MUSIC IN THE WORLD OF TRAVELS

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La musica nei racconti di viaggio

atLante storico Primo voLume


LA MUSICA NEI RACCONTI DI VIAGGIO ATLANTE STORICO

Mappe sonore Vera Minazzi Viaggiare per musica Franco Alberto Gallo Palinsesti mitico-sonori I.1 Racconti e paesaggi Marco Martin I.2 Viaggiatori archetipici Eleonora Rocconi e Daniela Castaldo I.3 Da Unamon ad Annone Anna Chiara Fariselli I.4 La memoria sovrapposta Donatella Restani Attraverso l’Asia II. Egeria Beatrice Pescerelli Fa Hsien Franco Alberto Gallo Xuanzang e i suoni del Buddha Vera Minazzi Anonimo Piacentino Franco Alberto Gallo Sulayman in Cina e in India Franco Alberto Gallo Masudi Franco Alberto Gallo Ibn Jubair Franco Alberto Gallo Chau Ju-Kua Franco Alberto Gallo Guglielmo di Rubruk Franco Alberto Gallo Ata-Malik Juwaini Franco Alberto Gallo Marco Polo Franco Alberto Eventi sonori Orientali nello sguardo di Odorico da Pordenone Annalia Marchisio Chou Ta Kuan in Cambogia Franco Alberto Gallo . Ibn Battuta Franco Alberto Gallo Poggio Bracciolini, Nicolo’ De’ Conti e le sonorità delle Indie Stefano Pittaluga Ma Huan Franco Alberto Gallo Suoni, canti e discanti nell’Itinerarium di Wilbrand von Oldenburg Paola Dessì Notizie dall’Africa Musicisti, danzatori e attori africani a Roma Daniela Castaldo Le Canarie Eliana Cabrera Silvera Ibn Battuta nel Mali Franco Alberto Gallo Francisco Alvarez in Etiopia Franco Alberto Gallo al-Hasan da Fez a Il Cairo Donatella Restani


Ai margini dell’Europa Ibn Fadlan] Franco Alberto Gallo Adamo da Brema] Franco Alberto Gallo Giraldo Cambrense in Irlanda e Galles Letterio Mauro Pero Niño] Franco Alberto Gallo Leo von Rozmital] Franco Alberto Gallo Eventi sonori nella Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno Clara Fossati Immagini musicali dai taccuini di viaggio di Ciriaco d’Ancona Nicoletta Guidobaldi Verso i confini del mondo Alessandro attraversa le frontiere Immagini sulla via dell’Oriente: dopo Alessandro Alessandro in Nezami Le Isole del Sole

Donatella Restani Daniela Castaldo Alessandro Garino Andrew Barker

Musica per viaggiare

Franco Alberto Gallo

viaggiare Per musica Franco Alberto Gallo Il primo racconto di un viaggio intrapreso per ascoltare musica risale alle origini della nostra cultura. Fa parte del lungo viaggio di Ulisse narrato da Omero nell’Odissea. Circe indica all’eroe la rotta da seguire, che passa accanto al luogo dove cantano le Sirene, due fanciulle, sdraiate in un prato, che con la loro voce «tutti gli uomini incantano», normalmente con conseguenze perniciose. Circe fornisce precisi suggerimenti sul modo di evitare tali conseguenze senza peraltro rinunciare all’ascolto «perché tu possa udire la voce delle sirene e goderne». Nell’episodio si trovano enunciati tre elementi essenziali: la volontà di ascoltare «il mio cuore voleva ascoltare», il piace-

re che si ricava dall’ascolto «egli va dopo aver goduto», l’aumento di conoscenza che ne deriva «egli va […] sapendo più cose». L’aspirazione dell’uomo alla conoscenza, di cui Ulisse è divenuto simbolo, è formulata da Omero come desiderio di ascoltare musica. Il racconto omerico costituisce pertanto l’archetipo ideale del materiale qui raccolto: racconti di ascolti musicali dall’Antichità al Medioevo in ogni parte del mondo qui conosciuto. Ulisse era stato ben istruito prima di affrontare le Sirene; la stessa cosa è opportuno avvenga per i lettori di questo libro, che stanno per affrontare un loro viaggio non privo di inco-


I gnite. L’avvertenza principale concerne il fatto che l’ascolto musicale qui raccontato ha ben poco in comune con ciò che attualmente si intende per «ascoltare musica». Non ci sono nomi di compositori, non ci sono titoli di opere, non ci sono distinzioni di generi o di stili, non ci sono personalità di esecutori. Ciò perché il viaggiatore antico era consapevole che la musica costituiva solo la componente sonora di eventi complessi della vita sociale, all’epoca non troppo diversi in ogni parte del mondo (cerimonie del potere civile e religioso, riti funebri e nuziali). Certo la musica era elemento importante per caratterizzare i costumi di una popolazione, per valutarne l’indole, ma al viaggiatore (che non era un musicus e nemmeno un cantor, ma un semplice auditor) tutto sommato non pareva mai troppo differenziata da un luogo all’altro tanto da non poter essere indicata semplicemente come «musica». Ciò d’altra parte significava che il viaggiatore, da qualunque luogo provenisse e in qualunque luogo pervenisse, riconosceva in ogni musica qualcosa di familiare e non di «altro», di immediatamente assimilabile, spesso di altamente apprezzabile, ancora un autentico patrimonio comune dell’umanità. Nel valutare questo materiale, conviene inoltre tener presente che esso ha ben poco in comune con ciò che attualmente si intende per «fonti» della storia musicale. Si tratta in realtà di testimonianze dirette su musiche di cui non resta alcuna traccia perché mai messe per iscritto. Sono dunque piuttosto semplici «messaggi», indirizzati inizialmente ai primi ascoltatori dei racconti di viaggio, poi ai successivi lettori, sino a noi oggi, per ora. Perciò contengono spesso un tipo e una qualità di informazione talora assolutamente sorprendenti. E questo non riguarda solo zone culturalmente meno note, sulle quali spesso proprio i viaggiatori risultano, per quest’epoca, gli unici informatori, dalla Cambogia al Mali, dalle Canarie alle Maldive, dai Mongoli ai Fachiri. Ma riguarda anche la notissima Europa, ove può capitare di incontrare musicisti africani che lavorano a Roma molti secoli prima della deportazione nelle

Americhe o Vichinghi che celebrano riti funebri sul Volga. Da questo Atlante risulta chiaramente che in questo periodo la musica fu una delle esperienze umane più condivise. Nel complesso, come si vede nella cartografia riassuntiva, lo scambio di esperienze musicali fu, in questo periodo, forse più ampio che per qualsiasi altra attività umana. E il panorama è destinato a infittirsi ulteriormente, man mano che altre testimonianze di viaggiatori interessati alla musica potranno aggiungersi a quelle qui presentate. Da ultimo va ricordato che persino i viaggi stessi di quell’epoca hanno ben poco in comune con ciò che attualmente si intende per «viaggi», sia quelli dell’industria turistica sia quelli delle migrazioni forzate. Nell’Antichità e nel Medioevo i viaggi erano un evento del tutto eccezionale, pieno di difficoltà e di pericoli (quando non erano addirittura spedizioni militari come quelle di Alessandro Magno e dell’ammiraglio Zheng He) e l’incontro con la musica rappresentava un momento di pausa e di sollievo. Come risulta già da quella che è forse la più antica testimonianza in proposito, la raccomandazione che il principe di Biblo fa alla cantatrice egiziana inviata a Unamon: «Canta per lui, non far che il suo cuore si preoccupi». I racconti di viaggio sono spesso opera di scrittori di professione che li hanno raccolti dalla viva voce del viaggiatore. Scomparso il viaggiatore, scomparso lo scrittore, ciò che continuò a viaggiare, nel tempo, fu il testo del racconto. Durante questo viaggio il testo andò arricchendosi di immagini, dalle pitture vascolari alle miniature dei manoscritti, che avevano lo scopo di realizzare o di interpretare o più spesso ancora di inventare il corredo illustrativo del racconto. Ecco perché solo un libro come questo, fatto di testi e di immagini, può presumere di presentare adeguatamente l’argomento. Quelle qui raccolte non sono certamente le uniche testimonianze sull’argomento. È una ricerca aperta, chiunque conosca altri racconti del genere è invitato a collaborare.

PaLinsesti mitico-sonori


I.1

racconti e Paesaggi Marco Martin

I racconti di eventi mitici (e talora storici) sono strettamente collegati dai Greci con la natura e il paesaggio. Se lo spazio di un avvenimento è identificabile con un luogo, o una serie di luoghi definiti, la memoria di quell’avvenimento, vicino o lontano nel tempo, si rinnova nel tempo presente del racconto: il qui e ora. Questo è particolarmente vero per i racconti di viaggio. Quando il viaggiatore (o il narratore che si finge viaggiatore) intraprende un itinerario (o il racconto di un itinerario), si imbatte in fiumi, sorgenti, mare, montagne, boschi, pietre e alberi che segnano il luogo in cui un evento mitico si è svolto, in un tempo talora indeterminato. Proprio gli elementi del paesaggio spesso ne riattivano il ricordo attraverso la memoria: allora l’evento ritorna vivo nel tempo presente. Per questo,

come è stato detto da Clarke, il paesaggio dell’evento mitico è come un palinsesto, leggibile attraverso le coordinate del tempo e dello spazio. Se è possibile tracciare delle mappe degli spazi citati nei racconti mitici, o di un Altrove storico remoto e indistinto, come sostiene Hawes, possiamo anche evidenziare in esse i luoghi degli eventi sonori e delle musiche. Tali eventi sonori sono registrati dai narratori, mitografi, storici e periegeti in modo non sistematico e tantomeno tecnico. Essi riguardano la presenza di strumenti musicali, generi di canti, danze e suoni di varia natura, perlopiù in relazione ai luoghi in cui si svolgevano riti, feste, cerimonie cultuali, sepolture, oppure dove sorgevano mura e città, vicino a sorgenti, fontane e pozzi, o ancora nelle piazze del mercato, sull’acropoli o nei campi,


perlopiù ricordati per gli scontri e le battaglie. Nelle Storie di Erodoto e nella Guida alla Grecia di Pausania, entrambi originari dell’Asia minore, si ritrovano numerosi esempi di questo meccanismo. erodoto Di eminente famiglia cario-greca di Alicarnasso, Erodoto (ca. 484-430 a.C.) viaggiò a lungo nelle regioni dell’impero persiano: in Egitto, Mesopotamia, Scizia, Macedonia. Fu ad Atene negli anni di Pericle e Sofocle e terminò la vita a Turi, colonia panellenica vicino a Sibari, in Magna Grecia. Le Storie, divise successivamente dai grammatici alessandrini in 9 libri, descrivono le fasi dello scontro tra i Persiani e i Greci dal 494 al 478 a.C. I primi quattro libri contengono un’introduzione geo-etnografica. A questi si limiterà la nostra rassegna, citando solamente in sintesi altri tre riferimenti musicali, dagli ampi risvolti politici e sociali, contenuti nei libri successivi. Si tratta di due episodi riferiti a Clistene (vii-vi a.C.), tiranno di Sicione, che impose ai rapsodi omerici la più antica censura musicale di cui si abbia memoria (v, 67,1), e delle danze con cui Ippoclide si giocò le nozze con la figlia del medesimo Clistene (vi, 129). Un terzo evento è invece relativo all’arrivo dell’esercito di Serse, re persiano dal 486 al 465 a.C., a Celene, in Frigia, nella cui piazza sgorgavano le sorgenti dei fiumi Meandro e Cataratte: lì sarebbe stata appesa, secondo una tradizione locale, la pelle di Marsia, in origine dio fluviale frigio della cerchia di Cibele, scopritore (euretés) del doppio aulós (diaulós), scorticato vivo dal dio Apollo vincitore della sfida musicale con il sileno.

riportato da Erodoto (i, 23-24) della straordinaria vicenda capitata ad Arione di Metimna (vii a.C.): [...] portato al Tenaro da un delfino, egli che era un citaredo secondo a nessuno tra quelli del suo tempo, il primo degli uomini a noi noti che compose un ditirambo, lo chiamò così e lo insegnò a Corinto.

Mediterraneo: spazio di migrazione e contaminazione di uomini, di canti e di merci In alcuni casi, la rievocazione dell’evento sonoro avvenuto in un luogo specifico si accompagna alla documentazione delle tradizioni esecutive, che comprendono, in rari casi, persino il testo del canto. Si tratta di testimonianze che inducono a ripensare al ricco e complesso patrimonio culturale sonoro degli antichi Greci attraverso una prospettiva rispettosa delle molteplici tradizioni musicali, sovente polivocali, tramandate a memoria per secoli sulle rive del Mediterraneo. Le descrizioni di eventi sonori, talora brevi, talora comparative nelle Storie, sottolineano perlopiù gli aspetti funzionali della musica e la sua dimensione socio-culturale e morale all’interno di ambiti ben definiti, quali soprattutto le feste, i grandi eventi collettivi e i rituali religiosi organizzati nel panorama sonoro del Mediterraneo. Tra di essi, alcuni eventi musicali si rivestono di un significato particolare e conservano un valore aggiunto per le dinamiche culturali, sociali, politiche o economiche di cui sono stati segno e veicolo.

Il mito è noto, ma vale la pena ricordarlo. Arione, virtuoso di canto con accompagnamento di kithára (kitharodós), il cui principale committente era Periandro, il tiranno di Corinto, decise di partire per esibirsi nei vari teatri dell’Italia e della Sicilia. Guadagnato molto denaro, egli ripartì da Taranto su una nave corinzia per rientrare. Ma gli uomini dell’equipaggio, volendo impossessarsi delle sue ricchezze, gli imposero di togliersi la vita subito o di gettarsi in mare. Arione ottenne la possibilità di cantare per l’ultima volta, mentre i marinai, presi dal desiderio di ascoltare il più famoso cantore al mondo, si spostarono dalla poppa al centro della nave. Indossato l’abito di scena, Arione salì sui banchi della nave e intonò con lo strumento a corde il nómos órthios, un canto tradizionale di tessitura acuta in onore di Apollo, come spiegheranno in seguito i lessicografi e i trattatisti (Polluce, iv, 65, iv, 71; schol. Aristoph. Ach., 16; Pseudo-Plutarco, 10). Finito il canto, si gettò in mare. Mente la nave si allontanava, un delfino raccolse il naufrago sul dorso e lo portò in salvo sino al capo Tenaro (oggi capo Matapan), il punto più a sud della terraferma greca, in Laconia. Di lì Arione rientrò a Corinto, ancora con l’abito di scena, e raccontò l’accaduto a Periandro. Tuttavia il tiranno non gli credette e lo mise in stato di fermo sino al ritorno della nave che lo aveva trasportato. Messe a confronto le testimonianze rilasciate rispettivamente del cantore e dai marinai, l’accaduto fu chiarito. A sua memoria fu collocata al capo Tenaro una statuetta in bronzo raffigurante un uomo portato da un delfino: l’immagine era ancora visibile sia al tempo di Erodoto, sia sette secoli dopo, al tempo di Pausania (iii, 25,7). Come è stato messo a fuoco da Kowalzig, non importa se davvero Arione sia stato o meno l’inventore del ditirambo, ma il fatto stesso che Erodoto abbia scelto di raccontare ancora una volta il mito è significativo di quanto esso sia centrale rispetto alla forma del genere musicale come fenomeno letterario, performativo e sociale, collocato per di più in uno snodo fondamentale della pratica globale di danza, canto e musica nel mondo greco. Il racconto sottolinea il ruolo primario del ditirambo come marcatore e veicolo di un cambiamento sociale, da canto in onore di Dioniso con danza circolare a composizione da concerto: tratti da cui esso deriva la sua longevità e il suo carattere di rinnovamento continuo, oltre che il suo ruolo di icona del cambiamento della musica e della società.

Un esempio significativo di tali dinamiche riguarda il racconto dettagliato tramandato dagli abitanti di Corinto e di Lesbo e

Dalla Lidia a Mileto Ritornando all’ambito lidio spicca la seguente descrizione ero-

dotea (i, 17,1) citata anche in due passi di Ateneo (Deipnosofisti, xii, 517 e xiv, 627d). Aliatte, re della Lidia, nella guerra contro i Milesi (622-612 a.C.), in occasione dell’assedio della ricca città ionica, quando il raccolto dei campi era maturo, si mise in marcia con l’esercito al suono di tre tipi di strumenti: per primi i flauti di Pan (hypò syrínghon), poi le arpe (pektídon) e al terzo posto gli auli (auloû), maschili e femminili. La sýrinx è la fistula dei pastori, a una o più cannucce legate, il cosiddetto “flauto di Pan”; la pektís è una specie di arpa a più

corde, probabilmente affine alla mágadis lidia; l’aulós è uno strumento a fiato che in Frigia e in Lidia pare fosse di solito doppio (tibiae nel mondo latino), con una canna che emetteva suoni alti e una più lunga che emetteva suoni bassi. Gli uni erano associati al genere femminile, gli altri a quello maschile. Interessante che i tre gruppi di strumenti siano presentati probabilmente come comparivano nella successione durante la marcia dell’esercito: gli strumenti a fiato ai lati della fila, oppure primi e ultimi, e al centro quelli a corde. Anche i Greci,


riferisce Erodoto, marciavano all’attacco cantando il peana al suono degli auli. Figlio del re Aliatte fu Creso, ultimo re di Lidia, divenuto famoso nell’antichità per la sua straordinaria ricchezza; egli organizzò una coalizione comprendente Egitto, Babilonia e Sparta per combattere Ciro, che aveva rovesciato il regno dei Medi e si avviava a conquistare Sardi. Erodoto racconta (i, 155,4) che Creso, con lo scopo di salvare Sardi dalla distruzione, propose a Ciro di imporre ai Lidi di non possedere armi, di indossare chitoni, di dedicarsi al commercio e, in particolare, di insegnare ai propri figli a suonare la cetra (kitharízein) e il salterio (psállein) oppure, secondo altre interpretazioni, ad accompagnare con il canto il suono dello strumento a corde. Lo storico lascia chiaramente intendere, in questo dialogo morale, che tale comportamento avrebbe reso i Lidi innocui ed effeminati, tanto da non essere più temibili agli occhi dei Persiani, che di conseguenza li avrebbero risparmiati. In Persia Nel medesimo primo libro delle Storie (i, 132,1), di ambito lidio-persiano, si ricorda che presso i Persiani in occasione dei sacrifici non si costruivano altari, non si accendevano fuochi, non si usavano libagioni, non si suonavano auli, né si faceva uso di ghirlande. La dimensione musicale è quindi nuovamente sfiorata quando viene descritto l’intervento di un mago persiano (mágos) che, accanto a colui che compiva il sacrificio, iniziava a cantare una teogonia, un noto canto considerato sacro (i, 132,3). Un altro esempio può essere inserito in un contesto favolistico-folclorico (i, 141,1-3): si tratta di una sorta di parabola sotto forma di aneddoto a tema musicale. Sottomessi i Lidi da parte dei Persiani, gli Ioni e gli Eoli inviarono dei messaggeri a Sardi presso Ciro, chiedendo di essere suoi sudditi alle medesime condizioni che avevano avuto sotto il re Creso. Ciro rispose con un apologo: un auleta, che aveva visto dei pesci in mare, si mise a suonare, pensando che sarebbero venuti a terra. Presa una rete, catturò ne molti. Vedendoli guizzare ormai prigionieri, disse loro di smetterla di ballare, dal momento che al suono dell’aulo non erano neppure usciti dall’acqua. Fuor di metafora, Ciro intendeva che la richiesta dei Greci era ormai inopportuna, in quanto egli aveva già chiesto di ribellarsi a Creso, ma non gli avevano dato ascolto e ora invece, per paura, si dimostravano pronti a ubbidirgli. A Babilonia, ma anche in Egitto A proposito dei costumi dei babilonesi Erodoto afferma (i, 198) che i loro morti venivano imbalsamati con il miele e i loro lamenti funebri (threnoi) erano simili a quelli diffusi in Egitto. In Egitto come in Grecia, ma anche in Fenicia e a Cipro All’Egitto è dedicato l’intero secondo libro con tre precisi accenni alla musica. Il primo riguarda la descrizione di una falloforia in onore di Dioniso (probabilmente l’Osiride itifallico delle feste Pamylia

descritte da Plutarco in De Iside et Osiride, 12,36), nella quale una processione di donne portava in giro per i villaggi immagini dionisiache al suono dello strumento a fiato (aulós). Secondo un consolidato criterio analogico, Erodoto afferma (ii, 48) che tale rituale era simile a quello in uso presso i Greci, fatta eccezione per le danze corali. Il secondo riferimento è la descrizione della solenne festa per la dea Bastet (assimilata ad Artemide) nella città nilotica di Bubastis (ii, 60). Folle di fedeli, uomini e donne insieme, raggiungevano il luogo sacro dopo una navigazione sul Nilo, durante la quale alcune donne facevano risuonare i crotali (krótala) e alcuni uomini suonavano l’aulo (aulós) in un fragoroso strepito di battimano, accompagnato da danze femminili animate da oscenità e violenti motteggi, una sorta di fescennina iocatio, atto rituale egiziano con valore apotropaico. Un altro cenno musicale è dedicato a un canto egizio chiamato Lino, dal nome del leggendario cantore, assimilato a Orfeo e maestro di Eracle, già presente in Iliade, xviii, 570. Il canto era noto in Grecia e diffuso anche in Fenicia e a Cipro: gli Egiziani vi si riferivano con il nome autoctono di Maneros (ii, 79). Il passo è molto interessante, perché ribadisce il carattere indigeno e arcaico delle usanze egiziane osservate da Erodoto, il quale ricorda che in origine Maneros sarebbe stato il figlio unigenito del primo faraone che, morto prematuramente, sarebbe stato onorato dagli Egiziani con lamentazioni funebri (threnoi). Il canto definito Lino, forse attraverso il termine greco ailínos, che a sua volta può aver avuto origine dall’espressione semitica oi lānu, «guai a noi», sarebbe stata la più antica testimonianza canora dell’Egitto. I riferimenti musicali vengono inseriti da Erodoto nei modi più disparati, come a proposito degli Argivi che, come i Crotoniati erano considerati i migliori medici, così essi avevano la fama di essere i primi tra i Greci nella musica (iii, 131,3) – anche se su questo passo grava filologicamente il sospetto dell’interpolazione – e dei costumi dei Lacedemoni, i quali come gli Egizi mantenevano l’antica tradizione di trasmettere il mestiere di auleta, di cuoco e di araldo di padre in figlio (iii, 60). Dalla Licia all’isola di Delo Le vergini iperboree denominate Opi (forse un attributo di Artemide) e Arge (ipostasi di Artemide) sarebbero giunte nell’isola sacra di Delo: i loro nomi sarebbero stati intonati da un coro di donne, in un inno (hymnos) composto per loro da un certo Olen, poeta semitico proveniente dalla Licia, compositore di antichi inni diffusi a Delo (iv, 35). In Libia Le voci delle donne del Nordafrica fanno la loro prima comparsa nella letteratura occidentale attraverso i racconti libici raccolti da Erodoto (iv, 189, 3): A mio avviso, qui ebbero origine anche le alte grida che si lanciano nelle cerimonie religiose; le donne della Libia ne fanno largo uso e le usano bene.

A suo parere, le donne greche avrebbero adottato nelle cerimonie sacre il grido, ololygé, usato di frequente dalle donne libiche e con funzione appropriata al contesto. L’aspetto sonoro rientrava tra le ricerche sulla derivazione dai Libi di alcune realtà greche (iv, 189, 1-3): dall’abbigliamento delle statue di Atena Pallade al modo di aggiogare le quadrighe. L’esecuzione sonora del grido sembra essere continuata nella prassi esecutiva delle donne berbere: così almeno ipotizzavano all’inizio del Novecento i primi antropologi francesi giunti negli allora domini francesi della Tunisia e Algeria, il medico Lucien Bertholon e l’archeologo e naturalista Ernest Chantre, e separatamente l’archeologo e storico svizzero-francese Stéphane Gsell. Nei medesimi anni, l’archeologo ed etnografo americano Oric Bates non si limitava a riconoscere nell’ololygé la più antica espressione sonora dei popoli indigeni documentata nei testi greci, ma la confrontava con altre tipologie di grida ascoltate durante gli scavi e le ricerche sul campo. In particolare, gli richiamava alla memoria lo zagharît, il grido levato nei campi o nei villaggi popolati da Berberi sia all’entrata di qualsiasi persona ritenuta autorevole, sia all’annuncio di notizie cruciali come una morte o una nascita. Negli anni Trenta, Louis Gernet, considerato il fondatore dell’antropologia del mondo antico, dedicò speciale attenzione al tema delle grida rituali delle donne nordafricane. Egli accoglieva con cautela l’ipotesi di Bertholon e Chantre dell’accostamento tra il grido rituale delle donne libiche, menzionato da Erodoto, e lo you-you delle donne berbere. Pur riconoscendo la straordinaria sensibilità etnografica di Erodoto, criticava l’eccessiva semplificazione riguardo alle comparazioni tra usi greci e libici; in particolare, rimaneva scettico riguardo all’eventualità del passaggio diretto di una prassi esecutiva come quella del grido rituale dalle donne nordafricane alle greche. Gernet era piuttosto affascinato dall’idea che il grido rituale fosse la traccia di un sostrato culturale presemitico, forse una traccia troppo labile ma non per questo meno degna di una cauta ipotesi di legami in età preistorica, probabilmente neolitica, tra il Nordafrica e il mondo egeo. Anche se in un contesto differente, vale la pena sottolineare che le grida stordenti e spesso assimilate al mondo ferino costituiscono una caratteristica assai consolidata di un vero e proprio Wandermotiv etnografico nella rappresentazione dell’alterità barbarica, come attestato per esempio per le donne di Cimbri, Germani e Celti. Basti pensare alle descrizioni presenti nella plutarchea Vita di Mario (xix, 9-10 e xxvii, 2-3) a proposito delle urla delle donne combattenti degli Ambroni e dei Cimbri, raffigurate come Menadi nordiche, o al celebre riferimento tacitiano ai feminarum ululatus nella Germania (viii, 4), che ritorna anche nelle Historiae (iv, 18,2), oltre al ritratto della regina Budicca negli Annales (xiv, 36,1). Agli abitanti nomadi della Libia è riferita pure l’unica annotazione riguardante un dettaglio organologico delle Storie (iv, 192, 1): i bracci delle lire erano costruiti dai Fenici con le corna degli orici, una sorta di antilopi.

Pausania Nessuna identificazione certa invece per Pausania, vissuto in età antonina (seconda metà del ii sec. d.C). I dieci libri della Guida alla Grecia sono organizzati secondo un criterio geografico, articolato per regioni e città principali: Attica, Corinzia e Argolide, Laconia, Messenia, Olimpia, Elide, Acaia, Arcadia, Beozia, Delfi e la Focide. Assunto Erodoto per modello, Pausania riattiva le tracce della memoria di suoni, canti, agoni musicali, inni processionali e musiche per la danza sedimentate e stratificate nei racconti e nelle dicerie, nei toponimi e nelle epigrafi, ma anche nelle immagini di rilievi e affreschi. Nelle cartine sono documentati i luoghi descritti nel suo itinerario di viaggio in associazione a qualche tipo di evento sonoro ricordato nelle tradizioni orali o fissato negli elementi del paesaggio artistico o naturale. Tra gli altri itinerari, il viaggiatore segue quello dei racconti dei canti femminili associati a spazi rituali e cultuali ben definiti. In Attica, le donne di Eleusi per la prima volta danzarono e cantarono in onore di Artemide Propylaia riunite attorno al pozzo, che da quell’evento prese il nome di Callicoro, «dalla bella danza» (i, 38,6). Il medesimo appellativo, kallichoros, era stato utilizzato da Omero (Odissea, xi, 581) in relazione a Panopeo, nella Focide. L’epiteto spinge Pausania (x, 4,3) a cercare una motivazione diversa dal legame con il luogo, da secoli disabitato e privo ormai dei segni del paesaggio urbano. Egli richiama l’ipotesi che il «bel choros», ovvero la «bella danza», potesse essere collegato ai movimenti e agli schemi di danza che il tiaso femminile attico delle Tiadi («fiaccole») eseguiva tradizionalmente lungo la strada proveniente da Atene verso il Parnaso, sia nelle varie tappe sia presso gli abitanti (un tempo) di Panopeo: ad anni alterni, infatti, si celebrava una grande festa per il ritorno di Dioniso a Delfi, all’inizio dell’inverno. Come hanno ricostruito gli studiosi, l’evento si svolgeva sul Parnaso: nelle vicinanze dell’antro Coricio, di notte, alla luce delle fiaccole, le Tiadi cantavano canti con motti satirici e danzavano schemi orgiastici. In Laconia, a Carie, durante la festa annuale per Artemide Karyatis, le ragazze danzano secondo gli schemi tradizionali del luogo (iii, 10,7). In Elide, a Olimpia, nel tempio di Giunone, si esibivano i due cori femminili, detti di Fiscoa e di Ippodamia. Narrano che una donna di nome Fiscoa, originaria dell’Elide Cava, avesse avuto un figlio da Dioniso, e che tra le sue altre prerogative vi fosse il coro, formato da sedici donne, due per ciascuna delle otto tribù degli Elei (v, 16,6). Perduti i suoni, si sono conservati i testi dei canti, almeno in qualche caso. Uno di questi è legato alle donne della Messenia, che celebravano la vittoria in battaglia di Aristomene (vii sec. a.C.), l’eroe della seconda guerra messenica contro Sparta. Esse intonavano un canto eseguito ancora al tempo di Pausania, che ne ha trasmesso i versi iniziali (iv, 16,6): Fin nel mezzo della pianura di Steniclero, fin sulla cima del monte Aristomene inseguiva gli Spartani.





I.2

viaggiatori archetiPici Daniela Castaldo, Eleonora Rocconi

Per gli antichi Greci, la musica non era solo un ingrediente che accompagnava le varie occasioni della vita sociale e religiosa, ma anche un importante veicolo di valori identitari, costruiti e preservati allo scopo di marcare l’alterità dal non-greco. La mobilità degli Elleni nel mondo mediterraneo fu infatti un fenomeno rilevante e complesso, carico di conseguenze sul piano culturale e sociale, nell’ambito del quale l’incontro con popoli “altri’ – ognuno dotato di usi, costumi, credenze religiose e organizzazioni sociali e politiche peculiari – lasciò certamente tracce profonde nel proprio immaginario, agevolando il processo di autocoscienza identitaria. Nel mondo greco “musica” e “viaggio” si configurano perciò come due elementi strettamente correlati tra loro, le cui

dinamiche di interazione furono però molteplici. Da un lato, la mobilità fu certamente propria dei professionisti culturali, cioè poeti e musicisti che, nelle varie fasi della storia greca, assimilarono gli idiomi musicali delle civiltà con cui vennero a contatto, costruendo e trasmettendo al tempo stesso il proprio. Dall’altro, più in generale, l’itinerarietà dei Greci (viaggiatori tout-court sin dall’epoca micenea) li portò spesso a osservare e a descrivere le musiche degli “altri”, anche se quasi esclusivamente da una prospettiva ellenocentrica. Entrambe queste dinamiche sono esemplificate nell’immaginario mitico da figure che valsero come paradigmi, nel primo caso, del “musicista itinerante” (Orfeo in primis, ma anche Tamiri e Arione), nel secondo caso del “viaggiatore curioso” (Odis-


seo, ma anche Giasone ed Eracle), che vive in prima persona l’incontro con l’“alterità” e ne descrive, spesso amplificandoli, i tratti peculiari. Archetipo mitico del viaggiatore greco è Odisseo, protagonista dell’episodio forse più emblematico dell’interesse e della curiosità degli Elleni nei confronti dell’“altro”, l’incontro con le Sirene. Tu arriverai, prima, dalle Sirene, che tutti, che tutti gli uomini incantano (thelgousin), chi arriva da loro. A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini

gli sono vicini, felici che a casa è tornato, ma le Sirene lo incantano col limpido canto (ligyre thelgousin aoide), adagiate sul prato: intorno è un gran mucchio di ossa di uomini putridi, con la pelle che si raggrinza. Perciò passa oltre: sulle orecchie ai compagni impasta e spalma dolcissima cera, che nessuno degli altri le senta. Tu ascolta pure, se vuoi: mani e piedi ti leghino nella nave veloce ritto sulla scassa dell’albero, ad esso sian strette le funi, perché possa udire la voce delle Sirene e goderne. (Odissea, xii, 39-52, trad. G.A. Privitera)

1. Sirene e Odisseo legato all’albero maestro della nave. Oinochoe attica a figure nere (525-475 ca.). New York (NY), Coll. Callimanopoulos, 4945. In questa scena Odisseo, legato all’albero maestro di una nave con la prua a forma di testa di cinghiale, ascolta tre Sirene, di cui due suonano l’aulos a due canne e la lyra, mentre quella al cen-tro sembra battere le mani, forse per ritmare il canto. I protagonisti della scena sono identificati dalle scritte seren, ripetuta due volte accanto alle Sirene, e Olyseus ad indicare l’eroe che, legato all’albero maestro di una nave con la prua a forma di testa di cinghiale, sembra pronunciare l’esortazione lys[o]n, “scioglimi”.


2. Odisseo e le Sirene. Urna cineraria etrusca. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 5782 (Da Volterra). Seconda metà II secolo a.C. In questa scena su un’urna funeraria etrusca Odisseo, legato all’albero della nave, si volta indietro verso tre Sirene, che assumono in questo contesto la funzione di psychopompoi (di accompagnare cioè i defunti nell’aldilà). Le divinità hanno perso qui ogni attributo ferino e sono rappresentate come figure femminili sedute su una roccia mentre suonano ciascuna un diverso strumento musicale, syrinx, cetra e aulos.

Dal racconto omerico si evince solo che le Sirene attraggono con il loro canto e conducono alla morte chiunque passi davanti alla loro isola. Le immagini più antiche le mostrano come esseri dal busto di donna e dal corpo di uccello, mentre suonano e cantano appollaiate su rocce a picco sul mare (fig. 1). Se il testo omerico non fornisce indicazioni sul numero delle Sirene e allude solo al potere del loro canto, nelle arti visive invece esse sono rappresentate in due o tre, mentre cantano o, più spesso, suonano diversi strumenti musicali. Questa tradizione iconografica trova paralleli anche nei testi: secondo

Apollodoro, ad esempio, «le Sirene erano figlie di Acheloo e di una delle Muse, Melpomene; si chiamavano Pisinoe, Aglaope e Telsiepia. Una di esse suonava la cetra, la seconda cantava e la terza suonava l’aulos» (Epitome, 7, 18). La presenza degli strumenti musicali sembra in qualche modo amplificare il potere del loro canto che ammalia e cattura con una forza quasi magica l’uditorio, non solo gli esseri mortali, ma anche i venti (Esiodo fr. 28 Merkelbach-West) e le forze della natura. Odisseo, come tutti gli altri naviganti che passano accanto allo scoglio delle Sirene, viene preso da un incontenibile desiderio

di ascoltarne il «limpido canto», esperienza straordinaria, ma pericolosa, che potrà essere superata solo seguendo le indicazioni di Circe. Sirene musiciste compaiono spesso anche in monumenti funerari (fig. 2): ad esse infatti è attribuita la facoltà di poter varcare il confine tra il mondo terreno e l’aldilà, dove possono accompagnare lo spirito dei defunti, assumendo così il ruolo di psychopompoi. Il loro è dunque un canto funebre, di cui in qualche modo esse sembrano quasi divenire la metafora: Elena, nell’omonima tragedia euripidea, chiede a Persefone di

inviarle dall’Ade il coro delle Sirene perché possano intonare con lei canti funebri (Euripide, Elena, 164-176). Il musicista archetipico della tradizione ellenica è Orfeo che, secondo Apollonio Rodio, ripreso poi da Valerio Flacco (i sec. d.C.) e dall’ignoto autore delle Argonautiche orfiche (iv-v sec. d.C.), prese parte alla spedizione guidata da Giasone alla ricerca del Vello d’Oro. Questo episodio del mito costituisce probabilmente un’allusione all’itinerarietà dei più antichi poeti greci, cui fa riferimento anche la definizione planomenos, “errante”, con la quale Orfeo viene indicato da Pausania


(Geografia, ix, 30, 5). Durante questo viaggio, che portò gli Argonauti dalla Tessaglia fino alla lontana Colchide (la moderna Georgia), sulla costa orientale del Mar Nero, Orfeo contribuisce al buon esito dell’impresa grazie esclusivamente alle sue doti di cantore: con il canto e la musica dirime un litigio tra due compagni (Argonautiche, i, 493-94), calma i membri dell’equipaggio, placa i flutti durante una tempesta e dà la cadenza ai rematori. Infine, quando già Erano in vista della bella Anthemoessa, l’isola dove le melodiose Sirene, le Acheloidi, ammaliavano con dolci canti e uccidevano chiunque gettasse le gomene per approdare ... Ora, senza indugi, anche per quelli, gli Argonauti, facevano uscire dalla bocca la loro limpida voce ed essi stavano già per gettare sulla spiaggia le gomene, se Orfeo, il tracio, il figlio di Eagro, non avesse teso nelle sue mani le corde della cetra di Bistonia e fatto risuonare la vorticosa armonia di un canto incalzante, in modo che le loro orecchie rimbombassero di quel suono: così la cetra soverchiò la voce delle vergini. Intanto portavano via la nave Zefiro e l’onda risuonante, che spingeva da poppa. Le Sirene lanciavano ormai un suono indistinto. (Argonautiche, iv, 891-920, trad. G. Paduano) 4. Orfeo condotto da Bacco. Incisione di Remigio Cantagallina da un disegno di Giulio Parigi. Barca del Sig. Nicola Berardi, dalla serie di navi dell’Argonautica, una battaglia navale allestita in Arno il 3 novembre 1608, disegnata da Giulio Parigi, per celebrare le nozze di Cosimo II de’ Medici, Granduca di Toscana, con l’Arciduchessa Maria Maddalena d’Austria. San Francisco, Fine Art Museum 1995.124.24 Il 3 novembre 1608, in occasione delle nozze di Cosimo II De Medici e Maria Maddalena d’Austria, fu allestito il dramma in musica l’Argonautica, di Francesco Cini, ispirato alla spedizione di Giasone. Gli Argonauti giungevano a bordo di navi che sfilavano sull’Arno, decorate secondo l’identità dei passeggeri. Questa incisione mostra la nave di Orfeo su cui trovano posto anche Bacco, una ciurma di satiri e, in sintonia col tema dionisiaco, due pantere. Seduto al centro, il cantore tracio canta un madrigale accompagnandosi con la lira da braccio: “Io ch’alle fila d’or d’eburnea cetra / Che Cillenio mi diede / Voce accordo gentil, voce soave, / Tal che mio canto ogni dur’alma spetra: / Oggi con tuon più strepitoso e grave, / Di Marte al gioco rivolgendo il piede / Farò con fieri carmi / Risonar L’AURA intorno, al suon dell’armi”.

La musica di Orfeo riesce dunque ad avere la meglio su quella delle Sirene e, ancora una volta, è solo grazie a un espediente che i marinai riescono a sottrarsi alla loro malìa. Dal testo emerge anche la consapevolezza di una contrapposizione tra due tipi di musica: quella di Orfeo, positiva, dal ritmo definito e incalzante, che rientra nella sfera di Apollo (forse anche emblematica della “grecità’ contrapposta all’“alterità’ delle Sire-

ne: infatti, nonostante il musicista sia tracio, egli accompagna i Greci); e quella delle Sirene, negativa, un suono confuso e indistinto per i marinai che l’odono ormai da lontano. Non esistono testimonianze iconografiche antiche relative alla partecipazione di Orfeo alla spedizione degli Argonauti, eccetto forse una metopa dal tesoro dei Sicioni a Delfi (570 ca. a.C.). Esistono invece alcuni esempi “moderni” che si collocano nella prospettiva del recupero rinascimentale di temi e figure mitologiche del mondo classico e riguardano sia le arti figurative (fig. 3), sia gli spettacoli teatrali e musicali, in particolare quelli allestiti presso le corti in occasione di eventi solenni, in cui balletti e azioni sceniche si alternavano a momenti musicali sullo sfondo di sontuose scenografie (fig. 4). L’altro mitico cantore e suonatore di cetra della tradizione greca è Tamiri il Tracio: nominato per primo da Omero, egli è punito dalle Muse per la sua hybris. Come narrato nell’Iliade (ii, 591-600), le dèe lo incontrano a Dorion, città della Messenia settentrionale, mentre giunge (596: ionta) dalla casa di Eurito a Ecalia (Tessaglia), ben lontano quindi dalla propria città d’origine, Odrisia in Tracia (nella versione esiodea, testimoniata dal frammento 65 Merkelbach-West, l’evento ha invece luogo proprio in Tessaglia, a Dotion). Qui le Muse lo puniscono per il vanto che egli fa delle sue abilità musicali, da lui dichiarate superiori alle loro, mutilandolo (rendendolo cioè peros, secondo quanto riferito dal v. 599 dell’Iliade, alla lettera “privo dell’uso di un membro”, forse cieco, come interpretato in seguito dalla tradizione), togliendogli il dono divino del canto e facendogli dimenticare l’arte di suonare la cetra. In questa prima occorrenza del mito, Tamiri chiaramente simboleggia

6. Tamiri, Apollo e le Muse. Lekythos attica a figure rosse, Ruvo, Museo Jatta, inv. 1538. Pittore di Meidias. Fine V secolo a.C.

3. Orfeo sulla nave Argo. Tempera su tavola, 56 x 61 cm Verona, Museo di Castelvecchio, 878 (Civici Musei e Gallerie d’ Arte). Fine XV secolo. In questo dipinto su tavola, datato alla fine del Quattrocento, Orfeo è rappresentato sul ponte della nave Argo, attorniato dai compagni di viaggio. Il cantore tracio indossa un sontuoso abito rosso e suona la lira da braccio, la versione attualizzata dello strumento a corde antico.

In questa lekythos ariballica del pittore di Meidias, Tamiri, vestito con un ricco costume, impugna la cosiddetta ‘kithara tracia’, uno strumento a corda di forma particolare in cui gli studiosi hanno creduto di identificare una varietà di cordofono tipica di quella regione geografica (nominata anche da Euripide in un frammento dell’Ipsipile). Il cantore sta seduto su una roccia ed è attorniato da otto Muse, alcune delle quali con lyra e rotolo di papiro, e dal dio Apollo con un ramo di lauro.


8. Arione incanta il delfino e Arione portato in salvo dal delfino. Due Lunette della “Camera degli Sposi”, Mantegna (1465 1474). Mantova, Castello di San Giorgio. Queste due lunette fanno parte di un gruppo di dodici, decorate con finti bassorilievi di ispirazione mitologica che celebrano simbolicamente le virtù del committente, il marchese Ludovico Gonzaga, come condottiero, uomo di stato e di cultura. Sono illustrati alcuni episodi dei miti di Orfeo, di Ercole e di Arione che qui è còlto nel momento in cui, cantando e suonando, incanta il delfino da cui è successivamente portato in salvo. Degno di nota lo strumento musicale suonato dal cantore, non la lira da braccio, ma uno strumento a corde pizzicate dalla cassa di risonanza esagonale che sembra ricordare il liuto, anch’esso canonico strumento dei cantori professionisti e dei virtuosi.

il musicista-itinerante citato anche in Odissea, xvii, 382-386, il divino cantore che giunge “straniero” (xeinon) in terra greca e gira poi di corte in corte, infondendo piacere con il suo canto. Ben diversa è la rappresentazione di Tamiri in ambito drammatico, dove in età classica il personaggio avrà una certa fortuna, come testimonia la tragedia di Sofocle Thamyras (di cui restano però solo frammenti), influenzando anche l’iconografia coeva. È probabile che proprio in ambito tragico venisse introdotto il tema di una vera e propria “gara” del cantore con le Muse, forse per riflettere la crescente popolarità dei virtuosi professionisti che, durante le feste religiose, si esibivano in competizioni pubbliche. Ma è soprattutto da rilevarsi come, in tale contesto, l’incontro del musicista con le dèe non avvenga più in Messenia, come descritto da Omero, ma nella terra natale del cantore, cioè in Tracia, secondo quanto esplicitamente affermato nel Reso pseudoeuripideo (921 ss.: «andavamo alla terra d’oro del Pangeo, noi Muse coi nostri strumenti, per la gara con Tamiri, il sapiente tracio che accecammo, perché aveva schernito la nostra arte», trad. G. Paduano). In pieno v sec. a.C. le caratteristiche peculiari del musicista non sono più, quindi, la sua mobilità e itinerarietà, ma la rappresentatività quale stereotipo dello “straniero” punito per la sua insolenza verso una divinità. Anche lo strumento a corda – definito “kithara tracia” dagli studiosi moderni – con cui viene raffigurato nell’iconografia dell’epoca è peculiare, così come etnicamente

stereotipato il suo abbigliamento (fig. 6). Tale rappresentazione di Tamiri dovette essere sicuramente apprezzata dall’uditorio teatrale del v sec. a.C., data l’atmosfera anti-tracia causata dalla sfortunata spedizione in Tracia del generale Cimone, anche se negli ultimi decenni del secolo il mitico musico sembra gradualmente assimilarsi al sistema culturale ateniese. Nel cratere di Polion, proveniente da Spina, Tamiri simboleggia il professionista musicale per eccellenza, pronto a salire sul podio su cui si esibisce di solito l’agonistes, con in mano uno strumento tipicamente ellenico; in fonti tarde (Clemente Alessandrino, Stromata, i, 16, 76; Eustazio, 297, 38), egli è addirittura identificato con l’inventore della harmonia dorica (la sola scala musicale «genuinamente ellenica» secondo Platone, Lachete, 188d). Un altro personaggio che, pur non appartenendo propriamente alla dimensione mitica, si connota in età classica di attributi favolistici che ne fanno il prototipo del musico professionista in viaggio è Arione di Metimna, famoso citarodo vissuto nella prima metà del vi sec. a.C., al quale la tradizione attribuisce anche un’importante riforma del ditirambo, il coro ciclico tradizionalmente dedicato a Dioniso. Nato a Lesbo, isola che diede i natali a numerosi poeti e musicisti quali Saffo, Alceo e Terpandro, Arione è ricordato a partire da Erodoto (Storie, i, 24) soprattutto per il suo salvataggio in mare ad opera di un

9. Trionfo di Dioniso sugli Indiani. Sarcofago, Museo Gregoriano Profano. II sec. d.C. In un esempio dai Musei Vaticani Dioniso, incoronato da una Vittoria alata, è in piedi su un carro trainato da due elefanti, come un generale vittorioso. Il dio è preceduto da un centauro liricine (solo una parte dello strumento è ancora visibile); accanto, animali esotici, parte del bottino indiano, e menadi danzanti al suono di kymbala e tympanon.

delfino. Secondo l’episodio che lo storico dichiara aver appreso dai Corinzi («I Corinzi raccontano, e i Lesbi lo confermano...»), il citarodo, dopo aver lasciato la città di Corinto – dove era ospite alla corte del tiranno Periandro – per partecipare agli agoni musicali in Sicilia e Magna Graecia, grazie alla sua arte si procura una considerevole quantità di ricchezze e decide così di tornare a Corinto. A tale scopo si imbarca su una nave corinzia a Taranto, ma durante il viaggio l’equipaggio lo deruba costringendolo a gettarsi fuori bordo. Avendo chiesto e ottenuto di eseguire un ultimo canto accompagnandosi con la cetra, tra le onde del mare viene miracolosamente salvato da un delfino richiamato dal suo canto, che lo porta sul dorso fino alla terraferma. Questo mito è attestato nell’iconografia antica (fig. 7), ma è anche tra quelli che conoscono maggior successo tra xv e xvi secolo (fig. 8). Il mito mostra chiaramente rischi e pericoli dei viaggi per mare, una tra le modalità di spostamento privilegiate nel mondo antico. Ma è anche emblematico del graduale processo di commercializzazione cui fu sottoposta la musica proprio attraverso la mobilità dei suoi operatori. A partire dall’età arcaica, fu soprattutto grazie all’emergere della coralità (legata a contesti di esecuzione pubblica e celebrativa che richiedevano sempre uno sponsor) che i musicisti furono sempre più vincolati alla ricerca di una committenza in luoghi diversificati. Secondo alcune recenti interpretazioni,

è questa la probabile ragione per cui Arione, la tipica star musicale in cerca di fama e ricchezze, è collegato da Erodoto alla coralità ditirambica: «Arione [...] il primo degli uomini a noi noti che compose un ditirambo, gli diede il nome e lo insegnò a Corinto» (Storie, i, 23). Certamente l’episodio del salvataggio ad opera del delfino ha ascendenze dionisiache: nel mito, il dio Dioniso è spesso rappresentato quale viaggiatore e, nell’Inno omerico a lui dedicato (di incerta datazione, ma certamente anteriore al v sec. a.C.), viene narrato l’episodio – ripreso poi da Apollodoro – secondo il quale alcuni pirati tirreni tentarono di rapire il dio e furono quindi tramutati in delfini. E presto, nella solida nave, apparvero veloci, sul cupo mare, pirati tirreni: li portava la sorte funesta [...] Ma il dio, sotto i loro occhi, nella nave, si trasformò in un leone dallo sguardo pauroso e bieco: essi fuggirono a poppa e intorno al timoniere dall’animo saggio si fermarono attoniti: il dio, d’improvviso balzando, ghermì il capo; e gli altri, evitando la sorte funesta, come videro, si gettarono fuori tutti insieme, nel mare divino, e diventarono delfini. (Inno omerico ad Ermes, vii, 6-53, trad. F. Cassola)


Dioniso allora trasformò l’albero e i remi in serpi, riempì la barca di edera e fece risuonare gli auli (boes aulon); i pirati, colti da follia, si gettarono in mare e si trasformarono in delfini. (Apollodoro, Miti greci, iii, 5, 3, trad. M.G. Ciani) La tradizione iconografica classica presenta Dioniso come protagonista di un altro viaggio, questa volta per terra, verso l’India. Il trionfo di Dioniso sugli Indiani diventa il modello mitico della celebre spedizione di Alessandro in Oriente e

nella tradizione iconografica romana questo tema ricalca i modelli del trionfo militare. Numerosi sarcofagi di età imperiale illustrano il dio seguito da un festoso tiaso di satiri e menadi danzanti, dalle forti connotazioni esotiche e orientali (fig. 9). Secondo Luciano, Dioniso avrebbe domato i Tirreni, gli Indi e i Lidi con la danza (Sulla danza, 22) e, guidando il suo esercito di donne danzanti contro gli Indiani, i nemici scambiarono per scudi i tympana che esse percuotevano (Bacco, i).

I.3

da unamon ad annone Anna Chiara Fariselli

Come altre opere dell’ingegno, alla stregua di manufatti artigianali e tecnologie produttive, sin dalla prima età del Ferro, la musica − sotto forma di melodie, strumenti musicali e artisti itineranti − dovette viaggiare insieme al carico di merci stipate nelle veloci “navi nere” dei Phoinikes, diffondendosi attraverso i principali porti dei due bacini mediterranei. Per il recupero del sapere musicale di cui i più grandi marinai dell’antichità furono depositari e divulgatori, dobbiamo tuttavia avvalerci dei racconti di altri viaggiatori, voci fuori campo nell’opera di ricostruzione della variegata documentazione levantina. A fronte dell’ampio repertorio iconografico noto, infatti, le scarne fonti scritte disponibili non sono che un labile riflesso della fiorente letteratura fenicia e punica, forse composta

anche di canti e notazioni musicali, oggi perduta. Fra le più antiche testimonianze si colloca il famoso Viaggio di Unamon, opera egizia “pseudoepigrafica” ambientata alla fine della xxi dinastia (1069-950 a.C.). L’emissario del faraone, “Anziano della Porta del Tempio di Ammone”, raggiunta dopo mille avversità la corte del principe Cekerbaal a Biblo con il progetto di acquistare legno di cedro per la barca processionale di Ammone a Tebe, incontra una cantante egiziana: «Ed egli fece venire da me il suo scriba delle lettere e mi portò due giare di vino e un montone. Mi fece condurre Tantniut, una cantatrice egiziana che era con lui, dicendo: “Canta per lui, non fare che il suo cuore si preoccupi”». È verosimile figurarsi che costei accompagnasse il proprio canto con una lira o con un’arpa,


Danda assinus essin cumquos sequam quae poreratur, offic tem sitem in con comniendi del eaquibus alis ad molupta tiuntur sitas aut et et ditas volor seque volorepudae dendis aut ut et hit ut et ad modipsum aut ipienist, cum quatend aestis magnis mincimu sandis dolorum et quamus, ut est atur, nobitat aut que aute pos autet res nit dolupta inum aute earum qui blabore nus dolecae plabo. Ut eos etumquibus apel illuptam, aut lab invel etur sumquassi que sum utas quatqui sedi tem neceratio qui sit rem venihitatqui que cum, vel inctur?

Fig. 2 – Placchetta eburnea da Fort Shalmaneser, Nimrud, VIII sec. a.C. La lastrina in avorio, delicato intaglio di probabile fattura fenicia, è un elemento decorativo di mobile o di pannello parietale, come molti dei manufatti eburnei attribuiti a maestranze fenicie recuperati nei palazzi neoassiri. Rappresenta una suonatrice di lira abbigliata alla moda egizia, con la tipica parrucca klaft resa a blocchetti e la lunga veste impalpabile. Immaginiamo che, insieme a timpaniste e suonatori di aerofoni, la lirista partecipasse a una composizione più complessa: la tipica “orchestra fenicia” ricorrente, in questa fase culturale, su coppe metalliche e intarsi in avorio.

Fig. 1 - Supporto in bronzo da Cipro, XII sec. a.C. Il capolavoro di toreutica cipriota ospita una scena musicale che ha come protagonisti due personaggi (femminili?), uno incedente e uno seduto, ripresi nell’atto di suonare strumenti a corda e un portatore di offerte. La temperie egiziana espressa dall’abbigliamento e dall’acconciatura dei protagonisti, oltre che da sfingi alate rese “a giorno” sui pannelli laterali del manufatto, fa capo a un trend stilistico che caratterizza gran parte delle produzioni di beni suntuari nel Mediterraneo orientale durante la prima età del Ferro.

come suggerirebbero alcune coeve rappresentazioni di suonatrici, abbigliate alla moda nilotica, su lastre eburnee e supporti in bronzo (Fig. 1), interpreti dei più solenni aspetti sonori del cerimoniale regale levantino. Il fatto che sia lo “scriba delle lettere” a ricevere dal dinasta gublita il mandato di introdurre Tantniut lascia intendere che la musicista ricoprisse, fra i dipendenti del palazzo, un incarico ufficiale di rappresentanza. Analogamente, nell’ambito della più tarda epigrafia mesopotamica, si individua la menzione di un suonatore straniero il cui nome, Abdelim, tradisce origini fenicie. Sia che si tratti di un musicista viaggiatore, sia di un esponente di rilievo delle solitamente anonime maestranze coatte deportate dalle città costiere aggiogate dai potenti re neoassiri, l’iscrizione documenta l’apprezzamento di cui il sound fenicio doveva godere nel Vicino Oriente dell’età del Ferro (Fig. 2). Nella stessa fase cronologica, figure professionali simili dispiegavano le proprie arti nei santuari marittimi di Astarte-Afrodite a Cipro – meta preferenziale di stranieri, mercenari, mercanti e navigatori – come prova la lista del personale salariato rinvenuta nel grande quartiere templare di Kition. A consuetudini affini rimandano le seducenti puellae gaditanae, forse eredi della pratica della ierodulia fenicia nel tempio di Astarte a Cadice, di cui viaggiatori d’età imperiale, come Strabone (Geografia, ii, 3, 4), Marziale (Epigrammi, v, 78; vi, 71; xiv, 203) e Giovenale (Satire, xi, 162), decantavano le fascinose movenze e le danze lascive. Sempre vincolata alla sfera del

sacro, la musica fenicia e punica non è esclusivo appannaggio di maestri del suono e operatori cultuali, bensì anche un mezzo per esprimere la fede privata (Fig. 3). Così, stando al racconto di Eliodoro (Etiopiche, iv, 16-17), l’auspicio di transazioni propizie anima le vorticose danze eseguite, su motivi assiri modulati con flauti e arpe, da mercanti di Tiro devoti a Eracle-Melqart in cammino verso gli empori nordafricani. Suoni simili uditi presso il “Corno d’Occidente” evocano invece scenari angoscianti per i compagni d’avventura dell’ammiraglio cartaginese Annone, protagonista del controverso “Periplo”: «Di giorno non vedemmo altro che una foresta, ma di notte ci apparvero molti fuochi e udimmo dei suoni di auli, un battere di cimbali e di tamburi e un gran rumore di voci. La paura ci prese e gli indovini ci ordinarono di lasciare l’isola». L’inquietudine patita dall’equipaggio sembra derivare dal contrasto tra la pace diurna e il clamore della notte, topos ricorrente nella descrizione dei paesaggi africani da parte di molti scrittori classici. Il fragore che si sprigiona dal buio è percepito come un fenomeno paranormale, che gli studiosi orientati verso il riconoscimento di un falso tardo ellenistico nel “diario di bordo” di Annone interpretano come manifestazioni di Pan, il dio-capro avvezzo a comparire all’improvviso per spaventare i pastori. Ciò non esclude, tuttavia, la possibilità di vedervi anche la memoria di riti effettivamente praticati dai Punici, o se non altro il riverbero della percezione greca delle misteriose atmosfere in cui questi si svolgevano.


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Fig. 3 - Figurina in terracotta di Bes-Sileno con aulos e fanciullo dormiente, IV sec. a.C., Collezione Gouin, Cagliari. Il dio Bes, provetto musicista e danzatore nel corteo di Hathor secondo la teologia egiziana, qui nella versione tardo-punica che prevede una commistione iconografica con il Sileno greco, suona l’aulos vegliando su un fanciullo addormentato fra le sue gambe. La scena, di cui è protagonista non secondario il giovinetto dormiente sovrastato dal dio naniforme protettore dei bambini e della maternità, potrebbe riferirsi a rituali d’iniziazione ove il suono acuto dell’aerofono favoriva il raggiungimento, da parte del prescelto, di una condizione estatica e del contatto taumaturgico con l’essenza divina durante la fase onirica.

La cupa ambientazione, infatti, richiama il contesto del rituale molk, descritto con toni raggelanti da Plutarco (De superstitione, 13): «I Cartaginesi sacrificavano i loro figli a Kronos, e quelli senza figli li compravano come fossero animali. La madre assisteva senza lacrime e gemiti, se avesse pianto sarebbe stata disonorata, senza per questo poter impedire il sacrificio. L’ambiente era pieno di suoni di quelli che, davanti alla statua, suonavano tamburi e timpani, per coprire le grida». Che il tofet fosse un santuario in cui si consumavano vari tipi di atti religiosi è un dato ormai unanimemente accolto, sebbene non si disponga ancora di argomentazioni conclusive per stabilire se, oltre alla deposizione di infanti morti per cause naturali, questi comprendessero anche sacrifici umani, in linea con quanto tendenziosamente sostenuto da alcuni autori classici ostili ai barbaroi orientali. D’altra parte, nell’organizzazione di tali liturgie, musica e danza avevano un ruolo incisivo e una mansione prestigiosa svolgevano i sacerdoti impegnati nel gestire il sottofondo sonoro delle funzioni sacre. Lo certificano le immagini, esibite dalle stele lapidee infisse come ex voto nei campi d’urne, di danza-

Fig. 4 – Stele con timpanista dal tofet di Mozia (VI sec. a.C.) (da S. Moscati, L’arte della Sicilia punica, Milano, Jaca Book, 1987) Il tema della suonatrice di timpano è tra i più diffusi, nella versione con disco frontale e in quella con strumento di profilo, nell’ambito delle immagini selezionate per la realizzazione delle stele votive lapidee offerte nei tofet del Mediterraneo punico. La raffigurazione richiama pratiche sacre forse realmente condotte da operatrici cultuali specializzate nella gestione di particolari fasi “in musica” del misterioso cerimoniale molk. Il rito, articolato intorno alla deposizione di feti e infanti incinerati in veri e propri campi d’urne, comportava, stando alle attestazioni iconografiche disponibili, molteplici atti liturgici e il coinvolgimento di differenti figure “professionali”.


tori sfrenati e suonatrici di timpano o cimbali, erette su podi in abiti cerimoniali (Fig. 4). Sulla scia di tali evocazioni, non è difficile immaginare a quali arie pensasse Grazia Deledda nel costruire intorno alla figura di Sadur, provetto suonatore sardo, la leggenda sull’invenzione delle launeddas. Nella favola, il timbro acuto, lamentoso e discontinuo al tempo stesso dei molti flauti di canna del vecchio pastore, legati e suonati in simultanea per soddisfare il capriccio di un minaccioso capo fenicio, otteneva l’effetto di ammansire i feroci pirati orientali, inducendoli addirittura ad abbandonare per sempre le periodiche incursioni predatorie e a stabilirsi pacificamente sulle coste dell’isola unendosi agli indigeni. Certo, il racconto non ha alcun fondamento storico

in merito alla nascita dello strumento musicale, e meno che mai rispetto alle ragioni del progetto coloniale fenicio nel Mediterraneo centrale. È più che plausibile, infatti, attribuire una radice locale al flauto a canne multiple, di cui alcuni bronzetti nuragici sono precoci attestazioni. Non sfugge, però, la suggestione del nesso letterario tra le più antiche e originali manifestazioni musicali isolane e la colonizzazione fenicia: nell’immaginario collettivo le melodie tradizionali sono frutto della lontana commistione di differenti apporti ideologici affluiti dai due bacini del mare nostrum; dell’incontro di espressioni acustiche naturalmente affini e complementari al punto da fondersi armoniosamente in un’unica trama di “sonorità mediterranee”, imprescindibile patrimonio della nostra civiltà.

I.4

La memoria sovraPPosta Donatella Restani

Se la cultura del mondo antico è stata una cultura dell’ascolto1 e se di tale cultura fanno parte eventi sonori collegati con la geografia del luogo, la descrizione del paesaggio e la sua memoria mitologica e storica2, è in tale contesto che si collocano le numerose testimonianze dei viaggiatori, dal i secolo a.C. al iii d.C. Una serie di esse, in particolare, riguarda un suono speciale, molto misterioso, proveniente una sola volta al giorno da alcune pietre di una statua crollata, nel deserto illuminato dai primi raggi del sole, a Tebe d’Egitto. Si intende che tale evento sonoro è, più in generale, parte di quell’interesse straordinario per gli usi religiosi e sociali dell’Egitto, manifestatosi dagli anni 30 a.C., dopo la sconfitta di Antonio e Cleopatra da parte di Ottaviano, quando l’Egitto fu incorporato come provincia

dell’impero. Esso riguardò vari ambiti e aspetti della cultura sia materiale sia immateriale dei Romani, soprattutto se ellenizzati, al punto che oggi gli storici riconoscono vari «concepts of Egypt» nel mondo romano. (xr) Quel suono proveniva da una statua colossale crollata, una delle due che marcavano l’ingresso della necropoli di Tebe, sulla riva occidentale del Nilo, nell’attuale Kom el-Hetta (in arabo: ‫ )ﻧﺎﻃﻴﺤﻼ ﻣﻚ‬ovvero “La collina dei muri”. Le statue erano state fatte erigere da Amenophi iii, faraone della xviii dinastia, nell’ambito di un grandioso programma di edilizia rituale e religiosa, durato una decina di anni (ca. 1372-1363 a.C.). Ben visibili da lontano, in modo che i pellegrini


potessero rivolgere preghiere anche senza avvicinarsi, le statue erano di enormi proporzioni (raggiungono ancora oggi i 18 m di altezza) e identificavano una vastissima area cultuale (circa 350.000 mq) in grado di ospitare grandiosi festival rituali con cerimonie e processioni, musiche e danze. In tal modo il faraone intendeva rendere visibile il Cielo sulla Terra e sé stesso come dio vivente, identificato con il Sole, tra gli altri dèi. D’altra parte il riferimento al faraone come Sole era ampiamente utilizzato nelle lettere dei vassalli egiziani di Siria e Palestina. Uno di loro, Abi-Milki, re di Tiro, si rivolgeva ad Amenophi con uno sfoggio di passi innici e metafore che contengono vari elementi sonori:

Il mio signore è il Sole che sorge ogni giorno su (tutte) le terre, secondo il destino del Sole suo buon padre, che fa vivere mediante il suo soffio benefico, e ritorna indietro col suo vento del nord, che mantiene tutta la terra in pace mediante la forza del braccio, che emette il grido nei cieli come Addu, e tutta la terra si spaventa al suo grido. (trad. M. Liverani)

Dopo circa una dozzina di secoli dalla loro costruzione, tra il 27 e il 18 a.C., nell’ambito di una ricognizione voluta da Augusto e comandata dal prefetto della provincia Elio Gallo, Strabone di Amasea, geografo e storico, amico di Gallo, descriveva un fenomeno sonoro di cui era stato ascoltatore diretto (Geografia, L’Africa, xvii, i, 46):

Erette molto vicine al Nilo, su terreno agricolo e con fondazioni poco profonde, le statue si sgretolarono molto velocemente per l’usura del tempo e degli agenti atmosferici: in parte furono portate via e riutilizzate come materiale per altre costruzioni.

Sul posto si trovano l’uno accanto all’altro due colossi monolitici: uno è integro, all’altro è crollata la parte superiore, che poggiava sul trono, a causa di un terremoto, come si dice. Si crede che, una sola volta al giorno, un suono, come sarebbe di un colpo non grande, venga emesso dalla parte che resta sul trono e sulla base. Anch’io, presente in quei luoghi con Elio

Gallo e con il suo seguito di amici e di soldati, verso la prima ora del mattino, ho udito il suono, ma non posso asserire né che il suono provenisse o dalla base o dal colosso né che qualcuno degli astanti, messisi in cerchio attorno ad essa, lo producesse a bella posta. Di fatto, però, essendone sconosciuta la causa, a tutto vien da credere meno che il suono provenisse dalle pietre così disposte. (trad. N. Biffi) Nel secolo successivo, un altro scienziato romano, Plinio il Vecchio (23 o 24-79 d.C.), nella Storia naturale accennava (xxxvi, 11, 58) al suono emesso quotidianamente alle prime ore del mattino dalla statua mutila, riferendo (forse per la prima volta in un testo, di certo in quello più antico oggi rimasto) l’opinione secondo cui quella statua avrebbe ritratto l’immagine di Memnone. Di fatto, al colosso era stata attribuita una nuova identità.


Dall’età di Augusto sino a quella di Settimio Severo si sono conservate oltre un centinaio di iscrizioni che ricordavano il passaggio di uno o più viaggiatori. Circa una novantina di esse contengono riferimenti all’ascolto del saluto vocale del dio: 46 in greco, 40 in latino e 1 in entrambe le lingue, ma nessuna in demotico. La frase minima riferita all’evento sonoro, «ho udito», esprimeva l’ascolto da parte del visitatore e la sua volontà di lasciarne testimonianza. Essa documentava il ruolo attivo dell’ascoltatore nei confronti della voce del dio e si distingueva nettamente sia dalle pratiche cultuali dei pellegrini egiziani, che con graffiti e immagini di oggetti simbolici, come le orecchie, avevano implorato l’ascolto da parte del dio, sia dall’atteggiamento del pellegrino in ascolto della profezia, sovente mediata dalla voce degli interpreti deputati, nei santuari oracolari della Grecia. Sino all’età di Adriano, quindici visitatori fecero incidere dai lapicidi di professione che lavorarono sulla statua un omaggio a Memnon: 11 in latino, 3 in greco e 1 bilingue. Tra questi, il più antico è di un certo Claudio, che affermava: «Ho udito Memnon», e aggiungeva il nome del suo compagno di viaggio: Achille; la prima ora della giornata; l’anno secondo il calendario romano, l’ottavo del regno di Vespasiano (75/76 d.C.) e il mese del calendario egiziano, Hathyr, seguiti dal ricordo di almeno altre due persone. Molti altri vollero lasciare traccia del loro passaggio e di quanto avevano udito: per esempio, un certo Funisulano Carisio, che, accompagnato dalla moglie Fulvia, testimoniava di aver udito di persona il suono e il grido di Memnon, mentre aveva soltanto sentito parlare, da bambino, della loquacità di Argo o della quercia di Zeus. Poco al di sotto della sua iscrizione seguivano i graffiti che sostituivano la presenza di persona (proskynemata), fatti incidere per conto di o a favore di Dionisia e Giulia Saturnina, donne che forse erano legate da un rapporto di parentela o di amicizia con Fulvia. Al tempo di Domiziano, il prefetto d’Egitto, Títo Petronio Secondo, usava la formula latina per testimoniare di aver ascoltato Memnon alla prima ora del giorno precedente le Idi di marzo e gli riservava un distico greco per onorarlo: il momento del risuonare della voce, emesso dalla parte della statua rimasta seduta e attribuito ai raggi di fuoco del Sole, figlio di Latona, che la colpivano, richiamava sia l’immaginario mitologico sia la lingua della tradizione epica, con adeguate scelte sintattiche e arcaismi lessicali che comprendevano, tra gli altri, alcune espressioni omeriche impiegate per l’emissione della voce, divenuta in un caso grido di battaglia e comunque sempre ben percepibile e talora gridata. L’evento spartiacque per la consacrazione del colosso di Memnon, come vero luogo di “pellegrinaggi”’, fu la visita della coppia dell’imperatore Adriano e della moglie Sabina, che lo onorarono per tre giorni nel mese di Athyr (probabilmente 19-21 novembre) del 130 d.C. durante il viaggio in Egitto. Le dieci epigrafi fatte incidere in quella occasione sono in greco e possono essere considerate come uno dei tasselli di un vero e proprio programma culturale di valorizzazione del patrimonio sonoro lasciato dai Greci, verso cui le élites del ii secolo e Adriano, in particolare, sembravano dimostrare un certo interesse. Del seguito imperiale di circa cinquemila persone fecero parte anche musicisti e letterati, come Mesomede, musicista di corte, al cui nome sono collegati dalla tradizione scritta la notizia sia dell’inno in memoria di Antinoo, favorito di Adriano, morto in circostanze misteriose durante la piena del Nilo durante questo viaggio, sia dell’inno al Sole di cui i manoscritti medievali hanno conservato la notazione musicale e la cui esecuzio-

ne sarebbe pienamente giustificata in un contesto di riti solari come questo: Tutto l’etere taccia, la terra e il mare e i venti; tacciano i monti e le valli, ed echi e canti di uccelli, perché Febo dalla chioma intonsa, dalla chioma bella, sta per venire da noi. (trad. C. Del Grande) aver potuto constatare di persona Memnon parlante, e di Giulia Balbilla, che ha lasciato quattro lunghi epigrammi con la duplice intenzione di celebrazione propagandistica politica e culturale non solo della coppia imperiale ma anche di colei che ne ha lasciato memoria. Sulla base dei quattro epigrammi della poetessa, l’evento è stato ricostruito con particolari diversi per modi e tempi, comunque concordi su un primo imbarazzante silenzio di Memnon, poi scioltosi alla presenza di Adriano e della moglie Sabina. L’unico strumento musicale citato nelle epigrafi è il barbitos, con cui la poetessa Damo s’impegnava a intonare la potenza del figlio dell’Aurora. Strumento musicale a corde, desueto nell’uso, e per questo simbolico di contesti poetici e musicali lontani nel tempo e nello spazio (Saffo e Alceo, le isole ioniche), rievocati per moda soprattutto in età adrianea e antonina, esso diveniva ora un oggetto di scambio musicale per la voce del dio, ora l’allusione a una gara poetica a distanza tra Damo, la protetta dalle Pieridi e amante del canto, e Giulia Balbilla, la pia: per entrambe Memnon fece volentieri risuonare la sua voce. La maggioranza degli ascoltatori era quella dei militari e dei funzionari: come Fido, funzionario della Tebaide, e Galla, sua moglie, Memnon ha fatto volentieri risuonare la sua voce; oppure come Petroniano, di nascita e stirpe italica, che ha offerto versi elegiaci come dono sonoro al dio parlante, perché in cambio gli accordasse una lunga vita, mentre evocava, con argomenti affini anche a quelli di Balbilla, il fatto che ai molti recatisi da Memnon per sapere se avesse ancora voce all’interno del corpo rimasto, egli, seduto, parlava, senza torace né testa, lamentandosi con la madre per la tracotanza di Cambise (che lo avrebbe distrutto) e, ai raggi del sole, segnalava il nuovo giorno ai presenti. Tuttavia il colosso poteva però anche tacere, come nel caso dello stratega Celer, che motivava il silenzio con una propria mancanza di rispetto: il dio aveva compreso che egli era capitato lì per caso, in viaggio verso un altro tempio, ma al ritorno, dopo due giorni, Celer lo udì: era la prima ora del sesto di Epeiph, nel settimo anno di Adriano. È ormai chiaro che la voce di Memnon era detta provenire da una pietra a cui Cecilia Trebulla attribuiva non solo la capacità di eternarla, ma anche di provare sensazioni e di emettere differenti suoni espressivi, dapprima lamenti ed emozioni dolorose, poi versi inarticolati e incomprensibili. Tra gli altri, Balbilla associava la voce a Tebe, da cui la pietra proveniva, e


II un epistratega della Tebaide sotto Adriano congiungeva suoni e paesaggio, mentre risaliva il fiume nei dintorni della pianura di Tebe. Un certo Gallo rievocava il rumore delle armi di bronzo in battaglia, udibili ai bordi del Simoenta, quando, a Troia, Achille, figlio di Peleo, ebbe la meglio su Memnon, figlio di Eos, e immaginava che la pietra presso il Nilo ne avesse conservato la traccia sonora. Nella variante di Asclepiodoto, un’analoga rievocazione di paesaggio sonoro si concludeva a sorti rovesciate. L’ammonizione era rivolta a Teti: Memnon vive ancora ed emette la sua potente voce quando la luce di sua madre lo riscalda, sotto le cime d’Egitto che il Nilo separa da Tebe, mentre né nella pianura di Troia, né in Tessaglia, suo figlio Achille, insaziabile di combattere, fa più risuonare la voce. Quel suono era divenuto così famoso che poteva ritornare in mente, a chi lo aveva udito, per associazione con elementi sonori di altri luoghi. Descrivendo l’Attica, invece, Pausania (Guida della Grecia, i, 42) lo associava al suono di un’altra pietra: quella su cui, secondo i racconti tradizionali degli abitanti di Megara, Apollo avrebbe appoggiato la sua kithara per aiutare Alcatoo a costruire le mura: (xr) Vicino a questo focolare c’è una pietra, su cui si racconta che Apollo abbia poggiato la cetra, quando aiutava Alcatoo nella costruzione delle mura. [...] Come raccontano i Megaresi, con Alcatoo che costruiva il muro cooperò Apollo e poggiò la cetra sul masso; se questo masso uno lo colpisce con un ciottolo, risuona come quando si tocca una cetra. Questo fatto ha suscitato in me stupore, ma devo dire che molto più di qualunque altra cosa mi ha fatto impressione il colosso egiziano. A Tebe d’Egitto, passato il Nilo, in direzione delle cosiddette Siringhe, ho visto una statua ancora seduta che emana un suono – i più la chiamano Memnone; dicono che costui venne dall’Etiopia in Egitto e fino a Susa; ma i Tebani, dal canto loro, affermano che questa statua non è Memnone, ma un indigeno,

Famenofi; ho sentito anche dire che sarebbe Sesostri –. Questa statua (comunque) la fece a pezzi Cambise, ed ora è caduta la parte che va dalla testa a metà del corpo, mentre il resto è lì in posizione seduta, e ogni giorno al sorgere del sole emette un suono, e il suono assomiglia propriamente a quello di una cetra o di una lira, quando si è rotta una corda. (trad. L. Beschi) La testimonianza di Pausania è l’esempio del fatto che i Greci di passaggio, o gli appartenenti a colonie di residenti in Egitto, oppure gli indigeni ellenizzati, o i Romani stabilitisi sul territorio da più o meno tempo avessero accolto e rifunzionalizzato talune sopravvivenze della mitologia sonora dei Greci in relazione ai mutati contesti, pregni di memorie radicate negli usi e nella cultura del territorio, come dimostrano, per esempio, sia la persistenza di identificazioni dell’immagine rappresentata con divinità egiziane come Amenophi o Phamenophi (detto anche Amenoth o Phamenoth) e Sesostris, sia il riflesso delle conoscenze astronomiche e astrologiche dei culti solari. Tale fenomeno, prodotto da mescolanza e rivitalizzazione di tradizioni indigene e di memorie ellenizzanti, terminò durante il regno di Settimio Severo, forse per un restauro maldestro. Verso il 205, nell’ultima iscrizione datata, Falerno lo paragonava non più a un musico, ma a un retore, segno che alla mitologia della reminiscenza sonora di un eroe greco si stavano sovrapponendo altri culti, che lo avrebbero fatto tacere, ma di certo non dimenticare: Io che sono un sofista. Memnon sa parlare come un retore e sa tacere, conosce la forza della voce e del silenzio. Infatti vedendo l’Aurora, sua madre dal vestito colore di croco, ha fatto risuonare una voce più dolce di una parola melodiosa. Falerno, poeta e sofista, ha scritto questi versi, degni sia delle Muse sia delle Cariti.

attraverso L’asia


II.1

egeria Beatrice Pescerelli

Verso la fine del iv secolo una donna colta di nome Egeria, proveniente probabilmente dalla Spagna settentrionale, compì un pellegrinaggio in Terrasanta. La narrazione del viaggio, redatta in forma epistolare, era destinata a informare le sorores rimaste in patria. Benché quella di Egeria sia una delle prime testimonianze di visita ai luoghi santi della Palestina, esisteva già una liturgia molto precisa da applicarsi in ogni occasione. La parte centrale dell’opera è dedicata alla descrizione delle cerimonie che si svolgevano a Gerusalemme. La narrazione qui riproposta segue lo sviluppo delle azioni liturgiche che si tenevano ogni giorno e che avevano inizio prima dell’alba. Il testo latino ha «dicuntur ymni et psalmi responduntur, si-

militer et antiphonae». Va notato, in generale, che Egeria usa sempre dicere sia nel senso di «dire, recitare» sia nel senso di «cantare». Il termine cantus compare solo in senso naturalistico, come nell’espressione «pullorum cantus», il canto dei galli. All’alba entrano in chiesa i sacerdoti. Dopodiché, per tutto il corso della giornata si svolge una sorta di liturgia delle ore. Il testo latino ha qui «quorum voces infinitae sunt», che ha dato luogo a interpretazioni diverse. Per alcuni studiosi si tratta semplicemente di un numero elevato di voci, per altri si allude all’aumento straordinario dell’intensità del suono, per altri ancora si tratterebbe dell’eco che renderebbe incalcola-


Od ut optat arum cum quatem is dolo consectat modissime nostion sersper ferchitati omnihici omnis di untiant, comnihil ipidi rem naturiam reptatquodi blandiae voluptur, vendus rem faces es eum andaest fuga. Et vitatus daestio quodic tessinc iendita menistendae voloriantius qui omnimag nimpero volut est odic tecum alitem fuga. Cus, odisqui rent exeriae si simenesciae cus et qui cumquia di cusam nus maiorer upidusaniam quibus, il maximpor remporehent et volor remoluptate dolest, simporehenis etur audae nihilique non remporuptat. Fersper natur, cus peratur iaturem qui rere que voluptati non nullecae quiam laut eossitat apicias as ne eicatur soluptae pra pe sit aut officab orunti blature mposape liquod el ipsumet harumqu untem. Et quis denim invel es duntece rovitati doluptatur? Nem fuga. Arum venihil itinimos molent que nis moluptur anturiones doluptatecae laccati busdam que venis ipsandit, tem rerunt. Illa autetus, ium deriatet expe denderibus parum re nonsedis et, quam, il iuntur aut faccullent. Unt fugias et por audita nonseditatem aciditiisi non cuptio veleceata nobit estem faccus, sequiandeni doluptur alitatur molores trumquisquid quidit

bile il numero effettivo delle voci. Segue la conclusione della liturgia giornaliera. Nel complesso la descrizione di Egeria appare precisa per quanto riguarda l’aspetto visivo, la successione dei gesti e dei movimenti, molto meno per quanto riguarda l’aspetto sonoro. Manca infatti ogni distinzione tra i diversi generi musicali sempre elencati cumulativamente; del resto, in tutta l’opera mai un pezzo viene citato singolarmente con il suo incipit. D’altra parte, però, in quest’epoca ancora priva di qualsiasi testo di riferimento autorevole, la cura della precisione parte dall’autrice e le aspettative in questo senso

da parte delle sue lettrici dovevano essere piuttosto deboli. Per comprendere pienamente la situazione, occorre anche tener conto delle enormi difficoltà linguistiche, dato che la liturgia di Gerusalemme si svolgeva esclusivamente in greco, mentre la maggior parte dei fedeli locali parlava siriaco. I pellegrini poi, come la stessa Egeria, erano perlopiù di lingua latina. Il problema riguarda, naturalmente, anche la lingua dei pezzi cantati e si risolve a un diverso livello con riferimento all’appropriatezza dei relativi testi all’occasione liturgica e al luogo.


Illa autetus, ium deriatet expe denderibus parum re nonsedis et, quam, il iuntur aut faccullent. Unt fugias et por audita nonseditatem aciditiisi non cuptio veleceata nobit estem faccus, sequiandeni doluptur alitatur molores trumquisquid quidit

Od ut optat arum cum quatem is dolo consectat modissime nostion sersper ferchitati omnihici omnis di untiant, comnihil ipidi rem naturiam reptatquodi blandiae voluptur, vendus rem faces es eum andaest fuga. Et vitatus daestio quodic tessinc iendita menistendae voloriantius qui omnimag nimpero volut est odic tecum alitem fuga. Cus, odisqui rent exeriae si simenesciae cus et qui cumquia di cusam nus maiorer upidusaniam quibus, il maximpor remporehent et volor remoluptate


II.2

Fa hsien Franco Alberto Gallo

Fa Hsien era un monaco buddista cinese, nato nel 337, che in età avanzata decise di partire per l’India allo scopo di raccogliervi materiali e informazioni utili per una migliore conoscenza dei principi della sua religione. Partito nel 399 con altri cinque monaci, attraversa il deserto di Gobi nel quale si trovano, come attestano anche molti altri viaggiatori «demoni malvagi», entra nel Tibet e si ferma a Khoten, dove «gli abitanti tutti professano la nostra legge e si riuniscono insieme nella loro musica religiosa per loro godimento». Ivi visita il monastero buddista di Gormati, dove vivono tremila sacerdoti a cui i pasti sono annunciati dal «suono del gong». Attraversato l’altipiano del Pamir, entra nella regione in-

diana e, giunto al monastero di Hidda, dove è conservato il teschio di Budda, assiste alla sua presentazione al popolo: «Ogni giorno, dopo che è stato portato fuori, i custodi del monastero salgono su un’alta tribuna dove essi battono un grande tamburo, soffiano nelle conchiglie e fanno risuonare i loro cembali di rame». Giunge poi nella città di Pataliputra, dove si svolge ogni anno una processione con immagini di Budda, descritta nei particolari anche dell’accompagnamento musicale. Ogni anno, l’ottavo giorno del secondo mese, celebrano una processione con le immagini. Realizzano un veicolo con quattro ruote sul quale erigono una costruzione di quattro piani per mezzo di bambù legati insieme. Essa è sostenuta da un


Axime rem eum ant maxime repella sequibus, consed que omnimi, sit vel ipis corepud anihilla doles experuptur se pedita nis repeles temporiantes unto torporpore nonsend ipsanda estruptatis aut et quam et fugia que reptate stibus. Ed quae cum es corporis autae. Nection nimagnatque dio molor molorae voloreperae liquo derovit as ditat lam qui andia imaionsequi te seque de laborae ne pro quate quam evernatiuri blatio. Nos et int ut fugitiis rerit omnitatur sin et vento berorro occum inias abo. Vernat occulpa rchiliquis solut estibeat. Rum doluptas comnis il mi, intur repedis a as dolore receribusa alibus, siminciis iuntem dolorro omnis et ullaccu lparum re voluptaeris moles volum in por suntis iliat as aut enienda nimpos atatem ant quis mi, aut rae con pro earum dem cus aut quasped modio volutem nihites exercia aut apeliaescia dis sunt, tescias a sandae odit re poruptate cum, sum ad ute voluptam et aut apelloris est volore veratur, con con cum intorumetur re sit, sum sam, quaeptamet voluptatem essitiatur si doluptatquam autatectio. Eperspe nisciatusdae veliquae nis idit, num des ex eos assequos non non

attrezzo con pali e lance sporgenti ed è alta più di venti cubiti, assumendo l’aspetto di una pagoda. Il tutto viene rivestito di seta, poi dipinta di vari colori. Si fanno figure di divinità con oro, argento e lapislazzuli incastonati e con festoni e canopie di seta appesi. Ai quattro angoli vi sono nicchie con ciascuna un Budda seduto e un Bodhisattva in piedi dinanzi a lui. Ci possono essere venti carri, tutti grandi e imponenti, ma uno diverso dall’altro. Nel giorno suddetto si riuniscono tutti i mo-

Axime rem eum ant maxime repella sequibus, consed que omnimi, sit vel ipis corepud anihilla doles experuptur se pedita nis repeles temporiantes unto torporpore nonsend ipsanda estruptatis aut et quam et fugia que reptate stibus. Ed quae cum es corporis autae. Nection nimagnatque dio molor molorae voloreperae liquo derovit as ditat lam qui andia imaionsequi te seque de laborae ne pro quate quam evernatiuri blatio. Nos et int ut fugitiis rerit omnitatur sin et vento berorro occum inias abo. Vernat occulpa rchiliquis solut estibeat. Rum doluptas comnis il mi, intur repedis a as dolore receribusa alibus, siminciis iuntem dolorro omnis et ullaccu lparum re voluptaeris moles volum in por suntis iliat as aut enienda nimpos atatem ant quis mi, aut rae con pro earum dem cus aut quasped modio volutem nihites exercia aut apeliaescia dis sunt, tescias a sandae odit re poruptate cum, sum ad ute voluptam et aut a

naci e i laici del luogo, con cantori e abili musicisti, e celebrano la loro devozione con fiori e incenso. Arrivano i bramini e invitano i carri con i Budda a entrare in città. Essi lo fanno ordinatamente e vi rimangono due notti. Durante tutta la notte si tengono accese lampade, si fa musica e si presentano offerte. Altra tappa significativa del viaggio è «una piccola solitaria collina rocciosa sulla cima della quale c’era un’edicola di pietra rivolta verso sud, luogo dove Budda sedette quando Sakra,

signore di Devas, portò il musicista Pancha-sikha per dargli piacere suonando il suo liuto». Da questo momento in poi non compaiono più nella narrazione accenni a eventi musicali. Solo un tamburo risuona ancora ad Abhaya, dove è conservato un dente di Budda. Rientrato in Cina nel 412, Fa Hsien stende la relazione del suo viaggio e traduce dal sanscrito la documentazione religiosa portata con sé dall’India. Muore nel 418.

Axime rem eum ant maxime repella sequibus, consed que omnimi, sit vel ipis corepud anihilla doles experuptur se pedita nis repeles temporiantes unto torporpore nonsend ipsanda estruptatis aut et quam et fugia que reptate stibus. Ed quae cum es corporis autae. Nection nimagnatque dio molor molorae voloreperae liquo derovit as ditat lam qui andia imaionsequi te seque de laborae ne pro quate quam evernatiuri blatio. Nos et int ut fugitiis rerit omnitatur sin et vento berorro occum inias abo. Vernat occulpa rchiliquis solut estibeat.


MONACI PELLEGRINI CINESI ALLA RICERCA DEL SUONO Figlio del re Aliatte fu Creso, ultimo re di Lidia, divenuto famoso nell’antichità per la sua straordinaria ricchezza; egli organizzò una coalizione comprendente Egitto, Babilonia e Sparta per combattere Ciro, che aveva rovesciato il regno dei Medi e si avviava a conquistare Sardi. Erodoto racconta (i, 155,4) che Creso, con lo scopo di salvare Sardi dalla distruzio-ne, propose a Ciro di imporre ai Lidi di non possedere armi, di indossare chitoni, di dedicarsi al commercio e, in particolare, di insegnare ai propri figli a suonare la cetra (kitharízein) e il salterio (psállein) oppure, secondo altre interpretazioni, ad accompagnare con il canto il suono dello strumento a corde. Lo storico lascia chiaramente intendere, in questo dialogo mo-rale, che tale comportamento avrebbe reso i Lidi innocui ed effeminati, tanto da non essere più temibili agli occhi dei Per-siani, che di conseguenza li avrebbero risparmiati. In Persia Nel medesimo primo libro delle Storie (i, 132,1), di ambito lidio-persiano, si ricorda che presso i Persiani in occasione dei sacrifici non si costruivano altari, non si accendevano fuochi, non si usavano libagioni, non si suonavano auli, né si faceva uso di ghirlande. La dimensione musicale è quindi nuovamente sfiorata quando viene descritto l’intervento di un mago persiano (mágos) che, accanto a colui che compiva il sacrificio, iniziava a cantare una teogonia, un noto canto considerato sacro (i, 132,3). Un altro esempio può essere inserito in un contesto favolisti-co-folclorico (i, 141,1-3): si tratta di una sorta di parabola sotto forma di aneddoto a tema musicale. Sottomessi i Lidi da parte dei Persiani, gli Ioni e gli Eoli inviarono dei messaggeri a Sardi presso Ciro, chiedendo di essere suoi sudditi alle medesime condizioni che avevano avuto sotto il re Creso. Ciro rispose con un apologo: un auleta, che aveva visto dei pesci in mare, si mise a suonare, pensando che sarebbero venuti a terra. Presa una rete, catturò ne molti. Vedendoli guizzare ormai prigionieri, disse loro di smet-terla di ballare, dal momento che al suono dell’aulo non erano neppure usciti dall’acqua. Fuor di metafora, Ciro intendeva che la richiesta dei Greci era ormai inopportuna, in quanto egli aveva già chiesto di ribellarsi a Creso, ma non gli avevano dato ascolto e ora invece, per paura, si dimostravano pronti a ubbidirgli. A Babilonia, ma anche in Egitto A proposito dei costumi dei babilonesi Erodoto afferma (i, 198) che i loro morti venivano imbalsamati con il miele e i loro lamenti funebri (threnoi) erano simili a quelli diffusi in Egitto. In Egitto come in Grecia, ma anche in Fenicia e a Cipro Il primo riguarda la descrizione di una falloforia in onore di Dioniso (probabilmente l’Osiride itifallico delle feste Pamylia descritte da Plutarco in De Iside et Osiride, 12,36), nella quale una processione di donne portava in giro per i villaggi immagini dionisiache al suono dello strumento a fiato (aulós). Secon-

do un consolidato criterio analogico, Erodoto afferma (ii, 48) che tale rituale era simile a quello in uso presso i Greci, fatta eccezione per le danze corali. Il secondo riferimento è la descrizione della solenne festa per la dea Bastet (assimilata ad Artemide) nella città nilotica di Bubastis (ii, 60). Folle di fedeli, uomini e donne insieme, raggiungevano il luogo sacro dopo una navigazione sul Nilo, durante la quale alcune donne facevano risuonare i crotali (krótala) e alcuni uomini suonavano l’aulo (aulós) in un fragoroso strepito di battimano, accompagnato da danze femminili animate da oscenità e violenti motteggi, una sorta di fescennina iocatio, atto rituale egiziano con valore apotropaico. Un altro cenno musicale è dedicato a un canto egizio chiamato Lino, dal nome del leggendario cantore, assimilato a Orfeo e maestro di Eracle, già presente in Iliade, xviii, 570. Il canto era noto in Grecia e diffuso anche in Fenicia e a Cipro: gli Egiziani vi si riferivano con il nome autoctono di Maneros (ii, 79). Il passo è molto interessante, perché ribadisce il carattere indigeno e arcaico delle usanze egiziane osservate da Erodoto, il quale ricorda che in origine Maneros sarebbe stato il figlio unigenito del primo faraone che, morto prematuramente, sarebbe stato onorato dagli Egiziani con lamentazioni funebri (threnoi). Il canto definito Lino, forse attraverso il termine greco ailínos, che a sua volta può aver avuto origine dall’espressione semitica oi lānu, «guai a noi», sarebbe stata la più antica testimonianza canora dell’Egitto. I riferimenti musicali vengono inseriti da Erodoto nei modi più disparati, come a proposito degli Argivi che, come i Crotoniati erano considerati i migliori medici, così essi avevano la fama di essere i primi tra i Greci nella musica (iii, 131,3) – anche se su questo passo grava filologicamente il sospetto dell’interpolazione – e dei costumi dei Lacedemoni, i quali come gli Egizi mantenevano l’antica tradizione di trasmettere il mestiere di auleta, di cuoco e di araldo di padre in figlio (iii, 60). Dalla Licia all’isola di Delo Le vergini iperboree denominate Opi (forse un attributo di Artemide) e Arge (ipostasi di Artemide) sarebbero giunte nell’isola sacra di Delo: i loro nomi sarebbero stati intonati da un coro di donne, in un inno (hymnos) composto per loro da un certo Olen, poeta semitico proveniente dalla Licia, compositore di antichi inni diffusi a Delo (iv, 35). In Libia Le voci delle donne del Nordafrica fanno la loro prima comparsa nella letteratura occidentale attraverso i racconti libici raccolti da Erodoto (iv, 189, 3): A mio avviso, qui ebbero origine anche le alte grida che si lanciano nelle cerimonie religiose; le donne della Libia ne fanno largo uso e le usano bene.

CARTA PELLEGRINI CINESI


II.3

anonimo Piacentino Franco Alberto Gallo

Quasi due secoli sono passati dalla visita di Egeria ai luoghi santi della Palestina, quando un anonimo pellegrino parte da Piacenza, verso il 560, per visitare i medesimi luoghi. Ma la situazione è profondamente mutata. L’interesse del viaggiatore è ora rivolto non tanto alle cerimonie liturgiche, quanto agli oggetti, specie se miracolosi, che si possono incontrare durante il percorso. E molti di questi oggetti, siano essi reperti archeologici o reliquie sacre, interessano la sfera della sonorità. Così, giunto sul monte Carmelo, il pellegrino «trova una pietra piccola, rotonda. Quando la si scuote risuona, anche se è massiccia». La pietra ha virtù terapeutiche e inoltre «se ne sente l’eco fino a sei, sette miglia dalla città». Sul Golgota invece si trova l’altare di Abramo, «presso l’alta-

re c’è una cripta dove, se accosti l’orecchio, puoi ascoltare lo scorrere delle acque». A Gerusalemme i pellegrini visitano la «torre di David, dove egli cantò i salmi». Suggestionati forse dal ricordo di questo evento musicale, i visitatori «verso mezzanotte si alzano e ascoltano le voci di coloro che mormorano giù nella valle di Giosafat di fronte al Giordano in direzione di Sodoma e Gomorra». L’incontro forse più inatteso e straordinario è quello con «la pietra angolare» che, secondo il racconto dei vangeli, «fu respinta dai costruttori». La ragione per la quale la pietra si trova «nella basilica della Santa Sion» è che «il Signore, entrando nella chiesa che fu la casa di san Giacomo, trovò una pietra rozza


PERCORSI DI CRISTO NEI VANGELI

che giaceva in mezzo, la prese e la pose nell’angolo». La metafora della parabola evangelica si è completamente materializzata ed è offerta all’orecchio dei visitatori: «Anche tu la puoi tenere e sollevare con le tue mani: se accosti l’orecchio all’angolo, risuo-na alle tue orecchie come il mormorio di molti uomini». Lasciati i luoghi della vita di Cristo, sulla via del ritorno, le sonorità si fanno più realistiche. Non più cose che risuonano, ma voci umane che si fanno sentire. In cammino per raggiungere il famoso monastero di Santa Ca-terina sul monte Sinai, incontrano gli abitanti del luogo che sperano di ottenere cibo dai pellegrini: «Le famiglie dei Sara-ceni e le loro mogli, venendo dal deserto, con lamenti si sede-vano lungo la via; deposto il sacco, chiedevano pane ai passan

-ti». Poco più innanzi «muovendoci per salire sul monte Sinai, ecco una folla di monaci e di eremiti venire salmodiando e danzando con le loro croci incontro a noi; poi, chini a terra, ci salutarono; noi pure facemmo in questo modo e piangevamo». A Faran, in Palestina, vengono in contatto con altri cristiani, copti, che usano la propria lingua e la propria musica: «Lì ci corsero incontro le donne con i bambini, portando nelle mani palme e ampolle di olio di rafano, prostrate ai nostri piedi, ci ungevano le piante dei piedi e la testa, salmodiando in copto l’antifona, “Benedetti voi dal Signore e benedetto il vostro arrivo, osanna nell’alto dei cieli”».


ORIENTI CRISTIANI

Danza copta. Ingresso di Cristo a Gerusalemme. Cairo Vecchio.


Ibn Jubair Franco Alberto Gallo


Ma Huan Franco Alberto Gallo


Alessandro attraversa le frontiere Donatella Restani


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