MILANO E LOMBARDIA DALL’ALTO
Maria Antonietta Crippa, Stefania De Francesco, Paola Marina De Marchi, Luisa Erba, Paolo Grillo, Alberto Marretta, Silvia Muzzin, Elisabetta Roffia, Maria Giuseppina Ruggiero, Serena Solano, Ferdinando Zanzottera
MILANO E LOMBARDIA DALL’ALTO Campagna fotografica bamsphoto – Rodella
International Copyright © 2015 by Editoriale Jaca Book SpA, Milano All rights reserved
Indice
Capitolo primo
L’arte rupestre camuna Alberto Marretta, Maria Giuseppina Ruggiero Pag. 23 Prima edizione italiana aprile 2015
Capitolo secondo L’età romana Serena Solano, Elisabetta Roffia, Stefania De Francesco Pag. 33
La campagna fotografica aerea è dello studio bamsphoto – Rodella Per le immagini alle pagine 22, 25-30, 32: Soprintendenza Archeologica della Lombardia La cartografia alle pagine 18-21 è di Daniela Blandino
Capitolo terzo La Lombardia in età tardoantica e altomedievale Paola Marina De Marchi Pag. 53 Capitolo quarto Il Medioevo: città, chiese e castelli Paolo Grillo Pag. 83
Pagine precedenti Il Duomo di Milano. Lo circondano, visibili in senso orario, la sede della Fabbrica del Duomo, l’Arcivescovado e Palazzo Reale. In primo piano, il campanile della chiesa di S. Gottardo. Sullo sfondo, verso il nord della città, le costruzioni dell’area di Porta Nuova.
Capitolo quinto Le cattedrali medievali: luoghi di culto, simbolo di potere e cuore della città Silvia Muzzin Pag. 125 Capitolo sesto Il Rinascimento Ferdinando Zanzottera Pag. 155
Redazione del testo Elisabetta Gioanola/Jaca Book Copertina e grafica Breakpoint/Jaca Book
Capitolo settimo Lombardia dall’alto: barocco e barocchetto Luisa Erba Pag. 191
Selezione delle immagini Pixel Studio, Milano
Capitolo ottavo Il Neoclassicismo Ferdinando Zanzottera Pag. 223
Stampa e legatura D’Auria Printing Spa, Ascoli Piceno aprile 2015
Capitolo nono
ISBN 978-88-16-60521-3 Per informazioni: Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48.56.15.20 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it
Abitare in Lombardia tra xix e xxi secolo Maria Antonietta Crippa Pag. 255 Bibliografia di riferimento Pag. 320 Indice dei nomi e dei luoghi Pag. 323
Quanto più alto giungevo in questo slancio sublime, tanto più basso, arreso e umiliato mi trovavo. Dissi: non vi sarà chi l’arrivi, e mi umiliai così tanto che mi trovai tanto alto che raggiunsi il mio desir.
Editoriale
(san Giovanni della Croce)
Salire in alto, come ogni altro elemento del paesaggio simbolico umano, esprime un valore dialettico. Anche nella tradizione biblica, per esprimere la ricchezza della rivelazione dell’unico Dio, troviamo tra i titoli arcaici ’el šaddai, il «Dio della montagna» ed ’el ‘eljôn, il «Dio Altissimo». La verticalità, forse anche in relazione alla posizione eretta dell’uomo, è la direzione che esprime ogni attività spirituale. Del resto, anche il linguaggio comune manifesta questa coscienza simbolica, quando parla di valori elevati o ancora quando esprime apprezzamento per un personaggio che definisce di alto profilo intellettuale o morale, o al contrario riconosce di non essere all’altezza di una certa situazione. Il simbolismo ascensionale, per la sua importanza basilare, è quindi molto frequente nella mitologia e nelle pratiche religiose di tutta l’umanità. Nella tradizione vedica indiana si parla di durohana, la «salita difficile»; nel culto di Mitra, vi è la scala iniziatica; nel Libro dei morti dell’Antico Egitto una scala permette di raggiungere la dimora divina; nella Bibbia, passando a Betel, Giacobbe sogna una scala che raggiunge il cielo (Genesi 28); e Mircea Eliade, a riguardo dell’esperienza dello sciamano, attesta che costui, giunto all’acme della sua estasi, esclama: «Ho raggiunto il cielo, sono immortale». Per questo abbiamo voluto volare in alto per scoprire la bellezza più autentica della nostra terra, la Lombardia, con la sua cultura e la sua tradizione. Vorremmo che il lettore, sfogliando queste meravigliose pagine fotografiche illuminate da altrettanto eccellenti introduzioni storiche, paesaggistiche e artistiche, raggiunga la profondità della nostra terra e il suo epos più autentico, quello che la Provvidenza ci ha lasciato in dono. Ogni ascensione è simbolo di rottura o di cambio di livello: dalla condizione quotidiana e profana, alla dimensione più alta dell’appartenenza sacrale. «Trascendere la condizione umana, in quanto si penetra in una zona sacra (tempio, altare) per mezzo della consacrazione rituale o della morte, si esprime concretamente con un “passaggio”, una “salita”, una “ascensione”» (M. Eliade). Con questo volume, la Veneranda Fabbrica è fiera di trasmettere – a tutti i lombardi e a tutti i “cittadini del mondo” che visiteranno la nostra terra – la responsabilità di trasformare quanto abbiamo ricevuto dalla Provvidenza e dalla laboriosità dei nostri padri in un dono da condividere con tutti.
La fotografia a “volo d’uccello” è, come sappiamo, erede delle vedute che si sono sviluppate nei secoli a partire dalla famosa pianta di Venezia di Jacopo de’ Barbari (1500). Lo studio bamsphoto – Rodella, in accordo con Jaca Book, si è da tempo specializzato nella fotografia da elicottero per realizzare vedute assonometriche di monumenti e prospettive urbanistiche e paesaggistiche che seguano puntualmente le indicazioni editoriali. Ciò che caratterizza la presente opera per quanto riguarda Milano e la Lombardia è l’utilizzo di tale metodo fotografico per tracciare la storia delle forme cittadine e delle emergenze monumentali dell’intera regione. Sono stati coinvolti nel progetto archeologi, storici, storici dell’arte e dell’architettura. Milano, già capitale dell’Impero romano, percorre tutte le fasi di tale storia con evidenze artistiche importanti sino all’attuale nuovo skyline della città. Le città lombarde e il paesaggio extraurbano hanno conservato, oltre a presenze preistoriche e di epoca romana, importanti testimonianze dal Medioevo alla scena barocca e dalla Rivoluzione industriale alla contemporaneità. Il volume, coeditato da Jaca Book e dalla Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, ha infine uno sguardo attento alle grandi cattedrali lombarde e a quel manufatto straordinario che è il Duomo di Milano, verso cui la città da sempre converge o, se si vuole, da cui si dipana; simbolo non solo della città, ma della stessa cultura ambrosiana che ha visto in Ambrogio il suo iniziatore e in san Carlo il suo riformatore. Gli editori confidano che questa opera aiuti a cogliere la straordinaria sedimentazione artistica e culturale di una città e di una intera regione in rapporto alla loro evoluzione storica ed economica. Sante Bagnoli e Vera Minazzi
mons. Gianantonio Borgonovo
Arciprete e Presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano
*Nota per la lettura delle immagini
I numeri di pagina posti a margine del testo rinviano alle immagini a corredo del volume.
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Capitolo primo
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L’arte rupestre camuna
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Capitolo primo
Pagine precedenti Veduta panoramica con l’incrocio dei tre rami del lago di Como con la penisola di Bellagio. Sullo sfondo, l’arco alpino. In queste pagine Lo sviluppo della città di Cremona in rapporto con la campagna circostante. Al centro, la cattedrale con il battistero e il Torrazzo.
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Capitolo primo
Il centro medievale e rinascimentale di Mantova con il Duomo, piazza Sordello, il palazzo ducale gonzaghesco e il castello di S. Giorgio. Pagine seguenti Foro Bonaparte a Milano, semicerchio di costruzioni di epoca napoleonica che si apre intorno al Castello Sforzesco.
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Capitolo primo
L’arte rupestre camuna
Il nuovo skyline di Milano con i grattacieli in costruzione nell’area di Porta Nuova, vasto progetto di riqualificazione della zona compresa tra il quartiere Garibaldi, Isola e l’area delle ex Varesine.
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L’arte rupestre camuna
Milano
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L’età romana 1 Fondazioni dell’Anfiteatro Romano 2 Colonne reimpiegate nel colonnato della basilica di S. Lorenzo Maggiore 3 Area archeologica di via Brisa
La Lombardia in età tardoantica e altomedievale 1 S. Maria e Sigismondo, poi Monastero Maggiore 2 S. Ambrogio con cappella di S. Vittore in Ciel d’Oro 3 S. Lorenzo con cappella di S. Aquilino 4 S. Eustorgio con impianto cultuale paleocristiano
Il Medioevo: città, chiese e castelli 1 S. Simpliciano 2 S. Ambrogio 3 Darsena e Naviglio Grande 4 Abbazia di Chiaravalle Milanese 5 Piazza dei Mercanti e broletto duecentesco (Palazzo della Ragione) 6 Palazzo dell’Arcivescovado di Milano e campanile della chiesa di S. Gottardo 7 Rocchetta Viscontea, nucleo dell’attuale Castello Sforzesco
Le cattedrali medievali 1 Duomo di Milano
Il Rinascimento 1 Ca’ Granda dei Poveri di Dio ex Ospedale Maggiore 2 Cappella Portinari in S. Eustorgio 3 S. Maria presso S. Satiro 4 S. Maria delle Grazie 5 Certosa di Garegnano 6 S. Fedele 7 Palazzo Marino
Lombardia dall’alto: barocco e barocchetto 1 Biblioteca Ambrosiana 2 Collegio Elvetico 3 Palazzo Litta 4 S. Maria della Sanità 5 Palazzo Sormani 6 Collegio dei Gesuiti (Palazzo di Brera) 7 Foppone dell’Ospedale Maggiore (Rotonda della Besana)
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Il Neoclassicismo 1 Villa Belgioioso Bonaparte 2 Palazzo Reale 3 Teatro alla Scala 4 Palazzo Marino 5 Arena Civica 6 Arco della Pace 7 Giardini Pubblici 8 S. Carlo al Corso 9 Bastioni di Porta Venezia
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Abitare in Lombardia tra xix e xxi secolo 1 Palazzo dell’Arengario 2 Galleria Vittorio Emanuele 3 Percorso assiale da piazza del Duomo a corso Sempione 4 Cimitero Monumentale 5 Palazzo della Triennale 6 Stazione Centrale 7 Quartiere S. Siro 8 QT8 9 Torre Velasca 10 Grattacielo Pirelli 11 Piazza San Babila con l’imbocco di corso Europa 12 Fiera Milano City 13 Palazzo della Regione Lombardia 14 Headquarter Unicredit 15 Diamante 16 Solaria e Aria Arquitectonica 17 Bosco Verticale 18 Palazzo di Giustizia 19 Rho Fiera Milano
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Età romana
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Milano tardoantica e altomedievale Medioevo Cattedrali
Le mappe di Milano e Lombardia mostrano la collocazione di città, quartieri e monumenti con tavole dedicate.
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Rinascimento Barocco e Barocchetto
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Neoclassicismo Milano tra XIX e XXI secolo
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Passo dello Spluga 2115
Passo dello Stelvio 2757
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L’arte rupestre camuna Valle Camonica 1 Naquane 2 Bedolina 3 Piè 4 Seradina
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Lombardia
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Valtellina
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Il Medioevo: città, chiese e castelli 1 S. Pietro a Civate 2 Ponte trecentesco e S. Michele a Pavia 3 Nucleo originario di Bergamo (“Città Alta”) 4 Borgo e rocca di età sforzesca a Soncino 5 Arengario e torre civica di Monza 6 Torre civica e broletto del Duomo di Como 7 Broletto (Palazzo della Ragione) di Bergamo e piazza civica (Piazza Vecchia) 8 Torri familiari nel centro di Pavia 9 Palazzo Ducale di Mantova 10 Castello di S. Giorgio a Mantova 11 Castello Visconteo a Pavia 12 Certosa di Pavia
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La Lombardia in età tardoantica e altomedievale 1 Monastero di S. Salvatore e S. Giulia a Brescia 2 Rotonda paleocristiana sottostante la Rotonda di ix secolo a Brescia 3 Area del battistero presso S. Lorenzo a Mantova 4 Duomo di Monza, sorto in luogo della basilica di Teodolinda 5 Nucleo pievano di S. Giovanni con battistero e area cimiteriale a Castelseprio 6 Chiesa di S. Pietro in Mavinas a Sirmione 7 Resti della basilica di S. Eufemia e del battistero di S. Giovanni sull’Isola Comacina
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Isole Borromee
Lago di Como
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Lago di Lugano
L’età romana 1 Area del Capitolium a Brescia 2 Teatro e Anfiteatro di Cividate Camuno 3 Area Archeologica delle Grotte di Catullo a Sirmione 4 Villa romana a Toscolano Maderno 5 Villa romana della Pieve di Nuvolento 6 Area archeologica di Spinera a Breno
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Mantova
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Arte rupestre camuna
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Età romana Lombardia tardoantica e altomedievale Medioevo
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Cattedrali Rinascimento
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Barocco e Barocchetto
20 Neoclassicismo Lombardia tra XIX e XXI secolo
Le cattedrali medievali 1 Concattedrale di S. Maria Assunta a Brescia 2 Concattedrale di S. Maria Maggiore a Bergamo 3 Cattedrale di S. Maria Assunta a Cremona 4 Duomo di Milano 5 Cattedrale di S. Maria Assunta a Como 6 Cattedrale di S. Maria Assunta a Lodi 7 Cattedrale di S. Maria Assunta a Crema
Il Rinascimento 1 Facciata e Cortile d’onore della Certosa di Pavia 2 Duomo di Pavia 3 S. Maria dei Miracoli a Brescia 4 Duomo di Mantova 5 S. Andrea a Mantova 6 Sabbioneta 7 Piazza Ducale di Vigevano 8 Piazza della Loggia a Brescia 9 Cappella Colleoni a Bergamo
Lombardia dall’alto: barocco e barocchetto 1 Santuario e Sancarlone di Arona (oggi Piemonte) 2 Sacro Monte di Varese 3 Giardino del Collegio Borromeo a Pavia 4 Giardino del Castello di Belgioioso a Pavia 5 Villa Arconati a Castellazzo di Bollate 6 Palazzo vescovile di Lodi 7 S. Filippo Neri a Lodi 8 Isole Borromee 9 Villa Belgioioso a Merate 10 Facciata del Duomo di Vigevano
Il Neoclassicismo 1 Villa Reale a Monza 2 Villa Olmo a Como 3 Accademia Carrara a Bergamo
Abitare in Lombardia tra xix e xxi secolo 1 Valle Camonica, Cedegolo 2 Lecco 3 Como 4 Ponte di Paderno d’Adda 5 Crespi d’Adda 6 Sondrio 7 Piazza della Vittoria a Brescia 8 Casa del Fascio a Como 9 Piazza Monte Grappa a Varese
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Capitolo primo
L’arte rupestre camuna
Alberto Marretta, Maria Giuseppina Ruggiero
Ciò che rende peculiare e unica la Valle Camonica è la straordinaria connessione che lega il paesaggio e l’ambiente all’attività umana, un legame profondo e inscindibile che affonda le sue radici nella lontana Preistoria. Gli uomini che hanno popolato queste terre hanno lasciato traccia della loro presenza in villaggi, in necropoli e in luoghi di culto, ma allo stesso tempo hanno profondamente contraddistinto la Valle incidendo sulle rocce all’aperto o sulle stele e massi-menhir dei santuari megalitici i segni della loro vita quotidiana e del loro mondo spirituale. È questa la “Valle dei Segni”, divenuta famosa in tutto il mondo proprio per il ricco patrimonio di arte rupestre iscritto nel 1979, quale primo sito italiano, nella prestigiosa Lista del Patrimonio Mondiale dell’unesco con il n. 94 (“Arte rupestre della Valle Camonica”). Un viaggio nella Preistoria trasportati dalle incisioni camune La Valle Camonica possiede una delle più grandi concentrazioni di arte rupestre al mondo, una tradizione che dalla fine dell’era Glaciale prosegue incessantemente attraverso i grandi periodi successivi della Preistoria e della Protostoria, dal Neolitico (vi-v millennio a.C.) fino a giungere, con alcune lacune, addirittura alla piena età storica (xivxvi secolo). L’apice di tale tradizione, unica nel panorama della preistoria italiana, si colloca nell’età del Ferro (i mill. a.C.) e si sviluppa parallelamente a Etruschi, Leponti, Reti e Veneti, popolazioni con le quali permangono fitti contatti fino a quando la grande potenza romana giungerà, nel i sec. a.C., a inglobare anche le genti alpine nel suo vastissimo impero. La maggior parte dei segni è realizzata mediante picchiettatura con uno strumento litico o metallico su affioramenti della roccia di base, lisciata dal lento movimento dei ghiac-
ciai quaternari. Normalmente le singole rocce incise si addensano fra loro fino a formare grandi aree rupestri poste in diversi punti della vallata, anche se la massima concentrazione si trova nella Media Valle, fra Ceto a sud e Sellero a nord, con perno attorno all’odierno abitato di Capo di Ponte. I nuclei più consistenti al di fuori di quest’area si trovano a Luine (Darfo-Boario Terme) e, in misura minore, a Plemo, Piancogno, Berzo Demo, Malonno e Sonico. L’inizio vero e proprio del fenomeno rupestre, che normalmente si colloca nel tardo Neolitico, è preceduto da una fase isolata molto più antica, databile fra la fine del Paleolitico (xii-ix mill. a.C.) e il Mesolitico (viii-vi mill. a.C.), e rappresentata da pochissime figure di grandi erbivori, fra cui forse l’alce. Queste raffigurazioni, riconosciute per ora soltanto a Luine (Darfo Boario Terme), sarebbero riconducibili ad alcuni tardi filoni dell’arte paleolitica europea di stampo animalistico (E. Anati e F. Martini). L’arte rupestre camuna è però nel suo complesso un fenomeno essenzialmente post-paleolitico, che nasce e si sviluppa parallelamente all’acquisizione di innovazioni tecnologiche e culturali sempre più sofisticate, quali per esempio l’agricoltura, la metallurgia o, nelle sue fasi più tarde, la scrittura. Proprio alcune di queste straordinarie “invenzioni”, maturate nel Medio e Vicino Oriente, trasformarono gradualmente nel corso del v e del iv mill. a.C. anche la vita dei gruppi umani di cacciatori-raccoglitori attivi nell’arco alpino: l’introduzione delle prime forme di allevamento e agricoltura, il progressivo affermarsi della stanzialità, l’utilizzo della ceramica e poi della tessitura, l’uso della pietra levigata. Si colloca in questo periodo la fondazione dei primi villaggi stabili e lo sviluppo di una società più articolata, che anche in Valle Camonica è testimoniata dagli insediamenti di Luine (Darfo Boario Terme), Coren Pagà
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Capitolo primo
L’arte rupestre camuna
Pagine precedenti La Valle Camonica si estende per oltre 70 Km nel cuore delle Alpi Centrali, fra il bacino del lago d’Iseo a sud e le vette dell’Adamello a nord. Sulle grandi rocce lisciate dai ghiacciai essa conserva una fra le più grandi concentrazioni d’arte rupestre al mondo, un patrimonio eccezionale divenuto nel 1979 il primo sito italiano ad essere inserito nell’allora neonata World Heritage List dell’unesco.
A fronte Capo di Ponte (Bs), loc. Piè. Un gruppo di capanne illuminate con la luce radente durante un’escursione notturna. Le sovrapposizioni fra figure rendono più difficile il riconoscimento delle sagome, ma forniscono indicazioni preziose sulle fasi di frequentazione della roccia.
(Rogno) e Castello di Breno. La prima fase vera e propria dell’arte rupestre della Valle Camonica si data quindi fra la fine del Neolitico e l’età del Rame (iv-inizio iii mill. a.C.), e comprende due soli filoni: gli “oranti” – figure umane schematiche a braccia e gambe ortogonali –, un tema che negli ultimi anni è stato oggetto di ampio dibattito soprattutto in termini cronologici, e le composizioni geometriche comunemente interpretate come “raffigurazioni topografiche”. Quest’ultima tematica gravita attorno all’idea della rappresentazione del territorio antropizzato, cioè modificato dalle pratiche di coltivazione, la cui riproduzione su roccia avrebbe costituito l’atto centrale di pratiche rituali connesse alla sacralità dei cicli agricoli (zappatura, semina, raccolto), un aspetto pertinente alla sfera del sacro comune a quasi tutte le popolazioni contadine del mondo antico. Nella successiva età del Rame (iii mill. a.C.) si assiste all’affermazione della prima metallurgia, dell’aratro e del trasporto su ruota. Questa fase dell’arte rupestre camuna (2900-2200 a.C.) è caratterizzata dall’erezione di monoliti spesso incisi con oggetti d’ornamento, armi o simboli, secondo una pratica che, con caratteristiche proprie, trova diffusione in gran parte del territorio italiano e sud-europeo. Questi monumenti, definiti statue-stele o statue-menhir, si rinvengono solitamente in luoghi identificabili come “centri cerimoniali”, dove ulteriori evidenze archeologiche – materiale ceramico, deposizione di resti umani e offerte, altre strutture in pietra – confermano lo svolgimento di attività di tipo simbolico legate appunto al culto e alla religiosità. Le statue-menhir non venivano quasi mai infisse nel terreno singolarmente ma piuttosto in gruppi numerosi. In Valle Camonica esse appaiono allineate in lunghi filari e quasi sempre rivolte verso oriente, come dimostrano soprattutto gli scavi nei siti di Anvòia e Pat (Ossimo). In tutti i siti europei ricorrono due tipologie ben riconoscibili di statue-menhir: una è caratterizzata da figure di armi, soprattutto pugnali ma anche asce, alabarde, archi e frecce, mentre l’altra si distingue dalla precedente per la presenza sul petto di seni stilizzati e per il ripetersi di vari elementi dell’abbigliamento femminile quali collari, mantelli, pendagli. In misura minore si rinvengono anche statue-menhir prive di specifiche caratterizzazioni sessuali o attributi particolari, segno questo del fatto che la sacralità del monumento doveva risiedere nella ieraticità stessa della pietra eretta e non nella decorazione in sé. In Valle Camonica il gruppo di monumenti maschili presenta, oltre ad alcuni fossili guida rappresentati dai pugnali a lama triangolare “tipo Remedello” e dalle alabarde “tipo Villafranca”, an-
che l’eccezionale presenza del disco solare, di innumerevoli animali selvatici, di scene d’aratura e di probabili elementi d’abbigliamento quali cinturoni a bande orizzontali e rettangoli frangiati (mantelli?). Le statue-menhir femminili si caratterizzano invece per i grandi collari e i caratteristici pendagli “ad occhiale”. La Valle Camonica ha restituito finora oltre un centinaio di monumenti e si colloca fra i maggiori siti in Europa per concentrazione di statue-menhir dell’età del Rame. Che cosa rappresentano le statue-menhir? Gli studiosi hanno fornito interpretazioni differenti a seconda dei dati disponibili nei vari luoghi di ritrovamento. Pertanto dove è forte il legame con strutture funerarie, come ad Aosta e a Sion (Svizzera), si è parlato di effigi di antenati forse eroizzati, mentre dove questi elementi mancano, come in Valle Camonica, si è invece proposto di leggervi immagini di divinità vere e proprie (R.C. de Marinis). L’ipotesi che anche in Valle Camonica i monoliti eretti siano da mettere in relazione a una forma peculiare di culto degli antenati è stata prospettata in particolare da Francesco Fedele, che ad Anvòia ha per la prima volta rinvenuto pochi resti umani riconducibili ad attività rituali nei pressi di un allineamento di statue-menhir. La terza fase dell’arte rupestre della Valle Camonica è generalmente datata al ii mill. a.C. e corrisponde all’età del Bronzo. In questo periodo si diffondono gli abitati palafitticoli nelle zone peri-lacustri dell’Italia settentrionale (grandi laghi e laghetti inframorenici), mentre nella pianura padana si assiste nel giro di pochi secoli alla massima espansione del fenomeno delle terramare. A partire dal Bronzo Recente e Finale la penisola italiana è teatro di una progressiva regionalizzazione culturale a cui fa seguito la formazione degli ethnos italici noti poi dalle fonti classiche. Nell’arte rupestre camuna i grandi monoliti vengono abbandonati a favore ancora una volta delle superfici affioranti, anche se il repertorio riprende in forma selettiva alcuni temi chiave della fase precedente: pugnali, asce e alabarde in fogge ora chiaramente riconducibili alla prima età del Bronzo (22001800 a.C.) e che forse richiamano il coevo fenomeno delle deposizioni rituali di oggetti in metallo (ripostigli), rare scene con oranti, varie tipologie di cerchi. Dopo un apparente iato di alcuni secoli si iniziano invece a intravedere le prime schematiche figure di guerriero (Bronzo Finale, 1200-900 a.C.), un limitato preludio al vastissimo repertorio iconografico che si svilupperà durante la successiva età del Ferro (i mill. a.C.). L’età del Ferro fu un’epoca di grandi trasformazioni per l’Italia settentrionale, che in mille anni vide il succeder-
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L’arte rupestre camuna
Capo di Ponte (Bs), loc. Bedolina (Parco Archeologico Comunale di Seradina-Bedolina). Il monte Concarena fa da sfondo a un’immagine di “rosa camuna”, il simbolo quadrilobato che è stato scelto quale raffigurazione ispiratrice del logo della Regione Lombardia.
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si di potenti fenomeni socio-culturali provenienti soprattutto dal Mediterraneo: l’arrivo e la diffusione di un nuovo, forte metallo qual è il ferro; la colonizzazione greca in Italia meridionale; l’egemonia culturale ed economica degli Etruschi sulla penisola italiana; la diffusione dell’alfabeto; l’impatto dell’urbanizzazione; la penetrazione e lo stanziamento delle tribù galliche nella pianura padana durante il v sec. a.C.; e, infine, l’avvento del potere di Roma (i sec. a.C.). Per quanto riguarda la produzione di arte rupestre possiamo delineare alcune tendenze generali che percorrono il millennio: una costante associazione tra segno “figurativo” (un guerriero, un cervo, un carro, una casa, ecc.) e “non figurativo” (linee, punti, quadrangoli, ecc.); un’alternanza dialettica tra caratteristiche locali uniche ed elementi esterni alla Valle (ad esempio le barche con terminazioni a teste di uccello); la formulazione e l’utilizzo costante di specifiche norme grafiche per rappresentare le immagini sulle rocce, quali per esempio la prospettiva multipla; un intimo rapporto tra raffigurazione e paesaggio; l’incorporazione nell’arte rupestre di brevi iscrizioni in una variante locale dell’alfabeto etrusco. Si stima che circa i tre quarti delle figure note siano da attribuire all’età del Ferro, un periodo che rappresenta dunque l’apice espressivo delle genti camune, note come Camunni dalle fonti classiche. Compare per la prima volta la “scena”, cioè la consapevole combinazione di più elementi fra di loro con un probabile intento narrativo, e tra le raffigurazioni si riconoscono scene di caccia, di duello, di agricoltura o a carattere mitologico. Vi compaiono inoltre divinità, eroi o personaggi leggendari, esseri fantastici, moltissimi animali, edifici, carri, armi non impugnate, rari strumenti musicali (corni), figure con forte valore simbolico (impronte di piede, edifici, stelle, palette, complessi disegni astratti, ecc.), e infine disegni geometrici a carattere “topografico” fra i più elaborati che si conoscano, fra cui la più nota prende il nome di “Mappa di Bedolina”. Fra le raffigurazioni più importanti si segnalano, inoltre, la grande immagine del dio celtico Cernunnos a Naquane (Capo di Ponte) e la presenza della “rosa camuna”, un simbolo ancora misterioso che ha fornito ispirazione per la creazione del logo di Regione Lombardia. Il tema dominante dell’età del Ferro è senza dubbio la figura armata, punto focale di innumerevoli rocce incise e perno di uno dei concetti chiave rappresentati in questo periodo: la mascolinità, la forza, il prestigio del possesso delle armi e del cavallo, l’esaltazione di capacità eroiche. L’uomo armato si ritrova isolato oppure raggruppato in
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Capo di Ponte (Bs), loc. Naquane (Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri). In primo piano si nota un guerriero armato di grande scudo e spada. Intorno campeggiano altri guerrieri e numerose figure simboliche caratteristiche dell’età del Ferro camuna (i mill. a.C.).
schiere con le armi ben in vista, più spesso in duello con un “doppio” simmetrico di se stesso. Si tratta probabilmente di duelli a carattere rituale, forse rappresentati in funzione di ex voto in occasione di rituali iniziatici o come semplice rievocazione di mitologie locali. Con l’arrivo ufficiale dei Romani, nel 16 a.C., l’attività istoriativa prosegue probabilmente senza soluzione di continuità e nelle stesse località frequentate in precedenza, sulla scorta di un valore identitario dell’arte rupestre che i Romani non avevano certo interesse a indebolire, se esso poteva essere utilizzato ai fini della stabilità e del controllo delle fedeli élite locali. Alcune rare iscrizioni in caratteri latini incise su rocce già frequentate in passato richiamano comunque l’atmosfera di quella nuova cultura romana di stampo imperiale che troverà invece le sue espressioni più classiche nel Foro e negli edifici da spettacolo a Cividate Camuno e nel Tempio di Minerva a Breno. Ma alcune incisioni rupestri specifiche e la sopravvivenza stessa della tradizionale scrittura locale, sembrano suggerire una netta continuità culturale anche per quanto riguarda la tradizione rupestre, che forse terminerà soltanto con il crollo del
sistema politico-amministrativo romano, avvenuto attorno al iv-v sec. d.C., e con il definitivo affermarsi del processo di cristianizzazione della Valle.
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Alla ricerca dei significati Chi rappresentano le migliaia di personaggi armati? Si può fornire una chiave di lettura globale sui protagonisti, le motivazioni e i significati di questo straordinario e complesso fenomeno? Alcuni studiosi ritengono che l’età del Ferro sia caratterizzata per la gran parte da un insieme di immagini votive, incise in occasione di rituali di iniziazione attraverso i quali i giovani di una ipotetica aristocrazia locale accedevano alla società degli adulti (A. Fossati). Secondo questa ipotesi, per esempio, le scene di caccia, di equilibrismo sul cavallo, di lotta/duello sarebbero da intendere come la raffigurazione delle relative prove di abilità cui i giovani maschi erano sottoposti per entrare nell’età adulta, mentre la pericolosità di molti punti in cui fu eseguita l’arte rupestre costituirebbe parte della difficoltà dei rituali stessi. D’altro canto alcuni elementi di somiglianza con i linguag-
gi ideologici delle coeve aristocrazie italiche farebbero invece immaginare le zone con incisioni rupestri come aree commemorative a carattere funerario, sorta di luoghi della memoria ove rievocare l’identità, la ricchezza e il prestigio del capostipite e del clan familiare (A. Marretta). In questo senso la parziale adesione della Valle Camonica ad alcuni temi raffigurati nell’Arte delle Situle di ambito veneto e alpino orientale – scene di lotta, parate di cavalli e cavalieri, personaggi su trono, scene d’aratura e scene erotiche – farebbe propendere per una rielaborazione in ambito locale di temi già ampiamente diffusi nel mondo italico. La fissità e l’ossessiva ripetizione di certe scene, come la caccia al cervo o il duello, sarebbe infatti in sintonia con pratiche rituali volte alla rievocazione di saghe e leggende locali destinate al mantenimento dell’equilibrio cosmico. In questo senso l’arte rupestre non sarebbe la semplice raffigurazione di momenti del quotidiano, ma piuttosto la continua rivivificazione di una dimensione mitica, ammirata e costantemente riattualizzata attraverso la durevolezza della pietra. Quel che è certo è che l’arte rupestre si dispone sul territorio secondo regole di frequenza o assenza specifiche in funzione di alcune tematiche (palette, uccelli, impronte di piede, ecc.) o di determinati stili grafici. Tale carattere distributivo potrebbe essere l’esito di frequentazioni in tempi differenti oppure il risultato di una suddivisione in luoghi sacri dedicati al culto di specifiche divinità locali, i cui attributi caratterizzanti sarebbero da riconoscere nei soggetti rappresentati (U. Sansoni). Non è comunque da escludere che tale fenomeno territoriale sia da leggere anche in chiave sociale, immaginando che temi e stili locali riflettano nel loro insieme l’identità di individui particolari o di raggruppamenti formatisi all’interno della comunità di riferimento (clan familiari, confraternite, classi di età, ecc.). A.M. La tutela e la valorizzazione di un tesoro all’aperto: i parchi e i musei L’unesco è un’Agenzia speciale delle Nazioni Unite, con sede a Parigi, fondata il 16 novembre 1945 e operativa dal 1946, per incoraggiare la collaborazione tra tutti i Paesi aderenti nei settori dell’educazione, delle scienze naturali, delle scienze sociali e umane, della cultura, della comunicazione e dell’informazione. All’interno del Settore Cultura è stata istituita nel 1972 la Lista del Patrimonio Mondiale (World Heritage List), che raccoglie tutti i siti di eccezionale interesse culturale e naturale nel mondo, allo scopo di promuovere la protezione, la conservazione, la valorizzazione e la trasmissione alle generazioni future di questo straordinario patrimonio. Per questo motivo, indipenden-
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Capitolo primo
L’arte rupestre camuna
Capo di Ponte (Bs), loc. Seradina ii (Parco Archeologico Comunale di Seradina-Bedolina). Una serie di figure umane “oranti” è stata volutamente incisa fra due profonde fratture, secondo una modalità ricorrente che vede nella forma naturale della roccia una delle motivazioni principali per la scelta e la disposizione dei soggetti da raffigurare.
temente dalla Nazione nella quale risiedono, i siti iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale appartengono a tutti i popoli della Terra. L’Italia ha ratificato nel 1978 la propria adesione alla Convenzione sulla Protezione del Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale e a oggi (2014) è presente nella lista con 50 siti culturali e naturalistici, di cui ben 9 sono in Lombardia. L’arte rupestre della Valle Camonica fu iscritta nella Lista del Patrimonio unesco sulla base dei criteri iii e vi, che si possono così sintetizzare: la diffusione del fenomeno, che pervade tutta la Valle (a oggi è attestato in 33 dei 42 comuni valligiani), l’ampia estensione cronologica (si sviluppa dalla fine del Paleolitico sino all’arrivo dei Romani nel 16 a.C. con persistenze fino alle soglie del xx secolo) e la varietà dei soggetti incisi (oggetti reali ma anche figure astratte e simboliche), che costituiscono una fonte di documentazione straordinaria per conoscere lo sviluppo tecnologico e socio-culturale dell’Uomo. Come tutti i siti unesco, anche la Valle Camonica, a seguito della “Dichiarazione di Budapest” del 2002, e su richiesta del Comitato del Patrimonio Mondiale, si è dotata di un Piano di Gestione elaborato nel 2005 attraverso una stretta collaborazione tra il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e gli Enti Locali, che hanno lavorato insieme con la consapevolezza che fosse indispensabile garantire la tutela e la conservazione per le future generazioni di un bene straordinario come quello dell’arte rupestre camuna, e, al contempo, per individuare le strategie atte ad approfondirne la conoscenza e a promuoverne la valorizzazione con ricadute positive sullo sviluppo sociale, culturale ed economico della Valle. Nel 2006 è stato istituito il Gruppo Istituzionale di Coordinamento (gic), un tavolo di lavoro che attua il Piano di Gestione e che riunisce i principali attori coinvolti nella gestione di tale patrimonio: la Soprintendenza e gli Enti Locali, quali i Comuni ove hanno sede i parchi d’arte rupestre e la Comunità Montana di Valle Camonica, ente capofila. Tra i principali progetti attuati si possono ricordare gli interventi per realizzare nuovi parchi, le azioni per l’adeguamento strutturale di quelli già attivi e la loro valorizzazione in rete. Uno dei cardini del Piano di Gestione è stata la realizzazione del mupre, il Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica, inaugurato nel maggio 2014, che integra con l’esposizione dei reperti (ceramiche, strumenti litici, manufatti in osso/corno e metalli) il ricco patrimonio di immagini incise sulle rocce, offrendo al visitatore un’immagine più articolata e complessa della storia della Valle. I parchi d’arte rupestre in cui si possono conoscere e am-
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mirare le incisioni sono attualmente otto e ad essi vanno aggiunti siti archeologici e percorsi pluritematici, a testimonianza dell’attenzione dedicata al patrimonio d’arte rupestre, punto di forza nella valorizzazione turistica del territorio e importante prospettiva di sviluppo socio-economico. Distribuiti dalla Bassa all’Alta Valle, tutti i parchi (nazionali, regionali e comunali) sono dotati di pannelli didattici, anche in lingua inglese, che permettono al visitatore di scoprire e conoscere le peculiarità delle raffigurazioni incise e di passerelle per osservare più da vicino le numerose incisioni che animano le superfici rocciose. Partendo da sud, il primo parco che si incontra è il Parco Comunale di Luine, a Darfo-Boario Terme, istituito negli anni settanta e oggi inserito nel più vasto Parco di Interesse Sovraccomunale del Lago Moro, esteso anche nel comune di Angolo Terme. Il Parco raccoglie un centinaio di rocce in arenaria di colore viola (Pietra Simona), distribuite in tre aree: Luine, Simoni e Crape. Le incisioni coprono tutti i periodi dell’arte rupestre camuna e qui è attestata anche quella che è ritenuta l’incisione più antica. Uno studio recente ha, infatti, datato alla fine del Paleolitico superiore, la figura di un grande animale, un tempo interpretato come un cervide e oggi come un equide, inciso nella roccia 34 secondo i canoni dell’arte paleolitica franco-cantabrica, cui non sembrano però estranei influssi di tradizione mediterranea. Alla medesima epoca risale il fondo di capanna scoperto a Cividate Camuno-via Palazzo, che ha restituito strumenti in selce e che attesta in modo inequivocabile la presenza in Valle di cacciatori-raccoglitori sino dalla fine del Paleolitico superiore. Altre aree d’arte rupestre a Darfo-Boario Terme sono quelle di Sorline e, soprattutto, del Monticolo, sulle cui rocce sono incise figure di ostensori e di simboli religiosi databili all’età Moderna e la lunga iscrizione del 1908 che ricorda la costruzione della ferrovia Brescia-Iseo-Edolo. Sempre a Darfo, in località Corni Freschi, nel 2009 è stato inaugurato il sito archeologico dei Corni Freschi, alla base della collina del Monticolo. Esso si inserisce nel complesso dei santuari megalitici, cioè siti di culto e cerimoniali contraddistinti da grandi massi franati dalle alte pareti rocciose retrostanti oppure da massi-menhir erratici e da stele, caratteristici dell’età del Rame. Al centro della parete verticale del masso è incisa una composizione di nove alabarde, dalla quale deriva il nome di “Roccia delle alabarde”, confrontabili con un manufatto in rame da Villafranca (vr), databile alla tarda età del Rame. Nel 2002 alla base del masso è stata scoperta una seconda composizione di quindici pugnali, confrontabili con pugnali della Cultura del
Vaso Campaniforme, anch’essa della tarda età del Rame. I santuari megalitici dell’età del Rame sono ben rappresentati nell’altopiano di Ossimo-Borno, dove sorgevano i siti di Anvòia, Pat, Passagròp e Bagnolo-Ceresolo di Malegno. Nel 2005 è stato aperto al pubblico il Parco Archeologico di Asinino-Anvòia, dotato di un Centro Visitatori allestito con pannelli didattici, i calchi di alcuni massi incisi e un plastico; sull’area del sito sono stati posizionati i calchi di quattro stele (i reperti originali sono esposti nelle sale 3 e 4 del mupre), ricostruendo così la suggestione di come doveva presentarsi il centro di culto oltre 4500 anni fa. Un altro santuario doveva innalzarsi lungo il torrente Valzel de Undine, a Borno: ne sono testimonianza i massi-menhir 1, 4, 5 e 6, non rinvenuti però nella posizione originaria. Il più famoso è il masso Borno 1, il primo ad essere stato scoperto nel 1953 ed esposto a Milano nel 1962 in piazza del Duomo e poi nel chiostro del Museo Civico Archeologico
dove rimase fino al 2005 quando fu riportato in Valle ed ora è esposto con gli altri massi nel luogo di rinvenimento, inaugurato nel 2013. Risalendo verso la Media Valle, sul versante sinistro si incontra la Riserva Naturale delle Incisioni Rupestri di Ceto, Cimbergo e Paspardo, istituita nel 1988 ed estesa su un’area di 290 ettari tra boschi di castagni e di betulle. La visita inizia a Nadro, al Museo Didattico della Riserva, che offre notizie sull’arte rupestre e informazioni sui vari itinerari e le località visitabili, tra cui si segnalano: Foppe di Nadro (da osservare sono le rocce 6 e 7 con scene di duello e figure di uccelli; la roccia 22-23 con figure di armi, scene di aratura e iscrizioni in locale alfabeto preromano), Campanine (qui spiccano figure databili al Medioevo come croci, chiavi e il cd. “nodo di Salomone”), Dos Sottolaiolo (area attrezzata anche per persone con disabilità motoria e visiva) e Plas-Capitello dei Due Pini (una parete verticale che presenta una delle più note raffigurazioni dell’età del Rame). Al confine con la Riserva si trova il Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri (Capo di Ponte), il primo parco archeologico italiano, istituito nel 1955, che raccoglie oltre 100 rocce in arenaria di colore grigio-violaceo (Verrucano Lombardo), ricche di incisioni che vanno dal Neolitico all’età del Ferro; più rare quelle di età romana, moderna e, perfino, contemporanea (un alpino sulla roccia 1). Un itinerario ideale nel Parco Nazionale non può non toccare la roccia 50, con figure di oranti, guerrieri (anche di notevoli dimensioni), edifici, impronte di piedi e iscrizioni in alfabeto preromano; la roccia 70 famosa per la raffigurazione del dio Cernunnos e, soprattutto, la roccia 1. Nota anche come “Roccia Grande”, la sua ampia superficie montonata è stata incisa con una straordinaria varietà di raffigurazioni (circa un migliaio) tra le quali spiccano: telai del tipo verticale, figure di palette, il cosiddetto “labirinto”, figure di cavalieri e numerose scene di caccia al cervo. Sempre a Capo di Ponte, ma sul versante opposto, il mupre si pone al centro dei percorsi di visita ai Parchi d’arte rupestre esistenti nello stesso Comune e fulcro di raccordo e di spiegazione del sito unesco. Da segnalare l’esposizione di oltre 50 stele e massi-menhir istoriati provenienti dai santuari megalitici (tra cui Cemmo, Bagnolo-Ceresolo, Ossimo-Anvòia e Ossimo-Pat), reperti di grande suggestione e, in alcuni casi, di dimensioni imponenti, che rendono la Valle partecipe del vasto fenomeno del megalitismo europeo. Il percorso è arricchito anche da postazioni multimediali che permettono di approfondire alcuni temi (ad esempio il sito unesco, la scoperta dell’arte rupestre camuna, la rete dei parchi d’arte rupestre) e ai ragazzi di avvicinarsi
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Capitolo primo
L’arte rupestre camuna
Capo di Ponte (Bs), loc. Bedolina (Parco Archeologico Comunale di Seradina-Bedolina). La cosiddetta “Mappa di Bedolina”, una delle più complesse e affascinanti raffigurazioni a carattere topografico del continente europeo.
tata dalla fine dell’Ottocento fino al 1951 e caratterizzata da cunicoli, gallerie e resti di alloggiamenti degli operai. Le principali aree d’arte rupestre sono quelle di Carpene, Fradel e Berco, percorribili grazie a un sentiero attrezzato. In quest’area si osserva il passaggio da rocce in arenaria (Verrucano Lombardo) tipiche della Media Valle, agli scisti che caratterizzano l’Alta Valle. Le incisioni documentano soprattutto il Neolitico, l’età del Ferro e il Medioevo. Da non perdere è la grande roccia 2-3 di Carpene, in scisto venato da quarzi, con numerose incisioni dell’età del Ferro, tra cui spiccano una grande rosa camuna e una figura nota come “Viandante”, forse rappresentazione della divinità celtica Esus. Anche il Parco dell’Adamello racchiude tra i suoi percorsi naturalistici un’area con arte rupestre: è il Percorso Pluritematico del “Còren De Le Fate” (Sonico), anch’esso valorizzato di recente (2006-2007). Tra le diverse località rivestono particolare interesse quelle di Còren de le Fate e di Cornel de l’Aiva, inserite in un contesto naturale di grande fascino e suggestione. Le incisioni, anche se di difficile lettura per la natura delle rocce (scisti), comprendono in prevalenza coppelle, dischi solari, raffigurazioni topografiche, meandri e palette, mentre meno rappresentate sono le figure antropomorfe.
all’archeologia in modo semplice, stimolante e scientifico. Nella frazione di Cemmo di Capo di Ponte è ubicato il Parco Archeologico Nazionale dei Massi di Cemmo (aperto nel 2005), che deve il suo nome ai due grandi blocchi staccatisi dall’alta parete retrostante, sul lato nord-ovest della piccola valle di Pian delle Greppe, e incisi nell’età del Rame con figure di animali, di armi e scene di aratura e di traino del carro. Il luogo di culto ebbe una storia lunghissima oggi meglio nota grazie agli scavi archeologici della Soprintendenza: fondato nell’età del Rame su preesistenze del Mesolitico e del Neolitico, perdurò fino a età romana tardo antica, quando fu disattivato. Tra xi e xii secolo nei suoi pressi fu eretta la Pieve di S. Siro, illustre esempio di architettura romanica lombarda. Sul posto si possono osservare e ammirare i massi Cemmo 1, Cemmo 2 e Cemmo 20, mentre le stele rinvenute nel corso degli scavi (Cemmo 3-19 e 21-26), alcune integre e altre frammentarie, sono esposte nel mupre (piano terra, sale 1 e 2). A nord dell’area dei Massi di Cemmo merita una sosta il Parco Archeologico Comunale di Seradina-Bedolina
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(aperto nel 2005). Le incisioni, distribuite nelle località di Seradina i, ii, iii, e Bedolina, sono databili in buona parte all’età del Ferro e offrono al visitatore un’ampia tipologia di raffigurazioni, fra cui spiccano le scene di aratura e le “mappe”. La superficie più interessante di Seradina i è sicuramente la roccia 12: qui, accanto a numerosi duelli tra guerrieri, si trovano scene di aratura, di accoppiamento, di caccia al cervo e figure simbolico-rituali. Il tema dominante dell’area di Bedolina è quello delle “mappe topografiche”, composizioni geometriche interpretate come antiche suddivisioni in campi del territorio. Nel 2005 a pochi metri di distanza dalla famosa “Mappa di Bedolina” (roccia 1), è stata scoperta un’altra incisione simile sulla roccia 7, a testimonianza della vocazione di questa area della Valle per tali composizioni. In continuità con le aree di Capo di Ponte si sviluppa il Parco Comunale Archeologico e Minerario di Sellero. Oggetto di un intervento di valorizzazione nel 2008, è collegato con un percorso storico alla zona mineraria di Carona, posta a nord-ovest del paese, a circa 800 metri s.l.m., sfrut-
Nell’ambito del Parco dell’Adamello è stato allestito nel 2009 anche il percorso pluritematico di Lòa di Berzo Demo, caratterizzato dalla presenza di iscrizioni preromane, oggetto di una recente pubblicazione integrale: delle oltre 300 attestazioni epigrafiche note in Valle, circa il 25% è proprio localizzato in quest’area. M.G.R.
L’arte rupestre preistorica camuna, con anche le sue sorprendenti reviviscenze medievali e moderne, racconta dunque in maniera unica l’avvicendarsi dei mutamenti culturali e tecnologici degli ultimi 10.000 anni avvenuti nel cuore del continente europeo e il persistere di una tradizione tenace legata al senso di durevolezza che emana dalla roccia. Si tratta di un luogo dove il passato è stato sempre insolitamente “presente” e dove esiste un archivio irripetibile di immagini attraverso le quali lo studio della vita e, soprattutto, del pensiero dell’uomo preistorico acquista una luce nuova e affascinante. Comprendere, valorizzare e infine trasmettere intatto questo archivio alle future generazioni è certamente una delle sfide più impegnative dell’uomo moderno.
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Capitolo secondo
L’età romana
Serena Solano, Elisabetta Roffia, Stefania De Francesco
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Come noto nella penisola italica la conquista romana determinò fra iv e i secolo a.C. una radicale trasformazione del paesaggio, con l’introduzione su ampia scala di criteri uniformi e condivisi di sistemazione del territorio mediante la fondazione di città, la divisione delle aree pianeggianti, attraverso regolari intrecci disegnati dalla rete stradale, dai canali, dai filari degli alberi, dalle coltivazioni. Casi isolati di sistemazione areale sono noti nella seconda età del Ferro in coincidenza di presenze greche o etrusche, ma la romanizzazione generalizzò il fenomeno e lo organizzò in maniera rigorosa, coerente ed estesa. Della centuriazione romana restano ancora oggi evidenti tracce nella pianura padana, nelle vallate marchigiane, nell’ager campanus, facilmente osservabili dalla cartografia e dalle fotografie aeree. In Lombardia i segni della centuriazione si colgono ancora oggi facilmente nella pianura bresciana, nel cremonese e nella bergamasca; tracce sono state riconosciute anche nella pianura tra Pavia, Milano e Lodi. Particolarmente significativa si presenta la centuriazione della pianura bergamasca che interessò un vastissimo territorio, uno dei più ampi dell’Italia settentrionale, compreso tra Adda e Oglio, per una superficie di almeno 600-700 kmq. Una centuriazione più antica, datata generalmente dopo l’89 a.C. – quando molti centri indigeni divennero colonie latine fittizie acquisendo alcuni diritti giuridici quali la cittadinanza romana per i magistrati – interessò un’area di circa 300 kmq. Il secondo intervento, datato alla fine del i secolo a.C., comportò una modifica dell’orientamento degli assi per garantire il corretto drenaggio delle acque su una superficie più vasta. Negli ultimi anni le indagini di archeologia preventiva connessa alle grandi opere pubbliche hanno permesso di effettuare importanti scoperte un po’ in tutta la pianura lombarda.
Tra il 2009 e il 2011 gli interventi per la realizzazione della BreBeMi hanno messo in luce nella pianura a sud di Bergamo e di Brescia consistenti evidenze archeologiche che hanno arricchito notevolmente il quadro di conoscenza della frequentazione del territorio in età romana. Necropoli e tracce di insediamenti sono emerse ad Antegnate, Bariano, Caravaggio, Fara Olivana e Treviglio. Di interesse quanto emerso a Chiari, ai margini dell’agro bresciano, in prossimità del confine con quello bergamasco coincidente con il limite naturale rappresentato dall’Oglio. A sud dell’abitato attuale sono emerse tre necropoli, un insediamento e una strada databili tra prima e tarda età romana. La strada, messa in luce per ben 64 metri, con i solchi carrai e il selciato in ciottoli, si sviluppava in senso est-ovest, con andamento coerente con quello della divisione agraria romana. Si tratta di una strada secondaria, di tutt’altre dimensioni e importanza rispetto alle grandi strade che dal iv secolo a.C. solcarono la penisola italica. La prima importante strada che attraversò il territorio lombardo fu la via Postumia, realizzata nel 148 a.C. a collegamento di Genova e Aquileia. Ancora oggi la via è ricalcata in alcuni tratti dalla Strada Provinciale 27 tra Cremona e il centro di Calvatone (antica Bedriacum) e dalla Strada Provinciale 17, tra Mosio e Goito nel mantovano. A completamento delle vie di terra un intrico di vie d’acqua naturali e di fossæ artificiali aveva nel Po la principale arteria. Connesse alla volontà di razionalizzazione del paesaggio erano le città, al cui interno confluivano le strade del territorio. Nella maglia urbanistica regolare si inserivano gli edifici pubblici, civili e religiosi, a segnare in maniera evidente l’adozione del sistema politico e, soprattutto, dei modelli culturali romani. In alcuni casi questi edifici influenzano ancora oggi il paesaggio urbano, come ben esempli-
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Capitolo secondo
L’età romana
Pagine precedenti La pianura padana centuriata nel mantovano.
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ficato a Brescia che, nel panorama lombardo, rappresenta senz’altro la città che meglio conserva nel tessuto moderno la grandiosità e la monumentalità del periodo romano. L’impianto romano si coglie facilmente sorvolando dall’alto il centro storico, dove svettano imponenti il Capitolium e il teatro. Gli edifici, affacciati sulla piazza del foro chiusa a sud dalla basilica, sorgono ai piedi del colle su cui si erge il castello, nell’antichità sede di un luogo di culto che dominava l’abitato dall’alto, completando scenograficamente la prospettiva architettonica dell’area forense. La città romana sorse in un’area già frequentata fin dalla Preistoria che crebbe di importanza a partire dal v secolo a.C., quando la felice posizione la pose al centro delle principali vie di collegamento e scambio commerciale e culturale fra le Alpi e la pianura, fra mondo veneto, golasecchiano, etrusco e greco. Dalla fine del iv secolo l’insediamento divenne caput gentis Cenomanorum. I Cenomani, che abitavano il territorio e che almeno dal 196 a.C. si erano alleati con il popolo romano, nell’89 ottennero il diritto latino. Entro la metà del i secolo a.C. fu definito il primo impianto urbanistico della città che nel 49 a.C. divenne municipium civium Romanorum e tra il 27 e l’8 a.C. Colonia Civica Augusta Brixia. In concomitanza con questi avvenimenti la città ricevette un organico assetto organizzativo, con la realizzazione della cinta muraria e la costruzione di infrastrutture idriche, fra cui un acquedotto che convogliava acqua dalla vicina Valtrompia. La città era delimitata da una cinta muraria lunga quasi 3 km, a forma di pentagono irregolare, che abbracciava anche il rilievo montuoso del colle Cidneo, ultima propaggine delle prealpi bresciane, fulcro dell’insediamento fin dalle fasi più antiche. Di questo circuito murario, datato ad età augustea, secondo nella Cisalpina soltanto a quello della Mediolanum di prima età imperiale, si conservano circa 250 metri. La morfologia del luogo condizionò l’impianto della città, organizzata a quote differenti e con vie e isolati irregolari per estensione e per forma, intorno ai due assi principali che confluivano nello spazio forense. Lo spazio a nord del Foro, oltre il decumano, alle pendici del Cidneo, fu occupato per almeno sei secoli, dal ii a.C. al iv d.C., da diversi edifici sacri, i massimi luoghi di culto della città, impostati sempre nello stesso luogo, con osservanza rigorosa dell’orientamento e della collocazione originari. Il tempio di età flavia, che si erge sul lato settentrionale della piazza e che domina e caratterizza il volto di Brescia romana, fu realizzato dove già era un santuario di ii secolo a.C., legato alla comunità alleata di Roma, forse
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a sua volta impostato su un precedente e più antico luogo di culto connesso alla natura del luogo. Il paesaggio naturale venne via via trasformato e adattato con lo scopo di ospitare un complesso sacro che doveva avere anche una forte valenza scenografica. Nella prima metà del i secolo a.C. venne realizzato un nuovo edificio di culto, impostato sul precedente, le cui strutture furono eliminate o quasi completamente rasate per la realizzazione di un complesso che prevedeva, sullo sfondo di un’ampia terrazza, quattro tempietti allineati e disposti su un unico podio, caratterizzati da una raffinata decorazione pavimentale e parietale, di cui si conservano pregevoli e consistenti resti nell’aula più occidentale. Alla fine del i secolo a.C., in concomitanza con l’istituzione della Colonia Civica Augusta, il santuario fu radicalmente rinnovato e inglobato in un’ampia struttura ad ali porticate. Il rinnovamento edilizio più significativo si ebbe con Vespasiano, sotto il cui impulso la città si trasformò radicalmente. Il Capitolium, inaugurato da Vespasiano nel 73 d.C., fu impostato sul precedente complesso repubblicano-augusteo, che venne quasi interamente demolito per fare spazio a una struttura larga e poco profonda, costituita da tre celle, arretrata verso il colle su una terrazza alta e chiusa sul foro, a circa 3 metri di quota superiore rispetto al complesso precedente. I portici laterali vennero collegati architettonicamente a quelli del foro, che fu ridotto in lunghezza, ma allargato a spese di edifici privati più antichi. Sul lato sud, nel i secolo d.C., fu edificata la basilica, sui resti di un edificio preesistente e sul lastricato meridionale del foro augusteo. In uno spazio compreso tra il luogo di culto, il decumano e le pendici del Cidneo, tra la fine del i secolo a.C. e gli inizi del i secolo d.C. era stato costruito il teatro, in una suggestiva collocazione scenografica, con la cavea addossata alle pendici del colle: si tratta dell’esempio di edificio teatrale meglio conservato in tutta la Lombardia, in origine uno degli edifici da spettacolo più grandi di tutta l’Italia settentrionale. Ancora oggi la trama della città antica è particolarmente riconoscibile nella piazza del Foro dove si conserva intatta la fisionomia dell’antico spazio urbano, dominato dai resti del Capitolium flavio e del teatro, attraversato dal decumano, affiancato dai colonnati del portico orientale e chiuso a sud dalla basilica, ancora ben leggibile nel prospetto di un palazzetto seicentesco in piazza Labus. Meno fortunata, dal punto di vista della conservazione delle evidenze monumentali, è la situazione dell’antica Mediolanum, dove l’espansione edilizia nei secoli poco ha
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Pagine seguenti Brescia, vista sul teatro e sul Capitolium di età flavia sorto su un precedente complesso di età repubblicana-augustea.
Basilica di San Lorenzo a Milano, nelle cui fondazioni sono riutilizzati blocchi recuperati dal vicino anfiteatro dopo che fu smantellato. Vista sul colonnato antistante realizzato con colonne corinzie reimpiegate, in origine relative probabilmente a un edificio templare del ii secolo d.C.
rispettato il tessuto urbano e la monumentalità della città romana. L’esiguità dei resti conservati non rispecchia certamente l’importanza che il centro rivestì – a partire almeno dalla fine del i secolo a.C., in ragione della strategica posizione geografica rispetto alle aree alpine la cui conquista fu avviata proprio in questa fase – fino ad assurgere a capitale imperiale tra il iii e il iv secolo d.C. La città romana sorse in un’area occupata da un importante insediamento celtico risalente al v a.C. che nel iv a.C. divenne la “metropoli” degli Insubri, popolazione insediata tra il Ticino, il Po e l’Oglio, ospitandone, secondo la tradizione, il santuario federale dedicato ad Atena. Come gli altri centri indigeni della Transpadana, nell’89 a.C. ottenne il diritto latino e nel 49 a.C. divenne municipio. Tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale la città cambiò fisionomia: furono realizzati la prima cinta muraria, la più ampia della Cisalpina con un perimetro di oltre 3 km, consistenti interventi di bonifica del terreno e di canalizzazione delle acque e furono edificati i primi monumenti pubblici come il teatro e il foro, parzialmente messi in luce dagli scavi archeologici e tuttora conservati sotto edifici moderni. Appartiene a questo periodo l’anfiteatro, che doveva costituire la più significativa struttura di questo tipo di tutta l’Italia settentrionale. Realizzato nel i secolo d.C., rimase in uso fino al iv secolo d.C. L’imponente edificio (in origine con uno sviluppo di 155x125 metri), di cui gli scavi archeologici hanno messo in luce resti delle fondazioni e il cui andamento è in parte rispecchiato da quello degli edifici moderni, si trovava al di fuori del circuito murario nei pressi della strada che collegava Milano a Ticinum (Pavia). A pianta ellittica, era del cosiddetto tipo a struttura cava con corridoi anulari voltati che sostenevano le gradinate (cavea) e consentivano il passaggio degli spettatori. L’esterno, come il Colosseo, doveva essere a tre piani di arcate sovrapposte nei tre ordini dorico, ionico e corinzio completati dall’attico di coronamento. I resti della struttura sono valorizzati dal 2004 all’interno del Parco dell’Anfiteatro Romano, dove è possibile ammirare una porzione delle fondazioni del portico perimetrale esterno, alcuni dei muri radiali di sostegno alla summa e media cavea, parte dei due muri ellittici concentrici interni che sostenevano l’ima cavea e il podio. Non lontano, uno dei monumenti che ancora oggi è considerato parte integrante del tessuto urbano cittadino: le sedici colonne corinzie, reimpiegate nel colonnato antistante la basilica di S. Lorenzo, erano in origine probabilmente pertinenti a un edificio a carattere religioso della seconda metà del ii secolo d.C.
Alla fine del iii secolo d.C., quando Diocleziano istituì la tetrarchia, il nuovo sistema di governo che prevedeva la gestione collegiale del potere da parte di due “Augusti” affiancati da due “Cesari” e la ripartizione dei territori di competenza, il co-Augusto Massimiano scelse Milano come sede della corte imperiale in ragione della sua posizione strategica per la difesa delle frontiere settentrionali dell’Impero. Numerosi furono gli interventi da lui commissionati per conferire alla città l’aspetto consono al nuovo ruolo politico del centro. A quest’epoca viene generalmente attribuito il nuovo circuito murario dotato di torri poligonali che ampliò quello della seconda metà del i secolo a.C., raggiungendo il perimetro di 4,5 km. Unico centro in tutta la Lombardia, Milano fu dotata del circo, destinato alle gare di corsa dei carri e di cavalli, eretto nel quartiere occidentale a ridosso del palazzo imperiale, per consentire all’imperatore di accedere facilmente alla struttura e assistere pubblicamente alle manifestazioni. Ispirato al circo di Massenzio a Roma, presentava notevoli dimensioni (470x85 metri); purtroppo dell’imponente struttura si conservano esigui resti a eccezione della monumentale torre quadrangolare, riutilizzata nel Medioevo come campanile di S. Maurizio, relativa ai carceres, i recinti dai quali i carri iniziavano la propria corsa. L’intervento più significativo fu certamente la costruzione del palazzo imperiale citato da alcune fonti scritte e documentato dai ritrovamenti archeologici. Le strutture conservate in via Brisa, pertinenti a un settore con funzioni di rappresentanza e costitute da una serie di vani articolati attorno a un ambiente centrale circolare, rappresentano solo un’esigua porzione di un enorme complesso che doveva occupare tutta la parte occidentale della città, tra le porte Vercellina e Ticinensis. La generale revisione della documentazione e gli scavi archeologici sistematici consentono di ricostruire un’estesa struttura, articolata in gruppi di vani, aggregati attorno a corti porticate e che davano vita a veri e propri quartieri con funzioni differenti (residenziale, di rappresentanza, amministrativa). Ricche dovevano essere la decorazione parietale, ad affresco o con lastre marmoree policrome, e quella pavimentale, con mosaici policromi di cui gli scavi archeologici hanno messo in luce alcuni lacerti. Monumentali resti della presenza romana nel territorio si ritrovano anche in area extraurbana, nel territorio a nord di Brescia in Valle Camonica. La romanizzazione della Valle Camonica, sul finire del i secolo a.C., ebbe fra le conseguenze più importanti la trasformazione del territorio attraverso la fondazione della città
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Capitolo secondo
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di Cividate Camuno in un punto nevralgico della Media Valle, vicino al fiume Oglio, ai margini di un’area pianeggiante, ai piedi delle montagne. La città ben si adattò alla morfologia del territorio: l’impianto urbanistico, condizionato dalle montagne e dal fiume, non appare riconducibile a uno schema costante, ma la disposizione e le dimensioni delle insulæ, ferma restando l’impressione di un disegno armonico delle parti, riproducono diversi moduli. Le principali vie urbane si prolungano nel territorio a sud-ovest di Cividate Camuno, rappresentando quello che P.L. Tozzi ha definito un esempio di “micro centuriazione” alpina. Della città di Cividate Camuno sono stati riportati alla luce resti consistenti del foro e il quartiere degli edifici da spettacolo, con un teatro e un anfiteatro. Fra i dati certi vi è oggi, grazie a nuove acquisizioni, la localizzazione del foro lungo fiume, ai piedi dell’altura di S. Stefano, in prossimità e a controllo dell’antico punto di attraversamento del corso d’acqua. L’altura, dove si ipotizza ci fosse un luogo di culto, costituiva lo sfondo prospettico del cardine e del decumano principali della città. Consistenti rinvenimenti di necropoli a recinti funerari attestano inoltre l’esistenza di due principali strade suburbane, l’una lungo l’Oglio in direzione sud, l’altra dalla parte opposta. L’anfiteatro rappresenta, dopo quello di Milano, l’unico altro anfiteatro romano visibile in tutta la regione e senz’altro il meglio conservato. L’eccezionale livello delle strutture offre la possibilità di cogliere immediatamente il disegno e la monumentalità originali, con l’intero perimetro e buona parte degli ingressi e delle tribune. L’edificio è valorizzato e visitabile all’interno del Parco Archeologico del Teatro e dell’Anfiteatro di Cividate Camuno inaugurato nel 2003. Il Parco offre un eccezionale spaccato della città antica: in esso, oltre all’anfiteatro, sono visibili i resti del teatro e una serie di ambienti e strutture di servizio. Collocati in una posizione splendida, sia dal punto di vista paesaggistico che funzionale, gli edifici si inseriscono in maniera armonica nell’impianto urbanistico antico. Del teatro, costruito con un grandioso sistema di terrazzamento della collina intorno alla metà del i secolo d.C., sono visibili i lunghi muri paralleli del porticato retrostante la scena (porticus post scænam), le due scalinate d’accesso laterali e l’ingresso del lato destro. La parte visibile copre un terzo del totale, per il resto sepolto sotto un giardino e un’abitazione privati. L’anfiteatro fu costruito alcuni decenni dopo il teatro, con una struttura piena su terrapieno, appoggiato a monte alla collina e a valle a un terrapieno artificiale realizzato con la
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L’età romana
terra di risulta dallo scavo dell’arena. Gli ingressi e i posti a sedere erano differenziati a seconda della posizione sociale dello spettatore: la parte a monte conserva gradinate in calcare grigio destinate agli spettatori più ragguardevoli. L’ingresso principale, che taglia longitudinalmente l’anfiteatro, è affiancato da due spazi (carceres) per l’alloggiamento e l’ingresso in scena degli animali, mantenuti a un buonissimo livello conservativo. Le dimensioni dell’anfiteatro, come quelle del teatro, sono piuttosto considerevoli. In occasione degli spettacoli confluiva a Cividate Camuno pubblico proveniente non solo dalla Valle Camonica, ma anche dalle vallate laterali: è stato stimato che l’edificio potesse contenere fino a 5.500 spettatori. Il complesso degli edifici da spettacolo è corredato da un lungo acquedotto che attraversa tutta l’area sovrastante gli edifici e da grandi ambienti di servizio, probabilmente palestra, infermeria e caserma dei gladiatori, un piccolo edificio termale e un sacello. Pochi chilometri a nord di Cividate Camuno si trova la località Spinera di Breno, sede di un complesso cultuale all’aperto, organizzato nel pianoro tra una rupe tufacea interessata da grotte e cunicoli naturalmente scavati dall’acqua e il fiume Oglio. A sporadiche frequentazioni avviate già agli inizi della prima età del Ferro seguì, tra la fine del vi e gli inizi del v secolo a.C., una strutturazione organizzata dell’area, con muri di terrazzamento, altari, un ampio recinto ellittico. Il rituale, che prevedeva la reiterata accensione di fuochi, il sacrificio di animali e la deposizione di offerte, avvicina il sito ai luoghi di culto caratterizzati da aree per offerte combuste (Brandopferplätze), diffusamente attestati fin dall’età del Bronzo nell’arco alpino centro-orientale. In età augustea, in concomitanza con la fondazione della città romana di Cividate Camuno, a Spinera fu eretto un edificio monumentale ad ali porticate dedicato a Minerva, che certo della divinità indigena a poco a poco ereditò e interpretò i caratteri, la dimensione ctonia e le prerogative connesse alla natura, all’acqua, ma anche alla vita e alla fecondità. Le strutture di età flavia, con la ricca decorazione parietale e pavimentale, sono oggi visitabili all’interno del Parco Archeologico inaugurato nel 2007. Il santuario indigeno all’aperto e l’edificio romano convissero fino all’età flavia, quando le strutture antiche vennero rispettosamente coperte e il culto si spostò definitivamente nell’edificio romano, attivo poi fino alla fine del iv d.C. Altrove la bellezza del paesaggio e la dolcezza del clima che
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contraddistinguono i grandi laghi spinsero i ricchi aristocratici romani a prediligere questi ambiti per impiantarvi sontuose ville che divennero non solo piacevoli luoghi di residenza extraurbana, ma anche manifestazione di prestigio sociale e politico. Sulle rive del lago di Garda si conservano alcuni dei più importanti esempi di edifici residenziali di lusso, collocati in posizioni di grande rilievo paesaggistico, promontori affacciati sul lago o al centro di grandi insenature. Le strutture, poste solitamente in posizione sopraelevata rispetto al lago su terrazze degradanti verso lo specchio d’acqua, si inserivano nel contesto geografico sfruttandone e accrescendone il valore scenografico. All’estremità della penisola di Sirmione, circondate su tre lati dal lago, erano collocate le cosiddette “Grotte di Catullo”, la più imponente e lussuosa struttura residenziale del nord Italia. Il suggestivo nome deriva dall’aspetto che il sito presentò a lungo a partire dal Rinascimento, una serie di vani crollati ricoperti di vegetazione che suggerivano l’idea di cavità naturali. L’attribuzione a Catullo deriva dai versi del poeta dedicati proprio alla località di Sirmione dove egli aveva una casa («gioiello delle penisole e delle isole» – Carme xxxi), sulla base dei quali è stata ipotizzata l’appartenenza del lussuoso complesso alla famiglia del poeta, tesi tuttavia mai suffragata da prove concrete. La villa, a pianta rettangolare (167,5x105 metri), con due avancorpi sui lati nord e sud e una superficie di circa due ettari, fu realizzata alla fine del i secolo a.C. obliterando un precedente edificio di età tardo repubblicana di dimensioni più modeste. La pendenza naturale del terreno impose la realizzazione di vani di sostruzione impostati su uno o due livelli sovrapposti. Il piano con i vani di sostruzione rappresenta la parte meglio conservata della villa, molto più limitata la conservazione del piano residenziale. Al di sopra dei vani di sostruzione poggiavano, sui lati settentrionale, orientale e occidentale, terrazze affacciate sul lago, affiancate da spazi porticati che si sviluppavano intorno a un ampio cortile centrale, oggi occupato da un grande oliveto, in origine adibito probabilmente a giardino. Il portico occidentale era costruito sopra un lungo criptoportico (159 metri) a due navate coperte da volta a botte che consentiva di superare il dislivello della roccia, dando vita al contempo a uno spazio chiuso che fungeva da passeggiata coperta. A nord era collegato a un corridoio che svolgeva funzione di raccordo tra i lati orientale e occidentale della villa. La parte abitativa si sviluppava nei settori meridionale e settentrionale. Particolarmente imponente era l’avancorpo settentrionale affacciato sul lago:
esso si articolava in un ampio vano di soggiorno e in una terrazza panoramica, dalla quale il padrone di casa e i suoi ospiti potevano godere di un’eccezionale vista sul lago. Nel settore sud-occidentale era ubicato un ampio quartiere termale realizzato però in un momento successivo, tra fine i e inizi ii secolo d.C. La villa doveva presentare una vivace e raffinata decorazione pittorica di pareti e soffitti, testimoniata dai numerosissimi frammenti di intonaco dipinto rinvenuti durante gli scavi. Molto sobri erano invece i mosaici che ne rivestivano i pavimenti, come documentano i pochi resti conservati in situ, decorati con motivi geometrici in bianco e nero. Il rapporto scenografico con il bacino lacustre costituisce un elemento fondamentale anche per la grandiosa villa dei Nonii Arii a Toscolano Maderno, un complesso di considerevoli dimensioni ubicato sulla sponda occidentale del lago. Costruito nel i secolo d.C., conobbe diversi interventi edilizi, i più significativi risalenti a fine i-ii d.C. e agli inizi del iv d.C., gli ultimi al v d.C. Sulla base di un’iscrizione rinvenuta nell’area della villa si ipotizza che questa nel ii secolo appartenesse a Marco Nonio Macrino, esponente di una delle più ricche e prestigiose famiglie bresciane, che ebbe una importante carriera politica e militare. Sono stati per ora indagati due settori: quello centrale, attualmente non visibile, parallelo alla linea di costa, era contraddistinto da un vano rettangolare, probabilmente un triclinio, due ambienti absidati laterali e vani minori che si aprivano su un porticato affacciato su uno spazio aperto, adibito forse a giardino. Questo era occupato da una grande fontana (47x6 metri), movimentata da nicchie rettangolari e semicircolari, in origine probabilmente ornata con gruppi scultorei. La struttura presentava la tipica disposizione a terrazze: il portico posto in posizione sopraelevata rispetto al giardino, a sua volta collocato a una quota più alta rispetto allo specchio d’acqua, dava vita a un grandioso prospetto monumentale verso il lago. Il nucleo meridionale, valorizzato e aperto al pubblico nel 2014, presenta una serie di vani a carattere residenziale, in parte articolati su due piani, ornati con raffinati mosaici a motivi geometrici e intonaci parietali dipinti. Qui era presente anche un ampio settore termale. Direttamente sul lago si affacciava la villa di Desenzano, un vasto complesso posto al centro di un’ampia insenatura, dotato anche di una pars rustica dedicata alle attività produttive. La struttura si presentava come un edificio allungato parallelo alla linea di costa, con una serie di ambienti che si disponevano a quote digradanti verso il bacino lacustre. La villa conobbe diverse fasi edilizie a partire
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Capitolo secondo
Fondazioni dell’Anfiteatro romano di Milano valorizzate all’interno del Parco dell’Anfiteatro.
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L’età romana
Area archeologica di via Brisa a Milano, che conserva parti del grandioso complesso del Palazzo Imperiale fatto realizzare da Massimiano alla fine del iii d.C. quando il centro divenne una delle capitali dell’Impero.
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Capitolo secondo
Vista sul quartiere ludico di Cividate Camuno, antica Civitas Camunnorum, con resti eccezionalmente ben conservati del teatro e dell’anfiteatro romani.
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L’età romana
Santuario di Minerva in località Spinera di Breno (Bs) in corso di scavo. Le strutture romane sono in gran parte riferibili a un edificio di età flavia sorto in un’area già oggetto di culto nell’età del Ferro, valorizzata a parco archeologico.
Pagine seguenti Vista sulla penisola di Sirmione (Bs), promontorio affacciato sul lago di Garda sul quale sorgono i resti delle cosiddette “Grotte di Catullo”, il più imponente e lussuoso edificio residenziale dell’Italia settentrionale.
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Capitolo primo
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Capitolo secondo
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L’età romana
Area archeologica delle “Grotte di Catullo” a Sirmione (particolare dell’avancorpo settentrionale), lussuosa villa romana realizzata alla fine del i secolo a.C. al di sopra di una villa più antica appartenuta forse al poeta Catullo.
dalla fine del i secolo a.C.; gran parte di quella attualmente visibile risale al iv secolo d.C., il momento di massimo sviluppo dell’edificio. In questa fase la villa si caratterizza per la coesistenza di spazi con funzione esclusivamente abitativa e altri con funzione di rappresentanza, destinati cioè alla vita pubblica del padrone di casa. Tra questi emerge la grandiosa aula trichora (a tre absidi), ambiente di alta rappresentanza, dove il dominus riceveva gli ospiti e dove avevano luogo i banchetti. L’aula era posta al termine di un percorso assiale che da un vestibolo ottagonale conduceva a un atrio biabsidato attraverso un peristilio. In questo stesso settore vi erano anche vani minori destinati alla vita privata, tra i quali un piccolo giardino posto alle spalle dell’aula trichora, sul quale si affacciava un ninfeo. Ricchissimo era l’apparato decorativo: oltre ai celebri mosaici pavimentali policromi decorati con motivi geometrici e figurati, particolarmente ricca era la decorazione scultorea testimoniata da un eccezionale ciclo statuario, collocato molto probabilmente negli spazi destinati all’accoglienza. Concludiamo con un riferimento a un’altra villa posta all’imbocco della Val Sabbia, lungo un’arteria di collegamento con Brescia e il lago di Garda, la villa romana della Pieve di Nuvolento (Bs) allestita ad area archeologica nel 2011. Si tratta di un vasto complesso, frequentato tra i a.C. e iv d.C., a carattere sia residenziale sia produttivo. La struttura, sebbene l’alzato sia conservato per una porzione estremamente limitata, disegna tuttavia in pianta una buona parte del complesso originario: si tratta di un esempio particolarmente felice per sperimentare come la visione dall’alto rappresenti spesso un punto di vista privilegiato per comprendere e fruire appieno un bene archeologico.
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Capitolo secondo
Villa romana di Toscolano Maderno (Bs), località Capra, scenografica villa sulle sponde del lago di Garda, appartenuta a una delle più ricche e prestigiose famiglie bresciane.
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L’età romana
Villa romana della Pieve a Nuvolento (Bs), vista dall’alto sulle strutture di un grande complesso residenziale e produttivo (i a.C.- iv d.C.).
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Capitolo terzo
La Lombardia in età tardoantica e altomedievale Paola Marina De Marchi
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In questi ultimi trent’anni l’avanzare progressivo dell’archeologia medievale e le numerose indagini condotte con metodi e tecniche aggiornate hanno variato il quadro delle conoscenze, permettendo, in molti casi, di ricostruire quadri di sintesi omogenei. Il lungo periodo che copre l’età tardoantica e l’alto Medioevo è “epoca inquieta”, di trasformazione, che inizia con le invasioni barbariche (iv-v secolo) e prosegue con i regni romano-germanici (fine v-vi secolo), con la crisi dei decenni della guerra greco-gotica (532-553) e, infine, con l’occupazione longobarda (568-569), che segna una svolta mettendo a confronto il portato di più diverse tradizioni culturali: la germanica, la romano-mediterranea, la bizantina e, soprattutto, la cristiano-romana. Mutano i modi di gestire e amministrare il potere, di abitare, di produrre, di vivere, e mutano le ritualità funerarie. Nel v-vi secolo il progressivo abbandono e il crollo di teatri, anfiteatri, circhi libera nel cuore delle città nuovi spazi che vengono occupati da insediamenti di tipo artigianale e rurale, distinti da capanne in legno, spesso costruite secondo la tradizione germanica (seminterrate), da broli, vigne e pascoli: a Brescia presso il Capitolium e la domus palaziale di via dei Musei, si sviluppa un abitato di capanne lignee. I luoghi di culto sorgono organizzandosi in aree prima occupate da edifici pubblici e privati; i palazzi regi e ducali della nuova classe dominante sono per lo più quelli tardoimperiali (Pavia, Milano). I rituali funerari si distinguono tra morte cristiana e ricche sepolture longobarde, che seguono la tradizione del defunto abbigliato e deposto con il corredo d’armi (uomini), di gioielli (donne) almeno fino alle soglie dell’viii secolo, quando la tradizione germanica lascia il passo alla progressiva cristianizzazione. Le sepolture trovano spazio in edifici di culto, oratori, mausolei
e chiese; nel vii secolo queste nuove modalità di sepoltura si modellano su uno stile di vita ormai cristiano romano. Le evidenze di maggior rilievo riguardano principalmente il sorgere, tra v e vi secolo, delle cattedrali e delle sedi episcopali, che costituiscono i nuovi spazi pubblici; i luoghi d’incontro, a Bergamo, a Milano, a Pavia, a Como e, forse, a Lodi e a Cremona, le nuove cattedrali, i battisteri e gli edifici del clero, sorgono al posto dei fori, o su aree di ricche domus romane abbandonate e in rovina. A una società di cultura pagana si sostituisce la civiltà cristiana, dove la volontà dei vescovi imprime una svolta urbanistica cruciale. L’organizzazione urbanistica della città antica ne esce completamente modificata. Molti spazi periferici, spesso extramuranei e marginali, o appena esterni alle mura, vengono occupati prima da aree cimiteriali, poi nel vii e nell’viii secolo da basiliche e monasteri fondati dai sovrani longobardi, che esprimono in tal modo la loro forza economica e simbolica: sorgono così S. Maria di Aurona, S. Maurizio Maggiore e S. Ambrogio a Milano, S. Giulia a Brescia, S. Felice e S. Maria Teodote a Pavia. Resta costante il riuso degli edifici romani, soprattutto ville riutilizzate, interamente o in parte, per nuove abitazioni o impianti funzionali: così il mausoleo-oratorio, poi chiesa a Garlate, l’abitato rurale a Desenzano località Faustinella. Gli oggetti di lusso e di elevato tenore simbolico rispondono alle esigenze di fondere le tradizioni decorative germaniche (stile animalistico a intrecci) e l’iconografia cristiana. Bergamo Bergamo, come Brescia, è stata recentemente indagata in modo molto soddisfacente, particolarmente nell’area del colle e della cittadella, uno spazio urbano occupato in età
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Capitolo terzo
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L’arte rupestre camuna
Pagine precedenti La basilica di S. Ambrogio a Milano, sorta su un cimitero tardoantico.
A fronte Brescia, la Rotonda di xi secolo, eretta su parte dell’area degli edifici episcopali paelocristiani.
romana dagli edifici pubblici del teatro e dell’anfiteatro. Si è potuto, pertanto, definire le ubicazioni della cattedrale e dell’area episcopale, interne alle mura urbiche che si estendevano dal colle di S. Giovanni fino a S. Vigilio, nell’ampliamento di v-vi secolo, che rende la città una fortezza, come documenta Procopio nel vi secolo e, poi, la resistenza del duca longobardo contro il re (590). Scavi (2004) eseguiti all’interno della cattedrale di S. Alessandro, oltre a chiarire alcuni aspetti della città romana (due domus di età imperiale), hanno messo in luce la prima cattedrale di S. Vincenzo (vi secolo), sorta su un quartiere ancora popoloso in età tardoantica. È un edificio dotato di un ricco apparato decorativo. Nel vi secolo in quest’area della città si attesta il centro vescovile, un perno attorno al quale si distribuiranno nuove costruzioni. Le ricerche archeologiche, nel loro complesso, documentano che anche Bergamo ha subito tra età tardoantica e alto Medioevo una fase di abbandono e degrado degli edifici pubblici di età romana, con spolio di materiale da riutilizzare. Lo scavo di un settore del foro, in piazza Duomo, dimostra che venne abbandonato, con asporto dei basolati stradali; tracce di incendio evidenziano inoltre il progressivo degrado, seguito da un utilizzo a cimitero. L’ingresso delle sepolture in città (dal v secolo) è documentato da una necropoli posta nell’area occidentale di via Borgo Canale; un’altra si sviluppa a partire dal vi secolo in via Porta Dipinta, dove in seguito sorgerà la chiesa di S. Andrea. Scavi recenti, condotti in via Osmano, tra la chiesa di S. Andrea e quella di S. Michele al Pozzo Bianco, rilevano la presenza di popolazioni alloctone in città; tombe longobarde sono presenti anche in via Porta Dipinta, in città alta. La necropoli di via Osmano, posta in un contesto pluristratificato, ha restituito dieci sepolture con corredi funerari longobardi (tra cui croci in lamina d’oro). Le nove tombe contenevano i resti di adulti e giovani, con varie tipologie costruttive: a camera lignea, di tradizione germanica (fine vi-inizi vii secolo), in cassa lignea, a cassa litica, alla cappuccina in anfora.
decenni attestano il noto processo di ruralizzazione delle aree occupate dai principali edifici pubblici antichi. All’interno della città si costruì nel v e vi secolo, con attribuzioni cronologiche dubbie e dibattute, il complesso episcopale costituito dalle due chiese affiancate di S. Maria e S. Pietro e dal battistero di S. Giovanni, probabilmente collegato alle chiese con un portico. Gli edifici s’impiantano su un’area di domus romane, più volte ristrutturate. Il complesso cultuale viene in seguito demolito. S. Maria, di ampie dimensioni e a unica navata (30x13 metri; scavi 1929, 1960), per quanto si sa, è sostituita dalla Rotonda di xi secolo (1929, 1960). Si conservano mosaici con iscrizioni dedicatorie, attribuiti al v-vi secolo, una delle quali reca il nome del diacono Syrus, difficilmente collegabili con ciò che resta della basilica. La chiesa di S. Pietro, a tre navate, viene demolita nel vi secolo. Ancora alla fine del vi secolo si attribuisce la fondazione del monastero dei SS. Maria, Cosma e Damiano, ricordato in un documento del 759, che occupava l’area del broletto e fu distrutto nel xvi secolo. Il cuore della città altomedievale è costituito dal quartiere occidentale dove il Capitolium, il teatro e le domus palaziali vanno progressivamente in rovina tra v e vi secolo, segnando la rottura dell’organizzazione della maglia degli isolati e della viabilità. Sui mosaici romani delle domus di via dei Musei e dell’Ortaglia, il riuso è leggibile dalla presenza di pali lignei, di tramezzi o nuove costruzioni, da piani d’uso in battuto, da focolari. I crolli degli edifici abbandonati occupano gli spazi interni ed esterni alterando i percorsi viari. Il nuovo insediamento di S. Giulia risponde a un’economia e a uno stile di vita molto mutato: nel cortile delle domus si sviluppa un abitato della prima età longobarda, che rispetta gli orientamenti delle case romane precedenti, ma l’edilizia è in legno, con case di diverse tipologie: capanne seminterrate, interamente in legno (Grubenhäuser), di tradizione germanica, con tetti in ramaglia e case con pareti in legno poggianti su muretti a secco; in nove edifici sono documentate pareti in ramaglia rivestite in argilla. L’immagine d’insieme, ricostruibile dagli scavi al Capitolium e a S. Salvatore-S. Giulia, non si differenzia dal resto della città, che ha restituito altri nuclei di case lignee, con sepolture povere, corredi funerari molto limitati. Questo settore occidentale, tra vi e vii secolo, sviluppa una vocazione artigianale e “operaia”, distribuita per il momento su areali distinti. In questo quartiere sorgerà il Monastero di S. Salvatore, per volontà di re Desiderio e Ansa (756). La chiesa conventuale di S. Salvatore, con cripta, si costruì in due momenti
Brescia La trasformazione della città di Brescia tra tardoantico e alto Medioevo è piuttosto chiara, soprattutto per la città interna alle mura romane, in particolare lungo l’asse di via dei Musei, dal Capitolium e dal teatro romano fino a tutto il settore occidentale della città imperiale, compreso entro il perimetro del monastero, di fondazione longobarda, di S. Salvatore-S. Giulia. Anche per questa città gli scavi archeologici degli ultimi
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Capitolo terzo
La Lombardia in etĂ tardoantica e altomedievale
Brescia, il monastero di S. Salvatore e S. Giulia, che insiste su edifici palaziali romani e su un insediamento artigianale di etĂ longobarda (fine vi-prima metĂ del vii secolo).
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Capitolo terzo
La Lombardia in età tardoantica e altomedievale
Pagine seguenti Mantova, il nucleo murato più antico verso il lago mantovano.
molto prossimi tra loro. In un unico getto venne realizzata la decorazione in stucco, che ricopre colonne e capitelli. La chiesa, a tre navate, fu utilizzata anche come mausoleo regio; una tomba è forse il sepolcro della regina Ansa, altre hanno pareti dipinte con croci, altre ancora riutilizzano sarcofagi romani. Como La città è difesa da un solido apparato fortificato, che viene mantenuto in funzione; scavi dell’Ottocento hanno individuato le basi di sette torri della cinta più antica, costruite con la medesima tecnica edilizia e con ampio reimpiego di spolia romani, quattro delle quali sono ubicate tra Porta Pretoria e l’angolo orientale delle mura. Tale intervento è stato ricondotto a età gota. Le numerose epigrafi cristiane rinvenute a Como danno la dimensione della diffusione precoce del cristianesimo in città. All’interno delle mura, nel luogo del foro romano, si insediò in un complesso arcivescovile costituito dalle chiese di S. Eufemia, di S. Pietro in Atrio e dal battistero di S. Giovanni in Atrio. Nel 1994 scavi stratigrafici nel battistero, a pianta ottagonale con nicchie rettangolari e semicircolari alternate, conservate in alzato, hanno permesso di ascriverne la fondazione alla fine del v secolo. Il ritrovamento di tessere musive ha fatto pensare a un soffitto decorato riccamente. L’edificio era collegato ad altri ambienti cultuali, come la cattedrale di S. Eufemia, dotata di atrio, posta nell’area dell’odierna chiesa di S. Fedele. La sua attribuzione al v secolo è del tutto probabile, per la presenza in zona di numerose epigrafi e frammenti scultorei di questa epoca. Nelle vicinanze si trova la chiesa di S. Pietro in Atrio, ampiamente ricostruita e priva di testimonianze dirette, salvo i lacerti di un pavimento a piastrelle nere e bianche databili al v-vi secolo; anche questo edificio doveva rientrare nel quadro del complesso episcopale. Poco distante in via Perti è emerso (1969) un pavimento in mosaico che raffigura, sotto un arco a festoni vegetali, un cantharos al quale si abbeverano due cervi; l’incompletezza della scena impedisce una ricostruzione dell’edificio originario, che però doveva essere di culto e risalire a età tardoantica, forse trattandosi di ambienti relativi all’episcopio. All’esterno delle mura, lungo la via che porta a Milano, si colloca la basilica di S. Abbondio, un impianto ad aula unica monoabsidata, con transetto tra presbiterio e aula. Il numeroso materiale epigrafico paleocristiano e la decorazione scultorea di apparati liturgici di età carolingia ne fanno, al momento, uno degli edifici religiosi più ricchi di Como. La presenza gota in città è documentata dal rinvenimento
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di un cimitero, per la ricchezza e tipologia dei corredi funerari, da datarsi al v-vi secolo, sorto sulle terme romane di via Dante (2002). Cremona La città murata di Cremona, vide sorgere, presso piazza Marconi, nell’area dell’odierna cattedrale, il complesso episcopale, attorno al quale si dispongono: il battistero paleocristiano, preceduto da un ampio spazio, a pianta ottagonale, con ambulacro e pavimento a piastrelle bicolori; la Basilica Major, dedicata a S. Maria, ad aula unica monoabsidata, al quale sono pertinenti i mosaici rinvenuti nel cortile del Torrazzo (1901), posti sopra una domus romana in abbandono, a lungo attribuiti a una cattedrale doppia; a sud la Basilica Minor, dedicata a S. Stefano, sempre ad aula unica monoabsidata, destinata alle attività quotidiane della chiesa, fiancheggiata dalla domus episcopalis. L’intero complesso va datato a età paleocristiana. La città tardoantica e altomedievale è in gran parte ancora da indagare: emergono, infatti, solo gli edifici di uso liturgico, anche se sotto il mosaico del Camposanto dei Canonici sono state scavate diverse fasi edilizie romane e in piazza Marconi si è rilevato un ampio strato di deposito di detriti e materiali organici, che attesta l’abbandono delle attività insediative e la trasformazione dell’area a orti e broli. Sempre in piazza Marconi nell’angolo nord-ovest presso la chiesa di S. Giorgio, di probabile fondazione longobarda, si estendeva un cimitero frequentato a partire dall’viii secolo. Lodi La città antica (Laus Pompeia) era munita di mura fatte erigere dall’imperatore Tiberio e dal figlio Druso tra 14 e 23 d.C., di cui restano tratti nel settore nord-orientale, dove è emersa una porzione di muro, lungo 40 metri, e due torri, la prima posta tra via xxv Aprile e via Strabone, la seconda poco più a sud. Entro le mura di sud-ovest sorgevano il teatro e l’anfiteatro, mentre il foro doveva trovarsi dove poi sorse la basilica di S. Maria, in una zona denominata cascine basse, posta a sud-est dell’incrocio del cardo e del decumano. La basilica, di cui si conosce molto poco, era triabsidata, preceduta forse da un portico; nel corso degli scavi stratigrafici del 2004 non venne però rilevata nessuna traccia del palazzo episcopale che le fonti collocano a sud della chiesa. Lodi fu soggetta a molte distruzioni. Coinvolta a più riprese in età tardoantica nelle invasioni barbariche e unne (402, Alarico; 452 Attila), fu in seguito luogo di scontri tra gli Eruli di Odoacre e i Goti di Teodorico, poi nel 710 venne distrutta dal re Cuniperto, nel quadro di un conflitto in-
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terno al regno. Il culmine della rovina si ebbe nel 1158 per gli scontri che opposero l’imperatore Federico Barbarossa e i comuni lombardi. Nel Borgo orientale di S. Bassiano, sono attestate numerose case, costruite con tecniche diverse e materiale di reimpiego, attribuite a età longobarda, presso le quali si sviluppò una necropoli. La stessa chiesa di S. Bassiano, che fu vescovo nel iv secolo, in origine era dedicata ai dodici Apostoli e viene fatta risalire al vi-vii secolo. Nell’area si recuperarono, tra l’altro, l’epigrafe del vescovo Proietto, datata al 575, e sette tombe longobarde, che conservano solo guarnizioni metalliche da cintura. Nei pressi di S. Bassiano, oltre il Sillaro, sono emerse tombe con corredi ricchi di età longobarda, mentre una tomba scavata di recente ha restituito manufatti di età gota. Necropoli, con sepolture già saccheggiate, che conservavano solo guarnizioni metalliche da cintura, si estendevano in via Papa Giovanni, a est delle mura, e in via Santi Nabore e Felice, con un nucleo di quindici sepolture di iii-iv secolo.
si svilupparono capanne lignee con ceramica longobarda. Dopo la distruzione di una capanna l’area, abbandonata per breve periodo, venne usata a cimitero. Si conservano due tombe a cassa: una, orientata nord-sud, conteneva due scheletri, uno di adulto riccamente abbigliato con abiti ornati da broccato, l’altro di bambino contenente solo due pettini in osso. Un’altra tomba aveva tre pareti interne decorate con agnelli affiancati a una croce, mentre sul quarto lato si trovava solo una croce. Posteriore a questa un’altra sepoltura, con più deposizioni, era intonacata e su un fronte recava una croce simile alla precedente. Altri due edifici occupavano gli spazi prossimi al battistero, dove poi sorse l’abside della chiesa romanica; uno era forse un mausoleo funerario. Recentemente, nel centro storico, è venuta in luce una sepoltura longobarda di adolescente, con ricco corredo composto da guarnizioni da cintura multipla in oro, una crocetta in lamina d’oro e recipienti, da attribuirsi cronologicamente al vi-vii secolo.
Mantova Mantova nell’alto Medioevo è protetta dal Mincio e ancora chiusa nelle mura della città romana, che subirono modifiche, visibili negli apparati murari, e sopralzi. Le fonti scritte, infatti, ricordano la civitas vetus con le sue fortificazioni fino a età medievale. Ai margini della città si distribuivano aree di abbandono e ruralizzazione, utilizzate a orti e vigne. All’esterno delle mura le cronache riportano la presenza di borghi con case realizzate in legno. Le fonti scritte, peraltro, ricordano l’occupazione gota della città e, nel 603, la conquista dei Longobardi che espugnarono la città murata, ancora bizantina. In piazza Sordello sono emersi muri, che tagliano una domus mosaicata, forse relativi alla chiesa di S. Maria Mater Domini, di cui poco si conosce. L’evidenza di maggior interesse è costituita dal battistero ottagono, sorto su preesistenze preromane e romane abitative già in avanzato stato di degrado. L’edificio, riconosciuto come il più antico battistero della città, fu in seguito inglobato nella chiesa altomedievale di S. Lorenzo. Del battistero si conservano pochi muri che per le tecniche costruttive portano al v-vi secolo. Attorno a esso sorgevano due edifici, uno riconosciuto parte della casa dei canonici. In questa area è stato messo in luce un mosaico policromo, decorato da una fascia bianca, un fregio a volute e rocchetti, che i confronti datano al v-vi secolo, mentre a est abbiamo le fondazioni a sacco di un muro, del quale non è possibile stabilire relazioni con altri edifici. A nord, nel vi-vii secolo,
Milano e Monza Oltre ai monumenti, costituiti dalle basiliche pre-ambrosiane e ambrosiane, gli scavi per la realizzazione della linea metropolitana 3 (1982-99) hanno permesso di evidenziare la realtà di alcuni settori della città meno appariscenti perché legati alla vita quotidiana, ma soprattutto i mutamenti intervenuti, prevalentemente tra v e vi secolo, nella distribuzione di spazi aperti e di realtà abitative. In tutte le zone indagate è documentata un’edilizia povera, che utilizza i muri delle case romane in rovina attrezzandole con tramezzi lignei. In età longobarda in piazza Duomo sorgono capanne di legno che riducono gli assi viari. Molti settori della città sono nel vi secolo in abbandono, e alle case si sostituiscono orti e broli. Milano aveva subito l’attacco di Attila (452) e, nel vi secolo, era stata coinvolta nella guerra greco-gotica, centro di operazioni militari, come ricordano Procopio prima ed Ennodio poi. Il quartiere di Porta Vercellina, a oriente, sede del Palazzo Imperiale, del circo e dell’ampliamento delle mura urbiche voluto dall’imperatore Massimiano (iv-v secolo), agli inizi del vii secolo è occupato dai sovrani longobardi: Agilulfo emette diplomi dal Palazzo, non si sa quanto conservato, e nel circo eleva al trono (604) il figlio Adoloaldo. In questi anni il sovrano impone anche restauri alla basilica di S. Simpliciano, che conserva cospicui resti dell’edificio più antico. Nell’area del circo, nella tarda età longobarda o nella prima età carolingia, sorse il monastero dei SS. Maria e Sigismondo, poi denominato di S. Maurizio Maggiore, che in-
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A fronte Mantova, area del battistero paleocristiano, sostituito da altro edificio di culto.
Pagine seguenti Milano, monastero di S. Ambrogio, che conserva al suo interno la cappella di S. Vittore in Ciel d’Oro.
globò nelle sue strutture gli edifici conservatisi del circo e delle mura. Anche il monastero di S. Maria d’Aurona, oggi demolito, sorse nell’ viii secolo; a cavallo delle mura in via Monte di Pietà (712-744), sono giunti a noi numerosi elementi scultorei liturgici che dovevano decorare la chiesa monastica. Le basiliche ambrosiane, erette fuori le mura e molto modificate nei secoli, mantengono parti degli edifici antichi: S. Nazaro, in corso di Porta Romana è nota soprattutto per l’epigrafe del medico greco Dioscoro (sepolto nel v secolo) e per le capselle argentee di iv secolo; in S. Ambrogio è visitabile la cappella di S. Vittore in Ciel d’Oro, con la cupola mosaicata che ha al centro un medaglione con il busto di san Vittore (v-vi secolo), e lungo le pareti le figure dei santi Protasio, Gervasio, Materno, Ambrogio, Nabore e Felice. A S. Ambrogio, sorto su un cimitero tardoantico, si rinvenne l’unica sepoltura aristocratica longobarda, fino a oggi nota a Milano: una cassa in pietra che conservava, presso lo scheletro, un anello sigillare aureo a nome di Marchebadus vvv (Marchebaudus Vir Illustris?) e altri preziosi oggetti. S. Lorenzo, eretta tra iv e v secolo, fuori dalle mura, oltre alla cappella di S. Aquilino, nota per i mosaici paleocristiani, conserva – nonostante le modifiche tardo cinquecentesche – l’impianto tetraconco originario. Scavi ottocenteschi eseguiti sotto l’attuale basilica di S. Eustorgio, fondata tra 345 e 348, resero note le fondazioni di una chiesa paleocristiana, di cui si conserva solo l’abside, e nel 1998-2001 nuove indagini archeologiche hanno rilevato un cimitero in uso dal iii al vi secolo. A Milano l’intervento di maggior impatto urbanistico si ebbe con la costruzione, nel iv secolo, per volere del vescovo Ambrogio, degli edifici episcopali, che ebbero sviluppi nel v e vi secolo. L’area fu occupata da due cattedrali: la vetus, corrispondente a S. Maria Maggiore, la nova, corrispondente a S. Tecla, oggi scomparse, e dai battisteri di S. Giovanni ad Fontes e di S. Stefano. Probabilmente in età longobarda attorno a questo nucleo si distribuirono altre quattro chiese minori, dedicate agli arcangeli, e la corte ducale. La sequenza degli scavi archeologici, non tutti eseguiti con metodologie certe, risale al 1602 quando vennero dissepolte alcune tombe dipinte; nel 1899, sotto S. Stefano, presso l’odierna abside del Duomo, si trovò la vasca battesimale. L’apparato decorativo del Battistero è andato via via arricchendosi, la volta era a mosaico, le pareti coperte da lastre di marmo. Le 222 monete rinvenute, nella canaletta di scarico delle acque della vasca battesimale, indicano un arco di vita dell’edificio dal iv al vii secolo, periodo in cui
la moneta buttata aveva anche una forte valenza cultuale o rituale. Presso l’ingresso occidentale del battistero fu eretta la basilica di S. Tecla (v-vi secolo), a una sola abside e cinque navate ripartite da colonne. Solo dopo il v secolo si costruì il nartece mosaicato. A seguito della scorreria di Attila (452), il vescovo Eusebio rinnovò la chiesa, dotandola di una nuova abside, e arricchì di marmi policromi la navata centrale e il presbiterio. Numerose sepolture privilegiate si addossano al battistero e nel passaggio tra questo e S. Tecla, tre di queste sono dipinte con croci, due altre si riferiscono a presbiteri (Maginfredo e Arialdo), come si deduce dalle iscrizioni dipinte. Monza è spesso accostata a Milano, per la lunga frequentazione di Teodolinda e Agilulfo. Da Paolo Diacono sappiamo che la regina (570-627), oltre a far erigere un palazzo, internamente ornato da affreschi che ricordassero le tradizioni del popolo longobardo, volle costruire una grande basilica che dedicò a S. Giovanni Battista. Questo edificio doveva essere imponente e molto ornato, a più navate e con pianta cruciforme. Nel 1989 nell’area della navata nord dell’odierno Duomo, furono scavate tre tombe “privilegiate” dipinte con croci. La rideposizione, in un sarcofago del xiii secolo, dei resti e del corredo della regina fu riaperta nel 1941; al suo interno si conservavano un tubo fittile, elementi da cintura e decorativi in oro, forse una guarnizione di fodero di coltello o spada, decorata in ii stile animalistico germanico, fili di broccato in oro, una punta di lancia, da attribuirsi dalla fine del vi alla prima metà del vii secolo. La tradizione vuole che anche il prezioso pettine e la famosa chioccia siano parte del corredo.
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Pavia La città di Pavia nei suoi assetti tardoantichi e altomedievali si distingue soprattutto per la ricchezza di fonti scritte, che sottolineano la continuità della città capitale rispetto al mondo antico. Un modo per magnificarne la grandezza. Ma è stata ampiamente messa in evidenza la difficoltà a confrontare le notizie storiche che coinvolgono Pavia con la rarefazione delle testimonianze archeologiche. Gli edifici più antichi sono ancora le chiese, soprattutto monastiche di fondazione longobarda, che si conservano per tratti di murature, in buona parte simili a quelle di S. Salvatore-S. Giulia a Brescia (la chiesa di S. Maria alle Pertiche, con cripta coeva, la chiesa monastica di S. Felice), che costituisce per la sua sostanziale integrità un modello di riferimento stabile. Solo scavi archeologici recenti hanno fatto emergere l’alto Medioevo non aulico, attestando, come in altre città, mu-
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Milano, Monastero Maggiore, che inglobò le torri delle mura e del circo massimianeo.
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Milano, basilica di S. Lorenzo con cappella di S. Aquilino.
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Milano, basilica di S. Eustorgio, al cui interno è visitabile l’abside dell’impianto cultuale paleocristiano.
tamenti di stili di vita, dell’assetto urbano e della maglia viaria, creando nuove gerarchie negli spazi intramuranei. Il centro cittadino si sposta dal foro di piazza Grande alla cattedrale intramuranea di S. Stefano, affiancata agli inizi dell’viii secolo da S. Maria del Popolo, che va probabilmente attribuita al vescovo Damiano (morto nel 771). Restauri e nuove costruzioni risalgono a età gota, l’iscrizione di Atalarico (528-529) è prova di lavori fatti eseguire nell’anfiteatro. A Teodorico (493-526) si attribuisce la costruzione di un palazzo imperiale, molto lussuoso, ma pare molto più probabile che si sia trattato di un’opera di restauro e di abbellimento dell’edificio precedente. Secondo Paolo Diacono esso si trovava presso Porta Palacense, costruita da Pertarido nel 680, ed era dotato di giardini e di tutti gli spazi utili alla gestione delle diverse attività. Le chiese esterne alle mura sono numerose: SS. Gervasio e Protasio e S. Eufemia si datano al v secolo; fondazioni rege longobarde, o di appartenenti alla famiglia regia, sono S. Giovanni Battista (regina Rodelinda), S. Ambrogio (Grimoaldo), S. Salvatore, S. Maria alle Pertiche, con annesso cimitero, S. Adriano. In alcuni di questi si fecero seppellire i re longobardi, considerandoli loro mausolei. A S. Pietro in Ciel d’Oro si rinvenne una ricca sepoltura longobarda e un tesoro di reliquiari preziosi. I grandi monasteri sorsero protetti dalle mura: S. Maria Teodote, fondata da re Cuniperto, occupò un’area fiscal, la torre interna al monastero è ancora visibile nel braccio nord dell’arcivescovado. La chiesa dell’ex monastero di S. Felice era triabsidata e preceduta da un portico a uso cimiteriale; nell’area interna sono venute in luce due tombe di badesse, riccamente dipinte, una con la Dextera Christi, l’altra con una croce dalla quale germogliano rose, e iscrizioni sacre. Le sepolture conservavano resti dell’abbigliamento delle monache, assai ricco. Numerosi eleganti apparati di decorazione scultorea, a prevalente funzione sacra, di viii-ix secolo, sono oggi conservati nei Musei Civici della città, provenienti per lo più da S. Maria alle Pertiche, da S. Maria Teodote, da S. Tommaso e da S. Eusebio. I grandi castelli Gran parte delle fortificazioni lombarde sorge in età tardoantica per difendere dalle invasioni barbariche le città e la pianura. I castelli tardoromani e tardoantichi si affiancano, nella difesa della penisola, alle città fortificate: Brescia, Bergamo, Milano; alcuni di essi nel vii secolo saranno definiti con il nome di civitas (An. Rav., iv, 30), oltre che di castello. Cit-
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tà castello, dunque, che in età longobarda sono centri di distretti territoriali (le giudicarie) amministrativi e di controllo del territorio e della popolazione. I grandi castra rientrano nel quadro delle difese di fine iv-v secolo illustrato dalla Notitia Dignitatum, che ricorda la rete fortificata che proteggeva circa Alpium l’Italia. I principali castelli sorgono nella fascia del pedemonte lombardo, o lungo il corso di fiumi e laghi, presso nodi viari o su isole. I maggiori castelli hanno caratteristiche precise: l’ampiezza della superficie protetta dalle mura, la presenza di edifici religiosi, di dimore signorili, di case e impianti manifatturieri (cisterne, pozzi), di organizzazione interna all’abitato (distribuzione e numero delle abitazioni, vie). In Lombardia i grandi castelli, a presenza longobarda, sono: Castelseprio, Sirmione, l’Isola Comacina, Lomello. Castelseprio, posto su un’altura di circa 356 metri s.l.m., sorse in terra fiscale e venne governato in età longobarda da gastaldi regi; è circondato da mura munite di torri con camminamenti superiori di ronda, che si ampliano a contenere Torba, posta in pianura lungo la via dell’Olona. Castelseprio ha una storia complessa: alcune strutture edilizie vennero ricostruite o riutilizzate ed è difficile, quindi, ricostruire cronologicamente gli sviluppi dell’abitato e del borgo extramuraneo. Alla demolizione delle mura, distrutte a seguito della guerra per il dominio di Milano, vinta nel 1287 dai Visconti, si accompagnò l’obbligo, per la popolazione residente di abbandonare il luogo. Conservarono le loro funzioni la chiesa pievana di S. Giovanni e il battistero. I manufatti emersi dagli scavi, soprattutto ceramici, indicano che il centro era popoloso in età gota e longobarda con le case distribuite lungo il fronte sud-occidentale delle mura. Le indagini condotte negli anni sessanta del secolo scorso hanno messo in luce tre fasi abitative di edifici ad alzato ligneo su muretti in pietra, distrutte da incendi e poi ricostruite. Le abitazioni erano collegate alla porta urbica da strade in basolato; le attività artigianali (metallurgia) si collocano in questa area all’interno delle mura. Al centro del pianalto la basilica di S. Giovanni e il battistero costituiscono un nucleo a sé stante, per il quale si può oggi solo presumere una fondazione nel v-vi secolo. All’esterno delle mura, si estendeva il borgo con la celebre chiesa di S. Maria Foris Portas, un impianto triconco, preceduto da un atrio, forse costruito nel v-vi secolo. Recenti indagini diagnostiche hanno attribuito al x secolo il famoso ciclo pittorico dedicato all’infanzia di Cristo e di Maria. A valle la torre tardoromana di Torba, interna alle mura,
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Monza, il Duomo sorto in luogo della basilica fondata dalla regina Teodolinda.
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Castelseprio (Va), il nucleo pievano di S. Giovanni con battistero e area cimiteriale, interni alle mura.
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fu riutilizzata a mausoleo e oratorio di un monastero, che si sviluppò nell’viii secolo. I dipinti murali, alcuni dei quali dedicati a badesse (piano terra, arcosoli), a Cristo tra Santi, alla Madonna, affiancati da una sequenza di monache che salmodiano (piano superiore), si attribuiscono a età precarolingia. La torre costituiva forse una tappa del percorso liturgico connesso alla più antica chiesa di S. Maria, dotata di cripta, poco distante, più volte ricostruita e oggi di forme romaniche. In età longobarda è centro di giudicaria anche Sirmione, civitas come Castelseprio, con un distretto territoriale che permette di controllare, affiancandosi alla rocca di Garda, i territori gardesani e Riva in Trentino. Il Castello di Sirmione doveva essere difeso da tre cinte murarie turrite, che dalla villa romana delle grotte di Catullo si estendeva intorno al colle di Cortine. Le fortificazioni nel terzo quarto dell’viii secolo probabilmente si contrassero, limitando la dimensione dell’area protetta; le chiese di S. Vito, di S. Martino e del monastero di S. Salvatore rimasero all’interno delle mura, mentre erano esterne S. Pietro in Mavinas e la necropoli longobarda, che si sviluppa dalla seconda metà del vi secolo. Gli scavi condotti di recente nell’area delle chiese di S. Pietro in Mavinas e di S. Salvatore hanno messo in evidenza a S. Pietro, ricordata in un documento del 761, la chiesa tardoantica (v secolo) e altomedievale. La prima ha un impianto ad aula rettangolare con unica abside semicircolare, preceduta in facciata da un atrio. Atrio e chiesa vennero progressivamente occupati da tombe. Al centro del presbiterio, vicino al podio, erano posti ricettacoli per reliquie e una tomba privilegiata (fondatore, benefattore?). Altre duecento sepolture, le più importanti poste ai lati o al centro del podio, hanno restituito corredi, spesso ricchi di oggetti preziosi, che si datano dal v-vi secolo a tutto il vii secolo, e che segnalano il legame con l’alta nobiltà gota e longobarda. Nell’viii secolo, con lo svilupparsi di un’aristocrazia di corte, la chiesa si dotò di un ricco apparato scultoreo d’uso liturgico e progressivamente cessò la funzione cimiteriale. Gli scavi della chiesa di S. Salvatore, fondato dalla regina longobarda Ansa, tra il 766 e il 774, dal quale provengono resti scultorei di viii secolo avanzato, hanno messo in luce un edificio di culto più antico, del quale resta l’area presbiteriale triabsidata, che si concludeva in un’unica navata, dotata di cripta a corridoio, alla quale si accedeva scendendo sette scalini. Nella cripta si conservano lacerti di affreschi, simili a quelli che ornano le pareti delle sepolture deposte nella chiesa dell’ex monastero di S. Felice a Pavia, da datarsi alla seconda metà dell’viii secolo. L’area circostante era
occupata da un cimitero quasi privo di oggetti di corredo. Al centro del lago di Como, sulla sponda occidentale, si trova l’Isola Comacina, unica isola del Lario di cui al momento sono noti i luoghi di culto. Lo sperone roccioso di piccole dimensioni (circa 500 metri di lunghezza per 150 di larghezza) è stato sede di uno dei più importanti presidi bizantini, comandato dal magister militum Francione fino alla fine degli anni ottanta del vi secolo, quando il re longobardo Agilulfo, con un assedio di sei mesi, riuscì a impossessarsi della roccaforte, del controllo del Lario e delle molte ricchezze qui custodite. Si conservano oggi: la basilica di S. Eufemia, un’aula unica a tre navate, triabsidata, con cripta, della quale non si conosce l’assetto originario, viste le modifiche d’età romanica; parte dell’aula battesimale biabsidata dedicata a S. Giovanni, con affreschi carolingi e resti del pavimento musivo paleocristiano. Un’epigrafe, conservata un tempo a S. Eufemia, ricorda il vescovo scismatico tricapitolino Agrippino che nel 606 fondò sull’Isola uno dei due edifici. Numerose sepolture in embrici vennero scavate da U. Monneret de Villard agli inizi del Novecento; una, posta sotto la porta, che metteva in comunicazione la chiesa con un portico e un altro vano, era coperta da una piccola lastra in marmo, segnata da una croce; la tomba conteneva solo un vasetto in vetro di vi secolo. L’oppidum di Lomello è ricordato da Paolo Diacono nel celebre episodio del fidanzamento di Teodolinda e Agilulfo (590). La posizione del castello è, come in tutti gli altri casi, centrale rispetto alla viabilità maggiore di tradizione romana. In origine, infatti, l’abitato svolgeva funzioni di mansio, lungo la via che da Pavia conduceva alle Gallie, come attestano i miliari rinvenuti sul posto e databili al periodo tra iii-iv secolo d.C. L’odierno centro storico sorge nel luogo del più antico abitato romano. Lomello mantenne però a lungo il ruolo di fulcro territoriale per il potere via via conquistato dai conti palatini, di ascendenza locale. La cinta muraria messa in luce di recente (scavi 2008-09) va a completare il quadro del sistema delle difese, con mura rafforzate da torri quadrangolari, che si estendeva per 12.000 mq, tanto da ricongiungersi con il tratto che oggi chiude il chiostro della basilica romanica di S. Maria. All’interno della cinta muraria, dubitativamente datata al vi secolo, sono state scavate capanne rettangolari a base interrata con alzato in legno; a cavallo delle mura si trovavano tombe povere contenenti pochi oggetti di iv-vi secolo. Il complesso religioso si compone della basilica di S. Maria e del battistero di S. Giovanni ad Fontes. La chiesa di S. Maria, costruita nei primi decenni dell’xi secolo, fu preceduta
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La Lombardia in età tardoantica e altomedievale
Pagine seguenti Sirmione (Bs), il castello, centro amministrativo della giudicaria sirmionense. Sirmione (Bs), la chiesa di S. Pietro in Mavinas.
probabilmente da un impianto cultuale coevo al battistero, per essere poi modificata; si avrebbe così plausibilmente un più antico edificio a pianta rettangolare con abside semicircolare ridotta e, in seguito, un impianto a tre navate più ampio, sostituito dall’edificio attuale. Il battistero ha nicchie semicircolari e rettangolari alternate, alle quali venne aggiunta un’abside (v-vi secolo d.C.); attorno a esso si distribuisce un’area cimiteriale, di difficile datazione. Insediamenti e necropoli longobarde Il quadro degli insediamenti rurali e delle aree cimiteriali longobarde si è molto ampliato in questi ultimi decenni, fornendo informazioni sempre più dettagliate relative sia alla contiguità tra villaggi e sepolture, sia alle gerarchie sociali e, più in generale, alle modalità di vita altomedievali. Ci si limita, quindi, a ricordare in questa sede gli abitati più significativi. A Desenzano, località Faustinella, i resti murari di una villa romana mosaicata servono per impiantare un edificio rustico altomedievale. Accanto a esso sorgono capanne di legno, con focolari non strutturati collocati direttamente sul pavimento in battuto; presso un’aula absidata si scava un pozzo. Il luogo sicuramente abitato nel tardo vi e nel vii secolo ha restituito ceramica longobarda, una guarnizione bronzea da cintura, strumenti relativi ad attività rurali, silvicultura e falegnameria. Tra i numerosi esempi, attestati in territorio lombardo, di edifici romani in rovina riutilizzati come cimiteri o per il culto si ricordano: la chiesa di S. Stefano di Garlate (Lecco) e il Monastero di S. Maria Assunta di Cairate (Varese). La chiesa di S. Stefano di Garlate sorge su una villa romana in abbandono, costruita a partire dal i secolo d.C., e comprendeva almeno dieci ambienti. Attorno alla metà del v secolo, il vano principale fu trasformato in un mausoleo funerario, che accolse numerose sepolture. A questo sacello vanno riferite le lapidi funerarie in marmo, collocate in origine sulle pareti, la più importante e più antica delle quali ricorda il vir illustris Pierius, comandante in capo delle truppe di Odoacre, sconfitto e ucciso in battaglia da Teodorico nel 489, nei pressi dell’Adda. Sul finire del vii secolo, il sacello venne trasformato in oratorio con l’aggiunta di un’abside semicircolare; nuove sepolture sostituirono le precedenti e, in un secondo momento, il presbiterio venne diviso dalla navata e ripavimentato. Nell’area del monastero femminile di Cairate, fondato secondo una falsa carta del 737, dalla longobarda Manigunda scavi stratigrafici hanno messo in luce una ricca
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sequenza che dalla ristrutturazione di un edificio rustico produttivo (iv secolo), con annesso cimitero, sviluppa un mausoleo e un edificio funerario (iv-v secolo), con nuovo cimitero sorto tra iv e vi secolo. A età longobarda (vi-vii secolo) si attribuiscono: una necropoli, posta presso l’edificio di culto-oratorio, con nuclei di sepolture isolati e di personalità influenti, che riutilizzano le strutture tombali tardoantiche, una delle quali con una croce dipinta bicolore, circondata da pavoni, di fattura grezza (vii secolo). In questi anni l’abitato è costituito da edifici poveri ad alzato ligneo, mentre nell’viii secolo il complesso monastico ha una nuova chiesa cimiteriale, un chiostro, impianti abitativi e un recinto in pietre che protegge dalle esondazioni del fiume Olona. I villaggi altomedievali scavati di recente offrono un’idea dello stile di vita e della cultura degli abitanti le campagne: a Chiari, nella pianura bresciana, un paese che ha oggi pianta a cerchi concentrici disposti attorno al centro storico, un saggio di scavo condotto in piazza Zanardelli e sondaggi nell’area circostante (2007-09) hanno individuato tracce di un’estesa palificazione, cui succede un uso cimiteriale con tombe in cassa lignea deposte nella nuda terra, e un fossato che, forse, recingeva l’abitato di vii secolo. Nell’viii-ix secolo si sviluppa il villaggio con piccoli edifici, a pianta quadrangolare o rettangolare, ad alzato ligneo su muretti in pietra, dove erano posti focolari e depositi di rifiuti domestici (semi, resti di pasto, alimenti, fibre vegetali). In uno di questi, incendiato, si sono conservati resti di attività casearia, costituiti da un contenitore pieno di formaggio, avvolto in garza. A Flero, poco distante da Ghedi, sono emersi i resti di un insediamento di età tardoantica altomedievale, non lontano da una villa romana ormai in abbandono, con una grande capanna lignea interrata, avente funzioni di magazzino, circondata da forni per la cottura delle carni, scarti di una fornace per la lavorazione di ceramica e quattro sepolture a inumazione con corredi poveri che conducono a età longobarda. In frazione Terreni Freddi, poco distante, caratterizzata da una lunga frequentazione da iv secolo a.C. a v-vi secolo d.C., alcuni ambienti in pietre legate da argilla (ii secolo d.C.), delimitati da un via carrareccia, sono sostituiti da capanne ad alzato ligneo su muretti, che talvolta sfruttano i muri di un edificio rustico in abbandono. Sono numerose le aree cimiteriali altomedievali che si sviluppano presso edifici rustici, o attorno alle chiese pubbliche e private. Trattiamo qui solo le necropoli longobarde di una certa estensione, che si distribuiscono, sui dati finora noti, particolarmente nei territori di pianura, pres-
so abitati romani, che hanno superato in qualche modo la crisi tardoantica. Seguendo l’asse che dal fiume Mincio conduce al Ticino incontriamo, nel Mantovano, le necropoli di Goito. La prima area cimiteriale è in via Mussolina (240 tombe), l’altra lungo la strada Calliera (238 tombe), a scavo non ultimato. Ambedue sono poste lungo la via che porta a Castellucchio-Goito e, pertanto, forse costituivano un’unica necropoli. La necropoli della Calliera conserva nuclei di sepolture tardoromane, con manufatti goti, fibule appartenenti alla cultura Tcherniakov-Sintana de Mures di iv-v secolo (confronti in Ucraina e Germania) e corredi longobardi da fine vi a vii secolo inoltrato. Il cimitero di via Mussolina, organizzato su file di sepolture orientate est-ovest, divise in nuclei famigliari e con espansioni periferiche, raggiunge il vii secolo attardato. La presenza di cavalieri è attestata da speroni e da una sepoltura di cavallo, ancora munito di morso, segno evidente di interazione tra cultura funeraria locale, bizantina, germanica. A poco distanza da questa necropoli, in località Chiesa Vecchia del Dosso, un oratorio conteneva una sepoltura longobarda, con croce aurea a intrecci animalistici (vii secolo), e copertura in parte composta da un frammento di bassorilievo a intrecci più tardo (viii-ix secolo). Siamo di fronte alla morte cristiana, di un maggiorente locale che si è fatto deporre forse nel suo oratorio privato. Tombe longobarde aristocratiche, in edificio di culto, sono note nella chiesa di S. Pietro a Gardola di Tignale, nell’alto Garda, e in S. Zenone a Campione d’Italia. I confronti lombardi sono numerosi: ad esempio S. Stefano di Garlate, già visto, S. Pietro in Beolco, S. Stefano di Bulciago, SS. Nazaro e Celso di Garbagnate Monastero, in Brianza. Il significato di queste sepolture va connesso a un processo di cristianizzazione ormai maturo. A Montichiari (nel bresciano) indagini archeologiche, condotte a partire dal 1998, hanno messo in luce due aree cimiteriali, la prima in località S. Giorgio (11 tombe), la seconda a S. Zeno (337 tombe). Gli scavi hanno interessato un’area collinare estesa e prossima al terrazzo fluviale del Chiese. Le sepolture erano distribuite su più file, orientate est-ovest, divise per nuclei famigliari. I tratti culturali di corredi e doni deposti attestano la copresenza di prodotti di manifattura bizantina e longobarda. La frequentazione di questa necropoli a cultura mista va dalla fine del vi secolo agli ultimi decenni del vii. La vicinanza al fiume Chiese e alla strada Mantova-Brescia indica che a Montichiari circolavano uomini e merci provenienti da ogni dove.
A Leno-Porzano la necropoli scavata (1992-93) lungo una strada locale ha restituito 247 tombe, orientate secondo il costume merovingio est-ovest e organizzate su file nordsud. Le tombe sono disposte per gruppi famigliari, per lo più in nuda terra, quindici hanno camera ad alzato ligneo, di tradizione pannonica; anche gli oggetti dei corredi più antichi sono spesso di tradizione pannonica, ma vanno rarefacendosi nelle due fasi successive, con l’adozione di gioielli bizantini e la progressiva scomparsa del corredo. Si tratta di un cimitero che ha inizio con la migrazione longobarda (568-569), con oggetti fortemente caratterizzati culturalmente, ma la scarsità di armi fa pensare a un gruppo umano non aristocratico, a differenza di altri cimiteri dell’area, e dedito all’agricoltura. Trezzo d’Adda è celebre per le cinque sepolture dei “signori degli anelli”, scavate in via delle Racche (1976, 1978), caratterizzate dall’alta qualità delle strutture tombali, che ha confronto in alcune tombe di Arsago Seprio (Varese), e dai corredi particolarmente ricchi, dove la tradizione romanobizantina e germanica si incontrano. L’appartenenza all’alta aristocrazia dei defunti è manifestata dai broccati e dagli anelli sigillari in oro con il nome proprio del defunto inciso. A circa due chilometri di distanza in località S. Martino, sono emerse 25 sepolture (1988-91), che occuparono un fabbricato rurale abbandonato, sul quale si impostò un edificio di culto, che in parte inglobò le tombe. I corredi attestano l’alto lignaggio dei defunti e la loro integrazione nella cultura mediterraneo-orientale. I due cimiteri sono da datarsi: il primo tra vi e prima metà del vii secolo, il secondo da fine vi al secondo trentennio del vii secolo. Ad Arsago Seprio è ancora in parte visibile il cimitero aristocratico longobardo di fine vi-prima metà del vii secolo, solo parzialmente scavato e con sepolture già violate al momento della scoperta (1971, 1983, 1994); le tombe hanno strutture di qualità e corredi ricchi e preziosi. Con l’avanzare del vii secolo si sviluppa il rito cristiano della sepoltura in edifici di culto. Nella chiesa di S. Pietro a Tignale, sono emersi (2003) un oratorio altomedievale, dove erano deposte due sepolture accanto alle quali giacevano numerosi elementi da cintura in ferro ageminato (metà circa del vii secolo) di altissima qualità. La chiesa-mausoleo di S. Zenone a Campione d’Italia ha rivelato la presenza di più sepolture famigliari, sia nel mausoleo antistante l’oratorio, sia nell’oratorio. Due contenevano ricchi componenti dell’abbigliamento e gioielli. Un’altra sepoltura interna all’oratorio presentava pareti interne intonacate con croci dipinte.
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L’Isola Comacina (Co). Pagine seguenti L’Isola Comacina (Co). La basilica di S. Eufemia e il battistero di S. Giovanni.
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La Lombardia in etĂ tardoantica e altomedievale
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Monasteri e castelli: l’alto Medioevo Nelle campagne, l’alto Medioevo fu un’epoca di costruzioni povere, in legno, paglia e terra battuta, di cui ben poco è rimasto fino ai giorni nostri, se non quanto gli archeologi, qua e là, riescono a individuare. Anche i castelli, che fra ix e xi secolo cominciarono a costellare le campagne lombarde, erano di fattura piuttosto modesta, dato che nella maggior parte dei casi per realizzare una fortificazione bastavano un fossato, una palizzata e, talvolta, una torre di assi e una “motta”, ossia una collinetta artificiale di terra di riporto. Rispetto ai contadini e ai signori laici, gli enti ecclesiastici disponevano di risorse maggiori, che permisero loro di assoldare manodopera specializzata e di costruire edifici in pietra. Anche le sopravvivenze di questi ultimi, però, sono soltanto episodiche, dato che la gran parte delle chiese fu ricostruita nei secoli successivi. L’isolamento ha comunque salvato almeno parzialmente il complesso di S. Pietro al Monte di Civate, fondato agli inizi del ix secolo e poi profondamente rimaneggiato agli inizi dell’xi. A esso può accostarsi la chiesa di S. Maria Foris Portas di Castelseprio, recentemente datata agli inizi del ix secolo, anche se basata su precedenti strutture longobarde. La scarsità dei documenti sopravvissuti rende difficile ricostruire anche il volto delle città lombarde di età carolingia o postcarolingia. Gli scavi archeologici a Pavia e a Brescia hanno rilevato che le case andavano facendosi un po’ più elaborate e complesse, rispetto ai tipici edifici lignei a un solo piano dell’età longobarda. Sta di fatto che nessuna costruzione laica dell’epoca è giunta fino a noi. Sicuramente, l’eredità romana continuava a connotare in maniera significativa il paesaggio urbano, a partire dalle cinte murarie antiche che, lasciate senza manutenzione nel corso della prima età carolingia, furono oggetto di un’intensa opera di rinnovamento e
ricostruzione nella prima metà del x secolo, quando le incursioni condotte dagli Ungari minacciarono drammaticamente la sicurezza delle città lombarde. Anche alcuni monumenti particolarmente significativi continuavano a venir utilizzati: a Milano come a Brescia, gli antichi teatri furono usati come luoghi per assemblee pubbliche fino all’xi e al xii secolo. Una discontinuità si rileva invece verso i grandi palazzi imperiali, attestati sino al x secolo, che vennero lasciati decadere (a Milano) o volutamente distrutti (a Pavia, nel 1024), dato che erano il simbolo del pesante obbligo di ospitare la corte del sovrano quando si fosse trovata in Italia. In alcune città, come Bergamo, non sopravvisse invece alcun resto romano importante, forse a causa delle distruzioni arrecate dagli Ungari all’inizio del x secolo. Anche entro le mura urbane, le iniziative edilizie più rilevanti furono opera degli enti ecclesiastici. A Milano risalgono all’età carolingia la costruzione dei monasteri di S. Vincenzo e S. Maurizio e i primi lavori di restauro a S. Ambrogio, ma ben poco è rimasto visibile di questa attività, dato che spesso le strutture edilizie del ix e x secolo sono state poi soppiantate da ricostruzioni di età romanica e talvolta definitivamente cancellate da improvvidi restauri otto-novecenteschi. Non molto è rimasto originale anche nella cremonese S. Lorenzo, fondata nel 990, in piena età ottoniana. A un’iniziativa di Ludovico il Pio (814-840) potrebbe invece risalire buona parte della forma attuale della basilica di S. Salvatore a Brescia, forse l’unico monumento carolingio urbano che sia giunto quasi intatto sino a noi. La crescita delle città A partire dall’ xi secolo tutto l’Occidente conobbe un’eccezionale epoca di sviluppo economico, demografico e culturale. Nota come “rinascita dell’anno Mille”, questa ripresa fu
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Capitolo quarto
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Pagine precedenti Il broletto duecentesco di Milano con la piazza dei Mercanti. In queste pagine Il complesso protoromanico di S. Pietro di Civate (secc. ix-xi). Pagine seguenti La chiesa di S. Simpliciano di Milano, rinnovata nell’xi secolo sulla base di una basilica paleocristiana.
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A fronte La ricostruzione moderna del ponte trecentesco di Pavia, che mette in comunicazione il centro cittadino con il sobborgo di Borgo Ticino.
Pagine seguenti La chiesa di S. Michele a Pavia (secc. xi-xii).
in realtà una brusca accelerazione di un rinvigorimento già iniziato nei secoli precedenti. L’aumento della popolazione, la conquista di nuovi spazi coltivati e la ritrovata centralità delle città cambiarono profondamente il paesaggio europeo e la Lombardia fu sicuramente fra le regioni più precocemente interessate dal mutamento. Nel corso del secolo, anche la Chiesa cattolica visse una stagione di riforma, volta a costruire una vera e propria “monarchia papale” e a estirpare i vizi della simonia e del concubinato dei sacerdoti. Per moralizzare il comportamento degli ecclesiastici, si cercò di sviluppare la vita in comune del clero secolare (nelle canoniche) e regolare (nei monasteri riformati). Questi nuovi enti si moltiplicarono, spesso negli spazi suburbani, portando alla ricostruzione in forme grandiosamente romaniche di precedenti edifici di culto tardoantichi. A Milano nel corso dell’xi secolo fu riedificata, in più fasi, la grande basilica di S. Ambrogio, dove vivevano in vivace competizione una comunità di canonici e una di monaci, ognuna delle quali aveva il proprio campanile. A essa seguì poco dopo il 1100 il rinnovamento dell’abbazia di S. Simpliciano, sulla base di una antica chiesa paleocristiana dedicata alle Vergini, così come a Como nel 1095 fu consacrata la monumentale sede del nuovo monastero di S. Abbondio, che sostituiva l’ormai cadente basilica dei SS. Pietro e Paolo. A Pavia, le grandi chiese di S. Pietro in Ciel d’Oro e di S. Michele sono solo i più noti fra i molti edifici sacri rinnovati o ricostruiti tra la fine dell’xi e gli inizi del xii secolo. Con la rapida crescita della popolazione, le città cominciarono a riversarsi fuori dalle antiche mura romane, all’esterno delle quali nacquero dei sobborghi destinati ad allargarsi rapidamente. Agli inizi del xii secolo, Como si guadagnò il soprannome di “città-granchio” (urbs cancrina) perché al di fuori del vecchio centro romano i borghi di Vico e di Coloniola (oggi S. Agostino) prolungavano l’abitato sulle due sponde del lago, che stringevano appunto come le chele di un crostaceo. Progressivamente, gli insediamenti posti a ridosso delle mura venivano inclusi in nuove cinte fortificate che via via si allargavano soprattutto grazie all’afflusso di immigrati dalle campagne. A Milano, l’antica cerchia romana di Massimiano era già troppo ristretta agli inizi del xii secolo e fra il 1153 e il 1156, concretizzandosi la minaccia di Federico Barbarossa, fu rimpiazzata da una nuova cortina, che insisteva sul perimetro oggi noto come “cerchia dei navigli”. Alla fine del Duecento anche questa si rivelò insufficiente per una popolazione che ormai sfiorava le 200.000 unità, sicché venne realizzata una nuova cinta, con fossati e terrapieni, che coincide approssimativamente con l’attuale “cerchia dei bastioni”.
A Pavia, vennero costruite due nuove cinte murarie agli inizi e alla fine del xii secolo, a riprova della rapidissima espansione della città, mentre a ovest del centro urbano, oltre il fiume, si sviluppava il sobborgo di Borgo Ticino, che verso la metà del xiv secolo fu unito al resto della città dal celebre (benché oggi malamente ricostruito) ponte coperto. A Mantova gli allargamenti successivi furono ben tre, dato che alla cerchia di età romana seguirono già verso il 1116 quella dell’età di Matilde di Canossa, quella del 1190, che raddoppiò la superficie urbana, unendo al vecchio centro cittadino i sobborghi occidentali e meridionali, e quella del 1250, che spinse ulteriormente a sud i confini della città. Sullo scorcio del xii secolo, anche Brescia costruì una nuova cerchia di mura, che includeva una vasta area posta a ovest della vecchia città romana, e Bergamo cinse con fossati e palizzate i numerosi insediamenti sorti a sud dell’attuale Città Alta. Particolare fu il caso di Lodi, il cui sito originario, troppo esposto alla minaccia militare milanese, nel 1158 fu spostato dall’imperatore più a est, in una località meglio difendibile e appoggiata al corso dell’Adda. Qui ancora oggi sorge la città di Lodi, mentre il vecchio insediamento è ora un borgo agricolo, chiamato Lodivecchio. Se la rifondazione di Lodi fu opera dell’imperatore, in altri casi furono i governi cittadini a promuovere operazioni di ampliamento dell’abitato. A Cremona fra il 1206 e il 1225 il comune concesse oltre 1.300 appezzamenti edificabili a nuovi abitanti, perché venisse popolata la cosiddetta Mosa, una zona abbandonata del Po e inclusa nella cinta difensiva costruita a partire dal 1169. Ancora più elaborata fu la grande addizione urbana progettata verso il 1237 dal comune di Brescia: a ovest e a sud del vecchio centro urbano, fra il 1237 e il 1249, furono disegnate e definite otto zone coerenti, attraversate da vie ortogonali fra loro, che praticamente raddoppiavano la superficie della città. Il responsabile dell’operazione, il frate umiliato Alberico da Gambara, riuscì a realizzare un piano organico di ampliamento, che ancora oggi è alla base della forma urbana della città. Il rinnovamento delle campagne Alla straordinaria crescita delle città corrispose un’equivalente vitalità delle campagne, che uscirono profondamente trasformate dal grande sviluppo successivo al Mille. Fra xi e xii secolo, nelle campagne lombarde boschi, pascoli e brughiere cedettero quasi ovunque il posto a campi di cereali, vigneti e prati irrigui. L’espansione dei coltivi era accompagnata dalla nascita di nuovi villaggi, situati nelle zone appena dissodate. Verso il 1074 sorse, nella vasta zona paludosa a nord-ovest di Cremona, il nuovo insediamento di Crema, che promosse la bonifica e la coltivazione delle terre circostanti
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Il nucleo originario di Bergamo (“Città Alta”) dal quale fra xi e xii secolo si irradiarono i sobborghi che diedero vita alla “Città Bassa”.
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Soncino, istituita quale borgo franco dal comune di Cremona nel 1118.
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e crebbe così rapidamente da assumere le dimensioni di una vera e propria città. Crema fu il caso di maggior successo, ma al lettore basterà prestare attenzione al gran numero di località chiamate Villanova o Borgonuovo che si incontrano nelle campagne lombarde per rendersi conto delle dimensioni del fenomeno. Molti altri antichi villaggi gemmarono nuovi insediamenti, dando origine a coppie onomastiche sopravvissute fino a oggi (Brembate di Sopra e Brembate di Sotto, Vanzago e Vanzaghello, Rescalda e Rescaldina, ecc.). A questi movimenti di popolazione, per lo più spontanei, si affiancò l’attività delle autorità cittadine, che a loro volta favorirono la nascita di nuovi villaggi, al fine di infittire la rete degli insediamenti, colonizzare territori ancora non coltivati e meglio controllare le aree periferiche dei contadi. In particolare, nei territori di Cremona, Brescia e Bergamo sorsero almeno una ventina di villaggi nuovi creati dai comuni urbani, fra i quali si possono ricordare Castelleone (nel cremonese), Romano di Lombardia (nella bergamasca) e Orzinuovi (nel bresciano). Altri insediamenti già esistenti, come Soncino, Asola o Pizzighettone, ricevettero invece privilegi fiscali ed esenzioni, che attirarono popolazione trasformandoli in grossi borghi. Da Milano alla bergamasca, da Lodi a Cremona a Brescia, si verificò una vera “conquista” della bassa pianura lombarda, che, da area boscosa e umida, costellata da stagni e paludi dove pascolavano maiali e greggi di pecore, si trasformò nel granaio dell’Italia del nord, intensamente coltivato e con vaste zone destinate al pascolo irriguo e all’allevamento bovino. Tale colossale opera di bonifica, protrattasi almeno per tutto il xii e il xiii secolo, fu resa possibile dalla messa in opera di una fittissima rete di canali che, con poche integrazioni successive, ancora oggi caratterizza il paesaggio della pianura lombarda. Le opere più imponenti furono promosse e finanziate dalle autorità cittadine, prime fra tutte quelle di Milano, che, subito dopo la grande vittoria di Legnano contro Federico Barbarossa, nel 1179, come orgogliosamente riportano tutte le cronache cittadine, intraprese lo scavo del Naviglio Grande, allora detto “naviglio di Gazzano”. In pochi anni di alacre lavoro, l’imponente canale fu deviato dal Ticino presso Tornavento e condotto in un primo momento fino ad Abbiategrasso, poi prolungato verso la città. Nel 1187, la maggior parte dell’opera era compiuta e agli inizi del Duecento vi sono le prime notizie dell’esistenza dell’attuale Darsena nei pressi di Porta Ticinese. Nello stesso arco di tempo, dal Ticino, fu derivato un secondo canale, il cosiddetto “Ticinello”, che partiva presso Ozzero e correva lungo il confine tra i comuni di Milano e di Pavia, per poi terminare nel Lambro meridionale pres-
so Landriano. Si noti che, contrariamente a quanto contrariamente si pensa, a fine Quattrocento Leonardo da Vinci venne in Lombardia a imparare e non a insegnare come si governavano le acque. Se i Navigli costituiscono le realizzazioni più note, non mancarono altre importantissime iniziative: all’inizio del Duecento il comune di Bergamo fece scavare un importante canale che collegava il Brembo e il Serio e quello di Cremona rese navigabile la cosiddetta Cremonella, mettendo la città in contatto diretto con il Po. Dal 1220, infine, il governo di Lodi promosse la realizzazione del grandioso canale di irrigazione della Muzza, ancor oggi uno dei maggiori d’Europa per portata d’acqua, che fuoriesce dall’Adda presso Cassano e vi rientra a sud di Lodi dopo un percorso di oltre 50 chilometri. Le grandi opere finanziate e realizzate dalle città costituivano la spina dorsale del nuovo sistema idrico lombardo, ma furono le migliaia di iniziative di scavo minori attuate dai privati o dagli enti minori a rendere la rete delle rogge così capillare e pervasiva come la possiamo vedere oggi. Nella Bergamasca come nel Milanese, complessi consorzi che riunivano comuni rurali, enti ecclesiastici e ricchi proprietari cittadini si crearono sin dalla metà del xii secolo per realizzare imponenti canalizzazioni, lunghe diversi chilometri, che servivano agli scopi più svariati. Oltre a drenare l’acqua in eccesso e a renderla disponibile per l’irrigazione, infatti, i canali permisero anche l’eccezionale sviluppo manifatturiero che rese la Lombardia la “fabbrica” d’Europa. Soprattutto nel settentrione della regione, sulle rogge che si dipartivano dai fiumi principali sorsero decine di impianti mossi dall’acqua. Noi siamo abituati a pensare a un Medioevo privo di “macchine”, in cui il lavoro si basava soltanto sulla fatica di uomini e animali, ma scordiamo in tal modo il possente apporto dell’energia idraulica, che muoveva, oltre ai mulini da grano, folloni per la produzione dei tessuti, magli per la manifattura metallurgica, seghe per la falegnameria e la carpenteria e altro ancora. I più grandi fra i canali, come i Navigli, erano infine usati per la navigazione, consentendo l’arrivo di materie prime in città e l’esportazione dei prodotti finiti. Fra i protagonisti dell’espansione agraria bisogna senz’altro ricordare i grandi monasteri cisterciensi, in particolare Morimondo e Chiaravalle Milanese. I Cisterciensi erano un ordine benedettino riformato, nato in Borgogna alla fine dell’xi secolo, che intendeva riproporre il lavoro quale elemento fondamentale della vita monastica. Esso conobbe un grande successo nell’Italia nord-occidentale, dove ebbe una grande espansione fra il 1120 e il 1150: in Lombardia, oltre alle due grandi fondazioni milanesi, vanno ricordate anche
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Capitolo quarto
Il Medioevo: città, chiese e castelli
L’importanza di Soncino non venne meno nei secoli successivi, come dimostra la poderosa rocca di età sforzesca. Pagine seguenti Corso di Porta Ticinese con la porta della cinta di età federiciana in primo piano e quella neoclassica dei bastioni in secondo piano, che marcano l’espansione della città fra il xii e la fine del xiii secolo. La Darsena e il Naviglio Grande che dalla fine del xii secolo metteva Milano in comunicazione con il Ticino.
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A fronte e nelle pagine seguenti L’abbazia cisterciense di Chiaravalle Milanese.
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le abbazie di S. Pietro in Cerreto, nel Lodigiano, e di S. Maria dell’Acquafredda di Lenno, in diocesi di Como, anche se queste ultime non ebbero il rilievo economico di Chiaravalle e Morimondo. La gestione delle terre appartenenti ai monasteri cisterciensi era generalmente organizzata tramite la creazione di “grange”, aziende agrarie formate da complessi edilizi isolati nelle campagne, circondati da terre di proprietà monastica, dove abitavano gruppi di religiosi (detti conversi) addetti alla coltivazione dei campi, all’allevamento del bestiame e talvolta a lavori artigianali. Queste aziende erano di notevoli dimensioni e potevano ospitare svariate decine di persone, dedite a una molteplicità di attività: nella grangia morimondese di Coronate, ad esempio, vi erano un refettorio e un dormitorio per i conversi, un laboratorio di tessitura, una cucina, un pozzo coperto, un fienile, alcune stalle per vacche e asini, magazzini e cantine per il vino e per il formaggio e un mulino, il tutto racchiuso da un muro di cinta. Le grange rappresentarono l’innovazione gestionale più nota introdotta nelle campagne lombarde del pieno Medioevo, ma non certo l’unica. Anche molti altri proprietari laici e religiosi fecero costruire imponenti centri di conduzione per le loro terre. Il grande sviluppo della cascina “a corte”, che ancora oggi caratterizza la pianura lombarda, risale all’età moderna, ma già nel Medioevo si moltiplicano le menzioni di cassine isolate nelle campagne fra Milano e Lodi, dove risiedevano i massari che lavoravano i campi o i pastori che conducevano al pascolo il bestiame. Il fenomeno non fu differente nella pianura di Bergamo, di Cremona e di Brescia, dove fattorie, case e, talvolta, torri isolate nelle campagne fra Due e Trecento punteggiavano il panorama agrario, spesso in connessione con operazioni di valorizzazione dei campi, come l’impianto di vigne o lo scavo di canali. Fra Lodi e Milano, in particolare, la costruzione di case e cascine fu legata a una grande mutazione colturale, la diffusione del prato irriguo che, con la sua abbondante produzione di fieno, permetteva tre sfalci all’anno e consentiva di nutrire un buon numero di animali di grandi dimensioni. A partire dal primo Trecento, si trova testimoniata la pratica della transumanza di grosse mandrie di bovini, che svernavano nelle cascine di pianura dove trovavano abbondante foraggio e d’estate salivano sugli alpeggi bergamaschi e bresciani. Il bestiame produceva a sua volta molto letame, grazie al quale era possibile concimare vaste superfici coltivate: questa piena ed efficace integrazione fra agricoltura e allevamento del bestiame rese indubbiamente le campagne della bassa lombarda le più ricche e produttive dell’Europa fra Due e Trecento.
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Gli spazi del comune A cavallo tra xi e xii secolo nelle città lombarde si sviluppò una nuova forma di governo, il cosiddetto “comune”, che prevedeva la partecipazione di tutti i cittadini maschi adulti alla vita politica, in forme tendenzialmente democratiche, con l’elezione annuale di un gruppo di magistrati, detti “consoli”, che dovevano occuparsi di guidare la comunità urbana e il suo territorio. Dai primi decenni del Duecento, i consoli furono rimpiazzati da un magistrato chiamato dall’esterno con carica annuale, il “podestà”. Sotto il regime podestarile i governi urbani aumentarono progressivamente le loro competenze, dotandosi di uffici stabili e di un apparato “burocratico” che gestiva la politica economica, il fisco e la giustizia. Uno dei primi segni di tale processo di rafforzamento del vertice comunale fu la costruzione di nuove e monumentali sedi per i governi cittadini, fino ad allora ospitati in edifici di fattura piuttosto modesta, spesso costruiti nei pressi delle cattedrali o dei palazzi vescovili, sui terreni collettivi chiamati “brolii”. I palazzi comunali – o, appunto, “broletti” – rappresentano l’eredità più visibile del passato comunale. Dagli esemplari più antichi, che risalgono agli anni a cavallo del 1200, a quelli più tardi, ricostruiti o rinnovati verso la metà del xiii secolo, i palazzi civici lombardi presentano una struttura costante, di là dalle singole declinazioni locali, ossia un vasto spazio porticato aperto sormontato da un’aula chiusa. Il palazzo era sempre in stretto rapporto con una piazza, della quale poteva poi costituire il centro (come a Milano) o, più spesso, rappresentare uno dei lati. Sotto gli archi si svolgevano i processi e le più importanti assemblee del consiglio, mentre i locali superiori erano destinati a conservare gli archivi pubblici, a ospitare riunioni particolarmente delicate nonché, ovviamente, a dare riparo ai consiglieri e ai funzionari nei periodi più inclementi dell’anno. Questa architettura aveva un forte valore simbolico, poiché voleva rappresentare visivamente l’apertura del comune verso la cittadinanza, invitata a passare dalla piazza alla loggia e ad assistere alle attività di governo che vi si svolgevano. Anche un centro non urbano e politicamente non autonomo come Monza si diede un proprio broletto (l’Arengario), strutturalmente identico a quelli delle città vescovili. Ai palazzi civici si affiancava di norma una torre (spesso un edificio privato riadattato), dalla quale la campana comunale chiamava i cittadini alle assemblee pubbliche o dava l’allarme in caso di emergenza. I broletti si ponevano in rapporto dialettico con le chiese cattedrali, alle quali contendevano il ruolo di centro simbolico delle città. La prima preoccupazione dei governi comu-
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Il broletto duecentesco di Milano (Palazzo della Ragione), con il sopralzo settecentesco.
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nali, in effetti, fu di acquistare le superfici su cui costruire i propri palazzi, in maniera da rivendicare, anche simbolicamente, la piena autonomia dell’amministrazione cittadina. Finché, infatti, gli edifici sorgevano sui terreni della Curia episcopale, quest’ultima avrebbe potuto rivendicare una sorta di tutela sulla costruzione e sull’ente che essa ospitava. Il broletto di Milano (noto come Palazzo della Ragione) fu costruito fra il 1228 e il 1233 abbandonando la primitiva sede del governo comunale, posta a fianco della cattedrale, in un momento in cui i rapporti fra il governo cittadino e gli arcivescovi erano piuttosto burrascosi. In quest’ottica, anche le poche centinaia di metri di distacco fra il nuovo palazzo e la cattedrale mandavano un segnale esplicito. Più spesso i broletti si affiancavano alle chiese episcopali, creando vasti spazi collettivi sui quali l’autorità civile del comune e quella spirituale del vescovo convivevano in armonia, almeno apparente. Così avveniva sulla piazza del Duomo di Como (il locale broletto risale al 1215) o a Cremona, dove il palazzo del comune e la nuova cattedrale furono terminati quasi contemporaneamente, agli inizi del Duecento, creando il centro monumentale della città assieme al Torrazzo e alla successiva Loggia dei Militi. Particolare, fu il caso di Pavia, dove il broletto, costruito nel 1198, fu ampliato nel 1236 proprio comprando una parte della residenza vescovile e annettendola all’edificio. A Bergamo, infine, il palazzo comunale, attestato già alla fine del xii secolo ma parzialmente ricostruito verso il 1250, dialoga soprattutto con la grande chiesa di S. Maria Maggiore, fondata verso il 1157 per iniziativa della cittadinanza e assunta a vero tempio civico di Bergamo, in sottile rivalità con le due cattedrali di S. Vincenzo e di S. Alessandro. Ben documentate sono le imponenti operazioni edilizie promosse consecutivamente dal comune di Brescia per valorizzare la propria sede. Il primo palazzo comunale era stato costruito nel 1187, su un terreno appositamente acquistato, con ampio uso di elementi lignei. Dimostratasi insufficiente la vecchia sede, fra il 1223 e il 1227 furono comprate nuove terre a ridosso della piazza del Duomo su cui furono costruiti due diversi palazzi, il “maggiore” (maius) e il “minore” (minus), che racchiudevano una vasta corte porticata e disponevano di almeno due imponenti torri. Nel 1298, ancora, il comune e il vescovo Berardo Maggi effettuarono un ulteriore ampliamento dell’edificio e soprattutto della piazza antistante, dando vita a un imponente apparato monumentale che rimase il cuore della città fino alla fondazione rinascimentale di piazza della Loggia. Il palazzo del comune si poneva in questo modo al centro di una rete complessa di edifici di rappresentanza. Quando il
popolo cominciò a esprimere proprie magistrature autonome, di norma queste trovarono alloggio in costruzioni poste accanto alle vecchie sedi del potere. Lo stesso poteva avvenire per i collegi dei giudici, dei mercanti o di altre importanti professioni. Inoltre, nelle piazze antistanti ai broletti si praticavano le più rilevanti attività commerciali, soprattutto la compravendita dei cereali, che dovevano svolgersi sotto il controllo e la sorveglianza delle autorità pubbliche. Una nuova religiosità La crescita delle città portò anche a un rinnovamento della vita spirituale, che prese forme specificamente adatte alle esigenze delle grandi comunità urbane, esprimendo una tipica “religiosità del fare” basata non più prevalentemente sulla preghiera, ma sulla predicazione pubblica, sul lavoro manuale e sull’assistenza. Tipicamente lombarda fu l’esperienza degli Umiliati, un ordine nato nella seconda metà del xii secolo. Affiancati da un folto numero di terziari laici, gli Umiliati si dedicavano a numerose attività caritatevoli e artigianali e sono particolarmente noti quali produttori di tessuti di lana. Una lista degli enti aderenti compilata alla fine del Duecento ci attesta il grande successo e l’imponente presenza dell’ordine nelle città dell’epoca: a Milano troviamo oltre trenta case entro le mura e il quadruplo nel contado, di cui dodici a Monza. Ve ne erano poi nove a Brescia, undici a Lodi, quattro a Como città e ventiquattro nella diocesi e via così. L’ordine fu soppresso nel xvi secolo da Carlo Borromeo e sui siti delle grandi fondazioni umiliate sono sorti successivamente importanti istituti culturali quali la Pinacoteca di Brera a Milano (appunto sul sito della casa della Brera) o il collegio Gallio a Como (soppiantando la casa di Rondineto). Nella prima metà del Duecento si diffusero in Lombardia anche gli ordini mendicanti dei Minori e dei Predicatori, meglio noti come Francescani e Domenicani, che avevano quale aspetto primario della loro vocazione l’installazione e la predicazione in ambito urbano. I loro conventi sorgevano di solito fuori dalle mura, nei sobborghi di nuova popolazione, possibilmente vicino a grandi vie di transito o di comunicazione. Spesso, anche se non sempre, gli insediamenti dei Minori, dei Predicatori e, talvolta, degli Agostiniani si disponevano in parti diverse della città, in una sorta di pacifica spartizione del territorio. In un primo momento, i medicanti si appoggiavano a chiese già esistenti e soltanto nella seconda metà del Duecento cominciarono a costruire i propri edifici di culto. Non era raro che questi ultimi venissero realizzati con l’appoggio dei governi comunali, come avvenne a Brescia, dove sia il convento dei Francescani (la cui chiesa è ancora oggi esistente) sia quello dei Domenicani furono co-
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L’Arengario e la torre civica di Monza. A fronte In dialogo con la cattedrale: la torre civica, il broletto e il Duomo di Como.
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Pagine seguenti Il broletto (Palazzo della Ragione) di Bergamo e l’antistante piazza civica (Piazza Vecchia).
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Torri familiari nel centro di Pavia.
struiti negli anni cinquanta del Duecento su terreni donati dalle autorità cittadine. Tipicamente collegata alla nuova spiritualità urbana fu infine la diffusione degli ospedali, di solito gestiti da religiosi o da laici riuniti in confraternite e destinati all’accoglienza dei malati, dei poveri o dei viaggiatori. Fra xii e xiv secolo nelle città lombarde sorsero decine di tali enti, nella maggior parte dei casi su spontanea iniziativa di cittadini generosi. Spesso i diversi istituti si specializzavano in differenti rami dell’assistenza: così ad esempio a Bergamo agli inizi del Trecento esistevano un ospedale dedicato ai lebbrosi (S. Lazzaro), uno ai malati mentali (S. Maria Maddalena), uno ai ciechi, uno ai poveri, uno agli orfani e almeno un’altra decina senza obiettivi specifici. Scrivendo alla fine del Duecento, il frate umiliato milanese Bonvesin de la Riva dimostra tutto il suo orgoglio per l’apparato assistenziale della sua città, ritrovandovi dieci ospedali per i malati poveri, fra cui l’Ospedale del Brolo, in grado di soccorrere contemporaneamente più di 500, adulti nonché di fornire balie a 350 bambini e di garantire l’intervento di tre chirurghi appositamente stipendiati dal comune. A questi, osservava Bonvesin, si aggiungevano altri 15 enti sparsi per il contado. Fra questi ultimi, vale la pena di ricordare quello di Monza, nato verso il 1174 grazie all’iniziativa di un ricco artigiano, Gerardo de’ Tintori, attivo nell’allora fiorentissima manifattura monzese della lana. Ancora oggi, l’ospedale del capoluogo brianzolo è dedicato a san Gerardo, dichiarando così orgogliosamente la sua diretta discendenza dall’esperienza caritativa medievale. I signori fra palazzi e castelli Dalla seconda metà del Duecento entrò in crisi quell’idea di un comune aperto e partecipativo così ben simboleggiata dai broletti di inizio secolo. Quale eredità della lunga guerra tra l’imperatore Federico ii e la coalizione dei comuni guidata da Milano e appoggiata dal papa, nelle città italiane rimase una profonda frattura tra le famiglie che si erano schierate con l’Impero (“ghibellini”) e con la Chiesa (“guelfi”). Il peso degli incessanti scontri politici e l’esaurirsi della grande crescita economica che aveva caratterizzato i decenni precedenti resero anche più aspri i conflitti sociali fra un’aristocrazia militare che intendeva difendere i suoi privilegi e la massa della popolazione dedita alle attività mercantili e artigianali e organizzata nel partito del “popolo”. In questo contesto di instabilità le maggiori famiglie cittadine tentarono spesso di assumere la leadership di una delle diverse parti che si contendevano il controllo del comune e di utilizzarla quale base per una propria affermazione personale. In quasi tutte le città lombarde, infatti, a cavallo fra Due e
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Trecento i conflitti politici si intrecciarono inestricabilmente con le ambizioni di alcune discendenze aristocratiche che si contendevano il predominio alleate a questa o a quella fazione: Visconti e Della Torre a Milano, Vitani e Rusconi a Como, Fissiraga e Vistarini a Lodi, Beccaria e Langosco a Pavia, Colleoni, Rivola e Bonghi a Bergamo, Maggi e Brusati a Brescia, ai quali si affiancavano le più consolidate dominazioni dei Cavalcabò a Cremona e dei Bonacolsi a Mantova. In tutti questi casi, una volta saliti al potere, gli esponenti più prestigiosi di tali famiglie si facevano riconoscere ampi poteri straordinari e un diritto di arbitrium che permetteva loro di scavalcare le procedure legali e di non render conto del proprio operato ai consigli comunali. Erano nate le signorie. Il segno più evidente di questa stagione di conflitti fu il sorgere o la diffusione di fortezze situate non più al di fuori, ma dentro le mura urbane. Fin dalla prima stagione comunale, le famiglie più eminenti avevano costruito torri a fianco delle loro case, quale simbolo di forza e di ricchezza. A cavallo fra Due e Trecento, però, queste si diffusero e divennero sempre più ampie e articolate, fino a diventare uno strumento della costruzione del potere signorile sulle città. Nel centro di Mantova, i Bonacolsi crearono un vero quartiere privato, acquistando un gruppo di palazzi stretti attorno alla grande Torre della Gabbia e collegandoli con muraglie, ballatoi e camminamenti. A Como, i Rusconi costruirono presso la piazza del comune la loro fortezza detta “della torre rotonda”, demolita poi agli inizi dell’Ottocento per far posto al Teatro Sociale. L’operazione più imponente fu compiuta a Milano da Azzone Visconti, che verso il 1330 fece edificare un grandioso palazzo fortificato, sull’area dell’attuale Palazzo Reale, che includeva la chiesetta di S. Gottardo, unico elemento sopravvissuto dell’imponente opera nella cui decorazione fu coinvolto anche Giotto. Nonostante le loro fortezze, i regimi signorili delle città minori non riuscirono a consolidarsi in maniera duratura. Minati dalle continue lotte interne, essi finirono con il collassare più o meno rapidamente di fronte alle ambizioni espansionistiche dei signori di Milano. In poco più di un ventennio, fra il 1334 e il 1358, tutta la Lombardia cadde nelle mani dei Visconti, con l’eccezione di Mantova, che a sua volta, nel 1328, era passata dal dominio dei Bonacolsi a quello dei Gonzaga. Simbolo del potere visconteo sulle città lombarde fu la costruzione delle cosiddette “cittadelle”, realizzate murando una parte della superficie urbana e destinando l’area così delimitata a residenza degli ufficiali signorili e dei consistenti reparti di militari a loro assegnati per mantenere l’ordine pubblico. Il messaggio mandato da tali fortezze era duplice: da un lato esse volevano rassicurare la popolazione sul fatto
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Mantova, l’attuale piazza Sordello, dominata dal palazzo ducale gonzaghesco, prima appartenente ai Bonacolsi. Pagine seguenti Mantova, il castello di San Giorgio.
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Il palazzo dell’Arcivescovado di Milano e il campanile della chiesa di S. Gottardo, ultimo resto del grande programma edilizio promosso da Azzone Visconti (1329-1339).
Pagine seguenti In primo piano, la cosiddetta Rocchetta Viscontea, edificata da Filippo Maria Visconti, nucleo originario dell’attuale Castello Sforzesco.
che la sottomissione ai Visconti avrebbe portato e garantito la pace, dall’altro era evidente la minaccia che la loro presenza rivolgeva verso ogni tentativo di ribellione o disubbidienza. Queste operazioni erano estremamente invasive e spesso traumatiche per la struttura urbana. A Como, ad esempio, Azzone Visconti fece fortificare tutta la parte nord-orientale del centro urbano, racchiudendovi i luoghi del potere, quali il broletto, il palazzo del podestà e forse anche la cattedrale. A Brescia fra il 1348 e il 1360 fu costruita un’imponente cittadella, che si raccordava al castello sul colle che domina la città e separava quest’ultima in due parti, incuneandosi nel mezzo quale blocco fortificato e chiuso, accessibile solo attraverso poche porte turrite. Non a caso, la gran parte di queste fortificazioni non è sopravvissuta alle ripetute crisi del dominio visconteo, delle quali i cittadini soggetti approfittarono per demolire tali sgradite presenze. In Lombardia è giunta fino a noi, proprio perché fu edificata nell’angolo occidentale della città senza stravolgere l’ordinamento urbanistico preesistente, soltanto la cittadella di Bergamo, fondata nel 1355 da Bernabò Visconti con il programmatico nome di “salda fedeltà” (firma fides). Ovviamente, anche Milano fu racchiusa dai Visconti in una vasta rete di fortificazioni, destinate a tenere sotto controllo gli eventuali tentativi di rivolta da parte degli oppositori e della popolazione. Già verso il 1334 Luchino e Azzone Visconti edificarono una cittadella nella zona di Porta Ticinese, che includeva la Darsena ed era collegata con una rete di passaggi protetti al grande palazzo turrito di Azzone, sito presso la cattedrale. Verso il 1360, Bernabò Visconti vi aggiunse una nuova imponente residenza fortificata, presso la chiesa di S. Giovanni in Conca, al quale il fratello e rivale Galeazzo ii rispose nel 1368 ordinando la costruzione del Castello di Porta Giovia, il nucleo originario dell’attuale Castello Sforzesco. Il dominio visconteo sulla Lombardia fece un salto di qualità nel 1395 quando Gian Galeazzo acquistò dall’imperatore Venceslao il titolo di duca di Milano. A Milano egli guardò con benevolenza la costruzione della nuova cattedrale, ma i suoi rapporti non sempre tranquilli con la capitale sono meglio simboleggiati dal fatto che dal 1392 Gian Galeazzo si impegnò nella costruzione di una cittadella nella parte occidentale della città, che, appoggiandosi sul Castello di Porta Giovia, giungeva fin quasi a S. Ambrogio. Costosissima e invadente, la fortezza fu abbattuta pochi anni dopo, alla morte del duca avvenuta nel 1402. Gian Galeazzo, in effetti, dedicò la sua attenzione soprattutto
a Pavia, dove risiedeva molto più volentieri che a Milano. Egli in particolare intendeva valorizzare a suo favore le tradizioni regie della città, che era stata la capitale del regno dei Longobardi fino all’anno 774 e poi la sede del governo imperiale carolingio e ottoniano. Già suo padre Galeazzo nel 1360 vi aveva edificato un grande castello e nel 1361 promosso la fondazione dell’Università. Gian Galeazzo investì forti somme nella ristrutturazione della fortezza, esaltandone gli aspetti residenziali a dispetto di quelli militari e facendone la sede della sua fastosa e vivace corte. Nel 1396, a breve distanza dalla città, egli finanziò la costruzione della grande Certosa, che voleva essere il vero tempio dinastico della famiglia viscontea, in contrapposizione con la coeva e “municipale” nuova cattedrale di Milano. Fra il Castello e la Certosa si estendeva il grande parco Nuovo visconteo, a un tempo riserva di caccia e giardino dedicato al diletto del duca e dei suoi ospiti. Gian Galeazzo morì improvvisamente nel novembre del 1402 e la possente costruzione territoriale da lui costruita si disgregò in un paio d’anni, sotto l’impulso delle città desiderose di riacquistare la propria autonomia e ostili alla costruzione di un vero e proprio ducato. Il figlio maggiore di Gian Galeazzo, Giovanni Maria, non poté che assistere impotente a tale processo, finché, nel 1412, fu assassinato. Soltanto con l’ascesa al potere del fratello, Filippo Maria, fu possibile una lenta, ma costante operazione di recupero territoriale che ricompose attorno a Milano un dominio di dimensioni regionali, pur se al prezzo di continue e costosissime guerre. È lo stesso biografo di Filippo Maria, l’umanista Pier Candido Decembrio, a sottolineare che il nuovo duca non promosse alcuna nuova costruzione a Milano, salvo l’ampliamento del Castello di Porta Giovia, nella parte corrispondente alle attuali Rocchetta viscontea e corte ducale, del quale, timoroso di fare la fine del fratello, fece la sua residenza stabile. In questo difficile inizio del Quattrocento, rimaneva spazio soltanto per le iniziative degli aristocratici locali, delle quali probabilmente la più importante fu quella compiuta dal cardinale Branda Castiglioni in quella Castiglione Olona di cui la sua famiglia era originaria. Fra il 1421 e il 1443 egli mutò radicalmente il volto del borgo facendo ricostruire la collegiata dei SS. Stefano e Lorenzo ed edificando ex novo una scuola, il battistero e la chiesetta di Villa. Sebbene le forme architettoniche guardino ancora al gotico, il cardinale affidò la decorazione interna a un gruppo di artisti toscani, guidati da Masolino da Panicale. Anche in Lombardia stava cominciando il Rinascimento.
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Tra fortezza e residenza di piacere: il Castello Visconteo di Pavia. Pagine seguenti Il tempio dinastico di Gian Galeazzo Visconti: la Certosa di Pavia.
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Capitolo quinto
Le cattedrali medievali: luoghi di culto, simbolo di potere e cuore della città Silvia Muzzin
La storia delle cattedrali lombarde è strettamente legata alle vicende storico politiche dell’Italia settentrionale nei secoli centrali del Medioevo. Con il crollo dell’Impero carolingio si sfalda anche il sistema sociale delle città italiane e, quando viene a mancare la figura portante del conte, l’unica in grado di sostituirla è quella del vescovo, che accresce il suo potere temporale durante il regno italico sino a gestire una vera signoria sulla città a metà dell’xi secolo. Immagine di tale signoria diviene il gruppo episcopale costituito dalla cattedrale, dal battistero e dalla domus episcopi, un’immagine che ancora impronta di sé le principali città lombarde costituendo il cuore storico dell’agglomerato urbano. L’impianto urbanistico attuale gravitante intorno alle cattedrali medievali di città come Milano, Brescia, Bergamo, Cremona, Lodi e Como pone però le sue radici negli avvenimenti legati alla diffusione del cristianesimo in età tardoantica, quando alla metà del iii secolo nel nord Italia Milano e Aquileia si costituiscono in diocesi. La situazione di Milano, sede metropolita e chiesa matrice di tutte le altre cattedre lombarde, è descritta dal punto di vista urbanistico-architettonico da Ambrogio, che nell’epistola lxxvi alla sorella Marcellina del 386 riferisce dell’esistenza a Milano di due basiliche, la vetus e la nova quae maior est. Similmente a Brescia tra iv e v secolo sorgevano nei pressi di un cardo viario dell’urbe romana S. Pietro, l’ecclesia maior e S. Maria, l’ecclesia minor; a Bergamo nel v-vi secolo la cattedrale di S. Vincenzo sorgeva ai margini del foro romano sito a Città Alta; a Cremona la chiesa episcopale della fine del iv-inizi v secolo si ergeva all’interno delle mura romane; a Como la prima cattedrale potrebbe essere stata S. Eufemia oggi S. Fedele, posta al centro della città murata e forse in regime di doppia dal v secolo con S. Pietro in Atrio, a essa parallela, e in asse con il battistero di S. Giovanni.
Lodi costituisce caso a parte, perché Laus Pompeia (Lodi Vecchio) venne distrutta definitivamente dai milanesi nel 1158 e ricostruita sul colle Eghezzone, sette chilometri a est dalla vecchia città, ma esisteva una cattedrale tardoantica intitolata agli Apostoli fondata da Bassiano nel 380, anche se non ne è stata rinvenuta l’originaria ubicazione. Inoltre nell’alto Medioevo la cattedrale di Bergamo (almeno dal 774 in base al testamento di Taido) si trovava in regime di doppia con S. Maria, le cui origini strutturali sono ancora celate sotto l’attuale struttura romanica, così pure la cattedrale di Cremona. Se ne conclude che alle soglie dell’anno Mille in Lombardia le città sedi episcopali, di cui oggi esiste l’edificio medievale, possedevano almeno una basilica paleocristiana in regime di doppia con altra basilica se non dalle origini almeno dall’alto Medioevo (due cattedrali in asse o parallele dotate di battistero che vengono utilizzate entrambe dal vescovo svolgendo funzioni liturgiche differenti e dall’epoca carolingia in periodi dell’anno differenti) e, laddove ne siano state ritrovate tracce, essa sorgeva entro le mura romane e nello stesso luogo dove ora si erge la cattedrale, con la sola eccezione di Como, dove la ricollocazione dell’edificio nell’xi secolo può essere stata determinata dallo spostamento dell’asse del centro cittadino e dallo spettro dello scisma tricapitolino che aveva coinvolto l’antica cattedrale. Dai documenti e dalle indagini storico-artistiche risulta inoltre che tali cattedrali vennero ricostruite tra xi e xii secolo, nel momento di massimo splendore della figura del vescovo. All’xi secolo si ascrivono Como (S. Maria) e Brescia (S. Maria), al xii secolo Cremona e Bergamo (S. Maria e S. Vincenzo). Le cattedrali di Milano subirono sicuramente dei rifacimenti in epoca romanica, ma non è possibile dire di quale entità. Mentre rimangono peculiari i casi tardogoti-
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Le cattedrali medievali: luoghi di culto, simbolo di potere e cuore della città
Pagine precedenti Milano, guglia maggiore e statua della Madonnina del Duomo. In queste pagine Crema, la cattedrale da nord.
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ci di Milano e di Como che ricostruiscono le loro cattedrali nuovamente, nonostante le fasi romaniche, sul declinare del xiv secolo, quando tali edifici non sono più solo l’immagine del potere vescovile, ma rappresentano anche il potere acquisito dalle nuove forze politiche in campo, i cives e il duca. Così il gruppo episcopale nel Medioevo, insieme al broletto, con la sua mole, le sue forme e il materiale di cui era costituito, si distingueva dagli altri edifici cittadini e se ne stacca ancora oggi. Dalle foto aeree è evidente come i nuclei urbani italiani si siano sviluppati dal cuore alla periferia per aggiunte di cerchie murarie, rispettando il centro propulsore di tali addizioni, ovvero la piazza su cui sorge la cattedrale. Osservandole dall’alto, quasi tutte mostrano dei tratti comuni: sono edifici a impianto basilicale a più navate con una facciata che rispetta la scansione interna delle navi per lo più in pietra e marmo. Le eccezioni icnografiche sono rappresentate da Brescia a pianta circolare e da Bergamo a croce greca (entrambe cattedrali minori, estive dall’età carolingia, riferibili alla domus episcopi e con medesima intitolazione), quelle tecniche dagli edifici della pianura padana, ovvero Lodi e Cremona realizzate in laterizio, ma poi parzialmente rivestite in marmo. Purtroppo di alcune sedi vescovili, come Pavia e Mantova, si è persa la facies medievale, ma le fonti archeologiche, documentarie e le poche sopravvivenze (per Pavia resti della cripta, del perimetrale sud di S. Maria del Popolo e fondamenta della torre civica; per Mantova il campanile e sussistenze dei perimetrali) avvertono che si trattava pur sempre di cattedrali doppie distrutte e ricostruite nel corso dei secoli e perciò escluse da uno studio che vuole dare conto dello stato di fatto di un’indagine aerea. Anche in questo caso le nuove cattedrali sorgono sulle vestigia delle antiche e rispettano l’impaginato urbano indicato. Anche Crema è dotata di una cattedrale gotica ma, essendo nata come collegiata e divenuta cattedrale solo nel xvi secolo, essa non trova spazio in questa breve trattazione, in cui gli edifici nati per ospitare la cattedra del vescovo sono indagati in ordine cronologico in base alla posa della prima pietra dell’ultima fondazione. A Brescia la chiesa di Sancta Maria Rotunda, affiancata alla mole del Duomo, doveva essere in origine di dimensioni contenute e ad aula unica, disposta a sud e parallela rispetto a S. Pietro, a tre navate (nella restituzione grafica di fine xvi secolo). In asse con S. Pietro sorgeva il battistero di S. Giovanni, quadrato all’esterno e ottagonale all’interno. La chiesa di S. Pietro venne distrutta e ricostruita a partire dal 1604, il battistero fu demolito nel 1625-27, mentre la chiesa di S. Maria sopravvive nella sua ricostruzione romanica.
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Brescia, facciata del Duomo ricostruito sulle vestigia della cattedrale di S. Pietro e della romanica S. Maria Rotunda. Le due chiese, antiche concattedrali, sono disposte affiancate e parallele.
Pagine seguenti Bergamo, facciata del Duomo ricostruito sulle vestigia dell’antica cattedrale di S. Vincenzo e veduta da occidente della basilica concattedrale di S. Maria Maggiore, della quale è visibile il tiburio, la cappella Colleoni e il suo innesto nel corpo di fabbrica del Palazzo Vescovile.
L’edificio per il suo rivestimento in conci di calcare di diversa pezzatura, caratterizzati da una calda cromia e disposti in corsi regolari, contrasta con la bianca intonacatura del Duomo. La chiesa a pianta circolare è dotata di un nucleo centrale e di un deambulatorio anulare, sul quale si innesta a est il coro ai cui fianchi aderivano due bracci in forma di transetto e un’abside semicircolare (l’aspetto attuale del corpo orientale è frutto di interventi successivi), mentre a ovest si inseriva sull’ambulacro una torre crollata nel 1708 a causa dell’indebolimento strutturale dovuto alla sua sopraelevazione e all’inserimento di un portale e di una loggia d’ingresso. L’aula destinata ai fedeli e l’ambulacro destinato al clero sono a piani pavimentali differenti (quello dell’ambulacro è più alto) e sono separati da sei pilastri a sezione trapezoidale (rimaneggiati nell’Ottocento), che reggono arcate a sesto ribassato, e da due setti murari a ovest che sorreggono una loggia posta a un piano pavimentale superiore, accessibile mediante due scalette, la cui funzione originaria è incerta. L’ambulacro è coperto da volte a crociera alternate a spicchi a botte, mentre il nucleo centrale da una cupola (realizzata in tufo e dotata di una galleria di alleggerimento) che si innesta su un alto tiburio. L’illuminazione è garantita da tre file di monofore, una realizzata sulle pareti d’ambito dell’ambulacro e due alla base e alla sommità del tiburio. Le monofore poste alla sommità (oggi tamponate) sono le uniche a doppia strombatura, alternate a oculi e inquadrate da sottili lesene che terminano in una cornice laterizia complessa a “dente di lupo” e archetti ciechi. L’edificio è dotato di una cripta, detta di S. Filastrio poiché accoglie le spoglie dell’omonimo vescovo, a tre navate coperte da volte a crociera rette da sostegni con capitelli fogliati in parte di recupero e in parte romanici, e da due vani estremi più corti coperti da volte a botte. La cripta, che si distende sotto il presbiterio sopraelevato, da cui vi si accede, è dotata di tre absidi. L’accesso all’edificio era garantito da due ingressi posti a nord-ovest e sud-ovest, attraverso il corridoio sottostante la loggia, mentre al deambulatorio si giungeva dall’esterno tramite un accesso posto a nord-est e dall’interno tramite due rampe di scale ubicate di fronte al presbiterio. La datazione dell’edificio è soggetta ad alcune oscillazioni: secondo alcuni la cripta sarebbe altomedievale e la chiesa risalirebbe all’episcopato di Landolfo ii (1002-30), secondo altri la cripta sarebbe un’aggiunta protoromanica e la chiesa sarebbe da riferirsi all’episcopato di Adelmanno di Liegi (1057-61). La sommità del tiburio, avente caratteristiche stilistiche proprie, potrebbe risalire alla fine dell’ xi secolo, inizio del successivo.
A Bergamo la cattedrale paleocristiana sorgeva sull’area dove oggi si eleva il Duomo filaretiano, adiacente al Palazzo della Ragione, posto a nord e prospiciente piazza Vecchia. Sul suo aspetto originario, sulla sua datazione e sulla sua ricostruzione medievale hanno fatto luce i recenti scavi archeologici. La basilica a tre navate del v-vi secolo venne rinnovata nel xii secolo modificando il sistema dei sostegni, mantenendo una copertura a capriate e ripartendo lo spazio interno in due zone, l’aula e il coro, grazie a un muro modulato in nicchie, intonacato e dipinto con teorie di santi ascrivibile al tardo xiii secolo, impostato su lastre di marmo di Zandobbio di recupero scolpite con motivi geometrici. La basilica concattedrale di S. Maria è ubicata a ovest rispetto a S. Vincenzo e parallela a esso, adiacente all’episcopio e a quello collegata tramite un ampio vano quadrangolare completamente affrescato. Venne costruita a partire dal 1137, quando era vescovo Gregorio (1133-46), sotto la direzione di magister Fredus. I lavori dopo una breve interruzione, riscontrabile facilmente nel cambio di materiale lapideo impiegato a metà altezza del transetto (arenaria in grossi conci ben squadrati simili a quelli impiegati per la fase romanica di S. Vincenzo prima, blocchi più piccoli e appena sbozzati di calcarenite dopo), proseguirono probabilmente fino all’inizio del Duecento con l’intervento di maestranze locali. Il braccio longitudinale della croce è ripartito in tre navate di due campate quadrate ciascuna a ovest, mentre il corpo orientale è dotato di una grande campata di coro affiancata da due più piccole per lato. Il braccio trasversale invece è costituito da una sola navata divisa in due campate per lato. I sostegni, oggi celati dalle superfetazioni barocche, erano irrobustiti in corrispondenza della campata d’incrocio, perché volti a sorreggere il tiburio, sottocupolato e costituito da due ottagoni sovrapposti con cuspide esagonale e galleria esterna. I bracci della croce dovevano avere copertura a capriate (come S. Vincenzo), mentre il presbiterio, i suoi collaterali e i matronei sulle navate laterali dovevano essere voltati. L’edificio è dotato di un’abside a est ripartita esternamente da monofore inquadrate da eleganti colonnine e da una galleria superiore, che poggia su una complessa cornice scolpita. Altre quattro absidi erano contrapposte a terminazione dei bracci del transetto (quella a nord-ovest venne demolita per l’inserimento quattrocentesco della cappella Colleoni). Gli accessi della basilica, infatti, non erano disposti sulla testata occidentale, poiché addossata all’episcopio. Tali ingressi impostati in epoca romanica vennero aggiornati nel xiv secolo al gusto gotico per valorizzare la chiesa. Il portale meridionale mantiene in parte la sua veste originale, scolpita da Cristoforo
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Le cattedrali medievali: Luoghi di culto, simbolo di potere e cuore della città
Cremona, facciata della cattedrale, affiancata dal Torrazzo sulla sinistra e dal battistero sulla destra. È visibile l’imponente transetto che taglia il corpo longitudinale della chiesa.
Pagine seguenti Cremona, particolare della facciata della cattedrale; veduta dall’alto del corpo orientale, con le tre absidi e la testata meridionale del transetto; veduta dall’alto della cattedrale, del Torrazzo e del battistero.
“de Entelevo”, artefice dell’apparato plastico della cattedrale e in parte è stato rivisitato dall’intervento di Giovanni da Campione nel 1351-53 e di Annex de Alemania all’inizio del secolo successivo. Il portale nord invece venne integralmente rifatto da Giovanni da Campione nel 1360, che completò anche il portale minore verso nord (1367) e realizzò il battistero (1340). Quest’ultimo, un tempietto ottagonale di matrice gotica, in marmi bianchi e rosa con sculture esterne e interne, ubicato originariamente all’interno della chiesa di S. Maria, sul declinare del xix secolo venne collocato nel cortile della Curia vescovile, in asse con il Duomo. L’aspetto attuale della cattedrale di Cremona, il cui prospetto di facciata è chiuso a sud dal battistero eretto nel 1167, e a nord dal Torrazzo, realizzato tra xiii e xiv secolo, non denuncia la sua origine paleocristiana poiché le sue vestigia sono scomparse nel sottosuolo per lasciare spazio all’assetto odierno della piazza dovuto alle demolizioni dei primi decenni del Novecento. Le cattedrali doppie sorgevano all’interno delle mura romane, probabilmente disposte parallele, con il battistero ottagonale a doppio guscio collocato tra di esse (iv-v secolo). Nel 1107 venne iniziata la costruzione della cattedrale romanica: la data è riportata sull’epigrafe, sorretta dai profeti Enoch ed Elia e realizzata da uno scultore wiligelmico (sacrestia dei canonici). L’edificio sarebbe stato abbattuto dal terremoto del 1117, secondo alcuni completamente, costringendo a un suo completo rifacimento sotto il vescovo Oberto da Dovara (1117-29), secondo altri parzialmente, innestando le nuove murature sul corpo orientale sopravvissuto. La chiesa ha impianto basilicale, scandita da tre navate a sistema uniforme con sostegni alternati, a sezione circolare e a fascio. Gli archi trasversali della navata centrale, sebbene manomessi, sono ancora quelli originali volti a sostenere una copertura a capriate, mentre le volte attuali sono del 13831413. Il sistema di copertura delle navate laterali, a crociera costolonata, potrebbe essere originale, oppure trattarsi di un arricchimento della nervatura semplice avvenuto nel xiii secolo. Il corpo orientale è costituito da un ampio coro affiancato da due campate laterali e chiuso da tre absidi semicircolari. La sua quota pavimentale si sviluppa sui due livelli del presbiterio e della cripta, ricostruita su quella romanica nel 1606, e sui tre delle cappelle absidali laterali. Il corpo longitudinale è intersecato dal monumentale transetto, scandito in tre navate da pilastri circolari con sistema di copertura a capriate sulle navate principali fino al xiv secolo e a crociera sulle laterali; come il corpo longitudinale anche quello trasversale è percorso da due matronei, che nella campata di incrocio si sviluppano come dei ponti con
doppio affaccio sulla chiesa. Le testate dei transetti, realizzate nel 1288 (nord) e nel 1342 (sud), ospitavano gli accessi all’edificio per il clero, quello sud aveva tre portali, di cui rimane solo quello centrale, rivolti verso l’episcopio, e quello nord ne aveva uno dotato di protiro gotico, rivolto verso la canonica. La facciata della chiesa, inquadrata da due torri scalari e circolari, solo nella fascia inferiore è stata realizzata in epoca romanica (portale e due coppie di arcate laterali), ma la sua conclusione è avvenuta nel Cinquecento. Nel 1274 Jacopo Porrata da Como la dota di nuove loggette e ne realizza il rosone. Il rivestimento del laterizio, con marmo di Carrara e di Verona, e il nartece non sono quindi pertinenti alla fase romanica. La fascia bassa della facciata ospita sculture di matrice wiligelmica ascrivibili alla costruzione del 1107 e reimpiegate sotto il portico attuale, mentre il portale, sebbene ricomposto e pertinente ad altro protiro, rispetto all’attuale gotico, sarebbe opera dello scultore Nicolò, intervenuto anche nei capitelli e nelle protomi delle gallerie dell’abside centrale. La cattedrale venne consacrata nel 1196 sotto il vescovo Sicardo (1185-1215), ma doveva essere operativa già da tempo, nel suo corpo orientale almeno dal 1159. Nel primo Cinquecento la chiesa venne alterata con modifiche e decorazioni. La cattedrale di Lodi sorse sulla piazza principale della nuova città, poi affiancata a nord dal palazzo del broletto e a est dall’episcopio. In quell’occasione la chiesa di S. Maria, individuabile oggi in prossimità della cascina Corte Bassa, a tre navate absidate, venne abbandonata. Quando nel 1163 le spoglie del vescovo Bassiano furono traslate nella nuova cattedrale i lavori dovevano essere a buon punto, almeno nel corpo orientale. La chiesa, realizzata in materiale laterizio (ad esclusione di alcuni dettagli architettonici come i portali), è a tre navate in sistema alternato scandite da pilastri a sezione circolare in mattoni a eccezione di quelli presbiteriali in pietra. Le due campate della navata centrale, coincidenti alle quattro delle laterali, sono precedute da una sorta di nartece interno, che modifica l’alternanza ritmica del sistema. La copertura è costituita da volte a crociera costolonate sulla nave principale e nervate sulle secondarie. Sulla navata centrale si affaccia un finto matroneo ritmato da bifore sormontate da oculi e monofore. Il corpo orientale è concluso da tre absidi semicircolari e al di sotto del presbiterio, delle absidi e di parte della campata centrale si estende la cripta (del xii secolo con manomissioni e ampliamenti successivi), a croce greca, voltata a crociera. Le absidi esternamente sono ripartite in specchiature da fasci di salienti a sezione semicircolare e al-
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Pagine precedenti Lodi, facciata della cattedrale affiancata al broletto, posto a sinistra, e prospiciente la piazza.
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la sommità sono alleggerite da un loggiato retto da colonnine in marmo bianco. Le zone inferiori dell’edificio sono state realizzate in epoca romanica, quelle superiori, le volte e parte della facciata risalgono al xiii secolo. L’impianto romanico della facciata è apprezzabile nella fascia inferiore, nel portale e negli archi in muratura laterali, affiancati da robuste semicolonne, mentre il protiro (a eccezione dei leoni stilofori romanici), e la parte superiore con finestre a vento, edicoletta apicale, ospitante la copia della statua in rame dorato di san Bassiano del 1284 (conservata all’interno), e cornice di archetti intrecciati arricchita da ciotole ceramiche (molte di restauro), sono gotici (1282-84). Il rosone e le bifore timpanate sono del 1506-09 e sostituiscono due bifore archiacute con oculo e due monofore. Il portale con la sua elegante strombatura modulata da salienti a sezione circolare e a torchon con i telamoni che reggono l’architrave, i busti dei progenitori nello sguancio, i capitelli figurati del protiro e la lunetta con il Cristo re fra la Vergine e san Bassiano, risalgono alla prima fase costruttiva della chiesa e sono opera di una maestranza appartenente alla cosiddetta scuola di Piacenza, come alcuni rilievi posti sui pilastri all’interno della chiesa. Tra le altre sculture, forse non pertinente all’edificio, merita di essere menzionata la lastra con l’Ultima Cena murata all’ingresso della cripta del xii secolo. Sulla prima campata meridionale, in linea con la facciata della chiesa, insiste la torre campanaria, ampiamente rifatta nel 1539-55 su progetto di Callisto Piazza. La chiesa subì una pesante trasformazione ad opera di Francesco Croce nel 1760-1764, eliminata durante il restauro stilistico del 1958-64 condotto dall’architetto Alessandro Degani, che fra l’altro spostò di una campata sul fianco nord il portale romanico, privato del suo protiro nell’xviii secolo, e riportò alla luce alcuni affreschi del xiv secolo. Il Duomo di Milano sorge nel 1386 come atto di volontà di Gian Galeazzo Visconti, insieme alla cittadinanza borghese e all’arcivescovo Antonio da Saluzzo (1380-1401) con l’intenzione di avere una cattedrale rappresentativa del crescente potere della città, in grado di gareggiare con le cattedrali tardogotiche europee. Il Duomo veniva così a costituire un caso unico nel panorama lombardo, sia per committenza, sia per ambizione, sia per progetto urbanistico, seguito solo in parte dal Duomo di Como. Infatti, all’interno di una città di circa centomila abitanti, chiusa entro una cerchia di mura fortificate protette da un fossato, per lo più realizzata in laterizio, la mole bianco-rosata di marmo di Candoglia dell’edificio doveva svettare in netto contrasto. Perché avesse il giusto respiro prospettico, si arriverà all’atterramento
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nel corso dei secoli non solo delle cattedrali più antiche, ma anche di tutti gli edifici che si trovavano sul luogo deputato alla costruzione, compreso il Palazzo Ducale, donato nel 1477 da Bona di Savoia alla fabbrica del Duomo. La basilica di S. Tecla, dedicata fino all’viii secolo al Salvatore, è stata indagata dagli scavi del Capitani d’Arzago e del Mirabella Roberti che ne hanno restituito la pianta basilicale a cinque navate con finto transetto a due navate, e unica abside, cui era collegato il battistero di S. Giovanni ad Fontes. La chiesa, rivisitata in epoca romanica, fu definitivamente abbattuta nel 1461-62. Della cattedrale di S. Maria Maggiore si conosce l’aspetto della facciata tardogotica e si sa che era in relazione con il battistero di S. Stefano: intorno a essa venne eretto il Duomo, con cui convisse per secoli, fino all’atterramento della facciata avvenuto nel 1683. Il Duomo è a croce latina, ripartita in cinque navate nel corpo longitudinale e in tre nel transetto leggermente sporgente. La navata centrale è suddivisa in otto campate rettangolari cui coincidono le quadrate delle laterali, il transetto in quattro campate e il coro in tre. Le navate sono scandite da pilastri a fascio coronati da capitelli a tabernacolo, forse realizzati su progetto di Giovannino de’ Grassi. Il sistema di copertura è a volte a crociera ogivale costolonata impostate su archi trasversali a sesto acuto pure costolonati, che permettono l’inserimento nella fascia alta di ogni campata di polifore chiuse da vetrate dipinte. Oltre il transetto le navate laterali proseguono affiancandosi alle campate del presbiterio e ospitano le due sacrestie del Duomo. Il corpo orientale termina in una sola abside poligonale priva di cappelle radiali e percorsa da un deambulatorio costituito dagli stessi pilastri delle navate. L’abside prende luce da ampie finestre ogivali chiuse dalle vetrate più antiche del Duomo (disegnate da Giovannino de’ Grassi e da Heinrich Parler). Sulla campata di incrocio del transetto, realizzata tra xv e xvi secolo su un primo progetto di Giovanni e Guiniforte Solari e un secondo progetto di Giovanni Antonio Amadeo e Gian Giacomo Dolcebuono, si innalza la cupola chiusa da un tiburio ottagonale su tre livelli digradanti, rinsaldato da contrafforti che terminano in guglie connesse da archi rampanti al pinnacolo centrale (realizzato da Francesco Croce nel 1750-75) con la statua della Madonnina, mentre ai lati del tiburio svettano le quattro guglie principali. I fianchi del Duomo sono ripartiti in specchiature dai possenti contrafforti, posti in corrispondenza dei pilastri interni, che isolano le alte polifore ogivali arricchite da vetrate dipinte e, partendo dallo zoccolo di base, proseguono in guglie scolpite e negli archi rampanti che si connettono al cleristorio. La facciata neogotica a capanna, secondo la tradizione
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lombarda, è ripartita in cinque specchiature (che riflettono la scansione interna dell’edificio) da contrafforti che inquadrano i tre portali di accesso alla chiesa, sui quali si aprono cinque monofore e tre polifore. L’edificio è impostato per creare un legame unico e inscindibile con la decorazione scolpita che riguarda sia l’interno che l’esterno e si esplicita in una profusione di statue e sculture che percorrono in modo diacronico la storia artistica del Duomo. All’inizio dei lavori vengono chiamati sul cantiere maestri stranieri, perché realizzino un progetto di respiro internazionale: fra gli altri Annex de Alemania, cui si deve forse il primo modello del Duomo, accanto a cui si registrano nomi italiani come Simone da Orsenigo (nominato nel 1387 ingegnere generale della chiesa). Della prima fase costruttiva, che termina nel 1392, sopravvive il corpo absidale, mentre quello longitudinale cresce nel corso del xvi e xvii secolo. La seconda fase, dal 1392 al 1402, sotto la guida di Giovannino de’ Grassi e Giacomo da Campione, dovrebbe essere segnata da un cambio di progetto che su un’impostazione planimetrica ad quadratum prevede un alzato ad triangulum (Gabriele Stornaloco), che rispetta il rapporto 1:2 tra altezza e larghezza. La terza fase dei lavori, iniziata nel 1402 e proseguita per tutta l’età borromaica, è ancora da intendersi come gotica perché ne rispetta il progetto. Alcune deroghe a tale impostazione verranno fatte da Pellegrino Tibaldi su incarico di san Carlo Borromeo, a partire dal 1567, per adeguare la chiesa ai dettami della controriforma. I lavori si chiudono ufficialmente con l’arrivo a Milano di Napoleone Bonaparte nel 1797 che incarica Leopold Pollack di progettare la facciata della chiesa. L’attuale cattedrale di Como sorge non sulle vestigia delle antiche basiliche, ma su quelle della cattedrale romanica di S. Maria consacrata nel 1083 dal vescovo Rainaldo (106284), ripartita in tre navate absidate e ubicata a ridosso delle mura romane, non distante dal lago, nel cuore del nuovo centro città, costituito dal broletto, dal pretorio, dall’episcopio, dalla chiesa romanica di S. Giacomo, forse la concattedrale, con la facciata allineata. La costruzione della cattedrale iniziò nel 1396, forse su progetto di Lorenzo degli Spazzi proveniente dal cantiere del Duomo di Milano, e dopo periodi di stasi e di ripresa si concluse nel 1730-44 con la cupola di Filippo Juvarra e la posa in opera dell’altare maggiore (1728). L’edificio è a tre navate ripartite in cinque campate per navata e scandite da dodici pilastri a fascio con capitelli che prevedono l’inserto delle figura umana nel fogliame e rivelano un’impostazione ancora di stampo romanico-lombardo. Le navate sono coperte da volte a crociera costolonata ogivali
e si innestano su un corpo orientale tricoro, ovvero tre absidi disposte a perpendicolo rispetto alla campata d’incrocio, su cui si innalza la cupola. Il linguaggio gotico è ravvisabile innanzitutto nell’impaginato progettuale, al quale è sotteso un impianto modulare basato sul quadrato, sia in pianta sia in alzato (la figura del triangolo equilatero regola la dimensione delle campate centrali, delle monofore che si aprono sui fianchi isolate dai contrafforti interni ed esterni) e la quota dei capitelli. Tale impostazione fu rispettata anche in seguito, sia nell’aggiunta delle due campate occidentali in marmo bianco di Musso, anziché nero di Olcio (come la prima fase della costruzione) a partire dal 1452 e del corpo orientale, realizzato da Cristoforo Solari dopo il 1513, sia nella facciata, terminata nel 1486 con la posa in opera del rosone di Luchino Scarabota da Milano e nell’allestimento della decorazione scolpita esterna, eseguita tra il xv e il xvi secolo per lo più da Tommaso Rodari. L’anomalia più consistente dell’edificio riguarda il restringimento delle prime due campate, che ha portato delle dissonanze nel ritmo dei contrafforti esterni e delle aperture (la prima monofora sul lato nord è cieca, i portali sono in posizione decentrata). Il cambio di progetto si deve alla possibilità, acquisita in corso d’opera, di allineare la facciata della cattedrale col broletto, posto sul lato nord. La facciata è a fronte spezzata, ripartita in tre specchiature da contrafforti, che coincidono alla scansione interna della chiesa in tre navate e isolano i portali. Tre portali di facciata e due sui fianchi garantiscono l’accesso alla chiesa, dotati di profonde strombature modulate in salienti scolpiti e di lunette figurate. Al di sopra del portale maggiore è inserita entro nicchie cuspidate una teoria di santi, mentre ai lati di esso, entro nicchie più ampie, si trovano le figure del valore civile della città; i contrafforti accolgono una profusione di statue e terminano con quattro svettanti pinnacoli. Al di sopra dei portali si inseriscono le ampie aperture da cui prende luce la chiesa, due monofore ai lati di quello maggiore, due bifore sui laterali e un rosone al centro. L’esterno della chiesa ospita quindi un programma iconografico che si ripartisce su tre livelli, quello terreno con numerosi prestiti dal mondo classico, quello di mezzo che esplicita l’idea della mediazione tra uomo e Dio e quello superiore della divinità. È chiaro che nessuna delle cattedrali medievali sopravvissute oggi è priva di manomissioni e superfetazioni successive, ma ciò che risulta evidente è che i secoli romonico-gotici, quelli in cui la figura del vescovo continua a incarnare il volto della città, sono quelli più attivi intorno agli edifici e al loro continuo arricchimento.
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Veduta della cattedrale di Milano nel contesto urbanistico attuale, vista dal fianco sud-est.
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Capitolo primo
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Veduta della cattedrale dall’abside poligonale con guglia maggiore e statua della Madonnina, e particolare dell’abside.
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Capitolo quinto
Milano, vista del fianco nord della cattedrale con testata del transetto e piazza antistante.
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Capitolo primo
Particolare dei tetti percorribili della cattedrale, del sistema degli archi rampanti e dei pinnacoli. Pagine seguenti La facciata della cattedrale in relazione con la piazza antistante, il Palazzo Reale e l’Arengario; a fronte, la facciata in una inquadratura ravvicinata.
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Le cattedrali medievali: luoghi di culto, simbolo di potere e cuore della cittĂ
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Capitolo quinto
Como, veduta della cattedrale da nord-est. Ăˆ visibile l’allineamento in facciata della chiesa col broletto, il corpo di fabbrica gotico e il suo innesto nel sistema tricoro delle absidi col tiburio realizzato da Filippo Juvarra.
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Capitolo sesto
Il Rinascimento Ferdinando Zanzottera
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Le istanze di rinnovamento quattrocentesco nel territorio del ducato di Milano si coniugarono, anche simbolicamente, con la necessità di razionalizzare il processo di gestione della cura sanitaria dei ceti meno abbienti, che condusse al superamento degli hospitalia, intesi come manifestazione prevalente dell’elemosina di matrice medievale. La grande innovazione lombarda, dunque, si ebbe nel delicato momento di passaggio tra la sconfitta dei Visconti e il ritorno degli Sforza, nel quale la Curia diocesana sentì urgente la necessità di risolvere i problemi connessi all’igiene e alla gestione finanziaria della sanità, attivando una riforma ospedaliera che coincise con una radicale innovazione del processo costruttivo e del linguaggio architettonico. Furono infatti le decisioni dell’arcivescovo milanese Enrico Rampini in merito alla gestione della carità ospedaliera a consentire l’inizio della transizione da un modello fondato sui luoghi pii, in cui si esercitava l’ospitalità dei viandanti e dei pellegrini, a luoghi di cura amministrati dalla civitas, in cui l’istituzione laicale acquisiva il ruolo di protagonista dell’assistenza sanitaria. Il processo di cambiamento si espresse negli atti arcivescovili databili 1445-47, approvati da Papa Nicolò v l’anno successivo, che nominavano una commissione per sovrintendere alla ridistribuzione delle rendite ospedaliere. Dopo un primo momento conflittuale con gli Sforza, nel 1456 venne fondato l’Ospedale Maggiore di Milano denominato Ca’ Granda dei Poveri di Dio che, a partire dal 1458, concentrò tutti gli ospedali esistenti in un’unica struttura, in ragione di un accordo stipulato con l’arcivescovo che ottenne l’approvazione di Papa Pio ii. Il compito di progettare il nuovo edificio fu affidato dagli Sforza ad Antonio Averlino detto il Filarete, che doveva rispondere all’aspettativa edificando un edificio «novum, amplum et generale», coincidente, nei fatti, con il program-
ma politico dei signori di Milano e che doveva trovare attuazione in una magniloquente architettura destinata a divenire modello tipologico universalmente riconosciuto. Al Filarete si riconosce la primogenitura compiuta della crociera: l’incrocio ortogonale di quattro corsie destinate ad accogliere gli ammalati. La straordinaria invenzione rinascimentale dell’ospedale lombardo in termini planimetrici si definì come una croce greca, coincidente alla crociera, inscritta in un quadrato. Al centro di questa era posto un altare sul modello delle precedenti aule ospedaliere, generalmente definite da semplici aule rettangolari. Il modello filaretiano determinò la creazione di quattro cortili quadrati ai quali il progettista assegnò una specifica funzione. Un processo che attesta un approccio essenzialmente razionale capace di generare una spazialità rigorosamente geometrico-matematica. Il progetto del Filarete, di cui il modello è stato consacrato ai posteri grazie alla descrizione contenuta nel suo celebre Trattato di Architettura (1464 circa) in cui descrive la città ideale denominata Sforzinda, non fu tuttavia interamente realizzato. Ancora oggi, infatti, dall’alto si possono cogliere pienamente i valori innovativi della fabbrica, poiché è questa la visione privilegiata che rende immediatamente percepibile la vastità del complesso architettonico in relazione al contesto urbanizzato della città e l’idea base della sequenze di tre corti. La Ca’ Granda dei Poveri di Dio, infatti, fu concepita come una corte molto vasta con al centro una chiesa, spostata in posizione secondaria in fase esecutiva, sulla quale si innestavano ai lati le due crociere (una per gli uomini e una per le donne) con i relativi cortili. Nel 1465 il Filarete lasciò Milano e il compito di continuare la realizzazione della sua opera passò nelle mani di Guiniforte Solari e, successivamente, a Giovanni Antonio
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Capitolo primo
Pagine precedenti Bergamo, cattedrale di S. Maria Maggiore e cappella Colleoni, complesso architettonico.
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L’arte rupestre camuna
In queste pagine Milano, Ca’ Granda dei Poveri di Dio ex Ospedale Maggiore, complesso architettonico con al centro il Cortile del Richini.
Pagine seguenti Milano, Ca’ Granda dei poveri di Dio ex Ospedale Maggiore, la parte centrale della crociera con ai lati due dei quattro cortili.
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Il Rinascimento
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L’arte rupestre camuna
Milano, chiesa di S. Eustorgio, la cappella Portinari con il caratteristico tamburo circolare.
Amadeo, con la reintroduzione di alcuni elementi di linguaggio goticheggiante. Sebbene gli studi sul trattato filaretiano condotti nei primi anni settanta da Liliana Grassi abbiano contribuito a mettere in moto un processo di indagine sulla genesi della Ca’ Granda, accresciuti in successive pubblicazioni, sono ancora discordanti alcune ipotesi sugli influssi che la cultura toscana ebbe sull’ambiente lombardo e sulle interconnessioni esistenti tra il cantiere e gli altri coevi ospedali italiani. Gli influssi dell’architettura ospedaliera rinascimentale milanese e, in particolare, del modello filaretiano furono enormi, tanto che Maria Antonietta Crippa ebbe modo di affermare: «La storia dell’architettura, italiana e lombarda ma con echi rilevanti in tutto l’Occidente, è profondamente segnata dall’eccezionale e celebre esperienza ospedaliera capostipite di tale innovazione, l’esperienza della Ca’ Granda, l’Ospedale Maggiore di Milano di matrice filaretiana». Influenze, ad esempio, si ebbero nell’Ospedale Maggiore di Lodi, del quale oggi rimane il bel cortile quattrocentesco. La sua progettazione fu affidata, secondo tradizione, a Giovan Battista da Comazzo e Beltramo da Pandino. In questo monumento gli influssi dell’ospedale milanese furono talmente grandi che Giuseppe Agnelli avanzò l’ipotesi di un intervento diretto del Filarete. Anche l’Ospedale S. Anna di Como fu influenzato dalla nascita del nuovo linguaggio tipologico milanese acquisendolo solo in parte, Qui si propose una crociera incompiuta a tre bracci, riprendendo dalla Ca’ Granda alcuni accorgimenti tecnico-impiantistici. Le ascendenze esercitate dall’Ospedale Maggiore di Milano non si limitarono ai soli casi quattrocenteschi lombardi, tanto che gli studi curati da Franchini documentano gli influssi che ebbe nei confronti dei nosocomi eretti negli stati limitrofi (ad esempio gli ospedali di Bergamo, Novara, Piacenza e Parma, tutti del xv secolo) anche nei secoli successivi (ad esempio Faenza, Torino, Vercelli, ecc.).
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Architettura religiosa La prima grande architettura sacra lombarda di cultura rinascimentale ancora oggi visibile è certamente la cappella Portinari di Milano fatta erigere dal direttore della sede milanese del Banco dei Medici, Pigello Portinari, come propria cappella sepolcrale e per degnamente rendere fruibile ai fedeli la sacra reliquia della testa di san Pietro Martire. La cappella, in realtà, sorse anche con la scopo del mecenate di ingraziarsi i favori dei signori di Milano, sottolineando i forti legami di salda amicizia tra la casata medicea e quella degli Sforza.
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I lavori ebbero inizio nel 1462 e si conclusero nel 1468 seguendo il progetto di un anonimo architetto che la tradizione era in passato solita indicare nel fiorentino Bartolomeo Michelozzi detto Michelozzo, ma che la critica più recente tende a individuare in un artista lombardo influenzato dalla più moderna lezione fiorentina. Tra i nomi proposti spicca quello di Guiniforte Solari, che in questo modo si porrebbe ancora più in evidenza quale figura di raccordo tra il perdurare in Lombardia della tradizione gotica e le prime timide aperture alla cultura rinascimentale volute da Francesco Sforza. Chiunque sia il progettista, è evidente che egli prese a modello la Sacrestia Vecchia della chiesa di S. Lorenzo a Firenze, edificata da Filippo Brunelleschi tra il 1420 e il 1428 e parzialmente ripresa nella seconda metà del xv secolo per l’edificazione della chiesa di Villa Branda a Castiglione Olona. Pochi anni dopo la conclusione della cappella milanese anche il capitano generale delle milizie veneziane di terraferma volle costruire un grandioso mausoleo familiare che simboleggiasse il prestigio e il potere raggiunto dalla sua casata. Tra il 1472 e il 1477, dunque, Bartolomeo Colleoni diede l’incarico a Giovanni Antonio Amadeo di edificare una nuova cappella accanto alla chiesa di S. Maria Maggiore a Bergamo. Dotata d’ingresso autonomo la cappella Colleoni di Bergamo costituisce uno dei principali esempi di architettura rinascimentale lombarda che, tuttavia, non giunse a tradire il legame con la tradizione locale. La spazialità proposta si basava su un volume a pianta centrale, la cui facciata si impone, per dimensione e quinta scenografica, all’attenzione urbana. Non è un caso che proprio in quegli anni la piazza del Duomo cercasse di imporsi come simbolo ed elemento propulsore della nuova città di Bergamo. A ricordare che la cappella Colleoni costituisca un elemento di passaggio tra il mondo tardo medievale e quello rinascimentale, vi è il forte valore ascensionale delle finestre che, secondo Liliana Grassi, costituisce più il tardivo esempio di un’esperienza gotica che l’acquisizione di un nuovo linguaggio compositivo. Quest’ultimo, infatti, si manifesta maggiormente nel rigore planivolumetrico della cappella e nella geometrizzazione degli elementi di facciata, tutta scandita dal rigido rispetto di un asse regolatore mediano. Prettamente rinascimentale, invece, è il valore simbolico dell’affermazione della cultura imperiale, grazie alla quale Colleoni cercò la propria legittimazione attraverso una sorta di legame mitologico. Egli sembra dunque mostrare alla nuova società della città di confine tra il ducato milanese e i possedimenti veneziani il suo status di patronus
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Pavia, Certosa, la chiesa monastica con la facciata cinquecentesca, preceduta dall’imponente Cortile d’onore.
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civitatis, acquisito grazie al valore militare, alla forza erculea dimostrata in battaglia e all’adesione incondizionata ai valori incarnati della Serenissima. Per comprendere pienamente l’architettura lombarda tardo-quattrocentesca e dei primi decenni del Cinquecento, occorre sottolineare l’adesione ai valori propugnati dalla trattatistica e dell’importanza che essa ebbe nell’operato di molti professionisti attivi in Lombardia, influenzati anche dalla lezione vasariana e cesariana. Sono queste, ad esempio, le istanze riscontrabili nella facciata cinquecentesca della Certosa di Pavia, conclusa da Cristoforo Lombardo dopo il 1542. L’importante monumento certosino, in realtà, aveva nella seconda metà del xv secolo già assistito a una timida adesione al linguaggio rinascimentale con la creazione di elementi spuri gotico-rinascimentali, riscontrabili in parte del Claustro parvo. Da questi si erano distaccati gli autori della facciata, realizzata nell’ultimo quarto del Cinquecento da una serie di artisti chiamati a operare in cantiere (Antonio e Cristoforo Mantegazza), ai quali ben presto si aggiunsero le maestranze volute dall’Amadeo. L’intervento in facciata assunse ancor maggior valore dopo la morte di Guiniforte Solari, al quale subentrò ufficialmente l’Amadeo solamente nel 1491, potendo apportare numerose modifiche al progetto, secondo anche la visione di Gian Giacomo Dolcebuono. Sebbene armonica, nella facciata del monastero certosino sono immediatamente percepibili le differenze stilistiche determinate dalle differenti fasi di esecuzione, e che si protrassero ben oltre la data di consacrazione della chiesa (1497), poiché era conclusa solamente sino alla loggia centrale. Assente era anche il portale, che fu realizzato dalla cerchia di Benedetto Briosco nei primi anni del Cinquecento inserendo una struttura sporgente con colonne binate e bassorilievi. Negli stessi anni in cui i signori di Milano promuovevano il cantiere della Certosa di Pavia, il cardinale Ascanio Sforza (vescovo di Pavia e fratello di Ludovico il Moro) dichiarò formalmente di volersi occupare del rinnovamento delle cattedrali pavesi di S. Siro e S. Maria Maggiore. Dopo una fase preliminare con proposte progettuali complesse, nel 1488 si giunse alla definizione di un nuovo disegno della fabbrica, alla quale erano stati chiamati a lavorare sinergicamente numerosi architetti posti sotto la direzione di Bramante. Tra questi Giovanni Antonio Amadeo e Cristoforo Rocchi. L’impegno profuso dall’architetto di formazione urbinate non si protrasse a lungo, ma bastò a influenzare il progetto lentamente realizzato nei secoli successivi. Gli storici, infatti, concordano nell’affermare che egli progettò una monumentale chiesa a pianta centrale, carat-
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Il Rinascimento
Pavia, Duomo, l’imponente struttura architettonica con il tamburo edificato nella seconda metà del Settecento e la cupola ottocentesca.
Pagine seguenti Mantova, Duomo, il complesso architettonico con la facciata progettata nella seconda metà del Settecento da Nicolò Baschiera.
terizzata da un forte valore ascensionale dell’abside, che si proponeva di coprire con un’enorme cupola ottagona ispirata direttamente alle costruzioni brunelleschiane. Al Bramante, tuttavia, si possono ascrivere direttamente solo i lavori per impostare la cripta, mentre ancora da chiarire rimangono gli apporti di altri celebri architetti rinascimentali quali Giorgio Martini e Leonardo da Vinci, che visitò certamente il cantiere nel 1490. La fabbrica pavese attesta comunque l’impegno quattro-cinquecentesco in ambito lombardo per la ridefinizione della spazialità e figuratività religiosa legate alle cattedrali che, per vastità dei progetti e molteplicità di fattori storici (ad esempio carestie, guerre, ecc.), spesso non coincise con la conclusione dei lavori. A oltre un secolo dall’inizio del cantiere la nuova cattedrale di Pavia era ben lungi da essere terminata, tanto che alla fine del Cinquecento si poteva considerare completato solo il corpo centrale della fabbrica. Il tamburo venne infatti eretto nella seconda metà del Settecento e la cupola fu aggiunta nel 1884. Un rinnovato impulso edilizio interessò nei medesimi anni altre cattedrali lombarde, tra le quali il Duomo di Milano, in cui il problema della copertura dell’incrocio tra navata e transetto costituì una sfida progettuale oltre che un problema tecnico-costruttivo. Intorno alla metà del Quattrocento Francesco Sforza dichiarò la sua intenzione di risolvere definitivamente l’annosa questione della copertura affidando l’incarico di studiare una soluzione a Guiniforte Solari. Dopo un acceso dibatto la proposta avanzata dal Solari fu accantonata e nel 1487 fu promulgato un concorso al quale parteciparono anche Bramante, Francesco di Giorgio Martini e Leonardo, che nel 1490 ritirò il suo progetto basato su una cupola a doppia calotta (quella interna ottagona e quella esterna quadrangolare). Nel medesimo anno tutti gli elaborati furono esposti al Castello Sforzesco e tra questi una commissione scelse il progetto più convincente che risultò essere quello di Giovanni Antonio Amadeo e Gian Giacomo Dolcebuono. Questi conclusero l’edificazione del tiburio nel settembre del 1500. Unitamente la Fabbriceria si occupò della continuazione dell’impianto scultoreo, nel quale è possibile osservare il cambiamento del linguaggio, spinto anche dalle novità introdotte da Giovanni Antonio Amadeo. Il lungo cammino rinascimentale del cantiere del Duomo milanese fu caratterizzato da una vastità di temi trattati e dalla coesistenza di professionalità assai differenti tra loro, talvolta spinti da un concreto desiderio di modernità, mentre altri ancora parzialmente ancorati alla tradizione tardogotica. A questo periodo di grande fervore ed entusiasmo seguirono anni
di estrema cautela e di difficoltà economico-progettuale, determinati anche dalla morte dell’Amadeo (1522) e dello Zenale (1526), oltre che dalle carestie e pestilenze che costituirono preludio di un periodo di incertezza politico-amministrativa. Nella prima metà del xvi secolo l’attenzione fu rivolta anche alla realizzazione della porta del transetto settentrionale, la cui costruzione fu iniziata solamente intorno al 1545 per proseguire nei decenni successivi sotto la direzione di Vincenzo Seregni. Un periodo poco fertile che rappresentò la premessa alla grande stagione borromaica e alla rivoluzione carlina, tutta imperniata sui valori della Riforma Cattolica post-tridentina e all’adesione alle Instructionum fabricæ et supellectilis ecclesiasticæ. Caso completamente differente è costituito dal Duomo di Como, che in epoca rinascimentale fu completamente rinnovato, trovando formale compimento solamente nell’xviii secolo. Dopo una prima fase d’innovazione, svoltasi nei primi decenni del xv secolo, il cantiere ebbe un nuovo impulso edilizio inebriato dalla nuova condizione conquistata dalla città. Fu dunque nella seconda metà del Quattrocento e nei primi decenni del secolo successivo che la cattedrale venne ampliata dimensionalmente, divenendo una struttura complessa dall’impianto tipicamente gotico e dalla spazialità originariamente rinascimentale. Una variazione alla quale lavorarono numerosi architetti, tra i quali l’Amadeo e Cristoforo Solari, il ruolo dei quali necessita ancora di essere chiarito. Ciò che tuttavia appare evidente è che l’ampliamento del transetto e la costruzione delle absidi sporgenti, capaci di generare la tipica conclusione triconca dal gusto bramantesco, segua una modularità geometrica attentamente studiata tanto da mostrare solide radici nel trattatismo dei decenni precedenti. Le stesse istanze di prestigio politico che animarono molti cantieri rinascimentali delle principali chiese e cattedrali lombarde è riscontrabile anche nel Duomo di Mantova, costruzione di origine paleocristiana ristrutturata da Giulio Romano intorno alla metà del xvi secolo. La trasformazione in gusto rinascimentale si limitò, tuttavia, alle strutture interne e lasciò inalterata la facciata realizzata con marmi policromi sul finire del xv secolo e l’inizio del secolo successivo. Facciata, peraltro, ridisegnata da Nicolò Baschiera tra il 1756 e il 1761. Dall’alto, dunque, la cattedrale non mostra evidenti i segni delle trasformazioni rinascimentali, avendo lo stesso Juvarra disegnato l’imponente cupola tardobarocca realizzata nella prima metà del Settecento. Malgrado il valore estremamente significativo dei linguaggi sperimentati nelle grandi chiese della regione, la prima vera rivoluzione rinascimentale lombarda si ebbe con l’arrivo a
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Milano, chiesa di S. Maria presso S. Satiro, il complesso architettonico con, al centro, la caratteristica cupola emisferica.
Pagine seguenti Milano, chiesa di S. Maria delle Grazie, il complesso architettonico e il particolare del tiburio a sedici lati progettato dal Bramante.
Milano di Bramante. A lui è tradizionalmente attribuita la ricostruzione dell’area absidale della chiesa di S. Maria delle Grazie che era stata edificata da Guiniforte Solari tra il 1466 e il 1490. L’edificio domenicano era stato infatti eretto grazie al sostegno di Gasparo Vimercati, generale delle milizie di Francesco Sforza, che voleva in questo modo legare il suo nome al Borgo delle Grazie, in cui abitavano molti esponenti della corte sforzesca, tra i quali le famiglie Atellani, Botta, Guiscardi, Medici, Stanga e Sanseverino. A pochi anni dalla chiusura del cantiere Ludovico il Moro incaricò Bramante di riedificare la tribuna e l’abside della chiesa impiegando un linguaggio più moderno e sontuoso, creando un collegamento ideale tra Milano e le altre grandi corti italiane. Il primo intervento fu rappresentato dall’inserimento nella facciata solariana di un contenuto protiro classicheggiante con lesene a candelabre e colonne che sorreggono una trabeazione con fregio a medaglioni sormontato da un arco a lacunari. La tribuna, invece, presenta un volume cubico sul quale si innestano il presbiterio e le absidi laterali. L’intera spazialità segue regole geometrico-proporzionali assai differenti da quelle solariane, sebbene i due corpi siano armonicamente relazionati. Esternamente Bramante inserì un tiburio a sedici lati poggiato su mensole ben evidenziate e ritmicamente ritmato da bifore architravate, colonne binate, incorniciature, timpani triangolari e oculi, ciechi o aperti. L’elemento che appare immediatamente percepibile è la predilezione per un linguaggio schietto in cui le stereometrie sono istantaneamente identificabili. L’impianto richiama alla memoria le scelte brunelleschiane operate presso la Sacrestia di S. Lorenzo a Firenze e, in maniera meno evidente, nella cappella Portinari nella chiesa milanese di S. Eustorgio. La ritmica presenza delle circonferenze e di altri particolari decorativi, inoltre, si collega direttamente ad altre opere di Bramante, quali la sistemazione interna della piccola chiesa milanese di S. Satiro. Tuttavia, proprio l’eccessiva sovrabbondanza decorativa presente in S. Maria delle Grazie fa pensare che all’architetto di formazione urbinate sia da ascrivere il disegno dell’impianto generale, realizzato da altre personalità minori, per le quali anche Maria Teresa Fiorio pensa allo Zenale o ad altri artisti. Al primo periodo di permanenza a Milano di Bramante, è invece da attribuire l’edificazione della chiesa di S. Maria presso S. Satiro, voluta da Galeazzo Maria Sforza per custodire l’immagine mariana in precedenza posta alla pubblica devozione all’esterno dell’edificio di culto. I lavori risalgono, dunque, all’ultimo quarto del xv secolo, quando
fu definita la chiesa con l’asse principale posto ortogonalmente a quello esistente nella piccola chiesa di S. Satiro. La chiesa fu dunque ideata a pianta taumata con tre navate, la cui spazialità trova eccezionale dilazione nell’invenzione del Bramante del finto coro prospettico, che si propone come una delle principali novità spaziali della modernità rinascimentale lombarda. L’incrocio tra navata e transetto fu risolto con la creazione di un’imponente cupola emisferica con slanciata lanterna, ben visibile all’esterno, nella quale si ritrovano motivi ricorrenti, come gli oculi ciechi. Accanto a questi capisaldi del Rinascimento lombardo nel xv e xvi secolo si aprirono numerosi cantieri nei quali la lezione del nuovo linguaggio espressivo trovò ampia applicazione. Nella chiesa di chiesa di S. Maria dei Miracoli a Brescia, ad esempio, in epoca coeva alla prima sistemazione della facciata fu definita la spazialità interna realizzando un vano quadrato sormontato da una cupola a base circolare. Un intervento al quale, dal 1521, seguì l’ampliamento con l’edificazione di altre tre cupole di matrice veneta e il rifacimento della facciata, conclusosi nella seconda metà del Cinquecento e nel xvii secolo. Qualche anno prima, invece, si ebbe l’apertura del cantiere di S. Maria presso S. Celso a Milano affidato a Gian Giacomo Dolcebuono, al quale fu affiancato nel 1494 Giovanni Antonio Amadeo. Negli ultimi anni del Quattrocento, dunque, in questa chiesa fu costruito il tiburio che, secondo Luciano Patetta, coincide con l’invenzione di un nuovo volume perfettamente cubico poggiante su quattro archi con pennacchi. Poco dopo (1504) nella medesima chiesa fu edificato il grande atrio, in passato attribuito a Cesare Cesariano e ora a Cristoforo Solari detto “il Gobbo”. Questo costituì un elemento fondamentale per l’evoluzione del Rinascimento perché, secondo quanto affermato in occasione del convegno internazionale del 1970 dedicato a Bramante, rappresenta il primo esempio milanese di classicismo pieno in cui il gusto per l’antico è reinterpretato filologicamente. Un intervento molto dibattuto all’epoca che si inserì in un progetto complessivo di rinnovamento dell’intera chiesa, al quale architettonicamente lavorarono numerosi artisti, tra i quali Bernardo Zenale, Cesariano e, a partire dal 1569, Galeazzo Alessi, al quale fu affidato il compito di rifare la facciata. L’architetto che sembra aver acquisito più di altri la lezione di Bramante e Leonardo è certamente Giovanni Battagio che tra il 1490 e il 1493 pose mano all’edificazione della chiesa di S. Maria della Croce a Crema, conclusa poco dopo da Antonio Montanaro. La chiesa, a pianta centrale, fu
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Il Rinascimento
Brescia, chiesa di S. Maria dei Miracoli, veduta del complesso architettonico con la sequenza ritmata delle cupole.
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pensata con un volume ottagonale che si rivela all’esterno come un imponente corpo cilindrico, la cui elaborazione formale è affidata alla scansione di fasce sovrapposte riccamente disegnate. La distribuzione interna degli spazi risente planimetricamente delle influenze dei modelli stellari leonardeschi, che qui sono stati reinterpretati dando vita a un originale impianto con quattro cappelle semicircolari disposte attorno al volume centrale, assegnandole anche forti connotazioni simboliche. Con quest’opera Battagio conferma la propria vasta cultura e la permeabilità della città di Crema alle riflessioni architettoniche quattrocentesche lombarde e, per quanto concerne le decorazioni interne, ai modelli già sperimentati a Brescia, Cremona e Venezia, dalla quale dipendeva politicamente. Molto più contenuta nell’esuberanza delle forme, ma non per questo meno significativa, è la chiesa di S. Sebastiano a Mantova detta Famedio. Questa fu costruita da Leon Battista Alberti a partire dal 1460 per volere di Ludovico Gonzaga attraverso un’elaborazione progettuale molto controversa, con significative variazioni avvenute in almeno due occasioni (1463 e 1470). Il disegno dell’edificio è qui impostato su un attento studio dei valori geometricoproporzionali e su un estremo rigore delle forme. La cultura albertiana, inoltre, nella sua personale ricerca del recupero della tradizione raggiunge in S. Sebastiano una delle maggiori testimonianze della cultura umanistica rinnovata nella classicità. Qui egli ripropose specifici elementi architettonici, come il frontone interrotto, posto in facciata, e la volta a botte, con richiami alla tarda romanità. Si tratta di un percorso già iniziato dall’Alberti nei decenni precedenti, che trova testimonianze anche in diversi suoi edifici (ad esempio S. Andrea a Mantova, Tempio Malatestiano a Rimini), con elementi attinti alla tipologia dell’arco di trionfo. Il rigore geometrico e la contenuta esuberanza decorativa esterna appartengono anche al tempio civico dell’Incoronata a Lodi, all’abbazia di Polirone a S. Benedetto Po e alla chiesa di S. Maria di Piazza a Busto Arsizio, quest’ultima sorta a partire dal 1517 su una preesistenza forse di origine trecentesca. Ognuno di questi edifici presenta peculiarità e specificità nell’interpretare il linguaggio rinascimentale, la cui matrice, a volte, è ancora storicamente da chiarire. Un destino che sembra accomunare numerosi edifici monastico-conventuali, di cui spesso non si è ancora riusciti ad assegnare con certezza la paternità, come nel caso della chiesa di S. Maria della Passione a Milano. Di questo edificio permangono incertezze sul nome dell’architetto che ideò la pianta a stella della tribuna, considerata da Luciano
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Patetta come uno degli esempi più significativi e raffinati del panorama quattrocentesco milanese. In altri casi le incertezze riguardano gli autori di tiburi quattrocenteschi, come per la Certosa di Milano (Garegnano), il cui vero splendore risiede nei più tardi apparati decorativi interni. Qui, infatti, lontano dalla lezione del primo Cinquecento, si cimentarono Simone Peterzano (1578-1582), allievo del Tiziano e maestro del Caravaggio, e Daniele Crespi (1629), che lavorò in piena adesione alle prescrizioni della Riforma Cattolica. Nella seconda metà del Cinquecento la cultura della Riforma Cattolica e l’impegno profuso da san Carlo Borromeo, autore anche delle Instructionum fabricæ et supellectilis ecclesiasticæ, e dalla Curia milanese influenzò notevolmente l’operato artistico non solo in ragione della committenza, ma anche per la diffusione di un clima intellettuale condiviso e di un nuovo modo di interpretare l’arte e l’architettura sacra. In alcuni casi questo humus culturale fece nascere o definì precisi elementi tipologici, come gli alti muri di separazione dell’area destinata ai fedeli da quella delle monache all’interno delle chiese monastiche femminili. Gli edifici liturgici sorti in epoca carlina, dunque, furono progettati o adattati per aderire alle nuove prescrizioni delle stesse Instructionum fabricæ, che superarono grandemente le indicazioni espresse sul tema da Bonifacio viii, Gregorio xiii e dalla stessa xxv sessione tridentina. La riforma religiosa carlina, che determinò una sostanziale variazione della cultura figurativa, si diffuse su tutto il territorio diocesano divenendo laboratorio di sperimentazione di nuove forme. Alcuni architetti divennero dunque i veri protagonisti e attuatori di questo epocale cambiamento. Tra questi Pellegrino Tibaldi che in quegli anni era attivo alla Fabbrica del Duomo, che diviene la protagonista privilegiata del cambiamento investita da una grande energia costruttiva. In termini prettamente architettonici il nuovo linguaggio ecclesiastico si definì attraverso un misurato fasto, divenendo il preludio dell’esplosione barocca. Fu questo un periodo di particolare fulgore e vividezza architettonica, nel quale si ampliarono, trasformarono, edificarono e ampliarono gli edifici esistenti, spesso riammodernati nelle facciate a causa del ruolo educativo e di memoria che esse svolgevano all’interno del paesaggio urbano. In questo modo il tardo Rinascimento lombardo, e più prettamente quello milanese, ebbe come caratteristica quella di porsi al servizio della sacralizzazione del territorio, influenzato anche dalle pestilenze e dalla cultura estetica pestante.
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Il Rinascimento
Mantova, chiesa di S. Andrea, il complesso architettonico progettato da Leon Battista Alberti.
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Il Rinascimento
Milano, Certosa di Garegnano, complesso architettonico con la sequenza del Cortile delle Elemosina, del Cortile d’Onore e, sulla destra, del chiostro della Foresteria.
Architettura fortificata e interventi urbani Come per l’architettura ospedaliera anche per l’edilizia fortificata il reale cambiamento rinascimentale avvenne nella seconda metà del xv secolo, quando le istanze culturali ed estetiche di matrice toscana e veneta trovarono un accresciuto interesse per la modernità interpretata da personalità significative quali Bramante e Leonardo da Vinci, giunti nel ducato lombardo rispettivamente nel 1479 e 1482. Inizialmente tale cambiamento si sviluppò in maniera lenta, soprattutto per le architetture militari, connesse alla riformulazione di interi sistemi difensivi, di cui i singoli edifici costituivano solamente i vertici funzionali e simbolici. Tra le azioni emblematiche più significative vi fu la conferma del Castello Visconteo di Pavia come palazzo per lo svago nobiliare. Un processo che avvenne inserendo l’originaria dimora di caccia trecentesca in una più vasta trasformazione del territorio già iniziata da Galeazzo ii Visconti. Secondo il cronista cinquecentesco Stefano Breventano autore del primo insediamento fu Bernardo da Venezia, artefice della chiesa di S. Maria del Carmine, che riuscì nella sua impresa anche grazie al “contributo” delle città poste sotto il controllo visconteo. Già nel 1366 l’opera si poteva definire compiuta avendo assunto, indipendentemente dalle sue forme prettamente architettoniche, una connotazione più simile ai palazzi nobiliari ed essendo stata dotata anche di una vastissima biblioteca, di una singolare raccolta di reliquie sacre e di significativi cicli pittorici. In epoca rinascimentale, dunque, si ampliarono le aree boschive di privata pertinenza senza per questo stravolgere le numerose attività agricole già esistenti nelle aree circonvicine, in parte donate alla Certosa di Pavia fondata dai Visconti nel 1396 per divenire un improbabile pantheon familiare, dato che le regole dell’ordine lo impedivano. Considerato un tipico esempio di architettura rinascimentale il Castello Visconteo possiede un impianto a corte quadrata con possenti torrioni angolari ed elegante e misurato cortile. Trasformatosi nel tempo, a Ludovico il Moro è da attribuire la decisione di affidare la decorazione di alcune sale interne a Leonardo da Vinci e al Bramantino. Se il Castello di Pavia costituì la conferma in epoca rinascimentale dell’impianto di governo del territorio da parte dei Visconti, che avevano legato l’immagine del prestigio raggiunto dal casato alla realizzazione di significativi cantieri dal dichiarato impianto gotico d’oltralpe (ad esempio Duomo di Milano e Certosa di Pavia), la ricostruzione sforzesca del Castello di Milano segnò un profondo cambiamento per la città. Dopo la costituzione dell’Aurea Repubblica Ambrosiana (1447) per colmare il vuoto di potere emerso
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Vigevano, la piazza commissionata da Ludovico il Moro nell’ultimo decennio del xv secolo.
dopo la morte di Filippo Maria Visconti, i “Capitani e difensori della libertà della illustre ed eccelsa città di Milano” decretarono la demolizione del castello visconteo acconsentendo, successivamente, all’ingresso in città di Francesco Sforza, subordinandolo alla promessa di non riedificare il Castello. Tuttavia a pochi mesi dal suo arrivo iniziarono i preparativi per edificare una nuova residenza-fortezza, concepita come affermazione del prestigio e della potenza militare ed economica assunta dalla famiglia degli Sforza. Ancora una volta artefice della trasformazione urbana fu il Filarete che, tra il 1451 e il 1452 subentrò agli architetti Marcaleone da Nogarolo e Giovanni da Milano, iniziando la ricostruzione del castello a partire dal fianco interno, quello cioè rivolto verso la città. All’architetto fiorentino è da attribuire con molta probabilità anche la costruzione di parte del Cortile della Rocchetta, corte a impianto quadrangolare con volte a tutto sesto e capitelli corinzi collocata nell’angolo nord-ovest del castello. Con un gusto decisamente più aperto agli influssi culturali provenienti dal centro Italia e dall’estero, furono fatti erigere i fabbricati voluti da Galeazzo Maria, asceso al potere nel 1466. Trasferita la sua residenza all’interno del Castello, egli fece edificare la Corte ducale posta nel quarto di nord-est e affidò a Benedetto Ferrini il compito di ingentilire le pareti esterne con graffiti geometrici. La nuova fabbrica fu concepita come corte aperta con alcune arcate, denominate poi Portico dell’Elefante (1472) e una loggia architravata con accesso al Salone delle feste. Questi lavori seguono di poco l’incarico affidato a Bonifacio Bembo (1469) di curare la decorazione delle sale interne, conclusasi quattro anni dopo. Con la reclusione Gian Galeazzo Sforza e l’ascesa al potere di Ludovico Sforza detto il Moro, il Castello divenne il prototipo degli agi cortesi rinascimentali in Lombardia. Scenografiche feste furono organizzate in molte occasioni, mentre nuovi arredi vennero commissionati per gli ambienti interni. È in questo periodo che giunsero a Milano Donato Bramante e Leonardo da Vinci. Il primo è autore di parte del Cortile della Rocchetta, della Ponticella (contenuto edificio che supera il fossato esterno del Castello) e dell’affresco nella Sala del Tesoro raffigurante Argo. Di Leonardo da Vinci, invece, sono i progetti di sistemazione urbana prospiciente il Castello e la realizzazione delle decorazioni della Sala delle Asse. In questo periodo lavorarono anche altri artisti chiamati da Ludovico il Moro, quali Butinone e Zenale, incaricati di dipingere la Sala della Balla. A seguito della caduta degli Sforza il Castello perse la sua funzione cortese a favore del ruolo prettamente difensivo,
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divenendo, in epoca spagnola, cittadella fortificata dotata di fossati, mura difensive, arsenali, serbatoi per l’acqua, magazzini, stalle, negozi, fonderie, infermerie e mulini, all’erezione della quale contribuì anche Vincenzo Seregni. Ben lontano da costituire un modello di città ideale quattrocentesco, il Castello di Milano per circa un secolo fu comunque considerato fortezza inespugnabile. Esso tuttavia non rispondeva più ai dettami culturali delle ricerche filaretiane, che trovarono applicazione nell’ideale Sforzinda, ma rifletteva i nuovi modelli del sapere militare, fondati sull’impiego della polvere da sparo. Con Sforzinda il nuovo Castello condivise formalmente solo l’impianto stellare seguendo dinamiche completamente differenti, non più simboliche ma funzionali-militari. Chi operò a scala urbana, spinto da forti ideali culturali, oltre che politici, fu Vespasiano Gonzaga. Seguendo tardivamente il sogno utopico degli intellettuali rinascimentali, egli decise di trasformare il piccolo borgo di Sabbioneta in città ideale. Secondo il cronista Ireneo Affò la progettazione della nova città sarebbe da ascrivere unicamente a Vespasiano che, invece, per la sua ideazione con ogni probabilità si avvalse dell’ingegner Giovanni Pietro Bottaccio e di altri collaboratori. Il centro mantovano fu edificato come città di fondazione in più riprese, la prima delle quali risale agli anni 1559-64. È dunque a questo periodo che è da ascrivere la fondazione di Palazzo Ducale e l’impianto stellare delle fortificazioni. A scala urbana è anche l’intervento eseguito a Vigevano, la cui piazza centrale fu concepita con lo scopo di rispondere alle usuali funzioni di luogo pubblico e di trasformare la residenza ducale in scenografia urbana. Essa riprende le teorie sullo spazio urbano unitario, amalgama tra pubblico e privato secondo le concezioni quattro-cinquecentesche, ampiamente discusse in ambito toscano da Brunelleschi e negli ambienti milanesi da Leonardo da Vinci e dal Bramante. La piazza vigevanese, dunque, si configura come rielaborazione del chiostro monastico al quale fu assegnato un inedito valore laico a scala urbana. Di forma più contenuta, ma non per questo meno significativa, è la realizzazione di piazza della Loggia a Brescia, creata in epoca rinascimentale secondo un preordinato progetto unitario. Essa costituì il campo di sperimentazione a scala urbana dei principi matematici che soggiacevano ai trattatisti del xv e xvi secolo. I lati della piazza, dall’evidente impianto rettangolare, sono uniti da un rapporto 1 a 2. Sulla piazza ancora oggi affaccia la Loggia, sede del Consiglio speciale dell’aristocrazia cittadina durante la dominazione veneziana, progettata da Galeazzo Alessi, Do-
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Capitolo sesto
Il Rinascimento
Sabbioneta, la città ideale con al centro la piazza principale sulla quale si affaccia la chiesa di S. Maria Assunta e il Palazzo della Ragione. Dal 2008 il sito è iscritto nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità dell’unesco.
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Capitolo sesto
nato Bramante (o un suo collaboratore), Jacopo Sansovino, Andrea Palladio, Giovanni Antonio Rusconi e Luigi Vanvitelli, sebbene i lavori vennero diretti da Filippo de’ Grassi e Lodovico Beretta. Sulla piazza insistono anche il Palazzo Notarile (1503-08) e l’edificio ionico porticato attribuito a Lodovico Beretta e realizzato da Pier Maria Bagnadore (1595).
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Palazzi e edilizia residenziale A differenza delle altre aree geografiche in cui la cultura rinascimentale si espresse compiutamente anche nell’elaborazione di un autonomo linguaggio per l’edificazione di sontuosi palazzi e ville private, in Lombardia la lezione del Rinascimento più maturo coincise con la volontà politica dei Visconti e degli Sforza di imporsi come corte illuminata capace di rivaleggiare con i principali stati coevi. Questa visione pubblica dell’architettura, dalla quale scaturirono i grandi progetti a scala urbana, si manifestò attraverso l’impiego della nuova lezione bramantesca e sfruttando pienamente l’inedito modello illuminato dell’uomo leonardesco che, in funzione delle esigenze del principe, era capace di trasformarsi in pittore, architetto, ingegnere militare, scenografo, urbanista, scienziato, scultore, ecc. In questo contesto era solo il principe che poteva eccellere e le famiglie patrizie erano costrette a sviluppare intimisticamente le proprie passioni per l’arte e l’architettura, favorendo eventualmente la creazione di cappelle private all’interno delle chiese o realizzando pantheon familiari necessariamente più contenuti rispetto alle scelte del signore della città. Questa visione intimistica dell’architettura, così lontana dalle ricerche sviluppate in ambito veneziano e romano per la definizione tipologica del palazzo signorile, sarà accantonata a Milano solamente in età spagnola, nella quale si svilupperanno nuove forme di attestazione del potere. Da episodio isolato dal forte valore introspettivo, il palazzo urbano familiare divenne momento privilegiato di una ritualità politico-simbolica, in cui anche la scena urbana diviene parte. Le dimensioni ragguardevoli degli edifici e la sovrabbondanza decorativa delle facciate divennero gli elementi essenziali di un nuovo linguaggio che, tuttavia, fu ben presto influenzato dalla lezione della Riforma Cattolica di san Carlo Borromeo che finì per suggestionare anche l’edilizia civile. Tra i palazzi più significativi del tardo rinascimento lombardo è da annoverare Palazzo Marino di Milano, voluto dal banchiere Tommaso Marino, che intorno al 1558 ne affidò la progettazione a Galeazzo Alessi. L’edificio fu ideato con il fronte principale traslato di 180° rispetto all’attualità,
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Il Rinascimento
con la facciata principale rivolta verso la futura piazza S. Fedele. Per affermare il potere raggiunto, il banchiere di origini genovesi richiese la realizzazione di un palazzo assolutamente fuori scala per la cultura milanese del xvi secolo, chiamando a operare l’architetto perugino del quale conosceva i risultati ottenuti a Genova. Alessi ideò un palazzo inedito rispetto alla tradizione lombarda, completamente isolato e con terrazze in copertura di origine tipicamente ligure. Planimetricamente il complesso fu pensato con un impianto rettangolare i cui centri distributivi erano il Cortile d’Onore e il Salone delle Feste, ora denominato Sala Alessi. Il primo era un ampio ambiente quadrangolare con un portico con colonne tuscaniche binate sormontato da una loggia con archi a tutto sesto caratterizzata da una complessa decorazione scultorea che, secondo Aurora Scotti, risente della cultura figurativa delle opere romane di Perin del Vaga, già attivo a Venezia prima del suo trasferimento nella città dei Papi. Nel cortile, di ampie dimensioni, furono realizzate le erme, alle quali si aggiunsero sfingi, mensole zoomorfe, festoni a motivi vegetali e mascheroni, oltre che una serie di bassorilievi mitologici di matrice ovidiana che narrano le imprese di Ercole. Inedita fu la soluzione adottata anche per il Salone delle Feste che, in contrasto con la consuetudine dell’epoca, fu collocato al piano terra. Questa scelta consentiva un ingresso diretto degli invitati secondo un’inedita ritualità d’accesso basata sull’impiego delle carrozze, per le quali erano state pensate anche parte delle decorazioni della facciata. Più sobrie erano state le scelte alessiane per le facciate esterne, che decise di rifarsi apertamente alla lezione rinascimentale romano-michelangiolesca, proponendo, secondo la visione di Christoph Luitpold Frommel, anche contatti diretti con Palazzo Farnese. Il palazzo, la cui costruzione fu interessata da pause dettate da molteplici interruzioni e riprese determinate da problemi dei proprietari, nella sua diversità divenne matrice culturale per numerose architetture milanesi della seconda metà del Cinquecento. Inimitato per molti decenni, invece, rimase il desiderio di un privato di edificare il proprio palazzo ragionando a scala urbana, divenendo, come nel caso immaginato da Marino, il perno di una rinnovata scenografia urbana. La costruzione di Palazzo Marino, sorto su un’area acquisita attraverso l’esproprio perché all’ambizioso progetto era stato riconosciuto il potere di accrescere il decoro cittadino, costituì il primo momento di un più ampio processo di trasformazione di una parte della città avvenuta nella seconda metà del Cinquecento, al quale contribuirono anche l’edificazione della Casa de-
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gli Omenoni (1565) e l’attigua chiesa di S. Fedele (1569). L’esperienza di Palazzo Marino costituì concretamente una decisa rottura con il modus operandi della tradizione residenziale rinascimentale ducale, poiché, sino ad allora, il modello di massima modernità al quale rifarsi era costituito dall’ampliamento e ridipintura delle facciate di edifici esistenti. Prototipo di questa tradizione è Palazzo Fontana Pirovano Silvestri a Milano. Già esistente nel xiv secolo il palazzo fu ampliato intorno alla fine del Quattrocento grazie all’operato tradizionalmente attribuito al Bramante, autore anche degli affreschi in facciata. Oggi la componente pittorica esterna è andata completamente perduta, ma permangono dettagliate descrizioni che ne attestano l’impianto classicheggiante e la presenza di caratteristiche lesene decorate “alla lombarda” e di raffigurazioni di “giganti”. Connessa con il desiderio di riqualificazione di una parte della città, invece, è l’edificazione della Casa degli Omenoni, voluta come abitazione privata dallo scultore Leone Leoni, che giunse a Milano nel 1542 a causa di problemi con la giustizia. Rimasto in abitazioni provvisorie per alcuni anni nella seconda metà del Cinquecento, l’artista progettò la sua nuova dimora milanese, che doveva fungere anche da cenacolo culturale e da galleria delle opere d’arte da lui collezionate. Tra i molti beni che era solito mostrare vi erano copie di sculture classiche e dipinti di Tiziano, Parmigianino e Michelangelo, oltre che un codice e disegni di Leonardo da Vinci. Si trattava, dunque, di una collezione particolarmente significativa per il grande interesse che questi
artisti risvegliavano ancora nel periodo del Rinascimento lombardo maturo. Il rango e la notorietà raggiunta da Leone Leoni imposero la realizzazione di un edificio riconoscibile all’esterno e, anche per questa ragione, dopo averli disegnati affidò a Antonio Abbondio detto l’Ascona la realizzazione di otto telamoni, popolarmente noti come Omenoni. Il piccolo palazzo, di cui integra oggi appare solo la facciata, fu pensata con un fronte scandito in due fasce orizzontali sovrapposte e sette scomparti verticali. Nel piano inferiore, caratterizzato da una finitura a bugnato e la presenza di nicchie a tutto sesto e finestre con timpani triangolari spezzati, trovarono collocazione gli otto imponenti telamoni raffiguranti barbari sconfitti. La loro matrice è da ricercare nella Tomba per Giulio ii disegnata da Michelangelo e negli scritti vitruviani che parlano del Portico persiano (porticus persica), la cui struttura era sostenuta da statue raffiguranti i nemici di Sparta nelle loro vesti barbariche. Nel piano superiore colonne ioniche incassate nell’apparato murario inquadrano nicchie e finestre dalle fogge alternate. Al centro del fregio sommitale un altorilievo raffigurante l’allegoria della Calunnia divorata da due leoni, evidenti richiami alla casata. Ricca di alti riferimenti culturali e influenzata dagli ambienti figurativi del centro Italia, la facciata destò molto interesse nei contemporanei. Lo stesso Vasari così la descrisse: «Lione, per mostrare la grandezza del suo animo, il bello ingegno che ha avuto dalla natura, e il favore della fortuna, ha con molta spesa condotto di bellissima architettura un casotto nella contrada de’ Moroni, pieno in modo di capricciose invenzioni, che non n’è forse un altro simile in tutto Milano».
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Capitolo sesto
L’arte rupestre camuna
Brescia, piazza della Loggia, lo spazio urbano regolamentato da precisi rapporti geometrici.
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Capitolo primo
Il Rinascimento
Milano, Palazzo Marino, il complesso architettonico prospiciente piazza della Scala con la facciata “restaurata” da Luca Beltrami nell’ultimo quarto del xix secolo. Pagine seguenti Milano, chiesa di S. Fedele, il complesso architettonico inserito nell’attuale contesto urbano già trasformato radicalmente nella seconda metà del xvi secolo.
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Capitolo sesto
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Il Rinascimento
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Capitolo primo
Capitolo settimo
Lombardia dall’alto: barocco e barocchetto Luisa Erba
Lo Stato di Milano nel Seicento e nel primo Settecento è dominio spagnolo. Comprende la sponda occidentale (ora piemontese) del lago Maggiore fino al Canton Ticino, a est il confine è costituito dal corso dell’Adda, come ricorda Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi, quindi rimangono escluse città come Brescia, Bergamo e Crema. Sono due le tipologie di interventi pensate fin d’allora per essere viste dall’alto: i Sacri Monti e i giardini. I primi svelavano al devoto il tracciato del percorso e il ritmato disporsi delle cappelle solo quando giungeva sulla cima; i secondi erano apprezzabili nella complessità del loro disegno dall’alto delle logge o delle finestre della villa, o del castello cui erano pertinenti, mirabilmente rappresentati nelle incisioni settecentesche di Marc’Antonio Dal Re. Nel campo dell’architettura i pur numerosi palazzi e le chiese potevano essere visti dall’alto solo dai campanili, o dalle torri, o dal cantiere di qualche cattedrale. Forse anche per questo per chi oggi guarda dall’alto l’architettura, i segni visibili del Barocco non sono molti: poche costruzioni sono immediatamente riconoscibili grazie agli inconfondibili contorni curvilinei, come la Rotonda della Besana a Milano, o la facciata di quelle chiese che dominano piazze spaziose, come quella del Duomo di Vigevano, o infine i palazzi messi in evidenza grazie alla demolizione degli isolati antistanti come il Palazzo Mezzabarba di Pavia. I Sacri Monti I Sacri Monti sono una presenza caratterizzante della Lombardia alpina. A parte il vicino Piemonte e un isolato caso toscano (Montaione), il fenomeno è tipico dell’area lombarda, da mettersi in relazione con l’azione pastorale dell’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, cui Giulio
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Crespi riconosce «la volontà di segnare il territorio» con una robusta «azione pianificatoria e riorganizzativa», da riferirsi naturalmente all’ampia estensione della sua diocesi. Il programma sarà portato avanti dai suoi successori nel corso del Seicento, e con particolare vigore dal cugino Federico. Ideati dai francescani, Custodi di Terrasanta, come pellegrinaggio alternativo (a cominciare da Varallo), dopo il Concilio di Trento i Sacri Monti assumono anche la nuova valenza di baluardo contro l’espansione del protestantesimo e sono la concreta espressione di una politica di sacralizzazione del territorio. La progettazione di ogni singolo sacro monte si avvale di un disegno complessivo giocato sulla base del percorso, al quale far corrispondere una narrazione che è insieme didascalica e iniziatica, di coinvolgimento e di meditazione, i cui capitoli corrispondono alle tappe del cammino, cioè le cappelle, in ciascuna delle quali viene messo in scena, con statue policrome a grandezza naturale, un episodio dei Vangeli o delle vite dei Santi. Alla progettazione dei Sacri Monti è sotteso un modello di giardino iniziatico, inteso cioè a far conoscere il mistero (la Resurrezione, la remissione dei peccati e la vita eterna), in un cammino da compiersi con impegno e fatica, metafora del viaggio interiore. Il percorso complesso del sacro monte è stato talvolta assimilato al labirinto (è il caso di Varallo), grande archetipo del percorso iniziatico, realizzato con l’intenzione di coinvolgere e convincere per mezzo di un’opera di trasformazione architettonica della natura, rivolta a rendere manifesto il divino. La varia simbologia di riferimento è stata affrontata da Gilberto Oneto: il monte come luogo di ascesi; la scala a indicare la progressione del sapere; la porta come segno concreto del passaggio; la fonte come elemento di vita e di purificazione.
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Capitolo settimo
Lombardia dall’alto: barocco e barocchetto
Pagine precedenti Il Sacro Monte di Varese. Dal 2003 il sito è iscritto nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità dell’unesco. In queste pagine Varese, Sacro Monte: percorsi rettilinei ad angolo acuto e cappelle a pianta centrale con copertura in cotto. Arona, il Sacro Monte dedicato a Carlo Borromeo. In basso il santuario progettato da Francesco Maria Richini; in alto a destra, alla sommità della lunga rampa, la statua colossale di Carlo Borromeo, visitabile anche all’interno fino a una piccola finestra aperta sulla schiena del Santo, che affaccia su un’ampia veduta del Lago Maggiore. Dal 2003 il sito è iscritto nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità dell’unesco.
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Capitolo settimo
Il fenomeno trova il suo epigono a Torricella Verzate dove, ormai nel tardo Settecento, intorno al sagrato del Santuario della Passione, viene realizzata la sequenza delle cappelle della Via Crucis (l’autorizzazione per la loro costruzione viene concessa nel 1777). Il Sacro Monte di Orta (dal 1590) Il piano generale dei lavori è redatto dall’architetto francescano Cleto da Castelletto Ticino, allievo di Pellegrino Pellegrini, in stretto contatto con il vescovo di Novara, Carlo Bascapè, che, nel ruolo di feudatario della Riviera d’Orta, dopo aver istituito un’apposita Fabbriceria (1593), si preoccupa di controllare ogni fase dei lavori e di indicare le scene da rappresentare all’interno delle cappelle. Queste, a pianta centrale, sono per lo più affrescate anche esternamente, e spesso dotate di protiri o portici destinati a proteggere la sosta dei pellegrini in preghiera. Le membrature architettoniche sono spesso realizzate con graniti o serizzi provenienti dalle cave della zona, come le lastre in pietra grigia utilizzate per le coperture. L’arco d’ingresso, caratterizzato dal timpano arrotondato contenente le insegne francescane, ha presente l’opera dell’architetto Giuseppe Bernasconi al Sacro Monte di Varese, ed è sormontato dalla statua di san Francesco, come richiesto dal vescovo di Novara Giulio Maria Odescalchi, in occasione della visita pastorale del 1666. Il complesso infatti è dedicato a S. Francesco, che è proposto come modello della sequela di Cristo, e pertanto nelle cappelle sono rappresentati gli episodi della sua vita. Nel 1767 il vescovo di Novara cede il suo feudo ai Savoia; restituitogli dal Congresso di Vienna, il nuovo vescovo lo dona nuovamente ai Savoia.
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Il Sacro Monte di Varese (1605-80) Promosso dal frate francescano Giovanni Battista Aguggiari e concepito sotto la guida di Federico Borromeo, il Sacro Monte di Varese è progettato dall’architetto Giuseppe Bernasconi, che prevede la realizzazione di quindici cappelle dedicate al ciclo dei misteri del rosario, intervallate da tre porte (archi di trionfo). Nel documento Forma dell’erretione della fabrica […] del Sacro Monte sopra Varese si legge, tra l’altro: «Si procurerà di piantar molti alberi nella strada maestra, et nelle laterali, et anche intorno alle Capelle già fatte, et nelli luoghi dissegnati da farsi […] A tutte le porte ci sia una, o due fonti». Come in ogni giardino, non è sottovalutata l’importanza dell’acqua, che è condotta da un monte vicino per mezzo di lunghe canalizzazioni sotterranee in terracotta. Le fontane,
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sapientemente distribuite nei punti chiave del percorso, in corrispondenza con i tre accessi ai tre gruppi di Misteri del S. Rosario, sono realizzate secondo una tipologia diffusa nel giardino barocco: entro una nicchia, concepita come un fondale architettonico, completata con statue o dipinti, l’acqua compie un unico o un doppio salto in vasche di granito. Dall’alto si coglie il tracciato di rettifili che si piegano in angoli acutissimi e le eleganti cappelle a pianta centrale, con cupole racchiuse dai rispettivi tamburi e coronate spesso da sottili lanterne. Il Sacro Monte di Arona e il Sancarlone (dal 1614) Proprio a Carlo Borromeo, che aveva visitato Varallo nel 1584, viene dedicato ad Arona un Sacro Monte incentrato su di lui. La realizzazione, nel luogo di nascita di Carlo, viene avviata per iniziativa del padre oblato Marco Aurelio Grattarola, e sostenuta dal cardinale Federico Borromeo. Una mappa del 1622 documenta il primitivo progetto per il Sacro Monte di Arona, completamente recintato e caratterizzato da un percorso che si snoda sul pendio come un’enorme “S”; tre archi trionfali (come a Varese) avrebbero dovuto suddividere le tre porzioni, ciascuna con cinque cappelle dedicate a episodi della vita attiva e contemplativa di san Carlo. Le fonti confermano l’impegno progettuale rivolto all’intero contesto territoriale. In una lettera del 1621 padre Benedetto Avogadro chiede a Federico Borromeo «che mandi qua l’ingiegnero per livellare il luogo per cui habbiamo a condurre l’acqua» mentre si provvede a «fare piantare quattrocento pini intorno alle strade». Nel 1627 viene chiesto a Francesco Maria Richini, estensore forse del progetto di massima, di «disegnare i lochi da piantarvi le piante». Il progetto rimane interrotto con la peste di Milano e quindi per la morte di Federico Borromeo (1632). Solo alla fine del secolo (1698) sarà eretta la statua, di dimensione colossale (23,50 metri), sull’alto piedistallo disegnato da Carlo Fontana (11,50 metri), alla sommità di una rampa, posta a conclusione del percorso. Progettata da Giovan Battista Crespi, il Cerano, la statua è realizzata in rame e bronzo (la testa e le mani) da Siro Zanella e Bernardino Falconi. Dall’alto sono ancora ben visibili la grande “S” della strada e le tre cappelle superstiti e, sulla sommità, il seminario secentesco (ampliato nell’Ottocento), la grandiosa statua del Sancarlone, che domina il paesaggio della parte meridionale del lago Maggiore, e la chiesa, progettata da Francesco Maria Richini, a pianta centrale, articolata su due ordini e dotata di un pronao accessibile dalle due rampe di scale disposte a tenaglia.
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Il Sacro Monte Calvario di Domodossola (dal 1657) Due francescani, Gioachino da Cassano e Andrea da Rho, durante le predicazioni della Quaresima del 1656, nella Collegiata di Domo, gettano il seme presso la Comunità ossolana per la realizzazione del Sacro Monte Calvario e, con l’autorizzazione del vescovo di Novara, s’incominciano a collocare le croci nei punti in cui dovranno sorgere le cappelle. Solo nel 1668 l’area, che appartiene allo Stato, viene donata dal Governatore di Milano, per conto del re di Spagna, per la fabbrica del Sacro Monte; nell’atto di donazione è esplicitato il ruolo di baluardo del cattolicesimo: «ut Ossolam incolumen et inexpugnabilem redderet». Il percorso della via Regia si dipana dal centro abitato fino alla sommità del colle di Mattarella, dove sorge il santuario del Crocefisso (prima pietra 1657; consacrazione 1690), a pianta ottagonale con cupola, costruito da Tommaso Lazzaro di Val d’Intelvi, con la gratuita collaborazione degli abitanti, cui era stato consentito di lavorare al cantiere nei giorni festivi. A partire dal 1694 si costruisce, accanto al Santuario, il complesso destinato a ospitare gli esercizi spirituali del clero ossolano (che nell’Ottocento passerà ai Padri Rosminiani); intanto prosegue la costruzione delle cappelle, tutte a pianta centrale, spesso con cupole mascherate da tiburi e coperture in lastre di pietra grigia. I giardini e le ville In Lombardia i giardini del Seicento sono ancora progettati secondo il modello all’italiana; in quelli già esistenti si praticano interventi spesso rilevanti, come può essere la realizzazione della peschiera della Certosa di Pavia. Soprattutto nel Settecento vengono ristrutturate o costruite numerose ville intorno a Milano, per lo più sulle più importanti vie di comunicazione (strade per Varese, per Bergamo e per Como) e sui navigli (Naviglio Grande e della Martesana), ma si distribuiscono sul territorio dalla pianura alla collina, sempre in zone di particolare pregio. L’organismo architettonico della villa si espande nello spazio e si rapporta con l’ambiente circostante per mezzo dei giardini che si dilatano nel paesaggio. Li illustra, dall’alto, Marc’Antonio Dal Re, nei grandi fogli, incisi tra il 1724 e il 1743, sotto il titolo di Ville di delizia o siano palagi camparecci nello Stato di Milano. Nella maggior parte dei casi conosciamo l’assetto originario dalle stampe, dai disegni o dalle descrizioni d’epoca. Oggi dall’alto è generalmente ancora ben riconoscibile la mole della villa, talvolta il contorno del giardino, ma questo è spesso inselvatichito, ridimensionato, e talvolta per-
fino lottizzato, come nel caso del giardino della Villa Olevano a Cava Manara. La peschiera della Certosa di Pavia Nei primi decenni del Seicento fervono i lavori nel complesso certosino di Pavia. Nel 1623-24 viene tracciata la «nuova strada retta dal Monastero alla Torre del Mangano» (cioè l’attuale viale che si connette con la statale 35 per Milano) e Francesco Maria Richini compie il prospetto del palazzo ducale (foresteria). All’interno del recinto dei terreni posti alle spalle della chiesa è già in uso, per l’allevamento dei pesci destinati alla mensa, la grande vasca bi-absidata, con larga bordura in granito. Raffigurata nelle vedute secentesche a volo d’uccello, è visibile solo dall’alto; infatti, come in passato non era possibile accedervi per via dalla stretta clausura dei monaci certosini, così anche oggi non ci si può accostare da terra per l’interdizione alle visite da parte dei Padri Cisterciensi che oggi gestiscono il complesso. Il giardino del Collegio Borromeo di Pavia Il collegio, voluto nel Cinquecento da Carlo Borromeo nella città che ospitava l’Università dello Stato di Milano, è già compiuto quando Francesco Maria Richini progetta il giardino, allacciandolo al palazzo con due corpi di fabbrica, di cui quello meridionale a portico architravato con colonne binate. Da vedersi dalla terrazza che vi si affaccia, il giardino si allunga verso un’esedra terminale, dove un nicchione di architettura rustica, coronato da un timpano interrotto per contenere il motto humilitas, contiene un doppio salto d’acqua. Le aiuole geometriche profilate di bosso e i pergolati di carpini che accompagnano il muro di cinta sono il ripristino dall’antico disegno. L’Isola Bella Il giardino a forma di vascello che naviga al centro del lago Maggiore sembra pensato per essere visto dall’alto. Lo conferma l’iconografia sette e ottocentesca: incisioni e dipinti sempre rappresentano l’isola a volo d’uccello. I Borromeo, che nel Quattrocento erano diventati conti di Arona e marchesi di Angera, nel Cinquecento ottenevano le tre isole del lago. La sistemazione di quella meridionale si avvia nel 1630, per volontà di Carlo iii Borromeo, figlio di Renato e nipote del cardinale Federico, in onore della moglie Isabella d’Adda. Da lei prenderà nome l’isola: Isola Isabella che, dalla contrazione delle due parole, diventerà più semplicemente Isola Bella. Si provvede all’adattamento
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Capitolo settimo
L’arte rupestre camuna
Pavia, il giardino del Collegio Borromeo visto da est, con la rigorosa partizione delle aiuole geometriche. In basso il profilo mistilineo del muro che lo racchiude, cui si appoggia il nicchione con la fontana.
Pagine seguenti Al centro del Lago Maggiore, l’Isola Bella vista da sud, con lo straordinario giardino a terrazze sovrapposte. Alle spalle, l’Isolino e l’isola dei Pescatori.
della grande rupe (36-37 metri) con il trasporto di ceste di terra portate con le barche; da subito sono previste le terrazze, come risulta da un disegno dell’architetto Giovanni Angelo Crivelli nel 1633. Dal 1650 se ne occupa Vitaliano vi, con la collaborazione dell’architetto Carlo Fontana, che estende il programma all’intera isola e la vuole di forma allungata. Vitaliano definisce il percorso ideale per arrivarci: si parte da Arona all’imbrunire, si va ad Angera, all’isola si deve arrivare quando, nel buio, tutto è illuminato dalle torce che definiscono i profili delle terrazze digradanti sovrapposte. Si tratta di una celebrazione della famiglia: il gran teatro di architettura rustica con pilastri, obelischi e statue (che dovevano essere dorate) culmina con l’unicorno, emblema araldico dei Borromeo, cavalcato da Cupido. Ci sono anche le statue delle quattro stagioni e i quattro elementi con gli emblemi Borromeo in ferro dorato. Solo a chi le guarda dall’alto le due torrette ottagone rivelano la copertura in coppi, ripresa, dalla parte opposta, dal tetto della grande mole del palazzo, dal quale emergono, più elevate, le falde lobate che proteggono la cupola del salone d’onore.
lato, che è stato Nunzio apostolico in Francia, si deve la fase conclusiva della sistemazione dell’intero complesso, che viene affidata all’architetto Giovanni Ruggeri. Viene completato anche il giardino, documentato da alcune incisioni di Marc’Antonio Dal Re, dove la mano di Ruggeri risulta riconoscibile soprattutto nelle originali merlature di muretti e parapetti realizzati alternando elementi architettonici reggenti sfere con plinti destinati a sostenere vasi. Sviluppato lungo un asse prospettico che attraversa lo stesso castello, il giardino è movimentato dalla presenza di dislivelli e scalinate, statue e fontane. Il livello più basso era organizzato in parterres a broderie, affiancati da porzioni suddivise a rombi. Al centro, un’elegante scalinata a tenaglia, caratterizzata dalla balaustra in cui le sfere si alternano a cornucopie destinate a contenere piante fiorite, si connette con il ponte che scavalca il fossato e porta direttamente all’ingresso del castello. Non è più esistente la doppia galleria di carpini che portava, a est, al grandioso padiglione che era denominato “teatro delle uccelliere” perché le torrette alle estremità ospitavano uccelli rari. La costruzione sopravvive come un grande rudere isolato nella campagna, ma è ancora perfettamente leggibile nella sua struttura architettonica, con parti realizzate in muratura rustica, secondo la moda delle costruzioni da giardino. È scomparsa la pineta che lo abbracciava; del laghetto artificiale, sul quale si poteva navigare con piccole barche, rimane il bacino ormai asciutto.
Il giardino del Castello di Montalto A Montalto Pavese, su committenza del marchese Belcredi, l’architetto Giovanni Antonio Veneroni mette a punto il progetto di sistemazione del castello e del giardino (rimangono sei dipinti a olio – quattro vedute e due planimetrie – uno dei quali firmato e datato 1735). Il suo ruolo di progettista del giardino riguarda in particolare la porzione all’italiana, organizzata in ampi terrazzi affacciati sulla valle, con aiuole a broderie. La legenda di una delle vedute testimonia la presenza di berceaux di gelsomini e di carpini, parterres di garofani, spalliere di frutti, giardinetto dei semplici, alcune uccelliere di cui una con cupola in rame e perfino il serraglio di cervi e altri animali selvatici. Siepi di bosso, carpini e tassi potati in forme geometriche si distribuivano lungo i viali; c’erano anche un loggiato con una statua di Diana, una fontana con Nettuno tra Euterpe e Polluce su uno sfondo di “grottesco con mosaici” (il giardino subisce un’operazione di recupero tra il 1907 e il 1915 a opera dell’architetto Jean Chevalley). Il parco Cusani e il Teatro delle Uccelliere a Chignolo Po Il Castello di Chignolo è oggetto di una consistente opera di rinnovamento tra Sei e Settecento per volontà dell’abate Gerolamo Cusani e del marchese Ferdinando, suo nipote. Dal 1713 se ne occupa il cardinale Agostino Cusani, vescovo di Pavia, per conto degli eredi minorenni; al pre-
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Il giardino del Castello di Belgioioso Si deve a Giovanni Ruggeri, intorno al 1737, il rinnovamento del giardino del Castello di Belgioioso per i principi Barbiano; sopravvive la definizione spaziale della porzione su cui si affaccia il prospetto occidentale. La recinzione meridionale, coronata dall’originale merlatura, è ancora affiancata da un pergolato, mentre verso occidente si apre con il «teatro de’ restelli», una grande esedra costituita da cinque cancelli incardinati su pilastri coronati da vasi, statue e stemmi, uno straordinario filtro affacciato sul verde esterno, che, ai tempi, era scandito da «cinque lunghissimi e larghi viali tutti fiancheggiati da altissimi arbori» che s’innestavano sui varchi dell’esedra. Il parco non sfugge alla ricognizione condotta per immagini da Marc’Antonio Dal Re, che documenta graficamente la suddivisione dei parterres e la presenza di broderie, secondo il gusto del giardino francese, che in quegli anni era quello ritenuto più idoneo alla residenza di un principe. Si tratta di un giardino con statue, fontane (in particolare il gruppo di Nettuno e Teti tra ninfe e delfini), obelischi,
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L’Isola Bella vista da nord. In primo piano la mole del Palazzo Borromeo, con la copertura in cotto, dalla quale emergono le falde lobate che proteggono la cupola del salone d’onore.
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perfino eleganti panchine in pietra rifinite con una decorazione che cita le passamanerie dei cuscini. Dall’alto si può ancora intuire la suddivisione dei parterres e l’avvallamento ovale accanto alla cancellata, dove statue e zampilli davano vita a una fontana ormai prosciugata. La fontana di Galatea della Villa Borromeo Visconti Litta di Lainate Chi guarda dall’alto il giardino della Villa Borromeo Visconti Litta di Lainate, nota per i suoi sorprendenti e raffinati giochi d’acqua, riconosce subito, nel cuore della porzione scandita ad aiuole geometriche, davanti al ninfeo voluto sul finire del Cinquecento da Pirro Visconti Borromeo, la bianca fontana di Galatea, con il gruppo scultoreo, realizzato a metà Settecento da Donato Carabelli in marmo di Carrara, al centro di una vasca a andamento mistilineo, sull’esterno della quale coppie di amorini sostengono gli stemmi Borromeo, Visconti, Arese e Litta. La fontana è a sua volta contenuta in un secondo più ampio bacino profilato da una balaustra a pilastrini completata da statue.
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Villa Arconati a Castellazzo di Bollate Per volontà di Giuseppe Antonio Arconati Visconti, la villa viene ristrutturata dall’architetto Giovanni Ruggeri (che si forma a Roma presso Carlo Fontana), che la dota di una facciata, adorna di statue e coronata da un lungo attico, che attraverso balaustre di forme mistilinee, si collega alla corte d’onore, alla quale si giungeva da un lungo viale rettilineo. Il grandioso giardino era stato articolato su due diversi assi prospettici dall’architetto e pittore francese Jean Gianda. Dalla facciata verso il giardino si scende tramite una scalinata mistilinea in uno spazio ancora suddiviso ad aiuole geometriche, chiuso da una grande esedra. Poco si conserva degli spettacolari giochi d’acqua, ma sono ancora visibili alcune fontane e la scalinata a ciottoli dove i draghi posti ai lati gettavano acqua in piccoli bacini a conchiglia. Villa Alari Visconti a Cernusco sul Naviglio La villa del conte Giacinto Alari è ormai completata nel 1719; l’architetto Giovanni Ruggeri si occupa della sistemazione del giardino dotandolo di parterres, di viali di carpini e anche di una peschiera. Una loggia di cinque archi si apre sulla corte, alla quale si accede da una cancellata incardinata su pilastri bugnati collegati a un muro flessuoso coronato da vasi; il prospetto verso il giardino è caratterizzato da un corpo aggettante e sopraelevato per consentire la visione dall’alto del Naviglio e delle prospettive che si aprivano al di là di esso.
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Palazzo Visconti a Brignano Gera d’Adda Nel 1716 i fratelli Visconti incaricano Giovanni Ruggeri di coordinare corpi diversi preesistenti in un unico grandioso complesso, che si articola intorno a una corte porticata a colonne binate, e viene dotato di fantasiosi coronamenti e di attici completati da vasi. L’intervento di Giovanni Ruggeri riguarda anche la sistemazione delle varie parti del giardino. Ben riconoscibile dall’alto la forma mistilinea della corte d’onore e, in fondo al giardino, il padiglione belvedere sopraelevato raggiunto da rampe di scale in curva, profilate da frastagliate balaustre che coniugano la muratura con i ferri battuti. Villa della Somaglia a Orio Litta Fatta costruire dal conte Antonio della Somaglia, vede nel Settecento la presenza dell’architetto Giovanni Ruggeri. Il corpo centrale della villa si apre con un portico a cinque luci verso la corte d’onore, chiusa da un’esedra con cancelli incardinati a pilastri di bugnato rustico sovrastati da statue. Nei terreni retrostanti, un tempo giardino ad aiuole geometriche, sono ancora visibili i terrazzamenti con le scalinate di raccordo. Villa Clerici a Niguarda La villa fu edificata tra il 1722 e il 1733 per volontà di Giorgio Clerici su progetto dell’architetto Francesco Croce. Il corpo centrale si affaccia con una loggia a tre luci su un giardino ad aiuole geometriche, chiuso da una cancellata ad andamento mistilineo intervallata da pilastri con statue e vasi. Sul retro rimangono ben riconoscibili le partizioni dello spazio, ma sono perduti i parterres documentati da Marc’Antonio Dal Re. Villa Belgioioso a Merate L’inquadratura privilegiata per i giardini delle ville è quella dall’edificio verso l’esterno; questo vale in particolare per la Villa Belgioioso (poi Brivio Sforza) di Merate, iniziata nel Seicento dai marchesi di Novate e ampliata nel secolo successivo dall’architetto Giacomo Muttoni, che progetta anche il giardino, in due porzioni distinte, in stretta relazione con due facciate della villa. Per nascondere alla vista il centro abitato, il giardino superiore è racchiuso da un muro e concluso sul fondo da un alto portico a bugnato rustico, affiancato da due nicchioni con statue e stemmi. Nella parte verso la campagna, a un livello più basso connesso con terrazze e scalinate, si privilegia l’asse centrale costituito da due ampie aiuole, ore tenute a prato, profilate da un pergolato che ne abbraccia l’andamento curvilineo,
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Il giardino del Castello di Belgioioso. Ben visibile, sulla destra, lungo la strada, la recinzione con l’inconsueta merlatura e, in basso a sinistra, la sequenza dei cinque cancelli, intervallati da pilastri bugnati con statue.
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Castellazzo di Bollate, Villa Arconati e il sistema dei suoi giardini. La configurazione dell’edificio in corpi ortogonali sembra riprendere il gioco dei rettilinei che scandiscono il territorio agricolo. Dai tetti
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emergono i coronamenti delle due facciate principali, l’una verso la corte d’onore corrispondente alla strada d’accesso, l’altra verso il giardino di cui si vedono i quattro lunghi parterres erbosi.
Pagine seguenti Merate, la Villa Belgioioso con le due porzioni di giardino disposte su due diversi livelli connessi con scalinate. Un porticato e un muro riparano la parte superiore dal tessuto urbano fitto di piccole case;
nella parte più ampia si dispongono due parterres a tappeto erboso, di cui il più grande, ad andamento mistilineo, ripete ed enfatizza il profilo della fontana centrale.
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senza tuttavia interrompere la visuale, che può spaziare sul verde circostante. L’architettura urbana Nella prima metà del Seicento il protagonista dell’architettura lombarda è Francesco Maria Richini, legato alla committenza dell’arcivescovo Federico Borromeo, e impegnato nella costruzione dei grandi palazzi milanesi, come il Collegio Elvetico e quello dei Gesuiti, ma anche nel completamento del Seminario e dell’Ospedale Maggiore. A Pavia lavora nel Collegio Borromeo e nel Palazzo Ducale della Certosa; ad Arona avvia i lavori del sacro monte e costruisce il santuario di S. Carlo. Nella seconda metà del secolo Giovanni Ambrogio Pessina provvede al rinnovamento dell’Università di Pavia dotandola di due cortili gemelli a doppio loggiato di colonne binate con poco consueti archi “poligonali” (1661-73) che, dopo un secolo, saranno “arrotondati” da Giuseppe Piermarini. A Vigevano c’è un dilettante d’eccezione, peraltro autore di un trattato di architettura: il vescovo Juan Caramuel Lobkowitz, cui si attribuisce una sola opera, ma di straordinaria valenza simbolica, la facciata della sua cattedrale. Quando nel 1707 Milano passa sotto la dominazione austriaca, si consolida la situazione economica, la nobiltà lombarda affida a una schiera di architetti (Giovanni Ruggeri, Carlo Giuseppe Merlo, Francesco Croce, Giovanni Antonio Veneroni, Lorenzo Cassani) il rinnovamento dei palazzi di città e delle dimore di campagna, mentre gli Ordini religiosi intervengono su conventi e chiese.
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La Biblioteca Ambrosiana a Milano Voluta dal cardinale Federico Borromeo, la Biblioteca Ambrosiana «fu eretta da fondamenti e aperta al pubblico nell’anno 1609 […] là dove si allarga una gran piazza davanti alla chiesa del S. Sepolcro» (Latuada). Il piccolo prospetto dell’ingresso è aggettante rispetto al corpo di fabbrica contenente la grande sala «tutta vestita di libri» ed è ritmato da paraste doriche che reggono un timpano contenente lo stemma del fondatore. Sul davanti è posta la scalinata. Il Collegio Elvetico a Milano Francesco Maria Richini tra il 1628 e il 1630 compie il prospetto del Collegio Elvetico (poi Palazzo del Senato) costruito da Fabio Mangone; il portico del secondo cortile verrà realizzato soltanto nel 1718 da Giovanni Battista Quadrio. Lo descrive Serviliano Latuada: «Tra le fabbriche più magnifiche della nostra città […] deve certamen-
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te annoverarsi la struttura di questo Collegio; e in primo luogo la fronte esteriore di esso, è formato in semicircolo, con disegno corintio […] con isforata loggia di selce al di sopra della gran porta, architravi, fregi e finestroni, tutti ornamenti che disposti con simmetria concorrono a renderla veramente maestosa; al di dentro poi si vedono i doppi cortili, con portici allo ‘ntorno, sostenuti da colonne di pietra viva» (v, p. 339).
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Cortile e ingresso del Seminario Maggiore di Milano L’edificio, la cui costruzione era stata iniziata da Carlo Borromeo nel 1570, all’inizio del Seicento viene dotato del cortile a doppio loggiato architravato di colonne binate, opera di Aurelio Trezzi. Ai tempi del cardinale Federico, Francesco Maria Richini esegue l’ingresso monumentale dove, all’apertura di profilo poligonale, già utilizzata da Pellegrini nel Collegio Borromeo di Pavia, affianca le figure, scolpite da Giambattista Casella, della Pietà e della Religione, coronando il tutto con il motto araldico humilitas. Palazzo Litta a Milano in corso Magenta Il conte Bartolomeo Arese, presidente del Senato, avvia la costruzione del palazzo noto come Palazzo Litta nel 1642. Progettato da Richini, fu completato nel 1752 con la facciata progettata da Bartolomeo Bolli, caratterizzata da finestre decorate da timpani curvilinei. Il palazzo è composto da un corpo principale, impostato su tre piani scanditi da sei paraste di ordine corinzio, aggettante rispetto ai più bassi corpi laterali e coronato da un grande fastigio mistilineo, con lo stemma della famiglia. Il portale è affiancato da telamoni che sostengono una balconata convessa mistilinea. Il cortile principale quadrato, attribuito a Richini, presenta sui quattro lati portici voltati a botte, sorretti da colonne architravate in granito. Palazzo Cusani a Milano in via Brera La facciata è stata realizzata tra il 1712 e il 1719 dall’architetto Giovanni Ruggeri per il cardinale Agostino Cusani. Ritmata da paraste, è caratterizzata dall’aggetto delle importanti incorniciature delle finestre e dalla presenza di due ingressi, enfatizzati dalle lesene che li affiancano e protetti dallo sporgere dei grandi balconi convessi ad andamento mistilineo, impostati su solide mensole e alleggeriti dai ferri battuti che si alternano ai pilastrini delle balaustre. Data la limitata larghezza della strada su cui affaccia, il palazzo risulta poco godibile per chi lo guarda dall’alto.
Palazzo Sormani in corso di Porta Vittoria a Milano Nel xvii secolo il palazzo era stato acquistato dal cardinale Cesare Monti, che ne affidò il rinnovamento a Francesco Maria Richini, a cui si devono il cortile centrale porticato e lo scalone d’onore. Ma sarà il nipote, Cesare Monti-Stampa, ad ampliarlo e dotarlo di una nuova facciata prospiciente la piazza di Porta Tosa. L’architetto Francesco Croce compie anche la facciata su Largo Augusto, costituita da un corpo centrale sporgente collegato alle facciate laterali, in corrispondenza degli angoli, da corpi arrotondati più bassi, sovrastati da terrazze. La parte centrale della facciata è scandita da paraste che si elevano fino al timpano arrotondato tripartito, un tempo contenente le insegne della famiglia. Le finestre sono ornate da elaborati cappelli che alternano sopraccigli triangolari e curvi al piano nobile, mentre al piano terreno sono aperti da oculi. Palazzo Mezzabarba a Pavia Grazie alle demolizioni novecentesche che hanno cancellato gli edifici antistanti, risulta oggi ben visibile dall’alto il palazzo realizzato dall’architetto pavese Giovanni Antonio Veneroni per i conti Mezzabarba a partire dal 1726. La facciata, con balconi convessi e finestre dai cappelli fastosi, è caratterizzata dalla presenza di due ingressi (come aveva già fatto Giovanni Ruggeri nel Palazzo Cusani a Milano), di cui solo uno praticabile: quello di sinistra, più facilmente percorribile dalle carrozze nell’angusta piazza settecentesca. Pochi anni dopo al palazzo si salda un oratorio, dedicato ai santi Quirico e Giulitta, che costituiva il fondale dello spazio urbano pertinente al palazzo. Progettato a sua volta da Veneroni nel 1733, il piano inferiore della facciata corrisponde al piano terreno del palazzo; l’elevazione è data dai due campaniletti gemelli che nascono dalle paraste binate e interrompono l’andamento mistilineo del coronamento.
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Palazzo Vescovile di Lodi L’architetto Giovanni Antonio Veneroni, che già aveva lavorato a Pavia per il palazzo di famiglia, viene chiamato a Lodi dal vescovo Carlo Ambrogio Mezzabarba, per il rinnovamento del palazzo vescovile (dal 1738). I lavori però si interrompono con la morte del vescovo nel 1941. Si ritiene che l’architetto abbia dato indicazioni anche per il piccolo giardino dell’episcopio, che ancora conserva la recinzione merlata e i due nicchioni, con le prospettive architettoniche dipinte e la raffinata pavimentazione a mosaico di piccoli ciottoli.
Il Collegio dei Gesuiti a Milano (Palazzo di Brera) Quando Francesco Maria Richini progetta il cortile del Collegio dei Gesuiti (1651) s’ispira al Collegio pavese di Carlo Borromeo, che l’architetto conosce bene per esservi intervenuto su incarico del cardinale Federico. In particolare vi si ritrova infatti la formula pellegriniana del doppio loggiato a colonne binate. Il palazzo è noto ed è visitato dai viaggiatori del Sei e del Settecento; lo descrive Serviliano Latuada: «il Collegio poi è fatto di nuova fabbrica, con corridori, scaloni, atrij, ed ogni altra cosa che lo possa rendere comodo e maestoso». Le grandi e inopportune vetrate in falda dimostrano però che, anche in tempi recenti, non si è pensato che il complesso dovesse essere guardato dall’alto. Foppone dell’Ospedale Maggiore (Rotonda della Besana) a Milano Avviata dall’ingegnere collegiato Attilio Arrigone nel 1698 la costruzione di «un luogo sacro, che servisse di sepolcro coperto in luogo appartato dalle abitazioni, e non molto discosto dall’Ospedale», come racconta Serviliano Latuada nel 1737: «tal fabrica venne alzata in figura di croce perfetta con cupola nel mezzo, essendo uguali tutti i quattro bracci». Rivelatasi ben presto insufficiente, nel 1713 si decide di «far alzare un portico che girasse d’intorno alla croce descritta»; se ne occupa l’ingegnere dell’ospedale, Carlo Francesco Raffagno, forse con il concorso di Francesco Croce, attuando un «disegno in figura ottagona, ma di quattro lati maggiore e quattro minori, tutti in linea circolare». L’opera si compie entro il 1731 e l’esito è di straordinaria qualità formale, di immediata riconoscibilità, anche da terra, ma ancor più dall’alto; il conte Charles de Brosses lo definì «l’edificio più bello di Milano». La facciata del Duomo e la piazza di Vigevano La grande facciata in curva che abbraccia la piazza ducale è un’idea geniale di Juan Caramuel Lobkowitz. Divenuto vescovo della città, il colto prelato nel 1680 ridisegna, in forma di prospetto di chiesa, il lato che chiude l’antico atrio rinascimentale del complesso sforzesco, che diventa sagrato subordinato al Duomo. Il progetto va ben oltre l’architettura, e oltre l’urbanistica, poiché dà un nuovo significato alla piazza e, enfatizzando la presenza della cattedrale, dà nuovo peso all’autorità e al potere vescovile. La facciata, ad andamento concavo con coronamento curvilineo, è solo parzialmente tangente alla facciata della chiesa, rispetto alla quale è assai più estesa, allargandosi sulla
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Milano, il Collegio Elvetico (poi Palazzo del Senato, ora Archivio di Stato) occupa un intero isolato, che si sviluppa in profondità con i due cortili quadrati a doppio loggiato architravato. Il prospetto, ad andamento concavo con balcone convesso, si rispecchiava in origine nelle acque del Naviglio.
sinistra a comprendere l’imbocco di una strada. Per questo la facciata è dotata di quattro portali, di cui i due più esterni a profilo poligonale. Facciata della chiesa di S. Francesco da Paola a Milano A Milano, su incarico dei Padri Minori, l’architetto Marco Bianchi realizza tra il 1728 e il 1735 la chiesa di S. Francesco da Paola. La facciata è articolata su un doppio ordine di paraste che enfatizzano l’alternanza del concavo e del convesso, secondo una formula gradita al gusto lombardo del primo Settecento presente per esempio nel S. Filippo di Lodi, nel S. Michele di Olevano, nel S. Giuseppe di Voghera e nel S. Francesco da Paola di Pavia. La facciata verrà completata nel suo fastigio soltanto nel 1891 dall’architetto Emilio Alemagna, rispettando l’impostazione settecentesca. Facciata della chiesa di S. Francesco da Paola e piazza Ghislieri a Pavia Trasferiti in zona più centrale, i frati Minimi di S. Francesco da Paola costruiscono, a partire dal 1712, la chiesa inizialmente intitolata a S. Marco. La facciata, messa a punto dall’architetto Giovanni Antonio Veneroni e realizzata da maestranze milanesi tra il 1735 e il 1738, verrà collaudata con la presenza di Marco Bianchi che a Milano, pochi anni prima, aveva costruito la chiesa di S. Francesco da Paola per i frati dello stesso Ordine. Un’ampia scalinata ondulata sottolinea l’andamento concavo-convesso della facciata, coronata da un timpano sormontato da vasi fiammeggianti e dilatata sui corpi laterali a costituire un fondale a chiusura della piazza del Collegio Ghislieri, sulla quale domina la statua in bronzo di Pio v benedicente, opera di Pier Francesco Nuvoloni, fusa da Filippo Ferreri nel 1692, e collocata sul piedistallo nel 1696.
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Chiesa di S. Maria della Sanità in via Durini a Milano Iniziata nel 1694 da Giovan Battista Quadrio per i Crociferi, la chiesa fu completata nel Settecento da Carlo Federico Pietrasanta, al quale si deve (1708-12) il progetto della facciata, rimasta incompiuta, in cotto a vista, qualificata dall’andamento lievemente convesso e coronata da un frontone arrotondato. La planimetria ellittica determina l’inconfondibile profilo della copertura, rendendola immediatamente riconoscibile dall’alto: il tetto in coppi si appoggia alla facciata che lo sovrasta con il suo fastigio curvilineo; dalla parte opposta, appena più in basso, si accosta la copertura, a sua volta arrotondata, del presbiterio. Chiesa di S. Filippo Neri a Lodi Nel 1740, durante l’episcopato di Carlo Ambrogio Mezzabarba, si avvia a Lodi il rifacimento della chiesa dei Filippini, affidato a Giovanni Antonio Veneroni e compiuto entro una decina d’anni. La facciata, di dolce ondulazione, è slanciata dal doppio ordine di fasci di paraste, sormontati da volute con statue di coronamento. Una scalinata a doppia rampa consente l’accesso al portale dal vistoso cappello che si dilata a contenere una nicchia con il busto del santo titolare della chiesa. Guardando dall’alto, accanto al campanile rimasto privo d’intonaco, le otto falde triangolari del tetto in coppi consentono di immaginare la planimetria della chiesa, caratterizzata da un corpo centrale ottagono, cui si saldano il coro e le due più basse cappelle laterali.
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Chiesa della Madonnina in campagna a Varese Realizzata tra il 1678 e il 1686, presenta una ricca facciata impostata su una serliana con due telamoni a reggere l’arco centrale. Nella parte superiore, la grande finestra centrale è affiancata da nicchie con statue e il timpano è sovrastato da una balaustra a pilastrini con vasi e statue.
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Capitolo settimo
Milano, la Biblioteca Ambrosiana, voluta dal cardinale Federico Borromeo all’inizio del Seicento. L’isolato (che ospita anche la Pinacoteca) ingloba la chiesa del S. Sepolcro, alla sinistra della quale si pone la piccola facciata intonacata corrispondente all’atrio d’ingresso.
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Milano, Palazzo Litta. La facciata del corpo principale, realizzata a metà Settecento, è scandita da paraste d’ordine gigante, e coronata da un grande fastigio mistilineo. Il portale, affiancato da due telamoni, è protetto da un balcone convesso.
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Capitolo primo
Milano, Palazzo Sormani. La vista dall’alto valorizza la facciata ad angoli arrotondati con soprastanti terrazzi e il raffinato gioco di spigoli della copertura in coppi; consente poi di vedere il loggiato del cortile e il profilo della balaustra con statue a coronamento della facciata opposta. Purtroppo però evidenzia, sul lato sinistro, gli interventi moderni poco coerenti con il contesto in cui si inseriscono.
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A fronte Vigevano, la facciata del Duomo, progettata dal vescovo Juan Caramuel Lobkowitz nel 1680, si allarga a comprendere, sulla sinistra, l’imbocco di una strada. L’intervento, di straordinaria portata simbolica, dà un nuovo significato alla piazza, trasformando l’atrio rinascimentale della residenza sforzesca in sagrato della cattedrale.
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Capitolo settimo
Lodi, il Palazzo Vescovile realizzato dall’architetto Veneroni per il vescovo Carlo Ambrogio Mezzabarba. Nel cortile s’intravvede il portico, con le soprastanti finestre caratterizzate dall’elaborato cappello settecentesco. Sulla destra s’intuisce il giardino.
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Milano, il Collegio dei Gesuiti (Palazzo di Brera) con il cortile a doppio loggiato. La vista dall’alto evidenzia, nel tetto, gli inserimenti di tegole di nuova fattura e le inopportune superfetazioni sulle falde esterne.
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Capitolo settimo
Lombardia dall’alto: barocco e barocchetto
Milano, il Foppone dell’Ospedale Maggiore (Rotonda di via Besana). L’edificio centrale a croce con cupola è abbracciato dall’andamento sinuoso del portico settecentesco con copertura a doppia falda in coppi.
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Capitolo settimo
Milano, chiesa di S. Maria della Sanità. La planimetria ellittica determina la particolare configurazione della copertura a testuggine, che si appoggia al profilo emergente, curvilineo, della facciata. Al corpo maggiore si addossa l’abside con il suo tetto, leggermente più basso, dal contorno arrotondato.
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A fronte Lodi, chiesa di S. Filippo Neri. È visibile la facciata settecentesca articolata su due livelli, ma non la piccola scalinata all’ingresso. La copertura a otto spicchi lascia intuire il corpo centrale della chiesa, di forma ottagona, sui fianchi del quale si innestano larghe cappelle laterali.
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Capitolo ottavo
Il Neoclassicismo Ferdinando Zanzottera
Le istanze neoclassiche provenienti dall’Europa portarono, anche in Lombardia, alla nascita di un movimento ideale e progettuale contrapposto all’esuberanza del tardo Barocco e agli eccessi formali del Rococò dell’xviii secolo. La determinazione precisa dell’inizio delle sue influenze in ambito regionale è ancora discussa, anche in relazione alle difficoltà da parte di molti storici di determinare l’atto germinale o la prima opera architettonica neoclassica compiuta a livello europeo. Alcuni studiosi, tra i quali Virgilio Vercelloni, propendono per collocare la nascita del Neoclassicismo tra il 1715 e il 1740 legandolo alle istanze illuministiche che si espressero nella rivoluzione liberale inglese e nel territorio veneto. Altri storici (ad esempio David Watkin), invece, pongono l’origine del Neoclassicismo internazionale intorno al 1740 con le opere dei pensionaires francesi vincitori del Grand Prix de Rome, inviati nella capitale italiana per studiare e rilevare i monumenti dell’antichità. La maggior parte degli storici, tuttavia, pur non disconoscendo l’apporto e le ricerche formali d’importanti figure della prima metà del xviii secolo, indicano come momento germinale del Neoclassicismo le teorie dell’abate Marc-Antoine Laugier, che nel 1753 pubblicò il Trattato sull’Architettura, che ebbero una discreta diffusione anche in terra lombarda e che influenzarono l’operato dei numerosi progettisti attivi presso le “corti” dei territori austriaci. In Lombardia il Neoclassicismo faticò a imporsi come nuovo linguaggio artistico, inteso come complessa articolazione dei pensieri pluridisciplinari, influenzando la cultura architettonica regionale solamente negli ultimi decenni del xviii secolo. Tuttavia nei monumenti più significativi sono evidenti i richiami alle precoci intuizioni enunciate dall’Abbé de Cordemoy nel 1706, poiché manifestano un sostanziale rifiuto all’impiego di ornamenti inutili e all’uti-
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lizzo acritico degli elementi costruttivi e dei materiali edili. Forse più che in altre regioni italiane, in Lombardia il Neoclassicismo acquisì la lezione di Laugier, che affermava: «tutto ciò che è in rappresentazione deve essere in funzione». Tali monumenti costituiscono l’affermazione, più o meno conscia, di un concetto di bellezza essenziale capace di unire arte, architettura e leggi naturali ai principi della ragione. Nelle arti e nell’architettura neoclassica lombarda, infatti, gli ordini architettonici non costituiscono solamente un linguaggio decorativo, ma sono gli elementi essenziali di un’articolata composizione che dona forma a un fabbricato mediante l’accostamento e la compenetrazione degli elementi architettonici ridotti quasi all’essenzialità. Condannando apertamente la ricerca di Francesco Borromini, l’architettura sette-ottocentesca milanese e lombarda si manifesta nelle sue espressioni più pure attraverso colonne e lesene lisce prive di scanalature, che spesso poggiano sul basamento sprovviste di piedistalli. Raro è l’impiego di colonne rastremate o progettate seguendo le leggi dell’entasi greca e la realizzazione delle colonne tortili di reminiscenze borrominiane. Alla definizione di un preciso linguaggio architettonico contribuì anche il crescente interesse per la ricerca archeologica, favorita dall’impegno e dalle teorie del fondatore dell’archeologia scientifica Johann Joachim Winckelmann. Interesse espresso anche per le scoperte di Pompei ed Ercolano e per le campagne di scavo condotte in Egitto, in Asia Minore, in Grecia, nei territori dell’attuale Croazia e in alcuni altri paesi europei. Il Neoclassicismo lombardo fu dunque influenzato anche dai principi di «nobile semplicità e pacata gradiosità» di Winckelmann e dal dibattito sviluppatosi nella seconda metà del xviii secolo per determinare a quale delle quattro principali culture mediterranee (egi-
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Pagine precedenti Milano, i due edifici quadrangolari disposti simmetricamente ortogonalmente ai bastioni. Essi presentano un porticato tetrastilo con colonne doriche.
Pagine seguenti Monza, Villa Reale, l’ingresso monumentale con il roseto e il “Serrone” sulla sinistra.
zia, etrusca, greca e romana) ci si dovesse rivolgere per far nascere un nuovo linguaggio artistico e un “inedito” stile architettonico. Un dibattito che infervorò gli animi degli accademici e degli uomini di cultura e che culminò con lo scontro diretto tra le posizioni di Giovanni Battista Piranesi, in favore dell’architettura etrusca, e quelle di J. Louis Le Roy, assertore della preminenza dell’arte e architettura greca. Gli echi di questo dibattito giunsero anche a Milano e nelle altre principali città lombarde in cui prevalsero anche gli scritti dell’architetto J. Stuart, che rivalutò l’architettura dorica attraverso la pubblicazione dei rilievi dei templi della Magna Grecia, a cui si opposero i neoclassicisti radicali come C.A. Ehrensvärd, che riteneva lo stile dorico poco essenziale e imponente. Le teorie del Neoclassicismo oltre a compenetrarsi con il mondo dell’archeologia recepirono, e nel contempo influenzarono, la nascente scienza dell’Estetica tedesca fondata da Alexander Gottfried Baumgarten (1714-62), il pensiero filosofico di Kant (1724-1804) e, successivamente, le teorie di Hegel (1770-1831). In questi fondamenti è certamente ravvisabile un’istanza di universalità del Neoclassicismo dal carattere internazionale, capace di rendere assimilabili opere geograficamente molto distanti tra loro. Tuttavia a questa vocazione europeista e unitaria si contrappone un frazionamento della sua produzione architettonica in specifiche scuole o movimenti culturali e nazionali o, come nel caso della Lombardia, in scuole regionali, che consentirono a Giulio Carlo Argan di parlare di «provincialismo culturale» del Neoclassicismo.
gerarchica della distribuzione degli spazi interni. Il volume centrale, infatti, ospita nel piano nobile rialzato gli ambienti di rappresentanza, uniti all’Atrio d’onore e al parco mediante due scalinate doppie. Accanto al nucleo centrale Piermarini disegnò due ali con facciate assai più semplici, a conclusione delle quali pose due volumi cubici: la Cavallerizza e la cappella di Corte, con pianta a croce greca e cupola nel capocroce. L’architetto folignate studiò attentamente le facciate, movimentate dalla scansione ritmica delle paraste e delle cornici di matrice classica e dall’alternanza di frontoni triangolari con elementi a sesto ribassato. Specchiature geometriche, trabeazioni e cornici ispirate al mondo greco-ellenistico concludono la sobria decorazione della facciata, sormontata da due balaustrate laterali e decorazioni scultoree nel volume centrale. La Villa Reale fu inserita all’interno di un sistema agricolo-bucolico fortemente modificato nei secoli successivi, ma del quale permangono ancora molte tracce inalterate. All’interno del circuito delle mura perimetrali del parco, infatti, oggi insistono ventisei cascine, tre mulini e tre ville storiche, la principale delle quali, a esclusione della Villa Reale, è Villa Mirabello. La sua edificazione risale alla seconda metà del xvii secolo, quando Giuseppe Durini ne affidò la progettazione a Gerolamo Quadrio, importante personalità attiva in numerosi cantieri lombardi e nel Duomo di Milano. L’edificio rappresenta il tipo ideale di “villa di delizia” dell’alto milanese e costituì l’occasione di significativi scambi artistici con le altre aree della regione. Alla villa, dall’evidente impianto neoclassico, si accedeva attraverso uno scenografico viale alberato, con valenze barocche, che aveva anche la funzione di sottolineare gli assi dell’impianto planimetrico in relazione al parco. Nel suo giardino “all’italiana”, ora non più visibile, erano state collocate sculture ornamentali e piccole scenografiche architetture. La sua facciata, caratterizzata da un timpano, manifesta gli intenti della famiglia Durini di edificare un’imponente architettura che testimoniasse il potere economico e politico raggiunto, valorizzando anche il titolo di feudatari di Monza acquisito nel 1648. Gerolamo Quadrio, di conseguenza, progettò una villa imponente, planimetricamente impostata su un edificio a “U” con una corte centrale, sulla quale si affacciavano gli ambienti di rappresentanza, alcuni locali di servizio e ambienti agricolo-rurali. All’interno, ancora oggi, sono conservati suggestivi ambienti originali con decorazioni volute dal cardinale Angelo Maria Durini, che, nel 1768, promosse un rinnovamento generale della villa e commissionò a Giovanni Antonio
Le Ville in territorio brianteo Tra le massime espressioni del Neoclassicismo lombardo vi sono le architetture connesse al tema del vivere in villa e delle regge, tra le quali la principale è certamente la Villa Reale di Monza, la cui edificazione è legata alla nomina a Governatore della città di Milano dell’arciduca Ferdinando d’Austria. Con tale evento, infatti, si venne a creare nel capoluogo lombardo la necessità di possedere sedi di alta rappresentanza consoni della corte imperiale austriaca, i cui riferimenti culturali risentirono del clima cortese delle grandi capitali europee e degli stati italiani. L’incarico di edificare la nuova villa extraurbana fu affidato a Giuseppe Piermarini che, dopo le esperienze progettuali in qualità di allievo e assistente di Luigi Vanvitelli a Roma e alla Reggia di Caserta (1765-68), giunse a Milano divenendo l’architetto imperiale della Lombardia a partire dal 1770. Il nucleo residenziale è composto dal corpo nobile collocato in posizione centrale, nel quale prevale la concezione
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Pagine seguenti Milano, Villa Reale (già Villa Belgioioso Bonaparte), il complesso architettonico con la corte chiusa.
Milano, Palazzo Reale, il cortile d’onore interno al palazzo e, in primo piano, il campanile della chiesa di S. Gottardo.
Cucchi la realizzazione degli affreschi delle sale del corpo centrale, adattandola al gusto decorativo dell’epoca. Poco distante sorge Villa Mirabellino, un altro edificio dal contenuto valore neoclassico che fu edificato nelle forme attuali nel 1776 dall’architetto Giulio Galliori per volere del cardinale Angelo Maria Durini. L’edificio costituisce uno dei prototipi residenziali connessi alle “ville di delizia” lombarde e rappresenta la prima delle dépendances realizzate all’interno del parco Reale, in cui accogliere ospiti illustri durante i prolungati soggiorni estivi.
se di affidarne la realizzazione a una serie di artisti che già gravitavano sul territorio lombardo, quali: Donato Carbelli, Andrea da Casaregio, Angelo Pizzi, Carlo Pozzi, Cesare Ribossi e Grazioso Rusca. Al ricco linguaggio neoclassico d’oltralpe s’ispirano anche le decorazioni del piano nobile e, in particolare, del Salone delle feste, che presenta una raffinata scansione di colonne scanalate con capitelli dorati sormontate da un cornicione a festoni e teste femminili che sorregge la volta a lacunari e rosoni. Ancora più esuberante è la decorazione della Sala del Parnaso, un tempo utilizzata come sala da pranzo, al centro della quale spicca l’affresco di Andrea Appiani raffigurante Apollo immerso nel bucolico paesaggio del monte che sovrasta Delfi, mentre suona la lira per allietare le sette Muse che lo circondano suddivise in tre gruppi. A Pollack appartiene anche la progettazione dell’annesso giardino all’inglese, ideato insieme al conte Ercole Silva, al conte Belgiojoso e, forse, ad Antonio Villoresi, già attivo in Lombardia. Qui l’impianto libero, che sembra abiurare ogni regola della simmetria, offre occasione per inserire un piccolo lago artificiale alimentato da una roggia sapientemente incanalata a formare un torrente, in cui si getta anche una piccola cascata. Ponticelli, grotte e piccoli templi contribuiscono a creare la scenografia unica del parco, che supera la contenuta matrice prettamente neoclassica a favore di più articolate suggestioni d’ispirazione mitologica e letteraria d’inizio Ottocento. Con l’affermazione del governo austriaco a Milano e la conseguente trasformazione in grande centro strategico imperiale, la città necessitava di un edificio che rappresentasse simbolicamente il cambiamento e la nobiltà del nuovo governo. Luogo prescelto come sede per la corte austriaca fu Palazzo Reale, anche per la sua posizione prospiciente il Duomo. Fu dunque l’arciduca Ferdinando d’Austria che decise il rinnovamento dell’antica struttura edilizia dopo aver scartato l’ipotesi di realizzare un nuovo edificio. In un primo momento il compito di studiare il progetto di ampliamento e rifacimento del palazzo fu affidato a Luigi Vanvitelli, che propose tre differenti soluzioni scartate per gli alti costi di realizzazione. Nel 1769 l’incarico passò al suo allievo Giuseppe Piermarini, che decise di aprire la piccola piazza antistante il palazzo demolendo un’ala dell’antica struttura. Parimenti studiò il rifacimento delle facciate dei corpi di fabbrica rivolti verso la nuova piazza utilizzando linee neoclassiche contenute e sobrie. Progettò edifici a tre piani di uguale altezza suddivisi in due ordini sovrapposti, con quello inferiore con funzione di basamento bugnato, e i due superiori scanditi
Monza, Villa Reale, il fronte prospiciente il Parco del corpo centrale con le scalinate a doppia rampa.
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Ville e Palazzi milanesi Di indiscusso maggior valore è la Villa Reale di Milano (già Villa Belgiojoso Bonaparte) voluta dal conte Ludovico Barbiano di Belgiojoso, che nel 1790 diede l’incarico a Giuseppe Piermarini di progettare una suntuosa villa nei pressi dei giardini di Porta Orientale, di cui l’architetto aveva curato la sua trasformazione poco prima. Piermarini cedette la commessa a Leopold Pollack, suo discepolo e seguace, mantenendo per sé il compito di progettare gli spazi interni. All’estro del Pollack, dunque, si deve ascrivere il linguaggio pienamente neoclassico del nuovo edificio, costruito tra il 1790 e il 1796, concepito come un’imponente villa suburbana collocata in posizione poco discosta dal centro urbano di Milano. Questa scelta costituisce un unicum nella storia dell’architettura milanese, perché rappresenta l’unico esempio di edificio realizzato all’interno della cerchia dei Bastioni che dichiaratamente abiura gli stilemi propri dei palazzi urbani per aderire al linguaggio più aulico della “villa di delizia” extraurbana. Per gli esterni Pollack adotta un linguaggio semplice dalle chiare reminiscenze francesi, costruendo un edificio a corte, con la parte centrale scandita su tre ordini sovrapposti. Le ali laterali, di minor altezza, presentano un linguaggio ancora più semplice, e contengono il loro fulgore a vantaggio delle due facciate principali, di cui quella sul retro presenta un’elegante decorazione basata su vistose lesene scanalate che poggiano su un alto basamento bugnato. Ai fianchi due corpi di fabbrica fortemente aggettanti, conclusi con imponenti timpani triangolari che contengono le raffigurazioni allegoriche del Carro del Giorno e del Carro della Notte, incorniciano la facciata, sormontata da una teoria di statue. A differenza degli interni, il cui impianto decorativo fu progettato da Andrea Appiani, le facciate presentano un complesso impianto allegorico con bassorilievi e statue a tema mitologico da ascrivere a Giuseppe Parini, che deci-
Milano, Palazzo Reale, la piazza e la facciata progettata da Giuseppe Piacentini.
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Como, Villa Olmo, l’imponente facciata prospiciente il lago caratterizzata da una sequenza di colonne ioniche.
da una sequenza di lesene che sorreggono un architrave mistilineo. Al centro della facciata principale un leggero aggetto segna l’ingresso, caratterizzato da un bugnato più accentuato e da quattro semicolonne ioniche. Piccoli timpani triangolari, alternati a cornici curvilinee, segnano le aperture del secondo piano. All’ampliamento dell’edificio partecipò anche Luigi Canonica con la costruzione della cosiddetta “ala lunga”, ora non più esistente, e Andrea Appiani, autore del ciclo di affreschi denominato dei Fasti di Napoleone. Ville del territorio comasco Completamente differente rispetto alle altre ville lombarde per impianto scenografico è Villa Olmo a Como. L’edificio fu voluto dal marchese Innocenzo Odescalchi che la commissionò all’architetto Simone Cantoni, che aveva già dato ampia dimostrazione della sua capacità progettuale curando la ristrutturazione di Palazzo Ducale a Genova e disegnando Palazzo Serbelloni a Milano. La villa comense sorge sulla riva occidentale del lago, e fu edificata sul finire del Settecento come residenza estiva. I lavori ebbero inizio nel 1782 e si conclusero, per il solo corpo centrale, intorno al 1789, mentre proseguirono sino al 1796 per i due corpi laterali. La progettazione della monumentale villa si fonda su un sobrio decorativismo basato sulla ripetizione, secondo precise regole geometriche, di semplici elementi architettonici. Il corpo centrale, di maggiore altezza rispetto al resto della facciata, presenta una sequenza di sei colonne ioniche di ordine gigante precedute e seguite da due lesene del medesimo ordine, sormontate da un imponente frontone mistilineo. Sopra di esso un’alta balaustra che funge da basamento a una teoria di statue e un elaborato stemma nobiliare. Raffigurazioni classiche sono presenti anche tra le colonne centrali, in cui compaiono cinque tondi dello scultore ticinese Francesco Carabelli raffiguranti Platone, Solone, Talete, Socrate e Pitagora. Nel pieno rispetto della cultura neoclassica coeva nelle sale interne della villa sono presenti decorazioni dal gusto mitologico, tra le quali si distinguono il Salone da Ballo e lo Scalone d’onore, con una pittura parietale dell’Appiani. La visione progettuale della villa costituisce un significativo esempio dell’influsso che la cultura archeologica settecentesca ebbe sull’architettura lombarda, poiché evidenti sono i richiami alle teorie della “bellezza ideale” proposte da Johann Joachim Winckelmann in opposizione alla cultura barocca, intesa come espressione di irregolarità, sfarzosità e libera passione.
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Ville dell’area bergamasca Significativo esempio di adesione al linguaggio neoclassico del territorio bergamasco è l’Accademia Carrara di Bergamo, ampliata in forme neoclassiche da Simone Elia nel primo decennio dell’Ottocento. L’edificio realizzato da Costantino Gallizzioli era già stato definito dimensionalmente insufficiente al momento della sua conclusione avvenuta nel 1781. Il problema rimase sino al 1804, quando furono nominati Carlo Marenzi e Giuseppe Caccia per individuare due architetti attivi in Lombardia da porre in competizione tra loro per la progettazione della nuova sede. Fu così che vennero selezionati Leopold Pollack e Simone Elia, un giovane architetto che sino a qual momento si era occupato solamente del completamento della chiesa di Ranica. Al termine di un lungo dibattito la scelta ricadde sul giovane architetto bergamasco dalle origini ticinesi, che volle presentare due distinti progetti, entrambi basati sulla rigorosa adesione al linguaggio neoclassico. Una delle sue ipotesi, infatti, risentiva in maniera imbarazzante del progetto per la Villa Belgiojoso Bonaparte di Milano studiato da Giuseppe Piermarini, del quale sembra una copia adattata alle esigenze bergamasche. A conclusione di un lungo iter burocratico l’Accademia fu ampliata tra il 1808 e il 1813 realizzando un edificio assai differente dal progetto originario e, in particolare, ridimensionato nell’apparato decorativo delle facciate esterne. Furono eliminate le logge e le statue poste a coronamento dell’edificio, le sculture proposte sopra gli ingressi e gli altorilievi del corpo centrale. Il risultato fu un edificio a corte con la facciata principale movimentata da numerosi aggetti e dalla presenza di un corpo centrale con semicolonne afferenti all’ordine gigante, sormontate da un imponente timpano triangolare. L’epopea di questo edificio e il risultato ottenuto costituiscono un significativo esempio del ruolo fondamentale ricoperto dalla città di Milano in epoca neoclassica, poiché le soluzioni architettoniche adottate divennero patrimonio figurativo di riferimento di un vasto territorio che, talvolta, si estende ben oltre i confini regionali. I grandi teatri Il desiderio imperiale di palesare il cambiamento della Lombardia attraverso la costruzione di edifici dal forte valore simbolico ed evocativo trovò, nell’ultimo quarto del xviii secolo, una nuova occasione nella realizzazione del Teatro alla Scala di Milano, la cui costruzione si rese necessaria a causa di un incendio scoppiato il 25 febbraio del 1776 che distrusse il Teatro del Palazzo Arciduca-
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le. L’incarico di progettare la nuova struttura fu affidato a Giuseppe Piermarini, che consegnò i primi disegni già nel mese di maggio dello stesso anno. Dopo tortuose contrattazioni per la scelta del luogo, il mantenimento dei privilegi da parte delle famiglie nobili proprietarie dei palchi e la semplificazione della facciata per questioni economiche, si conclusero i lavori realizzando il primo teatro neoclassico europeo. «La nuova architettura, concepita come “meccanismo esatto” – ha scritto Maria Antonietta Crippa –, venne collocata in modo da avere due prospetti su strada: inglobava parzialmente costruzioni in situ, adattandole alle proprie necessità con lucido spirito pragmatico. Due corpi edilizi preesistenti venivano infatti abilmente sfruttati per ricavarvi locali di servizio agli spettacoli, ai fianchi della nuova costruzione». La facciata, progettata per essere osservata da uno scorcio, è suddivisa in tre fasce orizzontali sovrapposte, di cui quella inferiore è in bugnato e quelle superiori sono ritmate da coppie di paraste alternate a finestre rettangolari con timpano triangolare a forte rilievo. I fianchi più esterni sono leggermente arretrati dal corpo principale, che presenta, in corrispondenza del portico, un ulteriore aggetto. A conclusione dell’edificio una balaustra con ornamenti scultorei binati e il timpano con il bassorilievo del Carro del Sole inseguito dalla Notte. Due incendi devastarono anche il seicentesco teatro di Cremona, progettato alla metà del secolo da Giovanni Battista Zaist. Per porre rimedio al secondo di questi (1806) fu chiamato Luigi Canonica, che progettò un teatro di vaste proporzioni, con la sala a quattro ordini di palchi, una galleria e un palcoscenico tra i più grandi d’Italia. Il nuovo edificio, oggi denominato Teatro Ponchielli Marino, fu costruito con un pesante avancorpo suddiviso in due ordini sovrapposti. Quello inferiore, in bugnato, presenta aperture rettangolari sormontate da finestre semicircolari alternate a elementi quadrangolari. L’ordine superiore, separato dal primo da un’ampia cornice mistilinea, possiede una finitura a intonaco ed è priva di particolari elementi decorativi. Al centro della facciata, invece, il Canonica volle inserire un imponente pronao con quattro colonne ioniche a tutt’altezza, sormontato da un timpano. Interventi a scala urbana Il periodo neoclassico si caratterizzò anche per una serie di interventi a scala urbana che miravano a trasformare Milano da centro agricolo periferico a metropoli europea pregna delle istanze illuministiche. Con il predominio viennese, quindi, iniziò un processo di mutamento del volto della
Bergamo, Accademia Carrara, particolare della corte sulla quale prospetta il corpo centrale aggettante con semicolonne appartenenti all’ordine gigante.
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Milano, Teatro alla Scala, il complesso architettonico con l’imponente volume geometrico della macchina scenica.
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Milano, Arco della Pace, il complesso scultoreo con le quattro Vittorie Alate e il Carro di Minerva trainato da sei cavalli.
Pagine seguenti Milano, Arco della Pace, il complesso architettonico con l’opera scultorea in bronzo di Abbondio Sangiorgio e le raffigurazioni marmoree dei fiumi lombardi di Benedetto Cacciatori e Pompeo Marchesi.
città in cui trovò spazio la costruzione di significativi palazzi nobiliari, di chiese e di teatri. Con il successivo arrivo dei francesi, il desiderio di trasformare Milano in capitale repubblicana trova nel progetto di sistemazione del Castello e della piazza antistante studiato da Giannantonio Antolini nel 1801 una delle sue massime espressioni. È tuttavia con la nascita della monarchia napoleonica che viene sancito il diritto pubblico di governare il processo edilizio attraverso la creazione della Commissione di Pubblico Ornato, poiché ogni architettura esposta alla visione pubblica diviene di interesse collettivo e deve dunque esprimersi con un linguaggio consono e moderno. A partire dal 1807 per Milano iniziò, dunque, un lento processo di neoclassicizzazione operato dalla commissione inizialmente composta da Giocondo Albertolli, Luigi Cagnola, Luigi Canonica, Paolo Landriani e Giuseppe Zanoia, ironicamente definiti come i “dittatori del gusto” a causa delle attente prescrizioni neoclassiche che impartivano. Da questo processo di rinnovamento non rimasero escluse nemmeno le porte urbiche. Nel periodo francese, dunque, furono edificati tre nuovi ingressi alla città (Porta Nuova, Porta Ticinese e Porta Vercellina) ai quali è da aggiungere l’Arco della Pace. Costruite con linguaggio neoclassico, le porte cittadine divennero poli ordinatori di un eterogeneo territorio. Esse, dunque, non ricoprivano solamente incarichi funzionali ma rivestivano un ruolo simbolico fondamentale nel processo di affermazione del potere laico sulla città. Caso particolare di questo processo fu la realizzazione dell’Arco della Pace, originariamente denominato Arco della Vittoria o Porta del Sempione, perché idealmente doveva porre in comunicazione Milano a Parigi. Il disegno fu affidato a Luigi Cagnola, che nel 1807 ne iniziò la costruzione. Giunti ben oltre la metà dei lavori, il progetto fu accantonato a causa della caduta del Regno italico venendo ripreso alcuni anni dopo da Francesco i d’Austria, che lo trasformò in monumento alla Pace del 1815. Dopo fasi progettuali alterne e la sua inaugurazione avvenuta nel 1838 alla presenza dell’imperatore d’Austria e re del Lombardo-Veneto Ferdinando i, il monumento si mostra oggi come un arco di trionfo a tre fornici con quattro imponenti colonne corinzie. Alla sua sommità quattro Vittorie Alate, opera di Giovanni Putti, e il Carro della Minerva trainato dai sei cavalli, opera scultorea bronzea realizzata da Abbondio Sangiorgio, già attivo in Lombardia e nel Duomo di Milano. Sopra le larghe colonne binate sono presenti le raffigurazioni scultoree dei quattro fiumi principali del Lombardo-Veneto (Adige, Tagliamento, Po e Ticino) eseguite da Benedetto Cacciatori e Pompeo Marchesi. Me-
daglioni, riquadri, figure alate e allegorie completano il quadro decorativo al quale furono chiamati a collaborare numerosi artisti. Questo monumento segna, in qualche modo, il cambiamento della cultura neoclassica che, a favore delle istanze francesi della fine del xviii secolo, lentamente abbandona le teorie del Neoclassicismo Utopico, ritornando a una sempre maggiore e articolata presenza delle decorazione in chiave politica. Le nuove conquiste della Francia napoleonica, il culto repubblicano della personalità, la retorica storica e la necessità di una “propaganda politica” popolare, spinse i progettisti ad accostarsi alle forme dell’architettura imperiale romana. In qualche modo l’Arco della Pace milanese si connette ai numerosi edifici che Napoleone commissionò per celebrare le sue vittorie e le sconfitte dei “nemici della Francia” oltr’Alpe, tra i quali si annoverano: l’Arc du Carrousel (Percier e Fontaine, 1806), l’Arc de Triomphe (Chalgrin, 1806-35), la realizzazione della Madeleine quale Tempio Civico della Gloria (Vignon, 1807) e il portico corinzio della Chambre des Députés (Poyet, 1810 circa). Alla cultura imperiale antica si rifece anche Luigi Canonica per la progettazione dell’Arena Civica di Milano, tassello significativo di ricomposizione del paesaggio urbano nell’area del Castello Sforzesco e dell’Arco della Pace. Essa fu creata per le celebrazioni, le feste e gli spettacoli pubblici e il suo progettista s’ispirò dichiaratamente al Circo di Massenzio di Roma, proponendo un grande anfiteatro capace di ospitare sin quasi un quarto della popolazione cittadina (30.000 posti per una popolazione di circa 130.000 abitanti). Inaugurata nel 1807 alla presenza di Napoleone, l’Arena Civica è segnata da differenti elementi monumentali, ciascuno dei quali con specifiche funzioni. Tra questi la Porta Trionfale disegnata da Giuseppe Pistocchi, caratterizzata da quattro colonne doriche sormontate da una trabeazione con metope e triglifi. Questa è sormontata da un timpano che racchiude il bassorilievo di Gaetano Monti raffigurante i “Giochi classici”. In posizione quasi opposta la Porta delle Carceri, con due torri laterali a balaustre sommitali, progettata da Giacomo Tazzini con dieci arcate cieche e un fornice. Ulteriore elemento specifico, oltre alla cavea che veniva invasa dall’acqua del naviglio per effettuare le naumachie (combattimenti tra navi), il Pulvinare a doppio affaccio. All’esterno appare come una compatta architettura a due ordini sovrapposti con un avancorpo centrale a cinque arcate, mentre all’interno presenta la grandiosa Loggia Reale, con otto colonne monolitiche in granito. Il processo di trasformazione della città iniziato dagli au-
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Milano, Parco del Castello Sforzesco, veduta generale del parco dall’Arco della Pace. Sullo sfondo sono visibili il Duomo e la torre Velasca.
Pagine seguenti Milano, Arena Civica, cavea e spalti con, in alto a destra, la Porta delle Carceri. Milano, Giardini Pubblici, particolare della grande fontana e del seicentesco Palazzo Dugnani.
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striaci interessò anche una cospicua parte dell’allora periferia urbana, quella compresa tra le mura cittadine e i bastioni, dove prima della soppressione degli ordini contemplativi si estendevano numerose proprietà religioso-monastiche oltre a quelle della famiglia Dugnani. Nel 1780 Giuseppe Piermarini ricevette l’incarico dall’arciduca Ferdinando d’Asburgo-Este di trasformare queste ortaglie in moderni Giardini Pubblici. I lavori, eseguiti tra il 1782 e il 1786 con la collaborazione di Giuseppe Crippa, furono inseriti in un più ampio progetto che mirava alla creazione di un articolato paesaggio urbano, che comprendeva la grande scalinata che dai Giardini Pubblici conduceva ai Bastioni di Porta Orientale (1787), ai Boschetti del Bottonutto (1787-88) e ai Bastioni, riordinati scenograficamente nel 1787 con percorsi appositamente studiati per il passeggio a cavallo e in carrozza. L’organizzazione planimetrica dei giardini seguì rigorose regole geometriche capaci di generare anche soluzioni inedite, che oggi permangono solo in parte, come l’ormai ridotta alberatura di tigli e olmi organizzati su una doppia serie di quintupli filari. Descrivendo il risultato ottenuto dal Piermarini, Virgilio Vercelloni già ne sottolineava il valore asserendo: «questo bosco urbano geometrico, di straordinaria potenza figurativa e architettonica (un grande edificio con colonne lignee e copertura formata dal fogliame), non ha equivalenti nell’Europa del tempo». Lo stesso fervore di rinnovamento che investì Milano nel xviii secolo interessò, seppure in maniera minore, anche la città di Pavia, che iniziò la sua stagione neoclassica con l’incarico di trasformare l’Università affidato intorno al 1771 a Giuseppe Piermarini. Con questo progetto iniziò per la città una nuova fase culturale che perdurò sino alla metà del secolo successivo, in cui i luoghi simbolo divennero occasione per dar corso a un piano di educazione e sensibilizzazione ai modelli illuministici. Per questa ragione il rifacimento della facciata dell’Università può essere considerato come il vertice del processo di neoclassicizzazione della città, anche se esso fu realizzato modificando e semplificando notevolmente l’originario progetto. Il risultato fu un edificio estremamente semplice con l’esterno ritmato da incorniciature geometriche poco aggettanti e un ampio cornicione, sotto al quale compaiono gli ingressi segnati da lisce paraste sovrastate da un timpano privo dello stemma imperiale e delle allegorie legate all’istituzione universitaria inizialmente pensate da Piermarini. Quest’ultimo, tuttavia, seppe riportare alcuni di questi temi all’interno della struttura e, in particolare, nell’Aula Foscoliana da lui realizzata poco dopo e decorata da Paolo Mescoli nel 1782-83.
La lezione piermariniana fu proseguita in terra pavese da Leopold Pollack che per l’Università progettò il Teatro di Anatomia e il Teatro di Fisica, ambienti che, come ha giustamente affermato Renata Crotti, costituiscono «teatri nel vero senso del termine, destinati allo svolgersi di quel particolare tipo di azione scenica qual è l’insegnamento, che si avvale ormai – a fine Settecento – di una serie di dimostrazioni pratiche e di esperimenti che gli studenti devono poter vedere con facilità». Modello tipologico di riferimento sono le analoghe sale delle Università europee che avevano già sperimentato aule con gradinate a emiciclo, per le quali Pollack studiò attentamente le visuali dei differenti coni ottici, lasciandone esemplari tavole grafiche. Non mancano, soprattutto nel Teatro di Fisica, gli influssi della cultura palladiana, rivisitata, però, dalla personale ricerca dell’architetto viennese e dalle opere che egli aveva già realizzato nel capoluogo lombardo. Edifici religiosi In ambito religioso gli influssi neoclassici si svilupparono con maggior vigore nei centri minori, interessando solo raramente i grandi centri lombardi e, in particolare, Milano. Qui, tuttavia, fu realizzato il capolavoro indiscusso dell’architettura sacra neoclassica che seppe mutare radicalmente il rapporto tra chiesa e città, tra dimensione introspettiva dell’edificio e il suo affaccio sul paesaggio urbano. Con l’edificazione della chiesa di S. Carlo al Corso, infatti, si palesò il desiderio di rottura con l’architettura dei decenni precedenti, abbandonando la sinuosità delle facciate curve e la presenza di elementi baroccheggianti e rococò a favore di un più sobrio rigore geometrico. Questo è riscontrabile anche nella scelta a scala urbana di realizzare una piazza quadrangolare delimitata su tre lati da un portico colonnato unitario, capace di legare armoniosamente la chiesa ai fabbricati limitrofi. Il progetto, realizzato da Carlo Amati nel secondo quarto del xix secolo, incentra la scenografia urbana sul pronao ottastilo della chiesa, costruito in stile corinzio con colonne monolitiche sovrastate da un architrave dedicatorio e un timpano privo di decorazioni. Il linguaggio severo e raffinato del colonnato è ripreso anche dall’alto tamburo circolare, con semicolonne che inquadrano in modo alternato semplici aperture rettangolari e profonde nicchie arcuate. Questa struttura funge anche da elemento di sostegno alla cupola progettata da Felice Pizzagalli. La chiesa, dunque, costituisce un significativo esempio del neoclassicismo milanese definito “purista” dal Lavagnino, ma considerato da altri critici come “controclassicista”.
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Capitolo primo
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L’arte rupestre camuna
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Capitolo ottavo
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Il Neoclassicismo
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Capitolo ottavo
Il Neoclassicismo
Milano, chiesa di S. Carlo al Corso, cupola e tamburo circolare con semicolonne, nicchie e finestre rettangolari. Alla sommità la lanterna con cariatidi angeliche.
Per comprendere pienamente le differenti istanze della cultura neoclassica lombarda e delle sue relazioni con le tradizioni stilistiche affermatesi nelle corti austriache e francesi, occorre essere aperti a una lettura ambientale e relazionale dei monumenti e non fermarsi alla sola analisi tipologica dei singoli episodi edilizi. Forse più che in altri periodi la neoclassicità necessita, infatti, di una visione d’insieme, per la quale la fotografia da elicottero costituisce un validissimo
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aiuto, che facilita anche la comprensione delle dinamiche di trasformazione del territorio. La conoscenza di tali alterazioni e la comprensione delle preesistenze ambientali e culturali costituiscono, dunque, l’unico modo per saper cogliere le sfumature regionali del periodo, che consentono di rifiutare le eccessive semplificazioni omologatorie e, conseguentemente, l’erronea inclusione nell’ambito indiscriminato del Neoclassicismo di architetture spurie o incongruenti.
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Capitolo nono
Abitare in Lombardia tra xix e xxi secolo Maria Antonietta Crippa
Una patria artificiale La storiografia dell’architettura e della città degli ultimi due secoli, la prima in particolare, è rapidamente passata dalla definizione di inquadramenti unitari con fondamenti interpretativi differenziati, ma sostanzialmente convergenti nella selezione della maggior parte delle realizzazioni ritenute valide, alla loro scomposizione radicale. All’evidenza di un unico Movimento moderno, sotto il segno di una forte e univoca internazionalità occidentale, si è sovrapposta una scintillante e disorientante pluralità di fatti d’architettura del Novecento, caratterizzata da insistita interazione tra attenzione alle specificità locali – di modi di vita, situazioni storiche e climatiche, sviluppo tecnico – e influsso delle esperienze internazionali di maggiore eco, opere di maestri della prima generazione moderna. Studi specialistici mirano inoltre a evidenziare, isolandole di volta in volta in esplorazioni settoriali, o solo le componenti tecniche e formali dell’architettura dei due secoli, o solo quelle connesse al disegno urbano o territoriale, per meglio individuare le specifiche dinamiche evolutive. Contemporaneamente si è perso in gran parte il legame tra la produzione dell’Ottocento e quella del secolo successivo, a favore della messa in luce sia della grande varietà di situazioni locali del primo, sia di una sua più specifica caratterizzazione complessiva. Nel caso dell’Italia, ad esempio, si tende oggi a ridimensionare la distinzione della produzione d’architettura di questo secolo in due momenti, il primo coincidente con la fase matura del neoclassico, il secondo con l’eclettismo o fase romantica. Si stempera anche l’ipotesi di un suo grave ritardo sui passi della modernità, che la storia europea imponeva già dalla fine del xviii secolo. Più in generale, di recente è emerso quanto l’art de bâtir risulti caratterizzato da molte varianti, soprattutto sia oggi
contrassegnato dalla polarizzazione, interna alla realtà fisica dei territori antropizzati, tra singola unità architettonica e città, fenomeno che lascia purtroppo ancora in ombra – ed è preoccupante – le tuttora molto vaste e importanti aree agricole. Il dialogo tra architettura e contesto, di cui si privilegia l’emergenza urbana, è comunque ritenuto oggi il nodo decisivo per comprendere il senso della direzione presa da quest’arte negli ultimi due secoli. Il momento attuale tende però a essere dominato più dalla esasperata lettura della coesistenza di tendenze costruttive ed espressive tra loro contrapposte che dalla esplorazione dell’articolazione interna di forme abitative attuata finora. La complessità sub specie arcquitectonica di Ottocento e Novecento – nei quali si è costruito con una frenesia precedentemente impensabile, coincidente con il forte incremento numerico delle popolazioni – è oggi più che mai evidente, mentre si è colpiti dall’emergere di un recente internazionalismo, geograficamente dilatato a scala mondiale, causa di dirompenti discontinuità in contesti con caratteri tradizionali o di una modernità moderata. L’abitare contemporaneo, per queste e altre ragioni, risulta carico di preoccupanti interrogativi sull’immediato futuro e dominato da un senso del provvisorio, che diffonde incertezze e timori. Le narrazioni della sua storia in questi due secoli restituiscono immagini frammentate e spesso, anche per ragione di sintesi, indifferenti alle specifiche qualità del vissuto che ogni luogo costruito, testimonianza di socialità sempre irripetibili, porta con sé. Il suo carattere di palinsesto fortemente strutturato è comunque evidente nella fisica, lunga durata dei sedimi viari e delle stratificazioni edilizie, oltre che in scarti di scala dimensionale delle sue parti, addizioni più o meno coerenti, tra più recenti e antiche zone edificate, improvvida corrosione delle aree rurali e naturali.
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Capitolo nono
Abitare in Lombardia tra xix e xxi secolo
Pagine precedenti Milano. Il grande asse rettilineo da via Orefici a corso Sempione che lega idealmente, tramite segmenti stradali e prospettive che intercettano complessi monumentali, il centro città con la periferia a nord, contrastando efficacemente la tradizionale chiusura della crescita di Milano per anelli concentrici.
Accompagnare con un racconto gli scatti fotografici dall’alto sul territorio lombardo, offerti in questo volume, è occasione preziosa per prendere atto dello stato di fatto; impegna in una sintesi interpretativa non facile e necessariamente provvisoria, esige una globale e unitaria contestualizzazione geografica e ambientale alla quale le immagini stesse invitano. Una sua esplorazione efficace esigerebbe, in realtà, l’incrocio di più scale di lettura tra le quali resta fondamentale quella esperita camminando a piedi e vivendone le relazioni spaziali tra esterno e interno. Lo sguardo dall’alto tuttavia provoca l’immediata registrazione di un ordine o di un disordine globali indispensabile oggi per aver cognizione delle correlazioni tra natura e artificio e, data la sua attuale estensione, della strutturazione interna di quest’ultimo. Per ragioni di spazio, si deve qui procedere tramite flash a diverse scale e secondo un generale ordine cronologico e di contesto, rimandando a testi più specialistici la puntuale comprensione di genesi e crescita di contraddizioni tipicamente contemporanee, come quelle segnalate dalle aree abbandonate o dismesse, da addensamenti eccessivi, da disordini evidenti, da stridenti discontinuità. Lo scatto fotografico, tuttavia, impietosamente li evidenzia in alcuni casi. In tutti si possono cogliere – nell’emergenza dimensionale, nella conformazione volumetrica e nella contestualizzazione di ogni architettura, sia essa entro la stringente maglia morfologica dei lotti urbani o in quella meno regolare dei campi coltivati o dei lotti rurali – componenti di un progetto d’architettura sfuggenti alla diretta esperienza visiva dell’abitante o del turista. L’esercizio che viene così proposto aiuta a ritrovare, almeno per qualche aspetto, quella globale percezione geografica dei siti, componente non secondaria del senso identitario di appartenenza che uomini colti, nei secoli precedenti ai nostri, dimostravano di possedere. In termini geografici, l’attuale Lombardia non può essere ritenuta territorio unitario definito da precise conformazioni fisiche e caratterizzato da lunga e unica storia. Vari sono i paesaggi che la compongono; variabili nel tempo sono stati i confini amministrativi. Langbard, da cui Lombardia, fu terra dei Longobardi, popolazione di origine germanica che nel vi secolo d.C. invase l’Italia e fece di Pavia la capitale del proprio regno. Dal xiv secolo fino 1796 il Ducato di Milano comprendeva quasi tutto l’attuale territorio lombardo, passato poi sotto il governo austro-ungarico e napoleonico. Già ben prima dell’unificazione nazionale e in modo diffuso a metà del xix secolo, esso risultava contrassegnato da radicali modifiche antropiche volte a incentivare un uso
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agricolo intensivo del suolo che supportava la fitta rete di città, borghi, ville gentilizie e cascine. «Tutta la nostra terra, al pari dell’antico Egitto – scriveva l’economista Carlo Cattaneo nel 1839 –, è un immenso monumento alle costruzioni». Questa terra – allora la più densamente abitata in Europa, tra prealpi e Ticino, con le Fiandre – precisava nel 1845: «per nove decimi non è opera della natura. È opera delle nostre mani è una patria artificiale». L’immenso e unico monumento territoriale così evocato faceva perno sul paesaggio agricolo, edificato dal lavoro umano non meno delle città, e fondato, nel proprio stupefacente equilibrio, sul delicato e instabile congegno che connetteva, con grande sapienza, risorse e cicli di natura con necessità di vita della popolazione. Il controllo tecnico dello sfruttamento delle risorse naturali veniva proposto come motore di una tradizionale prosperità lombarda i cui artefici, a partire dal xv-xvi secolo, erano stati i membri del milanese Collegio di ingegneri, architetti e agrimensori, raccolti in corpo professionale e capaci di assumere, di volta in volta, mutevoli orientamenti nei confronti di Stato e libero mercato, da una parte, e rapporti dialogici tra libera professione e area pubblico-politica, dall’altra. Costituito al tempo della dominazione spagnola, collocato a lungo nel broletto a fianco del più antico Collegio dei giureconsulti e dei Collegi dei fisici e dei medici, dei notai e dei causidici, esso garantì serietà e preparazione tecnica dei suoi membri e sancì la stabilità del riconoscimento formale della professione da parte dei governi succedutisi nel corso del tempo. Riformato in epoca teresiana, a partire dal 1868 ebbe sede nella Canonica di piazza Cavour, dove era stato aperto, nel 1863, l’Istituto Tecnico superiore per gli ingegneri, autorizzato nel 1865 a conferire anche il diploma di architetto civile, il futuro Politecnico, che ne ereditò il concreto obiettivo della formazione di tecnici integrati alla logica imprenditoriale, ma aggiornandolo di continuo nel processo istituzionale universitario. Dal Collegio fino a metà Ottocento e poi dal Politecnico uscirono i tecnici milanesi spesso in grado di occuparsi contemporaneamente del cantiere del Duomo di Milano, del restauro di chiese e palazzi, del regime delle acque del territorio lombardo, dei trafori, della rete ferroviaria e di quella stradale. A questi ingegneri e architetti civili va riconosciuto il merito di aver attuato importanti trasformazioni della città di Milano e del suo territorio nel passaggio della prima da capoluogo di un’area eminentemente agricola a centro di un contesto altamente industrializzato. Con l’unificazione nazionale e l’entrata in vigore nel 1860
Pagine seguenti Cedegolo, comune attraversato dalla strada statale 42, del Tonale e della Mendola. Nello sviluppo urbanistico in gran parte avvenuto nel corso del xx secolo, Cedegolo si allunga sul fondo della Valle Camonica solcata dal fiume Oglio. Emerge, in basso a sinistra, il complesso del Museo dell’Energia idroelettrica della Valle
Camonica, che ha sede all'interno di una centrale idroelettrica dismessa nel 1962 dall’enel. L’edificio, sul fianco del fiume Oglio, è stato progettato nel 1911 dall’architetto bresciano Egidio Dabbeni (1873-1964) in sobrie forme che mediano moderna razionalità con eleganti composizioni di sapore neoclassico.
della legge Casati, di riforma dell’intero ordinamento scolastico, agli ingegneri civili si riconobbe il compito di attuare interventi di varia natura comprendenti, secondo il modello francese, il riordino e l’ampliamento del sistema stradale, la bonifica dei terreni, la costruzione di canali, irrigui e navigabili, e delle abitazioni urbane e rurali con tutti i comfort tecnologici e igienici richiesti. Agli architetti civili venne riconosciuta specifica competenza per gli edifici e complessi, sia di nuova costruzione che da restaurare, di alta evidenza pubblica e per questo nobilitati da decori come chiese, teatri, palazzi con funzione amministrativa, anche cimiteri. Quanto maturò allora costituisce un riferimento imprescindibile per la comprensione della situazione contemporanea e per una riflessione, in chiave ecologica e di sviluppo sostenibile, del prossimo futuro, poiché consente di comprendere le ragioni della lunga prosperità lombarda. La ricchezza della regione infatti, lo si è affermato da più parti, è fondata sul lungo buon uso delle sue acque, ordinate da natura e con artificio umano, nella collaborazione tra lunghi fiumi, grandi e piccoli laghi, torrenti di montagna e delle colline moreniche, da una parte, e laghi artificiali, canali irrigui e navigabili, fontanili e rogge, dall’altra. La veduta satellitare dell’intera regione dà ancora oggi piena evidenza ai tratti essenziali del contesto naturale che consentì la costruzione della patria artificiale celebrata da Cattaneo: le Alpi in alto dominano la scena, subito seguite dalla regione mediana dei grandi laghi prealpini; dalle prime e da questi scendono a valle i molti fiumi maggiori e minori, dal Mincio all’Oglio all’Adda, all’Olona e al Lambro, che arrivano tutti al Po. Questa singolarità geografica contrasta felicemente con l’area ibrida – a densità edilizie diverse – estesa tra zone collinari e pianura, dove città e campagna non sono sempre nettamente distinte tra loro, mentre i tracciati di numerosi canali artificiali risultano leggibili, funzionali alle attività agricole tuttora presenti nella bassa pianura, talvolta anzi ivi prevalenti. L’area ibrida appare inoltre solcata da un sistema infrastrutturale di strade e ferrovie molto fitto, che penetra nelle numerose valli la cui ricchezza d’acqua è stata occasione di incremento industriale locale e di messa a punto di rilevanti impianti idroelettrici, con soluzioni architettoniche spesso di grande interesse. Osservando più da vicino nelle foto satellitari le aree urbanizzate, vi emerge un habitat caratterizzato da multi-centralità territoriale e da vasta sub-urbanizzazione, residenziale e industriale (urban sprawl) intorno a Milano e alle città capoluogo di provincia, con interclusi sia parchi e giardini di grandi dimensioni – si pensi al par-
co della Villa Reale di Monza – sia aree libere non coltivate. I perimetri dell’habitat, inoltre, sconfinano a nord in confusi insediamenti sparsi su colline, a sud in una vasta area agricola contrassegnata da ampi appezzamenti e grandi cascine a corte, architetture un tempo caratterizzanti tutto il territorio lombardo. Se ne vedono molte a rudere a nord di Milano, a sud spesso sono significativamente affiancate da villette e capannoni. Nelle valli, meno invase dal turismo di massa di quelle delle regioni confinanti, sono presenti forti addensamenti urbani che, soprattutto in quelle più vaste e facilmente accessibili come ad esempio la lunga Valcamonica, hanno occupato terre di fondovalle, bonificate e infrastrutturate. Oggi la Lombardia è la regione più popolosa d’Italia e tra le prime in Europa con i suoi circa dieci milioni di residenti, concentrati nella fascia pedemontana che comprende le città maggiori di Varese, Como, Lecco, Milano, Brescia e Bergamo, queste ultime tre con più di 6,5 milioni di abitanti complessivamente. Il fitto addensamento cala nella bassa pianura, anch’essa costellata da importanti città, e verso le zone alpine, con concentrazioni significative nelle valli maggiori. Nonostante tutto, affermano i geografi, il quadro pesistico lombardo resta tuttora di una ricchezza senza pari in Europa, per convergenza di componenti storiche e paesaggistiche e per dinamismo dei suoi abitanti, che lo destinano a ruoli importanti di mediazione tra nord e sud del continente, sempre che essi sappiano ancora elaborare oggi e nel prossimo futuro rapporti, di urbanità e ruralità, dialogici con le sue doti di natura. Il decollo dell’identità lombarda nella nazione L’Ottocento, secolo dell’egemonia di un’Europa dominata dalla fiducia nel progresso sulla scena internazionale, fu tempo di imponenti trasformazioni dei modi di vita delle popolazioni occidentali e delle loro configurazioni territoriali, tanto ampie e complesse da risultare tuttora non dominate in un unico inquadramento. In architettura questo secolo – del trionfo del capitalismo, delle lotte che tentarono invano di superarlo, dell’esplosione dimensionale delle città capitali, dell’industrialismo e di tutte le componenti che innestarono su di esso le loro conquiste come le scoperte scientifiche, le innovazioni tecniche, i progressi medici – fu contrassegnato da tensioni espressive estremamente instabili. L’orientamento, razionalizzante e tecnologico degli ingegneri incalzò, fino a metterla in discussione, la mutevolezza del gusto artistico degli architetti, prevalentemente eclettico
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Capitolo primo
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Capitolo nono
Nella città di Sondrio sul fondovalle della media Valtellina, regione alpina corrispondente al bacino idrico del fiume Adda a monte del lago di Como, i più significativi interventi d’architettura moderna vennero realizzati nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento. Ottocentesca è la piazza detta un tempo Nuova, ora Garibaldi con
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Abitare in Lombardia tra xix e xxi secolo
imponenti edifici neoclassici tra i quali il Teatro sociale del 1824 di Luigi Canonica (1764-1844). Del 1930 è il vasto e severo Palazzo del Governo, nei pressi della prima stazione ferroviaria, opera del capofila del movimento artistico chiamato Novecento, Giovanni Muzio (1893-1982) molto attivo in Milano.
e storicista. Ne risultarono suggestivi e ogni volta diversi dosaggi nella ricerca di facies urbane portatrici di retorica celebrativa del progresso, di diffuso comfort abitativo, di modifiche di grande scala, di tecniche costruttive legate a largo impiego di ferro, cemento armato e vetro, sia nelle case private che negli edifici pubblici sia di carattere tradizionale, come teatri, biblioteche, scuole, sia nuovi, per funzione e tipologia, come musei, banche, stazioni di linee ferroviarie, edifici per l’amministrazione, dogane, grandi magazzini, passages o strade coperte per negozi, e altro ancora. D’altro canto l’effervescente disordine di crescita e modifica territoriale, determinato dall’azione non coordinata di potenti enti immobiliari privati, si scontrò con l’insorgente impegno degli organi statali a costruire – secondo criteri condivisi tra politici, amministratori, tecnici ingegneri e architetti – una nuova disciplina, l’urbanistica, per regolare i fenomeni insediativi, superando anche l’impegno prevalentemente estetico della pur gloriosa arte urbana del Settecento. In sintesi, si colse presto che progetto del singolo organismo edilizio e città esigevano nessi ancora non messi a fuoco. Già nella seconda metà del secolo si provò a immaginare un nuovo modello urbano, la città del movimento e della circolazione, nel confluire di proposte tecniche, procedimenti teorici, utopie. Ogni nazione europea perseguì un proprio consolidamento identitario condividendo, con maggiore o minore intensità, ideali che percorrevano anche le altre, a ritmi di svolgimento diversi. In questo quadro la storia politica, sociale e culturale della penisola italiana fu frammentata e differenziata, nell’autonomia di diversi stati, per più della prima metà del secolo; nei successivi quarant’anni all’assetto politico unitario corrispose una unificazione culturale molto lenta e conflittuale. La difficile affermazione dell’unità nazionale, cui si assegna come data ufficiale il 17 gennaio 1861, dovette misurarsi con enormi problemi. Monarchia costituzionale basata sullo Statuto albertino dal 1861 al 1946, l’Italia ebbe subito un sistema amministrativo accentrato avente come principali referenti territoriali le province rette da prefetti, con ruoli importanti nella sanità pubblica e nella realizzazione di opere di pubblica utilità, primo passo per affrontare l’elevata disomogeneità delle condizioni generali della vita nelle diverse aree. Estesissimo era il mondo rurale in tutta la penisola; piccole e spesso chiuse in se stesse, nei propri equilibri amministrativi, le molte città; l’industria era presente solo in poche zone al nord e ai primi passi; molto scarsi, quasi inesistenti,
i collegamenti di strade e ferrovie. Milano, con il territorio circostante, si trovò subito in situazione fortemente privilegiata, avendo precedentemente avuto ruolo di capitale. Godeva infatti degli esiti del riformismo austriaco avviato dal 1713, in particolare delle ricadute territoriali dalla riforma del catasto teresiano; di un ridisegno complessivo al proprio interno, che le aveva dato una configurazione centrale neoclassica e una decisa qualità civile con forte accentuazione laica; possedeva molti edifici pubblici grazie anche al recupero di complessi religiosi, oggetto di espropriazione. Una Commissione d’ornato, che meravigliò Stendhal, aveva controllato il decoro urbano e proposto un piano dei rettifili nel 1807, per disegnare nuovi tracciati e ampliare strade esistenti nel nucleo antico. Era divenuta centro di cultura vivace, con istituzioni di prestigio. Dal punto di vista sociale vi era in corso da tempo, in un indolore e proficuo processo, il passaggio del governo dal ristretto ceto nobiliare, titolare per diritto di sangue della cosa pubblica, dapprima a un più largo patriziato di recente costituzione, teso a incrementare rapidamente i propri profitti tramite colture agricole nelle campagne circostanti, poi alla formazione sia di una classe borghese ampia e non più legata in toto alla rendita terriera, sia di un molto vasto ceto povero, che sarebbe presto diventato il popolo delle fabbriche. In generale si può ritenere che l’area lombarda e in particolare Milano vissero in forte continuità l’intero secolo, sotto il segno di una precoce attività imprenditoriale, di un prudente dinamismo sociale, di una programmatica attenzione ai vantaggi offerti dal progresso tecnologico in tutti i campi, compreso quello delle costruzioni, di una tutela della lunga storia artistica italiana sfociata nella disciplina del moderno restauro, persino di un’agile evoluzione dei linguaggi architettonici alla ricerca di quello che poteva essere identificato come nazionale di cui si fece corifeo Camillo Boito, in questa città. Per queste ragioni, già nei primi decenni post-unitari prese forma il mito di Milano capitale morale della nazione, città non tentata dall’ambizione di un primato istituzionale ma concentrata nell’impegno a formare una propria classe dirigente moderna, capace di coniugare in modo esemplare lavoro e progresso al ritmo dei passi segnati dalle altre nazioni europee, innanzitutto da Inghilterra e Francia. Nella giovane nazione italiana, continuamente prostrata da crisi politiche e economiche, furono indispensabili collegamenti rapidi con insediamenti vicini e lontani, innanzitutto in territorio lombardo, a incremento degli scambi commerciali. Con quello a nord era già connessa dal 1840, tramite una strada ferrata per Monza, di progetto italiano a
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Capitolo nono
Abitare in Lombardia tra xix e xxi secolo
Veduta generale della città di Como che ne coglie la collocazione geografica sull’estremità meridionale del ramo occidentale del lago omonimo, in una piccola conca circondata da boscose colline moreniche. Il centro si affaccia sul lungolago intorno alla piazza della cattedrale di origine medievale. Chiaramente leggibile nel nucleo antico il tracciato stradale dell’originario castrum romano, con mura medievali ben conservate e grandi torri di vedetta.
differenza della prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici, di progetto francese. Nei suoi primi anni, essa ebbe tre locomotive a vapore, denominate Milano, Lombardia, Lambro, di fabbricazione anglosassone. Occasione anche di svago domenicale, fu supportata, nel dicembre dello stesso 1840, da un collegamento diretto con piazza Duomo tramite il primo omnibus a cavalli. Al 1846 risale l’inaugurazione del tronco ferroviario Milano-Treviglio sulla linea Milano-Venezia, della Imperial Regia Privilegiata Strada Ferrata Ferdinandea Lombardo-Veneta; al 1850 l’apertura di una linea Milano-Como; al 1864 l’inaugurazione della prima Stazione centrale, in connessione con varie città del nord della penisola, collocata dove è oggi piazza della Repubblica. L’intervento molto impegnativo comportò la distruzione del recinto ospedaliero quattrocentesco del Lazzaretto e la lottizzazione della sua area, di cui resta oggi la chiesa. L’assetto dei primi approdi ferroviari in città, sia per stazioni passeggeri che per scali merci, fu oggetto di molte discussioni fino alla fine del secolo, preludio a importanti modifiche nel successivo. L’apertura del traforo del Fréjus verso la Francia nel 1871, soprattutto quello del S. Gottardo del 1882, verso Svizzera e Germania, avrebbero confermato la vocazione nazionale e internazionale di centro commerciale dell’area milanese, rafforzata all’inizio del Novecento con l’apertura del traforo del Sempione (1905), quando la rete ferroviaria lombarda, di quasi 2.000 chilometri, era ormai completata e inserita nel sistema nazionale a lunga distanza. Rilevante fu la costruzione dei ponti in ferro sopra fiumi e strade, occasioni per gli ingegneri d’invenzioni di strutture leggere, resistenti, stabili, economiche. I primi furono in lunghe travate orizzontali a tralicci su pile in muratura, talvolta a due piani. Dopo il 1880 venne affrontata la forma più elegante ad arco, nei due celebri ponti di Trezzo (1884), per la connessione di Trezzo con Como, e di Paderno d’Adda (1889) sull’omonimo fiume, per la connessione ferroviaria tra Ponte S. Pietro e Seregno. Nel 1861 l’area lombarda contava circa tre milioni di abitanti, 200.000 dei quali in Milano, 250.000 in tutti gli altri capoluoghi di provincia, il resto sparsi in piccoli borghi e in cascine. Milano passò a 262.000 in seguito all’annessione, nel 1873, del Comune dei Corpi Santi, anello di borghi attorno alle mura spagnole così denominato per le sue molte aree cimiteriali. Si è soliti suddividere in tre tempi l’emergere di Milano città industriale nel periodo del Regno d’Italia, dal 1861 allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914: furono più incerti i primi venti anni; di decollo quelli tra 1880
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L’arte rupestre camuna
I tre ponti sull’Adda a Lecco. In basso nella foto, i tre ponti che attraversano l’Adda. A destra è il Ponte in ferro del 1866 per la linea ferroviaria tra Lecco e Como. Poco dopo il Ponte Vecchio o di Azzone Visconti, più volte rimaneggiato ma risalente al xiv secolo, per l’accesso alla città. Nei pressi è visibile la piccola Isola Viscontea. Il terzo è il Ponte a larghe volate J.F. Kennedy, costruito nel 1956, come ulteriore accesso al centro urbano.
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Abitare in Lombardia tra xix e xxi secolo
Il ponte San Michele chiamato anche di Paderno sovrasta la gola profonda del fiume Adda, con il grande e unico arco in ferro sul quale appoggia la travatura per il traffico ferroviario e stradale. Capolavoro di tecnica ingegneristica, testimonianza imponente di archeologia industriale, concepito dall’ing. J. Röthlisberger (1851-1911), realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savignano nel 1887-89, è lungo 266 m. Più in alto e a sinistra nella foto, è visibile il canale Edison.
e 1900; caratterizzati, dal 1901 al 1914, da assunzione di ruolo guida nella nazione, in campo economico e finanziario, sancito ufficialmente con l’Esposizione internazionale del 1906, che occupò due aree centrali, quella che sarebbe poi divenuta parco Sempione e la nuova piazza d’Armi del Castello Sforzesco, poi sede storica della Fiera Campionaria, oggi di CityLife. Studi di archeologia industriale hanno identificato puntualmente il rapido insediarsi, entro le mura spagnole, di migliaia di botteghe, fabbriche, stabilimenti, non tutti neppure oggi smantellati bensì riconvertiti a usi in prevalenza commerciali, identificabili per le altezze ridotte, la serialità e l’ampio taglio delle finestre, oltre che per i sobri decori. Il fenomeno investì, sia pure in forma più blanda, molte città e aree di campagna del nord. Riguardò la lavorazione tessile – della seta nel comasco e nel bergamasco, della lana nell’alto milanese – e quella siderurgica nel bresciano, nel lecchese, nella Valassina, in presenza di energia idraulica. Caso eccezionale di archeologia industriale è il villaggio operaio di Crespi d’Adda, attivo nel settore cotoniero di area bergamasca, sorto a partire dal 1785 e oggi sito unesco. Alla volontà del suo committente, Cristoforo Benigno Crespi, si deve anche la realizzazione della altrettanto celebre Centrale idroelettrica di Crespi d’Adda, progettata da Gaetano Moretti, figura di professore e progettista liberty di spicco che realizzò qui un plastico e suggestivo volume rivestito in ceppo. Verso il 1890 l’apparato industriale di Milano si avviò a occupare dapprima aree della fascia esterna all’anello dei Navigli, poi altre a nord del perimetro comunale, avviando in questo modo una prima conurbazione e privilegiando sia l’asse per Sesto S. Giovanni – città che nel secondo dopoguerra sarebbe stata chiamata la Stalingrado d’Italia, per l’enorme concentrazione di fabbriche e popolazione operaia – sia quello per Brescia, passando da Bergamo. Nel 1911 in Lombardia si calcolavano 4,8 milioni di abitanti, il doppio di quelli del 1861, con massima concentrazione in Milano, ove erano 580.000. Il limite amministrativo della città inoltre non era più definito, come al momento dell’unificazione nazionale, dalle mura tardo cinquecentesche, che delimitavano la ciambella esterna alla cerchia dei Navigli in gran parte, allora, ancora occupata da orti e suddivisa in settori dalle radiali che penetravano fin quasi a piazza Duomo. Dal 1873 esso comprendeva infatti anche l’area dei Corpi Santi di cui già si è detto. Ma l’accerchiamento di mura e navigli all’interno esisteva ancora in gran parte, benché destinato a scomparire. Mentre lo smantellamento graduale delle mura era iniziato
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Il Villaggio operaio a Crespi d’Adda, ora frazione del comune di Capriate San Gervaso (Bg), si sviluppa in un’area pianeggiante situata poco sopra la confluenza del fiume Brembo nell’Adda. Collocato presso il cotonificio fondato qui da Cristoforo Benigno Crespi, il villaggio, costruito a partire dal 1878 secondo i principi paternalistici dell’industriale, è uno degli esempi europei più importanti e meglio conservati di villaggio operaio ottocentesco. Dal 1995 è parte dell’unesco.
poco dopo il 1880, la copertura quasi totale dei Navigli avvenne invece solo negli anni trenta del Novecento. Il centro città nel frattempo era stato profondamente ristrutturato. La trasformazione e il collegamento diretto di due aree – piazza del Duomo, con la Galleria coperta Vittorio Emanuele ii, e l’area del Castello Sforzesco – fecero del nucleo antico un grande cantiere sempre aperto fino ai primi anni del Novecento. Al processo contribuirono in modo determinante le direttive del piano regolatore dell’ingegnere municipale Cesare Beruto, che ampliò l’urbanizzazione all’area dei Corpi Santi, racchiudendola entro un anello viario – l’attuale viale delle Regioni –, e mettendo a disposizione del mercato edilizio molti lotti edificabili. Con il successivo piano regolatore, del 1912, i suoi successori negli uffici comunali, gli ingegneri Angelo Pavia e Giovanni Masera, confermarono la sua impostazione urbanistica allargandola a una nuova area ciambella, non completamente racchiusa, in questo caso, entro un anello stradale. Aspramente criticati fino agli anni ottanta del Novecento, i due piani sono oggi oggetto di più positive valutazioni perché espressivi di una concezione urbana moderatamente internazionale e matrici dell’ampia estensione della città compatta in Milano. Le traversie per la configurazione di piazza Duomo e della Galleria Vittorio Emanuele ii, in base al progetto del bolognese Giuseppe Mengoni, attuato tra 1865 e 1873, furono molte sia durante che dopo la sua realizzazione; la piazza in particolare fu ritenuta non soddisfacente dalla maggior parte dei milanesi. Risultò anche troppo lunga perché non venne mai costruito l’edificio che doveva chiuderla sul lato opposto alla facciata della cattedrale. L’insieme va considerato frutto di decisioni dell’amministrazione comunale, più che del progettista che, vincitore non del primo concorso ma del secondo su tutta l’area, deve essere ritenuto responsabile sostanzialmente della veste finale assunta dagli edifici perimetrali, un neo rinascimento pesante e poco originale, e dalla Galleria. La piazza, prima del suo intervento, aveva forma irregolare, era piuttosto piccola, dominata dal quattrocentesco Coperto dei Figini, portico di cui si rimpianse a lungo la demolizione. Dei precedenti, vari interventi contenuti nei progetti predisposti in epoca napoleonica, si era realizzata, infine, solo la demolizione dei fabbricati del cantiere della Veneranda Fabbrica della cattedrale, sostituite da un Palazzo di proprietà della stessa Fabbrica. Prima di modificare la piazza, Mengoni costruì l’impegnativa Galleria Vittorio Emanuele ii, con funzione di strada commerciale coperta, in meno di tre anni, tra inizio 1865
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Milano. Veduta generale di piazza xxiv Maggio e dell’area che circonda corso di Porta Ticinese, a sud del nucleo urbano antico. Al centro della piazza sta la neoclassica Porta Ticinese del 1802-14 con i caselli daziari, Porta Marengo in epoca napoleonica, opera di Luigi Canonica (1764-1844). A destra del corso si vedono la basilica di S.
Eustorgio, con l’alto campanile e i due chiostri (quello incompleto ospita il Museo Diocesano), e il retrostante Parco delle Basiliche o Parco Papa Giovanni Paolo ii, area verde liberata negli anni trenta del Novecento che collega S. Eustorgio con la basilica di S. Lorenzo.
e fine 1867. Molto ammirata in Italia e all’estero, essa divenne modello per tutte le gallerie coperte italiane, di Napoli, Roma e Genova. Preceduta in città dalla Galleria coperta de Cristoforis con la stessa funzione, imponente per dimensioni, fu costruita dall’impresa inglese City of Milan Improvement Company. La sua realizzazione dissanguò le casse municipali. A seguito di molte varianti, assunse tracciato planimetrico cruciforme con i quattro bracci coperti da volte a botte e l’incrocio a cupola, su base ottagonale, in ferro e vetro. La leggerezza e trasparenza della copertura venne fortemente contrastata dalla corposità delle murature portanti, ornate con stucchi. Terminata la Galleria, si procedette tra molte difficoltà anche finanziarie alla realizzazione della piazza della cattedrale; nel 1875 mancavano ancora i due archi di trionfo: su piazza Scala, aperta nel frattempo abbattendo le costruzioni che insistevano sul suo suolo, e su piazza Duomo. A questa data Mengoni, durante un sopralluogo, precipitò dai ponteggi dell’arco di fianco alla cattedrale perdendo la vita. Con questi interventi, una delle più caratteristiche e densamente abitate zone della città venne completamente cancellata, mentre la popolazione ivi residente fu sfrattata e respinta in periferia. Iniziava, per converso, la costruzione del celebre insieme di piazze milanesi attorno a piazza Duomo: Mercanti, Scala, S. Fedele, di Palazzo Reale, Fontana e più tardi Diaz, contesto scenografico presto reso più imponente dalla diretta connessione con il Castello Sforzesco tramite via Orefici e via Dante, intervallate dall’ellittica e eclettica piazza Cordusio. Si tentò anche, ma senza arrivare a esiti concreti, di mutare la facciata della cattedrale, che era stata imposta ai milanesi da Napoleone Bonaparte, con un concorso internazionale vinto dal giovane architetto Brentano nel 1888. Dopo di allora, il tessuto edilizio dell’area centrale venne investito da modificazioni viarie ed edilizie continuate fino al secondo dopoguerra, per essere gradualmente occupato da edifici con prevalente funzione direzionale. A lavori per piazza Duomo quasi conclusi, nel 1877 si cominciò a discutere sul destino del Castello e della sua piazza d’Armi. Per meglio comprendere qualità e importanza, della sua connessione con piazza Duomo, è necessario dare qualche informazione sui caratteri del piano Beruto, di lunga gestazione tra 1884 e 1889, voluto dall’amministrazione milanese per contrastare le enormi pressioni di private società immobiliari. Oltre a prevedere la prosecuzione della rettifica delle strade centrali della città in corso ormai da anni, il piano ne regolava l’espansione nei Corpi Santi, dove vigeva solo un rego-
lamento edilizio, in forma di ciambella a larghezza variabile. Il suolo venne strutturato in lotti, definiti dalla maglia regolare a scacchiera delle strade intervallate da piazze, e dal prolungamento delle radiali intra muros che vennero anche fatte sfociare, per quanto era possibile, in piazza Duomo. Nell’espansione a nord-ovest, il piano abbracciò l’area del Castello che, tramite completo abbattimento dei bastioni cinquecenteschi, mutò rilevanza divenendo a tutti gli effetti componente del centro urbano, non più zona di confine. La piazza d’Armi venne spostata più a nord, a fianco del preesistente corso Sempione e in posizione speculare rispetto al recente Cimitero monumentale, liberando un’area più tardi occupata dal parco pubblico, progettato dall’Alemagna nel 1893, oggi parco Sempione. Il neoclassico Arco della Pace venne pertanto a trovarsi al centro di un rond point, sul modello del più imponente Arc du Triomphe che concludeva, a Parigi, i Champs Elysées. Esso divenne inoltre punto di fuga mediano tra il parco stesso e l’infilata del corso Sempione. Si attuava così una doppia polarità nella struttura fortemente monocentrica della Milano antica preannunciata, con forti intenti giacobini, dal celebre progetto del bolognese Antonio Antolini del 1801, concepito come omaggio a Napoleone. Nei confronti del tracciato di quest’ultimo è debitore il semicerchio di residenze alto borghesi di Foro Bonaparte, rivolto verso il Castello. Si procedette quindi a dar consistenza edilizia al tracciato di via Orefici e via Dante, quest'ultima breve ma imponente boulevard commerciale e residenziale milanese, che fece perno su piazza Cordusio destinata a ospitare, come la costituenda piazza Diaz a fianco di piazza del Duomo, importanti edifici con funzione finanziaria. La connessione tra piazza Cordusio e Castello fu magistralmente completata dall’invenzione della Torre del Filarete, opera di Luca Beltrami, protagonista di una tenace campagna per la conservazione del Castello che restituì restaurato alla città. Dal 1900 divenne sede dei Musei Civici milanesi. A Beltrami si devono anche molti monumentali palazzi nel centro: quello della Banca commerciale italiana (1906-08), in piazza Scala; delle Assicurazioni Generali (1897-1901), in piazza Cordusio; quello per la Società delle Belle Arti ed Esposizione Permanente (1886) in via Turati. Con la trasformazione del centro, qui solo in parte tratteggiata, si era messo in moto il suo processo di terziarizzazione accompagnato da generale addensamento, tramite sopralzi, riduzioni a cavedi di cortili interni, cancellazione di giardini. Inoltre, insieme alla scomparsa di importanti complessi antichi, si realizzarono molte nuove facciate di edifici che ne
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Milano. Veduta d’insieme della Galleria Vittorio Emanuele ii, con individuazione dei passaggi coperti con strutture in ferro e vetro e i corposi volumi edilizi che la delimitano formando anche corti interne. Costruita su progetto e sotto la direzione dell’arch. bolognese Giuseppe Mengoni (1829-77), ha due bracci lunghi che sfociano in piazza Duomo e in piazza della Scala, e due più corti, uno, quello qui visibile, aperto su via Silvio Pellico, l’altro su via Ugo Foscolo.
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erano rimasti privi o che si trovarono in questa condizione per distruzioni al contorno. Questo secondo è il celebre caso dell’attuale facciata principale di Palazzo Marino su piazza Scala, di progetto di Luca Beltrami che la volle in forme identiche a quelle del prospetto su piazza S. Fedele. Completamenti o modifiche di facciate con ulteriori restauri furono realizzati in molte chiese, da quella di S. Marco, della Madonna del Carmine, di S. Eustorgio, fino a S. Eufemia, S. Maria presso S. Satiro, S. Simpliciano, S. Celso, S. Babila, S. Sepolcro, in una stagione conservativa della quale non si finisce mai di discutere, per il suo carattere, fondante e insieme altamente problematico, del moderno restauro italiano. Figura di spicco non solo nel campo del restauro, influente docente di Brera e del Politecnico, cultore di vasti interessi, attento critico del rapporto tra arte e industria, antenato del glorioso design italiano, fu Camillo Boito. Nei suoi progetti lombardi di nuova architettura – le milanesi Scuole elementari di via Galvani (1888) e la Casa di Riposo dei Musicisti “G. Verdi” (1899); in Gallarate, il cimitero (dal 1865) e l’Ospedale (1869-71) – manifestò capacità di prefigurare essenzialità di forme e attenzioni funzionali premoderne, pur restando nell’alveo di un generale eclettismo, tra neo-medievalismo e neo-rinascimento, creativamente interpretato. Non è qui possibile descrivere le molte realizzazioni a carattere infrastrutturale e di adeguamento alle esigenze di una città, ormai grande, che l’amministrazione milanese affrontò, anche con il sostegno finanziario di privati, come: il Macello (1861-33); il Cimitero Monumentale (iniziato nel 1863, su progetto di Maciachini) con il Famedio prospettante in facciata, pantheon dei milanesi illustri; il Politecnico di Milano, prima università milanese (1863); il Carcere di S. Vittore (iniziato nel 1871); il Teatro dal Verme (1871) e la successiva rete di teatri; i vari mercati urbani. A questi occorre aggiungere i caselli daziari, i Musei in città, i luoghi di assistenza, le scuole e gli innumerevoli monumenti che ornarono le piazze, in molti casi, soprattutto nel piano Pavia Masera, grandi e ricche di alberi pregiati. Venne realizzata anche la rete tecnica urbana di fognature, elettricità, servizio d’acqua potabile, con perfetta corrispondenza con la rete che caratterizzava ogni edificio. Macchine per abitare erano davvero divenute la casa e la città, dal funzionamento dettagliatamente proposto in manuali e cataloghi concepiti e illustrati da professori del Politecnico a salvaguardia di igiene, salute e benessere pubblico. In tutta la Lombardia, soprattutto a ornamento di residenze urbane o di campagna, si diffuse all’inizio del Novecento il
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Milano. Braccio corto della Galleria Vittorio Emanuele ii con sbocco su via Ugo Foscolo.
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Milano. Galleria Vittorio Emanuele ii, vista in corrispondenza dello sbocco su piazza della Scala, tramite un Arco trionfale meno imponente ma delle stesse dimensioni di quello prospettante su piazza Duomo. Ortogonale all’Arco, sulla sinistra, è Palazzo Marino.
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Il centro di Milano: ben leggibile il tracciato di vie e piazze realizzato tra Ottocento e Novecento per connettere piazza Duomo con il Castello Sforzesco, dietro al quale, immediatamente dopo il parco Sempione, emerge l’Arco della Pace e l’inizio di corso Sempione in direzione nord-est, verso Parigi. Salendo con l’occhio dal basso, dopo piazza Duomo si trovano: la Galleria Vittorio Emanuele ii, piazza S. Fedele, piazza della Scala e il lungo asse rettilineo trasversale di via Manzoni. I molti volumi consistenti e dalle geometrie essenziali del centro, tutti allineati su strada, restituiscono con molta evidenza l’imponenza delle trasformazioni viarie ed edilizie perseguite tra seconda metà dell’Ottocento e prima metà del Novecento. Pagine seguenti Milano. L’ellisse planimetrica di piazza Cordusio, aperta da sei assi viari. In basso via Dante sbocca in uno slargo sulla piazza; in alto via Orefici e via Mercanti racchiudono l’isolato che comprende al proprio interno piazza Mercanti con il Palazzo della Ragione, mentre sul lato verso piazza si erge il Palazzo delle Assicurazioni Generali del 1901, di Luca Beltrami (1854-1933). A sinistra di via Mercanti, via Tommaso Grossi porta verso la Galleria Vittorio Emanuele ii. Milano. Tratto del lungo asse viario e monumentale otto-novecentesco, presente con maggior sviluppo anche nella foto a p. 254, che connette idealmente piazza Cordusio/via Dante con corso Sempione dando luogo a sequenze prospettiche potentemente strutturanti l’area urbana circostante.
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Pagine precedenti Milano. Veduta dell’area del Castello Sforzesco, con l’invenzione della Torre del Filarete di Luca Beltrami, inaugurata nel 1905. Il Castello risulta quasi completamente abbracciato dal semianello degli isolati di Foro Bonaparte. A sinistra nella foto, è il Parco Sempione, realizzato su progetto di Emilio Alemagna nel 1893. In fondo a destra, i recentissimi grattacieli della zona di Porta Nuova.
A fronte Milano. Il Cimitero Monumentale, in un’area urbana oggi centrale, è costruzione civile di grande importanza nella storia milanese della seconda metà dell’Ottocento. Progettato dall’arch. Carlo Maciachini (1818-99), iniziato nel 1864 e aperto nel 1866, è ritenuto anche un vero museo all’aperto per la presenza di molte opere d’arte.
liberty, variante dell’europeo art nouveau ritenuto momento stilistico di snodo tra eclettismo e razionalismo. Limitato quasi del tutto in Italia a formule di decoro urbano, esso ebbe in Milano gli esempi più dirompenti in due edifici di Giuseppe Sommaruga: Palazzo Castiglioni (1900-03), in corso Venezia, suo capolavoro nella facciata di esuberante e plastica matericità; Villa Faccanoni (1912-14) oggi Clinica Columbus in via Buonarroti. Interpreti di vaglia del liberty furono anche Gaetano Moretti e Alfredo Campanini. Di notevole interesse – per l’uso di decori esterni in sfavillante ceramica colorata, cemento artistico, pietre artificiali, fastosi disegni in ferro battuto – è il gruppo di edifici liberty tra Porta Venezia, il corso omonimo e l’area di corso Indipendenza. Verso la fine del secolo, infine, esplose a livelli di gravità preoccupante il problema abitativo della folla di poveri respinti ai margini della città. Nel 1891 venne fondata l’Umanitaria, istituzione finanziata da un lascito privato, che si occupò della grave indigenza di strati popolari sempre più ampi promuovendo indagini conoscitive e azioni filantropiche. Venne in soccorso a livello nazionale la legge Luzzatti del 1903, fondata su provvedimenti di natura creditizia e fiscale per promuovere la costruzione di case popolari, di cui poterono godere enti pubblici e privati, cooperative e società di beneficenza. «Popolo per noi, perciò diciamo case popolari e non operaie – affermò lo stesso Luzzatti in un discorso alla Camera del 1902 – sono i proletari i quali vivono di magri salari, in quartieri luridi […] è popolo per noi anche l’artigiano che sta poco meglio di questi suoi infelici compagni. È popolo i piccoli coloni, i piccoli proprietari rurali, i piccoli fabbricanti, è popolo l’infelice funzionario delle pubbliche amministrazioni. Ed è popolo l’operaio del pensiero […] comincia questo con il maestro di scuola […]». Una variegata folla di persone viveva in tuguri e in miseria. Le prime realizzazioni in Milano di insediamenti popolari, tra 1905 e 1910 – nelle vie Ripamonti (1905-06), Mac Mahon (1907-09), Spaventa (1909), Tibaldi (1910) e in coerenza con il tracciato dei lotti individuato dal piano regolatore – ebbero carattere sperimentale e comportarono la costruzione sia di blocchi edilizi chiusi con corte interna sia di padiglioni o villini isolati. Nel 1908 il comune di Milano, in linea con un procedimento scattato a livello nazionale per ragioni d’ordine e risposta razionale alle urgenze sociali, fondò l’azienda denominata Istituto autonomo Case Popolari (iacp), al quale venne demandato il compito di dar avvio immediato ad altri quartieri. Capoufficio dell’Istituto e protagonista fino al 1934
della forma e composizione di questi complessi fu Giovanni Broglio, autore delle prime elaborazioni che distinguevano tra abitazioni popolari in affitto, abitazioni per piccoli ceti medi destinate a futura cessione in proprietà, case ultrapopolari per poverissimi. Entro il 1914 vennero realizzati in Milano quattro quartieri – lungo le vie Lulli, Lombardia, Cialdini, Niguarda – mentre si diffondevano le idee di matrice inglese della città giardino tuttavia di scarsa fortuna. Poco a nord della città venne ideato nel 1906 il Milanino, città giardino promossa dalla Cooperativa di L. Buffoli con progetto dell’ing. G. Ferrini. La sua costruzione, iniziata nel 1912, procedette però faticosamente fino alla seconda guerra mondiale.
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Crescita urbana e pluralità di orientamenti in architettura tra le due guerre Non è stato facile, nel periodo che ci sta immediatamente alle spalle, esprimere equilibrate valutazioni sull’architettura italiana realizzata dopo la fine della prima guerra mondiale, tra gli anni venti e quaranta del Novecento dominati politicamente dal fascismo. Le vicende italiane infatti impedirono l’identificazione tra Movimento moderno e democrazia, altrove celebrata, lacerando a lungo coscienze, contesto professionale e comprensione delle intrinseche qualità di molte architetture e disegni di città. D’altro canto, quanto in quegli anni si costruì fu, per molti aspetti, base imprescindibile degli sviluppi nella seconda metà del Novecento. In primo luogo in essi si definì e si consolidò la figura dell’architetto integrale nettamente distinto dall’ingegnere civile, umanista e scienziato dotato di cultura storica, di sensibilità artistica e di conoscenze tecniche secondo il dettato del suo promotore, l’ing. Gustavo Giovannoni. Per la sua formazione a Roma venne istituita una Scuola Superiore di Architettura, nel 1920, con programma specifico ripreso in tutte le Facoltà di Architettura nazionali; a Milano essa venne avviata, entro il Politecnico, nel 1933. Circolava inoltre da tempo nella penisola, in riviste e per contatti diretti in viaggi o soggiorni all’estero di architetti e ingegneri, quanto avveniva nel resto d’Europa, sia sul piano della rottura definitiva di espressioni architettoniche secondo linguaggi di matrice storica, sia a proposito dei materiali costruttivi e delle innovazioni tipologiche in campo edilizio, sia a riguardo dell’esigenza di una scienza urbana in grado di subordinare la crescita, ovunque impetuosa delle città, a esigenze di equità sociale. L’attivazione nel 1930 dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (inu) sancì l’emergere per l’architetto anche della componente di urbanista alla ricerca, in via sperimentale, di una nuova scienza non priva di intenti
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estetici. Incarichi per nuovi progetti, per restauri, per riassetti di brani di città, per piani regolatori, questi ultimi in base a concorsi, non mancarono ai nuovi professionisti. La loro cultura si espresse, in concreto, in modi intrinsecamente connessi alle specifiche situazioni locali con l’attenzione allo stesso tempo a individuare modelli di intervento di intrinseca validità, per trasporre nei centri minori quanto si elaborava in quelli maggiori. Tuttavia il peso di Roma, della sua gestione dell’intero paese secondo un forte controllo ideologico, si fece sentire dappertutto. In Lombardia emersero ovunque evidenti compromessi fra retorica celebrativa ed esigenze di razionale modernità di respiro europeo, acutizzati dal dilemma intrinseco alla volontà di incidere con immagini dotate di eminenza pubblica negli antichi centri urbani, rispettandone tuttavia i valori storici in essi stratificati. Si restò in ogni caso ben lontani dagli esiti parossistici raggiunti nella capitale. In generale si optò per un carattere duraturo delle costruzioni, per l’attenzione alle loro finiture esterne, per una edificazione intensiva. Si incentivarono le opere pubbliche sia per servizi come poste, tribunali, questure e prefetture, case del fascio e del balilla, complessi sportivi, scuole, colonie elioterapiche, ospedali e ospedali psichiatrici o manicomi, sanatori, sia per l’incremento di strade e ferrovie. Si definirono funzioni specifiche delle città piccole e di media grandezza e si intervenne nel mondo agricolo con bonifiche e modifiche di colture. Il coordinamento tra gli interventi in città e quelli sul territorio si scontrò spesso con le scarse capacità d’azione delle amministrazioni comunali e provinciali. Il ritorno alla normalità del lavoro, dopo la prima guerra mondiale e nell’instabile situazione politica della penisola, fu rapido in area lombarda grazie anche al sistema di reti, di strade e ferrovie, a collegamento di città grandi e piccole già messo a punto e in continuo aggiornamento. In particolare le due autostrade di Milano-Bergamo-Brescia, conclusa nel 1930, e di Milano-Torino, del 1932, potenziarono, insieme a quella di Padova-Venezia, del 1930-32, lo sviluppo industriale e la generale modernizzazione del nord della penisola. Tra le città di media grandezza a nord del capoluogo lombardo, subito trascinate nel suo dinamismo industriale a differenza di quelle più statiche del sud della regione, Bergamo e Brescia vennero investite da modifiche urbane importanti, messe a punto dal romano Marcello Piacentini. Nella prima città l’amministrazione si orientò a lasciare intatto l’antico centro, oggi chiamato Bergamo Alta, sottoposto a piano conservativo redatto dall’ing. Luigi Angelini nel 1934, e
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a intervenire con un concorso che desse luogo a una parte bassa di città, ai piedi della prima, nell’area della settecentesca grande Fiera locale, affiancata da un seicentesco storico viale lastricato in salita, detto Sentierone, tuttora esistente. Il concorso nazionale del 1907 venne vinto dal giovane Piacentini con l’ing. Giuseppe Quaroni, propose un disegno a strade regolari e grandi piazze. A realizzare gli edifici importanti, per poste, banche e sede del comune, vennero chiamati i principali progettisti locali, fra i quali Virginio Muzio, autore in città alta anche della bella Villa Leidi come propria residenza, e Luigi Angelini. Di Piacentini sono il Palazzo di Giustizia, la Torre dei caduti, e varie banche. Alziro Bergonzo, nel 1937-34, costruì il Palazzo del Littorio. La città bassa, che avrebbe inglobato nel 1927 i molti borghi circostanti, venne abitata da un ceto medio alto. A Brescia invece, dove nel 1927 venne affidato a Piacentini il piano regolatore della città, secondo un modello comportamentale che sarebbe stato ripreso in molte altre città italiane, egli realizzò nel centro, nell’area compresa tra le storiche piazze del Duomo, del Mercato e della Loggia, dopo ampia campagna di demolizioni, una grande piazza della Vittoria, celebrativa del potere politico mussoliniano nell’Arengario e nelle robuste torri, valorizzatrice inoltre del capitale finanziario locale negli edifici per banche, compagnie di assicurazione, alberghi. Molti furono anche a Brescia gli edifici di Piacentini, per lo più solidi ed essenziali volumi. Analogo a quello di Brescia fu l’iter di realizzazione della piazza Monte Grappa in Varese, città media ricca di ville con parchi e giardini, seconde residenze di industriali milanesi costruite tra xvii e xx secolo. Nella monumentale piazza aperta nel centro città domina ancora oggi il Palazzo Littorio dell’architetto Mario Loreti, con svettante torre d’angolo ripresa in forme del tutto simili nella torre d’ingresso del locale Ospedale psichiatrico, nel 1933-37, dagli ingegneri Bianchi e Coltrio. Como fu invece in questi stessi anni il cuore pulsante di una modernità razionalista, di respiro europeo e insieme di fede fascista, espressa da un gruppo di architetti e artisti, legati all’entusiasmo di Pagano e Persico, attivi in «Casabella», e di Pier Maria Bardi e Massimo Bontempelli, direttori di «Quadrante». Di rilevanza internazionale, ancora oggi vive, furono le loro scelte. In una Como ricca di memorie medievali e in forte crescita al di fuori del quadrilatero delle mura, Giuseppe Terragni, Cesare Cattaneo e Pietro Lingeri discussero insieme di una sua forma urbis di qualità razionale. Terragni e Cattaneo, morti appena quarantenni, lasciarono un ampio patrimonio di costruzioni esemplari. Del primo devono essere ricordati innanzitutto le due ar-
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Brescia. Piazza della Vittoria. Insieme a strade di raccordo e a parti importanti del contesto circostante, venne realizzata su progetto dell’arch. romano Marcello Piacentini (1881-1960), a seguito di un concorso vinto nel 1927 e tramite sventramento di due fittissimi quartieri popolari. Ha forma planimetrica a L, offre un insieme di volumi possenti e nitidi, spogliati dai forti simboli mussoliniani
che li ornavano. Emergono: il possente torrione ex ina (Istituto Nazionale delle Assicurazioni); Il Palazzo delle Poste con finitura bicromatica in bianco e giallo ocra delle superfici; l’Arengario in pietra rossa di Tolmezzo con la Torre della Rivoluzione, dotata di orologio; edifici con arcate a serliana e colonne doriche.
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Brescia. Piazza della Vittoria e le altre piazze. Il centro città è caratterizzato dalla connessione eccezionalmente efficace di più piazze di epoche diverse: da piazza Duomo, ora piazza Paolo vi, alla veneziana e aristocratica piazza della Loggia, alla settecentesca piazza del Mercato, a piazza Vittoria del Novecento.
chitetture comasche simbolo della modernità italiana: il Palazzo di appartamenti in affitto, in origine intensamente colorato, chiamato Novocomum (1927-29) col robusto cilindro d’angolo; la ex Casa del Fascio (1932-36), affacciata su piazza del Popolo nei pressi della cattedrale, oggi proprietà dello stato. Sue realizzazioni sono anche: l’Asilo Sant’Elia (1936-37), a Como; Villa Bianca a Seveso (193637); la ex Casa del Fascio a Lissone (1938-40). Sono del secondo: la Fontana monumentale in piazza Camerlata a Como, presentata con l’artista Mario Radice alla vi Triennale del 1936, ma pensata per la piazza dove fu collocata solo nel 1962; Casa Cattaneo a Cernobbio (1938-39), affacciata sulla via Regina e oggi sede dell’Archivio Cattaneo; la Sede dell’Unione Fascista dei Lavoratori dell’industria (1938-66) in Como, a ridosso della casa del Fascio, progettata con Lingeri che ne seguì la realizzazione. Di quest’ultimo, infine, sono molte ville tra le quali tre case per artisti, con chiari influssi corbusiani, a Ossuccio sull’isola Comacina. In Milano videro la luce, nel giro di pochi anni e all’interno delle direttive dei piani regolatori, architetture di grande qualità e destinazioni diverse, in linguaggi ora orientati a meditate e originali interpretazioni della tradizione storicista, ora decisamente razionalisti, ora rispondenti alle esigenze della retorica mussoliniana. Della prima tendenza furono espressione molte opere di Giovanni Muzio, capofila della corrente del Novecento attento alla modulazione urbana delle proprie idee, come: la Ca’ Brutta (1919-23) in via Turati; il Palazzo della Triennale affacciato su parco Sempione per esposizioni (1933); l’Università Cattolica del Sacro Cuore con i suoi collegi (1927-34), presso la basilica di S. Ambrogio; la ristrutturazione del Convento di S. Angelo e la costruzione del Centro dell’Angelicum (1939-58) in piazza S. Angelo, e altri ancora. Meno severa, più gradevolmente ornamentale è l’architettura classicista del primo Gio Ponti, autore di molte case d’abitazione e palazzi per uffici in Milano tra le due guerre, in cui si mostrò sensibile a influssi del secessionismo viennese nella raffinatezza delle rifiniture superficiali. Di lui meritano di essere qui ricordati, insieme alla Torre Littoria poi Branca al parco Sempione, del 1934, il primo Palazzo Montecatini (1935-38) all’angolo tra via Moscova e via Turati (altri due se ne sarebbero aggiunti nel secondo dopoguerra); la straordinaria casa per appartamenti Rasini (1932-35), con Emilio Lancia, in corso Venezia a fianco dell’ingresso ai Giardini Pubblici; le molte Domus tipiche e il Palazzo eiar (poi rai) del 1939, in corso Sempione. Singolare, non classificabile in termini tradizionali per ri-
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Varese. Piazza Monte Grappa, nodo di convergenza di molte strade, realizzata a seguito di concorso nazionale del 1927, anno in cui Varese divenne capoluogo di provincia, vinto dall’arch. Mario Loreti, autore dei progetti degli edifici che su di essa si affacciano, compresa l’alta Torre Littoria o Torre Civica. La costruzione della piazza comportò lo sventramento dell’area adiacente alla basilica di S. Vittore, qui visibile.
cerca di estrosità, Palazzo Fidia in via Mozart, del 1929-32, è capolavoro dell’architetto mantovano Aldo Andreani, autore di altre interessanti costruzioni vicine. Nella stessa zona, in particolare, vi è la raffinata Villa Necchi Campiglio (1932-35), di Piero Portaluppi, con giardini, piscina e campo da tennis, di un gusto decò cui si mescolano motivi novecento e razionalisti, oggi Casa Museo. Numerosi i palazzi di impronta mussoliniana. Lo è innanzitutto l’Arengario, del 1937-42, di Portaluppi con altri, in piazza Duomo, costituito da due corpi di fabbrica quasi identici, uno dei quali oggi occupato dal Museo del Novecento, monumentale soglia di passaggio all’adiacente piazza Diaz, composta in nudi volumi rivestiti con marmo di Candoglia e ritmati da grandi archi a tutto sesto. Lo sono lo scuro Palazzo dei Sindacati fascisti dell’Industria, del 1932, poi della Camera Confederale del lavoro, in corso di Porta Vittoria, del gruppo guidato da Antonio Carminati; la Casa del Fascio della Federazione fascista provinciale in piazza S. Sepolcro e molti altri edifici, di tono meno altisonante, come scuole, piscine (di grande interesse quelle di Luigi Secchi), caserme, l’Ospedale di Niguarda in piazza omonima, del 1927-31, dell’ing. Giulio Marcovigi con la chiesa di Giulio Arata. L’edificio, bollato come il più mussoliniano, resta comunque il mastodontico Palazzo di Giustizia, di Piacentini, in corso di Porta Vittoria, costruito tra 1929 e 1947 in forma di cubo di marmo su base trapezoidale, con imponente scala d’accesso a un atrio solenne. Fatto oggetto di molti ampliamenti e adattamenti interni, ormai non più adeguato all’amministrazione della giustizia, in attesa di una dismissione di cui si parla da tempo, lo si ricorda oggi, dopo le virulente polemiche di cui fu fatto oggetto negli anni cinquanta-sessanta, per il grande insieme di opere dei migliori artisti del momento in esso raccolte: da Melotti a Vigni, Selva, Romanelli, Martini, Carrà, Sironi e altri. Non si possono dimenticare, tra gli edifici eclettici, il Palazzo della Borsa in piazza Affari, di Paolo Mezzanotte, del 1928-31, e la Stazione Centrale di Milano del 1930-31 di Ulisse Stacchini, il cui volume di testa, ricco di sculture e rivestito in pietra di Aurisina è ritenuto di stile liberty e assiro-babilonese. Spettacolari vennero considerate, al tempo della loro costruzione, le cinque tettoie arcuate in ferro e vetro sulla linea dei binari. Il breve e incompleto excursus fin qui tracciato manca ancora delle non poche realizzazioni razionaliste. Lo sono: la Villa (1933-35) progettata da Figini come propria residenza al Villaggio dei Giornalisti; Casa Feltrinelli (1934-37) di Alberico e Ludovico Barbiano di Belgiojoso; l’Università
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Como. La celebre Casa del Fascio di Giuseppe Terragni (190443) venne da lui progettata tra 1928 e 1932 e realizzata tra 1933 e 1936, sul fondo di un lotto rettangolare che lasciava libera la porzione antistante per dar luogo a piazza del Popolo. Il nudo volume prismatico rivestito in marmo bianco ha pianta quadrata,
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occupata al centro da un vasto salone a doppia altezza, illuminato dall’alto tramite copertura piana in mattonelle di vetrocemento. Originariamente esterno e interno avrebbero dovuto essere decorati da pannelli con soggetti astratti e di propaganda. Dal 1957 l’edificio è sede del Comando Provinciale di Como della Guardia di Finanza.
Pagine seguenti Milano. Palazzo dell’Arte, sede della Triennale. Opera dell’arch. Giovanni Muzio (1893-1982), il Palazzo dell’Arte, all’interno del parco Sempione e lungo il suo bordo sinuoso confinante con lo scalo ferroviario delle linee Nord, si affaccia su viale Alemagna, lungo una direttrice che collega il centro città con la viabilità
diretta a nord-ovest. Costruito nel 1931-33, ha struttura portante in cemento armato, murature in laterizio, copertura a terrazza e a shed. L’impianto rettangolare è mosso dai due corpi emergenti nei lati lunghi, per l’ingresso su viale Alemagna e per il portico sul parco. Una curva molto pronunciata definisce il lato corto che ospita il teatro e la galleria.
Bocconi (1937-41), progettata da Mario Pagano; infine, di Terragni e Lingeri, cinque importanti edifici residenziali dette Case: Rustici (1933-36) in corso Sempione, Ghiringhelli (1933-35) in piazzale Lagosta, Lavezzari (1934-64) in piazza Morbegno, Toninello (1933-35) in via Perasto, e Comolli Rustici (1934-38) in via Pepe. Tema razionale per eccellenza cui la Triennale diede grande attenzione, affrontato in chiave economica, di invenzione tipologica e di morfologia innovativa, la casa nei quartieri popolari fu il tema chiave di quella che Pagano chiamò la “città del razionalismo”, vale a dire l’ampia corona di territorio urbano attorno al centro che, nel 1923, si era ulteriormente allargata con l’annessione, entro i confini amministrativi, degli undici piccoli comuni o frazioni comunali di Ronchetto, Lorenteggio, Baggio, Trenno, Musocco, Affori, Niguarda, Greco, Crescenzago, Lambrate, Vigentino, Chiaravalle. Dopo la lunga stagione di progetti di quartieri popolari guidata da Broglio, in questi anni irruppero sulla scena con nuovi modelli i giovani razionalisti, in primis Albini, Bottoni, Camus, Palanti. Portavano i principi, su standard e casa minima, elaborati nei Congressi Internazionali di Architettura Moderna (ciam) e il fresco ricordo del quartiere modello del 1927, al Weissenhof di Stoccarda. Li misero in gioco nel 1932, lavorando alla definizione di planimetrie di alloggi di taglio minimo, tra i 25 e i 55 mq, per il quartiere San Siro. Si chiama così oggi un quartiere molto ampio, il più grande realizzato in Milano prima della seconda guerra mondiale su una superficie di 240.000 mq, composto da più settori, con edifici non tutti contemporanei ma costruiti tra 1932 e 1952, nella periferia nord-ovest della città. Qui, nel settore S. Siro Milite Ignoto, i giovani appena nominati, vinto il concorso del 1932, realizzarono fabbricati a corpo semplice in linea, distanziati da limitate aree a verde, con struttura a telaio in cemento armato, setti portanti in muratura tradizionale, copertura piana. Scarsi i servizi. Fu l’avvio di una ricerca perfezionata, nel 1935-38, nel quartiere Fabio Filzi (in via Birago, viale Argonne, via Illirico), ritenuto la più significativa realizzazione del razionalismo italiano, per le case popolari, nel periodo tra le due guerre: all’interno del lotto, eliminata ogni preoccupazione di simmetria a favore delle esigenze di aria, luce e igiene, i corpi edilizi allungati, di tre o quattro piani ognuno con tre alloggi per piano, vennero disposti in allineamento secondo l’asse eliotermico, da nord a sud. Dopo la seconda guerra mondiale si sarebbero del tutto abbandonati rigidezza e minimalismo ivi espressi che fu-
rono, però, matrice nel 1938 del celebre piano regolatore per un ampio settore urbano, a fianco di corso Sempione, del tutto astratto da nessi concreti e pertanto più schema che progetto, denominato “Milano verde” e firmato da Albini, Gardella, Minoletti, Pagano, Palanti, Predavan, Morano. Propose l’immagine di un’assoluta e silenziosa perfezione formale, che intendeva affermare le ragioni della casa per tutti. Dal secondo dopoguerra alla fine del secolo Gli anni quaranta del secolo, cruciali nell’intera nazione italiana per il cambiamento del regime politico, furono di centrale importanza per la storia urbana e d’architettura di Milano e delle città grandi e piccole di Lombardia, pronte al rapido decollo, economico e sociale, che avrebbe portato l’intera regione in posizione avanzata rispetto al resto del paese. Nel 1942 era stata approvata la prima legge organica di urbanistica nazionale, che rendeva del tutto superato il milanese piano Albertini del 1934, di esecuzione contraddittoria, legge che esigeva la riorganizzazione di tutti i territori comunali secondo criteri funzionali di zonizzazione. Il dinamismo dell’area lombarda avrebbe potuto trovare nelle nuove regole lo strumento per un’equilibrata regolazione delle trasformazioni, rese urgenti dalle necessità sociali rimaste compresse nel periodo precedente. La crescita impetuosa e caotica della popolazione, iniziata immediatamente a valle dell’emergenza ricostruttiva e durata senza interruzioni fino agli anni settanta, stimolata dallo sviluppo industriale causa di flussi migratori continui sia da sud che da est della penisola, travolse invece in gran parte l’efficacia della pianificazione, applicata alle sole città, facendone inoltre esplodere i limiti di astrazione e rigidezza. Pur tra difficoltà, tuttavia, nel generale boom economico emersero, in Milano e in molte altre città lombarde, forme dell’abitare rispondenti a un democratico e allargato innalzamento della qualità della vita. Nel 1974 Milano raggiunse il picco di 1,74 milioni di abitanti. Iniziò allora un contraddittorio processo di riassetto del progresso economico, mentre la città assumeva dimensione metropolitana. Nel frattempo l’istituzione dell’ente Regione Lombardia nel 1970, con ruoli importanti per la gestione del territorio, mise in moto un’attenzione all’intera realtà territoriale regionale che, seppur gradualmente, mirò comunque a una pianificazione coordinata in tutto il proprio ambito, oltre che non esclusivamente orientata a favorire la crescita urbana. Da allora prese avvio l’elaborazione, in un sistema regionale integrato, di aree verdi protette e di zone a parco, a nord e a sud di Milano, per
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Milano. Del progetto del Palazzo di Giustizia di Milano ebbe incarico diretto l’arch. Marcello Piacentini (1881-1960) per mano del podestà Marcello Visconti di Modrone, nel 1931. Esso venne subito approvato perché ritenuto grandioso e razionale. Poiché per realizzarlo occorreva uno spazio urbano adeguato per dimensioni e con strade di facile percorrenza, si dovette sventrare
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una larga porzione di edificati della zona. I lavori, iniziati nel 1932, terminarono soltanto nel 1940. Tre sono le sezioni interne: la corte d’Appello affacciata sul corso di porta Vittoria, il Tribunale prospettante su via Manara e via Freguglia, la Pretura su via S. Barnaba. Autonome nelle loro attività, esse risultano collegate all'interno tramite gallerie che attraversano l’edificio.
Milano. Stazione centrale. Affacciata su piazza Duca d’Aosta e terminale prospettico dell’asse Vittor Pisani delimitato da alte ‘palazzate’ porticate che parte da piazza della Repubblica, la stazione centrale, di testa, venne inaugurata nel 1931 dopo un lungo iter di concorsi. È composta da due corpi principali: l’imponente blocco in muratura oggetto nel 2005 di un importante
restauro, rivestito in pietra di travertino, con vasta Galleria delle carrozze sovrastata da cavalli alati, simboli del progresso guidato da volontà e intelligenza; la tettoia in ferro e vetro composta da cinque volte, lunga 341 m, a copertura di 24 binari. In uno stile liberty in cui si mescolano motivi decò, ricca di decori allegorici, la stazione è stata progettata dall’arch. Ulisse Stacchini (1871-1947).
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Milano. Quartiere S. Siro (1932-52). Ritenuto importante perché prima applicazione dei principi razionalisti, in consonanza con orientamenti internazionali, il quartiere soffre da tempo dei limiti di un progetto generale povero di aree verdi e di servizi comuni. Collocato nella periferia nord-ovest della città, allora agricola, esso
venne inserito negli isolati definiti dal piano regolatore vigente. Gli edifici, per la gran parte in linea, a corpo semplice o doppio, sono disposti nel rispetto dell’asse eliotermico. Le tecnologie qui introdotte rispondono all’evoluzione dei processi costruttivi dagli anni trenta al primo dopoguerra.
la costruzione di una cintura a verde continuo, con attività agricole, intorno alla città. La collocazione geografica di Milano, le sue industrie in rapida ripresa subito dopo la guerra e successivamente tendenti, almeno le maggiori, a decentrarsi sempre più verso il suo perimetro esterno o in provincia senza però perdere posizioni strategiche nel cuore urbano, la concentrazione qui di banche e società finanziarie, lo sviluppo della Fiera Campionaria fondamentale per i rapporti con l’Europa come vetrina del made in Italy, quello del settore commerciale – minuto, all’ingrosso e dei grandi magazzini – l’industria editoriale e pubblicitaria e i rapporti con il mondo della cultura, ne caratterizzarono presto il profilo rispetto a quello di Torino, città delle automobili, e di Genova, centro siderurgico e cantieristico. Più rapidamente che altrove, a Milano mutò il gusto degli oggetti d’uso quotidiano, che portò al design industriale e a novità formali e tecniche dell’arredo. In un quadro economico sempre più retto da tendenze internazionali, le grandi industrie milanesi – snia, Pirelli, Montecatini, Edison e molte altre – e straniere – per far qualche nome: Singer, aeg, Brown Boveri – trascinarono con sé, fino agli anni settanta, il continuo incremento di un indotto multiforme di imprese minori e di capacità occupazionale, che diede corpo a un ceto operaio vastissimo e a un non meno ampio ceto medio impiegatizio, accompagnati, l’uno e l’altro ovunque, da imponente incremento edilizio. Un conflitto interno al mondo industriale fu portato in Lombardia dall’holding eni (Agip, Snam e Anic) nei confronti di Edison e Montecatini. La prima ebbe a S. Donato Milanese, a sud di Milano, una propria grande sede, l’intera città di Metanopoli voluta da Enrico Mattei e inaugurata nel 1957, con residenze per i dipendenti appositamente studiate, immerse nel verde e varie dal punto di vista tipologico, alcuni palazzi alti per uffici e la chiesa di S. Barbara, essenziale nelle forme e subito arricchita con opere d’artisti contemporanei. A guerra appena conclusa, il dibattito sul disegno della città fu reso vivacissimo dalla presenza di riviste e associazioni aperte a orientamenti internazionali. Si manifestò subito l’aspirazione a rompere il monocentrismo continuamente consolidato dalla crescita per ciambelle della città, imposta dai piani regolatori. Nel 1944, su «Rinascita», e nel 1946, su «Costruzioni-Casabella», venne proposto il celebre piano ar, Architetti Riuniti, manifesto programmatico degli architetti razionalisti milanesi, sottoscritto da Albini, Belgiojoso, Bottoni, Cerutti, Gardella, Mucchi, Palanti, Peressutti, Pucci, Putelli, Rogers. Non provenne dal suo impianto, fondato su due assi prin-
cipali di percorrenza tra loro grossomodo ortogonali, il Piano regolatore del 1953-80 che tuttavia recepì qualche sua indicazione. In ogni caso esso riuscì solo a subordinare, e non a equilibrare, gli interessi privati a quelli collettivi, che potevano essere affrontati solo tramite ricostruzione pianificata. Divenne sempre più denso l’edificato del centro, costellato peraltro da interventi di qualità dal folto numero di progettisti che uscivano dal Politecnico di Milano, mentre le periferie vennero occupate con fitti nuclei di quartieri di edilizia economica popolare, progettati dagli stessi architetti. Il primo impegno ricostruttivo nel centro, mosso dal principio “com’era” e “dov’era”, ma in realtà determinato a ottenere la maggiore densità possibile tramite aumento delle altezze delle costruzioni mantenute entro il sedime originario, ottenne gli esiti tuttora ben leggibili, ad esempio in piazza S. Babila, in corso Vittorio Emanuele e nelle strade circostanti. Prevalse qui il modello di edifici continui su strada, “a palazzata” su alti portici, talvolta in volumi a due altezze il maggiore dei quali arretrato. Il tema a “palazzata” venne ancora riproposto, in un’aggiornata ed elegante struttura metallica con pilasti a Y, nel 1969, nella Chase Manhattan Bank dietro chiesa di S. Fedele, dallo studio bbpr (Banfi, Belgioioso, Peressutti, Rogers). Un piccolo edificio, esemplare per la modernità dialogica con l’antico, venne qui realizzato successivamente da Caccia Dominioni a raccordo tra questo e l’abside della chiesa. Non mancò inoltre un intervento di sventramento nell’area a sud del Duomo dove, lungo via Albricci, corso Europa e via Borgogna, vennero realizzati importanti palazzi dalle raffinate finiture, interne ed esterne, di Caccia Dominioni, Magistretti, Asnago e Vender. Non ebbe attuazione il Centro direzionale previsto dal Piano regolatore nell’area compresa tra Stazione Centrale e l’attuale Stazione Garibaldi costruita negli anni sessanta, comparto urbano con molti vuoti e un tessuto frammentato disponibile alla trasformazione. Al suo margine interno vennero però realizzati alcuni edifici alti, tra i quali i più emergenti e significativi furono il grattacielo Pirelli, oggi sede centrale di Regione Lombardia, e la Torre Galfa, ambedue costruiti tra 1953 e 1960, in 31 piani fuori terra e due interrati. Del Pirelli, in piazza Duca d’Aosta, ebbe l’incarico lo studio di Gio Ponti (con Antonio Fornaroli e Alberto Rosselli); per le strutture in cemento armato collaborarono Arturo Danusso e Pier Luigi Nervi. La forma affusolata, il rivestimento delle sue punte in cemento armato con piastrelline in ceramica vetrificata dai colori cangianti in grigi e beige
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Milano. Piazza San Babila con l’imbocco di corso Europa. Piazza San Babila è stata aperta negli anni trenta del Novecento dilatando uno slargo, di fronte all’antica basilica. A partire dal 1931 essa prese forma a seguito di demolizione di un fitto tessuto edilizio preesistente e con la rapida costruzione degli imponenti edifici tuttora visibili.
Nel piano regolatore del 1934, venne proposta inoltre una grande arteria di attraversamento del centro città, detta Racchetta, della quale l’attuale corso Europa, primo segmento con inizio dalla piazza, venne realizzato nel secondo dopoguerra. In alto nella foto, da un tessuto edilizio di altezza media costante, emerge decisamente la Torre Velasca.
vicini al colore dell’alluminio, il curtainwall in ferro e vetro che lasciava in vista i pilastri anch’essi rivestiti con piastrelline, l’aerea soletta che lo concludeva, nella sintesi di essenzialità volumetrica e forma finita che Ponti seppe raggiungere, ne fecero l’icona di una modernità all’italiana, di grande successo presso il pubblico e all’estero, in particolare negli Stati Uniti. Destino meno felice fino a oggi, essendo tuttora inutilizzata, ha avuto invece la Torre Galfa anch’essa di grande interesse, voluta come sede della Sarom dal petroliere suo direttore Attilio Monti e progettata dal bolognese Melchiorre Bega, amico di Ponti, con strutture calcolate dall’ing. Luigi Antonietti con il sostegno di Danusso. Il guscio centrale in cemento armato ha consentito di realizzare qui un curtainwall continuo sui quattro lati, senza soluzione di continuità negli angoli. Negli anni di queste due torri, molte altre se ne realizzarono in Milano oltre che per uffici anche per abitazioni, sia isolate e appartate, come la sottile e elegante Torre al parco di Ludovico Magistretti con Franco Longoni (1953-56), sia posizionate in modo da svolgere ruolo centrale nella scenografia urbana, come accade per il Grattacielo di Milano dei fratelli Soncini, del 1955, in piazza Repubblica a lato stazione, che fece da contrappeso alla torre corrispondente, sul lato opposto della piazza, di base più larga e più bassa, di progetto di Mario Baciocchi. Delle due torri prospettanti sulla stessa piazza ma dal lato verso il centro, la Turati, del 1957-60, è opera di Giovanni Muzio e del figlio Lorenzo, la sorella sull’altro lato è invece di Luigi Mattioni, al quale si deve anche la Torre di Terrazza Martini in piazza Diaz (1953-57). Di Muzio sono anche altri imponenti blocchi edilizi, con corte interna, prospettanti su piazza Repubblica. In generale gli edifici alti di questo periodo sorsero isolati, non superarono la trentina di piani, ebbero forme sobrie, emersero in varie parti della città. In piazza Cavour venne costruito il Centro svizzero di 20 piani fuori terra, su progetto degli architetti Armin Meili e Giovanni Romano (1947-52); in corso Italia, il complesso polifunzionale a più blocchi di Luigi Moretti, con il volume più alto a sbalzo e ruotato sul blocco sottostante allineato su strada (194955). Dello stesso autore è la casa albergo in via Corridoni (1947-50), parte di un complesso di opere che il comune di Milano programmò in fase di ricostruzione della città. Tra tutte, quella che più fece scalpore all’estero fu Torre Velasca (1956-59) a pochi passi dal Duomo, dello studio bbpr, con struttura in cemento armato di progetto di Danusso. Per la singolare forma detta talvolta “a fungo” o a “torre
medievale”; parve nel mondo anglosassone una retrocessione degli assunti razionalisti di cui il gruppo dei progettisti era corifeo non solo in Italia. Risulta qui impossibile segnalare i numerosi esempi di architettura residenziale, per il ceto borghese medio e alto, per uffici e commerciale di qualità, disseminati nel tessuto compatto centrale. Merita tuttavia di essere almeno ricordato il vasto impianto razionale autonomo della Sede e delle Scuole della Società Umanitaria in via Daverio, del 1948-56, su progetto di Romano, per la secca definizione costruttiva dei volumi a specchio di un severo funzionalismo. Non può inoltre essere ignorato l’edificio lamellare ina per abitazioni dell’arch. Piero Bottoni in corso Sempione, idea-le e unico frammento realizzato, di straordinario valore nelle soluzioni tipologiche e nella volumetria complessiva, del piano di “Milano verde” del 1938, di cui già si è detto. La costruzione di edilizia economica popolare del dopoguerra venne iniziata in città con il Quartiere sperimentale QT8, rimasto incompiuto e tuttora ben conservato, con chiara leggibilità della varietà dei contributi dati dai diversi architetti. Presentato da Bottoni, che ne fu l’ideatore, all’Ottava Triennale del 1947 sul tema L’architettura durante e dopo la guerra in rapporto ai problemi delle grandi masse, volle essere modello di riferimento per i futuri quartieri popolari sotto molti aspetti: nella varietà tipologica, nella morfologia aperta, nella standardizzazione costruttiva tramite prefabbricazione per l’edilizia a basso costo, nell’organizzazione di unità di vicinato per accorpamenti a grappoli degli edifici, nella strutturazione di un asse centrale di servizi che arrivava fino al monte Stella, ottenuto dall’accumulo delle macerie dei bombardamenti. Rimase tuttavia un caso isolato. La “grandiosa macchina per l’abitazione” ina-Casa che si mise in moto in tutto l’Italia col piano Fanfani del 1949, ripetuto identico per due settenni, evoluto successivamente ma in vigore per cinquant’anni, investì l’intera Lombardia densificandola rapidamente nelle aree periferiche di tutte le sue città. Regione italiana che usufruì della percentuale più alta dei fondi messi a disposizione per questo scopo, essa mise in moto interventi che interessarono più di 750 comuni, sia nel primo settennio che nel secondo, utilizzando, come stazioni appaltanti, i Comuni o gli iacp già esistenti sul territorio. Grazie all’obiettivo di dar casa a tutti ma con edifici ogni volta diversi, ina-Casa lombarda diede lavoro a una lunga schiera di giovani progettisti, fornendo loro solo essenziali indicazioni generali di progetto. Il loro impegno riguardò soprattutto il disegno complessivo e le tipologie dei quartieri, poiché dal punto di vista costruttivo gli enti promoto-
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Milano. L’area retrostante al grattacielo Pirelli, destinata a essere City finanziaria nel piano regolatore del 1953. Vi si realizzarono invece, senza ordine e regolarità, edifici per lo più per uffici. Nella foto emerge il volume lenticolare del grattacielo Pirelli e il suo rapporto con l’imponente Stazione Centrale.
ri mantennero una bassa meccanizzazione del cantiere con largo impiego di mano d’opera non specializzata, disponibile a costi molto bassi. Nei quartieri detti satelliti o autosufficienti, perché dotati di alcuni servizi primari, si puntò a ottenere, oltre che un numero alto di varianti morfologiche e tipologiche, una densità di popolazione relativamente bassa e la presenza di molto verde. A Milano i quartieri vennero disposti a corona intorno al centro; durante la loro costruzione anche le zone intermedie rimaste libere vennero presto a saturazione. Tra tutti, l’Harar Dessié (1951-55) e il Feltre (1957-60) vennero ritenuti esempi paradigmatici di un’idea di città che interpretava il decentramento, non come emarginazione, ma come fattore positivo di urbanità e di costruzione di comunità di scala umana. Il primo, con progettazione coordinata tra Gio Ponti, Figini e Pollini, lungo via Novara, fu pensato per 5500 abitanti, con scuole primarie e attività commerciali. La soluzione planimetrica definitiva comprendeva sei lunghi edifici rettilinei su pilotis chiamati “grattacieli orizzontali”, disposti ortogonalmente a coppie dando luogo a un disegno “a turbina” che lasciava libero uno spazio centrale per le attrezzature collettive, inteso come “asse vitale” sul modello del QT8, e un complesso di case unifamiliari a schiera denominate insulæ, raccolte in altre quattro aree. L’idea di un “asse vitale” centrale per ordinare la distribuzione dei servizi venne ripresa nel 1956 da Bottoni per il primo quartiere del Gallaratese, complesso in continuità con il QT8, divenuto di enormi dimensioni nel corso degli anni, contrassegnato inoltre, nel 1967-74, dall’aggiunta dell’insieme Monte Amiata su progetto di C. Aymonino, in cui Aldo Rossi, tra 1968 e 1973, inserì la propria Unità residenziale. Il quartiere Feltre in zona Lambrate, con progetto coordinato da Pollini e realizzato tra 1957 e 1963, risulta ancora oggi area residenziale ricca di verde, omogena e ordinata dal punto di vista costruttivo. Composto da quattro nuclei, in quello lungo via Crescenzago gli edifici a quattro piani lasciano al proprio interno lo spazio per i servizi del quartiere; gli altri tre nuclei, con fabbricati di nove piani e portici al piano terreno, racchiudono suggestivi addensamenti di vegetazione sempreverde. Dalla fine degli anni sessanta venne lanciata dai progettisti l’idea di introdurre la grande dimensione nell’architettura sovvenzionata e di ricorrere alla prefabbricazione; comparvero torri alte, scarne, dure. Sono di questo tipo, ad esempio: il quartiere Gratosoglio (1963-71) in via dei Missaglia, dei bbpr; quello di Quarto Cagnino (1967-73) lungo via Novara; a sud S. Ambrogio i e S. Ambrogio ii (1968-71).
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Pagine precedenti Milano. Il grattacielo Pirelli, attuale sede centrale di Regione Lombardia, si alza, risultandone distinto, da un basamento pentagonale che occupa il lotto compreso tra piazza Duca d’Aosta, via Pirelli e via Fabio Filzi. La sua pianta è composta da due poligoni lenticolari speculari, separati da un corridoio centrale che si rastrema alle estremità determinando il suo elegante volume a diamante. Il grattacielo, alto 127 m in 31 piani, è concluso da aerea vela sospesa. Del progetto sono autori: lo studio Ponti (composto da Ponti, Fornaroli e Rosselli) con il supporto dei consulenti della Pirelli (Valtolina, Dell’Orto, Danusso). Milano. La Torre in piazza Velasca, molto vicina al Duomo di Milano, venne edificata in un vuoto urbano provocato dai bombardamenti dell’ultima guerra mondiale. Realizzata dallo studio bbpr (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers) con progetto strutturale dell’ing. Danusso, nel 1956-58, fu subito oggetto di polemiche internazionali e divenne nello stesso tempo icona della modernità milanese insieme al grattacielo Pirelli. Ospita al proprio interno abitazioni e uffici. In queste pagine Milano. Il Quartiere Triennale 8 (QT8) progettato da Piero Bottoni nell’ambito dell’ottava edizione della Triennale di Milano del 1947 della quale l’architetto era commissario straordinario, venne concepito come quartiere sperimentale, progetto pilota contrassegnato da inedito approccio multidisciplinare, nelle componenti urbanistiche, tipologiche, costruttive e tecnologiche. Situato alla periferia nord-ovest di Milano, è delimitato a nord da una bretella viaria che confluisce in viale Scarampo, a est da via Serra, a sud da via Diomede, a ovest da via Sant’Elia. Al suo interno venne realizzato il Monte Stella, costruito con le macerie degli edifici distrutti dai bombardamenti subiti dalla città.
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Negli anni ottanta si registrò un diminuito fabbisogno di case popolari. Regione Lombardia trasformò in aler gli iacp e realizzò da allora pochi nuovi interventi. Iniziò la registrazione di un diffuso degrado del patrimonio pubblico aggravatosi fino a oggi senza soluzione di continuità, anche per una scorretta concentrazione di immigrati in alcuni di essi. La costruzione dei quartieri fu accompagnata dagli anni cinquanta, per iniziativa della Chiesa ambrosiana e diretto interessamento del suo arcivescovo Giovanni Battista Montini (in seguito e fino a tempi recenti, ma con minor implicazione personale, dai successori), dalla costruzione di centri parrocchiali, le cui chiese risultano oggi tra le più significative del xx secolo in Italia. Si ricordano: la chiesa a pianta circolare di S. Maria Nascente, al centro del QT8, esito di concorso congiuntamente proposto da Curia e Amministrazione comunale e vinto da Magistretti e Tedeschi nel 1947; quella di eco internazionale della Madonna dei Poveri a Baggio, di Figini e Pollini tra i primi e più coerenti architetti razionalisti, del 1952; la chiesa Mater Misericordiæ, a Baranzate di Bollate, di Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti, con l’ing. Aldo Favino, del 1956-57, sottoposta ora a uno dei più significativi interventi di restauro del moderno; quelle dei SS. Giovanni Battista e Paolo, di Figini e Pollini, in collaborazione con Mario Saltini, a Milano tra via Catone e via Maffucci, del 1964 e di S. Enrico a S. Donato Milanese, di Ignazio Gardella, del 1965. A queste vanno aggiunte quelle, tutte di grande interesse, di Gio Ponti e Giovanni Muzio, testimoni d’eccellenza di due varianti, dell’incontro fra modi tradizionali e innovazioni di linguaggio, che contrassegna l’originalità della ricerca dell’architettura italiana. Del primo, tutte in Milano, sono: S. Luca Evangelista, in zona Città-Studi, del 1959-1961; S. Francesco d’Assisi al Fopponino, 1961-1964, finanziata dall’Unione commercianti della provincia di Milano; la cappella dell’ospedale S. Carlo Borromeo a Baggio, dedicata a S. Maria Annunciata (1963-1969), voluta dalla Direzione dell’Ospedale Maggiore di Milano. Del secondo meritano di essere ricordate almeno le chiese dei SS. Quattro Evangelisti (1954-55) e di S. Giovanni Battista alla Creta (1956-58), in Milano; il santuario di S. Antonio alla Brunella, a Varese (1955-64); la chiesa della Madonna di Caravaggio, a Pavia (1958-1960). La continua crescita di Milano fu accompagnata anche dalla costruzione di complessi residenziali periferici ben attrezzati per ceti alti, come La Viridiana (1968-71) in via Forze Armate, e Milano S. Felice (1967-70), ambedue su progetto di Caccia Dominioni e Magistretti, seguiti dai modi più ovvi di Milano 1 e Milano 2.
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Poiché la città non aveva più veri confini, istituzioni importanti immaginarono loro sedi prestigiose decentrate: è questo il caso del Palazzo per uffici della Mondadori, a Segrate, progettato da Oscar Niemeyer e inaugurato nel 1975. I cinque piani, appesi in alto alla gabbia strutturale del grande parallelepipedo, la cui superficie esterna venne ritmata da arcate di luce variata, furono concepiti per ospitare gli uffici e le redazioni. L’insieme venne arricchito da un lago artificiale di 20.000 mq e da un parco, su disegno del paesaggista Pietro Porcinai. Il sintetico quadro della componente residenziale milanese, per lo più periferica, fin qui disegnato non dà ragione dell’articolazione concreta dell’abitare, dai caratteri ben più ampi e diversificati, al quale occorrono servizi commerciali, centri di socializzazione, strutture sanitarie a varie scale, scuole, dalle materne all’università, attrezzature sportive e per il tempo libero e altro ancora. Le è indispensabile inoltre una rete che consenta mobilità, su mezzi pubblici e privati, sopra terra e nel sottosuolo, per una connessione, la più razionale possibile, tra casa e luogo di lavoro. Del ricchissimo insieme di queste componenti e dei modi della loro realizzazione non è qui possibile trattare. In generale occorre ricordare che, di tutto un insediamento, la casa resta il perno solo dove non prevalga una forte terziarizzazione, come quella che ha investito il centro di Milano, incrementando la presenza giornaliera di city users rispetto a quella, in diminuzione, degli abitanti. Inoltre, l’effetto città negli addensamenti umani, se ne sono accorti amministratori e pianificatori della seconda metà del xx secolo, è l’esito di molti fattori tra i quali imprescindibile è la stratificazione storica con le sue emergenze monumentali, centri di memoria collettiva. Al lettore si lascia, per queste ragioni, di sovrapporre, con la propria immaginazione e l’ausilio delle foto dall’alto, i piani diversi del ricco contesto milanese, nel vorticoso moto di trasformazione che lo mobilita. Milano in progress Il primo gennaio 2015 è stato avviato l’Ente Milano città metropolitana che raccoglie, sotto la guida amministrativa di un sindaco metropolitano, i comuni di Milano e della provincia. L’innovazione riguarda anche altre città italiane, per Milano è un passaggio preparato da riflessioni e progetti di grande respiro, dall’idea a lungo dibattuta di Milano città regione e dall’attività del Piano Intercomunale Milanese (pim), istituito nel 1959 con decreto del Ministero dei Lavori pubblici, per il controllo e l’orientamento dell’impennata di crescita edilizia nella cintura esterna alla città, cui fanno capo i comuni associati, 35 all’inizio, oggi più di
100. L’Organizzazione Internazionale per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (ocse), a sua volta, chiama area metropolitana milanese la vasta zona urbanizzata attorno a Milano, senza soluzioni di continuità fino a Varese, Como, Lecco e Bergamo, in posizione strategica essendo margine meridionale del territorio urbanizzato europeo. Milano è, dunque, oggi città che vive di relazioni territoriali nazionali e internazionali molto complesse e di scala ampia. La modifica del suo skyline, divenuta evidente dopo il 2000 e segnalata come emergenza di edifici alti, è da una parte dovuta a situazioni locali specifiche ma motivata dall’altra da un mutamento di contesto generale che la rende perno non secondario del sistema europeo. Mentre in Milano, con il Piano regolatore denominato Variante di Piano 1978-80, si tentava di invertire le tendenze espansive a macchia d’olio, si mise in moto un esteso processo di dismissione dei maggiori impianti produttivi, motivato sia da mutamenti delle strategie localizzative, con la crescita dell’internazionalizzazione, sia da innovazioni tecnologiche. La deindustrializzazione coinvolse molte aree, fu di grande portata in particolare lungo l’asse dalla Bovisa al saronnese e lungo quello dalla Bicocca a Sesto S. Giovanni. Solo negli anni novanta si giunse alla fase attuativa di riconversione delle grandi aree dismesse, favorita da legislazione nazionale e regionale; un documento di inquadramento del 2000 la tradusse in offerta di spazi per funzioni terziarie direzionali, per la produzione tecnologica avanzata e per la residenza, mettendo in moto un dinamismo costruttivo tuttora in corso che sta portando a una crescita di offerta residenziale, di attività commerciali e della comunicazione oltre che a un mutamento del paesaggio urbano purtroppo non sempre caratterizzato da grande qualità architettonica. In un rapido sguardo a volo d’uccello, sono evidenti le radicali trasformazioni messe in moto, per comodità osservate in corrispondenza ai quattro punti cardinali e qui richiamate solo per le componenti principali. A nord si costituisce il secondo polo urbano del Politecnico nella zona degli ex gasometri alla Bovisa, a integrazione della Facoltà di Architettura civile e Design già qui insediata, con riconversione di edifici industriali. In zona Certosa Quarto Oggiaro sono destinare a residenze le aree già occupate da depositi per combustibili. L’Università statale, che ha la propria sede centrale nel quattrocentesco Ospedale Maggiore, colloca un distaccamento importante nel Quartiere Bicocca, area degli ex stabilimenti Pirelli, chiusi negli anni settanta del Novecento, costruito, su piano generale e in molti degli edifici, dallo Studio Gregotti Associati. Oltre l’università si trovano qui residenze, il Teatro degli Arcimboldi, uffici,
il Centro direzionale Pirelli. La testata del comparto è occupata dalla sede della Deutsche Bank di Gino Valle del 2004. Più a nord ancora, tra Milano e Sesto S. Giovanni, è in programma la riconversione delle aree ex Marelli e Breda. Molti sono anche gli interventi nelle zone periferiche a sud, con la trasformazione delle aree ex OM con mix per uffici e residenza e una grande Superficie commerciale Esselunga a firma di Ignazio e Jacopo Gardella, e altre attorno a piazzale Corvetto e a sud dello scalo di Porta Romana. Nella zona a ovest di Porta Genova i settori di moda, fotografia e design hanno occupato e riconvertito gli edifici con interventi di varie dimensioni. A est è avvenuto il recupero delle ex aree Innocenti Maserati di via Rubattino con realizzazione di residenze, edifici per il terziario e un supermercato Esselunga a firma Caccia Dominioni nel 1999. In progetto è ora il riutilizzo di Rogoredo ex Montecity con un mix funzionale comprendente un centro congressi e una grande biblioteca europea su progetto di Bolles e Wilson. A ovest infine, la messa in funzione del polo esterno della Fiera nelle aree delle ex raffinerie Agip di Rho-Pero, su progetto di Massimiliano Fuksas, ha dato luogo a un gigantesco complesso commerciale appena fuori dal perimetro urbano ma strettamente legato alla città. A ridosso dell’autostrada A4, vicina alla Tangenziale Ovest e alla ferrovia Milano-Torino, la nuova Fiera è collegata al centro cittadino con la linea 1 della metropolitana, inoltre è attiva anche la stazione ferroviaria Rho-Fiera Milano. Nelle vicinanze è predisposta l’Expo 2015. Tra le molte attrezzature di servizio interessante è l’NH Hotel Fiera di progetto di Dominique Perrault, realizzato tra 2006 e 2009, composto da due edifici – inclinati uno verso il centro città e l’altro verso la Fiera di circa 5 gradi – di 19 piani fuori terra e connessi tra loro alla base da uno spazio in cui si trovano la hall e servizi comuni, e da un piccolo cilindro che ospita le vie di fuga e un collegamento con il seminterrato. La struttura è costituita da pareti perimetrali portanti e collaboranti con il nucleo centrale in cemento armato in cui sono raccolti scale, ascensori e servizi tecnici. Le facciate ventilate perimetrali sono rivestite in gres porcellanato. Con la parziale dismissione del polo storico della Fiera, l’area di quest’ultima, chiusa un tempo entro recinto, a seguito di concorso nel 2004 e ora denominata CityLife, è occupata da volumi residenziali e da tre torri, di Zaha Hadid, Daniel Libeskind e Arata Isozaki. Delle tre torri denominate per la loro forma “Lo Storto”, “Il Curvo”, “Il Dritto”, solo l’ultima, di Isozaki con Andrea Maffei, è ora in costruzione: di 50 piani fuori terra è alta 207,20 metri. Ispirata alla scultura Endless
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Nh Hotel Fiera, dell’arch. Dominique Perrault, 2006-09. Dietro ad esso si sviluppa il polo Fieramilano nell’area di confine tra i comuni di Rho, Pero e Milano, a ridosso dell’autostrada A4, vicino alla Tangenziale Ovest e alla ferrovia Milano-Torino. Inaugurato nel 2005, il complesso della Fiera, progettato
dall’arch. Massimiliano Fuksas, comprende otto padiglioni che mettono a disposizione 345.000 mq espositivi coperti e 60.000 all’aperto. Nelle vicinanze è l’area dell’Expo 2015. I padiglioni sono posizionati lungo il corso Italia sul quale si affacciano aree espositive, caffè, spazi di incontro e di ristoro.
Column di Constantin Brancusi, è composta da moduli di sei piani, ognuno definiti all’esterno da vetro triplo concavo, e appoggia su un corpo rettangolare di sei piani per uffici. Ha struttura portante in cemento armato e tiranti diagonali ancorati a terra con funzione controventante. Nella zona ex Alfa Romeo del Portello, in parte occupata da un ampliamento della Fiera storica, si sono realizzati vari edifici con destinazione mista, legati tra loro da un progetto paesaggistico di Charles Jencks e Andreas Kipar: l’area residenziale è di Guido Canali e Cino Zucchi, quella a terziario commerciale di Gino Valle. Meritano attenzione gli edifici di Zucchi alti otto piani, che evocano linguaggi moderni milanesi a lui cari, di Asnago e Vender e di Caccia Dominioni, per le raffinate finiture esterne, alcune in tessere di cotto decolorato e inserti bianchi di pietra di Trani, altri in pietra grigia e forte sporgenze delle logge che sfondano la compattezza prismatica. Gli edifici alti più dirompenti, che connotano in modi del tutto nuovi la città, sono però quelli realizzati nell’area urbana centrale, tra Stazione Garibaldi e Porta Nuova, per varie ragioni rimasta vuota dal secondo dopoguerra. Un complessivo progetto urbanistico viene predisposto nel 1999 dall’amministrazione comunale, nel 2003 rielaborato da Hines Italia SpA, committente di molti edifici qui realizzati. Emergono in quest’area torri pensate, non più come elementi isolati, ma tra loro connessi benché molto differenziati, fatto che dà luogo a una forte discontinuità morfologica con l’edificato novecentesco circostante. Viene innanzitutto realizzata la Nuova Sede di Regione Lombardia, tra 2003 e 2010, con progetto vinto in un concorso internazionale di Pei Cobb Freed and Partners, Caputo Partnership, Sistema Duemila. Il complesso è costituito da un consistente volume ad altezza degli edifici circostanti che forma al centro una grande piazza coperta, denominata piazza Lombardia, e da un sottile grattacielo centrale di 43 piani fuori terra e altezza di 161,30 metri, formato da due lamelle arcuate congiunte al centro, rovesciamento verso l’esterno della forma lamellare dello storico grattacielo Pirelli con il quale vuol essere in dialogo. L’involucro climatico a doppia pelle in vetro, con un sistema regolabile a brise-soleil, è integrato a sud con pannelli fotovoltaici.
Premiato con l’International Highrise Award 2014, il Bosco Verticale, di progetto del gruppo Stefano Boeri Associati tra 2004-2014 e committenza Hines Italia, è composto da due edifici, uno di 35 e l’altro di 25 piani fuori terra, che ospitano residenze di lusso; ai loro abitanti si è voluto restituire il contatto diretto con la natura in città legando l’alta densità abitativa con una vegetazione, appositamente selezionata, di media e grande dimensione, collocata in molti profondi terrazzi. Solaria e Aria Arquitectonica è un complesso realizzato tra 2010 e 2014, con diversi tagli di appartamenti; tre piani interrati lo legano alla base, mentre risulta distinto in due settori nei corpi fuori terra: Solaria, di 34 piani, è costituito da tre volumi tra loro congiunti in modo che all’interno penetri luce naturale; Aria, di 18 piani, è l’insieme di due corpi, diversi per pianta e alzato. Progettista è Caputo Partnership, committente Hines Italia. Anche Torre Solea, opera dello stesso progettista e dello stesso committente di Solaria e Aria Arquitectonica, realizzata da 2006 e 2014, presenta appartamenti diversi su più piani, che determinano la complessità volumetrica esterna, con logge, balconi e ampie trasparenze. Altri due importati edifici, i più altisonanti, completano il contesto: l’Headquarter Unicredit, di Pelli Clarke Pelli Architects e di committenza Unicredit, del 2009-2013, e il Diamante, di Kohn Pedersen and Fox Associates e committenza Hines Italia, del 2012-14, Il primo, sede di rappresentanza, è suddiviso in tre volumi crescenti, a circolo attorno alla piazza intitolata a Gae Aulenti, il più alto dei quali di 35 piani fuori terra raggiunge con la lunga guglia l’altezza di 219 metri. Ha struttura in cemento armato e finiture in curtainwall continuo in acciaio e vetro. Il secondo, alto 137 metri, ha 30 piani fuori terra e 4 interrati, struttura in acciaio e sagoma esterna sfaccettata in grandi piani. È troppo presto per formulare qualsivoglia valutazione sulla vivibilità di quest’insieme di edifici di lusso e sulla loro integrazione nella storia della città. Già fin d’ora è però in essi evidente l’adesione di Milano al trend mondiale favorevole agli edifici alti, disponibile dunque senza riserve a una sfida che, peraltro, non si può fare a meno di collegare alla loro vulnerabilità, evidente dopo l’11 settembre 2001.
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Milano. Fieramilanocity e la cometa di Mario Bellini. Il Portello, quartiere nel secolo scorso in gran parte occupato dagli stabilimenti dell’Alfa Romeo, è attualmente investito da interventi di riqualificazione e in parte occupato dalla sede urbana di Fieramilanocity, settore Fiera i cui padiglioni vennero realizzati negli anni ottanta. Mentre infatti il celebre quadrilatero storico della Fiera Campionaria veniva abbattuto tra il 2007 e il 2008, lasciando spazio al progetto denominato CityLife, l’Ente Fiera spostava la maggior parte delle proprie attività presso il nuovo polo fieristico di Rho-Pero, già a partire dal 2005, lasciando gli edifici del Portello come ultima zona attiva dell’antico polo cittadino. Qui il grande centro congressi fieristico, il Milano Convention Centre, inaugurato nel 2002 e ampliato nel 2005, oggi il più grande in Italia e capace di accogliere fino a 25.000 persone, nel 2012 è stato parzialmente coperto dalla cometa progettata dall’arch. Mario Bellini, un ‘terremoto
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volumetrico’ in forma di cometa aerea e argentea, che sormonta e abbraccia la nuova testata e parte dei fianchi e della copertura dell’edificio, realizzato dallo stesso Bellini tra il 1993 e il 1997. Milano. Intervento di riqualificazione delle aree dismesse ex Alfa Romeo ed ex Lancia in corso di realizzazione. L’area di intervento copre una superficie di 385.000 mq e ricade nel settore urbano a nord-ovest delimitato dalle direttrici di corso Sempione, Certosa e corso Vercelli. È compresa tra viale Serra a sud, viale De Gasperi ad ovest, piazzale Accursio a nord, via Traiano ad est, estendendosi fino al recinto del tiro a segno in prossimità dei raccordi con le autostrade a nord-ovest ed est. Il piano è suddiviso in tre grandi unità che compongono un vasto insediamento integrato tra edilizia residenziale, in parte convenzionata, insediamenti commerciali e terziari, servizi pubblici. La residenza, localizzata lungo l’asse
nord-ovest verso la città storica, reinterpreta il tema dell’isolato ottocentesco negli edifici degli arch. Cino Zucchi e Guido Canali. Ai due estremi si concentra il terziario-direzionale, nella nuova piazza Portello in fregio all’ingresso della Fiera-Portello e all’ingresso nord dalle autostrade. Sul piazzale Accursio si trovano gli edifici commerciali. Il verde pubblico, il grande Parco centrale, che si estende per circa 60.000 mq, e il sistema delle piazze, fino alla nuova piazza Portello, attraversano tutto il Piano e connettono tra loro le nuove funzioni insediate e la città esistente. Il progetto del Parco, coordinato tra l’arch. paesaggista Charles Jencks e lo Studio land di Milano, accoglie grandi sculture verdi visibili nella foto: la doppia esse allungata e la spirale che sale danno luogo a un Landmark denominato Spiral of Times. Il Parco è collegato alle aree del Portello Sud e al QT8 attraverso due passerelle ciclopedonali su viale Serra e su viale De Gasperi.
Pagine seguenti Milano. L’intervento di riqualificazione della zona di Porta Nuova. Se fino a poco tempo fa con Porta Nuova si indicava solo una delle sei porte principali di Milano, oggi l’espressione individua l’area che si estende dalla stazione ferroviaria di Porta Garibaldi a piazza della Repubblica e da Porta Nuova a Palazzo Lombardia. In essa, il vasto intervento in corso ricollegherà in modo del tutto nuovo i quartieri di Garibaldi, Isola e Varesine. La riqualificazione è iniziata nel 2005 ed è ancora in corso. Si tratta del cantiere più grande d’Europa, con interventi di venti architetti. Sono in costruzione anche gallerie e parcheggi sotterranei. Gli edifici presentano notevole altezza con forte impatto d’immagine.
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Milano. Il nuovo palazzo Regione Lombardia. Complesso unitario di edifici, con una torre per uffici di 161 m in calcestruzzo armato, acciaio e vetro, circondata da un sistema di corpi edilizi curvilinei, ad andamento sinusoidale, alti dai sette agli otto piani, in cui sono concentrate le funzioni culturali, di intrattenimento e servizio, che lasciano spazio a piazza Lombardia, forma ovoidale, coperta da un grande velario in acciaio e vetro. Vi ha sede la Giunta regionale della Lombardia con la presidenza e la totalità degli assessorati (direzioni generali). Il progetto del complesso è risultato vincitore di un concorso internazionale, indetto dalla Regione Lombardia, vinto dal gruppo composto da Pei Cobb Freed & Partners di New York, e da Caputo Partnership e Sistema Duemila, entrambi di Milano. Situato in un’area di 33.700 mq, compresa tra le vie Melchiorre Gioia, Restelli, Algarotti e Galvani, la sua costruzione è iniziata nel 2007 e si è conclusa nel 2010-11. Vi si sono introdotte soluzioni tecnologiche avanzate: un sistema a travi fredde con utilizzo di pompe di calore ad acqua di falda, sia per il riscaldamento che per il raffreddamento; pannelli fotovoltaici, collocati in alcune facciate della torre; un muro climatico, costituito da un’intercapedine tra i vetri esterni della facciata e quelli interni, che raccoglie il calore solare permettendone la riutilizzazione. Pagine seguenti Milano. Bosco verticale. Il nome Bosco verticale identifica due torri residenziali di 111 e 78 m, progettate da Boeri Studio (Boeri, Barreca, La Varra) nell’area di riqualificazione di Porta Nuova. Sui profondi e solidi balconi sono state collocate oltre 900 specie arboree (550 alberi nella prima torre e 350 nella seconda). Le due torri sono state completate nel 2012 e, dopo un periodo di blocco dei lavori, sono state inaugurate nel mese di ottobre 2014. Milano. Gli edifici Bosco verticale, Solaria e Aria Arquitectonica, Diamante. Lo foto ne evidenzia con efficacia l’impatto di forme e scale nei confronti del tessuto edilizio del nord della città proprio della Milano del secolo scorso, caratterizzata da edifici piuttosto bassi e affacciati su strade larghe. Milano. Torre Diamante. Il grattacielo sorge nell’area di Porta Nuova tra viale della Liberazione e via Galilei. Alto 140 m, ha una forma sfaccettata che ricorda quella di un diamante, è inoltre connesso a una serie di corpi bassi, chiamati Diamantini, adibiti a uffici come la torre. La progettazione del masterplan dell’intera area è stata affidata all’arch. italoamericano Lee Polisano, del gruppo Kohn Pedersen Fox, a seguito di un concorso internazionale. Polisano è stato affiancato dall’arch. Paolo Caputo e dalla società di ingegneria Jacobs per la progettazione architettonica esecutiva; la progettazione strutturale è stata affidata allo studio Arup. Milano. L’Headquarter Unicredit e la piazza centrale Gae Aulenti. La Torre Unicredit, composta in tre blocchi curvi uniti alla base, il più alto dei quali raggiunge 231 m di altezza, è il grattacielo più alto d’Italia. La sua alta guglia ha forma di spirale che si assottiglia lentamente verso l’alto. Inserita nel progetto di riqualificazione di Porta Nuova, a ridosso di corso Como e della stazione Garibaldi, la torre ospita al centro piazza Gae Aulenti, di forma circolare e su un piano rialzato. Il progetto complessivo è dell’arch. César Pelli, le strutture portanti della società di Ingegneria msc Associati s.r.l. di Milano. L’operatore a capo della realizzazione del progetto è la società immobiliare Hines Italia. Sede della direzione generale di UniCredit, la Torre è stata inaugurata l’11 febbraio 2014.
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Bibliografia di riferimento
Bibliografia di riferimento
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Indice dei nomi e dei luoghi
Abbadia Cerreto (Lo), Abbazia di S. Pietro 100 Abbiategrasso (Mi) 95 Abbondio, Antonio detto l’Ascona 183 Adda, fiume 33, 74, 89, 95, 191, 257 Adelmanno di Liegi, vescovo 128 Adige, fiume 242 Adoloaldo, re 59 Affò, Ireneo 178 Agilulfo, re 59, 62, 73 Agnelli, Giuseppe 160 Agrippino, vescovo 73 Aguggiari, Giovanni Battista 194 Alari, Giacinto, conte 202 Alarico, re 58 Alberico da Gambara, frate 89 Alberti, Leon Battista 172 Albertolli, Giocondo 242 Albini, Franco 291, 297 Alemagna, Emilio 210 Alessi, Galeazzo 168, 178, 182 Alpi 34, 257 Amadeo, Giovanni Antonio 140, 160, 162, 164, 168 Amati, Carlo 247 Ambrogio, santo 62, 125 Anati, Emmanuel 23 Andrea da Rho 195 Andreani, Aldo 289 Angelini, Luigi 284 Angera (Va) 195-196 Angolo Terme (Bs) – Parco di Interesse Sovracomunale del Lago Moro vd. anche Darfo-Boario Terme 28 Annex de Alemania 132, 141 Ansa, regina 54, 58, 73 Antegnate (Bg) 33 Antolini, Antonio 271 Antolini, Giannantonio 242 Antonietti, Luigi 298 Antonio da Saluzzo, arcivescovo 140 Aosta 24 Appiani, Andrea 225, 237 Aquileia 33, 125 Arata, Giulio 289 Arconati Visconti, Giuseppe Antonio 202 Arese, Bartolomeo, conte 208 Argan, Giulio Carlo 224 Arona (No) 196, 208 – Sacro Monte di Arona (patrimonio dell’UNESCO) vd. anche Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia 21, 194, 208 statua del Sancarlone 21, 194 Arrigone, Attilio 209 Arsago Seprio (Va) – cimitero longobardo 75 Arte rupestre della Val Camonica (sito UNESCO, n. 94, 1979) 23 – Parco Archeologico Comunale di SeradinaBedolina vd. anche Capo di Ponte 21, 30 – Parco Archeologico di Asinino-Anvòia vd. anche Ossimo 29 – Parco Archeologico Nazionale dei Massi di Cemmo vd. anche Cemmo 29, 30 – Parco Comunale Archeologico e Minerario di Sellero vd. anche Sellero 23, 30
– Parco Comunale di Luine di Darfo-Boario Terme vd. anche Luine 23, 28 – Parco Nazionale delle incisioni rupestri di Ceto, Cimbergo e Paspardo 29 – Parco Nazionale delle incisioni rupestri di Naquane a Capo di Ponte vd. anche Capo di Ponte 21, 26 – Percorso Pluritematico del “Coren delle Fate” di Sonico vd. anche Sonico 23, 31 Asia Minore 223 Asnago, Mario 297, 308 Asola (Mn) 95 Atalarico, re 69 Atellani, famiglia 168 Attila, re 58-59, 62 Avogadro, Benedetto Aymonino, Carlo 301 Baciocchi, Mario 298 Bagnadore, Pier Maria Baranzate di Bollate (M) – chiesa Mater Misericordiae 306 Barbiano di Belgiojoso, Alberico 289 Barbiano di Belgiojoso, Ludovico 225, 289 Bardi, Pier Maria 284 Bariano (Bg) 33 Bascapè Carlo, vescovo 194 Baschiera, Nicolò 164 Battagio, Giovanni 168, 172 Baumgarten, Alexander Gottfried 224 Beccaria, famiglia 110 Bega, Melchiorre 298 Belgioioso (Pv) – Castello e giardino 21, 196 Beltrami, Luca 271-272 Beltramo da Pandino 160 Bembo, Bonifacio 178 Beretta, Lodovico 182 Bergamo 21, 33, 53-54, 69, 83, 89, 95, 100, 110, 191, 195, 257, 267, 284, 307 Aree archeologiche: – foro romano 125 – necropoli 54 Chiese e cattedrali: – antica cattedrale di S. Vincenzo 105, 125, 128 – basilica concattedrale di S. Maria Maggiore 105, 125, 128, 160 cappella Colleoni 128, 160 – cattedrale di S. Alessandro (Duomo) 128 – S. Andrea 54 – S. Michele al Pozzo Bianco 54 Palazzi, torri e fabbriche: – Accademia Carrara 21, 238 – Lebbrosario di S. Lazzaro 110 – Ospedale di S. Maria Maddalena 110, 160 – Palazzo comunale 105 – Palazzo del Littorio 284 – Palazzo della Ragione 21, 128 – Palazzo di Giustizia 284 – Torre dei caduti 284 Piazze e vie: – piazza del Duomo 54 – via Borgo Canale 54 – via Osmano 54 – via Porta Dipinta 54
– viale detto Sentierone 284 Ville: – Villa Leidi 284 Bergonzo, Alziro 284 Bernardo da Venezia 177 Bernasconi, Giuseppe 194 Beruto, Cesare 269, 271 Berzo Demo (Bs) 23, 31 Bianchi, Marco 210 Boito, Camillo 261, 272 Bolles, Julia B. 307 Bolli, Bartolomeo 208 Bona di Savoia, duchessa 140 Bonacolsi, famiglia 110 Bonghi, famiglia 110 Bonifacio viii, papa 172 Bontempelli, Massimo 284 Bonvesin de la Riva, frate 110 Borgogna 95 Borno (Bs) 29 Borromeo Carlo, santo 105, 141, 172, 182, 191, 194-195 Borromeo, Carlo iii, conte 195 Borromeo, Federico, cardinale 194-195, 208 Borromini, Francesco 223 Botta, famiglia 168 Bottaccio, Giovanni Pietro 178 Bottoni, Piero 291, 297-298, 301 Bramante, Donato 162, 164, 168, 171-178, 182-183 Bramantino (Bartolomeo Suardi detto il) 177 Brancusi, Constantin 308 Brembate di Sopra (Bg) 95 Brembate di Sotto (Bg) 95 Brembo, fiume 95 Breno (Bs) – Castello 24 – Tempio di Minerva 26 Brentano, Giuseppe 271 Brescia 28, 33-35, 49, 69, 75, 89, 95, 100, 105, 116, 172, 191, 257, 267, 284 Aree archeologiche: – Capitolium 21, 53-54 – domus palaziale 53-54 – Foro 54 – teatro 54, 83 Castello 116 Chiese e cattedrali: – battistero di S. Giovanni, demolito 126 – cattedrale di S. Maria Assunta (Duomo) 126 – convento dei Domenicani 105 – convento dei Francescani 105 – monastero e chiesa di S. Salvatore-S. Giulia vd. anche Longobardi in Italia: i luoghi del potere (568-774) 21, 54, 83 – Rotonda o Duomo Vecchio (concattedrale invernale di S. Maria Assunta) 21, 54, 125-126 cripta di S. Filastrio 128 – S. Giulia 53 – S. Maria dei Miracoli 21, 168 – S. Maria Maggiore (ecclesia minor), demolita 54, 125 – S. Pietro (ecclesia maior), demolita 54, 125 – SS. Maria, Cosma e Damiano, demolita 54 Palazzi, torri e fabbriche: – Palazzo Notarile 182
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Indice dei nomi e dei luoghi
Piazze e vie: – piazza del Duomo 284 – piazza del Mercato 284 – piazza della Loggia 21, 172 – piazza della Vittoria 21 – piazza Labus 34 – via dei Musei 53 – via dell’Ortaglia 54 Breventano, Stefano 177 Brignano Gera d’Adda (Bg) – Palazzo Visconti 202 Briosco, Benedetto 162 Broglio, Giovanni 291 Brosses, Charles de 209 Brunelleschi, Filippo 160, 178 Brusati, famiglia 110 Bulciago (Lc) – S. Stefano 75 Busto Arsizio (Va) – S. Maria di Piazza 172 Butinone, Bernardino 178 Caccia, Giuseppe 238 Caccia Dominioni, Luigi 297, 306, 308 Cacciatori, Benedetto 242 Cagnola, Luigi 242 Cairate (Va), monastero di S. Maria Assunta 74 Calvatone (Cr) 33 Campanini, Alfredo 282 Campione d’Italia (Co), S. Zenone 75 Camus, Renato 291 Canali, Guido 308 Canonica, Luigi 237-238, 242 Cantoni, Simone 237 Capo di Ponte (Bs) 23, 26, 29-30 – Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica (MUPRE) 29 – Parco Archeologico Comunale di SeradinaBedolina vd. anche sito unesco Arte rupestre della Val Camonica 21, 30 – Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri di Naquane vd. anche sito unesco Arte rupestre della Val Camonica 21, 26, 29 Carabelli, Donato 202 Carabelli, Francesco 237 Caravaggio (Merisi, Michelangelo detto) 172 Caravaggio (Bg) 33 Carbelli, Donato 225 Carminati, Antonio 289 Carrà, Carlo 289 Casella, Giambattista 208 Caserta, Reggia o Palazzo Reale 224 Cassani, Lorenzo 208 Cassano d’Adda (Mi) 95 Castellazzo di Bollate (Mi), Villa Arconati 21, 202 Castelleone (Cr) 95 Castelseprio (Va) 69, 73 – Parco Archeologico di Castelseprio-Torba (patrimonio dell’UNESCO) vd. anche Longobardi in Italia: i luoghi del potere (568-774) 69 basilica di San Giovanni e battistero 21, 69 S. Maria Foris Portas 73, 83 torre di Torba 69 Castiglione Olona (Va) 160 – battistero e chiesa di Villa 116, 160 – collegiata dei SS. Stefano e Lorenzo 116 Castiglioni, Branda, cardinale 116 Cattaneo, Carlo 256 Cattaneo, Cesare 284 Cavalcabò, famiglia 110 Cava Manara (Pv), Villa Olevano 195 Cemmo (Bs) – Parco Archeologico Nazionale dei Massi di
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Indice dei nomi e dei luoghi
Cemmo vd. anche sito unesco Arte rupestre della Val Camonica 29-30 – Pieve di S. Siro 30 Cernobbio (Co), Casa Cattaneo 287 Cernusco sul Naviglio (Mi), Villa Alari Visconti e giardino 202 Certosa di Pavia (Pv) – Certosa di Pavia (monastero di S. Maria delle Grazie) 21, 162, 177, 195 peschiera 195 Cerutti, Ezio 297 Cesariano, Cesare 168 Ceto (Bs) 23 Chalgrin, Jean 242 Chevalley, Jean 196 Chiaravalle Milanese (M), abbazia cisterciense 18, 95, 100 Chiari (Bs), piazza Zanardelli 33, 74 Chiesa Vecchia del Dosso (Mn) 75 Chignolo Po (Pv), Castello Procaccini e parco Cusani 196 Civate (Lc), complesso benedettino di S. Pietro al Monte 21, 83 Cividate Camuno (Bs) – anfiteatro 21, 26, 40 – Foro 40 – Parco Archeologico del Teatro e dell’Anfiteatro 40 – teatro 21, 26, 40 Clerici, Giorgio 202 Cleto da Castelletto Ticinese 194 Colleoni, famiglia 110 – Bartolomeo 160 Como 53, 58, 105, 116, 195, 257, 263, 284, 307 Aree archeologiche: – terme romane 58 Borgo di Coloniola 89 Borgo di Vico 89 Castelli: – castello della Torre Rotonda 110 Chiese e cattedrali: – basilica di S. Abbondio 58, 89 – battistero di S. Giovanni in Atrio 58, 125 – cattedrale di S. Maria Assunta (Duomo) 21, 105, 140, 164 – S. Fedele (ex S. Eufemia) 58, 125 – S. Giacomo 141 – S. Pietro in Atrio 58, 125 Palazzi, torri e fabbriche: – Asilo Sant’Elia 287 – broletto 21, 105, 116 – collegio Gallio (ex casa di Rondineto) 105 – ex Casa del Fascio 21, 287 – Ospedale S. Anna 160 – Palazzo del podestà 116 – Palazzo chiamato Novocomum 287 Piazze e vie: – piazza Camerlata con fontana 287 – via Dante 58 – via Perti 58 – Villa Olmo 21, 237 Porta Pretoria 58 Teatro Sociale 110 Cordemoy, Jean-Louis de 223 Crema (Cr) 89, 95, 172, 191 – cattedrale di S. Maria Assunta 21, 126 – S. Maria della Croce 168 Cremona 33, 53, 89, 95, 110, 125, 172 Chiese e cattedrali: – Basilica Major di S. Maria 58 – Basilica Minor di S. Stefano 58 – battistero paleocristiano 132 – camposanto dei Canonici 58 – cattedrale di S. Maria Assunta 21, 125, 132 – S. Giorgio 58
– S. Lorenzo Palazzi, torri e fabbriche: – Loggia dei Militi 105 – palazzo del comune 105 – Torrazzo 58, 105, 132 – Teatro Ponchielli Marino 238 Piazze e vie: – piazza Marconi 58 Cremonella, canale 95 Crespi, Cristoforo Benigno 267 Crespi, Daniele 172 Crespi, Giovan Battista 194 Crespi, Giulio 191 Crespi d’Adda (frazione del comune di Capriate San Gervasio, Bg; sito unesco, 1995) 21, 267 – Centrale idroelettrica Crippa, Giuseppe 247 Crippa, Maria Antonietta 160, 238 Cristoforo “de Entelevo” 128, 132 Crivelli, Giovanni Angelo 196 Croce, Francesco 140, 202, 208-209 Crotti, Renata 247 Cucchi, Giovanni Antonio 224-225 Cuniperto, re 58, 69 Cusani, Agostino, cardinale 196, 208 Cusani, Gerolamo 196 Dal Re, Marc’Antonio 191, 195-196, 202 Damiano, vescovo 69 Danusso, Arturo 297-298 Darfo-Boario Terme (Bs) 23 – Parco di Interesse Sovracomunale del Lago Moro vd. anche Angolo Terme 28 – sito dei Corni Freschi 28 De Capitani d’Arzago, Giuseppe 140 Decembrio, Pier Candido 116 Degani, Alessandro 140 De’ Grassi, Filippo 182 Della Torre, famiglia 110 De Marinis, Raffaele Carlo 24 Desenzano del Garda, villa romana in località Faustinella 41, 53, 74 Desiderio, re 54 Diocleziano, imperatore 35 Dolcebuono, Gian Giacomo 140, 162, 164, 168 Domodossola (Vb) – Sacro Monte Calvario (patrimonio dell’UNESCO) vd. anche Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia 195 santuario del Crocefisso 195 Durini, Angelo Maria, cardinale 224-225 Durini, Giuseppe 224 Ehrensvärd, C.A. 224 Elia, Simone 238 Ennodio 59 Ercolano 223 Eusebio, vescovo 62 Faenza 160 Falconi, Bernardino 194 Fara Olivana (Bg) 33 Favino, Aldo 306 Fedele, Francesco 24 Federico Barbarossa, imperatore 59, 89, 95 Federico ii, imperatore 110 Ferdinando d’Austria, arciduca 224-225 Ferdinando i, imperatore e re 242 Ferreri, Filippo 210 Ferrini, Benedetto 178 Ferrini, Giannino 282 Figini, Luigi 289, 306-307 Filarete (Averlino, Antonio detto il) 155, 160, 178 Fiorio, M.T. 168 Firenze
– S. Lorenzo con Sacrestia Vecchia 160, 168 Flero (Bs) 74 Fontaine, Pierre-François-Léonard 242 Fontana, Carlo 194, 196, 202 Fornaroli, Antonio 297 Fossati, Angelo Eugenio 27 Franchini, Lucio 160 Francia 196, 242, 261 Frommel, Christoph Luitpold 182 Fuksas, Massimiliano 307 Gallarate (Va) – chiesa della Madonnina in campagna 210 – cimitero 272 – Ospedale Civico 272 Galliori, Giulio 225 Gallizzioli, Costantino 238 Garbagnate Monastero (Lc), SS. Nazaro e Celso 75 Gardella, Ignazio 291, 297, 306-307 Gardella, Jacopo 307 Gardola di Tignale (Bs), S. Pietro 75 Garlate (Lc) 53 – S. Stefano 74-75 Genova 33, 182, 271 ,297 – Palazzo Ducale 237 Gerardo de’ Tintori, santo 110 Germania 75, 263 Ghedi (Bs) 74 Gianda, Jean 202 Gioachino da Cassano 195 Giotto 110 Giovan Battista da Comazzo 160 Giovanni da Campione 132 Giovanni da Milano 178 Giovannino de’ Grassi 140-141 Giovannoni, Gustavo 282 Giulio Romano 164 Goito (Mn) 33 – cimitero di via Mussolina 75 – necropoli della strada Calliera 75 Gonzaga, famiglia 110 – Ludovico 172 – Vespasiano 178 Grassi, Liliana 160 Grattarola, Marco Aurelio 194 Grecia 223 Gregorio xiii, papa 172 Grimoaldo, re 69 Guiscardi, famiglia 168 Hadid, Zaha 307 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 224 Isabella d’Adda, contessa 195 Isola Bella (Vb) 195 Isola Comacina 69, 73, 287 – basilica di S. Eufemia 21 – S. Giovanni 21 Isozaki, Arata 307 Italia settentrionale 24, 33-35, 41, 95, 125 Jacopo Porrata da Como 132 Jenks, Charles Juvarra, Filippo 141, 164 Kant, Immanuel 224 Kipar, Andreas 308 Lago di Como (Lario) 73 Lago di Garda 41, 49 Lago Maggiore 191, 194-195 Lainate (Mi), Villa Visconti Borromeo Litta e giardino con fontana di Galatea 202 Lambro, fiume 94, 257 Landolfo ii, vescovo 128
Landriani, Paolo 242 Landriano (Pv) 95 Langosco, famiglia 110 Lario vd. Lago di Como Latuada, Serviliano 208-209 Laugier, Marc-Antoine 223 Lavagnino, Emilio 247 Lecco 74, 257, 307 Lenno (Co), abbazia di S. Maria dell’Acquafredda 100 Leno (Bs), necropoli in frazione Porziano 75 Leonardo da Vinci 95, 164, 168, 177-178, 183 Leoni, Leone 183 Le Roy, J. Louis 224 Libeskind, Daniel 307 Lingeri, Pietro 284, 287, 291 Lissone (Mb), ex Casa del Fascio 287 Lobkowitz, Juan Caramel, vescovo 208-209 Lodi 33, 53, 58, 89, 95, 100, 105, 110, 125-126 Aree archeologiche: – anfiteatro 58 – foro 58 – teatro 58 Chiese e cattedrali: – cattedrale di S. Maria di Lodi Vecchio 21, 132 – S. Bassiano 59 – S. Filippo 210 – Tempio Civico dell’Incoronata 172 Palazzi, torri e fabbriche: – cascina Corte Bassa 132 – Ospedale Maggiore 160 – Palazzo del broletto 21, 132 – Palazzo vescovile 209 – torre campanaria 140 Piazze e vie: – via Papa Giovanni 59 – via Santi Nabore e Felice 59 – via Strabone 58 – via xxv Aprile 58 Lombardo, Cristoforo 162 Lomello (Pv) 69 – basilica romanica di S. Maria 73 – battistero di S. Giovanni ad Fontes 73 Longobardi 59, 116, 256 Longobardi in Italia: i luoghi del potere (568-774) (sito UNESCO, 2011) – complesso monastico longobardo di S. Salvatore-S. Giulia (Brescia) vd. anche Brescia 21, 54, 83 – Parco Archeologico di Castelseprio (Va) vd. anche Castelseprio 69 Longoni, Franco 298 Lorenzo degli Spazzi 141 Loreti, Mario 284 Ludovico il Pio, re 83 Luine (Bs) – Parco Comunale di Luine di Darfo-Boario Terme (patrimonio dell’UNESCO) vd. anche Arte rupestre della Val Camonica 23, 28 Luzzatti, Luigi 282 Maciachini, Carlo 272 Maffei, Andrea 307 Maggi, famiglia 110 Maggi Berardo, vescovo 105 Magistretti, Ludovico 297-298, 306 Malonno (Bs) 23 Mangiarotti, Angelo 306 Mangone, Fabio 208 Mantegazza, Antonio 162 Mantegazza, Cristoforo 162 Mantova (sito UNESCO con Sabbioneta, 2008) 75, 89, 110, 126 Castello di S. Giorgio 21 Chiese e cattedrali:
– battistero 21 – c attedrale di S. Pietro apostolo (Duomo) 21, 164 – S. Andrea 21, 172 – S. Lorenzo 21, 59 – S. Maria Mater Domini 59 – S. Sebastiano (Famedio) 172 Palazzi, torri e fabbriche: – Palazzo Ducale 21 – Torre della Gabbia 110 Piazze e vie: – piazza Sordello 59 Manzoni, Alessandro 191 Marcaleone da Nogarolo 178 Marchesi, Pompeo 242 Marco Nonio Macrino 41 Marcovigi, Giulio 289 Marenzi, Carlo 238 Marino, Tommaso 182 Martini, Arturo 289 Martini, Fabio 23 Martini, Francesco di Giorgio 164 Masera, Giovanni 269 Masolino da Panicale 116 Massimiano, imperatore 35, 59, 89 Matilde di Canossa 89 Mattei, Enrico 297 Mattioni, Luigi Medici, famiglia 168 Meili, Armin 298 Melotti, Fausto 289 Mengoni, Giuseppe 269, 271 Merlo, Carlo Giuseppe 208 Mescoli, Paolo 247 Mezzabarba, Carlo Ambrogio, vescovo 209-210 Mezzanotte, Paolo 289 Michelangelo Buonarroti 183 Michelozzi, Bartolomeo detto Michelozzo 160 Milano passim Arco della Pace (Arco della Vittoria o Porta del Sempione) 18, 242, 271 Area dei Corpi Santi 267, 269 Aree archeologiche: – anfiteatro romano 35 – circo romano – foro romano 35 – palazzo imperiale 35, 59 – Parco dell’Anfiteatro Romano 35 – teatro romano 35 Bastioni di Porta Orientale 247 Castelli: – Castello Sforzesco (Castello di Porta Giovia) 18, 116, 164, 242, 269, 271 Cortile della Rocchetta 178 piazza d’Armi 267 Ponticella 178 Portico dell’Elefante 178 Rocchetta viscontea 18, 116 Sala della Balla 178 Sala delle Asse 178 Sala del Tesoro 178 Torre del Filarete 271 Chiese e cattedrali: – basilica di S. Eustorgio 18, 168, 272 Cappella Portinari 18, 168 – basilica di S. Lorenzo 35 – basilica di S. Maria Maggiore, scomparsa 62, 140 – basilica di S. Simpliciano 18, 59, 89, 272 – basilica di S. Tecla, scomparsa 62, 140 – battistero di S. Giovanni ad Fontes 62, 140 – battistero di S. Stefano 140 – campanile della chiesa di S. Maurizio al Monastero Maggiore, ex Torre dei Carceres 35, 53, 59
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Indice dei nomi e dei luoghi
– Certosa di Garegnano (o di Milano) 18, 172 – Convento di S. Angelo 287 – Duomo (basilica cattedrale metropolitana di S. Maria Nascente) 18, 21, 29, 62, 140, 141, 164, 172, 177, 224-225, 242, 256, 297-298 – Madonna dei Poveri 306 – monastero di S. Vincenzo 83 – S. Ambrogio 18, 53, 62, 83, 89, 116, 287 Cappella di S. Vittore in Ciel d’Oro 18, 62 – S. Babila 272 – S. Carlo al Corso 247 – S. Celso 171 – S. Eufemia 272 – S. Fedele 183, 297 – S. Francesco da Paola 210 – S. Francesco d’Assisi al Fopponino 306 – S. Giovanni Battista alla Creta 306 – S. Giovanni in Conca 116 – S. Gottardo 18, 110 – S. Lorenzo 18, 62 cappella di S. Aquilino 18, 62 – S. Luca Evangelista 306 – S. Marco 272 – S. Maria del Carmine 177, 272 – S. Maria della Passione 172 – S. Maria della Sanità 18, 210 – S. Maria delle Grazie 18, 168 – S. Maria di Aurona, demolita 53, 62 – S. Maria presso S. Celso 168 – S. Maria presso S. Satiro 272 – S. Maurizio Maggiore 53, 59 – S. Maria Nascente 306 – S. Nazaro 62 – S. Satiro 168 – S. Sepolcro 208, 272 – SS. Giovanni Battista e Paolo 306 – SS. Quattro Evangelisti 306 Cimitero Monumentale 18, 271, 272 Complesso La Viridiana 306 Complesso Milano S. Felice 306 Darsena 18, 95, 116 Foro Bonaparte 271 Giardini Pubblici 18, 247, 287 Naviglio della Martesana 195 Naviglio Grande 18, 95, 195 Palazzi, torri e fabbriche: – Arengario 18, 284, 289 – Arena Civica 18, 242 – Biblioteca Ambrosiana 18, 208 – Ca’ Brutta 287 – Ca’ Granda dei Poveri di Dio ex Ospedale Maggiore 18, 155, 160 – Carcere di S. Vittore 272 – Casa Comolli Rustici 291 – Casa degli Omenoni 183 – Casa del fascio della Federazione fascista 289 – Casa di Riposo dei Musicisti “Giuseppe Verdi” 272 – Casa Feltrinelli 282 – Casa Ghiringhelli 291 – Casa Lavezzari 291 – Casa Rustici 291 – Casa Toninello 291 – Centro dell’Angelicum 287 – Centro svizzero 298 – Clinica Columbus (ex Villa Faccanoni) 282 – Collegio dei Gesuiti (Palazzo Brera) 18, 208209 – Collegio Elvetico 18, 208 – Galleria de Cristoforis 271 – grattacieli Bosco Verticale 18, 308 – Grattacielo di Milano 298 – Grattacielo Pirelli 18, 297, 308 – Macello 272 – Museo Civico Archeologico 29
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Indice dei nomi e dei luoghi
– NH hotel Milano Fiera 307 – Ospedale del Brolo 110 – Ospedale di Niguarda 289 – Palazzo Cusani 18, 208 – Palazzo della Banca commerciale italiana 271 – Palazzo della Ragione 18, 105, 128 – Palazzo della Triennale 18, 287 – Palazzo delle Assicurazioni Generali 271 – Palazzo Castiglioni 282 – Palazzo della Borsa 289 – Palazzo della Camera Confederale del Lavoro 289 – Palazzo di Giustizia 18, 284, 289 – Palazzo Ducale 140, 178 – Palazzo eiar (poi rai) 287 – Palazzo Fidia 289 – Palazzo Fontana Pirovano Silvestri 183 – Palazzo Litta 208 – Palazzo Lombardia, nuova sede della Regione 18 – Palazzo Marino 182-183, 272 Cortile d’Onore 182 Sala Alessi 182 – Palazzo Montecatini 287 – Palazzo per la Società delle Belle Arti ed Esposizione Permanente 271 – Palazzo Reale 225 – Palazzo Serbelloni 237 – Palazzo Sormani 18, 209 – Pinacoteca di Brera (ex casa della Brera) 105 – Politecnico 256, 272, 282, 307 – Rotonda della Besana 18, 191, 209 – Scuole della Società umanitaria 298 – scuole elementari di via Galvani 272 – sede espositiva dell’Expo 2015 307 – Seminario Maggiore 208 – Stazione Garibaldi 297, 308 – Stazione Centrale 18, 263, 289, 297 – Teatro alla Scala 18, 238 – Teatro dal Verme 272 – Teatro degli Arcimboldi 307 – Teatro del Palazzo Arciducale 238 – Torre al parco 298 – Torre Aria Arquitectonica 18, 308 – Torre Diamante 18, 308 – Torre di Terrazza Martini 298 – Torre Galfa 297-298 – Torre Il Curvo 307 – Torre Il Dritto 307 – Torre Lo Storto 307 – Torre Littoria 287 – Torre Solaria 18, 308 – Torre Solea 308 – Torre Turati 298 – Torre Velasca 18, 298 – Università Bocconi 291 – Università Cattolica del Sacro Cuore 287 – Università statale 307 Parco Sempione 267, 271, 287 Porta Nuova 18, 242, 308 Porta Romana 62, 307 Porta Ticinese 95, 116, 242 Porta Venezia 18, 282 Porta Vercellina 242 Piazze, quartieri e vie: – Borgo delle Grazie 168 – corso di Porta Romana 62 – corso Europa 18, 297 – corso Indipendenza 282 – corso Sempione 271, 291, 298 – corso Venezia 282, 287, 298 – corso Vittorio Emanuele 297 – Largo Augusto 209 – piazza Affari 289 – piazza Cavour 256, 298
– piazza Cordusio 271 – piazza della Repubblica 263 – piazza Diaz 271, 289, 298 – piazza di Palazzo Reale 271 – piazza di Porta Tosa 209 – piazza Duca d’Aosta 297 – piazza Duomo 54, 59, 263, 267, 269, 271, 289 Coperto dei Figini, demolito 269 Galleria Vittorio Emanuele ii 18, 269 – piazza Fontana 271 – piazza Lombardia 308 – piazza Mercanti 271 – piazza Morbegno 291 – piazza Scala 271 – piazza S. Babila 297 – piazza S. Fedele 182, 271-272 – piazza S. Sepolcro 289 – piazzale Corvetto 307 – piazzale Lagosta 291 – quartiere Baggio 291, 306 – quartiere della Bicocca 307 – quartiere della Bovisa 307 – quartiere di Porta Vercellina 59 – quartiere di Quarto Cagnino 301 – quartiere di Rogoredo 307 – quartiere Fabio Filzi 291 – quartiere Feltre 301 – quartiere Fiera 307-308 – quartiere giardino del Milanino 282 – quartiere Gratosoglio 301 – quartiere Harar Dessié 301 – quartiere S. Ambrogio i 301 – quartiere S. Ambrogio ii 301 – quartiere sperimentale QT8 298, 301, 306 – quartiere S. Siro 18 – via Albricci 18, 297 – via Birago 291 – via Borgogna 18, 297 – via Brisa 18, 35 – via Buonarroti 282 – via Cialdini 282 – via Corridoni 298 – via Crescenzago 301 – via Dante 58, 271 – via Daverio 298 – via Forze Armate 306 – via Illirico 291 – via Lombardia 282 – via Lulli 282 – via Mac Mahon 282 – via Monte di Pietà 62 – via Moscova 287 – via Mozart 289 – via Niguarda 282 – via Novara 160 – via Orefici 271 – via Pepe 291 – via Perasto 291 – via Ripamonti 282 – via Rubattino 307 – via Spaventa 282 – via Tibaldi 282 – via Turati 271, 287 – zona Certosa 307 – zona Lambrate 301 Ville: – Villa Clerici a Niguarda 202 – Villa Figini 289 – Villa Necchi Campiglio 289 – Villa Reale (già Villa Belgojoso Bonaparte) con parco 225 Mincio, fiume 59, 75, 257 Minoletti, Giulio 291 Mirabella Roberti, Mario 140 Monneret de Villard, Ugo 73
Montalto Pavese (Pv), Castello e giardino 196 Montanaro, Antonio 168 Monti, Attilio 298 Monti, Cesare, cardinale 209 Monti, Gaetano 242 Montichiari (Bs) – necropoli di S. Giorgio 75 – necropoli di S. Zeno 75 Montini, Giovanni Battista, arcivescovo 306 Monza 21, 59, 62, 105, 110, 224, 261 – Arengario 21, 100 – Duomo di S. Giovanni Battista 21, 62 – Villa Mirabellino 225 – Villa Mirabello 224 – Villa Reale con parco 21, 224-225, 257 Morassutti, Bruno 306 Moretti, Gaetano 267, 282 Moretti, Luigi 298 Morimondo (Mi), monastero cisterciense 95, 100 Mosio (Mn) 33 Mucchi, Gabriele 297 Muzio, Giovanni 287, 298, 306 Muzio, Virginio 284 Muzza, canale 95 Nadro (Bs), Museo Didattico della Riserva 29 Napoleone Bonaparte 141, 242, 271 Napoli 271 Nervi, Pier Luigi 297 Nicolo v, papa 155 Niemeyer, Oscar 306 Nuvolento (Bs), Pieve 49 Nuvoloni, Pier Francesco 210 Oberto da Dovara, vescovo 132 Odescalchi, Giulio Maria 194 Odescalchi, Innocenzo, marchese 237 Odoacre, re 58, 74 Oglio, fiume 33, 35, 40, 257 Olevano (Pv), S. Michele 210 Olgiate Molgora (Lc), S. Pietro in Beolco 75 Olona, fiume 69, 74, 257 Oneto, Gilberto 191 Orio Litta (Lo), villa della Somaglia 202 Orta San Giulio (No) – Sacro Monte di Orta (patrimonio dell’UNESCO) vd. anche Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia 194 Orzinuovi (Bs) 95 Ossimo (Bs) – Parco archeologico di Asinino-Anvòia (patrimonio dell’UNESCO) vd. anche Arte rupestre della Val Camonica 29 – sito di Anvòia e Pat 24, 29 Ozzero (Mi) 95 Paderno d’Adda (Lc) 21, 263 Pagano, Giuseppe 284 Pagano, Mario 291 Palanti, Giancarlo 291, 297 Palladio, Andrea 182 Paolo Diacono 62, 69, 73 Parco dell’Adamello 31 Parigi 242 – Arc de Triomphe 271 – Arc du Carrousel 242 – Chambre des Députés 242 – Champs Elysées 271 – La Madeleine 242 Parini, Giuseppe 225 Parler, Heinrich 140 Parma 160 Parmigianino (Mazzola Francesco detto il) 183 Patetta, Luciano 168, 172 Pavia 33, 35, 53, 73, 83, 95, 110, 116, 247, 256
Chiese e cattedrali: – cattedrale di S. Siro 162 – cattedrale romanica preesistente di S. Maria Maggiore (S. Maria del Popolo) 126, 162 – cattedrale romanica preesistente di S. Stefano 69 – chiesa della Madonna di Caravaggio 306 – Duomo 21, 164 – monastero di S. Felice 62, 73 – monastero di S. Maria Teodate 53 – S. Ambrogio 69 – S. Adriano 69 – S. Eufemia 69 – S. Eusebio, scomparsa 69 – S. Francesco da Paola 210 – S. Giovanni Battista, distrutta 69 – S. Maria alle Pertiche, distrutta 62 – S. Michele 21, 89 – S. Pietro in Ciel d’Oro 89 – S. Tommaso, scomparsa 69 – SS. Gervasio e Protasio 69 Castelli: – Castello Visconteo 21, 177 Palazzi, torri e fabbriche: – broletto 95 – Collegio Borromeo 21, 195, 208 – Musei Civici 69 – oratorio dei SS. Quirico e Giulitta 209 – Palazzo Mezzabarba 191, 209 – ponte coperto 89 – torre civica 126 – Università 208 Piazze, quartieri e vie: – piazza Ghislieri 210 – piazza Grande 69 – quartiere Borgo Ticino 89 Pavia, Angelo 269 Pellegrini, Pellegrino 194, 208 Percier, Charles 242 Peressutti, Enrico 297 Perin del Vaga (Bonaccorsi Piero di Giovanni detto) 182 Perrault, Dominique 307 Persico, Edoardo 284 Pertarido, re 69 Pessina, Giovanni Ambrogio 208 Peterzano, Simone 172 Piacentini, Marcello 284, 289 Piacenza 140, 160 Piancogno (Bs) 23 Piazza, Callisto 140 Piermarini, Giuseppe 208, 224-225, 238, 247 Pietrasanta, Carlo Federico 210 Pio ii, papa 155 Piranesi, Giovanni Battista 224 Pistocchi, Giuseppe 242 Pizzagalli, Felice 247 Pizzi, Angelo 225 Pizzighettone (Cr) 95 Plemo (Bs) 23 Po, fiume 33, 35, 89, 257 Pollack, Leopold 141 Pollini, Gino 301, 306 Pompei 223 Ponti, Gio 287, 297, 301, 306 Porcinai, Pietro 306 Portaluppi, Piero 289 Portinari, Pigello 160 Poyet, Louis 242 Pozzi, Carlo 225 Predaval, Giangiacomo Procopio 54, 59 Proietto, vescovo 59 Pucci, Mario 297 Putelli, Aldo 297
Putti, Giovanni 242 Quadrio, Giovanni Battista 208 Quadrio, Girolamo 224 Quaroni, Giuseppe 284 Radice, Mario 287 Raffagno, Carlo Francesco 209 Rainaldo, vescovo 141 Rampini, Enrico, arcivescovo 155 Rescalda (Mi) 95 Rescaldina (Mi) 95 Richini, Francesco Maria 194-195, 208-209 Rimini, Tempio Malatestiano 172 Riva del Garda (Tn) 73 Rivola, famiglia 110 Rocchi, Cristoforo 162 Rodari, Tommaso 141 Rodelinda, regina 69 Rogers, Ernesto Nathan 297 Rogno (Bs) 24 Roma 34, 202, 224, 271, 282, 284 – circo di Massenzio 35, 242 – Colosseo 35 – tomba di Giulio ii in S. Pietro in Vincoli 183 Romanelli, Romano 289 Romano, Giovanni 298 Rosselli, Alberto 297 Rossi, Aldo 301 Rusca, Grazioso 225 Rusconi, famiglia 110 Rusconi, Giovanni Antonio 182 Sabbioneta (sito UNESCO con Mantova, 2008) 21, 178 Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia (sito UNESCO, 2003) – Sacro Monte Calvario vd. anche Domodossola 195 – Sacro Monte di Arona e il Sancarlone vd. anche Arona 21, 194, 208 – Sacro Monte di Orta vd. anche Orta 194 – Sacro Monte di Varallo vd. anche Varallo 191, 194 – Sacro Monte di Varese vd. anche Varese 21, 194 Saltini, Mario 306 San Benedetto Po (Mn), abbazia di Polirone 172 San Donato Milanese (Mi) – Metanopoli 297 – S. Barbara 297 – S. Enrico 306 Sangiorgio, Abbondio 242 Sanseverino, famiglia 168 Sansoni, Umberto 27 Sansovino, Jacopo 182 Scarabota, Luchino 141 Scotti, Aurora 182 Secchi, Luigi Lorenzo 289 Segrate (Mi), Palazzo Mondadori 306 Sellero (Bs) – Parco Comunale Archeologico e Minerario di Sellero vd. anche sito unesco Arte rupestre della Val Camonica 23, 30 Selva, Attilio 289 Seregni, Vincenzo 164, 178 Seregno (Mb) 263 Serio, fiume 95 Sesto S. Giovanni (Mi) 307 Seveso (Mb), Villa Bianca 287 Sforza, famiglia 155, 160, 178, 182 – Ascanio, vescovo 162 – Francesco 160, 164, 168, 178 – Galeazzo Maria 168 – Gian Galeazzo 178
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Indice dei nomi e dei luoghi
– Ludovico detto il Moro 162, 178 Sicardo, vescovo 132 Sillaro, fiume 59 Silva, Ercole, conte 225 Simone da Orsenigo 141 Sion (Svizzera) 24 Sirmione (Bs) 41, 69, 73 – Castello Scaligero 73 – Grotte di Catullo 21, 41, 73 – monastero di S. Salvatore 73 – S. Martino 73 – S. Pietro in Mavinas 73 – S. Vito 73 Sironi, Mario 289 Solari, Cristoforo detto il Gobbo 141, 164, 168 Solari, Giovanni 140 Solari, Guiniforte 140, 155, 160, 162, 164, 168 Somaglia, Antonio della, conte 202 Sommaruga, Giuseppe 282 Soncini, Ermenegildo 298 Soncini, Eugenio 298 Soncino (Cr) 95 Sonico (Bs) 23 – Percorso Pluritematico del “Coren delle Fate” di Sonico vd. anche sito unesco Arte rupestre della Val Camonica 23, 31 Spinera di Breno (Bs) 21, 40 – complesso santuariale con tempio a Minerva 26 Stacchini, Ulisse 289 Stanga, famiglia 168 Stendhal 261 Stoccarda, quartiere Weissenhof 291 Stornaloco, Gabriele 141 Stuart, James 224 Tagliamento, fiume 242 Tazzini, Giacomo 242 Tedeschi, Mario 306 Teodolinda, regina 62, 73 Teodorico, re 58, 69, 74 Terragni, Giuseppe 284, 291
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Tibaldi, Pellegrino 141, 172 Tiberio, imperatore 58 Ticino, fiume 35, 75, 95, 242, 256 Tiziano Vecellio 183 Tommaso Lazzaro di Val d’Intelvi 195 Torino 284, 297 Tornavento (Va) 95 Torricella Verzate (Pv), Santuario della Passione 194 Toscolano Maderno (Bs), villa dei Nonii Arii 41 Tozzi, Pier Luigi 40 Traforo del Frejus 263 Traforo del Sempione 263 Traforo del S. Gottardo 263 Treviglio (Bg) 33 Trezzi, Aurelio 208 Trezzo d’Adda (Mi) 75 – necropoli dei “signori degli anelli” 75 Ucraina 75 Valle, Gino 307-308 Valle Camonica 23-24, 26-30, 35, 40 Val Sabbia 49 Valtrompia 34 Vanvitelli, Luigi 182, 224-225 Vanzaghello (Mi) 95 Vanzago (Mi) 95 Varallo (Vc) – Sacro Monte di Varallo (patrimonio dell’UNESCO) vd. anche Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia 191, 194 Varese 195, 257, 307 – Madonnina in campagna 210 – Ospedale psichiatrico 284 – Palazzo Littorio 284 – piazza Monte Grappa 21, 284 – Sacro Monte di Varese (patrimonio dell’UNESCO) vd. anche Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia 21, 194 – S. Antonio di Padova alla Brunella 306 Vasari, Giorgio 183
Venceslao, imperatore 116 Vender, Claudio 297 Veneroni, Giovanni Antonio 196, 208-210 Venezia 172, 182, 263 Vercelli 160 Vercelloni, Virgilio 223, 247 Verona 132 Vespasiano, imperatore 34 Vicino Oriente 23 Vigevano (Mi) 208 – Duomo 21, 191, 209 – Palazzo Ducale 178 – Piazza Ducale 21, 209 Vigni, Corrado 289 Vignon, Pierre-Alexandre Barthélémy 242 Villafranca (Vr) 24, 28 Villoresi, Antonio 225 Vimercati, Gasparo 168 Visconti, famiglia 69, 110, 116, 155, 177, 182, 202 – Azzone 110, 116 – Bernabò 116 – Filippo Maria 178 – Galeazzo ii 177 – Gian Galeazzo 140 – Giovanni Maria – Luchino 116 Visconti Borromeo, Pirro 202 Vistarini, famiglia 110 Vitaliano vi, cardinale 196 Vitani, famiglia 110 Voghera (Pv), S. Giuseppe 210 Watkind, David 223 Wilson, Peter L. 306 Winckelmann, Johann Joachim 223, 237 Zaist, Giovanni Battista 238 Zandobbio (Bg) 128 Zanella, Siro 194 Zanoia, Giuseppe 242 Zenale, Bernardino 164, 168, 178 Zucchi, Cino 308