordonata cerca di dilatarsi in più ampi recessi, ricavati in sottoportici, androni o slarghi, ma quasi mai la piazza riesce a farsi largo nella compressione degli edifici: persino la chiesa si situa spesso ai margini dell’abitato, e allora al suo contorno si può ricavare uno spazio per il sagrato o uno spazio per il mercato. Probabilmente, oltre alle ragioni legate alla difesa, le comunità pastorili non sentivano l’esigenza di luoghi particolari di riferimento per la ritualità sociale del villaggio, avvezzi com’erano a concepire la stabilità della vita all’aria aperta e non nella casa e nel focolare, che costituiva l’estremo ricovero, soprattutto per la donna. Tuttavia il legame della comunità doveva essere assai forte, ma si esprimeva nel contorno di riferimenti ambientali a scala più ampia del villaggio, anche se alcuni statuti ci attestano un’attenzione codificata per la tutela delle condizioni abitative11. L’addensamento poneva infatti assai ardui problemi di carattere igienico-sanitario. Le necessità di costituire una cortina continua di mura con la continuità delle pareti delle case più esterne impediva una ventilazione adeguata; la crescita in altezza provocava la formazione di vicoli in cui si raccoglievano rifiuti e liquami; la continuità dei tetti ostacolava un normale smaltimento delle acque. A tutti questi aspetti negativi già si poneva mente sul finire del medioevo, e una razionalizzazione venne introdotta nel Cinquecento ad esempio con la realizzazione urbanisticamente più ordinata di Pescocostanzo12, ma la situazione degenerò con l’aumento della popolazione nel xviii secolo, fenomeno del quale rimane a documento l’ampia letteratura di indagini sullo stato delle popolazioni rurali dell’Ottocento e dei primi del nostro secolo. Non si deve pensare tuttavia a una monoliticità elementare della società che dà vita e che abita il borgo compatto dell’entroterra peninsulare e insulare. L’esercizio della pastorizia non è da considerarsi infatti una attività di pura sussistenza – come in molte zone l’agricoltura – ma già dal tardo medioevo una base economica che pone le condizioni per forme di scambio, legate alla manifattura laniera, capaci di formare plusvalore, anche in modo consistente. Si viene quindi a creare una complessa articolazione di strati sociali, tutti legati alla medesima attività ma con differenti livelli di proprietà e diritti e che convivono nel villaggio o nel borgo, seppure con diverso stato sociale. Se quindi lo schema della casa descritta, sostanzialmente del tipo turriforme, può essere tipologicamente considerato presente ovunque, esso varia in misura notevole da insediamento a insediamento, a seconda del rapporto in esso instaurato tra i vari ceti, nelle differenti epoche storiche. Si veda ad esempio il diverso livello edilizio tra la parte quattrocentesca e cinquecentesca di borghi addensati, quali Santo Stefano Sessanio, Rocca Calascio o Capestrano, dove la qualità formale degli edifici, improntati alla migliore tradizione delle maestranze di origine lombarda, propone una architettura tardomedioevaleggiante di alto livello (Spelonga), di contro a borghi dai caratteri più uniformi e anonimi, come Barisciano,
ralmente protette e difendibili, mentre nelle seconde prevarrebbe l’abitato sparso, soprattutto lungo il versante adriatico, in corrispondenza del quale il borgo accentrato svolgerebbe solo funzioni terziarie8. Questo schema, sul quale non vi possono essere dubbi allo stato attuale, andrebbe verificato nella sua dimensione diacronica e soprattutto in età precedente alla formazione del sistema mezzadrile con la messa a coltura delle terre basse, più favorevoli all’agricoltura, con un sistema puntuale di insediamenti familiari legati alla localizzazione del fondo rustico (casali, masserie). Il paesaggio pastorale dell’allevamento ovino legato alla transumanza su grandi percorsi non richiedeva infatti una stretta interdipendenza tra il coltivo e la residenza. Le greggi rimanevano all’aperto tutto l’anno, e non abbisognavano di ricoveri particolari legati alla casa, e così pure non esistevano prodotti rurali in misura tale da richiedere ampie aie per la battitura9 o rustici per l’immagazzinamento. Nella stagione invernale i pastori erano lontani da casa a svernare nelle più miti costiere, e in estate la vita poteva e doveva svolgersi per lo più all’aperto. La struttura del villaggio risponde quindi alla necessità di ricovero, il più protetto e addensato possibile, delle persone più stabili nella comunità, ma anche più bisognose di protezione – donne e bambini –, e l’aggruppamento è quindi funzionale innanzitutto a questo scopo strategico, così come avveniva in altre regioni europee, ad analogo sistema produttivo, quali il León, la Provenza, i monti del Pindo. D’altra parte la cellula abitativa familiare può essere ridotta, come vedremo, all’essenziale per un tipo di stanzialità che riduce le funzioni rurali al minimo indispensabile per la sopravvivenza personale: le stalle servono solo a ospitare l’asino o le poche capre da latte che non fanno parte del gregge, e così il fienile, nel sottotetto, serve alle scorte per il loro sostentamento nei mesi in cui la neve impedisce del tutto gli spostamenti fuori dal villaggio. Infine l’immagazzinamento dei prodotti per la famiglia richiede poco spazio, non costituendo essi motivo o ragione di scambio. Il villaggio compatto, di cacumine o di pendio, nasce per lo più attorno a una sola strada carrabile, quella che lo collega con il territorio e gli altri villaggi. Innestandosi su questo percorso principale si sviluppano i viottoli secondari che collegano gli edifici che non vi possono avere direttamente accesso, che si presentano in forte pendenza, spesso con gradonate continue o a intervalli: ovviamente il sistema produttivo descritto poteva prescindere dall’obbligo di collegare ogni casa con il trasporto sui carri, e per gli approvvigionamenti era sufficiente il passaggio di un mulo o di un asino con la sua soma10. La strada gradonata diventa così il luogo della socialità del villaggio compatto dell’Italia appenninica centro-meridionale; lungo i suoi lati ci si intratteneva, si svolgeva – e spesso si svolge tuttora – il lavoro domestico o artigianale, soprattutto femminile, e su di essa si proietta soprattutto il troppo angusto spazio della cucina a cercare una dimensione complementare e più vivibile.
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capitolo ottavo L’Italia centro-meridionale Calascio, Monte Sant’Angelo, Roccacaramanico e così via, nei quali predominano strutture familiari più povere. La compresenza di strati sociali disomogenei, pur entro un quadro economico qualitativamente unitario, è ancora più evidente nei grossi borghi della Marsica al confine tra Abruzzo e Lazio, quali Scanno, Pescocostanzo, Pescasseroli, nei quali il palazzo signorile convive entro un medesimo arco cronologico con la casa del pastore, in grandi aggruppamenti polifunzionali. È tuttavia da considerare attentamente l’aspetto di evoluzione nel tempo del borgo compatto, poiché la continuità nella tradizione distributiva e tecnologica ci mostra realizzazioni di edifici in pietra, dalle caratteristiche planimetriche del tutto simili a quelle di origine medioevale fino agli inizi del nostro secolo (Campotosto, Mascioni), che portano quindi le tracce delle profonde trasformazioni sociali del xviii secolo e perfino delle riforme agrarie e delle bonifiche successive allo stato unitario italiano (1860) che tendono a privilegiare le culture agrarie, particolarmente cerealicole, rispetto alla tradizionale pastorizia.
3. La casa e gli elementi simbolici La distinzione tra le terre alte, legata all’insediamento accentrato, e quelle terre basse, caratterizzate dall’insediamento disperso, separa anche in modo assai preciso l’area dell’uso della pietra da quella dove è comune l’uso del laterizio. I terreni appenninici a partire dall’Abruzzo fino alla Sicilia sono caratterizzati infatti da affioramenti calcarei del Cretaceo e dell’Eocene e Miocene: soprattutto questi ultimi si prestano assai bene come materiali da costruzione, per la superficialità degli affioramenti, la tenerezza e la facile lavorabilità e la capacità di legare con i letti di malta di calce; il loro colore grigio, tendente a volte al rosato, caratterizza con buone murature a conci le zone a più alta tradizione costruttiva, quali appunto i massicci del Gran Sasso e della Maiella e gli Iblei; altrove la pietra, anche in forma di ciottoli, viene impiegata più disordinatamente e coperta con intonaci che l’usura del tempo spesso rimuove lasciando intravvedere l’apparecchio sottostante. Ma così come non sono determinanti le condizioni climatiche, altrettanto in ultima istanza non è decisiva la disponibilità dei materiali nel dare forma alla tradizione edilizia13, anche se vi concorrono come fattori di condizionamento; quello che sembra essere, al di là dell’importanza della condizione familiare e della determinazione orografica, il tipo edilizio predominante è la cosiddetta casa italica, la cui impronta, con diverse varianti, si ritroverebbe lungo tutta la dorsale appenninica, fino agli estremi lembi della Sicilia sud-orientale quali Licodia Eubea, Monterosso, Chiaramonte e altri centri degli alti Iblei14. La casa cosiddetta di tipo italico15 o peninsulare si costituisce come sommatoria in altezza di locali semplici serviti da scala esterna che, quando è possibile, si appoggia al dislivello naturale del terreno; il piano terreno, parzialmente interrato, serve
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da stalla per gli animali e come ambiente di servizio, la cucina è al primo piano e, nel caso, le camere vi si sovrappongono successivamente. La tendenza a costituirsi con aspetto turriforme sarebbe accentuata quindi dal compattamento dell’abitato che ne impedirebbe comunque la dilatazione orizzontale, così come avviene in modo evidente nei centri sulle pendici del Gran Sasso, quali Calascio, Castel del Monte, Assergi, pur riconoscendosi in essa, soprattutto negli esempi più antichi, una linea di derivazione abbastanza identificabile dalla torre-casa medievale. Tuttavia in molti casi, in particolare nelle zone più alte a clima più freddo, diventa un elemento dominante la scala, che può esser in parte o totalmente compresa entro le mura domestiche, ma in questo caso non si configura mai di un elemento importante e si riduce a una struttura in legno che si svolge da un piano all’altro attraverso semplici botole. Quando lo spazio e la pendenza del terreno lo consente, tuttavia, la scala si proietta all’esterno e assume connotati a volte monumentali e ripetuti, a volte con terminazioni a loggia in corrispondenza dell’ingresso al piano superiore. Questo tipo si presenta già a partire dal lembo più meridionale delle Marche, nella valle del Tronto (Capodacqua, Colle, Spelonga) inserito sugli edifici di più antica e attestata datazione, tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento, e si ritrova più o meno sporadicamente in tutto l’Abruzzo e in parte nel Lazio e nel Molise. Gli esempi più completi e uniformi sono quelli di Pescocostanzo, con accostamenti degli edifici cinquecenteschi secondo un andamento a schiera e con setti murari in pietra di ottima fattura, a conci squadrati che sporgono a separare una casa dall’altra. Il tetto trova così un appoggio adeguato e può sporgere a coprire e proteggere dalle intemperie anche la scala. Queste case sono a tre piani: l’inferiore, seminterrato, è occupato dal deposito e dal ricovero per l’asino; la scala esterna porta al primo piano, e il pianerottolo in molti casi dà accesso a un portale gemino: da una parte si entra nella zona di soggiorno mentre dall’altra si accede a una ulteriore scala interna che conduce alla zona notte situata all’ultimo piano. Purtroppo, nel caso di Pescocostanzo, i restauri intervenuti dopo il terremoto del 1984 ed estesi a tutto il borgo, come in molti altri centri del Molise (Pietrabbondante, Capracotta ecc.) hanno provveduto a cancellare, con intonaci uniformi e coprenti, quasi tutte le parti in pietra, con un risultato stravolgente ai fini della percezione della struttura originaria. Altro tipo abitativo, anch’esso costruito in pietra, con esempi che vanno dalla scala più modesta a quella aulica, avvicinantesi al palazzo signorile, è quello della masseria o del casale. È un tipo generalmente insediato nelle terre meno alte, dove lo sfruttamento delle colture cerealicole prevale sulla pastorizia di transumanza e corrisponde al sistema sociale mezzadrile di più moderna introduzione. Tuttavia in molte regioni la masseria si origina come articolazione di nuclei assai simili a quelli della casa cosiddetta italica: è il caso del sistema di inse-
diamenti sparsi della Sicilia sud-orientale, dove la masseria in pietra, a partire dal xvi secolo, diventa il motivo dominante del paesaggio rurale. In alcune regioni la masseria si colloca come in antitesi rispetto al borgo compatto, sia dal punto di vista urbanistico-territoriale sia della tradizione edilizia e costruttiva; in altre, come negli Iblei, costituisce il complemento, nella campagna, delle polarità insediative di città o di villaggio, riproducendo, per maglie più allargate, la stessa logica urbanistica. La denominazione di masseria è stata applicata a diversi tipi edilizi isolati, nei quali si sviluppano contemporaneamente le colture cerealicole e l’allevamento del bestiame, sia nelle regioni peninsulari (Puglie e Lucania in particolare) sia nella regione insulare. Con questo nome vengono indicate forme elementari di conduzione rurale da parte di piccoli proprietari o affittuari, fino alla grande azienda agricola di tipo signorile. Alcuni autori16 preferiscono invece restringere il campo e designare col termine di masseria solamente le dimore rurali di tipo complesso, espressione del latifondismo fondiario, collocate a presidiare un ampio e ben definito podere. In questo caso si tratta, sotto il profilo edilizio, di una serie complessa di corpi di fabbrica destinati a svolgere tutte le funzioni rurali possibili in un ampio appoderamento, e nello stesso tempo a ospitare la residenza stabile delle famiglie degli addetti (massari, mezzadri, eventuali salariati) e spesso quella temporanea del proprietario in un’ala dai caratteri a volte signorili, a volte appena più ordinati rispetto alle zone riservate ai contadini. Spazialmente, questi corpi di fabbrica si organizzano attorno a uno spazio delimitato a corte, che ha funzione di aia per
la battitura dei cereali – e perciò è quasi sempre lastricato in pietra – e contemporaneamente di luogo di smistamento e di raccolta per tutte le altre funzioni, eccetto che per i movimenti del bestiame, che si svolgono in appositi recinti adiacenti o in corti complementari appositamente attrezzate e in diretto collegamento coi tratturi che conducono al pascolo. Il complesso sistema rurale – che accanto alle coltivazioni cerealicole sviluppa le colture legnose della vite e dell’olivo, oltre a tutti gli aspetti complementari per il foraggio legato all’allevamento del bestiame – determina a volte aggregati edilizi assai complessi che si configurano come veri e propri villaggi17 risultando però la convergenza di un’opera di colonizzazione di carattere signorile o neo-feudale. Tuttavia anche il sistema del latifondo rinascimentale e della mezzadria a essa legato, se modifica i rapporti tra il signore e la società insediata, non altera sostanzialmente la struttura e le modalità della vita del gruppo familiare di tipo allargato, anzi si direbbe quasi che il presidio della terra possa essere garantito proprio dal potenziamento di questa forma che – per un certo tempo – trova solidali e alleati i signori residenti in città e i più cospicui nuclei familiari della campagna. Proprio per questo motivo esiste una continuità culturale tra la cultura medioevale del borgo accentrato e quella della dimora isolata, come quella che caratterizza il paesaggio antropico degli Iblei, dove l’uso della pietra è – sotto il profilo materiale – l’elemento unificante di un contesto spirituale già unico che è a monte della struttura fisica dell’ambiente18 e si esprime attraverso una tradizione di maestri muratori capaci di interpretare fino in fondo questa cultura popolare.
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capitolo ottavo L’Italia centro-meridionale
territorio
2. Campagna di Santa Croce Camerina, Ragusa, Sicilia orientale.
3. Panoramica della valle di Carbonara, Monte Sant´Angelo, Chieti, Abruzzo, Italia.
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capitolo ottavo L’Italia centro-meridionale
territorio
4. Costruzioni in pietra nella campagna di Torretta, Vizzini, Catania, Sicilia orientale.
5. Veduta di Scicli, Ragusa, Sicilia orientale.
6. Il borgo di Santo Stefano di Sessanio, L’Aquila, Abruzzo.
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capitolo ottavo L’Italia centro-meridionale
comunità
7. Abitazione rurale a Torretta, Vizzini, Catania, Sicilia orientale.
8. L’abitato di Santo Stefano di Sessanio, L’Aquila, Abruzzo.
9. Particolare del borgo di Santo Stefano di Sessanio, L’Aquila, Abruzzo.
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10. I tetti di Scicli, Ragusa, Sicilia orientale.
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capitolo ottavo L’Italia centro-meridionale
comunità
11. Abitazioni in pietra a Rosolini, Siracusa, Sicilia orientale.
12. L’abitato arroccato di Santo Stefano di Sessanio, L’Aquila, Abruzzo.
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capitolo ottavo L’Italia centro-meridionale
case
13. Particolare di un edificio in pietra a Spelonga, Arquata del Tronto, Ascoli Piceno, Marche.
14. Abitazione ricavata nella pietra a Scicli, Ragusa, Sicilia orientale.
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15. Particolare di una casa ricavata nella pietra a Scicli, Ragusa, Sicilia orientale.
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capitolo ottavo L’Italia centro-meridionale
case
16. Abitazione rurale a Roccacaramanico, frazione di Sant’Eufemia a Maiella, Pescara, Abruzzo.
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17. Rovine di un edificio in pietra a Torretta, Vizzini, Catania, Sicilia orientale.
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capitolo ottavo L’Italia centro-meridionale
simboli
18. Rovine a Scicli, Ragusa, Sicilia orientale.
21. Iscrizione su pietra, dettaglio, Scicli, Ragusa, Sicilia Orientale.
22. Dettaglio di una finestra a Santo Stefano di Sessanio, L’Aquila.
19. Iscrizione su pietra a Roccacaramanico, Pescara, Abruzzo.
20. Portale di un’abitazione di Spelonga, Arquata del Tronto, Ascoli Piceno, Marche.
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23. Portale di un’abitazione di Spelonga, Arquata del Tronto, Ascoli Piceno, Marche.
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La barriera alpina verso l’Europa centrale: scambi e differenze Lombardia, Ticino, Trentino, Grigioni
1. Introduzione
le forme insediative ed edilizie e ne rivaluta l’originalità e le appartenenze. La zona delle Alpi centrali rappresenta il nocciolo orografico e il punto di passaggio obbligato dell’Europa: nelle sue valli più recondite nascono i grandi fiumi: per il nord (Reno), il sud (Rodano e buona parte dei confluenti del Po) e l’est (Danubio, Inn, ecc.); le grandi vie di comunicazione hanno pure avuto sempre il problema della transitabilità di questo tratto, se si esclude il Moncenisio e il Gran San Bernardo. Neppure l’asprezza e la rigidità del clima nelle tacitiane “infames frigoribus Alpes” ha trattenuto l’uomo dalla spinta di valicarle e insediarvisi. Certamente le condizioni climatiche non sono sempre state uguali e spiegano anche progressi e recessioni: l’età romana (250 a.C. - 400 d.C.) trova infatti un periodo di riscaldamento alpino al quale succede il periodo freddo della recessione altomedioevale; dal ix secolo in poi le
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l sistema alpino centrale, dal Monte Rosa al passo del Brennero, è oggi diviso amministrativamente tra Svizzera, Italia, Austria e, in parte minore, Germania; ognuno di questi stati contiene a sua volta etnie che appartengono all’altro o addirittura che rivendicano una autonomia rispetto a tutti quanti. Ciò sta a testimoniare come una situazione orografica sia stata il teatro della formazione di culture complesse, che non si giustificano semplicemente come residui di confine o fatti marginali, ma devono essere lette nella loro autonomia che spiega sia la trasformazione dell’ambiente sia
1. Struttura in pietra a Saint-Marcel, Aosta, Valle d’Aosta.
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale condizioni migliorano decisamente, i grandi ghiacciai si ritirano e rendono praticabili gli alti passi e i pascoli accompagnando, fino alla fine del xv secolo, il grande sviluppo della cultura alpina. Una seconda piccola glaciazione, terminata verso la metà dell’Ottocento, ripropone la chiusura di valli e la ripresa di ghiacciai; solo nell’ultimo secolo tale corso si è invertito. Da sempre ogni forma di potere esterno ha cercato il controllo delle Alpi, e da sempre i popoli insediati hanno difeso, in forme diverse, la propria autonomia, politica, economica e culturale, con commistioni e alleanze politiche estremamente complesse, a volte intricate. Dall’età carolingia in poi si costituisce uno scacchiere che, avendo come basi di riferimento i grossi insediamenti monastici dell’immediata zona prealpina, promuove la riconquista culturale delle Alpi soprattutto per garantire la continuità delle vie di comunicazione. I grandi monasteri pedemontani (San Gallo, Coira, Pavia, ecc.) si articolano con insediamenti diffusi sulle montagne o nelle valli prealpine, che assicurano le comunicazioni e nello stesso tempo costituiscono centri di colonizzazione e di diffusione culturale per le nuove popolazioni stabili, ormai in grande espansione demografica. Il sistema alpino si completa e diventa autonomo a partire dal xii secolo: l’apertura o il rinnovo di alcuni grandi passi, come il Gottardo e il Sempione, si accompagna anche alla formazione di movimenti politici di indipendenza, più forti in Uri, Schweitz e nei Grigioni, meno forti nel Vallese e sul versante italiano, ma che comunque coinvolgono tutto il sistema alpino. Solamente le sistemazioni territoriali degli stati assoluti introdurranno alla fine del Settecento confini astratti, derivati dalla strategia militare della difesa di crinale, che l’età napoleonica e il trattato di Vienna renderanno pressoché definitivi, riducendo così la tradizionale permeabilità delle valli alpine e innescando altresì grossi problemi di rivendicazioni etniche che aspettano di essere risolte in un’ottica più vasta di quella della contrattazione spicciola tra stati confinanti.
2. Le trasformazioni del territorio Le Alpi possono essere concepite, dall’età carolingia in poi, come una grande realtà etnica ed economica unitaria – che si svolge indifferentemente sui versanti settentrionali e meridionali – entro la quale si insinua il sistema complesso dei collegamenti tra nord e sud dell’Europa che, nei nodi della rete, lascia le tracce di scambi culturali articolati che alimentano a loro volta le etnie locali. Ma proprio per questa loro natura di luogo di scambio, le Alpi non sono teatro di una storia statica anche in relazione alle popolazioni più stabilmente insediate e più dipendenti dalla natura e dall’economia alpina. Le Alpi centrali sono anche il luogo di una complessa demarcazione – con forme a volte integrative, a volte conflittuali – tra popolazioni di tradi-
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zione latina e di origine germanica, le cui particolarità culturali permangono entro sistemi politico-amministrativi molto variabili nel tempo. La dominazione romana aveva consegnato all’età medioevale un substrato etnico che, pur nelle differenze locali, era stato latinizzato e unificato sotto il profilo linguistico e culturale: ciò avvenne a prezzo di lotte che sotto il profilo istituzionale fecero scomparire intere etnie liguri, celtiche e vindeliche, che costituivano il sottofondo degli abitatori della Rezia, uno dei punti più importanti per il consolidamento dei confini dell’impero1. Sul sottofondo reto-romano, ancor oggi testimoniato dalla sopravvivenza delle lingue dell’area ladina, l’età delle grandi migrazioni altomedioevali vede affacciarsi nuovi popoli che progressivamente consolidano e rendono stabile la loro presenza. Goti ed Eruli prima, Burgundi e Longobardi poi, appartengono ancora a quel fenomeno di spostamenti nell’Alpe che, pur lasciando tracce consistenti, rifuggono dall’ipotesi di dar vita a stabili insediamenti. Definitivi risultano invece gli stanziamenti degli Alemanni e dei Bajuvari; i primi rimangono popolazioni assai mobili fino al 500 d.C., ma poi si fissano progressivamente sul versante nord tra Basilea e Eschenz per premere verso Coira e i Grigioni durante le successive dominazioni franco-carolinge; i secondi, provenienti dalla valle del Danubio, ampliano i loro insediamenti in età longobarda e carolingia in Carinzia, Stiria e Carnia. Entrambi questi popoli si mescolano al substrato latino, in qualche caso convivendo in altri tenendo demarcazioni locali che distinguono spesso il carattere di valli contigue. A queste stratificazioni altomedioevali, che avvengono per lo più secondo percorsi trasversali rispetto all’andamento dei grandi itinerari transalpini, si aggiunge nel pieno medioevo (xi-xiv secolo) quella dei Walser, che si insediano sulle alte quote, con un attraversamento che inizia a ovest del Vallese, si consolida nelle alte valli del Monte Rosa e dell’Ossola-Ticino ed attraverso il passo del Furka sbocca nell’alta valle del Reno, nei Grigioni e Vorarlberg2, approfittando della facile valicabilità di alcuni alti passi che la piccola glaciazione dal xvi secolo renderà poi impraticabili. Ne esce un quadro storico della condizione del sistema delle Alpi Centrali che rifiuta quindi il concetto di confine come demarcazione, ma è risultante di un complesso sistema di reciprocità, influssi e interferenze che ne fa quasi il crogiolo di una cultura unitaria anche se estremamente variegata e sfaccettata: da un lato il grande flusso dei popoli a vocazione insediativa stabile che si muove in senso ovest-est, accolti dal substrato etnico e culturale più antico; dall’altro il grande movimento a scala europea in senso nord-sud che, nel grande pettine costituito dai valichi, lascia profonde tracce e assorbe al contempo elementi nuovi. Il sistema generale dei rapporti e delle comunicazioni europee, a cui s’è accennato, fanno del problema del passaggio attraverso le Alpi centrali una questione fondamentale per gli scambi culturali e commerciali soprattutto tra la valle Padana e la valle del Reno.
Attraverso la formazione dei valichi la montagna perde, a partire dall’età carolingia e poi in modo sempre più accentuato nell’età comunale, il suo aspetto di limite invalicabile e impermeabile e diventa luogo di organizzazione di un sistema territoriale complesso e organico, dove le funzioni proprie del monte, nel sistema agro-pastorale dell’insediamento stabile, e quelle della valle, nel sistema commerciale e degli scambi, si articolano e si integrano vicendevolmente. Il sistema di percorrenze, soprattutto nelle Alpi centrali, non deve essere letto con il metro della viabilità moderna di tipo ferroviario o automobilistico, ma con quello antico che, col percorso a piedi o col trasporto a dorso d’asino o di mulo, consentiva una maglia molto più fitta e complessa di strade sviluppate in quota e con la successione di più passi senza ricorrere continuamente alla discesa verso il fondovalle. Certamente alcuni passaggi fondamentali si sono da sempre imposti come cardine per gli spostamenti nei tratti più difficili e in funzione di percorsi di maggior importanza. Anche nell’Alto medioevo, quando il traffico era assai ridotto – ma comunque non inesistente – utilizzando resti di strade romane, oltre ai ricordati passi delle Alpi Occidentali3, si frequentano con eserciti e merci i valichi centrali quali il Gran San Bernardo, che attraverso il Vallese apriva al grande mercato di Ginevra e da lì verso Digione, Parigi, Reims e gli imbarchi per l’Inghilterra; il passo di Lucomagno che, collegando Bellinzona con Disentis, era la via più breve, seppure difficoltosa, tra Milano e Zurigo; infine i passi della Rezia – poi Grigioni – quali Spluga, Maloia, Bernina, Stelvio e poco oltre il Resia fino al facile transito del Brennero, tutti idonei a garantire con immediatezza il collegamento tra l’area germanica e quella padana. Dall’età carolingia in poi, il programma di transitabilità delle Alpi diventa sempre più consistente, in particolare per iniziativa imperiale, ed è imperniato sulla costituzione di insediamenti monastici stabili che provvedono all’assistenza dei viandanti e allo sviluppo delle comunità locali, alla collocazione di realtà amministrative decentrate e al controllo – ad un tempo fiscale e di protezione – delle chiuse nelle valli4. Già all’inizio dell’anno mille i passaggi alpini sono codificati e classificati, e i relativi dazi e tariffe conosciuti a sufficienza, e incominciano a formarsi le consorterie delle guide, in grado di accompagnare le carovane attraverso i passi. Decisivi per il definitivo decollo delle Alpi centrali saranno tra il xii e il xiii secolo l’apertura del valico del Sempione da parte dei Milanesi5, del San Gottardo da parte dei duchi di Zaehringen o degli stessi abitanti della valle del Reuss, forse dietro la spinta degli stessi mercanti milanesi e comaschi6. In un’epoca di forte espansione economica del comune mercantile italiano, delle libere città e dei mercati del Reno, della Champagne e più a nord delle Fiandre, questi due passi rappresentano i cardini degli scambi a grande scala e, a esclusione del Moncenisio e del Brennero, mettono in secondo piano tutti gli altri, nel quadro della mobilità tardo-medioevale, soprattutto lo storico passaggio del Gran San Bernardo7.
Attorno a questa ossatura principale si organizza tuttavia un sistema complesso, che è gerarchicamente funzionale e nello stesso tempo alternativo ai grandi passi, oltre a costituire una fitta maglia nell’ambito delle comunicazioni locali. La pressione della mobilità commerciale e religioso-culturale fino al xvi secolo è tale che si cercano alternative ovunque, sia per sfuggire a dogane e controlli, sia per speditezza di percorso, sia per garantirsi comunque la transitabilità in occasione di calamità e disastri naturali. Si comprende così il ruolo, anche rilevante, del sistema di valli secondarie nel territorio ossolano e ticinese, di quello bergamasco e bresciano, nei quali insediamenti importanti, che oggi sembrano terminali di un’area di valle, in realtà riaprono a rapporti con il sistema oltre il crinale, oggi sbarrato da frontiere e limiti amministrativi diventati tali in età moderna. L’ambiente alpino vede così nei secoli lo sviluppo di una società e di una economia caratterizzata da autonomia e integrazione economica, con un equilibrato rapporto tra risorse ambientali e struttura sociale e non estranea al sistema degli scambi alla scala europea tanto da garantirsi in alcune epoche un benessere e una stabilità invidiabile, destinata ad essere interrotta solamente dal cambiamento dei modi di produzione propri della struttura capitalistica contemporanea, a partire dalle trasformazioni della società avvenute tra il xvii e il xviii secolo. Certamente durante la recessione altomedioevale l’economia alpina era ridotta a forme di sussistenza estremamente povere e male organizzate: la riproduzione in alta quota delle colture proprie della pianura bloccava, per le evidenti difficoltà climatiche e orografiche, qualsiasi ipotesi di sviluppo; ma dalla fine del primo millennio avvenne il cambiamento che portò al grande decollo dell’economia, il cui modello rimase consolidato per oltre cinque secoli, con la specializzazione nell’allevamento ovino dapprima e bovino poi. Non si tratta semplicemente di una trasformazione tecnica dei sistemi colturali, ma di una più vasta mutazione della società entro cui tale sistema trova la sua collocazione. È chiaro infatti che l’allevamento sfrutta le possibilità della montagna, ma non può attuarsi se non entro un sistema istituzionale di rapporti di solidarietà nella comunità, che si consolida appunto in tale epoca e assume forma consuetudinaria spesso anche sotto forma di statuti scritti in particolare dal xiii secolo in poi. É altrettanto chiaro che l’orientamento verso una cultura specializzata, seppure sorretta da attività complementari, può trovare spazio solo se esiste un mercato dove scambiare il prodotto, ed è appunto attorno al millennio che si formano, in concomitanza con lo svilupparsi di traffici, i principali mercati di fondovalle, che rappresentano il punto di incontro tra la pianura e la montagna, quasi sempre collocati sui grandi percorsi dei valichi transalpini8. Soprattutto nelle valli in corrispondenza dei più importanti valichi e delle città di mercato si sviluppa nello stesso tempo
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale una complessa attività di servizio e assistenza che completa il quadro economico e che serve indubbiamente – sia col lavoro di accompagnamento dei marrones e dei cavallanti, sia nelle altre attività di ospitalità, trasporto e anche daziarie – a completare le fonti economiche che garantiscono la vita della società. Si forma quindi, a partire dal Mille, quello che rimarrà poi nel tempo, fino a oggi, il tipico paesaggio caratterizzato dagli spazi, dalle colture e dagli insediamenti connessi alla struttura produttiva dominante l’allevamento. La struttura del maggese sembra nascere infatti verso il xii secolo nel Vallese9, e dalla stessa epoca si istituzionalizza l’uso collettivo del pascolo estivo d’alta quota, meta ultima della transumanza. Allo sfruttamento sistematico non solo dei fondovalle o comunque delle fasce più acclivi e protette, ma anche di quelle più esposte, si accompagna la dilatazione degli insediamenti e soprattutto la formazione dell’insediamento temporaneo, che assume forme diverse da zona a zona in rapporto alle condizioni orografiche e alle tradizioni culturali. Spesso l’insediamento temporaneo acquista straordinaria importanza, in particolare nel sistema vallivo occidentale, tra il Monte Rosa e la zona dei laghi, sia per l’enorme diffusione che contempla alpeggi multipli, alle diverse quote, spesso originati anche da villaggi non propriamente appartenenti alla valle; sia per le caratteristiche di durata dell’abitabilità che spesso riguarda la metà dell’anno solare, configurando così una situazione di villaggio doppio in valle e in altura, ciascuno con caratteri di abitazione semipermanente. Si riscontrano anche casi non infrequenti di villaggi doppi, come in Val Cannobina10, nei quali la frazione meno importante e più ad alta quota era occupata nella stagione invernale, in cerca di soleggiamento, e quella principale, più vicina alle colture ma in fondovalli ombrosi, d’estate11. Alla struttura fondamentale dell’allevamento si affiancano comunque, in termini di sussistenza o per uno scambio a livello locale, anche altre forme colturali che caratterizzano il paesaggio soprattutto delle pendici a quota inferiore. Le coltivazioni cerealicole e – più tardi – del mais e della patata occupano ogni pianoro e i versanti con terrazzamenti artificiali; a essi, fin dove è possibile, si accompagna la coltura vitivinicola (Vallese, Ossola-Ticino, Valtellina) con soluzioni paesaggistiche di pergolato su sostegni litici, assai suggestive e caratterizzanti, quasi sempre in pendio terrazzato; infine frequente è il castagneto da frutto anche se non così comune come in altre regioni europee e che, particolarmente nelle Alpi Orobiche, dà vita a edifici specializzati per l’essiccazione delle castagne e la produzione della farina da esse derivata. Il bosco rappresenta infine l’ultimo aspetto importante nella gamma delle risorse caratterizzanti il paesaggio: ridotto il più possibile per far posto al prato o al pascolo, occupa i versanti meno soleggiati e più impervi, e continua a rappresentare, in alcune valli, una risorsa fondamentale per lo più gestita dall’intera comunità di valle o di villaggio.
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Paesaggio quindi apparentemente statico, ma con le tracce profonde di grandi mutazioni, che si intrecciano non solo con gli aspetti dell’economia rurale, ma anche delle comunicazioni, della produzione e dello sfruttamento minerario e infine della geografia politica. Il Settecento e l’Ottocento assistono infatti al consolidarsi definitivo dei grandi stati europei e alla politica di demarcazione rigida dei confini che, entro una pretesa di diritto naturale, vengono individuati e tracciati sui crinali spartiacque. Ha così fine l’unità dei sistemi alpini e nasce la più modesta e a volte misera e stentata storia locale delle singole valli, fatta di povertà, spopolamento, emarginazione economica e culturale, che caratterizza la storia delle Alpi nell’Ottocento, al di là del continuo e quasi testardo attaccamento delle genti alla propria terra.
3. La comunità e gli insediamenti Nel descrivere la struttura comunitaria nel territorio alpino è facile cadere nel rischio di proporre un modello astratto e atemporale, legato a usi e modalità fuori dal concreto storico e quindi privo di significato reale. In realtà la solidarietà di villaggio nella civiltà alpina si struttura e si conforma entro un contesto assai complesso ed ingarbugliato, e in un quadro dinamico dalle molte sfaccettature, così che non può essere interpretata solo in una relazione univoca alla necessità di sviluppo razionale del sistema colturale dell’allevamento del bestiame12. Ma anche ammettendo che tale fosse il condizionamento strutturale più importante, la difesa della autonomia e dell’originarietà della comunità locale ha dovuto nei secoli reagire a una serie complessa di altri fattori, quali i rapporti con le diverse forme del potere, le pressioni economiche dall’esterno, il conflitto con le associazioni di tipo cooperativo più o meno di origine cittadina, e anche nei confronti delle forze disgreganti di origine endogena. La solidarietà del villaggio alpino è quindi ben lontana dal corrispondere semplicemente a un impulso naturalistico di reciproco aiuto, nella sfera dell’opzionalità dei buoni sentimenti dell’ipotetico e impensabile – in questo caso – uomo primitivo, ma si configura come un fatto istituzionale ben preciso, cosciente e storicizzato, che propone nell’impatto con la necessità della vita materiale una concezione di rapporti voluti e difesi. Già il problema dell’origine delle comunità rurali come coscienza che superi la logica strettamente tribale o del clan è questione assai difficile e controversa, poiché, se è vero che tale modalità sembra definitivamente affermarsi come istituzione stabile dopo il mille, la sua origine affonda in consuetudini e usi che in varia misura affiorano sia dai popoli preesistenti alla colonizzazione romana (liguri, celti) sia da quelli di origine germanica (alemanni, bavari)13. Ma se nell’età preromana poteva configurarsi come fatto naturale che il clan
possedesse e usasse per intero e in modo indiviso le risorse dell’ambiente (pascoli, bosco, acque ecc.), tale non è più la condizione, anche in montagna, alla fine dell’Alto Medioevo, poiché la diffusione delle strutture di natura feudale, e quindi le rivendicazioni sulle proprietà e gli usi del suolo, divengono talmente complesse entro il quadro dell’affermazione della generale proprietà regia del territorio da sottrarre definitivamente la storia del comune rurale al contesto dei fatti naturalmente esistenti. Si fissano così progressivamente, nell’uso e nella scrittura, gli statuti e i regolamenti della comunità rurale che diventa stabile come ritualità al suo interno (consoli, assemblee, modalità decisionali) con una precisazione nell’ambito dei propri diritti (compascuo, legnatico, altri usi civici) e con un consolidamento del diritto relativo ai rapporti tra la comunità e gli altri soggetti presenti nel territorio14. Al di là di considerazioni squisitamente giuridiche, l’identità e la solidarietà dell’insediamento si esprimono innanzitutto nel senso generale di possesso e quindi di cura degli abitanti per il locus, in molti casi espresso anche da un giuramento generale di salvamentum loci; i possessori sono tutti i residenti coltivatori (vicini) raggruppati in focolari o fuochi e rappresentati dai reggitori di ognuno di essi, denominati capo fuochi o capi famiglia o con altra terminologia locale. La comunanza del possesso di gran parte del suolo si riflette però anche in ogni vicenda quotidiana, dove la solidarietà diventa costume e norma di una vita non competitiva all’interno della comunità: l’aiuto reciproco nei lavori durante l’arco dell’anno è l’aspetto più evidente, accompagnato da altre forme più occasionali, come la già ricordata collaborazione per la costruzione della casa di nuovi gruppi familiari, per le riparazioni dei danni, per il sostegno durante le calamità e così via; aspetti tutti che, pur entro un quadro di povertà generale, davano senso alla solidale comunanza della vita, rendendola non solo sopportabile ma attribuendole un significato e una finalità. La forma degli insediamenti esprime questo movimento, sia nella scala territoriale o di valle, nel rapporto tra insediamenti stabili e stagionali, sia nella microstruttura del villaggio stesso. Certamente, dal punto di vista morfologico e formale, si potrebbero enumerare infinite classificazioni di forme planimetriche di villaggio, determinate dalla localizzazione orografica e dal rapporto con infrastrutture di comunicazione preesistenti: villaggi di fondovalle, di mezzacosta o di crinale; villaggi su percorsi di transito o terminali; villaggi in corrispondenza di ponti, di passi, di chiuse; e molte altre classificazioni ancora rispetto alla forma: lineare, aperta, circolare, a scacchiera e così via. Non esiste una tipologia costante in questo senso, e ogni forma è utilizzata, o meglio risulta, dall’adattamento più opportuno. Ciò che caratterizza invece è la concezione, già individuata in altre regioni, del rapporto tra lo spazio della singola casa e lo spazio del villaggio, che non corrisponde a una differenzia-
zione e contrapposizione tra spazio pubblico e privato, ma si configura come continuum nel quale la via e la piazza è nello stesso tempo spazio del villaggio ma permette anche lo svolgimento di attività della famiglia senza soluzione di continuità e di delimitazioni catastali15. Questo carattere si afferma anche al di là delle variabili tipologiche edilizie, ed è effettivamente l’aspetto che si ritrova uniforme nel villaggio alpino che, nella zona esaminata, ha – salvo rarissime eccezioni – la forma dell’insediamento compatto. Si spiega quindi la conformazione compatta del villaggio, che non è una somma di lotti edificati ma quell’accavallarsi di strutture e funzioni, con passaggi in galleria, cortili non delimitati, scale e rampe che si sviluppano sulla strada, continua commistione nei percorsi che il diritto moderno nell’uso del suolo non riesce a sistemare e a riconfigurare adeguatamente, e che si spiegano con la concezione di possesso comunitario dell’intero paese da parte del consesso dei vicini e non di ogni singola cellula familiare. Differenze consistenti nella forma del villaggio si danno in rapporto col variare dei tipi edilizi che lo compongono, come si vedrà più avanti; così nelle valli alpine occidentali, dove predomina il tipo edilizio monovolumetrico, lo spazio del villaggio è risultante dall’accostamento semplice dei volumi elementari, raggruppati seguendo le curve di livello del monte, come avviene nelle valli dell’Ossola, del Ticino e dei Grigioni; mentre nelle valli orientali della Bergamasca, del Bresciano e del Trentino occidentale, la maggior complessità della casa polivolumetrica e polifunzionale dà luogo ad aggregazioni più articolate con spazi che mediano, attraverso corti e passaggi interni, lo spazio comune con quello della casa (Valcamonica, Bleggio, Giudicarie). Più difficile ritrovare una tipicità di elementi edilizi comunitari legati a funzioni quotidiane, se si esclude la presenza di forni comuni in alcune zone, delle fonti e degli abbeveratoi e, in qualche caso, di essiccatoi comuni per le castagne; il ricordo delle assemblee è legato per lo più a spazi aperti comuni, a volte nei pressi della chiesa e del cimitero, con l’immancabile presenza del grande albero (tiglio, quercia o cipresso) sotto le cui fronde si riuniva l’assemblea dei capifamiglia; a Bormio è segnalato16 il Kuèrc, grande tettoia in legno che ha riscontro anche nelle tettoie sui fianchi di alcune chiese plebane delle Valli Giudicarie. L’elemento comunitario per eccellenza è quindi costituito dalla chiesa e dal cimitero, nelle forme storiche secondo le quali si è sviluppata l’aggregazione religiosa degli insediamenti, a partire dalla più antica struttura ecclesiastica che è rappresentata dalla pieve rurale17 e che raggruppava più villaggi, fino alla parrocchia presente in ciascun nucleo abitato. La pieve consentiva l’aggregazione di più villaggi in un territorio e ne costituiva il riferimento al di fuori di ognuno di essi, isolata quasi sempre nel contesto rurale; nell’alto medioevo la localizzazione e la funzione della pieve ha rappresentato senza dubbio l’elemento di rottura dell’antica e
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale chiusa struttura tribale, fondata sull’esclusività del rapporto di consanguineità e sulla concezione magicamente riduttrice della realtà, per conseguire un orizzonte di rapporti più ampio e fondato su una visione culturale ecumenica; la comunità da clan si trasforma in universitas, per la quale il confine della valle o del monte non coincide con l’orizzonte del mondo.
4. La famiglia e la casa La struttura della singola famiglia (il fuoco) si inserisce nel più ampio contesto della comunità di villaggio della quale è elemento costitutivo e inscindibile, sia riguardo al complesso di rapporti interni al villaggio sia nei confronti del sistema di dominio feudale all’esterno. Tuttavia il soggetto primario rimane sempre il comune, e pertanto il singolo gruppo familiare non ha quel carattere di primordiale stabilità che invece conserva in altre regioni europee e anche nella stessa regione alpina nell’area bavarese e tirolese18, che segna il confine a oriente con la regione qui considerata. Se la famiglia delle Alpi centrali può e deve essere comunque definita come famiglia patriarcale, tuttavia la mobilità dei suoi membri è assai ampia, semplice è il rapporto che lega i membri tra loro e non costituisce mai riferimento ossessionante la conservazione dell’integrità dei beni della proprietà o della casa attraverso istituzioni di maggiorascato o similari. Questo quadro spiega l’importanza preponderante sotto il profilo fisico del villaggio rispetto alla casa, anche se nelle diverse aree si possono osservare consistenti variazioni che legano in modo stretto la tipologia abitativa con la forma e i rapporti dell’istituto familiare; in questo senso la classificazione dei tipi edilizi permette osservazioni assai interessanti. A grandissimi tratti si possono distinguere, all’interno della regione da noi definita, due aree che presentano due tipi abitativi assai diversi e quasi opposti tra loro. Da una parte le zone occidentali (valli Ossolane, del Ticino e dei Grigioni occidentali) sono caratterizzate originariamente dalla presenza di case dalla struttura e dalla forma elementare con pianta quadrata o rettangolare e due o tre vani sovrapposti; tali case sono quasi ovunque di natura unifamiliare e da esse sono esclusi gli ambienti per gli animali e il lavoro, che trovano sede per lo più ai margini del villaggio o in insediamenti appositi. Chiameremo questo tipo edilizio monovolumetrico. Dall’altra, nelle zone orientali (Valcamonica, Valli Giudicarie e Trentino occidentale) si ritrovano abitazioni molto più ampie e complesse, caratterizzate dalla dimora in esse di più famiglie e strutturate attorno ad ambienti di lavoro comuni più o meno coperti (stalle, aie, fienili): chiameremo questo tipo polivolumetrico. Tra le due aree estreme si può descrivere una zona intermedia costituita dalle valli bergamasche, della Valtellina e dell’Engadina che mostrano caratteri misti e variabili in rapporto alle stratificazioni storiche e culturali.
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La casa monovolumetrica affonda le radici assai indietro nel tempo, sia nella casa-sala d’età carolingia, sia nella casa-torre di poco posteriore19; la prima è costituita da un ambiente vasto e allungato che si ripete in origine su due piani e più tardi su tre, e presenta esternamente un volume scatolare con muri in pietra e tetto a due falde. Non molto dissimili sembrano essere le caratteristiche della casa-torre, salvo che per le dimensioni più contenute della pianta e per il fatto che gli accessi sono per lo più esterni anche ai piani superiori, serviti in origine da scale in legno, probabilmente mobili, per facilitare la difesa: nella casa-torre il pianterreno – quasi sempre seminterrato – fungeva da deposito, il primo da cucina e i successivi da camere20. Non si deve pensare, né per le prime né per le seconde, a forme abitative aristocratiche, né tanto meno a strutture militari specialistiche: si tratta di edifici del ceto contadino superiore che svolgeva particolari funzioni civili, configurandosi come curiae, nel primo caso21 come abitazioni emergenti con caratteri solamente straordinari di difesa, nel secondo. La forma della casa a torre, la cui fenomenologia originaria si mantiene inalterata fino agli inizi del Cinquecento, come è testimoniato dagli ultimi esempi datati del Ticino (Mergoscia, 1424) e dell’Ossola (Bognanco, 1575), oltre a formare il substrato per molti villaggi ampliatisi da tale epoca in avanti, costituisce anche il modello – con le diverse varianti – per tutta l’architettura successiva, nella quale, anche se l’archetipo elementare della torre sembra abbandonato, l’aspetto della casa scatolare e bloccata e comunque turriforme, con la sola funzione residenziale, rimane costante: a riprova dell’importanza degli aggruppamenti di elementi di case a torre medioevali nella formazione del villaggio alpino ricordiamo il caso di Zuoz22, nel cui tessuto attuale sono riscontrabili più di venti case-torri, fatto che esclude da un lato l’eccezionalità di tale tipo e ne conferma al contempo l’immagine archetipa per l’abitazione quotidiana23. Alla primitiva casa elementare, di cui la casa-torre è l’esempio più sintetico, subentrano tipi più complessi, con scale interne e locali organizzati attorno a quest’asse di comunicazione, tali da presentare i caratteri di edifici ormai destinati a un ceto borghese sviluppante funzioni plurime e non solamente rurali. Alcuni esempi di raffinata esecuzione si ritrovano negli insediamenti maggiori della Val Vigezzo24 a testimonianza di una società che ormai evolve verso modelli socio-economici assai distanti dalla tradizionale forma del comune rurale. Anche le case rurali si complicano, e attorno ai nuclei primitivi si affiancano costruzioni minori o corpi di fabbrica aggiunti, con funzioni complesse e integrate; anche gli edifici completamente nuovi, del Seicento e Settecento, a volte utilizzanti materiali misti in pietra e legno secondo influenze proposte dalla cultura edilizia dei Walser, seguono schemi planimetrici assai più articolati, con una divisione ben precisa delle funzioni abitative, per cui la cucina, con l’eventuale stufa o camino, si differenzia dalla sala, e queste a loro volta risultano nettamente separate dalle camere da letto, poste sempre al piano superiore.
Al di là di questo arricchimento delle funzioni abitative, rimane comunque costante la concezione della casa intesa come blocco di pietra scatolare, con accesso unico per ciascuna unità familiare e con copertura di tetto a due falde che evidenzia il volume elementare della casa, senza compromessi o sbavature, evitando aggiunte, ritagli, riseghe, pendenze indebite o variabili, asimmetrie o aggiunte casuali; pur sempre entro questo schema sono eccezione frequente le case doppie, risultando appunto dallo sdoppiamento del primitivo focolare tra due fratelli, denunciate dal portale gemino, ripetuto anche ai piani superiori, così frequente sia nelle dimore di maggior prestigio (Osso, Baceno in Val d’Ossola) sia del ceto più povero (Sostila, Forcola, in Valtellina). All’opposto il settore orientale propone edifici assai complessi, dalla volumetria articolata e spesso di difficile interpretazione, in cui convivono più nuclei familiari assieme agli spazi destinati alle funzioni dell’allevamento (stalle bovine) e della lavorazione e immagazzinamento dei prodotti rurali (aie, fienili, granai, legnaie). Gli spazi portanti e centrali di queste grandi dimore25 sono dati dalla successione in senso verticale dell’aia coperta (era), dal fienile e dalla legnaia o granaio. Attorno a questo nucleo centrale si organizzano gli altri spazi: così sull’aia coperta si affacciano le stalle, le cucine e i locali per la lavorazione del latte, mentre attorno al fienile si distribuiscono le camere da letto che possono anche occupare il piano superiore, attorno al granaio. Sono ammesse non poche varianti: spesso le stalle occupano l’intero piano inferiore, e l’aia coperta si sposta al primo piano, dove trova una collocazione più aperta ad arcate, e su di essa allora si affacciano i locali di soggiorno delle unità abitative, che possono essere in numero variabile, da una a quattro e anche più. Il sistema diventa oltremodo articolato quando – come in val Rendena o nel Bleggio – utilizzando i dislivelli del suolo si arriva a disimpegnare i diversi livelli con percorsi carrabili: allora tutta la casa si dilata e ospita al suo interno vere e proprie strade in gallerie, agibili dai carri colmi di fieno o di altri prodotti, mentre i percorsi interni per l’uso casalingo avvengono più direttamente attraverso piccole scale. Con opportuni accorgimenti poi ognuno di questi grandi contenitori domestici è collegato a quello adiacente, così da formare, nella successione, uno spazio continuo di villaggio tutto coperto e quindi protetto dalle intemperie, dalla neve e dalla presenza di estranei; al suo interno si svolge la vita e tutte le forme di lavoro quotidiano trovano posto nella grande aia coperta. La grande varietà di forme che può assumere questa organizzazione domestica mono o plurifamiliare, con le articolazioni degli spazi comuni ai diversi piani per utilizzare il trasporto su carro delle derrate, ne ha reso difficoltosa la lettura e la interpretazione, che corrisponde invece a schemi e a percorsi distributivi che potremmo dire canonizzati e attentamente controllati, nel loro formarsi, dalla comunità interfamiliare e ovviamente concepibili solamente a partire da una visione dell’uso comunitario del suolo e dello spazio edificabile26.
Nella Valcamonica l’aia si colloca soprattutto al piano terreno, in contiguità con le stalle, mentre alle abitazioni si accede per rampe esterne: l’ingresso alla corte, delimitato da un muro, e l’accesso all’abitazione vera e propria sono sottolineati da grandi portali ad architrave monolitico, sostenuto da peducci, come a Nadro, Lozio e Cerveno, per lo più recanti date che oscillano tra il xvi e il xviii secolo. Più ad oriente, nelle valli Giudicarie, val Rendena, Bleggio Superiore, Banale e valle del Chiese, la casa si fa più compatta e a volte nasconde la complessità interna in una apparente esterna isometria, con un uso meno significativo della pietra come materiale simbolico. In Valtellina e soprattutto nell’Engadina sono riconoscibili case con ingresso ad arco e percorso interno risalenti alla tarda età romanica27, come si vede in particolare a Zuoz; altri esempi quattrocenteschi e dei secoli successivi – con percorsi carrai interni e aggregazioni di tutte le funzioni in un unico edificio, nei quali però la stalla mantiene una posizione abbastanza appartata dagli altri locali – sono visibili a Mustair e Sent, con schemi che si differenziano comunque, sia nei Grigioni sia nel Trentino, dalla casa bavarese o tirolese, rispetto alla quale rappresenta un riferimento di confine.
5. La dimensione simbolica e costruttiva Anche per quanto concerne l’uso simbolico dei materiali e degli elementi costruttivi, possiamo dire che le tecniche del settore alpino centrale oscillano tra le due polarità occidentali e orientali: a occidente, nella casa monovolumetrica, si impongono il muro di pietra ad angolari squadrati ed il tetto a puntoni con lastre di copertura orizzontali, a sottolineare la massività materiale della costruzione; a oriente l’uso di materiali più compositi, comprendente anche il legno assieme a murature meno massicce e tetti a capriate, con manti di copertura più leggeri, andamenti di falde più libere e tegole inclinate in materiali diversi. La tradizione del muro di origine comacina è particolarmente evidente nelle costruzioni quattrocentesche e cinquecentesche delle valli che danno origine ai laghi prealpini del settore occidentale: Cusio, Verbano, Ceresio, Lario28. L’apparecchio murario è ben realizzato, con conci regolari, spianati, e letti sottili di buona malta; i cantonali, per i quali si usano le pietre migliori, sono a spigolo dritto, a volte listellato; anche i portali e le finestre sono ricavati con grande regolarità nella continuità del tessuto murario. Se ne possono osservare splendidi esempi nella valle di Bognanco (Camisanca), a Montecretese nell’Ossola centrale, a Mergoscia, Gerra e Brione Venzasca nel Ticino, a Mesocco in val Mesolcina, a Savognin, Sagogn e Zuoz nei Grigioni, nell’Alta Val Seriana (Gromo) e di Scalve (Dezzo) e così via. Sono edifici che dal medioevo giungono – in base alle datazioni incise sugli architravi – fino a comprendere tutto il xv e la prima metà del xvi secolo. Ma, a partire da quest’ultimo seco-
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale lo, alla primitiva e più ordinata tecnica muraria se ne affianca un’altra più spiccia e sommaria, che utilizza materiale meno regolare, ripiegando spesso sull’uso della pietra scistosa (beola), facilmente estraibile in strati omogenei, in luogo dei più compatti ma difficilmente lavorabili graniti, dioriti o serizzi; i corsi di malta diventano molto irregolari, e a volte anche per le case si ricorre al muro a secco, comunque utilizzato per i rustici e le dimore temporanee; anche i portali dal xvi al xviii secolo diventano più massicci e quasi inseriti a viva forza, con discontinuità anche evidenti, nel tessuto murario. È abbastanza facile quindi riconoscere muratura e portali realizzati fino allo spirare dell’età medioevale rispetto a quelli dell’età barocca e già a colpo d’occhio, nel succedersi e accostarsi di essi, valutare l’epoca della crescita e dello sviluppo del villaggio: fanno in parte eccezione a questa regola quelle dimore delle famiglie emergenti che progressivamente formeranno la borghesia di fine Settecento, che si cimentano a partire già dalla fine del Cinquecento su tipi edilizi più complessi, con scale interne e distribuzione orizzontale dei locali, e che inaugurano un sistema costruttivo più colto, con murature regolari ma tendenzialmente da intonacarsi e da decorarsi con motivi ad affresco o a graffito, diffuse soprattutto nella Val Vigezzo29 e nelle basse valli bergamasche30, dove si abbinano frequentemente al motivo del loggiato su colonne che, nelle Alpi, giunge dai centri della Pianura Padana. Anche la forma e le tecniche di costruzione dei tetti, che obbediscono a criteri funzionali molto stretti, sono però in relazione con il risultato espressivo globale che si vuole dare alla casa. Nell’area della casa monovolumetrica si sviluppa infatti un particolarissimo sistema di copertura che porta alle estreme conseguenze sia il simbolismo proprio del tetto – nel quale si identifica la famiglia – sia un certo criterio di uso e manutenzione adatto alle condizioni climatiche. Si tratta di una struttura semplicissima31, diffusa dalla Val d’Ossola al Ticino e alla Valle Imagna, costituita da semplici e robusti puntoni poggianti su una trave radice, con o senza tiranti e senza trave di colmo. La caratteristica principale è rappresentata dalle lastre di beola (piode), costituenti il manto di copertura di 4-7 cm di spessore, messe in opera orizzontalmente, grazie a correnti disposti a circa 30-40 cm di distanza. La pendenza del tetto è quindi determinata unicamente dalla differenza di spessore tra i successivi strati di piode e non dalla loro inclinazione. Questo sistema consente di disporre di un tetto assai stabile, nel quale le piode non si spostano assolutamente per effetto dei sovraccarichi della neve o del vento e perciò richiede poca manutenzione; nello stesso tempo però è assai pesante, presenta grande spessore ed è poco flessibile nel seguire le eventuali articolazioni dei corpi di fabbrica. Ma, dato il tipo elementare della casa nell’area ricordata, questo fatto non rappresenta un ostacolo, ma una caratteristica che i costruttori tendono ad ostentare più che a nascondere, mostrando con compiacimento i bordi frastagliati dei manti in pietra in corrispondenza dei timpani, o lasciando
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intravedere il più possibile il fitto e massiccio sistema dei puntoni o, infine, realizzando tetti di sproporzionato impegno strutturale sopra edifici di piccole o minime dimensioni ma significativi nella vita e nell’economia del villaggio, come i forni, i lavatoi o le edicole per la pietà. Il tetto in beola a lastre orizzontali costituisce così un aspetto unico del sistema vallivo ricordato e lo distingue da tutto il resto delle Alpi; infatti nel settore orientale, dove la casa è più complessa e il tetto deve essere assai ampio e articolato, si ritorna al sistema tradizionale, con lastre inclinate su struttura più leggera a capriata. Come in tutte le regioni della casa romanica europea, il portale assume anche nelle Alpi centrali un valore di particolarissima significanza, anzi in questa regione assume una varietà di forme e di interpretazione tra le più ricche e complesse. La tradizione medioevale ci consegna una versione di portali o di finestre entrambi assai diffusi: quello trilitico, nella enfatizzata versione cosiddetta megalitica, e le più eleganti e raffinate aperture ad arco. Queste ultime sono ascrivibili al xiv e al xv secolo, salvo qualche più raro esempio cinquecentesco, e nella forma più rustica sono costituite da due piedritti formati da grandi pietre trapezoidali che si concludono con una specie di echino, a volte sporgente dalla muratura, sul quale viene realizzata la chiusura ad arco con conci stretti e alti, regolarizzati da spessori di malte anche consistenti; se ne vedono begli esempi nelle diverse frazioni di Montecrestese (Ossola), di Claro (Bellinzona), di Zuoz (Grigioni); a volte, soprattutto per le piccole finestre, l’arco è ricavato con la sagomatura – a tutto sesto o a sesto acuto e ribassato – di una pietra monolitica, come si può osservare in Valle Antrona (Case dei Conti), nella valle di Bognanco (Camisanca), nei Grigioni (Alvanen-Dorf e Soglio), nelle valli di Bergamo e Brescia (Borgo di Varzo, Almenno). Più rari, ma non infrequenti, i portali di intonazione colta, sia a sesto acuto che a tutto sesto: tra essi ricordiamo quelli assai nobili di Seppiana (Valle Antrona, xvi sec.) con arco a tutto sesto o quelli goticheggianti di Lomese (Montecrestese, Ossola), di Carzonesco (Lorenzanesco, Ticino), di Sevgein (Grigioni), di Schilpario (Val di Scalve). Il tipo di portale e di incorniciatura di finestra dominanti nella dimora più comune è comunque quello di tipo trilitico, che si presta alle interpretazioni e alle enfatizzazioni più diverse. Negli esempi trecenteschi e quattrocenteschi per lo più l’architrave è sorretto da pulvini che si protendono nello spazio della porta sotto forma di peducci: molto belli sono quelli di una casa-torre del già ricordato Lomese, come pure si può ricordare il portale quattrocentesco della casa-torre di Mergoscia, o il grande portale gemino di Tegna, presso Locarno. La varietà dei portali è infinita, e lasciamo alle immagini il compito di illustrarli: si va dagli architravi ad andamento quasi lineare appena incurvati, a quelli a forma di timpano triangolare, a quelli lunati fino a formare un perfetto semicerchio;
di affreschi tra i più completi, seppure assai degradati, con scritte e firme di un visitatore, a punteruolo, in latino assai corrotto e datato ai primi del Cinquecento; testimonianza del cattivo costume di sfregiare le pareti dipinte già assai diffuso in quell’epoca e lamentato in alcune guide degli inizi del Seicento, ma in questo caso termine di riferimento sicuro per una attribuzione cronologica che pone in evidenza la vastità e la continuità dell’aspetto iconografico popolare che, nelle nostre regioni, attende ancora uno studio sistematico.
anche i piedritti possono essere semplici, di due o tre pezzi immorsati nel resto della muratura, oppure monolitici a volte con enorme sviluppo laterale; non esistono costanti regionali precise e tutte queste forme si possono ritrovare combinate nello stesso villaggio. Un accenno particolare, in questa tipologia, meritano i portali doppi o gemini che, semmai ve ne fosse bisogno, testimoniano l’intenzione simbolica connessa all’enfatizzazione del portale stesso. Di essi l’esempio di carattere più monumentale è quello già citato di Tegna (Ticino), ma se ne ritrovano di molto belli e numerosi anche nelle Valli Ossolane, in Valtellina e, seppure più rari, nei Grigioni. Sottolineano lo sdoppiarsi del primo nucleo patriarcale che tuttavia, anche all’esterno, vuole dimostrare la sua continuità e la sua unità, poiché non si tratta semplicemente di due porte accostate – cosa che avviene negli esempi più tardi – ma di un unico grande elemento architettonico con il montante centrale per lo più monolitico, a ricordo e a somiglianza dei grandi portali gemini delle cattedrali romaniche e gotiche. Nelle sue varie forme, l’architrave è il supporto principale della simbologia scritta ed incisa della tradizione popolare a partire dal xv secolo, quando tra i lapicidi si diffonde l’uso della scrittura: il modo più comune e costante in questa regione è quello di incidere la data, che viene spezzata in due parti dall’inserimento al centro del monogramma di Cristo con la croce (ihs). Sono anche diffuse forme più semplici con la sola croce latina o con la croce greca, complicata da altre piccole croci su ogni braccio, oppure la croce latina sul triangolo (il Calvario) o racchiusa nel cerchio; molto più raro l’uso di altri simboli, come circoli geometrici, rose raggianti, stelle, cuore e così via, oltre alle insegne di arti e mestieri. Rarissime infine le lunghe iscrizioni e le teste di pietra di cui si ha un bell’esemplare, con scritta, a Santa Maria Maggiore, in Val Vigezzo. Ma l’elemento simbolico più diffuso, direttamente presente sui muri della dimora o in piccole edicole o cappellette presso ogni nucleo di esse, è l’affresco votivo, nella maggior parte dei casi con raffigurazioni della Vergine. Purtroppo la labilità di tale manufatto, particolarmente se applicato ai muri in pietra ed esposto alle intemperie, non ne ha facilitato la conservazione: si tratta di testimonianze vive e rinnovate nel tempo, poiché la loro deperibilità richiedeva continui ritocchi e alimentava così un artigianato itinerante che a volte sapeva interpretare il disegno e la struttura dell’iconografia originaria, a volte invece la comprometteva irrimediabilmente. I dipinti murali sono assai antichi, e ne abbiamo testimonianze diffuse a livello popolare già dal xiv secolo; nel xv poi si diffondono ovunque e si può affermare che quasi tutti i dipinti murali ancora esistenti sono stati eseguiti nella prima età della riforma cattolica, cioè nel periodo che coincide con l’opera e l’impronta pastorale di san Carlo Borromeo e dei suoi collaboratori e continuatori. In una cappelletta abbandonata sulla mulattiera che da Domodossola conduce nella Valle dell’Isorno, alle soglie dell’abitato di Oro (Montecrestese), esiste ancora un ciclo
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale
territorio
2. Il campanile di Croveo, Baceno, Verbano-Cusio-Ossola, Piemonte.
3. Panoramica di Mergoscia, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
4. L’agglomerato di Curiglia con Monteviasco, Varese, Lombardia.
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale
territorio
5. Casa in pietra a Onsernone, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
6. Abitazioni a Comologno, frazione di Onsernone, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
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7. Agglomerato di case in pietra a Onsernone, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale
comunitĂ
8. Scorcio del borgo di Onsernone, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
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9. Abitazioni in pietra, Valcamonica, Lombardia.
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale
comunità
11. Le vie del borgo di Onsernone, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
10. L’abitato di Dissimo, Re, Verbano-Cusio-Ossola, Piemonte.
12. Uno scorcio di Niardo, Valcamonica, Lombardia.
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale
case
13. I resti dell’antico abitato di Mergoscia, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
14. Dettaglio di un’abitazione a Onsernone, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
16. Complesso rurale a Baceno, Verbano-Cusio-Ossola, Piemonte.
15. Abitazione e rimessa per animali nella piccola frazione di Rean, Saint-Marcel, Valle d’Aosta.
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale
case
17. Edificio in pietra a Cravegna, Crodo, Verbano-Cusio-Ossola, Piemonte.
18. Abitazione a Foppiano, Formazza, Verbano-Cusio-Ossola, Piemonte.
21. Abitazione rurale nella piccola frazione di Rean, Saint-Marcel, Aosta, Valle d’Aosta.
19. Struttura in pietra e legno a Comologno, frazione di Onsernone, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
20. Scorcio del borgo di Nadro, Brescia, Lombardia.
22. Antico forno in pietra a Foppiano, Formazza, Verbano-Cusio-Ossola, Piemonte.
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capitolo nono La barriera alpina verso l’Europa centrale
simboli
23. Dettaglio di un’abitazione a Dissimo, Re, Verbano-Cusio-Ossola, Piemonte.
24. Dettaglio di una fontana a Niardo, Valcamonica, Lombardia.
26. Forno in pietra a Saint-Marcel, Aosta, Valle d’Aosta.
25. Croce incisa su pietra a Onsernone, Locarno, Canton Ticino, Svizzera.
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27. Portone di un’abitazione a Cerveno, Valcamonica, Lombardia.
28. Iscrizione su un’abitazione di Dissimo, Re, Verbano-Cusio-Ossola, Piemonte.
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Le vie verso l’Oriente Territori dell’ex Repubblica jugoslava e Grecia
1. Individuazione dell’area
sua fascia adriatica, e il Montenegro carsico nella zona di Dubrovnik e Cattaro. La Grecia, la stessa Albania – per quanto assai poco conosciuta – e la Macedonia, rappresentano una zona di frontiera con complessi e non ancora bene individuati rapporti tra cultura slava, bizantina, ottomana e latina, mentre le isole e gli approdi d’Oriente trattengono in molti insediamenti la chiara impronta della diretta colonizzazione occidentale, a partire dalle presenze motivate dalle Crociate e dal grande flusso degli scambi commerciali, dei quali furono protagoniste soprattutto Venezia e Genova, ma anche i Provenzali e i Catalani. Certamente la diffusione principale data dalle correnti di scambio avviene lungo il mare, e porta a polarizzazioni importanti quali le città della costa istriana e dalmata e della
L’
area qui esaminata è rappresentata sostanzialmente dalla fascia più prossima al mare della penisola balcanica e da alcune isole dell’Egeo e del Mediterraneo orientale (Creta, Cipro), fino a comprendere alcuni aspetti degli insediamenti della coltura occidentale sulla costa palestinese e siriana. Si tratta quindi di una lunga fascia di territorio adriatico che, muovendo dalle zone dell’altipiano carsico, si svolge lungo le coste dalmate fino agli attuali confini dell’Albania coinvolgendo parte della Slovenia carsica, la Croazia nella
1. Il Parco nazionale delle Cascate Krka, nella contea di Sibenik-Knin, Croazia.
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capitolo decimo Le vie verso l’Oriente Grecia peninsulare; ma importanti sono anche i collegamenti interni, per le nostre osservazioni, soprattutto legati al nodo macedone che nel quadro del mondo bizantino prima, e poi ottomano, rappresenta il baricentro e il punto di irradiazione di scambi ed esperienze – entro un crogiolo complesso di etnie – nelle regioni del Pindo e dell’Epiro, dell’Albania e, verso nord, della Serbia e del Montenegro. La casa in pietra si sviluppa, secondo un modello tipico e definito, lungo la costa croata e montenegrina dell’Adriatico occidentale e si articola poi in forme complesse e variamente determinate da fattori interni ed esterni nell’area greco-mediterranea, che viene così a costituire una vera e propria area di confine della cultura insediativa dell’Europa, in un rapporto col mondo bizantino prima e ottomano poi.
2. L’ambiente e gli insediamenti Nella sua carta sulla distribuzione dei tipi di insediamenti nella regione balcanica, Jovan Cvijic1 individuava con molta precisione l’area del tipo carsico, che appunto dal Carso goriziano e triestino scende verso sud coinvolgendo l’Istria, la Dalmazia con le isole e l’immediato entroterra fino a Dubrovnik (Ragusa), entroterra che si pone in continuità con il Carso montenegrino esteso fino ai confini con l’Albania: quest’area corrisponde all’incirca anche con l’estensione del tipo edilizio della casa in pietra che Cvijic definì generalmente del tipo carsico2. L’estremità meridionale della penisola balcanica, cioè la Grecia quasi per intero, veniva individuata come appartenente all’area dell’insediamento greco-mediterraneo, se si escludono infiltrazioni più legate alla cultura ottomana e al sistema di conduzione delle terre di tipo “chiflik” nella parte settentrionale (Tessaglia, Macedonia, Tracia). Infine, più raccontato che rappresentato, era il sistema dei grandi villaggi aromuni della regione tra Epiro, Albania sudoccidentale e Macedonia orientale, anch’essi costruiti in pietra, propri di una cultura e di una etnia già in fase di consunzione alla fine del xix secolo. Le regioni più interne della penisola balcanica presenterebbero caratteristiche dominanti assai diverse, legate a tipi insediativi dinarici (tipi di Stari Vlah e Sumadia), serbi e moravi (tipo della Machva e d’Ibar), o infine della valle del Danubio (Timok), che globalmente hanno caratteristiche assai diverse, sia in ordine ai materiali con cui sono costruiti, sia alla dislocazione orografica e alle radici etniche che li legano più alla cultura dell’Europa centro orientale che a quella mediterranea. Questo schema indubbiamente regge ancora assai bene ad una verifica di carattere generale3, ferma restando la necessità di ulteriori specificazioni e approfondimenti come è naturale richieda una regione di influenze, scambi e vicissitudini assai complesse, nel cui scenario si svolgono forme di aggregazione sociale assai diverse che influenzano la forma storica del paesaggio e degli insediamenti.
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Se si pone attenzione all’area definita del villaggio carsico, notiamo quali profonde differenze si celino sotto tale identificazione; essa comprende infatti, procedendo da nord verso sud, una regione profondamente influenzata dalla cultura veneto-friulana e da quella slovena con influenze germaniche, quale è il Carso di Gorizia e di Trieste; a essa si congiunge l’Istria, dalle trasformazioni culturali assai complesse ma comunque storicamente più legata alla presenza veneziana; la fascia litoranea che dall’Istria scende fino a Dubrovnik (Ragusa) ha una sua storia particolare, fatta di autonomie urbane e di un rapporto limitato con l’entroterra, che si amplia invece al confine con il Carso del Montenegro, tra Mostar e il confine albanese, in corrispondenza del quale affiorano in modo più evidente le formazioni sociali e le strutture familiari proprie delle regioni centrali dei Balcani. Più che in qualsiasi altra regione europea quest’area differenzia in modo sostanziale la natura delle città mercantili della costa rispetto al proprio entroterra, poiché, malgrado siano sempre esistite vie di scambio tra la costa e il continente, tuttavia l’asse delle comunicazioni preferenziale rimase sempre, fino al Settecento, quella rotta marittima che da Venezia e Trieste, attraverso Zara, Spalato, Dubrovnik, conduceva i convogli mercantili a doppiare il Peloponneso e guadagnare gli scali orientali verso Costantinopoli e la Palestina. Profonde differenziazioni quindi tra la struttura economica del litorale e dell’entroterra, ma anche profonda differenziazione del sistema sociale tra nord e sud. La zona carsica del nord e l’Istria – oggi divise amministrativamente tra Slovenia e Croazia e, in piccola parte, Venezia Giulia – si sono sviluppate dal medioevo entro un sistema di dominazione feudale, perpetuato anche nelle aree di influenza della Repubblica Veneta, che nel quadro generale di sottomissione al “dominus” implicava un livello locale caratterizzato dalla forma “vicinale” : scarsa importanza della famiglia come soggetto giuridico, e forte accentuazione della gestione comunitaria dell’intero villaggio attraverso le rappresentanze e le autorità elette (consoli, podestà), sia nelle città che funzionavano da scalo commerciale sia nei villaggi rurali che si presentano quindi di consistente dimensione, mentre manca praticamente il casale isolato4. L’entroterra, soprattutto nella regione che scende meno a picco sul mare – lungo le valli che da Obrovac a Knin, Sinj, Mostar fino a Niksic si sviluppano parallelamente alla costa e graduano con più dolcezza che non al nord il paesaggio tra area litoranea e continentale – presenta invece modi associativi assai diversi, che corrispondono a forme antiche di autonomia, filtrate e perfino rafforzate per contrasto nell’ambito della dominazione ottomana e che rivelano diversi livelli di soggetti sociali, gelosamente custoditi quali il bratstvo o la zadruga5. L’istituzione del bratstvo nasce da un orizzonte tribale, ed è una forma di aggregazione sovrafamiliare – non sempre corrispondente rigorosamente al villaggio – che, pur in presenza di un potere forte e accentrato come quello ottomano, rappresentava una soggettività giuridica assai accentuata, in
L’Europa occidentale ha fatto sentire nei secoli la sua presenza sulle coste ioniche ed egee della Grecia e delle isole in un modo assai consistente, con programmi edilizi che hanno riguardato non solo la costruzione di castelli e chiese, ma anche la configurazione del territorio e degli insediamenti in un processo che comprende non solo l’epoca delle Crociate ma anche, in alcuni casi, i primi due secoli della dominazione ottomana8. Venezia fu indubbiamente la potenza europea più a lungo e diffusamente presente sulle coste mediterranee orientali anche se, a eccezione di Cipro, non puntò mai a costituire domini territoriali, limitandosi al possesso degli scali e all’attività commerciale. Il regno dei Lusignano a Cipro, che durò dal xii a quasi tutto il xvi secolo, fu il centro di sviluppo di una grande cultura stabile accompagnata da una consistente fioritura artistica ed edilizia che, comunque, investì anche gli altri possessi minori: l’Eubea, le Cicladi e alcuni scali del Peloponneso e di Creta, controllati dagli inizi del xiii fino al xvi secolo, e le isole jonie, per le quali la signoria veneziana si mantenne fino al 1797. Genova affiancò questa presenza in tutti gli scali orientali badando all’aspetto commerciale: la sua presenza fu consistente e territorialmente definita in Crimea (xiii-xv secolo) e soprattutto nelle isole dell’Egeo settentrionale (Lesbo, Samo, Chio) dove la compagnia per lo sfruttamento dei prodotti locali (chiamata Maona) mantenne, con alleanze opportune, la sua presenza effettiva fino al xvii secolo9. Soprattutto la componente franca, principale protagonista delle Crociate, interpretò la presenza in Oriente come affermazione di un potere territoriale, entro il sistema della tradizione feudale: la storia dei regni di Gerusalemme e di San Giovanni d’Acri, e dei vari principati e contee ad essi legati nella Siria, è sufficientemente nota; entro questo quadro, seppure con connotati più internazionali, si può collocare la storia dei possessi dei Cavalieri Ospitalieri, con capoluogo a Rodi, dal xii secolo al 1530, quando si trasferirono a Malta. Più complesse e soggette a diverse articolazioni le vicende della Romania francese e dei possessi nel Peloponneso (Morea) e in Attica10: soprattutto in Morea si ebbe una presenza insediativa assai stabile e articolata, con uno sviluppo culturale autonomo che durò dagli inizi del xii secolo fino a tutto il xv, ma che lasciò tracce e strascichi anche nei secoli seguenti, se è vero che ancora agli inizi del Seicento Carlo di Gonzaga, pretendente al trono di Mantova, ne rivendicava il possesso attraverso documenti e attestati minuziosi di proprietà11. Accanto ai principali protagonisti di questa espansione orientale, altre forze si affiancano con differente peso in epoche più limitate: i Pisani e gli Amalfitani e soprattutto la “Compagnia Catalana” che si stabilì in Beozia e Attica, egemonizzando il ducato d’Atene particolarmente nel xiv secolo. La sopravvivenza, in termini di potere, del substrato etnico locale greco, si complica durante il tardo medioevo, con la pressione esercitata dalle popolazioni dei Balcani continentali, soprattutto Bulgari, e con una sostanziale instabilità territoria-
grado di mediare i rapporti dei membri del gruppo con l’esterno e gestire i beni dei villaggi e la distribuzione delle risorse all’interno. La chiesa, il cimitero, i pascoli, i mulini e i mortai sono proprietà comune di ogni bratstvo. Anche la zadruga, che corrisponde alla famiglia patriarcale, ha un carattere assai più marcato di autonomia e persistenza nel tempo delle consimili istituzioni dell’area di influenza latina, e la sua sopravvivenza, anche nell’entroterra dalmata, è attestata ancora in modo consistente alla metà dell’Ottocento. Alla zadruga corrisponde la casa o un piccolo raggruppamento di case, a volte anche in forma gemina, mentre assai raramente il villaggio è costituito da una sola zadruga. La forma insediativa più diffusa al nord, nel Carso oggi sloveno e nell’Istria, è quella accentrata con tendenza alla formazione di grossi borghi rurali abitati da piccoli proprietari che hanno un rapporto di pendolarità quotidiana con la campagna: tali borghi per le dimensioni e per il tipo di edilizia, come San Daniele del Carso, Buie, Pisino, Gallignana, Dignano e altri ancora, assumono un carattere all’apparenza urbano, anche se le famiglie storicamente hanno sempre esercitato una attività rurale e le case sono adibite per le funzioni a essa attinenti, col pianterreno destinato a deposito e a stalla per gli asini e i superiori ad abitazione6. Scendendo progressivamente verso sud, al grande villaggio compatto – con le case serrate in un contesto organico, più frequentemente organizzato attorno alla emergente e centrale chiesa parrocchiale – subentra il piccolo villaggio carsico, espressione della sopra individuata tradizione patriarcale della zadruga. Si tratta di più semplici aggregazioni dalla cellula elementare della casa familiare carsica7, disposti entro uno spazio continuo di villaggio, assai simile alla struttura degli hameaux francesi o liguri-emiliani. In modo ancora sporadico compaiono nell’entroterra tra Zara e Sebenico, come a Lusic, Ostrovicke, Kristanje, e poi via via si addensano nell’entroterra di Spalato, lungo le valli che fanno da mediazione tra la costa e la catena dinarica, per poi diventare assai fitti e diffusi nel Montenegro carsico in corrispondenza della regione di Mostar e dell’entroterra di Ragusa (Dubrovnik) e di Cuttari (Kator). Nel caso montenegrino, dove la densità abitativa è molto bassa e le risorse del suolo scarse, i villaggi si raggruppano a volte assai vicini gli uni agli altri in corrispondenza dei fondovalle coltivabili, e si dispongono secondo allineamenti continui lungo la linea di demarcazione fra il territorio coltivato e l’affioramento calcareo improduttivo, come si può leggere ancora assai chiaramente nel sistema insediativo della valle del fiume Trebisnica (Popovo Polje) nell’entroterra di Dubrovnik. Ancor più grandi differenze si riscontrano nell’area ellenica e macedone, dove le stratificazioni sono ben più complesse, poiché la persistenza della cultura greca, filtrata attraverso la cultura bizantina, ha dovuto affrontare nei secoli l’incontro congiunto delle correnti occidentali e di quelle turche secondo un andamento di interessi contrastanti e opposti.
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capitolo decimo Le vie verso l’Oriente le delle stirpi della regione centrale quali gli Albanesi e gli Aromuni, i cui centri sono da individuarsi nella regione dell’Epiro e del Pindo e nella Macedonia greco-jugoslava e albanese, per lo più legati alla tradizione bizantina. Si tratta di popolazioni per la maggior parte dedite all’allevamento del bestiame ovino, con pratiche di transumanza su un territorio assai vasto e con spostamenti annuali tra il mare Egeo e il Mediterraneo, che giocarono un ruolo importante nella formazione dell’etnia greca moderna, anche se attualmente sono da ritenere – come tali – pressoché inesistenti12. Su questo quadro, estremamente variegato e composto di influenze allogene e tradizionali endogene, si sovrappone la dominazione e la cultura ottomana13, che dal xvi al xix secolo introduce un sistema di controlli fiscali e sociali la cui presenza si fa sentire con un peso maggiore nelle regioni centro orientali, ma si estende anche verso le coste occidentali e meridionali (Croazia, Montenegro, Albania, Grecia mediterranea), con minor efficacia nella trasformazione dei costumi ma assai espressiva sotto il profilo dell’imposizione fiscale. Il quadro degli insediamenti e delle trasformazioni ambientali della penisola balcanica del sud è sostanzialmente quello che esce da questo complesso percorso politico-culturale entro il quale è assai difficile, soprattutto per le espressioni della cultura popolare – villaggio e casa – dipanare i fili della matassa. Sotto il profilo dell’impronta urbana sono più facilmente riconoscibili alcuni insediamenti costieri o dell’immediato entroterra sulle coste e isole dello Jonio e dell’Egeo, soprattutto nell’area di diffusione veneziana (Corfù, Creta, Cipro) e genovese (Chio, Lesbo, Samo): il caso dei villaggi meridionali dell’isola di Chio, costruiti per lo sfruttamento delle culture di mastice, è esemplare poiché ripropone il tipo edilizio della città di fondazione particolarmente presente nella Liguria di Ponente14, con una edilizia che, pur attraverso le trasformazioni posteriori, rivela chiari caratteri e i modi delle maestranze liguri-provenzali. Più articolata è la situazione della penisola ellenica, dal Peloponneso al Pindo: qui la tradizione della presenza occidentale, di matrice franca – ancora ben leggibile in centri importanti dell’entroterra come Karitena, Dimitzana, Kalavrita e così via – appare come la stratificazione più antica di un sistema complesso che si sviluppa anche nella vasta orbita bizantina e delle contraddizioni dell’età ottomana. La dominazione ottomana non rappresenta un sistema sociale e culturale uniforme: è piuttosto una koiné di popoli e culture diverse che in parte consente che, soprattutto ai margini dell’impero, permangano sistemi sociali di matrice e tradizione diverse. Soprattutto nelle regioni periferiche dell’impero ottomano, che sono quelle di cui ci occupiamo, il sistema di governo era fondato sulla necessità di rastrellare, mediante tassazione, il surplus derivante dalla produzione rurale e dagli scambi di mercato15. Appare come fenomeno più raro lo sfruttamento diretto delle terre, operato direttamente dai dominatori turchi o attraverso loro intermediari, nella forma di insediamento e di
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organizzazione cosiddetta del chiflik, che alcuni autori segnalavano in modo particolare in Tessaglia (valle del Piniós, da Trikala a Larissa) e nella Macedonia centrale a ovest di Salonicco16. Il regime del chiflik presuppone il totale asservimento del villaggio al capo ottomano (spahi o bey) che detiene l’intera proprietà delle terre coltivate e dispone dell’uso e dei prodotti in termini totalmente autocratici; questo sistema, più duro e più totale nella piattaforma danubiana e comunque nelle regioni balcaniche orientali, si stempera un poco lungo le frontiere occidentali, soprattutto nei casi di assegnazione di poteri a beys locali. Il Montenegro, l’Albania e la Grecia si prestavano assai meno all’imposizione di un regime così duro: infatti, là dove si riscontra, appare assai attenuato oppure lascia spazio allo sviluppo libero delle comunità tradizionali, nella forma già segnalata della comunità familiare (zadruga) a nord o del villaggio libero nell’area greca, che perpetua le consuetudini e le istituzioni tradizionali. In questo caso il rappresentante del governo ottomano si limita alla funzione di intermediario tra la comunità locale, per lo più fedele alla tradizione cristiana, e il governo turco, garantendo la riscossione delle tasse e dei pedaggi. Entro questo quadro si spiega anche il grande rifiorire e permanere, fino all’Ottocento e anche oltre, di tutte le forme di aggregazione d’arti e mestieri, insieme alle forme di gestione collettiva della terra. Queste istituzioni originate dalla volontà di reagire all’imposizione, avvertita naturalmente come un giogo, del potere esercitato dai Turchi, non sono state in grado di far fronte a nuove e più complesse problematiche emerse nel momento della dissoluzione dell’impero stesso. Nell’area greca la struttura della comunità di villaggio e delle corporazioni provvedeva a distribuire nel modo più equo possibile l’imposizione fiscale, ma anche a curare lo sviluppo sociale con la distribuzione delle risorse tra le famiglie appartenenti, come si osserva in particolare nelle regioni più evolute e libere dall’oppressione turca, nelle montagne dell’Epiro, in corrispondenza delle regioni impervie, ma dense di villaggi, a nord di Joanina fino a Kastoria. Queste comunità erano anche custodi delle tradizioni e delle consuetudini locali (matrimoni, eredità, educazione), e anche dei centri di regolazione del mercato con l’imposizione dei prezzi di vendita e di importazione, così come avveniva per le corporazioni d’arti e mestieri17. Questa localizzazione particolare di resistenza dell’identità greca di fronte al mondo ottomano in corrispondenza delle zone montuose settentrionali (monti del Pindo) sfuma e si confonde con quella di un altro gruppo etnico, oggi pressoché scomparso, quello degli Aromuni o Aromeni, residui della dispersione delle antiche popolazioni romene, più o meno latinizzate, e dislocati appunto nel Pindo, nella Macedonia orientale greca e slava (pressi di Kastoria, Florina, Bitola, Debar) e nell’Albania sud-orientale (Korcë, Muskopolje)18.
3. La famiglia e la casa
Alla luce di queste osservazioni la definizione della casa adriatico-orientale può essere inquadrata nei grandi gruppi di: casa carsica settentrionale; casa istriana; casa delle isole dalmate; casa dell’entroterra dalmata; casa del Carso montenegrino. Fatte salve evidentemente le reciproche influenze e le differenze, in Dalmazia e Istria, tra i tipi cittadini e i tipi rurali23. Negli insediamenti del Carso settentrionale fra Trieste e Gorizia, come Prosecco, Monrupino, Santa Croce e Silvia – oggi in territorio italiano – e Duttogliano, Tomadio, San Daniele del Carso, Comano fino a Cernizza, la casa in pietra più diffusa è costituita da un corpo di fabbrica per lo più a due piani, a pianta rettangolare, con l’ingresso sul lato più lungo e tetto a due falde inclinate con pendenze sempre verso i lati più lunghi. Il piano terreno è destinato ai depositi, alla piccola stalla e alla cucina che, frequentemente, si sviluppa con un focolare esterno, dotato di un camino che sale lungo uno dei muri di testata24. Al secondo piano, che contiene le camere, si accede per una scala esterna che si sviluppa in una loggia, coperta da uno sporto del tetto, sostenuta da pilastrini in pietra o in legno25. Lo spazio di appartenenza della casa si configura come una piccola corte delimitata e protetta da un muro, e spesso attorno alla corte si aggregano due o tre case familiari dando luogo ad insediamenti assai articolati, la cui forma varia assai in rapporto alla conformazione naturale del terreno e alla impronta fondiaria. Elemento caratteristico delle corti è il grande portale di ingresso, che spesso porta inciso il nome della famiglia assieme al monogramma di Cristo (ihs) o agli altri simboli già frequentemente osservati, come la croce sul monte, i motivi a palme, i soli raggianti – a volte in forma più precisa di ostensorio –, le teste talvolta in elaborazione apotropaica e infine i crocifissi veri e propri con la raffigurazione completa del Salvatore, spesso di squisita fattura (Aurisina, Santa Croce, Rupingrande). Il recinto della corte custodisce all’interno la cisterna per la raccolta dell’acqua, più raramente il pozzo e spesso, come nel campiello veneziano, l’accesso all’acqua è sottolineato dalla vera di pozzo, anch’essa lavorata e scolpita accuratamente. Il portale, la vera della cisterna e il focolare, spesso in marmo con intagli e incisioni, costituiscono gli elementi simbolici fondamentali della casa carsica e al contempo testimoniano l’alto livello di sviluppo delle maestranze e degli artigiani della pietra e del marmo presenti soprattutto nelle cave dell’Aurisina, dalle quali il materiale veniva trasportato in tutti i territori della Repubblica Veneta. La casa istriana si articola entro un sistema più complesso e lungo un arco cronologico più ampio, e propone tipi e aggregazioni di carattere cittadino sia con funzioni mercantili, come è più abituale, sia con funzioni rurali, accanto ai tipi della campagna. Le case degli aggregati più compatti si incontrano sulla spina che va da Capodistria e Pirano, attraverso Buie, Cittanova, Parenzo, quasi all’estrema punta
Questo quadro sociale è premessa alla individuazione di due grandi categorie edilizie: l’area della casa carsico-mediterranea in pietra e quella della casa greco-egea ne fissano i confini con una buona approssimazione19. Per quanto riguarda la prima (casa carsico-mediterranea), il confine settentrionale si colloca in corrispondenza del Carso di Gorizia e Trieste, lungo una linea di confine che a occidente si snoda da Duino a Doberdò fino a Gorizia e a nord-ovest lungo la valle di Aidússina (Ajdovscina) e di Vipacco (Vipava) fino a congiungersi dopo Cosina (Kozina) con i Monti della Vena che sostanzialmente separano la penisola istriana dal continente. Da Fiume (Rijeka), che rappresenta la cerniera tra il sistema dell’Istria e quello della Dalmazia, la diffusione del tipo carsico continua nelle isole del Quarnaro e lungo una sottile fascia di terraferma tra Buccari e Zara (Zadar), protetta e limitata dall’impervio sistema dei Monti Velebit, per poi riaprirsi verso l’entroterra nella Dalmazia vera e propria tra Zara (Zadar) e Ragusa (Dubrovnik) lungo le propaggini delle Alpi Dinariche e del Montenegro nella sua porzione adriatica. Lungo questi confini si assiste, a occidente, al passaggio verso la casa della pianura friulana del Monfalconese e di Cormons20, e a nord-est al trascorrere verso le valli dell’Isonzo, del Plezzano, di Ceporan e a sud della Selva di Tarnova (Trnovski Grozd), verso le regioni di Postumia (Postojna) e dell’entroterra di Fiume (Rijeka) nelle quali si verifica il trapasso verso l’area cosiddetta della casa dinarica, caratteristica di tutta la Slovenia (con influssi austriaci), della Croazia continentale e della Bosnia-Erzegovina, nonché del Montenegro centrale21. Se è vero che sostanzialmente l’area della casa cosiddetta carsico-mediterranea “si arresta là dove cominciano le regioni ricche di foreste”22, è altrettanto vero che la sua fenomenologia e le varianti sono dettate da più ampie ragioni che non quelle semplicemente funzionali – come vorrebbero i geografi o gli etnografi ricordati – tanto da rendere necessaria una opportuna ridefinizione del concetto di casa carsica. Come si è già sottolineato per le forme dell’insediamento, anche i tipi edilizi devono essere messi in relazione a modi e formazioni sociali assai differenti le une dalle altre nella fascia adriatica orientale. La corrispondenza univoca tra la forma della casa e la struttura familiare della zadruga serve infatti a comprendere certi fenomeni dell’entroterra della Dalmazia centromeridionale, più vicina alle aree culturali marginali della Bosnia-Erzegovina e del Montenegro, ma restano esclusi sia il litorale – legato alla cultura delle città influenzate da Venezia – sia l’Istria e le isole, ed anche, probabilmente, il Carso settentrionale, dove si fanno più fitte le influenze venete di terraferma con quelle propriamente slovene in quella regione che l’amministrazione austro-ungarica aveva definito come Carniola.
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capitolo decimo Le vie verso l’Oriente meridionale: il prototipo, ancora riconoscibile, è quello della cosiddetta casa romanica di Parenzo (sec. xiii) che presenta elementi che si diffondono con varianti in tutta l’area, quali la scala esterna che si conclude con un terrazzo su profondo portico e la loggia al secondo piano26. Anche nei tipi diffusi negli agglomerati a carattere prevalentemente rurale, nei comuni del territorio di Antignana, Canfanaro, Pisino e Gallignana, questo elemento è ripetuto assai frequentemente lungo il lato più lungo della casa, a volte costituendone un accessorio monumentale, collegando i rustici del piano terreno all’abitazione vera e propria del primo piano, che viene così a godere di un affaccio su un terrazzo a volte assai ampio. Sotto il profilo distributivo interno, la casa istriana presenta infatti una netta separazione tra i rustici e le stalle, posti al piano terreno, e i locali di abitazione – cucina compresa – che sono collocati al primo piano, e questo spiega l’enfatizzazione del sistema scala-porticato che diventa una introduzione alla casa e non un semplice disimpegno tra la zona abitata di soggiorno e le camere per dormire. Qui compare e si afferma definitivamente l’abbinamento tra la terrazza sopraelevata – a volte con loggiato – e la cisterna che è ricavata al di sotto del massiccio portico di sostegno, e alla quale si accede attraverso una vera di tipo veneziano, quasi fosse un pozzo; in questo caso la terrazza diviene un vero e proprio cortiletto e quindi elemento integrante della ritualità della vita quotidiana che si svolge nella casa. Assai simile è l’articolazione delle case che si ritrovano nelle isole, sia del Carnaro (Kvarner) sia più a sud della Dalmazia vera e propria; tuttavia le case di Cherso (Cres), Lussino (Losinj) e Veglia (Krk) leggibili chiaramente in abitati non accentrati, ma neppure sparsi, come a Belej (Cres) o Ostrobradici (Krk) presentano la tendenza ad aumentare di un piano e a ruotare di 90° l’inclinazione del tetto. Si assiste così alla fioritura di grandi case in pietra molto compatte volumetricamente, ma dall’articolazione distributiva assai complessa. Di dimensioni assai più contenute sono i tipi edilizi dell’entroterra dalmata, della Riviera dei “Sette Castelli” o della piana di Zara e delle valli che da Obrovic a Knin e a Sinj fanno da antemurale al sistema dei Monti Dinarici27. Sono a volte strutture primitive monocellulari o con stalla giustapposta, poco dissimili dalle dimore temporanee dei pastori, spesso recintate con un muro per proteggere il bestiame, dalle basse pareti e dall’ampio tetto coperto con lastre in pietra calcarea di forte spessore: la porta di ingresso è sottolineata da portali megalitici di grandi dimensioni, del tutto spropositati per le funzioni che devono svolgere, conseguenza perciò di quella intenzione simbolica e rituale che s’è già riscontrata in altre regioni europee. Più frequente è il tipo della casa a due piani, con la sovrapposizione degli ambienti d’abitazione su quelli di lavoro: la cucina (kuhinja) con il focolare (komin) è generalmente al primo piano, assieme alla spesso unica camera da letto
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(soba) per tutta la famiglia, mentre al piano terreno stanno il deposito e la stalla per l’asino e il bue da lavoro. La casa, a pianta rettangolare, ha tetto a due falde serrato tra i muri a timpano; l’ingresso avviene in genere sul lato più lungo, dove spiovono le falde, e si accede al piano superiore con una scala esterna in pietra – simile ma in genere molto più ridotta rispetto agli esempi istriani – che forma un piccolo ballatoio all’ingresso della cucina. In qualche caso abbiamo osservato, similmente al tipo carsico settentrionale, la disposizione di un locale, usato durante il giorno, al piano terreno, con apertura sul lato più stretto in corrispondenza del timpano che però non sostituisce la cucina ma serve per il disbrigo di altre attività domestiche. Queste cellule originarie dell’insediamento si dispongono in modo apparentemente casuale nello spazio del villaggio: in realtà ognuna gode di una appartenenza ben precisa che possiamo assimilare al concetto di corte, e che raramente è delimitata da muri ma corrisponde all’estensione dello spazio necessario al lavoro. A volte l’aggruppamento avviene per accostamento di case abitate da famiglie imparentate28, e in questo caso è più facile, come a Postinje, riscontrare l’esistenza di attrezzature comuni, come la grande aia a pianta circolare; sempre in questi casi si segnala, a volte, la presenza della cucina esterna, complementare a quella della casa, “usata collettivamente da due o tre famiglie” con un focolare al centro29. La casa del Montenegro carsico non si differenzia molto da questa descritta, se non per il fatto che la struttura familiare ancestrale (zadruga) e le sue modalità di aggregazione (bratstvo) già descritte hanno mantenuto la loro identità fino alle soglie del xx secolo e hanno dato luogo a tipi più complessi ed evoluti. Osserva Cvijic che “i Montenegrini amano avere belle case tanto che i contadini spendono tutti i loro risparmi nella loro costruzione e poi rimangono con nulla”30. Tra gli esempi sopravvissuti abbiamo potuto osservare, purtroppo in abbandono, la grande casa a Medjugorie (Mostar), risultante dall’aggregazione di quattro tipi elementari, simili a quelli descritti nell’area della casa dalmata, ma con dimensioni assai più dilatate e particolari costruttivi quali i grandi portali (di cui il principale recante le insegne del sole e della luna), e le finestre nobili e raffinate: le logge di collegamento, probabilmente posteriori alla formazione del nucleo primitivo, risentono assai della architettura delle case ispirate al mondo ottomano della vicina Mostar. Maggior complessità e varietà di esperienze costruttive e tipologie edilizie si riscontrano scendendo all’estremo sud della penisola balcanica, nell’area generalmente definibile della casa greco-egea. Soprattutto nelle zone settentrionali della Grecia, tra Macedonia occidentale ed Epiro, sembra essere maturata una grande tradizione di maestranze di muratori, esperti nella lavorazione della pietra, che si collocherebbero a partire dal xv secolo, allorché la pressione dell’impero ottomano sembrò sollecitare quasi il senso di autonomia dei popoli di tradizione greca ivi residenti, che
si ritirarono nelle zone più impervie per difendere le loro libere istituzioni. Accanto ai villaggi liberi sorsero così queste corporazioni epirote e macedoni che si diffusero non solo in tutta la Grecia entro un ambito di committenza che potremmo definire popolare, ma in tutto il mondo della koiné turco-mediterranea, giungendo così alla formulazione di tipologie edilizie di carattere e natura assai eclettica che conservano elementi della tradizione bizantina accanto ad acquisizioni costruttive latine e distributive turche31. Quanto alla pretesa continuità nell’architettura civile tra l’architettura bizantina e quella che si sviluppa nell’ambito di tali maestranze dal xv al xvi secolo, sembra non esistano elementi concreti per una valutazione, e ci si dovrebbe rifare ad un contesto generale di continuità culturale, a prescindere dalle derivazioni formali32, soprattutto perché – e sembra un fattore decisivo – non si conoscono a sufficienza esempi bizantini medioevali in tale genere. Alle maestranze epirote si deve innanzitutto la realizzazione dei villaggi nella zona di origine, soprattutto della zona a nord di Joanina (Metsovo, Zagoria). La loro diffusione verso il sud si accompagnò anche a un affiancamento di gruppi locali che, venendo a operare nel contempo, si rivolsero a committenze più popolari e meno raffinate. È il caso, per il Peloponneso, del gruppo dei Barbariti, così detti perché provenienti dal villaggio di Santa Barbara di Nonacrides (Kalavrita), che divennero personaggi popolari ai quali si dedicavano perfino canzoni: ricordiamo che la costruzione della casa, che si realizzava comunque con l’aiuto della
comunità (xellass), terminava sempre con una grande festa popolare che accomunava proprietari, maestranze e aiutanti del vicinato33. Ai Barbariti e agli Epiroti e Macedoni si devono quindi le case in pietra dei villaggi del Peloponneso, che ripetono sostanzialmente due schemi planivolumetrici fondamentali: quello della casa a due piani con rustico al seminterrato e abitazione con loggia al primo piano, e quello della casa-torre. Entrambi i tipi mostrano una assai accurata realizzazione delle strutture murarie che, malgrado spessori di muri contenuti, regge assai bene alle scosse telluriche e agli effetti ancor più disastrosi dell’abbandono. Gli spigoli sono fatti con pietre d’angolo ben lavorate, spesso con pietra più pregiata, e le inquadrature di porte e finestre assai curate: esse passano dalle forme più antiche ed elementari ad arco semplice a quelle con arco e architrave (preki) o ad arco ribassato o piattabanda con conci trapezoidali (kataetia). La decorazione simbolica, comune nelle chiese, si riversa anche sulle case: il motivo più comune è quello propiziatorio della mammella, schematizzato in una semisfera che compare sui portali e sugli spigoli delle case, ma sono pure frequenti i motivi di derivazione bizantina e latina, quali i soli raggianti e le croci iscritte nel cerchio, il cui simbolismo religioso è più chiaro; in alcuni edifici (Karitena, Astros) si ritrovano anche le teste di pietra che possono ricordare sia la presenza della cultura franca34 sia riaffioramenti della tradizione delle maschere derivate dalla consuetudine funeraria micenea.
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capitolo decimo Le vie verso l’Oriente
territorio
2. Rovine dell’antico villaggio in pietra di Anavatos, isola di Chios, Egeo settentrionale, Grecia.
3. Chiesa ortodossa a Karytaina, Peloponneso, Grecia.
4. Il villaggio di Karytaina, Peloponneso, Grecia.
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capitolo decimo Le vie verso l’Oriente
comunità
5. Rovine di un villaggio in pietra, Peloponneso, Grecia.
6. Rovine dell’abitato di Paos, Acaia, Grecia.
7. Rovine di un edificio in pietra a Mostar, Bosnia ed Erzegovina.
8. Chiesa Agios Nikolaos a Karytaina, Peloponneso, Grecia.
9. Rovine dell’abitato di Paos, Acaia, Grecia.
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capitolo decimo Le vie verso l’Oriente
comunità
10. Scorcio dell’isola di Krk, (Veglia), Croazia.
11. Abitazioni in pietra a Međugorje, Bosnia ed Erzegovina.
12. L’abitato del villaggio medievale di Mesta, isola di Chios, Grecia.
13. Lo Stari Most, ponte ottomano a Mostar, Bosnia ed Erzegovina.
14. Via d’accesso allo Stari Most, Mostar, Bosnia ed Erzegovina.
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capitolo decimo Le vie verso l’Oriente
case
15. Abitazioni in pietra a Sovići, Mostar, Bosnia ed Erzegovina.
16. Facciata di un edificio a Mostar, Bosnia ed Erzegovina.
17. Massiccio edificio in pietra a Stolac, Bosnia ed Erzegovina.
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18. Rovine di un mulino in pietra a Kallimasia, isola di Chios, Egeo settentrionale, Grecia.
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capitolo decimo Le vie verso l’Oriente
simboli
19. Volti e iscrizioni sulla facciata di un edificio a Karytaina, Peloponneso, Grecia.
20. Dettaglio di un volto scolpito su pietra, Karytaina, Peloponneso, Grecia.
21. Necropoli medievale di Radimlja, Stolac, Bosnia ed Erzegovina.
22. Campanile ad Astros, Golfo dell’Argolide, Peloponneso, Grecia.
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NOTE Europa sedentaria ed Europa in cammino Note Per una più ampia trattazione della storia della metodologia di interpretazione dei fenomeni insediativi popolari e sulla relativa terminologia critica si veda Langé S., Citi D., Comunità di villaggio e architettura. L’esperienza storica del Levante ligure, Milano 1985, cap. 1, con relativa bibliografia; Zanzi L., Rizzo E., I Walser, Milano 1987, soprattutto le questioni metodologiche al cap. 5, con ampi riferimenti bibliografici. 2 La connessione tra la diffusione dei fatti architettonici e il sistema delle comunicazioni medioevali si ritrova sistematizzata, per l’architettura religiosa monumentale, in Focillon H., Art d’Occident, Paris 1938, (ed. it. L’arte dell’occidente, Torino 1987) che costituisce il riferimento fondamentale anche per la presente trattazione; ampliamenti e nuovi suggerimenti in tal senso sono proposti da Oursel R., Routes romanes, 2 voll., St. Léger Vauban 1982, 1984; (ed. it. Le strade del medioevo, Milano 1982; La via lattea, Milano 1985), Id., Invention de l’architecture romane, ivi, 1970 (ed. it. Architettura romanica, Milano 1986). Sul tema dei pellegrinaggi e delle vie di pellegrinaggio si veda sempre Oursel R. Pèlerins du Moyen Age, Paris 1978 (ed. it. Pellegrini del medioevo, Milano 19883), con ampia e ragionata bibliografia soprattutto sulle vie per il santuario di Santiago de Compostela, alla quale rimandiamo limitandoci a segnalare la bella traduzione francese (con testo critico e bibliografia) del testo guida di riferimento fondamentale e cioè il “Liber Santi Jacobi” del xii sec., a cura di Vieilliard J., La Guide du Pèlerin de Saint-Jacques de Compostelle, Maçon 1950, Paris 1978. Sui percorsi verso Roma un ampio programma di indagini è stato recentemente affrontato dal “Centro di Studi Romei” tra le cui pubblicazioni fondamentali è quella di Stopani R., Le grandi vie di Pellegrinaggio nel Medioevo. Le Strade per Roma, Centro Studi Romei, Firenze 1986 alla cui ampia bibliografia si rimanda per uno sguardo generale; inoltre sulle vie dell’Appennino Emiliano, Ligure e Toscano si veda il cap. 8, parte 2° del presente volume, e per i valichi alpini i capp. 6 e 7, parte 2°, p.v. Le connessioni tra i percorsi di Santiago de Compostela e quelli di Roma sono ben evidenziati in Gambini D., Pistoia e il Cammino di Santiago. Una dimensione europea nella Toscana medioevale, in “Studi Medioevali”, 1986, vol. ii e in Damonte M., Da Firenze a Compostella: itinerario di un anonimo pellegrino nell’anno 1477, in “Studi Medioevali”, 1972, vol. ii; Quintavalle C.A., Vie dei pellegrini nell’Emilia medievale, Milano 1977 si consulti comunque il più generale articolo di Leclercq Dom H. s.v., Pèlerinage à Rome, in “Dictionnaire d’Archéologie Chretienne et de Liturgie”, vol. xiv, 1936; Id., s.v., Itineraires, ibidem, vol. vii, 1927. Tra gli studi particolari sui pellegrini a Roma è utile ricordare Solmi A., L’itinerario italico dell’abate Nicolò Thingoerense, in “Rendiconto dell’istituto Lombardo di Scienza e Lettere”, Serie ii, vol. lxvi, 1933; e gli itinerari di Firri e Tirri degli “Annales Stadenses” del 1240 contenuti in “Monumenta Germaniae Historical Scriptorum Tomo xvi”, Hannover 1858. Le descrizioni degli itinerari verso Gerusalemme sono ricavabili dalla copiosa bibliografia sull’epoca delle Crociate: si veda Langé S., L’architettura delle Crociate in Palestina, Como 1965; assai aggiornato e ampio nella trattazione territoriale è Grousset R., L’Empire du Levant. Histoire de la question d’Orient, Paris 1979 con ampia bibliografia; notizie generali sui percorsi per terra e per mare anche in Braudel F., La Méditerranée et le mond des méditerranéens à l’epoque de Philippe ii, Paris 1949; importante per i viaggi Parente F., La conoscenza della Terra Santa come esperienza religiosa dell’occidente cristiano dal iv secolo alle crociate, in “Settimane di studio del centro italiano di studi Sull’Alto Medioevo”, Spoleto 1983; Dardano M., Un itinerario dugentesco per la Terra Santa, in “Studi Medioevali”, 1966, n. 1; Grabois A., Les pèlerins occidentaux en Terre Sainte et Acre: d’Accon des croises a Saint-Jean d’Acre, in “Studi Medioevali”, 1983, vol. i; Golubovich G., Fr. Albertus Stadensis: 1, Iter trans mare versus Ierusalem; 2, Itinerarium Terrae Sanctae; B. Fr. Ardizio Corradi, si reca a Gerusalemme, in “Biblioteca Bio-Bibliografica della Terra Santa e 1
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dell’Oriente Francescano”, tomo ii, Firenze 1906 (voci di regesto). Sugli aspetti più generali della viabilità dal medioevo all’età barocca: Day J., Strade e vie di comunicazione, in “Storia d’Italia”, vol. v, “I Documenti”, Torino 1974; per gli aspetti socio-culturali Orlandi G., Temi e correnti nelle leggende di viaggio dell’Occidente alto-medioevale in “Settimane di studio del centro italiano di studi Sull’Alto Medioevo”, Spoleto 1983; Cohen E., Roads and Pilgrimage: a study in economie interaction, in “Studi Medioevali”, 1980, vol. i; sulle fonti: Richard J., Les récites de voyages et de pèlerinages, in “Typologie des sources du moyen âge occidental”, Turnhout 1981. Per gli aspetti nelle singole aree si veda la bibliografia dei singoli capitoli nella 2a parte del presente volume. 3 Si veda in particolare Oursel R., op. cit. 4 Sull’utilizzazione dei valichi montani nelle diverse epoche in rapporto ai percorsi di pellegrinaggio e di scambio mercantile esiste un’ampia bibliografia non ancora coordinata in una sistematica europea: oltre a Oursel R., op. cit., e Bautier F., Les routes de l’Europe médiévale, in “Bulletin philologique”, 1961, si veda per i valichi pirenaici Duhourcan B., Les chemins de Saint-Jacques en Pays Basque, Bayonne 1986; Urrutibehety C., Vois d’accès en Navarre et carrefour des chemins de Saint-Jacques, Bayonne, s.d. Più articolato lo studio sui valichi alpini per i quali si rimanda in generale all’opera di Guichonnet P., Histoire et Civilitations des Alpes, Lousanne 1980, ed. it. Storia e civiltà delle Alpi, Milano 1986; per i valichi del Moncenisio, Monginevro e Gran San Bernardo si vedano le ampie note al cap. x, parte 2° del presente volume; per il Sempione, San Gottardo, San Bernardino, quelle al cap. xiii, parte 2°, p.v. e per i valichi appenninici il cap. xi, parte 2°, p.v. 5 Oursel R., Invention de l’architecture romane, op. cit. 6 Stopani R., op. cit. 7 Si vedano i riferimenti bibliografici sul Santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo (Gargano) e sugli scali pugliesi per la Terra Santa al cap. xii, parte 2°, p.v.; si veda anche l’itinerario di Filippo Augusto descritto in Stopani R., op. cit. 8 Sul sistema dei porti e dei percorsi territoriali nell’Oriente e in Terra Santa si veda Langé S., Architettura delle Crociate in Palestina, op. cit.; Stringa P., Genova e la Liguria nel Mediterraneo, Genova 1982; inoltre le ulteriori informazioni al cap. xiv, parte 2°, p.v., in particolare Barelli G., Le vie del commercio fra l’Italia e la Francia nel Medio-Evo, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, xiii, 1907, pp. 65-138. 9 aa.vv., La Méditerranée, a cura di Braudel F., Paris 1985; Grousset R., op. cit. 10 Sull’argomento esistono copiosissime annotazioni in quasi tutte le opere già citate alla precedente nota n. 2, ma si attende ancora una sistematizzazione di un argomento peraltro assai vasto e complesso: un notevole contributo è stato dato dai “Congressi Europei e Italiani di Storia Ospitaliera” a cura del “Centro Italiano di Storia Ospitaliera” tenuti nel 1957, 1960 e 1961 al cui copioso, anche se necessariamente non organico, materiale si rimanda. Inoltre Raina P. Strade, pellegrinaggi ed ospizi nell’Italia del Medioevo, in “Atti della Soc. It. per il progresso delle Scienze”, 1911; Stopani R., Canoniche e viabilità nel Medioevo, in “Rivista Geogr. It.”, a. xcii, sett-dic. 1985; in particolare sull’attività degli Antoniani si veda il complesso regesto di Ruffini I., Fondo Archivistico-bibliografico per la storia ospedaliera antoniana, Torino 1980-82; Bertelli L., Gli ospitalieri di Altopascio in Italia e in Europa, in “Atti i Congr. Europ. St. Ospitaliera”, giu. 1960. 11 Guichonnet P., op. cit. 12 Oursel R., Invention de l’architecture romane, op. cit.; Nasalli Rocca E., L’ordine di S. Giovanni in Terra Santa, in “Cavalieri di Malta pellegrini in Terra Santa”, Viterbo 1965. 13 Pernoud R., Pour en finir avec le Moyens Age, Paris 1977; Id., Les saints au Moyen Age, Paris 1984 (ed. it. I santi nel medioevo, Milano 1986). 14 Sul tema della stanzialità e delle sue forme Bloch M., L’histoire rurale française, Paris 1968 (ed. it. I caratteri originali della storia rurale francese, Torino 1976), il tema è più ampiamente sviluppato nel 2° cap., parte 1°, p.v. e nei paragrafi dedicati alle “Trasformazioni del territorio” della
NOTE 2° parte, p.v. 15 Bloch M., op. cit., Beresford M.W., Hurst J. G., Deserted Medieval Villages, London 1971; Muir R., The lost villages of Britain, London 1982; aa.vv. Archéologie du village déserté, Paris 1970 (2 voll.); Chapelot J., Fossier R., Le village et la maison au Moyen Age, Paris 1980, in particolare il cap. 2°, “Terroirs et habitats du Haut Moyen Age”. 16 Ingegnoli V., Ecologia e progettazione, Milano 1980. 17 Bruneton-Governatori A., Le pain de bois. Ethnohistoire de la châtaigne et du châtaignier, Toulouse 1984; Pitte J.R., Terres de Castanide, Paris 1986; Kaeser H., Die Kastanienkultur und ihre Terminologie in Oberitalien und in der Südschweiz, Zürich 1932. 18 Si veda il successivo capitolo 2 con relativa bibliografia. 19 Bloch M., op. cit. 20 Cvijic J., La Péninsule Balkãnique, Paris 1918. 21 Marino J.A., Pastoral Economies in the Kingdom of Naples, Baltimore and London 1988, descrive in modo completo il sistema Abruzzese-Molisano-Pugliese sotto il profilo istituzionale, economico, paesaggistico dei tratturi; per la “Mesta” della Penisola Iberica: Klein J., The Mesta: A Study in Spanish Economic History, 1273-1836, Cambridge 1920; per l’area francese Braudel F., La Méditerranée et le mond des méditerranéens à l’époque de Philippe ii, op. cit. 22 Si veda il successivo cap. 2°. 23 aa.vv., Storia d’Italia e d’Europa, a cura di Guidetti M., vol. i L’Europa barbara e feudale; vol. ii Apogeo e crisi del Medioevo, Milano 1978. 24 Non costituisce tema del presente studio l’analisi delle morfologie urbane per le quali esiste una lunga tradizione storiografica: Lavedan P., Histoire de l’urbanisme, Paris 1926, 1941, 1952; Gutkind E. A., International History of City Development, New York 1965-67, oltre ai numerosissimi studi monografici su singole aree urbane.
L’organizzazione sociale delle campagne Note Toubert P., Les structures du Latium médiéval. 2 voll., Bibliothèque de l’Ecole Française de Rome, 1973, tr. it. Feudalesimo mediterraneo, Milano 1980. 2 Bloch M., Les caractères originaux de l’histoire rurale française, tome ii, Paris 1956, pp. 106 ss.; id., The Rise of Dependent Cultivation and Seigneurial Institutions, in “The Cambridge Economic History”, Cambridge 1966, t. i, pp. 235-290; Schulze H.K., Grundstrukturen der Verfassung in Mittelalter, Band 2, Stuttgart 1986, pp. 57 ss; Schlesinger W., Die Hufe im Frankreich, in “Untersuchungen zur eisenzeitlichen und frühmittelalterlichen Flur”, a cura di Beck H., Denecke D., Jankulin H., Göttingen 1979, Teil 1, pp. 41-70; Bognetti G.P., Sulle origini dei comuni rurali nel Medioevo, Milano 1924, ristampato con il titolo Studi sulle origini del comme rurale, Milano 1978, cap. iv (si farà riferimento a questa ristampa). 3 Bloch M., Les caractères originaux de l’histoire rurale française, tome ii, p. 96, pp. 117-118. 4 Germain R., Les campagnes bourbonnaises à la fin du Moyen Age (13701530), “Publications de l’institut d’Etudes du Massif Central”, 1987, p. 292. 5 A questo insediamento alverniate, morfologicamente tipico anche di altre aree collinari europee, viene dato il nome di mas. Carbonnier P., Une autre France. La seigneurie rurale en Basse Auvergne du xivˆ au xviˆ siècle, Clermont-Ferrand 1980, t. 1, pp. 99 ss. 6 Imberciadori I., Mezzadria classica toscana, Firenze 1951; Stopani R., Il contado fiorentino nella seconda metà del Dugento, Firenze 1979. 7 Settia A.A., Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento potere e sicurezza fra xi e xiii secolo, Napoli 1984, p. 491. 8 García Cortazar J.A., Les communautés villageoises du nord de la péninsule ibérique au Moyen Age, in “Les communautés en Europe occiden1
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tale du Moyen Age aux temps modernes”, Auch 1984 (citato in seguito come flaran), pp. 55-77; Bonassié P., Guichard P., Les communautés rurales en Catalogne et dans le pays valencien (ix - milieu xiv siècle), ivi, pp. 79-115; Reyna Pastor, Resistencias y luchas campesinans en la época del crecimiento y consolidation de la formation feudal. Castilla y León signo x-xiii, Madrid 1980. 9 Bloch M., Seigneurie française, manor anglais, Paris 1967 (ed. it. Signoria francese e maniero inglese, Milano 1980); Seebohm F., The English Village Communities, London 1890, cap. iii; Patourel (Le) J., The Norman Empire, Oxford 1976, pp. 43 ss. 10 Bras (Le) G., L’église et le village, Paris 1976, pp. 90 ss. 11 Dal xii secolo: Violante C., Pievi e parrocchie dell’Italia centro-settentrionale durante i secoli xi e xii, in “Le istituzioni ecclesiastiche della ‘societas christiana’ dei secoli xi e xii. Diocesi, pievi, parrocchie”, Milano 1977, pp. 754 ss. 12 Bonassié P., Guichard P., art. cit., p. 80 per la montagna catalana; Durand R., Les campagnes portugaises entre Douro et Tage aux xiiˆ e xiiiˆ siècles, Paris 1982, p. 166 per il Portogallo. 13 Bras (Le) G., op. cit., pp. 155 ss.; Duby F. (ed.), Histoire de la France rurale, Paris 1975, v. I, p. 535. 14 Garcia Cortazar J.A., art. cit., p. 72. 15 Santini G., I ‘comuni di pieve’ nel Medioevo italiano. Contributo alla storia dei comuni rurali, Milano 1964. 16 Una testimonianza genovese del 1227-28 definisce la parrocchia populus o vicinia ecclesiae Violante C., art. cit., p. 738. Sul termine vicinia, che definisce un’importante organizzazione comunitaria, vedere il paragrafo 7. 17 Violante C., La società milanese nell’età precomunale, Bari 1974, pp. 114 ss. 18 Ourliac P., Les communautés villageoises dans le Midi de la France au Moyen Age, in flaran, op. cit., p. 19. 19 Per la montagna lombarda: Toubert P., Les statuts communaux et l’histoire des campagnes lombardes au xviˆ siècle, in ‘ ‘Mélanges d’archéologie et d’histoire de l’Ecole Française de Rome’ ’, t. lxxii, I960, pp. 410 ss; Valetti Bonini I., Le Comunità di valle in epoca signorile. L’evoluzione della Comunità di Valcamonica durante la dominazione viscontea (secc. xiv-xv), Milano 1976, pp. 172 ss.; per il Trentino: N. Nequirito, Le carte di regola delle comunità trentine. Introduzione storica e repertorio bibliografico, Mantova 1988. 20 Per tutta la parte che segue, si richiamano volutamente in modo quasi esclusivo esempi relativi alle aree presentate in questo volume. Naturalmente, sostanziose somiglianze ed altrettanto importanti variazioni potrebbero essere rilevate dalla considerazione di un’area più estesa, in particolare delle terre slave meridionali e balcaniche. Cfr. Guidetti M., Stahl P.H., Il sangue e la terra. Comunità di villaggio e familiari nell’Europa dell’Ottocento, Milano 1977; id., Le radici dell’Europa. Il dibattito ottocentesco sulle comunità di villaggio e familiari, Milano 1979, con bibliografia. 21 Bognetti G., op. cit., p. 139. 22 Fossier R., Les communautés villageoises en France du Nord au Moyen Age, in flaran, op. cit., pag. 39. 23 Bader K.S., Das Mittelalterliche Dorf als Friedens-und Rechtsbereich, vol. I degli “Studien zur Rechtsgeschichte des mittelalterlichen Dorfes”, Böhlau 1967. 24 Presumibilmente perché è una delle dimore originarie del villaggio: Blum J., The Internal Structure and Polity of European Village Community from Fifteenth to Nineteenth Century, in “Journal of Modern History”, 1971, p. 545. 25 García Cortazar J.A., art. cit., p. 66. 26 Fossier R., art. cit., p. 37 per i territori di Amiens e Cambrai nel xii secolo. 27 Blum J., art. cit., p. 555. 28 Ibidem, p. 556. 29 Bognetti G., op. cit., p. 156.
Durand R., op. cit., p. 156; Bonassié P., Guichard P., art. cit., p. 92. Santini G., I comuni di valle del medioevo. La costituzione federale del ‘Frignano’, Milano 1960; id., I comuni di pieve, op. cit. K. Meier, Blenio und Levantina von Barbarossa bis Heinrich vii. Ein Beitrag zur Geschichte der Südschweitz im Mittelalter, Luzern 1911; ed. it. Blenio e Levantina del Barbarossa a Enrico vii. Un contributo alla storia del Ticino nel medioevo, Bellinzona 1977, pp. 23-32. Cfr. anche Toubert P., Les statuts communaux, art. cit., pp. 434 ss. 32 Caro Baroja J., Los Vascos, Madrid 1986, p. 29. 33 García Cortazar J.A., Vizcaya en el siglo xv, Bilbao 1966, p. 53. 34 Vaillant P., Les origines d’une libre confédération de vallées: les habitant des communautés briançonnaises au xiiiˆ siècle, in “Bibliothèque de l’Ecole des Chartes”, 1968, pp. 301-348. 35 K. Meier, op. cit., pp. 33-53; Bognetti G., op. cit.; Bourin M., Durand R., Vivre au village au Moyen Age. Les solidarités paysannes du 11ˆ au 13ˆ siècles, Paris 1984, cap. 8; a partire da un’analisi locale: Toulgounat P., Voisinage et solidarité dans l’Europe du Moyen Age. Lou besi de Gascogne, Paris 1981; su un caso sardo, presentato in chiave antropologica, M.G. Da Re, Vicini e vicinati a Guamaggiore, in G. Angioni, A. Sanna, “La Sardegna”, Bari 1988, pp. 112 ss. 36 Ott S., The Circle of Mountains. A Basque Shepherding Community, Oxford 1981, p. 62. 37 Cfr. anche Sereni E., Comunità rurali nell’Italia antica, Roma 1955, parte iii. 38 Costato L., I domini collettivi nel medio Polesine, Milano 1968; i testi di Cencelli Perti, Sarti e Forni sulle Partecipanze emiliane in Guidetti M., Stahl P.H., Un’Italia sconosciuta. Comunità di villaggio e familiari nell’Italia dell’Ottocento, Milano 1977, pp. 191-214. 39 Così Tomaso d’Aquino argomentando sulla questione se l’incesto sia una specie di lussuria, Summa Theologica, 2a, 2ae, 154, 9. 40 aa.vv., Famille et parenté dans l’Occident médiéval, “Atti del Colloquio di Parigi 1974” Roma 1977. 41 Klapisch C., Demonet M., A uno pane e uno vino. La famille rurale toscane au début du xv siècle, in “Annales”, 1972, p. 880; Corsaud A., La société rurale traditionelle au Limousin, Paris 1976, tome i, pp. 137 ss. 42 Dussourd H., Les communautés familiales agricoles du centre de la France, Paris 1978. 43 lmberciadori L., op. cit., p. 59; Giorgetti G., Contadini e proprietari nell’Italia moderna. Rapporti di produzione e contratti agrari dal secolo xvi ad oggi, Torino 1974, pp. 34 ss. 44 Grand R., Quelques survivances régionales d’une communauté de famille et de clan dans la pratique coutumière (xiˆ -xivˆ siècle), surtout en France et en Suisse Romande, in “Revue Historique du Droit Français et Etranger”, 1958. 45 Per Scilironi, in Valtellina: Benetti A., Benetti D., Dell’Oca A., Zoia D., Uomini delle Alpi. Contadini e pastori in Valtellina, Milano 1983, pp. 221249; per il Cadore: Bolla G., Le comunioni familiari ereditarie dei territori alpini e la legge 16 giugno 1927 sul riordinamento degli usi civici, in “Scritti di diritto agrario”, Milano 1963, pp. 517. 46 Robin F., Sestri Levante, bourg de la Ligurie génoise au xv siècle (14501500), Genova 1976, pp. 143 ss. 47 Carretto G., Forme di proprietà collettiva nell’Appennino ligure-piemontese, in Guidetti M., Stahl P.H., “Un’Italia sconosciuta”, op. cit., pp. 237 ss; Heers H., Il clan familiare nel Medioevo, Napoli 1976, p. 70 ss; elementi analoghi per il villaggio di Fonni, in Sardegna, sono presentati da G. Murru Corriga, Case e famiglie della montagna pastorale, in G. Angioni, A. Sanna, op. cit., pp. 192 ss. 48 Reyna Pastor, op. cit. 49 Wickham C., Il problema dell’incastellamento nell’Italia centrale. L’esempio di San Vincenzo al Volturno, Firenze 1985, p. 85; Toubert P., op. cit., pp. 714 ss. 50 Goody J., L’évolution de la famille et du mariage en Europe, Paris 1985, p. 188; Merzario R., Il paese stretto. Strategie matrimoniali nella diocesi di Como nei secoli xvi-xviii, Torino 1981.
Thompson E.P., The grid of inheritance: a comment, in “Family and Inheritance”, op. cit., pp. 328 e 337. 52 Yver Y., Egalité entre héritiers et exclusion des enfants dotés. Essai de géographie coutumière, Paris 1966. 53 Come la pupilla della Catalogna, Elliot J.H., The Revolt of Catalans, Cambridge 1963, p. 37. 54 Homans G.C., English Villages of the Thirteenth Century, New York 1960 (ed. orig. 1941), pp. 137 e 149. 55 Ad esempio i fadristarns o cabalers di Catalogna, Elliot J.H, op. cit., p. 38. 56 Spufford M., Peasant Inheritance. Custom and Land Distribution in Cambridgeshire from the Sixteenth to the Eighteenth Centuries, in “Family and Inheritance”, op. cit., p. 157 57 Charbonnier P., op. cit., tome 2, p. 798; Bloch M., Caractères originaux, op. cit., tome 2, p. 186. 58 Roy Ladurie (Le) E., Système de la coutume: structures familiales et coutume d’héritage en France au xviˆ siècle, in “Annales”, 1972, pp. 825-846. 59 “Se nascesse una contesa tra due genealogie riguardo al confine delle loro terre” citato in Doehaerd R., Le Haut Moyen Age occidental. Economie et société, Paris 1971, p. 166 (ed. it. Economia e società dell’alto Medioevo, Bari 1983). 60 Bourin M., Durand R., op. cit., p. 49. 61 Netting R. Mc. C., Balancing on an Alp. Ecological Change and Continuity in a Swiss Mountain Community, Cambridge 1981, pp. 217 ss. 62 Bloch M., Seigneurie française, op. cit., p. 118; Homans G. C., op. cit., p. 126. 63 Caro Baroja J., op. cit., p. 219. 64 Marino-Veiras D., Communautés villageoises et segneurie monastique dans la Galice septentrionale (de la moitié du xiiˆ siècle a la fin du xvˆ), in flaran, p. 231. 65 Germain R., op. cit., p. 281. 66 Page M., The Estates of Crowland Abbey, Cambridge 1934, citato in Bloch M., Caractères orig. op. cit., tome 2, p. 156. 67 La pratica, che in Auvergne prende il nome di pagésie, si può evolvere verso una solidarietà puramente giuridica quando non tutti i detentori del terreno vivono nello stesso villaggio, né tutti sono contadini. Cfr. Charbonnier P., op. cit., tome 2, pp. 941 ss. 68 Violante C., Pieve e parrocchia, art. cit., p. 743. 69 Roy Ladurie (Le) E., Melusina ruralizzata, in “Le frontiere dello storico”, Bari 1976; Schulze H.K., op. cit., Band 2, p. 52. 70 Ott S., op. cit., p. 43; Bourdieu P., Célibat et conditions paysanne, in “Etudes Rurales”, 1982, p. 37. 71 Elliot J.H., op. cit., p. 37. 72 Per la Borgogna: Root H.L., Peasants and King in Burgundy. Agrarian Foundations of French Absolutism, 1987; per l’Italia padana: G. Tocci (a cura di), Persistenze feudali e autonomie comunitarie in stati padani fra Cinque e Seicento, Bologna 1988. 73 Blum J., The End of Ancient Order in Rural Europe, Princeton. 74 Dati di Kosminsky E.A. ripresi da Hilton R.H. “La communauté villageoise en Angleterre au Moyen Age”, in flaran, pp. 125-127. 75 Blum J., art. cit., p. 571. 76 Nel Canton Ticino la dizione di patrizi per vicini, ancor oggi corrente, è un tardivo prodotto delle lotte per l’alienazione dei beni comuni e la privatizzazione della proprietà, avviate con la legge della Repubblica Elvetica del 3 giugno 1978.
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La solidarietà nell’insediamento Note Zanzi L., Rizzi E., I Walser, Milano 1987. Stahl P.H., Villages colonisés et villages spontanés, in “Actes du premier congrès international d’ethnologie européenne”, Paris, Août 1971.
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NOTE Si usa il termine di insediamento discreto nel significato originario dell’etimo latino discretus = diviso, distinto e quindi discontinuo, così come è comune in espressioni del linguaggio tecnico-scientifico. 4 Bras (Le) G., L’église et le village, Paris 1976. 5 Bloch M., Les caractères originaux de l’histoire rurale française, Oslo, Paris 1931, n. ed. ampliata con suppl. a cura di Dauvergne R., Paris 195256; Caro Baroja J., De la vida rural vasca. iii ed., San Sebastián 1986; si rimanda comunque alla trattazione nei capitoli regionali. 6 Bloch M., op. cit.; Guidetti M., Stahl P.H., Le radici dell’Europa. Il dibattito ottocentesco sulle comunità di villaggio e familiari, Milano 1979. 7 Sulla terminologia dell’insediamento esiste una corrispondenza accettabile tra le lingue francese e inglese, mentre in alcuni casi si discostano italiano e spagnolo. Il termine generale di village (fr.) e village (ingl.), che nella storiografia economica e urbanistica ha il preciso significato di “insediamento non urbano però di una certa consistenza e con dotazione di servizi sociali fondamentali”, non corrisponde nel linguaggio comune al termine italiano di villaggio ma forse più a quello di paese, mentre nella lingua spagnola esiste il termine di pueblo, anch’esso assimilabile come estensione all’italiano paese. Tuttavia i recenti studi etnologici hanno consolidato l’uso del termine di villaggio nel linguaggio specialistico che quindi adottiamo anche noi proponendo questa corrispondenza: village (fr.); village (ingl.); villaggio (it.); pueblo (sp.); povoado (port.). Per quanto riguarda i più piccoli aggruppamenti di case, non dotate di chiesa o altri spazi comuni, alla corrispondenza abbastanza chiara franco-inglese di hameau-hamlet si propone l’uso del termine italiano casale, definito “gruppo di case rurali che non ha funzione di centro” (Enciclopedia Italiana) anche se in alcune regioni è usato come sinonimo di masseria; in spagnolo esistono i termini di aldea, barrio, che ha significato anche di quartiere e, analogamente all’italiano, spesso si preferisce nel linguaggio comune usare la dizione di “piccolo paese”, pequeño pueblo; il portoghese propone chiaramente il termine di aldéia. Perciò hameau (fr.); hamlet (ingl.); casale (it.); aldea, barrio (sp.); aldéia (port.). 8 Sul rapporto tra percorso e insediamento si veda Caniggia G., Strutture dello spazio antropico, Firenze 1976. 9 Langé S., Citi D., Comunità di villaggio e architettura, Milano 1985, cap. 2° e relativa bibliografia; sulla casistica regionale si vedano i paragrafi su “La comunità e gli insediamenti” alla parte ii del presente volume. 10 Chapelot J., Fossier R., op. cit. (con bibliografia). 11 Indubbiamente questa osservazione vale per alcune regioni di seguito trattate anche nel nostro volume, ma non è generalizzabile anche per esse e può indicare un orientamento ma non una successione meccanica di tecniche edilizie che abbandonano improvvisamente il legno per utilizzare la pietra. 12 Si veda la nota 26 al successivo cap. 4. 13 Simonett Ch., Die Bauernhäuser des Kantons Graubünden, Basel 1983; l’autore propone la ricostruzione ideale di esempi d’età carolingia su reperti e resti ritrovati in base a testimonianze di lasciti testamentari dell’epoca. 14 Non si vuole usare il termine barocco nell’accezione linguistica e stilistica ma semplicemente indicare un’epoca e un orientamento culturale generale. L’uso del termine di medioevo e di barocco comporta, a volte, nelle singole regioni oscillazioni cronologiche abbastanza ampie e tardive rispetto alle fioriture stilistiche dell’architettura maggiore. Sono termini che vanno intesi in senso molto ampio come riferimento a scansioni della storia generale o della storia dell’arte in particolare, nate per designare altri ambiti di fenomeni culturali. Vedi Langé S., Citi D., op. cit. 15 La redazione dei catasti dalla seconda metà del Settecento, incontra grosse difficoltà nel definire parcelle e proprietà. Il ricorso al concetto di servitù per gli spazi comuni rappresentò una specie di compromesso che diede l’avvio, assieme ad altri fattori, alla decadenza di molti insediamenti, soprattutto tra quelli di natura più addensata. 16 Si vedano le analisi sullo spazio di vicinato nel villaggio dell’entroter3
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ra ligure in Langé S., Citi D., op. cit. che qui non si possono riportare per ragioni di spazio. Sui singoli casi regionali rimandiamo ai capitoli della ii parte del presente volume. Inoltre si veda Robin F., Sestri Levante, un bourg de la Ligurie génoise au xvˆ siècle, Genova 1976. 17 Se ne veda la trattazione alla parte ii, cap. ix. Sulla appartenenza nominale ai capifuoco delle strutture comuni del villaggio: Laneri F., Proposta di riqualificazione architettonica e ambientale del nucleo antico di Ertola, tesi di laurea, Fac. Arch. Univ. di Genova, 1979/80.
La casa come evento simbolico Note Questi aspetti di relazione tra ambiente naturale, economico e sociale vengono esaminati nei paragrafi dedicati a “La famiglia e la casa” in ogni capitolo della seconda parte del presente volume. 2 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., Maisons paysannes et vie traditionelle en Auvergne, Nonette 1980. 3 Si veda la nota 7 del precedente cap. 3. 4 Anche per le caratteristiche tipologiche e morfologiche della casa di tali regioni si vedano i capitoli ad esse dedicati nella seconda parte del presente volume. 5 Si veda la mappa generale rappresentante l’interrelazione di questi fenomeni alle pagg. 8 e 9. 6 Sul termine di architettura mediterranea non esiste ancora una precisa concordanza tra gli studiosi poiché la prima e non approfondita distinzione (cfr. Pagano G., Daniel G., Architettura rurale in Italia, Milano 1936) tra architettura alpina e mediterranea includeva nella prima forme in legno e nella seconda quelle in pietra di qualsiasi ordine e derivazione. A lungo l’architettura mediterranea fu identificata con quella del Golfo di Napoli e della penisola sorrentina e con quella delle Murge, verso le quali si erano indirizzati i primi studi, identificando in essa tutta la fioritura italiana non alpina (cfr. Baccin A., Le case rustiche di Rodi, in “Palladio”, ii , 1941; Griffini A., Alcuni aspetti dell’architettura rustica della riviera ligure, in “Le Vie d’Italia”, nov. 1927; Jona C., L’architettura rusticana nella costiera di Amalfi, Torino s.d.; Ferrari G., L’architettura rusticana nell’arte italiana, Milano s.d.; Marconi P., Architetture minime mediterranee e architetture moderne, in “Architettura e Arti Decorative”, 1929; Simoncini G., Architettura contadina in Puglia, Genova 1960). Accenni ad un collegamento più preciso di tale architettura con una cultura architettonica più vasta e identificabile fuori dalla logica dello spontaneismo sono presenti in Pane R., Tipi di architettura rustica in Napoli e nei Campi Flegrei, in “Architettura e Arti Decorative”, 1927/28; Id., Capri, Venezia 1954; Id., Sorrento e la costa, Napoli 1955 e di conseguenza si ha la implicita distinzione tra architettura della casa mediterranea, con baricentro nel mondo e nella cultura orientale (bizantina in particolare) e architettura occidentale vera e propria. 7 Il tipo che richiama con maggior suggestione forme arcaiche, è quella cosiddetta a incastro o block-bau e cioè con pareti realizzate mediante la giustapposizione in orizzontale di travi o tronchi, incastrati a mezzo in corrispondenza degli spigoli. Questo sistema presuppone evidentemente la disponibilità di ampie riserve di legname diritto e facilmente lavorabile e pertanto sviluppa la propria possibilità in corrispondenza soprattutto delle grandi foreste resinose delle Alpi, dell’Ucraina e dei Carpazi, della Polonia fino al mar Baltico, nella Russia settentrionale e in tutta la penisola scandinava; a partire dalle forme più elementari ha subito particolari evoluzioni locali come nelle strutture tipiche dello chalet svizzero e dei loft norvegesi, e frequentemente lo si ritrova, soprattutto nelle zone alpine di confine, usato in commistione con la muratura in pietra che serve da basamento e forma così uno o più piani inferiori. Si veda Norberg-Schulz Ch., Introduzione a: “Wooden Houses in Europe”, Tokyo 1968. 8 È il sistema che permette di utilizzare legnami, più scadenti per quali1
tà e dimensioni, come quelli delle latifoglie, ma con una libertà formale e strutturale maggiore: si tratta in sostanza di una struttura reticolare con elementi di dimensioni variabili, ma in genere corti e leggeri che costituiscono una ossatura resa continua poi da pannelli realizzati nei modi più diversi (mattoni, tavole leggere in doppia parete, ecc.) secondo le opportunità e le caratteristiche regionali. Questo sistema, per la sua versatilità e speditezza di esecuzione, fu adottato ampiamente nell’architettura non solo nel mondo rurale, ma anche in quello cittadino, delle regioni centro-settentrionali della Germania, in Belgio, Olanda, Francia del nord-est, Inghilterra e in parte della Scandinavia; in alcune zone viene usato – come si vedrà – in connessione con le strutture in pietra, per le quali costituisce la possibilità di guadagnare piani abitabili in altezza. 9 È il meno rappresentato nell’architettura popolare; la suggestione della grande copertura che concepisce l’unità strutturale dell’edificio dalle fondamenta al tetto – ispirato all’archetipo modello della gable – è rintracciabile in alcuni edifici di particolare importanza e dimensione (grange, stavkirke) ma è presente, come sistema di riferimento, un poco ovunque e si trova usato in commistione con gli altri. 10 Si riprende questa definizione da Mencl V., Lidová architektura v Ceskoslovensku, Praga 1980, evidentemente non immemore delle osservazioni di Bancalari G., Forschungern über das deutsche Wohnhaus, in “Das Ausland”, vol. 64, Stoccarda, 1890-93, riprese da Nice B., La casa rurale nella Venezia Giulia, Bologna 1940; Id., I rapporti tra l’architettura rurale dell’Italia e quella degli altri paesi, in aa.vv., “La casa rurale in Italia”, Firenze 1970, pp. 403-420. 11 Si veda Oursel R., Invention de l’architecture romane, St. Léger Vauban 1970 (ed. it. Architettura romanica, Milano 1986). 12 Si vedano a questo proposito le esemplificazioni contenute nei capitoli regionali, in particolare ai paragrafi relativi alla “Dimensione simbolica e costruttiva”. Inoltre Oursel R., op. cit.; Freal J., L’architecture paysanne en France, Paris 1979; inoltre i numeri del periodico Lithiques. Du mineral au metal, edita dal “Centre de recherche autour de la Pierre et de son Histoire (creaphis)”. 13 Langé S., Citi D., op. cit. 14 Citi B., La lavorazione della pietra nelle valli del Chiavarese, tesi di laurea Fac. di Lett. e Fil., Univ. di Genova 1981/2. 15 Si vedano i capitoli regionali nella seconda parte del presente volume. 16 De Negri T.O., Porte rustiche e architettura romanica perenne, in “Bollettino Ligustico”, iii, 1951. 17 A proposito della simbologia medioevale si è scritto molto ricercandovi speciose risonanze esoteriche che lo studio delle iscrizioni popolari sulle case e sugli edifici del villaggio ci sembra di poter escludere in modo assoluto. Il corpus simbolico è indubbiamente assai antico e risale alla tradizione precristiana orientale ed occidentale, ma nell’ambito del cristianesimo si codifica sia nell’uso che nella teorizzazione e sistematizzazione rituale: si veda in generale aa.vv., Le symbolisme dans le culte des grandes réligions, a cura di Ries J., LouvainLa-Neuve 1985 (ed. it. I simboli nelle grandi religioni, Milano 1988); De Champeaux G., Sterck S., Introduction au monde des symboles, St. Léger Vauban 1972 (ed. it. I simboli del medioevo, Milano 1983); Schneider M., Pietre che cantano, tr. it. Milano 1980; ma utile raccolta generale di schemi simbolici, spiegati però al di fuori del loro contesto storico, si trova in Koch R., The book of signs, Londra 1930, New York 1955; la trattazione più rigorosa della appropriazione nell’ambito del cristianesimo è in Testa P.E., Il simbolismo dei Giudeo-Cristiani, Gerusalemme 1962; in Troccoli Verardi M.L., I misteriosi simboli dei trulli, ii ed., Bari 1984, si prende in esame il corpus di simboli dipinti a calce sulle pseudocupole dei trulli pugliesi. Tale complesso simbolico corrisponde a quello che si ritrova inciso anche sugli architravi in pietra descritti. I metodi di indagine astorica che partono dal quesito posto oggi ai vecchi proprietari delle case, a nulla approdano poiché il sistema di codificazione originario si è per lo più perduto o affievo-
lito e l’iniziale contenuto, che dà all’archetipo simbolico una virtualità rituale in grado di dar forma ed efficacia alle azioni umane a partire da un’istanza religiosa (quale che sia la religione storica), è scaduto in genere dall’Ottocento ad oggi a semplice funzione apotropaica, obliterando il significato originario: ciò vale per moltissimi aspetti della ritualità popolare scaduti a folklore, modificandosi anche nella forma: v. Cardini F., Santi e feste d’Abruzzo: radici medioevali?, in “rst”, n. 1, 1982. Il segno più diffuso senza eccezioni in tutta l’architettura esaminata è senza dubbio la scritta ihs con alcune varianti, quale la croce su una delle aste verticali dell’h o al centro di essa; la sua origine è paleocristiana e corrisponde all’iniziale del nome di Gesù (iesous) nella lingua greca (Iota, Eta, Sigma). (Bargellini P., 5. S. Bernardino da Siena, Brescia 1933). A San Bernardino da Siena si deve invece la collocazione del trigramma entro un cerchio che nella completa formulazione è circondato da dodici raggi maggiori serpeggianti e da otto minori rigidi a canna d’organo, secondo una complessa simbologia (Bargellini P., op. cit.). Gli altri segni più frequenti sono derivati da quello della croce che, differentemente da quanto si ritiene comunemente, non è derivata, per processo di identificazione, dallo strumento della Passione, ma ha un suo significato complesso di sigillo di Dio ed appare anche in età precristiana (Troccoli Verardi M.L., op. cit.); le croci sono di varia natura: latina, greca a Tau, a doppio braccio trasversale e, unite al cerchio (l’universo) e al triangolo (la trinità), generano tutte le varianti principali. 18 Bidart P., Collomb G., Pays aquitains, Paris 1984. 19 Moreau M., La tradition celtique dans l’art roman, Paris 1975. 20 De Vries J., I Celti - Etnia, religiosità, visione del mondo, in “Storia delle religioni”, Milano 1982. 21 Benoit F., L’art primitif méditerranéen de la vallée du Rhône, Gap 1955. 22 Benoit F., op. cit. 23 In Jung C.G., L’uomo e i suoi simboli, tr. it., Milano 1980, pp. 5 e 70; si veda anche Eliade M., Images et symboles. Essai sur le symbolisme magico-religieux, Paris 1952, (ed. it. Immagini e simboli, Milano 1980); Ries J., Le symbole et le symbolisme dans la vie de l’homo religiosus, LouvainLa-Neuve 1982. 24 Ingegnoli V., Organizzazione agricola e casa rurale, in “Lombardia, il territorio, l’ambiente, il paesaggio”, Milano 1981. Seppure su organismi assai trasformati nel tempo Simonett Ch. giunge a datazioni ancora più antiche: cfr. nota 13 del cap. 3. 25 Sulla interpretazione funzionalista si veda Langé S., Citi D., Comunità di villaggio e architettura, Milano 1985 in particolare l’“Introduzione” con la nota 8 a pag. 25 e la nota 19 a pag. 209. 26 Quando si parla di maestranze comacine o antelamiche ci si riferisce a tutto il movimento delle maestranze e corporazioni di muratori originarie dell’area prealpina e alpina compresa tra i laghi Maggiore, di Lugano e di Como nella Lombardia occidentale. La loro attività è regolamentata dall’Editto di Rotari (643), dal Memoratorium di Grimoaldo (662-671) e nell’Editto di Liutprando (712-744). La loro organizzazione di lavoro è stata messa in luce da Monneret de Villard U., L’organizzazione industriale dell’Italia longobarda durante l’Alto Medioevo, in “Archivio Storico Lombardo”, 1929; Id., Note sul memoratorio dei maestri comacini, in “Archivio Storico Lombardo”, 1920. Dallo studio di questi testi si evince chiaramente che tali maestranze lavorassero anche a modeste case di abitazione civile, non identificabili in castelli o palazzi, in “contrasto con la comune opinione che la casa privata in Italia fu costruita in legno” (Arslan E., L’architettura dal 568 al Mille, in “Storia di Milano”, vol. ii, 1954); sempre aggiunge Arslan che “è probabile che le tecniche degli abietarii altomedioevali si siano perpetuate fino alla soglia dei tempi moderni, nelle vallate alpine” (ivi). Sulla origine e diffusione delle maestranze comacine e antelamiche si veda Merzario G., I maestri comacini, Milano 1893; Salmi M., Maestri comacini e maestri lombardi, in “Palladio”, iii, 1939; Bognetti G.P., I magistri Antelami e la Valle d’Intelvi, in “Periodico Storico Comense”, 1938; Id., I capitoli 144 e 145 di Rotari ed il rapporto tra Como e i “Magistri Comacini”, in “Scritti in
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NOTE onore di Mario Salmi”, Roma 1961; Guldan E., Werke und wauderwerke der Maestri Comacini 1400-1520, Munich 1957; Id., Die Tatigheit der Maestri Comacini in Italien und in Europa, in “Arte Lombarda”, 1960; Magni C., Architettura romanica comasca, Milano 1961; Oursel R., Invention de l’architecture romane, St. Léger Vauban 1970; Castellano A., I costruttori lombardi nel Medioevo. Dall’espansione al declino, in aa.vv., “Costruire in Lombardia. Aspetti e problemi di storia edilizia”, Milano 1983; sul tema dell’unitarietà o pluralità delle matrici europee dei lapicidi e costruttori. Puig y Cadafalch J., Falquera A., Goday J., L’arquitectura romanica a Catalunya, 3 voll., Barcellona 1911-18. Più rari gli accenni all’attività nel campo dell’edilizia residenziale di cui si farà riferimento nei singoli capitoli della 2a parte del presente volume: oltre all’accenno in Arslan E., op. cit., si veda Palmieri A., Maestri comacini nell’antico Appennino bolognese, Bologna 1913; De Negri T.O. op. cit.; Fantini L., Antichi edifici della montagna bolognese, Bologna 1971-72; Formentini U., L’arte romanica genovese e i Magistri Antelami, in “Storia di Genova dalle origini al tempo nostro”, vol. iii, Milano 1942. 27 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., Maisons paysannes et vie traditionelle en Auvergne, Nonette 1980; Guibal J., Bourbonnais et Nivernais, in “L’architecture rurale française”, vol. ix, Paris 1982. 28 Oursel R., Invention de l’architecture romane, op. cit. (ed. it. L’architettura romanica, Milano 1984).
Finis terrae, antica frontiera dell’Europa Portogallo settentrionale, Galizia, Asturie, León Note Si veda Sole Sabarís L., España, Geografía Fisica, vol. i dell’opera di de Teran M., Geografía de España y Portugal, Barcelona 1952. 2 Riferimento fondamentale per queste considerazioni, è l’opera di Julius Caro Baroja, di cui man mano citeremo i singoli studi. In particolare sul lavoro e il sistema culturale rurali si veda Los Pueblos del Norte, iii ed., San Sebastián, 1977, cap. v, pag. 145 segg. 3 Caro Baroja, op. cit., pag. 165 segg. 4 Si veda su questo argomento aa.vv., Arquitectura Popular em Portugal, pag. 9, Lisboa 1961 con riferimenti bibliografici sommari; Feduchi L., Arquitectura popular española, vol. i, pag. 1, col. 1; Caro Baroja J., Los pueblos del Norte, iii ed., San Sbastián 1977. 5 La problematica è riportata in Caro Baroja J., op. cit., pagg. 90-92 e 241-249; l’autore esclude però la continuità tra le esperienze celtiche protostoriche e quelle moderne (xiv sec. e seg.). Di parere differente Flores C., Arquitectura popular española, vol. i, pag. 194 e Feduchi L., Arquitectura popular española, vol. ii, pag. 11, nonché aa.vv., op. cit., pagg. 9-20, che identificano una precisa continuità – peraltro inconfutabile – tra la casa redonda del castro celtico e la pallaza tardo-medioevale e moderna. Si veda anche Bosch Gimpera P., Los Celtas en Portugal y sus caminos, in “Hommenagem a Martins Sarmento”, Guimaraes 1933. 6 Lopez Cuevillas F., Lorenzo Fernandez J.L., Las habitaciones de los castros, in “Cuadernos de Estudios Gallegos”, ii-5, Santiago de Compostela 1946; Garcia y Bellido A., La casa redonda, in “Revista de Dialectología y Tradiciones Populares”, tomo xxiii, quaderni 1 e 2, 1967. Quest’ultimo autore presenta gustose ricostruzioni tra le quali il Castro di Coãna (Austrias) riportato dal Flores. 7 La pallaza è stata ampiamente studiata. Oltre ai resti già citati, si veda Torres Balbás L., La vivienda popular en España, Barcelona 1930; García Mercadal F., La casa popular en España, 1919; Castillo A. de, Origen de las pallazas del Cebrero e Por las montañas de Galicia. Las casas del Cebrero in “Boletín de la Real Academia Gallega”, anno viii, n. 78 e anno ix, n. 82, La Coruña 1913/14; Crespi L., Contribuciones al folklore gallego, Estratto delle conferenze e rassegne scientifiche della Real Academia Española de Historia Natural, tomo iv, 1929. 8 Il testo di riferimento per lo studio del granaio è quello di Frankowski 1
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E., Hórreos y palafitos de la peninsula Ibérica, Madrid 1918. Cfr. anche Iñiguez Almech F., Geografía de la Arquitectura española, 1957. 9 Frankowski E., op. cit.; Caro Baroja J., op. cit. 10 Così afferma Feduchi L., op. cit., vol. ii, pag. 14. 11 Caro Baroja J., op. cit., pag. 174, n. 52. 12 Costa J., Derecho consuetudinario y economía popular de España, Barcelona 1902. Su queste strutture sociali di consanguineità (lianjes) si veda anche Caro Baroja J., op. cit., pag. 230. 13 Caro Baroja J., op. cit. 14 García Mercadal F., op. cit. 15 Si veda Pernoud R., I Santi nel Medioevo, Parigi 1984, tr. it. Milano 1986, pag. 202 segg. 16 García Mercadal F., op. cit. 17 aa.vv., Arquitectura popular em Portugal, op. cit., vol. 2; Caro Baroja J., op. cit. 18 L’osservazione è implicitamente contenuta in Flores C., op. cit., vol. iii, pag. 204 segg., che distingue ulteriori tre sottotipi: la casa de La Vera; la casa del Tietar; la casa alberçana. Si veda anche Chanes R., Vicente X., Arquitectura popular de La Vera de Cáceres, Madrid 1974; Gonzales Iglesias L., La Casa Alberçana, Salamanca 1945. 19 Feduchi L., op. cit.; aa.vv. Arquitectura popular em Portugal, op. cit. 20 Flores C., op. cit., vol. ii, pagg. 376-382. 21 Sul tipo architettonico del pazo esiste ampia bibliografia, con censimenti completi ai quali si rimanda. Si veda tra tutti: aa.vv., Inventario Pazos y Torres, in “Amigos de los Pazos”, 4 voll., Vigo 1976. 22 Sull’argomento è tuttora di estremo interesse lo studio di Cabal C., Las costumbres asturianas, su significatión y sus origines. La familia: la vivienda, los oficios primitivos, 1931; ib., Algunas notas sobre la casa asturiana. Inoltre Torres Balbás L., op. cit. 23 Feduchi L., op. cit., vol. 1, pag. 42 segg. 24 La registrazione della jerga è stata fatta ad iniziare dal 1896 da eruditi spagnoli e poi ordinata da Alfredo García Alan ed è stata pubblicata dalla Società Archeologica di Pontevedra. Si veda García Mercadal F., op. cit. 25 Feduchi L., op. cit., vol. ii, pag. 44, dove sono citati su questo tema alcuni bei passaggi di Lison Tolosana C., Antropología cultural de Galicia, Madrid 1971. 26 Si veda aa.vv., Arquitectura popular em Portugal, op. cit., vol. 1, pag. 38.
Il perno tra continente e penisola iberica sul Camino de Santiago Castiglia del nord, Cantabria, Paesi Baschi (spagnoli e francesi) e Navarra Note 1 Tale designazione compare, sotto forma di “...noble Valle y Universidad del Baztán...” in una ordinanza abbastanza recente, datata al 1832, che riflette comunque una lunga tradizione di consuetudini comunitarie e di usi civici. Caro Baroja J., De la vida rural vasca, pag. 122, iii ed., San Sebastián 1986. 2 Caro Baroja J., op. cit. L’ordinanza citata, come altre in parte riportate dalla letteratura sull’argomento, è molto minuziosa e, oltre a stabilire le cariche e le funzioni del Consiglio di valle, ne stabilisce i temi da discutere che comprendono il riconoscimento e il controllo di pesi e misure, i criteri di vendita dei prodotti, le ricognizioni sui “termini” del territorio, la dislocazione dei pascoli e delle bordas e i tempi della transumanza, l’uso delle acque e dei tagli di alberi e così via, fino a concludere con un accenno ai delitti e alle pene. Quasi sempre le ordinanze e gli statuti comunali si fanno più numerosi e descrittivi quando viene meno la forza della tradizione che li regge come accordo tacito e oralmente tramandato tra i vicini. 3 Sempre in Caro Baroja viene riportato un esemplare schema grafico (op. cit., pagg. 28-29) della valle di Vera de Bidasoa, che dimostra tale
ripartizione. 4 Caro Baroja J., op. cit., e id.: Los pueblos del norte, iii ed., San Sebastián 1977. L’autore ricorda che il concetto di ricchezza è consegnato proprio all’esercizio dell’attività pastorile: “in basco aberatsa equivale al latino pecuniosus e aberastasuna a pecunia che indica l’abbondanza di bestie, “pecus”. 5 Baradiarán J.M., de, Vida pastoril vasca. Albergues veraniegos, trashumancia intrapirenaica, in “Anales del Museo del Pueblo Español”, vol. i, quaderni 1 e 2, Madrid 1935. 6 Caro Baroja J., De la vida rural, op. cit. 7 Su questo argomento complesso si veda Caro Baroja J., Los pueblos del norte, op. cit.; id., Razas, pueblos y linajes, in “Revista de Occidente”, Madrid 1957. 8 Torres Balbás L., Resumen Histórico del Urbanismo en España. Edad Media, Madrid 1968 (n. 20); Serrano Lafita J.L., Jimenez-Argüello C., Las cincos villas de Navarra 1959; Vinson J., Les basques et le pays basque, Paris 1883. 9 Feduchi L., Arquitectura popular española, pag. 15, Barcelona 1975. 10 Sull’insediamento di Santillana del Mar si veda: Lafuente Ferrari E., Santillana del Mar, s.l., s.d.; Ortiz de la Torre E., Los admirable de Santander, xxxix, Bilbao 1935; Lampérez y Romea v, Arquitectura civil española de los siglos i al xviii, Madrid 1922. Sulla Collegiata, brevemente, Lojendio L.M. (de), Rodríguez A., Castilla 1, nella serie “España Romanica”, Zodiaque-Encuentro, Madrid 1966-78 (ed. it. La Castiglia del nord, Milano 1979). 11 Feduchi L., Arquitectura popular española, pag. 237, op. cit.; Torres Balbás L., op. cit. Inoltre Lojendio L.M. (de), Rodríguez A., Castilla 1, op. cit. e Castilla 2 nella serie “España Romanica”. 12 Caro Baroja J., Los Vascos, Madrid 1971; Duhourcan B., Les Chemins de Saint- Jacques en Pays Basque, Bayonne 1986. 13 Caro Baroja J., De la vida rural vasca, op. cit. 14 Caro Baroja J., Los Vascos, op. cit.; id., De la vida rural, op. cit. 15 Un ampio quadro dell’architettura religiosa legata agli aspetti della mobilità e dell’insediamento è riportato in Peña-Santiago L.P., Arte popular vasco, San Sebastián 1969. 16 Caro Baroja J., De la vida rural, op. cit., pagg. 276 e 286. 17 Feduchi L., op. cit., pag. 29; García Mercadal F., La casa popular en España, pag. 69, Madrid 1919: Baeschlin A., Arquitectura del caserío vasco, pag. 243, Barcelona 1930; Yrizar J. de, Las casas vascas, San Sebastián 1929. 18 aa.vv., Inventario historico artistico del valle de Oñati (Oñatiko, historia eta arte bilduma), Oñati 1982. 19 Feduchi L., op. cit., pag. 29. 20 Vedi Torres Balbás L., op. cit.; Feduchi L., op. cit.; Flores C., Arquitectura popular española, Madrid 1973; García Mercadal F., op. cit. 21 Questo motivo, come si vedrà più avanti, è tipico anche di alcune espressioni del caserío basco della Navarra (Spagna) e dei Pyrénées-Atlantiques (Francia), dove l’edificio può raggiungere anche i quattro piani con altrettanti sporti successivi. 22 García Mercadal F., op. cit.; Feduchi L., op. cit. 23 Caro Baroja J., Los pueblos del norte, op. cit. 24 Cordier E., Le droit basque, Paris 1869; il capitolo ii, L’organisation de la famille chez les basques è riportato in Guidetti M., Stahl P.H., Il sangue e la terra, Milano 1977. Inoltre Caro Baroja J., Los Vascos, op. cit. 25 Cordier R., op. cit. 26 La tipologia della casa basca è sempre stata oggetto di studi ed elencazioni attente a partire dalla fine dell’Ottocento in O’Shea H., La maison basque. Notes et impressions, Pau 1887; un numero consistente di studi è compreso tra il 1920 e il 1930 sia in territorio francese che spagnolo: oltre al più generale studio di Torres Balbás L., La Vivienda Popular en España, Barcelona 1934, ricordiamo tra i più completi: Yrizar J. de, Las casas vascas, op. cit.; Baeschlin A., Arquitectura del caserío vasco, op. cit.; Godbarge H., Arts basques, Hossegor 1931; Urabayen L., La casa navarra, 1929 che ci hanno lasciato un’ampia documentazione
anche di edifici oggi scomparsi o profondamente trasformati. 27 Feduchi L., op. cit., vol ii, pag. 35. 28 Feduchi L., op. cit.; Baeschlin A., op. cit. 29 Baradiarán J.M., Contribución al estudio de la casa rural y de los establecimientos humanos. Pueblo de Ataún, in “Anuario de Eusko-Folklore”, 1925; Arín Dorronsoro J., Pueblo de Ataún, in “Anuario de Eusko-Folklore”, tomo vii, 1927. 30 Feduchi L., op. cit., vol. ii, pag. 34. 31 Caro Baroja J., De la vida rural, op. cit. L’autore basa tale cronologia soprattutto sulle notizie d’archivio riguardanti gli incendi e gli editti di ricostruzione per i villaggi della valle del Baztán. 32 Torres Balbás L., op. cit.; Feduchi L., op. cit.; Peña-Santiago L.P., op.cit. 33 Herrero A., Pacheco J.A., La casa pinariega. Estudio general, in “Celtiberia”, Rivista del “Centro de Estudios Sorianos”, Soria 1933. 34 Guillaume M., in La politique du patrimoine, Paris 1980. Il movimento, nato in Francia verso il 1910 sulla spinta di Charles Brun e sviluppatosi poi nei Paesi Baschi ad opera di uomini di lettere, crea nel 1917 l’Association régionaliste du Béarn, du Pays basque et des contrées de l’Adour, fonda, sempre nel 1917, la Revue régionaliste des Pyrénées; nel 1923 nasce il Musée régional béarnais seguito, nel 1932, dalla Académie des Lettres pyrénéennes. Si veda, in particolare per l’architettura: Godbarge H., Arts basques, op. cit. 35 Le steli sepolcrali basche rappresentano un aspetto molto studiato della produzione artistica basca per le suggestioni relative alla particolarità etnica e alla antichità dell’origine: presenti sia nell’area francese sia spagnola, vengono ancora oggi prodotte, a volte con imitazioni assai banali, a volte entro una tradizione artigianale più attenta. Si ricorda: Baradiarán J.M., Creencias y ritos funerarios, in “Anuario de Eusko-Folklore”, Vitoria 1923; Colás L., La tombe basque, Bayonne 1923; Cruchaga Saralegui L., Piedras familiares y piedras de tumbas en Navarra, Pamplona 1965; Díaz de Espada P., La swástica, el triángulo, la cruz y otros símbolos prehistoricos, s.l., s.d.; Echegaray B., Significatión jurídica de algunos ritos funerarios del país vasco, San Sebastián 1925; Frankowski E., Sistematización de los ritos usados en las ceremonias populares, Bilbao 1920; Peña-Santiago L.P., Ritos Funerarios, in “Revista de Etnografía”, Oporto 1969; Ugartechea y Salinas, Nota sobre estelas, lápidas y inscripciones funerarias de Vizcaya, in “Anuario de Eusko-Folklore”, San Sebastián 1962. 36 Díaz de Espada P., op. cit.
I Pirenei, cerniera tra Atlantico e Mediterraneo Aragona, Catalogna, Ariège, Roussillon Note 1 Tale è il parere di storici, geografi ed etnologi, riassunto in Vicens-Vives J., Historia economica de España, Barcelona 1969. 2 Si veda Bidart P., Collomb G., Pays aquitains, in “L’architecture rurale française’’, vol. 18, Paris 1984; Rivals C., L’architecture rurale française. Midi toulousain et pyrénéen, Paris 1979; Chevalier M., La vie humaine dans les Pyrénées ariègeoises, Paris 1956. 3 Garcia Mercadal F., La casa popular en España, Madrid 1919. 4 Per quanto riguarda la struttura sociale si veda il paragrafo 3 del presente capitolo: sulla storia sociale catalana cfr. Elliot J.H., The Revolt of the Catalans, Cambridge 1963. 5 Sulla struttura della famiglia pirenaica valgono ancora gli studi di carattere giuridico ed economico svolti tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nostro secolo. Per la Spagna, in generale si veda Costa J., Derecho consuetudinario y economía popular de España, Barcelona 1902; Castillejo y Duarte J., Ruben E., L’essenza della comunità domestica aragonese, in Guidetti M., Stahl P.H., Il sangue e la terra, Milano 1977; Durán y Bas, Memoria acerca de las instituciones del derecho civil de Cataluña, s.l., s.d.; per la Francia: Play (Le) F., I beni di una famiglia stipite (famille
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NOTE souche) del Lavedan, in Guidetti M., Stahl P.H, Il sangue e la terra, Milano 1977, ripreso e sviluppato in Bidart Collomb, op. cit., pag. 22-23. Famille souche o familla heredera è la terminologia più usata nelle due lingue che comunque presenta sfumature e versioni molteplici. 6 I termini configurano l’atto di trasmissione quanto il possedimento stesso. 7 Il diritto catalano è quello che sembra conservare, più di ogni altro, il senso predominante della primogenitura. Si veda Castillejo y Duarte J., Ruben E., op. cit. Sulla struttura familiare catalana, Elliot J.H., op. cit. 8 Cfr. Le Play F., op. cit., pag. 519. 9 Cfr. Le Play F., op. cit. Bourdieu P., Célibat et condition paysanne, in “Etudes rurales”, 1962. 10 Riprendiamo questa definizione, estendendola geograficamente e concettualmente, da Bernd Rivera P.M., Castellanos Oñate J.M., Pueblos deshabitados del Alto Aragón, Zaragoza 1982. 11 Sul versante bearnese, la besieau o vesiau. Vedi Bidart P., op. cit. 12 Altamira y Crevea R., Forme di proprietà comune in Spagna, in Guidetti M., Stahl P.H, op. cit. 13 Si veda anche per questi aspetti oltre alle opere già citate: Zink A., Azereix, la vie d’une communauté rurale à la fin du xviii siècle, Paris 1969; Lefebvre H., La vallèe de Campan. Essai de sociologie rurale, Paris 1963. 14 Feduchi L., Arquitectura popular española, Barcelona 1975. 15 Tale è il parere espresso in Bernad Rivera P.M., Castellanos Oñate J.M., op. cit., che riporta, a sostegno della tesi, i testi di Vilá Valenti J., El mas catalan una creatión prepirenaica, in “Actas del iii Congreso Internacional de Estudios Pirenaicos”, Zaragoza 1963; Bolós y Capdevila M. (de), Evolutión del poblamiento rural en una comarca prepirenaica, in “Pirineos”, 1967; Caro Baroja J., Etnografía histórica de Navarra, Pamplona 1972. 16 Arco R. (del), Las casas consistoriales de Aragón, in “Revista de Arquitectura”, Madrid s.d. 17 Bernad Rivera P.M., Castellanos Oñate J.M., op. cit. 18 Secondo uno schema assai simile a quello del caserío basco, ma con minore estensione della galleria e assenza di portico esterno. Si veda Feduchi L., op. cit.; Torres Balbás L., op. cit.; García Mercadal F., op. cit. In particolare si veda Arco R. (del), La casa alto aragonesa, in “Revista de Arquitectura”, Madrid 1918-19. 19 Molto ampia è la bibliografia sulla masía catalana; oltre alle opere di carattere generale sulla casa spagnola, già ampiamente citate, vogliamo segnalare: Gilbert G., La masía catalana. Origen, Esplendor, Decadencia, Barcelona s.d., opera ricca di documentazione illustrativa; Campos j Arboix J., La masía catalana, Barcelona 1947, con ampie annotazioni critiche; riferimenti importanti si trovano anche in Elliot J.H., op. cit., dove si esamina il rapporto tra la struttura familiare e sociale con la masía; e Puig y Cadafalch J., Falquera A., Goday J., L’arquitectura romanica a Catalunya, 3 voll.; Barcelona 1911-18, che sostenne la derivazione della masía dalla villa romanica classica, poi ripresa da autori più recenti (Feduchi L., op. cit.; García Mercadal F., op. cit.; Flores C., op. cit.). A noi questa lettura sembra alquanto semplificatrice se è vero che per nessuno dei tipi architettonici medioevali e rinascimentali si può affacciare l’ipotesi di tale genesi diretta ed escludente complesse mediazioni. Si veda a questo proposito Mansuelli G.A., Le ville del mondo romano, Milano 1958; Bagatti Vaisecchi P.F., Langé S., La villa, in “Storia dell’Arte italiana”, vol. x, Forme e modelli, Torino 1982. Per l’analisi tipologica della masía si veda di Dané i Torras J., Expositión de la masía catalana, in “Bull. del Centre Ex. de Catalunya”, Barcelona 1928, che propone accostamenti con la casa colonica toscana, indubbiamente suggestivi e non privi di efficacia. 20 Si veda Elliot J.H., op. cit. 21 Secondo Dané i Torras J., op. cit. 22 Tale è, per questa zona, il parere di Bidart P., Collomb G., op. cit. 23 Le dimensioni oscillano mediamente tra m. 1.70 e 2.20 in larghezza e m. 2.70 e 3.00 in altezza o anche più se si considera l’altezza massima di quelli terminanti con arco a tutto sesto. 24 Si veda Bidart P., Collomb G., op. cit., pagg. 23-24.
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L’area atlantica del nord Bretagna, Normandia, Isole Britanniche Note Si veda in particolare Patourel (Le) J., The Norman Empire, Oxford 1976 e le mappe che l’accompagnano in appendice. 2 Si rimanda alla trattazione e alla bibliografia dei paragrafi 2 e 3 del presente capitolo. Si veda comunque Holmsen A., Bjorkvik H., Frimmaslund R., The Old Norwegian Peasant Community, The Scandinav, in “Econ. History Review”, iv, 1956; Goransson S., Regular openfield pattern in England and Scandinavian Solskifte, in “Geograf. Annaler”, 1961; Musset L., Pour l’étude des relations entre les colonies Scandinaves d’Angleterre et de Normandie, in “Mélanges Mosse”, Paris 1959. 3 Bailey B., Stone Villages of England, London 1982. 4 Brier M.A., Brunet P., Normandie, Paris 1984, pagg. 22-23 e relativa bibliografia; Sion J., A’ propos de la maison normande, in “Annales de Normandie”, 1955; id., Les enigmes de la maison cauchoise, in “Annales de Normandie”, 1971. 5 Bloch M., Les caractères originaux de l’histoire rurale en France, Oslo, Paris 1931, nuova ed. 1956. 6 Ib., pagg. 57/58 del vol. 1. 7 Il sistema è stato ampiamente studiato sia dalla storiografia francese che inglese: tra le trattazioni a carattere generale si veda oltre a Bloch C., op. cit., anche Duby G., Histoire de la civilisation française; Seebohm F., Il sistema inglese dei campi aperti, in Guidetti M., Stahl P.H., Il sangue e la terra, Milano 1977; Hoskins W.G. The Making of the English Landscape, London 1955, Harmondsworth 1970; Mills D.R., English Rural Communities, London 1977; Taylor C., Fields in the Landscape, London 1975. 8 Si veda la descrizione minuta soprattutto in Seebohm F., op. cit. 9 Muir R., The English Village, London 1980, soprattutto al cap. 5, pag. 124 sg. 10 Sui villaggi abbandonati: Beresford M.W., Hurst J.G., Deserted Medieval Villages, London 1971; Beresford M.W., Lost Villages of England, London 1954; Muir R., The Lost Villages of Britain, London 1982. Sulle trasformazioni agrarie in Normandia: Garnier B., La mise en herbe dans le pays d’Auge au xvii et xviii siècle, in “Annuaire des 5 départements de l’ancienne Normandie”, 1979; Brunet P., Evolution des bocages herbagers en Basse-Normandie, in “Geographische Zeitschrift”, 1968; Elhai H., Recherches sur la propriété foncière des citadins en Haute-Normandie, cnrs, 1965. 11 Brier M.A., Brunet P., op. cit. Le regioni della Normandia a subire tale più profonda trasformazione sono quelle delle pianure centrali, orientali e costiere: Bray, Auge, Bessin e Plaine, nelle quali l’allevamento estensivo sostituisce i champs ouverts e allongés durante il xvii sec. 12 Pacqueteau F., Architecture et Vie traditionelle en Bretagne, Paris 1979. 13 Pacqueteau F. (in op. cit.) identifica due tipi di bocage: quello originale e quello mimetico: il secondo è frutto di adattamenti recenti che solo in apparenza assecondano l’andamento naturale del terreno e dei corsi d’acqua. 14 Si veda Evans E.E., The Personality of Ireland. Habitat, Heritage and History, Cambridge 1973. In Inghilterra questa forma di colonizzazione è sopravvissuta fino al xix sec. nelle Pennine Dales e nel distretto dei Laghi. Vedi Muir R., Duffey E., The Shell Countryside Book, London 1984. 15 Laveleye (de) E., La proprietà primitiva nei townships scozzesi, in Guidetti M., Stahl P.H., Il sangue e la terra, Milano 1977, dove la comunità di villaggio è designata col termine di township; Muir R., Duffey E., op. cit. 16 Per le aree francesi si veda: Lannou (Le) M., Géographie de la Bretagne, Rennes 1950; Meynier A., Atlas et géographie de la Bretagne, Paris 1975; Id., Typologie et chronologie du bocage, Paris s.d.; per quelle inglesi Muir R., op. cit.; Muir R., Duffey E., op. cit.; Mills D.R., English Rural Communities, London 1977. 1
Si veda lo studio sintetico ed esemplare di Evans E.E., Some Survivals of the Irish openfield system, in “Geography”, 24, 1939 e Id. The Personality of Ireland. Habitat, Heritage and History, Cambridge 1973; Buchanan R.H., Common fields and enclosures, in “Ulster Folklife”, 15/16, 1970; per comparazione Laveleye (de) E., op. cit. 18 McCourt D., The dynamic quality of Irish “rural settlement”, in Buchanan et al., “Man and his Habitat”, 1971. 19 Per la tipologia si veda al paragrafo 4 del presente capitolo. 20 Evans E.E., op. cit., pagg. 55-56. 21 Brier M.A., Brunet P., op. cit., pag. 24, Goransson S., op. cit., Thorpe H., op. cit., Musset L., Histoire de la Normandie, Toulouse 1970. Cfr. anche Muir R., Duffey E., op. cit., pag. 159. 22 Tale è il parere espresso in Le Couëdic D., Trocher J.R., Bretagne, Paris 1985, pag. 26. 23 Si veda Pacqueteau che riporta testi di Meynier e aa.vv., Proportions pour un habitat. Toiture de chaume, zone a du site inscrit de Grande-Brière. Aide architectural de Parc, Unité pédagogique d’architecture, Nantes 1974, con illustrazioni di villaggi della Grande-Brière; inoltre Le Couëdic D., Trocher J.R., op. cit., che cita, sempre in Grand-Brière, il villaggio di Saint-Joachim, Île de Mazin. 24 Le fonti e le interpretazioni al proposito sono contraddittorie (v. n. 8), poiché per alcuni il pascolo è posto al centro e i campi all’esterno e viceversa per altri. 25 Cfr. Le Couëdic D., Trocher J.R., op. cit., pag. 25 e segg. Sulle similitudini delle aree a bocage e della struttura degli insediamenti Bloch M., op. cit., pag. 57 e segg. 26 Cfr. Muir R., Duffey E., op. cit., Muir R., op. cit., e Bayley B., op. cit. 27 Muir R., op. cit. 28 Esistono diversi tipi di black-house classificabili secondo la forma del tetto, contenuto o debordante rispetto ai muri, la posizione delle porte, la divisione interna, l’esistenza o meno di timpani con camino. Noti sono i tipi dell’isola di Sky, il tipo Dalriadic, quello dell’isola di Lewis. Si veda riassuntivamente: Reid R., The Shell Book of Cottages, London 1977; Mercer R., English vernacular houses, London, ii ed. 1979, pag. 8 (con bibl.). 29 Smith P., Houses of the Welsh countryside. A study in historical geography, London 1975. 30 Le Couëdic D., Trochet J.R., op. cit. 31 Chapelot J., Fossier R., Le Village et la maison au Moyen Age, Paris 1980. 32 Tale è anche il parere espresso in Le Couëdic D., Trochet J.R., op. cit. 33 Hall-house od open-hall house della tradizione britannica in Mercer E., op. cit., Smith P. op. cit.; differente sembra invece il tipo della maison-halle presente in alcuni esempi in pietra della Bourgogne nord-orientale e più comunemente diffusi nell’area di influenza germanica. Si veda il cap. ix. 34 Smith P., op. cit. 35 Norberg-Schulz Ch., Introduzione a “Wooden houses in Europe’’, Tokyo 1978. L’autore ricorda come ancora nel xvi sec. esisteva l’usanza tedesca di chiamare gibel o kibel le strutture celesti. Si veda anche Bugge G., Norberg-Schulz Ch., Stav og laft i Norge, Oslo 1969. 36 Si veda Brier M.A., Brunet P., op. cit., pag. 102, Pacqueteau F., op. cit., pag. 260. 37 Sono tipi assai affini alle cob-houses del Devon. Cfr.: Reid R., op. cit.; Sinclair C., Thatched Houses of the Old Highlands, London 1953. 38 Ivi. 39 Campbell A., Notes on the Irish House, in “Folkliv”, 1937 e 1938 e id., Irish Fields and Houses, in “Béaloideas”, 5, 1935. 40 Reid R., op. cit., pag. 233. 41 Evans E.E., op. cit.; Campbell A., op. cit. 42 Evans E.E., op. cit., pag. 63. 43 Mercer E., op. cit., pag. 34. 44 Mercer E., op. cit.; Turner T.H., Parker J.H., Domestic Architecture in England, London 1853. 45 Smith P., op. cit., produce un catalogo completo dei tipi e della diffusio17
ne della casa in pietra e in graticcio nel Galles, alla cui opera rimandiamo per l’individuazione delle località. 46 Smith P., The long-house and the Laithe-house, in “Culture and Environment’’. 47 rchm (Royal Commission on Historical Monuments), Shielings and Bastles, London 1970. 48 Brier M.A., Brunet P., op. cit., pag. 102. 49 Le Couëdic D., Trochet J.R., op. cit., pag. 65 usano il termine di maison longue rudimentaire. 50 Le Couëdic D., Trochet J.R., op. cit., pag. 71: questo tipo viene definito come organisation en longère, pur con qualche perplessità sull’uso del termine, ritenuto vernacolare, ma senza fondamento nel linguaggio locale. Si veda come riferimento anche la maison-bloc dell’Auvergne. 51 In Muir R., Duffey E., op. cit., pag. 136, vengono chiamate ty unnos. 52 Si veda al paragrafo 3 del presente capitolo: tale modalità (daubing) è ricordata in Reid R., op. cit., che riporta una descrizione di un’inchiesta del tardo secolo xviii. 53 Questi costumi sono stati ampiamente studiati. Si veda Le Couëdic D., Trochet J.R., op. cit.
Il cuore dell’Europa e della Francia La Borgogna e il Massiccio Centrale Note 1 Si veda per la trattazione generale, sotto il profilo che interessa il presente studio, le opere generali di Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., Maisons payannes et vie traditionelle en Auvergne, Nonette 1980; Thinlot F., Maisons paysannes de Bourgogne, Paris 1983; Bucaille R., Lévi-Strauss L., Bourgogne, Paris 1980; Cayla A., Habitat et vie paysanne en Quercy, Cahors 1979. 2 Guibal J., Bourbonnais et Nivernais, in “L’architecture rurale française”, vol. ix, Paris 1982; Royer C., Franche-Comté, ib., Paris 1977; id., Lyonnais, ib., Paris 1979. 3 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit. Inoltre Escoffier S., La rencontre de la langue d’Oïl de la langue d’Oc et du franco-provençal entre Loire et Allier, Paris 1958. 4 Dauzat A., Les anciens types d’habitation rurales en France, Paris s.d. 5 Si veda Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit.; inoltre Joanne A., Géographie du Puy de Dôme, Paris 1976; Derruau M., La grande Limagne auvergnate et bourbonnaise, Grenoble 1949; Laurent M., Paysans de Basse Auvergne au début du xxˆ siècle, Saint-Laure 1976; Latouche R., La vie en Bas-Quercy du 14ˆ au 18ˆ siècle, Picard 1923. 6 Thinlot F., op. cit.; Saint-Jacob P. de, Bullier M., Visages de la Bourgogne, Paris 1942; Roupnel G., La Bourgogne, Paris 1936. 7 Levainville J., Le Morvan, étude de géographie humaine, Paris 1909. 8 Petit V., Description des villes et campagnes du départment de l’Yonne, ii arrondissement d’Avallon, Auxerre 1870. 9 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit. 10 Thinlot F., op. cit.; inoltre Deléage A., La vie rurale en Bourgogne jusqu’au début du xi ˆ siècle, Mâcon 1941; Roupnel G., La ville et la campagne au xvii ˆ siécle. Etude sur la population du pays dijonnais, Dijon 1922; Moreau J.P., La vie rurale dans le sud-est du Bassin parisien entre les vallées de l’Armançon et de la Loire. Etude de géographie humaine, Paris 1958. 11 Per i caratteri generali della vita rurale nelle regioni trattate si veda: Duby G., Wallon A., Histoire de la France rurale, Paris 1975-76; sulle singole sub-regioni le opere citate alle note 6 e 7. 12 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit. 13 Bruneton-Governatori A., Le Pain de Bois. Ethnostoire de la châtaigne et du châtaignier, Toulouse 1984; Pitte J.R., Terre de Castanide, 1986. 14 Derruau M., op. cit.; Joanne A., op. cit.; Henry B., Des métiers et des hommes, Paris 1975. 15 Bloch M., L’histoire rurale française, Paris 1968; Jeanton G., Le Mâ-
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NOTE connais traditionaliste et populaire, Mâcon 1920-23. 16 In Bloch M., op. cit., vol. 2°, pag. 192, “Les Hameaux”. 17 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit.; inoltre Durand A., La vie rurale dans les massifs volcaniques des Dores, du Cézallier, du Cantal et de l’Aubrac, Aurillac 1946; Poitrineau A., La vie rurale en Basse Auvergne au xviii ˆ siècle (1726-1789), Paris 1965. 18 Thinlot F., op. cit. 19 aa.vv., Archéologie du village déserté, 2 voll., Paris 1970; è il risultato di scavi condotti dagli archeologi de l’ “Ecole Pratique des Hautes Etudes, vi Section” (e.p.h.e.) e de l’ “Institut d’Histoire de la Culture Matérielle” (i.h.k.m.) sui villaggi di Montaigut, Saint-Jean-Le-Froid, Dracy, Condorcet. 20 Per la Bourgogne si veda in particolare: Saint-Jacob P. de, Documents relatifs à la communauté villageoise en Bourgogne du milieu du xvii ˆ siècle à la Révolution, Paris 1962; per le zone centrali, Dussourd HL., Les communautés familiales agricoles du Centre de la France, Paris 1978; Chassaigne A., Les communautés de famille en Auvergne, Paris 1911, oltre all’opera generale di Marc Bloch. 21 Thinlot F., op. cit. 22 Petit V., Les Villages du département de l’Yonne, Auxerre 1855; Saint-Jacob P. de, Bullier M., Visages de la Bourgogne, Paris 1942, riportati in Thinlot F., op. cit., riflettono una osservazione su questo corpus di villaggi, consolidata nella letteratura del xix secolo. Vedi inoltre Pesez J.M, L’habitation paysanne en Bourgogne, in “La construction au Moyen Age”, Paris 1973; Chapelot O., La construction rurale en Bourgogne, in “La Construction au Moyen Age”, Paris 1973. 23 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit. 24 É la cosiddetta disposizione del village-tas. Vedi Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit. 25 Edificio con abitazione e stalla unite in un solo corpo di fabbrica, per lo più giustapposte. 26 Durand A., op. cit.; Besson P., Un pâtre du Cantal, 1970; Bouyssou L., Les montagnes cantaliennes du xiii ˆ au xviii ˆ siècle, Aurillac 1974. 27 Il termine, intraducibile, designa lo spazio della vita comunitaria di villaggio; vedi Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit., pag. 101. 28 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit. Sulla storia dell’istituzione delle beate o istitutrici di villaggio dell’Haute-Loire si veda Helyot R.P., Dictionnaire des ordres réligieux, Paris 1895, col. 127/135. 29 Bucaille R., Lévi-Strauss L., op. cit.; Colombet A., Types de maisons rurales du Châtillonais. Vieilles maisons de Beaunotte (Côte-d’Or), in “Travaux de linguistique et de folklore de Bourgogne”, vol. 2°, pagg. 34-38, Dijon 1964. 30 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit.; Dousse M., La commune d’Orsonnette, in “Memoire académie des sciences, belles lettres et arts”, vol. xxxiii, Clermont-Ferrand; Laurent M., op. cit.; Mallouet J., Entre Dordogne et Puy Mary, Châteauroux 1973. 31 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit. 32 Ib. 33 Thinlot F., op. cit.; Bucaille R., Lévi-Strauss L., op. cit. 34 Cayla A., op. cit.; id., Habitations rurales du Quercy et de ses alentours, Saint-Céré 1976; id., Maisons du Quercy et du Périgord, Paris 1973. 35 Guibal J., Bourbonnais et Nivernais, op. cit. 36 Royer C., Lyonnais, op. cit. 37 Jeanton G., L’habitation rustique au pays mâconnais. Etude de folklore, d’éthnographie et de géographie humaine, Tournus 1932; id., Le Mâconnais traditionaliste et populaire, Mâcon 1902/23; Tardieu S., La vie domestique dans le Mâconnais rural et préindustriel, Paris 1964. 38 Thinlot F., op. cit. 39 Dussourd H., Les communautés familiales agricoles du Centre de la France, Paris 1978; Chassaigne A., Les communautés de famille en Auvergne, Paris 1911; Nicolle M., Les communautés de laboureurs dans l’ancien droit, Dijon 1902. 40 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit.
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Van Genep A., Le folklore de la Bourgogne (Côte-d’Or), Paris 1934; Filipetti H., Trotereau J., Symboles et pratiques rituelles dans la maison paysanne traditionelle, Paris 1978; Rapoport A., Pour une anthropologie de la maison, Paris 1972; Lauras Pourrat A., Traditions d’Auvergne, Paris 1976. 42 Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit.; Henry B., Des métiers et des hommes, Paris 1975; Anglade J., La vie quotidienne dans le Massif Central, Paris 1974; Girard E., Coutumes relatives à la construction des maisons, in “Mémoires de la Commission des antiquités de la Côted’Or”, vol. xxi, fasc. ii-iv, 1938-39. 43 È riportata in Guibal J., op. cit., pag. 45 che cita a sua volta come fonte Gagnon C., Ygrande, vol. iii, pag. 86, Moulin 1975. La grange-étable con tale iscrizione fu distrutta da un incendio nel 1969. 44 Guibal J., op. cit., Breuillé L., Dumas R., Ondet R., Trapon P., op. cit.; Anglade J., op. cit. 41
La regione degli scambi Savoia, Delfinato, Provenza, Corsica, Ponente ligure Note Thirion J., La Costa Azzurra, Le Alpi Provenzali, Milano 1981. Leclerq dom. H., Itineraires, in “Dictionnaire d’Archéologie Chretienne et de Liturgie”, vol. ii, (1927), col. 1854/58: “Itinerarium a Burdigala Hierusalem usque et ab Heraclea et per Urbem Romam Mediolanum usque”. Stopani R., Le grandi vie di pellegrinaggio del Medioevo. Le strade per Roma, Firenze 1986. Inoltre Solmi A., L’itinerario italico dell’abate Nicolò Thingoerense del 1151-54, in “Rendiconto dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere”, serie ii, vol. lxvi, 1933, pp. 1208-1222. 3 Stopani R., op. cit., pp. 79 ss; Sergi G., Domus Montis Cenisii. Lo sviluppo di un ente ospedaliero in una competizione di poteri, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, lxx, 1972, pp. 435-488. 4 Gaussin R.R., Le rayonnement de la Chaise-Dieu. Un abbaye auvergnate a l’échelle de l’Europe, Brioude 1981. 5 Stopani R., op. cit., pp. 91 ss. 6 Stopani R., op. cit., pp. 77-78. 7 Su chi fossero i pravi christiani o pravi homines si veda Settia A.A, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra ix e xiii secolo, Napoli 1984, pp. 88-96. 8 Gioffredo P., Storia delle Alpi Marittime, Torino 1839, rist. anast., Savigliano 1978, vol. i, pp. 498-581; Patrucco C., I Saraceni nelle Alpi occidentali e specialmente in Piemonte, in “Studi sulla storia del Piemonte avanti il Mille”, “Biblioteca della Società storica subalpina”, xxxii, Pinerolo 1908, pp. 319-439; Luppi B., I Saraceni in Provenza, in Liguria e nelle Alpi Occidentali, Bordighera 1952, rist. 1973. 9 Routier J., Briançon à travers l’histoire, Gap 1981, p. 36. 10 Luppi B., op. cit., pp. 118-119. 11 “Le dimore rurali manifestano una varietà ‘quasi infinita’ cangiando di forma e di aspetti da valle a valle, anzi da tronco a tronco di una stessa valle e, non raramente, addirittura nell’ambito di uno stesso abitato” in Pracchi R., La dimora della piccola proprietà alpina, in “La casa rurale in Italia”, a cura di Barbieri G. e Gambi L., Firenze 1970, rist. 1982, p. 79. 12 De Martonne E., Les Alpes, Paris 1941. 13 Bloch M., Les caractères originaux de l’histoire français, Paris 1952-6. 14 “I seminativi hanno occupato sempre – anche nella fase di massima espansione agricola – una estensione generalmente limitatissima e progressivamente decrescente dai fondovalle ai maggiori livelli dell’insediamento: colture principali sono state in ogni tempo i cereali (frumento, segale, orzo, grano saraceno) cui si è aggiunta, in secoli recenti, la patata con rotazione per solito biennale”. Pracchi R., op. cit. 15 Cognasso F., op. cit. 16 Renouard Y., Les voies de communication entre la France et le Piemont 1 2
au Moyen Age, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino’’, lxi, 1963; Sergi G., Valichi alpini minori e poteri signorili: l’esempio del Piemonte meridionale nei secoli xii-xv, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino’’, lxxiv, 1976; Combra R., Commercio e vie di comunicazione del Piemonte sub-occidentale nel Basso Medioevo, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, lxxxiv, 1976; Grosso M., Nozioni circa alcune fonti archivistiche sugli ospedali situati lungo le strade transalpine in Piemonte, in “Atti i Convegno Europeo di Storia Ospitaliera”, Reggio E. 1962; Sergi G., op. cit.; Barelli G., Le vie del commercio fra l’Italia e la Francia nel Medio Evo, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, xii, 1907; Sergi G., Potere e territorio lungo la strada di Francia, Napoli 1981. 17 Cereghini M., L’architettura in montagna e la difesa del paesaggio, in “Atti e Rassegna Tecnica Ing. e Arch.”, anno 7, n. 3, Torino 1950. 18 De Martonne, op. cit. Potrebbe forse trovare, in quanto è esposto, una spiegazione la presenza di “quella strana gente senza radice” che nella val di Susa seguiva il bestiame nelle transumanze e che venne definita da Blanchard come entrepreneurs en bétails? Vedi Scarzella P., Struttura di alpeggi nella val di Susa, in “L’architettura popolare italiana. Piemonte”, Bari 1988, p. 154. 19 Doglio G., Unia G., Abitare le Alpi, Cuneo 1980. 20 Raulin H., L’architecture rurale française. Savoie, Paris 1977. 21 Giordano L., Antichi usi liguri, in “Collana storica archeologica della Liguria occidentale”, vol. ii, n. 6, Casale Monferrato 1933. 22 Carretto G., Gli usi civici nelle province di Cuneo, Genova e Porto San Maurizio, Roma 1910. 23 Bromberger C., Lacroix J., Raulin H., L’architecture rurale française. Provence, Paris 1980. 24 Calvini riporta alcuni documenti riferiti al x-xi secolo dove si ha notizia di contratti tra il popolo e i relativi feudatari: dalla concessione, avvenuta nel 979, ad opera del vescovo di Genova Teodolfo, di un appezzamento di terra situato nel contado di Ventimiglia ad un gruppo di famiglie che si assumono l’onere di coltivarlo; alla convenzione, del 4 ottobre 1016, stipulata tra Filippo, conte di Ventimiglia, e i consoli di Apricale, paese esclusivamente abitato da pastori, che risulterebbe essere una delle più antiche testimonianze della presenza di consoli in Italia; all’altra convenzione, avvenuta nel 1002 tra gli abitanti di Tenda, Saorgio e Briga con il marchese Aroino per ottenere delle franchigie, mentre in San Romolo sono esentati dal pagamento di ogni gabella la famiglia Premartini, quella dei Paolengi e dei Riculgengi, privilegi che ebbero vita fino al 1753, in Calvini N., op. cit., pp. 63-68. 25 Bromberger C., Lacroix J., Raulin H., op. cit. 26 Grendi E., Le confraternite liguri in età moderna, in “La Liguria delle Casacce”, Genova 1982. 27 Scarin E., La casa rurale in Liguria, Genova 1957. 28 La singolare forma del tetto ha ottenuto il plauso di Pagano e Daniel che la ritennero, dopo aver operato una lettura evolutiva dalla copertura rurale, dalla capanna al trullo, alla cupola, al padiglione e alla botte, “la massima tecnica nell’edilizia” e ne ha siglato impropriamente l’appartenenza a quella mediterraneità. Pagano G., Daniel G., Architettura rurale italiana, in “Quaderni della Triennale”, Milano 1936, p. 59. 29 Scarin E., op. cit. 30 Raulin H., L’architecture rurale française. Dauphiné, Paris 1977, pag. 26, carta n. 3, “Caractères dominants du groupement de l’habitat rurale en Dauphiné”. 31 Raulin H., op. cit. 32 Settia A.A., op. cit., pag. 248 e pag. 311. 33 Ci si riferisce al paragrafo “Borgo” e “villaggio”: una peculiarità problematica del saggio di Settia A.A., op. cit., pag. 319 e segg. 34 “Chaque commune, chaque ancienne paroisse est partegée entre un habitat concentré, au chef-lieu, au bourg, et un habitat dispersé”, Raulin H., L’architecture rurale française. Savoie, Paris 1977, pag. 33. 35 Dematteis L., Case contadine in Val d’Aosta, Ivrea 1984; id.; Case contadine nelle valli di Lanzo e del Canavese, Ivrea 1983; Case contadine nelle valli Occitane in Italia, Ivrea 1983.
Iorio P., In principio era la pietra. Matrici preistoriche della cultura pastorale alpina, Torino s.d., pag. 172. 37 Dematteis, Case contadine nelle valli di Lanzo e del Canavese, op. cit. 38 Ottonelli S., Guida della Val Varaita, Bra 1979, pag. 212. 39 Thirion J., op. cit., pag. 41. 36
Le vie appenniniche verso Roma Levante ligure, Emilia, Toscana, Lazio Note Von Hagen V., Le grandi strade di Roma nel mondo, Roma 1978; Stopani R., Le grandi vie di pellegrinaggio del Medioevo - Le strade per Roma, Firenze 1986. 2 Si veda ancora Stopani R., op. cit., e il volume da lui curato Storia e cultura della strada in Valdelsa nel Medioevo, Poggibonsi-San Gimignano 1986; inoltre Sergi G., Potere e territorio lungo la strada di Francia, Napoli 1981, pagg. 34-35, nota 86. 3 Penco G., Storia del monachesimo in Italia – Dalle origini alla fine del Medioevo, Milano 1983. 4 Penco G., op. cit., pag. 112. 5 Pedreschi L., I piccoli proprietari della regione appenninica, in aa.vv. “La casa rurale in Italia”, Firenze 1970, rist. 1982, pag. 115. 6 Betta P., La struttura della casa rurale montana, in “Rivista di sociologia”, anno xii, n. 1, gennaio/aprile 1974; si veda anche Langé S., Citi D., Comunità di villaggio e architettura - L’esperienza storica del Levante ligure, Milano 1985 da pag. 15 alla fine del capitolo; Fondi M., Deruralizzazione e modifiche nella casa rurale italiana, in aa.vv., “La casa rurale in Italia”, op. cit. 7 Langé S., Citi D., op. cit., pagg. 33-36 e la nota 49 a pag. 80; Sorbelli A., Il comune rurale dell’Appennino emiliano nei secoli xiv e xv, Bologna 1910, pagg. 153/6 e pag. 219 e segg.; Bocchi F., L’architettura popolare in Italia. Emilia- Romagna, Bari 1984, pag. 15 segg. 8 Langé S., Citi D., op. cit. pagg. 36-38: “La struttura di terrazzamento” con le relative note a pag. 80. 9 Landi R., Sistemazioni collinari, in “L’Italia agricola”, anno 117, n. 3, luglio/ottobre 1980, pag. 124. 10 Il Sorbelli (op. cit., pag. 239) osserva che nel tardo medioevo “molte, anzi forse troppe, per la natura e la produttività del suolo, erano le coltivazioni”. 11 Sorbelli A., op. cit., pag. 243. 12 Langé S., Citi D., op. cit. paragrafo “Le terre comuni”, pagg. 39-58 e relative note; Sorbelli A., op. cit., pag. 288 e segg.; Severi P., Alcuni domini collettivi in territorio modenese, in “Benedictina”, anno xii, fasc. ii-iv, luglio/dicembre 1959. 13 In Guidetti M., Stahl P.H., Un’Italia sconosciuta - Comunità di villaggio e comunità familiari nell’Italia dell’800, Milano 1976, vedi Valenti C., “Consorzi di famiglie, università e diritti d’uso dell’Appennino marchigiano”; Danielli V., “Le comunanze della provincia di Pesaro e Urbino”; Cencelli Perti A., “Le università di Lazio e Umbria”. 14 Klapisc-Zuber C., Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne, in “Storia d’Italia”, 5°, I documenti, Torino 1973, pag. 323. 15 Santini G., I “Comuni di Pieve” nel medioevo italiano, Milano 1963, pag. 130. 16 Santini G., op. cit., pag. 190. 17 Salvagnini G., Resedi rurali in Toscana, Firenze 1980, pag. 12. 18 Costa M.C., Gaetani G., Il recupero dell’insediamento storico montano, Roma 1984, pag. 218 e segg. 19 Severini G., Garfagnana e media val di Secchio, Pisa 1985. 20 Nice B., La casa rurale nell’Appennino emiliano e nell’Oltrepò pavese, Firenze 1953, pag. 24. 21 Day J., Strade e vie di comunicazione, in “Storia d’Italia”, 5°, I Documenti, Torino 1973. 1
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NOTE Toubert P., Feudalesimo mediterraneo - Il caso del Lazio medioevale, Milano 1980. 23 Desco A., Perché viva la memoria, in “Costrignano nella valle del Dragone”, Modena 1984, pag. 89. 24 Bertacci L., Degli Esposti V., Foschi M., Venturi S., Vianello G., Architettura rurale della montagna modenese, Modena 1975. 25 Potrebbero essere assimilate alla maison du journalier presente in Auvergne, di cui è stato fatto cenno nel cap. iv. Si veda Stopani R., Medioevali case da lavoratore nella campagna fiorentina, Firenze 1978. 26 Salvagnini G., Resedi rurali in Toscana, Firenze 1980. 27 Toscanelli G., La famiglia colonica nella mezzeria toscana, e Ferrigni M., Il capoccia nella famiglia colonica toscana, in Guidetti M., Stahl P.H., op. cit. 28 Filippi G., Le firme sulle case, in “La Musola”, n. 28, luglio/dicembre 1980, pag. 81. 29 Bertacci L., ecc., op. cit., pag. 49. Di notevole interesse al proposito sono le caminate del Piacentino e della valle della Capria che Ferrari collega, tra l’altro, alla bonifica benedettina della pianura, avvenuta in quella valle attorno all’xi-xii secolo. Cfr. Ferrari P., Escursioni in val di Magra - Un paese che sta per scomparire: Ponticelli, Castelli e ‘Caminate’ nella valle della Capria, in “Quaderni de ‘la giovane Montagna’ ”, n. 38, Parma 1942. 30 Langé S., Citi D., op. cit., pag. 123 e segg. 31 Scarin E., La casa rurale in Liguria, Genova 1957; Fondi M., La casa rurale nella Lunigiana, Firenze 1952, rist. 1979. 32 Salvagnini G., op. cit., pag. 75 e segg. 33 Mori A., La casa rurale nelle Marche settentrionali, Firenze 1946, rist. 1979. 34 Gambi L., La casa rurale nella Romagna, Firenze 1959, rist. 1979. 35 Bertacci, ecc. op. cit., pag. 56; Salvagnini G., op. cit., pag. 41; Gambi L., op. cit., pag. 59; Scarin E., op. cit., pagg. 133, 140, 198; Fondi M., op. cit., pagg. 21, 23. 36 Langé S., Citi D., op. cit., pag. 125. 37 Nice B., La casa rurale dell’Appennino emiliano tra il Sillaro e l’Enza, in “La casa rurale nell’Appennino emiliano e nell’Oltrepò pavese”, Firenze 1953, pag. 31. 38 Gambi L., op. cit., pag. 92. 39 Bertacci, ecc. op. cit., pag. 39. 40 Pratelli G., La casa rurale nell’Appennino piacentino, in “La casa rurale nell’Appennino emiliano e nell’Oltrepò pavese”, op. cit., dove a pag. 110 si vede il disegno di R. Maffi di una cucina a Villa Casali in val d’Arda. 41 Si faccia riferimento al testo di Palmieri A., Maestri comacini nell’antico Appennino bolognese, Bologna 1913, ripreso più volte da diversi autori; e ai due volumi di Fantini L., Antichi edifici della Montagna bolognese, Bologna 1972. 42 Formentini U., L’arte romanica genovese e i Magistri Antelami, in “Storia di Genova dalle origini al tempo nostro”, vol. iii, Milano 1942. 22
L’Italia centro-meridionale e gli scali marittimi per la Terrasanta Abruzzo, Molise, Puglia, Sicilia Note Stopani R., Le grandi vie di pellegrinaggio nel Medioevo. Le strade per Roma, Firenze 1986. 2 Angelillis C., Il Santuario del Gargano e il culto di San Michele nel mondo, Foggia 1955, 1956. 3 Penco G., Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del Medioevo, Milano 1983. 4 Paci R., Le case con “verdesca” dei Monti Sibillini, in aa.vv., “Marche”, Bari 1987; Basile F., Borghi fortificati di origine settentrionale nella Sicilia del Medio Evo, in “Quaderni dell’Ist. di Dis. dell’Univ. di Messina”, n. 4, 1986. 5 Si ricordi la sopravvivenza fino ad età abbastanza recente del “rito ambrosiano” a Pescocostanzo e i numerosi toponimi di villaggi o quartieri 1
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“lombardi”, primo fra tutti quello di Enna. Si veda in generale: Merzario A., I Maestri Comacini, Milano 1893 che seppure in un contesto critico ancora assai generico presenta un quadro del problema suggestivo a tutt’oggi non ancora aggiornato. 6 Fucinese D.V., Raiano e dintorni. L’immagine e la storia, Raiano 1987, nel quale l’autore fa riferimento a: Capezzali W., La civiltà del tratturo, L’Aquila 1982; Clementi A., La transumanza nell’alto Medioevo, in “Bollettino Deputaz. Storia Patria”, lxxi (1984), pp. 31-47. Si veda anche: Fucinese D.V., Arte e Archeologia in Abruzzo. Bibliografia, Roma 1978; Zocca M., La formazione dei centri storici in Abruzzo, in “Atti del xix Congr. St. dell’Arch.”, L’Aquila 1975. 7 Il modo produttivo della lana nell’Italia centro-meridionale è ampiamente descritto in Marino J.A., Pastoral Economics in the Kingdom of Naples, Baltimore and London 1988, che mette in luce sia il sistema sociale che quello territoriale di tale contesto, a partire dall’esame del funzionamento della Dogana di Foggia (con ampia bibliografia); si veda anche Sprengler U., La pastorizia transumante, in “Annali del Mezzogiorno”, 15, 1975, con una carta dei tratturi tra L’Aquila e Foggia. 8 Si veda in particolare Ortolani M., La casa rurale negli Abruzzi, Firenze 1961 e Cataudella M., La casa rurale nel Molise, Firenze 1969, con i riferimenti bibliografici in essi riportati. Anche Pecora A., Insediamento e dimora rurale della regione degli Iblei, in “Quaderni di Geografia umana per la Sicilia e la Calabria”, iv, Messina 1959, tratteggia lo stesso schema per le regioni ivi considerate; inoltre Valussi G., La casa rurale nella Sicilia Occidentale, Firenze 1968; aa.vv., La casa rurale nella Sicilia Orientale, Firenze 1973; Mancini R., Architettura minore in Abruzzo, in “rst”, A. 1°, n. 1, L’Aquila 1982. 9 Ortolani M., op. cit., ricorda l’esistenza di “aie collettive esterne all’abitato” (pag. 136). 10 Ortolani M., op. cit. 11 Verrua P., Statuti di Isola del Gran Sasso del 18 giugno 1419, in “Atti e memorie del Convegno storico abruzzese-molisano”, Casalbordino 1935. 12 Sabatini G., Pescocostanzo. La sua vita nella storia, nell’arte, nell’industria, Roma 1950; De Padova L., Memorie intorno all’origine e progressi di Pesco Costanzo, Montecassino 1866. 13 Si vedano analoghe osservazioni in Spano B., Le case degli agglomerati compatti nell’Italia Meridionale, in aa.vv., “La casa rurale in Italia”, a cura di Barbieri G., Gambi L., Firenze 1970. 14 Tale tipo è stato tratteggiato chiaramente soprattutto da Almagià R., Sul popolamento di un cantone montano dell’Abruzzo, in “Studi Geogr. in onore di R. Biasutti”, suppl. vol. lxv (1958) della “Riv. Geogr. It.”, Firenze 1958; per la Sicilia si veda Pecora A., op. cit.; più in generale sempre Almagià R., Fondamenti di geografia generale, Roma 1958. 15 Nice B. ne ritrova gli estremi nella zona istriano-dalmata: si veda a questo proposito il cap. xiv alla parte ii del presente volume. Inoltre, con riferimenti più ampi al contesto europeo, Nice B., I rapporti tra l’architettura rurale dell’Italia e quella degli altri paesi, in aa.vv., “La casa rurale in Italia”, op. cit., pagg. 403-420. 16 In particolare si veda Pecora A., op. cit. 17 Franciosa L., La casa rurale nella Lucania, Firenze 1942. Si veda soprattutto Nifosí P., Leone G., Sciascia L., Bufalino G., Mastri e maestri dell’architettura iblea, Milano 1985; Giorgianni M., Leone G., La pietra vissuta. Il paesaggio degli Iblei, Palermo 1978; Raniolo G., Il muro a secco, in “Dialogo”, anno ix (1984), n. 4.
La barriera alpina verso l’Europa Centrale: scambi e differenze Lombardia, Ticino, Grigioni, Trentino Note La provincia romana della Rezia comprendeva all’incirca tutte le alte valli alpine comprese nella presente trattazione, ad esclusione di alcu-
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pace I., Le dimore italiane. Il Trentino, Milano, in preparazione. 16 Benetti A., Benetti D., op. cit. 17 In generale si veda Forchielli G., La pieve rurale, Roma 1931. 18 Sulla struttura familiare tirolese e bavarese Nice B., Sul maso chiuso atesino, in “Archivio per l’Alto Adige”, 39, Gleno 1944; Weiser L., Das Bauernhaus in Tirol, in “Orerdeutsch. Zeits für Volkskunde”, 1, 1927; Bancalari G., Forschungen über das deutsche Wohnhaus, Stuttgart 1890, 1893. 19 Acute ed importanti osservazioni su questi due tipi edilizi sono esposte in Simonett Ch., Die Bauernhäuser des Kantons Graubünden, Basel 1983, con attendibili ricostruzioni e datazioni. Il tipo della casa-sala (saalhaus) viene riportato ad esempi dell’viii secolo riscontrabili a Sagogn e documentati e descritti nel cosiddetto testamento di Tello del 765. 20 Si vedano le trattazioni nelle case-torri e torre-casa ai capp. vi, xi, xii, parte ii del presente volume, con i relativi riferimenti bibliografici. 21 Simonett Ch., op. cit., pagg. 83-84. 22 Simonett Ch., op. cit., pag. 101. 23 Aggregazioni simili sono verificabili anche nei più organici agglomerati sul versante alpino meridionale: in particolare alcuni nuclei dell’attuale comune di Montecrestese presso Domodossola nella forma sia quadrata sia rettangolare. 24 Simonis G., Costruzioni di pietra. Architettura della Val Vigezzo, s.l., 1982. 25 Se ne veda la casistica distributiva in Nangeroni G., Pracchi R., La casa rurale nella montagna lombarda, ii, Settore sud-orientale, Firenze 1958; e una trattazione architettonica e spaziale in Bonapace I., op. cit. 26 Bonapace I., op. cit. 27 Simonett Ch., op. cit. 28 Sui Maestri Comacini si veda il cap. 4, parte i del presente volume. 29 Simonis G., op. cit. Società Svizzera Ingegneri e Architetti, La casa borghese nella Svizzera Canton Ticino, Zurigo 1936. 30 Angelini L., Arte minore bergamasca, Bergamo 1947. 31 Simonis G., Costruire con la pietra, Milano 1982.
ne del versante meridionale (Valtellina, valli bergamasche e bresciane e del Trentino) che erano parte integrante del sistema amministrativo padano. Si veda Guichonnet P., Storia e civiltà delle Alpi, Milano 1986. 2 Ampia è la bibliografia su tutti gli aspetti del popolo Walser: se ne veda una recente sistematizzazione in Zanzi L., Rizzi E. I Walser nella storia delle Alpi. Un modello di civilizzazione e i suoi problemi metodologici, Milano 1988. Enrico Rizzi in particolare (ivi pagg. 443-7) afferma che la spinta all’espansione dei Walser fu dovuta alla pressione e economica e politica della nobiltà lombardo-piemontese insediatasi a Sion e nel Vallese dopo la sconfitta di Federico Barbarossa e la definitiva affermazione del Libero Comune di Milano. Appare comunque da tale ricerca con più ampiezza questo scenario della vita alpina nel medioevo centrale, nella quale si rintracciano gli interessi e i movimenti di diverse sfere in espansione (mercanti, nobili, ecclesiastici, agricoltori) sulle grandi strade dello scambio europeo e che servono ad articolare con più compiutezza le ragioni delle tipologie insediative ed edilizie, entro una “regione storica’’ e non solo “geografico-antropologica”. 3 Si veda il cap. x del presente volume e in particolare gli accenni all’utilizzazione del passo del Moncenisio in età carolingia con la fondazione del monastero della Novalesa. 4 Si veda Guichonnet P., op. cit. 5 L’arcivescovo di Rouen, Eudes Rigaud, consigliere del re san Luigi ix, nel 1253-54 tiene il diario di un viaggio a Roma. Nell’andata utilizza appunto il passo del Sempione giungendo da Losanna e Sion e annota la recente costruzione al passo dell’ospizio dei Cavalieri Gerosolimitani. Cfr. Stopani R., Le grandi vie di pellegrinaggio nel Medioevo, Firenze 1986. 6 Cfr. Guichonnet P., op. cit. 7 Si veda in Stopani R., op. cit., come fino a tale epoca i principali itinerari del nord e nord-ovest dell’Europa per Roma utilizzassero prevalentemente il Gran San Bernardo: così avviene per il viaggio di Sigeric, arcivescovo di Canterbury (990-994, ivi, pag. 56); altrettanto per il pellegrinaggio di Nikulas di Munkathvera, abate islandese (1154, ivi, pag. 63); e infine tale è il consiglio degli “Annales Stadienses” (124056) che prevedono ad ovest i passaggi per il Moncenisio e ad est per il Brennero e citano il San Gottardo come variante per chi passa da Como (ivi, pag. 91 sg.); il Gran San Bernardo rimane come opzionalità secondaria. 8 Per tutte queste considerazioni si veda: aa.vv., Le Alpi e l’Europa, Bari 1974-5. Sono gli atti del congresso di Milano dell’ottobre del 1973. 9 L’informazione è riportata in Guichonnet, op. cit., pag. 215. 10 Dematteis L., Case contadine nelle Valli dell’Ossola, Cusio e Verbano, Ivrea 1985. 11 Imponente è la bibliografia geografico-economica che ha come oggetto la struttura e le modalità dell’allevamento nella regione alpina: per il versante italiano si veda Storai De Rocchi T., Guida bibliografica allo studio dell’abitazione rurale in Italia, Firenze 1950; id. Bibliografia degli studi sulla casa rurale italiana, Firenze 1968; per il versante svizzero: aa.vv., Le Alpi e l’Europa, op. cit. Sugli aspetti in generale della ruralizzazione delle Alpi si veda Zanzi L., Rizzi E., op. cit., e in termini più ampi Duby G., L’economia rurale nell’Europa medioevale, trad. it., Bari 1966. 12 Tale sembra essere il parere espresso in Guichonnet P., op. cit. 13 In generale si veda: Sereni E., Comunità rurali nell’Italia antica, Roma 1955; Bognetti G.P., Studi sull’origine del comune rurale, edizione a cura di Sinatti d’Amico F., Violante C., Milano 1978, dove è compreso anche il classico saggio Sulle Origini dei Comuni rurali nel Medioevo, del 1926 ed altri studi. 14 La bibliografia sull’argomento è complessissima soprattutto per quanto riguarda il diritto: si tratta per lo più di studi che videro la luce tra il xix e il xx secolo in ordine alle problematiche di progressiva eversione degli “usi civici” portati a conclusione dagli statuti moderni. 15 Si veda un’analisi già fatta per il villaggio ligure in Langé S., Citi D., Architettura e comunità di villaggio, Milano 1985. Inoltre Benetti A., Benetti D., Le dimore italiane. Valtellina e Valchiavenna, Milano 1984; Bona-
Le vie verso l’Oriente Jugoslavia e Grecia Note Cvijic J., La Peninsule Balkänique, Paris 1918. Si vedano al paragrafo seguente. 3 Anche in opere molto recenti ed aggiornate le intuizioni di Cvijic vengono riprese ampiamente, come in aa.vv., An Historical Geography of the Balkans, a cura di Carter F.W., Londra, New York, San Francisco 1977. 4 Carter F.W., Urban development in the Western Balkans, in aa.vv., “An Historical Geography of the Balkans’’, op. cit., in particolare pagg. 17475. 5 Stahl P.H., Ethnologie de l’Europe du Sud-est, Paris, La Haye 1974. 6 Nice B., La casa rurale nella Venezia Giulia, Bologna 1940. 7 Cvijic J., op. cit., pag. 214 segg. 8 Su questi aspetti si veda l’ampio e aggiornato quadro contenuto in Grousset E., L’Empire du Levant. Histoire de la question d’Orient, Paris 1979; in particolare sulla espansione veneta: Thiviet F., La Romanie vénitienne au Moyen Age. Le développement et l’exploitation du demain colonial vénitien, Paris 1959; e su quella genovese: Balards M., La Romanie Genoise, Ecole française de Rome, 1978; sugli scali e gli insediamenti: Stringa P., Genova e la Liguria nel Mediterraneo, Genova 1982, con ampia bibliografia. 9 Stringa P., op. cit. 10 Grousset E., op. cit. 11 Si veda la ricostruzione degli insediamenti nel Peloponneso fatta da 1 2
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BIBLIOGRAFIA Wagstaff J. M., Settlement in the South-Central Pelopónnisos c. 1618, in aa.vv., “An Historical Geography of the Balkans’’, op. cit. 12 Si veda Cvijic J., op. cit.; Stahl P.H., Ethnologie de l’Europe du sud-est, op. cit. 13 Si veda il quadro sintetico in Anderson P., L’état absolutiste ii – L’Europe de l’Est, Paris 1978 al cap. 7, pagg. 187-221. 14 Stringa P., op. cit.; Bouras Ch., Chios, in aa.vv., Greek traditional Architecture, Atene 1983, con ampia bibliografia. 15 Anderson P., op. cit., e in modo molto sintetico ma assai chiaro Asdrahas S.I., The economic framework, in aa.vv. “Greek traditional Architecture’’, op. cit. 16 Tali sono le localizzazioni suggerite in Cvijic J., op. cit., che ne sostiene la sopravvivenza, sotto nuovi proprietari, in Tessaglia ancora nel 1918. 17 Asdrahas S.I., op.cit. 18 Si veda Cvijic J., op. cit.; Stahl P.H., op. cit., in cui si riportano brani assai interessanti di viaggiatori ottocenteschi che percorsero le zone del Pindo e di altre regioni greche, quali Weigand G., Die Aromunen, Lipsia 1894-95; Pouqueville F.C.H.L., Voyage de la Grèce, Paris 1826. Inoltre Wace A.I.B., Thompson M.S., The nomads of the Balkans, London 1914. 19 Bancalari G., Forschungen über das deutsche Wohnhaus, in “Das Ausland’’, vol. 64, Stoccarda 1890-93; ib., Das ländiche Wohnhaus in den Südalpen, in “Globus”, Braunschweig 1895; Cvijic J., op. cit. 20 Sulla casa friulana: Scarin E., La casa rurale nel Friuli, Firenze 1943; Bertossi S., Cargnel L., Case friulane, Udine 1978; Del Puppo G., La casa in Friuli, Udine 1907. 21 Sulla definizione dei confini e delle caratteristiche nell’area settentrionale (tra Carso e Slovenia) si sono espressi oltre a Bancalari G., op. cit., anche Nice B., La casa rurale nella Venezia Giulia, Bologna 1940. Sulle tipologie propriamente slovene, appartenenti all’area della casa dinarica con influenze germaniche: aa.vv., Slovensko Ljudsko izrocilo, Lubiana 1981 (in particolare il contributo di Cevc T., Stavbe, pp. 93-109); Karlovsel J., Slovenska hisa, Lubiana 1927; ib. Slovenski domovi, Lubiana 1939; in generale: Murko M., Zur Geschichte des volkstümlichen Hauses
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bei den Südslaven, Vienna 1946. 22 Cvijic J., op. cit. 23 Come ha osservato giustamente Ortolani M., La casa rurale in Dalmazia, in “Rivista Geografica Italiana”, Firenze 1944, la definizione di Cvijic J. (casa carsico-mediterranea) è stata formulata a partire dagli esempi più comuni nel Carso montenegrino. 24 Esempi simili contigui sono quelli del larin e del fogolar del Bellunese e della Carnia, diffusi anche nel Friuli della pianura (cfr. Scarin E., op. cit.). 25 Sulla casa carsica si veda il testo fondamentale di Nice B., op. cit.; per le aree oggi amministrativamente di Trieste: aa.vv., La casa di pietra, Trento 1984; più in generale sul Carso: Gams I., Kras, Lubiana 1974; Sidei I., Kmecka arhitektura na Krasu, in “Kraska hisa” (cat. sem), Lubiana 1969. 26 Nice B., op. cit. 27 Riprendiamo questa classificazione tipologica da Ortolani M., op. cit. 28 Osservazioni sugli allineamenti di case dalmate e montenegrine sono state fatte da Cvijic J., op. cit., e Dvorski V., Diversi tipi delle sedi umane presso gli Slavi meridionali, in “Rivista Geografica Italiana”, Firenze 1913, oltre che in Ortolani M., op. cit. 29 Ortolani M., op. cit. 30 Cvijic J., op. cit., pag. 240, riferendosi l’autore anche ad un brano di Tomic S., in “Naselja”, i, Belgrado 1902. 31 In aa.vv., Greek traditional Architecture, op. cit. Cfr. Bouras Ch., “General introduction”, in Chios, op. cit., pag. 26 segg. che tratta di questi gruppi di bouloukia o isnafs provenienti dall’Epiro del nord, dalla Macedonia occidentale, da Langadia nel Peloponneso e da Karpathos, le cui tracce si ritrovano in Asia Minore, Romania, Egitto e Persia. 32 Tale è il parere di Bouras Ch., op. cit. 33 Si vedano i saggi di Christopoulos B. e di Petronotis A., in aa.vv. Ellenikí Paradosiaki Architektonikí, vol. iv, Atene 1986. 34 Si veda la tradizione delle teste tagliate dell’area occitanica (capp. x e xi del presente volume).
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