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ARTE MODERNA Testi di Philip Cottrell, Enrico Crispolti, Thomas DaCosta Kaufmann, Jörg Garms, Ronald Lightbown, Dmitrij V. Sarab’janov, Pascal de Torres, Pierre Vaisse
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© 2008 Editoriale Jaca Book SpA Lunwerg Editores, Barcellona-Madrid tutti i diritti riservati © 2008 vegap, Barcelona per le riproduzioni autorizzate © 2018 Editoriale Jaca Book Srl Prima edizione italiana ottobre 2018 Traduzioni Dal francese: Fabio Scirea (de Torres, Vaisse) Dall’inglese: Roberto Cassanelli (Cottrell, Lightbown), Elena Lissoni (DaCosta Kaufmann) Dal russo: Ada Fratini (Sarab’janov) Dal tedesco: Cristina Lombardo (Garms)
Copertina e impaginazione Break Point/Jaca Book
Stampa e legatura Stamperia scrl, Parma ottobre 2018
ISBN 978-88-16-60568-8
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
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SOMMARIO
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L’ARTE DEL XV SECOLO Ronald Lightbown pag. 9
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L’ARTE RUSSA DAL RINASCIMENTO ALLE AVANGUARDIE Dmitrij V. Sarab’janov pag. 59 L’ARTE DEL XVI SECOLO Philip Cottrell pag. 73
A
L’ARTE DEL XVII SECOLO Thomas DaCosta Kaufmann pag. 103 L’ARTE DEL XVIII SECOLO Pascal de Torres pag. 133 L’ARCHITETTURA DEL XVIII SECOLO Jörg Garms pag. 155 IL XIX SECOLO Pierre Vaisse pag. 171 IL XX SECOLO Enrico Crispolti pag. 203
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Bibliografia pag. 243
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Ronald Lightbown
1. Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto), David, particolare. Bronzo, 1435 ca. Museo Nazionale del Bargello, Firenze.
Il xv secolo, l’ultimo del Medioevo e il primo del Rinascimento, è anche il primo dell’arte occidentale del quale rimanga un abbondante lascito di architetture, pitture, sculture, arazzi, vetrate e oreficerie, di documenti che illustrano la storia dell’arte e gli artisti, di trattati d’arte non solo tecnici, ma anche teorici. In questo periodo le arti conservarono all’interno della gerarchia sociale lo status di attività manuali assegnato loro fin dalla tarda antichità. Durante il Medioevo propriamente detto tale condizione sociale intermedia non impedì però che fossero tenuti in alta considerazione singoli artisti e artigiani di grande talento. A differenza dei poeti, tuttavia, gli artisti non vennero considerati uomini di cultura, e così nel Rinascimento si sforzarono di acquisire una conoscenza sufficiente in campo classico e letterario che permettesse loro di muoversi con disinvoltura nella società colta e nobile, nonché di dipingere o scolpire soggetti congeniali alla nuova cultura umanistica. Non esisteva ancora la professione dell’architetto; gli edifici erano progettati o realizzati da costruttori formatisi in logge di muratori, o, in Italia, da scultori e carpentieri che erano anche muratori. La figura dell’architetto amatore, più progettista che esecutore, emerse col Rinascimento, in particolare con Leon Battista Alberti (1404-72), sintomo dell’interesse crescente delle classi elevate almeno per le discipline artistiche più nobili. Il punto di partenza per la formazione di un artista continuava ad essere l’apprendistato presso la bottega di un maestro. I talenti vennero però stimolati dal ricco mecenatismo – di principi e aristocratici, di corporazioni o di
mercanti – di un’età di grande magnificenza e opulenza. Ad eccezione dell’Italia, dove ebbero gli scultori come rivali, i pittori costituirono ovunque la professione artistica dominante, fornendo disegni, oltre che per il loro specifico campo, per arazzi, ricami, vetrate e, in Francia, sculture. Gli architetti, i pittori e gli scultori di maggior successo poterono raggiungere la ricchezza; è in questo secolo che i primi pittori vennero nominati cavalieri o insigniti della dignità di conte palatino e ammessi così ai ranghi inferiori della nobiltà, il più alto livello cui poterono aspirare prima del xix secolo. Si trattò infine, con poche eccezioni, di un’epoca di profonda fede, nell’Italia umanistica come nel Nord della devotio novella. A causa della straordinaria varietà e ricchezza della produzione artistica, questo contributo tratterà in primo luogo dell’architettura tardogotica come principale esperienza artistica, e delle forme d’arte a questa collegate; poi delle corrispondenze di intenti artistici tra i Paesi Bassi e l’Italia, i due grandi centri di irradiazione delle innovazioni del xv secolo; gettando poi uno sguardo ai principali centri di produzione artistica dell’Europa occidentale, prima di concludere con l’apparire del Rinascimento e le trasformazioni che portò con sé, per giungere infine agevolmente al compimento delle conquiste culturali del nuovo stile e delle sue aspirazioni nel xvi secolo. La principale preoccupazione dei grandi mecenati, laici ed ecclesiastici, era costituita dalla costruzione o dal completamento di chiese e castelli, seguita dalla decorazione. Alla fine del xiv secolo la maggior parte delle cattedrali e delle grandi chiese collegiate
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d’Europa esisteva già, ma era lontana dall’esaurirsi l’aspirazione a edificare architetture grandiose in onore di Dio, della Chiesa, del capitolo di una cattedrale, della propria famiglia o ad ornamento di una città. Il duomo di Milano venne iniziato nel 1386 dall’arcivescovo della città con il sostegno del duca Gian Galeazzo Visconti, in un ricco stile tardogotico e in un costoso marmo bianco, con numerosi pinnacoli che lo resero caro ai romantici. Ancora nel 1402 i canonici di Siviglia diedero inizio alla loro imponente cattedrale con l’intenzione di superare in grandezza e splendore tutte le cattedrali della cristianità. Viceversa diminuì sia di numero che d’importanza artistica la fondazione di monasteri e conventi. Costituirono un’eccezione solo quei monasteri – soprattutto certosini – edificati o trasformati in mausolei dinastici, conseguenza naturale dell’affermazione nel corso del xiv e xv secolo di molte dinastie principesche, sia per legittimi diritti feudali, come in Francia ad esempio, sia, come in Italia, a seguito della presa del potere. La tradizione di seppellire sovrani, principi o feudatari nelle abbazie risale d’altra parte al primo Medioevo. La ragione della fondazione di così tante certose fu il favore di cui godettero i certosini come ordine di austere virtù. L’esempio venne dato dalla Certosa di Champmol, fondata nel 1383 dal duca Filippo l’Ardito di Borgogna, della linea reale francese, e fu seguito in Italia da Gian Galeazzo Visconti, che nel 1396 fondò la Certosa di Pavia, e da Sigismondo Pandolfo Malatesta che iniziò nel 1447 a Rimini la ricostruzione della chiesa francescana di San Francesco per servire da mausoleo per sé, la moglie Isotta, i suoi avi e gli umanisti di corte. In Spagna Giovanni ii di Castiglia fondò come proprio mausoleo nel 1441 nei pressi di Burgos la Cartuja de Miraflores (1454-88), mentre i Reyes Catolicos, prima di stabilire dopo il 1492 il loro luogo di sepoltura nella cattedrale di Granada, eressero a Toledo, la storica capitale imperiale di Spagna, il convento francescano di San Juan de los Reyes, per ospitare le loro spoglie. Nel 1475 Edoardo iv, primo re della dinastia York, fondò nel castello di Windsor la cappella di Saint
Edward, completata nel 1506, per ospitare le tombe della famiglia reale, mentre Enrico vii aggiunse nell’abbazia di Westminster a partire dal 1502 una nuova cappella (completata nel 1520) come mausoleo per la nuova dinastia dei Tudor. In Portogallo il grande convento gerolamino di Belém venne fondato nel 1497 da D. Manuel i, mentre il convento agostiniano noto come Eglise de Brou, una delle ultime grandi creazioni del gotico flamboyant, fu realizzato su commissione di Margherita d’Austria per ospitare la propria tomba, insieme a quelle del marito e della suocera. Le altre grandi architetture religiose del tempo furono per lo più committenze reali o principesche. In Inghilterra la grande cappella del Collegio Reale di Eton e le fondazioni coeve, come il King’s College a Cambridge, furono iniziate da Enrico vi rispettivamente nel 1443 e nel 1448. Come di consuetudine il completamento avvenne molto tempo dopo e, ad esempio, la cappella del King’s College venne ultimata solo nel 1515. Caratteristica di queste fondazioni è la grande ricchezza del progetto, della realizzazione e della esibizione araldica, con i quali, attraverso la profusione di stemmi ed emblemi, si attestava la devozione dei fondatori. I mecenati di minori ambizioni si accontentavano di fondare e decorare nelle chiese cappelle private, che potevano variare per dimensione e splendore: dagli umili altari appoggiati alle pareti delle chiese sino alla gigantesca cappella esagonale di san Giacomo, eretta nel 1435-50 come cappella funeraria nel più ricco stile gotico flamboyant, decorata con conchiglie di san Giacomo e con il crescente lunare, la cattedrale di Toledo di don Álvaro de Luna, maestro dell’Ordine di san Giacomo. Qualunque fosse la loro natura – chiesa conventuale, cappella o semplice altare –, il tema di queste fondazioni era sempre lo stesso, la celebrazione di messe per la salvezza dell’anima del fondatore e dei membri della sua famiglia, preoccupazione ossessiva del tardo Medioevo dopo che alla fine del xiii secolo si era diffusa la dottrina del Purgatorio. Molte di queste cappelle, specie in Italia e in Spagna, vennero realizzate per una sola persona
2. Volta dell’abside, 1484 ca. Chiesa della Real Cartuja de Santa María de Miraflores, Burgos.
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o per un’unica famiglia, mentre nelle chiese parrocchiali o nelle collegiate del Nord Europa ne venivano fondate altre, decorate e mantenute da confraternite religiose o corporazioni laiche. Queste costituirono un’importante fonte di committenza, dato che per ognuna, solitamente, veniva commissionata una pala d’altare, dipinta ad affresco o scolpita, un paliotto dipinto o tessuto, un calice e le vesti liturgiche. Talvolta le corporazioni si associavano nella decorazione di una chiesa: così a Firenze le pareti perimetrali esterne di Orsanmichele, un mercato del grano trasformato in chiesa della corporazione, vennero decorate tra la metà del xv e il xvi secolo con tabernacoli ospitanti statue di santi, ciascuna delle quali dedicata dalle diverse corporazioni cittadine. Era consueto nel Medioevo che uomini e donne che non potevano aspirare alla realizzazione di commissioni individuali, si riunissero in corporazioni al fine di rafforzare la loro posizione. I consigli e le magistrature di città e paesi a nord e a sud delle Alpi continuarono a decorare i luoghi in cui si riunivano o amministravano la giustizia con pitture e sculture appropriate e ricchi arredi. La celebre Resurrezione di Piero della Francesca (1457 ca.) è un’opera commissionata per la camera del consiglio nel municipio di Borgo San Sepolcro. Come per le cattedrali e le chiese, era già stata costruita la maggior parte degli edifici pubblici, il municipio e le sedi delle corporazioni medievali, ma in molte città mercantili – Siena, Ancona, Palma, Saragozza, Valencia, Anversa – si edificarono nel corso del secolo banchi di cambio per i mercanti, indizio della loro fiorente attività commerciale. I castelli, sebbene almeno alcuni fossero stati certamente costruiti come roccaforti a scopo difensivo, divennero sempre più residenze di campagna, mantenendo il loro aspetto originario come simbolo tradizionale dello status sociale di una società ancora feudale, talvolta con uno spirito romantico derivato dai racconti cavallereschi. Castelli principeschi – ad esempio l’Alcázar di Segovia, ricostruito tra il 1410 e il 1455 da Giovanni ii di Castiglia, Olite, costruito da Carlo iii di Navarra negli anni ’90
del Trecento, il castello di Pavia, rinnovato da Francesco Sforza a partire degli anni ’60 del xv secolo – presentavano ricche decorazioni, talvolta fantasiosamente elaborate. Torrioni e merlature, le principali caratteristiche convenzionali del castello, sopravvissero fino al xvi secolo, ma anche nella Spagna delle crociate cominciarono a essere costruiti palazzi senza torri, come Guadalajara (1480-1496 ca.) e il contemporaneo Cogolludo. Dell’architettura delle ambiziose residenze urbane del medioevo fuori d’Italia si sa poco, sebbene una serie di splendide sculture del xiii secolo con musici, tolte nell’Ottocento da un’abitazione di Reims, ci segnali quanto grande sia la nostra ignoranza al proposito. Al Nord il primo segno di benessere e posizione sociale fu l’impiego della pietra al posto del legno, mentre si costruirono in mattoni i palazzi nobiliari cittadini di Lombardia e Veneto, e in pietra e mattoni in Toscana. In Francia e in Inghilterra – dove la centralizzazione del potere nella capitale attraeva l’alta nobiltà e i grandi ecclesiastici – grandi signori, vescovi e abati fecero costruire a Londra e Parigi residenze sontuose dove alloggiare: il Museo di Cluny è ospitato in uno splendido hôtel realizzato in pietra dall’abate Jacques d’Amboise tra il 1485 e il 1498. Nel xv secolo ricchi borghesi ed esponenti delle professioni costruirono palazzi monumentali in città di provincia, di cui sono esempi famosi la Maison de Jacques Coeur a Bourges, costruita dal grande finanziere francese tra il 1441 e il 1453 e decorata, oltre che da sculture e vetrate, dai suoi emblemi araldici, e la Casa de las Conchas a Salamanca (1475-1480), con le pareti decorate da conchiglie, a simboleggiare l’appartenenza del suo proprietario, Talavera Maldonado, all’Ordine di san Giacomo. Questo tipo di emblemi o simboli erano uno degli elementi decorativi dell’architettura preferiti in un’epoca in cui l’intera Europa aveva una mentalità araldica. Queste dimore presentano una sorta di concentrato splendore che, sebbene non fosse in grado di rivaleggiare per grandiosità di dimensioni con le residenze nobili o principesche, racchiudeva in scala minore una notevole raffinatezza di progetto e ricchezza di materiali.
3. Masaccio (Tommaso di Giovanni Cassai, detto), Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre. Affresco, 1425-1428. Cappella Brancacci, chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze.
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Tale aspirazione raggiunse la sua più sontuosa espressione nella Venezia tardogotica con la Ca’ d’Oro, realizzata da architetti lombardi e dagli scultori Giovanni e Bartolomeo Buon dal 1422 al 1434 per il procuratore Marino Contarini, che ne voleva fare la casa più lussuosa al mondo. Gli stili del tardogotico non hanno sempre incontrato il favore degli amanti del volume in architettura per l’estremo linearismo delle forme e la ricchezza decorativa che caratterizza volte e trafori. In Francia, dal 1370 circa, lo stile dominante è detto flamboyant dai motivi a forma di fiamma ondeggiante formati dai trafori delle finestre, mentre in Inghilterra il tardogotico è noto come «stile perpendicolare». Non si tratta a dire il vero di uno stile proprio del xv secolo, dato che compare almeno dal 1330, e dal terzo quarto del Trecento si afferma come lo stile principale. La sua estetica si fonda su un’elegante leggerezza, caratterizzata da grandi finestre e dallo slancio verticale, ed è stato anche lo stile più copiato e ammirato nel primo gothic revival inglese. In esso non vi è nulla dell’andamento ondeggiante e fluttuante del flamboyant; i trafori sono caratterizzati da bande longitudinali e verticali severe e sottili, e dalle coperture dapprima a fitte nervature e poi a ventaglio. Le realizzazioni più ambiziose del xv secolo sono tre fondazioni reali: le cappelle di San Giorgio a Windsor e del King’s College a Cambridge – una delle poche chiese medievali che conserva tutta la sua magnificenza d’architettura e vetrate –, e la cappella di re Enrico vii nell’abbazia di Westminster. La stessa linearità, ma con maggiore libertà di progetto, si ritrova nelle architetture religiose tardogotiche di Germania. Il tipo standard rimane la chiesa a sala, popolare in Germania dalla fine del xiii secolo. La grande chiesa urbana, al posto della grande cattedrale, è l’edificio tipico del tardogotico tedesco, di prosperità mercantile. In un paese nel quale le corporazioni furono, forse, più potenti che in ogni altra parte dell’Europa medievale, non sorprende che l’attività edilizia tedesca fosse controllata da quattro logge permanenti, che finanziarono dinastie di ma-
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estri come la famosa famiglia Parler. Queste logge proseguirono a lungo oltre il Medioevo, cosicché la Germania medievale ci ha lasciato più disegni e progetti architettonici di ogni altra parte d’Europa. Il tardogotico tedesco è uno stile ambizioso, che valorizza l’altezza – prima dei grattacieli di New York, la torre di Ulm, completata nel xix secolo, era la più alta del mondo –, l’ampiezza delle vetrate e il virtuosismo, concludendosi il semplice elevato a sala nella ricca decorazione dell’elaborato traforo linearistico delle volte. Caratteristica inconfondibile della decorazione linearistica tedesca è l’intrico delle volute e l’impiego di forme naturalistiche: nel xv secolo si realizzarono incisioni la cui convenzionale espressività si accorda con quella di molta scultura lignea tedesca contemporanea. Lo stile gotico dell’Italia settentrionale, in particolare il tardogotico di Venezia, è caratterizzato da un’esuberante ricchezza che si ritrova anche in molte architetture rinascimentali del xv secolo nello stesso territorio. Ci volle molto tempo prima che anche in Italia il gotico cedesse al Rinascimento: ancora attorno al 1470 le navate della cattedrale di Ascoli Piceno venivano costruite da architetti-muratori lombardi in un nobile stile gotico. L’architettura tardogotica spagnola è caratterizzata dalla grandiosità, che supera quella di ogni altro paese nel xv secolo, e dalla ricchezza decorativa. Gli architetti del xv secolo risposero a queste sfide di dimensioni e di esibizione. Uno dei principali, Juan de Colonia, che iniziò nel 1442 la trasformazione della cattedrale di Burgos, e suo figlio Simón de Colonia, erano tedeschi, altri erano fiamminghi, come Jean de Lorme di Tournai, che proseguì dal 1439 in stile flamboyant francese la costruzione della cattedrale di Pamplona, iniziata nel 1397. Il tardogotico spagnolo è caratterizzato dall’impiego di motivi decorativi mudéjar – nonostante l’implacabile odio religioso, dal xiv secolo negli edifici spagnoli era evidente l’ammirazione per l’arte decorativa islamica e si può ancora apprezzare negli stucchi decorativi eseguiti da artigiani mudéjar o, a scala monumentale, nel castello in mattoni di Coca (Segovia), costruito come
una residenza piuttosto che una fortezza, oppure nei soffitti di artesonado decorati in stile geometrico islamico. Sebbene in Portogallo, dal punto di vista strettamente cronologico, lo stile manuelino appartenga all’inizio del xvi secolo, il suo vocabolario è ancora tardogotico, arricchito dall’introduzione di motivi ornamentali come le corde annodate che ne fanno l’espressione finale e più singolare di una marcata tendenza ad un ingegnoso virtuosismo che a volte rasenta nei risultati l’arte manierista e barocca. La decorazione gotica tipica del periodo era una versione ampia e striata della foglia di vite, uno dei motivi durevoli del repertorio medievale che scomparve solo poco prima dell’affermarsi del Rinascimento. L’araldica, come si è visto, assume ora nella decorazione una notevole importanza, anche se era stata utilizzata già nel xii e xiii secolo con grande ricchezza cromatica nell’abbigliamento e per decorare oggetti. Dal xiv secolo l’adozione generalizzata da parte di principi, grandi nobili ed ecclesiastici d’Europa di insegne ed emblemi personali e familiari ampliò il suo vocabolario e, in un’età che apprezzava il cerimoniale fastoso e solenne e il simbolismo allusivo, promosse l’impiego in architettura della decorazione araldica, come scudi con armi e stemmi scolpiti a rilievo, la cui ripetizione su una facciata o lungo una navata attestava l’orgoglio dei fondatori e ne rivendicava l’onore. Nella cappella di San Giorgio a Windsor la pianta a ferro di cavallo chiama lo stemma di Edoardo iv con la pastoia. L’uso di armi e insegne si diffuse, come prevedibile, anche nella ricca classe borghese, sebbene solo nella più modesta forma dell’insegna commerciale. Gli stili architettonici tardogotici dovrebbero essere in effetti definiti stili dell’esibizione: della grandezza dei committenti, dell’abilità dell’architetto progettista, del virtuosismo degli artigiani, anche se negli edifici più modesti la propensione all’ostentazione non è affatto così evidente. In un estremo tentativo di rinnovamento di uno stile che aveva dominato per due secoli, il tardogotico irrompe con forme ornamentali, superfici riccamente decorate o rivestite, pinnacoli cuspidati per sorpren-
4. Piero della Francesca, Cristo risorto. Affresco, 1457 ca. Palazzo della Residenza dei Conservatori (ora Museo Civico), Sansepolcro.
Pagine seguenti: 5. Cappella del King’s College, 1448-1515. Cambridge.
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dere e attirare lo sguardo con l’abbondanza di decorazioni e virtuosismi. Se l’architettura svolgeva tra le arti un ruolo dominante, strettamente connessa a questa era l’attività dei carpentieri, le cui decorazioni riecheggiavano forme e motivi degli stili architettonici. Le celebrazioni liturgiche corali di chiese e conventi richiedevano stalli per il coro, nelle chiese maggiori spesso ambiziosamente progettati e splendidamente eseguiti. L’elegante ferro battuto, impiegato a lungo per gli elementi ornamentali delle porte, le griglie di separazione di cappelle e tombe e le cancellate del coro, fu influenzato dalla fine del xiv secolo in Francia e Inghilterra dallo stile architettonico tardogotico, in particolare dal flamboyant francese, come appare nei trafori dei grandi tramezzi: ad esempio quello di Edoardo iv nella cappella di San Giorgio, realizzato nel 1438, o quello della chiesa di Sankt Ulrich ad Augusta, del 1470. La Francia conservò nella delicatezza delle finiture e della decorazione la supremazia, mentre Germania e Spagna si distinsero per la resistenza tenace all’adozione del traforo gotico; in Spagna si preferirono i monumentali tramezzi ad aste verticali molto ravvicinate con terminazione a punta, incrociate con altre orizzontali. Un’arte decorativa intimamente legata all’architettura religiosa è la vetrata, che colora e attenua la luce dell’interno. Nei paesi protestanti non poté sopravvivere all’iconoclastia della Riforma, ma nel xv secolo era in pieno rigoglio e grandi pittori vennero coinvolti nella progettazione. Vi erano grandi botteghe di vetrai, ad esempio, in Francia a Beauvais, Rouen, Troyes, Digione, Tolosa, Avignone, Lione e Marsiglia, e in Germania a Friburgo, Norimberga, Ulm, Erfurt e Strasburgo. La domanda era forte: in Germania l’impiego di vetrate si ampliò ai chiostri dei monasteri, soprattutto in Renania, e si aggiunsero nuove finestre a chiese già esistenti. Nonostante la loro fragilità, molte vetrate si poterono trasportare fino alla destinazione finale, talvolta a grande distanza. Un importante maestro fu Peter Hemmel von Andlau di Strasburgo, che lavorò in luoghi tra loro distanti come Ulm, Monaco e Salisburgo, mentre a Norimberga,
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un altro dei maggiori centri di produzione, la famiglia Hirschvogel svolse un ruolo dominante. A causa della natura del lavoro, i maestri-vetrai e le loro botteghe erano spesso itineranti e, come gli architetti e i pittori tedeschi e fiamminghi, un certo numero emigrò dalla Germania e dai Paesi Bassi verso la Spagna e il Portogallo, dove fondarono vere e proprie dinastie di pittori su vetro. Il più importante sviluppo nel campo progettuale si ebbe in Francia. Le prime vetrate erano composte da pannelli giustapposti di singole figure o scene sotto baldacchini architettonici gotici, ma dalla metà del secolo cominciarono a essere riempite interamente da singole composizioni pittoriche. Questa transizione compare nella famosa vetrata dell’Annunciazione nella cattedrale di Bourges, commissionata nel 1448 circa dal grande finanziere Jacques Coeur, nella quale una composizione unitaria, con profondità di campo, è abilmente integrata nel traforo. L’Annunciazione conserva ancora la tradizionale cornice a baldacchini che, nella fase finale, scomparirà completamente. Sculture in legno o pietra continuarono ad essere utilizzate nel Nord con funzioni tradizionali: nella decorazione dei portali figurati delle chiese, nelle pale d’altare, spesso con elaborate cornici architettoniche, nelle tombe e nella decorazione delle cappelle funerarie, nei gruppi devozionali della Pietà e della Vergine col Bambino, o per singole immagini di santi. Il tipo di tomba con figure di dolenti sviluppato da Sluter per la tomba del duca Filippo l’Ardito a Champmol, trovò ovunque imitatori per il gusto drammatico da retablo, in linea con il naturalismo tipico del gotico internazionale. In Francia furono collocati nelle chiese impressionanti gruppi con il Seppellimento, di intensità drammatica ispirata al naturalismo. Questo assume un’altra forma nelle tombe con il cadavere del defunto, che compaiono nel Nord Europa nel xv e all’inizio del xvi secolo. Per rafforzare il concetto di transitorietà della gloria umana esse talvolta mettono a confronto l’effigie del defunto, vestito con un abito di alto rango, e il suo scheletro, spogliato della pompa e della vanità del mondo. Una minore ricchezza di figurazioni
tardogotiche caratterizza la scultura in Italia; l’influsso dell’antico comportò non solo un cambio di forme, ma anche la comparsa di nuovi generi recuperati dal passato. Il Quattrocento è il primo secolo della storia dell’arte europea la cui influenza sia durata sino ai tempi moderni, anche se si è trattato di un secolo di conclusioni e di inizi la cui piena realizzazione ebbe luogo nel xvi secolo. È stato testimone dell’ultima grande fase dell’architettura gotica e della prima grande fase di quella rinascimentale. Nelle Fiandre ha visto lo sviluppo della pittura a olio e a Firenze il passaggio dallo stile pittorico monumentale del Trecento ai modi rinascimentali. Nella scultura nordica lo stile gotico continuò ancora a dominare, modificato in Francia e nelle Fiandre da un nuovo realismo; ma nella Firenze del Rinascimento un gruppo di grandi scultori, Lorenzo Ghiberti (1378-1455), Donatello (1386-1466), Nanni di Banco (1384 ca.-1421) e Luca della Robbia (1400-1482), nel corso dei tre primi decenni del secolo rievocarono la scultura classica nello stile della figura, nell’incorniciatura architettonica e nella decorazione. Un nuovo senso di profondità spaziale fu conquistato dalla pittura fiamminga con la scoperta della prospettiva aerea, e a Firenze con lo sviluppo della prospettiva lineare o geometrica per opera del grande architetto e scultore Filippo Brunelleschi (1377-1446). Dal 1417 in poi essa fu applicata da Donatello e Ghiberti alla scultura a rilievo e da Masaccio alla pittura. Nessuno di questi cambiamenti fu improvviso, e neppure la conversione attorno al 1400 circa di alcune delle maggiori botteghe fiorentine al revival dell’antico condusse a Firenze alla svalutazione immediata dell’arte gotica del Nord. Al contrario, la pittura fiamminga fu grandemente ammirata e molto imitata in Italia, a Firenze e altrove, mentre il gotico internazionale francese ebbe un’influenza decisiva sull’arte di Ghiberti così come su quella dell’Italia del Nord. Questa complessa rete di relazioni costituisce un oggetto ricco e affascinante di studio; occorre però individuare qui in primo luogo gli elementi innovativi condivisi del xv secolo, concentrando l’atten-
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zione su pittura e scultura. Nell’architettura del nord non si produssero fratture significative con il xiv secolo, la vera età rivoluzionaria sotto il profilo stilistico, mentre in Italia, come si è detto, il classicismo del primo Rinascimento fiorentino si diffuse nel resto della penisola all’inizio in modo lento e sporadico, in un processo che si concluse solo alla fine del secolo. A Nord come a Sud vennero condivise aspirazioni artistiche fondamentali in pittura e scultura, anche se con esiti differenti. Le origini dell’arte del Quattrocento in questi due campi risalgono al tardo Trecento e soprattutto alle corti di Parigi e dei principi di Valois, dove il gotico internazionale raggiunse l’apogeo soprattutto nelle opere realizzate per il duca Jean de Berry, il principe di Valois che fu il più grande mecenate e collezionista della sua epoca. La caratteristica distintiva del gotico internazionale è il suo poetico naturalismo, contrapposto alla stilizzazione della prima fase dello stile gotico. Chi lo praticò e ammirò venne catturato dalla bellezza di piante e animali, dalla ricchezza e fantasia degli abiti, dall’eleganza e dalla grazia cortesi. Lo stile si radicò nelle corti dell’Italia settentrionale dove la produzione artistica del grande medaglista e pittore di corte Antonio Pisano detto Pisanello (1395 ca.-1455/6) – sebbene influenzata dal nascente gusto italiano per l’antico e così per alcuni aspetti di transizione – costituisce un’ultima, suprema espressione di quest’arte romanticamente raffinata e fantasiosa. Alla corte di Francia si sviluppò accanto al gotico internazionale un’altra tendenza, orientata verso un severo realismo, che permise di ritrarre in scultura e miniatura il re di Francia Carlo v non secondo il tradizionale ideale gotico di bellezza regale, ma con una totale adesione al vero. Questa tendenza corrispondeva a un’estetica il cui fondamento era la fedeltà alla natura, non (con l’eccezione del ritratto) in senso letterale, ma nella capacità di conferire vivida rassomiglianza alla figura umana nel suo contesto, e di sfruttare, a tal fine, diversi registri: dalla semplice riproduzione della realtà a un artificioso illusionismo da trompe l’œil. L’adesione alla realtà sfiora il
virtuosismo in giochi visivi come le figure riflesse nello specchio del Ritratto dei coniugi Arnolfini, una famiglia di mercanti fiorentini, di Jan van Eyck, o le finte sculture in grisaille sempre di van Eyck e di altri pittori fiamminghi. Con i committenti, gli umanisti e gli artisti italiani, i committenti e gli artisti del Nord condivisero per tutto il secolo l’opinione che la natura costituisse il modello in arte. Si trattò di una convinzione che concesse all’artista una licenza immaginativa: il principio oraziano secondo cui la fantasia dell’artista deve essere lasciata libera di spaziare era stato pienamente riconosciuto già negli anni ’90 del xiii secolo da Durando di Mende. Nel frattempo in Italia andava aumentando la conoscenza dell’antichità classica e con essa la convinzione che la scultura antica, in cui la natura è perfezionata dall’arte, avrebbe dovuto sostituire il puro naturalismo. Il naturalismo foggiato sull’antico, che in seguito sarebbe stato definito idealismo, fu considerato come la più nobile forma di espressione artistica. Se confrontiamo un rilievo gotico del xiv secolo, in cui le figure sono disposte su un unico piano, con forse solo una pianta simbolica o un albero stilizzato a indicare l’ambiente, o un dipinto religioso su fondo oro, con un’opera del gotico internazionale, è immediatamente evidente il passaggio dalla stilizzazione e dalla povertà narrativa ad un lussureggiante naturalismo di rappresentazione. Si tratta di una tendenza, già presente nella Toscana del xiv secolo, in cui la pittura da tempo cerca – empiricamente e scientificamente – di carpire i segreti della rappresentazione di figure, architetture e paesaggio in uno spazio tridimensionale persuasivo, che influenzò profondamente la pittura del Nord. È la ricerca di un’imitazione sempre più plausibile della natura, consentita ora non solo dalla scomparsa del fondo oro nelle Fiandre e a Firenze, ma soprattutto dall’invenzione attorno al 1420 nelle Fiandre della prospettiva aerea, che registra i cambiamenti di colore, tono e dimensione del paesaggio a seconda di quanto ci si allontana dall’occhio. La conquista più importante consistette nel dipingere le montagne e colline più distanti piccole e azzurre; quando, piut-
6. Annunciazione. Vetrata, 1448 ca. Cappella di Jacques-Coeur, cattedrale, Bourges.
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tosto tardi, la sua conoscenza si diffuse in Italia, anche nei dipinti italiani cominciarono ad apparire orizzonti lontani azzurrognoli, raggiungendo un culmine di poetica bellezza nei paesaggi veneziani della fine del xv secolo, in particolare di Giovanni Bellini. Sembrerebbe trattarsi di una scoperta dei fratelli van Eyck la prospettiva «di sotto in su», nella quale le forme al di sopra del livello dell’occhio appaiono come le percepisce lo sguardo, con le parti inferiori scorciate o addirittura soppresse. Nell’arte fiamminga iniziò a manifestarsi, forse sulla scia dell’entusiasmo per il naturalismo, una certa secolarizzazione dell’arte, ad esempio con l’abbandono dell’aureola, il cui cerchio di piatto oro era un ostacolo al pieno illusionismo. A Firenze, la stessa ricerca di uno schema di costruzione pittorica che rendesse illusionisticamente la profondità spaziale condusse agli sviluppi della prospettiva lineare o geometrica di Brunelleschi, il cui fondamento è matematico e non empirico come quello della prospettiva aerea. Già anticipata nella pittura del Trecento, essa parte dal presupposto che linee parallele si incontrino in un punto unico di fuga, come effettivamente appare allo sguardo. Attraverso la costruzione di due fasci di linee parallele dette tecnicamente ortogonali, la prospettiva lineare del Quattrocento stabilisce in uno spazio scalato in profondità, di norma definito architettonicamente, un’unità nella quale la dimensione delle forme dipende proporzionalmente dalla loro distanza rispetto all’occhio dello spettatore, e l’occhio stesso è guidato verso il punto di fuga, posto nella figura o nelle figure principali. Entrambe le forme di prospettiva ricercano una plausibile rappresentazione dello spazio tridimensionale e dei corpi sulla superficie bidimensionale della tavola o della tela. La prospettiva lineare, in particolare, impegnò i pittori nello studio dello scorcio, per imitare in modo convincente la natura così come la percepisce lo sguardo. Paolo Uccello e Piero della Francesca, in particolare, si impegnarono ad applicare i nuovi principi prospettici a singole forme e a sintetizzare le loro scoperte in formule pratiche. In Veneto
dal 1450 circa Mantegna introdusse e sviluppò la prospettiva «di sotto in su», applicata per la prima volta in Italia da Masaccio a Firenze nella cappella funeraria illusionistica che dipinse nel 1425-1426 sulla parete della navata sinistra di Santa Maria Novella con la solenne rappresentazione della Trinità. Mantegna infine progettò per il soffitto della Camera degli Sposi (1465-1475) nel castello di Mantova una scena di forma circolare aperta verso il cielo che costituì il prototipo di tutti i soffitti affrescati «di sotto in su» di Correggio e in seguito degli artisti barocchi. L’introduzione all’inizio del xv secolo nelle Fiandre di una tecnica pittorica più avanzata, con colori a olio, costituì una vera rivoluzione nell’arte, sostituendo la tempera all’uovo che fino ad allora era stata universalmente impiegata nella pittura su tavola. I colori a tempera asciugavano molto rapidamente e rimanevano opachi, si sviluppò così una tecnica mista, aggiungendo alla stesura a
7. Lorenzo Ghiberti, Sacrificio di Isacco. Prova di concorso per la porta nord del battistero di Firenze. Bronzo dorato, 1401. Museo Nazionale del Bargello, Firenze.
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8. Filippo Brunelleschi, Sacrificio di Isacco. Prova di concorso per la porta nord del battistero di Firenze. Bronzo dorato, 1401. Museo Nazionale del Bargello, Firenze.
Pagine seguenti: 9. Lorenzo Ghiberti, Porta nord del battistero, particolare dei rilievi. Bronzo dorato, 1403-1424. Battistero di San Giovanni, Firenze.
tempera ritocchi finali, in vernice trasparente, a olio. La nuova tecnica a olio fiamminga, invece, prevedeva che il colore venisse steso a strati e che pigmenti diversi fossero sovrapposti: Jan van Eyck (attivo dal 1422 al 1441) raggiunse la perfezione nella resa degli oggetti e delle superfici sotto l’effetto della luce, con un’incomparabile bellezza di colori. Il suo impiego incoraggiò i pittori fiamminghi a ricorrere alle finiture a secco. Il pittore fiammingo Rogier van der Weyden (1399/1400-1464), anch’egli impegnato nella resa della maggiore o minore luminosità delle forme col mutare delle luci e delle ombre, trasformò i ricami dorati dei ricchi drappeggi nelle zone d’ombra in puri sfavillii di luci. Il suo esempio fu imitato da pochi artisti italiani, i più famosi dei quali furono Carlo Crivelli e Piero della Francesca, che nella tarda Madonna di Senigallia (1470 ca.) riprodusse lo scintillio del pulviscolo illuminato da un raggio di sole. Questi esperimenti non ebbero una grande influenza sugli
sviluppi successivi della pittura del xv secolo, nella quale una ferma chiarezza nella definizione della forma rimase, in generale, una indiscutibile premessa. La nuova tecnica ad olio ebbe rapidamente il sopravvento nelle Fiandre, e dipinti così realizzati vennero importati anche in Italia. Antonello da Messina (1430-1479 ca.), formatosi a Napoli, la introdusse nel terzo quarto del secolo a Venezia, dove il suo stile ispirato all’arte fiamminga influenzò Giovanni Bellini. Anche Piero della Francesca eseguì alcuni dei suoi lavori tardi, dagli anni ’70 del Quattrocento, interamente a olio. Più comunemente però si impiegò una complicata tecnica mista. Queste sono solo sottigliezze artistiche, perché i committenti del xv secolo in generale apprezzavano lo splendore di un colore ricco e della doratura – in Italia, in particolare, del blu e dell’oro. Policromia e doratura continuarono a costituire, nel corso del secolo, componenti irrinunciabili di molte forme d’arte, e vennero comunemente applicate alle sculture in legno. La scultura in marmo del primo Rinascimento era invece lasciata senza colore, oppure solo leggermente rialzata con poco colore e dorature, o con pannelli e bande di marmo rosso. Alcuni scultori tedeschi della fine del secolo, in particolare Veit Stoss di Norimberga, si cimentarono nella scultura in legno non dipinta, ma fu l’esempio delle statue e dei busti antichi che avevano perso la cromia originaria e l’influenza di Michelangelo che favorirono nell’Italia del xvi secolo il trionfo della scultura in marmo bianco completamente priva di colore, mentre la scultura lignea continuò a essere policroma e dorata. Colore e doratura rimasero comunque a lungo, per tutto il xvii secolo, l’indispensabile finitura delle sculture scolpite sia in legno sia in pietra. Nella Firenze del primo Rinascimento effetti cromatici vennero ricercati e ottenuti per mezzo di un’invenzione degli anni ’20 e ’30 del xv secolo: l’applicazione da parte dello scultore in marmo Luca della Robbia dell’inventriatura alle sculture in terracotta. La gamma, limitata in scultura a un severo bianco su fondo blu, e moderatamente al
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porpora (nelle opere decorative presentava invece una maggiore ricchezza), venne estesa dal nipote Andrea e dai figli di Andrea in una tavolozza pienamente pittorica. Lo stesso gusto per una cromia naturalistica aveva mostrato già sul finire del xiv secolo a Parigi l’arte orafa. Gli orafi di corte francesi inventarono la tecnica dell’émail en ronde bosse, che rivestiva le figure d’oro con colori squillanti ma naturalistici in smalto opaco. Anche figure in argento vennero talvolta colorate in modo naturalistico, ma con pittura. Nello smalto questa tendenza pittorica culminò nel xv secolo nella tecnica dello smalto dipinto, nel quale lo smalto è applicato ovunque per creare un dipinto su una superficie piana o una decorazione su una superficie ricurva. Due forme d’arte costituirono un’eccezione a questo gusto per una ricca cromia naturalistica, dal momento che impiegavano solo il nero sul bianco o sull’argento. Entrambe derivavano dall’incisione di motivi decorativi e di figure su metallo, un’antica tecnica orafa. Dal 1400 circa intagli su legno erano stati riprodotti con torchi che esercitavano una pressione sul blocco di legno (xilografia), ma dalla metà del secolo cominciarono a diffondersi – sia a Firenze, sia in Renania – incisioni su lastra di rame, una tecnica molto meno imprecisa che consente una più sottile modulazione di toni e di ombre. La più antica incisione datata conosciuta è tedesca, del Maestro del 1446. La comparsa dell’incisione a Firenze venne legata da Giorgio Vasari nel xvi secolo all’orafo Maso Finiguerra (1426-1464), che reinterpretò l’arte del niello, una tradizionale tecnica orafa ormai desueta, in una forma riccamente pittorica caratteristica del suo tempo. Nel niello una mescola di piombo, argento, rame o zolfo è utilizzata per riempire le linee incise sulla lastra d’oro o di argento, ottenendo così un motivo, una figura o una composizione in nero su un fondo di metallo. Gli orafi stamparono su carta queste lastre incise, sia direttamente sia ad opera dell’acido; a partire da questa tecnica fu necessario un solo passo per fare incisioni su rame e stamparle su carta. Molti dei primi incisori erano certamente orafi, e spesso furono puri esecutori di
un disegno fatto da un altro artista. L’orafo, scultore e pittore Antonio Pollaiolo (143298 ca.) d’altro canto realizzava nella Firenze degli anni ’60 del Quattrocento La Battaglia dei Nudi, che disegnò e incise, e Mantegna a Mantova, negli anni ‘80, trasse incisioni dai suoi stessi disegni. Altrimenti i primi incisori riprodussero di solito motivi o disegni realizzati da pittori, ad esempio Botticelli, e non, come in seguito, dipinti finiti. Lo sviluppo della xilografia e dell’incisione su metallo, insieme all’invenzione della stampa attorno al 1450 in Renania, influenzarono una delle più antiche arti medievali, la miniatura. All’apertura del secolo la grande scuola di miniatura di Parigi era ancora fiorente, producendo capolavori come Le Ore Boucicaut (14051408 ca.) e le Très Riches Heures du Duc de Berry, nei quali il poetico naturalismo del gotico internazionale trova stupefacente espressione, anticipando temi che sarebbero stati sviluppati poi nella pittura su tavola olandese. I libri d’ore, prodotti in grande quantità, furono i manoscritti tipici dell’epoca in Francia, nei Paesi Bassi e in Italia e, dagli anni ’60 cominciarono a essere prodotti a Bruges e a Gand su larga scala per l’esportazione. Questi esempi di pittura fiamminga del tardo xv secolo hanno spesso bordure decorate illusionisticamente con gioielli, conchiglie e fiori, in una caratteristica esibizione di virtuosismo. Intanto in Italia una scrittura nota come littera antiqua veniva sviluppata dai principali umanisti di Firenze, sostituendo l’angolosa e oscura grafia tardogotica con una chiara e tondeggiante grafia romana, con sviluppi successivi nella variante conosciuta come italic. Con l’avanzare del Rinascimento si sviluppò uno stile propriamente umanistico anche nella miniatura, che applicò nella decorazione del libro i princìpi della pittura e della decorazione rinascimentali italiane, mantenendo però la brillante sontuosità dei colori e l’uso della foglia d’oro propri della miniatura gotica. Questo nuovo stile raggiunse la sua maturità attorno agli anni ’40. Dopo l’invenzione della stampa i caratteri gotici continuarono a lungo a essere impiegati nei libri stampati al Nord, mentre in Italia fece presto la sua comparsa la scrittura umanistica, anche
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quando, come accadde spesso, gli stampatori erano tedeschi. Una sontuosa decorazione dei manoscritti proseguì fino alla fine del secolo, e ancora per un certo periodo la miniatura fu impiegata per decorare alcuni libri a stampa, ad esempio edizioni dei classici o della letteratura umanistica o opere di carattere storico, come se fossero manoscritti. Tuttavia, tra la fine del xv e l’inizio del xvi secolo, libri con elaborate decorazioni xilografiche e illustrazioni condussero gradualmente alla fine della produzione commerciale su vasta scala di miniature, anche nel genere più popolare dei libri d’ore. Molte miniature di manoscritti, in ogni caso al Nord,vennero tratte da modelli, mentre le illustrazioni presentano una varietà di temi che non trova paralleli nelle pitture murali, o su tavola o tela, o nelle sculture ancora esistenti. Tutte le forme d’arte trasportabili vennero realizzate per particolare commissione di un privato, di una corporazione, committenti pubblici o aristocratici, o per fini commerciali per la vendita nei negozi, nelle fiere e nei mercati. I mercanti trasportavano opere d’arte da vendere da un paese all’altro, da una corte all’altra, da una fiera all’altra. Alla fine del xiv secolo c’era inoltre un commercio di dipinti tra Firenze e Avignone. Non appena un centro conquistava una reputazione nella realizzazione di una particolare forma d’arte, i mercanti ricevevano istruzioni da grandi ecclesiastici, principi e signori per l’esecuzione in quel luogo di particolari lavori, affidavano gli incarichi alle botteghe e consegnavano l’opera finita. Questa forma di commercio era peraltro già diffusa dal xiii secolo, e non vi è contesto storico che lo spieghi meglio del famoso piviale di Ascoli Piceno, commissionato a una bottega di ricamatore di Londra, con la mediazione di un mercante, da papa Nicola iv. Nel corso del Medioevo alcuni centri assunsero una rinnovata importanza mentre altri declinarono: gli ultimi anni della guerra dei Cent’anni e il trasferimento della corte francese nella valle della Loira misero fine, per due secoli, all’ascesa di Parigi, dal xiii secolo la capitale europea delle arti suntuarie, polo d’attrazione per artisti e artigiani dalla Germania e dai Paesi Bassi. La tessitura di arazzi e l’in-
taglio dell’avorio furono due delle arti parigine che persero importanza o scomparvero del tutto. Prima del suo revival all’inizio del xvi secolo in Germania i soli artefici dell’intaglio in avorio degni di nota in Europa erano componenti della famiglia degli Embriachi, che realizzò prima a Firenze e poi a Venezia dal 1400 al 1450 circa opere che variavano dalle pale d’altare ai cofanetti, specchi e altri oggetti in legno con pannelli in osso intagliato in un pesante stile tardogotico, raffigurando di solito sugli oggetti di destinazione profana temi cavallereschi o della classicità. Nel xv secolo si fecero tentativi da parte di principi e comunità cittadine per assicurarsi attività manifatturiere lucrose, in particolare la tessitura di arazzi. Luigi xi di Francia diede così inizio alla lunga tradizione francese di incoraggiamento e patronato statale verso le manifatture suntuarie, facendo stabilire a Tours nel 1470 tessitori di seta italiani. Molti tentativi vennero fatti per avviare in Italia la tessitura degli arazzi invitando tessitori dalla Francia e dai Paesi Bassi: arazzieri si stabilirono a Mantova sotto la protezione dei marchesi Gonzaga e a Ferrara nel 1436 sotto la protezione dei marchesi d’Este. Come altre più tarde piccole industrie avviate sotto la protezione del signore, queste manifatture non riuscirono mai, di fatto, ad affermarsi dal punto di vista commerciale. Artisti, artigiani e operai, nonostante l’esistenza di un sistema di corporazioni, furono spesso itineranti, spostandosi su richiesta dei committenti, o stabilendosi nel suburbio o anche all’interno delle città, dove le corporazioni erano ben radicate, vuoi illegalmente vuoi ottenendo cittadinanza o residenza. Gli artisti di corte, in particolare, una caratteristica già affermata e riconosciuta della vita di corte del xiv secolo, erano esonerati per la loro posizione privilegiata da tutte le noiose incombenze corporative o cittadine. Durante il xv secolo il maggiore centro nordico di pittura, scultura, tessitura di arazzi, miniatura e lavorazione tardogotica dell’ottone – dai grandi leggii a forma di aquila alle lastre tombali, ai piatti – furono i Paesi Bassi, in particolare le Fiandre e il Brabante, allora governato con splendore cavalleresco dai du-
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11. Giovanni Bellini, Donna con specchio. Olio su tavola, 1515. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
10. Jan van Eyck, I coniugi Arnolfini. Olio su tavola, 1434. National Gallery, Londra.
chi di Borgogna. La loro committenza, che si estese dall’architettura e dalla pittura – Jan van Eyck fu il più apprezzato pittore di corte del duca Filippo il Buono – alla tessitura degli arazzi e alle oreficerie fino a particolari opere d’arte per cerimonie di corte o cavalleresche, come stendardi e gonfaloni, si avvantaggiò della fiorente attività artistica delle grandi città mercantili fiamminghe, la cui ricchezza derivava dal commercio della lana e dalle relazioni mercantili a lunga distanza. Il primato di Arras nel xiv secolo nella tessitura degli arazzi si mantenne fino alla presa della città da parte di Luigi xi nel 1477 e la conseguente evacuazione degli abitanti. Essa aveva già subìto la rivalità di Tournai, mentre importanti botteghe di arazzieri si trovavano
anche a Valenciennes, Bruxelles, Lille, Anversa e soprattutto, alla fine del Quattrocento, Bruges, che rimase ben dentro il xvi secolo il più fiorente centro di un territorio costellato di indaffarati luoghi di produzione artistica e, fino al declino alla fine del xv secolo, fu il più grande centro di scambi e mercato dell’Europa del nord. La ricca città mercantile fu scelta come residenza da Jan van Eyck, pittore di corte di Filippo il Buono, da Petrus Christus (m. 1472/3), che vi si stabilì nel 1444, mentre ne divenne cittadino nel 1465 Hans Memling (m. 1494), la cui arte silenziosa, con sfondi di paesaggi tranquilli, fu intensamente ammirata in Italia e altrove. Alla fine del secolo Bruges esercitò il suo predominio anche nella produzione commerciale di manoscritti miniati.
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Altre città fiamminghe ebbero pure i loro grandi pittori, a Gand Hugo van der Goes (m. 1482), a Bruxelles, la capitale ducale, Rogier van der Weyden, pittore ufficiale della città. Le rivoluzionarie innovazioni della pittura fiamminga su tavola, anticipate dai miniatori fiamminghi della scuola di corte francese, sono attribuibili ad un grande artista anonimo, noto come il Maestro di Flémalle, ora generalmente identificato con il pittore Robert Campin di Tournai (1378/9 ca.-1444), il maestro di Rogier van der Weyden. Egli creò un’arte nella quale gli interni domestici erano dipinti con poetica fedeltà non solo nella resa realistica degli ambienti e dell’arredo, ma anche nel gioco di luci e ombre, iniziando così una tradizione di interni illusionistici nella pittura dei Paesi Bassi, che è proseguita fino ai tempi moderni ed è trionfalmente sopravvissuta a tutti i pregiudizi contrari degli italiani e degli ammiratori dell’arte italiana. Le scene religiose poste in questo mondo domestico di opulenti patrizi o mercanti, come ad esempio l’Annunciazione del Maestro di Flémalle (1425 ca.) nel Trittico de Mérode, dovettero impressionare i contemporanei per la loro audace immediatezza, come per la tecnica incomparabile, soprattutto in contrasto coi maestosi colonnati marmorei e gli ambienti sontuosamente decorati della pittura francese e italiana. Nei paesaggi di Jan van Eyck, indagati in modo ravvicinato e al tempo stesso poetico, come nella Madonna Rolin, si innesta una familiarità quotidiana in scene che sono in sé visionarie. In effetti la concentrazione dei fiamminghi nella creazione e resa del paesaggio finì per indebolire, in alcuni artisti come Joachim Patinier (m. 1524 ca.), l’enfasi narrativa dei loro dipinti, così che collocarono piccole figure in ampi paesaggi resi con profondo sentimento poetico per la natura e gli effetti di luce. In questo graduale allontanamento dall’iconografia religiosa, che si ritrova all’inizio del xvi secolo in maestri della Scuola danubiana come Altdorfer e Wolf Huber, sta l’origine del genere del paesaggio puro e l’inizio della condensazione dei caratteri e degli elementi della natura nell’arte per l’arte, non semplicemente come sfondo. Il mag-
gior capolavoro dell’arte fiamminga, la pala d’altare dell’Adorazione dell’Agnello mistico, iniziato nel 1423 circa da Hubert (m. 1426) e completato da Jan van Eyck nel 1432, è in qualche modo la sintesi di queste conquiste, dai ritratti dei committenti, agli splendidi pannelli centrali, alle figure illusionistiche dipinte a grisaille sul retro delle ante. Fu ammirata e copiata dagli artisti fiamminghi per due secoli. Sebbene Jan van Eyck sia stato grandemente ammirato fuori dalle Fiandre, sono stati i dipinti di Rogier van der Weyden a essere avidamente ricercati e copiati. La sua arte, con l’inserimento nelle opere religiose di un profondo sentimento di adesione al nuovo naturalismo, si collegò profondamente all’umore devozionale di un secolo al tempo stesso violento e pure così attratto dagli ideali spirituali di contemplazione e ritiro. La produzione religiosa di altri pittori fiamminghi è ugualmente permeata di realismo sentimentale e pietà: per raggiungere l’effetto illusionistico unisce il senso del pittoresco ereditato dalla miniatura gotico internazionale a una quieta profondità di sentimento religioso. Un’ulteriore caratteristica dell’arte dei Paesi Bassi fu la preoccupazione, tipicamente nordica, per la dimensione morale. Si tratta di un elemento certamente presente anche nella pittura italiana, solitamente espresso con misura classica, come nelle incisioni di Mantegna, senza il brutale realismo satirico che si ritrova già nell’apparentemente bizzarro simbolismo di Hieronymus Bosch (1450 ca.-1516) di s’Hertogenbosch. I suoi dipinti più convenzionali esprimono un tipo comune di devozione del xv secolo che intendeva suscitare emozioni forti con l’esibizione della violenza e della sofferenza, ma i suoi fantastici dipinti simbolici, così oscuri nell’origine e interpretazione, hanno certamente intenti moraleggianti, rafforzati da una vivacità da incubo, allo stesso tempo allucinata e terrena, i cui apparenti surrealismo e irrazionalità hanno affascinato il xx secolo. Egli ha fondato nella pittura dei Paesi Bassi una tradizione moraleggiante e grottesca proseguita nel xvi secolo da Brueghel. Scomparse tutte le pitture murali fiamminghe, è sopravvisuta una pro-
12. Andrea Mantegna, Oculo centrale della volta della Camera degli Sposi (Camera picta). Affresco, 1465-1475. Palazzo Ducale, Mantova.
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duzione artistica la cui forma caratteristica è stata identificata nella tavola dipinta, talvolta di dimensioni gigantesche. Sulla base delle opere di maggiori dimensioni, non vi è dubbio che i più grandi pittori fiamminghi, come Rogier van der Weyden e Hugo van der Goes, siano stati maestri nella realizzazione di figure monumentali, a loro modo, tanto quanto gli italiani. Nelle figure, tuttavia, evitarono la generale tendenza italiana alla nobilizzazione. Nell’arte fiamminga persino la nuda umanità di Cristo fu spesso resa con una contratta umana debolezza e semplicità, che restituiva l’uomo, piuttosto che trasfigurarlo nel supremo ideale maschile di bellezza. La Vergine col Bambino e giovani figure di sante isolate sono invariabilmente trattate come esempi di bellezza ideale, ma un ideale di bellezza gotico, in cui il corpo è allungato e snello, il volto un perfetto ovale, la fronte alta e liscia, le sopracciglia strappate, le mani lunghe e affusolate. Lo stesso ideale si trova negli artisti italiani del xv secolo, in particolare a Venezia e Padova, dove la tradizione bizantina contribuì ad assicurarne la sopravvivenza, anche se in parte dissimulata dalla predilezione rinascimentale per la pienezza della forma fisica. Nel ritratto, un genere di invenzione nordica, al contrario di quanti ancora associano il Rinascimento italiano al culto dell’individuo, i fiamminghi rivolsero ai modelli lo stesso sguardo chiaro, freddo e privo di idealizzazione – come nel Giovanni Arnolfini del celebre ritratto dei coniugi di Jan van Eyck, in cui non c’è alcuno sforzo di conferire al personaggio una falsa avvenenza fisica. Il ritratto divenne uno dei generi che ci si attendeva che un pittore di corte praticasse, ma trovò presto il proprio sbocco naturale presso le facoltose classi nobiliari, mercantili e delle professioni, divenendo un segno di distinzione – il ritratto di Jan van Eyck di un musico (1432 ca.), probabilmente Gilles Binchois, compositore di corte del duca Filippo di Borgogna, lo paragona al grande musicista greco Timoteo. Dalla Francia e dai Paesi Bassi il ritratto si diffuse nei territori dell’Impero, dove venne adottato da famiglie della piccola nobiltà e da facoltosi borghesi delle città imperiali,
che spesso si fecero ritrarre in occasione del matrimonio, l’uomo solitamente mentre tiene un garofano, simbolo dell’amore, o con la moglie, come una coppia di mezz’età con una solida posizione nel loro piccolo mondo. Infine, attorno agli anni ’20 e ’30 il ritratto dipinto raggiunse l’Italia, dove venne adottato dai principi, in particolare alla corte umanistica di Ferrara – i ritratti di Pisanello di Leonello d’Este, marchese di Ferrara, e della moglie Margherita Gonzaga sono tra gli esempi più raffinati di questo genere. Ancora, Piero della Francesca dipinse attorno al 1450 un notevole ritratto di Sigismondo Malatesta signore di Rimini, e nel 1472 circa un dittico con Federigo di Montefeltro e la moglie Battista Sforza, da poco scomparsa, una delle opere più celebrate del xv secolo. Il ritratto fu adottato anche dai facoltosi mercanti fiorentini e, cosa significativa, dai poeti umanisti, uomini colti e letterati italiani, che adattarono con entusiasmo il ritratto alla forma della medaglia di bronzo. Al Nord i ritratti di questi personaggi sopravvivono solitamente come illustrazioni nelle copie manoscritte delle loro opere: c’è, ad esempio, una famosa immagine del grande poeta inglese del xiv secolo Geoffrey Chaucer (1345 ca.-1400) in un manoscritto dei suoi Canterbury Tales, e sopravvive in una versione su tavola, che lo mostra con un rosario, in una manifestazione di devozione che compare anche nei ritratti fiamminghi e tedeschi del xv secolo, e lascia supporre che si tratti di un originale. Una caratteristica di questi primi ritratti è l’impassibilità dell’espressione facciale: ogni emozione o sentimento, religioso e non, è suggerito da simboli o da un limitato impiego dei gesti. Vi sono ritratti frontali, completamente di profilo, di tre-quarti. Quest’ultima posa, a lungo popolare per le implicazioni di spazio e movimento, è un’invenzione fiamminga, forse di Jan van Eyck. Un’altra invenzione fiamminga è l’introduzione di un’ambientazione naturalistica d’interno e, più tardi, dello sfondo paesaggistico: una soluzione decorativa che si diffuse rapidamente divenendo popolare. Per conferire maggiore rilievo alle figure, tali paesaggi sono talvolta mostrati «a volo d’uccel-
13. Fratelli Limbourg e Jean Colombe, I lavori del mese di ottobre, con la raffigurazione del castello del Louvre. Les Très Riches Heures du Duc de Berry, fol. 10v. Miniatura, 1413-1416. Musée Condé, Chantilly.
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lo», un espediente imitato in Italia tanto da Botticelli quanto da Piero della Francesca. Fino agli ultimi decenni del secolo, quando apparve la figura intera, tutti i ritratti erano a mezza figura o limitati al busto, sia frontali sia di profilo. Talvolta una forte componen-
te emotiva ispirava queste immagini di apparente serena immobilità. Amici come il giovane umanista ungherese Janus Pannonius e l’italiano Galeotto Marzio da Narni si fecero ritrarre insieme sulla medesima tavola, sullo stesso lato oppure su fronte e retro, come Lionello d’Este e l’amico cavaliere Folco da Villafora, opere entrambe dipinte da Mantegna, la prima a Padova nel 1458, la seconda a Ferrara nel 1449, ed entrambe perdute. Il ritratto dipinto per amore, o per esprimere l’affetto coniugale, o nell’ambito del culto dell’amore cortese – sopravvivono ancora i due ritratti di Botticelli di Giuliano de’ Medici e della sua amante cortigiana Simonetta Vespucci – o ancora come segreta espressione di una passione illecita, era fiorente nel xv secolo, certamente in Italia e probabilmente anche altrove. Un’altra soluzione spaziale fu il parapetto, introdotto da Jan van Eyck nel ritratto a mezza figura di Timoteo e immediatamente impiegato a Venezia da Jacopo Bellini. Divenne poi un elemento ricorrente nelle Madonne dei pittori educati alla scuola padovana dello Squarcione. Sebbene alcuni miniatori, come i fratelli Limbourg, si fossero già cimentati nei paesaggi nelle Très Riches Heures di Jean duca di Berry, abbiamo visto come il paesaggio non si fosse affermato come genere autonomo prima della fine del secolo, e anche allora non si sia mai totalmente distaccato dall’impiego di piccole figure per animare la scena dipinta. In Italia inoltre ci volle tempo prima che si emancipasse completamente dalle convenzioni del xiv secolo, e ciò solo grazie all’influenza fiamminga. Lo scopo dei pittori di paesaggio, perlopiù senza eccezioni e fino ad epoca recente, è stato di ritrarre la natura in modo romantico, realizzando scene che dilettassero la vista: dalle montagne scoscese che affascinarono in particolare gli abitanti delle piatte terre dei Paesi Bassi e del Nord Italia, alle rocce dalle forme fantastiche e allo scorrere dei fiumi attraverso verdi campi. Gli uomini del xv secolo avevano un forte senso del bello e di quanto fosse eccezionale in natura, anche quando ciò non era codificato in una teoria sistematica del bello naturale, come la teoria
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14. Jan van Eyck, La Vergine del cancelliere Rolin, dalla cappella di San Sebastiano nella cattedrale di Autun. Olio su tavola, 1435 ca. Museo del Louvre, Parigi.
del pittoresco, che più tardi trasformò in Inghilterra la sensibilità del xviii secolo per il paesaggio. In realtà si ritrovano espressioni di ammirazione nei viaggiatori del Quattrocento e in autori di altro tipo come, ad esempio, il papa umanista Pio ii, sia per la bellezza delle città e dei monumenti, sia per il fascino dello scenario. Nel corso del secolo vedute di scene reali furono talvolta dipinte come sfondi di soggetti religiosi, in alcuni casi su richiesta di committenti desiderosi di attirare su di sé e sul luogo di vita le benedizioni spirituali dei santi raffigurati in primo piano. Conrad Witz, pittore della Germania meridionale, dipinse nel 1444 una veduta del lago di Ginevra come sfondo del Cristo che cammina sulle acque, mentre il Beato Angelico dipinse nella scena della Visitazione, nella predella dell’Annunciazione di Cortona del 1438-1440, una veduta del lago Trasimeno e di Castiglione del Lago. Si tratta delle prime vedute reali della pittura su tavola in Germania e Italia. Molti sfondi paesaggistici erano peraltro composizioni del pittore, realizzati assemblando elementi da lui o dai suoi contemporanei considerati belli o pittoreschi. Il dolce e verde paesaggio degli sfondi di Hans Memling e di altri fiamminghi fu molto apprezzato e imitato a Firenze e in Umbria alla fine del xv secolo, senza però riuscire ad afferrarne la peculiare immobilità dell’atmosfera, e ciò può ancora essere visto nelle prime opere di Raffaello. L’influenza di Mantegna e dei fiamminghi sta alla base degli squisiti paesaggi collinari che Giovanni Bellini introduce a Venezia nei suoi dipinti con freschezza e sensibilità crescenti dagli anni ’70 del Quattrocento. D’altra parte, quasi tutti gli sfondi paesaggistici di Botticelli offrono vedute di città e paesaggi imitati dalla pittura fiamminga, così pittoreschi con le loro torri e pinnacoli agli occhi di un fiorentino della fine del xv secolo. Parallelamente allo sviluppo di questi paesaggi ideali, altri pittori si impegnarono nel padroneggiare una convincente resa naturalistica delle specifiche caratteristiche naturali. Le rocce fantastiche della precedente arte italiana, derivate da una tradizione pittorica che guarda all’antichità, nonostante conser-
vino nella forma complessiva una fantasiosità romantica, diventano rocce reali benché pittoresche nella pittura di Squarcione, del suo allievo Mantegna e di altri seguaci, che le resero con un’osservazione attenta degli strati naturali e della tessitura superficiale. Questa concezione del paesaggio influenzò anche le opere giovanili di Giovanni Bellini. Dopo la prevalenza delle influenze italiane nel xiv secolo, arrivò il turno dei pittori dei Paesi Bassi di influenzare il resto d’Europa. I dipinti fiamminghi, a differenza di quelli italiani del xv secolo, furono largamente esportati, talvolta per commissione diretta di committenti stranieri: Leonello d’Este, marchese di Ferrara, nel 1449 attendeva dipinti che aveva commissionato a Bruges, mentre alla metà degli anni ’70 Edward Bonkil di Provost del Trinity College di Edimburgo, commissionò una grande pala d’altare a Hugo van der Goes, di cui sopravvivono ancora le ante. Ancora più spesso vennero ordinate opere da mercanti sia per loro stessi, sia per essere rivendute. Dipinti fiamminghi, così come gli arazzi, furono particolarmente ammirati in Spagna e Portogallo e influenzarono profondamente l’arte della penisola nel corso del secolo. La loro supremazia fu favorita dalla migrazione di artisti fiamminghi o educati nelle Fiandre, come Michael Sittow (1468 ca.-1525/6) e Juan de Flandes (1465 ca.-1519), artisti di corte della regina Isabella di Castiglia, spinti all’estero dall’eccessiva competizione in patria. Il relativo declino di Parigi nel xv secolo, l’assenza di ogni spirito di avventurosa iniziativa e l’ascesa della corte di Borgogna e dell’arte dei Paesi Bassi impedirono la formazione di importanti centri artistici nella Francia del xv secolo con larga reputazione oltre i confini. Numerose città ebbero fiorenti scuole di miniatura e verso la fine del secolo Lione iniziò una breve, ma notevole carriera come centro di stampa e produzione di libri. Ci furono importanti scuole di scultura in Borgogna e a Tolosa. Al di fuori della valle della Loira il principale centro artistico era ancora la città papale di Avignone, importante centro per la pittura – tra i pittori principali alla
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metà del secolo erano Enguerrand Quarton e Nicolas Froment –, e le vetrate. Lo stabilirsi della corte francese nella valle della Loira dal regno di Carlo vii, diede stimolo alle arti a Tours, che produsse con Jehan Fouquet (1420 ca.-1481 ca.) un grande pittore di corte che, dopo una visita a Roma alla metà degli anni ’40, unì influenze della pittura fiamminga e altre provenienti dal Rinascimento italiano, divenendo il primo e isolato precursore di quell’importazione a tutto campo dell’arte rinascimentale italiana nell’arte e nell’architettura di corte francese, che si ebbe con il ritorno di re Carlo viii nel 1496 dalla spedizione italiana. Il più importante patrono delle arti del secolo fu re Renato d’Angiò (14091480), egli stesso pittore e orafo dilettante, e precursore isolato degli artisti dilettanti e degli amatori d’arte che comparvero in Italia e Spagna nel tardo Rinascimento, quando il marchio del lavoro manuale, legato alla pratica di pittura e scultura, cominciò a venir meno in alcuni circoli coltivati. Nei territori del Sacro Romano Impero, allora costituito da gran parte dei Paesi Bassi, da Germania, Austria e Boemia, c’era stata a lungo una fiorente tradizione artistica, in particolare nella prospera Renania. Almeno dal xii secolo la grande città mercantile di Colonia era stata un importante centro di raffinati lavori in metallo e di oreficerie, come c’era da aspettarsi in un paese come l’Impero, ricco di miniere di rame, stagno e argento, per non dire di quelle ungheresi. Nel xiv secolo le città imperiali della Germania meridionale aspirarono a rivaleggiare con la Renania, in particolare Norimberga, che alla fine del Quattrocento divenne il centro principale dell’attività artistica tedesca, famosa per i pittori, gli scultori, gli orefici, per le manifatture di eleganti armature, per le vetrate dipinte. Essa mantenne il primato artistico nei territori dell’Impero fino all’ascesa di Augusta all’inizio del xvi secolo. Il consiglio cittadino, a differenza della politica esclusiva di altre città imperiali, incoraggiò quest’espansione consentendo il libero stabilirsi di artisti e artigiani. Le energie artistiche della Germania, la cui arte esercitò un profondo influsso
in Scandinavia, Polonia e Ungheria, dove vivevano molti tedeschi che realizzavano opere nel caratteristico stile artistico tardogotico, furono tutt’altro che limitate a Norimberga. La grande prosperità mercantile delle città della Renania, della Westfalia e della Renania meridionale rese città come Basilea, Colmar, Strasburgo e Ulm importanti centri per la pittura e la scultura. Una caratteristica della vita artistica tedesca fu l’organizzazione di grandi botteghe, dirette da un maestro, spesso un pittore, talvolta uno scultore, e talvolta entrambi, che si serviva di aiutanti specializzati e lavoranti a giornata, realizzando sulla base di progetti pitture e sculture, colorando e dorando le grandi complesse pale d’altare scolpite o dipinte, o in una tecnica mista che era la favorita all’epoca.
15. Hubert e Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico (ad ante chiuse). Olio su tavola, 1423-1432 ca. Chiesa di San Bavone, Gand.
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16. Hubert e Jan van Eyck Polittico dell’Agnello Mistico (ad ante aperte). Olio su tavola, 1423-1432 ca. Chiesa di San Bavone, Gand.
La Renania aveva da tempo stretti rapporti coi Paesi Bassi. La pittura tedesca era profondamente influenzata da quella fiamminga, ma nella sua fase tarda aveva spesso mostrato una maggiore crudezza di sentimenti ed espressione. Nella Germania meridionale, in Austria e in Boemia si era manifestata una variante dello stile cortese gotico internazionale, nota come «stile tenero», in cui la grazia cortese delle espressioni si unisce a un trattamento pittorico del panneggio. Lo stesso stile è stato recentemente riconosciuto anche in Inghilterra. Nel corso della prima metà del secolo la maggiore scuola di pittura tedesca fu quella di Colonia: il Dombild, o La Madonna con i santi patroni di Colonia dipinta nel 1450 circa da un maestro di spicco della città, già identificato in Stefan Lochner, è il capolavo-
ro del tardo gotico internazionale in Germania. Il più interessante pittore della Renania meridionale fu Conrad Witz (1400/10 ca.1445/6), che, sebbene influenzato dall’arte fiamminga, continuò a dipingere a tempera e fu un innovatore nel ritrarre i riflessi di luce e il paesaggio. Nella seconda metà del secolo uno speciale interesse presenta il maggiore maestro in Tirolo, il pittore e scultore Michael Pacher (attivo dal 1462 al 1498). A capo di di una grande bottega, i suoi dipinti e le sue sculture sono le prime opere nei territori imperiali a riflettere l’influenza del Rinascimento italiano, in questo caso del Rinascimento padovano e di Mantegna. Un carattere specifico dei pittori tedeschi dalla metà del secolo fu la loro predominanza sugli altri artisti: essi presero scultori nelle loro botteghe per ese-
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guire le parti scolpite delle grandi pale d’altare che univano pittura e scultura in un modo tipico della Germania del xv secolo, avendo essi stessi progettato l’insieme. Ancora prima del molto ammirato pittore e incisore Martin Schongauer (1435/50 ca.-1491) di Colmar, un certo numero di questi pittori realizzò incisioni e xilografie. Le incisioni tedesche ebbero una rapida diffusione ben oltre gli artisti, e vennero esportate non solo in Italia, dove furono largamente copiate, tra gli altri, dal giovane Michelangelo. Stampe di Schongauer e del Maestro E.S. erano già nelle mani di Carlo Crivelli ad Ascoli, nelle Marche, negli anni ’70, acquistate senza dubbio in una delle grandi fiere della regione. Artisti e artigiani continuarono a collezionare stampe tedesche e italiane sia come fonte di ispirazione sia per la copia diretta. La scultura dei territori dell’Impero, dopo una fase di dolce raffinatezza che costituì l’equivalente dello «stile tenero» in pittura, si caratterizzò per un estremo individualismo, ravvisabile non da ultimo nel numero di autoritratti di maestri costruttori e scultori pervenutici. Talvolta posano in atteggiamento devoto, come l’umile ruolo di supporto che Adam Kraft assegnò a se stesso sotto il suo grande tabernacolo eucaristico del 1493-1496 in Sankt Lorenz a Norimberga. Molto prima avevano assunto la forma del busto, come nei busti di Matthias di Arras e Peter Parler nel triforio della cattedrale di Praga negli anni ’80 del Trecento. Tali ritratti sono sorprendenti non solo per il loro realismo, ma per l’intensa espressività, come nel caso della figura straordinariamente introspettiva, assorta nella meditazione creativa, che si ritiene sia il ritratto di Nicolaus Gerhaert (attivo tra il 1462 e il 1473). Scultore proveniente dai Paesi Bassi, si stabilì a Strasburgo nel 1463 trasferendosi poi nel 1467 a Weiner Neustadt; la sua arte dinamica influenzò profondamente la scultura della Germania meridionale. Altri rilevanti scultori furono Hans Multscher (1400 ca.-1467) di Ulm, Tilman Riemenschneider (1460 ca.-1531) di Würzburg, Bernt Nolike (1440-1509) di Lubecca, notevole per la dimensione colossale delle sue sculture, Veit
Stoss (1445/ 50 ca.-1533) di Norimberga e il già ricordato pittore-scultore Michael Pacher. Una caratteristica delle lastre con l’effigie tedesche, che non trova paralleli in altri luoghi, è il fatto che spesso erano collocate verticalmente, con la figura concepita di conseguenza in piedi. L’iconoclastia della Riforma, disastrosa per la scultura dei Paesi Bassi, causò anche la distruzione di numerose sculture tedesche del xv secolo, ma ne rimane abbastanza per testimoniarne la forza e l’intensità espressiva. Come i Paesi Bassi, anche i territori dell’Impero produssero più architetti, pittori e orafi di quanti potessero impiegare la committenza e il mercato di quel prospero mondo. Alcuni trovarono occupazione in Italia settentrionale: per la loro esperienza come architetti-costruttori nello stile gotico, architetti tedeschi vennero consultati durante la costruzione del duomo di Milano dal 1393 in poi, e a Venezia esisteva un’importante colonia di orafi tedeschi che pure seguivano lo stile gotico. Gli orafi tedeschi, in realtà, erano disseminati: esisteva già una loro colonia a Bergen in Norvegia nel xiv secolo e continuarono a risiedere in Scandinavia nei secoli successivi. Fu però in Spagna che gli architetti e gli orafi tedeschi trovarono il terreno più proficuo. Lì, come si è visto, il xv secolo fu un’epoca di magnifica attività costruttiva. Gran parte della scultura spagnola fu profondamente influenzata da quella tedesca, francese e dei Paesi Bassi, cosa che non sorprende, considerato che molti scultori erano emigrati dal Nord. Essi lavorarono con il medesimo spirito di grandiosità degli architetti del tempo: alcune pale d’altare spagnole raggiunsero dimensioni gigantesche che raramente trovano paralleli in Europa, grazie al fatto che tali retabli erano realizzati come torreggianti sequenze di scomparti scolpiti racchiusi in predominanti cornici architettoniche appoggiate ad una parete. Di norma si trattava di opere di collaborazione: progettate forse da un pittore, scolpite da scultori, colorate da encarnadores e estafadores e dorate da doradores. Le tombe spagnole in alabastro della seconda metà del secolo presentano una particolare originalità ideativa: la tradizionale
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effigie del giacente venne talvolta modificata con una posa più attiva, aggiungendo figure semisdraiate o in preghiera secondo la tradizione francese, come pure di dolenti. Questi cambiamenti animano alcune tombe, infondendo un movimento che è più comunemente associato al barocco. A causa della notevole compenetrazione della cultura araba e cristiana, nel xv secolo la Spagna fu l’unico paese occidentale in cui fiorirono largamente stili esotici. Artigiani mudéjar eseguirono per committenti cristiani decorazioni parietali in stucco intagliato con motivi islamici, arabeschi e geometrici, soffitti di stile islamico a cassettoni (artesonado) e pavimenti e pareti decorati con piastrelle invetriate. Prima a Malaga e poi a Valencia, realizzarono tappeti a imitazione di quelli turchi, tessuti e lucido vasellame. Tutto ciò trovò un mercato pronto ad accoglierlo soprattutto in Italia – importanti famiglie fiorentine ordinarono ad esempio i piatti decorativi valenciani – e le tecniche della ceramica araba, particolarmente lucida, vennero imitate nella maiolica rinascimentale italiana. Le influenze in seguito si invertirono e piastrelle decorate in stile rinascimentale vennero eseguite per la prima volta in Spagna da Francisco Niculoso (m. 1529), un fabbricante di piastrelle di Pisa che si stabilì nel quartiere di Triana a Siviglia intorno al 1498. La concentrazione dei migliori artisti e artigiani nelle maggiori città mercantili dell’Europa del tardo Medioevo, che si è già verificata nei casi di Bruges, Colonia e Norimberga, si ripeté in Italia, dominata sotto il profilo artistico da Firenze, Venezia e Milano. Delle tre, fu Firenze ad assumere un ruolo incomparabile nel processo di rinnovamento artistico. L’ascesa della città nelle arti, iniziata con Giotto all’inizio del xiv secolo, fu favorita dal declino di Pisa dopo il 1350 e dal relativo tramonto di Siena alla fine del secolo – dopo Taddeo di Bartolo (1362/3 ca.-1422) nessun pittore senese trovò lavoro fuori dalla città per cinquant’anni, mentre l’arte rinascimentale fiorentina fu introdotta a Siena con le forme di Donatello e Ghiberti negli anni ’20 del Quattrocento, grazie alla prestigiosa commissione del fonte battesimale in bronzo
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per il duomo (iniziato nel 1417). Anche così la città ebbe in Jacopo della Quercia (1374/51438) l’unico scultore del primo Quattrocento in grado di rivaleggiare con i grandi maestri fiorentini: Jacopo partecipò inoltre al famoso concorso del 1401 per le porte del Battistero di Firenze. Nella sua arte si mescolano influssi della scultura dei Paesi Bassi, in particolare di Sluter, con un’eleganza gotico internazionale e con un precoce interesse per l’arte classica. La bella effigie di Ilaria del Carretto nella cattedrale di Lucca riposa su un sarcofago scolpito con putti classici che reggono ghirlande, un motivo infinitamente ripetuto nell’arte del xv secolo in pittura e scultura. Se Jacopo fu a Siena l’ultimo artista aggiornato, la città mantenne una vita artistica fortemente autonoma, trovando nel pittore Sassetta (1392-1450) e nello scultore e pittore-architetto Lorenzo Vecchietta (1412-1480) maestri aperti alle nuove correnti, nel caso di Sassetta al gotico internazionale e di Vecchietta al Rinascimento fiorentino, e in Francesco di Giorgio (14391501/2) uno dei principali architetti del tardo Quattrocento. In Italia nessun’altra città minore concentrò una simile costellazione di artisti di diversa natura: la maggior parte ebbe al più uno o due artisti di rilievo, che spesso lavorarono ispirandosi ai modelli fiorentini o trascorsero un periodo di studio a Firenze, come Perugino (1445/50 ca.-1523) o Luca Signorelli (1441/50 ca.-1523) di Cortona. Questi artisti, come il grande Piero della Francesca di Borgo San Sepolcro, dopo una formazione o un’esperienza a Firenze, sembrano aver preferito l’effettivo monopolio della committenza che il loro talento gli assicurava su un ampio territorio, all’atmosfera altamente competitiva di una città con molti maestri di talento come Firenze. Le loro carriere, tuttavia, riflettono l’importanza raggiunta da Firenze agli occhi degli artisti, come la maggiore moderna scuola d’arte. In realtà la prosperità di Firenze si fondava, come nel caso di Milano, non sulle arti, ma sulla grande industria dei panni e sulle attività bancarie e commerciali ad ampio raggio. Fu come banchieri del pontefice che i Medici acquisirono dapprima la supremazia e dopo
il 1430 il totale controllo su una città che era una repubblica solo nel nome, anche se la famiglia ricevette il titolo ducale e la legittimazione del potere dall’imperatore Carlo v non prima del 1530. Sebbene Cosimo il Vecchio (1389-1464) fosse stato sempre molto attento a non esibire apertamente la propria posizione di più importante e più ricco mercante della città, il suo mecenatismo ebbe dimensioni principesche: negli anni ’40 fece costruire il grandioso palazzo Medici, prototipo del palazzo rinascimentale, a poca distanza dalla grande piazza della cattedrale, rinnovò la villa di famiglia di Careggi, ricostruì dal 1436 il convento domenicano di San Marco e dal 1456 quello della Badia Fiesolana e, insieme al fratello, fece ricostruire la chiesa e il convento di San Lorenzo, vicini al suo palazzo, in parte come luogo di sepoltura della famiglia. Michelangelo con la costruzione della Sagrestia Nuova consacrò la chiesa come mausoleo dei Medici. Cosimo impiegò un certo numero di grandi artisti del primo Rinascimento fiorentino, e fu specialmente amico e mecenate del grande architetto Michelozzo e di Donatello, dando però commissioni anche al Beato Angelico e Paolo Uccello (1396/7-1475). Il figlio Piero proseguì la tradizione familiare di mecenatismo nelle arti, impiegando Luca della Robbia e Andrea del Verrocchio (1435 ca.1480), il pittore, orafo e scultore la cui bottega divenne il centro artistico più importante di Firenze e che fu maestro di Leonardo da Vinci. Tranne che per la scultura, di lui sopravvivono troppo poche opere per consentire una piena valutazione della sua influenza, certamente notevole. Il figlio di Piero, Lorenzo il Magnifico, aveva forse ricevuto un’eredità troppo ricca di palazzi, ville, arredi e opere d’arte, per essere un committente ambizioso come il nonno, ma certamente incoraggiò gli artisti e svolse un ruolo importante nelle imprese artistiche cittadine durante il suo governo, sia non da ultimo impegnandosi nel recupero dell’arte del mosaico per la decorazione del duomo sia commissionando affreschi e dipinti ai due più importanti pittori fiorentini del tardo Quattrocento, Sandro Botticelli (14451510) e Domenico Ghirlandaio (1449-1494).
Pagine precedenti: 17. Piero della Francesca, Ritratto di Battista Sforza duchessa di Urbino. Olio su tavola, 1472 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze. 18. Piero della Francesca, Ritratto di Federico da Montefeltro duca di Urbino. Olio su tavola, 1472 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze. 19. Michelozzo di Bartolomeo, Cortile di palazzo Medici, iniziato nel 1444 e ampliato nel xvii secolo per la famiglia Riccardi. Firenze.
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20. Sandro Botticelli (Alessandro di Mariano di Vanni di Amedeo Filipepi, detto), La Primavera. Tempera su tavola, 1482. Galleria degli Uffizi, Firenze.
Altre grandi famiglie di mercanti seguirono l’esempio dei Medici e, nell’insieme, favorirono con il loro mecenatismo la nascita dell’arte rinascimentale e ne sostennero a Firenze lo sviluppo. Allo stesso tempo non va ignorato anche il ruolo giocato nella diffusione dello stile dalla committenza ecclesiastica, in particolare dal movimento noto come umanesimo cristiano: alcuni di questi committenti dovettero suggerire il nome di Donatello per la costosa impresa dell’altare maggiore decorato con statue di bronzo e rilievi che realizzò tra il 1443 e il 1453 per la grande basilica francescana di pellegrinaggio di Sant’Antonio a Padova. La grande pala d’altare di Mantegna per il convento benedettino di San Zeno a Verona (1456-1459), il primo fondamentale monumento di pittura umanistica nel Veneto, fu eseguito su commissione dell’abate Gregorio Correr, un umanista cristiano di Venezia (la città e i suoi domini erano una roccaforte del movimento). Un altro luogo dove l’uma-
nesimo cristiano rivestì grande importanza fu il convento di Santa Maria degli Angeli a Firenze, la cui chiesa Brunelleschi riprogettò negli anni ’30 del Quattrocento. Il Rinascimento è il primo importante stile europeo la cui origine possa essere precisamente datata e riccamente documentata sia con opere d’arte, sia con documenti. Indissolubilmente intrecciato alla nascita ed allo sviluppo dell’arte rinascimentale è in Italia dalla metà del xiv secolo il revival umanistico dello studio della letteratura, storia e filosofia antiche come eredità di una civiltà incomparabile. Gli umanisti erano perfettamente consapevoli che l’antichità classica era sopravvissuta, negli scritti e nei monumenti, solo in forma frammentaria, e si dedicarono perciò con zelo crescente a recuperare testi a lungo trascurati in Italia, ad apprendere il greco e ad importare da Bisanzio testi classici greci, a riscoprire edifici e sculture dell’antichità e infine a ricostruirla in ogni aspetto grazie alla ricerca an-
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21. Filippo Brunelleschi, basilica di San Lorenzo, interno, 1420-1470 ca. Firenze.
Pagine seguenti: 22. Leon Battista Alberti, Tempio Malatestiano (chiesa di San Francesco), facciata, dal 1447. Rimini.
tiquaria. Questo recupero dell’antichità come modello non fu una resurrezione meramente servile: la natura frammentaria di quanto rimaneva fu in sé uno stimolo allo spirito di emulazione e alla rielaborazione creativa. La sua prima espressione fu letteraria: il poema epico in esametri latini di Petrarca L’Africa (1330), cui fecero seguito nel corso del xv secolo poemi epici e lirici, racconti arricchiti secondo il modello classico da brani di saggi e trattati filosofici, dissertazioni e raccolte di lettere tutte scritte in un latino emendato da ogni elemento medievale e attentamente modellato per stile, sintassi e vocabolario sui grandi autori latini. L’umanesimo fu diffuso dalle classi alfabetizzate, i notai, gli insegnanti, i segretari papali e i cancellieri comunali, sino ad innestarsi nell’educazione di principi, aristocratici e ricchi mercanti, creando un pubblico di mecenati che favorirono il recupero dell’antico in arte e letteratura. Per recuperare le forme dell’arte e dell’architettura antiche, sia pagane sia del primo cristianesimo, fu essenziale lo studio dei monumenti classici di Roma, molti dei quali in rovina, altri, come il Pantheon, trasformati in chiese cristiane, e delle prime basiliche cristiane della città, disegnando e prendendo misure, come è noto fece Brunelleschi. Gemme antiche, apprezzate piuttosto acriticamente durante il Medioevo, vennero collezionate per la luce che gettavano, insieme alle monete, sulla storia e civiltà classica. All’inizio non si recuperò alcun genere classico da tempo perduto: al contrario vennero recuperati le forme architettoniche, lo stile delle figure e il vocabolario ornamentale dell’antichità per essere applicati a opere di tipo tradizionale, come chiese, palazzi, tombe, arredo liturgico, statue di santi. Un cambio avvenne a Firenze ad opera di scultori-architetti, la cui più precoce manifestazione è riconoscibile nell’ornamentazione, nella piccola figura inconfondibilmente classica di Ercole scolpita nel 1398 tra la decorazione della Porta della Mandorla in duomo (1398), raggiungendo il suo apice nei tre decenni successivi. Alcuni motivi vennero inizialmente tratti da sarcofagi classici, cosa che spiega la preponderanza di ghirlande, fe-
stoni e putti nel vocabolario decorativo della nuova arte. I collezionisti di oggetti e sculture antichi si mossero con spirito da conoscitore – Donatello, ad esempio, era certamente consapevole delle differenze tra opere di diverso livello qualitativo – e da antiquario. Tra gli artisti del xv secolo questo spirito raggiunse il culmine in Mantegna, che diede corpo alla sua conoscenza dell’antico nelle grandi tele dei Trionfi di Cesare dipinti per Francesco Gonzaga dal 1486 all’ultimo decennio del secolo. In architettura, ancora arte principale, la figura più importante fu Filippo Brunelleschi (1377-1446), che si dice abbia per primo riconosciuto, durante una visita a Roma nel 1402, che l’architettura antica era governata da leggi di simmetria e «proporzioni musicali», dedicandosi alla riscoperta di entrambe e dei segreti tecnici degli antichi, in particolare su come voltare un’alta cupola senza costoloni e chiavi di volta. Applicò le conoscenze acquisite nella costruzione tra il 1417 e il 1434 dell’opera per la quale è celebre, la cupola del duomo di Firenze: il prototipo, sebbene per molti aspetti ancora gotico, delle cupole delle chiese rinascimentali. Gli altri suoi edifici fissano i principi architettonici fondamentali del Rinascimento: l’enfasi dell’orizzontalità rispetto alla verticalità, la sostituzione degli archi acuti con archi a tutto sesto, la conversione degli elementi gotici in altri di forme classiche, come i fregi, gli architravi e le cornici, e l’uso della decorazione classica al posto di quella gotica. Intorno al 1420 iniziò per Cosimo de’ Medici la costruzione della chiesa di San Lorenzo, in cui colonne corinzie sostengono un soffitto piatto con cassettoni all’antica, con cappelle laterali con archi a tutto sesto. Sull’antico schema basilicale, l’andamento orizzontale si sostituisce allo slancio verticale del gotico, la scultura è limitata all’ornamento e l’effetto complessivo dipende per gli effetti di ampiezza e nobile semplicità dall’articolazione puramente architettonica degli spazi e dalle membrature armoniosamente proporzionate. Ispirato a Roma dal Pantheon e da altri edifici circolari, e dalle prime chiese cristiane come Santa Costanza, Brunelleschi fu anche il pri-
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mo a progettare nella chiesa conventuale ottagonale di Santa Maria degli Angeli (14341437) una chiesa a pianta centrale con cupola, modello ripreso e pienamente sviluppato alla fine del secolo da architetti come Bramante a Milano e il fiorentino Giuliano da Sangallo, che divenne una delle creazioni architettoniche caratteristiche del pieno Rinascimento. Gli ordini dell’architettura classica, il dorico e il corinzio, vennero impiegati nei pilastri da Leon Battista Alberti per scandire i tre piani di palazzo Rucellai a Firenze (1453 ca.), un’innovazione destinata ad avere grande diffusione nell’architettura classica. I mutamenti stilistici del primo Rinascimento condussero alla stesura, per la prima volta dall’antichità, di trattati che giustificassero o semplicemente illustrassero agli artisti le nuove concezioni in arte. A Firenze negli anni ’30 e ’40 del Quattrocento vennero scritti i primi di questi, tre opere di portata innovativa in un mondo di arti e mestieri che non era andato oltre trattati come il Libro dell’arte di Cennino Cennini (1398 ca.), interessato per lo più ai segreti tecnici della pittura e delle arti sorelle – come imparare a disegnare, come preparare e stendere il colore sul muro o sulla tavola. I nuovi trattati fiorentini vennero tutti scritti da un unico autore, Leon Battista Alberti, funzionario pontificio di professione e umanista, ma anche architetto e consulente di architettura, interessato anche di scultura e pittura. Il De statua (1435) si occupa ampiamente delle proporzioni della figura umana, mentre il De pictura (1435) dà indicazioni sulla prospettiva lineare per realizzare scene «come una veduta dalla finestra», consiglia ai pittori di frequentare gli intellettuali e di studiare la storia antica e la poesia per trarne soggetti opportuni, e spiega loro come debbano comporre i dipinti per presentare correttamente i temi, in modo espressivo e piacevole alla vista. Per i pittori preparò una versione in italiano del trattato, il Della pittura (1436). La traduzione consentì anche ad un pubblico illetterato la conoscenza di un trattato in origine destinato a lettori colti: in tal modo Alberti poteva sperare di influenzare sia gli artisti sia i committenti. Infine il De re aedificatoria
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(1450 ca.) fu il primo trattato d’architettura ad essere scritto dopo Vitruvio, inaugurando la lunga serie di grandi trattati d’architettura del Rinascimento. La sua influenza si poté diffondere largamente però solo dopo la prima edizione nel 1485, pubblicata a Firenze, e nella versione originale in latino – fu tradotto in italiano per la prima volta nel 1546 – venne indirizzato agli umanisti committenti d’architettura, piuttosto che ad architetti e artisti, e comprensibilmente, dal momento che l’architettura, allora come adesso, era la forma d’arte più costosa. A Firenze il nuovo stile si combinò sia in scultura che in pittura con una nuova ricerca di naturalismo, la nuova prospettiva lineare o geometrica, e il nuovo classicismo. Nei loro rilievi Ghiberti e Donatello introducono la costruzione prospettica ed è evidente l’interesse di entrambi per la creazione di plausibili illusioni di spazio e profondità, con l’attento graduato arretramento dei piani. Le composizioni che ne risultano sono articolate su tre piani, a differenza dei rilievi classici costruiti su uno o due piani, mentre la prima imitazione dello stile dei rilievi classici, dopo una breve fase neoclassica negli anni ’30, si ha solo alla fine del secolo nelle opere di Bertoldo di Giovanni. Nella finta architettura dipinta come nelle cornici architettoniche scolpite, colonne classiche e pilastri, archi a tutto sesto e trabeazioni classiche sostituirono la fitta ornamentazione gotica, a Firenze dagli anni ’20 e in seguito nel resto d’Italia. L’innovazione principale in pittura fu la nitida articolazione delle figure e dello spazio consentita dalla prospettiva lineare e da espedienti come il pavimento quadrettato scorciato in profondità per dare l’illusione di uno spazio arretrato. Il cambio iconografico più significativo fu la creazione, a tutta evidenza da parte del Beato Angelico nella pala per San Marco del 1438-1440, sotto l’influenza delle recenti dottrine di Alberti, della tipologia della Sacra Conversazione, una conquista fiorentina che portò all’abbandono del polittico, costituito da piccoli scomparti all’interno di una cornice architettonica, a favore di una pala unitaria. Sebbene la Sacra Conversazione stesse per divenire particolar-
mente popolare a Venezia alla fine del xv secolo, al punto di diventare un genere veneziano, i polittici scomparvero dalla città piuttosto tardi, continuando a essere realizzati nei suoi domini fino alla metà degli anni ’80 del secolo. L’ambientazione di molte pale con la Madonna in trono col Bambino era tradizionalmente la Curia Coeli, la corte celeste, in cui i santi attorniavano la Vergine col Bambino in pose statiche. Nella Sacra Conversazione le figure sono in azione, corrispondendosi attraverso pose variate, gesti ed espressioni, e creando un gruppo animato attorno alla Vergine con il Bambino al centro. Il Rinascimento si diffuse a Roma sotto l’egida dei papi e cardinali umanisti e in generale dell’alto clero, spesso uomini di raffinata educazione, interessati allo studio dell’antichità classica, collezionisti di medaglie e sculture antiche, che impiegarono come segretari nella cancelleria papale dotti umanisti come Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, per ricordarne due tra i più celebri. Nella diffusione sempre più ampia in Italia dello stile rinascimentale, sostanzialmente un linguaggio colto che si rivolgeva a un’élite altamente coltivata e imbevuta di antichità, alcuni principi italiani svolsero un ruolo determinante. Purtroppo il tempo e il governo papale eclissarono in gran parte il ruolo chiave svolto a Ferrara dalla corte di Leonello e del suo successore Borso d’Este, di particolare splendore. Dal 1450 circa Sigismondo Malatesta fece costruire quel monumento unico che è il Tempio Malatestiano di Rimini, trasformando una chiesa conventuale francescana del Trecento in una chiesa rinascimentale progettata da Leon Battista Alberti, con la facciata modellata su un arco di trionfo romano, l’interno decorato con rilievi e sculture, realizzati con estremo linearismo e ritmi sinuosi di matrice classica dal fiorentino Agostino di Duccio (14181481), e l’esterno con nicchioni per le tombe di umanisti e filosofi. L’insieme unisce il più avanzato umanesimo con una decorazione di stemmi e insegne caratteristica del gusto principesco e cavalleresco dell’età gotica. Alfonso d’Aragona, re di Napoli, dopo aver tolto il regno a Renato d’Angiò, diede vita ad una delle
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23. Leonardo da Vinci, Cenacolo. Affresco, 1497. Refettorio di Santa Maria delle Grazie, Milano.
corti umanistiche per modello del secolo, sostenendo generosamente gli umanisti, spendendo somme considerevoli di denaro per la trascrizione dei raffinati manoscritti della sua biblioteca e soprattutto erigendo all’entrata di Castel Nuovo, la grande fortezza-palazzo reale di Napoli, un ingresso monumentale a forma di arco trionfale commemorante la presa della città. Nel rilievo principale è raffigurato il suo ingresso a Napoli il 26 febbraio 1443 in una sorta di trionfo romano; l’emulazione dell’iconografia militare romana è però ancora più evidente nei rilievi scolpiti con armi e macchine da guerra che un tempo decoravano la facciata del palazzo ducale di Urbino, fatto costruire da Federico da Montefeltro (1422-1482), grande mecenate dalla cultura umanistica di corte e uno dei più ammirati condottieri italiani. Iniziato attorno al 1455 in stile tardogotico venne completato in purissi-
mo stile rinascimentale da Francesco Laurana, un architetto dalmata che aveva lavorato a Mantova, e, dopo la sua partenza nel 1472, dal senese Francesco di Giorgio. Le relazioni tra le corti di Urbino e Mantova erano strette. Il marchese di Mantova Ludovico Gonzaga (1412-1478), che aveva ricevuto da Vittorino da Feltre un’illuminata educazione umanistica alla scuola di corte finanziata dal padre, chiamò nel 1460 Mantegna al suo servizio come pittore di corte, tentò di attrarre Donatello in città e fece costruire su progetto di Leon Battista Alberti due grandi chiese rinascimentali, Sant’Andrea (iniziata nel 1472), la più bella, e, in precedenza, San Sebastiano (1460). Egli fu forse il meno eclettico tra questi mecenati. Nonostante le proporzioni classiche e l’armonica serenità del cortile del suo palazzo, Federico da Montefeltro impiegò come pittore un ar-
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tista di secondo piano come Giusto di Gand, e preferì la pittura fiamminga a quella italiana; conservò torri e bastioni, tradizionali insegne del signore nei castelli e palazzi nobiliari e principeschi del Medioevo e decorò le sue stanze con bellissime tarsie e arazzi, piuttosto che con i più comuni e meno costosi affreschi e dipinti. Alfonso di Napoli era stato inizialmente re d’Aragona, che, come il resto della Spagna, era una colonia dello stile fiammingo in pittura, sotto di lui Napoli divenne così una delle città italiane dove la pittura fiamminga fu maggiormente ammirata. Questa mescolanza di influssi appare anche in quel notevole esempio di urbanistica rinascimentale, solo in parte realizzato, della metà del secolo che è la città di Pienza; iniziata nel 1459, l’anno dopo la sua elezione, da papa Pio ii (1405-1464), un Piccolomini di Siena, per onorare il proprio luogo di nascita, il progetto si concluse con la sua morte. Due palazzi di rigoroso stile rinascimentale vennero portati a termine dal suo architetto, l’architetto-scultore fiorentino Bernardo Rossellino, mentre la cattedrale (1459-1462) è una chiesa a sala di tipo tedesco, reinterpretata in stile rinascimentale. Pio ii aveva trascorso molti anni nei territori imperiali ed è nota la sua ammirazione per l’architettura gotica tedesca; benché nelle sue opere letterarie utilizzasse un raffinato latino umanistico, il suo gusto in architettura non era evidentemente così rigoroso, sebbene egli stesso credesse che la cattedrale fosse correttamente modellata su un tempio antico con colonne, archi e nicchie semicircolari destinate ad accogliere statue. La comparsa di grandi edifici in stile rinascimentale non portò necessariamente al rinnovamento degli stili architettonici locali: se Federico da Montefeltro trasformò gran parte della sua piccola capitale in una città rinascimentale, il cardinale Girolamo della Rovere chiamò nel 1476 al proprio servizio il fiorentino Giuliano da Maiano e altri maestri del Rinascimento per lavorare ad una nuova grande chiesa di pellegrinaggio, iniziata nel 1468 in un severo stile gotico veneto-lombardo, intorno alla Santa Casa di Loreto, senza alcuna influenza sull’arte delle Marche.
La Lombardia, specialmente il territorio di Como, è stata a lungo celebrata come la regione di muratori, costruttori e architetti che ancora nel xv secolo percorrevano tutta Italia. Le grandi industrie artistiche del suo centro maggiore, Milano, erano la tessitura di raffinati tessuti, specialmente i velluti, e la realizzazione di eleganti armature in un’età in cui queste erano ancora impiegate sia nelle parate sia nei combattimenti dei tornei come in guerra. Anche qui l’architettura del Rinascimento venne introdotta dallo scultore e architetto fiorentino Antonio Filarete (1400 ca.1469), con il patronato di Cosimo de’ Medici e Francesco Sforza, successore dei Visconti e fondatore, nel 1450, di una nuova dinastia ducale a Milano. Nel 1451 Filarete diede inizio per Francesco Sforza al grande Ospedale Maggiore, la prima grande istituzione pubblica progettata e costruita interamente in stile rinascimentale. Nel frattempo scriveva il Trattato d’architettura che contiene, tra l’altro, progetti per edifici ideali e per una città ideale a forma di stella chiamata Sforzinda. Attorno al 1479, Ludovico il Moro, figlio di Francesco Sforza, chiamò al suo servizio un architetto di straordinaria importanza, Bramante (1444-1514), che sarebbe diventato più tardi il primo architetto del nuovo San Pietro a Roma, e un’altra figura che per molti rappresenta il Rinascimento stesso, Leonardo da Vinci (1452-1519). Leonardo iniziò come allievo e pittore nella bottega di Verrocchio, ma nel 1483 entrò al servizio di Ludovico e rimase a Milano come artista di corte. I suoi progetti per un grande monumento equestre in onore di Francesco Sforza non andarono oltre i disegni e un modello a scala naturale del cavallo, mentre la celebre Ultima Cena del 1497 nel refettorio di Santa Maria delle Grazie fu realizzata con colori a olio sull’intonaco, anziché ad affresco, causandone il deterioramento già nel xvi secolo. La caduta degli Sforza ad opera dei Francesi nel 1499, non solo determinò la fine della sua carriera a Milano, ma soprattutto la fine del breve primato artistico della città. Un posto speciale nella precoce diffusione del Rinascimento in Italia occupa Padova, la
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24. Vittore Carpaccio, Il ricevimento degli ambasciatori inglesi, dalle Storie di sant’Orsola, oratorio della Scuola di Sant’Orsola, chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (San Zanipolo), Venezia. Olio su tela, 1490-1500 ca. Gallerie dell’Accademia, Venezia.
città universitaria di Venezia, centro internazionale di studi in particolare di giurisprudenza e medicina. La città non soltanto attrasse pittori fiorentini del Rinascimento come Paolo Uccello e Filippo Lippi, ma vide anche la fondazione della prima scuola d’arte, contrapposta alla bottega, dell’età moderna, che aspirava a insegnare «a dipingere nella nuova maniera», in altre parole lo stile rinascimentale, in particolare usando la prospettiva lineare e forme e decorazioni modellate sull’antico. Il suo fondatore Francesco Squarcione (1395 ca.-1468), un sarto divenuto pittore, sebbene fosse solo un artista mediocre, responsabile di un luogo dove si potevano studiare disegni, calchi e frammenti antichi, attraendo pittori da fuori Padova. Il suo allievo più celebre fu Mantegna, ma è noto che studiarono con lui Nicolò Pizzolo, Marco Zoppo, Giorgio Schiavone ed altri. Lo stile squarcionesco è ben riconoscibile negli allievi e seguaci e la sua influenza,
che raggiunse Venezia, non è meno ravvisabile nell’opera di Carlo Crivelli, che sembra aver soggiornato a Padova alla fine degli anni ’50, e di Cosmè Tura (1430?-95), il grande, misterioso artista della corte di Ferrara alla fine del secolo. La scuola dovette il suo successo al fatto che lo stile rinascimentale iniziava a diventare di moda. Roma era l’unica città del Quattrocento in cui abbondavano edifici e statue classici, ma, in un’epoca in cui il viaggio era costoso, molti artisti non potevano permettersi un soggiorno di studio, che divenne invece pratica comune dalla fine del xvi secolo. Al tempo stesso bottega, con apprendisti e allievi di tipo tradizionale, la cui gloria era il giovane Mantegna, e luogo di studio, i giovani artisti ebbero qui la possibilità di formarsi al nuovo stile studiando la collezione di calchi dall’antico, bronzi classici, piccoli marmi e copie di disegni che egli possedeva di maestri contemporanei. Fu così che la nuova arte rinascimentale
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entrò nella vita artistica di Venezia, influenzando l’arte tardogotica dei Vivarini e rinnovando l’arte di Jacopo Bellini e della sua famiglia. L’altro grande centro italiano, Venezia, fu anche il maggior centro europeo di produzione del vetro, i cui segreti erano gelosamente protetti dallo stato. Le attività produttive erano concentrate, allora come adesso, sull’isola di Murano. Il xv secolo fu caratterizzato dalla realizzazione di eleganti fiasche, tazze, coppe e vasi di vetro colorato blu, verde e rosso, riccamente decorati con motivi dorati e smaltati, di innovatività tecnica caratteristica del tempo. Angelo Barovier inventò intorno al 1450 un vetro trasparente così puro e limpido da essere chiamato cristallo. In seguito furono inventati a Murano un tipo di vetro rosso marmorizzato, per la sua colorazione conosciuto come vetro calcedonio, e un vetro bianco latte
noto come lattimo. Venezia raggiunse il suo punto apicale in pittura con i grandi artisti del xvi secolo, Giorgione, Tiziano, Sebastiano del Piombo, Veronese, Tintoretto e i Bassano. Nella prima metà del Quattrocento la pittura era dominata da Jacopo Bellini (1400 ca.1470/1), allievo come Pisanello di Gentile da Fabriano, il grande maestro del gotico internazionale in Italia. Sebbene si fosse formato in questo stile, nei pochi dipinti superstiti è visibilmente influenzato dall’arte fiamminga, mentre nei due libri di disegni che costituiscono la sua principale eredità si apprezza la crescente influenza rinascimentale, come l’altra grande bottega familiare della metà del secolo, di Antonio e Bartolomeo Vivarini e del loro cognato, il tedesco Giovanni d’Alemagna. Entrambe le botteghe ebbero rapporti con Mantegna, che sposò la figlia di Jacopo Bellini e
25. Sandro Botticelli, La nascita di Venere. Tempera su tela, 1484 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze.
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affrescò con Giovanni d’Alemagna la cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova. Dei due figli di Jacopo Bellini, Gentile (1429 ca.-1507) e Giovanni (1430 ca.-1516), questo fu di gran lunga il pittore più dotato, imparando avidamente all’inizio della carriera da Mantegna e sviluppando in seguito da uno stile severamente linearistico una maniera più dolce e di serena bellezza che, in età matura, divenne ancora più calda e atmosferica. Gentile, artista più rigido, lavorò a Costantinopoli tra il 1479 e il 1481 dipingendo ritratti per il sultano Maometto il Conquistatore. Fu attivo inoltre nella Sala Maggiore del palazzo ducale, la cui decorazione iniziata ad affresco da Gentile da Fabriano e Pisanello, fu continuata su tela, meno soggetta al deterioramento nell’aria umida e salmastra di Venezia. Per la stessa ragione i celebri cicli narrativi dipinti per decorare le Scuole delle confraternite veneziane da Vittore Carpaccio (1460/6 ca.1525/6) – il ciclo di Sant’Orsola e quello di San Giorgio – sono sempre su tela. Le grandi dimensioni di questi dipinti, consentite dalla preferenza veneziana per la tela, e delle pale d’altare, sono maggiori di quelle consuete in ogni altro luogo d’Italia, e rimasero una caratteristica dell’arte veneziana. I pittori veneziani trovarono nel xv secolo un mercato vivace in Veneto e in Dalmazia, allora possedimento veneziano, e sulle coste adriatiche dell’Italia meridionale. Sebbene il Rinascimento tardasse ad acquisire la supremazia su tutte le arti, negli ultimi decenni del secolo Venezia divenne, insieme a Padova, la sua città universitaria, sede di una raffinata arte umanistica, con l’esperienza neoclassica degli scultori-architetti Tullio e Antonio Lombardo, e i dipinti mitologici e le poesie (dipinti di invenzione poetica) degli ultimissimi anni di Giovanni Bellini, di Giorgione e della prima attività di Tiziano. Ad eccezione della decorazione dei manoscritti, nel xv secolo la produzione sacra è sopravvissuta in proporzioni nettamente maggiori rispetto a quella laica, favorendo l’impressione eccessiva di un’arte medievale esclusivamente cristiana. Analogamente il revival delle forme e della decorazione antica fece nascere nel xix secolo la convinzione che
il Quattrocento in Italia, in realtà un’epoca di profonda fede tranne che per una minoranza di umanisti scettici, avesse visto un generale ritorno di paganesimo. Una distinzione è tuttavia necessaria tra pittura e scultura. Ancora dominante nelle botteghe degli scultori gotici del nord, anche nelle opere per le chiese, era la tradizione di intagli decorativi grotteschi, ad esempio nei doccioni o sugli schienali degli stalli da coro inglesi, noti come misericord. Il loro spirito era sia fantastico sia sarcasticamente realistico, e i loro soggetti, anche nelle chiese, erano perlopiù profani, e spesso pungentemente satirici, nei modi fissati da tempo in testi come il Reynard la volpe e i fabliaux. Lo spirito propriamente medievale in cui la venerazione cortese per la Vergine poteva unirsi ad un realismo grossolano, ironico o moraleggiante, è del tutto assente nella tradizione della scultura medievale italiana, che rimase quasi esclusivamente religiosa sino alla fine del Quattrocento, quando rilievi di tema profano in stile classicistico o con soggetti tratti dall’antichità iniziarono ad apparire a Firenze e Siena, in Lombardia e a Venezia nella decorazione di case e palazzi. Né si impiegò la scultura, come in Francia e in Castiglia, per decorare saloni principeschi o reali. Il ruolo di arte decorativa profana della scultura nordica fu svolto in Italia dalla pittura, specialmente dall’affresco. Il xv secolo aveva ereditato dagli affreschi del Trecento un repertorio di temi utilizzabili, nei municipi, che solitamente ospitavano sia camere di consiglio, sia la corte o le corti di giustizia, con soggetti ammonitori e figure esemplari che raccomandavano la fiducia in Dio, nel buon governo, la pratica delle virtù e della giustizia stessa. Anche i temi storici furono popolari, commemorativi di vittorie cittadine come nel caso della Sala del Maggior Consiglio del palazzo ducale a Venezia. Nei palazzi principeschi soggetti cortesi, ritratti di cavalieri ed eroi classici nella tradizione del gotico internazionale ed emblemi araldici continuarono a essere popolari come decorazioni ancora nella prima metà del secolo. L’umanesimo della corte fiorentina di Piero e Lorenzo de’ Medici introdusse sia nella
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pittura ad affresco che in quella su tavola e su tela un nuovo genere, che alla fine sostituì i temi decorativi precedenti. Esso non soppiantò i repertori storici e quelli moralizzanti, sebbene questi fossero sempre più ispirati all’antichità, piuttosto che al passato medievale o a quello recente. Già nel 1504 il gonfaloniere della repubblica fiorentina, Pier Soderini, commissionava a Leonardo e Michelangelo gli affreschi per la Sala del Consiglio in Palazzo Vecchio (non realizzati nella forma finale da entrambi gli artisti) aventi come soggetto due
battaglie del passato, di non grande importanza anche per Firenze. Ciò che probabilmente Pollaiolo e certamente Botticelli raggiunsero fu l’evocazione delle divinità, delle ninfe e delle Grazie della mitologia classica, incarnandole in figure la cui forma fisica – sebbene nella Primavera di Botticelli permangano flessuosità e leggerezza ancora gotiche – sono espressione di un ideale di bellezza classico piuttosto che gotico. In poesia Angelo Poliziano, contemporaneo di Botticelli, compì la medesima conversione dei temi cavallereschi
26. Sandro Botticelli, Venere e Marte. Tempera su tavola, 1485 ca. National Gallery, Londra.
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nel genere mitologico. Raffaello, nell’affresco della Galatea alla Farnesina, adottò questo linguaggio in una delle più significative opere d’arte profana mai dipinte. Ciò che ispirava gli affreschi e i dipinti di Botticelli era un tema antico, l’amore, nella forma del matrimonio, come in Venere e Marte, non senza giocare in modo elegante e scherzoso col motivo della spossatezza amorosa. Trattare questi temi con candore grossolano e burlone fu per secoli una caratteristica spiacevole del matrimonio in tutta Europa.
Gli scultori fiorentini – Ghiberti, Nanni di Banco, Donatello, Luca della Robbia, Michelozzo, Bernardo Rossellino – furono i primi a trasformare dalle forme gotiche in quelle classiche le sepolture ed altri tipi tradizionali di monumenti. Essi e i loro successori crearono alcuni nuovi sinificativi generi, destinati ad una lunga vita nell’arte europea. Nel primo Rinascimento furono più importanti per lo spirito innovativo che incarnavano che per l’effettivo numero delle opere realizzate – né il Rinascimento né le età successive furono
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in grado di eguagliare le civiltà antiche nella produzione scultorea, sia monumentale sia di piccole dimensioni. Una delle prime conquiste degli scultori fiorentini del Rinascimento fu la rivendicazione del nudo nell’arte prima come forma poetica e poi eroica, dopo la condanna medievale che lo aveva confinato alla raffigurazione di Adamo ed Eva, dove era consentito solo per ragioni di fedeltà al testo biblico. Mentre non è possibile sostenere che l’ammirazione per la bellezza umana e l’anatomia sia stata un’invenzione rinascimentale – si trova già nella teologia medievale e ideali di bellezza umana sono ricorrenti nell’arte gotica –, il nudo e l’impiego di uno stile foggiato sull’antico per rappresentare temi ricavati dall’arte classica furono certamente le caratteristiche più rilevanti e durevoli del periodo. Essi sono paralleli – e ne mantengono lo spirito – al revival della mitologia classica nella decorazione e nei temi letterari, rinascita che divenne sempre più incisiva e compiuta man mano che il secolo si concludeva. Donatello, il più audace e originale tra i primi artisti fiorentini, realizzò le straordinarie figure nude in bronzo del David, allora un simbolo di Firenze, e del Cupido, quasi certamente per una fontana, una funzione decorativa che impedisce di individuare nella loro realizzazione nulla oltre un classicismo umanistico puramente estetico o patriottico. Un elegante gusto umanistico è inoltre alla base di un’altra celebre figura in bronzo per una fontana, Il putto che regge un delfino, che Verrocchio modellò per una fontana della villa medicea di Careggi. La celebrazione pubblica del nudo come forma eroica d’arte dovette attendere il pieno Rinascimento e il David di Michelangelo del 1506. Dalla prima metà del secolo, per quanto se ne sa, inizia la ripresa di un altro genere antico, il busto-ritratto, particolarmente popolare nel mondo ellenistico e romano. Nel xvi secolo divenne progressivamente un genere dedicato agli uomini illustri, viventi o defunti, impiegato in particolare nei monumenti funebri – le imagines delle antiche famiglie romane erano commemorazioni degli antenati defunti, che Mino da Fiesole realizzò nel duomo di Fiesole. Questa funzione fu ri-
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presa alla metà degli anni ’60 nella tomba del vescovo Leonardo Salutati (morto nel 1466), un collezionista di antichità. Nella Firenze del xv secolo il busto fu essenzialmente una forma di ritrattistica domestica e familiare, mantenendo questo ruolo anche in seguito, fino alla grande ripresa del genere nel xviii e xix secolo. Il primo busto a ricevere una forma eroica fu quello realizzato da Verrocchio intorno al 1475 di Giuliano de’ Medici (1453-1478), fratello del Magnifico, in cui è rappresentato, con dissimulata allusione principesca, con l’armatura, mentre negli anni ’90 nella Firenze di Savonarola si realizzarono busti con l’immagine di Cristo. Sembra che tali busti siano stati concepiti in stretta relazione con l’architettura e venissero collocati sopra gli ingressi. Altrove i busti femminili, principesse, soprattutto della corte aragonese di Napoli, scolpiti da Francesco Laurana negli anni ’70 sono notevoli per la purezza delle forme quasi astratte. Il monumento equestre bronzeo di Marco Aurelio, che fino al 1471 stava, insieme ad altre statue antiche, di fronte al Laterano a Roma, e che si credeva raffigurasse Costantino, costituì certamente durante il Rinascimento uno stimolo al recupero della tradizione classica della statua equestre. Il cavallo faceva tuttavia intimamente parte dell’immaginario cavalleresco e nel corso del Medioevo sovrani, signori e cavalieri vennero raffigurati con l’armatura a cavallo. La statua equestre bronzea del Gattamelata, realizzata da Donatello a Padova, in contrasto col suo grandioso stile rinascimentale, costituisce in realtà l’ultima di una serie di tombe equestri all’esterno, e non il primo monumento equestre in senso proprio, destinato solo a celebrare un governante o a rievocarne le prodezze in battaglia. Questa distinzione è propria della statua equestre, da tempo distrutta, del marchese Nicolò iii d’Este, eretta a Ferrara per volontà dei magistrati cittadini nel 1451, e del monumento di Verrocchio a Bartolomeo Colleoni a Venezia (1481-1488), in parte ispirato dal modello stesso, desideroso di essere ricordato per il suo eroismo nella forma monumentale praticata dagli antichi Romani. Modellato
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da Verrocchio, fu fuso dopo la sua morte da Alessandro Leopardi, che ideò anche il basamento marmoreo. È caratteristico dell’ansietà del primo Rinascimento di emulare l’antichità che questo superbo monumento commemori un condottiero la cui fama era limitata all’Italia del Nord, piuttosto che una delle grandi figure dell’epoca. Il genere fu progressivamente riservato a re e principi, come nell’antichità, sebbene le indecisioni e gli esperimenti di Leonardo abbiano impedito di portare a termine il monumento equestre commissionato a Milano da Ludovico il Moro in onore del padre Francesco, il condottiero che aveva imposto il suo dominio dinastico sul ducato. L’altra grande innovazione rinascimentale nella scultura di ritratti fu la creazione di medaglie con ritratti, note comunemente attraverso esemplari in bronzo, ma in origine coniate anche in oro e argento. Per un errore comune che durò secoli, il Rinascimento trasformò le monete bronzee della Roma imperiale, già collezionate nel xiv secolo, in un genere specifico, la medaglistica, il cui scopo era di realizzare immagini in scala minore del modello. In origine generalmente commissionata dai principi, la medaglia divenne rapidamente un mezzo di ritratto popolare tra gli umanisti e quelli che avevano un’educazione umanistica. Del mondo araldico del xiv secolo il genere conservò il culto per lo stemma e l’insegna, che in Italia vennero adottati dagli intellettuali, piuttosto che rimanere una caratteristica esclusiva di principi, signori e cavalieri. Mentre sul recto c’era il ritratto del modello, il verso presentava motivi devozionali, araldici o simbolici direttamente riferibili al modello. Diversamente dal busto, la medaglia ebbe origine a Padova alla fine del xiv secolo, forse per influenza di Petrarca, che collezionava monete antiche. Dal punto di vista artistico il suo vero creatore fu senza dubbio anche il più grande esponente del genere, Antonio Pisanello (1395 ca.-1455/6) di Verona, che lavorò per le corti di Ferrara, Rimini e Napoli, e la cui prima medaglia conosciuta è del 1438. La medaglistica fiorì per quasi due secoli, prima di divenire un genere esclusivamente commemorativo. I principali
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realizzatori di medaglie furono di norma orafi, e anche gli scultori di un altro genere creato dal Rinascimento, i bronzetti, non erano meno frequentemente orafi. Il primo bronzetto rinascimentale datato è una copia realizzata nel 1461 della statua equestre di Marc’Aurelio; questa riduzione in piccolo formato di sculture antiche rare e costose è certamente uno delle ragioni della nascita del genere, che rimase prestigioso e popolare fino alla fine del xix secolo. Ci sono buoni motivi per ritenere che molti bronzi italiani del Rinascimento, in ogni caso del xv secolo, siano opera sia di orafi sia di scultori specializzati in opere di bronzo. I più importanti tra questi a Firenze furono Antonio Pollaiolo, che realizzò con l’Ercole e Anteo (1475 ca.-1480) un’opera innovativa con molteplici punti di vista, e Bertoldo di Giovanni (1430/40 ca.-91). Bertoldo realizzò una copia di una scena di battaglia su un sarcofago romano a Pisa in un rilievo bronzeo che venne collocato su una mensola da camino in palazzo Medici, ma è oggi molto più considerato per le statuette in bronzo di figure classiche: Ercole, Bellerofonte e Pegaso e Apollo. Le più squisitamente compiute statuette bronzee del primo Rinascimento sono quelle eseguite in stile classico, spesso come riduzione di famose statue classiche, per i Gonzaga dall’Antico (Pier Jacopo Alori Bonacolsi, 1460 ca.-1528). Il repertorio di Andrea Riccio (1470-1532), che lavorò a Padova, era molto più variato: realizzò saliere, lampade e calamai in un linguaggio classicheggiante che durò a Venezia per più di un secolo. Questo raffinato classicismo, anche quando consapevolmente rustico, appartiene allo stesso mondo veneziano di raffinato umanesimo al pari delle sculture di Tullio e Antonio Lombardo, e la loro naturale collocazione fu lo studio o studiolo, il rifugio colto così amato nel Rinascimento da umanisti, studiosi e dotti, nobili ed ecclesiastici. Forse il più famoso fu quello della marchesa Isabella d’Este, iniziato a Mantova negli anni ’90 del Quattrocento. Un’altra innovazione del Rinascimento che oggi appare meno significativa è la trasforma-
zione del disegno e della decorazione delle suppellettili liturgiche e delle stoviglie domestiche dal gotico al classico. L’evoluzione, iniziata attorno agli anni ’40 del Quattrocento, fu lenta e giunse a compimento in Italia solo alla fine del secolo. Ma si trattò di un cambiamento da non sottovalutare, poiché riguardò tutte le arti decorative che producevano arredi e utensili quotidiani, ovviamente, in primo luogo, quelli da esibire. Alcune delle trasformazioni verso lo stile classico sono riferibili a pittori, ad esempio Cosmè Tura e Mantegna, poiché erano forse i soli a possedere la competenza antiquaria e la creatività necessarie; pittori come Giulio Romano continuarono a progettare piatti di particolare pregio. Dopo cinque secoli, alcune inattese conseguenze di quanto seminato dalla rivoluzione artistica del xv secolo sono ancora attuali. Il classicismo inaugurato in architettura si diffuse in tutta Europa per secoli in diversi stili e revivals, sopravvivendo anche al gothic revival romantico, e perdurando in forme attenuate o convenzionali nel corso del xx secolo come espressione di decoro e dignità. In Italia la figura umana, concepita da artisti formatisi nello studio dell’anatomia e della scultura classica, divenne il tema per eccellenza dell’arte, finendo col relegare il paesaggio, la natura morta e gli altri generi ad un livello inferiore e disprezzato, incoraggiando però la scultura e promuovendo la pittura di storia religiosa e profana a quel primato che dalla fine del xvii secolo ancora mantiene in Francia. Anche in Spagna e in Inghilterra, pur senza riuscire a conquistarsi le simpatie di molti artisti e committenti, conquistò prestigio teorico. Sebbene nel xviii secolo il prestigio di Parigi confinasse i Paesi Bassi ad un ruolo provinciale, le grandi conquiste della pittura fiamminga e olandese nel xvi e xvii secolo influenzarono profondamente l’arte tedesca del Seicento e Settecento. Per sorprendente ironia della sorte, i generi creati dai pittori fiamminghi e olandesi tra Quattrocento e Settecento – il paesaggio, la natura morta, gli interni domestici, il ritratto – sono sopravvissuti all’arte classica italiana, e ancora rimangono, a dispetto di tutti gli sconvolgimenti del Modernismo, vitali.
Pagine precedenti: 27. Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto), David. Bronzo, 1435 ca. Museo Nazionale del Bargello, Firenze. 28. Andrea Verrocchio (Andrea di Michele di Francesco di Cione, detto) David. Bronzo, 1473-1475 Museo Nazionale del Bargello, Firenze. 29. Andrea Verrocchio, monumento equestre di Bartolomeo Colleoni, fuso da Alessandro Leopardi nel 1488. Bronzo, 1481-1488 Campo Santi Giovanni e Paolo, Venezia. 30. Donatello, monumento equestre del Gattamelata. Bronzo, 1446 ca. Piazza del Santo, Padova.
31. Donatello, monumento equestre del Gattamelata, particolare.
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L’ARTE RUSSA DAL RINASCIMENTO ALLE AVANGUARDIE
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Dmitrij Sarab’janov
1. Marc Chagall, La passeggiata. Olio su tela, 1917. Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.
La Russia, come molti altri paesi europei (soprattutto dell’Est), non conobbe un «Rinascimento». Perciò, in un contributo che ha come limiti cronologici da un lato il Rinascimento dall’altro le avanguardie contemporanee, un profilo di storia dell’arte russa non può prendere le mosse da una data precisa. Fino alla fine del xvii secolo l’arte in Russia si sviluppò in base ai principi della società medievale, in stretto contatto con la Chiesa, muovendo con grande esitazione i primi passi sulla via della secolarizzazione. L’antica Rus’ abbracciò il cristianesimo orientale solo alla fine del x secolo e apprese da Bisanzio i fondamenti della cultura medievale, trasponendoli nel contesto russo. Questi principi furono assimilati con sorprendente rapidità e produssero frutti copiosi nel campo dell’architettura, dell’affresco, dell’iconografia e della miniatura. Ebbe così inizio l’evoluzione dell’arte russa antica, che seppe far propria sin dall’inizio l’esperienza bizantina, sovrapponendola al retaggio culturale pagano e creando notevoli opere architettoniche e pittoriche a Kiev, Novgorod, Pskov, Vladimir e altrove. Dal x al xvii secolo l’arte russa antica proseguì tenacemente il suo cammino, a volte difficile e doloroso, sviluppando in un primo tempo le basi bizantine per poi assumere, dopo la caduta di Bisanzio, il ruolo di depositaria della sua eredità. In questo arco temporale essa non fu esente da influenze occidentali, particolarmente nel xii secolo, quando alcuni elementi dello stile romanico penetrarono nell’architettura locale. L’influsso del gotico fu invece minimo. La ragione principale risiede nel fatto che il naturale sviluppo
della cultura russa fu interrotto dall’invasione tataro-mongola, in seguito alla quale l’antica Rus’, nei secoli xiii e xiv, rimase arretrata rispetto agli altri paesi europei, ai quali fece tuttavia da scudo, impedendo ai mongoli di ampliare le proprie conquiste in Occidente. Tra il xiv e il xvi secolo, con il procedere della lotta per la liberazione, la cultura russa riacquistò nuovo slancio e riprese il cammino, ristabilendo i rapporti con l’Europa. Nell’architettura di questo periodo è possibile individuare alcuni tratti italiani. Vari maestri furono infatti invitati direttamente dall’Italia: tra il 1475 e il 1479, Aristotele Fioravanti costruì la cattedrale più importante del Cremlino di Mosca, la chiesa della Dormizione. Sebbene la tipologia di questa si inserisca nella tradizione russo-bizantina, la pianta e la decorazione esterna presentano alcune innovazioni e un nuovo razionalismo si manifesta nel rapporto di proporzioni tra le parti fondamentali dell’interno. In campo pittorico echi del Rinascimento sono riconoscibili nell’arte di Rublëv e Dionisij, la cui essenza rimane tuttavia circoscritta all’ambito delle concezioni artistiche medievali e la cui grandezza non è certo riconducibile alla presenza di elementi rinascimentali. Anche i primi monumenti del barocco, in architettura, pittura e grafica e nella letteratura, non escono dai confini della cultura medievale. In un modo o nell’altro, il contatto con l’Occidente era comunque inevitabile; la vera rottura, che investì ogni sfera della vita russa, avvenne tra il xvii e il xviii secolo, durante il regno di Pietro i, lo zar che «aprì una finestra sull’Europa». In Russia il xviii secolo assunse così lo stesso ruolo storico che era stato svolto
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in Italia, Germania e Olanda dai secoli xv e xvi. Nell’arco di cent’anni la Russia si lasciò alle spalle il Medioevo e si inserì nel percorso storico-culturale comune al resto d’Europa. Architettura, pittura e scultura assimilarono il sistema dei generi, i principi e le correnti stilistiche elaborati nei paesi europei. I canoni medievali, su cui si basava l’arte russa antica, furono decisamente respinti, anche se, nei tre secoli successivi, gli artisti si sarebbero rivolti in varie occasioni all’esperienza accumulata in settecento anni di storia. Nel corso del suo sviluppo artistico, la Russia conobbe quindi due momenti di frattura, caratterizzati da un radicale mutamento di prospettive culturali: la fine del x secolo e il passaggio dal xvii al xviii. Queste brusche
svolte predeterminarono quel movimento discontinuo che avrebbe contraddistinto l’intera storia dell’arte russa. Il Settecento prese l’avvio con un complesso intreccio di influenze straniere: olandesi, italiane, francesi e tedesche. Architetti e pittori occidentali lavoravano in Russia, mentre i russi si recavano a loro volta a studiare in Europa. In Italia gli emissari di Pietro i acquistarono per l’imperatore statue destinate ai parchi e ai giardini della Pietroburgo in costruzione. Per tutta la prima metà del secolo il barocco rimase lo stile dominante, sebbene inizialmente il rinnovamento dell’arte russa risentisse di una certa influenza del classicismo francese; basti pensare alla raffinata severità della pianta proposta da Jean-Baptiste
2. Francesco Rastrelli, Padiglione dell’Hermitage, Palazzo di Caterina, 1752-1757, Carskoe Selo, San Pietroburgo.
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3. Ivan Martos, monumento a Minin e Pozarskij. Bronzo, 1804-1816. Piazza Rossa, Mosca.
Leblond per il centro di Pietroburgo (mai realizzata). Il sistema barocco era particolarmente adatto a esprimere il pathos del potere statale e il violento impulso impresso alle trasformazioni sociali. L’incarnazione di queste idee fu alla base dell’evoluzione architettonica che caratterizzò la prima metà del xviii secolo e che vide la realizzazione di opere quali la cattedrale della fortezza di Pietro e Paolo, con il famoso campanile (1712-1733) eretto da Domenico Trezzini, architetto ticinese; il Gran Palazzo di Caterina a Carskoe Selo (1752-1757), palazzo Stroganov (1752-1757) e il Palazzo d’Inverno (1754-1762), costruiti a Pietroburgo dal celebre architetto italiano Francesco Rastrelli, giunto in Russia all’età di sedici anni con il padre Bartolomeo. Il
palazzo divenne il genere dominante nell’architettura russa di metà Settecento, sebbene proseguisse anche la costruzione di chiese, monasteri e case private. I palazzi del più giovane Rastrelli sono edifici enormi, di composizione complessa, con grandi cour d’honneur o cortili interni. Le pareti sono riccamente decorate con colonne (spesso binate) e lesene con capitelli di varia foggia, cartigli e cornici ornamentali; tutte le forme appaiono subordinate a un movimento ritmico d’insieme grazie a cui paiono fluttuare, muoversi e respirare. Gli interni mostrano una decorazione ricca e multiforme. I principi architettonici su cui si articola la composizione dei palazzi di Rastrelli si diffusero ampiamente. Intorno al maestro italiano, cui va il merito di aver innalzato l’architettura del barocco russo al più alto livello qualitativo, si formò un gruppo di architetti russi tra i quali spicca la figura di Dmitrij Uchtomskij. Grazie al contributo di Rastrelli e degli artisti della sua cerchia l’architettura russa di metà Settecento incarnò il sentimento della magnificenza ed elesse la grandiosità barocca a norma, nonostante alcune concessioni all’edonismo rococò, non tali comunque da sminuirne il respiro monumentale. Fino al xviii secolo la scultura in Russia non aveva conosciuto grande diffusione, specialmente per quanto riguarda la scultura a tuttotondo; la trasformazione subita con l’avvento dell’età moderna fu quindi ancor più radicale che in campo architettonico. Alla già presente funzione decorativa si aggiunsero le forme della scultura libera e monumentale. In entrambi i generi lasciò un’impronta significativa Bartolomeo Rastrelli, autore di una grande varietà di opere: alcuni splendidi ritratti, ricchi di dinamismo esteriore e vita interiore (Pietro i, il principe Menyikov e altri); l’effigie del «primo soldato» Buchvostov, pienamente in sintonia con il gusto settecentesco per le stranezze e le curiosità; l’imponente statua equestre di Pietro i e la vivida raffigurazione di Anna Ioannovna con un negretto, sorprendente nella sua franchezza. Più difficile fu il percorso intrapreso dalla pittura nel suo progressivo superamento
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dei canoni medievali. La ritrattistica si affermò come genere principale, prendendo le distanze dall’icona attraverso la parsuna (da «persona»), volta alla rappresentazione dell’immagine reale di una persona concreta, pur conservando ancora alcuni elementi iconografici accanto a quelli propriamente fisiognomici. Nella prima metà del secolo, un ruolo significativo fu svolto da artisti olandesi, tedeschi e francesi. Incominciarono tuttavia a emergere anche alcuni ritrattisti russi, il cui talento si era affinato all’estero: Ivan Nikitin, Andrej Matveev e, in seguito, Ivan Viynjakov, Aleksej Antropov e Ivan Argunov. La vera fioritura del ritratto si colloca però tra gli anni ’70 e ’90 del Settecento, con l’affermazione di pittori come Fëdor Rokotov, Dimitrij Levitskij e Vladimir Boroviko-
vskij, ciascuno dei quali propose la propria concezione del ritratto, per nulla inferiore ai contemporanei maestri stranieri. Levitskij espresse la bellezza del corpo umano nella sua unità con i moti dell’animo. Rokotov, soprattutto nelle immagini femminili, svelò il lato metafisico dell’esistenza, spiritualizzando non solo il volto, ma anche il corpo e lo spazio circostante. I pittori russi si impadronirono del genere ritrattistico in ogni sua forma e tipologia e raggiunsero un pieno equilibrio nell’unità di ideale e individuale. L’evoluzione degli altri generi nel corso del Settecento non fu altrettanto felice. Solo verso la fine del secolo si affermarono pittori di paesaggio della statura di Semën Y/edrin e Fëdor Alekseev, che nel corso del loro apprendistato in Italia avevano assimilato la
4. Karl Brjulov, L’ultimo giorno di Pompei. Olio su tela, 1827-1837. Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.
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Pagine seguenti: 5. Il’ja Repin, Processsione nella provincia di Kursk. Olio su tela, 1880-1883 ca. Galleria Tret’jakov, Mosca.
tradizione della veduta italiana e degli scorci decorativi di parchi e giardini. Il genere storico, pur occupando il primo posto nella gerarchia stabilita dall’Accademia di Belle Arti di Pietroburgo, fondata nel 1757, non conobbe in realtà una maturazione veramente significativa. La pittura di genere produsse solo alcune opere isolate, senza costituire un quadro unitario. La pittura rifletté solo indirettamente i mutamenti stilistici, manifestatisi in maniera assai più incisiva in campo architettonico. L’architettura russa rispose prontamente agli stimoli provenienti dall’Europa occidentale (in particolare dalla Francia), passando dal barocco al neoclassicismo, il cui sviluppo si colloca dagli anni ’60 del xviii secolo alla metà dell’Ottocento. Un ruolo fondamentale nel classicismo russo fu svolto da architetti francesi come Jean-Baptiste-Michel Vallin de la Mothe e Jean-François Thomas de Thomon, italiani come Giacomo Antonio Quarenghi e Domenico Gilardi, e inglesi come Cameron. Tuttavia i protagonisti principali dell’edificazione di Mosca e Pietroburgo (ma anche delle città di provincia e delle tenute di campagna) furono i russi Vasilij Bazenov, Matvej Kazakov, Ivan Starov, Andrejan Zacharov e Andrej Voronichin, accanto a personalità come Carlo Rossi e Osip (Giuseppe) Bove, di origine italiana, ma vissuti in Russia fin dall’infanzia. Le visioni più grandiose di Bazenov, ossia il progetto per un enorme palazzo nel Cremlino e il complesso della tenuta di Caricyno presso Mosca, non furono mai realizzate, ma la sua Casa Paykov (1774-1786) si erge su un colle di fronte al Cremlino, colma di armonia ed eleganza, stagliandosi solitaria e orgogliosa sullo spazio circostante. Le case private costruite da Kazakov a Mosca, di aspetto a un tempo imponente e accogliente, i palazzi pietroburghesi di Starov, gli edifici pubblici di Quarenghi, il parco e il palazzo di Pavlovsk, opera di Cameron, sfruttano le più svariate possibilità offerte dagli ordini architettonici. Le qualità distintive dello stile neoclassico elaborate in Europa divennero patrimonio dell’architettura russa: dai portici colonnati, ai volumi sviluppati in lunghezza
lungo le strade e intorno alle piazze, subordinati a una severa logica compositiva, a incarnazione dell’ideale neoclassico di armonia. Nei primi decenni dell’Ottocento fu avviata un’intensa attività di ridefinizione delle piante cittadine. A Pietroburgo furono edificati i principali complessi architettonici; la Cattedrale di Kazan’ di Voronichin sulla Prospettiva Nevskij, l’Ammiragliato di Zacharov, la Borsa di Thomon e la sede dello Stato Maggiore sulla Piazza del Palazzo di Rossi, possono annoverarsi tra i capolavori mondiali del neoclassicismo. A Mosca, ad opera di Bove e di altri architetti, presero forma le piazze centrali intorno al Cremlino. L’architettura neoclassica, pur volgendo gradualmente al declino, conservò una certa importanza fino a metà secolo, quando fu definitivamente soppiantata dall’eclettismo, al cui interno il classicismo divenne semplicemente una fra le tante possibili varietà accanto agli stili più diversi: bizantino, gotico, rinascimentale, ecc. Notevole fortuna arrise in questi anni ai modelli seicenteschi, cui si ispirò il cosiddetto «stile russo», privo di esiti particolarmente significativi ed espressione di un’identificazione nazionale più superficiale che autentica. Al neoclassicismo fu legata l’evoluzione della scultura russa, a partire dagli anni ’60 del Settecento fino a metà Ottocento. Se i tratti caratteristici dello stile neoclassico non risultano dominanti nel celebre Cavaliere di bronzo di Pietroburgo (il monumento a Pietro i) del francese Étienne-Maurice Falconet, che non ha forse eguali nella scultura settecentesca, o nella ritrattistica di Fedot Yubin, capace di penetrare con eccezionale profondità nella personalità umana, il classicismo si manifesta in tutta la sua varietà di generi nelle opere di Fedor Gordeev, Michajl Kozlovskij, Ivan Martos, Feodosij Y/edrin e altri discepoli del francese Nicholas-François Gillet, allora docente all’Accademia Imperiale di Belle Arti. Autori di monumenti (il Suvorov di Kozlovskij a Pietroburgo, Minin e Pozarskij di Martos a Mosca), ritratti, composizioni di soggetto storico o mitologico e monumenti funebri, eseguirono anche statue e bassorilie-
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vi per la decorazione di edifici pubblici. Nella prima metà del secolo sulla base classicista si innestarono tratti romantici e realistici. Con il prevalere di questi ultimi nella seconda metà dell’Ottocento l’aspetto plastico della scultura perse importanza a favore del naturalismo e dei soggetti tratti dalla vita quotidiana. Come la letteratura, anche la pittura ottocentesca si fece portavoce delle tendenze dell’epoca. La visione romantica del mondo, l’anelito a penetrare al di là della superficie del reale per giungere a comprendere l’essenza metafisica dell’uomo e della natura, furono alla base della grande fioritura di ritratti e paesaggi dei primi del secolo. L’epoca d’oro della ritrattistica si colloca nei primi decenni dell’Ottocento con l’opera di Orest Kiprenskij. Egli incarnò l’immagine dell’uomo dinanzi a cui si aprono mondi inesplorati, i vasti spazi della vita interiore e spirituale. Il passo successivo fu compiuto da Karl Brjulov, che seppe esprimere non solo la percezione della vita in tutta la sua pienezza, ma anche la malinconia e l’amarezza del disincanto. Nei paesaggi di Sil’vestr Y/edrin, dipinti in Italia negli anni ’20, la natura fiorisce in tutto il suo splendore e l’uomo vi si fonde armoniosamente. Nel secondo terzo del secolo giunse al culmine anche la pittura storica, in cui classicismo e romanticismo si fusero e si arricchirono, grazie al raggiungimento di un’autentica prospettiva storica. Ne L’ultimo giorno di Pompei, che ebbe un successo straordinario in tutta Italia, Brjulov non si limitò a ricostruire con precisione archeologica un avvenimento storico, affrontando anche temi come il destino dell’umanità e le grandi catastrofi. Il momento centrale della pittura russa ottocentesca è però costituito dal quadro di Aleksandr Ivanov L’apparizione di Cristo alla folla (1837-1857) e, più in generale, dall’intera sua opera. La sua attività artistica si svolse in Italia; fu qui, nei numerosi studi per il dipinto principale e nei pochi dipinti di paesaggio, che seppe esprimere il senso tipicamente russo dello spazio infinito, dando forma tangibile all’idea dell’unità della materia spiritualizzata, presente tanto nell’uomo
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quanto negli oggetti, nella terra, negli alberi e nelle pietre. Negli anni ’50 vide la luce il cosiddetto ciclo degli studi biblici, permeati di storicismo e fantasia mitopoietica. Qui il miracolo non si rivela solo nell’eccezionalità dell’epifania, come nell’opera maggiore, ma anche nei fatti più comuni e quotidiani. A partire dagli anni ’20 dell’Ottocento la pittura di genere conobbe un intenso sviluppo, fino ad assumere un ruolo di primo piano nella seconda metà del secolo. A metà Ottocento l’arte dei pittori di genere, con il suo carattere prevalentemente poetico e contemplativo, si avvicina al Biedermeier tedesco e austriaco. In Russia l’iniziatore della corrente fu Aleksej Venecianov, fondatore di una vera e propria scuola. I suoi dipinti, di soggetto contadino, non rappresentano in genere episodi particolarmente significativi; sono piuttosto assimilabili a idilli ispirati al lavoro e alla vita quotidiana, caratteristici per la semplicità e la purezza dei sentimenti espressi dai personaggi. Tra i discepoli di Venecianov la figura più notevole è quella di Grigorij Soroka, che raffigurò con semplicità, e al tempo
stesso con sorprendente sensibilità, la tranquilla vita della campagna russa. Negli anni ’40 e’50 Pavel Fedotov mostrò la via per un superamento del Biedermeier, introducendo nella pittura di genere soggetti nuovi e creando con impareggiabile umorismo scene di vita che invitano lo spettatore a sorridere e ad ammirare lo splendido mondo degli oggetti, ma anche a riflettere su ciò che di ripugnante si cela dietro il sorriso e la bellezza esteriore. Negli ultimi anni di vita l’artista intensificò i contrasti coloristici, deformando le figure e i volti e creando immagini pervase di tragica disperazione, in cui sono avvertibili alcuni tratti di iperrealismo. Nella successiva evoluzione della pittura di genere, dai quadri di Vasilij Perov e degli altri artisti degli anni ’60, animati da un intento di denuncia satirica o da una drammaticità ricca di compassione, si passa alla rappresentazione oggettiva della vita russa urbana o rurale da parte dei pittori appartenenti alla Società degli Ambulanti, che affrontarono coraggiosamente problematiche etiche e sociali. Il più incisivo e poliedrico
6. Vasilij Surikov, La mattina dell’esecuzione degli Strel’cy. Olio su tela, 1878-1881. Galleria Tret’jakov, Mosca.
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7. Paolo Trubeckoj, monumento equestre di Alessandro iii. Bronzo, 1909. Palazzo di Marmo, San Pietroburgo.
Pagine seguenti: 8. P. Filonov, Guardiane di mucche, 1914, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.
tra questi fu Il’ja Repin, che realizzò i propri intenti soprattutto nei dipinti degli anni ’80, Processione nella provincia di Kursk e L’inatteso, raggiungendo grande maestria nella creazione di composizioni dense di personaggi e nella resa dello sfondo in tutta la sua complessità di luce e atmosfera. A partire dagli anni ’70 ritratto e paesaggio assunsero un ruolo importante nell’evoluzione della pittura russa. Vasilij Perov, Ivan Kramskoj, Il’ja Repin e Nikolaj Jaroyenko ritrassero gli esponenti dell’intelligencija, esprimendone la compassione per il dolore umano, la sofferenza personale e la profondità di pensiero. I paesaggisti si rivolsero invece alla natura russa, cantandone la maestosità (Ivan Yiykin), l’intimo fluire, dalla stagione del risveglio primaverile al declino autunnale (Fëdor Vasil’ev), la capacità di suscitare stati d’animo differenti (Aleksej Savrasov, Vasilij Polenov, Isaac Levitan) e gli effetti più spettacolari (Arkhip Kuindzi). Nell’ambito del realismo si sviluppò anche la pittura storica, producendo frutti notevoli con le opere di Yvarc, i quadri di soggetto evangelico di
Ivan Kramskoj, Nikolaj Ge e Vasilij Polenov, per raggiungere infine il culmine nell’arte di Vasilij Surikov (con la famosa «trilogia» degli anni ’80: La mattina dell’esecuzione degli Strel’cy, Menyikov a Berezovo e La boiara Morozova e in altri dipinti consacrati al duro destino del popolo e dei suoi eroi). Surikov riponeva completamente la propria fede nella provvidenza divina. Tutti gli eventi raffigurati nei suoi quadri accadono per volere di Dio, anche se la loro contraddittorietà può turbare la ragione umana. La «pittura monumentale da cavalletto» tipica di Surikov, che sarebbe stata troppo impegnativa per semplici soggetti di genere, ben si adatta alla grandezza degli eventi storici rappresentati. Viktor Vasnecov, contemporaneo di Surikov, creò una propria versione del genere storico-mitologico. Alla pittura propriamente storica si affiancarono inoltre le scene di battaglia, grazie soprattutto al contributo di Vasilij Verey/agin, artista di fama internazionale, cui dobbiamo molte testimonianze di guerra, sconvolgenti nella loro crudezza. Il crinale tra il xix e il xx secolo fu un periodo assai intenso nella storia dell’arte russa. L’architettura, superato l’eclettismo, si rivolse decisamente all’Art Nouveau, lo assimilò e ne diede una serie di splendide interpretazioni nei generi più diversi, ad opera di Fëdor Yechtel’, Vilian Walkott, Lev Kekuyev e altri. Vi fu inoltre una rinascita della scultura, grazie anche all’artista italo-russo Paolo Trubeckoj, che durante la sua pluriennale permanenza in Russia eresse a Pietroburgo uno dei più bei monumenti del paese, quello dedicato allo zar Alessandro iii. Anna Golubkina, discepola e assistente del grande Rodin, celebrò nelle sue opere la sofferenza e l’eroismo. Aleksandr Matveev, spesso paragonato a Maillol, fuse il simbolismo con la concezione armoniosa dell’uomo propria del classicismo. Ma i cambiamenti fondamentali riguardarono la pittura. Esauritasi la tendenza realistica, gli anni ’80 dell’Ottocento videro nascere contemporaneamente l’impressionismo e l’Art Nouveau. Il primo impressionismo russo derivò autonomamente dalla pittu-
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ra realistica en plein air (Levitan, Konstantin Korovin, il primo Valentin Serov) e solo in un secondo momento si rivolse all’esperienza francese (con Korovin, Igor Grabar’, N. Tarchov). Le ricerche simboliste, concretizzatesi nell’ambito dell’Art Nouveau, furono avviate da Michajl Vrubel’, le cui immagini – il demone, l’uomo contemporaneo dilaniato dalle contraddizioni (il ritratto di Mamontov), i paesaggi notturni, i lillà in fiore – non sono mai riconducibili a un significato univoco o a un concetto ben definito; la loro tensione pittorica le avvicina all’espressionismo. Diversa fu la versione che dell’Art Nouveau diede Valentin Serov, grande ritrattista, tanto riflessivo e misurato quanto capace di penetrare in profondità nel soggetto, rivelandone la complessità di carattere e i moti interiori dell’animo. Sia Vrubel’ che Serov entrarono a far parte dell’associazione «Mir Iskusstva» (Il Mondo dell’Arte), i cui principali esponenti furono Aleksandr Benois, Sergej Djagilev, Konstantin Somov, Evgenij Lanseré e Mstislav Dobuzinskij. La maggior parte dei soci del «Mondo dell’Arte» si ispirava a un lontano passato «elegante» e tentava di ricreare un mondo stilizzato di illusioni, più simile a uno scenario teatrale che a una ricostruzione storica, ricorrendo agli strumenti romantici dell’ironia e dell’autoironia. Risentivano inoltre delle tendenze simboliste dell’epoca, i cui autentici rappresentanti furono Viktor Borisov-Musatov, Kuz’ma Petrov-Vodkin e gli artisti del gruppo «La Rosa Azzurra»: Pavel Kuznecov, Martiros Sar’jan, Nikolaj Sapunov e Sergej Sudejkin. Nel mondo immaginario di Borisov-Musatov, immune da qualsiasi ironia, il sogno e la visione assumono forme fragili, diafane ed armoniose. Petrov-Vodkin seppe unire le particolarità stilistiche del contemporaneo neo-accademismo alla tradizione pittorica antico-russa. Kusnecov trovò il suo mondo ideale nelle steppe dell’Asia centrale, mentre Sar’jan ambientò i suoi dipinti in Armenia, Egitto, Turchia, Persia e nelle terre fiabesche di un Oriente immaginato. L’attività dei membri della «Rosa Azzurra», fondata nel 1907, conduce direttamente alle soglie dell’avanguardia russa.
Il secondo decennio del xx secolo vide la formazione dei concetti fondamentali dell’avanguardia russa, nonché dei suoi principali gruppi artistici. I primi passi furono mossi dal gruppo «Il Fante di Quadri» e dalla pietroburghese «Unione dei Giovani». Seguirono poi le mostre «Coda d’asino», «Il Bersaglio», «4», le esposizioni futuriste «Tram V», «O, 10», «Magazin» e molte altre. Tra il 1916 e il 1917 nacque l’associazione «Supremus», diretta da Casimir Malevi/. I principi essenziali dell’avanguardia pittorica russa erano ormai stati elaborati. I membri del «Fante di Quadri» assimilarono l’esperienza fauvista e cubista dei pittori francesi e crearono una prima avanguardia: una sintesi in cui confluivano le nuove scoperte europee e la tradizionale pittura da cavalletto, ma anche oggetti russi, dai giocattoli alle insegne dei negozi. Il più coerente fautore della «teoria delle insegne» fu Il’ja Maykov. Petr Kon/alovskij, Aleksandr Kuprin e Vasilij Rozdestvenskij conferirono armonia al primitivo, riconducendolo nei limiti della tela da cavalletto, accuratamente costruita dal punto di vista coloristico e ritmico. In Aristarch Lentulov il quadro tende ad assumere la forma di un pannello decorativo; l’artista ricorre a motivi architettonici antico-russi, fino ad esaurire quasi completamente le possibilità figurative della pittura. Robert Fal’k si dedicò costantemente alla ricerca della metafora pittorica, nel tentativo di trarre significato e forza espressiva da ogni singola pennellata. La figura guida del neoprimitivismo, Michajl Larionov e Natal’ja Gon/arova, concepirono una delle prime forme di pittura non oggettiva: il «raggismo». Nello stesso periodo Vasilij Kandinskij, dopo una lunga permanenza a Monaco sotto l’influsso dello Jugendstil tedesco, creò il primo quadro non figurativo e diede il via a quella forma d’arte contemporanea nota come espressionismo astratto. Kandinskij attuò le potenzialità spirituali dell’arte figurativa in una fusione di terrestre e cosmico, logico e irrazionale. Anche gli altri due maggiori artisti del tempo, Marc Chagall e Pavel Filonov, furono in qualche misura legati ai principi arti-
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stici dell’espressionismo. Chagall, con la sua fantasia e l’appassionato legame con le radici nazionali, fuse diverse correnti stilistiche – espressionismo, fauvismo, cubismo – e vi aggiunse una sorprendente commistione tra l’assurdo, un carattere di origine russa, e la vita quotidiana. Forte di questo ricco bagaglio di esperienze, si accostò ai temi eterni dell’amore, della nascita e della morte. Filonov, attraverso la tensione eroica della sua concezione mitologico-poetica, creò originali formule pittoriche. I suoi eroi esistono in una dimensione al di fuori del tempo, nell’unità di passato, presente e futuro. Le «fantasie realistiche» di Filonov si fondano su un programma ben preciso, portatore di un messaggio profetico. Molti di questi artisti furono più o meno legati a quella corrente che assunse in Russia il nome di cubofuturismo, in cui coesistevano due elementi apparentemente inconciliabili: il carattere costruttivo, essenzialmente statico del cubismo, e il dinamismo aperto del futurismo. Su questa interazione costruirono le proprie composizioni Casimir Malevi/, David Burljuk, Ivan Puni, Ivan Kljun, Ol’ga Rozanova, Ljubov’ Popova, Madeza Udal’cova e molti altri. Superato il cubofuturismo, Malevi/ diede vita a una nuova tendenza, il suprematismo, una forma di astrazione geometrica volta ad affermare l’esistenza di un nuovo principio organizzativo alla base dell’universo. Nella visione di Malevi/, l’attività dell’artista divenne espressione di una sintesi di arte, filosofia e religione. Le concezioni artistiche contemporanee trovarono una diversa interpretazione in Vladimir Tatlin. Se per Malevi/ fu decisivo il balzo verso l’incorporeità, Tatlin, al contrario, affermò il valore della materia in quanto tale. Fu precursore del costruttivismo, affermatosi negli anni ’20 in vari ambiti: in architettura, grazie all’attività dei fratelli Alek-
sandr, Leonid e Viktor Vesnin, Konstantin Mel’nikov e molti altri; in pittura, grafica e scenografia, con le opere di Aleksandr Rod/ enko, Varvara Stepanova, Aleksandr Vesnin, Ljubov Popova, Aleksandra Ekster, e infine nell’industria artistica. Una posizione intermedia tra suprematismo e costruttivismo fu occupata da Lazar’ Lisickij; fu soprattutto grazie alla sua attività che le conquiste dell’avanguardia russa divennero note in Occidente. Negli anni ’20 l’avanguardia russa fu sottoposta a diversi attacchi da parte del potere sovietico, finché negli anni ’30 fu definitivamente soppiantata dal realismo socialista, l’arte ufficiale del regime. Solo negli ultimi decenni è risorta a nuova vita, diventando patrimonio vivo dapprima degli artisti non conformisti, e in seguito dell’arte russa in generale.
9. R. Fal’k, Staraja Ruza. Olio su tela, 1913. Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.
10. Kazimir Malevi/, Autoritratto. Olio su tela, 1933. Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.
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L’ARTE DEL XVI SECOLO
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Philip Cottrell
L’apogeo del Rinascimento
1. Michelangelo Buonarroti, David, particolare. Marmo, 1501-1504. Galleria dell’Accademia, Firenze.
Nell’Europa occidentale il xvi secolo costituisce il punto culminante del Rinascimento come movimento artistico. L’apice, tradizionalmente posto nel decennio di apertura del secolo, è collocato nell’Italia centrale e caratterizzato principalmente dall’opera di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Questi artisti sono individuati come figure di spicco nella più importante fonte critica del tempo, Le Vite di Giorgio Vasari (Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori, raccolta di biografie di artisti italiani edita nel 1550, con un’edizione riveduta nel 1568). La visione toscanocentrica dell’arte del xvi secolo di Vasari si è dimostrata straordinariamente tenace, ed è stata in seguito sviluppata da critici della fine dell’Ottocento come Heinrich Wölfflin, il cui Der Klassische Kunst del 1898 è largamente responsabile dell’idea che l’«alto Rinascimento» sia circoscrivibile al periodo compreso tra il 1500 e il 1520 circa. È a questa fase che appartengono alcune delle immagini più evocative e immediatamente riconoscibili del Rinascimento, come la Gioconda di Leonardo, il David di Michelangelo e la Scuola di Atene di Raffaello. Queste opere continuano ad attrarre l’immaginario collettivo, rappresentando l’apoteosi dell’arte occidentale, il momento in cui gli orientamenti classicheggianti del Rinascimento in senso naturalistico, la semplicità e la monumentalità si risolsero finalmente in un insieme armonioso. Mentre perdura il concetto di «alto o pieno Rinascimento», in anni recenti la critica
si è rivolta soprattutto alle successive ondate di reazione e di reallineamento che hanno coinvolto l’intera Europa. Il xvi secolo è così progressivamente divenuto l’età del «manierismo», categoria stilistica necessariamente ampia e piuttosto contraddittoria che comprende quei linguaggi figurativi che sembrano sia derivare sia essere fondamentalmente antitetici al pieno Rinascimento. Se il manierismo, stile caricato e spesso eccentrico, rappresenta la lenta conclusione del Rinascimento, viene ora apprezzato per la sua varietà di sperimentazioni e le precoci tendenze espressioniste. Il modello vasariano Sia in teoria che in pratica il xvi secolo ha consolidato uno dei più durevoli principi che abbiano governato la concezione dell’opera d’arte nel mondo occidentale: il ruolo individuale dell’autore come elemento determinante della sua essenza. Vasari è stato in tal senso una figura decisiva e il successo delle sue Vite è indicativo della fioritura di teorie artistiche e di critica che caratterizza il periodo. Sebbene avesse percorso una carriera di notevole successo come pittore e architetto a Roma e Firenze, Vasari è ricordato soprattutto per l’enorme influenza esercitata dalle sue Vite. Oltre alla fondazione del popolare approccio biografico alla storia dell’arte, Vasari ha contribuito a creare molti dei miti e dei pregiudizi che tuttora circondano il concetto di Rinascimento come rinascita delle idee e degli ideali dell’antichità classica. Egli impie-
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gò anche il termine rinascita per indicare ciò che considerava un rinnovamento delle arti, sotto la guida di Firenze, verso la fine del xiii secolo. Strutturando la sua storia attorno alle vite dei maggiori artisti a partire da Cimabue, concepì lo sviluppo artistico della propria epoca come un’unica enorme biografia articolata in tre fasi – infanzia, giovinezza, maturità –, corrispondenti all’incirca al xiv, xv e xvi secolo. Questo principio, fondato sul rapporto macrocosmo-microcosmo, fu caratteristico del pensiero umanistico corrente, come l’equazione tra maturità fisica e perfezione autocognitiva. L’artista come creatore
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Nell’approccio teleologico vasariano è fondamentale l’idea che l’arte del tempo si fosse spinta fino ad un punto supremo coincidente con l’opera di Leonardo, Raffaello e soprattutto Michelangelo. Vasari descrive quest’ultimo come un genio universale, «il qual non solo tiene primato di una di queste arti, ma di tutte e tre insieme», la cui missione artistica sulla terra gli è stata assegnata da Dio. Michelangelo stesso impiegò una metafora ontologica che comparava il proprio impegno artistico all’atto divino della creazione. Egli spiegò come le proiezioni mentali delle figure che concepiva divenissero entità vive imprigionate nella pietra, dalla quale le liberava attraverso il processo della scultura. La perfetta espressione di questa idea si può apprezzare nelle statue non finite di Michelangelo, in particolare nei cosiddetti Prigioni, commissionati per la tomba di papa Giulio ii. La fiducia nell’abilità artistica come mezzo per corrispondere al potere creativo conferito da Dio divenne un concetto potente che rifletteva la filosofia neoplatonica del periodo. Questi principi sono rintracciabili già dal 1500 in ambito non italiano nel singolare autoritratto del pittore e incisore tedesco Albrecht Dürer (Monaco, Alte Pinakothek). Qui l’artista sceglie una posa frontale a mezzobusto, tradizionalmente riservata alle immagini devozionali di Cristo al fine di enfa-
tizzare il ruolo creativo dell’artista come microcosmo del divino. Nella teoria artistica fiorentina le nuove ambizioni e responsabilità collegate all’attività artistica furono prese molto sul serio. Vasari presentò Michelangelo come l’artista esemplare che aveva corrisposto alle facoltà divinamente conferitegli, non solo superando gli artisti dell’antichità, ma trionfando «sulla stessa natura». Le idee di Vasari sul ruolo imitativo dell’artista non sono però del tutto coerenti. Una delle critiche mosse agli artisti del secolo precedente riguardava ciò che lui interpretava come fiducia nel riprodurre ciò che vedevano in natura («contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura così appunto come elle sono»). In realtà, l’artista del xvi secolo svolgeva un ruolo molto più attivo nella creazione artistica, imprimendo in essa la personale capacità inventiva, alla ricerca di uno stile più elegante, o «maniera» (da cui deriva il termine moderno manierismo). Fattezze distorte in modo stravagante come nella Madonna dal collo lungo del Parmigianino (1534-1540; Firenze, Uffizi), furono considerate virtuosismi, che servivano a enfatizzare le capacità creative dell’artista e la sua abilità nel «migliorare» la natura. Tali sensibilità furono all’inizio contrapposte ai principi dell’arte nordica, con il suo tradizionale interesse alla verità ottica, come emerge dal confronto tra la Madonna dal collo lungo del Parmigianino e la Madonna del Borgomastro Meyer di Hans Holbein (15261528; Darmstadt, Hessisches Landesmuseum), estremamente aderente al vero. Uno degli allievi di Michelangelo, il portoghese Francisco de Hollanda, riporta il pensiero del maestro riguardo al metodo di lavoro nei paesi nordici: «Si dipingono in Fiandra, propriamente per ingannare la vista esteriore, delle cose gradevoli […] senza ragione né arte, senza simmetria né proporzione, senza discernimento né scelta». Superando questa fase naturalistica, un artista della «maniera» poteva rivendicare di essere andato oltre la natura, consentendo alla sua arte di attingere a una sfera divina.
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2. Leonardo da Vinci, Monna Lisa o La Gioconda. Olio su tavola, 1503-1505. Museo del Louvre, Parigi.
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Disegno contro colorito
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Fieramente orgoglioso della tradizione fiorentina, fondata su prospettiva e disegno, Vasari accentuò l’interesse verso i rigorosi principi del disegno e della composizione (disegno), come espressioni delle capacità intellettuali dell’artista. Ciò era visto in contrasto con la sottolineatura delle più sensuali caratteristiche di colore e tono (colorito), di cui erano principalmente interpreti i pittori della scuola veneziana, che, in linea con le loro controparti nordiche, riservarono al con-
tempo grande attenzione alla verità ottica. Il vivace dibattito tra disegno e colorito divenne una delle principali caratteristiche della teoria artistica italiana dai decenni centrali del secolo, quando un critico veneziano, Ludovico Dolce, avviò un’accesa polemica contro i pregiudizi vasariani. La controversia si polarizzò attorno all’incontro, avvenuto a Roma nel 1545, tra gli artisti più rappresentativi dei due campi, Michelangelo e Tiziano. Dopo aver esaminato la Danae di Tiziano (Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte), sembra che Michelangelo abbia accolto l’opera
3. Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene. Affresco, 1509-1510. Stanza della Segnatura, Palazzo Apostolico, Città del Vaticano.
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con tiepido consenso, lamentando privatamente con Vasari che fosse un peccato che i pittori veneti non sapessero disegnare correttamente. Vasari precisò le osservazioni di Michelangelo, aggiungendo che, se un artista non disegnava a lungo e non studiava attentamente opere scelte antiche e moderne, non avrebbe potuto lavorare bene a memoria né migliorare quanto copiato dalla realtà, e conferire così al proprio lavoro quella grazia e perfezione dell’arte che stanno oltre le possibilità della natura. L’uomo a immagine di Dio
Pagine seguenti: 4. Michelangelo Buonarroti, David. Marmo, 1501-1504. Galleria dell’Accademia, Firenze. 5. Michelangelo Buonarroti, Lo Schiavo morente. Marmo, 1513-1515. Museo del Louvre, Parigi.
Alla ricerca di un soggetto che fosse adatto al suo nuovo ruolo prometeico, l’artista non doveva spingersi oltre il corpo umano. Il xvi secolo è infatti caratterizzato da un rinnovato interesse per la figura umana e per il ristabilimento del nudo come uno dei fondamenti dell’arte occidentale. Questa tendenza si allineava significatimente con le istanze prevalentemente neoplatoniche che Michelangelo finì per incarnare: «Né Dio, sua grazia, mi mostra altrove | Più che ’n alcun leggiadro e mortal velo; | E quel sol amo, perché in lui si specchia». Le affermazioni di Michelangelo sono illuminanti sia riguardo alla ricerca di un modello mascolino nella rappresentazione di entrambi i sessi, sia riguardo alla volontà di esplorare l’intera gamma di atteggiamenti e pose che celebrassero attraverso l’arte la creatività divina. Nelle ultime opere di Michelangelo tali intenti sono spesso offuscati da una retorica formale che ha profondamente influenzato i suoi discepoli manieristi. La posa avvitata della Vittoria, del 1527-1530 ca. (Firenze, Palazzo Vecchio), esercitò una particolare influenza, rafforzando l’ossessione manierista per la «figura serpentinata» in cui il corpo umano si riteneva rangiungesse la sua perfezione estetica. Mentre gli artisti manieristi manipolano la figura umana in modi sempre più fantastici, Dürer semplifica le vie più metodiche, di origine albertiana, percorse dagli artisti nei lo-
ro tentativi di realizzare la bellezza umana. Il suo trattato teorico, Vier Bücher von mensclicher Proportion (Quattro libri sulle proporzioni umane), pubblicato nel 1528, coronamento dell’interesse di una vita per i rapporti matematici delle armoniose proporzioni umane, gli venne ispirato dall’incontro giovanile con l’incisore veneziano Jacopo de’ Barbari. Jacopo sosteneva che vi fosse un segreto per realizzare proporzioni umane perfette, e che era pronto a rivelarlo solo in parte. La ricerca di questo «santo Graal» condusse Dürer agli scritti di Vitruvio, architetto dell’antichità, la stessa fonte di cui si era servito Leonardo per la realizzazione del suo famoso disegno delle proporzioni umane (1490 ca.; Venezia, Gallerie dell’Accademia). Dürer si addentrò ulteriormente nei campi della matematica e della geometria, e queste indagini lo portarono ad eseguire innumerevoli studi grafici delle proporzioni umane. Le sperimentazioni di Dürer riflettono il modo in cui l’arte nordica cominciò finalmente in questo periodo a confrontarsi con le più ampie possibilità di rappresentazione del corpo umano. Tuttavia la naturale inclinazione di artisti e committenti a nord delle Alpi era diretta non tanto verso la vigorosa celebrazione dell’elemento fisico quanto verso le implicazioni morali e spirituali del corpo come veicolo di esistenza corporea. Ad esempio la forza espressionistica della figura del Cristo crocifisso dell’Altare di Issenheim di Matthias Grünewald (1515; Colmar, Musée d’Unterlinden) consiste nella spiacevole, acuta sensazione di fisicità. Particolarmente penosa è la resa da parte dell’artista della corruzione delle carni martoriate di Cristo, che avvicina la sua agonia fisica e spirituale alle sofferenze dei malati dell’ospedale al quale questa pala era destinata. L’approccio di Grünewald mostra una certa affinità con la sorprendente raffigurazione di Hans Holbein del corpo di Cristo nel sepolcro, del 1521-1522 (Basilea, Kunstmuseum). Nell’offrire una resa altamente convincente di un cadavere consunto, Holbein sottolinea il ruolo del corpo come semplice contenitore dell’anima, esprimendo in tal modo il trion-
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fo di Cristo nella successiva rianimazione dell’involucro privo di vita attraverso il miracolo della Resurrezione. Il nudo femminile: allegoria e sensualità In contrasto con questo interesse per il corpo come natura morta (o, come nel caso di Holbein, «corpo morto»), l’influenza del nudo femminile idealizzato di matrice italiana fece sentire la propria presenza anche al Nord. Se gli squisiti nudi pseudo-orientali di Lucas Cranach (1472-1553) derivano da formule idiosincratiche proprie dell’artista, la sua comparsa nella pittura tedesca nei decenni centrali del secolo dipende dai precedenti italiani. Un contemporaneo di Cranach, Hans Baldung Grien, optò per un approccio classicistico al corpo femminile molto più convenzionale, asserendo al tempo stesso un intento moralistico proprio del Nord. Una dimostrazione istruttiva della differenza tra il temperamento italiano e quello nordico si ha nel confronto tra le Tre età della donna e la Morte di Baldung Grien e La donna allo specchio di Giovanni Bellini (entrambi del 1510 ca.; Vienna, Kunsthistorisches Museum). Nel dipinto di Baldung Grien la sensualità della giovane donna nuda che si ammira allo specchio diviene il fulcro di un’allegoria sulla vanità e la follia terrena, mentre l’opera di Bellini è priva di un tale peso moraleggiante, celebrando le forme del nudo femminile come qualcosa di degno delle cure che le dedica la proprietaria. In questo tardo dipinto, Bellini riflette l’amore veneziano per il sensuale nudo femminile, poi sviluppato nelle opere dei suoi successori Giorgione e Tiziano. La Venere di Giorgione, del 1510 ca. (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister), è a tale proposito un’opera di rottura, ma la sua ambientazione pastorale ci rivela che l’autore continua a ritrarre il nudo nel suo tradizionale contesto allegorico (Venere era originariamente accompagnata dalla figura di Cupido, poi eliminata da Tiziano). Con la reinterpretazione di questo prototipo nella cosiddetta Venere di Urbino di Tiziano del 1538 (Firen-
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ze, Uffizi), il nudo è liberato da ogni riferimento allegorico a una divinità e la sensualità erotica delle forme femminili diviene il principio di organizzazione del dipinto. Il dipinto di Tiziano stabilisce un precedente importante nella tradizione del nudo femminile che sarebbe divenuto una caratteristica costante della pittura occidentale.
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L’Accademia e l’ascesa dell’artista L’interesse critico nello sviluppo del potenziale artistico riflette la costante ascesa sociale dell’artista in questo periodo. Ispirato dagli scritti di Leon Battista Alberti, Vasari divenne una figura cruciale nella lotta per considerare architetti, pittori e scultori come esponenti delle arti liberali; già non erano più considerati artigiani come i doratori e i carpentieri, ma intellettuali che lavoravano con la testa quanto con le mani. A tal fine Vasari e altri importanti pittori e architetti del xvi secolo si dedicarono all’elaborazione critica di una teoria. Non era inusuale per un artista avere un’opera teorica all’attivo, talvolta più d’una, mentre altri artisti minori, come Paolo Pino o Giovanni Paolo Lomazzo, sono ricordati più per il loro impegno erudito che per l’attività artistica. Nel 1563 Vasari contribuì alla fondazione dell’Accademia del Disegno a Firenze, un’istituzione con finalità sia pratiche sia culturali per codificare, conservare e perpetuare i principi artistici fiorentini. Era composta da membri ufficiali, artisti che esercitavano la professione, e da una serie di membri onorari, che comprendeva artisti e critici che lavoravano fuori Firenze, ma che simpatizzavano con i valori di Vasari e dei suoi colleghi. L’accademia vasariana sembrò determinare una rottura definitiva con il vecchio sistema corporativo dei mestieri, che aveva tradizionalmente regolamentato la pittura, la scultura e l’architettura. Come tale, essa costituì il modello sul quale si sarebbero fondate le successive accademie d’arte, sottolineando i cambiamenti che erano avvenuti nella condizione sociale dell’artista. È interessan-
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te notare quanti artisti del xvi secolo abbiano raggiunto un livello di celebrità e di promozione sociale prima sconosciuti. Nei primi anni del secolo fu un fenomeno largamente italiano; nel 1505, ad esempio, Dürer scrisse della sua meraviglia per come era trattato a Venezia, come un gentiluomo, mentre a Norimberga non era «nessuno». Tuttavia, nel 1520, dopo una brillante carriera in patria, Dürer intraprese un viaggio verso Anversa dove la corporazione dei pittori offrì un generoso banchetto in suo onore, durante il quale fu trattato come «un gran signore». Al di fuori della professione, i maggiori committenti accordarono agli artisti un rispetto senza precedenti: Michelangelo si scontrò con papa Giulio ii e ne uscì incolume, con la reputazione rafforzata; il re di Francia Francesco i persuase Leonardo ormai anziano a risiedere a corte solo per averlo presso di sé, mentre Carlo v, imperatore del Sacro Romano Impero, fu così impressionato da Tiziano che gli attribuì il titolo di cavaliere. La nuova situazione è sintetizzata dalla popolarità dell’autoritratto, nel quale l’artista si presenta al mondo come un vero pittore gentiluomo. L’autoritratto di Antonio Moro del 1558, ora agli Uffizi, ne è un esempio particolarmente istruttivo. Moro era un ritrattista dei Paesi Bassi attivo in ambito internazionale, che divenne l’artista favorito di Filippo ii di Spagna. Nel dipinto l’artista appare vestito con sobria eleganza, nella stessa postura stante e fiera solitamente riservata ai modelli aristocratici. Mentre tiene in mano gli strumenti della professione, la tavolozza e i pennelli, uno scritto appeso al cavalletto vuoto di fronte a lui gli impedisce l’esecuzione di qualunque immagine. Il verso paragona la posizione di Moro quale artista favorito di Filippo ii al mecenatismo ugualmente esclusivo di Alessandro Magno verso Apelle nell’antichità. La funzione sostitutiva del componimento potrebbe riflettere l’antica massima ripetutamente impiegata da scrittori e artisti del periodo per affermare la dignità della pittura come arte liberale, ut pictura poësis (la pittura è poesia visibile). Il cavalletto vuoto inoltre trasmette l’idea che, anche prima che Moro
intinga i pennelli, egli è già degno del nostro rispetto per la sua posizione nella società. Donne artiste Ci si potrebbe aspettare che la separazione definitiva di arte e artigianato che ebbe luogo nel xvi secolo abbia giovato anche alla categoria, frequentemente trascurata, delle donne artiste. Mentre il periodo ha tramandato un elenco di altamente rispettabili «vecchie maestre», non vi è dubbio che il ruolo della donna artista fosse seriamente sottovalutato. Fin dal Medioevo nei conventi le donne erano state educate e incoraggiate a decorare e a miniare i manoscritti, ma nel corso del xvi secolo questi vennero soppressi dai governi protestanti, o videro la riduzione di potere e autonomia a causa dei decreti della Controriforma. Il nuovo accento posto sulla rigorosa formazione accademica limitò ulteriormente le opportunità per le donne artiste al di fuori del convento. Anche nel clima particolarmente progressista ed egualitario di Bologna a Lavinia Fontana, pittrice di grande successo, si impedì di frequentare corsi di disegno dal vero, venendo così privata di una componente fondamentale per la sua formazione. La scarsa accoglienza della sua pala d’altare con la Lapidazione di santo Stefano per la basilica di San Paolo fuori le mura a Roma (1603, distrutta nel 1823), è stata riferita alla sua goffaggine nel rendere la vigorosa muscolatura del corpo umano in movimento, necessaria in questo soggetto. Se Lavinia e altre donne artiste riuscirono a competere sul mercato, facendo rispettabili carriere, lo si deve di solito alla nascita in famiglie di artisti e all’apprendistato nella bottega del padre. La più celebre donna artista del xvi secolo, la cremonese Sofonisba Anguissola, costituisce un’eccezione a tale ruolo, sia perché proveniente da famiglia nobile, sia perché formatasi sotto la guida di un pittore locale, Bernardino Campi. Il fatto che non solo Sofonisba, ma anche le sue cinque sorelle siano state incoraggiate ad apprendere l’arte della pittura dal padre, Amilcare, dà
6. Albrecht Dürer, Autoritratto con pelliccia. Olio su tavola, 1500. Alte Pinakothek, Monaco di Baviera. Pagine seguenti: 7. Parmigianino (Francesco Mazzola, detto), La Vergine dal collo lungo, dalla cappella di Elena Baiardi, chiesa di Santa Maria dei Servi, Parma. Olio su tavola, 1534-1540. Galleria degli Uffizi, Firenze. 8. Lucas Cranach il Vecchio, Venere e Cupido. Olio su tavola, 1531 ca. Galleria Borghese, Roma.
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la misura del nuovo status riconosciuto alla pittura e la sua posizione come utile componente dell’educazione umanistica che intendeva dare alle figlie. Naturalmente per un uomo che doveva mettere insieme cinque doti, la versatilità delle figlie rappresentò anche un prudente investimento. Nel caso di Sofonisba ne valse la pena, in quanto essa proseguì una lucrosa carriera alla corte di Filippo ii di Spagna. Tuttavia il caso di Sofonisba sottolinea il modo in cui molte pittrici dovettero dedicarsi a carriere di ritrattiste o miniaturiste in curiosi, benché ammirati, circoli di corte, dove spesso ricoprivano un doppio ruolo anche come dame di compagnia. Paragone Quando gli artisti non tentavano di rivaleggiare con poeti o altri esponenti delle arti liberali, discutevano tra loro della superiorità relativa di pittura e scultura. Il dibattito, noto come paragone, era abbastanza fine a se stesso, ma offrì un importante mezzo col quale gli artisti svilupparono un proprio insieme di principi per giustificare la loro opera. Leonardo, scrivendo circa sessant’anni prima dell’Autoritratto di Moro agli Uffizi, avrebbe certamente approvato il bell’abito da gentiluomo e la posa eretta. Deridendo lo scultore che, coperto di polvere di marmo, non ha «migliore aspetto di un fornaio», Leonardo sosteneva (ma in modo non convincente) che il pittore non avesse necessità di guastare il suo aspetto, e così degradarsi, nello svolgimento del lavoro – cosa che suggeriva che fin dalle origini la pittura fosse la più nobile delle arti. Altri artisti e scrittori cercarono di affinare il dibattito nel corso del secolo. La pittura fu spesso riconosciuta come la vincitrice in quanto poteva rappresentare in modo illusionistico la scultura, mentre non poteva accadere il contrario. Il busto-ritratto che appare accanto al modello nella Schiavona di Tiziano (1512 ca.; Londra, National Gallery), è uno dei numerosi esempi in cui un dipinto sembra fare riferimento diretto al dibattito. La giustapposizione di vista frontale e di pro-
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filo pare inoltre contrastare l’argomento che la scultura trionfi grazie alla capacità di presentare punti di vista molteplici. Tuttavia, in una lettera all’erudito fiorentino Benedetto Varchi del 1547, lo scultore Benvenuto Cellini poteva ancora sostenere che «l’arte della scultura infra tutte l’arte che s’interviene disegno è maggiore sette volte, perché una statua di scultura de’ avere otto vedute, e conviene che le sieno tutte di egual bontà».
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Metodi di esecuzione La sprezzante visione presentata da Leonardo delle tecniche sporche della scultura è caratteristica di una grande attenzione verso i mezzi e i metodi della produzione artistica. Questa maggiore consapevolezza della presenza fisica dell’artista nei processi esecutivi dell’opera d’arte e delle tecniche servili può prendere due strade: il pittore veneziano Jacopo Robusti scelse il soprannome di Tintoretto («piccolo tintore», con riferimento all’umile professione esercitata dal padre) in un modo che appare un deliberato intento, da parte di un artista eterodosso, di andare controcorrente. Tintoretto intendeva riaffermare così le onorevoli virtù dell’artigiano in sfida con le arie da aristocratico del suo principale rivale, Tiziano. L’immagine artistica, attentamente coltivata, di Tintoretto è anche collegata alla sua non ortodossa tecnica nello schizzare («prestezza»), che sembra deliberatamente ideata per enfatizzare gli aspetti manuali dell’esecuzione dell’opera. La mancanza di finitezza fu aspramente criticata dai suoi contemporanei come un tentativo evidente di scegliere una strada più rapida, e venne biasimato per il fatto di tagliare i prezzi rispetto ai concorrenti. Ciononostante, Vasari nelle sue Vite fece della rapidità di esecuzione una qualità che, nel suo caso, fu più questione di facilità che di economia. Egli si vantò infatti della sua abilità nel completare un gigantesco ciclo ad affresco per un cardinale romano in meno di cento giorni e celebrò l’artista tipico del xvi secolo per la sua capacità di incrementare le percentuali di produzione.
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La razionalizzazione della produzione
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Per provvedere alla crescente domanda di grandi strutture decorative per i lussuosi appartamenti di papi e principi, a molti artisti venne richiesto di adottare metodi di produzione da catena di montaggio, supervisionando un piccolo esercito di aiutanti subordinati alla visione del maestro. Il principio non era di per sé nuovo, ma le dimensioni e la razionalizzazione del lavoro di queste botteghe riflettono un approccio innovativo largamente associato all’opera di Raffaello e della sua scuola. Lavorando a Roma, Raffaello non si limitò ad utilizzare i propri allievi, ma impiegò sotto la sua guida anche specialisti semi-indipendenti. Questo sistema si dimostrò talmente efficiente che l’atelier divenne par-
zialmente autonomo, in grado di continuare e completare gli schemi dopo la morte prematura del maestro nel 1520. Tali metodi furono ripresi in seguito con la direzione del suo principale allievo, Giulio Romano, nella decorazione del palazzo di delizie del duca di Mantova, Palazzo Te. Fu ancora con questo modello organizzativo che si procedette alla decorazione del castello di Fontainebleau di Francesco i di Francia, con la parziale supervisione di un antico collega di Giulio, Francesco Primaticcio. Un sintomo della razionalizzazione di Raffaello della produzione artistica fu il riutilizzo di motivi seriali, codificazioni di un approccio idiomatico alla forma e alla composizione, ai quali altri artisti potevano attingere per trarne ispirazione. Ciò è particolarmente
9. Tiziano Vecellio, La Venere di Urbino. Olio su tela, 1538 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze.
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evidente nel modo in cui le composizioni di Raffaello vennero replicate e diffuse in tutta Europa grazie alla collaborazione con l’incisore bolognese Marcantonio Raimondi. La cultura dell’incisione: autonomia e autorialità Il successo delle incisioni di Marcantonio Raimondi da Raffaello riflette il profondo impatto di questo mezzo nello sviluppo delle arti figurative del xvi secolo. La cultura dell’incisione permise agli artisti di diffondere le loro immagini e il loro stile presso un pubblico internazionale, in un modo che rafforzava la posizione autonoma dell’artista e il nuovo valore riconosciuto all’autorialità. Il secolo precedente era stato testimone della graduale elevazione del disegno da fase preparatoria del processo artistico ad apprezzabile esempio del genio dell’artista, molto ricercato da un nuovo tipo di mecenate: il collezionista conoscitore. Questo sviluppo venne favorito dal fatto che le incisioni potevano «fissare» lo stile personale di un artista e trarne un beneficio economico, mentre cresceva il bisogno di salvaguardarne l’identità professionale e la reputazione. A Venezia Dürer fece causa a Marcantonio per aver riprodotto abusivamente alcune sue opere, ottenendo il diritto di registrare il suo monogramma come contrassegno di autorialità, in un modo che presto divenne popolare tra gli altri incisori. Alla metà del secolo le prime incisioni del fiammingo Pieter Brueghel tentarono di sfruttare la popolare reputazione del suo defunto predecessore, Hieronymus Bosch, attraverso la falsa notizia che derivassero direttamente da opere di quest’ultimo. Brueghel consolidò successivamente la propria fama di incisore di allegorie profane rendendo questo tema sinonimo della propria identità professionale. Il suo esempio riflette inoltre le nuove opportunità offerte dall’incisione nel produrre un’ampia varietà di soggetti nuovi e formati, situazione favorita in particolare nei nuovi paesi protestanti dalla diffusione dell’iconoclastia
e dalla cultura pamphlettista della Riforma. La nuova libertà dell’artista di produrre soggetti originali da vendere al libero mercato come opere d’arte a pieno titolo fu una componente importante della cultura incisoria, destinata ad avere enormi implicazioni per l’autonomia artistica nel suo complesso. Alcuni praticarono in prima persona il sempre più espressivo mezzo incisorio allo scopo di riprodurre opere scelte da loro stessi che illustrassero i loro gusti e interessi personali. La nuova, più libera tecnica dell’acquaforte e lo sviluppo della xilografia furono certamente di cruciale importanza a tale riguardo, costituendo un elemento importante nella carriera di artisti italiani come il Parmigianino, il cui interesse per questi mezzi è ben rappresentato dal Diogenes del 1527 ca., realizzato in collaborazione con l’incisore Ugo da Carpi.
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Musei in miniatura Sebbene il linguaggio figurativo del xvi secolo fosse pervaso da influenze italiane, l’immensa popolarità internazionale di xilografi e incisori assicurò un’intensa circolazione di stili e idiomi locali in tutta Europa. Gli incisori tedeschi e fiamminghi svolsero un ruolo di particolare importanza, fornendo una apparentemente inesauribile fonte di ispirazione per gli artisti italiani desiderosi di rinnovare le loro tematiche. Michelangelo raccontò al suo biografo ufficiale Ascanio Condivi che il suo primo esercizio pittorico fu la reinterpretazione di un’incisione di Martin Schongauer, Le Tentazioni di sant’Antonio, mentre è noto che il suo più giovane collega Jacopo Pontormo si ispirò abitualmente alle incisioni di Dürer e Luca di Leida, al punto di incorrere nella censura del patriottico Vasari. Tuttavia nell’ammettere che Pontormo aveva errato solo nell’eccessiva dipendenza dall’«intransigente stile tedesco», anche Vasari riconosceva che non c’era nulla in sé di sbagliato nel rivolgersi a Dürer e alle sue «nuove idee». Vasari era naturalmente desideroso di esaltare anche l’altra faccia della medaglia: ovunque nelle Vite
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Marcantonio Raimondi viene celebrato per come le sue stampe da opere di Raffaello e di altri maestri italiani «beneficiarono il mondo», facendo conoscere a chi stava oltr’alpe cose di cui erano ignari. L’atteggiamento di Vasari mostra l’importanza attribuita ai mezzi con cui gli incisori fornivano agli artisti, secondo l’espressione di André Chastel, un «museo in miniatura», una comoda raccolta, nonché un repertorio estremamente cosmopolita di idee. Lo sviluppo del manierismo come fenomeno internazionale è almeno in parte attribuibile all’opera delle incisioni. La natura del materiale a stampa giunse gradualmente a riflettere il primato italiano, enfatizzando la qualità lineare del disegno e incoraggiando il riutilizzo di motivi figurativi nei modi caratteristici della «maniera». Riflessi del cambiamento socio-politico Se i modi espressivi del manierismo sono caratterizzati dalla valutazione positiva dell’artificiosità e dell’artificio, lo stile lascia spesso trasparire tratti eccentrici e talvolta nevrotici. Seguendo una pista aperta dalla critica marxista, i più controversi aspetti del fenomeno manierista e della natura a tratti schizofrenica dell’arte del xvi secolo sarebbero collegabili in modo persuasivo ai numerosi rivolgimenti sociopolitici del periodo. Se si accettasse questa interpretazione (che non è in alcun modo del tutto soddisfacente) si dovrebbe collegare il confidente ottimismo della breve stagione stilistica del pieno Rinascimento ad un equivalente clima politico dominante nelle due città dove lo stile fiorì nei primi anni del secolo, Firenze e Roma. Di fatto, sebbene il regime repubblicano ristabilito a Firenze tra il 1494 e il 1512 non fosse senza problemi, fu capace di galvanizzare un rinnovato senso di orgoglio cittadino e di ottimismo, probabilmente essenziale nella fioritura dell’arte del pieno Rinascimento. Il suo riconosciuto inventore, Leonardo da Vinci, decise di tornare in città nel 1500 dopo essere sfuggito al collasso della
corte ducale di Milano ad opera dei francesi. Egli esercitò in seguito una significativa influenza sui due principali creatori dello stile, Michelangelo e Raffaello. Un disegno preparatorio, ora perduto, a grandezza naturale con La Vergine, il Bambino e sant’Anna (apparentemente simile al cartone della National Gallery di Londra) che Leonardo espose con grande consenso di pubblico a Firenze, segna il punto di partenza di una serie di risposte simili di Michelangelo e Raffaello sul tema della compatta composizione piramidale, da allora divenuta un elemento immediatamente riconoscibile del pieno Rinascimento. Così come Leonardo aveva celebrato, nella Sant’Anna, una delle figure più amate della città, il governo scelse un altro simbolo fiorentino, il David, come soggetto per una scultura di valore civico commissionata a Michelangelo e collocata poi di fronte al palazzo pubblico, Palazzo Vecchio (l’originale è attualmente nella Galleria dell’Accademia a Firenze). In modo analogo l’affermarsi del pieno Rinascimento a Roma può essere collegato a quel breve periodo di orgoglio e fiducia segnato dal pontificato di Giulio ii (1503-1513) e del suo successore Leone x (1513-1521). Giulio era deciso a imbrigliare le tendenze umanistiche in senso laico del tempo, insieme alla gloria mondana dell’antica Roma, con l’autorità spirituale del papato. Mentre Michelangelo era impegnato nella realizzazione della tomba di Giulio ii e nella decorazione della Cappella Sistina, Raffaello esprimeva al meglio le aspirazioni politiche del papa negli affreschi della biblioteca papale, la Stanza della Segnatura (1509-12). Qui, nella giustapposizione della Disputa alla Scuola di Atene la legittimazione teologica del papato si riconcilia con il razionalismo filosofico dell’antichità. L’imponente, ariosa architettura classica della Scuola di Atene di Raffaello è a tutta prima ispirata dai progetti di Donato Bramante per il nuovo San Pietro, il più potente simbolo delle ambizioni di Giulio ii. Il progetto di Bramante non venne mai realizzato (la chiesa fu completata un secolo dopo, su progetto per lo più di Michelangelo)
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10. Michelangelo Buonarroti, Volta della Cappella Sistina, particolare. Affresco, 1508-1512. Musei Vaticani, Città del Vaticano.
e pertanto il suo contributo all’architettura del pieno Rinascimento è rappresentato dalla piccola chiesa eretta nel cortile di San Pietro in Montorio a Roma. Conosciuto come «tempietto» (1502), è un piccolo edificio circolare, di proporzioni perfette, pienamente corrispondente alla fede nelle armoniose proporzioni geometriche del pieno Rinascimento. Intorno al 1520 Leonardo, Raffaello e Bramante erano già morti e il pieno Rinascimento cedeva il passo al manierismo. Il nuovo stile rappresenta per molti aspetti una reazione consapevole e spesso capricciosa al classicismo del pieno Rinascimento da parte di molti artisti europei, in particolare di quelli attivi a Firenze e Roma, in compagnia dei quali possiamo continuare a includere Michelangelo. Egli adottò un linguaggio molto più reto-
rico e personale, che incoraggiò molti artisti che lavoravano alla sua ombra a sperimentare maniere contrarie all’ordine e alla disciplina del pieno Rinascimento. La caduta del regime repubblicano a Firenze e la posizione sempre più difficile del papato riflettono con evidenza questo cambiamento di tendenza. Dopo l’invasione francese del ducato di Milano, nel 1499, la penisola italiana era divenuta un campo di battaglia continuo. Negli anni ’20 l’indipendenza politica di Firenze e di altre repubbliche cittadine italiane dovette fare i conti con un inevitabile declino di fronte alle ambizioni di potere di Francia, Sacro Romano Impero e Spagna. Allo stesso tempo il papato precipitò nella crisi internazionale provocata dalla Riforma. Mentre questa minacciava alle radici lo status quo consolida-
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to in tutta Europa, il papato veniva ulteriormente demoralizzato dal sacco di Roma del 1527 da parte di truppe tedesche – un evento traumatico che sembrò sottolineare il nuovo trionfo dell’autorità secolare sulla cristianità. La decisione della Chiesa cattolica di attuare una Controriforma a seguito della prima seduta del Concilio di Trento nel 1545, evidenziò in modo ancora più netto il fronte dei due schieramenti in tutta Europa nel corso di questo periodo così agitato. Qualunque sia la ragione dei profondi cambiamenti stilistici in atto nel xvi secolo, è certo che l’arte svolse un ruolo sempre più rilevante nel sottolineare e riflettere i trasferimenti di potere dell’epoca. In questo contesto, il saccheggio del territorio italiano da parte delle potenze internazionali conseguì un risultato estremamente ironico riferibile allo sviluppo delle arti: il trionfo della cultura del Rinascimento italiano. Sebbene l’incisione garantisse lo scambio di idee, il paesaggio
figurativo europeo venne progressivamente unificato dai linguaggi italianizzanti, divenendo per lo più classicista. Nessuna parte d’Europa ne fu immune, anche se la diffusione delle forme italianizzanti giunse in alcune aree con ritardo, come in Inghilterra. Nel Riccardo ii di Shakespeare, probabilmente scritto nel 1595, un discorso patriottico di John of Gaunt esprime un punto di vista reazionario «[…] sulle mode della splendida Italia | che la nostra tardiva e scimmiottante nazione | imita poveramente e con difficoltà».
11. Domenico da Cortona, Castello di Chambord, iniziato nel 1517.
Francia: la cultura dell’appropriazione Francesco i , re di Francia dal 1515 al 1547, fu all’avanguardia nell’appropriazione dei modi italiani sul fronte europeo. Egli sfruttò per fini politici quanto considerava supremazia della cultura italiana, cercando di fare della Francia la capitale culturale
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d’Europa, in modi che confermassero la sua autorità politica e militare, ed ebbe successo nell’invitare in Francia artisti di alto livello del centro Italia, compreso l’ormai anziano Leonardo. Sebbene non sembra che ne sia stato direttamente coinvolto, è impossibile dissociare Leonardo da alcune delle più ingegnose caratteristiche del nuovo stupefacente castello di Francesco a Chambord, nella valle della Loira, progettato proprio durante il suo soggiorno (1517-1519). Si tratta di solo uno dei molti nuovi o rinnovati châteaux realizzati nel corso del regno di Francesco, che combinano caratteristiche tradizionalmente gotiche e progettazione e decorazione italianizzanti. Il più famoso dei castelli di Francesco è quello di Fontainbleau, la cui decorazione impegnò un largo numero di artisti di importazione tra cui figure di spicco del manierismo centro-italiano come Rosso Fiorentino, Primaticcio e Cellini. Intorno alla loro attività si sviluppò una scuola di pittura e scultura, mentre col tempo iniziarono ad affermarsi a corte artisti più radicati localmente. Tra questi Philibert de L’Orme, che divenne l’architetto francese più importante del suo tempo. Il portale dello Château di Anet, da lui realizzato durante il regno del successore di Francesco, Enrico ii, costituisce una appropriata testimonianza simbolica dell’ambiente artistico contemporaneo. La fantasiosa ripresa dell’arco trionfale romano si ispira almeno in parte agli ingegnosi capricci dell’architetto bolognese Sebastiano Serlio (un altro ospite temporaneo a corte), mentre nel fastigio era in origine collocato il rilievo bronzeo della Diana di Cellini. Firenze: politica dello stile La politicizzazione dello stile si manifestò anche in Italia, dove la propaganda artistica divenne uno strumento di potere sempre più efficace per governanti attentamente educati sui principi dell’arte di governare di Machiavelli. Tra questi era il nuovo granduca di Toscana Cosimo i (1537-1574), il cui regime autocratico venne imposto a Firenze soprat-
tutto da forze esterne. Consapevole dell’orgoglioso passato repubblicano della città, Cosimo fu sempre consapevole della precarietà della sua posizione, come è riflesso dalle diverse imprese artistiche ideate per contrastare i forti simboli repubblicani, come il David di Michelangelo (1501-1504), precedentemente eretto nella piazza principale della città. Poiché la rimozione di un simbolo così evocativo della libertà civica sarebbe stato politicamente e culturalmente controproducente, la sua importanza venne diminuita dalla collocazione negli spazi circostanti di numerose splendide statue, tra cui il Perseo di Cellini (1545-1554), destinato alla Loggia dei Lanzi, adiacente al David, fu la più straordinaria. A differenza di Michelangelo, che si trasferì a Roma nel 1534 e non fece più ritorno, Cellini fu uno dei molti artisti desiderosi di impiegare i loro servizi nella celebrazione del nuovo regime. Le differenze tra il David e il Perseo sono sostanziali: il David è raffigurato prima della battaglia come efficace simbolo di unione del popolo, pronto a difendere Firenze dalla minaccia del dispotismo nella forma di un potente, ma umano, oppressore. Il Perseo di Cellini è invece un personaggio da leggenda cortese, che simboleggia una vittoria, peraltro già ottenuta, su un mostro fantastico. La graziosa posa danzante del Perseo e la sua eccessiva finitura decorativa celebrano la magnificenza medicea, in aperto contrasto con l’economia civica del David. In un tale contesto è possibile spiegare lo sviluppo a Firenze di uno stile manierista più affettato e ostensivo in rapporto all’esigenza dei Medici di sostituire il linguaggio figurativo repubblicano del pieno Rinascimento con uno più affine all’eleganza della corte. I ritratti che Cosimo commissionò al suo artista di corte Agnolo Bronzino rappresentano un ulteriore strumento della propaganda medicea. In un modo che superficialmente ricorda l’Autoritratto di Dürer del 1500, Bronzino ricorre con insistenza al linguaggio formale delle icone religiose, ma con uno scopo diverso: offrire una legittimazione quasi divina alle ambizioni dinastiche di Co-
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simo e della sua famiglia. Il piccolo ritratto frontale del figlio bambino di Cosimo, Giovanni de’ Medici (1545; Firenze, Uffizi), ne è un esempio; le affinità cristologiche sono qui rese esplicite dall’introduzione del cardellino, attributo tradizionale di Gesù Bambino. Inghilterra: una nuova iconografia La soluzione di Bronzino è anticipata nella contemporanea produzione di Hans Holbein alla corte di Enrico viii (1509-1547), in particolare dal ritratto del futuro Edoardo vi bambino (1538 ca.; Washington, National Gallery of Art), che adotta una posa analogamente iconica che ricorda Gesù Bambino. Le associazioni iconiche proseguono nei famosi ritratti a mezza figura di Enrico viii, come esemplificato dalla replica della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, del 15391540. Sia nella composizione sia nella cura ossessiva nella resa dell’abito e degli accessori, il dipinto sembra voler consapevolmente tornare alla bidimensionalità propria delle icone bizantine, in un’equazione tra i simboli del potere temporale e il diritto divino di Enrico di governare. Considerata la recente rottura di Enrico con la Chiesa di Roma (in parte causata dall’esigenza di riconoscere in Edoardo l’erede maschio) e il successivo periodo di iconoclastia protestante, le implicazioni sostitutive dell’approccio di Holbein sono doppiamente significative. L’Inghilterra divenne uno dei numerosi paesi simpatizzanti delle idee più radicali di alcuni capi evangelici protestanti, come lo svizzero Ulrich Zwingli, che condannò le immagini sacre come idolatriche, raccomandando la loro rimozione dalle chiese e in molti casi la loro totale distruzione. I Paesi Bassi: parola e immagine Dove non erano ufficialmente approvate dai nuovi regimi protestanti, le intemperanze iconoclaste divennero spesso l’espressione più potente e traumatica dell’inquietu-
dine politica di gran parte d’Europa. È questo il caso della ribellione contro il governo spagnolo nei Paesi Bassi alla fine degli anni ’60 del Cinquecento. Scrivendo da Anversa nell’agosto del 1566, il mercante inglese Richard Clough riferiva che «tutte le chiese, le cappelle e i luoghi di culto [erano stati] completamente deturpati, e nessuna cosa all’interno era rimasta intera, ma rotta e totalmente distrutta… sembrava l’inferno, dove più di mille torce bruciavano, con un rumore tale che sembrava che cielo e terra si fossero uniti, con la caduta delle immagini e la distruzione di opere preziose». Sebbene la rivolta di Anversa fosse stata soffocata senza pietà, i Paesi Bassi del nord lottarono per conservare l’indipendenza religiosa e politica appena conquistata dalla Spagna cattolica. Fu qui, nei futuri territori delle Province Unite, che lo sradicamento dello zoccolo duro della committenza artistica ebbe un impatto profondo sulle caratteristiche della scuola locale di pittura. Ciò si manifestò prevalentemente nella diversificazione della produzione dei pittori verso generi non religiosi come il ritratto, la natura morta, il paesaggio e altri temi particolari. Non vi è probabilmente esempio migliore della rottura radicale tra arte e religione nei territori protestanti della tavola collocata nel 1581 su quello che in precedenza costituiva l’altare maggiore della da poco scialbata Grote Kirk di Harlem. Il soggetto è L’ultima cena, ma la scena non è proposta con un’immagine, come sarebbe accaduto in precedenza in un caso simile, bensì resa attraverso una descrizione iscritta, magniloquente accettazione della parola scritta a spese dell’immagine. Riforme trentine Se alcune fazioni della causa protestante erano disposte a prescindere dal potere delle immagini sacre come mezzo per conquistare cuori e menti, le forze della Controriforma cattolica erano ugualmente determinate a non rinunciare a un’arma così importante del loro arsenale. Nel dicembre 1563 il Con-
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12. Paolo Caliari, detto il Veronese, Le nozze di Cana, dal convento di San Giorgio Maggiore, Venezia. Olio su tela, 1562-1563. Museo del Louvre, Parigi.
Pagine seguenti: 13. Benvenuto Cellini, Perseo. Bronzo, 1553. Loggia dei Lanzi, Firenze.
cilio di Trento emanò un decreto che legittimava la venerazione delle immagini sacre affinché «attraverso i racconti dei misteri della nostra Redenzione riprodotti in pittura o in altre rappresentazioni il popolo fosse istruito e confermato negli articoli di fede». Insieme a questa approvazione ufficiale venne però una serie di severe linee-guida che precisavano cosa le immagini potevano contenere per salvaguardare «l’onore… dovuto ai prototipi che esse rappresentano». I prelati e i teologi che crebbero con queste indicazioni negli ultimi decenni del secolo non erano certo conoscitori o amatori d’arte. Nel mondo cat-
tolico l’arte stava diventando troppo importante per essere lasciata agli artisti, doveva dunque essere ben utilizzata e diligentemente controllata in un modo che iniziò gradualmente a revocare e limitare l’indipendenza recentemente ottenuta dagli artisti. Alcuni studiosi hanno identificato uno stile «contromanieristico» che riflette questa situazione, un ritorno a un insieme più semplice di valori pittorici e formali che annunciano la fine del manierismo e l’inizio del nuovo stile barocco. Il nuovo zelo controriformistico condusse a un notevole numero di note dispute che accompagnarono la ricezione di particolari
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opere d’arte religiosa. Nel caso più celebre, nel 1573, il pittore veneto Paolo Veronese fu trascinato di fronte ai membri dell’Inquisizione, inorriditi per l’introduzione di buffoni e soldati nel dipinto dell’Ultima cena, e come risposta alle loro ansietà, l’artista decise di mutare semplicemente il titolo in Cena in casa di Levi (oggi a Venezia, Gallerie dell’Accademia). È probabile che Paolo non aiutò la difesa della licenza artistica richiamando il delicato caso del Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina. Il dialogo Degli errori de’ pittori di Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, del 1564, presenta un esempio tipico delle censure di cui era stato oggetto il famoso affresco di Michelangelo negli ultimi anni. Uno dei personaggi lo aveva criticato non solo per l’eccessiva presenza di nudi, ma anche perché i drappeggi ridottissimi che cingevano le figure non avrebbero dovuto essere resi così, essendo infatti, in questo punto del testo apocalittico, il vento ormai cessato. È difficile credere a tanta pedanteria, ma Gilio non era sprovveduto, e uno dei personaggi del dialogo difende la posizione di Michelangelo sostenendone la dimensione simbolica. Ciononostante Gilio desidera fornire lo stesso una rapida replica che rappresenti meglio le simpatie dell’autore: «potrebbe questa vostra opinione passare; ma prima si deve prendere il sentimento letterale, quando propriamente dar si possa, e poi gli altri, e salvare la lettera quanto più possibil sia». L’opera di Gilio è solo uno della marea di testi e trattati pubblicati nella seconda metà del secolo per ricordare ai pittori di opere religiose le loro responsabilità. Il tenore complessivo di questi testi è espresso da un’opinione avanzata in una più generale meditazione sulle arti, Il Riposo di Raffaello Borghini, del 1584. In esso il pittore veniva esortato a dipingere «l’invenzione dalla sacra Scrittura derivante semplicemente e puramente». Spagna: pie immagini di devozione Benché le riforme siano state realizzate in Italia, per avere il miglior esempio di come
le linee-guida stabilite dal Concilio di Trento per disciplinare i contenuti nella produzione artistica siano state rigorosamente e sostanzialmente applicate ci si deve rivolgere alla Spagna. Desideroso di proporsi come modello di monarca cattolico e difensore della fede, Filippo ii (1556-1598) fu estremamente diligente nell’applicare le direttive nella progettazione e decorazione dell’imponente palazzo-monastero dell’Escorial, e queste vennero estese anche al sobrio stile architettonico. Con una frase che fa eco al passo di Borghini, il sovrano disse all’architetto spagnolo Juan de Herrera che l’edificio avrebbe dovuto esprimere «semplicità di forma, severità dell’insieme, nobiltà senza arroganza, maestosità senza ostentazione». Il tenore dell’approccio di Filippo, strettamente operativo e rispettoso dei dettami, si riflette anche nel testo di un contratto per una serie di dipinti destinati alla basilica principale dell’Escorial, commissionati a Juan de Navarrete nel 1576. A questi si raccomandò di «non introdurre né cani né gatti o altre figure sconvenienti, tutto deve essere pio e ispirare devozione». Filippo non ebbe dubbi nel comminare punizioni esemplari agli artisti che non onoravano gli impegni sottoscritti, anche nel caso di grandi pittori giunti dall’Italia per offrire i propri servizi al re. Ad esempio Filippo mise fine nel 1582 al breve coinvolgimento di El Greco nella decorazione dell’Escorial commissionando la sostituzione del dipinto di quest’ultimo, Il Martirio di san Maurizio e la legione Tebana (1580-1582; Escorial), al pittore manierista italiano Romulo Cincinnato. Filippo probabilmente non approvava il fatto che El Greco non avesse riservato uno spazio sufficiente nel quale collocare la resa dettagliata del martirio, in modo chiaro per lo spettatore. In precedenza El Greco era stato coinvolto in una dispendiosa disputa con le autorità ecclesiastiche della cattedrale di Toledo, il centro della Chiesa spagnola, che rifiutarono di pagare l’intero compenso richiesto per la pala d’altare con la Spoliazione di Cristo (1577-1579, in situ). Oltre a contestare la presenza di alcune figure non previste nel
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racconto originale, uno dei canonici della cattedrale lamentò che Cristo appariva nella composizione più in basso rispetto ad altre figure secondarie. Questa volta è possibile che la disputa sia stata motivata tanto da ragioni di economia terrena, quanto dalla fervente adesione alle istanze tridentine. El Greco, nel corso di una carriera di grande successo trascorsa a Toledo, seppe alla fine considerare entrambi gli aspetti del carattere locale. Il suo famoso Entierro del conde de Orgaz, realizzato per la chiesa di Santo Tomé (1586-88), soddisfò per lo stile realistico del registro inferiore i sentimenti prosaici dei suoi astuti committenti (in questo caso El Greco pose particolare attenzione alle clausole del contratto che regolavano lo schema compositivo), mentre il registro superiore, con la sua spettrale, vertiginosa visione dell’anfitrione celeste, corrispose in modo irresistibile al fervore spirituale della Toledo della Controriforma.
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Venezia e Roma: renovatio urbis Ritornando a Roma, l’impatto durevole della Controriforma si avvertì con chiarezza nel programma di rinnovamento architettonico e di costruzione delle nuove chiese. Dopo il sacco del 1527, la sfida con la quale si confrontò Roma era formidabile: sembrò che i barbari, che per primi avevano devastato l’antica città nel iv e v secolo, fossero tornati per concludere l’opera. Durante il regno di Paolo iii (1534-49) il papato comprese quanto fosse essenziale rinnovare la città per recuperare tanto il potere spirituale quanto quello temporale; se Roma intendeva sopravvivere, era necessaria una sede centrale degna delle sue funzioni di caput mundi. Questa attitudine rispecchia un interesse più ampio verso programmi di rinnovamento urbano che fiorirono ovunque in Italia. Il temporaneo declino di Roma aveva spinto altre città italiane a moltiplicare i loro sforzi per proporsi come i veri eredi della civiltà romana: ciò fu particolaremente evidente a Venezia, desiderosa di estirpare ogni ricordo
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14. Domenico Theotokopoulos, detto El Greco. El Entierro del conde de Orgaz. Olio su tela, 1586-1588. Chiesa di Santo Tomé, Toledo.
dell’umiliazione subita dal papato e da altre potenze europee durante la guerra della Lega di Cambrai (1508-16). Significativamente Venezia aveva anche beneficiato dell’influsso di artisti fuggiti a seguito del sacco di Roma, compreso lo scultore e architetto Jacopo Sansovino, che sovrintese al programma di riassetto urbanistico della città. Sansovino fu incaricato di conferire un aspetto classicheggiante al principale spazio pubblico cittadino, piazza San Marco, con la realizzazione della Libreria di San Marco e dell’adiacente Loggetta (dal 1537). Nel progetto di Sansovino è significativo il modo in cui egli ottenne il permesso di sgombrare l’area dalle antiestetiche botteghe e dai banchi del mercato. Un tale riordino degli spazi pubblici può sembrare una componente relativamente scontata di ogni programma di rinnovamento urbano, ma segna qui un cambio significativo di direzione verso un senso più astratto del potere simbolico e cerimoniale del paesaggio cittadino. In una città di tradizioni mercantili così forti come Venezia, dove lo spazio non abbondava, la rimozione anche del più traballante banco di mercato o bottega non era da sottovalutare. Con piazza San Marco Venezia affermò un modo nuovo e molto più singolare di dichiarare al mondo che la sua libertà mercantile rimaneva intatta, un modo che dipendeva dalla creazione di grandi spazi aperti e da prospettive non interrotte. La più significativa di queste coinvolse lo spazio attiguo della piazzetta, che incornicia una veduta panoramica della laguna, simbolo delle difese concesse da Dio alla città: la laguna consentiva infatti a Venezia di non essere racchiusa da alte mura o da altre strutture difensive. Di conseguenza qualunque visitatore giunga nella piazzetta e passi attraverso le due colonne gemelle (quanto di più vicino a una porta urbica ci sia a Venezia), si rende immediatamente conto di come la Repubblica fosse letteralmente aperta ai traffici commerciali. A Roma nel corso degli anni ’30 la foga nel rinnovamento urbano derivò in parte da una analoga propensione all’aspetto cerimoniale della città. Nel 1536 l’esercito di Carlo
tornò a Roma, ma questa volta su richiesta dell’allora papa Paolo iii. Carlo era alla testa di un ben orchestrato corteo che lo fece passare davanti agli antichi splendori della città. A tal fine Paolo iii si era dato pena di riordinare le aree degradate, così da non diminuire l’impatto dell’antica magnificenza sull’imperatore. Il progetto venne concepito per ribadire a Carlo il potere autoritario di Roma, e qualunque potesse essere la sua reazione, il suo ruolo di difensore della fede venne confermato solo quando, come previsto dal cerimoniale, egli baciò i piedi del papa. Era stato così restaurato l’equilibrio dei poteri, cosa che costituì la base su cui Roma poté risorgere con la costruzione di una nuova città che sarebbe convissuta con l’antica, superandone lo splendore. Le fredde e umide stanze di Castel Sant’Angelo, dove Paolo iii e il suo predecessore Clemente vii si erano rifugiati durante il sacco, vennero trasformate in una lussuosa serie di appartamenti profusamente affrescati da Perin del Vaga (completati nel 15451547). Nello stesso periodo Michelangelo era all’opera nella ricostruzione della tradizionale sede del governo cittadino, il colle del Campidoglio (lo stato di rovina dell’area era stato causa di particolare preoccupazione durante i preparativi per la visita di Carlo v). Al centro del grandioso disegno di Michelangelo per la nuova piazza (che giunse a compimento definitivo, significativamente, durante il governo di Mussolini), Paolo iii fece collocare una antica statua del primo imperatore cristiano, Costantino (più tardi identificato come Marco Aurelio). La collocazione in un’area rinnovata di un antico simbolo del potere temporale prefigurò la realizzazione della rete di antichi obelischi eretti alla fine del secolo da un altro grande papa riformatore del xvi secolo, Sisto v (1585-1590). Le loro rispettive posizioni sottolineano i punti nodali del paesaggio cittadino, enfatizzando la presenza di ampi assi di attraversamento e di strade di pellegrinaggio chiaramente delineate, una delle maggiori eredità di questo pontificato. Un’altra è la quasi conclusione del più pov
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tente simbolo del rinnovamento di Roma, il nuovo San Pietro. Fu durante il pontificato di Sisto che la grande cupola della basilica fu portata a termine su progetto di Michelangelo (con adattamenti del suo seguace Giacomo della Porta). Spazi sacri Nell’ambito delle committenze ecclesiastiche, la prolungata costruzione del nuovo San Pietro riflette come il continuo recupero delle forme classiche nel Rinascimento ab-
bia dovuto fare i conti con fluttuanti pressioni dottrinali e liturgiche. L’originale progetto bramantesco prevedeva una pianta a croce greca sormontata da un’immensa cupola, che avrebbe dovuto suggerire l’idea di una chiesa «circolare». Le idee di Bramante riflettono chiaramente un interesse soprattutto laico e umanistico per le proporzioni geometriche e per la relazione tra le perfette forme matematiche del cerchio e del quadrato. Queste associazioni sono confermate dal ritratto di Bramante in veste di Euclide che tiene un compasso tra i personaggi della Scuola di Atene di Raffaello. Mentre tali propositi erano
15. Michelangelo Buonarroti, Cupola della basilica di San Pietro, iniziata nel 1547. Roma.
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16. Giacomo della Porta, Facciata della chiesa del Gesù, iniziata nel 1573. Roma.
certamente in sintonia con il clima di mondana fiducia del regno di Giulio ii, è stato osservato come la struttura a pianta centrale fosse appropriata alla funzione della chiesa come reliquiario di san Pietro, trattandosi della pianta tradizionale dei martyria (strutture che commemoravano il luogo del martirio di un santo), come ben esemplificato dal Tempietto di Bramante del 1502. Ciò nonostante, l’abbandono da parte di Bramante della più ortodossa pianta a croce latina nel suo progetto per la chiesa-modello della cristianità fu chiaramente motivo di preoccupazione nel clima di rifondazione
che seguì il sacco di Roma e l’indizione del Concilio di Trento. Negli anni ’30 Antonio da Sangallo il Giovane venne incaricato di riorganizzare radicalmente il progetto di Bramante con l’allungamento della navata per riaffermare la pianta a croce latina. Nonostan te il successivo progetto di mediazione di Michelangelo tornasse all’idea originaria di Bramante con l’aggiunta di un ampio portico, fu la pianta tradizionale a croce latina ad affermarsi concretamente con l’allungamento della navata attuato da Carlo Maderno all’inizio del xvii secolo. La riaffermazione dello schema longitudinale nelle chiese divenne un elemento costante della riforma trentina, incoraggiata da testi prescrittivi come le Instructiones fabricae di Carlo Borromeo, del 1577. In effetti la pianta a croce latina corrispondeva meglio alle esigenze tradizionali delle funzioni liturgiche, fornendo spazi per processioni e cerimonie. Insieme a questo rafforzamento della tradizione emerse una nuova serie di principi didattici intesi a potenziare al massimo il ruolo della chiesa come spazio di preghiera e devozione. Molti di questi principi sono incarnati dalla prima chiesa gesuita, il Gesù, iniziata a Roma nel 1568 su progetto di Jacopo Vignola, e con facciata di Giacomo della Porta. In linea con il desiderio del Concilio di Trento di incoraggiare la comunicazione diretta tra clero e assemblea dei fedeli, le funzioni interne sono ricondotte a unità. Sebbene vi siano cappelle laterali, queste lasciano libero un vasto spazio centrale non ripartito in navate né interrotto da elementi che possano impedire la vista dell’altare. Anche l’intenzione originaria di adottare un copertura piana a travature fu accantonata per i vantaggi acustici offerti dalla volta a botte, più appropriata ad invocare la parola di Dio.
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La rottura dei limiti Nonostante la restaurazione controriformistica delle forme tradizionali nell’architettura religiosa, non possiamo non vedere i sintomi di una prevalente esigenza manie-
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rista di sperimentare e sfidare le convenzioni in modi che non si limitarono alla decorazione delle superfici. Nel 1554 Vignola concluse uno dei progetti più innovativi e precoci di chiese: Sant’Andrea sulla via Flaminia a Roma. L’idea di collocare una cupola ovale su uno spazio quadrangolare diede vita ad un’elastica reinterpretazione del Pantheon, con lo scontro tra la regolarità e l’irregolarità che riflette l’istinto manierista di manipolare le forme e figure tradizionali, piegandole alla volontà idiosincratica dell’architetto. In ciò l’influenza di Michelangelo è ancora una volta innegabile. Vasari celebrò il fatto che Michelangelo si fosse posto come modello, con la sua volontà di spezzare quei vincoli e quelle catene che in precedenza avevano confinato gli artisti nella creazione di forme tradizionali. Si può vedere ciò chiaramente nel confronto tra il modello in legno per San Pietro di Antonio da Sangallo del 1539, e la chiesa come venne realizzata su progetto di Michelangelo. Lo sviluppo michelangiolesco, anticonvenzionale e immediatamente riconoscibile, dell’ordine gigante supera nettamente il progetto simile a una torta nuziale di Sangallo, affermando il proprio diritto ad ergersi con forti membrature lungo i fianchi della struttura. Un’altra caratteristica tipica di Michelangelo è la trabeazione superiore, enfatica e possente, mentre il gigantismo prosegue nella parte superiore dell’edificio, consentendo solo l’articolazione tra tamburo e cupola. Nonostante la sua rottura delle convenzioni classiche, l’architettura di Michelangelo sembra disporre di un insieme coerente di regole che regolano caratteristiche comuni nella piazza del Campidoglio e nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze. Ciò rappresenta un buon motivo per non avvicinarla agli aspetti più capricciosi dell’architettura manierista, come testimoniato dagli edifici schizofrenici di Giulio Romano, come il già ricordato Palazzo Te, costruito a Mantova tra il 1526 e il 1534. Qui, lungo le pareti del cortile interno, si alternano campate di diversa larghezza, le chiavi di volta sono ingrandite fino a proporzioni gigantesche, mentre la trabeazione di coronamento è con-
tinuamente interrotta da triglifi che scivolano al di sotto. Questo schema stravagante si ripete in tutto l’edificio, dove singoli elementi ad intermittenza aumentano o interrompono l’articolazione dell’insieme, per creare effetti di irregolarità e asimmetria. Nonostante la coerenza del linguaggio architettonico di Michelangelo, nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo vi sono già alcuni elementi alterati ed eccentrici, che riflettono meglio i caratteri manieristi che segnano il lento dissolvimento dell’armonia e della logica rinascimentali. In contrasto con gli ideali del Rinascimento, il visitatore si sente piccolo a causa della dimensione ridotta dei vani delle porte, delle forme architettoniche possenti e delle inusuali finestre rastremate, progettate per aumentare innaturalmente l’ampiezza del piano superiore. Le nicchie cieche ai lati delle due tombe a parete evocano le sensazioni di perdita e di alterazione psicologica indotte dalla funzione della Sagrestia come cappella funeraria dei membri della famiglia Medici. Il tradimento delle immagini Si potrebbe individuare una analoga reazione emotiva anche nel più straordinario simbolo dell’irrazionalità manierista, il giardino ornamentale conosciuto come Sacro Bosco, nei pressi di Bomarzo, a non grande distanza da Roma. Realizzato tra il 1550 e il 1570 per Pier Francesco Orsini, e dedicato alla moglie defunta, il giardino è disseminato di grandi sculture in pietra, pseudocostruzioni ed elementi grotteschi di sfrenata inventività. Alcune opere, come la famosa Bocca dell’Orco, sono state intagliate nella roccia vulcanica da scultori la cui identità non si è ancora determinata. Sebbene molti studiosi abbiano cercato di stabilire legami con specifiche fonti letterarie, occorre ammettere la natura fortemente personale e surreale del progetto. Il Sacro Bosco è stato talvolta interpretato come la crisi di nervi del Rinascimento, ma, come tale, riflette una sensazione positiva di liberazione nel suo desiderio di
17. Michelangelo Buonarroti, Sacrestia nuova, 1520-1524. Basilica di San Lorenzo, Firenze.
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abbracciare una nuova libertà di espressione individuale e una irrazionalità liberatrice da parte di scultori e architetti educati nella logica e nelle regole della cultura dominante del Rinascimento. Il sentimento di frastorno psicologico e di «mondo che va male», riferito al senso di perdita del committente vedovo, è bene esemplificato da uno dei primi elementi realizzati nella proprietà: la casa inclinata, una costruzione in cui sono alterate le regole architettoniche, che gioca sul tema generale dell’ambiguità e dell’illusione del giardino. Privata della sua funzione utilitaristica a causa dell’anomala struttura, c’è da domandarsi se si tratti di un’architettura o di una scultura decorativa. Questa tipo di inganno divenne una caratteristica ravvisabile ad intermittenza anche nelle arti grafiche. L’autoritratto nello specchio convesso del Parmigianino rappresenta un esempio di questa tendenza nella pittura italiana, ma questa distorsione alla «Alice nel paese delle meraviglie» è sta-
ta particolarmente popolare in Germania e nel nord, dove gli artisti potevano attingere a una ricca tradizione di trucchi ottici. La sperimentazione di immagini anamorfiche è esemplificata in questo contesto dal teschio inserito in primo piano negli Ambasciatori di Hans Holbein (1533; Londra, National Gallery), e diviene il principio organizzativo della famosa xilografia di Erhard Schön i Quatto governanti del 1534 circa. L’esempio più famoso della predilezione nordica per queste novità è però rappresentato dall’opera di Giuseppe Arcimboldo che, benché di origini milanesi, fu attivo principalmente nelle corti imperiali di Vienna e Praga. Lavorando in questa ostensiva atmosfera di corte, si specializzò in scherzi, dipinti realizzati per divertire e allietare. Il suo Vertumno (1590 ca.; Skoklosters Slott, Svezia) un ritratto allegorico del suo mecenate, Rodolfo ii, è tipico dei ritratti fantastici che realizzava, aggregando oggetti inanimati come fiori e frutta.
18. Hans Holbein il Giovane, Cristo nel sepolcro. Olio su tavola, 1521-1522. Kunstmuseum, Basilea.
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Con retorica tipicamente manierista, gli apologeti di Arcimboldo, come il suo amico erudito Gregorio Comanani, cercarono di collocare queste fantastie al centro di dibattiti ingegnosi sul «soggettivo» e l’«oggettivo» in arte, e sulla natura dell’invenzione contrapposta all’imitazione, in un modo che modificava il concetto albertiano di «invenzione». Senza dubbio le invenzioni di Arcimboldo e dei suoi emulatori contemporanei possono bene esprimere il dominio finale dell’artista sul mondo visivo, così come trasmesso dalle innovazioni e dall’abilità tecnica del Rinascimento, e il desiderio che si autosoddisfa di manipolarlo nei modi più divertenti e ingegnosi. In tal senso alcune delle realizzazioni antropomorfe di Arcimboldo, come Il cuoco (1570; Stoccolma, collezione privata), gettano una nota sinistra e perturbatrice, apparendo allo spettatore ridicole e indirizzando l’attenzione sui poteri ingannevoli di arte e illusione. Capovolgendo una natura morta di Arcimboldo
con un piatto di carne (o lo mettiamo nella posizione giusta?), subito vediamo un volto sprezzante che ci sorride in modo scherzoso da sopra la spalla, beffandosi dell’ingenua cupidigia e della facilità all’illusione dello spettatore. È possibile che con simili capricciosi e disorientanti concetti il Rinascimento si dissolva davanti ai nostri occhi, in un modo che risuona nell’iscrizione apposta, appropriatamente, su una sfinge che accoglie i visitatori all’ingresso del Sacro Bosco: «Tu ch’entri qua pon mente parte a parte| e dimmi poi se tante maraviglie | sien fatte per inganno o pur per arte». Qui alcuni dei principi fondamentali del Rinascimento, compresa la sua fiducia nella nobiltà della creazione artistica e il dialogo tra reale e ideale, sono chiamati in causa. Così come la creatività artistica equivale alla falsità e all’inganno, le verità dell’arte del Rinascimento appare tanto chimerica quanto gli animali fantastici che vagano tra le mura di questo «parco dei divertimenti» del xvi secolo.
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Thomas DaCosta Kaufmann
Considerazioni storiografiche
1. Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, particolare. Marmo, 1645-1652. Cappella Cornaro, chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma.
In Europa e nelle Americhe fiorirono nel corso del xvii secolo molti campi della cultura. In Inghilterra è l’epoca di Shakespeare, Donne, Milton, Marvell e Dryden; in Francia di Racine, Corneille e Molière; in Spagna di Calderón de la Barca, Lope de Vega, Quevedo, Góngora, nella quale vengono scritti molti classici della letteratura inglese, i capolavori riconosciuti dell’âge classique francese e quelli del Siglo de oro spagnolo. È il secolo di Bacone, Pascal, Cartesio, Spinoza, Locke e Leibniz, le cui riflessioni (e auto-riflessioni) traghettano il pensiero europeo verso l’età moderna. È anche l’epoca della rivoluzione scientifica, quando il metodo sperimentale e la visione teorica di Galileo Galilei, Giovanni Keplero, Isaac Newton, Robert Boyle, Robert Hooke, Otto von Guericke e molti altri trasformano le scienze meccaniche, l’astronomia e la storia naturale. In un’altra parte del mondo colonizzata dagli Europei, suor Juana de la Cruz e Garcilaso de la Vega («El Inca») danno voce alle emozioni di una nuova coscienza «americana» nella Nuova Spagna e nel Perù della fine del xvii secolo. Si è per lungo tempo ritenuto che in questo periodo le arti figurative abbiano raggiunto uno dei punti culminanti della loro storia. Come la letteratura, anche l’arte spagnola del xvii secolo, rappresentata da artisti come Murillo, Zurbarán, Ribera e Velázquez, si ritiene abbia vissuto una «età dell’oro», e così la pittura olandese, rappresentata, tra le diverse migliaia di artisti attivi nel Nord dei Paesi Bassi, da Frans Hals, Rembrandt e
Johannes Vermeer, mentre nel Sud dei Paesi Bassi (attuale Belgio) l’apogeo dell’esperienza artistica fiamminga venne raggiunto da Rubens, van Dyck e Jordaens. La costruzione e la decorazione di Versailles e di molti altri châteaux caratterizzano in Francia «l’età della grandeur»; Nicolas Poussin, Claude Lorrain e Georges de la Tour rappresentano il raggiungimento, universalmente riconosciuto, di un momento incomparabile nella storia della pittura. In Italia Michelangelo Merisi da Caravaggio, i Carracci (Ludovico, Agostino e Annibale), Pietro da Cortona e molti altri hanno reindirizzato ( o «riformato») il corso della pittura, mentre in scultura e architettura Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Guarino Guarini, tra gli altri, hanno splendidamente arricchito le città italiane. Molte grandi cattedrali vennero erette e decorate nelle Americhe, a Città del Messico, Puebla, Cuzco e altrove. E questi sono solo alcuni tra la miriade di maestri e monumenti che hanno trasformato la cultura figurativa di molti continenti. Sebbene quattro secoli più tardi molta parte dell’arte e dell’architettura del xvii secolo sia unanimemente apprezzata, non è sempre stato così. L’arte e l’architettura del Seicento italiano, che attirano oggi folle di ammiratori a Roma e in altri luoghi della penisola, come in esposizioni in tutto il mondo, vennero condannate dai critici del xviii secolo di orientamento classicista, ad esempio Johann Jakob Winckelmann, mentre storici del xix secolo come Jakob Burckhardt hanno mantenuto un giudizio analogamente negativo su artisti come Bernini. All’inizio del
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secolo Bernard Berenson poteva ancora scrivere del declino dell’arte, che faceva iniziare con Guido Reni, uno dei molti pittori del Seicento bolognese attualmente di moda. Per molte ragioni storiche e storiografiche, sono state ancora più trascurate, o svalutate, l’arte e l’architettura del Seicento nei due terzi d’Europa a est del Reno. In Boemia il xvii secolo ha rappresentato a lungo per i cechi un periodo oscuro della loro storia, l’epoca dopo la battaglia della Montagna Bianca (1620), quando i territori vennero completamente assoggettati al dominio asburgico. Fino al xx secolo, ben dopo che le aspirazioni nazionali ceche erano state compiute, e ancora in seguito, l’arte di quest’epoca continuava a rappresentare una forma di imposizione di una corona e di una chiesa straniere (la Boemia aveva avuto una monarchia elettiva fino al 1627, mentre gli Ussiti e i Fratelli Moravi costituivano movimenti locali, indipendenti dalla Chiesa di Roma). Si ritiene che l’età dell’oro dell’unione polacco-lituana si sia conclusa nel xvi secolo con la fine della dinastia degli Jagelloni. Il xvii secolo fu visto così in Polonia come un periodo di incertezza politica e di guerra, come traspare dai titoli dei romanzi di Henryk Sienkiewicz (Col fuoco e col ferro e Il diluvio). Fatta eccezione forse per il regno di Jan Sobieski (1674-1696), nella storia dell’arte polacca il xvii secolo non è stato in generale apprezzato; come non lo è stato in Russia, dove inizia con la cosiddetta «epoca dei torbidi». Si è infine a lungo ritenuto che l’arte tedesca abbia iniziato il proprio declino attorno al 1530 con la morte degli «antichi maestri», raggiungendo il punto più basso nel corso del xvii secolo, in coincidenza con la guerra dei Trent’anni (1618-1648). Dalla fine del xix secolo il Seicento italiano è stato però progressivamente rivalutato negli studi, conquistando l’interesse del grande pubblico. E lo stesso è accaduto in seguito, sebbene con maggiore lentezza, per l’arte e l’architettura dello stesso periodo di altre aree, precedentemente trascurate. Heinrich Wölfflin e Alois Riegl hanno impresso una svolta significativa alla ricezione xx
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critica dell’arte e dell’architettura del xvii secolo, non considerandole espressioni di un periodo di declino, ma di un’epoca con propri valori distintivi. Questi, insieme a molti altri studiosi, hanno adottato il concetto di «barocco», precedentemente impiegato in accezione peggiorativa, per definire uno stile particolare, in contrasto con l’arte del Rinascimento. Nel celebre sistema di polarità wölffliniano, le forme del «Barocco», caratterizzate da profondità, pittoricità, atettonicità, unità del molteplice e nitidezza solo relativa, contrastano con le forme del periodo «classico» rinascimentale, piane, lineari, tettoniche, unificate e «assolutamente nitide». Anche se i criteri formali wölffliniani non sono stati sempre accettati, tali idee aiutarono gli studiosi di molte discipline a individuare le caratteristiche distintive dei fenomeni del xvii secolo. È così che sotto l’etichetta di «barocco» si è iniziato a riscoprire l’arte di territori al di fuori d’Italia come Austria, Boemia, Germania e Ungheria. Il periodo successivo alla Prima guerra mondiale ha visto uno sfogo di sentimenti nazionalisti che, insieme ad altre componenti, ha rivendicato in molti paesi il valore delle arti prodotte nel corso del xvii secolo. La seconda guerra mondiale si è conclusa con una divisione dell’Europa che ha consegnato la metà orientale del continente a un panorama di oblio. La cultura dei paesi dell’Est, come venne definita la metà dimenticata d’Europa, compresa la Germania orientale, rimase largamente ignorata, intrappolata dietro la «cortina di ferro» che sembrava offrire scuse plausibili all’ignoranza occidentale. I legami che da sempre avevano collegato le nazioni del continente vennero semplicemente dimenticati, mentre il secolo, dominato da spinte nazionalistiche e ideologiche, precipitava nella guerra fredda. Vennero poi il 1989 e il 1990 e i movimenti per l’unione europea, ed è rinata l’idea di una specifica regione mitteleuropea. Solo molto recentemente perciò le arti di questa area, e di questo periodo in particolare, hanno raggiunto un più ampio riconoscimento. Il processo è ancora in atto, così come l’unificazione europea.
2. Diego Velázquez, Las Meninas. Olio su tela, 1656. Museo del Prado, Madrid.
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Molto inchiostro è scorso sul significato e sull’interpretazione del termine «barocco», l’etichetta sotto cui ha avuto inizio la riscoperta. Il termine è stato variamente definito e affinato; in realtà si è identificato un ulteriore periodo tra «barocco» ed « età classica» del Rinascimento, il manierismo, anche questo variamente discusso. Negli anni ’20 del Novecento il Manierismo è stato considerato una corrente artistica che esprimeva, come l’espressionismo, disordine psicologico e sconvolgimento emotivo, ritenendo che ciò corrispondesse alla tensione spirituale del tempo. Tra le molte definizioni succedutesi, negli anni ’60 del Novecento il manierismo ha finito per essere considerato uno «stile
stilistico». In ogni caso il manierismo venne contrastato dal barocco. La creazione del concetto di Manierismo, qualunque ne sia la definizione, costituisce un indizio che l’arte del periodo postrinascimentale, cioè dopo i primi anni del xvi secolo, può difficilmente essere compresa sotto un’unica categoria stilistica, ed è certamente un obiettivo degli storici dell’arte offrire un’idea unitaria di stile per il xvii secolo. Riferendosi ad alcuni semplici termini di confronto, come è possibile comprendere in un’unica definizione il classicismo della pittura di corte francese, l’esuberanza della scultura delle chiese cattoliche d’Italia e il realismo dell’arte olandese prodotta per borghesi di religio-
3. Guido Reni, Atalanta e Ippomene. Olio su tela, 1616-1618. Museo del Prado, Madrid.
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ne protestante? Sono stati fatti dei tentativi per individuare una nozione comune di stile che potesse comprendere le differenze nazionali, e una nozione di sviluppo stilistico che tenesse conto di queste distinzioni. Ma chi aderiva al concetto di barocco si riferiva anche ad altre caratteristiche comuni dell’arte e dell’architettura del xvii secolo, come l’uso dell’allegoria, di forme di rappresentazione naturalistica, la ricerca di effetti di luce, considerati tutti tratti comuni che giustificavano l’applicazione di un concetto ampio di barocco. Con i più recenti sviluppi della storiografia artistica alla fine del xx secolo questioni sull’utilità, l’applicabilità e il significato di Barocco sembrano aver perso di urgenza. È probabile che ciò sia accaduto in quanto la battaglia per il riconoscimento dell’arte e dell’architettura del xvii secolo è stata in gran parte vinta. Benché in Germania, Austria, Portogallo e America Latina le arti del Seicento possano costituire a tale proposito delle eccezioni, hanno recentemente attirato l’attenzione degli studiosi e delle esposizioni. Ci sono anche altre ragioni per cui non è più attuale la discussione di termini stilistici come barocco. Negli ultimi decenni i tradizionali concetti storico-artistici di forma e stile, o i problemi di periodizzazione – per non menzionare altri temi fondamentali come l’iconografia e le «influenze» – hanno perso di interesse, cedendo il campo a nuove mode intellettuali. Le tendenze più recenti aspirano ad essere nell’approccio o astoriche o parcellizzate. Tenuto conto che le riflessioni generali continuano a interessare gli studiosi, l’approccio storico all’arte e all’architettura del xvii secolo viene collegato ad una serie di fattori sociali, economici, religiosi e culturali che costituiranno l’oggetto della presente trattazione. Religione e politica; le relazioni di retorica e pietà con l’arte e l’architettura Potrebbe sembrare paradossale che il xvii secolo, che qui presentiamo come un’epoca di intensa produttività artistica, sia stato
anche un periodo di saccheggi e distruzioni. Come dimostra il più sanguinoso conflitto del secolo, la guerra dei Trent’anni, queste circostanze sono tra loro collegate. La guerra ebbe inizio a causa della contrapposizione religiosa tra protestanti e cattolici, e del conseguente controllo del potere nei territori boemi, trasformandosi in un conflitto su larga scala che coinvolse molti paesi dell’Europa centrale, decimandone la popolazione. Come si è già osservato, un’interpretazione storica largamente accettata ha a lungo consentito che il periodo in particolare della guerra dei Trent’anni venisse considerato solo un periodo di devastazioni. È vero che durante la guerra molti monasteri e chiese vennero saccheggiati, e così fu per residenze principesche come quella di Monaco. Mentre si svolgevano negoziati in Westfalia per porre fine al conflitto, le truppe svedesi assaltarono Malá Strana («il lato piccolo») e Hrad/ any a Praga, sottraendo ciò che restava delle collezioni imperiali ancora lì custodite, e le sculture dei giardini di palazzo Wallenstein. La guerra dei Trent’anni fu d’altra parte solo uno dei molti conflitti armati che coinvolsero nel periodo la maggior parte dei territori europei. Negli anni ’50 le truppe svedesi portarono via da Frederiksborg la grande fontana di Adriaen de Vries, insieme a molte opere provenienti da altri castelli danesi. Gli Svedesi e i predoni cosacchi imperversarono in Polonia, distruggendo castelli e trafugando opere d’arte. Da un altro punto di vista, però, la continua rapina di opere d’arte nel corso del xvii secolo indica l’importanza simbolica e reale attribuita ai beni culturali. Nonostante i conflitti e gli scontri, i considerevoli investimenti in pittura, scultura e architettura, nonché l’impiego di materiali costosi per realizzarli, segnalano il grande valore loro riconosciuto. Mentre la distruzione dei monumenti e il saccheggio delle opere d’arte sono stati in molti casi gratuiti atti di guerra, tali azioni possono essere state altrimenti premeditate (il sacco svedese di Praga appare certamente pilotato). Inoltre, poiché le divisioni politiche hanno seguito quelle religiose, il conflitto
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religioso ha assunto spesso una dimensione politica sia in tempo di guerra che di pace. È così che il secolo, oltre che di distruzioni, è stato un grande periodo per la creazione d’opere d’arte e d’architettura religiosa. Per comprendere questo intreccio occorre considerare la più ampia questione delle relazioni tra arte e religione nell’Europa cristiana. La Riforma protestante aveva rinnovato nel xvi secolo il dibattito sul ruolo dell’arte nella religione. L’ammissibilità delle immagini sacre nella cristianità aveva fin dall’inizio rappresentato un problema, come era accaduto per la controversia iconoclastica dell’ viii e ix secolo, e alcuni riformatori avevano preso alla lettera il comandamento «Non ti farai scultura né immagine alcuna». Mentre Lutero stesso aveva guardato alle immagini come adiaphora, cose cioè prive di rilevanza teologica, e deplorato gli atti estremi compiuti contro di esse, altri predicatori ravvivavano le fiamme che avrebbero portato in molte parti d’Europa a tumulti iconoclasti, in particolare in Svizzera e Germania negli anni ’20 del Cinquecento e anche in seguito, e negli anni ’60 nei Paesi Bassi. Dipinti e sculture vennero danneggiati o distrutti, le vetrate frantumate, le opere rimosse, preziosi oggetti in metallo fusi. L’iconoclastia fu promossa talvolta dallo Stato, come nell’Inghilterra di Enrico viii e Edoardo vi, nella Norimberga patrizia, nella Zurigo di Zwingli, nella Ginevra di Calvino, o nel Palatinato di Federico iii. In tali casi si procedette ad una rimozione più ordinata degli oggetti dalle chiese. Simili attività proseguirono nel xvii secolo, quando in Germania e in Boemia non solo le guerre furono causa dei saccheggi di chiese e conventi. Nel Seicento i protestanti distrussero gli arredi sacri e scialbarono gli interni, come era avvenuto in Francia e altrove nel secolo precedente. In Inghilterra anche i puritani vennero coinvolti nell’iconoclastia, sia in modo spontaneo sia in modo più organizzato dal 1650 durante il governo di Oliver Cromwell. All’inizio del secolo in Assia il langravio Maurizio (Maurizio «il colto»), benché amante delle arti, disegnatore e collezionista, fu un impegnato calvinista,
che diresse una rimozione organizzata di arte religiosa (distinta da tombe e epitaffi) dalle chiese di Kassel, Marburgo e altri luoghi sotto il suo dominio. Qualunque ne fosse la causa, saccheggi e distruzioni causate dall’iconoclastia come dalle guerre ebbero un effetto senza dubbio raggelante sul mercato dell’arte. L’artista e storiografo Joachim von Sandrart ne parlò in modo eloquente quando disse che «la Germania regina aveva visto i propri palazzi e chiese decorati con splendidi dipinti andare in fiamme», e un’altra volta: «l’arte venne dimenticata, e chi la praticava fu sopraffatto dalla povertà e dal disprezzo». Il commercio si interruppe, le commissioni mancarono, le tradizioni vennero abbandonate e anche la gente non entrò più nelle botteghe. La drammatica descrizione di Sandrart offre però solo una parte della visione dell’insieme, e si vedrà come in molte zone dell’Europa centrale le attività artistiche siano proseguite anche durante la guerra dei Trent’anni. Guerra e iconoclastia, quando vennero, colpirono in luoghi e tempi diversi, e anche in Europa centrale alcune aree furono risparmiate, o continuarono a prosperare. Come si è visto, è stato d’altra parte proprio in tempo di guerra che molti dei maggiori artisti hanno operato e che in tutta Europa molti capolavori di arte e architettura religiosa sono stati realizzati. Una conseguenza probabilmente ironica dell’iconoclastia e delle guerre è stata la rinnovata domanda di arte religiosa. In alcune aree tornate sotto il controllo della Chiesa romana erano necessarie pale d’altare, dipinti devozionali e commemorativi per sostituire quelli rimossi, rubati o distrutti. Spesso chiese e conventi dovevano essere ricostruiti, o ridecorati; c’era inoltre il bisogno di nuovi edifici e arredi. I committenti cattolici non furono solo impegnati nel recuperare quanto era andato perduto, ma in un’offensiva, spesso associata alla Controriforma – o Riforma cattolica – che portò nel corso del secolo alla produzione di molte opere d’arte e architetture religiose. Questo processo è evidente nei Paesi Bassi meridionali, dove, dopo l’iconoclastia del xvi secolo e un periodo di guer-
4. Pieter Paul Rubens, Adorazione dei Magi. Olio su tavola, 1624. Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, Anversa.
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ra aperta, molte chiese e cappelle sorsero ad Anversa, Bruxelles e altrove, in particolare dopo che si era stabilita una tregua nel 1609. La corona spagnola, che manteneva il controllo sulle province meridionali dei Paesi Bassi, e in particolare dal 1598 gli statolder Alberto e Isabella sostennero l’azione delle autorità ecclesiastiche e degli ordini. Alcune chiese vennero progettate da Wenzel Coebergher, Lucas Faydherbe, Rubens, François Aguilon e altri; i membri della famiglia Quellinus e numerosi altri scultori realizzarono le decorazioni, e infine vi vennero collocati dipinti di Rubens, van Dyck, Jacob Jordaens e altri. Ancora dopo la morte di Rubens e van Dyck, attorno al 1640, nella sola Bruxelles si contavano moltissime botteghe. La situazione fiamminga si ripeteva anche altrove, in Germania e in Boemia, sebbene quest’ultima sia meno nota. Qui i protestanti, dopo un temporaneo controllo del potere, vennero sconfitti nella battaglia della Montagna Bianca, dopo la quale furono costretti a convertirsi o a lasciare il paese. Fu poi necessario costruire, restaurare e riarredare molte chiese. Il «barocco boemo», che oggi inizia ad essere apprezzato, fu segnato da questo avvenimento, come esemplificato da Karel Ykréta e da altri artisti. Vi sono molte ragioni per ricostruire chiese e arredi interni. Risposte e recupero procedono in parallelo col movimento cattolico della Controriforma, nato come reazione alla Riforma protestante. Nella produzione di opere d’arte per le chiese vi possono però essere anche cause indipendenti, che rappresentano non solo una risposta alle minacce protestanti, ma anche un processo di rinnovamento interno del cattolicesimo. Durante il xvi e xvii secolo molti ordini religiosi vennero riformati, e molti nuovi creati. Tra i più noti sono i carmelitani, gli oratoriani e i teatini, ma ve n’era un gran numero. Mentre i carmelitani primeggiano nel mondo iberico, gli oratoriani assumono rilievo in Italia e Francia, come i teatini nella maggior parte d’Europa. Questi ordini, votati alla preghiera e ad atti di carità, si impegnano anche nell’istruzione. Tutti necessitano perciò di nuovi
luoghi di culto, edifici per le abitazioni comuni e per le nuove scuole da loro fondate. Questi e altri nuovi ordini sono significativamente associati a molte delle principali opere d’arte e di architettura del xvii secolo. Borromini progettò l’Oratorio e la Casa professa degli oratoriani a Roma, mentre Rubens dipinse la pala per l’altare maggiore della Chiesa Nuova. La chiesa madre dei teatini a Roma, Sant’Andrea della Valle, progettata da Carlo Maderno e Carlo Rainaldi, ospita molte opere degli artisti più importanti del Seicento, tra cui Guido Reni, Lanfranco e Pietro Bernini. Guarino Guarini (1624-1683) fornì i progetti per chiese teatine da Lisbona a Praga; una grande chiesa teatina (realizzata da Enrico Zuccalli su progetto di Agostino Barelli, con pale d’altare tra gli altri di Sandrart) esiste ancora a Monaco. Il più famoso dei nuovi ordini è la Compagnia di Gesù. I gesuiti erano espressamente votati alla diffusione della fede; mentre fuori d’Europa ciò significava battesimo e conversione di popoli «pagani», in Europa, dove esistevano più confessioni cristiane, ciò voleva dire anche proselitismo, promozione delle dottrine della Chiesa, in parte per combattere quella che veniva considerata l’eresia protestante. Essi furono perciò particolarmente attivi in territori di fede religiosa incerta, o dove dominavano i protestanti. I Paesi Bassi meridionali furono così un fulcro per la loro arte: ad Anversa sorse una chiesa particolarmente sontuosa, con pale d’altare di Rubens e della sua bottega. Analogamente, anche la Boemia (con la Slesia) fu un importante centro di attività, dove si fondarono molte chiese e collegi dell’ordine. Altre strutture gesuitiche si diffusero in Germania e Polonia dove, fino alla spartizione della fine del xviii secolo, i cattolici furono di fatto una minoranza. La diffusione della fede, de Propaganda Fide, nome di un organo della Chiesa romana da cui deriva il concetto moderno di propaganda, richiese un particolare tipo di chiesa, incarnato dalla chiesa madre dei gesuiti, il Gesù, progettato a Roma alla fine del Cinquecento da Vignola per creare un ambiente
5. Carlo Maderno e Carlo Rainaldi, Facciata della chiesa di Sant’Andrea della Valle, 1624-1629 e 1661-1665. Roma.
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6. Juan de Valdés Leal, Finis Gloriae Mundi. Olio su tela, 1671-1672. Chiesa dell’Ospedale della Carità, Siviglia.
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7. Antonio e Miguel Pérez de Montalto, Ostensorio processionale. Argento. 1678. Cattedrale, Murcia.
favorevole alla preghiera: ampio spazio libero a mo’ di salone, con cupola all’incrocio dei bracci e cappelle interconnesse lungo i fianchi. Varianti del tipo furono impiegate da altri ordini e in nuovi edifici religiosi. La facciata della chiesa, come quella di Sant’Andrea della Valle e di molte altre chiese romane del tempo, servì ugualmente da prototipo per edifici in tutta Europa. I gesuiti, come i carmelitani, controllavano i progetti delle loro chiese in tutto il mondo, e ogni pianta doveva essere approvata dall’autorità centrale a Roma. Per questi motivi, quando non si è semplicemente associato il Barocco alla Controriforma, lo si è considerato uno stile gesuitico. Ma i gesuiti e i molti nuovi ordini non furono i soli ad essere implicati nel processo di creazione delle nuove chiese e della nuova architettura, anche in aree che rimasero punti nodali dei conflitti religiosi come la Slesia. Qui i cisterciensi furono l’ordine più importante, impegnato fin dalla metà del xvi secolo nella ricostruzione o nella decorazione di una serie di notevoli abbazie. I benedettini e i premostratensi svolsero un ruolo analogo in Germania come nei Paesi Bassi. È fuori di dubbio che i gesuiti si valsero di un’ampia varietà di stili architettonici. Mentre in alcune occasioni si seguì il modello del Gesù, nei Paesi del Nord si adottarono le antiche forme della tradizione gotica, e le loro chiese in Belgio e Germania ricevettero così spesso un aspetto medievale. A meno che non si creda che la politica confessionale promuova tipi diversi di arte, occorre ricordare che le chiese protestanti, come quelle costruite dalle congregazioni a Praga all’inizio del xvii secolo, potevano anche emulare i progetti delle chiese cattoliche romane. È possibile collegare l’arte e l’architettura del xvii secolo anche alla prosecuzione o alla ripresa di pratiche tradizionali: il culto delle immagini e degli oggetti miracolosi, e insieme a questi i luoghi di pellegrinaggio, alcuni dei quali vennero restaurati, mentre altri ricevettero una nuova veste. Il più straordinario tra questi è probabilmente la cappella realizzata a Torino per ospitare la reliquia della Sacra Sindone secondo il progetto di
Guarino Guarini, segno della continuità del culto nei paesi latini. Nei territori tedeschi e slavi una rinnovata venerazione venne riservata alle immagini (come ad altri oggetti) della Vergine, la cui efficacia si intendeva riconfermare. Molti territori furono posti sotto l’egida della Vergine, che si credeva li proteggesse favorendo la vittoria della causa cattolica. Con questo spirito trionfalistico vennero erette le colonne mariane di Vienna, Praga e Monaco, dove Maria era venerata come patrona della Baviera; analogamente l’esercito polacco portò la sua immagine sulle armature e gli stendardi, respingendo l’attacco svedese proprio nel monastero fortificato di Czestochowa, il luogo di pellegrinaggio che ‘ ospita la Madonna Nera. Con il sostegno di ricchi polacchi e del re, Czestochowa, uno ‘ dei molti luoghi santi di Boemia e Polonia in cui è venerata l’immagine della Vergine, fu ricostruito e rinnovato nel xvii secolo. Una serie di imitazioni della Santa Casa di Loreto, specialmente in Boemia, venne realizzata dopo la guerra dei Trent’anni. Di particolare significato fu la ricostruzione, ai confini della Prussia orientale, della chiesa di Swieta Li‘ pka (Heilige Linde) destinata ad accogliere un tiglio miracoloso. Promossi dai gesuiti e finanziati da ricchi cattolici e dal re, i lavori di ricostruzione e decorazione del monumento, iniziati alla fine del xvii secolo, possono essere considerati la rappresentazione dell’affermazione della fede cattolica sulle rive di un mare protestante. Sebbene tali imprese possano essere sostenute dalle autorità ecclesiastiche, dagli ordini religiosi o dalle alte sfere sociali, i pellegrinaggi e simili pratiche di devozione affondano senza dubbio le loro radici in ben più ampie correnti di pietà. Esse si espressero sia attraverso donazioni individuali, sia attraverso la formazione di confraternite e sodalità, associazioni di carattere religioso dedite alla preghiera e alle opere di carità, che spesso finanziarono tali progetti. In tutta Europa la devozione popolare trovò le risorse o diresse la costruzione e la decorazione delle chiese. Molte celebri immagini familiari, e cappelle, devono la loro origine a
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tali fondi. Esse raggiungono forse l’evidenza più spettacolare in Spagna, in luoghi come Siviglia, dove le immagini, spesso realizzate da noti scultori, sono tuttora venerate. Le statue del Cristo del Gran Poder o della Vergine Macarena sono ancora oggi portate in processione durante la Settimana santa dai membri delle confraternite. Interi complessi vennero creati per le confraternite. Uno dei meglio conosciuti è la cappella realizzata per la confraternita sivigliana della Carità, dedicata alla sepoltura dei criminali giustiziati. Per questa cappella Bartolomé Murillo e Juan de Valdés Leal dipinsero una serie di tele, in particolare
quest’ultimo una serie di sorprendenti immagini «geroglifiche» delle «postrimerías del hombre». Ampi programmi furono realizzati per confraternite anche in altri luoghi, ad esempio in Europa centrale, dove erano sostenute sia dai gesuiti sia da ordini monastici più antichi. In Slesia, alla fine del secolo, presso l’abbazia cisterciense di Lubia> (Leu‘ bus), Michael Willmann decorò la cappella della confraternita di san Giuseppe con affreschi di intensa brillantezza raffiguranti le Storie della vita della Vergine. Tali opere si debbono spesso a donazioni private ed è grazie alla devozione privata che molte immagini sono state realizzate, dipin-
8. Veduta aerea della basilica e di piazza San Pietro. Roma.
9. Gian Lorenzo Bernini, Baldacchino, particolare. Bronzo dorato, 1624-1633. Basilica di San Pietro, Roma.
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ti di piccole dimensioni su rame o su tavola, spesso prodotti en masse dalle botteghe di Siviglia, Anversa, Firenze, Roma, Bologna e Venezia, dove erano concentrati gli atelier dei pittori. Si produsse un gran numero di croci, rosari, paci, statue ed altri simili oggetti in legno, metallo, terracotta e avorio, che rispondevano ai bisogni individuali per oggetti di piccolo formato. Opere di maggiori dimensioni soddisfacevano esigenze di altro tipo. Siano o meno stati i gesuiti la causa dei cambiamenti nello stile, o più in generale, di una svolta nelle arti (già si è visto come vi siano state altre cause più ampie per analoghi sviluppi), uno dei loro motti riflette senza dubbio il modo in cui si fecero molte riforme e nuove opere: ad maiorem Dei gloriam, a maggior gloria di Dio. Questa massima incarna lo spirito con cui si creava, soprattutto da parte della Chiesa cattolica. Fin dalle origini del cristianesimo la dottrina della Chiesa aveva richiesto l’impiego dei materiali più nobili per custodire oggetti preziosi come le ostie. L’estensione di questa mentalità consentì non solo che si utilizzassero materiali preziosi (oro, pietre preziose, argento) nella produzione della suppellettile liturgica e dei reliquiari, ma che si accrescesse sempre più la magnificenza della progettazione e della decorazione delle chiese. L’eccezionale splendore dei monasteri, delle chiese e delle loro pertinenze, come di interi luoghi, era inteso a proclamare non solo la gloria del Signore, ma anche la grandezza della Chiesa. Gli effetti furono evidenti in tutta l’Europa del Seicento, ma in particolare nel cuore della Chiesa cattolica, Roma. Le basiliche vennero ricostruite e molte parrocchie edificate, oltre alle chiese degli ordini. Di particolare importanza furono i lavori compiuti nella stessa San Pietro, la cui ricostruzione venne finalmente portata a termine con il completamento della facciata. La basilica fu arricchita da una serie di pale d’altare, tombe e sculture all’incrocio dei bracci, realizzate da importanti maestri, mentre il baldacchino del Bernini venne eretto sopra la tomba dell’apostolo. Marmi ed altre pietre costose furono usati per pavimenti,
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rivestimenti e statue; bronzo dorato per il baldacchino, con un effetto di straordinario splendore. Risultati così spettacolari lasciano supporre che molti artisti del xvii secolo, come ad esempio Bernini, fossero direttamente coinvolti nelle rappresentazioni teatrali. Bernini, Carlo Maderno e Carlo Fontana ridisegnarono parti sostanziali della città, creando effetti scenografici. Il ponte, oggi conosciuto come Ponte Sant’Angelo, che porta in Vaticano, fu fiancheggiato da angeli con strumenti della Passione realizzati da Bernini e dalla sua bottega. Non appena il visitatore giunge nella piazza, che si articola attorno all’obelisco davanti a San Pietro, ha l’impressione di essere circondato dai bracci del massiccio colonnato, sormontato da statue di Bernini con figure di santi, segno dell’abbraccio della Chiesa ed espressione del suo potere. Altre piazze ricevettero fontane, talvolta coordinate con le facciate delle chiese, e obelischi. L’erezione delle nuove chiese, la ricostruzione delle vecchie e il loro arredo necessitarono della realizzazione di molte opere d’arte: oltre ai reliquiari e ai recipienti eucaristici, erano necessarie pitture e sculture con soggetti narrativi da collocare in chiesa e sugli altari. Come conseguenza si creò così una domanda continua di oggetti d’arte da parte della Chiesa che durò sino alla fine del secolo. Si realizzarono pale con Cristo, la Vergine e i santi, o scene della loro vita (o leggenda). Allo stesso modo si produssero immagini per ecclesiastici, monaci e suore, per devozione privata, con scene dell’Antico Testamento, considerate spesso precedenti («tipi») della storia della salvazione narrata nei Vangeli, oppure la Sacra Famiglia, l’ideale etico per eccellenza. Al di là del loro valore economico, sociale o antropologico, le opere d’arte religiosa avevano, ovviamente, un significato teologico, argomentando visivamente la dottrina. In contrasto con il credo protestante, ad esempio, la Chiesa cattolica continuava a credere nella reale presenza di Cristo nell’Eucaristia. L’idea che il pane e il vino della messa divenissero il corpo e il sangue di Cristo venne così suggerita sugli altari da immagini che raffiguravano il sacrificio di Gesù, frequente-
mente espresso con il Cristo crocifisso. Parte dell’efficacia di un’opera come la Deposizione nel sepolcro di Caravaggio – certamente studiata da molti artisti, tra cui Rubens, che ne realizzò una copia – sta nel mostrare come il corpo del Salvatore venga deposto nel sepolcro in modo tale da coinvolgere lo spazio dell’osservatore: appare così che venga
10. Giuseppe Ribera, Immacolata Concezione. Olio su tela, 1635. Pala dell’altare maggiore del convento delle Agustinas Recoletas, Salamanca.
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11. Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa. Marmo, 1645-1652. Cappella Cornaro, Santa Maria della Vittoria, Roma.
offerto sull’altare collocato proprio sotto il dipinto. Dipinti con scene della Passione o con le Opere di carità – Caravaggio realizzò una notevole opera con le Sette opere di misericordia – si rifecero sempre alla dottrina della Chiesa, rifiutando il credo protestante che sosteneva che solo la fede, o la grazia, fossero necessarie per la salvezza. Rubens progettò
serie di arazzi che raffiguravano in modo ancora più militante il trionfo dell’Eucarestia. Altri dipinti richiamarono l’efficacia dei Sacramenti, presentando i miracoli occorsi in occasione della loro celebrazione, mentre avveniva la trans us tanziazione durante la messa. Tali dipinti, accanto ad altre immagini analoghe raffiguranti le azioni caritatevoli dei santi, riflettono la dottrina religiosa della giustificazione attraverso le opere. La proliferazione di immagini della Vergine può essere vista come la risposta alla sfida lanciata dai protestanti al suo ruolo di intercessione. Specialmente nel mondo iberico, come esemplificato da numerose immagini di Giuseppe Ribera, Murillo, Alonso Cano, Juan Martínez Montañés e altri, la Vergine fu ritratta sia nel momento dell’Assunzione in cielo, sia come Immacolata, espressioni visive di un dogma che non sarebbe stato adottato dalla Chiesa per molti secoli. Tutto ciò mise in rilievo la sua natura celeste e la sua purezza. Analogamente venne espresso per immagini il culto dei santi, anch’essi venerati come intercessori, con ritratti individuali, serie raffiguranti la loro vita e il martirio, in cui veniva enfatizzato il loro sacrificio. Quest’ultimo soggetto si diffuse in tutta Europa: immagini memorabili furono realizzate soprattutto da Ribera e Jordaens, mentre rappresentazioni particolarmente cruente come il martirio di sant’Erasmo, le cui interiora vennero estratte con un tornio, furono dipinte anche da Nicolas Poussin, un artista altrimenti conosciuto per il suo controllo. Altri santi vennero ritratti in momenti di estasi, che suggerivano il loro rapimento spirituale, come si vede a grande scala nell’Estasi della carmelitana santa Teresa di Bernini. Il modo di rappresentare queste scene religiose dipendeva dalla risoluzione, all’interno della Chiesa cattolica, delle controversie religiose del xvi secolo. Nel 1563 l’ultima sessione del Concilio di Trento aveva promulgato alcuni decreti che riaffermavano l’importanza delle immagini sacre. Teologi come Johannes Molanus nei Paesi Bassi, o Carlo Borromeo in Italia, elaborarono una dottrina che consentiva l’impiego delle im-
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magini, sostenendone la loro funzione spirituale e didattica. Immagini di Cristo, della Vergine e dei santi vennero approvate non come oggetto di culto in sé, ma per suscitare devozione verso chi ritraevano. Le opere dovevano essere chiaramente leggibili e «decorose» (si ricordi il clamore suscitato dalla rappresentazione dei risorti come figure completamente nude nell’affresco del Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina): il decreto disponeva che «non deve apparire nulla che sia disposto in modo scandaloso, o indecoroso, o confuso, nulla di vergognoso o profano, nulla di irrispettoso». Nessuna immagine iconograficamente inusuale venne consentita senza il permesso del vescovo. Queste prescrizioni ebbero come conseguenza sia la sostituzione delle più an-
tiche immagini, sia la realizzazione di nuove. Le nozioni di leggibilità e di decenza sono da mettere in relazione con la retorica. Cosa naturale, considerato che le scuole fondate dai gesuiti, come quelle luterane, centravano su di questa l’educazione. Secondo i principi retorici i diversi mezzi di presentazione dovevano essere appropriatamente adattati al contenuto. L’oratore doveva istruire, dilettare e persuadere. I medesimi principi vennero applicati alla poetica e infine al teatro. Mutatis mutandis, le stesse idee trovarono applicazione in pittura. Esigenze di leggibilità richiesero chiarezza nella composizione, nozione anch’essa derivata dalla retorica. Nella pittura dei primi anni del Seicento i complicati raggruppamenti e i gesti caricati del manierismo furono sostituiti da gruppi
12. Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Giuditta e Oloferne. Olio su tela, 1596. Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma.
13. Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne. Olio su tela, 1620 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze.
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più ordinati. In luogo dell’astruso linguaggio dell’arte del Cinquecento, la pittura e la scultura del Seicento presentarono messaggi più diretti attraverso i gesti dei personaggi e una disposizione unificata che consentiva di concentrare l’attenzione sul soggetto principale, come appare in molti dipinti italiani. L’unità di tempo, luogo e azione, già diffusa nella dottrina teatrale del xvii secolo, si ritrova anche in pittura, dove l’azione si concentra attorno a un unico momento pregnante, come nella Vocazione di san Matteo di Caravaggio. È senza dubbio possibile applicare ulteriormente il linguaggio del teatro a quello delle arti figurative. A Czestochowa la Ma‘ donna Nera sta tuttora davanti a un florilegio di strumenti di ottone, con cortine sul retro, mentre una sorta di sipario viene sollevato sul davanti. Molti dipinti e sculture del xvii secolo sono collocati come se delle cortine fossero state tirate per rivelarli. Molti artisti furono inoltre coinvolti nell’allestimento di feste, nel teatro e nell’opera, e Bernini fu anche autore
di una commedia. Altri, come Velázquez, conobbero certamente l’opera di drammatur ghi come Calderón de la Barca e non furono loro estranee soluzioni teatrali. Nella cappella Cornaro, dove è collocata l’Estasi di santa Teresa, le sculture dei membri della famiglia Cornaro sono disposte come se sedessero in palchetti, dai quali partecipano all’evento. Per definire l’illuminazione di molti dipinti del Seicento, soprattutto quelli caravaggeschi, in cui sono enfatizzati i contrasti di luce e ombra (chiaroscuro) e le figure sembrano emergere dal crepuscolo, concentrando l’attenzione sull’azione principale, si è utilizzato spesso il termine «drammatico». Una simile qualità teatrale può essere individuata nelle attitudini di molte figure della pittura del xvii secolo. In contrasto con le espressioni affettate, le pose contorte e le composizioni affollate della pittura del xvi secolo, esse affermarono un maggiore naturalismo. Gesticolano, fanno smorfie, o partecipano all’azione con espressioni dirette e più credibili, e gli abiti
14. Christopher Wren, St. Paul’s Cathedral, 1675-1711. Londra. 15. Christopher Wren, Sezione della St. Paul’s Cathedral. Incisione, 1675 ca. Royal Academy of Arts, Londra.
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e le carni sono dipinti in modo più tangibile. Ciò è portato ad estremi effetti di truculenza in opere come la Giuditta e Oloferne, dipinta sia da Caravaggio sia da Artemisia Gentileschi, dove il sangue sprizza dal collo reciso di Oloferne, e in molte scene di martirio di Caravaggio e dei suoi seguaci, come Ribera e numerosi altri maestri italiani e stranieri. L’enfasi della fisicità in tali opere va in parallelo con le pratiche meditative e educative introdotte dai nuovi ordini. Nei suoi Esercizi spirituali Ignazio di Loyola, il fondatore dei gesuiti, per esempio, raccomandava la meditazione sulla Passione e le sofferenze di Cristo. Si riteneva che in tal modo il credente si figurasse nella mente l’immagine della sofferenza, del tormento dell’inferno o della gioia celeste. E la contemporanea esperienza teatrale confermava tali pratiche. I gesuiti promossero scuole di recitazione come mezzo concreto per rappresentare vividamente il loro messaggio. Tutto incoraggiava la realizzazione di immagini drammatiche e naturalistiche. Gettando un’occhiata nel campo avverso, si può affermare che mentre si è spesso pensato che il protestantesimo avesse prodotto ben poco di positivo in arte, in realtà il xvii secolo è stato anche nei paesi protestanti del Nord Europa un periodo di rigoglio per l’arte e l’architettura religiosa. Alcune delle prime evidenze di arte protestante, a differenza della semplice sostituzione di più antiche strutture cattoliche, sono ravvisabili nella costruzione e decorazione delle cappelle di corte già nel xvi secolo. Questo processo continuò nel secolo successivo, quando molti governanti finanziarono l’erezione di nuovi straordinari edifici, e con essi la messa in opera di importanti monumenti, come le chiese di Cristiano iv a Copenhagen, o la sua cappella a Frederiksborg. Il fonte battesimale realizzato da Adrien de Vries per Ernst di Schaumburg-Holstein a Bückeburg, o la sua tomba a Stadthagen, possono essere annoverati tra i più importanti lavori di scultura di questo o anche di tutti i tempi. Lo spirito con cui fu realizzata la chiesa di Bückeburg è espresso da un’iscrizione sulla facciata, nella quale si dichiara che è un esempio non di ar-
chitettura, ma di religione. E così, oltre alle corti, le maggiori cattedrali protestanti furono costruite a Kristianstad e Kalmar in Svezia, la prima in uno stile tipico dei Paesi Bassi, l’altra in un aggiornato stile continentale. Molte chiese luterane in luoghi come la Slesia o la Svezia vennero spesso riempite di epitaffi, pulpiti scolpiti o dipinti, pale d’altare e stalli per il coro. Gli epitaffi e i monumenti funebri costruiti attorno al Baltico sono piuttosto sorprendenti. Due esempi della chiesa di Bad Doberan – in uno due governanti su un palcoscenico, nell’altro un generale a cavallo – indicano che la tendenza alla drammaticità e alla teatralità non fu una esclusiva dell’arte religiosa nel contesto cattolico. Nel mondo protestante, come in quello cattolico, la produzione artistica poteva anche essere intesa come risposta alle opportunità che aveva offerto la distruzione delle opere d’arte precedenti. Motivazioni teologiche, politiche ed estetiche si fecero strada nella realizzazione delle opere d’arte religiosa. In luoghi come l’Assia, i cui governanti passavano dal calvinismo aniconico al luteranesimo e viceversa, potevano essere necessarie nuove pale d’altare. Nella parrocchiale di Marburgo, dove un langravio luterano era succeduto ad uno calvinista, fu subito commissionata una pala d’altare in pietra scolpita per sostituire quella che era stata rimossa, poiché i luterani, a differenza dei calvinisti, tolleravano nelle chiese la presenza di opere d’arte. Altri disastri, come il grande incendio di Londra del 1666, crearono nuove opportunità per gli architetti (e gli artisti), anche nei paesi protestanti. Quando l’Inghilterra tornò alla fede anglicana con la restaurazione della monarchia degli Stuart nel 1660, si offrì a Christopher Wren e alla sua bottega l’eccezionale opportunità di progettare un gran numero di chiese, che ancora punteggiano la capitale inglese. Per concludere, va notato che certamente si diffusero nei paesi protestanti immagini con soggetti collegati alla storia e alla dottrina cristiana (ed ebraica), anche quando non erano direttamente destinate all’uso nelle chiese. Da un lato la tolleranza del Nord dei Paesi Bassi consentì che molte immagi-
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16. Anthony van Dyck, Carlo i a cavallo. Olio su tela, 1635-1636. National Gallery, Londra.
ni religiose venissero realizzate per singoli individui rimasti legati alla vecchia fede, e per le molte piccole chiese cattoliche che ancora esistevano nelle province settentrionali. Mentre il Nord divenne prevalentemente protestante, rimasero cattolici non solo molti artisti attivi a Utrecht, sede vescovile, ma anche importanti pittori in altri luoghi, come Jan Steen (1625 ca.-1679) e Jan Vermeer (1632-1675). D’altra parte si produssero immagini religiose in abbondanza anche per committenti protestanti. Sebbene i calvinisti non ammettessero immagini nelle loro pratiche religiose, essi e molti olandesi (e calvinisti tedeschi, come il langravio Maurizio d’Assia) furono certamente interessati alle arti, in particolare alla rappresentazione di temi dell’Antico e del Nuovo Testamento (gli olandesi si identificarono spesso con gli ebrei). Sebbene non venissero più impiegate per il culto, opere d’arte di soggetto biblico vennero considerate di interesse educativo, modelli di comportamento morale e anche di intrattenimento. Molti artisti olandesi realizzarono così stampe, disegni e dipinti tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento come dai Vangeli apocrifi. Di particolare rilievo è l’opera di Rembrandt e dei suoi allievi, che presenta una particolare versione dell’ideale contemplativo del xvii secolo. L’atteggiamento introspettivo di molti suoi personaggi è stato riferito al protestantesimo, in contrapposizione con le pratiche meditative cattoliche. La sua arte si concentra sulla visione interna dei singoli e l’illuminazione sembra suggerire la luce della rivelazione interiore che proviene dalla contemplazione, non la dimostrazione esteriore del divino. In ogni caso simili opere d’arte non erano destinate alle chiese e ci conducono nella sfera secolare. La sfera secolare
Pagine seguenti: 17. Jules Hardouin-Mansart (architettura) e Charles Le Brun (decorazione) Galleria degli specchi, 1678-1684. Versailles.
Nel corso del secolo crebbe di importanza la creazione di opere d’arte e d’architettura per la sfera secolare. Arte e architettura erano state d’altra parte sempre prodotte anche per destinazioni diverse dalle chiese o per altri
scopi rispetto a quelli religiosi, ma in questo periodo aumenta la domanda di opere che interessano la dimensione secolare, necessità che in alcune aree in particolare, come l’Olanda, era espressa da tutti gli strati sociali. Parallelamente si verificarono molti nuovi fenomeni associabili allo sviluppo della moderna nozione di art pour l’art. I governanti di molti paesi europei svolsero ancora una volta un ruolo guida in questo campo. In tutto il continente si costruirono residenze principesche, ampliate e decorate per divenire luoghi del potere e dell’autorità. L’esigenza di prestigio nella rappresentatività principesca provocò un’ondata di costruzioni competitive, che portò all’ampliamento di residenze esistenti, come lo Schloss di Heidelberg, e alla costruzione di molti sontuosi palazzi come Whitehall a Londra, il Buen Retiro, l’Alcázar e la Torre de la Parada a Madrid e nei dintorni, Wilanów fuori Varsavia, Frederiksborg presso Copenaghen, la Huis ten Bosch in Olanda, il Palais du Luxembourg a Parigi, e, più famoso di tutti, Versailles. Estesi giardini, come a Versailles, Heidelberg, Bruxelles, Herrenhausen e in altri luoghi, furono realizzati intorno, ornati da fontane, statue, aranciere. Tali progetti impegnarono gruppi di artisti e artigiani, tra cui alcune delle più insigni figure del tempo, da Inigo Jones a Rubens, Velázquez, alle équipe di Charles Le Brun, André Le Nôtre e Louis Le Vau. I programmi pittorici e scultorei di questi palazzi esaltavano il potere e il prestigio dei committenti. Ritratti e allegorie presentavano i governanti come generali vittoriosi, vincitori magnanimi, saggi patriarchi, capi generosi e compassionevoli. In accordo con la visione contemporanea dell’universo, secondo la quale il mondo consisteva in una lunga catena che univa il divino con l’umano e il naturale, il monarca, al vertice della gerarchia terrestre, ne costituiva l’anello più importante. Si riteneva che il re avesse un’autorità assoluta sul suo regno in terra: a sostegno di questa idea, così come di aspirazioni concrete, territoriali o dinastiche, si impiegava tutta una serie di immagini. I dipinti di Rubens e di molti altri artisti, nei quali i monarchi ap-
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paiono rappresentati quasi come divinità, riflettono il concetto del diritto divino del re a governare; si è sostenuto che queste immagini fossero segni della creazione di una sorta di «apoteosi secolare», in cui il sovrano assume un aspetto divino. Anche l’ambiente poteva essere rimodellato per esprimere il potere del sovrano. La progettazione di immensi, splendidi giardini simboleggiava il controllo del sovrano sulla natura, e quindi sul mondo. La disposizione e il programma simbolico di Versailles, dove un corso d’acqua centrale si dirigeva verso gli appartamenti reali, e le fontane costituivano una complessa trama universale, suggerivano il potere e la centralità del monarca. Le strade della città adiacente si irradiavano secondo uno schema centrato sulla camera da letto del re che, a sua volta, era orientata in direzione del sole (Luigi xiv era il re-Sole), in modo tale che tutto emanasse dalla presenza del re. Nella promozione delle arti da parte dei governanti l’esigenza di apparire assunse anche la forma di un consumismo competitivo, che si manifestò nella nascita e nell’ampliamento delle collezioni. Dal tempo di Rodolfo ii (1576-1612), che aveva spostato la corte imperiale a Praga, grandi raccolte erano state costituite in Europa centrale. La collezione di Rodolfo, come quelle di altri principi tedeschi, assunse la forma della Kunstkammer, nella quale rarità naturali stavano accanto a opere d’arte. Tali accostamenti incongrui comunicavano un messaggio di regalità. Possedendo tutto quanto potesse essere rinvenuto al mondo, il governante veniva considerato il suo possessore o controllore nel microcosmo; egli poteva rivendicare, come altre immagini realizzate per l’imperatore dimostrano, il controllo sul macrocosmo, sul mondo intero. Sebbene le collezioni costituissero una tale forma di rappresentazione, intervenivano anche il genuino interesse del conoscitore e l’amore per l’arte, come dimostrano Rodolfo e altri sovrani che furono anche artisti. Il ruolo dell’artista di corte, libero da obblighi corporativi e abile nel soddisfare le richieste del suo signore, divenne sempre più prevalente. Artisti come Hans von Aachen,
pittore di corte di Rodolfo, e Rubens vennero impiegati anche per altri incarichi, tra cui missioni diplomatiche. Oltre alle Kunstkammern sorsero nel xvii secolo gallerie di dipinti strictu sensu. Sembra che i dipinti e le sculture di Rodolfo fossero in parte tenute separate, quando non si esponevano in modo sontuoso. Molte altre collezioni, più esclusive, si formarono in seguito. Non solo piccoli principi, o personaggi di rilievo come lo statolder arciduca Leopoldo Guglielmo, ma anche potenti sovrani come Carlo i d’Inghilterra e Filippo iv di Spagna formarono grandi collezioni di dipinti. Poiché sul finire del secolo il collezionismo di opere d’arte era divenuto de rigueur per un governante, ragioni di stato portarono alla creazione delle raccolte reali francesi di dipinti e bronzi. Mentre Luigi xiv era del tutto indifferente al collezionismo di dipinti, se ne incaricarono i suoi ministri, al punto che la corona finì col riunire collezioni ricchissime. L’esempio offerto dai principali monarchi non fu solo largamente emulato dagli altri governanti europei, ma seguito anche da aspiranti aristocratici. «Uomini nuovi» come Wallenstein e altri che emersero con la guerra dei Trent’anni, compresi i membri di antiche famiglie come i Dietrichstein, i Liechtenstein e i Lobkowitz, eressero grandi residenze in Boemia, Moravia e Austria. Wallenstein costruì il più grande palazzo di Praga e iniziò la trasformazione su larga scala di un’intera città (Gitschin/Ji/ ín), per farne la capitale del suo nuovo ducato. Un generale svedese come Wrangel agì allo stesso modo, fissando a Skokloster una grande residenza con una collezione. Si può dire in un certo senso lo stesso del «Grand Condé», il generale francese le cui proprietà di famiglia si possono ancora vedere a Chantilly. In Spagna collezionisti come Haro accumularono ingenti quantità di opere d’arte, e lo stesso accadde in Inghilterra, in particolare prima e dopo la Guerra Civile. Ciò ebbe però anche inaspettate conseguenze negative: in Francia il banchiere Fouquet cadde in disgrazia e venne imprigionato perché lo splendido castello e il giardino realizzati a
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Vaux-le-Vicomte furono interpretati come atti di lèse-majesté, e Luigi xiv gli sottrasse l’équipe di artisti (Lebrun e altri) che aveva lavorato per lui. Anche il duca di Buckingham, un altro avido mecenate e collezionista, sembra aver suscitato gelosie ostili. Il mecenatismo e il collezionismo artistico reale e aristocratico non erano fenomeni nuovi. Sovrani e nobili avevano da sempre utilizzato le arti per esprimere il prestigio, legittimare il potere, esibire le virtù e manifestare le proprie esigenze. Ciò venne giustificato con il ritorno e la riformulazione della dottrina rinascimentale della magnificenza, secondo la quale si potevano dimostrare le proprie virtù attraverso l’ostentazione del lusso. Nel xvii secolo mutarono comunque sia le dimensioni sia la leggibilità delle forme di espressione. Si costruirono palazzi sempre più grandi, mentre le piccole residenze urbane o le ville del Rinascimento cedettero il passo ad un ethos di grandiosità. La complicata residenza di Wallenstein nel «lato piccolo» di Praga anticipa una tendenza verso palazzi di dimensioni sempre maggiori, strutture con più di cinquanta finestre, come palazzo \ernín sempre a Praga, o l’ampliamento leopoldino dell’Hofburg di Vienna. Si riteneva che le lunghe serie di finestre fossero un elemento di grandezza. I progetti per i palazzi reali inglesi a Winchester, Hampton Court e Greenwich furono ancora più grandiosi. Se questi non vennero completamente realizzati, Versailles esprime bene il tipo di effetto finale che il desiderio di magnificenza poteva raggiungere. Insieme agli edifici, anche le collezioni crebbero notevolmente di scala. Mentre nel tardo Cinquecento lo studiolo di un governante come il duca Francesco i era ancora limitato ad un unico ambiente, Rodolfo ii ricostruì un’ampia porzione del palazzo sul Hrad/any a Praga per ospitare le sue collezioni, che contavano migliaia di dipinti. Era l’inizio dell’età dei «megacollezionisti», quando sovrani come Filippo iv di Spagna collezionavano capolavori a migliaia. Con il crescere di dimensioni e quantità, si trasformò anche la varietà di espressioni
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nelle allegorie e nei ritratti. L’allegoria continuò a costituire il linguaggio espressivo preferito, ma, come nella pittura religiosa, i messaggi vennero presentati in modo sempre più chiaro e in formato maggiore. Hans von Aachen, artista alla corte di Rodolfo ii, aveva raffigurato le vittorie militari del sovrano in una serie di piccoli dipinti a olio su pergamena destinati probabilmente ad essere raccolti in un libro, pieni di figure oscure e emblematiche. Velázquez e gli altri pittori di corte di Filippo iv riempirono invece il Salón de Reinos nel palazzo del Buen Retiro di immense tele con le vittorie spagnole, con personaggi facilmente identificabili e messaggi chiaramente leggibili. Pittori tedeschi e svedesi realizzarono ugualmente descrizioni delle vittorie svedesi in grandi pannelli per il palazzo reale di Drottingholm, con iscrizioni esplicative. Le Brun, i suoi collaboratori e altri artisti glorificarono le vittorie del re in dipinti e arazzi per i castelli francesi; i cicli di Rubens con Enrico iv e Maria de’ Medici vennero analogamente progettati per decorare metri e metri di pareti nelle residenze reali. Allo stesso tempo l’interesse e il coinvolgimento nelle arti non si limitò alle classi sociali più elevate, e la scala della produzione artistica si ampliò per andare incontro alle esigenze di un sempre maggior numero di membri della società. In alcune aree la prosperità economica consentì a mecenati borghesi di erigere municipi e altre strutture civiche. Anche i patrizi costruirono e ornarono le loro eleganti residenze. Edifici pubblici e privati di particolare importanza sorsero nelle città dei Paesi Bassi, a Danzica e a Elbing/Elblag (prima ‘ di Gerdella distruzione), e nei centri urbani mania – Amburgo, Augusta, Norimberga. I principali architetti e capimastri ricevettero commissioni per progettare edifici pubblici, e stili aggiornati furono adottati anche per le nuove abitazioni erette da ambiziosi patrizi. Le case delle corporazioni ricostruite alla fine del secolo sulla Grand’Place di Bruxelles appaiono come una straordinaria sequenza di splendide residenze aristocratiche. Patrizi e aristocratici promossero in molti paesi europei la realizzazione di opere e og-
getti d’arte. Come i sovrani e gli aristocratici, anche i borghesi aspirarono ad avere il proprio ritratto. Nei Paesi Bassi in particolare, ma anche in Francia e in Inghilterra ciò portò alla creazione di molte opere memorabili di artisti come Rembrandt. Gruppi civici, comprese le compagnie di guardie, responsabili di istituzioni caritatevoli, corporazioni e altre associazioni, come quelle dei medici o dei chirurghi, si facevano ritrarre in gruppo, e alcuni dei più famosi dipinti di Rembrandt e Frans Hals sono frutto di tali commissioni: La Ronda di Notte, La Lezione di anatomia del dottor Tulp, I Reggenti dell’ospizio dei vecchi, come pure sono da ricordare molte delle compagnie di guardie di Hals. La pittura di storia di tema profano venne richiesta anche per gli edifici pubblici. Si realizzarono anche tipi differenti di dipinti e di oggetti. Disegni e stampe, spesso prodotti in grande tiratura, potevano soddisfare le esigenze di chi, privo di mezzi sufficienti, desiderava decorare le pareti di casa o del luogo di lavoro (che spesso coincidevano). Gli inventari nei testamenti olandesi mostrano il grande numero e l’ampia varietà degli oggetti che si trovavano nelle case della classe media. Anche la domanda di oggetti si diffuse ulteriormente. I visitatori del Nord dei Paesi Bassi riferivano che persino i fabbri e i contadini ornavano con dipinti i luoghi di lavoro o le case, cosa che dette luogo ad un enorme flusso di immagini. Secondo una stima plausibile, nel xvii secolo si produssero alcuni milioni di dipinti olandesi e le stampe raggiunsero certamente un numero ancora superiore. Per rispondere a questo notevole incremento di produzione e di collezionismo, diffuso nei più diversi gruppi sociali, nacque un vivace e florido mercato per ogni tipo di produzione artistica. Molte opere non venivano realizzate su commissione, ma per essere vendute direttamente sul mercato, per speculare, o come riserva per opportunità future. Al livello più alto, la vendita di prestigiose opere d’arte suscitò risposte febbrili, come dimostrano le vendite di opere di grandi maestri avvenute in occasione della dispersione di grandi collezioni, come quel-
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18. Rembrandt van Rijn, La Ronda di notte. Olio su tela, 1642. Rijksmuseum, Amsterdam.
le del duca di Mantova o di Carlo i (che era stato decapitato). Il mercato era però ancora più vasto. Dipinti erano spediti dalle Fiandre e dalla Spagna nel Nuovo Mondo, mentre il cuore del mercato rimaneva, se non Anversa, nel Nord dei Paesi Bassi. L’esistenza di un mercato ebbe ripercussioni sulla produzione artistica: la creazione di opere per il mercato significava che queste non venivano più realizzate per specifiche funzioni, ma per rispondere alle richieste del gusto del pubblico. Col crescere del mercato gli artisti iniziarono a ritagliarsi una propria nicchia. Questa tendenza favorì la comparsa di distinte specializzazioni artistiche e di conseguenza la
proliferazione di nuovi generi pittorici. Tale specializzazione venne stimolata quando gli artisti scoprirono di potersi guadagnare da vivere concentrandosi in un genere o in un sottogenere pittorico (o altre tecniche) che portavano loro clienti o garantivano successo sul mercato. La pittura di storia, cioè di significative azioni umane di soggetto religioso o profano, continuò ad essere la più considerata, mentre l’ideale dell’artista universale veniva incarnato dall’artista in grado di eccellere in tutte le arti e, per estensione, dal pittore in grado di padroneggiare tutti i generi. Cominciarono a sorgere atelier specializzati nella produzione di specifici generi pittorici. Dal
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secolo, accanto alla pittura di storia, alle idilliche scene pastorali, e alla ritrattistica di gruppo o di singoli, molti nuovi tipi avevano proliferato, associati ad alcune delle più caratteristiche realizzazioni artistiche contemporanee. Artisti in Spagna, Italia, Francia e nei Paesi Bassi dipinsero, disegnarono e incisero diverse scene quotidiane che più tardi sarebbero state definite pittura «di genere». Alcuni dipinti, in particolare quelli di maestri italiani, rappresentano professioni e mestieri. In Spagna i bodegones presentano personaggi umili, come l’Acquaiolo di Velázquez. Erano specialisti in questo genere di pittura soprattutto gli artisti d’oltralpe, di Francia e dei
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Paesi Bassi. Di fatto il termine italiano «bambocciate» si riferisce a dipinti con scene pittoresche di strada o di villaggio (in particolare di Roma) realizzati da pittori fiamminghi, membri di una colonia di artisti nordici, soprattutto dei Paesi Bassi, che vivevano al Sud. Negli stessi Paesi Bassi la pittura di genere assunse forme diverse; come in Italia e in Spagna si diffusero dipinti con contadini e altri tipi umili, spesso all’interno di osterie o locali analoghi, mentre litigano o gozzovigliano. Dipinti con personaggi di ceto basso, o anche di livello sociale più alto, che si abbandonano a bagordi, si definivano ugualmente «allegre compagnie». Tra i diversi temi trat-
19. Michelangelo Merisi detto Caravaggio, La canestra di frutta. Olio su tela, 1595. Pinacoteca Ambrosiana, Milano.
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tati vanno anche ricordati gli interni rurali e borghesi e le scene di soldati nelle caserme. Durante il xvii secolo gli artisti ricorsero sempre più al paesaggio che li circondava e ciò assunse forme differenti ed ebbe cause diverse. Artisti francesi, provenienti dalla Lorena, e italiani attivi a Roma e nella campagna circostante crearono un tipo di paesaggio in cui gli elementi naturali venivano selezionati per creare una visione ideale del mondo. Vicini all’orientamento antiquario e al gusto di una città dove le vestigia del passato erano costantemente sotto il loro sguardo, ebbero una visione del mondo diversa da quella dei loro omologhi dei Paesi Bassi. Qui la rappresentazione del paesaggio uscì dalla percezione panoramica del xvi secolo per volgersi a vedute più locali. Abbandonando i paesaggi montuosi e le scene d’ispirazione fantastica, questi maestri si ispirarono alla loro terra pianeggiante per disegnare e dipingere vedute dal vero, naer het leven. Lo sguardo acuto sul mondo portò alla rappresentazione anche di terre lontane e gli olandesi furono tra i primi a dipingere paesaggi del Brasile. Essi furono anche attratti dal mare e dalla città. Era come se, citando un antico modo di dire, gli olandesi fossero particolarmente interessati alla realtà che li circondava. Oppure, come riportano osservatori contemporanei, fu la mancanza di terra a far sì che gli artisti olandesi fossero tanto desiderosi di dipingerla, come una sorta di surrogato. In ogni caso questi artisti realizzarono nel xvii secolo più dipinti di paesaggio di qualunque altro genere pittorico e ciò significa che vi sono stati più dipinti di paesaggio che qualsiasi altro genere di pittura in Europa. Alla fine del xvi secolo appare la natura morta come genere autonomo. In seguito venne realizzata da artisti nella maggior parte dei paesi europei, dalla penisola iberica all’Europa centrale. Si fecero dipinti con frutta, fiori e ogni tipo di oggetti. All’interno del genere gli artisti svilupparono ulteriori specializzazioni come la raffigurazione degli strumenti musicali. Insieme alla natura morta si sviluppò un altro genere, la raffigurazione di animali in composizioni autonome.
Da quando gli artisti iniziarono a rispondere alle esigenze generali di un mercato e di una clientela in crescita continua, produzione e ricezione delle opere d’arte si intrecciarono sempre più. Così insieme al mercato si svilupparono le collezioni e il pubblico divenne sempre più sofisticato. Insieme al collezionismo si sviluppò la connoisseurship e così fece la letteratura sulle arti. Autori del xv secolo come Leonardo e Leon Battista Alberti hanno dato inizio alla moderna letteratura artistica, trattando le arti figurative come ogni altro argomento meritevole di un approccio intellettuale. È certamente significativo che le loro opere non siano state pubblicate se non molto tempo dopo – e quelle di Leonardo non prima della metà del xvii secolo, quando era venuto a maturazione un particolare interesse. Mentre alla metà del secolo precedente Giorgio Vasari aveva scritto le biografie degli artisti e altri scrittori avevano sviluppato le loro teorie artistiche, soltanto durante il Seicento si sviluppò un più ampio interesse per tali questioni. Biografie di artisti, teorie sull’arte e manuali tecnici si diffusero in tutta Italia, e divennero un fenomeno di raggio europeo. Oltre a figure come Carlo Ridolfi a Venezia o Carlo Cesare Malvasia a Bologna, Francisco Pacheco in Spagna, Karel van Mander in Olanda, Joachim von Sandrart in Germania, Edward Norgate in Inghilterra, André Félibien in Francia, per menzionarne solo alcuni, scrissero opere sulle arti e la loro storia. Il discorso intellettuale sull’arte ebbe conseguenze di natura istituzionale. Un’accademia d’arte venne fondata a Firenze alla metà del xvi secolo e accademie informali di artisti esistettero a Roma dal 1600 circa. Nel xvii secolo ne vennero fondate in numerosi altri paesi; a Utrecht nei Paesi Bassi, a Norimberga e Augusta in Germania e, cosa più importante, nella Francia di Luigi xiv vennero create istituzioni ufficiali per insegnare l’arte. L’accademia francese prova come, oltre ai corsi di istruzione pratica, si tenessero regolari cicli di lezioni. La Teutsche Academie di Joachim von Sandrart, impegnato nell’istituzione delle accademie di Augusta e No-
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rimberga, indica quanto tra loro congruenti fossero questi diversi tipi di interessi: il libro di Sandrart contiene le vite di artisti antichi e moderni, istruzioni pratiche, informazioni sulle collezioni, una compilazione sulla scultura antica, l’architettura e i vasi, spiegazioni sulle Metamorfosi di Ovidio e altre informazioni iconografiche, tutto quanto potesse insomma istruire ed aiutare un artista. Lo sviluppo di un discorso sulle arti tocca infine la questione delle relazioni tra le arti figurative e le altre forme di attività intellettuale, compresa la scienza, campo nel quale, com’è noto, si ebbero notevoli sviluppi proprio nel corso del secolo. Vi sono precisi collegamenti storici tra alcune figure di rilievo – Anton van Leeuwenhoek fu l’esecutore testamentario di Vermeer, mentre Galileo era in rapporti con il pittore Cigoli –, e in molti campi era facile stabilire legami. Vermeer e altri pittori si valsero verosimilmente di lenti. Dipinti con edifici e architetture richiedevano sofisticati procedimenti prospettici, collegati alla geometria matematica. La pittura di fiori e di piante, di origini antiche, seguendo la tradizione degli erbari diede luogo a libri
con incisioni di fiori. La pittura di animali, specialmente delle specie rare, può essere messa in modo analogo in relazione con lo sviluppo della storia naturale. Nature morte, dipinti di animali e paesaggi rispecchiano un interesse nell’osservazione collegabile con l’approccio empirico di molta scienza del xvii secolo. La grande trasformazione della scienza del xvii secolo fu in relazione con la quantificazione della natura. La verità della natura doveva essere rivelata con numeri e non con figure o simboli. La scienza fu quindi sempre più legata alla matematica piuttosto che alle immagini. All’inizio del xxi secolo la scienza si intreccia ancora di più con la ricerca del genoma umano, le scienze della vita e la medicina, che divengono nuclei di grande interesse per la ricerca, e ancora oggi rappresenta un elemento fondamentale di studio. Durante il xvii secolo le condizioni della produzione, le forme di espressione e le riflessioni sulle arti figurative subirono una trasformazione, e nel loro approccio empirico possono ancora essere collegate con le attitudini che modellano la cultura del xxi secolo.
20. Johannes Vermeer, Allegoria delle arti. Olio su tela, 1662-1665. Kunsthistorisches Museum, Vienna.
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1. Guillaume Coustou i, Cavallo di Marly (l’originale, in marmo, è conservato al Museo del Louvre), 1740-1745. Giardini del palazzo de Marly, Place de la Concorde, Parigi.
Riassumere in alcune pagine uno dei periodi più fecondi dell’arte occidentale pare una scommessa impossibile, tanto il numero degli artisti (architetti, pittori, scultori, ebanisti, ceramisti, incisori, miniatori, ecc.) è incomparabilmente elevato. Tuttavia, pur non aspirando all’esaustività, è possibile presentare una sintesi di questo secolo che la posterità, riferendosi soprattutto alla letteratura, ha convenzionalmente chiamato Secolo dei Lumi. Alcuni autori hanno osservato che questi lumi, almeno in Francia, avevano assunto non tanto l’aspetto di un’aurora, quanto di un crepuscolo. E senza dubbio si tratta proprio di ciò: della fine di un mondo e dell’avvento di una nuova civiltà. Vi sarebbero così diversi secoli xviii: gli ultimi quindici anni del regno di Luigi xiv sviluppano uno stile peculiare; dai pochi anni della Reggenza di Filippo d’Orléans emerge un forma stilistica propria; al contrario, il regno di Luigi xv non è monolitico dal punto di vista dell’emergenza delle forme, dei movimenti artistici, tanto meno da quello dell’incommensurabile diversità delle personalità artistiche. Rimanendo in Francia, vero motore delle arti europee, come conciliare il regno di Luigi xvi con la Rivoluzione e con la nascita del nuovo classicismo, che getterà le basi, con la fondazione dell’Impero, di un nuovo accademismo? Esiste, d’altra parte, un solo e unico xviii secolo, comune all’intera Europa? Esso è delimitato esclusivamente dallo spazio cronologico compreso fra il 1701 e il 1801? Riferendosi alla cronologia spagnola, il Secolo dei Lumi nasce insieme al secolo, con l’avvento di Filippo v. Rispetto all’Inghilter-
ra, o alla Francia, si deve constatare che le date chiave della storia monarchica (la storia dell’Ancien Régime, ossia di questo secolo di «decadenza») slittano al secondo decennio del xviii secolo: Giorgio i sale al trono nel 1714, e Luigi xiv muore il 1° settembre 1715. Si sarebbe piuttosto tentati, riguardo all’arte francese, di situare l’inflessione stilistica attorno al 1701, quando Luigi xiv prende possesso delle sue nuove stanze nella reggia di Versailles e dà impulso, in controtendenza rispetto all’accademismo irrigidito, al rococò. Quanto alla conclusione di questo brillante secolo, andrà collocata nel 1804, con l’incoronazione dell’imperatore Napoleone i nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi, oppure a ridosso dell’esecuzione di Luigi xvi nel 1793, anno della creazione da parte di Jacques-Louis David di quell’icona, sempre moderna, che è il Marat assassinato? D’altra parte, perché limitare all’arte francese tutto il periodo, quando la Spagna conosce nell’arte, con il brillantissimo regno di Carlo iii, una nuova età dell’oro; quando l’Inghilterra, in un periodo in cui fonda la sua preponderanza politica ed economica, costituisce le proprie norme stilistiche, che influenzeranno gli artisti da Goya a Delacroix? Tuttavia, nonostante le disparità fra gli stili, fra il peso di queste «nazioni» ancora in gestazione, una stessa anima vivifica l’Europa, mai così unita in seno ad un movimento culturale e di civilizzazione: questo «movimento» è l’Illuminismo. Il Rinascimento, dall’Italia orgogliosa del proprio passato romano, aveva toccato tutti i paesi, passo dopo passo, gettando le basi di un’armonizzazione che come sintomo ebbe il rifiuto della forma
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«gotica». Ma né il romanico, né il gotico, né il Rinascimento diedero luogo in Europa a una rimessa in discussione tanto radicale quanto quella vissuta dal xviii secolo. Da Watteau a Goya, da Pöppelmann e Gabriel a Boullée, da Coustou a Canova, nacque la modernità. Essa non si presentò come un rifiuto brutale dell’arte precedente, ma piuttosto come la sintesi di tutto ciò che l’Europa aveva elaborato a partire dal Rinascimento italiano; il quale, fondandosi sulla volontà di ritrovare il vero nel labirinto dell’Antico, aveva rivelato al mondo occidentale la fragilità, ma anche la perennità della sensibilità umana. Basta leggere Jovellanos, Mengs o Diderot per comprendere un elemento radicalmente nuovo nel carattere di questa mutazione degli stili: gli stessi artisti, e Goya sarà fra loro il più totalmente moderno, coltiveranno la conoscenza e la volontà di tale sintesi. Si è lontani, negli anni attorno al 1770, dai rifiuti codificati dal Rinascimento, nonostante i rigidi tentativi di Mengs di orientare a un purismo d’avanguardia il rinnovamento dello stile greco. Tutte queste intuizioni, che si presentano intrecciate allo studioso del xviii secolo, hanno prodotto interpretazioni multiple di questo secolo d’eccezione. In Francia, la Rivoluzione si era imposta come la chiave di volta di tutto il sistema interpretativo positivista: si volle leggere nella storia il movimento irriducibile del progresso e in suo nome si condannarono le divagazioni edoniste del secolo per rinforzare il valore morale dello stile neogreco. Tale interpretazione ci interessa nella misura in cui è frutto di artisti, come Jacques-Louis David, compromessi politicamente con la Rivoluzione. Jovellanos concepisce il xviii secolo come un ritorno alla grandezza dell’arte spagnola, indissociabile dalla celebrazione dell’ascesa al trono di Spagna della dinastia dei Borbone. Winckelmann diffonde una teoria radicale concernente la storia dell’arte: «Le arti che dipendono dal disegno hanno avuto origine, come tutte le invenzioni, dalle cose necessarie; in seguito si manifestò in esse una ricerca della bellezza alla quale seguì infine il superfluo: sono questi i tre stadi principali dell’arte»
(Storia dell’arte nell’Antichità, Roma 1764, parte prima, Esame dell’arte relativa alla sua essenza, cap. 1, incipit). Nessun dubbio che per l’autore il xviii secolo corrisponda al regno del superfluo e dell’estremo. Si percepiscono oggi tutti i limiti di questo pensiero sistematico, che senza dubbio non intendeva solamente rintracciare le strutture dell’evoluzione degli stili, ma anche e soprattutto riformare l’arte dei suoi tempi. Per rendere conto il più correttamente possibile di questi anni così fondamentali nell’affermazione della modernità, è necessario ritrovare il «respiro» del secolo. È nella cesura, nella prosodia del groviglio degli stili, che ci si mantiene fedeli all’umiltà di ricezione di ciò che il xviii secolo europeo ha prodotto. Evidentemente, come annunciato nel preambolo, non si tratta di aspirare in poche righe a un’impossibile esaustività, quanto di dare al lettore una chiave che gli permetta, invece di forzare la serratura mediante un’interpretazione semplicistica, di farsi incontro al linguaggio di questo secolo, in cui la duplicità dei sensi fa comprendere, nelle forme, le motivazioni dello spirito dei Lumi. Il ritorno alla natura In cosa conosce l’arte, lungo questo secolo essenziale per il suo sviluppo, una fioritura radicalmente innovatrice? Indiscutibilmente, per esprimere la questione in maniera sintetica, nella riscoperta della natura, al di là delle convenzioni dell’Accademia, dell’arte di corte e del gusto classico. Dalle considerazioni di un Antoine Coypel, che dichiara che «bisogna unire alle solide e sublimi bellezze dell’Antichità le ricerche, la varietà, l’ingenuità e l’anima della natura», a Diderot, che nel settimo decennio ridicolizza gli artisti incapaci di guardare la vera natura, è all’opera il medesimo pensiero, nonostante l’evoluzione che il termine natura conosce da un capo all’altro del secolo. Si incontrerà anche in David, fondatore del ritorno al classico nell’arte della pittura, un elogio della natura, concepita non come libera e ostina-
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2. Jean-Antoine Watteau, Pellegrinaggio all’isola di Citera. Olio su tela, 1717. Museo del Louvre, Parigi.
ta espressione del realismo, ma come esatta comprensione dello spirito dell’Antichità. Tutti gli artisti del secolo – a parte quelli della corte di Luigi xv, che, come François Boucher, lavorarono nel gusto della cerchia ristretta di Madame de Pompadour – hanno ricercato il vero, l’espressione di una natura ritrovata e necessaria alla loro creazione. Si deve insistere sul particolarismo dell’arte francese del xviii secolo: modello comune all’intera Europa, l’arte francese ha quantomeno due volti. Da una parte, la Corte di Luigi xv si isola in una teatralità formale che conduce l’arte del pittore principalmente alla decorazione di interni di palazzi; dall’altra Parigi, in reazione alle convenzioni di Versailles, diviene il centro della creazione artistica e si impone come tale. Se le opere di Chardin sono esposte a Versailles, offerte al re dallo stesso artista, invitato da Madame de Pompadour, gli artisti dell’Accademia
sapranno trovare mecenati non più forzatamente di ascendenza reale, ma borghese; grandi acquirenti di dipinti da cavalletto che troveranno posto nei cabinets d’amateur. Se c’è una vera reazione contro il secolo di Luigi xiv, essa si produce a contatto con la dottrina accademica, troppo presto irrigidita per compiacere un protocollo di corte che non ha resistito al volgere del secolo. La teoria artistica del Grand Siècle riposava sui principi definiti dall’Accademia e generalizzati dall’insegnamento di Charles Le Brun. «Cosa mentale», diceva Poussin riguardo a Leonardo: la pittura si definiva attraverso il primato del disegno e aveva come scopo l’espressione delle passioni umane. In sostanza, in questa definizione restrittiva che si richiamava allo stesso Nicolas Poussin, parevasi aver scordato l’essenza della definizione del maestro, che vedeva in questa «cosa mentale», che è l’arte del dipingere,
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«un’imitazione, per mezzo di linee e colori, di tutto ciò che si vede sotto il sole» e il cui «fine è il diletto». Joseph Parrocel (1648-1704), Charles de La Fosse (1636-1716) e Jean Jouvenet (1644-1717) incarnano perfettamente i pittori della transizione stilistica, realizzando grandi composizioni decorative a Versailles (l’appartamento interno del re, la volta della cappella) e poi a Parigi (la cupola degli Invalides), nel gusto affermato del colore e della freschezza dei veneziani. L’impulso impresso alla pittura religiosa da Jouvenet o da La Fosse, affrancandosi bruscamente dalle costrittive convenzioni che riposavano sull’ideale romano, conosce il suo apogeo in Jean Restout (1692-1768), che verso il 1730, con la Morte di santa Scolastica (Musée des Beaux-Arts, Tours), mediante un linguaggio fatto di pudore e semplicità mostra l’intensità di un sentimento religioso che riposa sulla sola eloquenza delle forme. Ma si tratta, fino alla morte di Luigi xiv, di rari tentativi di transizione. La vera rivoluzione stilistica si produce durante la Reggenza. La figura più emblematica della nuova pittura è Antoine Watteau (1673-1721). Nato a Valenciennes, vicino alle Fiandre, il suo modello sarà Rubens più che Poussin. La sua carriera si concentra in nove anni, dall’ammissione all’Accademia nel 1712 alla morte prematura. In occasione dell’accoglimento di Watteau in seno all’Accademia, il presidente della nobile compagnia, lo scultore Corneille Van Clève, concede all’artista la libertà di scegliere la sua opera di réception. Watteau diverrà effettivo dell’Accademia nel 1717 con la presentazione de L’imbarco per l’isola di Citera, tema nuovo nella storia della pittura, a immagine del nuovo secolo, assetato di travestimenti e metamorfosi. Nell’opera, nuova interpretazione del Giardino d’Amore di Rubens, i personaggi si rivelano come individui, sofferenti, melanconici, appassionati, preda del tempo. La festa dell’amore è passata, la melanconia invade i cuori: comincia allora il miracolo della pittura. Proprio il tempo è uno dei perni della ricerca estetica del secolo, non più l’atemporalità degli dèi apollinei o dei
monarchi divinizzati. Il tempo è esso stesso rivelatore dello spirito della natura, vissuto nel sentimento fugace di un’irrimediabile nostalgia. La fugacità del tempo è senza dubbio il principale (forse l’unico?) tema di Watteau. Senza dubbio è la ragione per cui l’artista incarna perfettamente lo spirito della nuova umanità di cui il xviii secolo è la culla. L’acuto senso della modernità si mantiene intatto da Watteau al primo Goya: ciò che colpisce nei ritratti dell’artista aragonese, nei ritratti della famiglia reale come in quelli di parenti o amici, è la natura messa a nudo, umile presenza ridotta a un istante nello svanire del tempo. Da questo tourbillon melanconico, due cose si annullano reciprocamente attraverso il secolo: l’evanescenza delle forme e la teatralità della rappresentazione. Il teatro è onnipresente: nelle scene galanti, le fêtes galantes di Watteau, come nei travestimenti, secondo i ritratti ufficiali di Nattier o di Natoire, ritrattisti di Luigi xv, o le majas e i manolos madrileni di Carlo iii e Carlo iv, fino al Pranzo di Carlo iii di Paret y Alcazar. Mentre si afferma l’irreversibile necessità di mostrare l’umanità nella sua costante evanescenza, nella fragile coscienza delle sue miserie – di cuore, di spirito, di corpo –, la rappresentazione pittorica acquisisce una libertà inedita, la pittura a olio raggiunge il suo apogeo di libertà e sottigliezza. Il discorso è nel non detto, nella suggestione dei sensi, nella ricerca della vibrazione di una luce sopra un dettaglio anodino. Watteau incarna in modo così perfetto lo spirito del secolo, che sembra contenere fino allo sbocciare del classicismo o della sua condanna goyesca, che i suoi capolavori si impongono come icone della nuova pittura. All’Imbarco per l’isola di Citera, errare malinconico nel giardino d’Amore, risponde La Mostra da Gersaint, vero miracolo di rappresentazione dell’invisibile instabilità dell’istante: ultimo capolavoro del maestro francese, il più perfetto del secolo, dipinto in otto giorni per «sgranchirsi le dita» e destinato a essere esposto (come un’insegna) sulla strada per attirare i passanti. Questa opera magistrale afferma, se ce n’era bisogno, il
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3. Jean-Antoine Watteau, La Mostra da Gersaint. Olio su tela, 1720. Palazzo di Charlottenburg, Berlino.
sentimento della natura, se non addirittura la devozione verso di essa, tratto distintivo di Watteau. L’influenza duratura che Watteau ebbe sul suo secolo, da Boucher a Tiepolo, Gainsborough o Goya, fu segnata dal genio, non dalla ripercussione immediata, solo effetto della moda; la quale ispirò la pratica di scene di genere galante in artisti che, come Nicolas Lancret (1690-1743) o Jean-Baptiste Pater (1695-1736), seppero trovare una clientela fedele per tale genere di composizioni. La raccolta incisa delle opere di Watteau, edita da Jean de Julienne, procurò all’artista una gloria postuma impensabile in vita. L’influenza delle incisioni del Recueil Jullienne fu considerevole: da François Boucher, che vi partecipò come incisore e su cui si formò il gusto, fino a Gabriel de Saint-Aubin (1724-1780), maggiore artista della seconda metà del secolo, che privilegiò l’incisione e
il disegno, o a Gainsborough, che a esse si ispirò. Tale ritorno alla natura, verso una natura diversamente interpretata secondo lo «spirito del vero», è ancora particolarmente sensibile nell’arte della scultura. I Cavalli di Marly (Louvre, Parigi), eseguiti da Guillaume Coustou i dal 1740 al 1745 per rimpiazzare La Fama e il Mercurio di Antoine Coysevox (1701-1702; Louvre, Parigi), sottratti da Marly per ornare l’entrata del giardino delle Tuileries a Parigi, segnano la fine della composizione mitologica eroica: laddove gli dèi apollinei dispiegavano la grazia del loro potere, le forze della natura eroica invadono le composizioni di Coustou. Stalloni indomabili, anatomie di una forza ineguagliabile rimpiazzano gli ornamenti simbolici delle rappresentazioni degli dèi classici. Tale ritorno al vero, alla figurazione umanamente plausibile, leggibile nella scultura, sarà proprio dei
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più grandi artisti francesi del xviii secolo, da Jean-Baptiste Pigalle ad Augustin Pajou, a Clodion. Questi artisti di profondo genio innovatore si inscrivevano nel logico sviluppo della nuova figurazione di René Frémin o di Pierre Lepautre, la cui abile freschezza aveva ornato, negli ultimi anni del regno di Luigi xiv, il parco del castello di Marly. Sotto il regno di Luigi xvi si osserverà una tendenza al ritorno alla figurazione rigida del classicismo, ma l’arte degli Houdon o dei Pierre Julien sarà segnata, nel profondo del suo rigore, dall’avvento della natura, «del vero», per riprendere l’espressione chiave dei critici del tempo, al cuore della rappresentazione. L’avvento del rococò Si possono distinguere, nei primi passi del nuovo regno, segni che annunciano le nuove tendenze stilistiche che formeranno il carattere proprio della Versailles di Luigi xv. Il Salon d’Hercule (opera di collaborazione di Robert de Cotte, François-Antoine Vassé, Jacques Verbeckt e François Le Moyne, inaugurata da un bal paré in occasione del
matrimonio della figlia maggiore di Luigi xv, il 26 gennaio 1739) è una sorta di sintesi fra lo stile Luigi xiv (vero committente del Salon) e il rococò. L’opera più importante del Salon è il soffitto, dipinto da François Le Moyne (1688-1737), che rappresenta l’Apoteosi di Ercole (1733-1736). Inaugurando una nuova tradizione di pittura da soffitto, Le Moyne utilizza tutto lo spazio per rappresentare gli dèi olimpici, riallacciandosi alla concezione classica della quadratura, che funge qui da quinta discreta al dispiegamento senza precedenti dello spazio celeste. Il programma iconografico fa riferimento al ciclo d’Ercole dipinto da Guido Reni (Louvre, Parigi), che allora ornava la sala del Trono di Versailles. Questa nuova entrata trionfale del Grande Appartamento, posta fra il salone della Cappella e il salone dell’Abbondanza, originariamente era stata voluta da Luigi xiv come una sorta di scrigno per la Cena in casa di Simone di Veronese. Luigi xv ne fece la sua più sontuosa realizzazione a Versailles. L’artista non sopravvisse alla sua opera, simbolo rinnovato di una sensibilità spinta all’estremo, in cui il dramma si confonde con il sogno: Le Moyne si suicidò, dopo l’inaugurazione, «con sette
4. Johann Bernhard Fischer von Erlach, Palazzo imperiale di Schönbrunn, 1696-1700. Vienna.
5. Giambattista Tiepolo, Apollo conduce davanti all’imperatore Federico la sposa Beatrice di Borgogna (soffitto), Investitura del vescovo Harold e Nozze dell’imperatore (pareti). Affreschi, 1749-1753. Kaisersaal, Residenz, Würzburg.
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colpi di spada nel cuore». Il nuovo stile aveva acquisito, con questa composizione d’eccezione, le sue patenti di nobiltà. Curiosamente, questa composizione procedeva in senso contrario rispetto al secolo. L’arte di palazzo di Luigi xv doveva orientarsi, come gli hôtel parigini, al recupero dell’intimità: i Piccoli Appartamenti, dedalo immenso e lussuoso in cui si svolge senza condizionamenti la vita intima del sovrano, divengono il centro dell’attività artistica di Versailles. Mentre il resto d’Europa si compiace nell’imitazione del lusso francese, nell’edificazione di dimore sontuose e gigantesche, Luigi xv si dedica a ridefinire Versailles con uno spirito di comfort che privilegia la perfezione delle arti decorative alla magniloquenza. Successione di vani di piccole dimensioni, gli appartamenti interni di re Luigi xv divengono modello di perfezione decorativa. La scultura vi è altrettanto presente, ma più nei rivestimenti lignei di Verbeckt o dei fratelli Rousseau che nelle composizioni monumentali dei Coustou. La pittura che vi regna è quella da cavalletto. Neppure un solo soffitto dei vani di questi Piccoli Appartamenti è privo di pitture ornamentali: solo i sopraporta di Boucher, Vernet, Lancret, Poussin (reinseriti nel decoro rinnovato), prendono posto in mezzo ad arabeschi di legno spesso dorato, quasi sempre trattati con colori delicati grazie alla vernice Martin. La Francia definisce rocaille ciò che il resto dell’Europa definisce rococò. Resta, in questa deviazione dalle norme accademiche, ancora molto del rigore classico. Più che la forma, soggetta alla sensualità del colore e al «libertinaggio» dei contorni, sono i temi, fortemente erotici, a segnare il rocaille, stile di cui François Boucher, discepolo di Le Moyne, primo pittore di Luigi xv e favorito di Madame de Pompadour, di cui è professore di disegno e incisione, sarà il più fiero rappresentante. La decorazione dei salottini e dei casini di caccia, spesso ambienti per l’amore extraconiugale, offre il quadro perfetto per ricevere (e commissionare) tale genere di realizzazioni erotiche, dipinte o scolpite. È difficile pensare che Boucher (1705-1770) sia contem-
poraneo di Jean-Baptiste-Siméon Chardin (1699-1779), suo esatto opposto. Di Boucher, Diderot scrisse, nel suo Salon del 1761, che l’artista aveva «tutto, eccetto la verità». Boucher eredita dai suoi maestri il gusto per il travestimento, il paesaggio irreale, la natura forzata, pretesto per amori mitologici. Ma, al contrario di François Le Moyne, egli in ciascuna delle sue rappresentazioni ricerca l’intimismo. La natura è presente in tutte le sue opere, ma ricostituita, trasformata, oggetto di metamorfosi. Il Riposo di Diana (1742; Louvre, Parigi) pecca quanto a «verità»: nel mezzo di un bosco, sul bordo di un ruscello, la dea si riposa distesa su un immenso velluto blu, forse inopportuno, ma particolarmente sensuale. Gli elementi delle sue composizioni trovano la loro prima giustificazione nel piacere della vista; il desiderio di un «pezzo» di pittura giustifica così la presenza di un oggetto estraneo al contesto della composizione. Pittore di nudi, fra i più sottili dei suoi tempi (L’Odalisca, Louvre, Parigi), François Boucher dipinse anche scene di genere e di paesaggio in cui la natura, ricostituita come sulla scena di un teatro, acquista una dolcezza bucolica: è alla vena del paesaggio ideale, quello della natura ricomposta attraverso la ragione, che appartiene il pittore. Ritrattista d’eccezione, infine: l’arte di François Boucher è indissociabile dal ritratto di Madame de Pompadour (Monaco, Alte Pinakothek), di cui più volte immortalò la fisionomia. Il destino delle sue grandi composizioni mitologiche è quello degli interni dei palazzi. Le sue opere ornano tutte le dimore di Madame de Pompadour e di Luigi xv. Boucher offriva così, durante la sua piena maturità, un contrappunto sottile all’arte convenzionale e molto meno inventiva di Carle van Loo (1705-1772), che godette della reputazione, secondo Grimm, di «primo pittore d’Europa». Il doppio ritratto del marchese e della marchesa di Marigny (1769; Louvre, Parigi) sembra una composizione di Boucher con un’aria di vero. Pochi dipinti di van Loo hanno raggiunto tale grado di perfezione, associando la bellezza dell’impasto, della materia, ai colori saggiamente ponde-
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6. François Boucher, Odalisca. Olio su tela, 1745 ca. Museo del Louvre, Parigi.
rati, alla vivacità della composizione. Carle van Loo, il più brillante rappresentante della dinastia dei van Loo, in tutta Europa unanimamente ammirati e chiamati, toccò, come Boucher, tutti i generi, ma con meno grazia e spirito d’invenzione: basta confrontare le sue composizioni per l’Hôtel de Soubise a Parigi (La toeletta di Venere, 1737) per rendersi conto di quanto il suo convenzionalismo anticipasse la generalizzazione dello spirito rococò in Europa. In Spagna, è Louis-Michel van Loo (1707-1771), nipote di Carle van Loo, che aveva accompagnato nel 1727 quest’ultimo a Roma in compagnia di François Boucher, che imprimerà lo stile van Loo, sorta di sintesi fra la precisione fiamminga e il classicismo romano-francese, chiamato da Filippo v a rivestire le funzioni di primo pittore di camera.
Il «laboratorio della modernità» L’arte spagnola sperimenta, sotto il regno dei monarchi della nuova casata dei Borbone, un impulso che pone le basi della modernità europea. Nella «francesizzazione» dell’arte spagnola la tradizione critica ha spesso visto, per errore o per leggerezza, un brutale arresto dell’impulso barocco, che corrisponderebbe al gusto del nuovo monarca di origine francese. È tempo di rigettare schemi che non considerano i movimenti artistici in relazione alle realizzazioni degli artisti e al gusto dei committenti, ma semplicemente come un effetto della logica storica dei mutamenti dinastici. Il fatto che Filippo v fosse un Borbone, non comportava necessariamente che il suo gusto fosse implicato con il classicismo francese. Il palazzo di San Ildefonso, la Granja, vicino
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a Segovia, non riprende Versailles che per i giardini, come le regge di Vienna o di Caserta. I progetti eseguiti fino al 1723 da Teodoro Ardemans (1665-1726) furono adattati, secondo il gusto di Versailles, alla concezione del giardino alla francese, poi realizzato da René Carlier e Esteban Boutelou. Le modifiche fondamentali non furono tuttavia opera di supposti eredi di Hardouin-Mansart, ma di due architetti italiani, Andrea Procaccini e Sempronio Subisati, che rimaneggiarono considerevolmente il palazzo della Granja dal 1727 al 1734. Dopo il 1736, l’influenza di Juvarra giunse sino al cuore dei progetti di Sacchetti, suo discepolo. Ora, qual è lo stile proprio di queste costruzioni reali? Si trat-
tava di uno stile fondamentalmente nuovo, non solamente per la Spagna, ma anche per l’Europa, nella misura in cui offriva un primo elemento di risposta alla sintesi che si sarebbe prodotta fra il classicismo francese e il barocco europeo. Il regno di Filippo v poneva così una delle principali basi dello sviluppo stilistico dell’arte europea del xviii secolo, in cui la costanza degli stili si sarebbe presto infranta di fronte alle personalità degli artisti e dei committenti. La stessa evoluzione è forse più manifesta in pittura. Dalla morte dei principali artisti di Carlo ii all’avvento di Goya, la critica ha troppo spesso ignorato una serie di artisti spagnoli, quali Miguel Jacinto Meléndez de
7. Louis-Michel van Loo, La famiglia di Filippo v. Olio su tela, 1743. Museo del Prado, Madrid.
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8. Luis Paret y Alcázar, Carlo iii pranza alla presenza della corte. Olio su tela, 1770 ca. Museo del Prado, Madrid.
Ribera (Oviedo, 1676-1734), pittore reale nel 1712, Acisclo Antonio Palomino y Velasco (Bujalance, Cordova, 1655-Madrid, 1726), Juan José García de Miranda (1677-1749), o Andrés de la Calleja (1705-1785). Tali pittori giocarono un ruolo essenziale in questa epoca di transizione, che vide affermarsi al contempo la sopravvivenza della tradizione barocca e lo schiudersi delle correnti moderne. Per esaminare in modo chiaro la problematica della pittura spagnola lungo il xviii secolo, bisogna cogliere l’essenza di un conflitto estetico che non conosce sintesi che con Francisco de Goya. L’influenza francese, che si fa sentire molto presto nelle arti, con l’avvento di Filippo v, non è che il segno an-
nunciatore di una rivoluzione più profonda: le strutture istituzionali dell’arte spagnola, in ritardo in rapporto a Francia e Italia, non riuscirono a dare un apporto sufficientemente efficace per fornire una risposta soddisfacente. Di conseguenza, la maggior parte degli artisti spagnoli si trovò nel mezzo di uno stile che non seppe produrre, fino a Goya, la tanto attesa sintesi fra i diversi modi italiani, spagnoli e francesi. L’Italia aveva conosciuto, dal xvi secolo, regolari oscillazioni fra un incrollabile ideale classico, di ideale purezza formale, e la necessità di mettere da parte quello stesso ideale in nome della sensualità e della ricerca dell’emozione. Il manierismo di Pontormo di contro al classicismo dei bo-
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lognesi, la purezza formale dei romani, più o meno resistenti alla seduzione del linguaggio sensuale del colore dei veneziani: ecco altrettanti elementi che permisero agli artisti italiani di acquisire una distanza critica dalle differenti correnti artistiche di cui furono gli inventori. Il xviii secolo italiano, ammesso che si possa cercare l’unità di una nazione dietro un coacervo di regni e territori, sarà perciò il secolo delle irriducibili individualità da Guardi a Longhi, da Tiepolo a Piranesi, da Pannini a Piazzetta. A nord dei Pirenei, il grande dibattito accademico fra i partigiani del colore e quelli del disegno aveva prodotto una soluzione di sintesi dalla fine del xvii secolo. Ciò che rivendicavano gli artisti francesi era prima di tutto la libertà di concezione che, a immagine dell’eclettismo manierista, doveva permettere loro di scegliere il bello attraverso i migliori effetti dei grandi maestri. Il discorso accademico, così intimamente legato alla centralizzazione del potere di Luigi xiv, la cui forza era stata pretendere l’unificazione del linguaggio artistico a fini di propaganda, con la morte del re Sole cessò di rivestire un aspetto uniforme. La vera sintesi, come abbiamo visto precedentemente, prende avvio dalla réception di Watteau all’Accademia nel 1717, con l’ammirazione unanime sollevata da L’imbarco per l’isola di Citera. Debuttante così sotto gli auspici del genio novatore di Watteau, il secolo non doveva più opporre alcuna limitazione o restrizione all’espressione di una sensibilità nuova. In Spagna le cose andarono in tutt’altro modo. Di contro alla stabilità politica della Francia, la Spagna iniziò il xviii secolo con la guerra di Successione, che rispondeva al cambiamento dinastico. Quando finalmente, sotto il regno di Carlo iii, le arti conobbero un quadro politico atto a consentire loro una nuova età dell’oro, i due modelli teorici che si affrontarono in seno all’Accademia – desiderata da Filippo v, inaugurata da Ferdinando vi e finalmente normalizzata sotto il regno di Carlo iii – risultarono totalmente antinomici. Da Mengs a Tiepolo, come conciliare l’impulso della modernità? È senza dubbio in questa assimilazione lenta e difficile di due
problematiche estetiche così opposte, quali sono il rococò veneziano tardivo, incarnato da Tiepolo, e il nuovo e rigido classicismo di Mengs, difeso da Bayeu, che Goya forgiò il suo linguaggio, distruttore di norme accademiche e fondatore dell’arte moderna. Nella Spagna degli anni 1700-1750 si imponeva una dicotomia che aveva già toccato gli altri paesi d’Europa: fra un mondo di corte innovatore e la logica continuità della tradizione iniziata nel xvii secolo, l’unità era irrimediabilmente perduta. Dalla fine del regno di Filippo iv e durante quello di Carlo ii Madrid fu un centro artistico che attirò gli artisti stranieri, essenzialmente fiamminghi e italiani. Nel xviii secolo l’arte francese aveva battuto in velocità l’arte italiana, poiché l’internazionalizzazione del suo linguaggio, divenuto classico e universale, aveva annullato l’effetto accidentale delle declinazioni nazionali del barocco. La prima generazione di artisti stranieri di Filippo v fu senza dubbio francese, ma questi non provocarono una grande rivoluzione stilistica, poiché restarono profondamente iscritti nella ristretta cerchia della corte. Da Jean Ranc a Louis Michel van Loo, ritrattisti della famiglia reale, la produzione dei «primi pittori» non raggiunse la qualità di quella dei pittori di Carlo ii. Si tratta di ritrattisti piuttosto convenzionali: l’opera più gloriosa di Ranc è il ritratto equestre del monarca (Prado, Madrid); quella di Louis-Michel van Loo è la monumentale evocazione della famiglia di Filippo v (1743; Prado, Madrid), «cosparsa di aria buona», secondo l’espressione di Gállego. Solo Michel Ange Houasse (figlio dell’allievo di Charles Le Brun), presente a Madrid nel 1715, sembra accettare la specificità della maniera spagnola, evidente nel ritratto di Don Luis, principe delle Asturie (1717; Prado, Madrid). Houasse sorprende anzitutto per la sua arte del paesaggio. Le sue vedute dell’Escorial si alternano a drammatiche evocazioni del palazzo d’Aranjuez entro parchi dall’atmosfera brumosa (Palazzo d’Oriente, Madrid). Nondimeno, si misura tutta la differenza di maturità che separa la scuola spagnola dalla pittura contemporanea di Watteau.
9. Giambattista Tiepolo, Apoteosi di Enea. Affresco, 1764-1766. Soffitto del salone degli Alabardieri, Palazzo Reale, Madrid.
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11. Jean-Simeon Chardin, La tabacchiera (pipe e vaso). Olio su tela. 1737-1740. Museo del Louvre, Parigi.
10. Luis Egidio Meléndez, Autoritratto. Olio su tela, 1746. Museo del Louvre, Parigi.
I meccanismi d’avviamento di una tale rivoluzione culturale, interamente volta alla necessità di affermare una sintesi che riconciliasse il grande barocco decorativo, il sen timento della natura e la rivendicazione della libertà creatrice, obbediscono a pratiche di cui il Rinascimento aveva già posto le basi: l’invito, da parte dei principi, di artisti di fama internazionale, la cui presenza in un paese straniero conduce a una riconsiderazione degli archetipi nazionali. Diverse figure fra le maggiori della scuola italiana, dopo l’arrivo dei primi artisti francesi quali Houasse, Ranc o Frémin, agirono da elementi decisivi per l’evoluzione dell’arte spagnola, nella continuità della tradizione reale che aveva invitato a Madrid Luca Giordano (presente alla corte di Spagna dal 1692 al 1702). Prima dell’arrivo di Corrado Giaquinto e di Giambattista Tiepolo, il fatto più significativo del-
la volontà reale di rinnovare l’arte spagnola fu la creazione dell’Accademia, secondo il modello francese di organizzazione delle arti. Gli statuti dell’Accademia, provvisoriamente istituita da Filippo v, furono opera della commissione preparatoria (la junta) che si riunì regolarmente dopo l’autorizzazione reale del 13 luglio 1744. La morte improvvisa del re, il 9 luglio 1746, rinviò la conferma e la firma del decreto di nascita dell’istituzione, finalmente inaugurata il 13 giugno 1752 da Ferdinando vi, che istituì la Real Academia de Nobles Artes de San Fernando. La nuova istituzione si poneva in linea retta con le altre grandi fondazioni del regno di Filippo v, quali la Real Fábrica de Tapices de Santa Bárbara (creata nel 1720 sotto l’influenza di Elisabetta Farnese, che impose il suo pittore prediletto Andrea Procaccini).
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Il quadro istituzionale, pertanto, era stato definito durante il regno di Filippo v e poi confermato da Ferdinando vi. Tale volontà di dare alle arti in Spagna un nuovo potere d’organizzazione era evidentemente legata alle necessità di produzione per i grandi cantieri di Filippo v e di Elisabetta Farnese (palazzo della Granja, palazzo di Riofrío, ricostruzione dell’Alcázar di Madrid dopo l’incendio del Natale 1734, che darà vita al palazzo d’Oriente, costruito dal 1738 al 1764). In effetti, è in questo contesto che Ferdinando vi invitò Corrado Giaquinto (Molfetta, 1703-Napoli, 1766) a Madrid, ove soggiornò fino al 1762, principalmente per la realizzazione della decorazione a fresco del nuovo palazzo Reale. Nominato direttore dell’Accademia di San Fernando l’8 settembre 1753, Giaquinto è l’ultimo grande rappresentante in Europa della tradizione rococò. Dal suo arrivo, Giaquinto è incaricato del restauro degli affreschi di Luca Giordano al Buen Retiro, di terminare i lavori all’Aranjuez, di dipingere la cupola della cappella reale del nuovo palazzo di Madrid. Esperto nelle trasparenze cromatiche e nella sensualità ritrovata del tocco, Giaquinto funge da legame fra la decorazione barocca di Luca Giordano e le più audaci concezioni di Tiepolo. Giaquinto non solamente realizza composizioni che influenzeranno i pittori spagnoli, ma, per la prima volta nella storia della pittura spagnola, l’eco del suo insegnamento si impone in seno all’Accademia. Giaquinto forma così Antonio González Velázquez (1723-1794), autore della cupola della Santa Capilla de Nuestra Señora del Pilar. La permeabilità stilistica di González Velázquez alla tradizione italiana (che gli varrà seri problemi sotto la direzione di Mengs e alla salita al potere di Maella) sarà ancora leggibile negli affreschi per il palazzo Reale, come nel celebre Cristoforo Colombo si presenta ai re cattolici dopo la scoperta dell’America (1765), composizione che si porrà più volentieri sotto l’influenza di Tiepolo. Bisogna attendere il regno di Carlo iii per vedere i tre più grandi decoratori della pittura europea lavorare al completamento del
palazzo Reale: Anton Raphael Mengs, giunto nel 1761, e Gianbattista Tiepolo si incontreranno nel 1762 a Madrid accanto a Giaquinto. Non si può dubitare, tanto nel ritratto quanto nell’arte dell’affresco, nella pittura religiosa o di storia, che il confronto stilistico di questi grandi maestri dalle concezioni così contraddittorie abbia sollevato in Goya il problema essenziale della riconsiderazione della pittura. Questi anni di gloria di Madrid furono il momento di un’eccezionale ricchezza di maestri: Francisco Bayeu y Subías, Mariano Salvador Maella, Jacinto Gómez Pastor, Ginés, Andrés de Aguirre, Antonio Carnicero Manció, formano la generazione degli artisti di corte più dotati, e si distinguono geni individuali che lavorano ai margini della corte, come Luis Paret y Alcázar e Luis Menéndez. Le vie stilistiche aperte dalla presenza dei tre grandi decoratori stranieri, discusse all’Accademia di San Fernando da maestri del calibro di Bayeu, non proponevano un linguaggio dalle norme ristrette, uniformi e indiscutibili, ma aprivano il dibattito sul necessario rinnovamento del linguaggio pittorico. In definitiva, dopo la stagnazione teorica (punteggiata di aperture) dei regni di Filippo v e di Ferdinando vi, si presentavano sotto il regno di Carlo iii tutte le condizioni perché si compisse una modernizzazione senza precedenti dell’arte del dipingere, di cui solo Goya seppe trarre pieno profitto. Il principale confronto teorico fu quello che oppose Mengs a Tiepolo, trovando giustificazione nell’impermeabilità delle concezioni rococò di Tiepolo, che privilegiavano lo slancio lirico, i più sontuosi giochi cromatici e la seduzione della materia pittorica alla rigidità quasi malaticcia di Mengs. Si è spesso sottolineato che la norma accademica non riuscì a giocare un ruolo di sintesi nella comprensione di questa opposizione dogmatica. Se confrontiamo l’Apoteosi di Ercole che Mengs realizzò a fresco sulla volta dell’anticamera Gasperini del palazzo Reale alla Maestà della Monarchia spagnola di Tiepolo, dipinta sulla volta della sala del Trono dello stesso palazzo, possiamo com-
Pagine seguenti: 12. Thomas Gainsborough, La passeggiata mattutina. Olio su tela, 1785. National Gallery, Londra. 13. Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi. Olio su tela, 1785. Museo del Louvre, Parigi.
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prendere l’opposizione dei due stili. La teatralità rococò di Tiepolo si oppone alla composizione, essa stessa teatrale ma ordinata, di Mengs. Tutto lo spirito del secolo è qui: in questo movimento oscillatorio fra le pulsioni dei sensi e la felicità della ragione. Ma nei due casi i modi del teatro, a dispetto della rivendicazione di teatralità, sono il principale motore della creazione. Personaggi fittizi, divinizzazione delle figure, ricerche, tanto dal punto di vista iconologico quanto da quello iconografico, di riferimenti classici, abbelliti, sempre deificati, sognati. Nell’Apoteosi dell’imperatore Traiano (di origine ispanica) il senso della teatralità non sorprenderebbe un Tiepolo; solo il linguaggio si oppone a quello del maestro veneziano. Tale opposizione si ripropone fra Goya e Bayeu. L’allievo di Mengs si oppose al più grande genio pittorico di tutti i tempi. I grandi maestri che segnaliamo, da Bayeu e Maella a Carnicero, senza escludere i figli di Tiepolo (fra cui Lorenzo, che muore prematuramente a Madrid prima del 1777) generalizzano a un tempo le tecniche diverse di Tiepolo e Mengs, sviluppando nuovi temi nella pittura di genere, nel paesaggio, nella decorazione a fresco, nella pittura religiosa… La vena d’ispirazione popolare costituisce uno dei tratti di maggior rilievo. I Tipi popolari (commissione reale, 1771-1773; Prado e Patrimonio Nacional, Madrid) di Lorenzo Tiepolo, pastelli che rappresentano a mezzo busto spagnoli di strada con una grazia tutta veneziana, trovano un’eco sicura nel «plebeismo» delle composizioni di José del Castillo (17371793). Questa nuova tradizione riprende le intuizioni di Michel-Ange Houasse. Tuttavia, la pittura segue qui una tendenza sociale propria della Spagna del xviii secolo, espressa chiaramente da Ortega y Gasset: «le classi superiori non si sentivano a proprio agio se non quando abbandonavano le maniere loro proprie per saziarsi di popolaresco. Che non si tenti di minimizzare la cosa: tale ritorno al popolo fu la via per la felicità che i nostri avi del xviii secolo credettero di scoprire». Nella Siesta (Prado, Madrid) di Francisco Bayeu regna lo stesso spirito delle scene di
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José del Castillo, discepolo prediletto di Giaquinto, benché il secondo disponesse di un talento più affermato nell’evocazione della vita quotidiana. Sotto la direzione artistica di Mengs (dal 31 dicembre 1762), Bayeu e Maella daranno più ampia eco alla formulazione classica delle scene spagnole di genere. A margine di questo movimento generale, Luis Paret y Alcázar e Luis Meléndez de Ribera Durazo y Sanpedro si impongono come le figure più indipendenti del secolo. Sembrano l’eco, nella pittura spagnola, di Chardin o di Saint-Aubin. L’Autoritratto di Meléndez (1746; Louvre, Parigi) rivela un talento da ritrattista eccezionale: l’artista vi è rappresentato mentre mostra uno studio di nudo perfettamente classico. Questa promessa di giovane artista doveva conoscere opposizioni terribili, la cui durata sembra impermeabile alla poesia manifesta delle sue nature morte monumentali, trattate alla maniera dei veri dipinti di storia, bodegones che realizzò per Aranjuez (trentanove al Prado, Madrid) negli anni 1760-71. Luis Paret y Alcázar incarna il pieno rococò. Allievo del francese Charles de La Traverse, Paret fa sua la tradizione estetica francese. La sua vasta cultura è percepibile nella complessità dei temi trattati. Il suo Pranzo di Carlo iii potrebbe inscriversi in quelle scene di genere madrilene di cui il Negozio d’antichità (Museo Lázaro Galdiano, Madrid), evidente omaggio alla Mostra da Gersaint di Watteau, costituisce il capolavoro.
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La rottura Si sarebbe tentati d’evocare, nella continuità di questi sviluppi dello spirito del xviii secolo, artisti francesi individuali, come Chardin, Greuse, Fragonard, Hubert Robert; quegli artisti italiani di eccezionale acutezza come Canaletto, Francesco Guardi, Pietro Longhi o Piranesi; gli inglesi rivoluzionari nella scia di Thomas Gainsborough, William Hogarth, Sir Joshua Reynolds o ancora Joseph Wright of Derby… Non vi è però spazio per tale analisi, avendo tentato di mostrare
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quale fosse lo spirito novatore che condusse il cammino di un secolo d’eccezione. Alcune pagine introduttive non potevano logicamente bastare a trattare, nella precisione del dettaglio storico, l’immenso passo compiuto nel linguaggio delle arti visive da ciascuno di questi geni d’eccezione. Conviene considerare, per meglio delineare l’impatto di ciascuno, che il movimento del secolo conobbe una rottura rispetto ai secoli precedenti: lontano dall’essere confinato alle scuole nazionali del xvii secolo, il Secolo dei Lumi ruppe definitivamente le frontiere fra i geni di ciascuna nazione, di ciascuna scuola, di ciascun movimento teorico. Secolo di sintesi per eccellenza, il xviii secolo europeo divenne così il momento privilegiato in cui l’individuo, spogliato di tutti i vincoli costrittivi di appartenenza a un gruppo, poté rivendicare i suoi diritti. Finalmente, e curiosamente, il mondo della corte e quello dello spirito giunsero, nello spazio di tre generazioni, a un medesimo movimento di internazionalizzazione: fra i due, e di ciò la Rivoluzione francese rimane il simbolo, fu il mondo della borghesia, della nuova fortuna e del nuovo potere, a uscire vincitore da questi confronti, lanciando con l’Impero francese un nuovo accademismo, nel quale pensò di trovare una giustificazione sociale alla sua giovane onnipotenza. Per concludere queste pagine, una data sembra imporsi: il 1789. Nel Salon dello stesso anno, Jacques-Louis David (1748-1825) esponeva un’opera commissionatagli da Luigi xvi: I littori riportano a Bruto i corpi dei figli (Louvre, Parigi). Il Salon aveva avuto luogo dopo la presa della Bastiglia, e solo tardivamente, in settembre, era stata presentata l’opera di David, simbolo di una nuova mo-
rale già suggerita, senza successo, venti anni prima da Greuze, che nel 1769 aveva esposto il suo Caracalla (Louvre, Parigi). Questa opera «repubblicana» rispondeva al primo successo, inizialmente romano e poi parigino, di David: Il giuramento degli Orazi (1785; Louvre, Parigi), opera indipendente dall’istituzione accademica e dalle commissioni reali. David annunciava fin dal 1785 il suo disprezzo per un’Accademia reale incapace di accogliere il genio individuale. Non si potrebbe concludere senza sottolineare il parallelismo fra David e Goya. Una medesima lotta contro l’Accademia fu condotta dall’artista aragonese, che dopo il 1781 avviò una carriera totalmente innovatrice, in cui l’essenza stessa dell’arte della pittura conobbe una mutazione di ordine ontologico. Ma se David ripiegò, con l’Impero, in un classicismo freddo, geometrico ed essenzialmente moderno, Goya si rivolse alle risorse dell’espressione affermata, della materia pittorica liberata, per produrre ad un tempo la sintesi fra tutte le invenzioni dei più grandi maestri di questo xviii secolo europeo, che egli dominò così perfettamente, e fondare una nuova definizione dell’opera d’arte. Da una parte e dall’altra dei Pirenei, due artisti condussero alla rottura più violenta che l’arte occidentale avesse conosciuto dal Rinascimento: l’uno invocando l’Antichità; l’altro l’avvenire dell’umanità. Di fronte a queste prese di posizione radicali, il xix secolo esiterà a lungo fra la scelta della rottura e quella, più rassicurante, di un nuovo accademismo. In ogni caso bisogna ammettere che solo le avanguardie del postimpressionismo sapranno riallacciarsi alla grandezza e all’onore di David o di Goya.
14. Francisco Goya, El Quitasol (Il parasole). Olio su tela, 1777. Museo del Prado, Madrid.
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Jörg Garms
1. Johan Bernhard Fisher von Erlach, chiesa di San Carlo Borromeo, dal 1715. Vienna.
Pagina seguente: 2. Johan Bernhard Fisher von Erlach, chiesa di San Carlo Borromeo, interno verso l’altare. Vienna.
Ancora oggi il xviii secolo è ben presente nella coscienza e nella realtà architettonica di gran parte d’Europa: dopo la grandeur di Luigi xiv, ecco l’hôtel particulier dei ceti elevati per denaro o lignaggio delle città di Francia, la raffinatezza di distribution e commodité e lo squisito arredo degli interni; in Gran Bretagna le grandi country houses di una nobiltà straordinariamente arricchitasi con la costruzione dell’impero coloniale, neopalladiane all’esterno, Adam style all’interno; in Germania le residenze e i castelli di campagna di grandi e piccoli sovrani spirituali o principi temporali, come pure nel Sud cattolico, la gioiosa opulenza delle chiese monastiche del territorio; in Russia la nuova capitale, San Pietroburgo, fondata nel 1703; in Spagna i palazzi reali di Madrid, La Granja e Aranjuez, o le chiese dell’Andalusia, come per quelle del Nord del Portogallo; in Italia, per ciascun signore a capo di un singolo Stato, la molteplicità di chiese, palazzi e case di campagna – a Roma e nello Stato Pontificio, a Napoli e in Sicilia, in Piemonte e a Milano, a Lucca e a Parma. È il secolo in cui l’architettura europea assume un volto più unitario rispetto al passato e le conquiste del barocco italiano e dell’architettura francese di Luigi xiv si diffondono ovunque e si ibridano; all’internazionalismo del tardobarocco seguirà presto quello del primo neoclassicismo. Le profonde divisioni, le guerre di religione e di conquista che nel xvii secolo avevano fatto precipitare nella povertà tutti i paesi, sono ormai superate, mentre le guerre ancora in atto non sono altro che assestamenti dell’equilibrio generale, che non comportano grandi rotture né inter-
rompono gli interscambi cui contribuisce in modo decisivo il Grand Tour giunto al suo apogeo. Se l’assolutismo e la Chiesa si erano già imposti come forze costitutive della società, solo nel xviii secolo determinano in modo incisivo l’immagine dell’architettura nella maggior parte delle nazioni. Dietro questa facciata si sta però compiendo un mutamento: con l’ascesa della borghesia e, soprattutto, con la trasformazione dei valori a opera dell’Illuminismo, i fondamenti metafisici di autorità e religione cedono il passo all’interesse generale e al bene comune. Gli edifici a destinazione pubblica e quelli di rappresentanza dello Stato acquisiscono dalla metà del secolo un ruolo sempre maggiore. La Rivoluzione francese rappresenterà la repentina quanto inattesa fine dell’Ancien Régime. Secondo i criteri della storia politica, come data d’inizio di un xviii secolo «breve» si potrebbe indicare lo scoppio nel 1700 della guerra di successione spagnola, e come data di conclusione la rivoluzione del 1789. Dal punto di visto storico-artistico è forse più giusto parlare di un secolo «lungo», che assume a data d’inizio la morte di Bernini nel 1680, il completamento della reggia di Versailles (compresi i «satelliti» del Grand Trianon e di Marly, ma senza cappella e teatro) e il rifiorire di Vienna dopo l’assedio turco nel 1683, e, come conclusione, la Rivoluzione e la dominazione di Napoleone (mentre con la Restaurazione, dal 1815 il neoclassicismo si riduce a uno stile storico tra gli altri). Il xviii secolo è un’epoca di vastissima attività architettonica, di un impulso entusiastico per il costruire che coinvolge un numero
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3. Giovanni Battista Sacchetti (progetto) e Francisco Sabatini (riforma), Scalone degli Ambasciatori, 1746-1760. Palazzo Reale, Madrid.
insospettato di principi, abati e città. Sebbene nessun artista del secolo abbia probabilmente goduto dell’ammirazione universale raggiunta dai fondatori della tradizione rinascimentale e barocca – Bramante, Palladio e Michelangelo, Bernini, Borromini e François Mansart –, si sono certamente avuti straordinari architetti. Limitandoci a qualche nome: Jules Hardouin-Mansart, al passaggio di secolo, poi Robert Decotte e Germain Boffrand, Ange-Jacques Gabriel e Jacques-Germain
Soufflot, Charles De Wailly, Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas Ledoux, Nicholas Hawksmoor e John Vanbrugh, William Chambers e Robert Adam, Bernhard Fischer von Erlach e Johann Lucas Hildebrandt, Andreas Schlüter e Matthäus Daniel Pöppelmann, Kilian Ignaz Dientzenhofer, Johann Dominik Zimmermann e Balthasar Neumann, Filippo Juvarra e Bernardo Vittone, Ferdinando Fuga, Nicola Salvi e Luigi Vanvitelli, e infine Ventura Rodriguez e Juan de Villanueva.
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Lo spirito della sintesi si coglie già prima del cambio di secolo negli edifici viennesi di Fischer von Erlach: formatosi a Roma nella cerchia di Bernini, egli unisce nei palazzi nobiliari agli elementi più diversi dell’architettura palaziale romana anche alcuni elementi tratti da Palladio; col «progetto ideale» per la reggia imperiale suburbana di Schönbrunn crea, intorno al 1694, un modello contrapposto a Versailles (l’esecuzione sarà però molto più limitata e tradizionale); nella Karlskirche (chiesa dedicata a San Carlo Borromeo), eretta a partire dal 1715 (le date da qui in poi indicano il progetto o l’avvio dei lavori di costruzione), unisce sul piano dei riferimenti architettonici forme ricche di significati della storia europea a partire dall’antichità. Accanto a lui opera Hildebrandt che, pur senza la pretesa monumentale dei grandi ordini architettonici, col Belvedere per il principe Eugenio di Savoia, alle porte di Vienna, attraverso l’impiego di minute forme decorative di derivazione tedesca o francese e col rilassato movimento delle superfici, raggiunge quello che è forse l’esito più compiuto di palazzo di tutto il secolo (1721). L’ampio sviluppo dell’attività costruttiva, che nei territori asburgici coincide con la rapida espansione della sfera del potere, e che negli stati tedeschi è il risultato del suo consolidamento da parte dei principi e della Chiesa, e della tranquillità che ne derivava, a Parigi è al contrario una conseguenza del venir meno della politica di potere interna ed esterna di Luigi xiv; subito dopo il 1700 e con maggiore forza con la Régence, dopo la morte del vecchio regnante nel 1715, inizia un boom nell’edificazione di palazzi di città che continuerà anche durante il lungo regno di Luigi xv (1723-74). Questi hôtel presentano all’esterno un’immagine sobria, con un’elegante armonia di superfici e proporzioni, mentre all’interno dispiegano invece un arredamento quanto mai ricco e sofisticato. I maestri che emergono nel genere sono Decotte e Boffrand, Jean Cailleteau detto L’Assurance, Delamair, Jacques v Gabriel, Mollet, Courtonne, Aubert, ecc., e ne sono esempi gli hôtels de Rothelin 1700, Desmarets e Sou-
bise 1704, Amelot 1712, Estrées 1713, Maine e Torcy 1716, Evreux (Palais de l’Elysée) 1718, Matignon 1722, Biron 1728. Per un breve periodo perfino l’antico ducato di Lorena, inglobato nella Francia, può esserne considerato, con i suoi edifici, una versione in miniatura: l’architetto parigino Boffrand progetta il palazzo di città a Nancy, una residenza nella vicina piccola città di Lunéville, e la Malgrange, un palazzo di delizia che guarda al Louvre, a Versailles e a Marly come modelli di riferimento. Solo Lunéville è compiuta, e si conserva tuttora, mentre l’ex re di Polonia e suocero di Luigi xv, come successore dei duchi dal 1737, gode con il suo architetto Héré dell’apparenza di un dominio sovrano grazie al gran numero di costruzioni di piacere, tanto fantastiche quanto effimere. La piazza reale di Nancy, l’esempio più bello del secolo, rimane senza dubbio la durevole testimonianza degli anni ’30 del Settecento. Un’imitazione tanto stretta, anche se solo formale, di Versailles come quella che troviamo in Lorena, costituisce un’eccezione, ma l’esempio della residenza suburbana nei dintorni della capitale immersa nella natura si impone con forza. Sebbene sorgano ancora alcuni palazzi di governanti nelle capitali o nei loro dintorni come a Stoccolma (Tessin, 1697), Berlino (Schlüter, 1698), Karlsruhe (1715) Würzburg (Neumann, 1719), il palazzo d’Inverno a San Pietroburgo (Rastrelli, 1754), o il Palacio Real a Madrid dopo un incendio (Juvarra e Sacchetti, 1734, ma il progetto iniziale, gigantesco, era piuttosto distante dalla città). Rivive così l’antico modello della residenza-monastero, in Portogallo (Mafra, di Ludovice, 1717) e in Austria (Klosterneuburg). La maggior parte si situa però a una certa distanza: Peterhof e Carskoe Selo presso San Pietroburgo, Potsdam presso Berlino, Bonn presso Colonia, Mannheim presso Heidelberg, Ludwigsburg presso Stoccarda, Nymphenburg e Schleissheim presso Monaco, Colorno presso Parma, Portici presso Napoli. L’ultimo e più grandioso esempio, Caserta – ancora legato a Versailles per la funzione – si eleva, per desiderio di Carlo di Borbone, come un blocco
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4. Richard Boyle, Lord Burlington, Chiswick House o Burlington House, 1725. Chiswick.
isolato nel paesaggio, unito da un asse prospettico che conduce idealmente a Napoli e, attraverso il palazzo, alla lontana catena di monti (Vanvitelli, 1752). La transizione dalla residenza estiva alla casa principesca di piacere è fluida; in generale entrambe queste costruzioni hanno però in comune la rinuncia alla monumentalità e all’autorappresentazione trionfale. Tali edifici, con il loro allentato raggruppamento e gli ampi giardini, rappresentano oggi per noi lo stile di vita del xviii secolo, la gioia spensierata della festa, delle passeggiate e della caccia. Palazzi più di piacere che residenziali sono, in Piemonte, Venaria Reale, Rivoli e Stupinigi (Juvarra, 1729), la Granja presso Segovia (1736) in Spagna, e Queluz (1759) in Portogallo, Brühl presso Colonia, Veitshöchheim presso Würzburg, Schwetzingen presso Heidelberg, Bruchsal presso Spira, Pommersfelden per l’arcivescovo di Magonza o la
Solitude e Monrepos nel Württemberg. Lo Zwinger di Dresda rappresenta un unicum, una piazza per le feste, ricca sia dal punto di vista architettonico che decorativo, accanto all’antico palazzo, all’interno delle mura (Pöppelmann e Permoser, 1709). Per Mme de Pompadour Luigi xv fece costruire il Petit Trianon (Gabriel, 1762), al quale la regina Maria Antonietta aggiunse il suo hameau. Alcuni palazzi nobiliari possono competere nell’aspetto con quelli dei governanti, come, insieme al Belvedere del principe Eugenio, Blenheim Palace del suo compagno d’armi Marlborough (Vanbrugh, 1705) o Castle Howard del conte di Carlisle (Vanbrugh, 1700), la villa della famiglia del doge Pisani a Stra (Preti, 1735) o la sede urbana del principe-vescovo di Strasburgo, Palais Rohan (Decotte, 1727). La nobiltà fa erigere le proprie «delizie» poco lontano dalla città: lungo il «Miglio d’oro» tra Napoli e il Vesuvio, op-
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pure lungo i Navigli di Milano o le anse della Senna o della Marna, nei pressi di Parigi, o nei dintorni di Vienna; sorgono così le ville di Zola Predosa vicino a Bologna (Monti, dopo il 1700) o Montmusard nei pressi di Digione (De Wailly, 1764), ecc. Il palazzo in villa, la maison de campagne e la maison de plaisance, il Lustschloss e perfino le folies e le minuscole maisons de bouteille non sono più ormai da tempo riservati alla sola nobiltà. La situazione in Gran Bretagna si differenzia da quella del continente in quanto, fatte poche eccezioni, il dispiego rappresentativo individua nella residenza di campagna e non nel palazzo di città il proprio centro vitale. La retorica barocca di Blenheim Palace e Castle Howard cede appena un decennio dopo alle formule severe del neopalladianesimo e, verso la metà del secolo, del neoclassicismo: da Wanstead House (Campbell, 1715), Houghton Hall (Campbell, 1722) e Holkham Hall (Kent, 1725) fino a Kedleston Hall (Paine e
Adam, 1757) o Osterley Park (Adam, 1761). Non meno originali sono le ville di Stourhead (Campbell, 1721) o Chiswick House (1725), nuova versione della villa Rotonda del propagatore del neopalladianesimo, Lord Burlington. E Syon House (Adam, 1762); seguono poco dopo la fantasia neogotica di Strawberry Hill per Robert Walpole (1748) e la pittoresca stravaganza di William Beckford, Fonthill Abbey (Wyatt, 1795). Anche nel campo dell’edilizia religiosa vengono realizzate a inizio secolo opere importanti di committenza principesca: la cappella palatina di Versailles, ad esempio, la cui armonia come precoce esempio dell’ideale di sintesi, che assumerà in Francia importanza sempre maggiore, della leggerezza e trasparenza della costruzione gotica con l’antica architettura a colonne si dispiega all’interno (Hardouin Mansart, 1689); la chiesa votiva di San Carlo Borromeo, che domina Vienna, e quella di Superga, sulla collina sopra Torino
5-6. Filippo Juvarra, basilica di Superga, 1716-1731. Torino. A sinistra, veduta dell’esterno; a destra, interno della cupola.
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7. Filippo Juvarra, basilica di Superga, abside, 1716-1731. Torino.
(Juvarra, 1716) si caratterizzano invece in primo luogo come segno distintivo da apprezzarsi dalla città. Vivono in questo secolo un momento di splendore soprattutto gli effetti spettacolari, e perciò le facciate. Sono celebri l’abbazia benedettina di Melk, sulla rupe che domina il Danubio (Prandtauer, 1702), la Madonna di San Luca, poco fuori Bologna (Dotti, 1714), la costruzione del Bom Jesus, nei pressi di Braga (1742), così come i due San Giorgio alti su una scalinata nelle città di Ragusa (Gagliardi, 1744) e Modica in Sicilia. Anche le chiese erette a Londra da Hawksmoor nel secondo e nel terzo decennio del secolo sono molto più originali all’esterno che all’interno. Diverse antiche cattedrali spagnole – Valencia, Murcia, Guadix, Málaga, Santiago de Compostela – ricevono la facciata solo in questo momento, come in particolare le grandi basiliche romane di San Giovanni in Laterano (Galilei, 1732), Santa Maria Maggiore (Fuga, 1741) e Santa Croce
in Gerusalemme (Gregoriani e Passalacqua, 1742), mentre a Milano e a Bologna ci si affanna vanamente per erigere la facciata delle principali chiese, persino con progetti nello stile gotico della loro fase originaria. Fino alla metà del xviii secolo si sviluppa in alcune parti d’Europa un’attività costruttiva religiosa ricca e variata: da un lato, e in modo ininterrotto, in tutte le città italiane, ma specialmente a Napoli (Concezione a Montecalvario, di Vaccaro, 1718) e in Sicilia, così come in Piemonte; dall’altro, nelle campagne, in Svizzera, Germania meridionale, Austria, Boemia e Moravia, con chiese monastiche e di pellegrinaggio. Inizialmente sorgono le chiese legate alla tradizione romana, come la Kollegienkirche di Salisburgo (Fischer von Erlach, 1696) e la Peterskirche di Hildebrandt a Vienna (1702), e in Germania meridionale (Weingarten, 1715). Tuttavia presto si sviluppano forme spaziali di svolgimento più complesso,
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con costoloni che si sovrappongono e serie di cupole piane sull’esempio di Borromini e di Guarini: in primo luogo San Nicola nella «Kleinseite» a Praga, di Christoph Dientzenhofer (1709), che in seguito diventerà, con la cupola e la torre del figlio Kilian Ignaz, uno dei simboli di Praga, proprio come la Frauenkirche di Dresda, la maggiore chiesa protestante del secolo (Bähr, 1726). Seguono altre chiese dei Dientzenhofer padre e figlio (per esempio, del secondo, San Nicola nella città vecchia a Praga, 1732) e Giovanni Santini Aichel (chiesa di pellegrinaggio di San Giovanni Nepomuceno «am Grünen Berg» presso Zdár nad Sázavou). In Baviera il principale maestro costruttore di molte chiese monastiche è Johann Michael Fischer (Diessen 1725, Zwiefalten 1748, Rott am Inn 1763) e, in Franconia, Neumann, con i santuari di Vierzehnheiligen (1743) e Neresheim (1747). Vierzehnheiligen e il piccolo santuario di Wies dei fratelli Zimmermann (1745) costituiscono per la loro ariosa leggerezza, la luce e il colore, e la perfetta unione di architettura e ricchissima decorazione, il punto più alto dell’architettura religiosa. Il dominio della luce e le relazioni spaziali di queste chiese possono confrontarsi con le analoghe caratteristiche del Carmine di Torino, di Juvarra (1732), e dei piccoli spazi a pianta centrale, pure debitori di Guarini, di Vittone (San Bernardino a Chieri, Santa Chiara a Bra, entrambe degli anni ’40), sebbene questi contrappongano una drammatica concentrazione della luce alla più serena e rilassata religiosità della Germania meridionale. La fusione di piccola e grande forma architettonica, di opere di scultura e decorazioni ornamentali degli stuccatori, e di pittura a fresco su ampie superfici, si annovera tra le grandi conquiste del tardobarocco e del rococò. Queste caratteristiche si manifestano ovunque, dai grandi spazi delle chiese fino ai piccoli gabinetti privati. La tipologia spaziale probabilmente più spettacolare, che afferma una nuova grandiosità per il suo ruolo nel cerimoniale e apre la strada a una sorprendente fantasia di spazi, è quello dello scalone. In Italia gareggiano in inventiva gli architetti
dei palazzi di Piacenza e Sanfelice a Napoli, Juvarra in palazzo Madama a Torino (1718) e infine Vanvitelli nella reggia di Caserta. Altrettanto imponenti sono le scale – doppie nel progetto, singole nella realizzazione – del Palacio Real di Madrid e del Palazzo Arcivescovile di Würzburg, né sono loro inferiori quelle delle residenze di piacere vescovili a Pommersfelden (1711) e Brühl (1740) in Germania, e quelle create da Hildebrandt in Austria. Accessibili per mezzo delle scale al piano superiore, o situate direttamente al pianterreno, le sale principali offrono una ulteriore opportunità per dare libero sfogo alla magnificenza barocca, siano le Kaisersäle dei monasteri austriaci, le hall inglesi (Castle Howard, Holkham Hall, Syon House) o il salone della residenza di Stupinigi a Torino. Questo tipo di spazi sontuosi non esiste in Francia prima del neoclassicismo; qui, piuttosto, si trova il perfezionamento dell’appartamento mediante una serie di spazi accuratamente collegati da scale. Il riallestimento delle sale del palazzo di Versailles negli ultimi anni di Luigi xiv e, di nuovo, col suo successore a partire dagli anni ’30 del Settecento, fissa norme qualitative, ma le novità stimolanti si hanno negli hôtels di Parigi. Dopo una breve fase, durante la Régence, del più alto dinamismo barocco (Galerie Dorée dell’Hôtel de Toulouse, Decotte e Vassé, 1716) segue, a partire dagli anni ’20, il rococò, stile indipendente che fonde tutte le precedenti invenzioni formali e abbraccia tutti i generi artistici. Limitato, nella sua forma classica, agli spazi interni e alle arti decorative, si sviluppa in seguito nella periferia e in altre nazioni come repertorio ornamentale nei più diversi contesti (per esempio, palazzo Tarsia a Napoli, 1733, e il Palacio Dos Aguas a Valencia, 1740). Porta con sé l’unificazione degli spazi, rivestendo le pareti come una sottile pelle. Il mobile è altrettanto ben integrato e vive un periodo di estremo splendore. Probabilmente il rococò trova la sua più grandiosa espressione quando un architetto imprime un ritmo unitario, come Boffrand nel salone ovale della principessa dell’Hôtel de Soubise a Parigi (1736), ma la coeren-
8. Johan Bernhard Fisher von Erlach, chiesa collegiata, 1696-1707. Salisburgo.
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za dello stile è così forte che anche maestri puramente decorativi, come Pineau o Verberckt, realizzano risultati meravigliosi (gabinetto della contessa di Toulouse, castello di Rambouillet, 1735). Insieme a questi sono piccoli ambienti giocosamente decorati con chinoseries o singeries, gabinetti di porcellana e lacca. All’estero si adottano e sviluppano le tendenze decorative francesi più esuberanti, ad esempio nelle Reiche Zimmer della Residenz di Monaco (Cuvillés, 1730), nei palazzi di Berlino e Potsdam (Knobelsdorff, degli anni ’40), nelle stanze del Palazzo Reale di Torino (Alfieri e Piffetti, anni ’40). Intorno al 1750 comincia a levarsi una violenta critica al rocaille, alla sua mancanza di serietà, alla tendenza all’asimmetria e alla frammentazione, al chimerico e all’artificioso. La critica si leva in nome di un ritorno al glorioso passato di Luigi xiv e del Cinquecento, alla natura e soprattutto all’antico, in coincidenza con i valori proposti dall’Illuminismo nelle arti figurative. Già negli anni ’50
ne sono segni distintivi esteriori la decorazione à la grecque e infine le colonne doriche senza base, al posto più esuberante ordine corinzio o composito. Il periodo è pieno di contraddizioni e polemiche, come di compromessi conservatori. Solo con lentezza verso il 1780 si sviluppa uno stile omogeneo e più severo. I rappresentanti dell’opposizione e gli innovatori, come Piranesi, Clérisseau e Legeay, si oppongono agli architetti conservatori ufficiali della transizione, Gabriel in Francia, Vanvitelli in Italia e Chambers in Inghilterra. Le Accademie di Roma e Parigi, più tardi di Madrid e Parma, costituiscono i luoghi di incubazione del movimento neoclassico, e i progetti presentati nei concorsi annuali ne costituiscono l’avanguardia. Roma diventa ancora una volta il centro dello scambio internazionale del nuovo; i nuovi scavi archeologici a Roma e la scoperta di Ercolano e Pompei svelano un’immagine viva dell’antichità. La Grecia viene contrapposta a Roma, e gli in-
9. Germain Boffrand, Salone ovale della Principessa, 1736. Hôtel de Soubise, Parigi.
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10. Giovan Battista Natali (progetto), Gabinetto della regina Maria Amalia di Sassonia, dal Palazzo Reale di Portici, 1757-1759. Museo di Capodimonte, Napoli. 11. Giuseppe Gricci, Gabinetto di porcellana, 1763-1765. Palazzo Reale, Aranjuez.
glesi Stuart e Revett e il francese Leroy fanno a gara per pubblicare i monumenti autenticamente greci: The Antiquities of Athens (i, 1764) e Les Ruines des plus beaux monuments de la Grèce (1758). Eppure, poco dopo, il classico non basta più, e vengono in primo piano i templi arcaici di Paestum (Major, 1768), il palazzo imperiale di Spalato (Adam, 1764), le città ellenistiche del Vicino Oriente (Wood, The Ruins of Balbec, 1757) e infine – intorno alla fine del secolo – anche la monumentalità estrema delle piramidi d’Egitto. Un altro aspetto dell’Illuminismo e del neoclassicismo è la valorizzazione e la conseguente monumentalizzazione degli edifici pubblici e dell’amministrazione dello Stato (ne è un esempio l’École Militaire di Parigi, di Ange-Jacques Gabriel, 1751), compresi quelli di utilità pratica come le manifatture e le strutture tecniche (castelli d’acqua). Due tipologie erano state già in precedenza sperimentate, nel segno della rappresentazione principesca, in forma monumentale: da
un lato le stalle di Versailles (Hardouin-Mansart, 1679), passando per Vienna (Fischer von Erlach, 1719) e Chantilly (Aubert, 1722) fino alle Horse Guards di Londra (Kent, 1751); dall’altro, il teatro, dapprima come parte del complesso palaziale a Nancy (Francesco Galli Bibiena, 1708), Monaco (Cuvilliés, 1733), Torino (Alfieri, 1738), Bayreuth (Giuseppe Galli Bibiena, 1745), Versailles (Gabriel, 1761) e Caserta, per giungere a quelli borghesi di Mantova (Antonio Galli Bibiena, 1767), Parigi (Comédie Française, Peyre e De Wailly, 1769), Besançon (Ledoux, 1771), Bordeaux (Louis, 1772) e Milano (Scala, Piermarini, 1776). In tal senso non dobbiamo dimenticare che la scenografia era una delle attività artistiche più importanti – tra architettura, pittura e geometria – il suo splendore rimane inscindibilmente legato a quello della famiglia Galli Bibiena di Bologna. La storia degli ospedali generali, come luoghi di accoglienza di tutti gli offesi nel fisico e nelle relazioni sociali, rimonta mol-
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to indietro nel tempo; ma ora anche questo tipo di edificio acquisisce ruolo e grandiosità rappresentativa: dall’Ospizio di San Michele a Roma (1692) fino all’Hôtel-Dieu di Lione (Soufflot, 1744), all’Albergo dei Poveri a Napoli (Fuga, 1749) e all’Hospital General a Madrid (Sabbatini, 1769). Verso il 1770 sorgono a Parigi tre importanti edifici che in seguito verranno riconosciuti come modelli della nuova architettura: essi sono, accanto alla Comédie Française, l’École de Chirurgie (Gondoin) e la Monnaie (Antoine). Esistono esempi di ogni genere in tutta l’Europa continentale, dei quali se ne menzionano qui solo alcuni: Curia Innocenziana (Palazzo Montecitorio) e Palazzo della Dataria (Consulta) a Roma, Segretaria e Archivio di Stato a Torino (Alfieri), Cancelleria di Corte Boema (Böhmische Hofkan-
zlei) e Cancelleria Imperiale (Reichskanzlei) a Vienna; le Dogane a Roma, Valencia, Malaga e Madrid, le Accademie di Medicina a Barcellona (Rodriguez, 1761) e Vienna (Canevale, 1783); i Granai a Roma (Carlo Fontana 1703), i Granili a Napoli (Fuga, 1779) e la Halle au blé a Parigi (Le Camus de Mézières, 1763). Anche le biblioteche e i musei, infine, offrono testimonianza di una nuova posizione pubblica della cultura dell’Illuminismo: la Hofbibliothek di Vienna (Fischer von Erlach, 1722) e quelle di numerosi monasteri (ad esempio Schussenried), il museo Pio Clementino in Vaticano (1771), il Fridericianum a Kassel e il Prado a Madrid, così come già prima, la semipubblica villa del cardinale Alessandro Albani. La Gran Bretagna disponeva però già da tempo di una grande tradizione di rappresentatività degli edifici pubblici:
12. Thomas Richardson, Queen Charlotte’s Cottage, 1772-1805 ca. Reale Giardino Botanico di Kew, Richmond.
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13. Giovanni Battista Piranesi, Veduta di Campo Vaccino, dalle «Vedute di Roma». Incisione, 1757 ca. Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Firenze.
dagli ospedali reali a Chelsea (Wren, 1682) e Greenwich (Wren, 1695), agli edifici universitari di Oxford e Cambridge fino al vasto complesso di ministeri di Somerset House (Chambers, 1776) a Londra, dalla Bank of England alla Newgate Prison (Georges ii Dance, 1769) oppure alle Four Courts e alla Custom House di Dublino (Gandon). Il centro dell’innovazione architettonica in questo periodo è Parigi, e qui anche il tema tradizionale della chiesa vive un ultimo momento di rinnovamento. La fondazione reale di Sainte-Geneviève (Panthéon) di Soufflot (1757), sintesi dei grandi edifici a pianta centrale, dal San Pietro a Roma alla cattedrale di Saint Paul a Londra, è, senza dubbio, qualcosa di molto diverso, un edificio a colonne più leggero, luminoso e trasparente, completato all’esterno dalle forme
grandiose del portico del tempio e della cupola. Quando nel 1764 la discussa e laboriosa costruzione iniziò effettivamente, sono già tre le chiese progettate che si ricollegano, con una semplificazione radicale, a un tipo autenticamente antico, la basilica paleocristiana a colonne (Saint-Philippe-du-Roule a Parigi, Saint-Symphorien a Montreuil, SaintLouis a Saint-Germain-en-Laye). Gli antichi incarichi di costruzione di palazzi di potere e nobiliari, hôtel particulier e villa, si rivestono senza sforzo delle nuove forme e partecipano dell’impulso di grandiosità e originalità. Si ricordino tra i primi il palazzo e la villa Belgioioso a Milano (Piermarini e Pollak), tra gli ultimi l’Hôtel de Brunoy (Boullée, 1774), quello della vedova del magnate della finanza Mme de Thélusson, e della ballerina Mlle Guimard (Ledoux, 1777 o 1770) a Pari-
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gi, e la Bagatelle per un membro di casa reale fuori città (Bélanger, 1777). Lo stesso vale per la decorazione degli interni, che si rinnova nel segno dell’antico, sull’onda dei ritrovamenti a Roma e nelle città vesuviane. Il protagonista più noto è Robert Adam, eppure gli interieurs francesi superano spesso i suoi in raffinatezza e preziosità (Rousseau, Bélanger). Nei parchi delle tenute di campagna si affollano le fabriques, ai padiglioni di ogni genere, chioschi turchi e pagode cinesi del rococò, si uniscono ora tempietti e torri (Tower of the winds), monumenti commemorativi e ponti palladiani, laiteries per simulare una vita semplice e rovine pittoresche simbolo della caducità. Queste piccole architetture fissano i punti di vista e danno accenti sorprendenti al giardino «all’inglese», prodotto apparentemente da una crescita naturale e invece pianificato ad arte, che sostituisce quello francese rigidamente architettonico (Stourhead, Wilton, Kew Gardens; Retz, Méréville, Ermenonville; Schönbrunn, Wörlitz). La ricerca di libertà e natura si contrappone alla continua, crescente organizzazione architettonica e amministrativa della città, tra embellissement e migliorie sanitarie. Il xviii secolo è anche il periodo della costruzione razionale della città. A seguito di terremoti catastrofici, si costruiscono la nuova Noto in Sicilia e la Lisbona di Pombal, come capitali pianificate di imperi in ascesa Potsdam e Berlino, San Pietroburgo e Washington; gli ampliamenti urbani di Torino e Londra, con le loro piazze private, i nuovi quartieri di Edimburgo (anni ’70), Bath come città termale, con una composizione di diverse forme di piazze (John Wood padre e figlio), in Spagna i piccoli insediamenti Nuevo Baztán per una manifattura e La Carolina per lo sfruttamento agricolo della Sierra Morena. Il tema che sul piano artistico si rivela come il più importante è quello tradizionale della place royale: da Place Vendôme (Louis le Grand, Hardouin Mansart, 1685) a Parigi fino a quelle di Lione, Rennes, Bordeaux (Jacques v Gabriel, 1735), fino a Place de la Concorde (Luigi xv, Ange-Jacques Gabriel, 1753) e infine a quelle
che seguono a Nancy e Reims e nella lontana Lisbona. Anche qui si mostra lo spirito nuovo, con l’emergere della funzione pubblica accanto a quella celebrativa, con in primo piano municipi e uffici pubblici. Come il tardobarocco, anche il neoclassicismo celebra la grandezza retorica degli ordini colossali, finché non vengono loro contrapposti nel classicismo radicale del l’«architettura della rivoluzione» il volume nudo e le forme stereometriche. Più ancora dell’onnipresente portico di tempio, è il colonnato libero, forma antica e pura, a farsi segno di riconoscimento del neoclassicismo: lo si trova davanti ai grandi teatri di Francia, all’École de Chirurgie e all’Hôtel de Salm (Rousseau, 1784). L’isolamento del colonnato del Louvre, del tempo di Luigi xiv, diviene una questione di identità artistica nazionale (1751). La nuova severità e sobrietà, la durezza della composizione sono un aspetto, al quale altri, opposti, si affiancano, come una nuova libertà d’invenzione svincolata dagli antichi canoni che guarda al manierismo e soprattutto una nuova dimensione che si proietta nell’utopia. Il progetto per un insediamento di saline che serva all’industrializzazione di territori boschivi, Chaux presso Arc-et-Senans (1775), cresce con gli anni nella fantasia di Ledoux fino a diventare una compiuta unione tra città e campagna; Parigi è circondata da mura daziarie e le porte (barrières) divengono i «propilei» della città (1784). Boullée disegna, negli anni ’80, modelli ideali di edifici pubblici di dimensioni colossali (cattedrale, biblioteca, museo, cenotafio di Newton). Si tratta di architetture per molti aspetti irrealizzabili, ma «parlanti» (architecture parlante), che esprimono con un’immagine architettonica il proprio scopo, l’elevazione morale e l’educazione del cittadino (tra gli esempi realizzati il più impressionante è la Newgate Prison). Le effimere architetture per le feste della rivoluzione e i progetti per i palazzi di Napoleone saranno eredi di questa «architettura rivoluzionaria» che ha preceduto la Rivoluzione francese.
14. Étienne-Louis Boullée, Progetto per il cenotafio di Newton, alzato. Inchiostro su carta, 1785 ca. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.
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Pierre Vaisse
1. Studio fotografico «Napoleón», Barcellona, Ritratto maschile. Dagherrotipo, 1855 ca. Museu de la Ciència i de la Tècnica de Catalunya, Terrassa.
Due grandi avvenimenti dominano il xix secolo: la Rivoluzione francese, per le conseguenze che ha avuto sulla società, e quella che si definisce Rivoluzione industriale, espressione consolidata, anche se piuttosto mal scelta per designare un’evoluzione lenta, che ha avuto tempi e ritmi differenti nei diversi Paesi d’Occidente. Nell’ambito delle arti si ritiene che la Rivoluzione francese abbia comportato, con la distruzione della società dell’Ancien Régime, la scomparsa dei committenti tradizionali – i principi, la Chiesa e l’aristocrazia – obbligando gli artisti a rivolgersi a una nuova clientela; clientela borghese di cui bisognava soddisfare i gusti, ma clientela anonima, che si poteva raggiungere solo con le esposizioni e il mercato dell’arte, entrambi fenomeni che conobbero infatti nel corso del secolo, soprattutto nei suoi ultimi decenni, un considerevole sviluppo. Spesso ripetuto, questo modo di vedere le cose è eccessivamente semplificato. Da un lato la Rivoluzione non colpì allo stesso modo in tutti i paesi le strutture sociali, e quando l’antica nobiltà cominciò a celarsi, per mezzo della personale fortuna, dietro a finanzieri o industriali, questi ultimi seppero a loro volta farsi costruire palazzi e castelli di cui affidarono la decorazione agli artisti più in vista, o riunire collezioni prestigiose, sia d’arte contemporanea sia d’arte antica. Dall’altro, se il ruolo dei committenti ecclesiastici e dei principi sembra affievolirsi, alla loro azione a poco a poco si sostituisce quella dello Stato, che viene esercitata con l’intermediazione di un’amministrazione sempre più sviluppata. Un’evoluzione che comporta senza dubbio una
modificazione dei rapporti fra artisti e committenti, ma nessuna riduzione di incarichi. Al contrario, l’arte ufficiale si manifesta nel corso del xix secolo in due forme che assumono un’importanza considerevole: i monumenti scultorei e la pittura murale. In tutti i paesi occidentali i monumenti invadono strade, piazze e parchi urbani, che si tratti di celebrare il sovrano, ricordare un grande personaggio, commemorare un avvenimento o glorificare un’idea per mezzo di un’allegoria, come quella della Libertà che s’innalza di fronte al porto di New York (1871-1884), opera dello scultore Bartholdi (1834-1904) e dell’ingegnere Eiffel. Quanto alla pittura murale, oggi in gran parte caduta nell’oblio, essa ricopre i muri di chiese, municipi, palazzi di giustizia, musei, università, insomma di tutti gli edifici pubblici che allora si moltiplicarono – poiché l’architettura monumentale resta in buona parte di competenza dei pubblici poteri. La Rivoluzione (fenomeno così complesso che occorrerebbe piuttosto parlare di rivoluzioni che si succedono o si giustappongono) fu un avvenimento brutale, che provocò reazioni violente e durature. Fra le conseguenze di tale situazione conflittuale bisogna tener conto di una nuova politicizzazione dell’arte. Essa non colpisce solamente i soggetti rappresentati – ad esempio attraverso la caricatura, che conosce nel corso del secolo uno sviluppo considerevole grazie al progresso della carta stampata: la novità sta soprattutto nel fatto che essa riguarda anche gli stili, che verranno interpretati come espressioni di atteggiamenti ideologici. Il ricorso agli stili del passato, che caratterizza una parte dell’arte del xix secolo e trova almeno in parte spiegazione nell’im-
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portanza assunta dagli studi storici, non è estranea a tale politicizzazione, alla quale è legato d’altronde l’interesse rivolto alla storia come fonte di giustificazione del presente. Quando scoppia la Rivoluzione, l’arte è dominata da uno stile che proseguirà ancora a lungo nel xix secolo: il neoclassicismo. All’inizio semplice ritorno, in architettura come nella decorazione, alla purezza della dottrina classica in reazione agli eccessi del rococò, esso assume presto l’aspetto rigoroso e severo di un ritorno quasi archeologico alle forme antiche, configurandosi come il primo degli storicismi che si avvicenderanno nell’arte del xix secolo. Se il Rinascimento aveva ripristinato l’uso degli ordini antichi (che perdureranno fino al xx secolo), è solo alla fine del xviii e all’inizio del xix secolo che si costruiscono chiese sul modello dei templi greci o romani, come la Madeleine a Parigi, edificata sotto il primo Impero, o la chiesa di San Francesco di Paola a Napoli, che riproduce il Pantheon di Roma. Trionfante da San Pietroburgo a Washington, da Edimburgo ad Atene, capitale del regno di Grecia fondato nel 1827, il neoclassicismo conobbe una diffusione internazionale, peraltro con alcuni punti forti: i giovani Stati Uniti, dove le banche e i Campidogli (il nome stesso richiama Roma) dei diversi Stati prendono la forma di templi romani; la Baviera, dove l’architetto Leo von Klenze (1784-1864), chiamato a Monaco dal re, trasforma la città in una nuova Atene con i suoi Propilei, e costruisce presso Ratisbona, su una collina che domina il Danubio, un tempio antico in onore di tutte le glorie tedesche; Berlino e la Prussia, dove Schinkel (1781-1841), l’autore della Neue Wache e dell’Altes Museum, impone una forma originalissima di classicismo, che i discepoli manterranno a lungo dopo la sua morte, avvenuta nel 1841; o ancora Helsingfors (l’attuale Helsinki, allora sotto la dominazione russa), dove l’architetto Engel (1778-1840) edifica nel secondo quarto del secolo un ammirevole complesso nel cuore della città. Si è attribuito agli scavi di Pompei e di Ercolano, condotti alla metà del xviii secolo,
un ruolo decisivo nella comparsa del neoclassicismo. In realtà, essi diedero soprattutto avvio a uno stile decorativo, così come la campagna d’Egitto, nei primi anni del xix secolo, fece sorgere la moda dei mobili all’egiziana. Più importante fu lo studio dei monumenti della Magna Grecia (Italia del Sud e Sicilia) e della Grecia stessa; studio che condusse a un ritorno all’ordine dorico greco, senza base. Si ritrovarono anche resti di pigmenti che causarono, dopo il 1825, una celebre querelle pro o contro la policromia dell’architettura antica, la cui posta altro non era che la giustificazione o il rifiuto della policromia nell’architettura contemporanea – dibattito continuato fino al xx secolo. Più direttamente i progressi dell’archeologia permisero di stabilire che vi era una differenza profonda fra l’arte greca e quella romana, mentre fino a quel momento le due erano state confuse sotto la comune denominazione di arte antica. Winckelmann (17171768), che fondò nel terzo quarto del xviii secolo una nuova forma di storia dell’arte e la cui influenza fu considerevole, non si contentava di stabilire una distinzione fra le due, ma affermava la superiorità della prima sulla seconda, poiché vedeva in essa una manifestazione dello spirito di libertà che avrebbe regnato nelle città greche e in particolare ad Atene, ritenuta la culla della democrazia. La dimensione chiaramente ideologica di tale dottrina ne assicurò il successo in Francia durante la Rivoluzione. Di fatto, il neoclassicismo ricevette talvolta un’interpretazione progressista, ma essa poteva scaturire dal richiamo tanto alla repubblica romana quanto alla democrazia ateniese; ed è Roma che servì da modello a Jefferson per i primi edifici pubblici dei nascenti Stati Uniti. Il significato ideologico delle forme varia tuttavia secondo le epoche e le circostanze. È così che nell’impero degli Asburgo il neo classicismo perdurò fino al 1848 come stile dell’architettura ufficiale, fatto che spiega la scelta da parte della nobiltà ceca e morava del neogotico, ad esempio nel castello di Hluboka nad Vltavou, costruito nel 1840 da Frantisek Beer. Si trattava più precisamente
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2. Leo von Klenze, Walhalla, 1830-1942. Ratisbona.
di un neogotico all’inglese, poiché l’Inghilterra appariva, in opposizione all’impero di Metternich, una monarchia liberale, e soprattutto perché si credeva di riconoscere in esso lo stile di un’architettura precedente la deriva assolutista della monarchia, che nella stessa Inghilterra dalla metà del xviii secolo aveva goduto del favore dei wrights. Il ritorno al gotico e più in generale al Medioevo, dopo secoli di dominazione incontrastata, almeno in teoria, del modello antico, costituisce una rottura profonda, l’inizio di una progressiva riscoperta del va-
lore di tutte le arti di tutte le epoche. Senza dubbio nessuno stile è stato così caricato di significati densi e contraddittori come quello gotico – cosa che spiega la sua diffusione ineguale nei diversi paesi e il fatto che anche dove s’impose più nettamente non riguardò mai l’intera produzione architettonica e decorativa, come invece fece il neoclassicismo, in reazione al quale si poneva. Nella stessa Inghilterra, dove la tradizione gotica si era conservata viva fino al xviii secolo, fu a lungo bandiera dello stile nazionale, e a tale titolo fu scelto per la ricostruzione del Parlamen-
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to di Londra, a partire dal 1836, da parte dell’architetto Barry e di Pugin per gli arredi e la decorazione interna. Ma lo stesso Pugin, appassionato partigiano del ritorno a un Medioevo idealizzato, vedeva prima di tutto nel gotico uno stile religioso, quello dell’architettura cattolica prima della Riforma. Del resto trovò in seno all’alto clero della Chiesa anglicana sostenitori favorevoli a un riavvicinamento con il cattolicesimo, soprattutto in materia di liturgia. Anche se la casa gotica costruita dal 1773 nel parco all’inglese ideato dal principe di Sassonia-Anhalt a Wörlitz, a sud di Berlino, costituisce un caso particolare, il gotico apparve presto in Germania. Il suo stesso nome e l’espressione italiana per designarlo, «maniera tedesca», contribuivano a farlo considerare come lo stile germanico per eccellenza, che già Goethe opponeva allo stile welsch (latino) nel suo testo del 1772 in onore di Erwinn von Steinbach, l’architetto più o meno leggendario della cattedrale di Strasburgo. Con l’esaltazione nazionalistica causata dalle guerre napoleoniche, il gotico diviene lo stile nazionale per eccellenza, quello in cui Schinkel progetta per una piazza di Berlino un gigantesco monumento in forma di cattedrale, e edifica, sulla collina di Kreuzberg, il monumento commemorativo delle vittorie sull’armata napoleonica. Presto anche in Germania il gotico diverrà lo stile cattolico per eccellenza, soprattutto con il progetto di completamento della cattedrale di Colonia. A lungo ritardato per questo motivo dalla Prussia, il cantiere, uno dei più importanti del secolo, si apre nel 1840 per concludersi nel 1886. All’incirca nello stesso periodo inizia il restauro di Notre-Dame di Parigi da parte di Viollet-le-Duc (1814-1879) e Lassus (1807-1857), l’architetto di Notre-Dame di Nantes e di Saint-Pierre a Moulins, due chiese rappresentative della fedeltà ai modelli medievali del neogotico nell’arco di una ventina d’anni, a partire dal 1840. In effetti, a quell’epoca tale stile era strettamente legato ai progressi dell’archeologia medievale, a sua volta legata all’idea di protezione dei
monumenti storici (l’amministrazione ad hoc è creata in Francia giusto all’indomani della rivoluzione del 1830), e all’interesse dell’epoca romantica per il Medioevo. Eppure, nonostante l’archeologia medievale avesse rapidamente potuto stabilire, a dispetto delle pretese germaniche, che il gotico era apparso per la prima volta nel dominio reale dell’Îlede-France, il neogotico conobbe in Francia una diffusione relativamente ridotta, essendo quasi unicamente riservato all’architettura religiosa, per di più in concorrenza con un neoromanico più discreto sul piano teorico, ma più diffuso. L’evoluzione della scultura offre tutt’altra situazione. In quest’arte pareva essersi incarnato l’ideale di serena grandezza e di nobile semplicità che, secondo Winckelmann, era stato proprio della Grecia. La perfezione riconosciuta alla statuaria antica, in particolare alla statuaria greca conosciuta attraverso le copie di età romana, e il peso di modelli come il Torso e l’Apollo del Belvedere, il gruppo del Laocoonte, l’Antinoo, la Venere pudica, ecc., facevano della scultura l’arte neoclassica per eccellenza. Due sono gli scultori che incarnarono al meglio questo stile, al punto d’acqui-
3. Antoine-Louis Barye, Leone e serpente. Bronzo, 1835. Museo del Louvre, Parigi.
4. Antonio Canova, Amore e Psiche. Marmo, 1787. Museo del Louvre, Parigi.
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sire una fama raramente raggiunta fino allora da degli artisti: Antonio Canova (1757-1822) e il danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844), che da Roma, dove si erano stabiliti, lavorarono per clienti di tutta Europa. Alla Gliptoteca di Monaco, edificata da Leo von Klenze dal 1816 per ospitarvi la collezione di sculture antiche del regno di Baviera (e che fu uno dei primi esempi della nuova tipologia architettonica del museo), il percorso cronologico si completava con una sala a loro consacrata, per affermare come dopo quasi due millenni grazie ad essi rivivesse l’arte della scultura. Alla morte di Canova la sua casa natale a Possagno, in Veneto, venne trasformata in gipsoteca per accogliere i suoi gessi; quanto a Thorvaldsen, che tornò nel suo paese poco
prima della morte, la città di Copenaghen fece costruire un museo per accogliere le sue opere giunte con grande pompa da Roma. Se lo stile di Canova risente ancora della grazia del rococò in opere come l’Amore e Psiche del Louvre, quello di Thorvaldsen, che si tratti del Cristo con gli apostoli per la cattedrale di Copenaghen o del monumento a Copernico a Varsavia, si distingue per una maggiore severità non scevra da una certa freddezza. La scoperta dei marmi del Partenone, trasportati a Londra da Lord Elgin, e dei marmi d’Egina, esposti alla Gliptoteca di Monaco, ossia di originali greci di Fidia o della sua epoca, modificò profondamente la visione che si poteva avere della scultura antica, ma ciò ebbe un’influenza limitata sulla scultura neoclassi-
5. Jean-Auguste-Dominique Ingres, Apoteosi di Omero. Olio su tela, 1827. Museo del Louvre, Parigi.
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ca. Così Pradier (1790-1852), artista d’origine genovese che fece carriera a Parigi nel secondo quarto del secolo, mise il suo eccezionale virtuosismo al servizio di un’ispirazione pressoché ellenistica, sensuale nella scelta dei soggetti e nella loro resa. Il peso della tradizione antica era tuttavia tale da impedire lo sviluppo di una scultura romantica, se si eccettua la piccola statuaria decorativa e l’opera di qualche personalità d’eccezione, in primo luogo Préault e Barye. Quasi dimenticato, Préault (1809-1879) fu senza dubbio il più grande scultore del secolo prima di Rodin, ma non rimane quasi alcun originale della sua produzione. Il suo grande Crocifisso ligneo della chiesa di Saint-Gervais a Parigi è scolpito in un materiale insolito per un’epoca in cui il marmo e il bronzo, materiali della statuaria antica, erano considerati i soli degni dell’arte maggiore. Il bassorilievo della Mort d’Ophélie trae il soggetto da un autore caro ai romantici. Quanto alla Ondine, se il titolo è probabilmente riferibile al poeta tedesco La Motte-Fouqué, le forme vengono chiaramente da Michelangelo. Questo ritorno all’arte di uno scultore sempre ammirato, ma poco imitato nel secolo precedente, e il cui esempio passava per pericoloso, un genio cupo e solitario dallo stile segnato dalla terribilità, risultava congeniale allo spirito romantico e costituiva allo stesso tempo una svolta nell’evoluzione della scultura nel xix secolo. Il romanticismo di Barye (1796-1875) è tutt’altra cosa, fatta di esotismo e brutalità. Barye ha rappresentato quasi solo animali, soprattutto selvaggi, belve in combattimento o mentre divorano la preda. Per i soggetti si avvicina a Delacroix, appassionato di caccia alle fiere. Ma mentre quest’ultimo s’ispirava a una lunga tradizione – illustrata fra gli altri da Rubens – che con lui era destinata a scomparire, è con Barye che ha avvio la tradizione della scultura animalista; un genere, rimasto fino allora ai margini, che doveva divenire uno dei maggiori della scultura per più di un secolo, fino a Brancusi e Germaine Richier. Nel suo insieme, tuttavia, la scultura del xix secolo è ritenuta meno interessante della
pittura. Sottoposta a maggiori vincoli materiali ed economici, e dipendente per le opere impegnative da commissioni ufficiali, gli scultori non avevano la stessa libertà d’innovazione dei pittori; e saranno alcuni pittori, da Géricault a Degas, talvolta anche scultori e liberi dalla necessità di fare carriera in quell’ambito, a produrre nel corso del secolo le sculture più originali. Anche se quest’ultima affermazione, sovente ripetuta, ha qualcosa d’eccessivo, resta che dopo il periodo neoclassico la pittura, considerata un’arte romantica e dunque moderna, ha goduto nell’insieme di una considerazione superiore rispetto alla scultura. Nel neoclassicismo infatti l’evoluzione della pittura si fonda su basi differenti da quelle della scultura. L’antichità le offriva i soggetti, ma la pittura antica – ossia i resti di pitture murali ritrovati a Roma o a Pompei – non poteva servire da modello, se non per puri decori, e faceva poi dubitare della superiorità in questo ambito degli antichi. Di certo i celebri scultori antichi fornivano alla pittura motivi di studio e modelli di figure singole, ma non erano di alcun aiuto per la composizione di un quadro. Come l’architettura, la pittura neoclassica ricercò in primo luogo il ritorno alla più pura tradizione classica contro gli eccessi del rococò; ma più che i maestri italiani del Rinascimento, i pittori che s’imposero inizialmente come modelli furono Poussin per la pittura di storia e Claude Gellée detto Lorrain, per il paesaggio. Di Poussin i pittori di storia imitavano soprattutto le opere più severe: la Morte di Germanico, allora visibile a Roma in Palazzo Barberini, il Testamento di Eudamide e le due serie dei Sacramenti; modelli da cui deriva il raggrupparsi dei personaggi a fregio davanti a un muro parallelo al piano del dipinto, un tipo di composizione che riapparve nella seconda metà del xviii secolo, per esempio in Gavin Hamilton, per divenire la norma in Francia attorno al 1800. Nel frattempo un grande artista di fama europea aveva imposto tale stile mediante le sue opere e quelle dei suoi allievi, David (1748-1825). Egli aveva riportato il primo grande successo a Roma nel 1784, poi a Pa-
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rigi l’anno seguente, con il Giuramento degli Orazi, ispirato alla tragedia di Corneille. Il quadro fu seguito dalla Morte di Socrate, poi nel 1789 da I littori riportano a Bruto i corpi dei figli. Si è voluto vedere in quest’ultimo dipinto, anche se commissionato dalla Surintendance des Bâtiments du Roi, l’espressione di un ideale repubblicano. David s’impegnò d’altra parte in politica al punto da essere eletto membro della Convenzione nel 1792, e di votare in tale ruolo la morte del re. Alla caduta di Robespierre per poco non finì sulla ghigliottina. Nonostante sia divenuto più tardi il primo pittore dell’imperatore, il suo atteggiamento sotto la Rivoluzione conferma l’interpretazione ideologica del neoclassicismo già formulata all’epoca, fondata sul fatto che David avesse reagito ad uno stile associato, a torto o a ragione, al potere reale. Si trattava dello stile dei pittori più in voga in seno all’Académie Royale de
Peinture et de Sculpture, istituzione scomparsa insieme a molte altre dell’Ancien Régime nella tormenta rivoluzionaria, e contro la quale si accanì David. Una trentina d’anni più tardi, durante la Restaurazione, i ruoli s’invertirono: l’accusa d’accademismo, diretta ancora all’inizio del xix secolo dai sostenitori del classicismo contro i pittori di Luigi xv, i Boucher e i Carle van Loo come i loro discepoli, si ritorcerà intorno al 1820 contro coloro che l’avevano formulata; ossia contro i sostenitori del classicismo, che dominavano allora un’istituzione nata sotto la Rivoluzione e battezzata nel 1816 Académie des Beaux-Arts per affermare un legame, che in realtà nulla giustificava, con l’antica Académie royale. Sotto l’etichetta di «accademismo» rimastagli a lungo abbinata, il neoclassicismo passava dunque nello spirito dei contemporanei dalla parte del potere reale e della reazione politica.
6. Théodore Géricault, La zattera della Medusa. Olio su tela, 1819. Museo del Louvre, Parigi.
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7. Eugène Delacroix, La morte di Sardanapalo. Olio su tela, 1827. Museo del Louvre, Parigi.
Il successo di David poggiava su un’ambiguità: neoclassico per la severità delle sue composizioni, non rompeva con le pratiche tradizionali della pittura. Allievo di Boucher, ne abbandonò presto lo stile, ma restò fedele alla ricca tecnica dei pittori del xviii secolo, alla quale si aggiunse la lezione di Caravaggio, di cui scoprì le opere a Roma. Ciò spiega perché quando il neoclassicismo cadde in un discredito totale, alla fine del xix e all’inizio del xx secolo, si continuò ad ammirarlo per ciò che si definiva il suo realismo, evidente soprattutto nei ritratti e nelle scene contemporanee, come l’Incoronazione di Napoleone. Egli ambì inoltre, con le Sabine e il Leonida
alle Termopili, ad avvicinarsi all’arte greca, ma il suo sforzo si limitò in sostanza a mostrare guerrieri nudi come statue antiche. Si trattava di un arcaismo affatto timido se lo si paragona a quello di un piccolo gruppo di allievi conosciuti sotto il nome di Barbus, animati da una volontà di ritorno alle origini dell’arte che annuncia e prefigura tentativi analoghi, d’importanza decisiva per l’evoluzione dell’arte nei secoli xix e xx. La stessa ambizione preoccupò il giovane Ingres (1780-1867), uno dei più grandi e contestati pittori dell’epoca. I primi dipinti che espose, verso il 1805, gli valsero il rimprovero di voler ricondurre l’arte alla sua
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infanzia, all’epoca di Jan van Eyck. Si chiamava in causa l’assenza di modellato dalle sue figure, che parevano quasi piatte, un’assenza di modellato che si denunciava come una mancanza di abilità, come l’abbandono di un principio fondamentale della pittura, la resa del volume, considerata una conquista decisiva dell’arte della pittura dai tempi del Rinascimento. Tale rimprovero si ripropose in maniera ricorrente nel corso del secolo, toccando tanto il Fifre di Manet (1832-1883) quanto le composizioni murali di Puvis de Chavannes (1824-1898), fino a quando Gauguin e i suoi discepoli, verso il 1890, fondarono il loro stile sull’affermazione della piattezza del supporto, dunque sulla rinuncia assoluta dell’illusione del volume. Una presa di posizione così radicale era ancora impensabile all’inizio del secolo. Ciò spiega perché una forma di pittura greca già ben conosciuta, quella dei vasi (chiamati peraltro «vasi etruschi»), che ignorava totalmente il modellato a vantaggio del solo contorno, non ispirò i pittori che per opere marginali come la Vénus blessée remontant dans l’Olympe di Ingres, di un arcaismo senza futuro. Ma un certo numero di ritratti che egli esegue fra il 1807 e il 1824 mostra un personaggio a mezzo busto in primo piano su un fondo paesistico visto dall’alto, secondo una formula ispirata alla pittura del xv secolo; pittura ancora considerata in quel momento primitiva, precedente ai progressi decisivi che si riteneva le avessero fatto compiere i maestri italiani del Rinascimento all’inizio del xvi secolo. Non erano lontani i tempi in cui il Rinascimento sarebbe stato denunciato, in virtù di un fondamentale rivolgimento dell’estetica, come l’inizio di una lunga decadenza. Ingres, tuttavia, non doveva compiere questo passo. Si arrestò a Raffaello, divenuto il suo idolo e al quale numerosi artisti nel xix secolo tributarono un vero e proprio culto. Ingres vi si ispirò direttamente per il Voto di Luigi xiii, dipinto d’altare destinato alla cattedrale della sua città natale, Montauban, che ebbe un tale successo quando venne esposto al Salon del 1824 che Ingres, che abitava in
Italia dopo la caduta dell’Impero, tornò a Parigi dove l’attendeva una brillante carriera di pittore ufficiale e di ritrattista mondano. Tre anni più tardi dipinse per un soffitto del Louvre un vero manifesto del classicismo, l’Apoteosi di Omero, incontro d’artisti e scrittori raggruppati attorno al poeta greco, ispirata alla Scuola di Atene e alla Disputa del Sacramento di Raffaello in Vaticano. È questa una delle prime composizioni di questo tipo moltiplicatesi nel corso del xix secolo, in particolare sui muri degli edifici pubblici, poiché particolarmente appropriate alla glorificazione di un paese, di un personaggio o di un’idea. Chi diceva Raffaello, all’epoca, intendeva il primato del disegno sul colore. Questi due principi avevano già provocato, nella Francia dell’epoca di Luigi xiv, una celebre disputa fra sostenitori di Poussin e Rubens. Una querelle analoga doveva dominare la vita artistica in Francia durante il secondo quarto del xix secolo, fra Ingres, i suoi adepti, e Delacroix (1798-1863), uno dei grandi coloristi della storia della pittura. Va da sé che questi termini non sono sufficienti a definire la loro arte: si è osservato che Delacroix padroneggiava il disegno, anche se il suo tratto non era il contorno di cui Ingres coltivava l’eleganza, e che Ingres sapeva ottenere mirabili accordi dalla giustapposizione dei toni. Più significativo è che essi giunsero a incarnare in pittura i due principi opposti del classicismo e del romanticismo. Ma il classicismo di Ingres differisce profondamente dal neoclassicismo di David e dei suoi allievi; quanto al romanticismo pittorico, in Francia è la personalità di Delacroix che ne impose la definizione, mentre in Germania l’importanza del colore nella sua pittura lo fece considerare un realista. Certi aspetti della sua arte, è vero, lo avvicinavano al romanticismo letterario. Pittore di storia di rara fertilità inventiva, spirito aperto e colto, Delacroix trasse spesso i suoi soggetti da autori romantici o cari ai romantici, siano questi Dante, Shakespeare, il Goethe del primo Faust, Byron o Walter Scott. A ciò si aggiunge il fascino su di lui esercitato dall’Oriente, intensificato da un viaggio in Marocco nel 1832 – e chi dice Oriente, all’epoca, in Francia, in-
8. Francisco Goya, Aquelarre, particolare, dalla Quinta del Sordo, Madrid. Affresco trasportato su tela, 1820-1822 ca. Museo del Prado, Madrid.
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tende spaesamento in un mondo colorato, a un tempo sensuale e crudele, come quello evocato da Victor Hugo nelle sue Orientales. Non fosse stato per la personalità di Delacroix e il caso di un incidente, il romanticismo pittorico avrebbe potuto prendere in Francia tutto un altro aspetto con Géricault (1791-1824), il suo primogenito, morto ancora giovane per una caduta da cavallo, ma la cui Zattera della Medusa, immensa composizione ispirata a un fatto tragico, la lunga deriva di naufraghi al largo delle coste del
Senegal, di cui la stampa liberale si era impadronita per attaccare il regime, aveva attirato su di lui l’attenzione quando venne presentata al Salon del 1819. Non si parlò allora di romanticismo, forse semplicemente perché in Francia le grandi battaglie letterarie e teatrali provocate da questo non infuriarono che al Salon del 1827, dove Delacroix espose la Morte di Sardanapalo. In realtà, l’opera di Géricault sfida da allora le classificazioni. Si è voluto vedere in lui un precursore del realismo, nonostante la sua attrazione per l’arte
9. Francisco Goya, La Romería de San Isidro, dalla Quinta del Sordo, Madrid. Affresco trasportato su tela, 1820-1822 ca. Museo del Prado, Madrid.
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italiana e in particolare per la terribilità di Michelangelo. È altresì vero che egli si interessava alla vita del popolo per quanto potesse avere di brutale o miserabile, che gli ispirò non soltanto qualche quadro, ma pure, al tempo del suo soggiorno in Inghilterra, alcune litografie in cui cercò di fissare la miseria dei bassifondi di Londra. La litografia era un’invenzione recente, frutto del caso, alla quale il pittore monacense Sennefelder deve di essere passato alla storia. Per la facilità d’impiego che offriva,
la litografia s’impose rapidamente come la tecnica per eccellenza della caricatura, che conobbe nel xix secolo la sua età dell’oro. Al contrario, dopo Géricault e Delacroix (che la impiegò per illustrare il Faust) i pittori per lo più la disdegnarono, prima che una generazione più tarda, quella di Manet, la riscoprisse. Anche le altre forme di incisione conobbero un’eclissi durante la prima metà del xix secolo. Da molto tempo l’incisione su legno si limitava all’illustrazione popolare; l’apparizione della tecnica del legno «di testa»,
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che consentiva una maggiore complessità di forme, permise un rinnovamento dell’illustrazione dei libri, ma si dovette attendere il primitivismo di Gauguin alla fine del secolo perché la xilografia rientrasse nella cerchia della grande arte. Quanto all’incisione su rame, che vide fiorire nella seconda metà del xviii secolo un gran numero di innovazioni tecniche, quali la manière de crayon o la maniera nera, essa soffre per un cinquantennio, fin verso il 1860, di un certo discredito, con l’importante eccezione però, all’inizio del secolo, delle serie di Goya (1746-1828). È l’artista ad essere, in sé, eccezionale. La prima metà della sua opera appartiene ancora, per le date e lo spirito, al xviii secolo. La Rivoluzione francese e poi la guerra di Spagna provocarono un cambiamento profondo. All’amabile illustratore di idilli popolari
per un’aristocrazia illuminata fece seguito il visionario de la Casa del sordo, il moralista amaro dei Caprichos, l’accusatore dei Disastri della guerra. Opere ancorate alla realtà sociale e politica del tempo, ma alle quali nulla assomiglia nell’arte contemporanea, e che eserciteranno invece un’influenza profonda sulle generazioni seguenti, ben al di là delle frontiere spagnole. Fenomeno letterario e musicale più ancora che pittorico, per non parlare della scultura, il romanticismo era fiorito in Germania e in Inghilterra prima di conquistare gli altri paesi. In Germania, dove era apparso in poesia nei primi anni del secolo, assume in pittura due aspetti molto diversi. Vi fu da una parte lo sforzo dei pittori detti Nazareni per ricreare un’arte a un tempo nazionale e cristiana, di cui quella del Medioevo offriva
10. Joseph Mallord William Turner, Pioggia, vapore e velocità. Olio su tela, 1844. National Gallery, Londra.
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esempio. Il gruppo si era formato all’Accademia di Vienna. Rifiutando l’insegnamento che vi si riceveva così come l’arte che vi dominava, espressione di una società che aborrivano, i suoi membri partirono nel 1810 per Roma. Si installarono in un antico convento, conducendo una vita quasi monacale interamente consacrata al rinnovamento dell’arte. Alcuni fra loro non andarono lontano su questa strada, ad eccezione di Pforr. Morto giovanissimo nel 1812, egli lasciava alcuni piccoli dipinti di un arcaismo radicale per l’epoca, e un manifesto figurato delle sue convinzioni: una Vergine in trono, frontale, fra Raffaello giovane e Dürer, inginocchiati l’uno davanti a una veduta di Roma, l’altro di Norimberga. Il più puro rappresentante del gruppo fu Overbeck (1789-1869), che fedele alla decisione presa nel 1810 trascorse tutto il resto della sua carriera a Roma, ove dipinse scene religiose come una grande composizione allegorica ispirata alla Scuola di Atene e alla Disputa del Sacramento: il Trionfo della religione nelle arti (1840, Städelsches Institut, Francoforte sul Meno). L’arte dei Nazareni rispondeva allo spirito che regnava in Germania dopo la caduta di Napoleone, intriso di nazionalismo e di ritorno alla religione. Così furono oggetto di sollecitazioni alle quali cedettero facilmente, a cominciare da quello che doveva divenire il più celebre fra loro, Cornelius (1783-1867). A Monaco, Berlino, Düsseldorf, Francoforte, Vienna i Nazareni si imposero presto su tutte le Accademie, su tutte le scuole d’arte importanti di Germania e Austria. Tutti vennero chiamati a decorare con immensi affreschi pareti di edifici pubblici come la Gliptoteca e la Residenza di Monaco, decorazioni purtroppo in parte distrutte sotto le bombe della Seconda guerra mondiale. Lontano da questi complessi dove trionfavano la religione cristiana e la mitologia germanica, Caspar David Friedrich (1774-1840) dava vita nella Germania del Nord a ciò che oggi è considerato il paesaggio romantico per eccellenza, sebbene dovesse molto alle composizioni di pittori del xviii secolo come Joseph Vernet, che conosceva attraverso le
incisioni. Alla fine del 1808 esponeva a Berlino una pala d’altare (la Pala di Tetschen, dal nome del committente) che, al posto di illustrare una scena biblica, mostrava una sommità coperta di abeti sulla quale si innalzava una croce nel sole al tramonto. La pala provocò vive polemiche, obbligando Friedrich a precisare per iscritto il significato allegorico degli abeti, delle rocce, del muschio… Ci si può appoggiare a questo testo per attribuire, com’è stato fatto, un significato simbolico a ciascuno degli elementi dei suoi dipinti, paesaggi, marine, vedute di montagna, rovine gotiche o cimiteri nella nebbia che Friedrich realizzò con un fare levigato che accentua l’impressione di immensità dello spazio? E tutta la sua arte non fa che riflettere la sua concezione dell’aldilà, o bisogna leggervi una convinzione politica – un nazionalismo liberale ostile alla restaurazione dell’Ancien Régime come alla dominazione francese? Un fatto resta costante: il contraccolpo della Rivoluzione, e poi le guerre napoleoniche provocarono nello svolgimento dell’arte tedesca una rottura profonda. È attraverso la continuità che si caratterizza al contrario l’arte inglese. Così il ritrattista Lawrence (1769-1830) continua, con ancor maggiore brio, l’arte dei suoi predecessori – Reynolds, Gainsborough, Reaburn o Romney –, che aveva le proprie radici in quella di Van Dyck. Ma è soprattutto grazie ai paesaggi che l’Inghilterra si distingue all’inizio del secolo, con due pittori del resto diversissimi l’uno dall’altro, Turner (1775-1851) e Constable (1776-1837). La passione per la luce che Turner rivela nella sua arte lo ha spesso fatto passare, a torto, per un precursore dell’impressionismo. In realtà tale passione lo portò inizialmente a ispirarsi ai quadri di Claude Lorrain al punto da imitarli, prima che le sue composizioni si trasformassero a poco a poco in una sorta di caligine irreale. Sebbene nel 1844 avesse scelto un treno come soggetto di un dipinto celebre, Pioggia, vapore e velocità, Turner non è per nulla un realista. Che evochi l’armata di Annibale, un mostro mitologico, una battaglia navale o l’affaccendarsi di persone del popolo in un porto, egli resta
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sempre un visionario, il creatore di un universo di sogno. Il suo colorismo risente di un arbitrio che non è possibile ignorare. Fatto significativo: la teoria dei colori che lo attrae non è quella di Newton, di cui i romantici inglesi deprecarono la razionalità, ma quella di Goethe, che riprende e rinnova una tradizione di simbolismo alla quale Turner si rifà per dipingere uno dei suoi quadri, Luce e colore (teoria di Goethe), il mattino del diluvio, Mosè scrive il libro della Genesi (esposto nel 1843). Il romanticismo di Turner si afferma ancora nel suo gusto per gli spettacoli grandiosi della natura impetuosa, come le valanghe, e per il sublime delle cime alpine. In tal senso la sua pittura riflette il profondo cambiamento di sensibilità che inizia a manifestarsi nella seconda metà del xviii secolo. Prima, l’alta montagna spaventava perché inospitale e selvaggia. Se ne scopre allora la bellezza o piuttosto il sublime, categoria estetica teorizzata da Burke. Altri pittori aderirono a un fare più realistico rispetto a Turner, in particolare gli svizzeri come Calame (1810-1864), le cui vedute dei siti più pittoreschi delle Alpi elvetiche rispondevano alle attese della clientela. È a luoghi più umili che si lega Constable, i siti rurali della campagna inglese, in particolare di Norfolk. In ciò non innovava veramente, ma riprendeva la tradizione interrotta degli olandesi del xvii secolo, fra cui Hobbema, di cui il celebre Carro di fieno (1821) ne richiama un po’ la maniera. Semplificando, si potrebbe affermare che il passaggio dal paesaggio neoclassico a quello realista si confonde con l’avvicendamento di Poussin e Lorrain con i paesaggisti olandesi – pur con delle eccezioni, come il tedesco Koch (1768-1839), che le amicizie nazarene e il gusto per l’alta montagna fecero annoverare fra i romantici, benché si sia cimentato nell’imitazione di Poussin; o il danese Købke (1810-1848), i cui paesaggi eguagliano quelli di tutti i suoi contemporanei per la sottigliezza della luce e il rigore delle composizioni, senza che egli s’ispiri direttamente ad alcuno di questi prestigiosi modelli. Il fenomeno è invece particolarmente marcato in Francia, dove i pittori appartenenti alla cosiddetta Scuola di Barbizon, fra cui
Théodore Rousseau (1812-1867), non cercarono di dissimulare i loro debiti nei confronti di Hobbema o Jacob Ruysdael. Ma il cambio di modelli riflette un’altra opposizione, più profonda. Per l’idealizzazione dei luoghi, per il carattere dell’umanità che li abita, il paesaggio neoclassico esprime la nostalgia di una felicità di vivere che molti pittori stavano andando allora a cercare in Italia, nei dintorni di Roma. In ciò si annunciano le innumerevoli evocazioni dell’età dell’oro che i pittori della fine del xix e dell’inizio del xx secolo hanno moltiplicato, da Doux pays di Puvis de Chavannes alla Joie de vivre di Matisse (18691954). L’altro tipo di paesaggio, quello che si definisce realista, riconduce lo spettatore a sé stesso, al suo ambiente, alle sue radici – ma senza escludere il sogno e la nostalgia. Le due tendenze, in effetti, non furono sempre in opposizione, come mostra l’esempio di Corot (1796-1876), nella cui opera coabitano e finiscono per confondersi; o in
11. Gustave Courbet, Funerale a Ornans. Olio su tela, 1849-1850. Musée d’Orsay, Parigi.
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quella di Millet (1814-1875), figura di pittorecontadino, che giunto a Parigi dalla campagna normanna lasciò la capitale per vivere a Barbizon, ai margini della foresta di Fontainebleau. I suoi contadini, come è stato spesso osservato e come gli è stato rimproverato, conservano nell’esecuzione dei più faticosi lavori della terra e per la monumentale semplicità delle composizioni, una grandiosità biblica che si eleva al di sopra della loro condizione. Tale trasfigurazione del mondo rurale, irrigidito, nonostante le sue miserie, in un’atemporalità che è quella di un’esistenza legata alla terra e al ritmo eterno delle stagioni, non si spiega che con un profondo rifiuto della città. È a una simile reazione, sebbene in linea generale molto più superficiale, che bisogna attribuire l’immenso successo del paesaggio e delle scene di vita contadina sino alla fine del secolo xix. Senza dubbio tale affermazione va sfumata considerando che la popolazione della maggior parte dei paesi europei,
ad esclusione dell’Inghilterra, era ancora in maggioranza, se non nella quasi totalità, rurale. Malgrado ciò, si tratta di una ricerca delle origini che traduce l’attaccamento alla terra, ricerca il cui significato varia a seconda dei paesi: la riscoperta di una natura ancora vergine, quella dei grandi spazi dell’Ovest, un autentico paradiso dimenticato per l’americano Frederick Church (1826-1900); l’esaltazione dei luoghi cari della Svizzera per Calame nelle vedute del lago dei Quattro Cantoni; la rivendicazione nazionale del finlandese Akseli Gallen-Kallela (1865-1931) nei paesaggi della Carelia, come nelle illustrazioni dell’epopea nazionale finlandese, la Kalevala. L’attaccamento alla terra, al mondo rurale, si fa particolarmente sensibile alla fine del xix secolo e nei primi anni del xx, quando si moltiplicano in tutta Europa le colonie di artisti, che si tratti di Worpswede nella Germania del Nord, Dachau presso Monaco, Nagybánya (Baia Mare) in Transilvania, o Zakopanje nei Carpazi, a sud di Cracovia. Non che le nuove realtà – la vita urbana, il lavoro in fabbrica – sfuggissero allo sguardo degli artisti, ma essi vi si rivolgono tardivamente. Di più, contrariamente a ciò che talvolta si suppone confondendo ciò che si definisce modernità artistica con l’evoluzione dei modi di vita, non esiste in tal senso alcuna corrispondenza diretta fra stili e soggetti. Eppure dalla metà del xix secolo questi appaiono legati alle due tendenze opposte che dominano la vita artistica, soprattutto in Francia, accademismo e realismo: il primo prolungando la tradizione classica attraverso la ricerca di una bellezza ideale e il collegamento con i soggetti religiosi, mitologici o storici; il secondo illustrando la realtà contemporanea e annunciando l’impressionismo attraverso l’osservazione della natura – il primo fondato su di un idealismo superato; il secondo in accordo con il positivismo che dominò il pensiero nella seconda metà del secolo. Un pittore, Gustave Courbet (1819-1877), conferisce a questa posizione un rilievo particolare. Dopo oscuri inizi, egli s’impone bruscamente come il portabandiera del realismo nel Salon del 1850-51, dove
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espone gli Spaccapietre (distrutto nel 1945) e soprattutto il Funerale a Ornans (Parigi, Musée d’Orsay): immensa tela, delle dimensioni di un grande quadro di storia, che mostrava senza abbellimenti gli abitanti di un piccolo paese che seguono un feretro al cimitero. Sebbene riconosciuto presto come uno dei maestri della sua epoca dagli amatori che pagavano cari i suoi ritratti, i suoi paesaggi e le sue scene di caccia furono oggetto di violente critiche a causa della sua arte, considerata un’apologia del brutto, della sua personalità rumorosa, ma anche delle sue opinioni politiche. Nel 1871 prese parte attiva alla Comune, cosa che gli valse la prigione e poi l’esilio. Ora, nonostante avesse fatto carriera a Parigi, Courbet restò sempre legato al suo paese natale, la regione del Giura, alle sue foreste, alle sue montagne, ai suoi costumi, alla caccia e al bracconaggio, ossia a un mondo ancestrale – e della sua origine di nativo del Giura egli portava la scontrosa volontà d’indipendenza, come artista e come cittadino. Quanto agli impressionisti, di cui Courbet fu amico ai loro inizi, si differenziano fra loro per i soggetti trattati, che del resto non li distinguono da altri pittori contemporanei che praticavano un’arte tradizionale. Manet si volge il più delle volte agli aspetti quotidiani della vita parigina, di una vita borghese, mondana o semimondana, con però intenzioni allegoriche a lungo misconosciute e con le quali si riallaccia alla pittura dei secoli precedenti. Nonostante le sue convinzioni anarchiche, Pissarro (1830-1903) resta fedele a Millet nel suo attaccamento alla campagna e alla vita rustica. Renoir (1841-1919) predilige, come uno qualsiasi dei pittori ufficiali, i ritratti mondani e i nudi. Monet (18401926), la cui opera si confonde con la nozione stessa di impressionismo, fu all’inizio, e dopo il 1880, esclusivamente paesaggista, come il suo emulo Sisley (1839-1899). È un altro mondo, quello delle danzatrici, delle fanciulle alla toilette, che evoca Degas (18341917); ma se egli fu legato agli impressionisti per l’organizzazione, dal 1874 al 1886, delle esposizioni note come Expositions impressionistes, se ne differenzia profondamente
per la sua arte, che deve molto a Ingres e molto poco a Courbet. Non si devono cercare nell’opera di questi artisti le realtà del mondo moderno, il lavoro in fabbrica, la miseria delle città, ecc., sebbene con qualche eccezione (anche se Monet dipingendo la stazione di Saint-Lazare s’interessa più al gioco della luce nelle nuvole di fumo che alla potenza delle locomotive), ma piuttosto presso i cosiddetti accademici, senza che si abbia mai un’idea chiara di ciò che implica il termine. S’impone una prima precisazione: l’opposizione radicale, manichea, fra accademismo e ciò che è spesso definito – per uno spiacevole abuso della lingua – avanguardia è un fenomeno francese, conseguenza dell’organizzazione della vita artistica a Parigi e dell’apparizione in questa città, nel corso della seconda metà del xix secolo, di artisti profondamente innovatori, tanto che pittori che negli altri paesi sono ritenuti i più importanti della loro epoca, verranno considerati in Francia continuatori dell’accademismo. Nella stessa Francia si tende a definire in questo modo, con atteggiamento troppo restrittivo, a partire dall’opera di artisti come Bouguereau (1825-1905), Baudry (18281886) o Cabanel (1823-1889), tutti coloro che appartengono alla medesima generazione e rappresentano, non senza un’originalità che non sempre è stata loro riconosciuta, un aspetto particolare del gusto dell’epoca; gusto che non si può qualificare come borghese, poiché i loro clienti non appartenevano ad altro milieu che quello dei primi amatori delle tele impressioniste. Oltre ai ritratti essi praticavano volentieri il nudo, che sotto il pretesto mitologico rivelava spesso una funzione decorativa. Questo genere, tradizionale a partire dal Rinascimento, fu praticato in modo ineguale nel xix secolo secondo i paesi: in Germania, dove i Nazareni lo ignorarono, non riapparve che dopo il 1871, mentre l’Inghilterra vittoriana lo condannò e nell’America puritana non lo si incontra quasi. La mitologia antica, al contrario, conosce nella seconda metà del secolo un ritorno d’interesse di cui è forse responsabile l’insegnamento secondario, largamente fondato
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12. Vincent van Gogh, La stanza di van Gogh. Olio su tela, 1889 Musée d’Orsay, Parigi.
sugli studi umanistici e storici, che rinnovano la comprensione dei miti. Con mezzi artistici molto diversi, sono visioni profondamente personali dell’universo degli dèi e degli eroi a essere liberate da Gustave Moreau (18261898) e Böcklin (1827-1901), di Basilea, la cui opera fu celebrata in Germania come una pura espressione dello spirito germanico. Quali che fossero la giustificazione o il pretesto, i soggetti mitologici tornavano alla grande pittura, alla pittura di storia, considerata da secoli dalla dottrina accademica il genere superiore, il solo grazie al quale la pittura po-
teva aspirare al rango di arte liberale. Ma non erano i soli: dividevano questo privilegio con i soggetti religiosi o ispirati alla storia antica o medievale. Ora, il xix secolo, epoca di ritorno alla fede in reazione allo spirito dei Lumi ritenuto responsabile della Rivoluzione, conobbe uno sviluppo notevole della pittura religiosa, anche al di fuori delle committenze destinate alla decorazione delle nuove chiese; sviluppo accompagnato da un profondo rinnovamento dell’iconografia, che si tratti delle composizioni di Gustave Doré (18321883), dell’ungherese Munkácsy (1844-1900)
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o del russo Kramskoi (1837-1887), membro fondatore del gruppo dei Peredwischniki (gli Ambulanti), artisti che intendevano avvicinarsi al popolo organizzando esposizioni itineranti. Quanto ai soggetti storici, conobbero per gran parte del secolo un successo costante. Se alcuni pittori non ricercavano in questi che un pittoresco spicciolo, altri li trasformarono in armi al servizio delle loro convinzioni nazionali o politiche: è il caso del polacco Matejko (1838-1893), le cui grandi composizioni esaltano il passato del suo paese diviso fra tre potenze straniere; o del fran-
cese Jean-Paul Laurens (1838-1921), ardente accusatore dell’intolleranza religiosa. Poco a poco, tuttavia, sotto il peso di realtà nuove, la nozione accademica di pittura di storia o di grande pittura andava progressivamente aprendosi alla loro rappresentazione. Meglio del Funerale a Ornans di Courbet – che provocò le reazioni negative della critica per la bruttezza dei volti e la composizione che pareva maldestra, e non per la pretesa di elevare al rango di pittura di storia, col grande formato, la rappresentazione di un fatto di cronaca, cosa che non era del tutto nuo-
13. Paul Cézanne, Mele e arance. Olio su tela, 1899. Musée d’Orsay, Parigi.
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va all’epoca – illustra questa evoluzione La Fonderia del berlinese Menzel (1815-1905). Il sottotitolo che gli si darà in Francia, ove il quadro ottenne un grande successo all’Esposizione universale del 1878, Modernes cyclopes, dà conto della volontà d’eroicizzazione di ciò che vi si leggeva; ma questa dimensione non esclude un realismo quasi fotografico nella resa delle forme, dovute in parte all’eccezionale capacità d’osservazione dell’artista. Menzel, che aveva già dipinto i cortili dei palazzi berlinesi e il treno di Postdam prima del 1850, costituisce in questo ambito un precursore. Fra il 1870 e il 1890 all’incirca, in effetti, un’ondata di pittura consacrata ai mestieri e alle vicende dei ceti più bassi si espande in Europa, da I battellieri del Volga di Repin (1844-1930), a Lo sciopero di Roll (1847-1919). Politicamente si trattava talvolta di opere d’opposizione, ma alcuni regimi non vedevano di cattivo occhio, peraltro non senza ipocrisia, l’esaltazione del lavoro e l’interesse rivolto ai ceti più bassi: era il caso della Repubblica francese, che praticava un umanitarismo di facciata e, più particolarmente, vedeva nel progresso del realismo in arte un equivalente del progresso delle scienze e dell’istruzione, che si riteneva assicurasse la felicità del popolo. Si impiega sovente per designare questa tendenza il termine «realismo accademico», e ciò a ragione, anche se fuori di Francia la maggior parte degli artisti che vi aderiscono non sono considerati accademici. Dal Rinascimento l’arte perseguiva il duplice scopo della bellezza e della precisione nell’imitazione della natura – un’esattezza alla quale contribuivano la conoscenza della prospettiva, dell’anatomia, la maestria dello scorciare e del modellare, la scienza dei colori, ecc. Da questo punto di vista un progresso era sempre possibile e sembrava auspicabile. I sistemi d’insegnamento apparsi nel xix secolo, conseguenza indiretta della Rivoluzione, contribuirono a rafforzare questa ricerca nel suo carattere «scolastico», divenendo l’esattezza nella resa delle forme e in particolare dell’anatomia – come l’ortografia e la sintassi alla scuola elementare – un’esigenza fondamen-
tale, ma non sufficiente. Ne derivò un evidente progresso fino a dipinti che, riprodotti in bianco e nero, danno l’illusione di essere fotografie, tanto paiono fedeli alla realtà che rappresentano. L’apparizione della fotografia non aveva potuto che rafforzare questa tendenza, pur se è difficile misurarne con precisione le conseguenze. Nel 1839 lo Stato francese rendeva pubblico il procedimento del dagherrotipo, presto scalzato da quello del cliché negativo, che permetteva un’elevata tiratura da una sola ripresa. Dalla sua apparizione si pose la questione se la fotografia fosse un’arte o un semplice procedimento meccanico di riproduzione – questione accademica, poiché opponeva la mano che non fa che azionare l’otturatore alla sensibilità capace di scegliere l’esposizione, l’inquadratura, i motivi, in breve di comporre un’immagine prima di registrarla passivamente. Alcuni fotografi, pittori riconvertiti desiderosi di elevare la loro nuova attività al rango di arte, andarono anche più lontano, procedendo al montaggio di numerosi negativi per ottenere una stampa finale composta come un quadro di storia: così Oscar Gustav Rejlander (1813-1875), autore di Le due strade della vita (1857), che richiama per il contenuto dell’allegoria l’Ercole al bivio e la Scuola di Atene per la composizione; oppure Henry P. Robinson (1830-1901), che ha descritto il suo metodo in un libro dal titolo significativo, Pictorial Photography. Altri fotografi seguirono al contrario la via del realismo pittorico, come Le Gray (18201862), autore di marine spesso accostate a quelle dipinte da Courbet; o l’inglese Emerson (1856-1936), i cui paesaggi e contadini di Norfolk, dello stesso sentire della pittura naturalista, rientrano in ciò che l’arte della fotografia ha lasciato di più sottile nella costruzione delle forme e nella gradazione dei grigi. Dagli inizi della fotografia si è visto però in essa in particolare uno strumento di documentazione le cui applicazioni si sono rapidamente ampliate secondo il progresso della tecnica, che in origine non permetteva quasi altro che cogliere oggetti immobili. Fra i primi soggetti di cui poté fissare l’im-
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magine sono le architetture e i cantieri dei grandi lavori. Pur se in principio fu richiesta un’oggettività assoluta, alcuni fotografi, come Baldus (nato nel 1820), realizzarono opere di un rigore e di una monumentalità tali che la loro estetica nulla deve alle convenzioni della pittura contemporanea. Ma è soprattutto il ritratto che assicurò presso il pubblico il successo della fotografia, determinando la formazione di una numerosa categoria di fotografi professionisti specializzati, prima che l’apparizione dei piccoli apparecchi per amatori non facesse perdere a poco a poco la loro ragion d’essere. La banalità di questi ritratti, la cui estetica era ricalcata su quella dei peggiori ritratti alla moda in pittura, provocò nell’ultimo decennio del secolo, come reazione, la nascita del movimento pittorialista, animato da fotografi desiderosi di attribuire alla fotografia un credibile status artistico, creando con complessi procedimenti stampe che assomigliavano a disegni al carboncino o a sanguigna. A lungo denigrato e oggi riconsiderato, il pittorialismo ha annoverato fra i suoi rappresentanti alcuni fra i migliori fotografi del tempo, come l’austriaco Heinrich Kühn (1866-1944). In precedenza il rapido sviluppo del ritratto fotografico aveva avuto come conseguenza la scomparsa del ritratto in miniatura e una forte riduzione della clientela per i ritratti dipinti, unico modo fino a quel momento di fissare l’apparenza dei viventi per conservarne la memoria. Parallelamente vennero condannate le applicazioni documentarie dell’incisione e della litografia, in particolare la riproduzione delle opere d’arte. Il disegno, l’incisione e la pittura perdevano una delle loro funzioni essenziali, l’imitazione della natura. Senza dubbio la dottrina accademica accordava all’arte una funzione più elevata di tale imitazione, alla quale bastava la precisione dell’occhio e la maestria della mano, ma essa costituiva comunque un’esigenza fondamentale dell’opera d’arte, un’esigenza che la fotografia rendeva superflua o irrisoria. Si può inoltre supporre, nonostante non se ne possano fornire le prove, che la fotografia abbia giocato un ruolo
decisivo nell’evoluzione della pittura (e poi della scultura), permettendole d’affrancarsi da un’esigenza che limitava da sempre le sue possibilità d’espressione. L’impressionismo costituisce una delle manifestazioni più precoci di tale affrancamento. L’interpretazione naturalistica che se n’è data all’epoca (e che gli si dà spesso ancora oggi), secondo cui esso corrispondeva a un’osservazione eccezionalmente sensibile, più o meno scientificamente fondata, dei fenomeni luminosi, sembra piuttosto un tentativo, autenticamente sincero, di giustificare con l’esigenza tradizionale d’imitazione ciò che in realtà se ne allontanava maggiormente. Nelle serie di Monet, i Pioppi, i Pagliai, le Cattedrali di Rouen, che si iscrivono, per quanto se n’è detto, nella logica della sua evoluzione, il colore si distingue più per il suo lirismo che per la sua esattezza, e le composizioni obbediscono in primo luogo alla ricerca di valori decorativi, per riprendere la terminologia dell’epoca. Tali serie sono accostabili a quelle di Whistler (1834-1903), i cui titoli musicali come Vecchio ponte di Battersea, Notturni in nero e oro (1872) annunciano, grazie all’analogia che affermano fra le arti, il simbolismo da cui sorgerà verso il 1910 l’astrazione di Kandinskij. Nonostante la pretesa di scientificità del pointillisme, Seurat (1859-1891) utilizza il colore in modo ancora più arbitrario di Monet; per quanto riguarda la sua stilizzazione geometrica delle forme, fondata su speculazioni psichico-psicologiche che hanno più del simbolico che dello scientifico, essa si allontana radicalmente da ogni volontà d’esattezza, anatomica o d’altro. Se non è necessario insistere sul carattere profondamente soggettivo del tocco di van Gogh (1853-1890), l’esempio di Gauguin (1848-1903) mostra chiaramente come la preoccupazione dell’imitazione fedele abbia cessato di essere un imperativo per i pittori: basta confrontare il modo in cui egli utilizza, nella sua ricerca di un paradiso perduto, i modelli che gli offrivano l’arte popolare e quella dei popoli allora considerati primitivi, con l’impossibilità per i pittori di inizio secolo di seguire i modelli dei vasi
14. Auguste Rodin, Porta dell’Inferno. Gesso, 1880-1917. Musée d’Orsay, Parigi.
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«etruschi», o quelli dell’iconografia medievale, senza sottomettere le forme ad una riscrittura che tenesse conto delle acquisizioni (o di ciò che si riteneva tale) dell’arte pittorica dal Rinascimento in poi. Un’arte si sottrasse quasi interamente a questa evoluzione, la scultura, mantenuta nel solco della tradizione sia dalle esigenze materiali cui era sottoposta, sia dal suo successo. Benché all’epoca spesso denigrata dalla critica d’arte e poi dagli storici, essa ricoprì in effetti due funzioni differenti ma ugualmente remunerative. Da una parte, il gusto per i piccoli bronzi della clientela privata implica una produzione, facilitata da diversi miglioramenti tecnici, che assicura a numerosi scultori, come Frémiet (1814-1910), introiti significativi. Dall’altra, il bisogno di onorare la memoria dei grandi personaggi o degli eroi della patria con l’erezione di un monumento conduce a ciò che talvolta si definisce, in modo negativo, «statuomania». Non soltanto i monumenti si moltiplicano, ma alcuni di essi assumono dimensioni colossali, come il
Monument à la République di Dalou (18381902), a Parigi, la cui esecuzione si protrae dal 1880 al 1899, o il Monumento a re Alfonso xii a Madrid. Tuttavia, non si distinguono dai monumenti precedenti che per le misure: anche in scultura a poco a poco il realismo s’impone, che si tratti della resa delle forme o dell’iconografia, tanto che le migliori realizzazioni eguagliano in originalità gli esempi del realismo accademico in pittura. La scultura dell’ultimo quarto del secolo è dominata, in Francia e in tutto l’Occidente, da un artista eccezionale, che ha ottenuto già da vivo una gloria senza pari: Auguste Rodin (1840-1917). Virtuoso nel modellato, esegue inizialmente busti di una grazia e di un’eleganza tali da richiamare l’arte di Carpeaux (1827-1875), il grande scultore del Secondo Impero, autore del gruppo della Danse sulla facciata dell’Opéra di Parigi. Durante un viaggio in Italia, nel 1876, Rodin scopre Michelangelo; l’anno successivo, le cattedrali gotiche: resteranno per lui due fonti d’ispirazione. Nel 1877 conosce con un nudo ma-
15. Il Crystal Palace, realizzato da Joseph Paxton per la Grande Esposizione di Londra del 1851. Incisione. Victoria and Albert Museum, Londra.
Pagine seguenti: 16. Louis Henry Sullivan. Carson Pirie Scott & Co. Store, 1899-1903. Chicago. 17. William Morris e Philip Webb, Il ladro di fragole. Tessuto di cotone, 1883. Victoria and Albert Museum, Londra.
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schile il suo primo successo, successo avvolto però dallo scandalo: l’anatomia del modellato era resa con una tale maestria che Rodin si vide accusato di aver tratto un calco da un essere vivente; la sua postura, al contrario, in equilibrio instabile, era così ambigua che fu esposto inizialmente sotto il nome di Vaincu – un guerriero ferito sul punto di crollare –, prima di ricevere quello di Homme s’éveillant à la nature, infine quello rimastogli de L’età del bronzo. L’opposizione degli ambienti accademici gli valse la simpatia dell’opposizione repubblicana. Una volta al potere, i repubblicani gli commissionarono nel 1880 la realizzazione di una porta monumentale in bronzo per un Musée des Arts décoratifs mai costruito. Quest’opera, la Porta dell’inferno, che doveva impegnarlo per lunghi anni e che non fu mai fusa lui vivente – tanto che non si sa se l’autore considerasse completo il modello in gesso – comprende una folla di personaggi e di gruppi ispirata all’Inferno di Dante, alcuni dei quali si staccarono dal contesto per originare sculture autonome come Il pensatore o l’Ugolino che divora i suoi figli. La sua produzione tarda è una proliferazione di corpi o membra umane a volte isolate, a volte liberamente associate a formare nuove opere, ai cui titoli conviene attribuire un valore relativo. Molte di queste opere si presentano come frammenti di una figura incompleta o parzialmente distrutta, in particolare torsi. Il tema del torso, ispirato alla statuaria antica e in particolare al celebre Torso del Belvedere, doveva divenire, in seguito a Rodin, ineludibile per gli scultori della prima metà del xx secolo. Le opere di Rodin presentano un’altra forma di «non finito» la cui influenza non è stata minore: la superficie conserva le tracce di lavorazione come se fosse stata interrotta, in particolare dello scalpello sul marmo. Tale procedimento poteva richiamare mutatis mutandis quello dei pittori, che a partire dall’impressionismo davano alle loro opere l’aspetto di bozzetti o di rapidi studi lasciando in vista ogni tocco di colore, procedimento interpretato come testimonianza di una spontaneità elevata a valore estetico supremo. È così che
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bisogna interpretare il non finito in numerosi pittori e scultori del xx secolo; ma non è certo che non avesse in Rodin un altro significato, simbolico: l’espressione del mondo della natura, della materia opposta a quella della bellezza o dello spirito. La questione della compiutezza e del non finito fu uno dei maggiori problemi estetici della seconda metà del xix secolo. Gli impressionisti vennero accusati dalla critica contemporanea di esporre semplici schizzi o studi invece di quadri finiti. Più tardi, grazie al mutamento dei valori estetici, si è loro riconosciuto il merito di non aver ceduto al gusto ritenuto borghese delle superfici lisce e polite, senza pennellate visibili, e di aver conservato la freschezza, la spontaneità della loro ispirazione. Sappiamo ora che in realtà Monet, il più rappresentativo fra loro, lavorava a lungo alle sue composizioni per giungere all’effetto desiderato. Vi è al contrario un pittore le cui opere rivelano drammaticamente la ricerca di un punto di equilibrio fra l’abbozzo e il troppo «finito», Paul Cézanne (1839-1906). Si ammira oggi l’insieme della sua produzione, ma se fosse scomparso prima del 1870 non occuperebbe nella storia della pittura che un posto decisamente marginale. È nel corso degli anni seguenti che, abbandonando l’espressione, resa in una maniera greve, delle sue ossessioni sessuali, si volge al paesaggio, la natura morta e il ritratto, che diventeranno i suoi soggetti esclusivi. Il suo sforzo per costruire le forme modellandole nel colore ha qualcosa di eroico e gli permette spesso di raggiungere risultati di una bellezza grandiosa; ma alcuni dipinti sembrano essere stati lasciati prima di aver raggiunto il punto di perfezione, altri essere stati condotti oltre questo punto. Cézanne resta tuttavia un caso isolato, anche se la sua arte è stata interpretata come una reazione classica contro i pretesi eccessi dell’impressionismo, e se il suo esempio, appena dopo la morte, ha condotto Braque e Picasso sulla strada del cubismo. Importanti in pittura e scultura, le nozioni di spontaneità e di non finito non avevano alcun senso in architettura. Tuttavia la que-
stione della modernità, che ha dominato la storia dell’arte del xix secolo, si pone anche a suo riguardo, in termini evidentemente diversi rispetto alle arti figurative. All’epoca si levarono voci per denunciare l’imitazione degli stili del passato sentita come una forma di alienazione, e per auspicare un’architettura che esprimesse autenticamente il suo tempo. Si è voluto allora identificare la nuova architettura con tutti gli edifici la cui costruzione faceva chiaro appello al metallo. Lo sviluppo dell’industria metallurgica portò in effetti un cambiamento profondo nelle tecniche di costruzione per l’utilizzazione crescente della ghisa, del ferro e dell’acciaio. Dalla seconda metà del xviii secolo il metallo servì a costruire ponti e travature; nel corso del xix secolo divenne d’uso corrente per le costruzioni, per le serre, che apparvero allora ed alcune delle quali sono giustamente famose, per le fabbriche, le stazioni, i mercati coperti, i grandi magazzini, i saloni dei grandi uffici postali o bancari; in breve, per tutti gli edifici, nella maggior parte innovativi, la cui funzione esigeva o almeno rendeva auspicabile la copertura di vasti spazi liberi. Il metallo fu allora frequentemente associato al vetro per assicurare a tali edifici un’illuminazione adeguata. Le Esposizioni universali, ossia le esposizioni – nazionali o internazionali – dei prodotti di tutti i rami dell’attività umana, offrivano un campo di applicazione particolarmente favorevole a questa architettura, sia che si trattasse di edificare grandi sale d’esposizione o puri oggetti di prestigio, come la torre alta trecento metri costruita dall’ingegnere Eiffel (1832-1923) per l’Esposizione universale di Parigi del 1889, per manifestare le potenza della Francia repubblicana. La più importante e prestigiosa costruzione in metallo del xix secolo fu certamente il Crystal Palace, costruito a Londra da Joseph Paxton (1803-1865) per ospitare la prima delle grandi Esposizioni universali, nel 1851, e fonte di numerose imitazioni. Il nome gli derivava dal fatto che tutte le pareti erano in vetro. Provocò l’entusiasmo di larga parte dei visitatori. Da un punto di vista più generale, l’architettura di ferro e vetro venne
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considerata come l’architettura moderna per eccellenza, quella che rispondeva alle nuove esigenze grazie all’impiego di nuove tecniche di costruzione, e che incarnava al meglio lo spirito del tempo – tanto più che s’impose l’analogia con le cattedrali gotiche. Eppure l’uso del metallo restò limitato ad alcune funzioni e tipi di edifici. Se si eccettua il ruolo decorativo che assunse attorno al 1900, all’epoca dell’Art Nouveau, il metallo servì quasi solamente da supporto, sotto forma di pali e travi, e non fu utilizzato per le pareti: gli edifici a fronte metallica di Green Street, nella zona sud di Manhattan, rimasero un tentativo isolato. Il metallo non sostituì, e non poteva sostituire, la pietra e il mattone, che conservarono del resto la loro funzione di supporto per gli edifici di dimensioni ridotte o nei quali non erano richieste grandi aperture. Tale ripartizione secondo la funzione è evidente negli Stati Uniti. Le abitazioni individuali, che costituiscono la maggioranza delle costruzioni, continuano ancor oggi a essere costruite in legno. Il metallo, o meglio l’acciaio, è usato nella costruzione delle torri, comunemente dette grattacieli, nel centro delle città. Apparso inizialmente a New York, questo tipo di edificio conobbe, in forme differenti, uno sviluppo particolare a Chicago al tempo della ricostruzione della città, dopo l’incendio del 1871. Abitualmente si ritiene che l’architettura dei grattacieli di Chicago fosse allora dominata dalla razionalità della costruzione metallica, e ciò fino all’Esposizione universale del 1893, la Columbia World Fair, che provocò una reazione generale a favore del decoro storicistico. Ciò significa dimenticare che l’architettura delle Esposizioni universali è un’architettura effimera, che obbedisce a specifiche esigenze di rappresentatività; che lo storicismo era ben vivo negli Stati Uniti negli anni precedenti al 1893; che la decorazione non era assente dai grattacieli di Chicago costruiti in precedenza, i cui muri (che assicuravano la rigidità della struttura) erano necessariamente di pietra o mattoni; infine che quelli edificati successivamente non cedettero nulla in quanto a razionalità di costruzione e funzionalità di in-
stallazione. Il grande architetto della Chicago dell’epoca, Louis Sullivan (1856-1924), è conosciuto per aver scritto che «la forma segue la funzione», citazione che del resto non ha nel suo contesto il senso che si è soliti attribuirle; ma la sua architettura, pure quando non si vale di forme gotiche come nel Bayard Building a Manhattan, non è concepibile senza un’abbondanza di decorazioni che traggono la loro originalità dal loro eclettismo. L’eclettismo è uno dei caratteri più significativi dell’architettura della seconda metà del xix secolo. Lo si confonde spesso con lo storicismo, che gli si apparenta in certa misura, ma da cui peraltro si distingue profondamente, poiché esprimono due modi differenti di fare storia. La preferenza accordata all’uno o all’altro stile storico derivava spesso dalla volontà di far rivivere un passato di cui si sentiva nostalgia. Così il neogotico si giustificò ora con l’affermazione di un’identità nazionale originaria, ora con la volontà di ridare vita a una vera e propria architettura cristiana, prima che Viollet-le-Duc lo interpretasse come un sistema costruttivo rigorosamente razionale, riproposizione di uno stile laico apparso con la borghesia dei liberi Comuni – cosa che ne spiega in parte l’impiego per una quarantina d’anni, fra Otto e Novecento, nei grattacieli americani, di cui sottolineava la verticalità simbolizzandone allo stesso tempo la razionalità costruttiva. Il romanico, da parte sua, fu promosso nella Germania di Guglielmo ii al rango di stile imperiale, mentre negli Stati Uniti Richardson (1838-1886) gli conferiva, grazie all’impiego di bugnato rustico, una forza elementare che ne faceva uno stile propriamente americano, cosa che non gli impedì d’essere ripreso in Finlandia verso il 1900 sotto l’etichetta di romanticismo nazionale. Lo stile scelto per un edificio dipendeva spesso dalla sua funzione: così a Vienna, lungo il Ring, il grande viale realizzato nel terzo quarto del secolo sulle rovine delle antiche fortificazioni, il classicismo del Parlamento richiama la democrazia ateniese, il neogotico del municipio le comunità libere delle Fiandre e lo stile dell’Università l’umanesimo del Rinascimento italiano. Una tale facoltà
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di scelta implicava la più grande libertà nei confronti della storia, piuttosto che fedeltà esclusiva a uno stile; ma è una libertà totale nei confronti del passato che presuppone l’eclettismo propriamente detto, cioè la sintesi di prestiti da stili di epoche differenti, semplici repertori di forme di cui l’architetto dispone liberamente. Anche Victor Baltard (1805-1874) ha mescolato nella chiesa di Saint-Augustin a Parigi (1860-1868), su una struttura metallica, elementi romanici, gotici, rinascimentali e barocchi. Da questo modo di comporre deriva spesso una proliferazione di decoro di un’originalità impossibile da disconoscere, di cui la basilica di Fourvière, eretta a Lione dal 1872 al 1896 su progetto di Bossan (1814-1888), offre un buon esempio. Un tale atteggiamento si esprime nelle numerose raccolte d’ornamenti pubblicate all’epoca, di cui la più celebre fu senza dubbio la Grammar of Ornament dell’architetto inglese Owen Jones, apparsa nel 1856. Pregevoli tavole cromolitografiche offrono esempi tratti da tutti i paesi e da tutte le epoche, a cominciare da opere d’arte tribale, come le definisce l’autore, ossia d’arte africana e oceanica. L’insieme esprime dunque neutralità rispetto alla storia, ma non una totale indifferenza estetica: se Owen Jones non si pronuncia in favore di un particolare stile del passato, predica attraverso il testo e le tavole a favore della policromia, che aveva già provocato verso il 1825 un vivo dibattito. In pratica, è nella seconda metà del secolo che essa invade largamente l’architettura, grazie all’impiego di pietre e marmi di differenti colori, dell’assemblaggio di pietre e mattoni, di mattoni verniciati con differenti colori o, attorno al 1900, di piastrelle in ceramica smaltata. Fra gli edifici in cui eclettismo e policromia si uniscono, uno dei più significativi e dei più considerati all’epoca (imitato da Ginevra a Cracovia) è l’Opéra di Parigi, costruita da Charles Garnier (1825-1898) fra il 1861 e il 1874. Ma né il colore (espressione, per l’architetto, di vita e gioia, come conveniva a un edificio del genere), né l’esuberanza dell’ornamentazione ne mascheravano l’eccezionale chiarezza di progetto, la perfetta leggibilità
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dei volumi e la funzionalità dei dispositivi interni. Per dotare la sala dell’ampiezza voluta, Garnier elaborò una struttura in metallo che faceva appello alle tecniche più innovative, ma era celata sotto il decoro. Contrariamente a un’opinione largamente diffusa, non si trattò dell’opposizione fra un’architettura funzionale che faceva appello alle moderne tecniche di costruzione ed una che sacrificava tutto allo stile, cioè a un inutile decoro ispirato alla storia, ma fra un’architettura che lasciava affiorare i procedimenti costruttivi e una che non si preoccupava di mostrarli, pur senza privarsi degli ultimi progressi tecnici. In molti casi, peraltro, la scelta era imposta dal tipo di edificio: si fatica ad immaginare gli archi metallici di un ponte ricoperti da un paramento di stucco e una sala di teatro in ferro e vetro. Ma al di là dei vincoli di programma, la dissimulazione delle strutture sarà considerata come una menzogna e la loro messa in evidenza come una prova di onestà. L’introduzione di un valore di ordine morale nell’apprezzamento dell’architettura è uno dei sintomi di un rivolgimento estetico che ha riguardato più o meno tutte le arti. Esso è legato alla valorizzazione del materiale in quanto tale, che si riconduce in buona parte a una reazione prodotta dalla metà del secolo contro la produzione industriale – per quanto paradossale possa sembrare nel caso dell’architettura metallica. Tale reazione fu particolarmente precoce e viva in Inghilterra, dove provocò un movimento di ritorno all’artigianato annunciato dagli scritti di John Ruskin (1819-1900), che nelle Sette lampade dell’architettura giudicava deplorevole «l’affermazione positivamente menzognera della natura dei materiali». Uno dei principali attori del movimento fu William Morris (18341896), poeta, teorico e artista, fondatore nel 1865 di botteghe dalle quali uscirono mobili, arazzi e libri illustrati le cui tecniche di produzione e la cui estetica prendevano a modello un Medioevo idealizzato. Questo movimento denominato Arts and Crafts si estese agli Stati Uniti, dove influenzò fra gli altri, nella Chicago di fine secolo, il giovane Frank
Lloyd Wright, che doveva divenire uno dei più grandi architetti del xx secolo; altri movimenti analoghi videro la luce in Europa, conducendo a un profondo rinnovamento dell’arte decorativa. Il ritorno all’artigianato poggiava, in particolare per Morris, sulla condanna della produzione industriale che declassava il lavoratore al rango di schiavo, se non di pura macchina, mentre nella pratica artigianale la mente che concepisce e la mano che esegue si trovavano in principio riunite. Si trattava della rottura con la dottrina che dal Rinascimento in poi aveva stabilito fra i due momenti una gerarchia sulla quale poggiava la distinzione fra arti belle e arti applicate o meccaniche, fra arti maggiori e arti minori – gerarchia frequentemente denunciata verso la fine del secolo e la cui abolizione costituiva, ancora nel 1919, uno dei fondamenti del celebre Bauhaus. Tale rivoluzione – nel senso proprio del termine, il ritorno a un’età dell’oro più mitica che storica – si è alla fine risolta, nel xx secolo, in un insuccesso: con una terminologia differente che maschera il fenomeno, la gerarchia fra artisti e artigiani non è mai stata più forte di oggi. La dimensione politica del movimento era manifesta sin dall’origine, ma giunse a risultati contrari all’ideale perseguito, nella misura in cui la produzione artigianale fece sorgere un artigianato di lusso. Resta tuttavia che il periodo fu uno dei più brillanti della storia delle arti decorative, che si tratti del mobilio, del vetro, dei metalli preziosi, della grafica o dei tessuti. All’inizio fortemente dipendenti da modelli medievali, le forme dovevano orientarsi a un tempo verso un impiego più naturalistico del repertorio vegetale, con una predilezione nuova per gli steli che sottolineavano la struttura di alcuni oggetti, e verso una maggiore astrazione decorativa. È ciò che si definisce secondo i paesi Art Nouveau, Jugendstil o stile Liberty, che si affermò per una quindicina d’anni attorno al 1900. L’architettura ne fu ugualmente interessata, un’architettura contraddistinta dall’ossessione del gotico prima di adottare forme nuove, e che accorda maggior attenzione
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all’espressione della struttura. A Bruxelles Hankar (1859-1901) e Horta (1861-1947) creano negli ultimi anni del secolo uno stile fondato su un gioco di curve e arabeschi ripreso a Parigi da Guimard (1867-1942), autore dei celebri ingressi alle stazioni del metrò. Ma è a Barcellona che l’architettura fin-desiècle si mostra più originale, in particolare con le opere di Gaudí (1852-1926). Gli evidenti ricordi del gotico si mescolano in lui a fonti d’ispirazione nazionale, all’architettura mozarabica, come nei rivestimenti di piastrelle in ceramica smaltata, che si tratti di Casa Vicens o del Parco Güell. Peraltro, all’epoca il nazionalismo e il regionalismo si ritrovano nell’architettura di tutti i paesi, al punto di costituirne una caratteristica internazionale. Se l’Art Nouveau deriva certamente, almeno in parte, dal mutamento estetico intervenuto nella seconda metà del xix secolo, questo ebbe conseguenze più vaste e profonde. La rivalorizzazione del lavoro e della manualità conduceva alla valorizzazione dei materiali, e ciò ebbe ripercussioni sulle arti applicate che facevano appello ai pittori, come la vetrata, il mosaico e l’arazzo. Nei secoli la perfetta imitazione degli effetti della pittura ad olio era divenuta lo scopo da raggiungere; ora, secondo la nuova estetica tale imitazione mortificava la specificità del materiale. Da qui un ritorno ai procedimenti del Medioevo: vetrate con vetri colorati nell’impasto montati in cornici di piombo invece di dipinti su vetro; mosaici di tipo bizantino invece di quelli dal disegno semplificato; arazzi tessuti sulla base di cartoni realizzati ad hoc rispettando quelle che si credeva fossero le esigenze della lana. Il vetro e il mosaico conobbero allora uno sviluppo considerevole non solamente nelle nuove numerose chiese, ma anche in edifici profani, come elemento di policromia. Altre arti ancora furono interessate dall’Art Nouveau. L’incisione su legno, a lungo limitata all’illustrazione di opere a basso costo, utilizzata da Gustave Doré (18321883) per ottenere effetti di chiaroscuro resi possibili da una virtuosità tecnica che pareva negare la natura del materiale, ridivenne ver-
so la fine del secolo, per un certo periodo, mezzo d’espressione di artisti come Gauguin e i Nabis, che composero per grandi masse lasciando talvolta apparire i segni dell’intaglio. I legni di Gauguin, che indicò la via, mostrano un pronunciato gusto per il primitivismo; ma i due aspetti sono intimamente legati nella misura in cui l’arte che si definiva primitiva, come l’arte popolare, era associata a ragione a quel rispetto del materiale che in seguito si sarebbe perduto sotto l’influenza della dottrina accademica. In scultura questo rispetto del materiale si legò alla dottrina (e al mito) dell’intaglio diretto, del confronto dell’artista con il blocco di pietra o con il legno da cui liberare una forma, secondo un metodo di lavoro che si credeva essere quello degli antichi e degli artisti medievali. Le facilitazioni di modellazione e l’abuso di calchi in gesso, riproduzioni in marmo o fusioni in bronzo favorirono il desiderio del ritorno a una tecnica diretta che escludeva tutte le trasposizioni in un altro materiale. Tuttavia, il peso della tradizione sulla scultura e il prestigio di Rodin fecero sì che le conseguenze di tale dottrina non si facessero sentire prima dell’inizio del xx secolo. Meno evidente, ma non meno profonda fu l’azione della nuova estetica in pittura. Dal Rinascimento, i dipinti murali o i soffitti dipinti cercavano di creare l’illusione di uno spazio al di là dello spazio reale. Una formula che conobbe l’apogeo con i trompe-l’œil di padre Pozzo verso il 1700, e che si è prolungata fino al xx secolo con i brillanti decori di José Maria Sert. Ma alla metà del xix secolo numerosi teorici la condannarono perché negava la parete. Si pensò che le composizioni murali non dovessero «sfondare», ma al contrario rispettare la bidimensionalità. Questa fu una delle ragioni del successo del pittore francese Puvis de Chavannes, autore di numerose decorazioni di edifici pubblici, la cui reputazione e la cui influenza si estesero verso la fine del secolo a tutta l’Europa e agli Stati Uniti. Puvis de Chavannes traspose tale maniera nei quadri da cavalletto, tradizionalmente considerati come finestre aperte su un universo fittizio, ma dalle stesse proprietà spaziali del mondo reale.
Pagine precedenti: 18. Victor Horta, Casa Horta, 1898 Bruxelles.
19. Auguste Bartholdi e Gustave Eiffel, La Libertà illumina il mondo, o Statua della Libertà. Ferro, rame e alluminio, 1875-1884. Bedloe Island, New York.
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Questo partito preso per la bidimensionalità, questo rifiuto della terza dimensione si ritrovano, con ancor maggior rigore, nei dipinti di Gauguin fin dal 1888 e in quelli dei suoi giovani discepoli conosciuti sotto il nome che si daranno poco dopo di Nabis. A ciò si accompagna il rifiuto del quadro da cavalletto, di cui contestavano la legittimità. Tale atteggiamento, prolungatosi ben dentro il xx secolo con conseguenze profonde per la pittura, rimontava alla metà del xix secolo. Aveva allora un carattere politico: al contrario della pittura murale, fatta per il popolo, il quadro da cavalletto era un’opera destinata ai privati, a ornare i salotti della borghesia. Alla fine del secolo le ragioni del rifiuto sono mutate: il quadro da cavalletto è allora rifiutato in nome della decorazione, da considerare non come elemento aggiunto alla struttura per abbellirla arbitrariamente, ma come elemento costitutivo di un insieme nel quale si integra armoniosamente, come un arazzo, una vetrata o un paravento. Ciò spiega perché molti dipinti non sono inseriti in cornici dorate destinate a isolare la composizione da ciò che le sta intorno, come un universo autonomo, ma in un contesto dipinto e talvolta scolpito, che le conferisce il carattere di oggetto d’arte proprio come un vaso o un cofanetto. La nozione di «valori decorativi» ha occupato una parte importante nell’estetica e nell’arte dell’epoca. Il suo contenuto non è sempre facile da circoscrivere, ma essa implica un accordo delle parti fra loro e una sottomissione a un principio superiore, come il contesto architettonico per la pittura murale. Si tratta dunque di valori strettamente formali, indipendenti dal contenuto. Per questo motivo non si può ignorare che l’importanza accordatagli abbia giocato un ruolo non trascurabile nell’apparizione dell’arte astratta all’inizio del xx secolo. Da un punto di vista più generale, e certi punti toccati sopra dovrebbero averlo mostrato, gran parte dei principi estetici sui quali si è fondata l’arte della prima metà del xx secolo erano già presenti dalla metà del xix, pur se un’eccessiva attenzione accordata all’apparenza superficiale delle opere ha potuto far ignorare tale filiazione.
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Enrico Crispolti
Peculiarità
1. Joseph Beuys, Wie man den toten Hasen die Bilder erklärt (Come spiegare i dipinti a una lepre morta), 1965. Happening nella Galerie Schmela, Düsseldorf.
Nel suo Verlust der Mitte (Perdita del centro, 1948) Hans Sedlmayr considera la svariata morfologia dell’arte «occidentale» fra xix secolo e primo xx sotto il segno della perdita di una visione unitaria, ontologica quanto prospettica, della realtà. E in particolare la decentralizzazione del presupposto assiologico dell’arte del xx secolo corrisponde alla profonda evoluzione epistemologica di cui questa partecipa, nel quadro di una subentrata consapevolezza della dinamica interna della materia e dell’energia (dall’enunciazione dei «quanti» di Planck, all’analisi di struttura e fissione dell’atomica, da Bohr e Einstein a Heisenberg e Schrödinger). Specificamente fino dallo scorcio del xix secolo è anche andata perduta la centralità della tradizione classica, cioè il monopolio della «scenicità» della rappresentazione, basata su un presupposto prospettico, in una visione geometrica euclidea. Ciò è avvenuto in una significativa congiuntura innovativa. Da una parte, nuovi interessi di costituzione d’impianto formale (non più infatti di riferimento rappresentativo, ma di autoreferenzialità simbolica, tendendo dunque all’astrazione, al «non-figurativo»), espressi alla fine del xix secolo nell’ambito della ricerca artistica, fra le proposizioni della cultura simbolista e l’Art Nouveau; e, dall’altra, la teorizzazione di una preminenza di valori della struttura formale dell’opera, sviluppata dalla critica «purovisibilista» (Fiedler, Wölfflin, von Marées, Hildebrandt), e dell’Einfühlung, cioè della corrispondenza psicologica degli elementi visivi (Vischer), e insieme l’attenzio-
ne storico-critica nuova portata sia all’ambito dell’arte romana e tardoromana (Wickhoff, Riegl), sia a quello dell’arte paleocristiana e medioevale, in particolare bizantina (Kraus, Aïnalov, Strzygowski). Una decentralizzazione del monopolio costituito tradizionalmente dalla centralità classica ha permesso l’omologazione, entro la considerazione fenomenologica quanto storica delle manifestazioni artistiche possibili, sia di ambiti esotici, primitivistici, estremorientali (quali l’arte africana, quella polinesiana, o quella amerindia: da Gauguin, negli anni ’90 del xix secolo, a Kirchner, Derain, Picasso, Matisse, nel primo decennio del xx), sia di ambiti arcaici mediterranei, preclassici, o medioevali occidentali, postclassici (quali l’arte egizia e mediorientale, o l’arte cicladica, quella micenea, o l’arcaismo greco: da Brancusi a Gaudier-Breska, a Epstein, nei due primi decenni del xx secolo). Parallelo è un processo d’intenzionale «democratizzazione» tanto del presupposto ideologico dell’evento artistico quanto della sua fruizione. Vale a dire che l’artista, divenuto sostanzialmente autocommittente già nel xix secolo, nel seguente – traversando la dialettica fra socialismo, comunismo e capitalismo – vive spesso profondamente le istanze di nuovi soggetti sociali (Il quarto Stato, 1901, di Pellizza da Volpedo), facendosi interprete di un impegno di rinnovamento sociale, fra critica dell’esistente (in nome di umanitarismo, socialismo, comunismo) e progetto utopico (in nome di un sogno palingenetico della società, che trova intanto un margine di realizzazione nell’attenzione da parte degli architetti al tema del
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quartiere operaio: da May a Oud). Tuttavia, contemporaneamente sollecita un riscatto della creatività individuale e persino una possibilità di partecipazione interattiva, da parte del fruitore. Certamente connessa a tale decentralizzazione è anche una progressiva internazionalizzazione della scena artistica già lungo la prima metà del xx secolo, e poi una progressiva sua planetarizzazione lungo la seconda metà. Nel xix secolo il centro dell’arte occidentale è incontestabilmente l’Europa, e la Francia in particolare, ma nella prima metà del xx la stessa situazione europea già si pluralizza, fra Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Russia ed Europa orientale; mentre entrano in scena, sia pure ancora subordinatamente, una partecipazione nordamericana (già alla fine del xix secolo protagonista sul piano delle proposte architettoniche per la nuova metropoli) e una latinoamericana (il «muralismo» messicano, in particolare). Nella seconda metà del xx secolo alla situazione europea se ne contrappongono pariteticamente una nordamericana e una sudamericana, mentre negli ultimi decenni si ha una tripolarità con l’entrata in scena dell’area asiatica (le proposizioni architettoniche megastrutturali giapponesi). D’altra parte, se risulta possibile ordinare le vicende della ricerca artistica durante il xix secolo secondo una narrazione sequenziale delle grandi tendenze che ne hanno caratterizzato la fenomenologia, dall’ideologia alla conformazione del linguaggio (neoclassicismo, romanticismo, realismo, impressionismo, postimpressionismo e altrimenti verismo; e, in ambito architettonico, eclettismo e Art Nouveau), già nel corso dei primi due decenni del xx, e poi lungo la prima metà e con maggiore accelerazione lungo la seconda metà, sul terreno della ricerca, s’assiste sia a un succedersi a breve di tendenze e movimenti, sia a una concomitanza d’orientamenti contrapposti. E ciò senza necessariamente esiti d’egemonia ma soltanto di confronto dialettico in un orizzonte dunque di frammentazione della topografia e della tipologia della ricerca stessa.
Già nel 1962 Gillo Dorfles, nel suo Simbolo, Comunicazione, Consumo, ha parlato appunto di «consumo» per il succedersi accelerato delle formulazioni di nuove tendenze artistiche. Dovuto, questo, al ritmo incalzante dell’evoluzione effettiva dei processi che determinano la realtà del nostro tempo, sotto il profilo sia ideologico, sia economico, sia sociologico, con la capacità dunque d’innescare nella ricerca artistica un’analoga spinta d’accelerazione del cambiamento. Ma dovuto anche alla pressione di un fattore nuovo quale il mercato che, soprattutto
2. Henri Matisse, Madame Matisse o Ritratto della Riga verde. Olio su tela, 1905. Statens Museum for Kunst, Copenhagen.
3. Constantin Brancusi, Mademoiselle Pogany, i versione. Bronzo, 1913. Museum of Modern Art, New York.
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lungo la seconda metà del secolo, viene a insinuarsi sempre più prepotentemente nel «sistema dell’arte», sollecitando un’innovazione in termini di strategia di rincalzo consumistico. Si viene così a produrre un fenomeno del tutto caratteristico degli ultimi decenni del xx secolo, quando la pressione del consumismo (conseguenza estrema dell’egemonia produttivistica industriale) porta a trasformare il margine di fisiologia evolutiva ravvisabile ancora in un’accelerazione del ritmo innovativo del consumo delle tendenze, in un vero e proprio appiattimento su una corrispondenza a un consumismo eterodiretto, estraneo alla fisiologia della ricerca e sempre più rispondente alla mentalità del lancio pubblicitario, alla continua distruttiva esigenza economica d’offerta di nuovi prodotti, scalzanti a breve i precedenti. Mentalità che nel particolare ambito della cultura costituisce la conseguenza dirompente d’una degerazione implosiva della produttività capitalistica, in una prospettiva prefigurata già, fra anni ’30 e ’40, da Horkheimer e Adorno, e sulle estreme attuali conseguenze della quale hanno drammaticamente riflettuto Baudrillard e Virilio. Implosione che, d’altra parte, sembra corrispondere a una estensione del processo di «entropia» dall’ambito della fisica (secondo principio della termodinamica). E combinandosi tutto ciò, infine, con l’egemonia d’un assoluto, disorientato e parcellizzato presente, postulata negli ultimi decenni nella divulgata moda del «postmoderno» (condizione alienante), diversamente dalla rivendicazione d’una totalizzante immediatezza esistenziale, che ha motivato l’autentica crisi del «moderno» e l’apertura di un’ottica postmoderna (condizione d’identità) a metà del secolo. Si è così prodotta una non sempre sufficientemente avvertita netta divaricazione fra livello d’ufficializzazione della ricerca artistica, rispondente all’attività imbonitoria del mercato consumistico (che, rinnovandosi secondo leggi di mera rispondenza consumistica, non propone se non modernistiche opere-oggetti di pura funzionalità edonistica,
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5. Umberto Boccioni, Forme uniche nella continuità dello spazio. Bronzo, 1913. Museum of Modern Art, New York.
4. Pablo Picasso, Les demoiselles d’Avignon, particolare. Olio su tela, 1907. Museum of Modern Art, New York.
necessariamente deprivati di qualsiasi deviante autentica manifestazione d’identità), e livello della ricerca effettiva, autenticamente moderna, sviluppata sul campo, al di là della griglia del vigente sistema dell’arte e delle sue leggi, e liberamente fondata sulla presa di posizione individuale nel confronto con la realtà più profonda del tempo («essere realmente moderni vuol dire essere antimoderni», avverte Berman nel 1983, nel suo All That is Solid Melts Into Air. The Experience of Modernity). Giacché sia lungo la prima metà del xx secolo – e pur attraverso l’affermarsi di movimenti e tendenze di grande portata –, che a maggior ragione nella seconda metà di questo, occorre riconoscere nell’individualità creatrice, per quanto dilaniata e trasgredita,
la misura maggiormente redditizia quanto a qualità di risultati (opere) e a capacità di incidenza di giudizio sulla realtà (visione del mondo nelle opere implicita). Costituendo questo il termine di riferimento più autorizzato per una comprensione non superficiale delle vicende artistiche del xx secolo: autenticità individuale, a livello effettivo della ricerca, contro ufficialità stereotipa, espressa a livello di autoriproduzione consumistica. Sulla cui misura di pretesa omogeneizzazione (a dimensione locale o a pretesa internazionale) si sono venute innescando, alla fine del xx secolo, le diverse (esplicite o più spesso implicite) prese di posizione contro una globalizzazione intesa in termini di omogeneizzazione unilaterale funzionale al consumismo capitalistico più esasperato e che sta dando catastrofici segni di crisi implosiva (fra ecologia, economia e politica). È una contrapposizione di livelli che si ripropone nella divaricazione fra collezionismo amatoriale (fondato sul rapporto individuale), culturalmente produttivo in quanto stimolante committenza privata, e collezionismo di mero investimento finanziario (regolato dall’attenzione preminente a «bolle speculative»). Nel corso del xix secolo (dopo alcune formulazioni anticipatorie di Goya, Delacroix, Géricault), dal realismo all’impressionismo, al verismo, l’attenzione nuova portata in modo sempre più vincolante sul proprio presente (eventi di storia civile, o bellici, o cronaca del vissuto quotidiano), comporta una ricorrenza della scena urbana quale tematica privilegiata (corrispondendo d’altra parte alle formulazioni urbanistiche d’una città ordinata in modo nuovo, caratterizzata dall’accresciuto numero dei suoi abitanti in relazione allo spopolamento delle campagne: da Haussmann per Parigi, a metà del xix secolo, a Wagner per Vienna, fra la fine di quello e l’inizio del seguente). Ma ciò avviene in termini di rappresentazione dello spazio urbano, nell’ampiezza dei suoi spazi, nel dinamismo di traffico veicolare e di folla. Mentre nel xx secolo lo spazio urbano è una realtà non più tanto da rappresentare quanto entro la quale operare, intervenire: dalle intenzioni
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6. Joseph Maria Olbrich, Edificio-passeggeri della stazione centrale di Darmstadt, prospetto e sezione della grande sala centrale.
7. Otto Wagner, Progetto di concorso per il Kaiser Franz Joseph Stadtmuseum. Atrio.
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di «arte-vita» dei futuristi italiani, nei primi anni ’10, alla preposizioni di «attività estetica nello spazio sociale» e di «arte ambientale», negli anni ’70-’90. Movimenti e tendenze Con l’affermarsi di un orientamento nuovo complessivo nella ricerca artistica, architettonica e persino relativa all’oggettistica, nell’ultimo decennio del xix secolo si è prodotta in Europa (ma con riflessi anche al di là dell’Atlantico) una svolta fondamentale. Orientamento che, in quanto modo di dare uno «stile nuovo» a ogni aspetto del vissuto quotidiano (fra nuova città caratterizzata da crescita demografica, comunicazioni più rapide e grandi strade animate di folla e traffico; e altrimenti natura liberamente praticata; insinuandovisi un’attenzione alle profondità dell’inconscio individuale), ha determinato in misura fondativa la formulazione di buona parte dell’intero arco della problematica del «contemporaneo». Le origini dell’arte del xx secolo sono da riconoscere nella congiuntura fra ricerche pittoriche «postimpressioniste», miranti a una sintesi formale cloisonniste, sul piano, e a una esaltazione espressiva del colore puro (da Gauguin a van Gogh, a Seurat e Signac), e formulazioni stilistiche nuove, di sintesi lineare dinamica, avanzate nell’ambito della ricerca architettonica, grafico-decorativa e oggettistica, che oggi si tende a riassumere sotto l’etichetta di Art Nouveau (da van de Velde e Horta, a Klimt, Mucha). Suo presupposto è la libertà nuova di costituire l’immagine o definire le innervature strutturali a prescindere da compiti di corrispondenza rappresentativa. La «rivoluzione» impressionista (da Manet a Monet, Degas, Renoir, Pissarro, Sisley), negli anni ’70 del xix secolo, ha costituito sì il punto di crisi dell’equilibrio rappresentativo «realista» (da Courbet a Millet e Decamp). Tuttavia limitatamente all’ambito pittorico, poiché nella ricerca architettonica le corrispose l’eclettismo, che assemblava stili del passato, in particolare fra Rinascimento e barocco. Pur se proprio in
clima «eclettico» Haussmann ha tracciato la nuova Parigi di Napoleone iii, dimensionata su grandi e rettilinei boulevards, disposti appunto ad accogliere una folla inurbata (esaltata nei dipinti degli impressionisti da Monet a Pissarro e Renoir; ma già celebrata da Baudelaire nel saggio Il pittore della vita moderna, dedicato a Constantin Guys, nel 1863). Aprendosi così una prospettiva di innovazione urbanistica che, a partire dal piano di Wagner per Vienna, coinvolgerà la progettazione architettonica d’avanguardia nello scarto da una considerazione del singolo edificio a quella del contesto urbano: da Sant’Elia e Chiattone (1913-14), a Le Corbusier (1922), a Hilberseimer (1924-25). Definendosi Art Nouveau in area francofona, Jugendstil e Sezession in area tedesca, Modern Style in quella anglosassone, o più genericamente Liberty (termine adottato anche in Italia, assieme al più compromissorio Floreale), e Modernismo in area iberica, il «nuovo stile» intende sostanzialmente affermarsi, a fronte di quelli storici, come originalmente tipico di una modernità entro la quale si è prodotta la trasformazione industriale dell’organizzazione produttiva della società. Stile che, in una ricorrente intenzione di sinteticità e dinamismo strutturale, si viene modulando in varie caratterizzazioni locali. Fra il naturalismo strutturale di Horta, a Bruxelles, o di Guimard, a Parigi, o di van de Velde, a Hagen, e le astrazioni spinte di MacIntosh e della Glasgow School, o l’essenzialità plasticamente determinata e a volte anche elegante di Wagner e della sua scuola (in particolare Hoffmann e Olbricht), a Vienna; ove Kolo Moser opera anche sul piano di arredo e oggettistica. Fino alla fantasia plastica al limite del visionario di Gaudí, a Barcellona. Mentre esposizioni internazionali di arti decorative (come quella del 1902 a Torino, ove l’architettura è di D’Aronco) divulgano le caratteristiche del nuovo stile. Di cui un aristocratico esempio quale opera «totale» è Palais Stoclet di Hoffmann, a Bruxelles (1905-11), con all’interno mosaici di Klimt. E proprio Klimt è una delle personalità più influenti sul piano pittorico, non soltanto
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8. Walter Gropius, Edificio per la sede del Bauhaus, 1925-1926. Dessau.
Pagine seguenti: 9. Vasilij Kandinskij, Composizione n. 1, particolare. Acquarello, inchiostro di china e matita nera su carta, 1910. Musée national d’art moderneCentre Pompidou, Parigi.
in ambito viennese, ma anche europeo. Fondamentale per la formazione di Schiele e di Kokoschka, il quale in particolare, fra primo e secondo decennio, ne supera tuttavia l’aulica lezione di stile in una radicalizzazione espressionista di forte fondamento esistenziale. Del resto anche il percorso di Munch si sviluppa da una stilizzazione di movenza Art Nouveau a una immediatezza figurativa espressionista. Diversamente dall’espressionismo molto introspettivo e visionario del belga Ensor. Mentre, per esempio, in area francese la stilizzazione acquista una raffinatezza di spiritualità effusiva e coinvolta in accentuazioni di sensibilità evocativa, come accade nell’ambito dei Nabis, fra Bonnard,
Maillol e Vuillard. Quest’ultimo impegnato invece in una visione limpida quanto inquietante, traversata da insospettate tensioni di premonizione surreale. Quale sostanzialmente momento di riconoscimento d’identità di una cultura borghese cresciuta sulla potenza dello sviluppo industriale, l’Art Nouveau ne rappresenta sia, per alcuni aspetti, la volontà di superamento di una base positivistica nei termini d’una nuova istanza spiritualistica, sia tuttavia, per altri aspetti, anche un’insinuazione di incalzanti sintomi di crisi. I quali, se trovano il loro naturale traguardo nel primo (1914-18) dei due conflitti mondiali del secolo scorso, risultano già prima per esempio avvertibili nel clima di finis Austriae
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vissuto in ambito viennese dallo scorcio del secolo, quale presentimento di trasgressione imminente del raffinatissimo sogno edenico ed egemonico del vecchio Impero austroungarico. E del resto si erano andate insinuando reazioni di disperazione nichilistica rispetto alla pretesa razionalità progressista borghese (Kierkegaard, Nietzsche, Rimbaud). Mentre la svolta espressionista che vi ricorre, fra primo decennio e avvìo del secondo, fra Schiele e Kokoschka, è sintomo dell’insinuarsi di nuove problematiche connesse con l’esplorazione delle pulsioni dell’inconscio operata a Vienna da Freud. Al punto di crisi delle certezze progressiste (implicite comunque anche nella cultura Art Nouveau e secessionista) si pone infatti un’insurrezione d’immediatezza espressiva che in area tedesca assume caratteri d’accentuazione specificamente espressionista, in polemica contestazione della società borghese e della sua ipocrisia moralistica (come nel lavoro degli esponenti della Brücke, fra la metà del primo decennio e il secondo: Kirchner, Nolde, Schmidt-Rotluff, Heckel, Nolde, ecc.). Lungo gli anni ’10 il gruppo matura intenzioni di critica sociale e di opposizione alla subentrata catastrofe bellica e al profitto capitalistico (da Dix a Meidner, a Beckmann, e altrimenti a Grosz, durante la partecipazione dadaista). Fino a innervare negli anni ’20 le proposizioni della Neue Sachlichkeit, «Nuova Oggettività» (da Dix stesso a Grosz, Schlichter, Schad, Raederscheidt, Davringhausen, ecc.). Mentre in area francese assume caratteri d’una liberazione di emotività sensibile nel lavoro dei fauves (fra Matisse, Derain, Braque, Dufy, Vlaminck, Van Donghen, ecc.). Attraverso i modelli di esotismo polinesiano apportati da Gauguin, nella congiuntura fra espressionismo e fauvismo si apre la questione del primitivismo, con un’attenzione verso la scultura «negra», e di conseguenza verso manifestazioni tardoantiche e medioevali (della cui tradizione, a livello popolare, Gauguin stesso aveva già intercettato i segni in Bretagna, nella scuola di Pont-Aven, fra la metà degli anni ’80 e ’90 del xix secolo). Se ne interessano Kirchner, a Dresda e a Berlino
(facendosi per l’occasione scultore in legno), e Matisse e Derain fra i fauves, a Parigi. Peraltro vi è attento anche Picasso, per il quale, in pittura (fino all’elaborazione del celeberrimo dipinto Les demoiselles d’Avignon, 1907), ma anche in scultura, costituisce lo strumento per superare di netto (e ben più radicalmente che rileggendo la plasticità della scultura «iberica», d’influenza arcaica greca) il margine di edonismo rappresentativo nel quale era coinvolto nelle sue esperienze di figurazione in chiave «blu» e «rosa», all’inizio del secolo. Il problema del primitivismo costituisce d’altra parte (in esperienze di Brancusi, Derain, dello stesso Picasso, nel primo decennio, a Parigi, e di Gaudier-Brezska ed Epstein in Inghilterra) un passaggio quasi obbligato per il rinnovamento della scultura al di là di un impianto figurativo. Vale a dire in una prospettiva d’affermazione dell’evento plastico in quanto mera formulazione stutturale. In effetti, nella fenomenologia della scultura contemporanea, lungo il xx secolo, si realizza un profondo rinnovamento strutturale, con il recupero di una consapevolezza dell’evento scultura anzitutto quale struttura. Ma vi si realizza anche un rinnovamento materiologico, giacché alle materie tradizionali (bronzo, marmo e pietra, legno) altre ne subentrano (ferro e vari metalli direttamente lavorati, materie plastiche, materiali oggettuali, ecc.); un rinnovamento ideologico, in quanto la scultura tende a liberarsi da propri vincoli tradizionali, di unicità di corpo di ponderalità, articolandosi liberamente nello spazio; e infine un rinnovamento operativo, giacché la scultura agisce in modo più consapevole e nuovo in rapporto all’ambiente. Un ruolo analogo a quello assunto dal lavoro di Cézanne nell’ambito della cultura pittorica postimpressionista, nel senso d’un rinnovamento della consistenza strutturale dell’immagine figurativa, che al tempo stesso ne suggerisce una possibile decostruzione, lo ha assunto parallelamente Rodin nel recupero di una consapevolezza dell’entità strutturale della scultura. Contro la noiosità descrittiva, esteriore, in cui era caduta la scultura ottocentesca, in chiave romantico-realista (già
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denunciata da Baudelaire a metà del secolo), rifacendosi al nudo michelangiolesco Rodin ha restituito all’evento plastico una sua priorità assiologica di evidenza strutturale. E ne derivano due grandi e opposte linee di ricerca che traversano (e oltrepassano) la prima metà del xx secolo. Da una parte una linea figurativa, entro la quale (in particolare nel lavoro di Bourdelle, Despiau, Maillol) si definisce una continuità dialettica rispetto alla ricerca rodiniana. Esattamente nei termini di una figurazione che si distende dapprima – fra la fine del xix e l’inizio del xx secolo – in scultura simbolista (Minne in Belgio, Bistolfi e Wildt in Italia ecc.), rapprendendosi subito dopo in scultura espressionista (Lehmbruck, Barlach in Germania); per poi, fra le due guerre, costituirsi in una riproposizione della centralità plastica dell’immagine umana (per esempio De Fiori in Germania, gli stessi Despiau e Maillol in Francia, Arturo Martini e Marino Marini in Italia), fino alla crisi dell’integrità di tale immagine (vissuta fra gli anni ’40 e ’50 da Martini stesso, Marini, Wotruba, Freundlich), e alla matericamente diruta figurazione informale (per esempio della Richier, del giovane César in Francia, o di Garelli in Italia). Dall’altra parte, una linea strutturale che rispetto alla lezione sia della strutturalità, sia dell’esuberante plasticismo di Rodin, si è posta invece in termini di discontinuità oppositoria. Linea identificabile soprattutto nel lavoro di Brancusi, ma che passa appunto attraverso l’esperienza primitivista» e al di là di questa – negli anni ’10 – si pone sia come ricerca di forma pura (Brancusi medesimo), sia come rimotivazione strutturale dell’immagine (attraverso le esperienze della scultura cubista, già in fase «analitica», nel caso di Picasso, ma soprattutto in fase «sintetica» fra Lipchitz, Laurens, Picasso medesimo, Archipenko, Zadkine, Czaky). Costituendo, fra la fine degli anni ’10 e l’inizio dei ’20, la premessa della scultura neoplastica (Vantongerloo), in Olanda, e di quella costruttivista (Tatlin, Rod/enko, Pevsner, Gabo), in Russia; a loro volta proposizioni di scultura «non-figurativa», strutturale, che sono alla base delle ri-
cerche concretiste formulate fra le due guerre (di Melotti e Fontana, a Milano, dei medesimi Pevsner, Gabo, Vantongerloo e di Gorin, a Parigi, e Bill a Zurigo). Mentre un nesso con le esperienze primitivistiche si configura in pronunciamenti di scultura surrealista, fra gli anni ’20 e ’30 (di Giacometti, Ernst). E d’altra parte nell’ambito delle esperienze di utilizzazioni oggettuali del «collage» cubista, in clima sintetico, matura già negli anni ’10 la prospettiva della soluzione dell’impiego diretto dell’oggetto comune (come nel lavoro di Picasso, e come nel caso dei ready-mades di Duchamp). Prospettiva attraverso la quale si entra nel vivo di modi operativi che risulteranno assai ricorrenti nelle proposizioni di scultura degli ultimi decenni del xx secolo (dall’ambito New Dada alla Pop Art, dall’arte povera all’iperrealismo»). All’inizio degli anni ’10, pur diversamente motivati e orientati, sia il cubismo francese sia il futurismo italiano decostruiscono in termini analitici il rapporto conoscitivo con la realtà, scardinando definitivamente un principio di tradizionale unilateralità di corrispondenza rappresentativa. Operando su basi spiritualistiche, facendo tesoro della ricostruzione strutturale dell’immagine operata da Cézanne, il cubismo analizza figura od oggetto, riportandoli concettualmente alla «durata» (nel senso indicato da Bergson) della simultaneità circolare della loro collocazione nello spazio, agendo a livello gnoseologico. Istintivamente, ma con più vividi e scardinanti risultati, Picasso e Braque, e invece in modo grammaticale e di dimostrazione normativa Metzinger e Gleizes (autori del volumetto teorico Du Cubisme, pubblicato nel 1912). Mentre più svariato è il ventaglio delle ricerche sviluppate da altri protagonisti, come Delaunay interessato alle simultaneità cromatiche, o come Léger, attratto da un’immaginazione di mentalità meccanica. Ambedue sono stati posti da Apollinaire, nella sua mappa del Cubismo (Peintres cubistes, 1913), fra i cubisti «orfici». Mentre il cubismo sostanzialmente è interessato ai tradizionali ambiti di pittura e scultura, rinnovati dal loro interno, il futurismo italiano
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(fondato da Marinetti nel 1909), mira piuttosto a un rinnovamento totale dell’ambiente del vissuto, parlando di «Ricostruzione futurista dell’universo» (omonimo manifesto di Balla e Depero del 1915), dalla città all’oggetto, alla comunicazione, al comportamen-
to; immaginando anche una totalità creativa dell’artista. Se esiste un immaginario architettonico futurista (da Sant’Elia a Chiattone, da Prampolini, Depero, Balla, negli anni ’10, a Marchi, nei ’20 e altrimenti allo stesso Prampolini e a Sartoris, fra i ’20 e i ’30, e al-
10. Otto Dix, Drei Freudenmädchen (Tre prostitute). Olio su tela, 1925. Collezione privata, Amburgo.
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11. Francis Picabia, L’Œil cacodylate. Olio e collage su tela, 1921. Musée National d’art moderneCentre Pompidou, Parigi.
lora anche a Fiorini, Poggi e Mazzoni), un’architettura «cubista» la propongono in realtà soltanto architetti cecoslovacchi, fra gli anni ’10 e ’20 (Chochol, Novotný, Go/aŕ, Janák, Kroha, ecc.). Operando invece su basi di positivismo dialettico, il Futurismo analizza la
circostanza d’una totalità d’evento emotivo costituito dal dinamismo della simultaneità di compenetrazioni fra figura, oggetto e ambiente, e fra percezione del vicino e consapevolezza del lontano. Esalta la velocità quale denominatore percettivo di una nuova sensibilità del reale, in una società profondamente trasformata dall’industrializzazione. Avviene in termini di drammatica percezione della conflittualità del reale nel lavoro di Boccioni, a Milano, ove operano anche Carrà e Russolo, e in termini di analisi a volte ironica del movimento, umano, animale, meccanico, o cosmico, nel lavoro di Balla, a Roma. Mentre a Parigi, vicino ai cubisti, è il festoso Severini. Da metà degli anni ’10 sia la ricerca cubista (fra Picasso, Braque, Gris) che quella futurista (fra Balla e Prampolini, Depero, Dottori) tendono a una sintesi fondata su analogie formali. Che i cubisti (con i quali è Severini) utilizzano quale allusione analogica all’oggetto (evocato in sagome), mentre i futuristi le considerano come equivalenze formali «astratte» della circostanza emotiva. E sarà questa la base per l’ulteriore sintesi in chiave «meccanica» che la ricerca pittorico-plastica futurista sviluppa negli anni ’20 (fra i medesimi Balla, Prampolini, Depero, Dottori, Fillia e Diulgheroff), nel quadro dell’essenzialità plastica stereometrica promossa, dal 1918, dal purismo francese (Ozenfant e Jeanneret, il futuro Le Corbusier), stilisticamente assai influente su formulazioni della nuova avanguardia europea (da Servranckx, Flouquet, Peeters, in Belgio, a Schlemmer, Baumeister, Belling in Germania). L’influenza congiunta di cubismo e futurismo stimola nei primi anni ’10 nuove ricerche nell’avanguardia europea, soprattutto fra vorticismo inglese (Lewis, Etchells, Wadsworth, ecc.) e cubofuturismo russo (Malevi/, Kliun, Rozanova, Popova, Ekster, ecc.). Ma sono in particolare le esperienze del cubismo sintetico a offrire, nei secondi anni ’10, la base per il configurarsi di una linea di ricerca «non-figurativa» deliberatamente «costruttiva», strutturale. Che è rappresentata dalla ricerca di enunciazioni formali essenziali capaci di proporre situazioni
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12. Kazimir Malevi/, Quadrato nero, Olio su tela, 1915. Galleria Tret’jakov, Mosca.
A fronte 13. Georges Braque, Atelier i, 1949. Collezione J.-P. Guerlain, Parigi.
Pagine seguenti: 14. Oscar Niemeyer, Casino de Pampulha, 1944. Belo Horizonte, Brasile.
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di «sensibilità pura», come nel suprematismo di Malevi/, Kliun, Puni, Ekster, ecc., in Russia, o parametri di normatività del reale nel neoplasticismo di Mondrian e van Doesburg, in Olanda. Linea il cui sviluppo si configura attraverso il costruttivismo (Lisitskij, Tatlin, Ekster, Pevsner, Gabo, Moholy-Nagy, Peri) e il produttivismo (Rod/enko, Stepanova, Popova), russi, fra i secondi anni ’10 e i primi ’20. Ma che attraverso il successivo concretismo (l’«Art concret» e poi i raggruppamenti di «Cercle et Carré» e «Abstraction-Création», negli anni ’30 a Parigi) costituisce un fondamentale versante della ricerca non-figurativa, appunto in senso «costruttivo», anche entro la seconda metà del secolo. Versante che si contrappone a quello costituito dalla linea di una «non-figurazione» di carattere effusivo, «empatico», in analogie anche musicali, di fondamento espressionista, rappresentata dai sondaggi di «sguardo interiore» di Kandinskij, negli anni – l’esordio degli anni ’10 – della sua partecipazione a Der Blaue Reiter, a Monaco di Baviera (assieme a Marc, Klee, Jawlensky, Feininger, ecc.), e parallelamente dalle ricerche cromatiche analitiche di Kupka. Erede d’una tradizione di spiritualismo cromatico ascendente alla teoria di Goethe (Zur Farbenlehre [La teoria dei colori], 1810, che si contrapponeva al positivismo sperimentale newtoniano), e originariamente affine alle innovative formulazioni musicali di atonalità e dissonanza (di Schönberg, Weber, Berg), è una linea che, traversando anche ricerche d’area surrealista (come nel caso dell’artificialismo dei boemi Ytyrský e Toyen, il cui manifesto è del 1927) acquisterà nuova importanza, fra estremi anni ’40 e ’50, nell’ambito dell’informale, sia come «astrazione lirica» europea, sia come espressionismo astratto nordamericano. Le conseguenze del primo conflitto mondiale, verso cui l’atteggiamento del mondo artistico evolve dall’entusiasmo polemologico futurista, a metà degli anni ’10, alla consapevolezza d’uno sfacelo esistenziale che motiva il nichilismo di Dada, alla fine di quelli, sono assai pesanti per le avanguardie europee che ne escono falcidiate e sbaragliate (fra gli altri,
muoiono Boccioni, Sant’Elia e Marc, e per una malattia contratta in guerra Apollinaire). La giovane generazione europea che su opposti fronti (in Italia come in Germania, o in Russia, dai futuristi a Lenin) aveva immaginato attraverso il conflitto una possibilità di scardinamento della vecchia società europea, si confronta nell’immediato dopoguerra con la Rivoluzione d’Ottobre sovietica e la rivolta spartachista tedesca. La prima, conquistato il potere, sollecita una progettualità innovativa al servizio delle istanze sociali egualitarie formulate. Che è il compito che si assumono in Russia i produttivisti, come teorizzato da Gan, Arvatov, Tarabukin, impegnando l’artista nel progetto di soluzioni d’economia funzionale sia di forma che di strategia produttiva per ogni esigenza espressa dalla società organizzata (dall’ambientazione all’arredo, all’oggettistica, dalla scena teatrale alla scenografia di manifestazioni ideologico-politiche). Mentre l’architettura del costruttivismo russo, facendo tesoro di suggestioni d’avvenirismo megalopolitano futurista (di Sant’Elia, in particolare) sviluppa un immaginario architettonico progettuale di forte intensità autorappresentativa, avveniristica e innovativa (da Leonidov ai Vesnin, a Ginzburg, a Mel’nikov). In tale prospettiva di economicità dell’arte per una società nuova, collettivistica ed egualitaria, si afferma l’esperienza della didattica del Vchutemas, operante a Mosca (1920-1930), e che, connesso alle elaborazioni teoriche costruttiviste e produttiviste sviluppate nell’Inchuk, costituisce il luogo della sperimentazione progettuale innovativa in ambito socialista. Alternativo dunque all’attività, tuttavia in certa misura parallela (sul presupposto di esperienze di qualificazione del prodotto industriale già del Deutscher Werkbund, 1907-1917), sviluppata in area occidentale dal Bauhaus a Weimar (1919-25) e poi a Dessau (1925-1932), fino al trasferimento a Berlino e alla chiusura imposta dai nazisti nel 1933; fondato da van de Velde, diretto a lungo da Gropius, e infine da Meier e poi da Mies van der Rohe. Istituti formativi, malnoto finora il primo, celeberrimo il secondo (riproposto a Chicago nel New
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Bauhaus, diretto da Moholy-Nagy, 1937-38), ove si affronta il nuovo grande compito che, in instanze di palingenesi socialista, si pone alla progettualità dell’artista e dell’architetto nel xx secolo: confrontarsi con le esigenze di una società di massa trasformata dall’evoluzione democratica dei bisogni, farsi capace d’un apporto qualitativo entro la produzione industriale standardizzata. Mentre nell’ambito del «Neoplasticismo» olandese la «sintesi delle arti» propone un principio strutturale formale (ortogonale e di largo impiego di setti e piani rettangolari, colorati uniformenente) che costituisca il fondamento – anche sociale – di un «minimo» vitale di ordine ambientale quanto di modalità costruttiva oggettuale (da van Doesburg a Oud, da Huszar a Rietveld). E il tema della «sintesi delle arti», in senso ambientale, passerà nella cultura del concretismo, ritrovandosi, fra gli interessi maggiori del mac (Movimento Arte Concreta) in Italia, fra la fine degli anni ’40 e l’esordio dei ’50 (di Munari, per esempio). Il confronto con la società nuova, dominata da prospettive di massa e di collettivizzazione, sul passo soprattutto della forte urbanizzazione, alle cui esigenze corrisponde la produzione industriale «standardizzata», coinvolge profondamente la progettualità immaginativa di artisti e architetti, secondo due prospettive operative intimamente diverse. La prima – d’atteggiamento sostanzialmente positivo, «modernistica» – è rappresentata da intenzioni d’inserimento nei processi produttivi industriali: tipiche, per esempio, negli anni ’20 e ’30, le figure di artisti votati all’ambito del disegno industriale, quali Nizzoli, Bayer e Schawinsky. La seconda – d’atteggiamento al contrario sostanzialmente critico, contestatorio o almeno resistenziale, ma non perciò non intimamente «moderna» – è quella rappresentata dall’esaltazione mitopoietica delle lotte popolari (e della conseguente critica antiborghese e anticapitalistica), che corre dall’ambito della Neue Sachlichkeit tedesca (Dix, Grosz), negli anni ’20, all’epica mitopoietica popolare rivoluzionaria dei muralisti messicani (Siqueiros, Orozco, Rivera), operanti sia in patria
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15. Konstanitn Mel’nikov, La casa di Mel’nikov vista da sud-est, fotografata da M.A. Ilyin nel 1931. Museo statale di architettura Š/usev, Mosca. 16. Le Corbusier, Cappella di Notre-Dame du Haut, Ronchamp. Veduta dall’ingresso principale dell’interno. In evidenza l’ingresso feriale, il pulpito e la sequenza della panche. 1950-1955.
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sia negli stessi usa, fra ’20 e soprattutto ’30 e ’40. D’altra parte un risvolto del confronto fra compiti nuovi, che si propongono all’attività artistica, e necessità di comunicazione in una società di massa, che cerca di riconoscersi in una propria immagine, negli anni ’30 e primi ’40, è rappresentato dalla particolare fenomenologia dell’arte dei paesi politicamente dominati allora da dittature. Dall’arte rispecchiante una presunta integrità fisica ariana, imposta da metà dei ’30 dal nazismo (di fondamento prettamente accademico verista, assai convenzionale nella sua capziosità rappresentativa: tipica, per esempio, la scultura di Breker), e contrapposta alla pretesa «arte degenerata», sotto la cui etichetta la propaganda nazista poneva tutte le proposizioni d’avanguardia, al Realismo socialista sovietico (di prescrizione veristico-naturalistica, d’eredità ottocentesca: da Gerasimov a Serov, Jakovlev; fedeli alle teorie di Zdanov). Mentre il fascismo italiano seppe evitare una scelta radicale, malgrado alcuni tentassero di riproporre in Italia modelli e censure naziste; attraverso una committenza mirata, coinvolgendo pittori e scultori in imprese pittoriche o plastiche «murali» (soprattutto esponenti del Novecento italiano, maggiormente supportato dal regime: da Sironi a Campigli, ad Arturo Martini; ma anche più giovani, di fatto «di fronda»: da Cagli a Mafai, Afro; questi ultimi spesso finiti censurati per scarsa funzionalità propagandistica). Nell’ambito architettonico l’architettura nazista (Speer, Troost) si rifaceva a modelli classici greci, frigidamente stilizzandoli, mentre l’architettura fascista si modellava su una esuberante monumentalità romana, anche nei suoi accanimenti urbanisti nel distruttivo «rinnovamento» del centro di città storiche (Marcello Piacentini, in particolare); e quella sovietica inseguiva ecletticamente bizzarre soluzioni ritenute funzionali a un ruolo d’autorappresentatività di regime. Sul piano della ricerca architettonica la contrapposizione operata dalle formulazioni dell’avanguardia internazionale era netta, mirando queste a uno stile di essenzialità formale e strutturale, ritenuto di rispondenza funzio-
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nalistica e che si è diffuso, non soltanto in Europa, come razionalismo (praticato, per esempio, in Germania da Gropius e Hannes Meyer, Hilberseimer, Stam, Breuer, ecc., in Olanda da Mies van der Rohe, Oud, van Eesteren, ecc., in Francia da Le Corbusier, Mallet-Stevens, Lurçat, ecc., in Italia dal Gruppo dei 7 – che comprendeva Terragni, Libera, Figini e Pollini –, dai bbpr, da Lingeri, Ridolfi, Pagano, in Spagna da Sert, ecc.), riconosciuto all’inizio degli anni ’30 quale International Style, e che è stato attento all’uso di materiali industriali (vetro, metalli). Contro il razionalismo si configurano nei medesimi anni ’30 le ricerche dell’architettura organica (di cui il maggiore esponente è il finlandese Aalto, ma nelle quali confluisce il lavoro del nordamericano Frank Lloyd Wright, che l’ha teorizzata). Esse propugnano invece una genesi progettuale conformata sulla naturalità prossemica delle esigenze del fruitore dello spazio architettonico (con il recuperato impiego di materiali naturali, anzitutto il legno, accanto a quelli industriali). È una contrapposizione che si manifesta anche nell’ambito del disegno industriale, riproponendosi come tale all’affacciarsi sulla seconda metà del secolo. Invece, nell’ambito pittorico-plastico, fra le due guerre, si contrappongono risolutamente due distinti versanti della ricerca. Quello rappresentato da una linea che si professa d’avanguardia, confidente nella progressività della ricerca stessa (considerando l’astrazione al di là della figurazione), e nella quale confluiscono le ricerche non-figurative rappresentate in particolare dall’ambito del concretismo. Esso propone costruzioni formali fondate su modelli di geometria euclidea (da Vordemberg-Gildewart a svolgimenti della ricerca dello stesso Kandinskij, da van Doesburg a Mondrian, ad Arp), e nel quale confluiscono le esperienze precedenti di suprematismo, costruttivismo e neoplasticismo olandese. E quello invece variamente rappresentato da ricerche d’ordine figurativo, che vanno dall’ambito del Novecento italiano, che negli anni ’20 si pone con chiarezza il problema di un restituito dialogo in partico-
lare con la tradizione rinascimentale toscana (da Funi a De Chirico, Carrà, da Sironi a Morandi, De Pisis), e da parallele situazioni francesi (da Derain a Friesz, Dunoyer de Segonzac, Le Fauconnier, De La Fresnaye) all’ambito stesso della «Nuova Oggettività» tedesca (da Kanoldt a Mense, Schrimp, Hofer), e dei precisionisti nordamericani (Sheeler e Demuth), o di analoghe mozioni in area russa (Dejneka e Pimenov). D’altra parte una tradizione espressionista si rinnova fra le due guerre (a Parigi, nel lavoro di Soutine o di Pascin, o altrimenti di Rouault o di Gromaire, e in area fiamminga di Permeke, De Smet, van den Berghe, Servaes). Ma se la contrapposizione astrazione/figurazione appare la più macroscopica sulla scena artistica fra le due guerre, non soltanto in Europa, in realtà si iscrive entro il quadro di una più profonda contrapposizione nel modo di confrontarsi con la realtà del proprio presente. Da una parte una linea di dialogo diretto, cioè di «partecipazione per adesione». Ed è la grande linea «positiva» che corre dal futurismo al concretismo, al razionalismo architettonico. Dall’altra una linea di antagonismo, cioè di «partecipazione per negazione». Ed è la grande linea «negativa» che, affondando le proprie radici nel simbolismo (fra Rops, Stuck, Moreau e un Alberto Martini), si manifesta nella spiazzante alternativa «metafisica» posta isolatamente da De Chirico dall’inizio degli anni ’10 (quando opera a Parigi), e che soltanto nella seconda metà di quelli si fa posizione particolare della ricerca (da De Chirico a Carrà, Morandi, Arturo Martini). Si ripropone soprattutto nell’ambito del surrealismo, fra gli anni ’20 e ’30 (fra la prevalenza figurativa delle formulazioni di Dalí, Ernst, Magritte, Delvaux, e l’alternativa non-figurativa posta da quelle di Miró e Masson). Passando per la radicalità del rifiuto formulato da Dada, che investe l’istituto stesso dell’arte proclamando eversivamente che l’«arte è morta» (senza nesso con la filosofica «morte dell’arte» postulata a suo tempo da Hegel), fra lo scorcio degli anni ’10 e i primi anni ’20 (da Duchamp a Picabia, Man Ray, da Ernst ad Arp, Schwitters,
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da Heartfield alla Höch, a Raoul Hausmann e Huelsenbeck). Nella riflessione teorica e nell’attività creativa surrealista (fra Jorn in Danimarca, e lo stesso Breton, Matta o Lamba, a New York), all’inizio degli anni ’40, la finora prevalente accezione di «automatismo psichico», quale origine d’un processo di libera associazione mentale d’immagini (come considerata da Breton negli anni ’20-’30), è superata nella concezione radicalmente materialistica di un automatismo invece d’esito fisico, cioè della mano che segna. E questo costituisce il nesso fra surrealismo e informale (fra esperienze di «tecnica oscillatoria» di Ernst e dripping di Pollock, negli anni ’40, a New York). Tuttavia, profondamente segnato (particolarmente in Europa) dalla tragedia del secondo conflitto mondiale, l’informale costituisce, nei secondi anni ’40 e lungo i ’50, un radicale richiamo alla dimensione dell’«esserci» esistenziale (da Heidegger a Sartre, con suggestioni della fenomenologia di Husserl, e in
un profondo ascolto della organicità della natura, da Merleau-Ponty a Bachelard). È avvenuto con un risvolto manifestamente esistenzialistico, negativo, in area europea (confrontandosi con il néant di cui parlava Sartre: da Dubuffet, Fautrier, Wols, la Richier, a Parigi, a Fontana, Burri, Mannucci, Vedova, Morlotti, Moreni, Fieschi, Vacchi, in Italia, a Schultze, Götz, Hoehme, in Germania, a Tápies, Saura, Millares in Spagna, da Jorn ad Appel nell’area del movimento nordeuropeo «Cobra», ecc.). Invece in area nordamericana (da Pollock, Gorky, De Kooning, a Still, Motherwell, Kline, ecc., in pittura; da Roszak a D. Smith, Ferber, Hare, ecc., in scultura) si è manifestato con una prevalenza di carattere vitalistico, di realismo pragmatico, affermativo (risalendo implicitamente a Peirce, Dewey, Santayana, Whitehead). La preminenza della circostanza esistenziale, entro la quale e a partire dalla quale l’artista informale opera, comporta nell’assoluto presente un azzeramento del passato, della storia, al-
18. Jackson Pollock, Blue poles number 11. Pittura di smalto e alluminio con vetro su tela, 1952. Museum of Modern Art, New York.
Pagine precedenti: 17. Diego Rivera, Dalla conquista al futuro, storia del Messico. Affresco, 1929-1930. Scalone del Palacio Nacional, Città del Messico.
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19. Alberto Giacometti, La Place (La piazza). Bronzo, 1948. Museum of Modern Art, New York.
trettanto che del futuro. Si rompe la concezione di una continuità processuale progressiva della storia, e rimane il presente nella sua parcellizzazione. E si apre così, al suo livello più autentico, la crisi del «moderno», e dunque una prospettiva «postmoderna» (venti e più anni prima che il postmoderno divenga corrente architettonica, e poi – fra gli anni ’80 e ’90 – moda e folclore anche nell’ambito dell’arredamento: Alchimia, in Italia, ecc.). Riportandosi all’origine esistenziale del linguaggio, al grido, al gesto primario, corrispondenti a un’emblematico contatto con la materia magmatica, con una cosmogonia originaria, l’informale scavalca una contrapposizione che distingua fra figurazione e «non-figurazione» (come risulta del resto nel divenire del lavoro di De Kooning o Pollock, o Dubuffet, per esempio). Accade così che rispondano a un medesimo destino di profonda «deiezione» esistenziale la sedimentazione segnico-gestuale di Wols e l’estremizzazione materiale del «sacco» di Burri,
quanto la figuratività diruta della Richier o di Giacometti o quella individualmente esasperata di Bacon. Ma una contrapposizione fra figurazione e non-figurazione si ripropone nelle ricerche nuove che si affermano all’inizio degli anni ’60, e lungo questi, al di là delle esperienze informali, e che aprono possibilità nuove di esplorazione del reale, sia nella sua articolazione sociologica e di mitologie e psicologia collettive, sia nelle sue prospettive tecnologiche e di prospezioni avveniristiche. Una assai svariata vicenda di proposte di figurazione (nell’intenzione di un’esplorazione del mondo che ci circonda, anzitutto cittadino) corre fra le esperienze della Pop Art, e quelle brevi del New Dada, immediatamente precedenti e introduttive (Rauschenberg, Johns, Stankiewicz), o del parallelo Nouveau Réalisme francese (prevalentemente dialogante con oggetti d’orizzonte quotidiano: Arman, Rotella, Spoerri, César, Tinguely, ecc., isolato su un versante invece di individualismo mistico Klein), e le esperienze di
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20. Robert Rauschenberg, Interview, 1955, rr2, moca (a sinistra); Untitled Combine, 1955, rr1, moca.
21. Andy Warhol, Campbell’s Soup Can (Tomato), Caseina e grafite su tela, 1952. Collezione privata.
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una Nuova Figurazione affermatasi sia negli usa che in Europa, negli anni ’60. Nell’utilizzazione di icone e simboli dell’orizzonte quotidiano metropolitano la Pop Art (da popular art) ha operato riscontri immaginativi sostanzialmente tautologici in area nordamericana (fra le stilizzazioni educate prevalenti a New York, di Warhol, Lichtenstein, Dine, Oldenburg, Rosenquist, Wesselmann, Indiana, Segal, e la concitazione a volte persino prossima al kitsch di artisti di «provincia», quali Saul, Thiebaud o Ramos). E invece risposte critiche in area europea (dall’ambito inglese, il maggiormente aggregato – Hamilton, Blake, Kitaj, Hockney, Tilson, Jones, Phillips – a sparse partecipazioni quali quelle degli italiani – Baj, Maselli, e Rotella medesimo). Mentre nell’ambito della Nuova Figurazione, che è cresciuta prescindendo da una contingenza di più rappresentativo impegno affermatasi negli anni ’50 (da Freud a Guttuso, a Diebenkorn), soprattutto in Europa, si sono configurate sia una attenzione critica al presente sociologico (Guerreschi, Romagnoni, in Italia, Monory, in Francia, Arroyo, in Spagna, per esempio), sia una prospettiva di visionarietà di mordente critico (Fieschi, Moreni, Vacchi, in Italia, Whiteley, in Inghilterra, per esempio, Rivers, McGarrell e Petlin, negli usa). La fotografia si è offerta come supporto iconico alla pittura (ricerche di G. Richter negli anni ’60), o come presenza iconica in un contesto oggettuale (come nel lavoro di Boltanski). E mentre l’otticità quotidiana soprattutto urbana, fra ultimi anni ’60 e primi ’70, si è riproposta nell’iperrealismo, in particolare fortunato negli usa (Estes, Close, Salt, Hanson, De Andrea, Graham, ecc.), nell’ambito della figurazione nuova si affermano le origini del neoespressionismo, che fra gli anni ’70 e ’90 caratterizzerà una ripresa di forte disinvoltura figurativa, percorsa anche da accenti visionari, mordente e critica. Affermatosi in Europa (Baselitz, Lüpertz, Kiefer, Immendorf, Penck, in Germania; i medesimi Fieschi, Moreni, Vacchi, in Italia; Barceló, Sicilia, in Spagna; Garouste, in Francia), quanto negli usa (la Rothenberg, Schnabel),
fra gli anni ’60 e ’70, si divulga in un’ulteriore generazione fra ’80 e ’90, soprattutto in Europa (Neue Wilder tedeschi: Oehlen, Büttner, Hödicke, Lüpertz, Dahn, ecc.; e Transavanguardia italiana: Cucchi, Paladino, ecc.). A tutto ciò all’inizio degli anni ’60 e lungo questi si contrappone un’assai articolata vicenda invece di non-figurazione che, in concomitanza con l’applicazione, operata da Gombrich, all’analisi di opere d’arte visiva delle tecniche più aggiornate di psicologia sperimentale e degli studi sulla percezione visiva, si manifesta nelle proposte di una Op Art (optical art) attenta alla sperimentazione di effetti di percezione pura di patterns formali di suggestione ottica (da Albers e Bill a Vasarely, Morellet, a Dorazio, Castellani, Mack, Piene). E parallelamente nelle ricerche di «Arte programmata» e di «Arte cinetica», ove tali effetti risultano complicati da soluzioni motorie ottenute attraverso meccanismi elettronici (Schoeffer, Le Parc, Soto e il grav, Takis, a Parigi, Mari e i gruppi «T» e «N» in Italia, Equipo 57 in Spagna, Dvizenie a Mosca). Proponendosi complessivamente quale fronte di una visione «positiva», «modernisticamente» acritica, delle possibilità evolutive offerte dalla tecnologia. Tuttavia dall’inizio degli anni ’60 si sviluppa anche una pittura non-figurativa invece molto libera nelle sue determinazioni strutturali, di
22. Roy Lichtenstein, M-Maybe. Tecnica mista su tela, 1965 ca. Museum Ludwig, Colonia.
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suggestione fisiomorfica ed evocativa, come in particolare nell’ambito della Post-painterly Abstraction nordamericana (Kelly, Noland, Morris Louis, Olitski, ecc.). I suoi precedenti sono nel lavoro di pionieri quali Reinardt e Newmann, negli anni ’50, e su di essa verrà a innestarsi negli anni ’70 una ricerca di «nuova pittura», di «pittura-pittura», di «pattern-painting», ridotta a elementarietà di segno, traccia, processo, diffusa di qua come di là dell’Atlantico (Ryman, Mardsen, Rockburne, Mangold, negli usa, Griffa, Olivieri, Nigro, in Italia, il gruppo «Support/Surface» e Buren, in Francia, Federle, in Svizzera, ecc.). Del resto una continuità di fenomenologia di proposizioni pittoriche non-figurative si manifesta anche fra gli anni ’80 e ’90, ma vi si contrappone tuttavia un maggiore individualismo europeo (l’assoluto formale spaziale di Merz, l’assoluto cromatico di Gerhard Richter, fra gli anni ’80 e ’90, o di Gadaleta, l’evocatività di Gastini o di Marcaccio, per esempio), rispetto alla spersonalizzazione neominimalista nordamericana (Litzman, Cole, Appleby, ecc.). Di fronte agli esiti di quest’ultima appare di maggior interesse un’evoluzione che affida valore puramente di segnale simbolico, «topologico», alla forma pura (Halley, Scully, Tuttle, negli usa , Tremlett, Umberg, Knoebel, Garutti, in Europa). Proponendo squadrate e spesso modulari «strutture primarie» metalliche, di elementare stereometria (fondata ancora sulla geometria euclidea), la Minimal Art, soprattutto nordamericana (Judd, Morris, Serra, Flavin, Sonnier, Andre, LeWitt, Bell, Turrell, ecc., in termini tridimensionali, McCracken, Charlton, la Martin in termini «pittorici»), fra gli anni ’60 e ’70, ha inteso demitizzare l’evento artistico riportandolo a una elementarietà tecnologica, spersonalizzata, di cui implicitamente si esalta la disponibilità. Tuttavia una manifestazione più radicale di minimalismo è costituita dall’arte concettuale, prevalente negli usa, che privilegia la dimensione mentale della comunicazione artistica, benché nella sua nozione verbale anziché visiva (Kosuth, Wiener, Kawara, Arakawa negli usa, il gruppo inglese Art & Lan-
guage, Hans Haacke, Venet, Paolini, Agnetti, in Europa). Ha rappresentato il momento di più accentuata riflessione dell’operare artistico sui propri mezzi e il proprio ruolo e destino, costituendo di fatto un’estensione nuova delle modalità stesse dell’operatività artistica, negli ultimi decenni del xx secolo. In Europa l’istanza di minimalismo si è invece riportata su una occasionale marginalizzazione e dissimulazione oggettuale dell’evento artistico in situazioni, materie, gesti poveri, recuperando in dimensione d’individualismo neoromantico una sorta di antropologia comportamentale elementare. Come avviene in quella che (rifacendosi alla dizione di «teatro povero» di Grotowsky) è stata detta arte povera, di forte accento evocativo appunto neoromantico (da Beuys a Mario Merz, Zorio, Anselmo, Penone, Fabro, Pascali). Mentre nella situazione nordamericana l’aspetto d’individualismo neoromantico si manifesta, in termini di Land Art, in un confronto fra segni archetipici e immensità del paesaggio ove questi sono costruiti: in particolare il deserto del Nevada (Oppenheim, Smithson, Heizer, Walter De Maria, ma anche gli inglesi Long e Golds worthy, o Christo; mentre una versione miniaturizzata di riferimento antropologico elabora negli usa Simonds). D’altra parte un’altra manifestazione d’accentuato individualismo, negli anni ’60-’70, è costituita dal ricorso all’azione corporea quale evento artistico, nella Body Art o comportamentismo, in proposizioni provocatorie, narcisistiche, masochistiche, di protesta, ecc. (per esempio di Beuys, Nitsch, Schwarzkogler, Brus, fra area tedesca e austriaca, Gilbert & George, in Inghilterra, Desiato, in Italia, Oppenheim e Acconci, negli usa). Le attività di s«comportamento» si tramandano attraverso le riprese video, ed è questa una componente della fortuna della videoarte. Che altrimenti esplora creativamente le nuove possibilità comunicative del mezzo televisivo (da Paik, Schum, a Viola), infine implicandolo anche in situazioni installative (Paik stesso, Plessi) o ambientali (Studio Azzurro). E lavora parallelamente alle esperienze del «cinema d’artista»
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23. Donld Judd,Untitled. 1969. DJ3, The Solomon R. Guggenheim Foundation. Installation: Centro de Arte Reina Sofia (Madrid) 1988.
24. Dan Flavin, Green Crossing Green (to Piet Mondrian who lacked green), 1967. DF 16, The Solomon R. Guggenheim Foundation. Installation: Guggenheim Museum, SoHo (New York), September 1995-January 1996.
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(Warhol, Baruchello, Schifano, ecc.). Sono aspetti della volontà di smarginamento dagli ambiti tradizionali del fare e apprendere arte (gallerie d’arte, musei, ecc.) che si manifesta insistente già negli anni ’60 ma soprattutto nei ’70, sviluppando anche esperienze multimediali e d’altra parte riconnettendosi agli happenings nordamericani (Kaprov, Oldenburg, Dine, Grooms, Whitman), realizzati fra esperienze New Dada e Pop Art (e del gruppo Gutai, in Giappone). Si producono così sia in Europa che nel Nordamerica situazioni di «arte-azione», di carattere partecipativo collettivo, in intenzioni di ricognizione sociologica (il gruppo Art Sociologique, La Pietra), o di evocazione archetipa antropologico-culturale (Summa, Dalisi, Pignon), ma anche in azioni di contestazione politica (Vostell, Haacke, il movimento Fluxus, il Guerrilla Art Action Group, Mauri). Nel suo aspetto autenticamente spontaneo ne partecipa il «graffitismo», manifestatosi a New York negli anni ’70, originariamente e poi autenticamente di anonimi (Taxi 183,
ecc.), ma sul fondamento del quale, all’inizio degli ’80, si è sviluppata a New York una corrente artistica, d’esito fra pittoresco e formalistico (Haring, Scharf, Cutrone, A One, ecc.), salvo rari casi d’autenticità di radicamento esistenziale (Basquiat). Quelle orginarie sono occasioni di «arte-azione» che costituiscono l’aspetto «animatorio», effimero (parallelo al «teatro di strada» promosso da Barba, Scabia e altri), di una intenzionalità partecipativa nuova di cui il lavoro degli scultori propone invece l’aspetto duraturo, nel senso di esperienze di «scultura praticabile» (Dubuffet, per esempio). Esse divengono espressioni di un’«arte ambientale» capace di istituire situazioni nuove nel tessuto urbano (da Goeritz a Città del Messico, e Noguchi, a New York, Parigi e altrove, negli anni ’50, alle esperienze di Somaini, Pietro Cascella, Staccioli, Giò Pomodoro, Nivola, Trubbiani, Carrino, Nagasawa in Italia, Karavan in Israele, di Sørensen, in Danimarca, dei Poirier in Francia, di Varotsos in Grecia, di Inoue e Kuetani, in Giappone, della Lin,
25. Joseph Kosuth, Passagen-Werk (Documenta Flânerie), 1992. Installazione presentata alla Neue Galerie, Kassel.
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26. Jeff Koons, Jeff and Ilona. Legno policromo e resine plastiche, 1990. Opera presentata nella sezione «Aperto», xliv Biennale di Venezia.
negli usa). Ma anche disposta a intervenire in spazi aperti, di natura: tipici, per esempio, in Italia, Campo del Sole, a Tuoro sul Trasimeno (1985-89), o Spazi d’arte nel parco di Villa Gori, presso Pistoia (avvìo inaugurato nel 1982), o Giardino dei tarocchi, della Saint Phalle, a Capalbio (1979-90); e altrimenti il lavoro di Finlay, Sonfist e della stessa Lin. C’è tuttavia anche chi utilizza la scrittura elettronica pubblicitaria operando in contesti urbani (Holzer, a New York). Pur sussistendo ancora casi di fedeltà a una figurazione fortemente rappresentativa (Fischl, risalendo a Pearlstein, negli usa), negli ultimi due decenni del xx secolo, nelle proposizioni pittoriche, prevale una figurazione che nel suo assemblagismo iconico disparato partecipa di un processo d’accentuata decostruzione del rapporto d’apprensione della realtà sul piano sia concettuale, sia emotivo (Salle, Polke, Longo, Oehlen, Dokoupil, Kruger), sul presupposto di una destituzione della centralità attribuita all’uomo dalle scienze moderne (Foucault), di un
«decentramento del soggetto» (Derrida) e una «‘atomizzazione’ del sociale in una rete elastica di giochi linguistici» (Lyotard). Mentre sempre più estesa si fa l’intromissione di elementi di fisicità oggettuale, per un racconto privato e sociologico (Kabakov, Kippenberger, Lucas), sfidando con disinvoltura postmoderna anche il kitsch (Koons), e proponendosi all’insegna di una condizione post-human (Steinbach). E d’altra parte sempre più ricorrente, fino a farsi moda (con rare eccezioni di forte capacità espressiva: da Hill a Serrano alle Sherman e Goldin), si fa l’utilizzo della fotografia e del video, apparentemente più disponibili per descrizioni sociologiche o antropologiche. Mentre sul piano della ricerca architettonica il processo di destituzione dell’unità progettuale verso un’articolazione in episodi che permettano liberamente anche citazioni dal passato, tipico dell’esperienza postmoderna fra gli anni ’60 e ’70 (da Venturi, Johnson e Burgee, Moore, Graves, Meier, esponente dei Five Architects, Pelli, Kohn Pedersen Fox, negli
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usa, a Stirling e Wilford, Ungers, Krier, Bofill, Moneo, Botta, Rossi, Aymonino, in Europa, a Isozaki, in Giappone), si conclude a sua volta fra ’80 e ’90 in una vera e propria «decostruzione» del manufatto architettonico. Nella configurazione del quale sembrano spesso prevalere aspetti di carattere plastico più che strutturale, riconnettendosi agli esiti più azzardati di un’«architettura fantastica» (dall’area dell’espressionismo tedesco, Finsterlin, i Luckhardt, i Taut, Mendelsohn, Poelzig, Hötger, Scharoun, ecc., fra estremi anni ’10 e inizio dei ’20, a Kiesler, Goff, Soleri, Porro, Dyson, Calatrava, lungo la seconda metà del xx secolo). Tipico in questo
senso soprattutto il lavoro dei nordamericani Eisenman (altro esponente dei Five Architects), Gehry, Holl. Diversa è l’impostazione di un’architettura high-tech, fondata interamente su possibilità tecnologiche molto avanzate, esibite in modo autorappresentativo (tipico il lavoro di Foster, Rogers, Nouvel; ma praticata anche da Piano). Mentre appaiono circoscritte in una ottimistica esuberanza progettuale le utopie megastrutturali e megalopolitane circolate negli anni ’60, fra Europa (Cook, Herron, Harvey nel gruppo Archigram, Constant, ecc.), usa (Tigerman, Soleri, Buckmister Fuller, ecc.) e Giappone (Kurokawa, Isozaki, Tange, ecc.).
27. Arata Isozaki, Il municipio della città di Kamioka, prospetto sud. 1976-1978.
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28. Tadao Andô, Tempio Kômiyôji, Saijo, Ehime, 1998-2000.
Questioni fondamentali di linguaggio Alcune questioni fondamentali d’innovazione hanno caratterizzato il xx secolo nello specifico del linguaggio e del concetto spazio-temporale in questo presupposti. Non riguardano soltanto un movimento, una tendenza, o una posizione, ma li attraversano in una significativa continuità oppure ripresa evolutiva. Per esempio, nella congiuntura fra cultura simbolista e tendenze riunite sotto l’etichetta Art Nouveau, comprendenti anche la pittura postimpressionista, si pone la questione veramente fondativa per le ricerche artistiche contemporanee, dell’affermazione
del valore autonomo della forma, e dunque dell’immagine il cui impianto risulti costituito in termini di autonomia di strutturazione formale, liberandosi da compiti di rappresentazione, di corrispondenza esterna. Immagine che assuma dunque valenza di simbolo autonomo. Per Aurier l’opera d’arte deve essere «ideista», «simbolista», «sintetica», «soggettiva» e «decorativa» (Le Symbolisme en peinture, in «Mercure de France» 1891), mentre per Denis, prima d’essere un qualsiasi soggetto, un quadro «è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori disposti in un certo modo» (Définition du Néo-traditionnisme, in «Art et critique» 1890; poi in
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Théories (1890-1910), 1912). Ciò comporta due conseguenze. La più evidente è che si apre la via a formulazioni di carattere non-figurativo, a quella che correntemente è detta «arte astratta». Le cui prime formulazioni sono in ambiti d’influenza secessionista (in opere di Stolba, Augusto Giacometti, Hoelzel, Riemerschmidt, Schmithals, Obrist). Attraverso un’esperienza espressionista o altrimenti fauve, ponendosi all’origine del filone «empatico» dell’astrazione contemporanea (dalle proposizioni di Kandinskij e Kupka all’«astrazione lirica» informale). Mentre l’altra conseguenza è nel fatto che anche la pratica della figurazione non risulta più necessariamente condizionata da un vincolo referenziale rappresentativo, potendo operare in autonomia simbolica. Nell’ambito della cultura architettonica, che partecipa vivamente della intenzione d’essenzializzazione strutturale di presupposto simbolico nell’ambito dell’Art Nouveau, è possibile rintracciare un principio di valorizzazione formale della funzionalità strutturale, progressivamente già affermatosi nel corso del xix secolo nell’architettura ingegneresca e industriale in ferro (ponti, fabbriche, strutture di edifici, espositivi in particolare: da Les Halles, a Parigi, del 1811, al Crystal Palace di Paxton, a Londra, del 1851). Si apre così la prospettiva di una essenzialità formale strutturale antidecorativa (subentrando al ferro il cemento armato) ritenuta rispondente a presupposti di pregiudiziale funzionalistica della progettazione architettonica (da Perret, Garnier, Loos, Behrens, a Freyssinet, Matté-Trucco, all’ambito del razionalismo internazionale, fra Gropius, Le Corbusier, Mies van der Rohe, ecc.). Discorso particolarmente influente nella prima metà del xx secolo, e fino all’ambito dell’organicismo architettonico, entro il quale si afferma invece anche un’attenzione nuova alla valenza espressiva «spontanea» e «naturale» della materia (come nelle costruzioni di Aalto). E le cui sollecitazioni orientano in modi di libertà immaginativa «post-organica» le proposizioni architettoniche dei primi decenni del secondo Novecento (da Le Cor-
busier stesso e Wright a Niemeyer, Utzon, Tange, Kikutake, Moretti, Michelucci, ecc.). Più esplicitamente tuttavia si pongono, nell’ambito plastico-visivo, fondamentali questioni d’innovazione del linguaggio. In particolare la conquista della superficie quale piano operativo. Tradizionalmente un dipinto costituisce una finestra prospettica aperta sulla parete ove è collocato. I cubisti francesi, in particolare nella fase «sintetica» della loro ricerca (Picasso e Braque anzitutti), realizzando il «quadro oggetto», ma parallelamente anche i futuristi italiani (Balla, Depero, Prampolini), affermando il valore oggettuale del «complesso plastico», costituito oltre la pittura e oltre la scultura, in un’analoga intenzione di sintesi, riconoscono un valore fisico assoluto alla superficie del dipinto, base sulla quale operare la strutturazione formale dell’immagine nuova. Ed è sul fondamento del valore assoluto della superficie, prospetticamente invalicabile in un al di là e soltanto sviluppabile in un eventuale al di qua prospettico oggettualmente costruitovi, che si formulano le proposizioni fondative del filone di «non-figurazione» d’intenzione «costruttiva». Dal suprematismo (fra Malevi/, Kliun, Puni) al costruttivismo (Lisickij, Moholy-Nagy), al produttivismo (Rod/enko, Stepanova, Popova), in Russia, e al neoplasticismo (da Mondrian a Van Doesburg, a Rietveld e Oud in architettura), in Olanda, nei secondi anni ’10 e inizio dei ’20. Con conseguenze fino all’ambito che van Doesburg ha definito nel 1930 «Art concret», fondato sull’elaborazione, sulla superficie del dipinto, di strutturazioni formali pure d’ascendenza geometrica, euclidea (da Mondrian a Kandinskij, a Nicholson, Licini, Herbin, Domela, Magnelli, Reggiani, Soldati, ecc.; nel caso di Strzeminski con implicazioni materiche del tessuto pittorico, e di Domela con utilizzazioni polimateriche). E che si ripropone fra secondi anni ’40 e ’50 nelle ulteriori fortune del concretismo: dalla Konkrete Kunst svizzera (Bill, Lohse), al Movimento Arte Concreta (mac), in Italia (Reggiani, Soldati, Veronesi, ecc.), al Groupe Espace (Vasarely, Mortensen, Lardera, ecc.), in Francia. Tuttavia,
29. Frank Lloyd Wright, Solomon R. Guggenheim Museum, 1956-1959. New York.
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una volta acquisita quale campo invalicabile quanto imprescindibile di realizzazione della proposizione pittorica, la superficie in quanto tale si può altrimenti offrire anche quale «schermo» ove sviluppare azioni e gesti di scrittura pittorica, come accaduto in modi diversi nell’ambito delle ricerche informali, negli anni ’50 (fra l’estensione all over di Pollock, le sedimentazioni segniche di Dubuffet o di Wols, o le psicografie estemporanee di Mathieu, o il dibattito gestuale materico di Moreni, e i graffiti murari di Tápies). Ma su tale conquista della superficie, quale base operativa, si fonda anche la progressiva acquisizione di una designazione espressiva della materia. Originariamente quale fisicità di materia pittorica tradizionale (accumularsi del colore a olio, come avviene nelle ricerche di Mancini, in Italia, o di Monticelli, in Francia, fra scorcio del xix ed esordio del xx secolo). Poi come assemblaggio di materiali empirici, a partire dai papiers collées e collages cubisti (sempre nell’ambito della fase «sintetica», di Braque, in pittura, di Picasso, anche in scultura, di Laurens, di Lipchitz in scultura), o dal «polimaterismo» futurista (fra quello oggettuale empirico delle sculture di Boccioni e quello costruttivo con materiali industriali dei «complessi plastici» di Balla, Depero, Prampolini), comprese parallele elaborazioni sviluppate altrove (come i «controrilievi» di Tatlin). E affermandosi in proposizioni oggettuali testuali, in ambito Dada, nel ready-made di Duchamp, in alcune elaborazioni di Arp, nello scorcio degli anni ’10 e, nell’assemblagismo empirico di cascami oggettuali di vissuto di Schwitters, all’inizio dei ’20. Per giungere fino a proposizioni d’ambito informale, negli anni ’50 (di Burri o Colla, in Italia, di Millares o Tápies, in Spagna), oppure d’ambito New Dada alla fine di quelli, o in sviluppi ulteriori negli usa così come in Europa, negli anni ’60 e ’70 (fra Rauschenberg, Stankievicz, Chamberlain, Kienholz, e Spoerri o Arman, fra i Nouveaux-Réalistes francesi; fino a Beuys, nell’ambito dell’arte povera). L’attribuzione di valenza espressiva all’impiego di materiali empirici comporta lo scavalcamento definitivo della distanza
ideale fra immagine artistica e oggettualità empirica, e dunque spazio del vissuto quotidiano. In particolare a partire dalle ricerche nuove affermatesi negli anni ’60 (ma con precedenti nelle avanguardie dei primi decenni del secolo) l’opera d’arte si pone spesso nello spazio empirico sia estendendovisi in quanto «evento» (anche effimero, come negli happenings, d’area fra neodadaista e «pop», di Kaprov, Oldenburg, Dine, ecc.), sia in quanto «opera-ambiente», secondo eventualità molto diverse. Che sono di carattere segnico e luminoso (negli «ambienti» di Fontana, fra 1949 e inizio dei ’60) o di carattere luminoso formalmente minimalista (nelle proposizioni di Flavin o di Nauman), o di construzione assemblagistica oggettuale empirica (nell’operare di Kienholz o di Beuys) oppure in quanto «installazione» di consistenza oggettuale e comunque materica empirica (nel lavoro di Panamarenko, e, nell’ambito dell’arte povera, in quello di Mario Merz o di Zorio). La quale, fra gli anni ’80 e ’90, può arrivare a comprendere anche inserti di video (nelle vi-
30. Renzo Piano e Richard Rogers, Centre Pompidou, 1972-1977. Parigi.
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Pagine seguenti: 31. Frank O. Gehry, Guggenheim Bilbao, 1993-1997. Bilbao.
deoinstallazioni di Paik o di Plessi). Parallelamente, d’altra parte, lungo il xx secolo s’assiste all’insinuarsi progressivo di presupposti gnoseologici nuovi relativamente a consistenza e finalità dell’immagine. Risultano infatti rinnovate le nozioni visive presupposte (sempre) alle immagini utilizzate dagli artisti. Non soltanto la nuova dimensione d’immediatezza praticata dalla fotografia o la suggestione dell’immagine in movimento posta dal cinema, ma la dimensione visiva nuova, del tutto pragmatica, proposta dalla comunicazione pubblicitaria (le «bottiglie» dipinte da Morandi presuppongono una nozione visiva colta, pittorica, da Chardin a Munari; quelle di Coca-Cola figurate da Warhol presuppongono invece la nozione visiva pragmatica della pubblicità di quel prodotto). Già dai primi anni ’60, sono cioè le immagini partecipi di quella che Cohen-Séat ha chiamato «iconosfera», che circonda il nostro vissuto quotidiano, a offrire un nuovo fondamento gnoseologico alle «nozioni visive» presupposte nelle immagini proposte dagli artisti (da
Hamilton a Romagnoni, Fahlström, Monory, fra «pop» e «nuova figurazione»; fino all’illusionismo iperrealista di Hanson o De Andrea, negli anni ’70). Processo d’acquisizione che comporta infine un’assimilazione diretta fra «nozione» e «oggettualità» (come era accaduto nei ready-mades di Duchamp). Ma che nell’ultimo decennio si è sviluppato anche insinuando una consistenza «virtuale» della nozione stessa di «oggettualità» attraverso la pratica della digitalizzazione elettronica (incalzante presenza nell’orizzonte del vissuto individuale quotidiano). Se la geometria euclidea ha costituito il presupposto ideologico-conoscitivo di una tradizione rappresentativa di fondamento classico, riattivata e codificata nell’ambito del Rinascimento italiano (fondamento della concezione «prospettica» di Alberti), entro le vicende evolutive della ricerca artistica durante il xx secolo questa viene posta progressivamente in crisi nella sua pretesa univocità normativa (già del resto insidiata nelle esperienze pittoriche, scultoree quanto architettoniche, del barocco). È accaduto non soltanto nell’ammortizzazione cubista (nella fase «analitica») della norma prospettica di tradizione rinascimentale, introducendo il principio d’una «durata» conoscitiva, ma in particolare nella successiva conquista cubista della superficie (nella fase «sintetica»). Mentre sul piano della riflessione teorica lo ha chiarito Panofsky nel saggio La prospettiva come “forma simbolica”, nel 1927. E se un presupposto di geometria d’ascendenza euclidea rimane implicito nella linea evolutiva della non-figurazione d’intenzione costruttiva, a cominciare dall’affollarsi «assemblagistico» di materiali empirici, la costituzione dell’opera avviene sul presupposto dell’insinuarsi d’una diversa referenzialità geometrica, di carattere «frattalico». Rispondente all’intenzionalità di frammentazione «decostruttiva» che ricorre nelle formulazioni artistiche degli ultimi due decenni del xx secolo, dall’ambito-plastico visivo a quello architettonico. Il rifiuto della valenza normativa della geometria d’ascendenza euclidea e del connesso impianto prospettico di «visione
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Il xx secolo
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cubica», si motiva sostanzialmente attraverso un processo di emancipazione sempre più accentuato, nel senso di un risarcimento del fondamento individualistico esistenziale, che in modi diversi percorre le vicende artistiche del xx secolo. Un processo liberatorio che, dagli anni ’20, intrecciandosi con il monologo interiore affermato sul piano letterario in particolare da Joyce (e dopo intuizioni e pratiche in ambito futurista, e intuizioni aurorali entro la «metafisica» di De Chirico, negli anni ’10, ma con già consistenti presupposti in area simbolista già nell’ultimo decennio del xix secolo), attraverso la consapevolezza d’un dialogo con le pulsioni dell’inconscio, viene a potenziarsi nella pratica dell’associazione automatica, alogica, sul fondamento di un’acquisizione degli esiti delle ricerche di Freud (parallelamente a quello dello scandaglio degli «archetipi» sollecitato da Jung, riattualizzato nel secondo Novecento dallo strutturalismo). Dialogo che riguarda in particolare l’apporto teorico di Breton (dal Manifeste du Surréalisme, del 1924) e l’esito delle ricerche pittorico-plastiche surrealiste (da Ernst a Dalí, a Miró, a Masson). Ma la disponibilità di scrittura automatica (già intuita in ambito espressionista negli anni ’10, fra Kokoschka e lo stesso Kandinskij), sul presupposto liberatorio di un carotaggio in latitudini dell’inconscio, costituisce ormai un’acquisizione presupposta nel bagaglio di formazione dell’artista attuale. Il xx secolo si è concluso consegnando al xxi la consapevolezza di una crisi profonda di ogni apparente certezza, a fronte dell’evidenza di un’implosione del consumismo capitalistico selvaggio spinto all’esasperazione di uno sfruttamento unilaterale di risorse sia umane che naturali (evidenza fissata emblematicamente, nell’inconscio iconico collettivo, nell’autodivoramento delle Twin Towers newyorkesi, simbolo del potere finanziario mondiale, l’11 settembre 2001).
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CREDITI FOTOGRAFICI
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(i numeri corrispondono alle pagine in cui compaiono le illustrazioni)
album/Erich
Lessing: 139, 173, 174, 176, 193, 196, 198, 214; Arata Isozaki, Kamioka Town Hall, Dohosha Shuppan: 234; © Tadao Andô: 235; Archivi Alinari, Firenze: 42-43, 52, 54, 78, 93, 97, 114, 165 sinistra, 207; Archivio Collezione Panza: 226; Archivio Jaca Book /Wasmuth Verlag: 208, 209; Archivio D.V. Sarab’janov: 69, 70, 216; Archivo Cedodal, Buenos Aires: 219; Archivo Fotográfico Fournier Artes Gráficas, s.a.: 24, 25, 30, 34, 35, 50-51, 81, 82, 83, 100-101, 105, 106, 109, 122, 127, 131, 135, 137, 147, 149, 178, 179, 184, 186-187, 189, 190, 206, 224; Archivo Iconográfico, s.a./corbis: 66; Association de Notre-Dame du Haut: 221; Achim Bednorz: 16, 19, 138, 154, 156, 159, 160 sinistra, 164, 211, 238-239; Georges Braque by siae 1995: 217; © Christie’s Images/Bridgeman Images: 227; Elio e Stefano Ciol, s.n.c.: 57; Giorgio Colombo, Milano: 230; Leonard de Selva/corbis : 169; © Fabbrica di San Pietro in Vaticano: 96; Fine Art Images/Archivi Alinari, Firenze: 182-183; Giraudon/Alinari: 13; Angelo Hornak/corbis: 237; index/Baldi/Alinari: 195; K & B New Foto, Firenze/The Bridgeman Art Library: 37; Marc Llimargas i Casas: 11, 113; Ramon Masats: 157; Domi Mora: 112; Musée National d´Art Moderne, Centre Georges Pompidou, Parigi: 212, 215; © 2017 Musei Vaticani, Città del Vaticano: 76; © Musei Vaticani, Foto Archivio Fotografico Musei Vati-
cani, A. Bracchetti-P. Zigrossi: 87; Museo Nacional del Prado, Madrid: 142, 143, 153, 181; © Museo statale di architettura Š/usev, Mosca, 2015: 220 sinistra; Francisco Ontañón: 145; oronoz: 94, 222; Manuel Pérez: 170; prisma: 194; Antonio Quattrone: 20, 21, 39, 45, 48; Humberto Rivas: 165 destra; rmn, Parigi: 146; Javier Sanmartín: 71; Joan Sureda: 15, 202, 204, 228, 232, 233; The Bridgeman Art Library/Alinari: 67, 115, 120, 166; 1990, Foto Scala, Firenze: 22, 58, 62, 64-65, 75, 118, 128, 141, 150-151, 160 destra, 161; 1991: 32; 1992: 40; 1994: 33, 91; 1995: 116, 79; 1998: 175; 1990 Foto Scala, Firenze – cortesia del Ministero dei Beni e Attività Culturali, Roma: 8, 27, 47, 53, 72, 99, 102, 117, 119, 167; 1996 Foto Scala, Firenze – cortesia del Ministero dei Beni e Attività Culturali, Roma: 84; 2004 Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Foto Scala, Firenze: 205, 225; © Shutterstock: 55 (Vladimir Korostyshevskiy), 60 (Elena Odareeva), 61 (Oleg Znamenskiy), 88 (andre quinou), 111 (Renata Sedmakova), 120 sinistra (Dmitry Naumov), 125 (Jose Ignacio Soto), 132 (Delpixel), 163 (Ikonya), 201 (Moscow resident), 240-241 (Melanie Lemahieu); The Solomon R. Guggenheim Foundation, New York (foto di David Heald, dalla mostra “Dan Flavin” Guggenheim Museum SoHo, 1995-1996): 231; Wikimedia Commons: 29.
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GLI AUTORI Philip Cottrell, storico dell’arte, è stato curatore del Metropolitan Museum, New York.
Kunstgeschichte, Università di Vienna, e accademico benemerito dell’Accademia Nazionale di San Luca, Roma.
Enrico Crispolti, critico e storico dell’arte, già professore ordinario di Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Siena, dove è direttore della Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte. Autore di una sterminata bibliografia, ha curato numerosissime mostre e rassegne dedicate alla ricerca artistica contemporanea.
Ronald Lightbown, storico dell’arte specializzato nel periodo Rinascimentale, già curatore del Victoria and Albert Museum, Londra.
Thomas DaCosta Kaufmann, professore di Storia dell’Arte, Department of Art and Archaeology, Princeton University, New Jersey. I suoi studi vertono in particolar modo sulla storia dell’arte europea tra il 1500 e il 1800. Jörg Garms, storico dell’arte, professore presso l’Institut für
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Dmitrij V. Sarab’janov è stato membro dell’Accademia Russa delle Scienze, professore emerito di Storia dell’Arte Russa, Dipartimento di Storia, Università di Mosca. Pascal de Torres, curatore del Musée du Louvre, Parigi. Pierre Vaisse, professore di Storia dell’Arte, Département d’Histoire de l’Art, Faculté des Lettres, Università di Ginevra. È cavaliere dell’Ordre des Arts et des Lettres.
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