MALEVICH. THE LAST ICON

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Massimo Carboni MALEVI\ L’ULTIMA ICONA arte, filosofia, teologia

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Š 2019 Editoriale Jaca Book Srl, Milano tutti i diritti riservati

Indice

Prima edizione ottobre 2019

Avvertenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Prima parte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

Seconda parte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243

Redazione Jaca Book Impaginazione Elisabetta Gioanola ISBN 978-88-16-60599-2 Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su 5

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Avvertenza

Ogni cerchio, prima o poi, si chiude. Il cerchio che con questo lavoro si chiude riguarda la ricerca che negli ultimi trent’anni abbiamo condotto −a varie riprese e attraverso tentativi di un approfondimento via via maggiore− sul rapporto tra la filosofia dell’icona e l’opera di Kazimir Malevi/. Il tema è comparso per la prima volta nell’articolo Il sublime rovesciato, pubblicato su “aut-aut”, n. 231, 1989. Poi ha assunto la forma più estesa di un capitolo sia in Il Sublime è Ora, 1993, sia nella seconda edizione di Non vedi niente? Sentieri tra arti e filosofie del presente, del 2005. Nicola Cusano e Kazimir Malevi/. Iconologia dell’ascesi si intitolava la relazione tenuta al convegno su “Eros e filosofia” (Università di Roma “La Sapienza”, 1997), i cui atti sono stati pubblicati due anni dopo in “Almanacchi nuovi” (2, 1998-99). Più recentemente, nel maggio 2018 e nell’aprile 2019, il tema è stato oggetto di conferenze tenute al Museo Riso di Palermo e a La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.

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Prima parte

L’immagine è ri-presentazione, cioè in definitiva resurrezione Roland Barthes Il cinema è la resurrezione del reale Jean-Luc Godard

L’eresia dell’iconoclasmo, e la tremenda crisi che essa provoca nel mondo cristiano e che non cesserà di far sentire le sue ripercussioni per lungo tempo (basti solo pensare alla Riforma Protestante avvenuta oltre un millennio più tardi), con le questioni e gli interrogativi radicali che essa pone, fa parte integrante della teologia delle immagini e della dialettica ontologica dell’icona. Lungi dal risultarle estraneo, l’iconoclasmo ne esprime invece il versante tragico, poiché interroga la paradossalità dell’icona come scandalo dell’apparizione visibile dell’Invisibile. Accenni contro il culto delle immagini −giustificati in parte dalla necessità di contrapporsi al paganesimo− si trovano già nei testi paolini. All’interno dell’ecumene cristiana −a Costantinopoli, in Grecia, in alcune province dell’Anatolia− il culto rasentava l’idolatria aumentando l’ascendente dei monaci e del clero sul popolo a detrimento dell’autorità statale. La controversia iconoclastica fu aperta istituzionalmente dall’imperatore bizantino Leone iii Isaurico, che emise i primi due decreti contro l’uso e il culto delle immagini sacre nel 726 e nel 730, decreti il cui testo non possediamo. 9

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L’imperatore fece distruggere l’imago Christi sul frontone della porta Chalkè del palazzo imperiale e la fece sostituire con la croce. Sembra che una folla di donne abbia violentemente protestato contro gli incaricati del lavoro, e a questo proposito può far riflettere il fatto che furono proprio due imperatrici a restaurare il culto delle icone, Irene e Teodora1. L’offensiva variò di contenuto e di intensità: all’inizio fu diretta soltanto contro le degenerazioni del culto e non si verificarono distruzioni sistematiche delle immagini; successivamente si pervenne alla radicale abolizione non solo del loro culto ma anche del loro uso. Sul piano politico, la controversia iconoclasta fu essenzialmente una lotta tra il cesaropapismo esplicito di alcuni imperatori bizantini (Leone iii e soprattutto il figlio Costantino v Copronimo) e il movimento monacale che non cessava di rivendicare l’indipendenza del messaggio evangelico dal mondo terreno. Germano patriarca di Costantinopoli (637-733), prima del suo allontanamento dalla corte di Bisanzio sotto la pressione imperiale, usava già con grande chiarezza, a favore delle immagini, l’argomento cristologico dell’incarnazione storica, e a lui dobbiamo, grazie alle sue lettere redatte tra il 715 e il 730, la prima reazione al nascente movimento iconoclasta di cui possediamo una testimonianza scritta: «Noi permettiamo la produzione di icone dipinte con cera e colori, non per pervertire la perfezione del culto divino. Perché, dell’invisibile divinità, noi non facciamo né icone né riproduzioni né alcuna figura […] Ora, però, l’unigenito Figlio che è nel seno del Padre […] ha benignamente deciso di farsi uomo. Egli è divenuto partecipe della nostra carne e sangue, si1  Sull’episodio cfr. A. Grabar, L’iconoclasme byzantin, Flammarion, Paris 1984, pp. 150-66, e G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino (1963); trad. it. Einaudi, Torino 1968, pp. 149-50, ma vedi l’intero cap. L’età della crisi iconoclastica (711-843). Sia lo studio di Grabar sia quello di Ostrogorsky sono fondamentali per comprendere la posta in gioco, sia sul piano politico sia su quello teologico, della controversia sulle immagini. Ricordiamo che la dottrina apologetica sulle immagini è una legittimazione operata in sede teologica di un culto popolare già da tempo molto diffuso nel mondo cristiano.

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mile a noi in tutto eccetto il peccato. Per questa ragione noi rappresentiamo in immagini i suoi tratti umani così come egli appariva come uomo secondo la carne e non secondo la sua invisibile e incomprensibile divinità […] Cristo non si è fatto uomo solo apparentemente, come un’ombra, ma realmente e veracemente […] In ragione di questa incrollabile fede in Cristo, noi rappresentiamo l’espressione (charaktera) della sua santa carne sulle icone e a queste tributiamo onore inchinandoci davanti ad esse con la dovuta riverenza, perché mediante esse noi veniamo richiamati alla sua incarnazione vivificante e indicibile»2.

Nella convinzione che la fede cristiana non è credere in alcune verità pronunciate o declamate, ma nell’esibizione effettiva della verità concretizzata in un’esistenza singola, fin dall’inizio della speculazione teologica a difesa dell’icona, dunque, questa (cioè la tradizione non scritta) è pensata e giustificata quale diretta conseguenza della realtà dell’incarnazione, senza che ciò possa negare o compromettere l’indicibilità-invisibilità della ousia, della ‘sostanza’ divina. All’interno di questo equilibrio, l’icona (e questo resterà un locus classicus nella dogmatica sulle immagini sacre) rappresenta il medio, il tramite per richiamare alla mente e al cuore, per rammemorare quel mistero vivificante. Al Concilio di Roma del 731, Gregorio iii scomunica gli iconoclasti. Non avendo la possibilità di colpire direttamente il pontefice, per tutta risposta Leone Isaurico stacca l’Italia meridionale, compresa la Sicilia, l’Illiria e la Dalmazia, dalla giurisdizione ecclesiastica romana subordinandole al patriarcato di Costantinopoli. La difesa delle immagini viene assunta da un umile monaco del monastero di San Saba in Palestina, Giovanni Damasceno (675-749), che insiste sul sovvertimento avvenuto con la discesa incarnata di Dio tra gli uomini:

2  Cfr. C. Schönborn, L’icona di Cristo. Fondamenti teologici (1976; 1984); trad. it. ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 161.

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«Nei tempi antichi Dio, incorporeo e senza forma, non poteva essere raffigurato; ma ora, poiché Dio è stato visto mediante la carne e ha vissuto in comunanza di vita con gli uomini, io raffiguro ciò che di Dio è stato visto. Io non venero la materia, ma il Creatore della materia che è diventato materia a causa mia, nella materia ha accettato di abitare e attraverso la materia ha operato la mia salvezza»3.

Nel 753, Costantino v Copronimo (bollato dagli iconofili con questo titolo infamante di ‘nome di sterco’) riunì a Hieria, sulla riva asiatica del Bosforo, più di trecento vescovi per sei mesi. Il Concilio (che non fu evidentemente ecumenico ma che pretendeva di esserlo) dichiarò empia e sacrilega l’arte della pittura in quanto attentava a riprodurre Cristo, i Santi e la Theotokòs, la Madre di Dio, e il culto delle immagini fu dichiarato proveniente da Satana. Radicale e spietato fu l’uso che Costantino fece di queste deliberazioni dogmatiche: le immagini furono quasi totalmente distrutte, i monaci violentemente perseguitati e a molti di loro furono amputate o bruciate le mani per aver dipinto icone. Vivono in queste deliberazioni sia l’eredità dell’esasperato spiritualismo ellenico post-platonico, sia la necessità di porsi in rapporto con il nascente Islam, anch’esso, e come d’altronde anche l’Ebraismo, contrario alla raffigurazione del divino. Presupposto teologico degli iconoclasti era che la theosis, la ‘deificazione’ di Cristo ne sopprimesse il carattere umano, e siccome l’immagine, l’eikon, era creduta −con un atteggiamento fondamentalmente ancora magico, vedremo meglio in seguito− della stessa sostanza del prototipo, essa, nella sua materialità, non poteva adeguatamente realizzare tale identificazione. Si comprende bene già da questo passaggio come nella controversia iconoclasta sia in gioco niente meno che lo stesso futuro statuto dell’immagine in generale, religiosa o secolare che sia, e quanto −sebbene l’icona non sia opera d’arte ma opera testimoniale− l’arte e il pensiero 3  Giovanni Damasceno, Difesa delle immagini sacre, Primo Discorso, 16; trad. it. Città Nuova, Roma 1983.

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sull’arte così come modernamente li intendiamo vi siano profondamente coinvolti. Sotto Irene imperatrice reggente, arriviamo nel 787 al vii Concilio, il secondo di Nicea e l’ultimo della Chiesa indivisa prima del grande scisma del 10544. Si revocano i decreti di Hieria e si restaura il culto delle immagini, pur condannando ufficialmente la simonia, cioè il commercio delle immagini sacre. Negli atti di questo Concilio (che riporta integralmente gli atti della precedente assemblea iconoclasta di Hieria, e solo per questo ne conosciamo il contenuto) del quale non si sopravvaluterà mai l’importanza e la decisività, si riafferma che Dio non è rappresentabile nella sua natura, ma che mediante l’icona facciamo memoria dei prototipi che essa raffigura, e che ciò non significa affatto separare la carne di Cristo dalla sua divinità. Anzi, al contrario, l’icona è ritenuta la prova della fede nel fatto che la sua carne è deificata e viene confessata una con la divinità. Possiamo concludere dunque, argomentano gli iconoduli, che se il Verbo si è mostrato in un corpo di carne, la bellezza di ogni corpo umano non è altro che il riflesso della bellezza del Verbo. Gli stessi Padri della Chiesa non avevano affatto negato la corporalità, arrivando ad esempio ad affermare quasi temerariamente che guardare una donna significa sentirsi portati a lodare Dio che ha creato tanta bellezza, e in tal modo lo sguardo di ammirazione viene trasfigurato. È nota la storia del vescovo Nono di Edessa che pianse di commozione di fronte al fascino femminile di una prostituta che, commossa a sua volta, cambiò vita e divenne santa. La materia è quindi ricolma −proprio in virtù dell’incarnazione− di energia divi4  È ormai opinione comune e consolidata che quelle antiche decisioni del del Niceno ii e tutto il dibattito di cui qui forniamo soltanto uno schema estremamente sintetico a fronte della sua complessità, abbiano contribuito a plasmare la concezione e lo statuto stesso dell’immagine nella cultura occidentale. Cfr. su questo −anche per quanto riguarda il repertorio bibliografico− M. Andaloro, Il secondo Concilio di Nicea e l’età dell’immagine, in Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, a cura di L. Russo, Aesthetica, Palermo 1997, che contiene gli atti del Concilio.

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na e di grazia, così che nella bellezza terrestre, generata, si può riconoscere la bellezza celeste, ingenerata. Il Concilio niceno stabilì che l’icona va però “venerata” e non “adorata”. Il termine greco usato negli atti del Concilio è proskynesis, che indica la situazione in cui l’icona è posta direttamente davanti ai fedeli inginocchiati e pronti alla venerazione. Ma nella traduzione latina degli atti conciliari usata da Carlo Magno, il termine fu tradotto con adoratio, e per questo nei Libri Carolini si respingono le risoluzioni di Nicea. Nella prima metà del secolo ix si riapre −e trova anche la sua chiusura− il secondo e ultimo periodo iconoclasta, ove ancor più chiaramente emerge che sul piano del potere politico-religioso la lotta è contro il monachesimo ed è parte di quel più ampio conflitto tra Stato e Chiesa che si estenderà in Europa quantomeno per un altro millennio. Nell’815, sotto Leone v, il Concilio di Santa Sofia a Costantinopoli rimise in vigore i decreti iconoclasti di Hieria. Le due figure più grandi che al tempo emergono nella speculazione teologica ortodossa sulle immagini sono quelle di Teodoro Studita (795-826) e di Niceforo patriarca (750-829). Nonostante il rischio di cadere nell’eresia nestoriana, essi riaffermano la piena umanità di Cristo. Scrive Teodoro: «l’inconcepibile viene concepito nel grembo di una Vergine; l’incommensurabile diventa alto tre cubiti; l’inqualificabile acquista una qualità; l’indefinibile sta in piedi, si siede e si corica; colui che è in ogni luogo è posto in un presepio; colui che è aldi sopra del tempo raggiunge gradualmente l’età di dodici anni; colui che è senza forma appare in forma d’uomo e l’incorporeo entra in un corpo [… ] perciò egli è descrivibile e indescrivibile»5 5

Cfr. J. Meyendorff, La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali (1974, 1979); trad. it. Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 194. Il libro di Meyendorff, che abbiamo tenuto costantemente presente, resta una guida imprescindibile per tutti i motivi che qui e in seguito affronteremo. Per quanto riguarda invece la dimensione storico-artistica della cultura e della teologia bizantina, resta insuperato lo studio di E. Kitzinger, Il culto delle immagini. L’arte bizantina dalle origini all’Iconoclastia (1976); trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1992.

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Sta qui tutto il paradosso, tutta l’aporia dell’icona, e la fede cristiana mostra una profonda struttura iconica6. La trascendenza si è fatta presenza, l’umano è visitato dal divino: ma allora Cristo è la prima, vera e perfetta icona del Padre, nel senso che il Padre, primo Iconografo (cfr. Giovanni Damasceno, Secondo discorso, 20), mostra sé nel Figlio potremmo dire come nel suo “autoritratto”. Analizzeremo più avanti in dettaglio questo punto teologicamente delicatissimo. Niceforo patriarca (deposto nell’815 da Leone v per la sua difesa delle immagini) respingeva la concezione di Origene (185-254) secondo cui la deificazione dell’umanità avvenuta con l’incarnazione implicava la smaterializzazione e l’intellettualizzazione dell’esistenza. Cristo, afferma Niceforo, ha sofferto la fame, la sete, la fatica, il dolore: come ogni altro uomo, che non avrebbe potuto salvare se Egli non avesse assunto una carne affatto uguale a quella sua. Tale pienezza di umanità implicava quindi che potesse essere descritta, raffigurata, evocata nell’immagine. Ed ecco perché, secondo la celebre formula coniata da Basilio di Cesarea detto il Grande (330-379), l’onore riservato all’immagine si trasmette all’archetipo, dal momento che ogni raffigurazione, di qualsiasi tipo, appartiene o risale originariamente a un archetipo, a un modello. Nel 843, con il Concilio di Costantinopoli, il culto delle icone viene definitivamente ristabilito sotto Teodora imperatrice (e ci sarebbe forse da fare una riflessione di genere, lo ripetiamo, sul fatto che furono due donne regnanti a restaurare il culto delle immagini), anche se la questione iconoclasta farà sentire le sue ripercussioni ancora per secoli fino a oggi, mai definitivamente rimossa proprio perché essa vive nell’intimo della dialettica teologica dell’icona come coincidentia oppositorum, come evocazione di quella enosis, cioè

6  Non soltanto. Tutti i testi antichi in difesa delle immagini −canonicamente appartenenti o meno alla patristica− sono percorsi incessantemente da continue e insistenti metafore, paragoni ed esemplificazioni che rinviano all’arte della pittura e al mestiere del pittore.

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di quella unione tra epifania, manifestazione visibile, e dimensione apofatica, cioè affermazione dell’invisibile. *** Quali osservazioni possiamo trarre da questa sintesi storica (certo molto parziale e schematica rispetto alla complessità degli avvenimenti) di una controversia che non soltanto ha aperto la possibilità stessa di un’arte cristiana, ma che è straordinariamente importante per tutta la cultura occidentale dell’immagine? Prima di tutto occorre sottolineare che la speculazione teologica sull’icona non rigetta ma al contrario considera positivamente la proibizione veterotestamentaria all’immagine, proprio perché vuole pensare la vera icona, quella che diventa possibile soltanto dopo e in virtù dell’incarnazione, che fa parte dell’oikonomia divina, cioè del piano provvidenziale in cui Dio si rivela per la salvezza dell’umanità7. Essa non è simulacro né finzione, soprattutto non è rappresentazione artistica nel senso estetico e moderno del termine. A questo proposito bisogna ricordare che nei documenti della controversia non troviamo nessuna traccia di rilievi o giudizi di carattere artistico-estetico, perché la partita si gioca tutta sul piano della teologia trinitaria e dell’economia cristologica. Prova ne sia che, secondo un paradosso solo apparente, sotto Irene e Costantino vi iconofili le opere musive erano aniconiche, e che grandi e preziosi lavori artistici furono promossi da Teofilo imperatore iconoclasta. L’icona è dunque inno, preghiera, testimonianza; non è sostanziale presenza del divino né compiuta enosis, poiché la vera unione estatica sarà possibile solo nella vita futura in Cristo. L’icona −cui si deve un culto comunitario e non “museale”, non soggettivistico ma liturgico, ed è per questo che per essa è fondamentale l’assoluta precisione tecnica della sua 7  Cfr. su questo tema G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teo­logica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza 2007.

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fattura trasmessa dalla tradizione− è il nome di Dio disegnato e dipinto, e il suo nome pronunciato è la sua icona verbale. Immagine e parola sono qui indissolubilmente intrecciate, tanto è vero che nella quinta sessione del Concilio niceno un’icona venne collocata al centro della sala accanto al libro dei Vangeli. L’icona è odoghetria, cioè guida, conduce verso il Prototipo che raffigura e aiuta a rammemorare; è porta aperta che si spalanca sull’infinito, che illumina in oro e colori la misura della separazione tra umano e divino, facendo traboccare la luce dell’altro mondo in questo mondo. Sull’icona è dipinta la natura umana solo in quanto partecipa a quella divina, ed è dipinta la natura divina solo in quanto questa partecipa a quella umana: tale è il suo delicatissimo, fragile equilibrio. In essa vediamo solo il prosopon, il volto del Padre che si è “in-figurato”, che si è reso immagine nel Figlio; non vi vediamo la sostanza divina, ma solo la sua ipostasi, cioè il suo farsi persona in Cristo che è parola divenuta visibile quindi rappresentabile-raffigurabile. D’altra parte sarebbe totalmente errato vedere nelle posizioni iconoclaste una semplice ripresa-ripetizione del divieto biblico all’immagine che hywh dettò a Mosè sul Sinai, perché tali posizioni si pongono consapevolmente sul terreno della rivelazione. La cristologia iconoclasta sottolinea ed enfatizza quella dimensione apofatica che è interna e non esterna alla dialettica ontologica dell’icona: afferma cioè la dimensione irrappresentabile, irraffigurabile della divinità. Essa non rinnega affatto l’efficacia della pittura religiosa (anzi, bisognerebbe forse dire che gli iconoclasti la combattevano proprio perché ne erano supremamente coscienti), ma interpreta quel movimento del fedele che −secondo la terminologia dogmatica− “solleva la mente dalle immagini agli archetipi”, secondo una prospettiva psicologica, empirista, sensista. Non è un caso che gli iconoclasti −separando nettamente sacramento e icona, e negando la stessa possibilità di un nesso ontologico con il Prototipo− ammettessero come vere e uniche icone (che tali in realtà non sono) la croce, il pane e il vino, credendo che gli enti invisibili possano 17

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rivelarsi soltanto tramite immagini che non hanno alcuna somiglianza con il loro oggetto. Torneremo su questo, ma già da ora possiamo osservare che, se pensata come raffigurazione psicologico-associativa, l’icona davvero arretrerebbe a immagine idolatrica. Ma questa incomprensione del partito iconoclasta si fonda e riposa su una negazione ancora più profonda e abissale, e qui forse sta il nodo davvero decisivo dell’intera questione. L’iconoclasmo cioè nega la forza energetica e manifestante del divino, dell’inesprimibile. L’icona ci mostra, ci ricorda che il Dio cristiano sa donarsi, che è pura gratuità. Cioè in una parola Amore, vincolo di Amore espresso all’interno dell’oikonomia divina, l’azione salvatrice di Dio che “adatta” la legge trascendente, che rimarrebbe incomprensibile, alla realtà vivente e conoscente degli uomini. Oikonomia, dunque, come gestione, amministrazione, distribuzione storico-temporale della visibilità iconica; e Cristo, dunque, come icona vivente dell’amore. La teologia iconoclasta nega, non comprende, rimuove questa infinita capacità energetica −ed economica nel senso appena precisato− di donarsi dell’inesprimibile, che invece può considerarsi il sigillo stesso del mistero della creazione. Propriamente l’icona, scrive Florenskij, non è tanto una rappresentazione −che in quanto tale porta sempre con sé delle implicazioni di carattere soggettivistico, psicologico-associativo− quanto «una delle onde propagatrici nate dalla realtà stessa che l’ha suscitata»8, ed è qui che si raccoglie il suo valore altamente quanto letteralmente simbolico come segno che partecipa della realtà stessa di cui è segno segno-simbolo di luce. Luce che è onda, emanazione, energia irradiata dall’essenza che in quanto tale resta invisibile-impartecipabile, ma che proprio manifestandosi, incarnandosi in Cristo, si rivela essere Amo8  Ikonostas di Pavel Florenskij è l’aureo contributo alla filosofia novecentesca dell’icona scritto nel 1922, trad. it. Le porte regali, Adelphi, Milano 1977. La citazione è a p. 66. La “porta regale”, come noto, è l’apertura centrale dell’iconòstasi. È celebre il sillogismo formulato da Florenskij: «Esiste la trinità di Rublëv, perciò Dio è», p. 64).

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re, capacità donativa massimamente libera, volontà di offrirsi gratuitamente senza alcuna aspettativa di un ritorno, abissale scelta di alienarsi, di separarsi da sé tuttavia restando presso di sé. Tramite l’icona, il fedele può associarsi allora a questa energia. Se essa non è rappresentazione ma, secondo Florenskij, emanazione, allora vale come testimonianza concreta in oro e colori del trascendente, che nella sua infinita bontà (che appunto altro non è se non capacità di espandersi, di aprirsi, di alienarsi) agisce in mezzo a noi, all’immanente, poiché Dio ha rinunciato pur misteriosamente conservandola alla sua essenza invisibile facendosi uomo per mostrarsi come tale. L’icona è lo sguardo di un Altro invisibile, ma non si attenta a esprimere l’inesprimibile essenza divina; essa testimonia invece la misura della partecipazione dell’umanità al divino e del divino all’umanità. Ma precisamente in virtù di questa ragione, l’icona mostra un versante tragico, una dissonanza interna. Questa sua natura aporetica, contraddittoria, questo suo essere eminentemente dialogica, mai definitivamente “sedata”, e nello stesso tempo questo suo essere naturaliter sinergica, comunicativa, partecipativa, questa sua irrisolvibilità va mantenuta aperta, come “aperto” rimane e deve rimanere lo scandalo di un dio che muore sulla croce, contro ogni interpretazione di maniera, pacificante, rassicurante, apologetica del cristianesimo. Ciò è perfettamente espresso nella figuralità dell’icona dal rapporto dialettico tra l’oro e il colore. «Tutto ciò che è manifestato è luce», scrive Paolo agli Efesini (5, 13). Luce, cioè grazia, perfetta gratuità dell’essere. Nella sottolineatura (razdelka) e nell’ombreggiatura (assistka) dell’oro dell’icona, si manifesta e si rende percepibile l’essere glorioso (vale a dire appunto luminoso) del Cristo, della Madre theotokòs (cioè colei che ha generato, “portato” il Figlio di Dio) e dei santi come testimoni della luce taborica (quella risplendente sul monte Tabor nella trasfigurazione di Cristo). Nel suo stesso processo tecnico-stilistico di produzione (sul quale torneremo), l’icona è graduale rivelazione dell’immagine dall’ombra verso la luce. I colori (l’oro non è considerato 19

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tale), accesi, splendenti, senza ombre o chiaroscuri, alieni da ogni gioco prospettico, da ogni illusoria profondità “rinascimentale”, muovono verso l’oro che è il loro diapason, il loro lucente limite. Ma mai devono con esso confondersi. Oro e colore abitano nell’icona due separate e distinte sfere. Se l’icona fosse solo-oro la Luce abbaglierebbe, accecherebbe e non potrebbe figuralmente mostrarsi; se fosse solo-colore, non apparirebbe, non potremmo esteticamente apprendere la sua provenienza e il suo vincolo d’amore da e con quella Luce. Dunque è necessario all’icona mantenersi nella distanza, nella differenza, nell’intervallo silenzioso tra oro e colore, espressione, di nuovo, della sua dimensione aporetica, inconclusa, sospesa. Che deve riconfermarsi contro ogni interpretazione piattamente apologetica e meramente consolatoria della fede in Cristo, che, ripetiamo, follia e scandalo deve rimanere. *** «L’imperatore non può ammettere un’immagine di Cristo senza voce e senza respiro, e la Scrittura si oppone alla raffigurazione della (sola) natura umana di Cristo; (ecco perché) Leone e suo figlio il nuovo Costantino incidono sulla porta del Palazzo il segno tre volte santo della croce, gloria dei fedeli». Questa è l’iscrizione che Leone iii Isaurico fa apporre sulla Porta Chalkè −l’accesso monumentale al palazzo imperiale di Costantinopoli− assieme alla croce, in sostituzione dell’icona di Cristo (probabilmente un mosaico) perché ritenuta blasfema. Quell’immagine, così come ogni altra immagine, è afona, priva di parola; è inanimata, mancante del soffio vitale. Come Ifigenia sull’ara sacrificale nell’Agamennone, è «un’immagine incapace di parlare» (v. 242). Con ogni evidenza, il presupposto è che vera immagine sia quella che −senza tralasciare alcun tratto distintivo, caratteristica, proprietà− riproduce alla perfezione il modello. Come se davvero potesse darsi riproduzione vivente del vivente, ciò che è esclusivamente riservato alla perfezione del rapporto 20

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iper-iconico tra Padre e Figlio. Lo scrive esplicitamente Costantino v nelle Peùseis (alla lettera, ‘questioni’), le direttive che costituirono la base dottrinaria seguita (ma in parte corretta) dai Padri riuniti nel sinodo iconoclasta di Hieria: «ogni immagine è una copia del modello […] per essere veramente immagine, deve essere uguale per essenza (consustanziale) a ciò che è raffigurato […] perché l’intero venga salvaguardato: altrimenti non è un’immagine»9. Autentica icona sarebbe soltanto quella ontologicamente originata in homoiousis, cioè “discesa” dalla stessa identica sostanza di ciò di cui è icona: ri-presentazione assoluta e senza scarto; mimesis che afferma la propria essenza cancellandosi; copia che, salvaguardando-custodendo l’intero del modello, si abolisce in quanto tale. Da questo punto di vista, gli autentici idolatri −paradossalmente ma poi non troppo− appaiono gli iconoclasti, proprio coloro che (perlomeno nella prima fase della controversia, prima che questa acquisisse un carattere esplicitamente cristologico) hanno sempre accusato di eresia idolatrica chi venerava le immagini sacre. In questa pretesa di un iconismo integrale e consustanziale all’archetipo (ma solo il Cristo figlio è immagine coeterna e della stessa sostanza del Dio padre) vive l’empito, la tensione verso un eccesso mimetico che la proietta oltre il traguardo di sé stessa e che sfocia in una forma di feticismo animistico. Viene assunta cioè una posizione che paradossalmente si spinge al di là di ogni contrapposizione di iconodulìa o iconosofia, e si proietta su di un terreno di natura magico-apotropaica (e non, invece, di natura correttamente simbolica), dove l’indistinzione e l’unità originaria di rappresentato e rappresentante si rivela «nel fatale regredire verso l’identificazione primitiva dell’immagine con la cosa stessa»10. Assieme al motivo del disprezzo verso la materia −di origine neoplatonica e fondamentalmente gnostica− quello 9

Cfr. C. Schönborn, L’icona di Cristo. Fondamenti teologici, cit., p. 142. C. Brandi, Segno e immagine (1960); Aesthetica, Palermo 1986, p. 54, ma cfr. tutto il cap. Perché si formò un’iconografia bizantina. 10

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conseguente che consiste nell’addebitare all’immagine come suo limite invalicabile il fatto di non essere animata, è alla radice delle posizioni degli oikonomachoi, i ‘nemici dell’immagine’, e attraversa tutto il decorso storico della controversia: dall’Octavius di Minucio Felice, risalente agli inizi del iii secolo, e dalla celebre lettera, databile tra il 313 e il 324, di Eusebio di Cesarea −il teologo di Costantino il Grande e seguace di Origene− all’imperatrice Costanza che gli aveva chiesto un’immagine di Cristo, fino all’ultimo concilio iconoclasta dell’815, dove ancora si parla −comminando l’anatema− di «ritratti inanimati» e della «materia inanimata delle icone»11. Al culto delle immagini, gli iconomachi −già lo sappiamo− opponevano sia, come presso gli Armeni monofisiti, il culto della croce, nel cui segno (segno, appunto, e non immagine) Dio dette la vittoria a Costantino nella notte prima della decisiva battaglia di Ponte Milvio, sia l’adorazione dell’eucarestia (a sua volta, però, il culto della croce era rigettato dai Pauliciani, la setta sorta in Armenia nel vii secolo, e ciò deve ricordarci quanto complessa, stratificata, irriducibile a ogni semplificazione sia l’intera vicenda della crisi iconoclasta). La croce non è un’immagine che osi raffigurare mimeticamente l’irraffigurabile (dunque non espone al rischio dell’idolatria) ma un simbolo astratto che ricorda, che riporta alla mente e al cuore lo strazio della Passione; l’eucarestia è considerata l’unica autentica icona di Cristo appunto perché in essa è misteriosamente presente la sua sostanza. Le immagini, pur se consacrate al pari dell’eucarestia, non hanno il potere di trasformare il koinos, il ‘profano’, in hagios, in ‘sacro’. L’argomento del pane e del vino come le sole vere “immagini” del Salvatore, tuttavia, è particolarmente debole, perché proprio quella somiglianza ontologica integrale che gli iconoclasti si aspettano o pretendono dall’immagine, decade completamente nel caso dell’eucarestia, che non è “fi-

gura” ma verità sacramentale (così Niceforo e Teodoro), che deve essere consumata e non contemplata, che indica una metabolè, una ‘trasmutazione’ la cui essenza non ha nulla in comune con la sfera visiva, che in tutta evidenza non si inscrive in alcun registro mimetico e non ha nessuna relazione raffigurativa con alcunché. L’eucarestia non è affatto icona di Cristo, tantomeno la sua “unica vera icona”, ma, per via di irrisalibile transustanziazione, è il corpo e il sangue del Cristo vivente: l’ostia eucaristica non è fatta per essere “vista” ma per essere ingerita partecipando così al corpo mistico12. In realtà, forse l’argomento più consistente promosso dal partito iconoclasta è un altro e, pur proiettandosi in una ragione cristologica, riguarda l’ètimo stesso dell’antropologia cristiana. Non v’è alcun bisogno di alcuna immagine fabbricata dall’uomo, di nessuna kakotechnia (come ci si esprime nelle risoluzioni del concilio iconoclasta dell’815), cioè di nessuna ‘cattiva procedura’, che non sarebbe altro che un colpevole artificio messo in atto dalla pittura figurativa e che induce all’adorazione della morta e disanimata materia. Non ve ne è alcun bisogno per la semplice, eppure a suo modo abissale ragione che già l’essere umano stesso è, fin dal dettato biblico, imago divina: immagine vivente, che parla e che respira. Anche questo argomento attraversa l’intera storia della crisi iconoclasta dai suoi antecedenti fino al suo completo dispiegamento. «Perché dovremmo formarci un’immagine materiale di Dio, quando l’uomo stesso è proprio l’immagine materiale di lui?», chiede nell’Octavius il cristiano Ottavio al pagano Cecilio mentre stanno dialogando a passeggio sulla spiaggia di Ostia, in tempi, quelli appunto in cui visse Minucio Felice, in cui lo sforzo principale dei cristiani era quello di opporsi (e di non cedere) all’idolatria pagana13. E cinque secoli dopo, quando la controversia ha or12

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Cfr. J.-J. Wunenburger, Filosofia delle immagini (1997); trad. it. Einaudi, Torino 1999, pp. 216-8. 13  Cfr. D. Menozzi, La Chiesa e le immagini, cit., p. 70.

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Cfr. D. Menozzi, La Chiesa e le immagini (1991), trad. it. San Paolo, Milano 1995, p. 114.

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mai acquisito un evidente carattere cristologico, il sinodo di Hieria anatemizza «chi si applica a fissare l’aspetto dei santi in icone inanimate e mute con colori materiali […] invece di riprodurre in sé stessi come icone viventi le virtù dei santi»14. Come −sul piano della perichoresis, cioè della misteriosa, sinergica relazione intradivina− il fare del Figlio e la sua dedizione filiale fino allo strazio della croce rende visibile l’amore del Padre permettendo la salvezza dell’umanità, così l’uomo, nel suo agire, nella qualità cristiana del suo comportamento, deve “iconicamente” tendere alla perfezione ultraterrena, anche se si tratterà sempre e comunque di una tensione asintotica poiché egli sa bene che quella perfezione non potrà essere raggiunta nella vita terrena. In questo senso Agostino diceva che Gesù il Cristo ci chiama a non essere soltanto uomini, ci chiama al fare alla luce dell’Impossibile, perché se non trascendiamo noi stessi allora non si ha fede nella trascendenza. Il Verbo si è fatto uomo, l’uomo − non per natura ma nella grazia− praticando le virtù cristiane può elevarsi spiritualmente e, direbbe Dante, indiarsi. Egli partecipa così del divino sul modello di ciò che accadde a Pietro, Giovanni e Giacomo, allorché sul monte Tabor non soltanto videro apparire davanti ai loro occhi il Cristo trasfigurato nella luce supremamente diafana, ma loro stessi furono investiti e partecipati dalla gloria divina. Quando il fedele traccia sul proprio corpo trascrivendovelo il segno della croce, diventa perciostesso, attraverso questo gesto di geroglifìa sacra, primo protagonista di quella che potrebbe chiamarsi una vera e propria iconosofia vivente. Tanto più che nel mondo cristiano orientale il segno della croce non si fa −come nella liturgia romana− tenendo la mano distesa, ma con il pollice, l’indice e il medio raccolti per indicare la confessione dell’unità nella trinità divina: tre persone, una sostanza. L’argomento −ormai sganciato dalla controversia, ma comunque inserito in una riflessione dottrinale sull’immagine− si ritrova in Tommaso d’Aquino. Proprio distinguendo14

Cfr. C. Schönborn, L’icona di Cristo, cit., p. 141.

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la dall’inarrivabile qualità iconica di Cristo, egli precisa quella dell’uomo definendola nei termini di una tensione al superamento, di uno sforzo verso l’oltremondano: «L’immagine di una data cosa può trovarsi nei vari soggetti in due differenti modi. Primo, in un soggetto della stessa natura specifica: come l’immagine del re si trova nel suo figlio. Secondo, in un soggetto di natura diversa: come l’immagine del re si trova nella moneta. Ora, il Figlio (di Dio) è immagine del Padre nella prima maniera; l’uomo invece è detto immagine nella seconda. Per indicare quindi che nell’uomo l’immagine è imperfetta non si dice semplicemente che l’uomo è immagine, ma a immagine, per designare cioè la tendenza alla perfezione. Del Figlio di Dio invece non si può dire che è a immagine del Padre, poiché ne è l’immagine perfettissima» (Summa theologiae, q. 93, a. 2).

L’essere non “immagine” ma a immagine di Dio, dunque, è la definizione che nel linguaggio teologico di Tommaso sigla lo status iconico dell’uomo, e lo determina come colui che ricerca, tende, anela “mimeticamente” al Prototipo. Queste parole furono scritte quattro secoli dopo la fine della terribile crisi iconoclasta che scosse l’intera cristianità, ma gli oppositori delle immagini certamente le avrebbero fatte proprie. Prospettato il problema da questo vertice ottico, il partito iconoclasta aveva tutte le ragioni nel contrapporre ai suoi avversari questo argomento intrinseco all’antropologia cristiana. Attraverso la mediazione del Figlio, solo l’uomo è la vera icona del Padre: lo è appunto al modo della tensione, del desiderio, dello sprone a esserlo nella maniera più compiuta. Se Cristo è «immagine del Dio invisibile» (Colossesi 1,15) e «impronta della sua sostanza» (Ebrei 1,3), nostro compito è l’imitatio Christi, che ci impegna a diventare a nostra volta la sua immagine, la sua impronta, presi dal desiderio di anticipare, per quanto possibile, su questa terra ciò che sarà in cielo. «Sii tu stesso come un’immagine che sta davanti agli occhi», scrive lo stesso Giovanni Crisostomo nella 25

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Omelia sulla lettera a Timoteo15. Proprio per questo, essa può comportare quella fuga mundi di tipo ascetico, monastico o addirittura eremitico che troviamo in qualche modo prefigurata prima da Luca («Il Regno di Dio è dentro di voi», 17,21) e poi da Paolo nella Lettera a Tito (2, 11-3). E l’imitatio Christi −in cui il fedele si fa letteralmente cristo-foro, ‘portatore di Cristo’− non è null’altro se non la trasposizione-trascrizione-inscrizione dello spirito del Salvatore su di sé e in sé, l’unico modo per riconquistare-restaurare-richiamare quell’imago dei, quell’armonia edenica che il peccato originale aveva corrotto, inquinato, sfregiato. Tuttavia proprio questo argomento, e questa concezione, dell’icona vivente non fa che ricondurci di nuovo al problema dello statuto ontologico dell’immagine. Ciò che gli iconoclasti non comprendono (e resteranno per tutta la durata della controversia fermi sul punto) è che essa non è che non sia immagine se non riproduce fedelmente e senza difetto alcuno il modello originario. Anzi, e sembra un’ovvietà ricordarlo, un’immagine è davvero tale precisamente per quel tanto che si differenzia dal prototipo. Ciò era già chiarissimo nel Terzo discorso della Difesa delle immagini sacre (cfr. ad esempio 16 e 17) del Damasceno. Si tratta di uno scarto letteralmente istitutivo, di un’alterità senza la quale per l’appunto non può darsi qualcosa come un’immagine, e dalla quale deriva il suo carattere parzialmente convenzionale. È questo uno degli argomenti semiologicamente più sottili di Niceforo. Dio si è in-figurato in Cristo, che si è s-figurato, de-figurato nello strazio carnale della croce. È in questo dramma (umiliazione di Dio, salvezza dell’uomo) che si esprime la formidabile dialettica tutta interna all’icona e al registro iconico tra la possibilità e l’impossibilità di rappresentare-rifigurare il trascendens, ciò che per principio va al di là di ogni rappresentabile-figurabile. Così l’incarnazione libera dall’idolatria non in maniera negativa, cioè soppri15  Passo non a caso citato dal Damasceno nel Terzo discorso (110) della sua Difesa delle immagini sacre.

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mendo, liquidando, bandendo ogni immagine, ma in maniera positiva, cioè rivelando, nel Cristo che si è presentato, il volto di Dio rivolto verso di noi. E che, da allora, si può ri-presentare nella rappresentazione. Se l’immagine, all’opposto dell’idolo, rivela, proprio perché immagine, la sua differenza dal prototipo, allora davvero l’icona sacra è a sua volta il modello, l’exemplum massimo di ogni immagine genuina, poiché è in sé stessa che si manifesta questa distanza, questa differenza: proprio dipingere il Volto rivela che la differenza non è abolita, superata, ma trattenuta, conservata nell’immagine che la svela in quanto tale. Sul piano tecnico-espressivo ne sono appunto prova, nell’icona dipinta, l’assenza di ogni realismo naturalistico, il radicale anti-illusionismo, la stilizzazione simbolica, che non sono lì altro che per rammentarci che non siamo davanti al suo modello ipercategoriale. Al punto che potrebbe dirsi − siccome l’iconografo sa bene che il suo è un compito di per sé incompibile e il suo problema ab initio irresolubile− che, precisamente quanto paradossalmente, è proprio il fallimento predeciso dell’intento iconico nel raffigurare l’irraffigurabile a esprimere e garantire al più alto grado la sua vera essenza e la natura stessa della preghiera in linee e colori con cui si identifica. In questo senso l’icona, proprio raffigurando il Verbo incarnato soltanto e unicamente nella sua ipostasi umana − cioè nella sua esistenza personale e individuale sussistente per sé− raffigura e in qualche modo misura il limite oltre il quale Cristo non è più rappresentabile nella sua natura divina. Ma qui diventa allora decisivo sottolineare che quella totale identificazione che gli iconoclasti pretendono tra l’immagine e il suo modello, a ben vedere, non si realizza nemmeno all’interno del rapporto iconico prototipico, quello tra Padre e Figlio: perfino qui non è raggiunta la simmetria perfetta, anche perché altrimenti non si tratterebbe di un rapporto, di una relazione, che può stabilirsi soltanto tra diversi. Il Figlio è della medesima natura del Padre (dunque consustanziale così come gli iconoclasti vorrebbero fosse l’immagine), ma il Padre è archetipo −in quanto tale irraggiun27

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gibile, direbbe Kant16− e il Figlio è immagine dell’Archetipo, dunque in quanto immagine permane, anche se perfettissima come dice Tommaso, nella dissimiglianza. Infatti il Figlio partecipa interamente e senza resto al Padre, ma il Padre, sia pure “relativizzandosi” ipostaticamente nel Figlio, non vi si dà, non vi si esaurisce per intero −Cristo avverte «Chi vede me vede il Padre» (Giovanni 14, 9), ma non aggiunge forse «Il Padre è più grande di me» (Giovanni 14, 28)?− anche se la paternità (dunque il rapporto iconico-filiale) inerisce originariamente al Dio cristiano, è intrinseca alla sua natura, poiché Egli (a differenza di quanto sosteneva l’eresiarca Ario) è già sempre Padre, ancor prima che nascesse uomo il Figlio. Ed ecco perché quest’ultimo conserva (punto essenziale per la teologia iconodula) la sua somiglianza con il Padre anche incarnandosi. Nel De civitate dei, Agostino pensa il Cristo come segno visibile del Dio invisibile sul modello della voce che manifesta il pensiero: «Come il suono, infatti, ci fa sentire un pensiero, sorto nel silenzio dell’intelligenza, senza coincidere con esso, così anche la forma nella quale è apparso Dio, per natura invisibile, non coincide con lui. Egli era visto nella forma corporale, così come quel pensiero è percepito nel suono della voce» (x, 13). Né Dio si “risolve” in Cristo né il pensiero nella voce, anche se la differenza è comunque che Dio, generando il Verbo, genera appunto ciò che a Lui è già da sempre assolutamente intrinseco e non è possibile pensare a un Dio che nella sua natura già non sia costitutito come Padre nel Figlio, mentre la stessa cosa non può sostenersi per il rapporto tra il pensiero e la voce. L’icona è dunque quella somiglianza dissimile di norma evocata in un rapporto di filiazione: in essa si presentifica la distanza e si fa memoria dell’invisibile. Nel linguaggio della filosofia greca (quello in cui tutta la controversia iconoclasta, con le sue acrobatiche sottigliezze speculative, si è espressa) si potrebbe anche dire che gli avversari dell’imma16

I. Kant, Enciclopedia filosofica, trad. it. Bompiani, Milano 2003, p. 105.

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gine non hanno mai compreso che il typos −impronta iterabile, fonte di forme particolari, determinate, replicabili− è un destino inscritto nell’idealità-invisibilità dell’eidos come possibilità (necessità) della (sua) ripetizione; non hanno mai compreso che l’idea è un modello proprio nella misura in cui può essere imitata, raddoppiata17. Il logos-Verbo incarnato potrebbe dirsi, sotto questa prospettiva, la prima Ripetizione, la prima memoria dell’eidos, il primo typos che ripete come medesimo (nel senso sostanzialistico) il Padre: l’invisibilità divina può sì essere “ripetuta” e “riprodotta” nel visibile, ma dal Figlio soltanto. Gli iconoclasti pretendevano di poter “sostare” nella pura trascendenza (e forse questo è il punto della loro massima vicinanza ideale all’ebraismo e all’islam); gli iconoduli capiscono che è necessario “transitare” per l’icona, nella quale si contempla al tempo stesso l’indicibile e il rappresentato: non l’uno o l’altro, ma l’uno nell’altro. Non c’è un visibile in sé perfettamente definito-determinato cui in un secondo tempo e come incidentalmente si aggiunge un invisibile che lo trascende risultandone in tal modo il limite esterno, la pellicola che lo racchiuderebbe proteggendolo. L’invisibile è immanente al visibile, non appare per sottrazione che in esso, si mostra o avviene come non visto nella medesima deiscenza di ciò che si manifesta alla visione, così come l’incarnazione inerisce per essenza al Dio cristiano. L’assoluto, se è veramente tale, è anche il suo altro, non può non passare attraverso, non può non “sopportare” il proprio contrario, così come l’essenza non è realmente tale se non si manifesta −celandosi e innervandola− nell’apparenza. Misteriosamente, in un movimento silenzioso che non cessa di stupirci «con ogni boccone visibile», scrive Kafka, «si riceve anche un boccone invisibile, con ogni veste visibile, anche una veste invisibile»18. È la visibili-

17  Il riferimento d’obbligo è a J. Derrida, La farmacia di Platone, in La disseminazione (1972); trad. it. Jaca Book, Milano 1989, in particolare pp. 72-89. 18  F. Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, in Confessioni e diari, trad. it. Mondadori, Milano 1972, p. 751.

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tà stessa a comportare una invisibilità. E questa per il fedele non è soltanto il “doppio fondo” della visione, ma anche in qualche modo una mèta da raggiungere, un compito cui assolvere: che l’icona, nella sua dimensione protrettica ed energetica, stimola e accompagna. Se è vero che l’iconoclasmo pretende quell’immagine senza differenza che abbiamo visto a rigore non possiamo trovare neanche nella perfezione iconica del Figlio, allora proprio esso incorre nell’idolatria (da questo punto di vista, lo abbiamo accennato, paragonabile a una sorta di eccesso iconosofo) che deriva appunto dall’oblìo della distanza incolmabile tra le facoltà umane e l’alterità divina, ne misconosce e rimuove lo scarto: l’idolo, infatti, è il dio. L’icona, al contrario, si fonda sullo statuto differenziale che è ontologicamente inerente all’immagine, vive e si alimenta su tale presupposto, convoca questa differenza nel luogo fenomenico del suo mostrarsi in quanto tale19. Perciò l’icona esibisce e spazializza l’invisibile nel senso che lo raffigura, lo ritrae nel suo rit(i)rarsi: ne mostra per intero la dialettica e il legame antinomico che intrattiene con il visibile. Dum patet, latet: ‘Mentre si mostra, si cela’. Il Gesù umano che patet è simbolo ipostatico del Cristo divino che latet. L’icona mostra sì il “ritiro” di Dio, ma questo ritiro è insieme e nello stesso istante l’offerta del Figlio in cui il Padre fa kenosis, cioè si abbassa e si “svuota” per venire incontro all’uomo −«pur essendo nella condizione di Dio […] svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo» (Filippesi 2, 6-7)− e per donarsi a lui. L’infinita differenza-distanza tra divinità e umanità viene salvaguardata, custodita ma proprio per questo resa percepibile nel Volto: l’umanità dell’uomo Gesù è la forma espressiva della divinità del Figlio eterno che con quell’umanità si mantiene unita nella differenza teandrica, cioè nel chiasmo tra divino (theos) e umano (anthropos). Nel linguaggio teologico della patristica greca posteriore allo Pseudo Dionigi Areopagita (v o vi secolo)

−il primo esponente del «cristianesimo estatico»20− ‘teandrico’ (dal greco theandrikos) indica il carattere duplice − senza confusione e senza separazione, secondo il credo del Concilio di Calcedonia (451)− delle operazioni di Cristo. In tal modo l’icona esprime la sinergica, “ordinata” compenetrazione tra Padre e Figlio, tra l’essenza divina e la sua ipostasi personale, il suo tropos, il suo ‘modo’ umano: essa è scarto che unisce, differenza che accomuna, distanza che avvicina. Gli iconoclasti non negano −né ovviamente potrebbero farlo− l’incarnazione, presupposto (fu Giovanni Damasceno, abbiamo visto, il primo a sostenere teologicamente questo argomento) della possibilità di rappresentare il Cristo. Piuttosto, da un lato ne mettono in dubbio la realtà dunque i rapporti tra Dio e il mondo, tra la grazia e la natura; dall’altro non ne comprendono lo statuto intimamente antinomico, “illogicizzabile”, che spinge Gregorio di Nissa (335-394) −assieme al fratello Basilio di Cesarea e a Gregorio di Nazianzo (329-390), il principale esponente dei Padri cappadoci, colui che ha formulato definitivamente la teologia trinitaria dell’Oriente cristiano− a dichiarare che l’immagine, pur essendo identica al prototipo, è però al contempo diversa. Certamente essa si mostra in quanto mistero: epperò, appunto, esibisce un mistero che si mostra, si comunica, si dona alla visione. Questo delicatissimo equilibrio antinomico, questa inaggirabile dialettica è espressa in modo speculativamente raffinatissimo da Massimo il Confessore (580-662), il più grande teologo della tarda epoca patristica:

19  Cfr. sulla differenza tra idolo e icona J.-L. Marion, L’idolo e la distanza (1977); trad. it. Jaca Book, Milano 1979, in particolare pp. 13-20 e 205-50.

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«Nel suo aspetto, era identico e noi; infatti, nel suo sconfinato amore per l’uomo ha accettato di divenire creatura ma senza mutamento della sua divinità: così divenne immagine (typos) e simbolo di sé stesso. Egli si è mostrato in modo simbolico a partire da sé stesso; ha condotto l’intera creazione mediante sé stesso, in quanto visibile, a sé stesso in quanto invisibilmente, totalmente nascosto»21.

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H. Ball, Cristianesimo bizantino (1923); trad. it. Adelphi, Milano 2015, p. 81. Cfr. C. Schönborn, L’icona di Cristo, cit., p. 123.

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Nell’ambito della patristica, il paradosso teologico di un dio invisibile che pur restando tale si fa visibile, lo troviamo già nella Lettera iii dello Pseudo Dionigi: Cristo rimane nascosto «anche dopo la sua apparizione o, per esprimermi in termini più divini, nella sua stessa apparizione»22. Massimo il Confessore, con il suo mirabile acume filosofico-teologico, sviluppa il paradosso fino all’estrema sintesi cristologica. Se, come scrive Paolo, è Dio che ha fatto risplendere la conoscenza della sua gloria «sul volto di Cristo» (2 Corinzi 4, 6), allora il volto visibile di Gesù il Cristo è simbolo (sym-ballein, ciò che lega i differenti) del volto invisibile, che tuttavia perciostesso non permane in un al di là alieno all’umano e indefinitamente trascendente. Se in Cristo visibile e invisibile sono uno, allora il visibile come apparenza percepibile, manifestazione estetico-sensibile, non ci conduce ad altro che a sé stesso ma in quanto nascosto, al sé stesso celato alla visione. Ecco perché precisamente l’icona di Cristo che raffigura il Verbo incarnato aiuta a comprendere che la sua natura divina non può essere rappresentata. Il Cristo, afferma Massimo il Confessore, è «simbolo di sé stesso», e questo significa che Egli, sigillo vivente della sinergia tra umano e divino, tra finito e infinito, è via, odos verso sé stesso, ci fa giungere da sé stesso a sé stesso. L’unione ipostatica di cui l’icona è testimonianza in linee e colori rifiuta la separazione mantenendo la differenza. Scrive Giovanni Scoto Eriugena «Dum silet, clamat, et dum clamat, silet; et invisibilis videtur, et dum videtur, invisibilis est» (De divisione naturae iii, 4). ‘Mentre tace chiama (annuncia) e mentre chiama tace; e l’invisibile si vede (si presenta), e mentre è visto è invisibile’. Tutta la teologia dell’icona −che così profondamente si innesta nella lotta contro le eresie cristologiche del tempo− è una strenua difesa di questo carattere radicalmente, irreversibilmente antinomico della fede cristiana.

Uno dei motivi centrali della speculazione patristica in difesa delle sacre icone −già vi abbiamo accennato− è l’affermazione del vincolo dialettico di immagine e scrittura. Se Giorgio Piside −diacono e poeta ufficiale dell’imperatore Eraclio− chiamava “scrittura non scritta” l’immagine acheropìta (cioè non fatta da mano d’uomo), nelle risoluzioni del iv Concilio costantinopolitano (870) −che in questo punto riprendono alla lettera le parole di Basilio Magno− si stabilisce una volta per tutte, ormai conclusa la controversia con la vittoria dell’ortodossia, che davanti all’icona di Cristo «ci si prostri così come si fa davanti al libro dei santi Vangeli. Come infatti tutti otteniamo salvezza dalle lettere contenute in esso, allo stesso modo tutti, letterati e analfabeti, ricevono la loro parte di beneficio dall’energia iconica (eikonurgias) dei colori che sono a loro disposizione, poiché ciò che la parola (logos) annuncia e rende presente con i suoni, lo stesso il disegno (graphè) annucia e rende presente con i colori (en chromasi)»23.

Già il secondo concilio di Nicea affermava che la rappresentazione pittorica –nell’ambito delle tradizioni non scritte– «è apportatrice di un beneficio simile a quello del racconto evangelico, giacché cose che alludono reciprocamente l’una all’altra senza dubbio recano il riflesso l’una dell’altra»24.Vi abbiamo già accennato: parola e immagine sono equivalenti; linguaggio e visione si completano vicendevolmente e in parallelo nella trasmissione e nella diffusione del messaggio evangelico. La parola è immagine parlante, l’immagine è parola silenziosa, vi sono intime concordanze tra discorso e icona, evento della parola ed evento della visione, filosofia come amore della sapienza e filocalia come amore del bello. In greco i termini graphè, graphein rimandano alla radice comune dello scrivere e del disegnare-dipingere, associati nella medesima attività di segnare stabilmente su di un sup-

*** 23 Cfr.

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Conciliorum oecomenicorum decreta, Istituto per le scienze religiose, Bologna 1973, p. 168. 24 Cfr. Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, cit., p. 147.

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P. Dionigi l’Areopagita, Gerarchia celeste. Teologia mistica. Lettere, trad. it. Città Nuova, Roma 1986, p. 120.

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porto, di incidere, scalfire materialmente una superficie. Così il logographos sarà lo scrittore-poeta che scrive parole; lo zoographos sarà lo scrittore-pittore che scrive immagini direttamente tratte dalla vita. Quando Gregorio di Nissa, per differenziarla dalla sostanza (ousia) che è un concetto indeterminato, comune e generale, definisce l’ipostasi come quel concetto «che delimita e circoscrive attraverso caratteristiche peculiari» l’istanza specifica del singolo e della sua esistenza individua e personale, egli usa il termine perigraphè, perigraphein, che significa appunto ‘circoscrivere’, ‘tracciare il contorno’, ‘delimitare’25. Ma com’è possibile, sostengono gli iconoclasti (questo era l’argomento principale e su questo punto specifico più insidioso di Costantino v e del Concilio di Hieria), circoscrivere (disegnare, dipingere) la sostanza divina di Cristo? Non è forse essa supremamente incircoscrivibile, cioè irrappresentabile, irraffigurabile perché alla lettera inimmaginabile? Si può ritrarre una persona che non è solo umana? Agli iconoduli viene così posto un drammatico aut-aut, che in realtà è però una condanna pregiudiziale poiché entrambe le scelte che esso contiene portano verso l’eresia. O affermano che l’icona raffigura soltanto l’umanità di Cristo, incorrendo così nell’eresia nestoriana dal momento che ne vengono separate le due nature. Oppure pretendono che essa rappresenti il Cristo sia Dio sia uomo, incorrendo in tal modo nell’eresia monofisita che confonde l’elemento umano e l’elemento divino. La prima eresia fu condannata nel Concilio di Efeso (431); la seconda nel Concilio di Calcedonia26. Certamente non v’è alcuna possibilità di circoscrivere-delimitare in una rappresentazione, in quanto tale finita, l’ou-

sia, l’infinita sostanza divina. Ma proprio la questione posta dal partito iconoclasta ci riporta ancora alla sua concezione consustanziale, quindi mitico-magica dell’immagine come qualcosa che debba appunto, per essere davvero tale, perfettamente e senza residui delimitare, racchiudere nel senso di “esaurire” ontologicamente, “concludere” mimeticamente, “clonare” potremmo addirittura dire, il suo modello. Presupposto degli iconoclasti, infatti, è l’identificazione della perigraphè con l’immagine. Ma graphè non può affatto considerarsi identico o immediatamente equivalente a perigraphè: raffigurare una persona non è “circoscriverla”, anche perché la relazione tra l’immagine e il prototipo −già lo sappiamo, è l’argomento “semiologico” di Niceforo− non è essenziale- sostanziale bensì formale-funzionale27. Disegnare-dipingere non è sinonimo di circoscrivere (la circumscriptio della teoria dell’arte, vedremo tra poco), non coincide direttamente con l’atto di confinare entro un limite, anche se certo raffigurare un oggetto significa tecnicamente, prima di ogni altra cosa, circoscriverne la forma: ma questo per la ragione che un corpo è già per sua natura circoscritto, e tratto essenziale dell’ente −e di conseguenza della sua rappresentazione− è quello di denunciare un limite che lo con-figura (ed un luogo, vedremo, che lo “accoglie” nel suo contorno). Il logos, la Parola, incarnandosi nell’uomo Gesù, ha assunto un’espressione, un carattere intuibile dalla percezione visiva. Charakter è il tratto mimetico, la traccia incisa con intento espressivo, referenziale, designativo, ed è il termine utilizzato nel canone 82 del Quinisesto, il sinodo costantinopolitano del 692 (detto in Trullo, dal luogo del palazzo imperiale ove si svolse) che stabilì il passaggio della rappresentazione di Cristo da agnello a figura antropomorfa:

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Cfr. C. Schönborn, L’icona di Cristo, cit. p. 25. Sull’essenza fenomenica del contorno ha straordinarie osservazioni Florenskij nelle lunghe pagine di Ikonostas dedicate alla «metafisica concreta» dell’icona, cfr. in part. pp. 150-1. 26  È probabile che una delle fonti del dibattito sull’incircoscrivibilità dell’elemento divino possa trovarsi nei Memorabilia di Senofonte (iii, 10) ove Socrate, in dialogo con il pittore Parrasio e lo scultore Cleito, si interroga sull’effettiva possibilità di rappresentare visivamente la psychè, l’anima.

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27  È importante ricordare inoltre che Niceforo è il primo teologo che, nel suo terzo Antirrheticus scritto tra l’817 e l’828, cioè subito dopo la ripresa dell’iconoclasmo da parte degli imperatori, riconosce i “diritti” che la sfera del Bello e dell’Ornamento hanno sull’immagine, il primo insomma ad aprire una riflessione di natura estetica nell’ambito della controversia, cfr. A. Grabar, L’iconoclasme byzantin, cit., pp. 197-200.

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«Anche se veneriamo, secondo la tradizione della Chiesa, gli antichi tipi e le ombre che ci sono stati tramandati come simboli e prefigurazioni della verità, preferiamo la grazia e la verità stessa come compimento della Legge. E perché almeno in immagine questo compimento stia davanti agli occhi di tutti, disponiamo che d’ora in poi sulle icone, al posto dell’antico agnello, vengano dipinti i tratti umani (charaktera) di Cristo nostro Dio che prende su di sé i peccati del mondo. Infatti noi capiamo così la profondità dell’abbassamento della Parola di Dio e veniamo così condotti a ricordarci della sua vita nella carne, del suo patire, della sua morte salvifica e della salvezza del mondo in tal modo operata»28.

La possibilità di raffigurare il Cristo non più simbolicamente ma nei suoi tratti umani è qui espressamente concepita come una conseguenza “logica” dell’incarnazione tramite la quale Dio ha fatto kenosis (Filippesi 2,7: heautou ekénosen), ha fatto in sé il vuoto per farsi uomo, si è abbassato al suo livello. Questo e non altro vidima, autorizza, legittima l’immagine. Ciò che fa dell’icona il volto di Cristo non è la sua perigrapsia, la sua ‘circoscrivibilità’ (che è comunque appunto intrinseca a ogni corpo in quanto tale, e Gesù era un corpo), ma il suo charakter, vale a dire ciò che fornisce a quel contorno il tratto mimetico, il grafo della rassomiglianza: cioè ne fa una vera e propria immagine. Non l’agnus astrattamente simbolico, ma il charakter come marcatura espressiva, come riproduzione visibile dell’aspetto umano, è il lato intuibile del logos eterno che donandosi si lascia percepire dal senso della vista. L’icona attesta dunque la visibilità della persona divino-umana del Cristo, e in essa contempliamo, sotto l’aspetto della carne, la gloria divina, che è tanto potente da mostrarsi nel suo contrario. Ciò che l’icona rappresenta −nella concretezza dei suoi tratti distintivi, singoli, individui− non è, ripetiamo, la natura ma la persona di Cristo; 28

Cfr. C. Schönborn, L’icona di Cristo, cit. p. 164. Sull’economia del tratto, cfr. il ns. Del tratto. Attraverso Heidegger, Benjamin, Derrida, in “aut-aut”, 220-221, 1987.

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raffigura la relazione, la soglia tra l’elemento umano e l’elemento divino, il loro reciproco coinvolgersi senza confusione. Essa fa memoria del fatto che, se Dio non “esiste” perché non si pone al livello dell’esistenza creata, Gesù il Cristo è allora − secondo la formula di Gregorio di Nazianzo, per cui il logos divino si ‘condensa’29− la “condensazione”, l’esistenza di ciò che non “esiste”. Dio si partecipa nel Figlio che è a lui somigliante perché sua «irradiazione» (Ebrei 1, 3): ma ciò non significa forse che l’Incircoscrivibile si inscrive per sua propria insondabile scelta nel circoscrivibile? Questo non comprendono gli iconoclasti: non comprendono che, per usare una parafrasi heideggeriana, il Terribile è già accaduto. E soprattutto, e di conseguenza, non comprendono che, nella sua essenza donativa, questo “Terribile” salva. La teologia iconoclasta resta ferma, bloccata sulla domanda inerente al perigraphein, cioè di come può l’incircoscrivibile essere circoscritto; nega dunque, fedele alla tradizione platonica di svalutazione dell’eikon, dell’immagine, e influenzato dal coevo aniconismo dell’Islam allora nascente, che Dio possa manifestarsi; nega che esso sia capace di negarsi per amore e che Cristo possa essere icona vivente di questo amore; dimentica come Dio sia infinitamente capace di dimenticarsi proprio allo scopo di ricordarsi dell’uomo; dispera, si potrebbe aggiungere, della capacità divina di autotrascendersi, cioè di amare. Che cos’è mai la kenosis, l’abissale abbassamento-svuotamento di Dio nella carne di Cristo Gesù, se non la decisione, la scelta di “autocircoscriversi” in un corpo mortale per salvare l’umanità? Già Cristo è assunzione della perigraphè; già la Parola ha limitato, ri-tratto sé stessa facendosi carne per esprimere e comunicare il divino nell’esistenza umana singola e individua dei tratti personali di Gesù; già il Padre circoscrive sé stesso per parteciparsi −attraverso suo

29  Prima di essere inglobato nel lessico trinitario, hypostasis –che dal neoplatonismo in poi viene a significare ‘esistenza’– significava ‘residuo’, ‘sedimento’. Cfr. su questo punto G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014, pp. 179-91.

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Figlio in cui trova un limite, accetta una forma− all’umanità. L’icona non fa altro che con-seguire a questa decisione iperiniziale quanto misteriosa, a questa scelta archetipica quanto imperscrutabile. Per questo, l’incarnazione divina è il fondamento dell’immagine, della sua possibilità. La funzione analogica −quella che più da vicino caratterizza l’elemento mimetico-riproduttivo dell’immagine− deve essere superata dalla funzione anagogica −quella rivolta al senso simbolico-spirituale− riaffermando così la trascendenza dell’invisibile che sì mostra sé nel visibile, ma che questo non esaurisce tantomeno sostituisce. Non è un caso se Teodoro Studita sosteneva −già lo abbiamo richiamato− che la persona di Cristo è incircoscrivibile e circoscrivibile nello stesso tempo: incircoscrivibile secondo la natura divina, circoscrivibile secondo la natura umana. Credo quia absurdum est: questo resta il grande, irriducibile scandalo della fede cristiana. E d’altra parte anche il corpo resuscitato di Cristo non è forse un corpo, certo incorruttibile, ma «in carne e ossa» che mangia «pesce arrostito» (Luca 24, 39), quindi non è forse un ente finito, dunque circoscrivibile, cosa questa −nonostante l’apparenza del contrario− confermata, enfatizzata proprio dal fatto che quel corpo passa attraverso le porte chiuse (Giovanni 20, 19 e 26) pur non essendo affatto un fantasma (Luca 24, 37 e 39)? Nulla nell’aspetto del risorto, nei suoi tratti, nei suoi charaktera, è mutato rispetto a quello già conosciuto dai discepoli. Nell’episodio del Noli me tangere (Giovanni 20, 11-19), il corpo appena resuscitato non può essere toccato-trattenuto, epperò è visto da Maria di Magdala («Ho visto il Signore!» annuncia ai discepoli). E proprio la difficoltà da parte della donna di riconoscerlo al primo sguardo −la stessa difficoltà dei due discepoli che lo incontrano sulla via di Emmaus (Luca 24, 16)− anche qui conferma ed enfatizza il fatto che l’intera scena è organizzata attorno al registro visivo. È il corpo carnale a ri-velare il corpo glorioso del Figlio che sta per ascendere al Padre, ma il corpo carnale non “esaurisce”, non dissolve, non dà fondo al corpo glorioso. Il “realismo” corporale è sì immanente e 38

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“contemporaneo” all’elemento divino, ma questo non cessa di delocarsi nell’invisibilità. Nella prima mattina del mondo redento perché la morte è stata sconfitta, Gesù risorto parla a Maria di Magdala solo per dire che è già altrove, che sta prendendo congedo, che si sta allontanando: come sarà poi nella sua immagine iconica, la sua presenza consiste nel ritrarsi30. Così in Emmaus: non appena i discepoli che lo hanno convinto a cenare con loro, lo vedono spezzare il pane, lo riconoscono come il Messia risorto; ma proprio in quel momento «egli sparì dalla loro vista» (Luca 24, 31). Visibilità e invisibilità si alternano continuamente, ma possono farlo soltanto perché sono immanenti l’una all’altra, perché al fondo sono misteriosamente uno. Ed è questo e non altro che l’icona testimonia. *** A questo punto della nostra analisi sarà allora interessante notare che, nella teoria delle arti, l’istanza dell’invisibilità emerge anche all’interno del plesso circumscriptio-disegno − perno e presupposto della rappresentazione figurativa− addirittura come uno dei suoi tratti istitutivi. Nella Naturalis Historia, Plinio ci narra circa le origini dell’arte del disegno. La fanciulla Butadès si innamorò di un giovane. Dovendo questi partire, ella, sfruttando la luce di una lanterna, tracciò i contorni dell’ombra del suo viso proiettata sulla parete: «capta amore iuvenis, abeunte illo peregre, umbram ex facie eius ad lucernam in pariete liniis circum­scripsit» (xxxv, 15). Il disegno nasce dunque come rappresentazione sostitutiva e compensatoria di ciò che sta partendo, che sta congedandosi; nasce come skiagraphia, memoriale ‘scrittura di ombre’ (uno dei nomi greci della pittura) dell’amato che si allontana. Precisamente e unicamente la sua partenza dà origine, muove al disegno. Nella sua 30  Cfr. J.-L. Nancy, Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo (2003); trad. it. Bollati Borighieri, Torino 2005.

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stessa genesi costitutiva, esso si riferisce a qualcuno o qualcosa in procinto di mancare, all’assente, a ciò che ci lascia o è sul punto di farlo. Già nel suo mito fondatore, dunque, l’arte del disegno non deriva dall’osservazione diretta della realtà visibile, dalla sua percezione immediata, ma da una proiezione, da una riduzione o un affievolirsi di quella realtà. L’ombra circoscritta dal tratto rinvia a una presenza indebolita e mediata, filtrata e insostanziale. All’origine della perigrapsia, della ‘circoscrivibilità’ che dovrebbe aprire e sovrintendere all’intuibile della riproduzione visiva, non c’è tanto la percezione vivente e attuale ma la possibilità −questa sì, sempre presente o sempre imminente− dell’oblìo, non la partecipazione piena ma la sottrazione e lo scarto. Sta alla radice del disegno la cosa, il reale mentre si ritira, l’essere mentre dilegua: è perpetuamente e per statuto sospeso tra il visibile che viene ritratto e l’invisibile in cui esso si ritrae31. Un altro esempio di questa dialettica lo troviamo nel De pictura di Leon Battista Alberti. La circonscrizione è certo il primo atto della techne pittorica, ma intanto è importante sottolineare subito che essa non delimita un ente, una cosa, un oggetto,un corpo; delimita piuttosto il luogo che va a occupare: «Principio, vedendo qualcosa, diciamo questo esser cosa quale occupa uno luogo; qui il pittore, descrivendo questo spazio, dirà questo suo guidare uno orlo con linea essere circonscrizione» (6, 3-4)32. L’orlo attornia e racchiude un luogo, de-scrive il suo spazio, prima di caratterizzare un oggetto; il bordo circoscrive una possibilità prima di una presenzialità, un’assenza prima di una presenza, una virtua31  Rimandiamo di nuovo al ns. Del tratto, cit., e alla Prima Parte (Crocevia) del ns. Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Castelvecchi, Roma 1999. Questa sottrazione costitutiva implicata alla radice della pratica del disegno è al centro del libro di J. Derrida, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine (1990); trad. it. Abscondita, Milano 2003. 32  Seguiamo la sistemazione redazionale proposta da Lucia Bertolini, Polistampa, Firenze 2011. Sull’importanza del concetto di luogo nell’Alberti e sulla sua diretta ascendenza dal libro Δ della Fisica di Aristotele, cfr. P. Roccasecca, Filosofi, oratori e pittori.Una nuova lettura del Del pictura di Leon Battista Alberti, Campisano, Roma 2016, in particolare pp. 239-40.

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lità prima di un’attualità; il contorno delimita prima di un corpo la sua pre-condizione, quando il corpo ancora non c’è. Non solo. Cruciale è qui per noi che questa scrittura dei margini −Alberti parla del pavimento da raffigurare come «scritto con sue linee e paraleli» (9,7)− occorre «ch’ella sia di linee sottilissime fatta, quasi tali che fuggano esser vedute» (7,6) (corsivo nostro). La linea di contorno, proprio quella che rende possibile la determinatezza dell’apparenza visiva, la sua percezione oggettuale (torneremo più avanti su questi motivi), deve risultare così sottile, deve tracciarsi in modo tanto inapparente e impercepibile da confinare con l’invisibilità stessa. Lo stesso Plinio nella Naturalis Historia aveva già affermato che un’efficace riuscita visiva delle linee di contorno è la cosa più difficile da ottenersi, poiché esse hanno a che fare con l’estremità dei corpi, con i margini degli oggetti, laddove l’essere confina con il non-esser-più: «externa corporum et desinentis picturae modum includere rarum in successu artis invenitur» (xxxv, 6-8). La difficoltà sta dunque nel saper conchiudere il giro dei piani di scorcio della figura (che proprio attraverso questa operazione nasce a sé stessa) in un limite attorniante, in un orlo che fascia; nel sigillarlo e insieme abolirlo in quel luogo illocalizzabile ove termina l’oggetto raffigurato e il determinato sfugge e scompare nell’indeterminato. «Ambire enim se ipsa debet extremitas et sic desinere ut promittat alias post se ostendatque quae occultat» (Ibidem): la linea di contorno deve girare su sé stessa come sul proprio asse, in modo che chi osserva sia indotto a immaginare ulteriori piani invisibili al di là della circumscriptio visibile. Ciò che è visibilmente afferrabile lo è sempre solo a partire da uno sfondo di inafferrabilità, lo è solo a partire della percezione di un’assenza. Torniamo così allo statuto differenziale dell’icona come perigraphè che mostra la distanza tra il divino in sé e il suo volto per noi. Della natura divina di Cristo non può darsi alcun perigraphein, non si può scrivere-disegnare alcun limite delle sue “superfici” poiché essa non occupa alcun luogo figurabile nel senso di circoscrivibile, si mantiene oltre ogni 41

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possibilità di tracciarvi intorno, e così racchiuderla, un ambitus, un bordo, un confine. In questo senso Cristo non è nell’icona; anzi, vi si ritrae. Ma l’icona è precisamente il luogo ove può ritrarsi. Non è che in essa il circoscrivibile superi e sia più forte dell’incircoscrivibile; piuttosto, senza di esso l’incircoscrivibile nemmeno potrebbe conoscersi come tale, cioè come mistero. La circumscriptio che dà luogo all’icona non è la delucidazione che porrebbe fine al mistero, ma la sua esposizione. È il mistero finalmente illuminato ma non risolto, dunque finalmente riconosciuto come tale. Torneremo su questo motivo: se non viene offerta nell’immanenza, la trascendenza è per-niente e niente può trascendere. La verità incircoscrivibile, per rimanere tale, deve donarsi, come tale, nel circoscrivibile; e quest’ultimo intrattiene sempre fin dalla sua genesi un rapporto radicale, essenziale e fondativo con ciò che gli sfugge, che deve sfuggirgli. È per questo che il Cristo non è “catturato”, “racchiuso”, “imprigionato” nella sua raffigurazione iconica, come gli iconoclasti pensavano che i difensori delle immagini pretendessero. *** Se intendiamo seguire fino ai suoi ultimi sviluppi il vincolo dialettico che sostiene la teologia dell’icona, dobbiamo allora ricordare che l’intuibilità del suo corpo ipostatico non abbandona Cristo nemmeno nella trasfigurazione, quando appare in pura luce e pura gloria. Sul monte Tabor (il “nuovo Sinai”, dove ha luogo la seconda rivelazione escatologica, anticipazione della definitiva assunzione gloriosa alla destra del Padre) Gesù si trasfigura davanti a Pietro, Giovanni e Giacomo, e si mostra conversare con Mosé ed Elia. Matteo (17, 1-8) e Marco (9, 2-8) raccontano l’episodio in termini per così dire oggettivi, esterni, impersonali, utilizzando la stessa espressione: «fu trasfigurato davanti a loro». Invece Luca (9, 28-36) dà notizia di un ruolo in qualche modo attivo e personale dei tre discepoli: «videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui». Gesù appare in una luce totale, as42

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soluta, perfettamente diafana, senza alcuna possibile giustapposizione di campi cromatici che possa permettere lo stagliarsi e il definirsi di una figura di contro a uno sfondo33. Eppure −il testo di Luca non lascia dubbi− i discepoli videro corpi delimitati e perciostesso circoscritti così come si addice alla natura e alla costituzione stessa di ogni corpo finito, anche a quello dell’umanità glorificata e poi risorta del Cristo circonfuso di luce taborica34. Qui, in qualche modo paradossale, la divinità di Cristo si fa corpo sì perfettamente diafano, eppure corpo intuibile che Pietro, Giovanni e Giacomo effettivamente vedono nel medesimo modo in cui vedevano il Gesù umano. L’episodio del monte Tabor è nei Vangeli −assieme a quelli appena ricordati circa il risorto− uno tra quelli in cui più evidente appare la concordia discors tra l’invisibilità divina e la visibilità della persona −individua, caratterizzata eppure teandrica− di Cristo. Che nel racconto della trasfigurazione si succedono alternandosi una dopo l’altra. Quando Elohim gli parlò sull’Oreb (Deuteronomio 4, 15), il popolo ebraico udì soltanto una voce, non vide alcuna forma, alcuna figura, niente di percettivamente delimitato-circoscritto che si stagliasse contro uno sfondo. La venuta di Cristo, la sua incarnazione, è lo spartiacque che sposta l’evento teofanico dal registro dell’udibile al registro del visibile, che per certi versi e in certe occasioni viene condotto fino al registro del tattile. Non è un caso che l’episodio della trasfigurazione prosegua con l’entrata in scena della voce di Dio: «venne una nube che 33 Nell’Ottica di Tolomeo la giustapposizione di colori contrastanti è la condizione perché qualcosa emerga alla determinatezza visiva, cfr. P. Roccasecca, Filosofi, oratori e pittori, cit., pp. 241 e 245. 34  È Niceforo a insistere particolarmente su questo realismo cristologico: «se anche il corpo assunto da Dio viene interamente divinizzato […] esso non cessa tuttavia di essere corpo». La stessa posizione è in Teodoro Studita: «l’icona non possiede alcuna unione naturale con la divinità (e questo non vale neppure del corpo divinizzato di Cristo!)», cfr. C. Schönborn, L’icona di Cristo, cit., p. 190 e p. 201. L’opera del patriarca Niceforo è al centro dello studio di Marie-José Mondzain, Immagine Icona Economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo (1996); trad. it. Jaca Book, Milano 2006, importante anche per il significato specificamente economico della kenosis.

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li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce» (Marco 9, 7). In Matteo (17,5) la nube è «luminosa», ma è chiaro che si tratta di una luce che abbaglia, acceca e nulla lascia intuire alla vista (dovremo riprendere più avanti tutti questi motivi). Il visibile lascia il posto all’udibile e i discepoli non vedono più davanti a sé niente di “figurale” (sarebbe improprio associare la comparsa della nube, anche se si esibisce la senso della vista, al registro iconico), poiché tale l’essenza divina non può essere. Il racconto taborico si conclude passando di nuovo alla dimensione visiva. Pietro, Giacomo e Giovanni non fanno in tempo a riprendersi dallo spavento generato in loro dalla voce oltreumana di Dio, che «improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro» (Marco 9, 8). Cristo appare di nuovo nella sua imprescindibile realtà di corpo corruttibile, sussistente nella sua umana, carnale creaturalità. Ma poco prima i discepoli lo videro appunto nella sua gloria. Dato il contesto, forse qui gloria significa soprattutto esposizione libera e assoluta. Infatti, prima del peccato originale (Genesi 2, 25 e 3, 7), Adamo ed Eva −in quel tempo senza tempo e in quello spazio senza spazio edenici da cui dovevano essere cacciati− potevano liberamente, irriflessivamente esporre quelle parti del corpo (erano glorianda) che essi propriamente nemmeno vedevano, ma che, una volta perduta la grazia e apertisi i loro occhi, sentono improvvisamente il bisogno di tenere nascoste (diventano pudenda), poiché ne provano per la prima volta vergogna (cfr. Agostino, De civitate dei, xiv, 17). Proprio alla luce di questa contrapposizione biblica si misura la decisività dell’evento teofanico che ebbe luogo sul monte Tabor e la consistenza semantica della gloria che gli apostoli videro: un corpo d’interminato candore in piena, autoevidente, assoluta e perfetta esposizione di sé stesso in quanto corpo unicamente ostensivo, la cui unica opera consiste nel mostrarsi. Come se la potenza designata dall’esponibilità, dall’ostensibilità, si esibisse in atto. Come se in quel corpo trasfigurato nella luce i futuri apostoli vedessero il vedere stesso. Perché in fondo l’invisibile che cos’è se non la vista stessa? 44

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Seconda parte

Ho riposto sul nulla il mio destino Wolfgang Goethe

Tutti i motivi che abbiamo sviluppato (fin troppo sinteticamente in rapporto alla mole delle loro implicazioni) li ritroviamo trascritti e inscritti nell’opera di Kazimir Malevi/. Un’opera che, nella sua fase suprematista, soltanto in maniera del tutto impropria e superficiale può considerarsi “iconoclastica”1, ma che certamente mostra come la questione iconoclasta non potrà mai essere definitivamente superata e liquidata: che continuerà a turbare, a scuotere, a interrogare fin dalle fondamenta lo statuto dell’immagine iconica. Il Quadrato nero che Malevi/ ha datato 1913 è uno dei riti e dei miti di fondazione del Moderno; con il readymade di Duchamp, uno dei suoi emblemi più potenti e radicali. Ma,

1  È l’errore commesso da J.-J. Goux nel suo Gli iconoclasti. Marx. Freud e il monoteismo (1978); trad. it. Marsilio, Padova 1979 (cfr. pp. 107-19), che pure contiene spunti interessanti sulla questione. A. Besançon nel suo L’image interdite. Une histoire intellectuelle de l’iconoclasme, Fayard, Paris 1994, fornisce un’interpretazione più accorta dell’opera di Malevi/ alla luce dell’iconoclasmo (cfr. pp. 477-98), ma evade completamente il problema specifico dell’icona di cui essa si alimenta. Il libro è comunque importante per una riflessione storica ed estetico-filosofica sullo statuto dell’immagine.

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proprio per questo, indica una rottura irreversibile con la storia e insieme un commento alla sua secolare tradizione, fa segno verso un profondo, complesso intreccio tra appartenenza e discontinuità, memoria e oblìo. Questo e non altro è il dramma del visibile che esso inscena. Se vogliamo cercare di comprendere questo dramma, il dramma che sostiene l’opera più enigmatica del xx secolo, dobbiamo ripercorrerne e analizzarne la genealogia2. Il campo pittorico è totalmente risolto in percezione non oggettuale. Il massimo contrasto cromatico −belji e cërnji, ‘bianco’ e ‘nero’, indissolubile vincolo luminoso degli opposti− prende vita in uno spazio intuìto e mostrato come pura ostensione di sé stesso. Non vi è nessun vettore privilegiato del senso, e nell’assenza di gravità non è percepibile alcuna direzione, né alto né basso, né destra né sinistra. Geometria non più geo-metria, non più misurazione del terrestre: geometrica perfezione del Nulla. «Mi sono trasformato nello zero delle forme […] Ho annientato l’anello dell’orizzonte e sono uscito dal cerchio delle cose […] questo anello maledetto che svela sempre nuove cose allontana il pittore dallo scopo della distruzione»3, scrive Malevi/ riecheggiando l’intuizione zerologica della matematica indiana e poi araba, connessa all’intimo legame tra la nozione del nulla e i fondamentali assiomi logico-matematici. Nell’Utrius­ que cosmi (1617) del mistico rosacrociano Robert Fludd compare un quadrato nero di 5x5 centimetri attorno al quale, su ogni lato, vi è la scritta su fondo bianco «et sic in infinitum». Recita il Tao te king: «L’infinito è un quadrato senza angoli»4. Come nell’idealismo fichtiano, l’io si contrap-

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In questo percorso abbiamo costantemente tenuto presente M. Cacciari, Icone della legge, Adelphi, Milano 1985, in particolare il capitolo L’angelo sigillato. 3  K. Malevi/, Dal cubismo e dal futurismo al suprematismo, in Scritti (1975), a cura di A.B. Nakov, trad. it., Feltrinelli, Milano 1977, p. 176. 4  Ricordiamo che questo verso del Tao te king è citato anche da Pëtr Dem’janovi/ Uspenskij −alla cui opera in così grande misura ha guardato tutta l’avan-

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pone alla cosa e la nullifica. La verità non consiste nel corrispondere o nell’adeguarsi ad essa ma al contrario nel negarla mostrandola eckhartianamente come nulla: per Meister Eckhart tutto ciò che pro-duciamo, che ex-primiamo, che “gettiamo-fuori”, diventa oggettivo, cioè morto per lo spirito. Per Malevi/ la figurazione è morte perché riproduce la finitezza, la limitatezza degli oggetti. Vita è invece la non figurazione, perché la vita non ha lingua né forma finita, non può ridursi agli oggetti che la popolano bensì è la loro condizione di possibilità, il loro orizzonte non totalizzabile. «Io ho dato la vita», ripete spesso Malevi/ a proposito del Quadrato nero, e se pensiamo che altrettanto spesso lo chiama “infante regale”, non può non apparire evidente l’evocazione cristologica del Bimbo-Re che sconfiggerà la morte. Il conflitto tra il “tema” inteso come sviluppo di idee pittoriche e la letteralità materiale del piano di posa è portato alla massima espressione. Nell’abolizione di ogni nesso sintattico e “logico-discorsivo”, di ogni imprestito naturalistico-descrittivo, gli elementi di base sono ricondotti al loro punto zero, e la forma-limite del quadrato non a caso ripete en abîme il formato della tela. Il fondo bianco indica il completo superamento dell’impianto prospettico, la liquidazione definitiva della gabbia geometrico-spaziale entro cui collocare gli oggetti; è annichilito l’apriori stesso della loro possibile rappresentazione; è abolita la loro struttura pre-raffigurativa, e nessuna immagine “nominale”, “associativa” può imporsi in questa spazializzazione del silenzio mistico. «Il mondo messianico», recita lo Zohar, il libro profetico più importante della tradizione cabalistica ebraica, «sarà un mondo senza immagini, in cui non ci sarà più paragone possibile tra l’immagine e ciò che essa rappresenta». Mondo utopico, letteralmente senza-luogo, in cui finalmente si è in presenza della cosa stessa, liberati da quella guardia russa del tempo − nel suo Tertium organum uscito nel 1912, trad. it. Astrolabio, Roma 1983, p. 272.

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«sconcertante maledizione dell’essere-segno» di cui parlava il giovane Lukàcs negli stessi anni del Quadrato nero5. Proprio le cose sensibili dalle quali siamo circondati, e che il codice storico dell’arte pittorica imponeva fino ad allora di raffigurare, impediscono di giungere, distruggendo ogni convenzione ereditata, alla Cosa ultima, alla Cosa escatologica, che non è più metafora, segno, immagine di alcunché. Il Quadrato nero presentifica il Nulla “ingoiando” ogni oggetto senza più restituirlo: i suoi margini rappresentano l’orizzonte degli eventi, come gli astrofisici chiamano il confine oltre il quale tutto, anche la stessa luce, viene attratto nel buco nero da una forza di gravità tanto potente da deformare il tessuto spaziotemporale che finisce per avvolgersi su sé stesso. Per di più, la “distruzione” degli oggetti esibita nella nudità del linguaggio liberato dalle forme convenute, l’abolizione di ogni immagine associativa che esso rappresenta è letterale: i risultati degli esami ai raggi Röngten effettuati nel 1990 hanno rivelato sotto la forma quadrata lacerti di immagini di oggetti, prova che Malevi/ ha utilizzato una tela già dipinta. Viene alla mente il Piranesi visionario del Parere su l’architettura (1765), che in una febbre di nientificazione produttiva immagina «edifizii senza pareti, senza colonne, senza pilastri, senza fregi, senza cornici, senza volte, senza tetti, piazza, piazza, campagna rasa». Quel Piranesi “loosiano” che −dopo averne sovraccaricato fino all’inverosimile la facciata con un pastiche neomanierista di fregi scolpiti− passando attraverso una sorta di progressivo “sfumato” scultuale, svuota spettralmente di ogni figura, di ogni “narrazione” il retro dell’altare di Santa Maria del Priorato. Come l’icona sacra è immagine della pace che presiede all’ordine divino in cui la nostra vita oltremondana si troverà eternamente trasfigurata nella futura unità spirituale di tutto il creato, il Quadrato nero non è “segno” ma presenza di pace: esso stesso, anzi, non è più un segno, nel senso che non 5  G. Lukács, Filosofia dell’arte. Primi scritti sull’estetica (1912-1918) (1971); trad. it., Sugar, Milano 1973, p. 26.

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ha più niente e che fare con alcuna semiomachia, con nessuna guerra combattuta tra i segni allo scopo di venire riconosciuti dall’altro, dal contendente, dal nemico. Pace è la condizione della cosa stessa, che non è metafora né segno di alcunché, che nulla conosce dello sfibrante, interminabile rinvio a un assente e poi a un altro e poi a un altro ancora. Pace è −esattamente come nel mondo messianico dello Zohar− ciò che si dà finalmente, al pari della visione beatifica, in prae­sentia6. L’inapparenza è anche un’inappartenenza: il Quadrato nero, che nulla raffigura o restituisce di precedente o di presupposto, di ciò che oggettivamente-illusoriamente appare, proprio perciò non ha alcun “principio di prestazione” da soddisfare, non chiede né ha bisogno di essere riconosciuto in senso identitario, non appartiene né risale ad alcunché, e da ciò consegue che non può neanche essere oggetto di contesa7. Così, in tal senso, potrebbe anche dirsi che il Quadrato nero è una Deposizione. La vera, finale Deposizione di un’iconografia ormai interamente consumata, perché in esso e con esso viene deposto ogni corpo, ogni segno, ogni figura che pretenda un’appartenenza, che aspiri al riconoscimento sia percettivo sia metafisico. Non è un caso se lo spazio equidimensionale che esso mostra, indica che non decidere tra l’alto e il basso, tra la destra e la sinistra, è espressione della libertà finalmente attinta nella sua sostanza aporetica: libertà che si mantiene pura proprio perché, nella misura in cui non decide, non abolisce sé stessa come tale.

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Su questo motivo della pace come assenza radicale di ogni segno di riconoscimento identitario, cfr. G. Agamben, Idea della prosa, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 54-5. 7  È del tutto ovvio che stiamo argomentando sul piano metafisico e non sul piano storico-effettuale, dove come noto e come vedremo, nel clima infuocato caratteristico delle avanguardie del tempo, certamente il Quadrato nero fu oggetto di scandalo, contese e aspre polemiche dalle quali il suo autore dovette ben difenderlo. D’altra parte fin da ora teniamo a sottolineare che quando si dice che Malevi/ era un dogmatico esattamente come tutti gli appartenenti alle avanguardie del tempo, si è solo ricordato quello che sapevamo già, e non si è fatto un passo avanti nella ricerca.

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Più che mai vengono meno le cose, quelle da vivere, perché quel che le sostituisce e rimuove è un fare senza immagine Rainer Maria Rilke

La rovina è uno stato possibile dell’oggetto Ernst Bloch

Sebbene abbia sempre utilizzato il termine bespred’metnost, bespred’metny, ‘inoggettivo’, ‘non-oggettività’8, nessun artista quanto Malevi/ ha operativamente e concettualmente interrogato in modo così perentorio e radicale, estremo e “definitivo” il problema dell’astrazione. Si tratta allora di analizzarne qui i fondamenti ontologici e lo statuto teorico. Non prima di aver debitamente sottolineato che il congedo da ciò che si è convenuto chiamare “figurazione” è molto più significativo in Malevi/ che non in Kandinskij o in Mondrian. Potremmo perfino affermare che a confronto con la feroce, impietosa e coraggiosa lucidità con cui Malevi/ porta alle estreme conseguenze l’astrazione suprematista, Kandinskij sembra un retore accademico letterario e romanticheggiante particolarmente interessato al “supplemento d’anima”. Occorre prima di tutto partire da un punto incontrovertibile. Il paradigma dell’astrazione, l’orizzonte di senso che essa dischiude nell’arte e nella cultura del Novecento, segna un mutamento genetico che non si lascia ridurre e inscrivere nella successione “innocente” delle correnti e delle tendenze, delle scuole degli stili. La ragione è che siamo con essa di

8  Bisognerebbe riflettere, quasi a conferma della communis opinio circa la capacità “preveggente” degli artisti di anticipare i tempi, su quanto profondamente la nozione di inoggettività abbia a che fare con la smaterializzazione e la digitalizzazione della nostra epoca attuale.

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fronte a una metanoia, a una trasformazione totale nel modo di significare, a un viraggio semiotico che mette in gioco la struttura stessa della rappresentazione in generale, che rompe con tutta una concettualità mimetologica, con tutta una retorica dello specchio, del riflesso, della trascendenza. Il paradigma della figuratività analogico-associativa manifesta nel suo meccanismo profondo, “noumenale”, il bisogno tutto umanistico di riconoscersi ovunque, di ritrovarsi a casa in ogni forma, in ogni figura “naturalmente” riconoscibile, in grado dunque di confortarci e garantirci circa il nostro essere-nel-mondo. Nei suoi strati psichici e antropogenetici profondi, il modello rappresentativo tradisce il desiderio di padroneggiare, di possedere l’oggetto ritratto, di esercitarvi magicamente la propria signorìa. Ma il desiderio di appropriarsi dell’oggetto può essere letto anche come il sintomo del tentativo di compensarne la perdita attraverso la sua ripetizione-duplicazione-conservazione, che non può avvenire altro che sul piano fantasmatico. Essa è dunque la fede in un mondo fatto per l’uomo e insieme la rievocazione funeraria del già-dato. La duplicazione del sensibile che la pittura figurativa comporta −necessariamente attraverso schematizzazioni antropomorfiche− è ancora intrinsecamente governata da quelle relazioni di causalità che sono state convenzionalmente stabilite per arrivare a conoscere, indagare e prevedere i fenomeni naturali. Essa cade sotto la giurisdizione e la legalità di una tecnica proiettiva subordinata a cose, strutture, situazioni già date, precostituite, in sé perfettamente indifferenti a diventare o meno oggetto di replica. E questo accade anche quando è la deformazione stilistica (che nella sua versione più radicale e significativa è legata alla modernità) a sancire il rapporto tra il dato visivo reale e la sua rappresentazione. Nell’astrazione, il non ri-presentare, il non ri-esporre il mondo, l’astenersi dall’associazione con l’intuizione sensibile, da ogni riconoscibile contenuto raffigurativo, fa sì che il significante pittorico −erodendo la struttura triadica del segno− non sia più “convertibile”, non surroghi più alcunché 51

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e passi dal riflessivo all’operativo svincolandosi da ogni investimento feticistico. Siamo come liberati dal vedere oggettuale, dal vedere costretto (d)alle cose, agganciato (d)agli oggetti. Con essa sembra non vi siano più dati preliminari all’inizio del fare, che deve fondare sé stesso come sbattendo, direbbe Kafka, contro la propria fronte. Ma ciò non significa altro se non darsi la possibilità di un nuovo, consapevole, autoassegnato inizio, che non deve nulla o il meno possibile a protocolli predecisi né può dedursi da datità precedenti. Significa in qualche modo mettere in questione l’idea stessa di qualcosa come un presupposto. L’astrazione è appetitus infinito e mai sedato, giacché non riconosce nell’oggetto alcun principio o misura di sazietà; essa somiglia solo a sé stessa, è imparagonabile proprio come il sublime di Kant: «ciò che è assolutamente grande […] ciò che è grande al di là di ogni comparazione»9. Se l’arte rappresentativa è desiderio di cose, di oggetti −è quello che Lévi-Strauss chiama il suo aspetto possessivo-rappresentativo10− l’astrazione, sganciata da ogni imitatio, è allora abbandono, lasciar-essere, desiderio del desiderio stesso, pulsione senza oggetto: «nella non-oggettività», scrive Malevi/, «non c’è alcun desiderio»11. Essa liquida il regime della relazione empatica, finalistica, partecipativa, e indica il passaggio alla costruzione non illusivo-imitativa di un percetto organizzato da marche autonome non derivate da procedure causalistiche nei confronti del dato, sottratte alla logica dell’effetto conclusivo, della “prestazione”, del “risultato”. Costruzione, abbiamo detto. Perché se l’arte “autofigurativa”, non analogica, è certo im-

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I. Kant, Critica del Giudizio (1790); trad. it. Laterza, Bari 1970, p. 96. Cfr. G. Charbonnier-C.Lévi Strauss, Colloqui (1964); trad. it. Silva, Milano 1966, pp. 55 sgg. 11  K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività (1962); trad. it. DeDonato, Bari 1969, p.63. Per l’avventurosa storia del manoscritto di questo testo redatto a Vitebsk nel 1922, che rappresenta forse lo sforzo filosofico maggiore di Malevi/, cfr. la Prefazione di Hans von Riesen. «Desiderare a vuoto», dice Simone Weil, «Distaccare il nostro desiderio da tutti i beni e attendere», in L’ombra e la grazia (1948); trad. it. Rusconi, Milano 1972, p. 27. 10

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pegnata in un processo di idealizzazione, questo non va inteso però secondo il significato che solitamente si dà al termine, cioè un atto di separazione, di sottrazione. Bisogna intenderlo invece nel senso che Nietzsche ha indicato: «Liberiamoci qui di un pregiudizio: l’idealizzare non consiste, come si crede comunemente, in una sottrazione o eliminazione di ciò che è piccolo, accessorio. Il punto decisivo sta piuttosto nel tirar fuori grandiosamente i tratti principali, così da far scomparire in tal modo gli altri»12. L’idealizzazione è in questo senso la condizione elementare e preliminare dell’operari artistico che si produce e si offre nell’Aperto. L’astrazione, e soprattutto quella di Malevi/, non può e non deve quindi identificarsi immediatamente (luogo comune ed errore diffuso nella vulgata degli storici dell’arte) con la riduzione dei mezzi, con il minimalismo delle forme, non bisogna pensarla sotto il segno della perdita e della rinuncia, della diminutio e dell’ablazione. Non è questo il versante da privilegiare. L’aspetto eminente è piuttosto quello del reperimento e della costruzione dei Grundrisse, dei ‘tratti fondamentali’: non è tanto una sottrazione quanto un’offerta, una donazione, un accrescimento ontologico13. Nell’arte che sopprime l’impegno mimetico e la costituzione d’oggetto non si nomina più, non si esercita più il compito adamitico di imporre nomi. Il Quadrato nero, il Quadrato bianco e tutte le altre opere suprematiste non hanno “nome”: l’errore

12  F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1971, vol.vi, t.iii, p. 113. 13  «L’artista […] non deve in generale guardare, deve dare», scrive Nietzsche (La volontà di potenza, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 1992, p. 441). Sottolineando il fatto che Malevi/ −nell’agguerrita competizione tra le avanguardie del tempo− fu comunque lontano da ogni sviluppo o ipoteca di natura costruttivista, ricordiamo che egli ha sempre preferito e utilizzato nei suoi scritti e nel suo insegnamento il termine dinamico “costruzione” invece del termine più tradizionale “composizione”. Sulla differenza tra i due concetti, cfr. P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte (1923-1924), la raccolta di testi sull’analisi della spazialità e del tempo nelle arti figurative e delle lezioni tenute da Florenskij al vchutemas (la scuola d’arte sperimentale aperta a Mosca nel 1920), trad. it. Adelphi, Milano 1995, pp. 87-131.

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dell’uomo, dice Malevi/ con una “sentenza” profondamente nietzscheana, è stato di credere che «quando tutto fosse stato battezzato, il mondo gli sarebbe divenuto familiare»14. L’errore di credere, insomma, che dando un nome ad ogni cosa sarebbe venuto a capo dell’essere. All’interno di questa crisi del linguaggio, appaiono in tutta chiarezza evidenti i nessi con le contemporanee scienze della natura, e ineludibile è il confronto con il “mondo aperto” che esse designano. Insieme alle conoscenze incondizionatamente derivanti dalla pura ragione, le scoperte della nuova fisica revocano in questione l’uso del linguaggio ordinario concresciuto alla nostra esperienza comune, la sua capacità o prensilità designativa, la stessa nominabilità degli oggetti che esso presuppone e a cui si riferisce. Se la particella elementare non è, a rigore, un’entità individuale, allora il linguaggio risulterà drammaticamente carente e fatalmente inadeguato a esprimerne l’irriducibile singolarità statistica. I quanta poco o nulla hanno a che fare con l’“essere” e con l’“avere”, cioè con i fondamenti grammaticali della lingua e con la loro estensione semantica, sui quali il fisico è costretto a esercitare una particolare circospezione quando non un radicale scetticismo. Come noto, la fisica novecentesca, assieme allo spazio e al tempo deterministicamente assoluti di Newton, ha dovuto ridurre la portata gnoseologica e ricusare l’estensibilità dei giudizi sintetici apriori della critica kantiana. La legge che connette in modo determinato e incondizionatamente prevedibile una causa a un effetto non può più essere applicata a livello microfisico nella teoria dei quanta −i grani elementari della materia− ove insorge e domina il concetto di probabilità nella definizione dello stato di un sistema meccanico. Tale concetto, da Newton fino ad Einstein, faceva parte della teoria degli errori, poiché l’oggetto era pensato di per 14

K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit., p. 112. «Piccola cosa è quella che ha nome», dice Cusano nel De deo abscondito, in Il Dio nascosto, a cura di L. Mannarino, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 7.

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sé del tutto completo ed esterno all’osservatore, e le leggi probabilistiche erano credute sopraggiungere solo nel rapporto tra la mente conoscente finita e l’oggetto della conoscenza. Gli esponenti del “nuovo corso” delle scienze naturali e della fisica elementare, invece, si rendono sperimentalmente conto che i loro metodi e i loro strumenti d’osservazione non lasciano inalterato l’oggetto osservato. È il principio di indeterminazione di Heisenberg. Non si tratta, però, di una casualità a parte subiecti, dipendente dalle carenze e dai limiti concettuali od operativi dell’osservatore e della sua strumentazione, che una volta affinati e migliorati riuscirebbero per così dire a determinare il caso quindi a liquidarlo in quanto tale inscrivendolo all’interno di un ordine prevedibile. Da questo punto di vista, la casualità equivarrebbe né più né meno alla nostra ignoranza. Ciò che a noi appare contingente potrebbe per una Mente Suprema essere perfettamente necessario, potrebbe essere l’improvviso balenare dell’Ordine che rimane a noi esseri finiti, umani troppo umani, imperscrutabile e inattingibile. «Ma per nessun altro motivo diciamo contingente una cosa», scrive Spinoza nell’Etica, «se non per il difetto della nostra conoscenza» (Prop. xxxiii, scolio i). Si tratta invece, ben più radicalmente, di una casualità intrinseca, ontologica, che opera al livello più profondo della natura, e che sembra mostrare la caratteristica di disporsi probabilisticamente, di essere perciò insostanziale e “spontanea”. I fenomeni subatomici non “accadono”, piuttosto hanno tendenza ad accadere, sono governati da onde di probabilità e non da assiomi necessitanti dedotti dal riscontro empirico di ferree leggi causali. D’altra parte, già in Epicuro e Lucrezio il clinamen, la possibilità della deviazione degli atomi in caduta che origina l’evento, era inscritta nella natura stessa. Il principio di indeterminazione introduce relazioni di incertezza nella connessione epistemica tra soggetto e oggetto, e implica la drastica rinuncia ai concetti intuitivi e alle leggi causali nella descrizione dei fenomeni atomici, ma nulla ha a che vedere con l’incompiutezza della nostra conoscenza. Ne 55

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consegue che non può darsi un’immagine o una resa oggettiva della realtà, non può darsi cioè una rappresentazione definitivamente “vera” e costante della grammatica intima del mondo. È il concetto stesso di realtà a venire profondamente ridefinito e destabilizzato in conseguenza dell’emersione di continue antinomie, aporie e paradossi che ne lacerano lo statuto classico-tradizionale, quello a cui siamo da secoli abituati, che non è altro (Malevi/ lo sapeva bene) se non un’immagine sensibile-tridimensionale del “vero” ma impercepibile continuum multidimensionale dello spaziotempo, della “danza di Viva” che regge l’universo cosmico. Non è un caso che nell’esperienza sapienziale e filosofica orientale la rappresentazione −declinata in termini negativi come non-verità− è il velo di Maya che cela la vera realtà quintessenziale. Il linguaggio, la comunicazione mediante segni e immagini, la distinzione tra un soggetto e un oggetto sono tutte mere rappresentazioni, funzionali ma ben lontane dall’essenza del vero Sé, nelle cui vicinanze si può arrivare soltanto incrinando, “aprendo” la rappresentazione stessa. L’attuale è solo un caso del possibile. Non esistono fatti puri e assoluti. Qualcosa come un fatto, come un oggetto, esiste solo all’interno di un sistema di rilevazione che lo conosce e lo definisce come tale. Non si tratta quindi tanto di “descrivere” quanto piuttosto di costruire. «Le parallele esistono dopo, non prima del postulato di Euclide», scrive Gaston Bachelard, «La forma estesa dell’oggetto microfisico esiste dopo e non prima che sia stato enunciato il metodo di fissazione geometrica»15. Si rivela qui la straordinaria potenza anticipatrice dei “semplici” ma abissali interrogativi posti dal Nietzsche “speleologo della conoscenza”. È il Nietzsche dei Frammenti Postumi che incrociano la stesura della Volontà di potenza, deciso a scendere fino alla radice, alla genesi costitutiva della categoria logica dell’oggettualità. E sono gli interrogativi che non cessano di tormentare le apparenti 15  G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico (1934); trad. it. Laterza, RomaBari 1978, p. 126.

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certezze sulle quali si fonda il nostro linguaggio comune. «Come possiamo sapere che ci sono cose? La “cosalità” è stata creata da noi. La questione è se non ci possano essere ancora molti modi di creare un tal mondo apparente, e se questo creare, logicizzare, ordinare, falsificare non sia esso stesso la realtà meglio garantita; insomma se non sia reale solo ciò che “pone cose”»16. Già la lingua naturale, dunque, è fondata su presupposti metafisici. Proprio Bachelard sembra riprendere queste riflessioni quando osserva che alle frontiere raggiunte dalla fisica moderna, «non appena si mette il concetto di cosa sotto le proprietà dell’elemento corpuscolare, bisogna pensare i fatti dell’esperienza ritirando l’eccesso di immagine che si trova in questa povera parola cosa. Bisogna, in particolare, togliere alla cosa le sue proprietà spaziali. Allora il corpuscolo si ridefinisce come un cosa-non-cosa»17. La realtà profonda è intessuta di eventi probabilistici, non è fatta di “cose”, non è fatta di “oggetti”. Si apre qui un fronte attinente alla teoria della conoscenza percettiva, che già abbiamo evocato nella prima parte della nostra ricerca analizzando il motivo della perigraphè. Consideriamo atto ineludibile e inaggirabile della coscienza quello di selezionare il continuum sensoriale in base a oggetti. Individuare-rintracciare oggetti, e non “formazioni” diverse, rendendo pertinenti alcuni stimoli o tratti del flusso dell’esperienza percettiva a detrimento di altri, è pratica cognitiva innestata sull’inesitabile carattere intenzionale della coscienza. Il “puro vedere” non è altro che un’astrazione dogmatica: noi percepiamo-intenzioniamo oggetti, che sono kantianamente fonte dei concetti, i quali a loro volta innervano il linguaggio. Questi due passaggi formano un legato 16

F. Nietzsche, Frammenti Postumi 1887-1888, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1971, vol. viii, t. ii, p. 53. Poco prima Nietzsche aveva affermato che «il nostro credere a cose è il presupposto per credere alla logica» (p. 51). 17  G. Bachelard, Epistemologia (1971); trad. it. Laterza, Roma-Bari 1975, p. 58. Il saggio dal quale è tratta la citazione è L’attività razionalista della fisica contemporanea, del 1951.

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così indiroccabile che noi “sentiamo” la struttura percettiva del visibile affine alla struttura linguistico-discorsiva che ne garantisce la verbalizzazione. Ma come accade che alcune zone, fasce o segmenti della banda sensoriale continua, del campo percettivo totale, tendano irriducibilmente quanto con ogni apparenza spontaneamente a coagularsi proprio in oggetti, cioè in formazioni unitarie, circoscritte, distinte e numerabili, de-finite da un contorno18? Perché i miliardi di sense data si organizzano originando proprio x che chiamiamo ‘cose’? Perché si articolano precisamente in modo di dar luogo a ‘oggetti’? La teoria della Gestalt risponde assumendo il dato primario e non ulteriormente risalibile della strutturazione del campo percettivo in quanto ritagliata e articolata in cose-oggetti, giacché è in questa e non in altra direzione che va il senso immanente alla nostra facoltà schematico-percettiva. Qualcosa come un oggetto è un elemento già organizzato concettualmente. E questo è il risultato della nostra attività di costruzione del senso operata sullo sfondo di un isomorfismo naturale e intrascendibile tra la datità fenomenica e i processi neurofisiologici che ne permettono la percezione-comprensione, cioè tra mondo e coscienza; isomorfismo che deriverebbe in ultima istanza dalla comune appartenenza del percepito e del percipiente, dell’intenzionato e dell’intenzionante, al medesimo universo fisico sottoposto alle medesime leggi. Non intuiamo mai direttamente il continuum; percepiamo soltanto il ritaglio che su di esso operiamo. Non ci confrontiamo mai con puri, semplici, nudi “stati di fatto”, perché quello che noi chiamiamo “oggetto” presuppone un’attività conoscitivo-strutturante messa a punto per percepire proprio quella x come oggetto. Credere che vi siano oggetti è per noi umani il presupposto indispensabile per credere alla nostra logica, che deve rendere il mon18  «Che cos’è un contorno?» si domanda Merleau-Ponty nelle mirabili Note di lavoro a Il visibile e l’invisibile (1964); trad. it. Bompiani, Milano 1969, p. 237. Altra domanda “abissalmente” semplice. Si ricorderà che nella Prima parte abbiamo già riflettuto su questo motivo a proposito della perigraphè teo­ logica e della circonscrizione albertiana.

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do −nient’affatto di per sé “logico”− formulabile, calcolabile, manipolabile: «non ci sono cose (le cose sono una nostra finzione)», afferma Nietzsche19. Finzione necessaria, utile e funzionale al nostro bisogno di impadronirci del reale, di rendere vivibile la vita e da ciò trarre quella sicurezza necessaria alla riproduzione della specie. Questa e non altra è la volontà di potenza: logicizzare il reale secondo le nostre esigenze, creando verità fittizie ma tanto utili da aver cominciato a crederle naturali, oggetto di una fede apparentemente indistruttibile. Il carattere di oggettualità, proprio quello che Malevi/ voleva superare, cioè l’aspetto “cosale” assunto dalla nostra percezione e di conseguenza dal nostro intelletto, è l’esito di una pratica, è qualcosa di posto, creato, voluto poiché −afferma un Nietzsche “semperiano-riegliano”− quello che ci spinge verso la «volontà formatrice» (fonte e ragione del nostro amore per il bello) è indubbiamente «un piacere primordiale. Noi possiamo capire solamente un mondo che noi stessi abbiamo fatto», dal momento che già «“pensare” è imporre forme»20. Secondo tale impostazione genealogica, ciò che chiamiamo ‘realtà’ è ciò che costruiamo allo scopo di chiamare con questo nome il risultato della nostra costruzione. Bene. Se, com’è indubitabile, è con questa densità filosofico-concettuale che Malevi/ più o meno esplicitamente si confronta, se è a questa altezza che si pone il problema della grande astrazione novecentesca che nella sua opera trova la sua più risoluta e pensante figura, allora essa rimette in gioco perfino le nostre certezze circa la verità pretesa naturale e autoevidente di un essere percepito “figurativamente” come aggregazione di oggetti. L’astrazione pittorica revoca in dubbio la nostra “fede” nel fatto che un oggetto abbia un carattere originario, presupposto e irrisalibile. Se percepire è anche interpretare, se il «valore del mondo» consiste nell’interpretazione che ne forniamo o −più precisamente e più signi19  20

F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., p. 345. Op. cit., pp. 277 e 278.

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ficativamente− attraverso la quale lo costruiamo, allora «forse in qualche altro luogo sono possibili altre interpretazioni, diverse da quelle semplicemente umane»21. In fondo, niente di diverso dichiara Wittgenstein nella proposizione 5.634 del Tractatus logico-philosophicus: «tutto ciò che vediamo potrebbe anche essere altrimenti». Ma appunto: se produce senso-significato solo la cosalità, e se il denotatum-designatum è inteso-interpretato unicamente come ente circoscritto e identificabile in quanto evidenza frontale-fontale della cosa; se si pensa che il mondo apparente sia non solo articolato ma anche articolabile soltanto in senso oggettuale-“raffigurativo”; se siamo definitiva preda di questo automatismo “naturale”, allora non solo la grande astrazione novecentesca da Malevi/ in poi, ma anche tutti gli altri fondamentali esiti delle arti del xx secolo rischiano di perdere ogni possibilità o proiezione interpretativa diventando perfettamente incomprensibili, letteralmente insensati. Bisogna dunque pensare la grande astrazione pittorica come quella pratica che mette in questione e alla prova, esercitandovi una scepsi spietata e radicale, l’estensione definitoria, categoriale e ontologica pretesa irrisalibile della nozione di “oggetto”. Qui sta la valenza filosofica dell’astrazione (in particolare quel­ la di Malevi/) e dell’arte moderno-contemporanea nel suo com­plesso: assistiamo a un gigantesco processo di autoriferimento, articolato in vari linguaggi e differenti dialetti, che problematizza, revoca in dubbio la rappresentazione stessa come dato originario e non ulteriormente risalibile. La rappresentazione −collocata a metà strada tra l’intuizione e il pensiero concettuale− è la forma e insieme lo strumento con cui l’atto conoscitivo si rapporta ai dati della percezione conservandone iconicamente −nella ri-presentazione che ne produce− una certa analogia omomorfa. Sotto questo aspetto, la rappresentazione pertiene sempre a un che di materiale, di presentativo-mostrativo, poiché quell’analogia non si riscontra o quantomeno risulta estremamente meno visibile 21

Op. cit., p. 337.

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o evidente allorché l’atto conoscitivo è di natura meramente intellettuale e dunque i livelli di astrazione sono maggiori. Mettere in gioco, esercitare un radicale scetticismo sull’atto rappresentativo in quanto tale (gesto tipico di tutte le avanguardie, sia pittoriche sia teatrali, sia letterarie sia musicali) significa mettere in gioco la struttura metafisica del segno. L’interrogazione operativa non è condotta su “che cosa” rappresentare ma −con ferrea coerenza logica− sull’intero sistema di rappresentazione dell’ente, sull’atto stesso del rappresentare intenzionale. Proprio la categoria dell’intenzionalità, soprattutto per quanto riguarda il suo carattere rigidamente teleonomico-oggettuale, è sottoposta da Malevi/ a una critica estrema. Trasceso l’orizzonte categoriale dei valori e degli obbiettivi, nella sua opera (questo è il suo versante davvero “orientale”) la distruzione dell’oggetto va di pari passo con l’eliminazione dell’intenzionalità soggettiva. Noi, in prima istanza, intenzioniamo oggetti: è questa l’organizzazione, la struttura del nostro vedere apprensivo. Come abbiamo visto, sembra non soltanto inerente ma intrinseco all’atto rappresentativo il carattere figurale di messa in immagine del mondo. Ma è questa l’unica forma logica dell’intenzionalità? Quella delle forme è una semantica originaria? A più riprese e sulla scorta dello stesso Husserl, Merleau-Ponty parla già nella Premessa alla Fenomenologia della percezione di una “intenzionalità fungente” che si sviluppa scorrendo sotto la trama rigida degli atti oggettivanti. Si tratta di «una nozione allargata dell’intenzionalità»22, più profonda, fluida e proteiforme, che ne supera la clausola monotematica di indole prioritariamente se non esclusivamente tetico-posizionale. Una nozione che in certo modo richiama e anticipa (nel caso di Husserl) quella heideggeriana di Dasein come apertura esistenziale che precede la separazione intellettualistica e derivata tra intentio e intentum. A questo proposito, Merleau-Ponty 22  M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945); trad. it. il Saggiatore, Milano 1965, p. 27.

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esprime l’esigenza di una vera e propria «riforma della coscienza» (il Suprematismo per Malevi/ non vorrebbe essere altro che questo!)23 che superi il mero “star di fronte” −l’objectum, il Gegen-stand− dell’oggetto rispetto al soggetto e viceversa, per inoltrarsi in uno spazio ove possa avvertirsi, sotto l’oggetto, una pulsazione inoggettiva, una corrente, un’intensità (un’emozione, avrebbe aggiunto Malevi/) che non può più ricondursi o sintetizzarsi negli schemi della coscienza costituente, irrigiditi nella cornice oggettivante degli atti che sono all’origine della nietzscheana “cosalità”. L’astrazione pittorica, e in particolare quella di Malevi/, scopre, da questo punto di vista, una sorta di libera spazialità senza cose (vedremo in seguito quanto sia essenziale qui la nozione di campo), in cui si trova abolito −esattamente come nella prospettiva inaugurata dalla fisica moderna− il mondo degli oggetti distinti, stabili, identificabili. Può perfettamente interpretarsi come uno sviluppo coerente delle riflessioni dell’ultimo Nietzsche genalogista, l’osservazione di Merleau-Ponty secondo la quale −stabilito che «la percezione non è in primo luogo percezione di cose»24− il compito filosofico necessario è quello di «mostrare che l’ontico […] gli objecta, i “rappresentati” […] tutta la congerie di queste “realtà” psichiche positive […] è in realtà ritaglio astratto nella stoffa ontologica, nel “corpo della spirito”»25. Ciò che è in gioco, insomma, è un tipo di intenzionalità non oggettivistica, che non fa riferimento a niente che sia necessariamente concettualizzabile-afferrabile-manipolabile sub specie di objectum definito, pensabile come contorno “figurativo”, cosalità iconico-semantica dunque nominabile. Per l’ultimo Merleau-Ponty come per l’ultimo Nietzsche, «l’errore filosofico totale» consiste precisamente «nel credere che il visibile sia presenza oggettiva (o idea di questa presenza) (qua-

dro visivo)»26, come se davvero occorresse definitivamente ritirare −così, abbiamo visto, si esprime Bachelard− quell’eccesso di immagine che automaticamente attribuiamo al concetto di “cosa”. E infatti per Malevi/ il fenomeno, ciò che si porta all’evidenza, è in quanto tale già da sempre integrato e recuperato nella piattezza e nella triviale e utilitaristica insignificanza dell’oggettività. Bisogna insomma indebolire la cogenza e la “naturale” complicità mimetico-raffigurativa dell’atto costituente, bisogna assumere, sostiene MerleauPonty, «ciò che, relativo al visibile, non potrebbe però essere visto come cosa», vale a dire «la sua membratura non figurativa» (corsivo ns.)27. Quello che Merleau-Ponty chiama il «mondo estetico» è il mondo prima di essere filtrato, “svolto”, “tradotto” nelle oggettivazioni, o per meglio dire che si dà inoggettivato in esse. È fuori di dubbio che l’intera avventura artistica moderno-contemporanea, e in particolare quella che riguarda Malevi/ e la grande astrazione novecentesca, può essere interpretata anche in questa chiave gnoseologica, o per meglio dire di “gnoseologia operativa”: cioè come la dimensione eminente e per certi aspetti modellizzante in cui si esprime questo tipo di intenzionalità latente che, al modo dell’irriflesso e dell’inoggettivo, si nutre di quell’immediatezza precategoriale in base alla quale sentiamo esteticamente (l’emozione cui Malevi/ fa costante riferimento) che la nostra inerenza originaria alla Lebenswelt, al mondo della vita, non è del tutto necessitata a svolgersi in senso “figurativo”-oggettivo. In particolar modo e con estrema coerenza nell’opera teorica e pittorica di Malevi/, la pratica creativa dell’astrazione fa segno verso una linea di fuga e di eccedenza nei confronti dell’attività schematica dell’intelletto intesa come capacità logico-referenziale; limitandone, indebolendone la funzione rigidamente denotativa, la clausola o l’ipoteca strettamente designativa. Abbiamo visto che vi è una fortissima, irresistibile, organica connessione tra

23

M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 272. Op. cit., p. 251. 25  Op. cit., pp. 286-7. 24

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Op. cit., p. 291. Ivi.

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figuratività e percetto, intenzionalità d’atto e semanticità, connessione che riposa sul presupposto archeologico secondo il quale il fenomeno sensibile che appare visivamente produce senso-significato (cioè autenticamente appare alla coscienza) solo se selezionato, filtrato e modellato in termini e sotto clausole oggettuali. La pratica dell’astrazione pittorica indica, anzi incarna esemplarmente l’esercizio della libertà soggettiva nell’immaginare produttivamente e applicare inventivamente gli schemi, come “rammemorandone” il carattere fondamentalmente convenzionale, pattizio. È come se attraverso di essa si rinegoziassero estensione e articolazione della capacità dell’attività schematica di riferirsi al continuum; per il suo tramite si riconverte l’attenzione sul carattere intrinsecamente, strutturalmente aperto della possibilità che il continuum percettivo-esperienziale sia ancora disponibile a un diverso ritaglio, a una diversa pertinentizzazione. Con un’azione anti-reificante, “decontratturante”, la pratica dell’astrazione mette in campo un costante rimodellamento che risveglia la nostra possibilità, dunque la nostra facoltà-capacità immaginativa, di segmentare e costruire il senso in modi altri rispetto a quelli iconico-raffigurativi e analogico-associativi, postulati da un tipo di intenzionalità interessata soltanto a reperire teleonomicamente catene di oggetti (quindi parole, frasi, proposizioni). Tutto questo fascio di temi e motivi attraversa profondamente e “organizza” l’intera opera teorica e pittorica di Malevi/. La coscienza di quella che chiamerà l’«umanità bianca» è priva di oggetto, non è più coscienza-di. Viene qui messo in questione il fondamento classico di ogni fenomenologia. Egli punta dritto al cuore del teleologismo finalistico sigillato nell’idea di intenzionalità-volontà mettendo in campo un parallelismo con il “fare” della natura. Bisogna definitivamente liquidare ogni assunzione psicologistica che cerca, come scrive Nietzsche, «una volontà (ossia un’intenzione) dietro ogni fare» (Frammenti Postumi 1888-1889, 14 [29]). Sembrerebbe a prima vista paradossale, ma proprio in ragione di questa radicale “pulizia” ontologica e psicologica, 64

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si afferma ripetutamente che l’astrazione suprematista deve avere come unico modello proprio la natura. La sua forza paradigmatica non si esercita però −è del tutto evidente− sul piano trivialmente empirico-mimetico della riproduzione del visibile oggettuale, delle apparenze esteriori, ma su quello delle leggi della produzione e della generazione operativa che associano arte e natura. Non, quindi, la natura già congelata, fissata, morta negli oggetti, ma la natura naturans, animata dall’intrinseca vis che presiede alla sua spontaneità autogenerativa, che governa quel sorgivo venire alla presenza che trova in sé e non in altro la ragione della sua legittimità. Il proprio della natura consiste nel produrre, disfare, nuovamente produrre et sic in infinitum, in modo del tutto e originariamente indipendente dal bene e dal male, libero da significati e da leggi orientate verso scopi. Insensato è immaginarne condizioni finalistiche, poiché la vita stessa non ne ha ed è da esse “irraggiungibile”. «Se il globo terrestre va in pezzi, se il sole si spegne», scrive Malevi/, «per la natura come tale non cambia nulla»28, poiché in essa non è riscontrabile −se non per una deformazione di carattere antropomorfico− alcuna forza indirizzata a perseguire uno scopo. È la prospettiva del grande disincanto lucreziano che scende fino a Spinoza, Leopardi, Darwin e Nietzsche. Pochi anni prima, precisamente all’inizio del secolo, Georg Simmel aveva già riaffermato la stessa posizione, denunciando l’ingenui­ tà del comune atteggiamento che consiste nel credere che la tecnica “domini” la natura, che le “imponga” i suoi principi di prestazione e di efficienza, presupponendo in tal modo nella natura stessa una resistenza, un rifiuto a piegarsi all’umana costrizione che invece, in realtà, essa non esercita affatto né potrebbe esercitare proprio perché perfettamente gratuita, indifferente, avulsa da ogni volontà, da ogni intenzionalità, da ogni dover-essere29. Troviamo in Malevi/, quasi 28

K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit., p.77. Cfr. G. Simmel, Filosofia del denaro (1900); trad. it. utet, Torino 1984, pp. 678-80. 29

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letteralmente, la stessa affermazione: «La natura non lotta con nessuno e perciò non subisce nessun danno nel suo movimento vorticoso senza inizio, senza fine, libero da intelletto, riflessione, senso, scopo e dovere. Vive e agisce nel trionfo della luce che illumina, nell’oscurità infinita, il suo movimento insensato»30. Costruire un mulino ad acqua o a vento non significa affatto −questa la grande illusione di una malintesa “filosofia della tecnica”− imbrigliare, im-piegare la forza dell’acqua o del vento: in realtà esse non soltanto non oppongono alcuna resistenza, ma rimangono del tutto libere e imperturbate, dal momento che, dichiara Malevi/, «non può essere libero ciò che tende a un fine»31. Ma su questi motivi −cosa che non è mai stata a sufficienza sottolineata32− egli ha anche pagine del tutto “orientali”, di ispirazione taoista, di “memoria” zen. La natura non sopporta nomi, non ha alcun fine-oggetto da “compiere”, raggiungere, soddisfare, perché qualcosa come un oggetto e come un fine esistono soltanto nella nostra rappresentazione: perfettamente aliena da scopi, ignora ragione, senso e coscienza. Nella natura certo tutto si trasforma perpetuamente, ma niente in essa diminuisce o si accresce: è in sé assoluta inazione, totale inattività, nirvanica inoperosità. E così dovrà essere il Suprematismo “compiuto”. «Ci stiamo preparando a ridurre tutto a nulla. In seguito andremo oltre lo zero», scrive Malevi/ all’amico Matjušin nel maggio del 191533 Nella non-oggettività non esistono domande né risposte, e in essa si perviene, di30

K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit., p. 234. Op. cit., p. 179. 32  Vedi però il saggio di Charlotte Douglas, Beyond Reason: Malevi/, Matjushin and Their Circles, nel mirabile libro-catalogo The Spiritual in Art: Abstract Painting 1890-1985, Los Angeles-New York 1987. Malevi/ aveva familiarità con la disciplina, e forse anche con la pratica, dello yoga della scuola Vedanta. Per raggiungere lo stato supremo del samadhi, la meditazione deve escludere via via ogni oggetto fino a diventare perfettamente senza-oggetto. 33 Cfr. Kazimir Malevich 1878-1935, Stedelijk Museum, Amsterdam 1989, p. 157. Si tratta del catalogo della prima grande retrospettiva di Malevi/ nell’Europa Occidentale (non a caso organizzata durante la glasnost di Mikhail Gorbaciov). La traduzione dall’inglese è nostra.

rebbe Meister Eckhart, «ad abbandonare il questo e il quello»34, giacché tutti i problemi si risolvono nel nulla. *** Malevi/ ha sempre dichiarato e rivendicato che il Suprematismo è nato nel 1913. Per questo ha datato a quell’anno il Quadrato nero, sebbene si sia ormai raggiunta la certezza storico-filologica che non può risalire a una data anteriore al 1915. E il 1913 è l’anno di Vittoria sul sole (Pobeda nad solncem), l’opera teatrale frutto della collaborazione tra Michail Matjušin che compose la musica, Aleksej Kru/ënych che scrisse il testo e Malevi/ che disegnò le scene e i costumi. Il Prologo −recitato dallo stesso Kru/ënych− era di Velimir Chlebnikov. Lo spettacolo era uno specie di music-hall in chiave dada-futurista e, finanziato dall’Unione della Gioventù di Pietroburgo, ebbe luogo in un teatrino secondario della città, il “Luna Park”, il 3 e il 5 dicembre, alternandosi con Tragedia di Vladimir Majakovskij, messa in scena il 2 e il 4. Gli attori furono reclutati attraverso annunci sui giornali, così non si presentò nessun professionista ma unicamente studenti universitari. Il coro, assunto due giorni prima, era composto da sette persone delle quali soltanto tre sapevano accettabilmente cantare, e un piano malamente accordato sostituiva l’inesistente orchestra. Le serate si svolsero in perfetto stile futurista, in un miscuglio di fischi e applausi, proteste e approvazioni, ilarità e lanci di oggetti vari in palcoscenico35.

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34  Meister Eckhart, Moyses orabat dominum deum suum, in Sermoni tedeschi, trad. it. Adelphi, Milano 1985, p. 69. 35  Il poeta futurista Benedikt Livšic −l’autore dello scritto teorico Liberazione della parola− era tra gli spettatori di Vittoria sul sole e ha lasciato della rappresentazione un vivido ricordo, dal quale qui attingiamo, nel suo L’arciere da un occhio e mezzo (1933), trad. it. Hopefulmonster, Torino 1989, pp. 196-201. Per un panorama completo sul futurismo russo, autentico momento-chiave dell’intera cultura europea del Novecento, resta insostituibile V. Markov, Storia del futurismo russo (1968), trad. it. Einaudi, Torino 1973. Con le scenografie della sua allieva Vera Ermolaeva, nel 1920 Vittoria sul sole fu replicata in

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L’eliomachia, la lotta contro il sole −simbolo della bellezza passatista e del vecchio ordine delle cose (ma, vedremo, non solo di questo)− è un motivo ricorrente nella produzione poetica e artistica del futurismo russo. Ad esempio proprio in Majakovskij e proprio in Tragedia (intitolata anche con il nome stesso del suo autore): «Io intrepido/porto nei secoli il mio odio per i raggi del giorno». Ne La blusa del bellimbusto il poeta dichiara: «sfiderò il sole con un sogghigno arrogante». E in Qualche parola su me stesso: «Sole!/Padre mio!/Abbi tu almeno pietà, non tormentarmi». Tutti e tre i componimenti risalgono al 1913, annus mirabilis del futurismo russo. E Chlebnikov esclamerà: «il Sole − trascinatelo a un guinzaglio per cani»36. D’altra parte la scritta zat’menje, ‘eclissi parziale’, compare su due celebri tele “alogiche” di Malevi/ del 1914, Un inglese a Mosca e Composizione con la Gioconda. Di lì a poco avverrà l’eclissi totale del Quadrato nero. Il tema dell’opera è nel Primo Atto il combattimento contro il sole («Sole tu generasti tormenti […] ti avvolgeremo in una coltre polverosa»; «Il Sole si è nascosto/La tenebra ci ha invaso […] Salve tenebra!») fino alla sua sconfitta definitiva («Il Sole giace ai nostri piedi trafitto»; «Noi abbiamo estirpato il Sole con le radici vive/Grasse che puzzavano di aritmetica/Ecco guardate»)37 da parte dei budetl’jane sede didattica durante i corsi che Malevi/ teneva a Vitebsk. Questa edizione fu presentata a Berlino nel 1922. Recentemente, l’opera è stata messa in scena dal Los Angeles County Museum of Art nel 1980, dal California Institute for the Arts al Festival di Berlino del 1983, dallo Stas Namin di Mosca a Basilea nel 2015. Della prima rappresentazione del 1913 restano due foto, pubblicate su un giornale locale, il “Ranneye Utro” il 12 dicembre e riportate nel catalogo della mostra dedicata a Malevi/ dal Centre Pompidou di Parigi nel 1978, p. 12. 36  Cfr. A.M. Ripellino, Tentativo di esplorazione del continente Chlebnikov, in V. Chlebnikov, Poesie, trad. it. Einaudi, Torino 1968, p. lxxxiv. 37  Seguiamo la traduzione di Marina Di Filippo che si trova nel catalogo della mostra Kazimir Malevi/. Una retrospettiva, Artificio, Firenze 1993. Cfr. anche La Victoire sur le Soleil, a cura di J.-C. Marcadé, L’Age d’Homme, Lausanne 1976 (con testo a fronte), che contiene il saggio di Marcadé, “La Victoire sur le Soleil” ou le merveilleux futuriste comme nouvelle sensibilité, e C.

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(qualcosa come ‘avveniriani’), il neologismo con cui Chlebnikov −respingendo la radice latina per quella slava (da budu, futuro di byt’, ‘essere’)− ribattezzò se stesso e i suoi amici poeti e artisti38. Il Secondo Atto, una volta messianicamente vinto il sole, si svolge nel 35° secolo sul “Decimo terro” (sic), dove soltanto esseri eccezionali dotati di una ferrea volontà e una straordinaria forza d’animo («i deboli sono impazziti») possono sopravvivere, finalmente −proprio come le superfici-piano di Malevi/− «liberi dal peso della gravitazione universale». Questi esseri sono una reminescenza, forse più che dell’Oltreuomo nietzscheano, di quella nuova stirpe di puri ed eletti ai quali dovrebbe essere permesso ciò che al “gregge” è proibito, e di cui agogna far parte senza riuscirvi il Raskol’nikov di Delitto e castigo. Distrutti sono i vecchi immutabili idola con la loro illusoria aura di fissità e permanenza, edificati secondo l’«antica misura» che non ha più corso. In una sorta di “trasvalutazione di tutti i valori”, niente più sta, tutto è in perpetuo movimento: «ieri qui c’era un palo telegrafico oggi c’è un buffet o domani, magari, vedremo mattoni. Qui succede tutti i giorni che nessuno sappia dov’è la fermata e dove mangeranno». Sovvertimento dei ruoli, rovesciamento delle consuetudini, rifluire dell’effetto sulla causa secondo la tradizionale figura utopica ben presente nella cultura occidentale (si pensi solo all’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam) del “mondo alla rovescia”: e proprio questo era il titolo, Mirskonca, di un libro “artigianale” di Chlebnikov e Kru/ënych del 1912. Il Chlebnikov per il quale «la vita può essere vissuta al contrario, scappando dai funerali all’infanzia»39. Il tempo granulare e Douglas, Birth of a Royal Infant:Malevitch and “Victory over the Sun”, in “Art in America”, March-April, 1974. 38  Ripellino sceglie la letterale quanto impervia traduzione di «Banditori del “Budu”, del “Sarò”», cit., p. xi. 39  Cfr. A.M. Ripellino, Tentativo di esplorazione, cit., p. lxxxviii. Ma il «mondo capovolto» e il tempo alla rovescia che scorre incontro al presente è anche quello del sogno che “introduce” alla temporalità metafisica dell’icona, sul quale si aprono le pagine di Le porte regali di Florenskij.

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“disgiunto”che passa «goccia a goccia» (kapleovražnaja) come diceva Matjušin, il tempo lineare, entropico e puntiforme che attimo dopo attimo si e ci avvicina “meccanicamente” alla fine, non esiste più. Chronos è finalmente sconfitto e le lancette degli orologi non si sa più in quale verso girino. Se davvero l’universo è infinito, allora non esiste più il tempo e «non differisce il giorno dalla ora, il giorno dalla notte», come già aveva detto Giordano Bruno in De la causa, principio et uno. Del passato, secondo questa ispirazione profetica di totale messianico azzeramento, non è rimasta alcuna traccia («com’è insolita la vita senza passato − Con pericoli ma senza pentimenti e ricordi»). Rimane il vuoto che «ventila tutta la città» così che «tutti cominciano a respirare meglio». L’“illusione necessaria” della irreversibilità temporale, questo velo di Maya secondo cui non può esservi alcuna risposta che segue se non v’è una domanda che precede, non ha più ragione di essere né di costringere nella sua gabbia d’acciaio, e dunque si potrà andare «di traverso nel xvi secolo tra virgolette da qui», viaggiando liberamente «per tutti i secoli». Esattamente come anche Chlebnikov spingeva a muoversi «in una regione trasversale del tempo», movimento «così familiare allo spirito d’ogni profeta»40. Il “racconto” di Vittoria sul sole è chiaramente improntato a un messianismo apocalittico e alla radicale inversione dei valori che segnerà la fine dei tempi. Quello che si richiama al libro neotestamentario è un tema centrale e ossessivamente ricorrente nell’intera cultura russa, soprattutto letteraria e filosofica ma non solo, tra Otto e Novecento. Ne L’idiota di Dostoevskij, prima di piombare nella bruta e immemore incoscienza della malattia, l’attimo immediatamente precedente l’attacco epilettico del principe Myškin è felicemente colmo di estatica armonia, di pacificante bellezza, di trepidante fusione con il Tutto. È un attimo apocalittico perché esso «dilata il tempo all’infinito e lo fissa al suo compi-

40 Cfr.

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Op. cit., p. lxxix.

mento, alla sua perfetta pienezza»41: per questi momenti, dice tra sé e sé lo stesso protagonista, «si può dare tutta la vita». E Lébedev, uno dei personaggi che attorniano il puro, innocente principe, non si esercita forse da quindici anni a interpretare l’Apocalisse? «Non esisterà più il tempo», annuncia l’angelo possente che poggia il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra (Apocalisse, 10, 6). Rivelazione nemmeno poi tanto “secolarizzata” del tempo compiuto, del tempo dell’eschaton e dell’apokatastasis, cioè della salvifica restaurazione finale del primevo ordine divino, è quello di Vittoria sul sole. Azzeramento di ogni rapporto preteso “naturale”, palingenesi di ogni funzione ontologicamente creduta immutabile, che coincidono con la morte del “tempo solare” e l’ingresso nella dimensione apocalittica emancipata dalla meccanomorfa irreversibilità, dal tempo come soffocante onnitudo di cui siamo sudditi per conquistare finalmente un tempo proprio di cui essere sovrani. Scrive Nikolaj Berdjaev in un saggio del 1917-18 che «il russo è apocalittico al polo positivo e nichilista al polo negativo», ed è impossibile distinguere questi due poli solo apparentemente opposti, giacché «nell’intelligencija russa» −ma anche nel popolo, preciserà poco oltre− «l’apocalisse s’intreccia e mescola con il nichilismo»42. Lo stesso Berdjaev per il quale l’immanenza del divino significava che in questo mondo deve fare irruzione un mondo diverso. E Ivan Fëdorovi/ Karamazov non è forse anch’egli pervaso dalla coscienza apocalittica che vuole la fine e il compimento della storia come unica 41

S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 82 (citiamo dall’ed. del 2006). 42  N. Berdjaev, Gli spiriti della rivoluzione russa, in AA.VV., Dal profondo. 1918: la rivoluzione vista dalla Russia, trad. it. Jaca Book, Milano 1971, pp46-7 (citiamo dall’ed. del 2017). Il Tertium Organum di Uspenskij −interamente dedicato alle implicaazioni scientifico-filosofiche di un mondo inaccessibile alla normale percezione− si apre in epigrafe e si conclude proprio sull’annuncio dell’angelo apocalittico appena citato. Ricordiamo inoltre che Apocalisse della letteratura russa è il titolo di un libro di Kru/ënych uscito a Mosca nel 1923, e che Michail Bulgakov pone in epigrafe a La guardia bianca un passo dell’Apocalisse.

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condizione perché possa finalmente re-instaurarsi la beatitudine, la felicità e l’eguaglianza sulla Terra (l’apokatastasis, appunto)? D’altra parte è sempre stato presente nella tradizione della cultura russa l’impulso ad assegnare all’arte un compito rigeneratore, terapeutico, salvifico. In Vladimir Solov’ëv, il maestro di Berdjaev, ad esempio, l’arte è una potenza teurgica che plasma direttamente la vita, poiché l’artista è la figura eminente in cui si alimenta l’attesa della catastrofe liberatrice e palingenetica, e nella sua opera già vive e si esprime quell’armonia segreta del Tutto che si rivelerà definitivamente, secondo la prospettiva apocalittica, alla fine dei tempi. Lo stesso Malevi/ −il “maestro messianico”, come lo chiamavano alcuni critici del tempo− ha sempre interpretato la sua figura di artista come quella di un demiurgo, primo edificatore di una nuova epoca gnostica del mondo e portatore di una suprema conoscenza. Ma se la nuova esistenza dei budetl’jane di Vittoria sul sole è già in atto proprio perché descritta, se il futuro escatologico è qui “narrato” −e si può narrare soltanto ciò che già trascorso− significa che in qualche modo questo segno dei tempi già si dà, già si dipana via via: è dunque a ben vedere un futuro anteriore che contiene misteriosamente quanto paradossalmente in sé una dimensione pretèrita. È l’enigma temporale di ciò che si dà hic et nunc e dunque s’inoltra progressivamente nel passato, ma solo in quanto sarà. Ora, tutto il futurismo russo è attraversato da un motivo analogo, e in particolare l’opera di Chlebnikov, poetico fautore di un avveniristico ritorno a un’arcadia slava e comunque orientale da contrapporre alla cultura razionalistico-illuminista europeo-occidentale. Il futuro, in questa sorta di riarticolazione temporale, coincide con la restaurazione di un’edenica età dell’innocenza; l’antevedere è memoria di una paradisiaca immemoriale incolumità; utopia e regressione arrivano a indistinguersi; lacerante modernità e arcaica primordialità coestistono. In questa specie di anagennesis, di ‘rigenerazione’, il tempo futuro rifluisce verso la propria scaturigine, così come la luce dell’icona nera di Malevi/, lo vedremo, risale sé 72

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stessa fino alla propria arché. Causa ed effetto sovvertono ribaltandola la loro relazione meccanica. Il Prologo di Chlebnikov e −soprattutto nel finale− il testo di Kru/ënych contengono brani zaum’, il linguaggio alogico e asemantico, “trans-mentale” o “trans-razionale” dei futuristi, fatto di slogature lessicali e fratture scomposte della sintassi, invenzioni onomatopeiche e inserzioni di etimologia slava, lallismi infantili e balbuzie fonetiche, linguaggio del quale Malevi/ contemporaneamente cercava di fornire dirette, immediate forme visive. L’“alogismo” dei futuristi, questa presa di distanza dagli schemi del logos, è una trascrizione “artistico-creativa” dei postulati teosofici del Tertium Organum di Uspenskij: nella quarta dimensione (coglibile solo da una visione superiore indipendente da quella fisica, e ove i piani penetrano nello spazio tridimensionale), A è A e al contempo non-A perché il principio di non contraddizione della logica aristotelica è superato; la parte non è più piccola del tutto; il fenomeno diventa irreale-inafferrabile e il noumeno percepibile; destra e sinistra, alto e basso, grande e piccolo sono distinzioni “umane troppo umane” che non hanno più corso né senso. Dunque, secondo gli “iniziati” zaum’, avrebbe dovuto essere la nuova forma verbale, nel suo funambolico e clownesco istrionismo linguistico −mai dimenticare la dimensione comica che percorre tutte le avanguardie!43− a creare il nuovo contenuto. «Noi siamo stati i primi», dichiara Kru/ënych, «ad affermare che per rappresentare il nuovo e l’avvenire occorrono parole del tutto nuove e rapporti del tutto nuovi tra queste parole […] I quadri di Malevi/ sono il risultato di questa intransigenza tipicamente russa»44. Nel celebre manifesto del 1913, Schiaffo al gusto del pubblico, i futuristi invitano i poeti −e, trasponendo da parola a immagine, i pittori (e Malevi/ aderirà)− ad

43  Cfr. su questo motivo imprescindibile per una valutazione complessiva delle avanguardie artistiche, il ns. La mosca di Dreyer Jaca Book, Milano 2007, pp. 146-59. 44  Cfr. A.B. Nakov, Il nuovo Laocoonte, in K. Malevi/, Scritti, cit., p. 83.

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aumentare il volume del vocabolario con neologismi, termini inventati, accostamenti arbitrari, e a odiare senza remissione la lingua esistita prima di loro. Per poter non soltanto rappresentare ma incarnare l’avvenire, occorrono parole completamente inedite, mai prodotte né ascoltate, la cui associazione avviene in base a leggi interne e autoassegnate. Il lavorìo sulla lingua si rivolge all’alchimia profonda della parola sganciata da ogni significato precostituito. Spezzato è dunque il legame tra sostantivo, verbo e predicato; scomposta è la connessione “aristotelica” tra nome, concetto e cosa; esploso il rapporto tra mondo e linguaggio45. La poesia −aumentando esponenzialmente il suo quoziente di matericità fonica− riduce la distanza dal puro oggetto acustico e si trasforma −seguendo le linee di una lucida, filologica follia verbale− nella chlebnikoviana «voce mutola della scrittura». E gli zaum’niki, secondo Kru/ënych, armati di questa neolingua come della «freccia avvelenata di un selvaggio»46, potranno allora «passeggiare allegramente nel labirinto»47. I personaggi dell’opera non hanno assolutamente nulla di psicologico; rappresentano categorie, sono puri archetipi: gli Sportsmen, il Becchino, l’Operaio, il Malintenzionato (interpretato nelle prime due rappresentazioni dallo stesso Majakovskij). I costumi disegnati da Malevi/ sono indossati dagli attori come scafandri multicolori che ne nascondono o ne falsano totalmente l’anatomia naturale. La meccanica tu-

45  È probabile che la particolare plasticità della lingua russa abbia rappresentato una condizione favorevole. Scrive Iosif Brodskij in un saggio su Mandel’štam che «il russo è una lingua molto duttile […] accade facilmente che il sostantivo si trovi proprio alla fine della frase, e la desinenza di questo sostantivo (o aggettivo o verbo) cambia secondo il genere, il numero e il caso. Tutto questo conferisce a ogni discorso il carattere stereoscopico della percezione stessa e (talvolta) acuisce e arricchisce la percezione», in Fuga da Bisanzio (1986), trad. it. Adelphi, Milano 1987, p. 72. 46  Cit. in A.M. Ripellino, Tentativo di esplorazione del continente Chlebnikov, cit., in ordine alle pp. lxi e lx. 47  Cfr. A.B. Nakov, Il nuovo Laooconte, cit., p.68. Sulla diversa concezione della lingua zaum’ in Chlebnikov e in Kru/ënych, cfr. Markov, Storia del futu­ rismo russo, cit. p. 337 sgg.

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bolare e geometrizzante, con l’incastro forzato dei volumi l’uno nell’altro che produce un gioco di cilindri, coni e altre figure spezzate, è identica −d’altronde gli anni sono gli stessi− a quella in opera nella sua fase cubofuturista (ad esempio Raccolta della segale, Taglialegna oppure Donna con secchio)48. L’unica testimonianza diretta della rappresentazione al Teatro “Luna Park” di Pietroburgo, come abbiamo già ricordato, è quella di Benedikt Livšic, che fu colpito soprattutto dalla messinscena di Malevi/, avvicinata al dinamismo scultuale di Boccioni, e dal gioco delle luci, progettato anch’esso dall’artista, per l’epoca molto innovativo, con i fasci luminosi dei fari che facevano improvvisamente emergere dall’oscurità ora le braccia ora le gambe ora la testa dei corpi-fantoccio, come frammentandone la massa per scomporla e ridistribuirla volumetricamente nello spazio tridimensionale della scatola scenica. Ma il sole, sulla sconfitta del quale si levano nell’opera canti di vittoria, non è soltanto quello che simboleggia la vecchia cultura dominante arretrata e tradizionalista che i futuristi, i budetl’jane vogliono abbattere per edificare con l’afflato del loro millenarismo cosmico il nuovo secolo che «non avrà fine». Il sole è anche e soprattutto la prima condizione perché il sensibile fenomenico possa manifestarsi; è l’apriori perché gli oggetti possano rivelarsi-apparire nella luce e così venire duplicati raffigurandoli: proprio quegli oggetti che Malevi/ vuole abolire, superare, “detronizzare” perché resti unicamente lo spazio infinito della sensazione pura che si apre e si offre dal Quadrato nero in poi49. Il sole è proprio ciò che con la sua luce onnipervadente vela, nasconde il vero, realissimo continuum quadridimensionale − 48 Malevi/

disegnerà anche i costumi per Mistero buffo di Majakovskij, andato in scena con la regia di Mejer’chold il 7 novembre del 1918 a Pietrogrado nel primo anniversario della Rivoluzione, ma tutti i bozzetti originali sono andati perduti. 49  Il sole, scrive Cacciari in Icone della legge, è «la condizione trascendentale di ogni sensibile rappresentazione, presupposto del meramente visibile e delle sue imitazioni», cit., p. 207.

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impercepibile sì, ma solo dall’interno e nell’ambito della nostra “povera” percezione tridimensionale− che occorre (al perfetto contrario di ogni pretesa semplicemente iconoclasta!) figurare nella nuova icona del Quadrato nero. Il sole va sconfitto perché è la conditio sine qua non dell’apparire manifesto di questo mondo composto di meri oggetti distinti, numerabili, separati (quelli che la nuova fisica ha revocato in questione), che l’arte della pittura ha sempre pensato come suo compito elettivo dover imitare, riprodurre, “raddoppiare”. Ma il mondo continua a esistere, al di là dei nostri sensi. Ben lo sapeva Nietsche, abbiamo visto. Non è un caso, allora, se Vittoria sul sole si rivelerà negli anni immediatamente seguenti la vera fucina dalla quale nasce il Suprematismo. L’opera si apre con una scenografia composta da pareti bianche e pavimento nero. Ma soprattutto il disegno per il primo quadro del secondo atto mostra, all’interno di un quadrato, un altro quadrato diviso diagonalmente, con la parte nera in alto e quella bianca in basso50. Sul disegno (conservato al Museo di Stato per la musica e il teatro di Pietroburgo) compare inoltre la scritta (presumibilmente non posteriore) kvadrat, e a destra la scritta glupo, ‘sciocco’, ‘stupido’, che potrebbe riferirsi a uno dei personaggi, che però nel testo non troviamo con questo appellativo. Ma c’è di più, sul piano documentale. Quando due anni dopo, nel 1915, Matjušin si propone di pubblicare una seconda edizione più articolata e completa del libretto di Vittoria sul sole, Malevi/ gli scrive numerose lettere in cui caldeggia l’inclusione di quel bozzetto tra le illustrazioni. «Kru­/ënych mi ha informato che è vostra intenzione pubblicare Vittoria sul sole e includere i miei disegni per le sceno50

È stata Camilla Gray che per prima ha messo in relazione il bozzetto di Vittoria sul sole con il Quadrato nero, cfr. The Russian Experiment in Art. 1863-1922, Thames and Hudson, London 1962; pp. 158-9 della nuova ed. del 1986. Non sono note le ragioni per le quali il bozzetto non fu poi utilizzato per la realizzazione delle scene, e dal momento che non esistono testimonianze né materiali né fotografiche della messa in scena del 1920 a Vitebsk, non sappiamo nemmeno se fu utilizzato in quella seconda occasione.

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grafie», scrive Malevi/, «Vi sarei molto grato se pubblicaste uno dei miei disegni, in particolare quello del sipario in cui ha luogo la vittoria. Ho appena ritrovato uno di quei bozzetti e credo che attualmente sia molto importante includerlo nella vostra pubblicazione. Quel disegno avrà una grande importanza per la pittura. Ciò che è stato creato inconsciamente produce attualmente frutti straordinari». E ancora: «Tutto quanto ho realizzato nel 1913 per Vittoria sul sole mi ha condotto a numerose innovazioni. Purtroppo nessuno l’ha notato […] Il sipario rappresenta un quadrato nero, embrione di tutte le possibilità»51. La vittoria sul sole, il suo totale, cusaniano (vedremo tra poco) oscuramento, significa allora la possibilità preliminare, il presupposto inaggirabile per immaginare-costruire (e non “comporre”) la vera icona, foss’anche, o forse proprio per questo, l’ultima: che di conseguenza non potrà essere altro che nera. Spegnere la luce del sole che rivela gli oggetti significa abolire la logica semantico-discorsiva con la quale essi ci “parlano”, così come per Nietzsche non credere più nella grammatica era il presupposto per non credere più in Dio. A-logico è appunto lo zaum’ poetico e pittorico dei futuristi russi: linguaggio sciolto, liberato, emancipato da ogni logos che raccoglie-discorre-rapporta (tra) i diversi, da ogni principio razionale che sistema e riflette qualcosa di ontologicamente precedente, l’ente “iniziale” che si pre-suppone. L’oggetto deve scomparire, deve diventare invisibile affin51  Cfr. A.B. Nakov Il nuovo Laooconte, cit., pp. 39-40. E ancora: «Con l’opera Vittoria sul sole», dichiara Malevi/, «il Suprematismo ha presentato la non-oggettività sulla scena teatrale», in Suprematismo: il mondo della non-oggettività, cit, p. 258. Lo stesso Nakov (p.38) dà notizia dell’esistenza di un altro progetto di scenario «nel quale si vede distintamente e per intero il Quadrato nero». Probabilmente il disegno avrebbe dovuto far parte delle illustrazioni dell’edizione progettata da Matjušin, però mai apparsa. In effetti nella lettera Malevi/ non fa menzione di un quadrato diviso da una diagonale ma di un quadrato tout court. Nella versione dell’opera presentata a Basilea che abbiamo già citato e visibile in rete, il fondale scenico è costituito dall’inizio alla fine da un grande quadrato nero su fondo bianco. Dubitiamo molto che tale scelta registica sia filologicamente corretta.

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ché il vero reale si renda visibile. Ma ciò appunto può compiersi soltanto escatologicamente, cioè dal punto di vista della fine, quando tutto cessa incessantemente, quando risuona il non più tempo dell’Angelo apocalittico. *** Allo spazio prospettico che nemmeno il cubismo aveva superato definitivamente, Malevi/ sostituisce lo spazio generativo. Abolito il punto unico di fuga, liquidata ogni ossatura spaziale predecisa, egli non considererà mai il piano di posa originario alla stregua di una superficie vuota destinata ad accogliere gli elementi −le forme non oggettive− come fosse un contenitore (la “scatola prospettica”) che preceda ciò che soltanto in un secondo tempo vi si collochi. Questo significa che non è più possibile definire le superfici-piano in relazione ai bordi del quadro, alla cornice della tela. Il loro riferimento è ora lo spazio aperto e tendenzialmente infinito in cui non hanno più alcun senso le fondamentali direzioni antropologiche, “umane troppo umane” dell’alto e del basso, della destra e della sinistra, quindi tantomeno ne ereditano il loro carattere oppositivo. Di conseguenza le superfici-piano −ognuna carica di una propria autonoma, indipendente potenza proiettiva e produttiva− erano distribuite, nell’allestimento delle mostre, appese agli angoli oppure al soffitto perché portatrici di un dinamismo che coinvolgeva tutto lo spazio ospitante, ma che precisamente perciò non poteva più considerarsi come un neutro, semplice contenitore. Se le direzioni orientative basate sulla forza di gravità terrestre non hanno più senso né potere coercitivo, allora anche la singola tela non ha più un unico verso e può essere collocata in vari modi a seconda della qualità e delle dimensioni dello spazio che l’accoglie o del dialogo che intrattiene con le altre. Per fare un solo esempio, Suprematismo. Realismo pittorico di un giocatore di calcio, del 1915, fu esposto alla mostra “0,10” con il grande parallelepipedo nero in alto. In seguito, nelle mostre del 1919-1920 e alla mostra di Varsavia del 1927, la for78

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ma era collocata in basso, e due settimane dopo questa, a Berlino, di nuovo in alto. Emerge in Malevi/ una nozione di spazio non referenziale. Dovremmo dunque parlare piuttosto −esattamente come nella fisica moderna, soprattutto dalle ricerche sull’elettromagnetismo di Faraday e Maxwell in poi− di campo suprematista, che non è un’evidenza immediatamente, empiricamente osservabile, non è un oggetto che semplicemente ci si presenta “davanti”, ma è piuttosto un’entità deducibile dalle proiezioni cinetiche e dalle linee di forze magnetiche che lo attraversano e che così facendo lo creano. Nella teoria dei campi, infatti, ogni fenomeno fisico (ad esempio una carica elettromagnetica) si propaga nello spazio con velocità finita, in tal modo “modificando” lo spazio stesso in cui si manifesta, e assegnandogli specifiche proprietà52. Come la metafora originaria della libertà potrebbe essere quella aperta dalla possibilità di muoversi in uno spazio che non è preliminare al movimento e che non ne prefigura le direzioni, le intensità o le traiettorie53, allo stesso modo nelle opere suprematiste si apre un campo di tensioni dinamiche che non si innervano e si ramificano secondo schemi preordinati o gabbie geometriche, ma in cui, al contrario, sono gli stessi elementi tensivi −le superfici-piano− che danno origine a quello spazio che non le precede anche se percettivamente sembra accoglierle. Ed è qui che più potente si fa sentire la forza produttiva e generatrice del suprematismo. *** Singolare contraddizione del Quadrato nero. Ma contraddizione o antinomia del tutto intrinseca alla sua stessa concezione, indissociabile dal suo significato filosofico. Nel suo mistico azzeramento di ogni imprestito oggettivo e psicologico, 52  Cfr. sulla nozione di campo nella rappresentazione iconica P. Florenskij, Le porte regali, cit., pp. 141-3, e come nozione-base nell’opera di Malevi/, A.B. Nakov, Il nuovo Laocoonte, cit., pp. 118-20. 53  Cfr. J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà (1988); trad. it. Einaudi, Torino 2000, p. 77.

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nella sua asseverativa e solenne concisione, nella sua potente, abissale “semplicità”, il Quadrato nero si rivela per l’osservatore fonte di meditazione, di concentrazione spirituale, di elevazione metafisica. Queste innegabili qualità non possono non collocarlo in una eminente, auratica, solitaria unicità. Eppure, nello stesso tempo, per esplicita e dichiarata volontà programmatica del suo stesso autore, il Quadrato nero diventa una sigla riproducibile, un contrassegno votato alla ripetibilità seriale, un’immagine pronta a tradursi in cliché. Prima di tutto, come noto, ne esistono tre versioni dipinte su tela. La prima −conservata alla Tret’jakov di Mosca e ormai in condizioni così precarie da non poter essere più esibita− è quella esposta alla “Ultima mostra futurista: 0,10” del dicembre 1915, organizzata da Ivan Puni nell’atelier di Nadežda Dobyt/ina al Campo di Marte di Pietrogrado54. È datata di pugno dall’autore 1913, ma nel 1970 fu postdatata allo stesso anno della mostra dallo storico dell’arte danese Troels Andersen con una scelta filologica, già abbiamo ricordato, ormai accreditata da tutti gli studiosi55. La seconda versione −conservata al Museo Russo di Pietroburgo− fu realizzata (assieme alla Croce e al Cerchio, tutti e tre i dipinti di nuovo antedatati al 1913) sotto la supervisione e con l’assistenza di Malevi/ da tre suoi allievi nel 1923, e la terna di opere fu esposta alla Biennale di Venezia dell’anno successi54

Nella letteratura storico-critica, il titolo della mostra è il più delle volte riportato con il punto tra le due cifre: 0.10; ma basta vedere il volantino che fu distribuito all’inaugurazione per accorgersi che in realtà compare la virgola. Cfr. la riproduzione fotografica in Kazimir Malevich 1878-1935, cit., p. 156. 55  Si veda però quanto scrive Camilla Gray: «At what point the actual Black Square painting was executed it is difficult to ascertain precisely. The fact that it was not exhibited until late 1915 would in no way indicate that it dates from that year […] Malevi/ did not always, or even usually, exhibit his most revolutionary works immediately. His Cubo-Futurist works were exhibited a year, if not two, after their completion»… p. 160. «Quando il Quadrato nero fu eseguito è difficile da accertare. Il fatto che non fu esposto fino alla fine del 1915 non indica che risalga a quell’anno […] Non sempre Malevi/ esponeva immediatamente le sue opere più rivoluzionarie. I suoi lavori cubofuturisti furono esposti circa un anno, se non due, dopo il loro completamento», traduzione nostra, p. 160.

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vo56. La terza versione risale al 1929 e fu dipinta da Malevi/ su sollecitazione di Alexander Fedorov Davydov, l’organizzatore della sua retrospettiva tenuta nel novembre dello stesso anno presso la Tret’jakov ove tuttora è conservata. Il Quadrato nero fu poi replicato (celebri foto ce lo testimoniano) da Nikolaj Suetin, allievo e collaboratore, in occasione dei funerali di Malevi/. Uno compare affisso alla parete inclinato in avanti nella stanza del suo appartamento situato nell’ex edificio del ginchuk (Istituto nazionale di Cultura artistica) di Leningrado trasformata in camera ardente, ove la salma dell’artista è composta su un catafalco bianco adornato di fiori anch’essi bianchi e circondata dai suoi quadri. Un altro è dipinto, assieme alla replica del Cerchio Nero, sul coperchio della bara che compare nella stessa foto. Un altro ancora è montato sul radiatore dell’automezzo che accompagna il feretro alla stazione Moskovskaja per il trasferimento a Mosca. E di nuovo un altro, dipinto a olio su gesso, decorava il cubo di cemento collocato sulla tomba (poi distrutta durante la guerra) a Nem/inkovka presso la capitale. Ma un quadrato nero era cucito anche sulle maniche degli studenti dell’unovis (acronimo di utversderje novichform iskusstvo, ‘nascita di nuove forme nell’arte’) come segno collettivo di riconoscimento e “simbolo di fede” di quella piccola comunità paramonastica che si era formata presso la Scuola d’Arte di Vitebsk attorno alla figura carismatica di Malevi/. E che il quadrato fosse l’emblema iterabile del Suprematismo come modello totalizzante di vita e non soltanto “stile” artistico, lo conferma −se ce ne fosse ancora bisogno− il ricordo dello scultore Anton Pevsner secondo il quale Malevi/ seguiva il feretro della sua allieva prediletta prematuramente scomparsa stringendo uno stendardo nero su cui aveva cucito un quadrato bianco. D’altra parte, la riproduzione del Quadrato nero sul frontespizio della terza edizione, uscita 56

Il commissario del Padiglione sovietico, Boris Ternovec, dichiara esplicitamente nel catalogo la sua disapprovazione della corrente suprematista, presente in mostra, fa capire, soltanto per ragioni di obiettività.

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nel 1916, dell’opuscolo Dal cubismo e dal futurismo al suprematismo ne mostra chiaramente l’aspetto grafico sottolineandone già il carattere tipizzante di per sé disposto alla riproducibilità. Enigmatica, ieratica sfinge e insieme vessillo occasionalmente utilizzabile, unicum fonte di meditazione spirituale, simbolo protrettico e al contempo sigla, distintivo come tale destinato alla ripetizione, il Quadrato nero è antinomico nel suo stesso animus, vive di questo conflitto forse solo apparente, è solcato e sorretto da questa tensione. Ma questo è il medesimo paradosso dell’icona: inseparabile dalla vita spirituale e dalla profonda meditazione sul mistero che essa indica, e nello stesso tempo −in ragione della sua struttura iconografica tipizzante− perfettamente adeguata e suscettibile sia alla falsificazione sia alla produzione meccanica e industriale realizzata in serie. *** Malevi/ mostra l’inscrizione iconica nella propria opera attraverso un gesto che produce una delle immagini più celebri dell’arte del xx secolo. Ma su quale terreno eminentemente dialettico, su quale “divergente accordo” va inquadrato il suo rapporto con l’eredità iconica ortodossa? Quali sono i presupposti concettuali e filosofici all’interno dei quali diventa possibile rendere conto di quella concordia discors, di quel paradossale dialogo a distanza? In che senso e in quale misura Malevi/ strappò «le corde della memoria», come disse il poeta Daniil Charms nella sua orazione in versi alla cerimonia funebre dell’artista? Per circoscrivere la questione, il lessico dell’ermeneutica dispone del termine forse più adatto, del concetto più inerente: quello di Verwindung, che significa tramandamento-trasformazione dei contenuti esistenziali e storico-culturali57. Si 57  Il riferimento d’obbligo è a H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960); trad. it. Fabbri, Milano 1972.

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tratta di un processo di appropriazione innovativa del passato in cui ricordo che vincola e libertà che scioglie trovano un terreno comune, tradizione e modificazione si co-appartengono. L’oblìo si nutre di memoria, straniamento e familiarità germinano insieme. Dobbiamo collocare la potenza aporetica di questo intreccio tra contesto e decisione all’interno e nell’essenza stessa della modernità artistica, nella sua idea filosofica e nella sua pratica operativa, abbandonando definitivamente l’autorappresentazione ideologica delle avanguardie in termini soltanto di tabula rasa, soltanto di radicale novitas. In Malevi/ vive una modernità più segreta, più complessa, più articolata di quella che si può designare con l’espressione “avanguardia russa”. Se è vero che nella sua opera paradossalmente assume nuova vita il problema artistico e teologico-filosofico dell’icona, allora ciò significa che quell’intreccio, quella Verwindung si anima anche in quei casi ove più enigmaticamente evidente ci si offre il tratto dell’azzeramento radicale; significa che quella connessione trascendentale “sovrintende” anche a quegli esiti ove viene esibita la rottura più innovativa, la discontinuità più dichiarata. In questo senso davvero il Quadrato nero è l’ultima icona. Esso riesce a porsi come rottura irreversibile con la storia che ha alle spalle e insieme potente actio in distans proprio in rapporto ad essa. «Lo spirito della distruzione è lo stesso che lo spirito della creazione»: era il motto di Bakunin, e Malevi/ era notoriamente di fede anarchica. Ma tutto ciò possiamo intuire e sviluppare soltanto se siamo in grado di cogliere nell’opera moderno-contemporanea in generale il luogo eminente, il campo privilegiato di una tensione irrisolta e asintotica tra persistenza e mutamento che la rielabora e la trascrive; se riusciamo a vedervi lo spazio aperto in cui possono confrontarsi e dialogare interrogandosi reciprocamente le dialettiche dell’appartenenza e della decisione che quell’appartenenza modificano. Al pari del logos polemos eraclitèo, l’opera rende percepibile −quindi trasformabile− questa tensione produttiva proprio perché irrisolta e in costante fermentazione; l’opera fa spazio per83

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ché questa possa esprimersi “a giorno”, porta alla luce del presente −una luce che trattiene in sé l’ombra del passato− quell’indiroccabile vincolo dei diversi, quell’inaggirabile legame degli opposti: attesa e insieme allarme. L’arte moderno-contemporanea, per parafrasare Simone Weil, è radicata sì nell’assenza di luogo; ma per l’appunto vi è radicata, confitta ma non sconfitta. In essa non vive un primo, isolato momento costituito dal corpus di regole, codici, norme passivamente ereditate da un passato prescrittivo, al quale contrapporre un secondo momento scisso dal primo e inteso come antitesi frontale e negazione di quelle regulae attuata nel presente che si infutura, come scarto assoluto e azzeramento oltranzista. Nonostante, per così dire, ciò che essa pensa di sé stessa, indipendentemente dalla qualità della sua autoconsapevolezza, nell’arte moderno-contemporanea vive piuttosto −di nuovo esattamente come il logos polemos di Eraclito− l’indecidibile “Unoduità” della loro reciproca, intima, dialettica co-appartenenza che si esplica via separazione, che si esprime al modo della difformità, che si manifesta e si fenomenizza attraverso lo scarto reciproco. Nell’evento che l’opera è, i tempi si congiungono nella differenza. Come se l’opera fosse il differimento di una connessione trascendentale, l’espressione in sé divergente di un’archiunità inesprimibile perché essa stessa rende possibile esprimere. Proprio custodendo la memoria, proprio curando la tradizione come tale, si produce la modificazione, irrompe la decisione: come se la regola apparisse nella (sua) violazione, come se nella tradizione stessa, nell’estrema varietà di diversi che però la compongono, crescesse proprio per questo la radice della differenza che libera, si trovasse l’alimento di cui si nutre l’innovazione arrischiante, il novum più radicale. La tradizione stessa è il tramandamento delle sue stesse modificazioni; la tradizione è sempre e per statuto “corrotta”. Forse niente come la costellazione filosofica in cui si inserisce l’arte moderno-contemporanea e che questa contribuisce certo a formare, può meglio farcelo comprendere, disponendoci a percepire il presente come polifonia e stratificazione di tempi in 84

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cui passato e futuro convivono, operano e costruiscono. Nel contesto che abbiamo qui delineato, lo ripetiamo, davvero il Quadrato nero rappresenta nel senso letterale sia dell’aggettivo che del sostantivo l’ultima icona. È precisamente attraverso questo cono prospettico che dobbiamo inquadrare il rapporto tra Malevi/ e la tradizione delle sacre icone russe. Le prime icone furono portate da Bisanzio nella Rus’ medievale dal principe Vladimir nel x secolo, quando si compie la definitiva cristianizzazione di quella terra, e con essa si fa sempre più forte e diffusa l’influenza artistica e spirituale della pittura bizantina. I centri principali della straordinaria fioritura iconografica della Russia ortodossa furono Kiev, Pskov, Vladimir, Novgorod e più tardi, intorno al xv secolo, anche Mosca. Bisogna sottolineare e ricordare prima di tutto che l’icona non è un’opera d’arte; piuttosto è un’opera di lode, preghiera e testimonianza cui è necessaria l’arte. L’iconografo non è un artista nel senso moderno del termine ma il prefiguratore del mondo che verrà. Nella purezza della sua definizione dogmatica originale, dunque, essa non lascia alcun spazio né all’espressione o alla fantasia soggettiva di chi la realizza né a una ricezione di tipo estetico da parte di chi la osserva. L’icona non ha nulla a che fare con il soggettivismo laico e secolarizzato tipico della definizione moderna e occidentale dell’arte e dell’attività artistica. La nostra intentio videndi al cospetto di essa non può né deve essere estetistica ma metafisica. Il Concilio ii di Nicea stabilì con estrema chiarezza che al pittore spetta esclusivamente l’aspetto tecnico −elaborato fino all’ascesi− dell’opera, mentre la diataxis, cioè la disposizione e la composizione dell’immagine, spetta ai Santi Padri. Nel Consiglio dei Cento Capitoli del 1551 si ingiunge che «gli iconografi si astengano da fantasie e seguano la tradizione». È la Chiesa dunque che nell’esercizio del suo insindacabile magistero deve riconoscere e certificare la conformità dottrinale e dogmatica dell’immagine prodotta rispetto alla protoimmagine evocata. Gli iconografi devono seguire e applicare i podlinniki, i manuali che dettano le norme tecniche 85

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e le procedure pratiche, e a loro stessi −ove non siano veri e propri monaci− è prescritta una condotta di carattere paramonastico: sono controllati dal Metropolita, devono mantenersi puri, osservare i digiuni rituali e confessarsi regolarmente al loro padre spirituale. Se l’icona è opera testimoniale e non l’espressione di uno stile autonomo e individuale, attraverso il rispetto del canone formale, essa fonda la propria ragione di esistere e acquista il suo significato più completo all’interno del culto collettivo e della comunità che quel culto pratica come traditio veritatis, instaurando così un rapporto fecondo con la cultura che quel canone ha generato58. L’esigenza della forma canonico-ecclesiale, che, ripetiamo, si trova all’opposto del nostrio modello culturale moderno di tipo soggettivistico −e per la cui comprensione profonda, si afferma, non basta una vita− viene considerata dai teorici dell’icona una forma di libertà e non di limitazione o di coercizione. Non c’è una presupposta quanto presunta libera creatività che sarebbe in seguito conculcata dal canone, dalla regola, dalla norma. Il talento è certo indispensabile ma a nulla vale se non è accompagnato dalla santità di una vita ascetica, da una metabolè, cioè da una vera e propria trasformazione dell’esistenza personale operata attraverso l’ascolto e la preghiera. Se nella tradizione iconografica il passato eterno è radice portante del presente, allora essa, rispettandone i dettami, non soltanto è aliena da ogni sensibilismo emotivo, ma non esprime né si conforma a una lex esterna intesa come vincolo pattizio e convenzionale, arbitrario e contingente, bensì entra in pro-

58  Scrive Pavel Florenskij: «Quanto più il canone è fermo e reiterato, tanto più profondamente e puramente si esprime un bisogno spirituale universalmente umano: la cononicità è ecclesialità, l’ecclesialità è conciliare-collettiva, il conciliare-collettivo è universalmente umano», (Le porte regali, cit., p.90). Florenskij ha sempre esplicitamente avversato le avanguardie del suo tempo, che chiama le «correnti più recenti e sinistre» (p.139), impegnate nel «malato e ambizioso ripudio delle forme umane comuni» (p.81). Cfr. su questo punto cruciale e delicato la Postfazione di N. Misler a P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, cit.

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fonda sintonia con un ethos comune e condiviso fatto di regole e norme cui deve prestarsi una cura e un’attenzione particolari. Cura e attenzione evidenti in tutte le fasi del procedimento tecnico della creazione dell’icona, ognuna con un proprio significato metafisico, dalla scelta della qualità del legno per la tavola fino alla stesura dei colori e all’impasto della colla. I veri liberi vengono dunque ritenuti non coloro che esercitano ad libitum il proprio peccaminoso e capriccioso arbitrio soggettivistico, ma coloro che sono vincolati alla comunità etico-religiosa cui appartengono, che hanno perfettamente interiorizzato i suoi precetti provenienti da una dimensione non storica ma carismatico-trascendente e che precisamente in essi, e non nell’esprimere gli alterni, impressionistici, fugaci moti del proprio io individuale, trovano la loro più autentica libertà. I principi stilistici dell’icona tradizionale sono noti e li abbiamo già rapidamente richiamati nella prima parte della nostra ricerca. I chiaroscuri naturali non vengono modellati; grande rilievo viene assegnato al contorno, alla perigraphè delle figure; il colore è piatto, tendenzialmente uniforme, intenso, dal timbro luminoso, ed è sempre usato in senso simbolico, ultraterreno; in assenza di qualsivoglia allusione a profondità spaziali-volumetriche, non esiste né davanti né dietro poiché l’intera compagine visiva si sviluppa su di un unico piano di posa. Le proporzioni sono ignorate e i rapporti di grandezza hanno caratteri simbolico-metafisici e non mimetico-realistici. Sappiamo d’altronde che le espressioni visuali delle prime comunità cristiane −soprattutto per ragioni anti-idolatriche in rapporto al paganesimo− rinunciano all’immagine descrittivo-naturalistica preferendo simboli astratti e quasi pittogrammatici come la colomba e il pesce, la nave o la lira musicale59. La prospettiva rovesciata −il codice visivo che sovrintende all’impianto strutturale dell’icona− crea uno spazio autonomo con sue proprie norme, concluso 59  Lo stesso Agostino, ad esempio nel De civitate dei (cfr. iv, 31,2), considera più puro il culto divino privo di immagini.

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nei confini dell’immagine, ove le leggi di gravità non hanno più corso né valore, e l’astrazione dalle apparenze fenomeniche è completa e definitiva quanto lo è la rinuncia ad ogni genere di arsenale illusionistico per fingere la tridimensionalità spaziale60. L’icona è l’immagine dell’eone futuro, dunque essa è festa, tempo liberato da ananke, cioè non più necessitato dalla catena che in continuità si svolge da un prima a un dopo; è tempo contratto e sospeso dell’evo venturo in cui prende figura il prototipo di quella che sarà l’umanità trasfigurata, resa diafana dallo spirito che finalmente assoggetta la carne. A tutto questo consegue, sul piano stilistico-visivo, che è ignorata ogni unità o congruenza diacronico-narrativa di tempo e luogo: tutti i tempi e tutti i luoghi possono essere convocati insieme nella stessa immagine. La prima esposizione a carattere artistico delle icone antiche avvenne a Mosca nel 1890, durante il Settimo Congresso della Società Panrussa di Archeologia. Del 1904 è il restauro della Trinità di Rublëv ad opera dei monaci della Laura di San Sergio. Del 1913 −anno cruciale, sappiamo, per Malevi/− è la Mostra di Archeologia Cristiana organizzata in occasione del trecentesimo giubileo dei Romanov, in cui furono esposte 147 icone restaurate e liberate dai rifacimenti posteriori. La riscoperta di questo straordinario patrimonio partecipò e dette nuovo e ulteriore impulso alla fioritura artistico-letteraria e filosofica, spirituale e scientifica della Russia tra Otto e Novecento. Malevi/, che aspirava a edificare un nuovo sistema pittorico rigoroso e affidabile, non poteva non rimanere affasci-

60  Cfr. P. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, a cura di N. Misler, trad. it. Gangemi, Roma 2005, e B.A. Uspenskij, Per l’analisi semiotica delle antiche icone russe, in AA.VV., Ricerche semiotiche. Nuove tendenze delle scienze umane nell’urss, a cura di J. Lotman e A.B. Uspenskij; trad. it. Einaudi, Torino 1973. Per quanto attiene agli studi iconologici nella cultura russa dell’epoca, cfr. anche E. Trubeckoi, Contemplazione nel colore. Tre studi sull’icona russa, che contiene scritti dal 1915 al 1918, trad. it. La Casa di Matriona, Milano 1977. Cfr. anche L. Uspenskij, V. Losskij, Il senso delle icone (2003); trad. it. Jaca Book, Milano 2007.

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nato dai principi strutturali che sovrintendono alla tradizione iconografica e al suo significato metafisico, principi dei quali non è difficile ritrovare nella sua opera la Verwindung, la trasmissione-trasformazione. Solo apparentemente, solo “a prima vista”, ripetiamo, essa può considerarsi iconoclastica; in realtà, si trova all’interno della questione (intesa come problema e come domanda) dell’icona, ne sviluppa fino in fondo la logica, ne porta fino all’estremo limite la dialettica. In vari modi e sotto diversi aspetti, questa logica e questa dialettica si trovano trascritte e inscritte nella sua opera come dispiegamento “immaginale” di ciò che precedentemente è privo di immagine61. Nel suo “saggio autobiografico”, come lui stesso lo chiamava, che non portò mai a termine, Malevi/ rammenta l’influsso che ricevette dalla «Mosca delle icone»: gli iconografi, scrive, «raggiunta una grande maestria tecnica, riproducevano il contenuto in una verità antianatomica, fuori dalla prospettiva spaziale e lineare. Il colore e la forma erano da essi creati in base alla percezione puramente emotiva del tema»62. Già in queste parole si riconoscono in nuce alcuni dei principi stilistici e di poetica adottati nella sua opera. Nell’icona segno e colore si danno “in sé”, non devono fingere alcuna profondità naturalisticamente illusiva; ogni descrittivismo è definitivamente superato; ombre e chiaroscuri vengono toto caelo liquidati; i piani e le superfici devono davvero im-porsi come tali nella loro immediata realtà, senza alcuna illusione-allusione tridimensionale; l’immagine, sempre frontale, proprio perché delineata nella sua rigorosa e icastica chiarezza, sa rinviare a ciò di cui immagine non si dà. Questi sono anche i principi essenziali del Suprematismo, ma già nella fase cubofuturista (ad esempio nei già citati Raccolta 61  «L’immagine deve scoprire in sé un’iconoclastia: la sua origine», scrive Andrea Emo nelle sue mirabili, solitarie riflessioni filosofiche sull’arte. E ancora: «L’iconoclastia crea l’immagine, e l’immagine è il ricordo, la memoria della sua iconoclastia» (Le voci delle Muse. Scritti sulla religione e sull’arte 1918-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992, p. 109. 62  K. Malevi/, Autobiografia, in Scritti, cit., p. 373.

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della segale, Taglialegna del 1912-13) all’insieme cromatico −arancio, scarlatto, blu oltremarino, vinaccia, verde intenso− manca solo il diapason dell’oro per ricordare ancor più da vicino i colori dell’icona. Il medesimo genere di innesto e inscrizione delle immagini sacre lo troviamo più che evidente anche nelle cromìe timbriche e squillanti della fase del Suprematismo dinamico (1915-16) e nelle forme a croce ossessivamente ripetute nei dipinti e nei disegni dal 1915 in poi, che riprendono le croci nere sulle vesti candide dei santi, la cui piatta ornamentalità è confermata dal fatto che non vengono modificate in senso plastico delle pieghe del panneggio su cui sono impresse. E infine negli ultimi anni post-suprematisti quando, oltre ai colori accesi e piatti, la ieraticità frontale delle figure intere in sequenza paratattica e dei volti senza volto dei contadini, si rivelano straordinarie trascrizioni dei canoni plastici e delle soluzioni compositive dell’iconografia devota russa. Come noto, Malevi/ appendeva il Quadrato nero leggermente inclinato verso l’osservatore, in alto nell’angolo formato dall’incontro della parete con il soffitto, lo stesso dove nelle dimore ortodosse tradizionali si collocava in forma devozionale e protettiva l’icona verso la quale, entrando, ci si rivolgeva facendosi il segno della croce. E nella nona delle ventidue tavole didattiche utilizzate per le sue lezioni di analisi formale all’inchuk negli anni Venti, compare la riproduzione del Quadrato nero accostata a quella dell’immagine di una Theotokos63. Ma ecco perché il Quadrato nero è icona di nulla: anche la salvezza finale, fino a che è pensata come un oggetto, non è la vera salvezza, che si può trovare soltanto nella grazia, come tale inintenzionale, della non-oggettività64. I santi raf63  Le tavole furono presentate per la prima volta in occasione della mostra curata da Troels Andersen allo Stedelijk dove sono conservate; cfr. la riproduzione nel catalogo, Stedelijk Museum Amsterdam, 1970, p. 121. 64  Cfr. su questo motivo assolutamente decisivo della grazia e dell’inintenzionalità nelle arti moderno-contemporanee il ns. La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, Jaca Book, Milano 2007.

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figurati sulle icone predicano la salvezza, «ma su nessuna icona», scrive Malevi/, «il santo compare come un nulla. Pure, l’essenza divina è la salvazione nel nulla. E questa salvazione è posta nel ciclo delle metamorfosi di tutto ciò che è oggettivo nel non-oggettivo»65. È in questo nulla che dimora la nostra salvezza. *** «Sfinge egizia della nuova sensibilità»: così Nikolaj Suetin, prima allievo poi fido collaboratore di Malevi/, definì il Quadrato nero. Opera enigmatica, certo: eppure che cosa c’è di più semplicemente comprensibile di una forma quadrata, che cosa c’è di più “didascalicamente” evidente? Che cosa di più iconograficamente chiaro tanto da far pensare alla didaké di una nuova alfabetizzazione visiva ai suoi primi rudimenti? Ma un mistero rimane mistero anche se mostrato, anzi proprio perché mostrato. La persona sovraessenziale del Cristo, assunta la carne umana, si è rivelata a noi a misura delle nostre capacità di comprensione, tuttavia Egli rimane celato −come scrive lo Pseudo Dionigi l’Areopagita, già sappiamo− nella sua stessa apparizione. Allo stesso modo, il Quadrato nero “resta nascosto nella sua apparizione”, o meglio è la presentazione semplice, chiara, “didascalica” del mistero, l’esibizione del fatto che c’è mistero: è l’e-videnza dell’enigma. Certo: la verità della bespred’metnost, dell’‘inoggettività’ non consiste, come già abbiamo visto, nel corrispondere o nell’adeguarsi alla cosa ma all’opposto nel negarla mostrandola come nulla, contrapponendosi incessantemente all’inerzia e alla gravità dell’universo fenomenico, poiché per Malevi/ il fenomeno è appunto già da sempre integrato e assorbito nella piattezza oggettiva che appare sensibilmente. Ma ciò non ha niente a che fare con un triviale nichilismo immediatamente liquidatorio. Nel percepire operativamente la non-oggettività, egli in qualche modo costrui­ 65

K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit., p. 67.

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sce una iconologia dell’ascesi aniconica, rende immagine ciò che va oltre la rappresentazione immaginale: tramite il visibile ci dispone −esattamente come fa l’icona tradizionale attraverso la raffigurazione dei misteri della fede− all’invisibile. È precisamente questo il suo Sublime, ed è per questo che il Quadrato nero è la «messa in opera della presenza del niente»66: segno artistico-filosofico non della mera negazione ma dell’assenza. Di un’assenza o meglio di un’astensione che cerca di cogliere con una traccia “in levare” quell’elemento germinale, fontale, posto al di qua del linguaggio −la sensibilità pura, inoggettiva− che rende «manifesta la latenza della poesis»67. Il Quadrato nero (la cui forma geometrica non ha alcuna attinenza simbolico-simbologica) ha un ruolo attivo, costruttivo: deve agire −di nuovo un segno dell’actio in distans tra Malevi/ e la filosofia dell’icona− in funzione, come già accennato, protrettica: così come l’icona asseconda nel fedele lo sforzo di realizzare la somiglianza con il Prototipo, il Quadrato nero prepara, induce, avvia-verso l’esperienza di ciò che non appare, l’esperienza della sovraessenzialità dell’essere come Niente, non-ente; e nello stesso tempo fa nascere e alimenta nell’osservatore l’interrogativo ontologico fondamentale circa la natura stessa dell’arte. Svelare il nulla in un’icona astratta da ogni sensibile rappresentabilità: proprio questo significa non sottomettersi, non cedere alla sua potenza annichilatrice, ma “liberarlo”, liberarne la capacità produttiva. Il mondo senza oggetti rimane un mondo. Non si tratta di esprimere −nonostante le apparenze (ma proprio queste sono in questione!) possano testimoniare del contrario− il senso di una perdita, di un vuoto, di una dissoluzione: questa è la lettura più immediata, semplicemente, “ingenuamente” nichilista. L’Inattingibile non è affatto “soltanto” l’assolutamente Altro, ma l’assolutamente Altro che si rivela appunto come inattingibile nella visio “in-

nominale” del Quadrato nero, e che prelude all’apertura illimitata del Possibile, alla sconfinata, libera, luminosa navigazione nell’infinito che Malevi/ ha lasciato in eredità a tanta parte delle arti moderno-contemporanee: a Yves Klein e a Fontana, a Rothko e a Lo Savio, a Ryman e a Reinhardt. L’ubi consistam aporetico, il fondamento diacritico della grande astrazione di Malevi/ quale icona dell’infigurabile insiste su questo motivo, quasi un filosofema: se non operassi −se non dipingessi− mi comporterei per l’appunto mimeticamente, raffigurativamente nei suoi confronti, tradirei il suo stesso statuto e soprattutto non saprei coglierne l’energheia sprigionante, considererei nulla il Nulla, volgarmente passivo il pathos. Questo sarebbe il vero nichilismo. Identico motivo si trova nella tradizione estremo-orientale. Per evocare esteticamente la visione della vacuità taoista o del vunyata del buddhismo Mahayana è necessario accedere al Campo fenomenico68. C’è sì un altrove ma lampeggia (come vuole Plotino) nell’hic et nunc del sensibile intuìto, pensato e “lavorato” come icona non raffigurativa dell’infinito inappropriabile. Il Quadrato nero non fa “apparire” il Nulla, bensì, manifestandolo, appartiene al Nulla, perché l’ipseità dell’essere non può essere altro che il Nulla e l’ente “Quadrato nero” non è che l’ek-sistere del Nulla.

Il nuovo deserto; nuove arti per sopportarlo, noi anfibi… Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza

Dopo la prima comparsa pubblica del Quadrato nero, il critico conservatore Aleksandr Benois scrisse un articolo in cui attaccava violentemente il punctum saliens di quella che

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G. Di Giacomo, Icona e arte astratta, Aesthetica Preprint, Palermo 1999, p. 56. 67  F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Einaudi, Torino 1975, p. 66.

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68  Cfr. su questo punto T. Izutsu, La filosofia del Buddhismo zen (1977); trad. it. Astrolabio-Ubaldini, Roma 1984, in part. pp. 221 sgg.

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avrebbe dovuto affermarsi come la nuova pittura che va al di là di sé stessa, accusando la persona dello stesso Malevi/ di propagare uno spirito distruttivo e colpevolmente nichilista che avrebbe potuto minacciare le basi morali della società russa. «Davanti a noi», scrive, «c’è adesso la nuova icona del quadrato. Tutto il santo e il sacro, tutto ciò che amavamo e di cui vivevamo è scomparso. Dove prendere le maledizioni perché questa infamia entri nel branco dei maiali e scompaia nel vile abisso?»69. Assoluto è lo spaesamento di fronte all’inaccessibile e inviolabile chiarezza del Quadrato nero, al mistero della sua impenetrabile evidenza. Malevi/ risponde a Benois con una lettera personale («Poiché le porte della stampa mi sono chiuse») che non è soltanto una difesa della propria opera ma anche il Grundriss, la traccia profonda sulla quale si svilupperà tutto il suo percorso artistico e filosofico futuro. «La vostra arte è un’arte che illustra la storia degli aneddoti, un manuale per gli studenti, ma in nessun modo una creazione», scrive Malevi/, ed ecco perché «per voi è difficile scaldarsi davanti al volto di un quadrato, abituati come siete al calore di un bel musetto» (corsivo nostro); ma si può stare certi che «nel mio quadrato non vedrete mai il sorriso della dolce Psiche»70. Ma al di là delle parti più accesamente polemiche (e del tutto scontate nel clima del tempo) troviamo nella lettera una dichiarazione straordinariamente significativa: «Io ho soltanto l’icona nuda e senza cornice della mia epoca, ed è difficile lottare», ma, nonostante ciò, il compito è quello di «andare sempre avanti nel vuoto del deserto. Perché là è la trasformazione» (corsivo no-

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Cfr. K. Malevi/, Scritti, cit., p. 318. Un analogo, ma per molti versi ben più grave e “definitivo” fraintendimento è mostrato da Pavel Evdokimov in tempi più recenti, quando chiede retoricamente: «si può sentire il desiderio di pregare davanti al quadrato di Malevi/?», in Teologia della bellezza (1972); trad. it. Ed. Paoline, Roma 1982, p. 102. D’altra parte, poche pagine prima (p.99), aveva affermato: «se si vuole immaginare la decorazione murale dell’inferno, certa arte contemporanea risponde al compito» (!). 70  Op. cit., p. 167.

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stro)71. Il Quadrato nero è l’icona del xx secolo, l’icona dell’apocalisse distruttrice e rigeneratrice, della restaurazione finale che salva dalla rovina, dalla catastrofe degli oggetti. Ed è un’icona, abbiamo visto, “pre-adamitica”, senza nome proprio, priva di un nome che non sia la propria tautologica autodesignazione; un’icona priva di una protezione storica, simbolica, perfino fisica («nuda e senza cornice») che possa difenderne la legittimità. Ma è l’icona di un tempo che si dischiude al futuro, un tempo che il suo autore sente intensamente come proprio, e per il quale deve, pur tra difficoltà di ogni genere, lottare, combattere aspramente sia sul piano estetico-artistico che su quello morale e politico. Per andare dove? Per indirizzarsi in quale direzione? La risposta è di una straordinaria potenza metafisica: per andare là dove non c’è nessun “dove”, perché nel deserto, in quella astratta località senza luoghi che si rimodella perpetuamente, che non fa che crescere indefinitamente su sé stessa, ogni possibile punto di riferimento nasce e muore in un attimo trasfigurato dal vento. Bisogna avviarsi in direzione di ciò che fa smarrire ogni direzione, perché dove lo spazio sembra soltanto fare spazio allo spazio, orientarsi e perdersi si alternano continuamente fino a coincidere, fino a perdere il loro valore oppositivo. Procedendo nel vuoto del deserto, Malevi/ si dispone all’esperienza del nulla che azzera ogni esperienza, e il nulla −scrive Meister Eckhart nel sermone Ego elegi vos de mundo− «è lontananza e deserto, è senza nome piuttosto di avere un nome»72. In una delle prediche del Cusano im Geistes Eckharts, ‘nello spirito di Eckhart’, Ubi est qui natus rex Iudaeorum?, il dove diventa la categoria cruciale della riflessione, e dopo aver affermato che Dio non ha un “dove” poiché non può essere contenuto in alcun luogo, conclude che Dio stesso «è il luogo»73. Il deserto è allora l’exemplum sen71  Op. cit., p. 166. Malevi/ utilizza la metafora del deserto anche in Suprematismo, cit., p. 138: «la liberazione non oggettiva» lo ha trascinato «nel deserto dove la sola realtà esistente è la sensazione». 72  M. Eckhart, Sermoni tedeschi, trad. it. Adelphi, Milano 1985, p. 93. 73  N. Cusano, Il Dio nascosto, cit. p. 74.

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sibile, la metafora concreta di questa immanenza ubiquitaria, di questo aver-luogo del luogo. Anche Uspenskij, certamente una delle “fonti” di Malevi/, parla a lungo del deserto dell’infinito che si apre davanti a chi supera il mondo delle apparenze sensibili grazie alla sua superiore intuizione. Eppure, nello stesso spaziotempo di questa disperata speranza, Malevi/ comprende che disporsi all’esperienza del nulla può significare disporsi all’esperienza inaugurale dell’Inizio, alla scelta non per i possibili ma per il Possibile in quanto tale. Cioè all’esperienza della libertà come apertura preliminare ad ogni esperire. Nel deserto il nomade non soltanto erra ma anche soggiorna: ed è pazientemente soggiornando che avviene la trasformazione-trasfigurazione di cui parla Malevi/, per il quale la libertà ha senso se prima di ogni altra cosa significa poter non rappresentare-raffigurare-riprodurre alcunché. Mentre l’imitazione è limitazione, mancanza di libertà o forse peggio libertà vigilata, la libertà vera è essenzialmente non imitativa, inoggettiva, non rassomiglia a nulla di già dato, non riflette alcuna istanza antecedente né mima alcuna precedenza74. Così come ogni esperienza di libertà è anche un’esperienza di liberazione, così per Malevi/ procedere nel vuoto del deserto significa colpire strutture chiuse e ordinamenti sovrani, liquidare principi e valori acquisiti, gerarchie stabilite e assetti congelati. Un’esperienza fondamentalmente, letteralmente an-archica, quella della liberazione, in ogni modo indipendente, si badi bene, da ogni successivo, eventuale possibile fallimento (Kant aveva già detto tutto il necessario su questo punto nello scritto Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, del 1798, seconda parte del Conflitto delle facoltà). Pena la sua assoluta incomprensione (“astrattismo formale-geometrico”, “minimalismo concettuale” e via etichettando), occorre individuare con precisione la dialettica intrinseca e immanente che sostiene il Quadrato nero. Da una parte, vive in esso un tempo interno che è memoria di sé e

del percorso che ha fatto per arrivare alla sua attuale configurazione: non esiste nessuna mitologica libertà dell’arte o dell’artista al di fuori del suo contatto con la storia come elemento di attrito. Dall’altra, ma in uno, con il Quadrato nero, Malevi/, per parafrasare Rimbaud, “rende libera la libertà”: catastrofe, trasformazione-trasfigurazione, discontinuità, metanoia operata nel vuoto disorientante ma inaugurale del deserto. Da questo punto di vista, occorre sottolineare con forza che il Suprematismo non significa affatto un accesso immediato a un supposto, sconfinato regno della libertà ove ogni fare è indifferente perché dissociato dall’oggetto e dalla mimetologia raffigurativa che esso implica. In uno schizzo esplicativo di El Lissitskij tratto dagli appunti che stese per una conferenza tenuta a Berlino nel 1922, si vede disegnato un quadrato nero contrassegnato dallo 0; alla sua sinistra gli si avvicina la serie decrescente …4, 3, 2, 1 proveniente dal simbolo matematico dell’infinito seguito dal segno del meno; alla sua destra, si allontana la serie crescente 1, 2, 3, 4…diretta verso il simbolo matematico dell’infinito con il segno del più75. El Lissitskij spiega: «Nel 1913 Malevi/ dipinse un quadrato nero. L’artista ebbe il coraggio di gettarsi allo sbaraglio. Fu creata così una forma che faceva a pugni con tutto ciò che veniva inteso come quadro, pittura, arte. Lo stesso autore intendeva portare allo 0 le forme, la pittura. Noi dicevamo: sì, è lo 0 della serie decrescente, ma è anche l’inizio di una nuova serie ascendente. In altri termini, se è vero che esiste una serie che parte dall’infinito − …6, 5, 4, 3, 2, 1, 0 − una volta giunti allo 0 comincia però una linea ascendente, 1, 2, 3…: 6, 5, 4, 3, 2, 1, 0, 1, 2, 3…Una nuova serie ascendente, ma secondo un’altra concezione della pittura come tale. È stato detto che i secoli hanno portato la loro pittura fino al quadrato perché qui perisse; noi abbiamo obiettato: se la pietra del quadrato ha ostruito lo stretto canale della civiltà pittorica,

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Cfr. J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, cit., p. 154.

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Una riproduzione fotografica dello schizzo di El Lissitskij si può trovare nel catalogo della mostra Kazimir Malevi/ e le sacre icone russe, Electa, Milano 2000, p. 21.

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il suo rovescio forma la possente pietra che fa da base alla nuova costruzione volumetrica del mondo reale»76.

Che cos’è il “rovescio” della “possente pietra” se non la visione invisibile costruita una volta passati “al di là dello specchio”, nel buco-quadrato nero in cui tutta la materia viene dissolta in energia e tutti gli oggetti vengono risucchiati scomparendo in un istantaneo processo di infinita implosione? Malevi/ intuisce perfettamente che anche in questa sorta di oltremondo, anche nel «vuoto del deserto» devono potersi dare leggi e misure “in linea ascendente”, finalmente −questo è il punto decisivo− non imposte da alcuna grammatica autoritativa, da nessuna sintassi pretesa naturale, bensì costruite dal soggetto operante che inventa e trasforma-trasfigura causa sui all’interno del grande Gioco del linguaggio, un Gioco in cui il rischio può diventare mortale. Lo spazio visionario di Malevi/ viene edificato sulla spinta automotivata impressa da un’energia seminale che si rapporta alla vita, alla radicale apertura dell’essere. Ma consentire a questa spinta significa appunto anche scoprire che, come afferma Nietzsche nei frammenti postumi della Volontà di potenza, «ogni arte matura ha alla sua base una moltitudine di convenzioni: in quanto è linguaggio. La convenzione – la condizione della grande arte, non ne è l’ostacolo»77. Ed è così che, allo stesso modo e secondo la medesima esigenza, nell’assenza indicata da quel vuoto desertico nel quale Malevi/ −con la sua severa, iperbolica ricerca dell’assoluto, con la sua maestosa, ieratica purezza spiritualista− si fa avanti, può rivelarsi un incessante pullulare di possibili da inventare. Non è forse a causa della sparizione, dell’assenza di un corpo che si crede nel Cristo risorto? Non è forse proprio il vuoto del sepolcro all’interno del quale non c’è niente da vedere se non il vuoto stesso, ciò che inaugura, fonda e sostie-

ne il cammino storico della fede cristiana, mostrando così che quel niente è tutto (cfr. 1 Corinzi 15, 12-6)? Il cristianesimo non è forse la fede nel fatto che quel sepolcro sia veramente vuoto? In una lettera dell’estate del 1913 indirizzata all’amico Matiušin quando lavoravano insieme alla Vittoria sul sole, Malevi/ rivela toto caelo questa coscienza straordinariamente lucida del dovere assoluto di costruire “secondo legge” anche nel vuoto del deserto: «Siamo giunti a rigettare la ragione, ma lo abbiamo fatto perché un altro genere di ragione è cresciuto in noi, che a paragone con ciò che abbiamo respinto può chiamarsi oltre-ragione (zaum’ny), che possiede anch’essa legge, costruzione e senso, e soltanto imparando questo potremo fare un lavoro basato sulla legge della nuova, veritiera oltre-ragione […] sto cominciando a capire che in questa oltre-ragione vige anche una dura, severa legge che fornisce alle immagini il loro diritto ad esistere. E neanche una linea deve essere tirata senza la coscienza di questa legge; soltanto così saremo vivi»78 (corsivo nostro).

«Neanche una linea…». Malevi/, teso verso un più alto ordine del reale, pone con grande, “definitiva” forza etica l’esigenza della costruzione e del controllo, della possibilità che può emergere soltanto dal vincolo più stretto, fa dell’arbitrio l’estrema norma, accetta la legge ma perché resa finalmente propria, interiorizzata in coscienza trasformatrice che parla una lingua pura, redenta, pronta a diventare il nulla in risposta alla totalità diventata domanda. *** Ma è indubbio che il miglior commento del Quadrato nero risale a cinque secoli prima, al 1453. In quell’anno Niccolò Cusano scrive il De visione dei (o De icona): un testo

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El Lissitskij, Il Proun, trad. it. in V. Quilici, L’architettura del costruttivismo, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 99. 77  F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., p. 439.

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Cfr. C. Douglas, Beyond Reason: Malevi/, Matiushin and Their Circles, cit. p. 188. La traduzione dall’inglese è nostra.

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vertiginoso, mirabilmente teso e intenso, che bisognerebbe leggere in dialogo con l’altro grande scritto cusaniano, il De possest, di sette anni dopo. È nell’esigenza genealogica che abbiamo richiamato all’inizio e in direzione di uno statuto critico-aporetico dell’immagine, che si inscrive un dialogo a distanza −ma di una distanza che rivela l’archiunità di pensiero e poesis− tra l’“arte filosofica” suprematista di Malevi/ e la speculazione teologico-negativa. Le circostanze che hanno originato il De icona riguardano l’invio da parte del suo autore di una tavola che raffigurava il volto del Cristo dalle caratteristiche percettive particolari ai monaci benedettini del Tegernsee, ai quali lo scritto è dedicato e che il Cusano spera di introdurre sperimentalmente, tramite questa sollecitazione esterna, nelle sacre oscurità della teologia mistica e della docta ignorantia. Il volto di Cristo vi è dipinto in modo tale che il suo sguardo sembra seguire gli osservatori qualunque siano i loro movimenti. Il libellus iconae propone questa immagine ad esempio sensibile dell’onnivedente ma mai veduto sguardo di Dio: Cusano ragiona dunque attorno all’impossibilità di concepire il Volto divino. Lo stesso Mosè, come noto, potè vedere hywh solo «di spalle» (Esodo 33, 20-3). Nemmeno con il più raffinato esercizio dell’intelletto −che pure in sé comprende e supera le innumerevoli contrazioni della sfera sensibile− potremmo mai concepire il Volto incontraibile, astratto da ogni contrazione, cioè liberato da ogni limitazione. Questo Volto dimora nell’oscurità, nella tenebra, nella caligine. Le immagini della nube e della tenebra, dell’oscurità e della caligine caratterizzano molte delle teofanie dell’Antico Testamento. «Il Signore disse a Mosè: “Ecco io sto per venire verso di te in una densa nube”» (Esodo 19, 9); hywh «si avvolgeva di tenebre come di un velo» (Salmi 18, 12). Abbiamo già visto che anche la luce taborica emanata dalla trasfigurazione di Cristo davanti a Pietro, Giovanni e Giacomo, sarà seguita dalla tenebra: «Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio 100

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mio, l’amato: ascoltatelo!» (Marco 9,7). Da queste immagini bibliche −metafore che esprimono appunto l’inconoscibilità divina− prende origine nella tradizione esegetica (prima in Filone di Alessandria poi, soprattutto, in Gregorio di Nissa) lo schema della lettura allegorizzante del problema costituito dalla visione di Dio conseguente all’ascesa mistica. Esse quindi conducono alle tipiche, paradossali, deliberatamente autocontraddittorie formulazioni della teologia negativo-apofatica. I temi dello skotos e dello gnophos, dell’‘oscuro’ e della ‘tenebra’−diventati un locus classicus della speculazione patristica− arrivano al Cusano dall’elaborazione che ne ha sviluppato lo Pseudo Dionigi l’Areopagita, che insieme a Agostino, Scoto Eriugena (che tradusse gli scritti dello Pseudo Dionigi) e Meister Eckhart, rappresenta l’autore che ha maggiormente influenzato il suo pensiero teologico. Sulla scorta di Filone e dei passi biblici, Gregorio di Nissa aveva già parlato, nella Vita di Mosè, della «tenebra luminosa» come unica possibile manifestazione teofanica dell’Inconoscibile. Afferma lo Pseudo Dionigi nella Teologia mistica che, mediante la preghiera, la speranza del cristiano è quella di raggiungere la «tenebra luminosissima, per vedere tramite la cecità e l’ignoranza, e per conoscere il principio superiore alla visione e alla conoscenza proprio perché non vediamo e non conosciamo; in questo consistono infatti la reale visione e la reale conoscenza»79. In questo brano è sintetizzata l’essenza stessa della teologia apofatica −procedente non per affermazioni ma per negazioni− e della sua lucidissima, “spietata” dialettica mistica: essa va còlta nell’esperienza vivente, ma questa esperienza si confronta con ciò che non può cogliere. Dio è conosciuto unicamente nell’atto di non poterlo conoscere. Dall’inconoscibilità-incomprensibilità di Dio da parte dell’intelletto umano consegue l’identità paradossale tra conoscenza e agnosia, l’‘inconoscenza’ che è odos, ‘via’ alla enosis, all’‘unione’ con il Supremo. Trascen79  Pseudo Dionigi l’Areopagita, Gerarchia celeste.Teologia mistica. Lettere, cit., p. 108.

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dere il visibile e il conoscibile significa penetrare nella «tenebra luminosissima e veramente mistica dell’agnosia» e così addivenire all’‘unione’ sovrarazionale80: non conoscere più nulla significa conoscere al di là del semplice intelligere, poiché l’essenza sfugge al metodo della logica deduttiva. Questo motivo apofatico percorre tutta la Teologia mistica e le prime cinque Lettere che ne sono il commento. La tenebra che simboleggia l’impossibilità di vedere-conoscere non rimanda, però, a una pura e semplice privazione, l’agnosia non è sterile e inconcludente negatività. Significa invece esperire, sperimentare (tutti i mistici sono grandi, lucidissimi sperimentatori di sé stessi) la docta ignorantia, la profonda inalterabile consapevolezza dei limiti immanenti all’atto umano del conoscere, di cui il primo rappresentante nel mondo pagano fu ovviamente Socrate. Nelle tenebre in quanto Luce inaccessibile (epperò internamente illuminata e percorsa da bagliori come la Nube di Deuteronomio 4, 11) si trovano tutti coloro, scrive lo Pseudo Dionigi nella Lettera v, «che sono ritenuti degni di vedere e conoscere Dio: proprio perché non vedono e non conoscono, si trovano veramente al di sopra della visione e della conoscenza»81. Pe-

80  Op. cit., p. 107. Bisogna ricordare, tuttavia, che nemmeno la visio beatifica potrà essere assoluta, potrà godere davvero direttamente della quintessenza divina, poiché rimane pur sempre un modo dell’intelletto che coglie una teo-fania, cioè non la Gloria in sé ma una delle modalità attraverso le quali essa si concede all’apparire. È opportuno ricordare anche ciò che scrive JeanLuc Marion e che non ci sembra limitato al recupero più o meno filologicamente corretto di un’occorrenza lessicale: «Dionigi non usa nulla che si possa tradurre con ‘teologia negativa’. Se parla di ‘teologie negative’, al plurale, non le separa dalle ‘teologie affermative’ con le quali hanno i rapporti che qui [nel capitolo iii della Teologia mistica, ndr.] vengono sono descritti», in L’idolo e la distanza, cit., p. 192, nota 6. Vedi anche −in stretto dialogo con il libro di Marion e a proposito di Dionigi− intorno alla possibilità semantico-concettuale e alle stesse condizioni linguistiche di quella che si è chiamata una teologia negativa, J. Derrida, Come non parlare. Denegazioni, in Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. 2 (1987-2003); trad. it. Jaca Book, Milano 2009. Per quanto riguarda la complessità sia storica sia teologica dell’apofatismo, cfr. E. Jüngel, Dio mistero del mondo (1977); trad. it. Queriniana, Brescia 1982, pp. 297-390. 81  Op. cit.. p. 123.

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netrare nella Tenebra è quindi il modus dell’apprensione mistica, entrare nella Caligine è la modalità attraverso cui si manifesta a noi la Luce divina, ed è l’unico mezzo di cui disponiamo per accedere −nella misura del possibile− al contatto con una Presenza della quale −pur perpetuamente sottraentesi− godiamo una volta pervenuti alla enosis estatica, all’«abbandono incondizionato assoluto e puro al raggio sovraessenziale della tenebra divina»82. Si tratta di una ricerca perpetua, incompiuta e incompibile; eppure fonte di beatitudine perché unica viva esperienza che ci sia concessa. Rimane che l’inaccessibilità e la conseguente invisibilità causate dalla divina Caligine procedono dall’eccesso sovraesponenziale di splendore, dalla voragine di luce eccezionalmente diafana alla quale non si può accedere a causa dello straordinario bagliore che rende Dio atheatos, ‘incontemplabile’ tenebra perché posta al di là dell’opposizione tra luce e oscurità, fuse in un impensabile-impredicabile Uno plotiniano, oggetto paradossalmente inoggettivo della sublime agnosia del soggetto mistico. Ed è proprio in virtù di questa sovraessenziale archiunità che dissolvendoli raccoglie in sé i contrari, che lo Pseudo Dionigi arriva alla ultimativa indifferenza di Luce e Oscurità, in cui ha termine anche la subida che lo aveva condotto fino a quell’estremo confine, a quel punto-limite. Il movimento immanente della dialettica apofatica porta a negare la negazione stessa, e Dio, dopo essersi posto oltre ogni luce, trascende anche l’opposizione tra Luce e Oscurità. La Luce inaccessibile è Caligine divina e la Tenebra è il modus dell’apprensione mistica. Il De visione dei cusaniano riprende (talora letteralmente) e sviluppa con mirabile nitidezza questa tradizione esegetico-speculativa che procede più per immagini che per concetti. Scrive dunque Cusano che per concepire il Volto divino:

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Op. cit., p. 106.

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«bisognerebbe andare oltre le forme di tutti i volti formabili, oltre tutte le figure […] in tutti i volti appare il volto dei volti in modo velato ed enigmatico. Esso non si rivela finché non penetriamo, al di sopra di tutti i volti, in un segreto e occulto silenzio […] questa è la caligine e la nebbia, la tenebra […] e questa caligine rivela che qui si trova il volto al di sopra di tutti i veli […] ma poiché cerca di vedere la luce che non può vedere, il nostro occhio sa che, fintanto che vede qualcosa, questo non è ciò che cerca: deve, dunque, trascendere tutta la luce visibile. Chi deve trascendere ogni luce, deve sapere che ciò in cui penetra è privo di luce visibile […] quanto più l’occhio sa che la caligine è grande, con tanta maggiore verità coglie nella caligine la luce invisibile […] perciò esperisco che è necessario che entri nella caligine e ammetta la coincidenza degli opposti oltre ogni capacità della ragione, e cerchi la verità ove mi imbatto nella impossibilità, oltre la ragione […] e quanto più oscura e impossibile è riconosciuta una tale impossibilità tenebrosa, con tanta maggiore verità la sua necessità risplende. Perciò, Dio mio, ti ringrazio per avermi rivelato che non c’è altra via per accedere a te fuorché quella che è sembrata completamente inaccessibile e impossibile […] perché hai mostrato che puoi essere visto solo dove l’impossibilità sopraggiunge e ci viene incontro»83.

Fin qui Cusano. È evidente e straordinaria l’“affinità elettiva” con Malevi/. E certamente con Vittoria sul sole e il suo «Salve tenebra!». Se il volto di Dio è invisibile perché non è un oggetto, allora quando nulla vedo sono ad esso più prossimo. La verità è tale, è autenticamente verità, già lo sappiamo, solo se non teme la propria negazione, se assume il proprio contrario, solo se contiene già in sé il limite che la può abolire, solo se in sé è già “relativa”. Proprio il velo enigmatico del Quadrato nero è lo stato estetico della Luce che evoca l’impossibile e l’inaccessibile, è la rivelazione iconica della quinta essenza, ri-velazione che appare, insieme, il movimento di togliere e di aggiungere il velo, movimento in cui 83  N. Cusano, La visione di Dio, in Opere filosofiche, utet, Torino 1972, pp. 554-5 e 562.

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permane l’arcano che consiste nel donare visibilità all’invisibile. Rivelazione, dunque, che permane carica di mistero. Lo sappiamo: «Tutto ciò che è manifestato è luce», scrive Paolo agli Efesini (5, 14). Ma il Quadrato nero è luce implosa perché richiamata alla propria fonte, ricondotta alla propria origine: origine di inaudita, insopportabile concentrazione dove la massa immane degli oggetti è risucchiata nel buco-quadrato nero di pura energia. La luce “esplosa” non soltanto “mette alla luce”, mette a giorno gli oggetti, li porta all’apparire, ma così facendo ne sovrintende la distinzione, la separazione, la parcellizzazione che ne permette l’analisi. È l’apriori del loro utilizzo più o meno proprietario, del loro consumo. La luce non è un fenomeno tra gli altri; è piuttosto ciò che rivela i fenomeni, è l’archi-immagine perfetta della pura gratuità. Tuttavia, non può dirsi un semplice, preliminare medium, un mero veicolo; può considerarsi, invece e prima di ogni altra cosa, informazione allo stato puro, messaggio senza contenuto, pura medialità, esser-mezzo del mezzo. Dio, secondo Agostino, è lumen de lumine, luce increata e originaria, spontaneità sorgiva, protocreativa, protoproduttiva. Ma ove la luce rimanesse a questo stato archetipale, se l’En Sof −l’infinito divino della mistica ebraica− cioè il nulla senza luce non propagasse luce, se permanesse in se ipse, ‘in sé stessa’, rinserrata nel mistero della propria insondabile fonte, allora la sua vista non sarebbe sostenibile perché nella sua potenza inarginabile annichilirebbe, inghiottirebbe ogni possibilità di visione, e nessun oggetto potrebbe distinguersi-percepirsi-enumerarsi. Perché qualcosa si manifesti, perché possiamo vedere-apprendere oggetti, immagini, figure, è necessario che quella Luce si affiochi, si indebolisca, incorpori la propria ombra, l’ombra che le è fin da sempre intrinseca, immanente84. Luce nascosta che nasconde: «Le immagini sono manifestate all’uomo e la luce che è in esse è nascosta nell’immagine della luce del Padre», recita il logion 83 del Vangelo secondo Tommaso, uno dei più 84

Cfr. M. Cacciari, Generare Dio, il Mulino, Bologna 2017, pp. 33-40.

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importanti scritti gnostici copti. E prosegue: «Egli si rivelerà, e la sua immagine è nascosta dalla sua luce»85. Il Quadrato nero è la cusaniana “impossibile-inaccessibile” icona della Luce che si identifica toto caelo con la propria Ombra, l’Ombra assoluta dalla quale non può riemergere alcun oggetto: «Sei dunque, Dio mio, così ombra da essere verità»86. Pura medialità “prima” (se la dimensione temporale valesse qui qualcosa) che essa illumini e riveli gli oggetti, “prima” di affiochirsi in medium. «Il cuore della luce è nero», diceva Bachelard. Il Quadrato nero è questo cuore e non altro. Potremmo anche dire: come lo splendore pneumatico del logos-Verbo si fa ancora più rilucente proprio nella sua kenosis, nel suo più profondo svuotamento, fino all’opacità del sensibile umano, così il Quadrato nero esprime l’apice del luminoso, che non può che apparire altro che come luce implosa, che (si) trattiene (in) sé stessa. E se vedere è vedere qualcosa che è per definizione già-là e rispetto al quale la mia visione non può che essere derivata, se nel Quadrato nero non si esprime questa o quella fenomenologia della luce ma la catastrofe ontologica cui è destinata, allora è del tutto evidente che in quel cuore nessun oggetto può ancora venire ricordato, nessuna figura può ancora designare alcunché. Certo il Quadrato nero stabilisce i nuovi rapporti che si producono da quella ri-velazione, ma essi non sono immediatamente visibili-concepibili: «nella nebbia dei nuovi rapporti», scrive di nuovo “cusanianamente” Malevi/, «svaniscono vista e intelletto»87. Soltanto l’oblìo in cui ogni figura, ogni oggetto deve cadere, attesta che l’inoggettività è appunto il Nulla che (è all’)opera e che trascende tutta la luce visibile. Ecco allora che andare al di là della rappresentazione oggettiva significa aprire uno spazio puro, significa cercare di accordarsi alla dynamis che innerva il Tutto, aderire per 85  Insostituibile su questo motivo gnostico e sull’analisi del Vangelo di Tommaso, è la raccolta degli studi di Henri-Charles Puech, Sulle tracce della Gnosi (1959, 1978); trad. it. Adelphi, Milano 1985. 86  N. Cusano, La visione di Dio, cit., p. 577. 87  K. Malevi/, Suprematismo, cit., p. 87.

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quanto possibile intimamente, “eroticamente” alla insedabile energia di ciò che Cusano chiama il possest come inscindibile unità e co-incidenza in Dio di atto e potenza: «potere-è, cioè che lo stesso potere è. E poiché ciò che è, è in atto, potere-essere è lo stesso che potere-essere-in-atto […] è l’atto di ogni potenza»88. Soltanto in Dio ogni poter essere è in atto, e a quest’altezza solo l’ascesi −e la sua iconologia aniconica− può condurre: ascesi dagli oggetti, dai volti “contratti”, dalle forme formabili, soltanto superando e “dimenticando” ogni contrazione fenomenica, ogni limitazione sensibile si potrà arrivare all’osvoboz’dennoie ni/to, al ‘nulla liberato’, ‘riconquistato’. Non di altro si tratta se non della ablatio terminatorum, della liquidazione di ogni confine, cioè della «via che cancella ogni cosa che sia delimitata» di cui parla il Cusano nel De quaerendo deum: ma che si trova «dentro di te»89, nel fondo senza fondo dell’anima. *** L’altro motivo che avvicina la speculazione iconico-teologica cusaniana alla poetica suprematista di Malevi/ fino a costituirne quasi un “commento anticipato”, è quello del volto. Che qui dobbiamo intrecciare ai motivi dello sguardo e dello specchio in una sorta di triangolazione interpretativa. Il volto è nell’icona il luogo epifanico in cui si rivela il nesso con l’invisibile che trasfigura lo sguardo spiritualizzandone la fisicità, e gli occhi dei santi, ai quali non a caso gli iconografi riservano una cura particolare, sono la manifestazione fenomenica del noumeno, il riflesso riconoscibile dell’immagine di Dio. L’icona su tavola del volto di Cristo che Cusano ha donato ai monaci, e il cui sguardo segue in tutti i suoi movimenti chi lo contempla, è la metafora contratta, l’exem-

88  N. Cusano, Il possest, in Scritti filosofici, vol. i, a cura di G. Santinello, Zanichelli, Bologna 1965, p. 251. 89  N. Cusano, La ricerca di Dio, cit., p. 32. «La nostra luce è dentro», cantano di budetl’jane della Vittoria sul sole!

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plum “umbratile”, del luminosissimo divino Volto incontraibile che contempla e com-prende in sé tutti i volti umani: Dio guarda simultaneamente tutti e ognuno come lo sguardo di Cristo del dipinto. Bisognerà intanto ricordare che l’occhio divino dell’archetipo iconografico, l’occhio onnivedente, viene “trascritto” già nel Ritratto perfezionato di Ivan Kljun del 1913, dove esso è spezzato in due parti riaccostate in modo asimmetrico e sfalsato come se l’occhio fosse impegnato in una visione multipla. Se vogliamo, però, intendere bene questo passaggio in tutte le sue implicazioni, dobbiamo fare una diversione. Ma solo apparente. Il prototipo acheropìta della Veronica −il Sacro Volto di Gesù, “concorrente” del mandylion bizantino− era conservato in un’edicola con altare posta davanti all’oratorio della Vergine all’inizio dell’ultima navatella destra della Basilica Vaticana. Veniva mostrato ai pellegrini per l’occasione giunti a Roma da una postazione probabilmente così lontana che essi riuscivano a scorgere soltanto il riflesso abbagliante dei cristalli, dell’oro e delle pietre preziose che incorniciavano l’icona90. Questa cerimonia liturgica di ostensione pubblica della sacra imago, che lascia impercepito e fuori portata l’oggetto stesso che ne costituisce la ragione, e che dunque, invece di placare, ravviva il desiderio di visibilità e la pulsione scopica proprio al cospetto della vera icona, viene utilizzata da Dante come termine di comparazione al momento in cui il poeta è introdotto da San Bernardo alla visione dello splendore della gloria celeste di Maria: «Qual è colui che forse di Croazia/viene a vedere la Veronica nostra,/che per l’antica fame non sen sazia,/ma dice nel pensier, fin che si mostra:/Signor mio Gesù Cristo, Dio verace,/or fu sì fatta la sembianza vostra?» (Paradiso xxxi, 103-8). L’aspetto riconoscibile, l’e90  Impossibile qui rendere conto della copiosissima letteratura sulle immagini acheropìte. Ci limitiamo a segnalare H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo (1990); trad. it. Carocci, Roma 2001, in particolare pp. 71-104 e 255-77, e G. Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta (2008); trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2009, in particolare pp. 66-86.

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videnza mimetica, il tratteggiarsi figurale-associativo dell’icona miracolosa (cioè, come già sappiamo, il charakter della carne divina nell’accezione greca di ‘impronta’, ‘indice’, ‘traccia’ impressa per contatto diretto, nel caso dell’acheropìta, sulla superficie, e non segno convenzionale che rinvia a un assente) sembrano ritrarsi (di nuovo compare questo motivo) nel momento stesso in cui si espongono alla massima visibilità del rituale pubblico, lasciando così inappagato il desiderio del fedele. Come interpretare questa contraddizione, questo paradosso? In realtà, l’«antica fame» deve rimanere insaziata e insaziabile per lasciare spazio a quello che nella speculazione teologica sull’icona (nel Cusano ciò risulta assolutamente evidente) è chiamato a essere il vero, autentico soggetto dell’immagine, cioè proprio chi contempla, l’osservatore, il fedele che −in operosa attesa della theosis, della visione intuitiva “faccia a faccia”− ha come preciso compito cristiano nella vita terrena (abbiamo già diffusamente analizzato questo punto) quello di impegnare tutte le sue forze − aiutato e indotto dalla visione dell’icona− nell’imitatio Christi. L’impegno dunque è quello di vedere sulla superficie del Santo Volto null’altro che il proprio volto riflesso come in uno specchio, perché tramite Cristo il fedele viene trasformato in un’immagine sempre più perfetta di Dio: il desiderio dell’unione completa rimane sì insaziato e inappagato, la distanza, la lontananza restano sì i fattori dirimenti, ma precisamente in virtù di questa tensione spirituale dinamica e asintotica, il fedele contemplante viene spronato, stimolato a meritare di corrispondere per quanto possibile, in una sorta di paradossale contatto a distanza, a quell’immagine “non fatta da mano d’uomo”. Ecco perché Cusano scrive che Dio è «occhio e specchio vivente», uno specchio da contemplare «nell’icona, nell’enigma»91. Spesso Malevi/, lo abbiamo già visto, parla del suo Quadrato nero come di un volto: «sono felice che il volto del mio Quadrato non possa confondersi con nessun artista e nessu91

N. Cusano, La visione di Dio, cit., pp. 560 e 550.

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na epoca»92. Lo spettatore del Quadrato nero è coinvolto in una sorta di scenodramma ispettivo. L’atto del vedere, non trovando sulla superficie alcun oggetto determinato o punto d’attacco cui riferirsi, è come se si specchiasse (Lo specchio suprematista è il titolo di un enigmatico testo di Malevi/) ritornando su sé stesso. «Ogni volto che può intuire il tuo volto non vede niente d’altro o di diverso da sé, perché vede la sua verità», scrive Cusano nel De icona93. Se Dio ci ha destinati a essere «conformi all’immagine del Figlio suo» (Romani 8,29), scrive Paolo, allora noi tutti «a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Corinzi 3,18). L’Invisibile appare nella visibilità stessa, come il nulla-da-vedere del Quadrato nero si rivela alla vista: «Che cos’è il mondo», si afferma nel Possest, « se non l’apparizione del Dio invisibile? E che cos’è Dio se non l’invisibilità delle cose visibili?»94. Come se in quel bagliore oscuro, in quella gloria nera, in quella tenebra che ha risucchiato tutta la luce, in quello che abbiamo chiamato il dramma del visibile, la condizione di ogni possibile sguardo, di per sé inesperibile perché presupposto dell’esperire, si offrisse eccezionalmente, essa stessa, all’esperienza. Un’esperienza dello sguardo che in quel fissarsi sul nulla, in quel vedere che sembra eccedere la propria misura, si libera dalla disperazione del rinvio interminabile e sfibrante da un segno all’altro, da un oggetto all’altro. Ma tutto ciò è un traguardo, non un dato; è un pun92

K. Malevi/, Scritti, cit., p. 165. La frase si trova nella citata lettera a Benois. Se teniamo presente la ieratica frontalità del Quadrato nero e il fatto che il suo autore, come già abbiamo ricordato, lo chiamava il suo “infante regale”, non può essere senza interesse sottolineare che Florenskij, nelle sue riflessioni sul volto nelle icone, assieme agli Dei e ai santi, ai Giusti e ai Saggi, metteva anche «gli Infanti» tra gli oggetti autenticamente degni della rappresentazione frontale, l’unica che manifesti in toto il senso sacrale dell’immagine, cfr. Lo spazio e il tempo nell’arte, cit., p. 106 sgg. 93  N. Cusano, La visione di Dio, cit., p. 553. 94  N. Cusano, Il possest, cit., p. 309. Abbiamo già visto questo motivo apofatico evocato dall’Eriugena.

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to di tensione, non un presupposto. «Fuori della dimensione viveva il Volto», scrive Chlebnikov in una sua poesia95. Proprio questa, infatti, è la funzione “propedeutica”, proprio questo è l’elemento asintotico, protrettico (e gnostico) “liberato” dal volto-specchio dell’icona del Quadrato nero: lo spettatore deve adeguarsi a quella “tenebra luminosa”, deve corrispondere al nulla che esso rivela-manifesta e riconoscervi il suo vero volto (il suo vero sé), che è al di là di ogni latitudine puramente terrena-terrestre. Ma il primo a doversi riconoscere è naturalmente lo stesso Malevi/. Che nel 1913 scrive: «Io cerco Dio, mi cerco in me stesso. Dio onniveggente onnisciente onnipotente […] Io cerco Dio, cerco il mio volto, ne ho già tracciato il profilo e sto lottando per incarnare me stesso»96. *** Nei suoi scritti dal carattere più speculativo, Malevi/ fa continuamente riferimento al dato dell’emozione. Che, tuttavia, non è per l’appunto affatto un “dato” ma, per così dire, una pre-datità assoluta e inderogabile. Il reale raggiunge la sua verità ultima soltanto nell’emozione: che non ha né scopo né senso, né tempo né spazio, non ha coscienza né numero, è illimitata e inafferrabile. Solo l’arte inoggettiva del Suprematismo può in qualche modo, dandole un corpo, intuire ed esprimere −ma non, a rigore, “rappresentare”, come fosse un dato esterno− la sua potenza originaria, poiché già l’emozione stessa è metallo allo stato fluido, pre-oggettivo, pre-rappresentativo. Ma tutto ciò possiamo meglio comprenderlo soltanto se ricordiamo il modo in cui Malevi/ definisce il Suprematismo: sensazione pura, sensibilità pura. Che cosa significa precisamente? Significa forse sensazione 95

V. Chlebnikov, Poesie, cit., p. 11. Cfr. K.S. Malevich, The Artist, Infinity, Suprematism. Unpublished Writings 1913-33, a cura di T. Andersen, Borgens Forlag, Copenhagen 1978, pp. 29 e 12. La traduzione dall’inglese è nostra. Un’altra traduzione del brano si trova in A.B. Nakov, Un nuovo Laooconte, cit., p. 14. 96

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di niente, di nessun ente definito o configurato oggettualmente? Sensazione priva per l’appunto di quel substratum, di quell’objectum, di quel referente esterno del quale risulterebbe la sensazione? La possibilità che si produca una situazione sensoria di questo particolare genere è a tutti gli effetti e senza appello esclusa da Aristotele in un passo della Metafisica: «Invero la sensazione non è affatto sensazione di sé stessa, ma esiste anche qualcosa di diverso al di fuori della sensazione stessa, ed è indispensabile presupporre l’esistenza di questo qualcosa come anteriore alla sensazione, giacché ciò che muove è, per natura, anteriore a ciò che è mosso» (1010b). Noi possiamo percepire unicamente il referente esterno del nostro atto percettivo, non possiamo percepire il mezzo tramite il quale quell’atto si produce: io non vedo la vista, vedo il tavolo; io non tocco il tatto, tocco il legno. Consegnandomi in immagine l’oggetto, la visione, che è sempre visione di qualcosa, cela a sé stessa il proprio operare: la percezione induce la coscienza a farsi assumere come mera passività di fronte al percepito, percezione impercepita in quanto tale. Secondo questo cono prospettico, la percezione senza oggetti di cui parla Malevi/ è un’ossimorica sfida alle leggi della logica che soltanto un artista poteva lanciare. È precisamente e soltanto quello che Aristotele chiama il to on −ciò che c’è, che esiste−, è l’esistenza empirico-fattuale dell’oggetto sul quale si esercita (che, per l’appunto, cade sotto i nostri sensi) a legittimare, a istituire qualcosa come la sensazione in quanto tale. E quindi, proprio per questo, a segnalare e sanzionare l’inammissibilità logica di una sensibilità a carattere autoreferenziale e l’impossibilità ontologica di un sensorium che in un moto di pura autoaffezione avrebbe a oggetto sé stesso. Perché questo tipo di particolare, “anomala” sensibilità potesse attivarsi, potesse prendere vita, occorrerebbe oltrepassare il tempo e lo spazio, che sono però le condizioni a priori (le forme della sensibilità) che permettono ai nostri sensi di poter percepire ed esibire (e certo anche pensare) un oggetto percepito ed esibito (e pensato) nello spazio e nel tem112

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po. Occorrerebbe paradossalmente “sentire” i propri sensi, avere sensazione dei sensi stessi: cioè una sensazione o un’emozione assolutamente pure, letteralmente sciolte da ogni referente, per l’appunto inoggettive. Di analoga, impossibile torsione autoreferenziale scrive Cusano nel De possest: «Dio non può essere concepito; a meno che non si riesca a concepire in atto la stessa concepibilità»97: a meno che non si riesca, cioè, a concepire in atto la potenza stessa (è in termini simili, si ricorderà, che abbiamo cercato di interpretare la visione gloriosa dei discepoli sul monte Tabor). Qualunque tipo di intenzionalità −che è strutturalmente e non incidentalmente connessa a un principio di volontà− resta impigliata (lo abbiamo già precisato) nella relazione a un oggetto, e per estensione a un’immagine associativa, analogica, mimetica. In Malevi/, si potrebbe dire, non vi è intentio ma intensio: accrescimento esponenziale di intensità della sensazione pura, dell’emozione pura, che si libera in maniera del tutto indipendente da situazioni, schemi e protocolli categorizzabili come teleonomici, finalistici. Nell’opera dipinta e nell’opera scritta di Malevi/, l’arte moderno-contemporanea raggiunge l’apice, il vertice della kantiana assenza di scopi del suo fare, si dirige verso l’Inutilizzabile più puro. Quella evocata, anzi esplicitamente lanciata dall’artista alla ricerca della necessaria costruibilità del “mondo senza oggetti”, è appunto una sfida consapevole e programmatica all’impossibilità di una sensazione pura, di una percezione senza oggetto, di un’emozione senza referente. Giacché bisogna arrivare al luogo, scrive Cusano nel De icona, «ove l’impossibilità coincide con la necessità»98. Per un artista l’impossibile non è mai un freno, non rappresenta mai un limite aprioristicamente insuperabile, ma un elemento di confronto, di sfida, di dialogo operativo, non di “soluzione”. Proprio dei possibili (possibili opere, possibili pensieri) ai quali, per così dire, quella costitutiva impossibi97  98

N. Cusano, Il possest, cit., p. 277. N. Cusano, La visione di Dio, cit., p. 563.

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lità dà luogo, è profondamente, drammaticamente segnata l’intera esperienza artistico-filosofica di Malevi/. Un’esperienza aporetica, o meglio un’esperienza dell’aporia −in Aristotele l’aporema è il sillogismo che conduce a due proposizioni contraddittorie ma di uguale valore− cioè un’esperienza della mancanza di un passaggio, dell’assenza di un odos, di una strada, di un percorso. Un’esperienza che è difficile non avvertire misteriosamente, sotterraneamente evocata nello straordinario, enigmatico primo frammento degli Oracoli caldaici: «C’è un intuibile che devi cogliere con il fiore dell’intuire, perché se inclini verso di esso il tuo intuire, e lo concepisci come se intuissi qualcosa di determinato, non lo coglierai: È il potere di una forza irradiante, che abbaglia per fendenti intuitivi. Non si deve coglierlo con veemenza, quell’intuibile, ma con la fiamma sottile di un sottile intuire che tutto sottopone a misura, fuorché quell’intuibile, e non devi intuirlo con intensità ma −recando il puro sguardo della tua anima distolto− tendere verso l’intuibile, per intenderlo, un vuoto intuire, ché al di fuori dell’intuire esso dimora»99.

Intuire come un intuibile l’atto medesimo dell’intuizione, dunque come dismisura che irradia e abbaglia e prorompe nel misurare, intuirlo come pienezza del nulla riconquistato, come vuoto che si dà in uno con la presenza. L’“oggetto” di Malevi/ è un non-oggetto senza contorni, astratto, in(de)finito e indeterminato: aperigraphè. In un mondo in cui, come scrive benjaminianamente Malevi/, «la rovina è diventata una condizione normale»100, costruire è certo necessario: ma costruire, finalmente, per nulla. Di nuovo, davvero in Malevi/ raggiunge il suo vertice l’arte propriamente intesa come techne che si volge verso l’Inutilizzabile, verso l’inoperosità101. In fondo la sua sfida suprematista era già in campo

nell’esperienza orientale: «Come posso vedere la natura del Buddha?», domanda il monaco. «Stolto, non sai forse che il vedere stesso è la natura del Buddha?». Abissalmente semplice, perché è in questa semplicità che si celano abissi.

Cubo tutto luce bianco assoluto facce senza tracce nessun ricordo Samuel Beckett, Senza

Il superamento definitivo del colore naturale-creaturale conduce verso la luce originaria del Quadrato bianco. Nulla da “vedere”. Surrexit autem Saulus de terra apertisque oculis nihil vedebat, ‘Paolo si alzò da terra e, con gli occhi aperti, vide il nulla’. È la traduzione di Meister Eckhart del passo degli Atti degli apostoli (9,8). Disegnare uno spazio bianco in cui non sia raffigurato assolutamente nulla era per Ike no Taiga, il pittore giapponese del periodo Edo, la cosa più difficile e l’obbiettivo da raggiungere nell’arte della pittura. Si sbagliano quei pittori, dice ripetutamente Malevi/, che credono che i nostri occhi possano davvero vedere (rammentiamo il Cusano: finché il nostro occhio vede qualcosa, significa che questo qualcosa non è ciò che cerca). Vera, libera, rea­ lissima percezione (altro che “astrattismo”!) si dà, si offre soltanto laddove non vi è alcun oggetto da percepire né volontà-intenzionalità di percepire alcunché. Siamo di nuovo agli antipodi di ogni fenomenologia della coscienza tetico-posizionale, ma forse vicini agli attributi che Kant nella Prefazione alla Critica della ragion pratica assegnava alla libertà: necessaria e nello stesso tempo incomprensibile. Nel 1919, alla Decima Mostra di Stato allestita a Mosca e intitolata “Creazione non oggettiva e Suprematismo”, Malevi/ presenta una serie di dipinti bianco su bianco, apparentemente monocromi. «L’azzurro del cielo è stato vinto dal si-

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Oracoli caldaici, a cura di A. Tonelli, Coliseum, Milano 1990, p. 25. K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit., p. 147. 101  Sul motivo dell’inoperosità nelle arti moderno-contemporanee riman100

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diamo al ns. Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee, Jaca Book, Milano 2017.

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stema suprematista», scrive con gli accenti di quel millenarismo cosmico che caratterizza tutto il suo enorme lascito letterario, «si è lacerato ed è penetrato nel bianco come autentica e reale rappresentazione dell’infinito, e con ciò si è liberato dal fondo colorato del cielo […] Ho lacerato l’abat-jour azzurro delle limitazioni del colore e sono uscito nel bianco; dietro di me, compagni aviatori, navigate nell’abisso […] ho vinto l’involucro colorato del cielo […] Navigate! Il bianco abisso libero, l’infinito sono davanti a noi»102. Bisogna liberarsi e librarsi in ciò che non ha punti di appoggio, nell’assenza di fondamenta in cui siamo destinati a vivere. La pittura giunge così al virtuale bianco, allo stato bianco, come dice ripetutamente lo stesso Malevi/. La forma non allusiva, non associativa, conquista la sua definizione estrema e più radicale nell’identità di luce e colore, e si afferma in quanto vera e propria dissolvenza al tempo stesso pittorico-percettiva e filosofica nel nulla assoluto come ultima verità-realtà: «Nel palazzo del nulla risiede il tutto», scrive un cabalista spagnolo del xvi secolo. Lo abbiamo già visto: non si può, nulla disegnando-dipingendo, evocare il nulla. Questo sì sarebbe autentico nichilismo: non pensare il Nulla come problema, passare accanto al Nulla come fosse cosa da nulla. Malevi/ si trova all’opposto: opponendo il colore a sé stesso in un processo di radicale acromatizzazione, costruisce il piano-superficie in cui tutta la materia, tutti gli oggetti vengono come

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K.S. Malevi/, Il Suprematismo, in Scritti, cit. pp. 192-3. Un analogo anelito messianico-apocalittico verso la “fuoriuscita” nel Bianco lo troviamo in Ornamento e delitto di Loos: «Presto le vie delle città risplenderanno come bianche muraglie! Come Sion, la città santa, la capitale del cielo. Allora sarà il compimento», in A. Loos, Parole nel vuoto, trad. it. Adelphi, Milano 1980, p. 219. Non può non venire alla mente, però, anche l’aforisma 575 con cui Nietzsche chiude liricamente Aurora, dal titolo Noi, aerei naviganti dello spirito. «E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino a oggi tramontati tutti i soli dell’umanità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere un’India, ma che fu il nostro destino naufragare nell’infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure?».

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aspirati in una inaudita e inudibile implosione. Il bianco dice origine, fonte, potenzialità iniziale. La totalità dei colori dello spettro solare si cancella inghiottita nel bianco. Il miniaturista islamico lascia, al posto dell’infigurabile viso del profeta, uno spazio vuoto simboleggiato da una macchia bianca. Nel bianco è certamente nascosto un arcano, ma l’arcano è appunto che tutti i colori continuano a vivere virtualmente e in stato latente “dentro” la sua visibile parvenza fenomenica. Il bianco di Malevi/ non ha nulla del carattere spettrale e della qualità “stregata” che talvolta accompagnano questo colore103 nella percezione storico-culturale con i suoi rimandi simbolici, non si acquatta nella sua fenomenologia alcun genio maligno, quello che ad esempio Melville vedeva affiorare nella Balena104. Bisogna pensare piuttosto al bianco che si identifica con la luce, la cui proprietà è di diffondersi e solcare lo spazio: il colore puro e abbagliante della veste degli angeli e dei santi raffigurati nelle icone (esempio straordinario, gli affreschi di San Salvatore in Chora a Istanbul), dei monaci del deserto e delle guardie imperiali bizantine, il colore della teofania e della grazia, della purezza che si afferma, come dice lo stesso Malevi/, «senza incontrare limiti»105. In fondo il suo Bianco, questo alfa privativo, radicalizza fino all’estremo quella figura dell’intervallo e dell’interruzione che nel Moderno e nelle avanguardie frattura e buca il corpo del linguaggio: gli spazi bianchi della pagina di Mallarmé, le zone non dipinte di Cézanne, i silenzi di Webern portati ai limiti dell’udibilità. In totale assenza di peso, il quadrato bianco bascula asimmetrico non “sul” fondo ma nel fondo bianco. Vi è una mirabile, stupefacente forza trascendentale e contemplativa in 103

Del tutto improprio è chiamare il bianco “non colore” (lo fa sovente lo stesso Malevi/) dal momento che incontrovertibilmente tutto è colore; cfr. il ns. Arte e colore. Un’introduzione, in AA.VV., Il colore nell’arte, Jaca Book, Milano 2006. 104  Cfr. A. Boatto, Di tutti i colori, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 23-4. 105  K. Malevi/, Introduzione all’album di litografie “Suprematismo – 34 disegni”, in Scritti, cit., p. 197.

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questo equilibrio meditante che non è più tra Bianco e Nero, belji e cërnji, ma tra Bianco e Nulla, che nel ritmo del loro darsi-donarsi reciproco si bilanciano perfettamente indeterminandosi a vicenda. Soltanto un’impercettibile, lieve inflessione, una piega bianca nel bianco fa la differenza («nicchia visibile per differenza di bianco», scrive Beckett in Bing). Soltanto un solco di nulla, un’increspatura neutra (le onde gravitazionali non sono forse increspature dell’universo?) ne distingue la forma oltre tutte le forme visibili. Nel senso forte e letterale dell’espressione: niente da vedere. Lo stesso niente-da-vedere che −come abbiamo già evocato− dà origine alla fede in Cristo risorto, poiché se qualcosa si fosse presentato alla vista nel sepolcro, il cristianesimo non sarebbe esistito. La luce del Quadrato bianco rammenta la luce taborica che si propaga nell’assenza di ogni contrapposizione cromatica che permetterebbe l’identificazione della forma, e nella quale già abbiamo visto l’estrema, liminare possibilità di circoscrivere l’incircoscrivibile. La luce taborica potrebbe dirsi caligo massimamente, supremamente trasparente: Gesù il Cristo appare come luce diafana nella gloria della luce diafana “come” il quadrato bianco appare nel bianco. Certo esso −e non potrebbe essere altrimenti− è un’estensione sensibilmente intuibile di materia compatta e ultraconcentrata, che è però in via di trasformarsi in pura energia che naviga nello spazio astrale: sospesa e illocalizzabile tra il movimento e la quiete come l’exaìphnes del Parmenide platonico, come l’energheia akinesias di Aristotele, l’attività consistente nell’immobilità (Etica nicomachea, 1154b, 27). Nella tecnica del movimento alla base della danza nel teatro no, l’attore è perfettamente immobile, danza senza danzare. Sullo sfondo di questa attività non agente (il wei wu wei del taoismo), il più impercettibile movimento del corpo −l’increspatura bianca nel bianco− acquista una potenza letteralmente inaudita, una forza insorpassabile. La vita e l’infinito, per il Malevi/ “cusaniano” stanno non nella scelta tra i possibili, ma nella scelta per il Possibile, un Possibile accennato (come il dio che sta a Delfi) da un’astensione, da una dile118

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guante traccia di neutro. Il Quadrato bianco conduce la riduzione dei mezzi, del linguaggio e delle apparenze pittorico-percettive ai limiti di un dire che nulla dice, di una volontà che nulla vuole. È una pura istanza di discorso, che in quanto tale nulla proferisce ma che apre al tutto proferibile; è il puro Possibile esibito in un ictus di 78,7 centimetri per ogni lato106. Sotto questa prospettiva, il Quadrato bianco − che rappresenta l’inizio, diceva Malevi/, «di una nuova forma classica»107− è come se risalisse al punctum caecum della vista. «Perché possa cogliere liberamente il colore, il centro della vista è privo di colore», afferma il Cristiano in dialogo con il Gentile nel De deo abscondito, dunque, prosegue Cusano, «la vista è nulla piuttosto che qualcosa»108. Così che «non cogliendo nulla di colorato, tutto il mondo del colore ignora la vista […] anzi non è neppure in grado di cogliere che essa sia qualcosa, poiché, non afferrando altro che il colore, ritiene che tutto il non-colorato non esista affatto»109. Mentre in realtà la vista non contratta da alcun colore si rivela la condizione di possibilità perché ogni ente colorato ex-sista, si offra effettivamente alla percezione. È esattamente in questo senso che in un testo (sorta di “poesia in prosa”) databile agli anni 1918-19 −quelli appunto della scoperta o della “conquista” dello stato bianco− Malevi/ può scrivere: «la mia idea del colore cessa di essere colorata»110. Nessun colore può adeguarsi alla vista inoggettiva e incontraibile, nessun colore creaturale può esprimere la vista “non veden106  Non è possibile non pensare alla tradizione dell’arte pittorica orientale. Gli Antichi, osserva François Jullien, «hanno posto la massima cura per sviluppare “l’inchiostro senza inchiostro” e il “pennello senza pennello” […] L’attenuazione, a questo punto, è estrema, si è al limite della cancellazione […] si pittura tra la forma e il senza-forma e si rende l’evanescenza del fondamento» (corsivo ns.), in La grande immagine non ha forma (2003); trad. it. Angelo Colla, Costabissara (Vicenza) 2004, p. 66. 107  K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit., p. 213. 108  N. Cusano, Il Dio nascosto, cit., p. 9 109  N. Cusano, La ricerca di Dio, in Il Dio nascosto, cit., p. 16. 110  K. Malevi/, In natura esistono il volume e il colore…, in K. Malevi/. Una retrospettiva, cit., p. 68.

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te” e “non colorata” che è condizione e orizzonte di tutti i colori. Il Bianco di Malevi/ −come compossibilità di tutti i colori dati solo in potenza− è l’unica espressione possibile a sua disposizione per ricordare sensibilmente quel nulla-piuttosto-che-qualcosa che è la vista inoggettiva. «Nessun oggetto è già “essere”», scrive Malevi/, «ma è solo un fantasma dell’essere, perché l’essere si è sempre nascosto e non è conoscibile come forma […] L’intero mondo visibile non è ancora l’“essere”»111. L’icona del Quadrato bianco, il suo volto, si rivela come la forma della presenza di ciò che non si dà se non ritraendosi, ma che proprio perciò in questo ritrarsi si manifesta come osvobozdennoie ni/to, come, già sappiamo, il nulla liberato, affrancato, riconquistato del Suprematismo. Un Bianco che si rivela non ex nihilo ma in nihilo: non qualcosa che proviene dal nulla ma qualcosa che, manifestandolo in levare, come per astensione appartiene al nulla. *** Come molti artisti dell’epoca, Malevi/ era affascinato dalle nuove tecniche di volo, che probabilmente, quantomeno sul piano empirico, hanno rappresentato una fonte di ispirazione per le sue superfici-piano che si librano nell’aperto dello spazio, simboli di emozione cinetica, di fluttuazione e caduta libera, ascensione ed espansione delle possibilità oltre i confini terrestri. La sorgente sia concettuale sia plastica del Suprematismo, infatti, non è stata tanto la figura del quadrato presa in sé, quanto il piano che l’ha costituito manifestandovisi geometricamente. «Un piano pittorico, sospeso sull’abisso della tela bianca, dà alla coscienza una sensazione dello spazio immediata e fortissima», scrive Malevi/ in una lettera del 1916 a Matjušin112. Assistiamo alla purifi-

111  K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit., p.204. Facile ma non perciò improprio l’accostamento all’essere heideggeriano che si ritrae per dar luogo agli essenti. 112  Cfr. A.B. Nakov, Il nuovo Laocoonte, in K. Malevi/, Scritti, cit., p. 114.

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cazione estrema e radicale dell’immagine e della sintassi cubofuturista praticate fino ad allora, ma giudicate esaurite e soprattutto ormai insufficienti per affrontare i nuovi compiti. All’interno dei dipinti cubofuturisti compaiono superfici quadrate e rettangolari monocrome che −nonostante condividano lo stesso ambitus con altri elementi come le lettere dell’alfabeto, i frammenti di fotografie, le forme geometrizzanti colorate, i lacerti di scomposizioni volumetriche− vivono in un loro spazio indipendente, autonomo, e sono del tutto sconnesse (non soltanto in termini di significato “logico”, ma anche volumetricamente) dagli altri elementi presenti nella composizione. Le superfici-piano della fase suprematista −che niente possono imitare, che a niente possono alludere− vengono letteralmente liberate, districate e prelevate dai dipinti di quella precedente fase alogica: ad esempio Mucca e violino del 1913, Donna accanto a una colonna d’affissione e la stessa Composizione con la Gioconda del 1914, oppure Guardia del medesimo anno. Proprio da quest’ultimo dipinto viene “liberato” il trapezoide giallo (impropriamente chiamato Quadrato giallo) del 1917-18, sorta di monolite planare davvero “sospeso sull’abisso”, che attraversa diagonalmente lo spazio bianco. L’angolo vivo in basso tocca appena il margine della tela, quello più in alto a sinistra vi si accosta; tutto il lato destro, invece, si disfa, sfuma, si polverizza nell’infinito dove si congiungeranno le parallele. È uno stupefacente vettore di energia, o meglio: una massa-colore che da un momento all’altro (come già il Quadrato bianco) sembra poter roteare liberamente su sé stessa in assenza di gravità (o che già lo sta facendo, come un’istantanea scattata in corsa che ferma per un attimo un movimento continuo) e che soprattutto −transitando nel vuoto creatore del nulla− si dissolve e si trasforma in pura energia cosmica, riacquistando così il suo stato quintessenziale. Certamente questo passaggio della superficie-piano dalle composizioni cubofuturiste alle costruzioni suprematiste segna uno sviluppo formale dalle opere precedenti a quelle seguenti. Ciò è vero, però, se rimaniamo all’inerenza stilistica, alla 121

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mera congruenza cronologica. In realtà, in Malevi/ l’astrazione non è un dis-cursus, un processo, un itinerario che accoglie e abolisce via via le fasi intermedie sempre più denaturalizzate e sempre meno descrittive; non è una sintesi-selezione progressiva delle apparenze sensibili (come la celebre sequenza dell’Albero in Mondrian). Al pari dei mistici che parlano delle loro visioni in termini di rottura improvvisa e di catastrofe del quotidiano, così in Malevi/ l’astrazione inoggettiva verso l’infinito appare come un salto, un’intuizione indeducibile, una metanoia vera e propria. Pur considerando le improprietà e gli slittamenti semantici che possono verificarsi nella traduzione dalla lingua russa, è vero però che bisogna osservare una particolare cautela nel parlare di “infinito” a proposito del Suprematismo. Scrive Malevi/, con accenti che ricordano la plotiniana abolizione delle differenze sensibili per raggiungere l’Indifferenziato: «La non-oggettività non ha nulla a che fare neppure con l’“infinità”, poiché anche questo concetto è collegato a qualche cosa di “finito”; il “finito” come contrapposto dell’“infinito”. La non-oggettività non ammette dimensioni»113. Il concetto di “infinito” è dialetticamente connesso a quello di “finito”; si determina e non può non determinarsi insieme ad esso e con esso si compone: posto l’infinito si pone il finito e viceversa. Se in ogni ente è “contenuto” come in levare anche ciò che esso non è, allora non può darsi infinito senza finito. Ma nei termini radicali in cui Malevi/ pensa la non-oggettività −e in cui la pensa pittoricamente− non sopravvive nessuna dialettica; essa non è un composto, non è un’armonia di differenti, non è un congiungersi “sinfonico” dei diversi −anche «la sua struttura cromatica è ben altro che una mescolanza di colori integrati pittoricamente»114. Una volta arrivata allo stato bianco, la non-oggettività, la gegestandlose Welt, il ‘mondo senza oggetti’ si rivela ancor più chiaramente come l’eklàmpon, l’istantaneo ba113  114

K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit. p. 83. Op. cit., p. 95.

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leno di semplicissimo incomposto splendore di cui parla Plotino nelle Enneadi. È in questo senso e sotto questa prospettiva misticamente intuizionista che dovremmo “leggere” l’Uno sovraessenziale dell’infinito suprematista, perché nell’«aureo nulla» non può esservi né misurarvi «né grande né piccolo»115. L’intelletto e la ragione analizzano, scompongono, distinguono, procedono e dis-corrono dalle premesse alle conclusioni, ma «l’uomo non può penetrare con intelletto e ragione là ove non c’è né intelletto né ragione»116. Ed è proprio là, invece, che bisogna, ripetiamo, non tanto “andare” −il che presuppone un itinerario, una progressione di tappe distinte (che in ogni caso, certo, pittoricamente Malevi/ percorre in senso diacronico)− quanto invece bisogna immediatamente trovarsi. Ciò non significa che nelle opere del Suprematismo bianco −ognuna così icasticamente unitaria, raccolta su sé stessa al limite del monocromo assoluto ma non semplicemente monocroma− non viva un rhythmos, quel particolare inusitato Ritmo −mille piedi al di là di ogni sua triviale lettura come inflessibile legge normativa− che permane anche nel silenzio suprematista ove pure non vi sono differenze117. Ritmo quindi aphanes, ‘inapparente’, puro e assolutamente irrintracciabile nella percezione empirica −«sulla superficie pittorica spariscono tutte le differenze percepite»118− poiché lo stato bianco, superiore a ogni misura e a ogni qualità, è la condizione «in cui niente è più distinguibile, neppure il ritmo non oggettivo»119. Si capisce qui come il ritmo non è inteso alla stregua di un elemento −componente atomica, struttura ultima o 115  Op. cit., pp. 79 e 78. L’infinito per il Cusano è «la contraddizione senza contraddizione, come il fine senza fine», dunque è plotinianamente «la semplicità stessa» (La visione di Dio, cit. p. 571): l’opposizione che toglie ogni opposizione. 116  Op. cit., p. 147. 117 Cfr. op. cit., pp. 125-6. Cfr. il classico studio di E. Benveniste La nozione di ‘ritmo’ nella sua espressione linguistica, in Problemi di linguistica generale (1966); trad. it. il Saggiatore, Milano 1971. 118  K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit., p. 154. 119  Op. cit., p. 180.

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quantum minimo− che fa a sua volta parte dell’insieme che è supposto ordinare, governare. Il ritmo quale qui lo pensa Malevi/ appare piuttosto in quanto causa formale aristotelica, eidos, ciò che, astenendosi dall’oggettività e quindi appartenendo a una dimensione radicalmente altra da quella empiricamente esistente, fa sì che l’oggetto semplicemente sia quel che è; appare in quanto ousia, l’essenza in mancanza della quale l’ente non potrebbe mantenersi nella presenza120. La risposta tradizionale che si fornisce riguardo all’origine di rhythmos è che sia l’astratto del verbo rhein, ‘scorrere’, come il movimento regolare delle onde. La questione etimologica, però, non è ancora completamente chiarita. Ma siccome quell’essenza inappercepibile si esprime e si lascia percepire nell’esperienza umana sotto forma di arhythmos, cioè ‘numero’ calcolabile che fornisce un metron, una ‘misura’ −in Platone infatti il rhythmos è ciò che «si realizza dal rapido e dal lento, in origine discordanti ma poi accordati» (Simposio, 187b-c) ed è anche «il nome del movimento ordinato del corpo» (Leggi, 665a)− ecco che il ritmo è anche qualcosa che articola trattenendo, che organizza e “domina” sospendendo, appunto ritmando, quel flusso continuo altrimenti indistinguibile. Le superfici-piano di Malevi/ che attraversano lo spazio bianco aprospettico proprio in tal modo debbono intendersi: còlte, abbiamo già accennato, come “fotogrammi”, istantanee forme del movimento, momentanei arresti del transito, provvisorie sospensioni “ritmiche”del flusso. In un altro dipinto bianco del 1918, il piano che fluttua ascendendo diagonalmente verso sinistra è attraversato da tre elementi curvilinei che vi si sovrappongono quasi a formare una doppia croce ortodossa. Non soltanto il colore è usato in modo ultraterreno, “astrale”, ma colore luce e forma si danno in uno, e questa identità di di-

versi che permangono tali plana staccata a volo dal mondo terrestre, sublunare, in una regione dove, eliminato l’oggetto, può essere alfine percepito l’indifferenziato suono bianco delle forze cosmiche. Differenza come e in quanto unità: ecco di nuovo comparire −in questo delicato, fragilissimo equilibrio− quel solco di nulla che attraversa il Quadrato bianco, ma anche le altre opere dello stesso periodo. Se è necessario visivamente intuire le forme nel bianco, «deve esistere una differenza tra esse, ma solo in forma di bianco puro»121, così come soltanto con l’eliminazione radicale dell’oggetto può attingersi nel vuoto che brulica di possibilità la purezza del Ritmo. È la lezione dei Maestri cinesi: «Quando la pittura giunge al punto in cui è senza traccia», dice Hua Lin, «sulla carta sembra un’emanazione naturale e necessaria di quella carta che è il Vuoto stesso». Huang PinHung: «Quando dipingevano, gli Antichi concentravano gli sforzi sullo spazio in cui è assente il Pennello-Inchiostro». E Wang-Yu: «Il Vuoto puro, ecco lo stadio ultimo al quale tende ogni artista»122. La pittura di Malevi/, dunque, non appartiene più alla terra. La terra è stata abbandonata. Questa è la rivelazione, e nei suoi scritti egli usa proprio il verbo ob’javljat, ‘rivelare’123, perché è esattamente di un’apocalissi che si tratta, nel senso letterale ed etimologico del termine. Ma siccome il bianco è pur sempre qualcosa (anche se condotto fino ai limiti di sé stesso) piuttosto che niente, la logica spietata e intransigente seguendo la quale Malevi/ ha sempre “destinalmente” scandìto il proprio itinerario creativo, lo spinge fino a un’ulteriore, estrema decisione; una decisione che, precisamente perché scaturita da un’interna ferrea coerenza, sarebbe del tutto improprio confinare e ridurre a mera provocazione di natura semplicemente “avanguardista”. In una mostra collettiva nel maggio del 1923 all’Ac-

120  Potrebbe qui venire a mente anche la chora del Timeo di Platone, il ricettacolo originario in primevo ed eternamente “ritmico”-oscillante movimento, né sensibile né intelligibile ma appartenente a un «terzo genere» (cfr. 48e, 52a).

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K. Malevi/, In natura esistono il volume e il colore…, cit., p. 68. Cfr. F. Cheng, Il Vuoto e il Pieno (1979), trad. it. Guida, Napoli 1989, p. 71. 123  Cfr. A.B. Nakov, Il nuovo Laocoonte, in K. Malevi/, Scritti, cit., p. 128. 122

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cademia di Belle Arti di Pietrogrado, presenta con il suo gruppo unovis alcune tele vuote, non dipinte, su cui neanche il bianco si sovrappone. Non è nota alcuna fotografia dell’allestimento, ma sembra che le tele fossero “aeree”, collocate in alto sotto il soffitto, quasi fuori vista, ai limiti della capacità fisiologica di presa ottica. Il principio della “libera navigazione” nello spazio secondo cui si dispongono le superfici-piano diventa anche quello dello sguardo dell’osservatore, non predeterminato ortogonalmente o assialmente ma calibrato secondo i ritmi di una libera fluttuazione ispettiva. Secondo un’ulteriore direttrice di lettura, potremmo richiamare anche le condizioni di precaria visibilità nell’ostensione cerimoniale della Veronica evocate nei versi danteschi su cui ci eravamo soffermati. E a tale proposito può essere significativo ricordare che la mostra era accompagnata da quell’enigmatico, breve testo −che si scioglie in un formula matematica risolta nello zero− dal titolo Lo specchio suprematista. Il rimando concettuale, dunque, va a quell’economia dello sguardo teologico, a quel riconoscimento del proprio volto riflesso nell’immagine dell’icona che già abbiamo richiamato come a uno sforzo vocazionale di compartecipazione al trascendente: «Dio mio […] chi ti guarda», scrive il Cusano, «vede se stesso in te»124. Nella pura esibizione del supporto, più che “superata”, potremmo forse dire che l’arte della pittura è trasfigurata nello stesso presupposto materiale che è condizione del suo apparire sensibile-fenomenico, e che ora, affrancato e riconquistato, vola libero nello spazio. È come se la pittura, il suo “sistema” venisse mostrata nel suo stadio precategoriale, quando è ancora nella fase potenziale di mera ricevibilità-inscrivibilità di un segno, di una traccia, di una macchia di colore. In un celebre luogo del De anima (429b, 30 - 430a, 3), Aristotele afferma che «l’intelletto è in potenza gli intellegibili, ma in atto nessuno prima di pensarli. Dev’essere di esso come di una tavoletta, in cui non c’è niente scritto attualmente. Proprio questo si 124

N. Cusano, La visione di Dio, cit., p. 576.

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verifica per l’intelletto»125. Proprio come la tabula di cera o di altro materiale alla quale Aristotele equipara l’intelletto come potenza di non pensare, e la cui superficie non è ancora stata scalfita dallo stilo, la tela vuota esprime la potenza di non essere dipinta. Se la tela non è ciò che come supporto retrocede per far posto all’immagine, ma ciò che si offre in proprio alla visione, allora l’“attesa” della scrittura sulla tabula e della pittura sulla tela è già, essa stessa, una forma di scrittura-pittura in levare: è, per così dire (e incontriamo di nuovo questa figura), l’atto medesimo della potenza, potenza che pone sé stessa. È come se la rappresentazione estetico-sensibile divenisse in qualche modo, ora, superflua. E fosse possibile unicamente la “presentazione” giustappunto di questo suo essere superflua, in eccesso. “Presentazione”, dunque, massimamente critica. Malevi/ perciò de-dipinge. «La pittura è scomparsa», scrive, «e il pittore è un pregiudizio del passato»126. È probabile che questa sia la prima volta in cui la pittura oltrepassa sé stessa trasformandosi in performance, gesto, azione pura. Perfettamente comprensibile appare allora il passaggio “teurgico” all’occupazione reale dello spazio attraverso l’ulteriore fase suprematista tridimensionale degli architektony o planiti, costruzioni plastiche bianche che aggregano componendole a varie altezze forme non oggettive la cui matrice è il cubo, slanciate sulla verticale oppure distese in orizzontale. Questi corpi tridimensionali sono i plastici ideali delle abitazioni che gli zemljaniti −i futuri ‘inquilini della Terra’ nel conio zaum’ di Malevi/− potranno utilizzare una volta che ne adeguino la struttura alle loro specifiche, contingenti necessità vitali. La forma plastica del planita − non oggetto, diceva Lissitsky, ma vuoto trasformato in spazio− infatti non ha uno scopo preciso, non de-finisce la propria funzione, non pre-figura né pre-giudica

125  Cfr. su questo filosofema aristotelico G. Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, pp. 26-7. 126  K. Malevi/, Introduzione all’album di litografie “Suprematismo – 34 disegni”, in Scritti, cit., p. 198.

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l’esperienza che se ne vorrà fare, piuttosto di questa esperienza rappresenta e valorizza l’apertura, vale a dire il nucleo di libertà. Per Malevi/ l’arte è un modello di comportamento e un progetto di esistenza, è tensione costruttiva e fare autentico indirizzati verso una vita altra poiché la rivoluzione, prima di ogni altra cosa, è l’apertura di un campo di possibilità, è l’alter mundus qui e ora. *** Abbiamo visto che con Malevi/ si raggiunge uno dei più alti esiti dell’arte di un tempo che è ancora il nostro in ciò che essa ha di più essenziale: l’interrogazione portata sull’intero sistema di rappresentazione dell’ente. Nella sua grandiosa rinuncia a ogni presupposto che la spinge a un perpetuo esodo da sé stessa e che la sollecita a immaginare la propria verità nel continuo, “hegeliano” dileguare di ogni contenuto identificante, in equilibrio sul nulla fino a possedersi nella propria estrema alienazione, l’arte moderno-contemporanea mostra eminentemente un carattere intellettuale-autoriflessivo. Nelle sue lezioni di estetica, Hegel parla di una denkende Betrachtung, di una ‘considerazione pensante’ che non si limita a caratterizzare l’analisi o il giudizio critico sull’opera d’arte, ma che nel Moderno appartiene alla sua stessa intrinseca verità costitutiva. L’opera d’arte −investita da un potente, destinale processo di intellettualizzazione-concettualizzazione− non può non prendere definitivo congedo da ogni immediatezza lirico-espressiva per riacquisirsi come procedimento autoconsapevole. Nello Zibaldone leopardiano (e sono gli stessi anni di Hegel) vi sono frequenti considerazioni sul progressivo, moderno disincanto del fare artistico, e di questo processo parlerà a più riprese anche Nietzsche: «le nostre arti stesse divengono sempre più intellettuali, i nostri sensi divengono sempre più spirituali» (Umano, troppo umano, i, af. 3). Le avanguardie russe e in primo luogo Malevi/ sono un perfetto esempio di questa intenzionale, programmatica riflessione sui fondamenti dell’ar128

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te in generale e del pittorico in particolare, che legittimano con il pensiero e con l’elaborazione di concetti teorico-estetici la ragione che sottofonda la propria condotta operativa. «Oggi non fare teoria della pittura equivale al rifiuto di comprenderla», dichiara nel 1912 il poeta e pittore futurista David Burljuk. Quattro anni dopo, lo storico dell’arte Nikolaj Tarabukin comincerà a lavorare al suo trattato pubblicato nel 1923, Per una teoria della pittura, in cui la produttività artistica viene tendenzialmente assimilata a una teoria della conoscenza127. La teoreti/nost, la ‘teorizzazione’ vale già come parte componente del processo creativo, e la preoccupazione speculativa, la mediazione concettuale, l’autoriflessione sistematica si integrano direttamente all’operari artistico. In Malevi/ tutto questo è assolutamente evidente. Egli diventa il pensatore dell’emozione creatrice. Il suo itinerario −nella spietata coerenza logico-programmatica che lo caratterizza− incarna al massimo livello sia di forza intellettuale sia di scelta esistenziale la crucialità di tutti questi motivi, testimoniando il punto forse più alto che può raggiungere la fede di un artista nella propria opera128. Già nel suo primo importante testo teorico egli scrive che il pittore, che prima «viveva di stati d’animo», adesso «deve sapere che cosa succede nei suoi quadri e perché»129. Se le leggi del materiale inerente all’opera devono stabilire, dettare le forme che essa 127

N. Tarabukin, Per una teoria della pittura, trad. it. Officina, Roma 1979. Nel suo Malevitch et la philophie (L’Age d’Homme, Lausanne 1977), Emmanuel Martineau, chiedendosi se si può leggere Malevi/ come qualsiasi altro filosofo, accetta la sfida di non partire dalle immagini ma dalle parole dell’artista, e assegna pari importanza agli scritti e ai dipinti. I primi sarebbero testimonianza di una meditazione tanto profonda da entrare in competizione −da ingaggiare, dice l’autore, una “lutte amoureuse” (p. 181)− con i secondi. Riferendosi soprattutto alla collazione di testi postumi raccolti in Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, Martineau parla di un’efficacia di formule che ricordano il giovane Marx, di un abbandono alla potenza del linguaggio come in Heidegger, di un ribollire di temi equiparabile al Nachlass di Nietzsche (cfr. p. 73). 129  K. Malevi/, Dal cubismo e dal futurismo al suprematismo, in Scritti, cit., p. 185. Il testo che però inaugura decisamente la stagione “teorico-filosofica” è Nuovi sistemi dell’arte, dell’estate del 1919. 128

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ha da assumere indipendentemente da qualsivoglia imprestito letterario o comunque extra-pittorico, e se di conseguenza occorre criticare, respingere e superare il retaggio oggettuale che persiste sia nel Cubismo sia nel Futurismo, allora ciò non può avvenire che all’interno di un coerente processo di acquisizione razionale dei fondamenti teorici e più ampiamente filosofici del proprio operare creativo. Arrivato al confine definito dalla fase bianca del Suprematismo (ma definire un confine, diceva Hegel, significa già averlo superato), Malevi/ attua una sorta di emancipazione ontologica della pittura non-oggettiva, diventata fino in fondo consapevole delle proprie condizioni e dei propri destini. Fondandosi unicamente su di sé, essa prepara le basi per un processo di autoabolizione, per il proprio oltrepassamento. Il Suprematismo non poteva non condurre al di là dei confini dell’arte puramente, “semplicemente” pittorica. Il mondo senza oggetti, cioè la visione del Nulla come realtà ultima e liminare di tutte le cose, doveva far cessare qualsiasi attività “artistica”, doveva dissolvere l’immagine e lo stesso fare pittura nella teoresi speculativa, doveva preludere all’inoperosità130. Soltanto ora, arrivata a questo vertice, l’astrazione non-oggettiva si rivela letteralmente come tale assumendo fino in fondo il suo destino, diventando davvero liberazione da ogni dato. Bisogna saper tramontare, raccomandava Nietzsche. L’astrazione deve essere portata all’estremo limite in cui diventa anche astrazione di-da sé stessa: i dipinti bianco su bianco fanno pur sempre parte del sistema pittorico e non riescono a rompere con la condizione essenziale e fondativa di qualsivoglia immagine, che è quella di presentare, di esibire qualcosa, di rinviare evocativamente o simbolicamente a un’ulteriorità che al momento di per sé non si offre, non si palesa in quanto tale. E anche il passo successivo −l’eliminazione della stesura cromatica, l’esibizione della tela vuota− fuoriesce dal pittorico come rappresentazione 130  Su questo tema nel Malevi/ autore dell’opuscolo L’inattività come verità effettiva dell’uomo, cfr. il ns. Il genio è senza opera, cit., pp. 170-3.

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ma, pur nella sua liminare radicalità performativa, lascia sempre e in ogni caso dietro di sé l’oggetto e non liquida fino in fondo e del tutto i presupposti e il paradigma del fare pittura, o meglio del fare arte come poiesis, come produzione di sensibilia anche se non a carattere mimetico-raffigurativo131. (Riprenderemo tra poco, per svilupparlo in tutt’altra ma complementare direzione, questo punto “quintessenziale” non soltanto per l’itinerario creativo e filosofico di Malevi/ ma per tutta l’arte moderno-contemporanea). Si profila cioè la necessità logica di una presa di congedo dall’arte classicamente-tradizionalmente intesa come fare produttivo. Singolarmente attuando una hegeliana Aufhebung dell’arte nella filosofia e comunque nel puro concetto-pensiero (e, allo stesso tempo, soggettivamente richiamandosi alla figura dell’artista-filosofo rinascimentale), tra il 1918 e il 1919 Malevi/ considera conclusa la sua esperienza pittorica e passa alla speculazione puramente teorica, alla stesura di testi scritti, all’attività pedagogica e didattica. Non è un caso se nel 1922 Malevi/ entra al ginchouk, l’Istituto Nazionale di Cultura Artistica appena creato a Pietrogrado, e l’anno seguente prende la direzione del dipartimento di analisi formali e teoriche (f.t.o.). Dopo la “perfezione bianca” non poteva che seguire l’azione filosofica e l’impegno esistenziale, dal momento che, appunto, «il pittore stesso è un pregiudizio del passato». Inoltre, permane appunto anche nella pittura non-oggettiva un residuo materiale e materialista non completamente spiritualizzato; persiste in essa la necessità di un presupposto di natura concreta, di un medium

131  «L’apparenza estetica non può essere eliminata dall’opera», scrive Adorno con parole straordinariamente congruenti con l’ètimo filosofico delle arti moderno-contemporanee oltre che con la loro fenomenologia espressiva, «Anche quella che rigettasse ogni apparenza non si identificherebbe immediatamente con la realtà empirica; l’apparenza sopravvive anche se l’opera non vuole somigliare a null’altro che a ciò che è […] detto in altri termini, anche il senso negato è senso. L’arte non è traducibile in fatti; ogni suo momento è sempre quello che è», (Vers une musique informelle, in Immagini dialettiche. Scritti musicali 1955-65, trad. it. Einaudi, Torino 2004, p. 275).

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sensibile che esibisce comunque la struttura e la logica del rinvio-ad-altro, dell’aliquid pro aliquo. Insomma, raggiunta quest’altezza, per certi versi il problema si presenta a Malevi/ sotto le vesti dell’esigenza di uscire dal segno. «Questo è il mio lavoro principale, non già di pennello, ma di penna», dichiara, «Risulta che con il pennello non si ottiene quello che può la penna. L’uno è arruffato e non può estrarre dalle anse del cervello quel che riesce alla penna, più aguzza»132. In una progressione visionaria di una chiarezza, lucidità, forza di penetrazione sorprendenti, Malevi/ non solo svela i limiti dell’astrazione ma rende visibili anche i confini della pittura in quanto modello, paradigma, disciplina. Come se l’icono-logia dovesse diventare più degna della sua radice, più pensante. Soltanto la speculazione filosofica attuata con il medium “insostanziale” della scrittura sembra poter eccedere i limiti segnico-rappresentativi intrinseci alla modalità espressiva tradizionalmente intesa e classificata come pittorica o artistica. Allora ecco perché «nel suo ulteriore sviluppo fino al confine della non-oggettività, il termine “arte” deve essere sostituito da nuove denominazioni»133. Scrivere non era dunque per Malevi/ un’attività con funzioni soltanto didattiche, tecniche o polemiche, ma una scelta eminentemente filosofica. Qui egli tocca un fondamentum apparentemente inconcussum. Viene messa in questione, cioè, la taxis, il rango, la distribuzione più o meno gerarchicamente ordinata che nella cultura occidentale si è costituita delle pratiche umane e dei saperi istituzionalmente suddivisi e articolati; sono in gioco i confini −mobili sì, ma di una mobilità governata, vigilata− che tra di essi si sono storicamente con-

solidati nel tempo. Perché, in questo modo, dell’arte viene revocata in dubbio la categoria, la qualifica, il concetto e addirittura il nome stesso, la sua estensione semantica, la sua capacità referenziale, la sua tenuta lessicale. Ricordiamo che già il Quadrato nero fu considerato come qualcosa di molto diverso da ciò che si intendeva allora come arte, come pittura. Su questo punto davvero decisivo, Malevi/ si dispone da protagonista all’interno di quella tensione estrema e insieme asintotica che segna indelebilmente essenza e percorso di tutte le “avanguardie” radicali del xx secolo. Ed è forse proprio in questo punto che incontriamo il vertice di quella “affinità elettiva” che, a distanza e nella differenza, unisce Malevi/ e Duchamp in un’unica costellazione artistica e filosofica134.

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134  Abbiamo a lungo e a più riprese riflettuto sul motivo eminentemente filosofico dei confini “linguistici” delle arti moderno-contemporanee, del loro statuto istituzionale e della loro stessa riconoscibilità in Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Castelvecchi, Roma 1999, ai capp. Hans-Georg Gadamer. Il Bello contemporaneo e Arnold Gehlen. Quadri d’oggi; nella terza parte de La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, cit., e in Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee, cit., al cap. Il genio inoperoso. Duchamp e oltre.

K. Malevi/, Introduzione all’album di litografie “Suprematismo – 34 disegni”, in Scritti, cit., p.198. Ricordiamo che Florenskij recupera e sottolinea la tradizione secondo la quale l’iconografo è considerato a tutti gli effetti un filosofo: i pittori di icone, scrive, «Testimoniarono del Verbo incarnato con le dita delle mani e veracemente filosofarono con i colori [...] i veri teologi e i veri pittori d’icone si chiamano ugualmente filosofi», in Le porte regali, cit., pp. 174-5. 133  K. Malevi/, Suprematismo. Il mondo della non-oggettività, cit., p. 123.

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*** Nell’itinerario di Malevi/ vi sono, come noto, due episodi enigmatici (anche se non sono i soli) che hanno alimentato, nell’ambito della letteratura specialistica sulla sua opera, una messe di ipotesi storico-critiche. Ma che sostanzialmente sono rimasti irrisolti. Si tratta della sistematica retrodatazione −una sorta di deliberato scompaginamento cronologico− che egli fece di molte sue opere, e del ritorno a qualcosa che può comunque chiamarsi figurazione dopo la fase suprematista. Entrambi gli episodi sono profondamente segnati a nostro parere da una inoltrepassabile, davvero “suprema” ironia. Ed entrambi possono raccogliersi sotto un unico plesso interpretativo, che privilegia su ogni altro sia

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pur legittimo fattore esterno, la dialettica intrinseca, lo sviluppo immanente dell’opera. Sarebbe estremamente riduttivo ascrivere la retrodatazione di molte tele−in primis lo stesso Quadrato nero− a una furbesca volontà di mostrare precognizioni e precedenze creative, comunque oggettivamente comprensibile quanto corrente e diffusa nel concorrenziale mondo dell’arte, soprattutto in quello delle avanguardie del primo Novecento, dove l’irruzione del novum era il lasciapassare per la storia. Dobbiamo invece interpretare quella pratica di deragliamento del buon senso cronologico (non per nobilitarla ma per proiettarla sullo sfondo di quella totalità arte-vita costantemente perseguita dall’artista) in stretta connessione con la ripulsa “apocalittica” −e certo provocatoria, beffarda, anti-boghese− della temporalità consequenziale all’opera: quella, come abbiamo visto per Vittoria sul sole, che scorre “goccia a goccia” in una successione apparentemente logico-deduttiva che ci fa credere, illudendoci, che l’attimo seguente sia l’effetto del precedente che lo avrebbe “causato”. Liberarsi dalla “contabilità” del tempo come ordinata, catastale consecutio; affrancarsi dalla storia come sviluppo lineare e progressivo, come accumulo diacronico di momenti che intenzionalmente tenderebbereo a un risultato, a un senso compiuto, è il compito “trans-razionale” che tutti gli adepti zaum’ si erano prefissati. Non è un caso che questa indifferenza per la precisione temporale, per la “fissazione” nel tempo dell’opera, fosse comune anche a Chlebnikov, anche lui come sappiamo partecipe di Vittoria sul sole135. Per Malevi/ conta l’idea, l’intuizione creativa; che l’idea e l’intuizione del Quadrato nero le avesse avute nel 1913 è per lui molto più importante del fatto che le avesse realizzate, rese sensibili in un oggetto due anni dopo. È la vis concettuale, è la

135  Datare le sue poesie, scrive Ripellino, «è impresa difficile, perché egli non si dava briga di apporvi la data o ve ne affiggeva di erronee, e spesso i proseliti spostavano indietro i termini della stesura per accrescergli credito di precorritore», Tentativo di esplorazione del continente Chlebnikov, cit., xviii.

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potenza della mente intuitiva che si riconosce autonoma dalle contingenti parzialità delle vicissitudini reali, che fa astrazione dalle limitazioni della datità fenomenica. Una riflessione in certo modo analoga occorre fare per il “ritorno” all’immagine figurativa (e non “realistica”, perché proprio un “nuovo realismo” era da Malevi/ considerata la sua fase suprematista) che si sviluppa tra i tardi anni Venti e gli anni Trenta fino alla morte dell’artista. È noto che questa ultima, copiosa fase è colma di continui, insistiti e più o meno espliciti rimandi (oltre che, attraverso modalità più figurativamente evidenti, alla tradizione iconica russo-ortodossa) al periodo suprematista. I piani-superficie di cui si compone Testa di contadino del 1930 circa, le forme non-oggettive del corpetto delle figure femminili nel Ritratto della moglie e della Lavoratrice, lo stesso Quadrato nero che compare appeso alla parete sullo sfondo del Ritratto di V.A. Pavlov, o che a mo’ di firma affiora quasi invisibile e commovente in proporzioni ridottissime nell’angolo in basso a destra nell’Autoritratto (tutte opere del 1933), sono soltanto alcuni esempi. Sul piano storico sarebbe insensato e del tutto incongruo respingere l’ipotesi secondo cui il ritorno a una pittura più “comprensibile” dalle masse è profondamente implicato con le conseguenze liberticide che sulle arti e sulla cultura ebbe il terrorismo staliniano di Stato. Lo prova la disposizione testamentaria che Malevi/ redasse e lasciò a Berlino il 30 maggio del 1927: «Nel caso della mia morte o della totale privazione della mia libertà, il possessore di questi manoscritti, ove voglia pubblicarli, deve studiarli a fondo e poi tradurli in un’altra lingua. Ciò perché mi trovai, a suo tempo, soggetto a influenze rivoluzionarie e potrebbero quindi sorgere rilevanti opposizioni alla forma con cui difendo l’arte che ora (1927) rappresento. Questo è quanto si deve osservare»136. Lo prova il totale isolamento artistico ed esistenziale in cui l’artista fu tenuto dal 1930 in poi. Lo provano i due arresti: il primo al suo ritorno dal viaggio in Ger136

Cfr. H. von Riesen, Prefazione a K. Malevi/, Suprematismo, cit., p. 8.

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mania e Polonia, il secondo quando fu incarcerato per due mesi nella “Grande Casa” −come i leningradesi chiamavano la sede dell’allora nkvd− nell’autunno del 1930. Qui però, rispettando l’asse direttivo della nostra ricerca, l’interpretazione, come abbiamo anticipato, deve trovare le sue ragioni nel decorso interno dell’opera. Sarebbe erroneo e in qualche modo ingenuo vedere nel recupero della pittura “figurativa” una sorta di “tradimento” (così da molti fu giudicato all’epoca, ad esempio da El Lissitskij), quando invece esso è del tutto conseguente alla fase suprematista. Insistere su questa anche dopo il suo sbocco plastico nei planiti, avrebbe inevitabilmente significato “istituzionalizzarne” la potenza dirompente, sfibrandola e impoverendola in accademismo: cosa che è accaduta per tutte le avanguardie ma non, appunto, per il Suprematismo di Malevi/, che ha saputo per così dire “limitarsi” alla sua sorgente originaria e inscrivere la propria opera nella sua dimensione fontale e ascetica più pura. Proprio perché era giunto fino a dipingere un quadrato nero, poi un quadrato bianco, poi alla tela vuota, poteva con ogni legittimità sul piano artistico e creativo permettersi di compiere il “falso movimento” di dipingere ritratti “figurativi”, che soltanto una considerazione dell’avanguardia in termini unicamente evoluzionistico-progressivi poteva giudicare un “passo indietro”. Raggiunto lo zenith, toccato il punto-limite, il percorso fatto per raggiungerlo può rovesciarsi acronicamente su sé stesso, proprio come leggiamo in questo straordinario passo di Kleist: «come l’intersezione di due linee, vista da un punto dato, dopo aver traversato l’infinito, d’improvviso si ritrova dall’altra parte di quel punto, o l’immagine dello specchio concavo, dopo essersi allontanata all’infinito, ci ricompare vicinissima davanti; così si ritrova anche la grazia, dopo che la conoscenza, per così dire, ha traversato l’infinito […] questo è l’ultimo capitolo della storia del mondo»137. *** 137  H. von Kleist, Della riflessione, in Opere, trad. it Sansoni, Firenze 1959, p. 888.

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Non riusciremmo a comprendere nulla dell’intero percorso artistico e filosofico di Malevi/ se non lo vedessimo attraversato da una “plotiniana” aspirazione verso l’aneidon, il ‘senza forma’ dell’esperienza puramente teoretico-contemplativa, mentale, veicolata dal medium il più possibile smaterializzato. Come se il Suprematismo reclamasse, pretendesse −lo abbiamo già visto− una visione noetica e non più empirica. Questa, d’altronde, è una delle spinte più potenti, delle tensioni più profonde e cruciali di tutta l’arte novecentesca, sia essa “figurativa” o meno. Può darsi un’estetica ascetica? Un’estetica che si rivolge contro i propri stessi fondamenti? Oppure l’evidente ossimoro ne blocca sul nascere, ne paralizza a priori l’esperienza? Come la percezione senza oggetti poteva riconoscibilmente comunicarsi-materializzarsi in pittura? Come può darsi uno stato estetico dell’inoggettività? Quali apparenze assumerà? Tutta l’opera di Malevi/ è un tenace, inesausto corpo a corpo con questi interrogativi, una lotta incessante condotta all’interno di queste aporie. In essa, l’ineludibile necessità della produzione dell’apparenza, della manifestazione sensibile dell’opera, l’apophaìnestai kala erga platonico, il ‘trarre al giorno belle opere’, diventa davvero problema nei suoi aspetti più contraddittori e disperanti. Non è una caso se egli parla spesso dell’angoscia che lo attanaglia nell’abbandonare “il mondo della volontà e della rappresentazione” dove aveva fino ad allora vissuto e creato138. Da questo punto di vista, non soltanto Duchamp, ma anche Malevi/ è la fonte irrinunciabile, seppure più nascosta, più implicita, dell’arte concettuale degli anni Sessanta-Settanta. L’attitudine più profonda della sua intera opera si dispone su di una soglia, come tutte le soglie paradossale e antinomica, posta sul fragile delicatissimo discrimine tra ipseità e manifestazione, ritenzione “quintessenziale” e ne-

138 Malevi/ conosceva Schopenhauer e il suo profondo interesse per l’ascesi nirvanica del buddhismo, cfr. T. Andersen, Prefazione a K. Malevich, The World of Non-Objectivity. Unpublished Writings 1922-25, Borgens Forlag, Copenhagen 1976, pp. 7-10.

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cessità espressiva. Egli è in aperto, dichiarato e soprattutto teorizzato conflitto con l’apophaìnestai kala erga, ma nello stesso tempo, ma davvero nello stesso tempo, deve con quel principio scendere a patti. Nel suo itinerario suprematista − operativo e filosofico− la pittura necessariamente viene messa in perpetua e sempre rinnovantesi contraddizione con sé stessa, con la propria ratio, cioè con il suo inaggirabile porsi come cosa sensibile, fenomeno circoscrivibile. Dunque come illusione, fantasma: l’ultimo, sia pur sottilissimo velo di Maya. Malevi/ sa bene, come uomo e come artista, e talora con disperata speranza, di dover venire a patti con la mondanità del mondo come coacervo di irricomponibili differenze, come regio dissimilitudinis, dunque ha da confrontarsi continuamente con la necessità della contingenza, e questo confronto non cessa di solcarne ma anche di costruirne, di fondarne l’opera. Per chiarire, o meglio per interrogare ancora più a fondo questo snodo cruciale dobbiamo estendere la nostra prospettiva a quella dimensione teologico-filosofica con cui abbiamo iniziato al nostra ricerca. Non v’è alcuna ombra di dubbio che, se confrontata all’inesprimibile, ineffabile, insostenibile bellezza della visio facialis garantita dall’escatologia cristiana, che è immediato, puro vedere inoggettivo quindi libero da ogni necessità di essere interpretato, se paragonata cioè alla futura visione faccia a faccia con Dio che ci attende (quando saremo, precisa ancor più intensamente, “eroticamente” Meister Eckhart, con Lui «bocca a bocca»), allora «ogni bellezza di forme visibili, varietà di colori, proporzione gradevole, splendore di carbonchio, verde dei prati», scrive il Cusano nel De quaerendo deum, «è davvero nulla alla corte del grande re, né più né meno che se si trattasse dell’infimo strame della reggia»139. In quanto creature, siamo condannati −in questo mondo terreno del quale ci troviamo temporanei ospiti («Siate di passaggio» ricorda Cristo nel logion 42 del Vangelo secondo Tommaso)− a servirci di figure, similitudini, me139

N. Cusano, La ricerca di Dio, in Il Dio nascosto, cit., p. 19.

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tafore, congetture. Le stesse cose sensibili, d’altronde, non possono essere intese se non attraverso similitudini: come posso conoscere la ragione propria e indelegabile, la quidditas di questa singola pietra? Quando l’essere umano tenta di attribuire un volto a Dio, non può cercarlo al di fuori dei modi in cui la specie umana è contratta. «Non siamo in grado», afferma paolinianamente Cusano nel De filiatione dei, «di andare oltre i modi dell’enigma»140. Ogni proposizione o congettura, ogni immagine o affermazione concernente le cose divine è fatta muovendo dalla realtà finita che appunto de-finisce ontologicamente chi la propone. Noi esseri confitti nella finitezza non abbiamo allora alcun altro modo di associarci all’intelligibile puro e di intraprendere la mistica subida al divino, se non quella di servirci del sensibile e dell’esperibile come di uno strumento. Questo motivo dello “strame” proviene al Cusano da Origene. Nel grande adattamento del platonismo al cristianesimo operato dal Padre alessandrino, l’incarnazione kenotica del Logos, il suo volontario abbassamento alle proporzioni umane, non è altro che un mezzo necessario, il medium indispensabile del quale il Primo Principio si deve servire per farsi conoscere e comprendere dagli uomini, incapaci appunto di accedere allo spirituale senza passare attraverso il sensibile. In qualche misteriosa maniera, il trascendente si dà consistenza, si solidifica, assume peso mondano. Il punto assolutamente decisivo, però, sta nel fatto, come scrive Urs von Balthasar, che questo «diventar sensibile di Dio in Cristo è un’espressione positiva del suo amore: noi dobbiamo riconoscere l’amore spirituale di Dio attraverso il sensibile»141. Ed è così che Dio, dal fondo insondabile della sua di140

N. Cusano, La filiazione di Dio, in Il Dio nascosto, cit., p. 40. E nel Possest: «[Dio] non può essere veduto per forza naturale altrimenti che in enigma», (cit., p.269) e «per quel tanto che l’invisibile stesso si manifesterà» (p. 253). 141  H. Urs von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, vol. i (1961); trad. it. Jaca Book, Milano 1971, p. 249. La dottrina origenista che vedeva nell’incarnazione soltanto un mezzo pedagogico e di conseguenza il corpo di Cristo al

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stanza, si dona all’uomo, è così che l’essere si abbandona all’ente, poiché l’umano, come già sappiamo, da sempre e fin dall’inizio è intrinseco, immanente al divino. È per questo motivo che la libera scelta dell’incarnazione non è una concessione “pedagogico-didattica” alla debolezza umana: il logos-Verbo non ha transitoriamente “dimorato” in un corpo ma è diventato uomo, anche se né Dio si è dissolto nell’umano né questo in Dio. Ciò è perfettamente espresso nella formula di Cirillo di Alessandria (370-444): «Il Logos deve possedere ciò che è nostro per dare a noi ciò che è suo». Dunque, nonostante la consapevolezza della sua insufficienza, dobbiamo tuttavia servirci del cusaniano strame per farne emergere, svelandone l’essenza simbolica, la facies che lo trascende, poiché esso stesso è già frammento, scintilla dello spirito. (Tra l’altro, è precisamente il metodo espositivo seguito dal Cusano stesso nei suoi testi, quello di proporre continui e concreti esempi “didattici” di contrazioni per avvicinare e “spiegare” l’incontraibile). Il Padre divino, secondo lo Pseudo Dionigi, apre alla rivelazione mediante simboli figurati, giacché le nostre misere facoltà non ci permettono di ascendere direttamente alla contemplazione immateriale delle intelligenze celesti; ma proprio «attraverso le immagini sensibili», a noi adeguate, il Padre «ci eleva verso l’intelligibile, e, facendoci partire dai simboli che raffigurano le cose sacre, ci fa raggiungere le semplici altezze delle gararchie celesti»142. Il sensibile cui siamo assegnati in questo mondo −e le congetture che “sperimentiamo” intorno ad esso− non è dunque sorda, ottusa, indischiudibile resistenza, non è mera opacità, ma in qualche modo è emanazione e riflesso del Vero. Immagini, congetture, metafore, in attesa di «un cibo più sostanzioso» −quello di cui godremo nella

pari di un fantasma, fu al termine di molte controversie condannata nel concilio ecumenico del 553, il secondo costantinopolitano. 142  Pseudo Dionigi l’Areopagita, Gerarchia celeste.Teologia Mistica. Lettere, cit., p. 22.

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visio beatifica− sono per il De icona addirittura «latte che nutre»143. Proprio lo strame, allora, si rivela essere il nostro necessario alimento. Perché questi mezzi sensibili con i quali significhiamo −e nei quali in modo eminente rientra anche l’arte della pittura− pur nella loro miseria e insufficienza, pur contratti nei loro limiti tutti terreni, ci sono comunque donati da Colui che essi tentano imperfettamente di designare-evocare. Lo stesso Dio ignoto ci offre tutto ciò che ci occorre per muovere verso di lui e ascendere alla sua infinita quiete, poiché Egli stesso vuole essere cercato, e noi possiamo coglierlo a condizione che sia Egli stesso a manifestarsi a noi. «Dio ama infinitamente le cose finite in quanto infinite», scrive Simone Weil144. Come già sappiamo dal nostro percorso attraverso la teologia dell’icona, è la manifestazione espansiva e radiante dell’amore divino che non rimane infecondo in sé stesso ma “trabocca” dalla sua ipseità permettendoci così di creare similitudini, immagini, congetture: il segno si apre in virtù dell’amore che −pur restando ine­ sprimibile− consente che noi comprendiamo-“incarniamo” questa stessa inesprimibilità e infigurabilità, consente cioè che nella moltitudine di volti contratti dimori celato il Volto incontraibile. Lungi dal disprezzarli, dunque, quei mezzi sensibili “troppo umani”, occorre usarne mille piedi oltre ogni feticismo, oltre ogni idolatria, cioè nella disincantata consapevolezza del loro intrascendibile limite, che consiste nel restare soltanto immagine, phainomena oggettivi del mondo inoggettivo, ombre proiettate dall’Armonia perfetta ma inapparente, non manifesta. Questo è il destino dell’artista: può solamente com-porre in immagine, trans-porre in una iconografia, letteralmente in una ‘scrittura di immagini’ il Ritmo che rimane in sé inudibile-invisibile. È questo l’uni143  N. Cusano, La visione di Dio, cit., p. 566. La metafora cusaniana riecheggia il «latte spirituale» della Lettera Prima di Pietro (2,2). «L’Inattingibile non è l’assolutamente Altro e basta, ma l’assolutamente Altro che si ri-vela in alteritate coniecturali», scrive Cacciari, «in quell’altro da sé che è la congettura», in Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 153. 144  S. Weil, Quaderni, vol. iii (1974); trad. it. Adelphi, Milano 1988, p. 179.

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co rapporto che gli è dato intrattenere con quel luogo iperuranio del quale platonicamente non riconosciamo altro che rammemorazioni (da qui, l’alta speculazione patristica sull’icona come reminescenza di ciò che mai abbiamo visto-vissuto). Eppure, nello stesso tempo, afferma Cusano −ben prima di Wittgenstein e con una sorta di parafrasi anticipata: «Tutte le cose che si possono dire non esprimono l’ineffabile, tuttavia ogni espressione manifesta l’ineffabile»145. “Manifestare” è movimento iconico-teofanico. L’espressione non esprime come suo contenuto l’ineffabile, ma lo manifesta con il suo semplice accadere. L’Uno inattingibile viene còlto in tutto ciò che riusciamo ad attingere, viene «tracciato in ogni segno»146 indifferentemente da ciò che con quel segno si traccia. È l’istanza stessa del linguaggio, è il darsi stesso del sensibile che, sebbene «infimo strame», riesce a evocare, convocare e manifestare quell’Uno ineffabile-inattingibile che con la sua virtù abbraccia tutto il dicibile. Già lo stesso Pseudo Dionigi nella Lettera ix aveva affermato che «l’ineffabile appare intrecciato con ciò che si può profferire»147. Secondo il movimento che abbiamo già visto decisivo all’interno della dimensione teologica dell’icona, l’inattingibile non resta idiotes, chiuso, sigillato in sé stesso. Il Dio cristiano (qui radicalmente diverso da quello ebraico e da quello islamico) che è amore irradiante (cfr. Ebrei 1,3), ci viene incontro, non ci lascia soli nella nostra miseria, nella nostra insufficienza. A quell’Armonia inapparente, a quel Ritmo inudibile appartiene per essenza un conato, un’insopprimibile esigenza espansiva all’autotrascendimento, così come l’inoggettività di Malevi/ è sì il nulla, ma è il nulla all’opera. Ci confrontiamo quindi con un Inattingibile che è per essere attinto restando inattingibile, con una pura Qualità che rimanendo tale è ab origo disposta e aperta alla significazione,

alla trasposizione in altro da sé: energia irradiante, intesa come continua abolizione dei propri stessi confini −l’ablatio terminatorum cusaniana− e della propria latenza148. La costellazione nella quale dobbiamo inserire e interpretare questo passaggio è però di natura eminentemente filosofica. L’essenza per definizione non appare, sta in sé irrivelata. Tuttavia nel fare dell’arte come manifestazione sensibile, il momento negativo, l’opposto dell’essenza, cioè l’apparire manifesto, si mostra paradossalmente come movimento immanente e intrinseco all’essenza, momento interno e ineludibile. Questo e non altro è il filosofema centrale e decisivo dell’estetica di Hegel che “presiede” al Vergangenheitscharakter der Kunst, al ‘carattere di passato proprio dell’arte’ che lì si annuncia, volgarmente interpretato come “morte dell’arte”. Questo e non altro significa in Hegel poi in Heidegger lo storicizzarsi evenemenziale della verità, il fatto cioè che la verità si fa evento: significa che essa neanche sarebbe pensabile se non si trasponesse, se non si manifestasse (ma seguendo, questo il punto, la sua intima, dialettica necessità) nelle forme dell’apparenza sensibile come suo proprio momento negativo −un momento in cui certo permane una dimensione originaria di nascondimento e di latenza− senza il quale resterebbe improduttivamente, nichilisticamente “autistica”. Il vero, al contrario, consiste precisamente nel poter prodursi, nel poter essere tratto-fuori (su questo Heidegger ne L’origine dell’opera d’arte è chiarissimo fino alla lettera) dalla insondabile identità con sé stessa per storicizzarsi in quanto evento, per ac-cadere nell’esistente. Uno dei modi e dei luoghi esemplari della storicizzazione evenemenziale della verità è l’arte. Tutto questo Malevi/ lo sa. Lo sa da pittore e da pensatore. Sa perfettamente di dover inventare lo “stato estetico”

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148  È questo il versante “positivo” del linguaggio e del fare, è questa la paradossale dicibilità-visibilità dell’indicibile-invisibile declinata nei polimorfi dialetti artistici moderno-contemporanei, cfr. il ns. Il Sublime è Ora, Castelvecchi, Roma 1993.

N. Cusano, La filiazione di Dio, cit., p. 51. Ivi. 147  Pseudo Dionigi l’Areopagita, Gerarchia celeste.Teologia Mistica. Lettere, cit., p. 149. 146

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dell’inoggettività. Di nuovo: sa perfettamente, al pari dell’artista zen, che non si può evocare il nulla semplicemente nulla dipingendo. Tutte le opere suprematiste lo testimoniano. Il Quadrato, il Cerchio, la Croce. Forme regolari, geometriche, primarie, “noetiche”. Forme “mentali”, certo. E tuttavia dipinte, raffigurate: incarnate. E che, proprio per questo, possono mantenere-mostrare solo il ricordo della loro astratta, categoriale normatività, della loro deducibilità ideale, puramente logico-geometrica. E lo mantengono proprio attraverso l’imprecisione fenomenica dell’immagine concretamente intuibile, costruita −e non “composta”− nella contingenza della materia pittorica. Nessun algido geometrismo. La geometria è semmai restituita sotto forma di permanente squilibrio, di catastrofe perpetuamente imminente. La costruzione pittorica non è mai automatica estrinsecazione-deduzione da una legge trascendente, non è garantita da alcun assioma. È una processualità che accetta lo scarto e l’imprevedibilità all’interno di una dimensione di controllo, di vigilanza razionale. I bracci della Croce sono diversi per grandezza l’uno dall’altro; il Cerchio è “attratto” dall’angolo in alto a destra. Malevi/ chiamava Quadrangolo (chetyreuvol’nik) il Quadrato nero proprio allo scopo di sottolineare che in realtà non si tratta di una figura geometrica regolare poiché non presenta parallele né angoli retti né lati di uguale lunghezza. Nella sua prima versione, la forma è leggermente divergente-asimmetrica rispetto ai bordi della tela; il colore (con il quale, come già sappiamo, Malevi/ coprì un quadro precedente) non è steso in maniera perfettamente uniforme e il ductus pittorico lascia percepibili i movimenti della mano. Nella seconda versione del Quadrato nero i bordi bianchi ai lati sono più stretti, il quadrangolo è più rigido rispetto alla prima versione e si avvicina maggiormente all’ortogonalità della figura geometrica “ideale”. Nella terza versione l’angolo sinistro in alto si allunga in una leggera cuspide. In nessuna delle tre versioni si riscontra la medesima proporzione tra le aree occupare dal bianco e dal nero. Il Quadrato rosso (realismo pittorico di una contadina a due di144

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mensioni) non è affatto un quadrato ma un quadrilatero con una vistosa cuspide a destra in alto, e nella straordinaria costellazione degli Otto rettangoli rossi, il più lungo è nettamente in disasse rispetto agli altri più piccoli, che peraltro si sviluppano sì tutti in diagonale ma non parallelamente tra loro. In tutte le opere suprematiste l’equilibrio delle masse di colore puro risulta estremamente rigoroso sebbene non sia mai statico ma cinetico-dinamico, e si costruisce autonomamente, in modo indipendente, da una norma compositiva aprioristica che ne ordinerebbe la complessità. Evidente è l’imperfetta stabilizzazione della forma: geometricamente imprecisa, oscillante, asimmetrica, sbilenca nei contorni, indecisa negli assi direzionali che, paralleli o perpendicolari, non sono mai perfettamente ortogonali gli uni rispetto agli altri. Il colore non è mai steso in modo piatto e meccanico, il valore cromatico viene variato attraverso un ductus pittorico sottilmente cangiante, la testura è vibratile, intensamente pittorica. Spesso sono visibili i tocchi di colore sovrapposti (dei quali la riproduzione fotografica solitamente non restituisce quasi nulla) contrariamente a quanto potrebbe pensarsi dato l’apparente minimalismo geometrico delle opere. Qual è il senso e la condizione di questo stato estetico con il quale l’invisibile si offre nel visibile, se non il passaggio necessario attraverso lo “strame” cusaniano che però è “latte che nutre”, attraverso le forme sensibilmente intuibili come unico rapporto possibile con l’inoggettivo, con il nulla da riconquistare, liberare e svelare? Passaggio che è condanna e dramma, ma insieme unica risorsa, ombra che è via alla tenebra luminosa.

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tavole a colori


Attraverso un intreccio tra appartenenza e discontinuità, memoria e oblìo, contesto e modificazione, il Quadrato nero, l’“infante regale”, segna una rottura irreversibile con la storia della pittura e insieme un “commento” alla secolare tradizione dell’icona, che viene trascritta e inscritta nella sua stessa concezione originaria. Esso indica quella presenza del niente rivelata dalla luce nera −luce risalente cioè verso la propria fonte− che occorre figurare, al di là di ogni malintesa iconoclastia che scompone l’antinomia su cui si fonda l’icona. Il formato quadrangolare è onnipresente nella pittura sacra del cristianesimo orientale, e nell’Accoglienza dell’icona della Madre di Dio di Vladimir compare nella sua letteralità visiva un “identico” quadrato nero. Come l’icona ha la funzione protrettica di assecondare e stimolare nel fedele lo sforzo all’imitatio Christi incarnando con la propria condotta di vita la somiglianza con il Prototipo, a farsi insomma, per quanto possibile, “icona di Cristo”, così l’ultima icona del Quadrato nero −nella sua solenne e asseverativa concisione fonte di meditazione spirituale− prepara, induce, avvia verso l’esperienza di ciò che non appare. Nell’identità di forma, luce e colore, il piano-superficie del Quadrato bianco bascula asimmetrico nel bianco, e soltanto una piega bianca nel bianco fa la differenza; soltanto un solco di nulla, un’inflessione neutra sospesa e illocalizzabile tra il movimento e la quiete conferisce visibilità all’invisibile. Al di là del Quadrato bianco non poteva esserci che la conquista dello spazio reale con gli architektony o planiti, costruzioni plastiche bianche che aggregano componendole a varie altezze forme non oggettive la cui matrice è il cubo, slanciate sulla verticale oppure distese in orizzontale: plastici ideali delle abitazioni che gli zemljaniti −i futuri ‘inquilini della Terra’ nel conio zaum’ di Malevi/− potranno utilizzare una volta che ne adeguino la struttura alle loro specifiche necessità vitali.

1. Quadrangolo nero, 1915 (datato sul retro 1913)


2. Accoglienza dell’icona della Madre di Dio di Vladimir


3. 0,10 Ultima mostra futurista, 1915


4. Trittico di Seti


5. San Teodoro stratilate con scene della vita


6. Quadrangolo nero (versione del 1923, datato sul retro 1913)


7. Quadrato bianco, 1918


8. Architekton, anni Venti


9. K.M. composto nella camera ardente con Quadrangolo nero e bara suprematista, 1935


La vis architettonica spesso presente nelle icone esprime la prevalenza dell’universale sull’individuale e del necessario sul contingente. I motivi geometrici −e certo altamente simbolici nella pittura sacra− del cerchio e soprattutto della croce sono costantemente presenti nell’iconografia ortodossa e ossessivamente ricorrenti nei dipinti e nei disegni di Malevi/ dal 1915 in poi. L’ascendenza iconologica del secondo motivo si ritrova nelle croci nere sulle stole candide dei santi e dei Padri teologi, la cui natura ornamentale è confermata dal fatto che non seguono plasticamente le pieghe del panneggio su cui sono impresse. Il Cerchio di Malevi/ è come attratto dall’angolo in alto a destra, esattamente come il medaglione circolare con l’angelo della Madre di Dio Grande Panagija. Talvolta, come nel Giovanni Crisostomo o nel Salvatore acheropita (e anche se in modo diverso nella stupenda composizione quasi en abîme di rombi e ovali del Salvatore tra le potenze) croce e cerchio formano un unico insieme geometrico. Così, in un dipinto del 1921 la croce rossa si distende allungandosi sul cerchio nero, e in un altro precedente della fase bianca, il piano che fluttua ascendendo in diagonale è attraversato da tre elementi curvilinei −di cui due raggiungono quasi la forma a semicerchio− che si sovrappongono a evocare quasi la doppia croce ortodossa.

10. San Basilio, San Gregorio Teologo, San Cirillo d’Alessandria


11. Suprematismo, 1915-1916


12. La glorificazione della Croce


13. Suprematismo, 1921-1927


14. Crocifissione


15. Parasceve Pjatnica e i Santi Gregorio il Teologo, Giovanni Crisostomo, Basilio il Grande


16. Croce nera


17. Giovanni Crisostomo


18. Suprematismo, 1921


19. Salvatore acheropita


20. Deesis: Salvatore tra le potenze


21. Suprematismo, 1918


22. Madre di Dio Grande Panagija Orante di Jaroslavl’, particolare


23. Cerchio nero, 1915


Solo con i restauri dei primi anni del Novecento, il mito della “tenebrosa icona” si è dissolto, la fuliggine e il nerofumo che ricoprivano le opere furono eliminati e si scoprì quella straordinaria vivacità e brillantezza cromatica vicina a una sorta di mistica solare (l’ombra e il chiaroscuro sono ignorati) che non è in contraddizione con l’ascetismo cui l’icona richiama, poiché non c’è resurrezione senza la morte del corpo: l’evento pasquale è uno con lo strazio della croce. Nel periodo del primitivismo cubofuturista e in quello del suprematismo dinamico, all’insieme cromatico −soprattutto giallo, verde e rosso, ma anche arancio, scarlatto, vinaccia, blu oltremarino− manca soltanto il diapason dell’oro (che non è un colore ma un metallo di luce pura che può riferirsi unicamente alla divinità) per ricordare da vicino il ritmo musicale dei colori (molti iconografi erano anche cantori di chiesa), che nell’icona sono sempre utilizzati in modo simbolico per indirizzarli allo spirituale, all’ultraterreno. Il rosso, per la sua forza irradiante generatrice di energia, è talvolta usato per lo sfondo dell’icona in sostituzione dell’oro. Il Quadrato rosso, con la sua cuspide che si appuntisce salendo a destra, sembra “trascrivere” sia il moto ascensionale dei bulbi dorati delle chiese ortodosse, sia, soprattutto, la fiamma ardente dentro la quale Elia, su «un carro di fuoco con cavalli di fuoco» (2Re 2,11), viene rapito in cielo. Il giallo vivido, acceso, intensamente luminoso che pervade molte icone (straordinario quello della Theotokos di Vladimir) viene “ricordato” nello supefacente trapezoide sospeso sull’abisso bianco che, nel suo percorso astrale libero dalla gravità, sembra dissolversi per trasformare la sua massa di nuovo in pura energia, tornando così al suo stato quintessenziale.

24. Presentazione al Tempio


25. Taglialegna, 1912-1913


26. Suprematismo, 1915


27. Ascensione


28. Salvatore in trono con Santi


29. Ascensione del profeta Elia sul carro di fuoco


30. Quadrato rosso. Realismo pittorico di contadina a due dimensioni


31. Kirill di Beloozero


32. Crocifissione con medaglioni di santi e angeli nella cornice


33. Theotokos di Vladimir


34. Pittura suprematista (Quadrato giallo), 1917-1918


La diagonale simboleggia una dinamica di ascensione. Il sarcofago presso il quale sostano le pie donne ha una forma rettangolare obliqua proprio come le superfici-piano di Malevi/. Forma che è echeggiata in parte nei costoni della montagna (che si ritrovano molto simili nelle rocce della Natività di Cristo con Santi scelti) alle spalle dell’angelo seduto sul sepolcro vuoto in cui restano solo le fasce funebri. La composizione de Le mirofore al Sepolcro è impostata su una diagonale che sale verso destra come la Scala del Paradiso, con una studiata ed equilibratissima ascensione che si ritrova negli Otto rettangoli rossi e in Aereo in volo, “costellazioni” di straordinaria, potente icasticità. Nel primo, il rettangolo più grande è nettamente in disasse rispetto agli altri di minori dimensioni, che si dispongono sì tutti in diagonale ma non parallelamente tra loro. Nel secondo −con il titolo che incoraggia l’evocazione mimetica sia pure limitata ad una larvale stenografia− la composizione è più complessa in ragione delle due sbarre rosse orizzontali in alto che fanno da contrappunto al vettore diagonale dell’insieme. Le linee oblique e angolari –simili agli spigoli vivi della voragine infernale che si spalanca sotto i piedi del Redentore nella Discesa agli inferi– si ripresentano nella loro durezza cristalliforme e nella loro asperità stalagmitica sulle pieghe della veste del Cristo della Deesis.

35. Mirofore al Sepolcro


36. Discesa agli inferi


37. Otto rettangoli rossi, 1915


38. NativitĂ di Cristo


39. La scala del Paradiso


40. Deesis


41. Aereo in volo, 1915


Nella fase post-suprematista dell’opera di Malevi/, le “trascrizioni” dalla tradizione iconica russo-ortodossa si presentano più figurativamente evidenti. La sagoma morbida del velo sul capo di Maria −l’unico essere umano deificato− e dell’aureola che ne ripete la curvatura nella Madre di Dio della Tenerezza (del tipo iconografico dell’Odigitria Eleousa) si vede riecheggiata quasi letteralmente nella forma sinuosa del pettine e del colletto della casacca nella Fanciulla con pettine tra i capelli. Le due figure femminili di Malevi/ (l’una dalle sembianze riconoscibili, l’altra al limite del pittogramma) −così come numerose altre dello stesso periodo post-suprematista− sono composizioni a figurazione binaria di ieratica ma solo apparente semplicità, esattamente come i loro “modelli” iconografici. In questi ritratti, le due metà dell’intero diviso longitudinalmente si interconnettono attraverso echi e richiami grafici, lineari e cromatici in un mirabile ritmo contrappuntistico che fissa l’asimmetrico equilibrio tra le due parti. Analogo sviluppo armonico nella Madre di Dio della Tolga, dove le campiture di colore (il porpora, il rosso, il verde) corrispondenti al manto di Maria e alla veste del Bambino −che sembrano fondersi l’un l’altro in un intreccio insieme genitoriale e spirituale− si alternano richiamandosi a vicenda in un sontuoso, cadenzato ritmo sia cromatico sia lineare.

42. Madre di Dio della Tenerezza


43. Fanciulla con pettine tra i capelli, 1932-1933


44. Grande icona della Madre di Dio della Tolga


45. Busto femminile, 1928 circa


46. Busto femminile (Figura con volto rosa), 1928 circa


Apparentemente, in questo accostamento, il vuoto si confronta con il pieno, l’assenza con la presenza. In realtà, da una parte, si manifesta la presenza del nulla, la capacità produttiva dell’invisibile che si rivela sensibilmente nel Nero e nel Bianco; dall’altra, assistiamo alla ripetizione simulacrale di un originale assente, alla riproduzione di un prototipo fantasmatico dimentica perfino di aver dimenticato la differenza tra apparenza e reale. Da una parte l’assenza che si fa presente; dall’altra, l’eccesso di presenza che annichila sé stesso. In Malevi/, la dissoluzione dell’immagine produce l’icona dell’infigurabile e dell’inapparenza che si rivela; in Warhol, l’immagine seriale dissolve svuotandola di senso l’icona creata dal corpo-merce. Il primo allestisce una vera e propria iconologia dell’ascesi aniconica; il secondo esemplifica perfettamente il paradosso secondo cui l’immagine non è altro che la memoria dell’iconoclastia come sua origine.

47. Malevi/, Quadrato nero – Warhol, Marilyn


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