THE ORNAMENTAL

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Massimo Carboni L’ORNAMENTALE un percorso filosofico tra arte e decorazione

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© 2021 Editoriale Jaca Book Srl, Milano tutti i diritti riservati Prima edizione italiana aprile 2001 Per l’immagine 38: © Succession H. Matisse/Siae 2021 Nuova edizione riveduta e ampliata aprile 2021

Così l’ornamento è solo spiaggia infida d’un mare periglioso, il bel velo che copre una bellezza da selvaggi; ossia la verità speciosa che i tempi truffaldini sfoggiano per ingannare anche i più saggi William Shakespeare, Il mercante di Venezia, atto iii, scena iv

Questi vani ornamenti, questi veli mi pesano Jean Racine, Fedra, atto i, scena iii

Copertina e grafica Paola Forini / Jaca Book Redazione Jaca Book Impaginazione Elisabetta Gioanola Stampa e confezione Grafiche Stella Srl, San Pietro di Legnago (Vr) aprile 2021 ISBN 978-88-16-41672-7 Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

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Quale Bach, quale Mozart varia il tema della foglia di nasturzio? Osip Mandel’štam, Viaggio in Armenia

La libertà più grande nasce dal più grande rigore. Qui la certezza è un gioco. Esiste qualcosa di più misterioso della chiarezza? Paul Valéry

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Indice

Prefazione alla nuova edizione

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Prefazione alla prima edizione

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Capitolo primo DIALETTICHE DELL’ORNAMENTO I: SOGGETTO-OGGETTO

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Né soggetto né oggetto

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L’arabesco di Husserl

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Significato, figuratività, astrazione

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Epistemologia dell’Ornamento

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Intermezzo ISLAM

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Capitolo secondo KUNSTWOLLEN

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Scenari: Riegl, Panofsky, Sedlmayr, Focillon

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L’espressione più limpida e pura

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Logiche dell’astrazione: Vienna

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Intermezzo

MATISSE

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Capitolo terzo DIALETTICHE DELL’ORNAMENTO II: SUPPLEMENTO-FONDAMENTO 191

I parerga di Kant

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Cornici: Malraux, Simmel, Hamann

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Per incerti confini

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Tavole a colori

Indice dei nomi

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Prefazione alla nuova edizione

Nella Prefazione alla prima edizione, molto è già stato detto in quanto a intenti e peculiarità di questo libro che ora si presenta in una veste profondamente rinnovata. Vorremmo qui soltanto portare all’attenzione del lettore tre punti, tre motivi di fondo, di cui l’ultimo ci permetterà di richiamare e sottolineare quella che vorrebbe rappresentare del lavoro la vera natura. Primo punto. Probabilmente nessuna pratica artistica come quella rivolta verso la dimensione decorativa e ornamentale ci spinge con l’imperiosa forza dell’evidenza a ipotizzare, riconoscere, ammettere l’esistenza di forme universali e costanti, di ètimi comuni e originari della percezione, non sappiamo ancora con certezza scientifica quanto fondati sulle basi neurofisologiche dell’umano. Ciò induce a pensare a una sorta di koinè globale che −sia pure declinata secondo le varie epoche, culture, etnie, volontà artistiche− sembra superare “dialetticamente” i dubbi ermeneutici (e alla lunga anche ideologici) che ogni ipotesi fondata sul riscontro di archetipi, leggi antropologiche universali, schemi “ultimi” e intrascendibili può legittimamente sollevare. Altrettanto 9

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certo, tuttavia, è che nessuno scrupolo teorico, nessuna riserva interpretativa, nessun distinguo culturalista o storicistico possono competere con l’evidenza dell’esperire visivo diretto, quando nella Città Proibita ci imbattiamo in una sequenza di swastike scolpite su un bassorilievo; quando nel Topkapi di Istanbul troviamo pitture del xv secolo del tutto simili al Broadway Boogie-Woogie di Mondrian; quando all’Alhambra di Grenada o su un vaso in ceramica di Iznik “rivediamo” la pattern painting statunitense degli anni Settanta del Novecento. Secondo punto. Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni dello scorso secolo, una volta liquidata la rigidità gerarchica con cui fino ad allora si erano separate e distinte le tecniche artistiche in favore della ricerca (parallela a quella di Humboldt rispetto alle lingue) di principi generali e operativi applicabili alle arti nel loro complesso, la questione dell’Ornamento ha rappresentato uno dei centri nevralgici (in special modo in Germania e Francia, Austria e Regno Unito) del dibattito culturale europeo. È indubbio che i lineamenti fondamentali della questione sono stati tracciati una volta per tutte all’interno di quel dibattito: ampio, articolato, filosoficamente avvertito. E sarebbe sufficiente, ma è soltanto un esempio, pensare alla sorprendente, straordinaria attualità dei Prolegomena al Der Stil di Gottfried Semper o all’analisi ormai definitiva della decorazione astratto-geometrica in Stilfragen di Alois Riegl. Niente di autenticamente significativo è emerso dopo quel fermento, di cui la presente ricerca non intenderebbe essere che l’estrema propaggine. Di una natura particolare e specifica, però, che vorrebbe caratterizzarne sia l’intento di fondo sia la singolarità. E qui arriviamo al terzo e ultimo punto. Nell’estetica europea in generale e nella teoria dell’architettura in particolare, l’ornamentale è pensato come ciò che conferisce una dimensione espressiva e uno statuto simbolico alla soggiacente struttura tettonica. La sua unica funzione, il suo unico scopo sembra essere di natura “callifora”: abbellire, apportare bellezza, procurare 10

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piacere estetico. Da questo punto di vista, la decorazione appare o è considerata alla stregua di un medium, di un veicolo atto a facilitare, ottimizzare la comunicazione con il ricettore. Ma è sufficiente questa lettura classico-tradizionale? Siamo con essa davvero giunti al limite ultimo e intrascendibile della ricerca che ci viene imposta dall’oggetto? Non si tratta di ricusare né di liquidare quella interpretazione, che anzi possiamo tranquillamente consegnare agli atti come acquisita e che, con ogni evidenza, è suffragata da forti e convincenti motivazioni anche di natura empirica. Il punto, però, è che se ci si ferma qui, se l’aspetto edonistico connesso al rilievo della bellezza formale totalizza la presenza e il significato dell’Ornamento, nulla si comprende del suo ètimo filosofico, del suo statuto ontologico né del carattere critico del dispositivo che esso innesca e rappresenta. Questo tipo di comprensione, invece, era ed è il nostro primo e maggiore intento. Tali determinazioni possono chiarirsi −di questo siamo assolutamente convinti− soltanto impegnandosi in una lettura in chiave teoretica ed estetologica, soltanto attraverso un’interpretazione di carattere eminentemente filosofico. Accanto alle sezioni di indirizzo storico-critico, i capitoli intitolati alle coppie dialettiche soggetto-oggetto e supplemento-fondamento intendono svolgere questo ruolo. Ed è per tale ragione e allo scopo di sottolineare l’autentica natura del lavoro, che nel sottotitolo di questa seconda edizione abbiamo aggiunto la specifica “un percorso filosofico”. *** La prima traccia di questo libro risale a più di quaranta anni fa, a un articolo pubblicato sulla rivista «Segno» nel 1980. Terminata la redazione completa nel 1990, un anno dopo, su «Artforum», è uscito un testo intitolato Infinite Ornement, che, pur in estrema sintesi, ne riproduceva le scansioni tematiche. Sei anni dopo, le edizioni Aesthetica pubblicarono un piccolo volume che conteneva alcune delle sezione teoretiche che compongono la struttura del libro, fi11

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nalmente edito nel 2001 da Jaca Book nella sua versione integrale. Ma in verità non in misura completa. E questa ulteriore edizione lo dimostra. Oltre a una revisione generale del testo e, ove utile e necessario, all’aggiornamento dell’apparato bibliografico, della redazione originale sono stati reintegrati alcuni approfondimenti sviluppati sia nel testo sia nelle note, e sono state ripristinate intere parti del lavoro omesse nell’edizione precedente. L’ampliamento più nutrito ed evidente si colloca al primo capitolo Dialettiche dell’Ornamento I: Soggetto-Oggetto, che si vede ora accresciuto di due sezioni intitolate Significato, figuratività, astrazione e Epistemologia dell’ornamento, e nel terzo capitolo Dialettiche dell’Ornamento II: Supplemento-Fondamento, ove alla sezione Cornici, ad André Malraux e Georg Simmel si è aggiunto Richard Hamann. La presente edizione, inoltre, sostituisce le diciannove foto in bianco e nero della precedente con un numero molto più ampio di illustrazioni a colori la cui successione segue in parallelo il percorso del testo.

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Prefazione alla prima edizione

«Questo non è una pipa», scriveva Magritte a didascalia di un disegno in cui ogni persona dotata di una corretta percezione visiva avrebbe riconosciuto non altro che una pipa. Per quel poco o quel tanto che la parola “libro” designa o implica di conchiuso, compiuto, risolto, potremmo qui parafrasare Magritte: questo non è un libro. Un paradosso, è ovvio. Ma non una semplice boutade. Un paradosso che, proprio a fronte della particolare ampiezza del tema qui interrogato, rivela se non la sua “verità” quantomeno le sue ragioni. E ci spieghiamo. L’intenzione di questo lavoro non è, non poteva essere, quella di rendere conto della sterminata casistica o fenomenologia storica, semantica ed espressiva del continente ornamentale, anche se da essa vengono tratti numerosi riferimenti esemplificativi. Su questo terreno, pensiamo per un momento a quali e quanti possano essere i motivi di natura socio-estetica interconnessi ad altri di natura antropologica (ludico-regressiva, cerimoniale, rituale); pensiamo ai risvolti etico-comportamentali dell’antico termine decor, agli aspetti retorico-stilistici della composizione musicale, dell’edificio, della 13

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pagina letteraria. E pensiamo anche alla moda. Si apre davanti a noi un campo davvero sconfinato, un terreno enormemente vasto: e non certo incolto, anzi “coltissimo”. «Il Signore creò col soffio l’ornamento dei cieli», dice il Salmo 33; ma ornamento è anche la palma per il giardino e il giardino per la casa, è anche il ninnolo sulla mensola del caminetto. La ciocca di capelli che nelle Coefore Oreste recide per deporla sul tumulo del padre Agamennone sta, dichiara la sorella Elettra, a «ornamento» della tomba; ma tale è anche un qualsiasi motivo trilobato che si ripete identico e monotono su di una trabeazione. Nell’Antigone, Emone, figlio di Creonte, prima di accorgersi di che pasta era fatto suo padre e di patirne le conseguenze fino alla morte, si chiede se vi sia «maggior ornamento per i figli che la gloria di un padre fiorente»; nello stesso tempo, una gala di merletto o il diadema di piume del nativo americano è un ornamento, così come lo sono il piercing giovanile e il più dozzinale tra gli arabeschi stampati sulle più disparate superfici. È la bamboletta rosa nella camera da letto degli arredamenti kitsch, ma anche lo splendore matematico dei frattali che avrebbe incantato Paul Valéry. Senza contare poi la vis decorativa che germina spontanea nel mondo vegetale e in quello animale. Dire che siamo davanti a un “orizzonte aperto” è ancora un eufemismo. L’intento non poteva essere dunque quello di restituire, classificare, tanto meno “sistemare” l’ampiezza pressoché incircoscrivibile di quelle declinazioni. In parte, ci ha già provato (e ci riferiamo, ovviamente, a tempi recenti) Ernst Gombrich ne Il senso dell’ordine, e tanta scienza basti. Niente di più lontano dal nostro lavoro di una “enciclopedia dell’Ornamento”. Il lettore appena attento se ne avvedrà subito: le esemplificazioni storico-testuali (dall’arte islamica a Matisse a Vienna) dichiarano esplicitamente la loro natura e il loro mandato. Esemplificazioni sono e tali vogliono rimanere. Che cosa ci siamo proposti allora, in quali acque abbiamo gettato l’amo? Ci siamo proposti di seguire un tracciato interrogativo attor14

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no al nucleo, ai principi “fontali” che governano quella sterminata fenomenologia. Un tracciato teso a perimetrare lo statuto logico-filosofico dell’Ornamento, il pensiero che lo sostiene imbastendone le interne motivazioni. Da qui, il rilievo o la suggestione inerente all’orna-mentale che vorrebbe farsi cogliere nella sostantivazione del titolo. E tale compito non poteva svolgersi correttamente senza ripercorrere anche le diverse letture e interpretazioni di cui l’Ornamento è stato oggetto nell’estetica filosofica e nella storiografia artistica soprattutto del Novecento. È precisamente a questi nuclei generativi, a queste radici che si vorrebbe attingere. Proponendo un’ipotesi di risposta ad alcuni quesiti di fondo. Che cosa significa, a che cosa rimanda l’anonimità della pratica decorativa, il suo restare, quasi per definizione, senza Autore, senza Firma, senza Aura? Quale tipo di intenzionalità estetico-fenomenologica dirige, governa l’Ornamento, e forse essa si identifica con l’eventuale figuratività, con il contenuto d’immagine del pattern? Quali sono le forze che agiscono e si esprimono al suo interno, e su quali grammatiche si muovono? Qual è lo statuto della cornice come elemento anfibio di mediazione ambientale tra l’opera e lo spazio che l’accoglie? Il Moderno ha rappresentato davvero quella «singolare fusione di ornamento e nudità» di cui parla Balzac in un suo racconto? Come se non bastasse, abissale è l’economia dell’Ornamento. Sempre ci si può domandare: che cosa orna cosa? Come distinguere conclusivamente, esemplarmente, tra struttura e decorazione, tra funzione e ornamento? E cioè tra norma, legittimità e dispendio, espressività? Dove passa il confine, e qualcosa come un “confine” non è esso stesso una metafora, un effetto “ornamentale”? Non è forse una linea nomade e in costante tensione quella che ne segue l’errabondo tracciato? Come noto, nell’estetica postmodernista (in architettura, nel design) la pratica ludico-decorativa e il gusto per l’ornamentale sono stati oggetto di un’ampia, dichiarata e anche polemica rivalutazione, 15

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che a sua volta trova i suoi motivi nell’attitudine citazionista e di riappropriazione stilistica tipica di quella cultura, il più delle volte esercitata sotto il segno di un eclettismo tanto innocuo quanto pago di sé. Il rischio (ancora e sempre Adolf Loos docet) è quello di “tatuare” a posteriori l’edificio o l’oggetto con l’aggiunta di segmenti decorativi espressamente (quanto scolasticamente) delegati a rappresentare l’“inutilità” del Bello che trascende e “riscatta” il carattere di merce di ciò su cui vengono applicati. Tuttavia è proprio questo rilievo che in un certo senso −ponendo sul tappeto già tutti gli elementi della questione− ci indica la chiave interpretativa attraverso la quale oggi rileggere un tema antico, anzi arcaico, ma costantemente presente (e non solo alla coscienza estetica) quale l’Ornamento. A ben vedere, la considerazione di fondo, quella che forse accomuna gli interrogativi prima elencati avviando −e inquietando− la ricerca, è allora semplice ma decisiva: vi sono molte ragioni per ipotizzare che qualcosa come l’Ornamento mobiliti in realtà fattori e motivi molto più consistenti di quanto non possa fare la sua versione banalizzante, vulgata e comune, quella che lo riduce a mera esornatività inessenziale, supplementare e vicaria. Apparentemente, e quasi per definizione lessicale, secondaria, pleonastica, dispensabile, opzionale, la dimensione dell’Ornamento, se opportunamente declinata, si dispone invece all’incrocio tra etica ed estetica, decentra sistemi di valori forti e acquisiti come indicandone una linea di fuga, una faglia, un punto di cedimento e collasso. Per questo parliamo di una sua marginale centralità. Per questo il principio dell’Ornamento, regola della catastrofe, riesce ad avvincere l’analisi all’estasi. Da ultimo, due precisazioni. La prima: il fatto di non aver né terminologicamente né tematicamente insistito sulla classica distinzione tra decorazione e ornamento è il risultato di una scelta deliberata che in qualche modo intende riprodurre nel corpo dell’analisi la fruttuosa oscillazione semantica interna all’oggetto indagato. La seconda: l’aver collocato l’ornamentale, come qui abbiamo deciso 16

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di fare, prevalentemente all’interno della dimensione “astratto”aniconica non è soltanto il rispecchiamento o la diretta conseguenza in sede metodologica della linea storico-formale che al di là di ogni dubbio in maggior misura ne designa la fenomenologia stilistica concreta. È anche l’angolazione −ovviamente non esaustiva epperò da privilegiarsi all’interno del quadro interpretativo delineato− che ci è apparsa maggiormente strategica onde mostrarne la suscettibilità al tipo di indagine estetico-filosofica qui prospettata.

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Capitolo primo DIALETTICHE DELL’ORNAMENTO I: SOGGETTO-OGGETTO

Né soggetto né oggetto

L’Ornamento non è questione “ornamentale”. Disarticola il rapporto soggetto-oggetto, o meglio ne rappresenta un punto di fuga, il sintomo di un cedimento. Sfugge alla sua contrazione, la delegittima, la sospende. Quali sono le linee di frattura, le faglie che si disegnano sull’effigie di questo rapporto genetico, locus classicus della modernità filosofica occidentale? Qual è il senso critico dell’Ornamento, la sua potenza dissolvente? In pieno accordo con il titolo dell’opera, Alois Riegl apre le sue Stilfragen con un interrogativo che enuncia e annuncia il principio stesso del lavoro che si accinge a svolgere: «Esiste dunque anche una storia dell’arte ornamentale?»1. Già Gottfried Semper aveva con1  A. Riegl, Problemi di stile (1893); trad. it. Feltrinelli, Milano 1963, p. 1. Allo scopo di mantenere l’importante connotazione interrogativa del tedesco Frage, il titolo riegliano andrebbe più propriamente tradotto Questioni di stile. Sull’importanza decisiva della figura di Riegl nell’ambito dell’estetica e della storiografia artistica del Novecento, cfr. S. Scarrocchia, Studi su Alois Riegl, Nuova Alfa, Bologna 1986; M.

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tribuito ad aprire prospettive illuminanti sul tema, di cui lo stesso Riegl si era nutrito. Tuttavia, i pregiudizi idealistici della storiografia artistica non avevano fino ad allora consentito di cogliere sistematicamente, scientificamente, la presenza di uno sviluppo diacronicoevolutivo nell’ambito di un campo di studi e di una fenomenologia espressiva che non rientrava −o che a malapena e con sospettoso ritegno accedeva− nel terreno specifico ed elettivo delle Beaux Arts. Ora, quell’interrogativo circa la possibilità stessa di aprire un ordine storico-temporale nella categoria estetica dell’Ornamento riveste qui per noi un’importanza centrale. È sicuramente lecito innestare uno sviluppo di natura dinamico-“progressiva” al suo interno, che identifichi le singole emergenze formali, che classifichi le varie declinazioni stilistiche su basi storico-geografiche, che rilevi i loro sincretismi. È ciò che lo stesso Riegl ha fatto, impegnato in Stilfragen in una strenua anche se non sempre convincente ricerca sulle matrici etimologico-evoluzioniste degli “anelli mancanti” (ad esempio tra la palmetta e l’acanto), lasciando ipotesi e materiali preziosissimi, insostituibili nell’ambito degli studi sull’ornamentazione e le arti decorative. Ma non è questo il punto. Ciò che qui ci interessa eccede la pertinenza metodologica del problema. Riegl fa un’osservazione molto significativa. Nel campo delle ricerche su quella che Gombrich chiama «l’arte trascurata» della decorazione2, alcuni studiosi sono disposti ad ammettere la consi-

Iversen, Alois Riegl. Art history and theory, The MIT Press, Cambridge/Mass.-London 1993; M. Olin, Forms of representation in Alois Riegl’s theory of art, Pennsylvania University Press, University Park 1992. 2  Cfr. E. Gombrich, Il senso dell’ordine (Oxford 1979); trad. it. Einaudi, Torino 1984. Abbiamo tenuto costantemente presente questo ormai classico studio di Gombrich. Sulla pluralità dei linguaggi dell’Ornamento e sul suo rilievo estetico-filosofico, cfr. il fascicolo monografico della «Rivista di estetica», 12, 1982. Cfr. anche A.a. V.v., Ornamento. Tra arte e design, a cura di A.V. Braga, Istituto Svizzero di Roma-Schwabe Verlag, Basel 2013; A.a.V.v., Le cenerentole dell’arte. Viaggio bibliografico, iconografico e documentario attraverso la decorazione e l’ornamento, arte’m, Napoli 2017; What a wonderful world. La lunga storia dell’Ornamento tra arte e natura,

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stenza di un qualche sviluppo storico. Ma a una condizione: «Almeno nella misura in cui l’ornato implica elementi delle cosiddette arti maggiori e in particolare la rappresentazione dell’uomo e delle sue gesta e passioni». E prosegue: «Solo con esitazione si è osato affermare l’esistenza di rapporti e influenze reciproche, e solo per periodi di tempo strettamente delimitati e tra territori strettamente confinanti. Di là da tali limiti, dove cioè veniva a cessare il diretto riferimento dell’ornato a oggetti reali del mondo esterno, alla vita organica e alle opere dell’uomo, ecco che l’audacia dei ricercatori veniva frenata da un insuperabile ritegno. Appena cominciava la rappresentazione matematica della simmetria e il ritmo per schemi astratti, dove si entrava nel campo del cosiddetto stile geometrico, non si osava più riconoscere la presenza nell’uomo di un impulso all’imitazione delle forme artistiche e le ineguali inclinazioni dei vari popoli alla creazione artistica»3. Questo aspetto riemergerà varie volte ed è molto delicato, perché tocca da vicino l’essenza stessa dell’estetica dell’ornamentale. Occorre dunque approfondirlo. Secondo una direzione di marcia specularmente contraria a quella più accreditata tra gli storici e i teorici del settore (direzione che va dalla primitiva carica simbolico-teurgica, magico-sacramentale e comunque semantica, verso la progressiva stilizzazione e semplificazione geometrica), per Pavel Florensky, che si sofferma sul tema in poche ma bellissime pagine delle sue lezioni e meditazioni della prima metà degli anni Venti sulla spazialità e la temporalità dell’arte4, l’origine grafica del motivo ornamentale è «non-oggettiva», e solo successivamente sorgono e si aggregano allo schema geometrico iniziale i «singoli elementi figurativi», che appaiono

a cura di C. Franzoni e P. Nardoni, Skira, Milano 2019. Tutti questi ultimi testi contengono un nostro contributo. 3  A. Riegl, Problemi di stile, cit., pp. 1-2. 4  P. Florensky, Lo spazio e il tempo nell’arte (1993); trad. it. Adelphi, Milano 1995; per le citazioni che seguono nel testo, cfr. pp. 99-103. Segnaliamo l’importante e documentata Postfazione di Nicoletta Misler.

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come un «tentativo di introdurre a forza un oggetto nel primitivo nucleo non-oggettivo». In effetti però, afferma Florensky, a patto di non identificare immediatamente il «contenuto rappresentato che trascende la rappresentazione» con la figuralità iconica, con le immagini sensoriali della natura, anche l’Ornamento possiede un suo referente rappresentativo, e di nobilissimo conio, poiché «al di sopra» dell’immagine associata alla realtà percepibile, «esistono anche, non sensoriali e tuttavia pienamente reali, tipologie e aspetti della correlazione reciproca fra la percezione sensoriale, il ritmo e le leggi di questa (e allo stesso modo anche di quella extra-sensoriale) che di per sé non si presentano più come immagini sensoriali». Ebbene, sono questi «ritmi», questi «schemi metafisici», queste «formule universali dell’essere» o «leggi universali della vita», che proprio l’Ornamento −questo “continente” dimidiato e relegato ai margini− «riveste di visibilità» trovandovi l’adeguato contenuto trascendentale che si colloca aldilà delle differenze storiche e geoculturali accomunandole in una sorta di Ur-codice universale (Tavv. 1 e 2). Un contenuto, prosegue Florensky, attinto dal «libro delle profonde verità», e proprio per questo difficilmente accessibile «alla miserabile coscienza contemporanea» che −limitandosi a un’angusta e ingenua concezione oggettivistico-“realista” della rappresentazione− estrania l’Ornamento «dall’ambito della creatività». Ora, in che modo questo fascio di considerazioni decisive (che vedremo in seguito appartenere anche ad altri autori come Nicolai Hartmann e Leo Popper) si inserisce all’interno del percorso critico-interpretativo che qui andiamo svolgendo? Vediamo. La dimensione astratta dell’Ornamento, dunque, non consentirebbe in Riegl alcuna rilevazione di ordine storico-comparativo. Dell’astrazione non può darsi storia? Dobbiamo dislocare questo rilievo −che assume qui un preciso valore sintomale− dall’ambito metodologico e storiografico, per indirizzarlo a caratterizzare direttamente, come in Florensky, lo statuto ontologico e la pertinenza estetico-filosofica della pratica ornamentale. Astenendosi in generale dal riferimento 22

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alla realtà esterna immediatamente percepibile, lo stilema astratto “non associativo” eccede dallo schema del racconto, della fabula e quindi, in senso ampio, dalla storia, determinazioni tipiche, invece, della pittura e della scultura iconica antropomorfa. La storia non è niente al di fuori e al di là della narrazione che se ne compie, e non si può narrare che ciò che è passato. La temporalità storica si rivela nel racconto, verbale o visivo. Dove il soggetto si raffigura− e dove i suoi “oggetti” sono rappresentati− lì v’è racconto, tempo, storia. Se la dimensione temporale non può rappresentarsi in forme direttamente intuibili perché di per sé inobbiettivabile, è allora l’immagine in cui l’uomo riproduce se stesso che si incarica di significarla per simboli, allusioni, metafore. E l’esistenza dell’uomo è temporalità: qualcosa come la storia nasce e si apre con l’essere umano. È precisamente all’interno di questo orizzonte, allora, che all’ornamentale non sembra assegnabile il tempo del racconto. Possiederebbe soltanto, in prima istanza, la temporalità esteriore e spazializzata di una tecnologia processuale che coincide con lo stesso scorrere del flusso vitale impegnato nell’attività fabbrile. Il racconto incarnato nella pittura storica narra qualcosa d’altro da se stesso; l’Ornamento non narra che se stesso. Non racconta gesta né imprese: ha unicamente luogo, in uno spazio impuro e al contempo meramente formale, sospeso, in cui i materiali e le geometrie si lavorano a vicenda, producendo in silenzio le proprie interne configurazioni e infinite diramazioni. L’Ornamento è l’ètimo stesso di ogni organizzazione plastico-pittorica come complessità combinatoria e generativa di colore e forma sul piano e nello spazio. Nessun Ego vi si rispecchia: l’Ornamento non gli restituirebbe lo sguardo. Impossibile costruirvi una mitologia del Soggetto. Impossibile istituirvi un Significato. Organizzazione convenzionale di intrecci e orlature, snodi e ramificazioni acefale, experimentum infinito sui linguaggi del colore e della linea sganciati da ogni dipendenza teleologico-mimetica, lo spazio assegnato all’ornamentale non ha Firma né Maestro, non 23

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ha Soggetto Creatore né Aura. Sotto questo particolare punto di vista, è completamente, perfettamente de-istituzionalizzato5. Vive soltanto nel respiro del proprio automorfismo. L’unica presenza dei materiali e dei segni consiste nella loro continua alternanza di ripetibilità e trasformazione, nello sviluppo in atto della loro sintassi combinatoria. Nessuna legislazione iconografico-descrittiva, nessun cerimoniale metalinguistico, nessun Soggetto che vi presieda e che per loro tramite si esprima. Ed anche negli artisti contemporanei che lavorano sulla decorazione, solo apparentemente l’anonimità è ri-soggettivizzata assegnando all’opera un nome d’autore, poiché l’artista trae i materiali dall’immenso deposito globale dei patterns, che in tal modo spesso riacquistano il loro originario anonimato, che in realtà non hanno mai perduto neanche se sottoposti alla riappropriazione o al riutilizzo citazionista. Nessun supplemento d’anima può “salvare” o “riscattare” l’Ornamento dal perfetto disincanto della sua totale dis-identità. Negli affreschi della grande tradizione artistica occidentale, i riquadri parlano, e la loro parola è legata al trascendente. Le fasce ornamentali scrivono, tagliate fuori dalla narrazione e dal Significato. Quelli sono la phonè che inesauribilmente, in una meravigliosa pro-

5  Questa sorta di tensione de-istituzionalizzante è tanto forte che si mostra all’opera anche quando –e non si tratta di casi del tutto isolati– dei comparti decorativi si conosce il nome dell’autore. Hegel scrive ad esempio che «gli arabeschi sono freddi e infedeli all’organico, del che si è fatto loro sovente rimprovero, così come si è rinfacciato all’arte il loro uso. Ciò vale particolarmente per la pittura, benché Raffaello abbia dipinto degli arabeschi di grande estensione e dotati di massima leggiadria, spiritualità, varietà e grazia» (Estetica, trad. it., Einaudi, Torino 1972, p. 738, corsivo ns.). È noto che nel tardo Rinascimento la grande arte si separa dal mestiere, le artes liberales dalle artes mechanicae, il pittore di storie dal decoratore. Fino al xv secolo e oltre, la bottega guidata dal pictor optimus non ha in generale alcuna difficoltà ad accettare commissioni come la decorazione degli oggetti più disparati e persino il maquillage delle dame. Ma ovviamente la divisione gerarchica del lavoro passava anche attraverso il laboratorio: il problema non è quello dei singoli individui operanti, quanto quello delle competenze tecniche impiegate e dei registri funzionali attivati. È altrettanto evidente che queste rilevazioni di ordine socio-storico si dispongono su un piano diverso da quello su cui in questo lavoro conduciamo l’analisi.

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fusione che sembra non aver mai fine, dis-corre e racconta dell’uomo, della sua fede, delle sue avventure e del suo destino ultraterreno; queste sono la graphè che abita lo spazio intervallare, derubricato a pura scansione e cerniera in cui si incidono i segni del dispendio (Tav. 3). Nell’interminabile germinazione del tratto, nell’infinito lavorìo sul significante, non si libera né si in-tende (ad) alcun Significato, non si edifica alcun Senso proprio. Pura testualità, scrittura avulsa dalla linearizzazione semantica. E potremmo forse aggiungere: enunciazione e non enunciato, produzione e non prodotto6.

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Sul rapporto tra Ornamento e scrittura (un motivo che incontreremo di nuovo nell’ornato islamico e nell’opera di Matisse) ha osservazioni molto belle Julius Schlosser ne L’arte del Medioevo (1923); trad. it. Einaudi, Torino 1989. Vale riportarle qui abbastanza diffusamente. Dopo essersi soffermato sul grandioso passaggio che si verifica dalla musica dell’antichità classica (in cui il tessuto sonoro veniva asservito alla parola, al «canto parlato, plastico, individuale»), al Medioevo, in cui si dispiega «la musica “assoluta”, la musica strumentale» (p. 45), Schlosser fa un paragone tra linguaggio musicale e linguaggio visivo: «Come nella musica la parola (che nell’antichità veniva ancor meglio sollevata nella sua definita plasticità dal canto) gioca in antitesi con gli elementi originari del suono, così nelle arti figurative la figura gioca in antitesi con ciò che noi chiamiamo “forma ornamentale” e che siamo abituati a considerare come una forma estranea, in omaggio a una teoria, per fortuna ora tramontata, che considerava la bellezza inerente a determinate forme. Queste forme ornamentali sono appunto gli elementi primi di ogni rappresentazione figurativa, che poi la geometria ha razionalmente fissato in formule» (p. 60). E poi prosegue: «La polarità tra “figura” e “scrittura”, meglio che quella tra “figura” e “ornamento”, può essere elevata a simbolo dell’opposizione tra civiltà classica e civiltà medievale […] Tutto il Medioevo è allegorico e trascendente; ma l’allegoria medievale è assolutamente diversa da quella dell’antichità o della Rinascenza, che è qualcosa di esteriore e di cerebrale che si sovrappone all’immagine ma non si fonde con essa. Ogni forma individuale è se stessa solo al di là delle apparenze sensibili, in sé e nei suoi effetti profondamente simbolica: è questo il punto in cui, conformemente al “realismo” medievale, la “calligrafia”, la forma in sé, nella sua vita originaria e singolare, si unisce alla “pittografia”, la quale anch’essa supera e sorpassa ogni forma singolare. L’ornamento classico, così sobrio e organico, si muta nelle confuse forme ornamentali dei barbari del Nord-Ovest europeo, oppure negli enigmatici, indefiniti geroglifici orientali, che ammaliano e fanno smarrire lo spettatore nella loro labirintica vicenda (si pensi ad esempio ai tappeti orientali). Anche la scrittura diventa ornamentale. La meravigliosa scrittura araba (che la Rinascenza, come noto, usò come mero ornamento) e molte tra le scritture “nazionali” del primo Medioevo sono esempi di questo mutamento» (pp. 61-2).

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Anche laddove, nello stile vegetale, emerge una morfologia debolmente iconica di elementi biomorfici, ciò non è altro che una conferma del legame genetico tra figura e gramma. «Figurazione artistica e scrittura: quelle che, fin dalla nascita dell’economia agricola, appaiono come due strade divergenti, in realtà ne costituiscono una sola», afferma Leroi-Gourhan, concludendo che l’astrazione è «veramente all’origine dell’espressione grafica»7. Non è un caso se i primi grafismi sono coevi alla creazione dei più antichi oggetti ornamentali. E d’altra parte anche l’Alberti, nel De re aedificatoria, analizza la forma proiettiva degli ornamenti architettonici attraverso il paradigma della scrittura. Ci accadrà di tornare più volte su questa associazione. L’Ornamento sarebbe allora la sintassi che spazia la semantica. Per Aristotele, ogni elemento di giunzione e articolazione sintattica tra due presenze semantiche è privo di significato e destitui­to di ogni valore ontologico-veritativo. Nella catena discorsiva, la congiunzione o l’articolo sono phonè asemos perché −al contrario del nome: phonè semantikè− non possiedono alcun riferimento a oggetti o entità esterne e indipendenti rispetto all’atto linguistico e alla stessa catena discorsiva. La sintassi intransitiva del partito ornamentale cade quindi fuori dall’orizzonte semantico ove, in un’accensione noetica, si origina il senso e può dimorare la Verità, l’Autentico. Traccia semiotica e non rappresentazione in prima istanza simbolica, l’Ornamento, nella sua dimensione di sorgività inaugurale, potrebbe essere una delle declinazioni empiriche attraverso le quali in qualche modo si mostra la chora platonica del Timeo, il ricettacolo incerto e in divenire −anteriore e sottostante alla figurazione e alla nominabilità− della stratificazione generativa del soggetto, della sua motilità, del ritmo pulsionale-cinesico del gesto. Nella vertigine ornamentale, questo soggetto senza nome si

dissolve in un’operazione di negatività generalizzata: è un soggetto vuoto, zerologico, il nome di un’assenza che inventa, che costruisce. Anche nella monotonia dei rombi e dei triangoli monocromi in ritmo alterno, anche nelle sequenze dei geometrismi ossessivi, collassati e ricostituiti, la pittura gioca, danza, esibisce le proprie tecniche, i propri saperi, la propria metis (Tav. 4). Ma lo fa mantenendosi altra, radicalmente altra da ogni volontà sintetico-ricompositiva di ex-primere un’interiorità psicologica o di trar-fuori l’“idea” dalla cosa, e lo fa eccedendo ogni complesso iconico-ideogrammatico articolato in un nome, un oggetto, un’azione. Ma la medesima carica dissolvente con cui l’Ornamento opera nei confronti del soggetto come fondamentum inconcussum si esplica anche rispetto all’altra polarità, l’oggetto. Non sappiamo mai con sicurezza quali opere, manufatti, situazioni, stati del mondo designare come “ornamentali” o “decorativi”. L’Ornamento è per definizione illocalizzabile. Non è che non abbia luogo; è che per statuto non sappiamo mai bene quale sia né dove passa il confine tra decorazione e funzione. Ma a sua volta qui “confine” è una metafora, cioè, secondo la retorica classica, un ornamento del discorso: c’è qualcosa, nella logica che cerchiamo di seguire, di indecidibile e nello stesso tempo di predeciso. Non possiamo nemmeno rassicurarci asserendo o stabilendo che, quantomeno, l’ornamentale è estraneo alla funzionalità. Vi sono molti esempi che lo smentiscono, in cui addirittura (e lo vedremo) la decorazione è messa al servizio di una funzione addirittura vitale. Lo spazio del Moderno, razionalizzato e parcellizzato, è l’objectum della volontà progettuale del subjectum che lo soggioga rappresentandolo dinanzi a sé. Il mondo interpretato e “rovesciato” è il perfetto correlato dell’Ego. Sotto questo profilo, nella linea nomade dell’Ornamento8 può individuarsi uno dei luoghi o

7  A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola (Paris 1964); trad. it. Einaudi, Torino 1977, vol. i, p. 227.

8  Cfr. G. Deleuze-F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (Paris 1980); trad. it. Castelvecchi, Roma 2010, pp. 582-93, dedicate all’«arte nomade», in cui ven-

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momenti di una certa messa in questione del modello binario su cui s’impernia l’ordo metafisico. Abiterebbe −lo abbiamo appena evocato− una strana regione di confine, spuria e ambigua, liminare. In essa, da una parte, la polarità del soggetto depone ogni valore auratico e “logico”-veritativo; dall’altra, l’ornamentale non ottiene la legislazione formale-normativa di “oggetto”. All’interno della possibilità stessa di identificare e delimitare specificatamente ambiti e natura della pratica ornamentale, un movimento pendolare si produce già per quanto riguarda i poli dell’astrazione e dell’iconismo. Assumere, come spesso si fa, il termine “decorazione” per indicare l’espressione di valori figurali, e quello di “ornamentazione” per riferirsi prevalentemente ai motivi astratto-geometrici, rimane una semplice e tutto sommato innocua scelta terminologica se non la si inquadra in un’ottica in cui quella pendolarità prende sovente l’aspetto di una continua sovrapposizione, di un incrocio e di uno scambio reciproco tra convenzione e organicità, stilizzazione e imitazione. Nella sintassi ornamentale, inoltre, anche le singole, talora lenticolari corrispondenze tra elemento formale e realtà percettibile vengono ridotte e composte secondo schemi astratti di ripetizioni, opposizioni bilaterali, alternanze di natura simmetrico-ritmica del tutto indipendenti dalla resa (essa stessa basata su convenzioni stilisticamente e socialmente pattuite) di uno spazio più o meno realistico o naturale. Un’enorme letteratura ci ricorda che i rapporti tra Ornamento e Rappresentazione sono talora inestricabili, non fosse altro per il fatto che un organismo ornamentale totalmente astratto-geometrico può associarsi −all’interno di un codice stabilmente riconosciuto− a significati di natura simbolico-“contenutistica”, e nello stesso tempo un’opera figurativo-“narrativa” può assumere −a seconda del contesto ambientale, spaziale, architettonico in cui è gono citati e discussi Riegl e Worringer. Cfr. anche, sulla “linea decorativa”, G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione (Paris 1981); trad. it. Quodlibet, Macerata 1995, pp. 104-105. Sul rapporto tra Deleuze e le arti, cfr. il ns. Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie nel Novecento, Castelvecchi, Roma 1999, pp. 51-115.

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collocata− un valore convenzionalmente “astratto”-decorativo. Gli stessi termini “decorazione” o “arte ornamentale” si riferiscono a una vastissima fenomenologia di opere, stili e pratiche espressive, e possiedono uno spettro semantico-lessicale estremamente ampio e contraddittorio in cui il registro dell’esornativo, del gratuito si interpola e si intreccia spesso con il registro dell’utile, del funzionale. Nel senso comune −certo specchio deformante, e tuttavia sintomo di profonde convinzioni culturali− il sostantivo è quasi totalmente omologato all’aggettivo che qualifica la funzione che esso è supposto svolgere: “decorativo” è ipso facto sinonimo di “secondario”, “facoltativo”. Nondimeno, l’impulso all’Ornamento (nella pratica del tatuaggio, ad esempio) è uno dei più elementari bisogni dell’umano. E per questa via −lo vedremo ampiamente− se ne illumina una dimensione tutt’affatto primaria, fondativa, per nulla opzionale. È noto inoltre che non è possibile assegnare una volta per tutte al fenomeno decorativo dei referenti precisi e stabili nel corso della storia. Nel i secolo dell’arte islamica, ad esempio, lo stesso minareto, prima di fungere, in ragione della sua altezza, da luogo e mezzo di richiamo alla preghiera da parte del muezzin, rivestiva il ruolo di un elemento ornamentale posto accanto all’edificio principale, la moschea. E si potrebbe anche richiamare il fatto apparentemente anomalo (ma in realtà integrato a tutta una classificazione istituzionale delle discipline ancor oggi in vigore nell’insegnamento artistico) per cui nell’ambito di alcuni settori della teoria architettonica, dell’estetica e della storia dell’arte tra Otto e Novecento (in Owen Jones, in Ruskin e poi in Berenson, ad esempio, oltre che nella storiografia artistica austro-tedesca) si usa il termine “decorazione” oppure “ornamento” per riferirsi a ciò che in un’opera comprende tutti quegli elementi che l’allontanano dalla funzionalità o la distinguono da una mera riproduzione del reale: dunque, in buona sostanza, per circoscrivere-individuare non soltanto la gratuità del Bello ma anche la sua decisività per quanto riguarda lo status dell’opera. Siamo dunque di fronte a una oscillazione di ambiti semantici e 29

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denotativi, a un evidente slittamento di accezioni e di accenti anche sul versante dell’oggetto. Proprio per questo c’è da interrogarsi se ciò non sia il sintomo di una più sostanziale incertezza pertinente al factum stesso dell’Ornamento. Sono tutti temi, questi che andiamo esponendo, sui quali torneremo in seguito. In pagine celebri della Critica del giudizio, Kant distingue la «bellezza libera» (pulchritudo vaga) dalla «bellezza semplicemente aderente» (pulchritudo adhaerens). Mentre quest’ultima si attribui­ sce agli oggetti che si dispongono sotto il concetto di uno scopo particolare ed è dunque «condizionata», la bellezza libera non presuppone né implica alcun concetto di ciò che l’oggetto deve essere. Kant annette l’Ornamento sotto la legislazione di questo secondo tipo di bellezza: «Così i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie per se stessi non significano nulla, non rappresentano nulla, nessun oggetto sotto un concetto determinato, e sono bellezze libere. Si possono considerare della stessa specie quelle che in musica si chiamano fantasie (senza tema), e anche tutta la musica senza testo»9. In queste espressioni estetiche vige la mèra «attrattiva sensibile» (Reiz) poiché, in assenza di ciò che l’oggetto deve rappresentare, il molteplice reale che afferisce ai sensi (l’Ornamento asemantico, la musica senza testo, cioè sganciata dal senso letterale-discorsivo e ideale che deve pre-esistere al corpo sonoro) non è animato da alcuna struttura teleonomica, non è ad esso presupposto alcun concetto di scopo. Già qui emerge una concatenazione logica (che più oltre analizzeremo estesamente) sintonizzata sulla successione oggetto-(intenzionalità)-rappresentazione-significato, da cui l’Ornamento è escluso o meglio rispetto alla quale si dispone ai margini, in una collocazione liminare o eccedente, giacché sembra non soddisfare le condizioni che una certa tradizione filosofica ritiene necessarie perché vi sia costituzione categoriale d’oggetto. Lo stesso Riegl sottolinea che del campo di studi riguardanti l’Or-

namento e più in generale le espressioni decorative, è addirittura «posto in discussione lo stesso fondamento»10. L’insistenza con la quale egli talora riporta all’«innato impulso imitativo» e all’origine mimetico-naturalistica anche alcuni motivi ornamentali astratti potrebbe ritenersi una sorta di excusatio non petita o comunque di dimostrazione non richiesta, che indica il tentativo di assegnare a quei motivi “liberi” e senza-Padre un qualche legame genetico e insieme teleonomico, una filiazione organica radicata nella realtà visibile sub specie di configurazione semantico-oggettuale che sia in grado di farli riconoscere, di intuirli come “bersagli”, di legittimarli come momenti terminali d’una percezione significativa. Insomma come veri e propri ob-jecta, qualcosa che sta di contro al soggetto. E appunto: tale insistenza sorge proprio perché c’è il dubbio che non lo siano, o ne eccedano la definizione. Questa sfuggente, liminare determinazione concettuale dell’Ornamento non discende soltanto da una sua locale afiguralità, soltanto dai suoi stilemi “astratti”, ma attiene anche allo statuto differenziale con cui esso si ordina nello spazio. Nell’architettura dei freschi (torniamo su questo esempio), la fascia ornamentale nimba e inquadra la singola scena, separandola da quella precedente e da quella successiva. In tal modo, permette a essa di risultarle gerarchicamente, “linguisticamente” superiore e privilegiata, perché la definisce e la identifica come unico luogo e momento dell’intreccio narrativo che si dipana sulle pareti. Senza il silenzio della scrittura ornamentale, non si udrebbe il clamore loquace dei riquadri in cui converge il senso. La fascia ornamentale stacca, differisce il continuum della narrazione, permettendo così al riguardante di percepire quest’ultima come uno sviluppo diegetico in termini spaziali. È il frammezzo neutro, la pausa, lo hors-récit che perimetra e con ciò stesso lascia emergere alla visione chiara e attenta gli spazi ove precipita il racconto, la storia, il senso. La fascia ornamentale non è elemento in praesentia, ma “emancipazione

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I. Kant, Critica del giudizio (1790), trad. it. Laterza, Bari 1960, p. 74.

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A. Riegl, Problemi di stile, cit., p. 3.

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dell’intervallo”, battuta in levare, articolazione, differenza: arthròn, diàstema. Alla luce di questa posizione strutturalmente diacritica non può costituirsi alcun rapporto soggetto-oggetto “pieno”, “coscienziale”, in cui le due polarità sono presenti a se stesse e l’una all’altra. Potremmo infine cogliere un’altra eco, un’altra suggestione. Nel suo occupare gli spazi intervallari, è come se l’Ornamento realizzasse à la lettre la sua doppia condizione di oscenità: che appunto significa etimologicamente ‘fuori scena’, ma che richiama anche quell’aspetto di libertinaggio indecoroso e di capricciosa licenziosità che l’estetica classicista e razionalista gli ha spesso imputato per alcune sue forme ludico-grottesche11 (Tavv. 5a e 5b). Ma occorre a questo punto portare più a fondo l’analisi, e iniziare un itinerario attraverso la categoria dell’intenzionalità, connettivo essenziale e fondante del vincolo tra soggetto e oggetto. Affidiamoci in prima istanza alla valenza sintomale di una metafora − come tale mai semplicemente innocente − e ricordiamo in quali termini Heinrich Wölfflin descrive il primo progetto di Michelangiolo − molto più scarno di quello poi attuato − per la Cappella Sistina, testimoniato da un disegno ora al British Museum. I dodici apostoli avrebbero trovato posto nelle nicchie laterali, e la volta centrale avrebbe dovuto venire affrescata da una grande composizione decorativa geometrica. Se questo primitivo progetto fosse stato messo in opera, afferma Wölfflin che «i disegni ornamentali della parte centrale non avrebbero imposto tanta fatica a chi li contempla». Sottolineando poi il grande sforzo percettivo che la volta effettivamente realizzata −così brulicante di figure, di corpi− impone allo spettatore, egli aggiunge che «in nessuna parte si trovano oasi ornamentali su cui lo sguardo possa riposarsi un poco»12 (corsivo ns.). 11

Cfr. A. Chastel, La grottesca (Paris 1988); trad. it. Torino 1989. H. Wölfflin, L’arte classica (1899); trad. it. Sansoni, Firenze 1978, pp. 60-61. È molto probabile che Wölfflin tenesse presente l’opinione di Michelangiolo stesso, che appare in un passo delle sue conversazioni trascritte, come noto, da Francisco de Hollanda intorno al 1540. Afferma infatti l’artista che «ancor meglio riesce la decorazio12

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Ora, ci si accorderà facilmente che questa maniera di argomentare risulta qui per noi, secondo la prospettiva che stiamo seguendo, oltremodo significativa. La relazione di natura sostanzialistica tra soggetto e oggetto non può costituirsi al di fuori di un rapporto essenzialmente intenzionale che connetta i due poli. Il soggetto intenziona l’oggetto costituendosene come coscienza-di, o non è tale. L’oggetto è il punto terminale della volontà, dell’appetitus che muove il soggetto, o non è tale. Se salta la contrazione stabile e organizzata di questo vincolo produttivo (l’ego pone, produce il dato), è la dispersione, il vuoto, la malattia. Secondo la tradizione, la cultura, la forma mentis occidentale, allora, l’occhio (la vista) può «riposarsi» soltanto allorché non è animato (il soggetto non è animato) da alcuna intentio e quindi non è diretto verso alcun fine, alcun obbiettivo da “colpire”, che nelle parole di Wölfflin è esplicitamente identificato con l’immagine sensoriale, con la riconoscibilità iconica della figura, da cui sola, come sappiamo, può svilupparsi la narrazione. Ob-icere significa ‘gettare contro’, l’ob-jectum è qualcosa di ‘gettato’ sul nostro cammino, come se ne interrompesse il procedere inerziale nel vuoto. Nell’Ornamento, la vista e la percezione del soggetto non riconoscerebbero dinanzi a sé alcun vero e proprio oggetto in quanto tale; non si darebbe in esso (pur presentandosi nella sua materialità, ovviamente, come un perceptum fisico-senne, quando si mette nella pittura qualche essere chimerico, per la varietà e il riposo dei sensi», in Scritti d’arte del Cinquecento, vol. i, a cura di P. Barocchi, Ricciardi, Milano-Napoli 1971, p. 284 (corsivo ns.). Molto comune (compare anche in Viollet-leDuc) è in ogni caso la rilevazione di questo dato, di questa particolare qualità della ricezione attinente alla psicologia percettiva nei confronti della decorazione geometrica. Ernst Kitzinger, ad esempio, si esprime in modo quasi letteralmente identico a Wölfflin nella descrizione di un mosaico pavimentale antiocheno del iii secolo in cui è inserita tra i nodi e i patterns astratti la scena con effetto trompe-l’oeil di un brindisi carnascialesco tra Eracle e Dioniso: «Mentre il resto della superficie è coperto da un modulo geometrico ripetitivo essenzialmente bidimensionale», l’immagine figurativa «interrompe drasticamente questa visione riposante» (L’arte bizantina, London 1977; trad. it. il Saggiatore, Milano 1989, p. 59, corsivo ns.).

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sibile) alcun brano selezionato, isolato dal contesto e focalizzato in quanto Gegen-stand. Da questa angolazione, non si stabilisce alcun rapporto intenzionale-appetitivo dal soggetto all’oggetto. Come noto, è semmai la cultura e l’esperienza orientale −il buddismo, il taoismo, la disciplina zen− a sospendere, a fare epoché di ogni volontà intenzionale-appropriatrice dell’ego. L’abbandono −che richiede un lungo tirocinio di vita, di pratica, di esperienza− della forma intenzionale che struttura e governa la volontà del soggetto verso l’oggetto, lo sciogliersi di questo schematismo, coincide con il satori, con l’illuminazione del discepolo, in cui viene abolita ogni riflessione duale. Non è tanto che la tradizione orientale riduca la contrapposizione a un principio monistico, quanto che la consideri essa stessa come un prodotto, una costruzione del tutto estrinseca e artificiale rispetto alle infinite sinergie, alle millesimali sinapsi che differiscono, al contempo costituendola, l’indeterminabile quidditas del reale13. Se il dualismo tra soggetto e oggetto è la forma prima e più generale di ogni altra rappresentazione −che ingloba la forma rappresentativa stessa che li contiene e li presuppone entrambi– allora Oriente e Ornamento non attendono ad alcuna “rappresentazione”. E significativamente (ecco perché abbiamo evocato l’esperienza orientale), con una coincidenza di motivi qui nient’affatto estrinseca, Hegel, in più luoghi dell’Estetica, sigla l’unione di Oriente e Ornamento laddove −all’interno dello sviluppo dialettico e storico-concettuale delle forme artistiche− assegna la produzione decorativa allo stadio dell’incongruenza appunto “orientale” tra sensibile e sovrasensibile, forma e significato, umano e divino: l’Occidente rappresentando la progressiva scomparsa, percepita come affermazione e positiva conquista, dell’Ornamento. E siamo 13  Cfr. su questi temi −oltre alla preziosa ricerca condotta in numerose opere dal filosofo e sinologo François Jullien–G. Pasqualotto, Il tao della filosofia, Pratiche, Parma 1989; Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia 1992; Yohaku. Forme di ascesi nell’esperienza estetica orientale, Esedra, Padova 2001; Figure di pensiero. Opere e simboli nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia 2007.

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già nell’ideologia del Moderno. Ma dobbiamo ora continuare il nostro percorso attraverso la categoria dell’intenzionalità.

L’arabesco di Husserl Nel Libro ii delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Husserl riprende alcune considerazioni sull’io puro che aveva già cominciato a svolgere nel Libro i14. Ripercorriamo brevemente queste celebri pagine. Il rapporto soggetto-oggetto è inquadrato nei termini di un atto che contiene ed esplica al tempo stesso una polarità: «Da un lato il polo-io, dall’altro l’oggetto come polo opposto» (Idee ii, 501-2). Il polo-io è il terminus a quo, il centro degli atti intesi come multiformi particolarizzazioni o «adombramenti» del riferimento all’oggetto. Husserl usa la metafora di un irraggiamento reciproco: dall’io puro, attraverso gli atti che esso compie, procedono dei «raggi egologici» che tendono verso l’oggetto; nello stesso tempo −e in senso opposto− partono dall’oggetto dei raggi che si dirigono verso l’io puro come centro focale. L’attrazione è reciproca: l’ego è «libero» e tuttavia «obiettivamente attratto»; l’oggetto è −vale a dire è pensabile− solo come correlato di un «io penso», cioè solo in quanto connesso a un io puro. Da ciò consegue che in ogni Erlebnis −cioè in ogni esperienza in quanto vissuta dalla coscienza, presente e diretta nelle varie modalità del sentire, del percepire, dell’intendere− occorre fare distinzione tra un lato orientato verso il soggetto e un lato orientato verso l’oggetto. L’io puro non va confuso con l’io psicosomatico, con il soggetto empirico. Si tratta piuttosto di una ipseità assoluta, perché se ogni sua cogitatio può contingentemente mutare, l’io puro è per princi-

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Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913); trad. it. Einaudi, Torino 1965. Da ora in poi indicato nel testo con la sigla Idee, seguita dalla pagina.

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pio necessario, e si presenta costante e identico in ogni mutamento degli Erlebnisse. È l’io penso kantiano, ma più ancora −e Husserl lo dice esplicitamente− l’ego cogito cartesiano preservato da ogni forma possibile di scetticismo, poiché, secondo un’inaggirabile necessità logica, per ogni dubbio esso non può non fungere per l’appunto da soggetto del dubbio. Siamo dunque di fronte all’Ur-Ich originario, trascendentale, kantiano-cartesiano, non ulteriormente riducibile dall’epoché fenomenologica che, neutralizzando l’intero mondo della tesi naturale, sospende il giudizio e mette tra parentesi ogni evidenza (apparenza, in senso fenomenologico) o convinzione di verità. L’operazione dell’epoché dischiude la sfera assoluta dell’essere in cui abita questa autonoma coscienza o soggettività trascendentale. Analogamente, l’altro polo della relazione, l’oggetto −una volta passato attraverso la riduzione trascendentale e quindi trasformato in un residuo fenomenologico− ha perduto ogni concreta qualità materiale o singola determinazione. Non è più l’oggetto sensibile che si può vedere o toccare, ma il percepito come tale, il senso della singola percezione. Vale a dire: l’albero brucia, il suo noema no. Il noema è l’oggetto pensato, vale a dire in quanto posto e trasformato nella relazione intenzionale o entro le parentesi della riduzione fenomenologica. Appunto l’intenzionalità −asse portante della fenomenologia, titolo comprensivo delle sue strutture− caratterizza la coscienza in senso essenziale, in quanto appartiene al cogito la proprietà di essere coscienza di qualche cosa. Se l’Erlebnis è l’esperienza vissuta dalla coscienza, non tutti gli Erlebnisse sono intenzionali (cioè veri e propri atti nel senso ampio che questo termine aveva nelle Ricerche logiche) e verificheremo tra breve la centralità di questa specifica in rapporto all’Ornamento. L’intenzionalità, inoltre, è ciò che consente di indicare la corrente di Erlebnisse (l’Erlebnisstrom, cioè il procedere continuativo da apprensione ad apprensione) come temporalità e insieme unità di una coscienza. Nella misura in cui un vissuto intenzionale si compie nella modalità del cogito, l’io, con un atto immanente, si dirige 36

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verso l’oggetto conferendogli un senso. È importante aggiungere che l’intentio come atto del «dirigersi-su», dello «sguardo-verso» non può essere equivocata con l’atto di “afferrare” un oggetto, o per meglio dire quest’ultimo è solo una determinazione, una specie del primo: nell’atto intenzionale dell’amare, del gioire, del valutare, nulla si “afferra” sensibilmente o si “osserva” in senso proprio. «Per non restringere il concetto di intenzionalità, bisogna capire», commenta Heidegger, «che il cogliere non è identico al dirigersi-su, ma è solo un ben determinato e non necessariamente prevalente modo di intendere l’ente»15. Dopo questi scarni richiami, inoltriamoci nell’interpretazione dell’Ornamento alla luce delle categorie attinenti all’intenzionalità husserliana. Vedremo che ciò non è possibile. E vedremo anche che lo dichiara lo stesso Husserl. Implicitamente −e all’interno della trama interpretativa che stiamo disponendo− in Idee i; esplicitamente, nella Quinta delle Ricerche Logiche, intitolata Sui vissuti intenzionali e i loro contenuti16. «Davanti a me sta nella penombra questo bianco foglio di carta. Io lo vedo, lo tocco. Questo vedere e toccare la carta, come piena e concreta esperienza di questo foglio, che mi è dato proprio con queste qualità, in questa relativa oscurità, in questa imperfetta determinatezza, in questa orientazione, è una cogitatio, un Erlebnis di coscienza nel senso più pregnante. Il foglio stesso con le sue qualità oggettive, la sua estensione nello spazio, la sua situazione oggettiva rispetto a quella cosa spaziale che dico il mio corpo, rispetto a ciò che, come sono certo, è realmente costituito, non è cogitatio, benché cogitatum, non è esperienza percettiva, ma percepito» (Idee i, 74). 15

M. Heidegger, L’intenzionalità, in «aut-aut», 223-224, 1988, p. 23. Si tratta di un brano tratto dal corso del 1925 intitolato Storia del concetto di tempo. All’interno dell’ontologia fenomenologica heideggeriana, il concetto di intenzionalità nel modo in cui Husserl lo elabora si trasformerà in quello di temporalità ek-statica e nell’infinita trascendenza dell’essere-nel-mondo del Dasein, dell’esserCi. 16  E. Husserl, Ricerche logiche (1900-1901); trad. it. Mondadori, Milano 1968. Da ora in poi indicato nel testo con la sigla RL, seguita dalla pagina.

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Neutralizzato dall’epoché fenomenologica, questo foglio non è più una cosa materiale, concreta ma, appunto, un cogitatum, un noema, un oggetto così come assunto nel processo dell’intentio. Questo percepire è un cogliere; ma questo cogliere è anche un estrarre, un porre per sé astratto dal contesto. «Infatti, tutt’intorno al foglio stanno libri, matite, il calamaio, ecc.; anch’essi in certo modo sono percettivamente presenti nel nostro campo visivo, ma, mentre noi ci rivolgiamo al foglio, essi mancano di qualunque atto, anche secondario, di attenzione e di apprensione» (ibid.). Il guardare-verso del raggio egologico si dirige all’oggetto-foglio estraendolo dal suo contesto ambientale, dalla sua cornice oggettuale. La coscienza vi si focalizza inattualizzando lo sfondo, l’alone umbratile che lo circonda. A questo punto, una prima associazione: in quanto e per quanto l’Ornamento e il continente della decorazione vengono tradizionalmente designati (nel lessico estetico e critico occidentale) come “sfondo”, “contesto”, “cornice”, parergon a cui possono attribuirsi valori “ambientali”, appare non solo suggestivo ma anche interpretativamente legittimo udirne risuonare qui la presenza. Nell’immane viluppo dei corpi michelangioleschi (ci riferiamo all’affermazione di Wölfflin che abbiamo precedentemente ricordato) si richiede allo spettatore una grandiosa possibilità e capacità di visione ap-prensiva. Lo sguardo è teso in un dirigersi rappresentante i cui raggi percettivi sgorgano dal soggetto, dall’io puro, e vanno a colpire l’oggetto della percezione che a sua volta trae a sé l’ego. L’atto della visione è totalmente permeato, animato, vivificato dall’intentio: l’Erlebnis è pieno, possente, incontrovertibile. Se la volta centrale della Cappella Sistina fosse stata invece affrescata −così come appunto pare fosse nelle prime intenzioni di Michelangiolo− con una composizione ornamentale geometrica, tutto questo complesso percettivo, tutta questa macchina fenomenologica, tutto questo congegno ego-intentio-oggetto, si sarebbe indebolito, allentato, si sarebbe trasformato in un campo di percezioni potenziali e non attuali di una coscienza implicita e non esplicita. Così nelle «oasi 38

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ornamentali» che avrebbero fatto da sfondo, da contesto, da alone (il termine è usato dallo stesso Husserl) ai corpi, alle figure degli apostoli, lo sguardo (l’attenzione, l’intenzione) avrebbe potuto rilassarsi, cedere, indebolire la cogenza e l’efficacia del proprio raggio coscienziale. E si badi che il rapporto attenzione-intenzione non è affatto estrinseco né puramente terminologico. Dipende proprio dall’attenzione, dal «nocciolo attenzionale» tutta una particolare dimensione delle modificazioni noematiche (proprie del noema, dell’oggetto in quanto ridotto-intenzionato) e noetiche (proprie della noesi, cioè del processo dei correlativi atti di coscienza). Nella Quinta delle Ricerche logiche, ad esempio, si analizza il gioco semantico tra i due termini, e dopo aver precisato che noi viviamo esclusivamente negli atti significanti e «siamo esclusivamente rivolti all’oggettualità che in essi si presenta, miriamo a essa, la intendiamo in un senso peculiare, pregnante», si afferma che tale problematica è un caso particolare «di un fatto più generale, quello dell’attenzione che è funzione privilegiante che appartiene agli atti nel senso prima precisato di vissuti intenzionali» (RL, 195). All’interno di questa visione di sfondo, di questo campo di percezione potenziale, gli «oggetti consaputi» −è significativo che Husserl non li chiami «noe­ mi»17− sono relativi a Erlebnisse inattuali, giacché essi ci appaiono sì percettivamente, ma non siamo a essi rivolti. La corrente della coscienza, l’Erlebnisstrom, non può mai andar disgiunta da queste inattualità, da queste “ombre”: il contesto accompagna sempre la percezione focalizzata. Tuttavia, è determinante ma non sostanziale. Secondo lo stesso tipo di logica suppletiva che ha sempre siglato lo status dell’Ornamento (e su cui torneremo diffusamente più avanti), Husserl afferma che il contorno inattuale dell’Erlebnis gli inerisce 17  È vero che nel capitolo secondo («Coscienza e realtà naturale») della Sezione dedicata alla Considerazione fenomenologica fondamentale di Idee i, alla quale ci stiamo riferendo, Husserl non ha ancora introdotto terminologicamente la nozione di noema. Ma è altrettanto vero che per le relazioni di sfondo tale termine non è usato nean­ che quando esso è già stato introdotto, dal cap. «Noesi e noema» in poi.

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sì come «necessario elemento determinante», ma al contempo «per quanto necessario, è tuttavia “extra-essenziale”, ossia è tale che la sua variazione non implica affatto il variare del contenuto essenziale proprio dell’Erlebnis» (Idee i, 185). L’economia concettuale ed esplicativa messa in campo è identica a quella con cui si è sempre valutato lo statuto supplementare dell’Ornamento. «Nessun Erlebnis concreto», scrive ancora Husserl, «può valere come qualcosa di pienamente autonomo. Ognuno di essi è “bisognoso di integrazione” secondo una connessione di specie e di forma non arbitraria, ma ben determinata» (ibid.). Questa «integrazione» necessaria-non essenziale è la stessa che concorre a definire l’Ornamento come parergon, come supplemento di un fondamento. Appare qui per noi significativo che proprio su questo terreno possano riscontrarsi nell’analisi husserliana ambiguità e oscillazioni, e precisamente riguardo al tema dell’intenzionalità, architrave della fenomenologia. Vediamo. Anche la cogitatio modificata (quella inattuale, che corrisponde a quello sfondo o alone che abbiamo associato all’Ornamento), dice Husserl, si riferisce a un cogito come coscienza di qualcosa (cfr. Idee i, 76-77), cioè, da questo punto di vista, pienamente intenzionale. In un senso del tutto particolare, però, e come una sorta di sottospecie, giacché l’essenza dell’intenzionalità non si identifica con la caratteristica del cogito come sguardo-verso, come diretto volgersi dell’io; queste ne sono piuttosto particolari modalità che non la totalizzano ma vi sono comprese. Ogni Erlebnis, abbiamo visto, porta sempre con sé un orizzonte di Erlebnisse di sfondo non osservati ma soltanto consaputi, che confluiscono sì nel campo oggettivo ma che non appartengono all’essenza dell’unità intuitiva del cogito poiché in essi non può riscontrarsi alcun essenziale dirigersi-verso. Questo si pone, però, in forte oscillazione con ciò che Husserl aveva poco prima affermato, e cioè che solo agli Erlebnisse attuali si può conferire la qualità del cogito inteso come coscienza-di, come intenzionalità: la stessa espressione “avere coscienza di qualcosa” contiene un intrinseco rinvio all’essere-attuale 40

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che si pone in deciso contrasto con le inattualità. Il fatto è che appare difficile sciogliere questa determinazione dell’aver coscienza-di (che anche le inattualità, gli Erlebnisse di sfondo, ciò che abbiamo associato all’Ornamento, avrebbero, come prima aveva affermato Husserl) da un inquadramento non solo analitico-terminologico, ma essenziale e di contenuto, all’interno della specificità tetico-posizionale dello «sguardo-verso», del «dirigersi-su» (di cui invece Husserl aveva dichiarato gli Erlebnisse di sfondo essere privi). Lo svolgersi in questo senso della noesi, infatti, è ben più di una “caratteristica” del cogito: appartiene alla sua essenza (cfr. Idee i, 78). Da questo punto di vista, appare arduo districare la rilevazione delle strutture noetico-noematiche dalla qualificazione dell’intenzionalità intesa come «dirigersi-su», come «sguardo-verso» sgorgante dall’io puro. La trattazione degli Erlebnisse di sfondo o inattuali (precisamente quelli che qui più ci interessano) sembra restare ambigua e indecisa. Emerge un punto di cedimento, di indebolimento. Non si comprende bene –rimanendo lo sfondo umbratile, il contesto non-osservato, l’alone, comunque riempiti dall’intentio– a quale tipo di intenzionalità si faccia appello, una volta scartate le modalità del dirigersi rappresentante (pensante, valutante), dell’afferrare ap-prensivo e dell’indirizzarsi-verso (cfr. ad es. Idee i, 187). Ma allora ciò confermerebbe la nostra ipotesi di fondo: nell’Ornamento (caratterizzato appunto come campo di percezione-attenzione indebolita, solo potenziale, come inattualità) non si può recuperare alcuna struttura intenzionale o quantomeno vi emerge e si rivela un punto di fuga, una faglia, un cedimento rispetto a una piena e formale attribuzione di intenzionalità strutturale. Come render conto, dunque, dello statuto dell’Ornamento in questi termini fenomenologici? Continuiamo l’analisi, e vedremo accreditata la nostra ipotesi: indirettamente, ma dalle parole dello stesso Husserl. In Idee i si opera una distinzione fondamentale tra gli Erlebnisse specifici portatori di intenzionalità e quelli che non lo sono (cfr., Idee i, 186-8 e passim). Questi ultimi erano indicati nella Sesta delle 41

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Ricerche logiche come «contenuti primari» −distinti dai «contenuti della riflessione», fondati su veri e propri caratteri d’atto− cioè quelle determinazioni che afferiscono alla sensibilità esterna (cfr. RL, 481). Si tratta dunque di Erlebnisse che qualificano contenuti immediati di sensazione, puramente passivi, privi di ogni animazione intenzionale. La caratteristica intrinseca delle datità presenta perciò un doppio aspetto, dividendosi in uno strato materiale, sottoposto a considerazioni di ordine iletico-fenomenologico (da hyle, ‘materia’), e in uno strato noetico −cioè propriamente intenzionale− sottoposto a considerazioni di ordine noetico-fenomenologico. I dati iletici «si offrono come materie per le “formazioni” intenzionali, o significazioni» (Idee i, 191): sono lo strato inintenzionale sul quale poggia e si libera l’animazione intenzionale del senso18. Ancora una volta, fa la sua comparsa la stessa logica che governa la concezione dell’Ornamento: lo strato iletico è necessario ma non essenziale allo strato noetico. È inessenziale, supplementare, una possibilità che produce in ritardo ciò cui è detta aggiungersi19, e tuttavia −anzi proprio per questo− Husserl si interroga «se i caratteri essenzialmente costitutivi dell’intenzionalità possano avere concretezza senza substrati sensuali» (ibid., corsivo nostro). Questi substrati erano chiamati nelle Ricerche logiche anche «contenuti veramente immanenti», che appartengono sì alla compagine dei vissuti intenzionali, «costituiscono l’atto, rendono possibile l’intenzione come sostegni necessari, ma non sono essi stessi intenzionati, non sono gli 18

Lo stesso Husserl, occorre osservare, prende comunque le distanze da questa metafora della stratificazione, cfr. Idee i, paragrafo 124. Ricordiamo inoltre che nella profonda riformulazione della fenomenologia operata da Heidegger questa integrazione supplementare della sensazione alla percezione, del dato iletico a quello noetico, scompare del tutto, poiché non vi si trova traccia di sensazioni del tutto prive di animazione intenzionale sulle quali l’atto percettivo dovrebbe per così dire appoggiarsi. 19  La tematica del supplemento attraversa, com’è noto, tutta la riflessione di Jacques Derrida sostanzialmente a partire da La voce e il fenomeno (Paris 1967); trad. it. Jaca Book, Milano 1968. L’itinerario interpretativo che qui seguiamo, e che nell’ultima parte del lavoro svilupperemo estesamente, si nutre delle suggestioni e dei risultati di tale riflessione che abbiamo tenuto costantemente presente.

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oggetti rappresentati nell’atto» (RL, 164; corsivo ns.). Come appare evidente, dalle Ricerche a Idee è cambiata solo la terminologia; la schematizzazione concettuale, su questo punto, è rimasta la stessa. Ora, fatto si è che nelle Ricerche logiche lo stesso Husserl −cosa, ci si accorderà, qui per noi quanto mai significativa− menziona l’Ornamento tra gli esempi di quei contenuti primari, sensoriali, che in Idee diverranno i momenti iletici “supplementari” a quelli noetici. Contenuti, appunto, e non atti: cioè datità sensuali inerti, meramente presentative e non complessi percettivi intenzionalmente ap-prensivi. Apportando alcuni esempi che contribuiscono a chiarire questa distinzione, Husserl scrive: «Immaginiamo, ad esempio, che certe figure o arabeschi abbiano in un primo tempo destato in noi un’impressione puramente estetica; ma improvvisamente comprendiamo che potrebbe trattarsi di simboli o di segni linguistici. In che cosa consiste la differenza?» (RL, 173). L’arabesco, dunque, corrisponderebbe all’informe esserci della sensazione, dell’aìsthesis non ancora animata dal carattere intenzionale dell’atto ma soltanto passivamente vissuta20. Seguendo la nostra trama interpretativa, da Idee avevamo estratto e verificato una possibilità di associazione con la tematica dell’Ornamento. La connessione di questa tematica al motivo dell’intenzionalità lasciava emergere oscillazioni terminologiche, ambiguità concettuali e deduzioni contraddittorie. Ma proprio questa situazione teoreticamente indecisa forse rivela 20  La considerazione estetica è associata da Husserl a un’oggettività della fantasia che si determina secondo una speciale modificazione di neutralità (cfr. i paragrafi 109 e 111 di Idee i) e un particolare statuto temporale che Husserl chiama «tempo come-se», poiché se è vero che il tempo vi è in qualche modo rappresentato intuitivamente, nel «fantasticato» manca del tutto il tempo effettivo. Cfr. su questo punto anche i paragrafi 39 e 40 di E. Husserl, Esperienza e giudizio (Hamburg 1948), la prima opera pubblicata dopo la morte dell’Autore e che consiste in un’ampia silloge di scritti sulla genealogia della logica che vanno dal 1913 fino alla metà degli anni Trenta. Ricordiamo qui che la prima comparsa del termine “arabesco” nel lessico europeo viene attribuita alla Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, uscita a Venezia nel 1499. Cfr. J. Schlosser Magnino, La letteratura artistica (Wien 1924; trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1964, p. 135).

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al contempo un’ipotesi di uscita: e precisamente nell’abbandono, rispetto all’Ornamento, del tema dell’intenzionalità formalmente, “disciplinarmente” intesa21. Ce lo permette lo stesso Husserl, che associa esplicitamente l’arabesco agli strati iletici-materiali della noe­ si, alla concretezza della sensazione vissuta ma non noeticamente “oggettualizzata”, ai contenuti ma non agli atti. La sensazione (l’Ornamento) è solo il supporto-supplemento iletico di un’apprensione oggettuale empirica. Cade fuori dall’atto della coscienza che trascende se stessa per intenzionare l’oggetto in quanto noema “vivificante”. E le analisi più ricche, incomparabilmente più importanti, Husserl lo ripete spesso, sono appunto quelle noetiche. A questo livello dunque, l’arabesco può essere soltanto oggetto di ciò che Kant nella terza Critica chiama il giudizio estetico empirico, la cui valutazione riguarda non il bello ma unicamente il piacevole, perché resta legato inerzialmente all’attrattiva o all’emozione dei sensi, pur essendo un «necessario ingrediente della bellezza»22 (corsivo ns.), così come lo strato iletico è un «ingrediente» (necessario) di quello noetico. E anche Kant −già lo abbiamo visto e vi torneremo estesamente− cita l’Ornamento tra gli esempi di ciò che cade sotto il giudizio estetico materiale e che perciò nuoce alla purezza del bello pur partecipandovi. L’«impressione puramente estetica» di cui parla Husserl (incontreremo di nuovo questo incrocio tra “purezza” e “impurità” del giudizio), suscitata in noi «in un primo tempo» dall’arabesco, fa parte integrante dell’economia kantiana dei giudizi estetici. In un primo tempo: poiché che cosa accade in

quell’«improvvisamente» husserliano? Accade che la figura sensibile potrebbe rivelarsi un «simbolo», l’arabesco un «segno linguistico». La sensazione, una rappresentazione. E «in che cosa consiste la differenza?». Consiste nell’intervento dell’apprensione immaginativa, la quale «fa sì che noi, in luogo di una manifestazione percettiva, abbiamo invece una manifestazione di immagine [...] sulla base delle sensazioni vissute» (RL, 174). L’immaginatività è un diverso carattere d’atto, una modalità intenzionale «essenzialmente nuova» che governa il passaggio tra la semplice percezione e la coscienza «della raffigurazione e del segno» (RL, 211, nota 20). Vi è un’eccedenza nell’espressione che, intenzionandolo, conferisce il senso. Questa eccedenza anima, vivifica la sensazione, la semplice percezione, l’arabesco: l’Ornamento. Ma a quale prezzo, a quale condizione? A condizione che esso diventi un «simbolo», rappresenti qualcosa, cioè intenda-intenzioni qualcosa di esterno al quale rinvia, e in tale processo-trasformazione questo “qualcosa” diventi un noema, un che di legittimamente pensato. Se «l’essere-segno non è un predicato reale», bensì richiede una specifica «coscienza d’atto fondata» (RL, 208), la modificazione del carattere d’atto farà sì che la semplice intuizione di un concreto, sensibile A si muti nell’apprensione di A come un rappresentante, come un’“immagine” di un A qualsiasi, cioè come appartenente a una classe. La forma categoriale si declina dunque nel senso dell’intenzionalità “raffigurativa”: l’arabesco dice, o meglio vuole-dire (qualcosa) soltanto se rappresenta iconicamente (qualcosa)23? Più avanti approfondiremo anche questo punto. Per

21  Dell’altro tipo di intenzionalità –già presente nella speculazione dello stesso Husserl e messa in evidenza da Merleau-Ponty− l’intenzionalità fungente, pre-categoriale, che sviluppandosi fluida sotto la trama congelata degli atti oggettivanti-rappresentativi, supera di fatto l’accezione intellettualistica del rapporto noetico tra soggetto e oggetto, abbiamo ampiamente discusso nel ns. Non vedi niente lì?, cit., cfr. pp. 156-169 e in particolare tutto il capitolo su Merleau-Ponty, pp. 185-233. È probabile che sia questo tipo di intenzionalità fenomenologica che sfugge alla cornice degli atti, a poter venire con maggior profitto connessa alla dimensione dell’Ornamento. 22  I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 67.

23  Sarà interessante ricordare che Eduard Hanslick, nel suo classico Vom Musikalisch-Schönen del 1854 (trad. it. Il bello musicale, Giunti-Martello, Milano 1945), onde specificare il formalismo dell’arte musicale, l’assenza in essa di un contenuto oggettivo determinato, assume a termine analogico ed esemplificativo proprio lo stesso che assumerà Husserl: «In qual modo la musica possa darci belle forme senza il contenuto, ce lo dimostra alla lontana già un ramo dell’ornamentazione nell’arte figurativa: l’arabesco» (p. 83). È noto d’altra parte che anche nella teoria e nella tecnica musicale si parla di “ornamentazione” della frase melodica, e che ripetizione e variazione sono categorie fondative sia della musica sia dell’Ornamento.

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ora limitiamoci a osservare come non sia certo un caso che Husserl riporti un altro esempio −tratto stavolta dal dominio del linguaggio di parola− affiancandolo nella logica espositiva a quello dell’arabesco. «Oppure supponiamo», scrive, «che qualcuno ascolti attentamente una parola, a lui del tutto estranea, come un puro complesso fonico, senza nemmeno sospettare che si tratta di una parola; e paragoniamo questa situazione con quella in cui la stessa persona, durante un colloquio, ode questa parola in un secondo tempo, quando il suo senso gli è ormai divenuto familiare, e la comprende anche se essa non è accompagnata da traduzioni intuitive. In che cosa consiste in linea generale l’eccedenza dell’espressione che viene compresa, pur avendo una funzione meramente simbolica, rispetto al complesso fonetico vuoto di pensiero?» (RL, 173; il primo corsivo è nostro). Possiamo agevolmente quanto legittimamente dedurre che l’Ornamento è equiparabile a questo «complesso fonetico», e l’atto che ne costituisce la presenza (a rigore non “espressiva”) è radicalmente diverso dall’atto in cui si costituisce il (suo eventuale) significato. Può passare dal primo al secondo solo a patto che rappresenti qualcosa in una struttura di rimando, che sia animato da un senso oggettuale vivificante e non passivamente vissuto così come passivamente vissute sono le mère sensazioni (l’«attrattiva sensibile» kantiana). Un’intenzione attuale-rappresentativa deve attraversare come corrente elettrica l’inerzia, l’asemanticità del corpo del «complesso fonetico»-Ornamento per riscattarlo dall’esteriorità in cui come immediata datità si manifesta. In Idee i, Husserl distingue tra Sinn, ‘senso’, e Bedeutung, ‘significato’. Il primo si riferisce all’intera sfera noetica ivi compreso il suo strato non espressivo, puramente iletico-materiale; il secondo, al contenuto di senso ideale liberato privilegiatamente, anzi essenzialmente, dall’espressione verbale, dal discorso vivo, parlato. Nelle Ricerche logiche, come noto, questa distinzione ancora non esiste, e la formazione Sinn-Bedeutung si oppone all’Anzeichen, all’‘indice’ che non esprime alcunché giacché non partecipa al piano ideale-noetico-discorsivo. L’arabesco 46

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husserliano, allora, sarebbe un indice che già da sempre contamina l’espressione (così come lo strato iletico “sostiene” quello noetico pur non facendone parte) esattamente come in Kant il giudizio di gusto è puro «solo quando nessun piacere semplicemente empirico è mescolato alla sua causa determinante. Il che però avviene sempre, quando l’attrattiva o l’emozione hanno una parte nel giudizio, col quale una cosa dev’essere dichiarata bella»24 (corsivi nostri). Si noti che la specificazione introdotta da Kant: «il che però [...]» solo in apparenza ha il tenore restrittivo che, rispetto alla prima affermazione, la sua logica argomentativa lascerebbe supporre. Jacques Derrida lo ha magistralmente compreso nelle sue letture husserliane: l’indice è strettamente connesso all’espressione ma in esso tuttavia −se il Geist, lo ‘spirito’, è qui soprattutto volontà, e se quindi il concetto di intenzionalità è profondamente implicato in una metafisica volontaristica− permane un ancoraggio, un freno di involontarietà, di inerziale contingenza, di passiva ed esteriore effettualità. Se non volesse rimanere nell’ambito dell’attrattiva sensibile kantiana che è connessa con la materia del piacere e non con la forma, l’Ornamento dovrebbe rappresentare in senso figurativo, dovrebbe poter essergli assegnato un significato iconico, così come il complesso fonetico husserliano, per affluire nella vera e propria noesi, per diventare discorsivo-intenzionale, dovrebbe elevarsi al significato, organizzarsi in una semantica. L’indice-arabesco sprovvisto di significato è dunque intrinsecamente connesso all’espressione semantica. E tuttavia persiste nel suo intimo l’opacità irredimibile del non-intenzionale. Dunque appunto: per non rimanere nell’ambito della mera sensazione, l’Ornamento dovrebbe voler-rappresentare, accedere a una figuralità che sola potrebbe elevarlo a un significato estetico che la logica discorsiva e concettuale sia di Kant che di Husserl identificano in tutta evidenza con l’immagine iconica. Ce ne fosse la necessità, potremmo 24

I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 67.

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trovare la riprova di tale evidenza nelle pagine del paragrafo 111 di Idee i, dove Husserl porta l’esempio della celebre incisione di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, in cui la percezione «normale» ha come correlato «la cosa “foglio inciso a rame”, questo foglio della cartella», e la coscienza percettiva, invece, identificata con la coscienza della «figura», ci permette di riconoscere le realtà «raffigurate» negli oggetti incontrati dalla semplice sensazione. «La coscienza della “figura” rende possibile la raffigurazione», dice Husserl, e cioè «la coscienza delle piccole figure grigie, in cui grazie alla noesi si rappresenta figuratamente un’altra cosa», vale a dire il soggetto della rappresentazione nelle sue articolazioni semantico-visuali. «Nella considerazione estetica», prosegue Husserl, «noi ci rivolgiamo a queste [le linee nere dell’incisione, ndr] non come a oggetti; noi siamo rivolti alle realtà rappresentate “nella figura”, meglio, alle realtà “raffigurate”, al cavaliere di carne e sangue ecc.». Ne consegue che l’oggetto-immagine “incisione” che sta dinanzi a noi e che raffigura esteticamente qualcosa d’altro da sé, non è né esistente né non esistente e nemmeno sussiste in qualsiasi altra modalità posizionale: «piuttosto è consaputo come esistente, ma come esistente-per-così-dire nella modificazione di neutralità dell’essere». Del tutto evidente è quindi che per Husserl qualcosa come la coscienza estetica si identifica totalmente con la coscienza “di figura”. Solo questa confluisce nel flusso noetico. Senza riempimento intenzionale di senso −e senso per Husserl è appunto, ripetiamo, sinonimo, nella sfera del visivo, di rappresentazione oggettuale-iconica, “figurativa”− l’Ornamento resta inerte, in ultima analisi inassegnabile, indecidibile. Prende vita nelle pagine husserliane tutta un’economia metaforica della trazione. Il nostro interesse, la nostra attenzione-intenzione (abbiamo già visto la centralità di questo nesso che a prima vista potrebbe sembrare solo un’assonanza esplicativa) non si animano se non negli atti significanti che donano senso. L’espressione viene sì percepita, ma il nostro interesse non vive in 48

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questo mero percepire «se non veniamo distratti, non badiamo ai segni, ma a ciò che viene designato» (RL, 192). L’Ornamento ci “distrae” (non è forse questa una valutazione −e basti ricordare la disputa tra san Bernardo e l’abate Suger− assolutamente classica, tradizionale, diventata addirittura un luogo comune?) proprio perché ne veniamo attratti (Reiz, Kant). Ci distrae-via dal significato inteso come dirigersi-verso l’oggetto, cioè dalla riconoscibilità rappresentativo-figurale. Per essere (come dovremmo essere) da questa attratti, dobbiamo non badare ai suoi segni (sensibili), cioè distrarci-via da essi. Ma precisamente ammonendoci (e abbiamo già notato un simile risvolto argomentativo in Riegl allo stesso proposito della dimensione astratta dell’Ornamento) a non lasciarci distrarre dal «complesso fonetico», dall’«arabesco» (dall’Ornamento) −perché ciò ci distrarrebbe da quel che dovrebbe attrarci: dal senso-significato, dalla rappresentazione iconica, figurale− Husserl ovviamente non fa altro che riconoscere e attestare il suo potere di attrazione. La comprensione, la vivificatrice animazione del senso si distende in questo gioco di attrazione-distrazione25, il cui presupposto logicista apparentemente irrinunciabile (e parte integrante di una potente linfa che percorre in profondità gli schemi della “tradizione vincente” del pensiero occidentale) tende a segmentare e selezionare l’esperienza in modo da identificare il significato con l’iconicità e la figuralità oggettuale del perceptum, riducendo il visibile al leggibile-verbalizzabile e lasciando così nella contingenza inintenzionale (ma significativamente alla stregua di un supplemento necessario) ciò che del visibile non si fa o non può farsi discorso26. 25

Sull’economia “abissale” del tratto, cfr. il ns. Del tratto. Attraverso Heidegger, Benjamin, Derrida, in «aut-aut», 220-221, 1987. 26  Sull’eterogeneità tra l’ordine del visibile e l’ordine del dicibile verificata come condizione a priori non soltanto della critica e della storia dell’arte ma di ogni commento verbale dell’immagine, cfr. il ns. L’impossibile critico. Paradosso della critica d’arte, Kappa, Roma 1985 e L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, Jaca Book, Milano 2002.

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Se allora «ciò che forma le materie in Erlebnisse intenzionali e vi introduce lo specifico elemento dell’intenzionalità è lo stesso che dà al termine coscienza il suo senso specifico: secondo cui, appunto, coscienza eo ipso accenna a qualcosa di cui è coscienza» (Idee i, 192), l’Ornamento, da questo punto di vista, non è a rigore un ob-jectum che sta di-contro ad alcuna coscienza-di. E se, come sembra legittimo concludere, intenzionalità-semanticità è apprensione oggettuale e rappresentazione iconico-“figurativa”, i linguaggi dell’Ornamento, secondo il loro statuto estetico e storico-stilistico di base, si dispongono ai margini della categoria fondante dell’intenzionalità. Se è questa che anima e consolida la relazione teleologica soggetto-oggetto, l’essenza duale e finalistica del riflettere, che sigla la metafisica separazione tra ego e objectum, allora all’interno dello status ontologico e delle pratiche dell’Ornamento (considerando anche il loro valore di Umwelt, di multidirezionale coinvolgimento spaziale-ambientale) questa relazione separante-intenzionante non si dà, non emerge, non si esprime. Se non vi è intenzionalità che sorretta dal volere del Soggetto che “fichtianamente” pone-interpreta-“abolisce” l’oggetto, e se questa struttura progettuale della soggettività è la condizione a priori della Tecnica, della ratio nihilistico-costruttiva occidentale, allora nei territori, nei luoghi non giurisdizionali dell’Ornamento non è all’opera alcuna Volontà, nessun Progetto, nessun Nihilismo. In questo senso e di nuovo, l’Ornamento è davvero Oriente. La solidarietà, la complementarità di natura intenzionale che salda la struttura bipolare soggetto-oggetto presiede alla sua genesi “rappresentativa” così come alla sua critica. I due idola non possono che disporsi vicendevolmente a un unico destino. Medesimo è il loro processo di trasformazione, reciproca la loro messa in questione. È possibile concepire l’Ornamento come parte di questo processo. Che non è immediatamente liquidatorio, ma sospensivo. Siamo cioè convinti che è possibile pensare l’Ornamento all’interno di una generale, strategica sospensione-epochè del rapporto soggetto-oggetto 50

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inquadrato e sostanziato dalla categoria dell’intenzionalità, sulla cui effigie esso opera uno spostamento trasversale, disegna (come dicevamo all’inizio del nostro percorso) una linea di fuga, una frattura. Se l’arte è produzione di forme concrete e individue dell’intuibilità, e se può essere intuibile-riconoscibile soltanto ciò che si costituisce categorialmente, “disciplinarmente”come oggetto per un soggetto, allora la pratica ornamentale in qualche modo sfugge alla contrazione di questo vincolo, poiché non vi si reperisce alcuna soggettività sovrana-legislatrice né alcuna costituzione normativo-categoriale di oggetto. Se quel rapporto prende vita nell’animarsi teleologico-intenzionale delle sue interne direzioni, dei suoi “irraggiamenti” reciproci, allora i “linguaggi” della decorazione se ne dispongono ai margini, perché nessuna intentio formalmente intesa può siglarne o legittimarne lo statuto. Se la struttura intenzionale acquisisce senso e significato unicamente immergendosi nel liquido amniotico della figuralità cosale del perceptum, allora l’Ornamento disegna una linea di fuga sulla facies di questa solidarietà analogizzante, giacché la sua dimensione “astratta” e a-narrativa guarda altrove. Le pratiche ornamentali danno luogo all’auto-organizzarsi di una trama fibrillare e frammentata di interferenze senza sintesi, senza centrature, in cui ogni elemento reca in sé la traccia, la possibilità di un’ulteriore differenziazione, di un avvenire di differenze, di un’incessante aferesi verso ordini possibili. Ripetizioni e rifrazioni, dissonanze e sdoppiamenti dei motivi e dei patterns che costruiscono, nel «pulsare della molteplicità irretita» −direbbe il Gadda delle straordinarie pagine della Meditazione milanese− una «sinfonia di relazioni intervenenti» in cui «veder a ogni costo l’io e l’uno dove non esistono affatto» è l’«errore profondo di ogni speculazione»27. A un soggetto né sostanziale né fondativo e tantomeno psicologico, “corrisponde” un oggetto che si conforma sì a paradigmi locali di ordine, ma le cui configurazioni non sono astrattamente discipli27

C.E. Gadda, Meditazione milanese, Einaudi, Torino 1974, p. 75.

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nabili in anticipo, bensì continuamente collassate e ricostituite da strategie labirintiche e multidirezionali. Luogo di un’ars inveniendi che di questa adotta e illumina le tracce e gli indizi conflittuali, i marginalia grammaticali e le frammentazioni anodine, l’Ornamento emerge allora sotto le vesti di una centralità rimossa, matrice epigenetica di ogni sperimentazione inventiva. Esso appare come il risultato perennemente in fieri di processi ininterrotti di disorganizzazione-riorganizzazione, come equilibrio dinamico di compensazione e costruzione, permanenza e novità, vincolo e possibilità. Districare questi elementi, scioglierli dalla loro intima e reciproca connessione, significa perdere l’Ornamento.

Significato, figuratività, astrazione Abbiamo dunque già più volte richiamato il nesso dialettico tra l’Ornamento e la categoria fenomenologica dell’intenzionalità. Ma proprio perché l’Ornamento si colloca ai margini di quello che si considera un presupposto implicito della nostra logica percettiva e intellettiva, una linfa sotterranea che percorre i fondamenti stessi delle nostre abitudini e delle nostre procedure cognitive, sarà forse necessario analizzare il legame tra intenzionalità e rappresentazione estetica28. Secondo un principio che potremmo definire generalmente mimetico-associativo, in prima istanza l’arte visiva significa in quanto e per quanto fornisce la possibilità di far corrispondere (ovviamente secondo regole proiettive più o meno marcatamente convenzionali) alle sue forme, all’articolazione dei suoi segni, oggetti e cose già appartenenti al dominio della percezione co-

28

Per tutta la parte che segue rimandiamo ai ns. L’occhio e la pagina, cit., e Non vedi niente lì?, seconda ed. Castelvecchi, Roma 2005, in part. pp. 130-41 e 164-74. In entrambi i lavori articoliamo più diffusamente le questioni qui affrontate.

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mune e della denotazione. Si tratta di un principio, questo della mimesis, che ha plasmato e dominato per secoli il rapporto con le arti e il modo di concepirne lo statuto. Potremmo anche dire in altri termini (sotto un diverso ma strettamente connesso punto di vista) che l’arte produce senso nella misura in cui è traducibile discorsivamente, è descrivibile verbalmente. Questo presupposto logicista che permea di sé così vasti settori del pensiero e delle riflessioni sulle arti, si trova perpetuamente in conflitto non tanto con la “difficoltà” quanto con l’impossibilità di ridurre, di esaurire l’ordine del visivo nell’ordine del verbale, le datità ottiche, plastiche, cromatiche, nel linguaggio di parola. Potremmo anche proporre al riguardo un’ipotesi un po’ immaginifica, ma che forse contiene un suo margine di legittimità, secondo la quale si stabilirebbe una curiosa situazione in cui è come se l’arte dovesse “rimediare” al mancato integrale mimetismo edenico della lingua, supplire al tramonto di quella felice, vichiana età dei poeti in cui la parola era perfetta onomatopea della cosa. Che si sia già-sempre verificata tale scissura metafisica: questo fatto dovrebbe essere per così dire “emendato” dall’arte intesa appunto sotto il profilo sovrano della sua capacità mimetico-rappresentativa, come fosse incaricata di ricucire la ferita, ricomporre l’infranto e alleviare l’angoscia provocata dalla separazione dall’unità primigenea e originaria dello Stesso e del Medesimo. Come che sia, mai potremo cogliere-afferrare il quid della cosa, la sua quinta essentia. Il destino dei parlanti è l’Umweg, è girare-attorno alla cosa, è non pretendere più dell’analogia. «Chiedersi per quale motivo una cosa è sé stessa equivale a non chiedersi nulla», afferma Aristotele nella Metafisica (1041a, 13), quindi «non c’è affatto bisogno che ci mettiamo a ricercare la definizione di ogni cosa, ma basta che riusciamo a cogliere l’analogia» (1048a, 36-7). Saremo perpetuamente condannati alla deviazione dei segni e del linguaggio. L’arte renderebbe ragione di questa impossibilità e nello stesso tempo ce ne farebbe sopportare il peso. Probabilmente è per questo che l’astrazione pittorica −di cui 53

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il lavoro ornamentale fa così intrinsecamente parte− se considerata nel suo profondo ètimo filosofico ed estetico, è tuttora perturbante: non è possibile, in essa, trovarsi “a-casa”. Ci torneremo a breve. Noi organizziamo la nostra esperienza percettiva del mondo ritagliando il continuum semiotico per renderlo discreto-simbolico: non lo percepiamo mai direttamente, ma solo attraverso la selezione che ne operiamo. Lo facciamo secondo strutture intenzionali, cioè, sotto questo profilo, secondo un insieme organizzato di regole che prescrivono una certa condotta al decorso della percezione in vista dell’unificazione dell’esperienza secondo oggettualità limitate idest significative quindi nominabili. E lo facciamo quando, come afferma Aristotele, di un oggetto «intendiamo indicare che cosa esso è» (Metafisica, 1028a). Il nostro vedere è sempre ghestaltico, è sempre un vedere concettuale, guidato dall’idea-intentio. La percezione ha già in sé strutture noetiche che la ordinano, la organizzano, ne guidano razionalmente l’itinerario. In pagine celebri della Critica della ragion pura, Kant, onde rendere conto della possibilità di applicare i concetti puri dell’intelletto all’esperienza sensibile in generale, dichiara la necessità di introdurre un terzo termine, giacché se è vero che soltanto l’omogeneità tra la rappresentazione di un oggetto e quella di un concetto può legittimare la corretta sussunzione del primo al secondo, è anche vero che i concetti puri dell’intelletto (cioè le forme categoriali che ci consentono di raccogliere, di ‘prendere-insieme’, com-prehendere, le intuizioni unificando così il materiale sensibile), se messi in rapporto alla conoscenza intuitiva, quella che si riferisce immediatamente agli oggetti, risultano ad essa affatto eterogenei. Il terzo termine che media la sussunzione dei fenomeni alle categorie riunendo il molteplice in una unità sintetica è, come noto, lo schema trascendentale, che, sebbene non sia in sé e per sé un’immagine, ci è però fornito dall’immaginazione29. Esso 29  Ricordiamo comunque che nella lettura kantiana di Heidegger il carattere di immagine «appartiene necessariamente allo schema. Tale carattere ha una natura in sé»,

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connette la forma spazio-temporale dell’esperienza all’universalità del concetto. Lo schema è dunque la regola che dirige e governa la nostra comprensione intenzionale del continuum semiotico, del flusso antepredicativo del reale: è, per così dire, l’eccedenza preconcettuale della percezione sensibile, e che di questa organizza la conoscibilità determinando, intenzionando come “cosa”, come “oggetto” quella x con cui si confronta. Questa facoltà del nostro intelletto «è un’arte celata nel profondo dell’anima umana», scrive Kant nell’Analitica trascendentale della Prima Critica, «il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente dinanzi agli occhi», ed è paragonabile a «un monogramma della immaginazione pura a priori, per il quale e secondo il quale le immagini cominciano ad essere possibili: le quali immagini, peraltro, non si ricollegano al concetto se non sempre mediante lo schema, che esse designano»30. Abbiamo visto che in Husserl il significato può emergere e venire in chiaro unicamente al sopraggiungere dell’intenzionalità. Kant non usa questo termine ma arriva nella stessa pagina alla medesima conclusione: «gli schemi dei concetti puri dell’intelletto sono le sole vere condizioni che danno ad essi una relazione con oggetti, e quindi un significato» (corsivo nostro). Ora, in quanto e per quanto la logica dello schematismo trascendentale può assimilarsi o quantomeno fare da presupposto alla coscienza-di, al dirigersi-verso, all’animazione teleologico-intenzionale husserliana, sembra di poter dedurre che −secondo una sorta di “pregiudizio mimetico” certo non immediatamente, ingenuamente ricusabile− il significato che emerge dalla o nella percezione del fenomeno, venendo in tal modo a essere verbalizzabile, coincide o comunque mostra un nesso strettissimo con la figuratività oggettuale, con l’iconicità associativa del perceptum. Lo abbiamo in M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (1929), trad. it. Silva, Milano 1962, citiamo dall’ed. Laterza, Bari 1981, p. 88. Questa connessione tra immagine e schema sarà al centro della riflessione estetico-filosofica di Cesare Brandi. 30  I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1989, p. 166.

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già visto con Husserl: un arabesco non significa alcunché fino al momento in cui non si trasforma in simbolo o in segno linguistico; quindi, da questo punto di vista, non può essere considerato fino ad allora un vero e proprio noema. Quindi, sotto questo particolare profilo, si potrebbe affermare che se gli schemi, i “sortali”, le unità concettuali, attivando la loro natura teleonomico-intenzionale, mirano nello stesso tempo alla segmentazione e alla riunificazione dei dati dell’esperienza per ricarvarne oggetti −in quanto tali limitati, “sagomati” in una forma che si rende percepibile proiettandosi su uno sfondo− allora non è forse vero che l’astrazione pittorica, a cui così intimamente è legata la produzione ornamentale, tende per costituzione a distinguere e separare il visibile dall’oggettuale, o quantomeno a sospendere il loro vincolo genetico, a farne epoché? Da questo vincolo, da questa inscalfibile solidarietà, l’Ornamento, di fatto e di diritto, appare escluso. Potremmo trovarne continue conferme in tutta la riflessione filosofica e storico-critica sulle arti. Ci limitiamo qui ai soli due esempi di Cesare Brandi e Claude Lévi-Strauss. In un ampio saggio del 1951, L’arte d’oggi, Brandi sferra un deciso attacco contro l’Astrattismo31. Esso rappresenta né più né meno una «deviazione del processo creativo» (p. 136), e tale giudizio −già espresso nel Carmine o della Pittura, il primo Dialogo brandiano− sarà poi ripreso, prima di essere abbandonato definitivamente, una decina di anni più tardi in Segno e immagine. In alcune fasi storiche dell’esperienza artistica (in Grecia dopo il periodo del dypilon, dopo il vi secolo a Bisanzio, dopo il ix secolo in Occidente, ma anche successivamente al dissolversi della cultura figurativa del Paleolitico franco-cantabrico) «ove nel costituirsi dell’oggetto si 31  C. Brandi, Scritti sull’arte contemporanea ii, Einaudi, Torino 1979, p. 136. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo. Per i difficili e alterni rapporti tra Brandi e l’arte astratta, e più in generale le arti moderno-contemporanee, cfr. il ns. Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori Riuniti, Roma 1992; seconda edizione, Jaca Book, Milano 2004, in part. pp. 157-91.

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ebbe una netta prevalenza della negatività da condurre alla negazione quasi assoluta della conoscibilità, della semanticità dell’immagine, subito toccato il punto più basso, la ripresa avveniva per una diminuzione della negatività e per un graduale allargamento dell’area semantica correlativa» (ibid). Nell’Astrattismo moderno, invece, il tentativo messo in atto è precisamente quello non già di abolire la positività, il tenore semantico cioè, della costituzione d’oggetto, «ma la costituzione d’oggetto stessa» (ibid.), che nella teoria brandiana è la vera e propria chiave di volta del processo creativo. Ora, il seguito dell’argomentazione diventa ancor più significativo e pertinente al nostro itinerario. Brandi si adopera per difendersi dall’accusa concernente una mancanza di elasticità mentale e concettuale in chi critica l’Astrattismo, accusa formulata appunto dai suoi sostenitori. Tale difetto sarebbe rilevabile perché, essi dicono, «dove l’attenzione non stia così col fucile spianato come per la pittura, l’introduzione di modi astratti avviene senza suscitare nessuna o debolissima reazione, ad esempio per quanto riguarda stoffe e oggetti d’interno» (p. 141). Brandi allora assume e fa suo il nocciolo concettuale di quest’affermazione, sottolineando −con l’utilizzo di un tono apocalittico inaspettato ma oltremodo significativo− che «se impiegati infatti in quel loro eventuale, unico e modesto significato decorativo, possono benissimo inserirsi in una civiltà senza pretendere di farla tremare dalle fondamenta» (ibid.). Tutta la partita, com’è evidente, si gioca attorno alla tradizionale gregarietà dell’Ornamento. Una gregarietà fatta propria in prima istanza dai sostenitori dell’Astrattismo, che la affermano onde dichiararsi sorpresi dalle critiche che vengono loro rivolte, implicitamente ma non troppo equiparando astrazione pittorica e decorazione (e cedendo così terreno, a loro volta, all’accusa di mera decorazione che si è sempre formulata contro l’Astrattismo moderno). Lo statuto marginale, trascurabile e accessorio dell’Ornamento viene poi, invece, assunto toto caelo e positivamente da Brandi, tanto da portarlo ad affermare che, sotto la cauzione 57

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dell’“innocuo” Ornamento, moduli astratti (la storia stessa delle espressioni artistiche ovviamente lo conferma) possono essere “ammessi” poiché, in quanto tali, in quanto “semplice” decorazione, non mettono in questione le «fondamenta» di una civiltà. La remissione in una posizione gregaria, in una funzione vicariante, è il pegno che l’Ornamento deve pagare per poter essere accettato. Brandi continua la sua argomentazione ricordando che il valore astrattamentre ritmico della decorazione si era compreso fin dai primordi della civiltà, e che esso è tanto potente e pervasivo da sussumere anche i suoi momenti “figurativi”, che vengono così a perdere ogni costituzione d’oggetto all’interno della pura scansione spaziale. E poi aggiunge: «Ma questa retrocessione è altamente significativa per l’essenza dell’immagine e per intendere il ruolo della semantica in seno all’immagine. Il suo contrario è dato dalla necessità, che invece prova la coscienza, di interpretare figurativamente i segni non significanti: e di ciò l’esempio più proficuo, antico e tenace, è il cielo stellato [non è forse questa una conferma indiretta della nostra lettura di quel brano di Husserl sull’arabesco? ndr]. Le figurazioni zodiacali, le costellazioni, sono il resultato in primo luogo di un lungo e oscuro lavoro interpretativo e analogizzante per risalire dall’astrazione di segni incomprensibili, alla sintesi di quei segni entro una figurazione significante. Proprio perché non c’è coscienza se non di qualche cosa, e l’immagine, che è la coscienza stessa in atto, non può essere immagine di nulla, ma avrà sempre un nocciolo conoscibile, semantico, rappresentativo» (pp. 141-2). L’Ornamento è qui dichiaratamente quanto lucidamente valutato alla stregua di una regressione che svia, distoglie (proprio come in Husserl) da una funzione o prestazione interpretante caratteri, dimensioni, intenzionalità figurative che si fa risalire alla costituzione arcaica della coscienza umana, alla sua pertinenza antropologico-“naturale”. E utilizzando una terminologia di conio fenomenologico (che Brandi aveva appreso soprattutto da Immagine e coscienza di Sartre), si conclude sull’indissolubilità del 58

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vincolo iconico-associativo: se intenzionalità è coscienza-di, questa rintraccia significati in quanto immagini figurative, e nella misura in cui vengono veicolati da rappresentazioni oggettuali. Nelle Entretiens di Georges Charbonnier con Lévi-Strauss, le conclusioni sono assolutamente analoghe. Se l’arte è il modo privilegiato di passare «dalla natura alla cultura, dall’oggetto al significante»32, l’astrazione pittorica (termine per varie ragioni di gran lunga preferibile a quello di “astrattismo”) pone seri interrogativi sul suo statuto e la sua legittimità concettuale. Appare lecito infatti domandarsi se un quadro astratto non è la stessa cosa di «un pezzo di legno levigato dal mare» (p. 40). Il significato, la dimensione semantica può anche emergere casualmente, come quando guardando un sasso vi si riconosce un fiore, non tanto in virtù di una puntuale, biunivoca rassomiglianza, quanto per il reperimento di analoghe strutture percettive (cfr. pp. 112-3). Quasi parafrasando l’osservazione di Husserl sull’arabesco, si definisce così l’emozione estetica come «il modo con cui reagiamo allorché un oggetto che non ha un significato si trova promosso a significare» (p. 114). La pittura, a differenza del linguaggio verbale, non possiede la doppia articolazione, e questa assenza (alla quale consegue la mancanza di un vero e proprio codice pittorico) è confermata, sottolineata proprio nella sua declinazione “astratta”. E ancora una volta −con un gesto o una decisione che ormai non dovrebbe sorprenderci− dove non emerge il significato, dove l’oggetto d’analisi non permette di ascendere al livello specificamente semantico, si esemplifica dalla decorazione: un quadro astratto, dice Lévi-Strauss «mi può piacere, ma non posso prescindere dal suo lato decorativo» (p. 119). Attributo, prestazione, funzione essenziale delle arti visive è di fornirci una realtà espressiva sì ma di ordine semantico, ove semantico è

32

G. Charbonnier – C. Lévi-Strauss, Colloqui (Paris 1961), trad. it. Silva, Milano 1966, p. 115. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo.

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quasi-sinonimo di “oggettuale”, di “figurativo”, cioè designazione iconica di oggetti già-conosciuti del mondo e ri-conosciuti nell’espressione artistica. Esattamente come nell’argomentare di Brandi, anche nelle valutazioni di Lévi-Strauss interviene un tono epocale, quasi escatologico: si preconizza, dopo l’astrattismo, la fine della pittura stessa, una «èra apittorica» (p. 121). Dunque sembra proprio, e di nuovo, che l’Ornamento, precisamente a partire dalla sua inessenzialità, dalla sua marginalità, sia in grado di sollevare questioni fondamentali, poste alla radice stessa delle grandi trasformazioni della nostra cultura. Ora, è evidente che rispetto a queste potenti e profonde complicità di pensiero radicate nella tradizione estetico-filosofica (la cui linfa scorre anche, in parte, nella dimensione psicofisica e forse neurobiologica dell’umano) il continente dei linguaggi “astratti” dell’arte, e con essi l’Ornamento, non può porsi in immediata alternativa. Non è certo questo il punto. Importante, invece, è interrogare il ruolo che può giocare il loro statuto asemantico (scontato il presupposto, giustappunto, che semanticità indichi raffigurazione di oggetti). Esiste un vedere puro anteriore alla lingua, o comunque alla prestazione intellettiva intesa come applicazione dei predicati aristotelici, come instancabile lavorìo di segmentazione e riunificazione simbolica proprio in termini cosali, “figurali” del continuum semiotico? Probabilmente no. Ma ciò non significa che l’intenzionare oggetti sia la sola e unica forma del vedere, l’unico “linguaggio” che ci sia dato. Un dubbio del genere sorge −molto significativamente qui per noi− anche in Husserl, e proprio nel “manoscritto sull’estetica”: «È necessaria una figuralità (Bildlichkeit)? Appartiene allora ad ogni forma poetica la coscienza di immagine (Bild-bewusstsein?). Le parole espresse, quelle che descrivono, oppure le parole della persona rappresentata, sono parole-immagine (Bildworte)?»33. E bisogna pure aggiungere che interrogativi analoghi sulla “figuralità” 33

E. Husserl, Estetica e fenomenologia, 1906, in «aut-aut», 131-132, 1972, p. 92.

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del linguaggio se li poneva negli stessi anni anche Wittgenstein. E il Nietzsche “speleologo” della conoscenza, quello dei tardi frammenti postumi, non aveva forse già affermato che «il nostro credere a cose è il presupposto per credere alla logica»? Non si era forse già interrogato su «come possiamo sapere che ci sono cose? La “cosalità” è stata creata da noi»34. La prestazione ontologica delle modalità “astratte” dell’arte in cui l’Ornamento è così profondamente ed estesamente implicato potrebbe rivelarsi proprio quella che ci induce a ricordare −un po’ alla stregua di un rimosso familiare che ritorna sotto le spoglie dell’Unheimliche, del ‘perturbante’ freudiano− l’identità fondamentalmente culturale e non ineluttabilmente naturale dello schematismo. Proprio “sospendendolo”, facendone epoché, è come se reintuissimo la sua vera identità, che è tutto sommato convenzionale. «Tutto ciò che vediamo», afferma lapidariamente Wittgenstein nella proposizione 5.634 del Tractatus logico-philosophicus, «potrebbe anche essere altrimenti». Attenzione, però: i mondi che ci sono aperti dall’astrazione pittorica non indicano affatto la riconquista di uno sguardo innocente, il ritrovamento della purezza del vedere, come potessimo disseppellire la genuinità di un’archè non ancora intaccata dalla differenza. Semmai il suo effetto, per così dire “decontratturante”, è quello di riaprire lo scarto tra oggetto-di-percezione e oggetto-di-discorso. Certo: lo sguardo guidato dagli schemi potrebbe forse anche identificare, riconoscere, intenzionare −dunque verbalizzare− in un’opera “astratta” case, alberi e uomini, «ma perché mai i vissuti percettivi come tali dovrebbero organizzarsi necessariamente secondo una struttura intenzionale (come percezioni di oggetti) invece che secondo altre

34  F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, trad. it. in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1971, vol. viii, t. ii, p. 51 e p. 53.

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strutture»35? Non restiamo forse comunque liberi, creativamente liberi di applicare o meno quegli schemi, di organizzare l’esperienza −prima di tutto quella percettiva− secondo diverse strutture organizzative che non siano quelle che intenzionano oggetti? «L’aspetto del mondo per noi sarebbe sconvolto», scrive Merleau-Ponty, «se riuscissimo a vedere come cose gli intervalli fra le cose −per esempio lo spazio fra gli alberi lungo il viale− e reciprocamente come sfondo le cose stesse −gli alberi del viale»36. E non diceva proprio questo Matisse, che voleva dipingere non le cose ma gli intervalli tra le cose? Riselezionando le modalità strutturali del nostro affaccio sul mondo, l’astrazione pittorica non contribuisce forse all’emersione di questa libertà, aprendo la possibilità, come direbbe Valéry, «di un gioco generale del pensiero»37? Le scoperte della microfisica sulla “lingua profonda del reale”, con la conseguente evoluzione dell’epistemologia, non hanno forse operato precisamente in questa direzione? Tra breve verificheremo più da vicino questa connessione con parte delle scienze contemporanee, ma già adesso possiamo ricordare alcune osservazioni di Bachelard: «non appena si mette il concetto di cosa sotto le proprietà dell’elemento corpuscolare, bisogna pensare i fatti di esperienza ritirando l’eccesso di immagine che si trova in questa povera parola cosa. Bisogna, in particolare, togliere alla cosa le sue proprietà spaziali. Allora il corpuscolo si definisce come una cosa non-cosa. È sufficiente considerare tutti gli “oggetti” della microfisica, tutti i nuovi venuti che la fisica designa con la terminazione -one −diciamo tutti gli -oni− per comprendere che cosa è una cosa non-cosa, una cosa che si singolarizza attraverso

35

R. De Monticelli, Dottrine dell’intelligenza. Saggio su Frege e Wittgenstein, De Donato, Bari 1982, p. 159. In questa parte del ns. lavoro abbiamo tenuto costantemente presenti in particolare le pp. 107-205. 36  M. Merleau-Ponty, Il cinema e la nuova psicologia, in Senso e non senso (Paris 1948); trad. it. il Saggiatore, Milano 1962, p. 69. 37  P. Valéry, Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, in Varietà (Paris 19241935); trad. it. Rizzoli, Milano 1971, p. 49.

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proprietà che non sono mai le proprietà delle cose comuni»38. Il gioco dei corsivi e delle virgolette (dell’autore), che sottolineano, i primi, e “sospendono”, le seconde, il linguaggio mimetico-raffigurativo rispetto al quale occorre operare una rottura epistemologica, è chiaro in questo brano più di qualsiasi altro commento. Analoga è la sensazione di una “tirannia degli oggetti” contro cui combattono −ovviamente attraverso differenti percorsi creativi− Malevi/, Kandinsky e Mondrian per liberarsi da ogni grammatica raffigurativa, non per riconquistare un linguaggio supposto innocente, ma per riappropriarsi della sua profonda, intima, finalmente libera costruttività. È qui per noi molto significativo, inoltre, che nell’ambito degli sviluppi della stessa fenomenologia la costituzione del “figurale” arrivi a essere posta in dubbio. Nelle straordinarie riflessioni di Merleau-Ponty sull’«invaginatura» del visibile nell’invisibile, l’obiectum perde quella cogenza intenzionale-“figurativa” che lo connette automaticamente al linguaggio. Collegando esplicitamente e a più riprese le sue considerazioni con l’astrazione pittorica e con la musica che si è liberata del sistema tonale, egli afferma che ogni visibile «comporta uno sfondo che non è visibile nel senso della figura», e «anche in ciò che ha di figurale o di figurativo, non è un quale ob-iettivo», pertanto «se per visibile si intende il quale oggettivo, in questo senso non è visibile, ma Unverborgen»39. Merleau-Ponty, insomma, fa segno verso un punctum caecum della coscienza in cui è la stessa visibilità a comportare per sua essenza una non-visibilità immanente e intrinseca, una rottura originaria, una deiscenza costitutiva in conseguenza della quale semantica e oggettualità, significatività e figuratività cessano di sovrapporsi.

38

G. Bachelard, Epistemologia (Paris 1971); trad. it. Laterza, Bari 1975, p. 58. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile (Paris 1964); trad. it. Bompiani, Milano 1969, p. 280. La citazione è tratta dalle mirabili Note di lavoro. 39

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In altre pagine straordinarie, quelle dell’Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, Paul Valéry si muove in sostanza nella stessa direzione: districare, sospendere il nesso preteso naturale tra schemi percettivi e figuralità degli oggetti, intenzionalità e cosalità, considerato, per di più, l’unico elemento, la conditio sine qua non per un autentico conferimento di senso. E lo fa esemplificando proprio dalla tecnica pittorica: «Il pittore dispone su una superficie piana determinati impasti, le cui linee di separazione, gli spessori, le fusioni e i contrasti, gli servono per esprimersi. Lo spettatore vi scorge soltanto un’immagine più o meno fedele di carni, gesti e paesaggi, come attraverso la finestra del muro di un museo. Il quadro è giudicato in base allo stesso spirito con cui si giudica la realtà […] Tuttavia», prosegue Valéry, «credo che il metodo più sicuro per giudicare un quadro sia quello di non riconoscervi, in principio, nulla, e di fare successivamente tutta una serie di induzioni imposte da una presenza simultanea di macchie di colore su una superficie circoscritta, al fine di raggiungere, di metafora in metafora, di supposizione in supposizione, la comprensione del soggetto, e talvolta solo la consapevolezza del piacere, consapevolezza che non sempre si ha inizialmente». Ma le pagine di Valéry sono preziose anche per il nesso che abbiamo evocato tra intenzionalità e linguaggio: «La maggior parte delle persone vede molto più spesso attraverso l’intelletto che non attraverso gli occhi. Al posto di spazi colorati, costoro individuano dei concetti. Una forma cubica, biancastra, tutta in altezza, forata da riflessi di vetri, è immediatamente, per loro, una casa: la Casa! […] Percepiscono più secondo un lessico che attraverso la retina […] buttano al macero tutto ciò che è sprovvisto di denominazione» (corsivo nostro)40. All’imposizione di schemi antropomorfi, qui Valéry sostituisce un procedimento indiziario che parte da un non sapere metodologi40  P. Valéry, Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, cit., nell’ordine, pp. 52-3 e p. 39.

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co il più radicale possibile, e che non si identifica affatto con una pretesa purezza fenomenologica del vedere (di fatto soggiacente ad abiti consuetudinari e procedure acquisite) e che non si vincola pregiudizialmente alla percezione per oggetti già consaputi, provenienti dall’acquisizione e dal “ritaglio” (anch’essi convenzionali, ovviamente) della realtà extra-pittorica. Che gli schemi intellettuali, i predicati aristotelici, e dunque il linguaggio, in qualche modo precedano e certamente guidino l’ordinarsi della percezione sensibile, è un fatto accertato anche in sede scientifico-sperimentale. Lessico e visione, ordine del verbale e ordine del visibile sono intimamente connessi. Lo attestano anche, da una parte, la moderna psicologia della percezione, dall’altra, la stessa linguistica contemporanea nelle sue varie articolazioni disciplinari. Ma ciò, di nuovo, non significa automaticamente quanto ineluttabilmente che sfera semantica e sfera oggettuale-“figurativa” coincidano fino a sovrapporsi, cioè che il senso-significato debba di necessità e costrizione risiedere soltanto nel perceptum cosale-“iconico”. Esiste forse uno spazio di manovra in cui poter districare, liberare, fare epoché del vincolo tra semanticità e figuratività: l’economia non associativa dell’astrazione pittorica e le logiche ad essa connesse dell’Ornamento vivono alimentandosene in questo spazio eccedente.

Epistemologia dell’Ornamento All’interno di una generale, strategica sospensione del rapporto soggetto-oggetto inquadrato dalla nozione di intenzionalità, è forse possibile proporre un’ipotesi di rilettura “in positivo” dell’Ornamento che non faccia più appello a quelle categorie, e che trova il suo riferimento concettuale e le sue basi metodologiche nell’ambito della teoria dei sistemi, della cibernetica, delle attuali ricerche sui sistemi cognitivi. Questo riferimento (in qualche misura anch’esso strategico e “sperimentale”) denuncia una sua generale e ampia collocazione 65

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all’interno degli sviluppi della scienza, fautori di quella “nuova epistemologia” che ha radicalmente revocato in questione le versioni più tradizionali dell’empirismo, del razionalismo e dell’idealismo. Percorreremo in termini suntuari questo itinerario, nella convinzione che quell’indebolimento delle categorie del soggetto e dell’oggetto cui assistiamo nell’ètimo stesso della pratica ornamentale, e di cui abbiamo fin qui seguito le tracce, può venir messo in contatto e associato allo stesso tipo di erosione di quella polarità a cui assistiamo nelle scienze moderno-contemporanee post-positivistiche. Non è infatti soltanto il soggetto che si frantuma per non recuperare più quella compiutezza che gli era stata accreditata nella tradizione metafisica da Descartes in poi. È anche l’oggetto stesso, il reale che, come noto, nelle nuove scienze della natura −e in particolare nella microfisica quantistica− rivela la sua trama discontinua, eventuale, probabilistica, ove non c’è più spazio per la legge di causalità e l’applicazione dei giudizi sintetici a priori di Kant. Ciò non significa, però, negare il determinismo classico; significa invece inglobarlo, assorbirlo nella nuova visione indeterministica che ne fissa con precisione l’estensibilità. Che non sia possibile −secondo le relazioni di indeterminazione di Heisenberg− misurare contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella non dipende da una locale, momentanea incapacità dell’osservatore e della sua strumentazione o dall’incompiutezza della nostra conoscenza, ma dalla natura indeterminata e statistica della cosa stessa, dalla sua quinta essentia, a partire dal dato sperimentale che a livello subatomico posizione e velocità non possono più essere considerate realtà oggettive permanenti. La fisica quantistica e le nuove scienze si regolano dunque secondo un principio di incertezza radicale. Si pensi soltanto alla situazione per cui, appunto, lo scienziato non si trova davanti a “oggetti” dal momento che, come scrive Schrö­ dinger, «il comportamento statistico degli elettroni non può essere illustrato da alcun paragone che li rappresenti come entità identificabili. Ed è perciò che dal loro comportamento statistico segue 66

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necessariamente che essi non sono entità identificabili»41. Appare inoltre importante sottolineare come questa radicale ridefinizione può associarsi a una ricerca epistemologica centrata sul concetto di complessità e interessata a lavorare sui limiti della conoscenza, considerati non più come impedimenti all’impresa scientifica ma come punti di partenza di nuove possibilità cognitive. Poiché solo un pensiero potente può descrivere la propria debolezza42. Se gli oggetti, gli enti materiali, delimitati e stabili della fisica classica e dell’esperienza empirica quotidiana si dissolvono in una rete di eventi interconnessi dominata da onde di probabilità; se il principio di indeterminazione introduce relazioni di incertezza nella connessione epistemica tra soggetto e oggetto, implicando la drastica rinuncia ai concetti intuitivi e alle leggi causali nella descrizione dei fenomeni atomici, e di conseguenza lo statuto ontico e il “significato” di una particella è immanente al metodo e all’apparato sperimentale con cui viene osservata, dal momento che misurare la posizione di un elettrone elimina la possibilità di misurarne la velocità; se l’attuale non è che un caso del possibile; allora, se tutto questo è vero, qualcosa come un “oggetto” o un “fatto” esistono solo se inseriti in un sistema di rilevazione che li conosce, li formula e li definisce come tali. Non si tratta quindi tanto di descrivere quanto di costruire. Come dire che paradossalmente, secondo quanto afferma Karl Popper, «i soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni ingiu-

41  E. Schrödinger, Che cos’è una particella elementare?, in L’immagine del mondo, trad. it. Boringhieri, Torino 1987, p. 266. 42  Ci siamo varie volte riferiti a questo panorama nei nostri lavori. Citiamo soltanto come esempio I tempi dell’arte, in A.a.V.v., Time Is Out of Joint, il libro-catalogo associato al nuovo allestimento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea realizzato su progetto di Cristiana Collu, 2018, e Malevi/. L’ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca Book, Milano 2019, pp. 54-9. Cfr. sui temi della “nuova epistemologia”, A.v.V.v., La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, Feltrinelli, Milano 1985.

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stificate e le speculazioni infondate»43. Così, l’accrescimento della conoscenza è inversamente proporzionale al grado di probabilità che ci disponiamo a ottenere. Non vi è alcuna ragione fondante e ultimativa che garantisca a priori l’impresa scientifica, e ciò significa che essa è costituzionalmente aperta; che determinare il carattere oggettivo di un processo fisico non vuole dire aver raggiunto un assoluto, ma disporre della prova di aver correttamente applicato un certo metodo; che all’interno di ogni paradigma conoscitivo il primato è appannaggio della teoria e dell’errore poiché, appunto, l’osservazione si svolge sempre alla luce di teorie. Non possiamo dissociare completamente l’ordine del dato dal metodo della sua descrizione; impossibile distinguere astrattamente il “linguaggio della realtà” da quello con il quale la si osserva. «Le parallele esistono dopo, non prima del postulato di Euclide», scrive Bachelard, «la forma estesa dell’oggetto microfisico esiste dopo e non prima che sia stato enunciato il metodo di fissazione geometrica»44. Qui risiedono le matrici costruttiviste dell’epistemologia che ha definitivamente abbandonato la presupposizione di un oggetto, dato o fatto installati a un livello di realtà anteriore al processo cognitivo che dovrebbe semplicemente, “iconicamente” rappresentarlo. Richiamato in maniera indicativa questo panorama, facciamo un ulteriore passo di avvicinamento verso un’ipotesi di rilettura più stringente dello status ornamentale. Il primo riferimento teorico va a quel progetto di “conoscenza della conoscenza” (evidente la radice kantiana)45 che focalizza la sua attenzione sulle procedure analitiche di autoriferimento. Le situazioni originate dalle propo43

K. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934); trad. it. Einaudi, Torino 1970, p. 310. Sull’importanza e soprattutto lo sviluppo di questi motivi cfr. di P. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975); trad. it. Feltrinelli, Milano 1979, e Dialogo sul metodo (1979), trad. it. Laterza, Roma-Bari 1989. 44  G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico (Paris 1934); trad. it. Laterza, Roma-Bari 1978, p. 126. 45  È questo il titolo del libro di E. Morin (Paris 1986); trad. it. Feltrinelli, Milano 1989.

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sizioni autoreferenziali sono state a lungo considerate fattori di impedimento e stasi della ricerca, ma oggi vengono ritenute invece stimoli a più profonde comprensioni strutturali. Nella teoria dei sistemi sviluppatasi a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, il rapporto tra ambiente e sistema era modellizzato secondo i termini del rapporto tra input e output, ‘entrata’ e ‘uscita’, cioè secondo una logica performativa di stimolo-risposta, in quanto il sistema veniva considerato essenzialmente sotto il profilo della sua progressiva adattabilità all’ambiente esterno in cui si trovava. Ma se la svolta, se la “rottura epistemologica” −come la chiama Bachelard− è quella del passaggio da una legge prescrittiva e necessitante a una legge intesa come espressione di un vincolo, da un paradigma “chiuso” basato sull’alternativa necessario/non necessario a un paradigma “aperto” basato sull’alternativa possibile/non possibile, allora non si tratta più di sapere la causa che ha portato al prodursi di una certa situazione, di sapere perché una certa cosa è avvenuta, ma di sapere piuttosto «quali costrizioni hanno operato in modo tale che “qualsiasi cosa” non sia avvenuta»46, operando così selezioni significative in base alle esigenze di auto-organizzazione del sistema osservato. Si passa in tal modo −nella teoria dell’informazione, nelle scienze biologiche e cognitive− dalla prospettiva del controllo, inerente a un’istanza ambientale esterna, alla prospettiva dell’autonomia, in base alla quale diventa prioritario considerare la struttura interna del sistema, la sua chiusura organizzazionale. L’ambiente non è più interpretato come sorgente “motivazionale” di inputs e outputs che determinerebbero il learning, cioè il programma del sistema, ma come fonte di perturbazioni e compensazioni in base alle quali il sistema diventa via via organizzativamente più complesso. Il vivente non appartiene alle strutture in equilibrio termodinamico 46  A. Wilden, La scrittura e il rumore nella morfogenesi del sistema aperto, in A.a. V.v., in Teorie dell’evento, a cura di E. Morin, trad. it. Bompiani, Milano 1974, p. 84. Cfr. anche A.a.V.v., Da una scienza all’altra. Concetti nomadi, a cura di I. Stengers (Paris 1987); trad. it. Hopefulmonster, Firenze 1988.

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caratterizzato dall’irreversibilità che (come ad esempio i cristalli) si mantengono identiche a se stesse perché senza scambio di energia, ma si colloca invece tra le strutture dissipatrici47, che possono conservarsi unicamente attraverso lo scambio di energia o di materia con l’ambiente esterno. Qui è il punto di connessione con le scienze biologiche. Quello scambio non viene più interpretato sotto la lente di una logica ottimizzatrice secondo cui il sistema corrisponde progressivamente quanto “raffigurativamente” alla realtà data, ma secondo una logica di coerenza autopoietica: il sistema nervoso, ad esempio, non è più pensato riprodurre il mondo esterno adattandovisi; piuttosto lo “costruisce” seguendo i vincoli e le compatibilità strutturali che la sua chiusura organizzazionale −la sua “identità”− intrattiene con esso, selezionando tra gli stimoli esterni quelli significativi e quelli non significativi in ordine ai processi di mutamento e ristrutturazione del sistema stesso. Questa profonda ridefinizione del paradigma epistemologico è strettamente associata alla reintegrazione dell’osservatore nelle proprie descrizioni tipica della fisica indeterministica. La fisica classica −lo abbiamo già ricordato− con il suo paradigma meccanicista partiva dall’assunto di poter descrivere il reale a prescindere dal soggetto operatore, come se questo non ne facesse parte. Proprio la postulazione di questa assenza si accompagnava alla predicazione di un punto di vista unico, assoluto, prospetticamente infinito e all’asserzione della perfetta, trasparente neutralità del linguaggio operativo utilizzato per osservare-misurare l’oggetto. La fisica dei quanta, con i suoi principi indeterministici, reintroduce il ruolo del soggetto; ma ciò non significa che la mente dell’osservatore −portatrice di una propria legalità indipendente dall’oggetto sottoposto a misurazione− si trovi “nell’”evento subatomico. Significa piuttosto che la propagazione di una particella nello spazio, presa isolata47

Il riferimento va ovviamente alle ricerche di Ilya Prigogine, cfr. I. PrigogineI. Stengers, La nuova alleanza (Paris 1979); trad. it. Einaudi, Torino 1981.

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mente, non può considerarsi ancora un vero e proprio fenomeno sufficientemente rilevante: soltanto l’insieme coordinato costituito dal dispositivo emettitore, dalla particella, dal mezzo attraversato e dal ricevitore è un fenomeno che la scienza fisica può legittimamente descrivere e analizzare, ed è questo complesso di interdipendenze che diventa il nuovo, vero oggetto dell’impresa scientifica. L’integrazione del ruolo dell’osservatore, quindi, non coincide affatto con una rivalutazione del Soggetto legislatore, ricompositivo-sintetico, astrattamente metalinguistico, che garantirebbe il “vero” e privilegiato livello di osservazione. Si tratta piuttosto di un soggetto che −ridefinito nella sua fondamentale insecuritas− è sede di conflitti subordinati a logiche via via differenti di cooperazioni sistemiche e di fluttuazioni di eventi. L’accento cade dunque sul suo carattere costruttivo, valutato secondo «il riconoscimento dell’irriducibilità di una molteplicità di punti di vista vicarianti nella costituzione di un universo cognitivo»48. Facciamo ora un altro passo avanti verso quella rilettura della logica ornamentale che ci siamo riproposti. I sistemi autoregolatori o autopoietici, come li chiamano i biologi Humberto Maturana e Francisco Varela (quei sistemi cioè che si sviluppano con i loro stessi mezzi, come ad esempio gli esseri viventi, in cui l’essere e l’agire sono indivisibili), non hanno solo la capacità di resistere al rumore, ma soprattutto di utilizzarlo e di trasformarne la perturbazione in fattore organizzativo. Nell’ambito della teoria dell’informazione, le forme di autopoiesi sono collegate al principio dell’order from noise, cioè dell’ordine che si crea a partire dal proprio contrario, il rumore, che è di natura sostanzialmente aleatoria e indeterministica. Tale principio è stato teorizzato per la prima volta nel 1959 dal ciberneti48  M. Ceruti, La costruzione del soggetto e il soggetto della costruzione. Per una teoria dell’osservatore, «Intersezioni», 3, 1985, p. 517. Dello stesso autore, cfr. anche La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano 1989.

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co Heinz von Förster, contrapponendolo al principio dell’order from order sul quale si fondavano le teorie termodinamiche del vivente iniziate dal fisico Erwin Schrödinger e che si limitava a concepire un sistema auto-organizzatore come quello che è capace di conservare il proprio ordine interno annettendosi l’energia dell’ambiente. L’introduzione della categoria del rumore seleziona come prioritario il carattere flessibile ed elastico del sistema auto-organizzatore ampliandone lo spazio di autonomia e la capacità di sapersi adattare, rispondendovi, a situazioni imprevedibili e aleatorie. Se un sistema chiuso come quello studiato dalla cristallografia non è in rapporto essenziale con l’ambiente, e può quindi venir definito in termini energetici, il vivente, in quanto sistema aperto, deve essere spiegato in termini informazionali, poiché si definisce secondo una complessità coordinata alle informazioni che riceve e integra dall’ambiente esterno, intese come localizzazioni di entropia negativa, cioè come manifestazioni di temporaneo ordine in un universo entropico, vale a dire tendente di per sé al disordine. Il rumore è la misura della perturbazione reale del e nel sistema, ed è la sola fonte possibile di nuovi patterns. Esso è provocato nel sistema dai fattori aleatori dell’ambiente e, se guardiamo il fenomeno da un punto di vista esterno, questa subordinazione alla casualità produce degli errori. Ma da un punto di vista interno, il punto essenziale è che il sistema è in grado di reagire, di rispondere agli errori ed eventualmente integrarli ristrutturandoli nella sua organizzazione, dunque di trasformarne la natura, o meglio la funzione. Perciò l’aumento dei livelli di complessità del sistema si nutre, per così dire, del rumore, e dipende in ultima analisi dalle variazioni aleatorie cui è sottoposto. Viene qui di nuovo confermato il carattere eminentemente costruttivo −oltre che paradossale-antinomico− di questi processi. Infatti è la reazione auto-organizzativa del sistema che li seleziona per riconoscere e determinare, a posteriori, la natura aleatoria dei fattori ambientali, ma allo stesso tempo «questi processi possono esistere solo in quanto gli errori sono proprio dei veri errori», scrive 72

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il biologo Henri Atlan, «l’ordine a un momento dato è veramente turbato dal disordine, la distruzione per quanto non totale è reale, l’irruzione dell’evento è una vera irruzione (una catastrofe o un miracolo o tutti e due)»49. Tale processo, dunque, non può definirsi né teleologico-intenzionale, perché non vi è alcun scopo predeterminato che lo guida (l’informazione è essenzialmente improbabilità); né come sintesi dialettica di tesi e antitesi, perché il rapporto che si stabilisce tra ordine e caos, organizzato e contingente, entropia negativa ed entropia positiva resta fondamentalmente un rapporto di conflitto e di opposizione radicale. I linguaggi dell’Ornamento possono in parte essere riletti secondo questi assi interpretativi. Sia in senso sincronico, rispetto alla loro grammatica interna; sia in senso diacronico, considerando i loro sviluppi storici. Tutto Stilfragen potrebbe rileggersi in questa chiave sistemica: le ibridazioni tra stile araldico e stile geometrico; i processi di sviluppo endogeno dello stile vegetale e i suoi interscambi con il codice figurativo compiuto; le connessioni per omologazioni integrali e per alterità residue che si verificano all’interno di uno stesso corpus stilistico tra elementi formali diversi e di diversa provenienza, “incrociata” rispetto agli apporti e ai contributi delle varie civiltà e culture visive che confluiscono nella creazione di nuovi stilemi. I sistemi decorativi forti (quello greco classico, ad esempio, per certi versi il più potente nel bacino mediterraneo e nell’intero Occidente quanto a repliche “genetiche” del messaggio nel tempo) tendono a minimizzare l’impatto redistributivo o comunque perturbatore del rumore, e potrebbero quindi caratterizzarsi come sistemi ad entropia quasi-neutra; lo stesso che ha governato, ad esempio, il passaggio dal latino all’italiano, in cui certo assistiamo a un mutamento del codice linguistico, ma non si tratta di un mutamento di 49  H. Atlan, Sul rumore come principio di auto-organizzazione, in Teorie dell’evento, cit. pp. 56. Di Atlan, cfr. anche Tra il cristallo e il fumo. Saggio sull’organizzazione del vivente (Paris 1979); trad. it. Hopefulmonster, Firenze 1988, e A torto e a ragione (Paris 1987); trad. it. Hopefulmonster, Firenze 1989.

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complessità organizzativa interna (che semmai, una volta stabiliti alcuni parametri di base, potremmo vedere diminuita). In questi termini, sarebbe possibile seguire l’evoluzione dei motivi ornamentali (l’acanto, ad esempio) in relazione alla comparsa di ordine ambientale di motivi-rumore (di natura geo-politica, sincretismi stilistico-culturali, ecosistema sociale) che tendono con varia fortuna a mutarne l’aspetto, all’interno dei quali poter seguire quei processi di selezione −coordinati dalla chiusura organizzazionale del sistema dato idest dalla sua potenza in termini di autonomia formale− che portano alla ridistribuzione interna e “temperata” delle soluzioni ornamentali, oppure alla vera e propria creazione di nuovi patterns. Ciò che caratterizza i sistemi autopoietici, scrive Atlan, «è uno stato ottimale che si situa fra i due estremi di un ordine rigido, inamovibile, incapace di modificarsi senza essere distrutto, come è l’ordine del cristallo, e di un rinnovamento incessante che evoca il caos e gli anelli di fumo. Evidentemente questo stato intermedio non è fisso, ma consente di reagire a perturbazioni casuali non previste attraverso mutamenti di organizzazione che non siano una semplice distruzione dell’organizzazione preesistente, bensì una ri-organizzazione che consenta l’emergenza di nuove proprietà. Queste nuove proprietà possono essere una nuova struttura o un nuovo comportamento condizionato a sua volta da nuove strutture»50. Non intuiamo forse da queste parole la possibilità di applicarle cum grano salis alla logica ornamentale? L’exemplum dell’Ornamento può essere considerato in realtà suscettibile di reinterpretarsi in chiave sistemico-informazionale. Uno dei metodi o dei comportamenti del sistema per resistere al rumore o per mettersi comunque in relazione con esso −cioè per scoprire e correggere eventuali errori indotti dall’esterno nella trasmissione dei messaggi− è quello di introdurre al suo interno una quota di 50  H. Atlan, Complessità, disordine e autocreazione del significato, in La sfida della complessità, cit., p. 166.

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ridondanza, cioè una ripetizione degli elementi che compongono la catena del messaggio. Ebbene, nessun organismo stilistico quanto quello ornamentale si basa sulla ripetibilità e l’iterazione dei propri tratti distintivi, eventualmente accompagnata da quella che si esercita (per fare un’analogia con la linguistica) sui tratti soprasegmentali, cioè su quelli considerati, sotto date condizioni, non essenziali alla sua identificabilità e dunque indifferenti rispetto alla sua classificazione tassonomica, come ad esempio il margine flessivo di una incurvatura dei petali della rosetta, il senso direzionale degli inanellamenti progressivi negli intrecci gotici o il grado di pressione che dà vita al tratto, ora spesso ora sottile, delle linee calligrafate nella composizione delle lettere nei codici miniati irlandesi. Anche nel caso di sistemi fortemente autonomi deve potersi concepire uno scambio informazionale con l’ambiente e le sue istanze esterne. E in effetti a rigore non si può parlare di auto-organizzazione in senso stretto se ciò significa assenza assoluta di qualsiasi rapporto esogeno-endogeno. I mutamenti nell’organizzazione dei sistemi sono indotti dall’esterno in due modi: mediante l’inserzione di un programma (e la diversa risposta a questo input distingue, secondo von Förster, le macchine banali da quelle non banali, cioè quelle il cui comportamento è prevedibile-controllabile a priori da quelle che non lo sono), oppure dai fattori di aggressione aleatoria dell’ambiente, ovviamente privi di patterns su cui ipotizzare un programma. Solo in questo secondo caso si può parlare di un’autentica auto-differenziazione e autopoiesi del sistema, con un ambiente visto non come agente di controllo ma come l’insieme stratificato dei vincoli in rapporto ai quali il sistema può operare. Se accettassimo in toto l’ipotesi di mutamenti del sistema determinati da un progamma, arriveremo ben presto, nella storia e nella fenomenologia degli stili artistici e in particolare ornamentali, all’ipostatizzazione di una specie di super-istanza (di natura comunque “sovrastrutturale” rispetto alla formazione sintattico-grammaticale del codice) alla quale ri(con)durre tutti i possibili mutamenti diacronici. È il limite 75

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maggiore dello storicismo e del sociologismo volgare. Se infatti il programma viene considerato sotto l’aspetto della sua localizzazione interna, come produttore automatico della successione controllata dei vari stati interni del sistema, il risultato a cui si perviene è quello di un determinismo strutturale, di un teleologismo positivistico che riuscirebbe a stabilire in anticipo ogni possibile variazione-innovazione del codice, ed è quello che vedremo più avanti all’opera in alcune interpretazione della nozione riegliana di Kunstwollen. L’ipotesi più percorribile vede un profondo, istitutivo intrecciarsi tra funzioni interconnesse, cioè tra insiemi coagulati da relazioni nomotetiche e da solidarietà sistemiche, da una parte, e dall’altra da catene aleatorie, caratterizzate dall’imprevedibilità relativa dovuta all’eventuale incontro con i fattori casuali dell’ambiente. L’orizzonte descrittivo più consono alle tensioni interne della logica ornamentale potrebbe quindi essere, da questo punto di vista, quello che lo riconsidera, in quanto sistema complesso, sotto forma di una sorta di autopoiesi a bassa intensità di indeterminismo caotico: l’unico che forse può rendere conto del suo funzionamento non in chiave di feticistica ripetibilità del segno o del motivo, ma in termini di assunzione-integrazione-complessificazione da parte dello schema iterativo della stessa variazione, in un gioco dai rimandi tendenzialmente infiniti di intervalli regolari e improvvise cesure, continuità e discontinuità, ripetizioni dell’identico e microcatastrofi. La logica ornamentale, quindi, va riconsiderata non facendo ricorso a forme predeterminate di equilibrio, ma a processi dinamici di ri-equilibrazione in cui si intrecciano compensazioni regolative a nuove costruzioni. Secondo il principio dell’order from noise, il sistema affonta dunque il rumore dell’ambiente esterno mettendolo in relazione al suo codice (nel caso della catena ornamentale, il pattern visivo e gli schemi iterativi che ne governano la sintassi) e traducendolo in unità di informazione. Il rumore diventa una traccia. Il sistema può a questo punto, al fine di conservare la sua vitalità, reagire in 76

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due modi. Può proteggere la sua identità producendo una massiccia ridondanza interna che finisce per ridurre all’insignificanza il rumore, impedendo il cambiamento e mantenendo inalterato il proprio status auto-riproduttivo. La situazione rispetta allora un principio di morfostasi, e può essere quella già evocata dei sistemi decorativi forti, tendenzialmente permanenti, regolati su potenti leggi di coesione sistemica interna, impermeabile sia a influenze o fluttuazioni esogene, sia a deliberate appropriazioni provenienti dall’esterno, come ad esempio la grammatica ornamentale classica una volta adottata da civiltà e culture diverse o che comunque non hanno partecipato −per motivi, poniamo, storico-geografici− alla sua costituzione. Nel secondo caso (che ovviamente può intrecciarsi al primo per sincronia o diacronia) il sistema può rispondere “costruttivamente” al rumore autodifferenziandosi. Il rumore si trasforma allora in una sorta di traccia mnestica. In fase di mutazione, il sistema si rammemora del rumore come elemento che induce variazioni. E se la traccia è −come sostiene Derrida− una ritenzione della differenza affiché essa possa trasmettersi in ritardo, in questo passaggio il rumore, da originariamente aleatorio, diviene riproducibile complessificando il sistema che lo ha accolto. Nelle ibridazioni reciproche tra diversi stili ornamentali (e ancora una volta il riferimento testuale può andare a Stilfragen), i processi per differenze e sincretismi possono perfettamente essere restituiti in questa chiave. Una variazione grafica, uno scostamento locale dell’asse geometrico, purché significativo, si inseriscono nella catena ornamentale sotto la veste di tracce portatrici di disorganizzazioni strutturali, inscritte nella sua memoria considerata come una forma di inscrizione di differenze. Al pari del linguaggio musicale, quando una frase, un tema vengono accennati e in seguito, attraverso riprese e variazioni, sviluppati, così nella catena ornamentale un’affluenza di microtrasformazioni nel motivo (gli agganci di un nodo, le arcuazioni di un polilobo, le cesure intervallate di un intreccio) può condurre talora a una radicale riorganizzazione del motivo stesso e 77

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a un aumento di complessità interna della catena, secondo processi che possono ad esempio riscontrarsi nell’impatto dell’ornato arabo sull’Occidente gotico (Tav. 6). È precisamente all’interno di questo sincretismo stilistico, sul quale torneremo quando esamineremo l’ornato islamico, e che già di per se stesso si presenta come un rapporto tra sistema (il patrimonio stilistico occidentale) e ambiente (il “rumore” trasformato in unità informazionale costituito dall’influenza musulmana), che sceglieremo di recuperare ora la maggior parte delle esemplificazioni concrete. Per descrivere gli schemi di sviluppo della conoscenza, Jean Piaget, nel suo L’equilibrazione delle strutture cognitive, utilizza alcuni motivi del pensiero cibernetico e parla di «processi successivi di equilibrazione “maggiorante” interrotti da disequilibri, in modo che il passaggio da questi, o da forme imperfette di equilibrio, a forme “migliori” supponga ad ogni tappa l’intervento di costruzioni nuove, ma esse stesse determinate dalle esigenze delle compensazioni e delle riequilibrazioni: in un tale modello l’equilibrio e la creatività non sono dunque più antagonisti, ma strettamente interdipendenti»51. Non vi è nessuna forma di determinismo all’opera; i livelli su cui si assesterà l’equilibrio non sono prevedibili in toto. Vi è semmai un continuo gioco di apertura e chiusura, modificazione e conservazione, produzione di novità e permanenza di invarianti, costruzione e compensazione. Ciò è collegato al fatto già precedentemente accennato che le equilibrazioni dinamiche del sistema non sono innescate soltanto dall’esterno, dall’ambiente, ma anche −in un processo di second’ordine− da quelle spinte riorganizzative che all’interno del sistema hanno luogo in risposta proprio di quelle stesse aggressioni esogene: «il motore che fa sì che l’evoluzione si produca non può essere che interno ai sistemi (viventi e cogniti51  J. Piaget, L’equilibrazione delle strutture cognitive (Paris 1975); trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1981, p. 186.

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vi), relativo, cioè, alle capacità assimilatrici dei sistemi stessi»52. E questa è un’ulteriore prova delle capacità autopoietiche di questi sistemi, che li colloca aldilà di ogni possibile caratterizzazione in termini univocamente, rigidamente omeostatici. A questo punto −applicando il principio dell’order from noise− Piaget classifica i processi di equilibrazione secondo tre diversi tipi di condotte, che chiama alfa, beta e gamma. Le condotte alfa possono suddividersi in due sottospecie: se la perturbazione dell’ambiente è ridotta, il sistema si riaggiusta producendo uno scarto in senso contrario al rumore; in caso di perturbazione più forte, la nega, la rimuove completamente, la rimette alla più totale insignificanza. Nelle condotte beta, il rumore è integrato all’interno del sistema e compensato da una variazione nella struttura organizzativa che modifica l’equilibrio e costruisce nuove relazioni in grado di assimilare la perturbazione. Tale operazione avviene stavolta −come accenavamo prima, mediante un processo di second’ordine− sullo schema di assimilazione e non direttamente sul rumore ambientale. La compensazione si produce dunque a posteriori (in sostanza, è lo schema della traccia supportata da una memoria come forma di inscrizione della differenza). Di conseguenza permane una residua dualità tra fattori endogeni e fattori esogeni, anche se la variazione ambientale viene integrata e ammessa dal sistema. Nel caso delle condotte gamma, il rumore perturbativo è totalmente integrato nel sistema, trasformandosi così in agente di ristrutturazioni interne registrate stavolta su schemi di variazioni del tutto prevedibili, associate alla sua chiusura, al suo autonomo procedere. Cerchiamo ora (con la dovuta flessibilità e dunque scontate tutte le approssimazioni del caso) di applicare questo schema ai materiali dell’ornato che, per la loro maggior parte, sono emersi nella fase di sincretismo storico precedentemente richiamata53. 52  53

M. Ceruti, La danza che crea, cit., p. 190. Abbiamo tenuto costantemente presente per questa parte J. Baltrušaitis, Il Me-

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La prima sottospecie delle condotte alfa si può applicare allo sviluppo della mezza foglia rumi. È questo un motivo ornamentale islamico che alcuni studiosi fanno risalire a contesti iranici, altri a origini bizantine (rumi significa ‘romano’, e sembra che bend-rumi, ‘rumi legato’, sia un termine ancor oggi in uso presso i miniaturisti turchi e persiani). Dal iv secolo −ove compare negli stucchi sassanidi− fino al Duecento (quando diventerà un motivo ormai classico), il rumi si sviluppa secondo un processo di sempre maggiore astrazione, assottigliamento e ammorbidimento delle linee, che entro certi termini si può interpretare come un insieme di progressive, lente riequilibrazioni grafiche, semplici modifiche dello schema-base di mezza foglia appuntita, somigliante alla lama ricurva di una scimitarra. Per la seconda sottospecie delle condotte alfa, si può fare di nuovo riferimento a quei sistemi ornamentali forti, che riescono a respingere e a trasformare in stimoli non significativi ogni aggressione proveniente dall’esterno. È anche vero che, sotto un diverso punto di vista, tali sistemi possono considerarsi deboli, proprio perché incapaci di evolversi; e si potrebbe anche aggiungere che essi, a loro volta, rappresentano in certo modo l’ambiente nei rispetti degli altri stili o declinazioni ornamentali su cui esercitano la loro attrazione. Il secondo tipo di condotte, quelle che Piaget chiama beta, ci permettono di tornare al motivo rumi. Qui la questione si presenta più complessa e interessante. In ambiente gotico, ben presto il rumi− utilizzato ampiamente anche nei manoscritti− ispira superfetazioni di tipo zoomorfico, fitomorfico e antropomorfico, ibridandosi totalmente. Sulla punta o di fianco rispetto al pattern di base, prendono vita microinnesti di piccoli animali, zampette, foglie vere e proprie, figurine umanoidi. E sono precisamente queste germinazioni che caratterizzano e siglano l’ornamentazione gotica che conosciamo, dioevo fantastico (1972); trad. it. Adelphi, Milano 1973, uno studio fondamentale sul mundus imaginalis dell’Età di mezzo.

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in una profusione mirabolante di motivi fantastici e variazioni immaginifiche. Assistiamo a una microcatastrofe, perché si verifica un mutamento nel livello organizzativo e strutturale del sistema, dato che l’inclinazione sostanzialmente geometrico-aniconica del rumi partorisce dal suo stesso seno forme raffigurative identificabili semanticamente. Si verifica insomma un viraggio del codice visivo, tanto che questa fauna teratologica si libererà nel tempo dall’intreccio di base che l’ha accolta, o per meglio dire prodotta. Talora è il motivo rumi stesso che si trasforma nella coda di un animale, in un mezzo tronco umano, in un pesce, automodificandosi a seconda delle esigenze “ambientali”, e producendo dunque una sorta di compensazione diretta sullo schema assimilatore, cioè un autoriassestamento organizzativo profondo. Permane quindi una dualità tra elemento endogeno e fattore esogeno. Vedremo tra breve che lo stesso processo può essere considerato anche da un altro punto di vista, passando dalla condotta beta a quella gamma. Un tipico esempio della condotta gamma si ha con l’integrazione completa e definitiva del motivo “a nastro di nuvole” da parte dell’ornamentazione islamica. Si tratta di un tema decorativo che raffigura naturalisticamente un cumulo di nubi, originario della Mongolia e comunque dell’Asia Orientale. La potente vis aniconica e tipizzante dell’ornato musulmano lo trasforma totalmente in un elemento portatore del solo valore sintattico-posizionale, e perde la sua carica figurativa. La sua possibilità perturbatrice rispetto al sistema diventa una variazione interna al sistema stesso: prevedibile, replicabile, facilmente deducibile dalla sua chiusura organizzazionale, che elimina alla radice ogni possibile conflitto esogeno. (A ben vedere, da questo punto di vista, anche quello islamico è un sistema ornamentale forte, a condizione di riferirsi alla sua capacità di mantenersi e replicarsi in virtù delle sue relazioni con l’esterno). Se consideriamo sotto un altro e complementare aspetto il processo cui è sottoposto il motivo rumi, lo si può rileggere anche sotto lo schema delle condotte gamma. Infatti, esso secerne sì elementi catastrofici 81

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di natura zoomorfa o antropomorfa, ma questi si dispongono comunque (e qui entra in gioco anche lo sviluppo storico-diacronico di organismi di per sé dinamici e dunque espansi nel tempo secondo una moltitudine di articolazioni e direttrici stilistico-formali) secondo uno schema assiale di base innestato su direzioni geometrico-astratte, disposizioni “grammaticali” che si possono in ogni caso far risalire all’origine rumi. In questo senso, le perturbazioni che questi elementi estranei innescano nel sistema vengono integrate nella sua organizzazione interna. La compensazione diretta in senso aniconico-geometrizzante (secondo un procedimento tipico, peraltro, dell’Ornamento in generale, portato alla stilizzazione del motivo, figurale o meno che sia) riesce quindi −alla luce della condotta gamma− a trasformare le superfetazioni antropomorfe e zoomorfe in variazioni interne prevedibili e integrarle nell’ordine simmetrico dei suoi patterns. Anche lo sviluppo storico dell’ornamentazione può dunque essere interpretato (ripetiamo: con la dovuta flessibilità) secondo gli schemi epistemologici di una equilibrazione maggiorante che considera il raggiungimento della compatibilità tra sistema e ambiente come il risultato perennemente in fieri di processi ininterrotti di disorganizzazione e riorganizzazione, come equilibrio dinamico tra compensazione e costruzione, permanenza e novità, vincolo e possibilità.

Intermezzo ISLAM Ci vengono in mente qui le decorazioni di una moschea araba, in cui si trovano tutte insieme così tante simmetrie, che non si può modificare un singolo elemento senza rompere l’armonia del tutto. E proprio come queste decorazioni esprimono lo spirito della religione da cui hanno origine, così nelle proprietà di simmetria della teoria dei quanti si riflette lo spirito dell’epoca scientifica inaugurata dalla scoperta di Planck Werner Heisenberg

1 L’Islam è teologicamente contrario alla rappresentazione scultorea o pittorica di esseri viventi nei luoghi di culto religioso. Nonostante l’estrema complessità dei fattori in gioco, appare logico e storicamente accertabile connettere questa interdizione all’impetus ornamentale dell’arte islamica, alla sua potente identità geometrica e aniconica, alla netta preferenza accordata alla scrittura nella diffusione del credo musulmano1. Un’identità che si fonda sulla 1  Sarà bene ripetere che nell’ambito dell’itinerario interpretativo che stiamo seguendo attraverso il principio dell’Ornamento, queste brevi pagine “islamiche” non vogliono e non possono essere più che un excursus di carattere non specialistico, del tutto esemplificativo e suntuario. Riportiamo qui i testi che abbiamo tenuto presenti come fonte documentaria e da cui talora abbiamo tratto alcune ipotesi di natura storico-ricostruttiva: O. Grabar, Arte islamica. La formazione di una civiltà (Yale 1973), trad. it. Electa, Milano 1989; Id., The Mediation of Ornament, Princeton University Press, Princeton 1992; G. Curatola-G. Scarcia, Le arti nell’Islam, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1990; T. Burckhardt, L’arte sacra in Oriente e in Occidente (Lyon 1974), trad. it. Rusconi, Milano 1976; Id., Considerazioni sulla conoscenza sacra, trad. it. SE, Milano 1989; F. Schuon, Comprendere l’Islam, trad. it. SE, Milano 1989; J.D. Hoag, Architettura islamica, trad. it. Electa, Milano 1978; J. Baltrušaitis, Il Medioevo

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tradizione e che dunque si perpetua ancor oggi nella cultura estetica dell’Islam. La facciata sud dell’ima (Institut du Monde Arabe) progettata da Jean Nouvel a Parigi, ad esempio, è perfettamente equilibrata tra l’apporto contemporaneo dell’alta tecnologia e l’ispirazione “classica” dell’ornato geometrico tradizionale (Tav. 7). Si tratta di un’enorme “grata”, un masharabiyya (Tav. 8) a moduli ripetuti (quadrati, cerchi, esagoni formati dalla parziale sovrapposizione di lamine in alluminio) che un sistema computerizzato dilata o restringe (proprio come le lamelle dell’occhio fotografico) a seconda dell’incidenza luminosa dell’esterno, proiettando così sulle pareti, sul suolo, sui soffitti degli interni, ombre e riflessi cangianti ed equorei, sintesi di luce e geometria. Il messaggio fondamentale del Corano consiste nell’assoluta, indefettibile unità, unicità e trascendenza di Dio. Stolto, prima che espressamente proibito, sarebbe pensare di poterne fare un’immagine, un simbolo concreto e visibile dunque imperfetto, fonte di errori e di tentazioni. Solo Allah onnipotente e infigurabile è il vero musawwir, l’unico, autentico ‘plasmatore’ di questo mondo. Un mondo che è fuggevole e caduco, per la sensibilità e l’etica musulmana; tutto ciò che lo compone e vi si svolge è transitorio e volatile, destinato alla corruzione e alla fine. Per quale ragione, dunque, riprodurne le mutevoli parvenze? Perché raffigurarne i fenomeni, per loro stessa natura fragili, cangianti e inessenziali fantastico (Paris 1972), trad. it. Adelphi, Milano 1973, in particolare i capitoli «Ornamenti e cornici islamici» e «Arabeschi fantastici»; A. Riegl, Antichi tappeti orientali (1891), trad. it. Quodlibet, Macerata 1998, con il saggio di S. Bettini, Poetica del tappeto orientale; Eredità dell’Islam. Arte islamica in Italia, a cura di G. Curatola, Silvana Editoriale, Roma 1993; «Revue d’esthétique», 35, 1999, fascicolo dedicato al tema «Image et parole dans l’Islam». Sulla questione iconoclastica la bibliografia è, ovviamente, sterminata. Ci limitiamo dunque a segnalare l’ampio studio di A. Besançon, L’image interdite. Une histoire intellectuelle de l’iconoclasme, Fayard, Paris 1994, che ha tra i molti suoi meriti quello di spingersi fino alle arti moderno-contemporanee per analizzare il modo in cui al loro interno viene riformulata la problematica iconoclasta. Ma precisamente su questo ultimo punto, cfr. il ns. Malevi/. L’ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca Book, Milano 2019.

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rispetto all’unica realtà metafisica, certissima e inconcussa, cui valga la pena conformarsi, quella spirituale e invisibile? L’artefice di immagini e di figure –in particolare di quelle che proiettano ombre, che più alludono-illudono fingendo la plasticità, la “verità” della vita− è dunque soltanto simia dei, abissalmente incomparabile al Creatore Primo. Secondo una prospettiva specificamente estetico-formale, ciò potrebbe venire assunto come un tratto per così dire di “modernità” dell’arte islamica (cosa di cui molti artisti contemporanei sono ben consapevoli), nel senso che essa −separandosi da una dimensione o funzione generalmente metaforico-rappresentativa− si darebbe come letteralmente autonoma. In effetti essa segue, esprime e sviluppa soltanto la natura, i principi immanenti e le leggi intrinseche alle proprie singole datità fenomenico-strutturali, senza alcuna allusione a sfere o piani d’esistenza diversi. Così ad esempio il carattere essenziale dell’architettura musulmana è quello di lasciar emergere e manifestare pienamente nell’organismo formale l’equilibrio statico, l’immobilità e regolarità cristallina dei suoi stessi materiali costruttivi. E il principio estetico saliente su cui si regge in generale l’arte islamica è nettamente antinaturalistico, privilegia la piattezza e la risoluzione in superficie di ogni motivo. Con l’Islam, osserva Alois Riegl nella Grammatica storica delle arti figurative del 1897-1899, «l’arte è arrivata là dove era partita: alla superficie assoluta»2. Va detto che molte delle manifestazioni iconofobe sorte e sviluppatesi nell’ambito delle religioni rivelate coincidono di fatto con la lotta all’idolatria, ed è sotto questo aspetto che appare più idoneo collocarle. Anche alla base della proibizione musulmana va posta questa esigenza di carattere anti-idolatrico, indirizzata sia verso la produzione di manufatti del paganesimo arabo preislamico, sia contro la cultura cristiana che aveva raggiunto una tecnica elabo2  A. Riegl, Grammatica storica delle arti figurative (Graz-Köln 1966); trad. it. Cappelli, Bologna 1983, p. 234.

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ratissima nella produzione e nell’uso delle forme visive. Tra il vii e l’viii secolo, proprio all’inizio dell’Egira, il mondo cristiano orientale elegge l’eikon a luogo retorico per la persuasione delle masse alla fede nel Redentore e a luogo filosofico-teologico di speculazione dottrinale. Essa diventa uno dei terreni di lotta tra le varie fazioni politico-religiose. Pur affascinata dai meravigliosi risultati dell’arte classica e dell’arte cristiana, per nascere a se stessa e conquistarsi un’identità, la nuova fede islamica −combattuta tra l’ammirazione estetica e il disprezzo religioso− doveva respingere l’immagine di culto e il suo statuto onto-teologico. Fu dunque non soltanto per ragioni di ordine dogmatico, ma anche grazie a un’elevata sensibilità per gli aspetti politici e sociali del contesto storico in cui prese vita, che la cultura musulmana −e con essa tendenzialmente l’intera ummah, la comunità dei fedeli− si astenne dalla disputa originatasi attorno all’icona. Preferì sottolineare i pericoli morali e religiosi, la tentazione gratuita che essa rappresentava. Tale scelta permise inoltre ai califfi di sostenere la corrente avversa a quella iconodula nella disputa cristiana sulle immagini, fornendo così ai fautori dell’iconoclastia la possibilità di convertirsi e aderire al credo islamico senza abiurare dalle proprie convinzioni in materia. È vero d’altronde che, secondo ipotesi e ricostruzioni largamente accettate dagli specialisti, enunciazioni circa l’interdizione delle immagini non compaiono in testi ufficiali prima della seconda metà dell’viii secolo, più di cento anni dopo la predicazione del Profeta e la nascita politico-statuale dell’Islam. Nel Corano non si fa alcuna menzione in proposito, e inoltre esso non contiene sviluppi narrativi tali da poter permettere una compiuta e sistematica illustrazione visiva, come invece è ampiamente avvenuto per l’Antico e per il Nuovo Testamento. Materiali in una certa misura più significativi in senso iconoclastico possono reperirsi nel Hadith, un corpus eterogeneo di tradizioni sulla vita del Profeta che non ebbe mai un vero e proprio status canonico, contenente aneddoti, opinioni e antiche storie di cui la maggior parte trae origine non dalla madrepatria ma 86

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dai territori conquistati, e che riflette dunque concezioni diffuse e credenze risalenti a una fase posteriore. Il panorama appare dunque molto dialettico, contrastato, e come sempre la storia reale ci pone di fronte più a situazioni di equilibrio e compromesso che non ad atteggiamenti stoicamente ortodossi prolungati nel tempo. Tra i teologi e i giureconsulti musulmani, l’interpretazione rigoristica doveva continuamente confrontarsi con quella più tollerante, che non ometteva tra l’altro di fare riferimento al celebre episodio della vita del Profeta in cui egli ordina la distruzione degli idoli custoditi alla Mecca, ma salva l’immagine dipinta della Madonna con il Bambino posta all’ingresso della Ka’bah. Peraltro l’astensione da ogni raffigurazione illusiva (sistematica, in particolare nella prima arte islamica, allorché si trattava di un edificio dedicato al culto) era sostanzialmente promossa da gruppi ortodossi di teologi e mullah, portatori di un’autorità quasi esclusivamente morale. Il potere reale era in mani secolari, dei califfi e dei loro governatori prima, di re e principi più tardi. Spettava dunque a queste figure, svincolate da una effettiva tutela o soggezione di carattere teologico-religioso, precisare preventivamente dettagli stilistici e contenuti delle commissioni fornite agli artisti. Il rispetto del dettato aniconico era dunque sottoposto a una complessità di fattori e di elementi dialettici che di fatto ne impedivano l’attuazione rigorosa. Soltanto la maggior parte, e non la totalità, degli edifici religiosi ufficiali è dunque priva di rappresentazioni figurative. Nei piccoli oggetti d’uso personale, magari a scopo magico e scongiuratorio, e nelle grandi residenze e dimore private, la raffigurazione di esseri viventi era ampiamente tollerata, o non trovava strumenti autoritativi o motivazioni giuridiche per venire interdetta. L’interpretazione iconofoba era inoltre costretta a confrontarsi con i racconti e le notizie circa la presenza, negli ambienti in cui visse il Profeta, di suppellettili e stoffe recanti elementi figurativi. La portata di tale tradizione doveva quindi, in qualche modo, essere giustificata a posteriori. La conseguenza fu lo svilupparsi di un insieme di prescrizioni tese a indicare ed elencare 87

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i casi in cui l’uso delle immagini era ammissibile (ad esempio nella decorazione dei corridoi, delle anticamere, degli ingressi, dei bagni, dei pavimenti e in certi casi dei tappeti). Dalla documentazione letteraria o visiva passata al vaglio degli studiosi, si può dunque affermare che all’interno di una situazione storica complessa e ricca di spinte difformi sia di natura strettamente teologico-morale, sia di carattere socio-politico, l’Islam −soprattutto nei suoi primi secoli di vita− non assegna alcun particolare privilegio al registro mimetico-raffigurativo del codice visuale. Nell’ambito di questo generale atteggiamento, alcuni enunciati della Tradizione hanno potuto essere utilizzati a posteriori (ora con maggiore ora con minore forzatura interpretativa e comunque sempre in direzione anti-idolatrica) in senso iconofobo e iconoclasta. Ciò non poteva non avere conseguenze per l’arte che si sviluppò nell’alveo culturale e religioso islamico. Soltanto in questo contesto, qui schematicamente ricostruito a grandi linee, può comprendersi il genio analitico dell’ornamento arabo. 2 La comparsa dell’Islam sul proscenio della storia segna un vasto, complesso, contraddittorio processo di reinnesto interpretativo, appropriazione e ridistribuzione delle forme artistiche e più generalmente simboliche dell’Arabia premusulmana, ma soprattutto del mondo cristiano-bizantino, di quello persiano e delle altre antiche popolazioni che furono soggette nel tempo alla conquista islamica. I significati di tenore religioso e i contenuti dottrinali-spirituali vennero espunti dalle forme che in altre culture li avevano veicolati. Tali forme divennero così oggetto di una sorta di risemantizzazione il più possibile adatta alle nuove esigenze comunicative e di aggregazione sociosimbolica della koiné musulmana. Vi è tuttavia una celebre eccezione. Assieme alla tecnica del tutto rinnovata nell’arte della ceramica, è noto che l’uso inarrivabilmente elaborato della scrittura nella decorazione d’una pagina del Corano o della 88

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cupola d’una moschea può a ragione ritenersi un apporto originale e specifico dell’Islam (ricco di riflessi teologici, simbolici, sociali) alla storia delle espressioni artistiche (Tav. 9). Per il suo intenso e caratteristico impiego, tale altissimo contributo epigrafico in nessun modo può interpretarsi come un prolungamento di attitudini, forme e tradizioni stilistiche precedenti. In fondo, possono costituire una prova di ciò proprio i finti caratteri cufici dipinti sui bordi dei manti delle Madonne del Trecento e in generale l’imitazione asemantica della scrittura araba −che ovviamente, appunto, non produce alcuna significazione denotativa− comparsa nella pittura europea tra xiv e xv secolo. Benché sotto un profilo comparativo delineato su basi strettamente semiotiche non sia del tutto corretto affermarlo, è certo che in termini più ampiamente socio-culturali e storico-artistici, per la fede musulmana la scrittura (che resta in ogni caso un’espressione visiva) è paragonabile a ciò che le immagini erano e sono per la fede cristiana. Da questo punto di vista, l’Islam è una civiltà squisitamente letteraria, razionale, intellettuale. La parola scritta è il suo principale veicolo di comunicazione e di autoriconoscimento sociale; essa è investita di una sacertà che ispirò nel corso dei secoli lo svilupparsi di una raffinatissima arte calligrafica dall’insuperabile valore estetico-formale, diventata patrimonio saliente nell’esperienza psicologica e intellettiva, etica e religiosa di ogni fedele. Nello stile grafico dell’ornato arabo, il dettato del Corano è fissato nell’ascesi algebrica di configurazioni labirintiche, innesti acentrici, intrecci e raccordi tortuosi e inflessibili. Al massimo di ordine corrisponde il massimo di entropia: perfettamente leggibili e indecifrabili allo stesso tempo. Lo spirito dimora nel principio della ripetizione allucinatoria che conduce alla trance. Il maestro sufi Sahl Ibn’Abdallah ordinava ai suoi discepoli di ripetere continuamente, per tutto il giorno, l’invocazione “Allah! Allah!”. Quando essi vi riuscirono, egli li istruì a ripeterla anche nottetempo, fino a quando non fosse uscita dalle loro labbra involontariamente durante il sonno. Uno dei discepoli raggiunse così una tale concentrazione che un giorno, 89

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quando per caso gli cadde un ramo di un albero sulla testa, le parole “Allah! Allah!” furono viste scritte con il sangue che sgorgava copioso dalla ferita. Se è vero che Dio si è rivelato all’uomo attraverso la scrittura, questa allora sarà meritevole di venire santificata, e rappresenterà per l’intelligenza e la sensibilità musulmana la forma privilegiata di interpretazione del mondo. Siamo talvolta in presenza di un vero e proprio esoterismo della Scrittura paragonabile a quello della kabbalah: è noto che nella mistica islamica (come d’altronde in quella ebraica), l’apparato, le forme, la ritualità che ne permettono e ne definiscono l’esperienza −penna, calamaio, inchiostro, lettere alfabetiche, supporto dell’inscrizione− sono oggetto di speculazioni simbologiche e numerologiche. Nello stesso tempo un medium flessibile e potenzialmente onnipervasivo come la scrittura poteva prestarsi anche alla funzione laica e secolare di decoro delle suppellettili, e in questo caso conteneva di regola proverbi a sfondo moraleggiante o inviti a godere dei piaceri della vita terrena, detti memorabili o messaggi augurali. Corpo visibile della parola divina, nelle straordinarie pagine miniate dei Corani e nel materiale epigrafico maggiore, le singole lettere sono spesso occasione per l’intricato germinare di diverse tipologie di arabescatura. È noto che anche la cultura monastica irlandese, a partire dal v secolo d.C., sviluppò l’uso ornamentale della scrittura nella decorazione miniata degli Evangeliari, ed è proprio intorno al vii secolo −contemporaneamente, dunque, alla nascita della civiltà islamica− che vedono la luce le opere più straordinarie, dal Vangelo di Lindisfarne al Libro di Durrow fino al più tardo Libro di Kells (Tavv. 10 e 11). Sia il carattere naskhi −morbido e avvolgente, fluido e serpentino− sia il carattere kufi −monumentale e rigido, massiccio e angolare− subirono un ampio sviluppo. È significativo tuttavia notare come nel corso del tempo la preferenza fu accordata a una sorta di radicalizzazione geometrizzante del carattere cufico. Ciò infatti dava modo all’artigiano di espandere i moduli riempiendo l’intera 90

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superficie, imprimendo alle lettere quel ritmo iterativo, quell’aspirazione all’illimitatezza che restano tratti decisivi dell’ornato arabo. Il predominio della lettera sull’icona è assoluto, ma al contenuto denotativo, intellettivo che scrive la gloria di Allah, si unisce in modo indistricabile la pulsazione ipnotica, la corrente grafico-linea­ re che si ripercuote per tutto il testo. Al di là del piano della mera designazione, si origina così una sorta di lettura soprasegmentale, di decodificazione stilistico-estetica ulteriore eppure essenziale, data in uno con il senso realizzato nel gramma. Va ricordato comunque che è risultato impossibile agli studiosi del settore arrivare all’esatta definizione tipologica dello stile ornamentale islamico. Lo impediscono l’estrema, ricchissima eterogeneità dei ritrovamenti e la stessa espansione geopolitica della civiltà musulmana, che dall’India al Maghreb, da Samarcanda a Granada, si nutriva ampiamente delle tradizioni tecniche locali e delle attitudini formali di origine autoctona. Ma forse è stata proprio l’ampiezza, l’iridescenza delle soluzioni stilistiche e morfologiche dell’ornamentazione islamica a rivelarsi una delle condizioni decisive dello sforzo di imitazione deliberato e sistematico che l’Occidente cristiano compie nei suoi riguardi: dalla decorazione architettonica e scultorea alla miniatura, dalla ceramica all’oreficeria, dai tessuti ai manufatti in genere. In particolar modo dal Duecento in poi, le fonti orientali esercitarono una forte e coerente attrazione prima sul Medioevo romanico e poi sul Medioevo gotico. I tappeti e i copritavolo, i tessuti delle vesti e in generale le stoffe che compaiono nella grande pittura tra xv e xvi secolo −da van Eyck a Carpaccio, da Mantegna a Memling, dal Ghirlandaio a Holbein, da Lotto a Dürer− recano motivi geometrico-araldici propri della morfologia astratta dell’ornato islamico. Di fatto, la pittura occidentale rimane la principale fonte di informazione e documentazione sui tappeti orientali anteriori al Cinquecento. Dal momento che, per quanto riguarda lo smercio e la diffusione in tutta Europa dei prodotti tessili, le importazioni dai mercati arabi e dalle comunità cristiane d’Oriente si rivelano insufficienti 91

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a coprire la domanda, vengono creati dei centri di produzione in Europa (in Spagna, ma anche a Palermo, ad Arras, a Ratisbona) che si dedicano unicamente a fabbricare merci in stile arabo, diffondendo temi già conosciuti e tecniche già sperimentate. Anche il Rinascimento accoglierà in seguito tali influssi, qualificandoli come “arabici” o “moreschi”. Gli stessi sei nodi o tondi disegnati a mo’ di rosone da Leonardo −veri e propri esercizi di perfezione in parte sviluppati architettonicamente sul soffitto della Sala delle Asse nel Castello Sforzesco− hanno potuto essere interpretati come stemmi parlanti −proprio al pari della scrittura ornamentale araba− che rendono esotericamente indecifrabili le parole «incatenato» e «Vinci» (Tav. 17). Il processo di fedele trascrizione (o comunque di innesto sui motivi della decorazione gotica) degli intrecci e dei nodi multipli, dei dedali e degli assi di cuori intersecantisi, avviene anche nella miniatura. Tanto che, esattamente come nell’arte calligrafica musulmana, anche i margini della pagina vengono invasi dall’Ornamento fino al punto da indurre alla distinzione tra miniatura vera e propria (l’illustrazione della pagina) ed enluminure, cioè il trattamento decorativo dei margini. Cambia così la stessa distribuzione e divisione del lavoro all’interno della bottega artigiana, dal momento che le due pratiche sembrano diventare indipendenti l’una dall’altra, eseguite nell’ambito di due diversi mestieri o competenze: l’enlumineur si occupa dei margini della pagina, lo historieur del suo centro3. E se in tutta evidenza è a questa seconda funzione che viene assegnato il compito del racconto, tale distinzione si può indubbiamente considerare come una conferma di ciò che argomentavamo precedentemente circa l’assenza del livello storico-narrativo nell’Ornamento, giacché è appunto al centro ottico-geometrico (e psicologico) della pagina che si ospitava il contenuto iconico-figurativo. 3  Cfr. su questo punto I. Illich, Nella vigna del testo (Paris 1991); trad. it. Cortina, Milano 1994, in part. pp. 109 ss.

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3 Anche a uno sguardo necessariamente rapido e suntuario quale il nostro, non può sfuggire che in generale la decorazione architettonica musulmana aveva il compito di dissimulare o di distrarre l’attenzione del fruitore dalle funzioni portanti, dagli elementi strutturali dell’edificio. Il solo, magnifico esempio dell’Alhambra potrebbe valere per tutti. Ma anche qui si possono rilevare oscillazioni, sia pure riconducibili a una medesima matrice. Soprattutto nell’architettura timuride e sawafide, iwan, cupole, minareti sono spesso interamente ricoperti di mosaici a ceramica in blu cobalto o rosso brillante sia all’esterno che all’interno, tanto che non resta visibile neanche una minima porzione delle cortine o comunque dell’impianto murario sottostante. Si può tuttavia menzionare un’attitudine, una pratica costruttiva in prima istanza tecnicamente ed esteticamente opposta, nella quale è dagli stessi materiali impiegati, dalla loro qualità, dal modo di disporli, dunque dal risultante disegno, che si lascia emergere l’impulso, il conatus decorativo. Un’ulteriore verifica dell’estrema mobilità, della capacità, per così dire, di rovesciarsi su se stesso che occorre riconoscere al registro ornamentale. Ci riferiamo a ciò che gli studiosi chiamano brick style, qualcosa come lo ‘stile a mattoni’, di cui un compiuto esempio può considerarsi lo splendido mausoleo samanide di Ismail a Bukhara, nell’Asia Centrale, un edificio a forma di padiglione quadrato aperto sui quattro lati ed eretto a scopi funerari, risalente ai primi anni del ’900 (Tavv. 12 e 13). La tomba è interamente in laterizio, e il fatto qui per noi notevole (ancorché rimandi a una pratica struttiva già ampiamente diffusa) è che proprio questa sua tecnica di costruzione si identifica toto caelo con la sua decorazione. È lo stesso disegno ottenuto dalle diverse combinazioni delle connessure dei mattoni tra loro, è lo stesso effetto fortemente chiaroscurale risultante dalla texture delle superfici murarie come ricamate a intreccio (un mattone bruno dorato alternato al cotto scolpito), a costituirne il partito ornamentale, l’istanza decorativa. È come se questa opera −e più in 93

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generale questo stile– non si lasciasse pensare attraverso la classica, “normale” contrapposizione-complementarità tra struttura e décor. Non vi è un elemento singolo –la fascia, il mosaico, la formella– che va ad aggiungersi più o meno organicamente a un tutto funzionalmente già completo e autosufficiente. Lo status ornamentale non emerge da alcun gioco di applicazione a posteriori o abbellimento di una precedente nudità architettonica, ma solo dall’autonomo disporsi strutturale dei materiali impiegati, dalla loro stessa organizzazione sintattica. Al limite, si potrebbe concludere che non si creano qui le condizioni sufficienti per porre l’Ornamento come calliforo, cioè come ‘apportatore di bellezza’, proprio perché esso, per così dire totalizzando il manufatto, non lascia nuda alcuna parte a-ornamentale che debba quella bellezza “ricevere”. Con uno strano movimento di cui il mausoleo di Bukhara potrebbe essere eletto a emblema –e del quale più avanti saggeremo le implicazioni teoriche– il decorativo è il costruttivo, l’accidente è la sostanza, l’inessenziale è l’essenza: il Supplemento è il Fondamento. Generalmente, la dimensione tettonico-spaziale dell’architettura islamica può dirsi orientata nel senso dell’orizzontalità, è cioè legata al suolo. Si evitano portali troppo alti e archi acuti che renderebbero possibili sviluppi verticaleggianti, si mantengono −in particolar modo nella moschea a colonne− soffitti piatti. L’effetto che ne risulta è quello di un insieme di masse paratatticamente disposte l’una adiacente all’altra, senza alcuna spinta nel senso dell’altezza. La monumentalità nell’estetica architettonica musulmana deve esprimersi soltanto nell’estensione, e gli elementi ascensionali vengono sapientemente bilanciati −o addirittura neutralizzati− circondandoli di cupole a bulbo o con file di nicchie, infittendo le colonne o differenziando i singoli gruppi struttivi per smussarne il senso verticale. Il profilo complessivo di una città islamica mantiene dunque il principio dell’orizzontalità. Non diverso è il principio dell’Ornamento, che dispone gli elementi in successione e che schiaccia anche l’eventuale sovrapposi94

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zione ottica di motivi sul piano della superficie, mantenendo l’intero apparato decorativo sui ritmi di un tempus ricorrente e continuo. Allo stesso modo, non vi si ammette alcun motivo dominante vero e proprio, non vi si riconosce alcun privilegio, alcun radicamento “centralistico” a quel settore o a quell’elemento. Spazio senza limiti necessari, senza riferimenti fissi. Spazio all over, si direbbe nei termini della pittura moderno-contemporanea. La stessa vis decorativa che segna l’essenza del Kunstwollen islamico si riscontra intatta negli ambienti interni (anche delle abitazioni private) ove vari accorgimenti sono stati utilizzati per alleggerire o, addirittura, negare il valore di limite, di schermo invalicabile della parete. Il maggiore e più noto di questi accorgimenti è il muqarnas, una specie di volta a stalattiti, elemento architettonico diffusosi in tutto il mondo islamico verso la fine dell’xi secolo (Tavv. 14 a, 14b, 15a, 15b). Si tratta di una lavorazione a scavo, “in negativo”, che ha come risultato una decorazione ad alveoli o, appunto, a stalattiti, che non sono altro se non lo sviluppo scultuale di quelle nicchie angolari o strombature tramite le quali si otteneva il passaggio dalla cupola semisferica alle pareti dell’edificio a pianta quadrata o poligonale. Anche in questo caso, è difficile interpretare la presenza ornamentale nei termini di un’aggiunta posticcia e surrogatoria che interviene dall’esterno e a posteriori rispetto alla funzione prima. Il risultato è quello di diffrangere l’efficacia monumentale della superficie liscia e compatta in una miriade di aggetti e rientranze, con l’effetto complessivo di un tessuto continuo di variazioni luminose. E in alcuni episodi il muqarnas esplica una funzione statica di vero e proprio sostegno. Per consuetudini e tradizioni di vita che si ricollegano all’origine nomadica delle tribù arabe, il mobilio è nelle abitazioni private pressoché assente, e le pareti restano di conseguenza interamente visibili. Si tratta quindi di introdurvi un principio ritmico, di fletterne la tensione verticale e infrangerne anche la compattezza luminosa, aprendovi nicchie e scanalature secondo l’estetica del mihrab, lo 95

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spazio rientrante orientato verso la Mecca, che nella moschea svolge anche la funzione acustica di riverberare le parole dell’imam in direzione della Città santa. La parete viene così modellata in valori chiaroscurali, e la sua lavorazione a muqarnas talora raggiun­ge − come in India o in Persia− la sommità della parete, alleggerendo la nettezza ortogonale dell’angolo che forma all’incontro con il soffitto. Era consuetudine collocare diversi oggetti d’uso domestico in alcune di queste rientranze, e facilmente ciò poteva indurre alla pratica ludica di ritagliare le nicchie nella stessa forma degli oggetti che dovevano accogliere, con il risultato di una parete disseminata di curiosi contorni scavati in foggia di libro, di bottiglia o di vaso. Sedere accoccolati è un tipico costume arabo. Così anche il pavimento, con il quale ci si veniva a trovare a contatto visivo e tattile ravvicinato, deve perdere le sue caratteristiche di solidità e staticità, abbandonando la sua connotazione di radicamento tellurico a vantaggio del piacere mobile e prensile dell’occhio. Deve diventare fluido, dinamico, “scorrevole”, come si fosse seduti sull’acqua e non sulla terra. Deve anch’esso venir catturato, risucchiato da quella vertigine immaginifica generatrice di infinite ramificazioni, da quel labirintico intreccio di motivi che distingue la modulabilità e la flessibilità dell’Ornamento islamico, nei cui meandri l’occhio mai deve sostare ma continuamente slittare in superficie da un pattern all’altro. Si tratti di un rivestimento a formelle, di un mosaico vegetale o geometrico a tessere colorate o degli splendidi orditi dei tappeti, anche il pavimento, quello che secondo l’ottica occidentale era il dimidiato, umile piano di calpestìo, deve perciò annullarsi come tale, rovesciare i propri valori simbolici e fisico-percettivi e trasformarsi in un «giardino sospeso nell’aria», come il Corano chiama il Paradiso (Tavv. 16a e 16b). Qui davvero vediamo il principio stesso dell’Ornamento abbandonare definitivamente la dimensione dell’opera singola connessa a tutta una retorica del Nome d’Autore e dell’irriproducibilità dell’atto creativo, per farsi piena e realizzata apertura, espansività che si 96

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accorda ai valori dell’ambiente esaltandoli nella loro incessante trasformazione e mobilità. Arte dell’Umwelt, arte mondana, arte sociale che si cura di mantenere alta la qualità estetica diffusa degli spazi e dei luoghi dell’esistenza privata e pubblica. Eppure, nello stesso tempo, arte “sublime” che invoca il sacro, il trascendente, che non allude, non finge, ma −non rappresentandolo ma esibendolo con i suoi labirintici intrichi− prega l’Infinito. 4 Si è precedentemente accennato al riutilizzo e alla diversa tassonomia che l’arte islamica opera sulle forme ereditate dalle altre culture. E anche per quanto riguarda il lessico ornamentale, pur se l’arabesco (termine da riservarsi esclusivamente al viticcio a foglia bifida, come fu chiaramente messo in luce da Riegl) può considerarsi un contributo originale, non siamo di fronte all’invenzione di motivi o stilemi radicalmente nuovi. L’accento cade piuttosto sull’amplissima, geniale riformulazione di elementi e schemi grammaticali e sintattici ereditati dall’ornamentazione classica, copta, bizantina o sassanide, indirizzata nel senso di una stilizzazione astrattizzante che connota sia la tipologia vegetale sia la tipologia geometrica. Palmette e meandri, polilobi e rosette, swastike e racemi, fasciami e girali sono recuperati per così dire al loro stato puro, al loro “grado zero”, quasi sigilli elementari e “irrisalibili”: e poi moltiplicati, rielaborati e variati nelle loro innumerevoli connessioni sintattiche e riqualificati secondo una morfologia astratta. Motivi propri di altre e precedenti civiltà artistiche perdono il loro primitivo valore (nel senso soprattutto della loro collocazione all’interno di un sistema) una volta fagocitati dalla riscrittura musulmana. È il caso del motivo “a nastro di nuvole” (introdotto dall’invasione mongola), un tipo di figurazione che in origine rappresenta un cumulo di nubi, ma che a contatto con la vorace vitalità dell’ornato islamico si trasforma in un elemento lessicale subordinato a principi astratti, e manifesta valori puramente grammaticali-distributivi. Il vocabolario ornamentale 97

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islamico è di enorme ricchezza, ed è continuamente plasmato da un numero infinito di variabili, così che è possibile, attraverso la sua costituzione e il suo utilizzo, leggere in filigrana un insieme di funzioni e “sequenze” −da quella economica e quella psicologica a quella sociosimbolica− che contestualizzano l’autonomia del dato puramente stilistico-formale. L’assenza del codice iconico induce nell’apparato decorativo, nel suo strato morfogenetico, una flessibilità maggiore di quella mostrata dalla declinazione rappresentativo-figurale. Ogni diverso tipo di committenza, ogni diversa inflessione regionale o contesto operativo e tecnico-fabbrile, possono suscitare nuove e inedite combinazioni formali, come se la sequenza ornamentale avesse trasferito quella funzione rappresentativa (che percettivamente lascia appunto cadere) all’interno della sua stessa genesi produttiva. Il rapporto tra ornato e sfondo è un dispositivo attraverso cui poter comprendere la maggior parte dei tratti specifici della decorazione musulmana. La superficie viene tendenzialmente utilizzata e ricoperta per intero. Vi sono soltanto, potremmo dire, limiti di fatto e non di diritto, poiché il ritmo generativo degli elementi e dei patterns, giocato su moduli di ripresa e variazione, si autogenera e prolifera indefinitamente, e ogni sezione della superficie-piano ne è contagiata. Forse allora non è poi tanto paradossale richiamare l’importanza del ruolo giocato dalla volontà stessa del decoratore, al quale viene affidata, poste le condizioni sufficienti, l’interruzione o la prosecuzione dell’ordito ornamentale. In ogni caso, dato che non v’è la necessità di portare a termine alcun episodio narrativo, nessun obbligo “fabulistico” vi si frappone, nessun privilegio concesso a un motivo piuttosto che a un altro, nessuna necessità gerarchica. Nella misura in cui il pattern procede per crescita processualmente autonoma e non trova in sé alcuna ragione −tranne quella rappresentata dallo spazio disponibile− per limitare la propria espansione, esso può interrompersi soltanto in base a una decisione per così dire “extra-giudiziale”, a un atto pratico esterno o a una necessità 98

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sostanzialmente indipendente dallo statuto formale intrinseco al linguaggio utilizzato. Nella sua costituzione materiale, l’Ornamento −proprio perché assolutamente autonomo− rimanda al di là di se stesso, a una (ri)soluzione che lo trascende e che all’interno della sua logica non è preventivabile-definibile. Un’altra dimensione del rapporto tra ornato e sfondo attiene a valori e questioni di ordine psicologico-percettivo. Talvolta si presenta l’impossibilità di distinguere chiaramente tra la conformazione o sagoma del motivo e la superficie che l’accoglie, perché i due elementi si pongono in una relazione percettivamente indecidibile in virtù della quale, a seconda del punto di osservazione o della particolare disposizione ottico-fisica del riguardante, resta in sospeso se assegnare questa o quella porzione compositiva al piano di posa o alla sua lavorazione. Ora, tale situazione rimanda alla libertà fruitiva che in linea di massima l’ornamentazione araba lascia all’osservatore. In assenza di un centro focale o di un elemento gerarchicamente privilegiato (è nell’illimitatezza a-centrica e nomade che va cercata la presenza di Allah), l’occhio può decidere se seguire il motivo per unità “tematico”-formali o se addentrarsi e smarrirsi nei dettagli, se dividere la superficie ricoperta in segmenti compositivi seguendo le variazioni che, è il caso di dire, “a perdita d’occhio”, si intercalano alle iterazioni, oppure godere unicamente dell’effetto complessivo risultante dal contrasto tra i valori luminosi (soprattutto ove si tratti di una lavorazione a stucco). Oppure ancora −benché l’ipnotico intrico delle linee sfiori l’illeggibilità della scrittura angelica− l’osservatore, se ve ne sono condizioni e possibilità, può “semplicemente” leggere quella che allora si rivela un’inscrizione, restituendola per così dire alla sua riconosciuta funzione primaria. L’Ornamento islamico, con la sua incantata, sospesa vertigine, è una fragile pellicola disposta sul vuoto, che dissolve nella sua tessitura indefinita e leggera ogni immagine nascente. Nella logica geometrica e matematica che presiede al ritmo alterno delle iterazioni e delle variazioni, delle lettere alfabetiche che si trasformano 99

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in intrecci fitomorfi, dell’arabesco che si muta in calligrafia, nessun individuo pretende di esprimersi, non si afferma alcun voler-dire, nessuna intenzionalità scaturisce da un Soggetto legislatore. Nessun racconto, nessuna storia, nessun dramma: non vi può essere né narrazione né aneddoto, né sofferenza né tragedia nell’Ornamento. L’apparenza, la mutevolezza, la transitorietà della vita terrena sono occasioni per meditare sul totalmente Altro, sull’Infigurabile. L’eterno, ordinato ritorno che tra logica inflessibile e continuità ritmico-organica dimora nel cuore dell’Ornamento islamico scandisce il tempo ricorsivo e indefinito della preghiera all’assolutezza immutabile di Allah, la cui irrappresentabile, illimitabile presenza divina viene evocata non nella figura melodica chiusa e definita ma nella melopea senza inizio né fine. Secondo la tradizione mistica dell’Islam, soltanto Satana, oppresso dal rimpianto per il passato che non cessa di accumularsi a ogni attimo, vuole strappare il mondo dalla caducità e farlo sopravvivere alla fatale distruzione, alla progressiva corruzione. E questa è la sua condanna: un’impossibile fedeltà alle cose che passano. Per questo, inutilmente, le piange; e il suo pianto si ode su tutta la Terra con un suono di flauto. Lo spirito dell’Ornamento è l’udito che si nega a quel suono.

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Capitolo secondo KUNSTWOLLEN

Scenari: Riegl, Panofsky, Sedlmayr, Focillon 1 La pratica ornamentale è il paradigma più illuminante ed esemplare del concetto di Kunstwollen. In essa, il ‘volere artistico’, la volontà d’arte, emerge in tratti chiari, definitivi e inequivocabili. Nel suo celebre, antesignano, quanto per molti versi frainteso Der Stil in den technischen und tektonischen Kunsten oder praktische Aesthetik (la cui prima edizione fu pubblicata in due volumi tra il 1860 e il 1863), Gottfried Semper aveva sottolineato il ruolo svolto dalla materia e dalla tecnica come fattori essenziali nella costruzione del manufatto. Prese così avvio una corrente di storiografia artistica di netta impostazione empirico-positivista che, interpretando restrittivamente le tesi semperiane quando non travisandone lo spirito, affermava in chiave deterministica l’unicità dell’origine tecnico-materiale delle arti, considerata quale primario impulso imitativo di natura meccanica. Riegl, nel suo Stilfragen, cerca di fare attenzione a non confondere le teorie del suo maestro con 101

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quelle di epigoni e volgarizzatori (i Kunstmaterialisten, li chiama, «il partito estremista dei materialisti in arte»)1. Proprio per questo avverte come suo compito fondamentale quello di liquidare una volta per tutte gli errori e i pregiudizi che ostacolano il cammino della ricerca storica e metodologica, dedicando «all’“attività del negare” uno spazio maggiore di quanto sarebbe stato consono a una narrazione storica positiva e pragmatica»2. Riegl elabora dunque il principio del Kunstwollen in esplicita contrapposizione alle teorie meccaniciste, collocandosi all’interno del grande dibattito europeo del tempo sollevato dai movimenti di riforma delle arti decorative e applicate a cominciare da Arts and Crafts. Il Kunstwollen è l’impulso primario −Wollen e non Können, ‘volere’ e non “semplice” ‘sapere’− che lotta contro il fine utilitaristico, la materia e la tecnica (intesi allora, in questo nuovo quadro, come limiti o coefficienti d’attrito) in vista della produzione dell’opera. Indiscutibile (e in parte scontata, secondo un certo humus culturale del tempo) è qui la presenza di marcati accenti schopenhaueriani. 1  È singolare e molto significativo notare come lo stesso Semper si batta contro le teorie tecnicistiche del suo tempo, polemizzando contro quelli che anche lui, a sua volta, chiama i «materialisti». Ed è proprio in questo luogo e a tale proposito che troviamo un’importante affermazione, che contrasta toto caelo con ogni possibile lettura riduttiva delle tesi semperiane: «Il materiale è al servizio dell’idea e, quando questa emerge nel mondo sensibile, esso non è l’elemento determinate di un simile processo. La forma, cioè l’idea divenuta fenomeno, non può essere in contraddizione con il materiale di cui si sostanzia; tuttavia non è affatto necessario che il materiale in sé intervenga, quale fattore essenziale, nella manifestazione artistica» (Lo stile, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1992, p. 13). Sull’articolazione e l’interna complessità del pensiero di Semper –che lo allontanano da ogni semplice e immediato positivismo– e sui grossolani fraintendimenti o pregiudizi di cui è stato oggetto, cfr. J. Rykwert, “Morfologia” di Semper, in «Rassegna», 41, 1990 (il fascicolo è interamente dedicato al tema della decorazione); B. Gravagnuolo, Semper e lo stile, in G. Semper, Lo stile, cit. (molto critico anche sulla lettura riegliana delle tesi semperiane); N. Squicciarino, Arte e ornamento in Gottfried Semper, il Cardo, Venezia 1994. Piegare, tessere, annodare, intrecciare: è significativo notare qui che questi tipici Leitmotive semperiani si ritrovano nell’estetica di Gilles Deleuze, in particolare in numerosi luoghi di Mille piani, cit., e in La piega (Paris 1988); trad. it. Einaudi, Torino 1990. Siamo in questo capitolo debitori di antiche conversazioni con Massimo Cacciari. 2  A. Riegl, Problemi di stile, cit., p. 3.

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Ne Il mondo come volontà e rappresentazione, si afferma che «la materia in quanto tale non può essere rappresentazione di un’idea»3. Essa ha dunque da essere forgiata, dominata, composta da quell’arcaico, compulsivo desiderio di trasformare la realtà oggettuale data in forma e rappresentazione, che originariamente si esprime appunto nella volontà d’arte4. Quello del Kunstwollen è un principio che va distinto e che non è immediatamente desumibile dalle caratteristiche esterne, dai “contrassegni” di un dato stile, perché indica un’energia, una potenza in qualche modo interne allo stile stesso. Forza reale, concreta, immanente; strutturazione dinamica, plesso organizzativo che innerva e sostiene l’individualità propria e insostituibile dell’opera singola. Ora, soltanto attraverso questa angolazione interpretativa (che riprenderemo precisandola in seguito e che in parte certamente forza il dettato riegliano) il Kunstwollen può battere all’unisono con l’Ornamento e nominarne-articolarne la trasformazione e lo statuto formale. Vi è un doppio aspetto nell’elaborazione riegliana del concetto. Da una parte −e soprattutto in Stilfragen ove il motivo non è ancora presente à la lettre (vi si parla di un hegeliano Kunstgeist, uno ‘spirito artistico’)− esso si riferisce alla sfera individuale, all’impulso formativo del singolo artista-artigiano-operatore, correlato al libero e irrisalibile impulso al piacere per il bello formale. Dall’altra, esso esprime −e in particolare nell’Industria artistica tardoromana del 1901− una connessione generalizzante e sovraindividuale rispetto a una data epoca o età artistica. Ed è proprio all’interno di questa seconda accezione (ch’è poi quella centrale e dirimente) che si manifesta la tendenza −già in Riegl presente e a tratti esplicita− a considerare il Kunstwollen una forma categoriale metastorica che, 3  A. Schopenhauer, Il mondo coma volontà e rappresentazione (1818; 1844); trad. it. Laterza, Bari 1968, p. 291. 4  Per il ruolo e la presenza di Schopenhauer nel dibattito storiografico e metodologico sulle arti che si anima nella cultura tedesca tra Otto e Novecento, cfr. F. Dal Co, Abitare nel moderno, Laterza, Roma-Bari 1982.

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ordinandosi attorno a una relazione classicamente trascendentale, informa di sé e dall’alto la pluralità fenomenica delle opere attuali5. Collocato in questa sorta di precedenza noumenica rispetto ai testi, il Kunstwollen poco o punto ha da dirci dell’Ornamento se non ripeterne la normatività, restituendo all’analisi soltanto la dimensione −“naturale” e “pitagorico-platonica” insieme− di una geometria o di una matematica iperurania applicate deduttivamente a un complesso di formulazioni ed entità visive. Ma per distanziarsi da questo tipo di lettura e ipotizzarne un altro in cui il Kunstwollen possa almeno in parte mettersi in sintonia con l’universo culturale moderno-contemporaneo, occorre domandarsi prima di tutto che cosa ha significato un’opera come Stilfragen nell’ambito del dibattito culturale sulle arti e della riflessione storiografica ed estetica tra Otto e Novecento. Sostanzialmente, essa è riuscita a sganciare, a liberare definitivamente la storia dell’arte da ogni ipoteca o tutela contenutistico-psicologica, “discorsiva” e “raffigurativa”. Fu Moritz Thausing, insegnante di Wickhoff e di Riegl, a insistere per primo sulla preminenza del rilievo formale rispetto all’interpretazione rappresentativo-contenutistica dell’arte, modellando così una delle caratteristiche fondamentali di quella che poi sarebbe stata battezzata come Wiener Schule, la scuola viennese di storia dell’arte6. Non va dimenticato peraltro il rapporto che legava la giovane Scuola con l’Istituto di Storia austriaco, nel cui ambito nacque l’insegnamento di storia dell’arte come disciplina autonoma, e in cui operava uno studioso come Theodor von Sickel, per il quale la forma del documento storico era decisiva e metodologicamente privilegiata rispetto al suo contenuto

documentale. Dal formalismo di Herbart, Hanslick e Fiedler, Riegl eredita e sviluppa la tecnica dell’indagine filologica e l’ispirazione purovisibilista della ricerca, per la quale l’arte è sempre da considerarsi costruzione dell’apparenza delle cose reali come forma e colore sul piano e nello spazio7. Non bisogna dimenticare poi che il volume di Hildebrand (lo scultore della cerchia fiedleriana) Das Problem der Form in der bildenden Kunst, dal quale Riegl trarrà la coppia haptisch-optik, ‘tattile-ottico’, che designa uno dei movimenti interni al Kunstwollen, esce proprio nel 1893, lo stesso anno di Stilfragen. Nel totale abbandono di ogni presupposto o imprestito di carattere empatico-mimetico, è forse possibile leggere una significativa aderenza di Riegl e della sua impostazione conoscitiva all’epistemologia di Mach che indaga sui nessi funzionali piuttosto che sulle motivazioni causali dei fenomeni, e più ampiamente all’indirizzo logico-formale di tutta la filosofia della scienza a cavallo tra Otto e Novecento. Lo humus concettuale, poi, è identico a quello che si incontra nella coeva polemica husserliana contro la riduzione psicologistica dei principi logici. La valenza filosofica della metodologia storiografica di Riegl consiste nell’impostazione sobriamente descrittivo-fenomenologica della ricerca. Il suo intento è quello di reperire e descrivere i noemi dell’espressione artistica, di restituire il processo dell’elaborazione strutturale-formale che il lavoro artistico compie sulle essenze intui­te. Ed è proprio nel già citato «Manoscritto sull’estetica» −conservato presso l’Archivio Husserl con il titolo Estetica e fenomenologia e comprendente alcune riflessioni e annotazioni databili al 1906-1907− che si afferma che un’estetica di carattere

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È Otto Brendel (cfr. Prolegomena allo studio dell’arte romana, in Introduzione all’arte romana, Einaudi, Torino 1982, in part. pp. 41-46) a criticare le aporie cui conducono gli aspetti “evoluzionistici” delle teorie riegliane soprattutto in connessione con l’arte romana. 6  Come noto, il termine “scuola di Vienna” fu coniato da Julius von Schlosser, uno dei più autorevoli allievi di Wickhoff e di Riegl, nell’omonimo Die Wiener Schule der Kunstgeschichte del 1934.

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7  Questo senso dell’oggetto estetico inteso come costruzione specifica è già presente in Eduard Hanslick allorché ad esempio afferma ne Il bello musicale, cit.: «Quando si definisce il nostro sistema musicale come “artificiale”, si adopera questa parola non nel suo uso raffinato di un’invenzione arbitraria e convenzionale. Si designa soltanto la cosa divenuta, in contrapposizione a una creata» (p. 171; corsivo ns.).

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fenomenologico deve essere «descrittiva-morfologica, genetica»8. Essa non è riducibile a un’ontologia, non ha niente a che vedere con quello che Husserl chiama l’«oggetto-in-sé», non irrigidisce, non isola in entità a sé stanti le strutture formali che incontra. Un’estetica fenomenologica deve confrontarsi con la Erscheinung, con l’‘apparenza’, o meglio con l’apparire, giacché, appunto, l’esteticità non è una caratteristica o un attributo intrinseco all’oggetto, bensì viene costituita come tale dal soggetto esperiente-intenzionante con un atto che “riempie” l’oggetto di significato, vale a dire attraverso una serie descrivibile di operazioni non semplicemente percettive ma di comprensione evidente. L’impostazione fenomenologica, dunque, non permette alla riflessione estetica di formalizzarsi in una dottrina categoriale ontologica né in una teoria concettualmente normativa, definitoria. L’indagine deve lasciarsi coinvolgere in un processo descrittivo, morfologico e di carattere genetico-costitutivo, che prenda in esame gli oggetti assieme agli atti correlativi che li intenzionano nelle loro invarianti strutturali, eidetiche, e non nell’accidentalità empirica cui è costretta a riferirsi ogni impostazione psicologistica o comunque legata alla fatticità naturale via via contingente. In sintesi, questo è l’orizzonte euristico in cui viene a collocarsi la prospettiva riegliana. Ora, questo taglio metodologico forte consente, o meglio innesca, la possibilità di due linee di sviluppo fortemente innovative, sia sotto il profilo critico sia sotto quello più ampiamente storico-artistico. La prima, esplicita in Riegl. La seconda, implicita (e dunque maggiormente affidata ai lumi dello sguardo interpretativo), che affronteremo in seguito e che si colloca in posizione assolutamente decisiva rispetto al nesso Kunstwollen-Ornamento e alla modernità di Riegl. Per quanto riguarda il primo punto, è noto che in Stilfragen e nella Spätrömische Kunstindustrie si recuperano finalmente e definitivamente all’indagine storica e 8

E. Husserl, Estetica e fenomenologia, 1906, cit., p. 90.

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alla dignità estetica domini, zone, linguaggi, pratiche e periodi artistici (la decorazione, le arti “barbare”, quelle “minori”, quelle extra-europee) precedentemente marginalizzati in forza di concetti-guida e di cardini ideologici come il Classico e il Bello normativamente intesi. Lo stesso Semper, già nel 1856, in una conferenza sulla decorazione del corpo prendeva in esame l’effetto estetico della gioielleria, dei tatuaggi, delle acconciature e del vestiario9. In seguito, Karl Lamprecht, nel suo Initial Ornamentik del 1882, aveva utilizzato come materiale di indagine analitica le forme delle arti minori, ipotizzando di trovare in esse più chiaro e più limpido lo stile e il sistema ideologico-culturale del tempo (in particolare dei secoli dal vii al xii)10. D’altra parte, Heinrich Wölfflin aveva già affermato prima di Riegl che il ‘sentimento della forma’, il Formgefühl, andava ricercato nelle modeste, dimidiate arti decorative e nei caratteri dell’alfabeto, nelle stoffe o in una borchia, in una fibula o in una gemma11. Riegl raccoglie e porta alla massima perfezione queste premesse. 9  Cfr. G. Semper, I principi formali dell’ornamento e il suo significato come simbolo artistico, in N. Squicciarino, Arte e ornamento in Gottfried Semper, cit. Ne Lo stile, cit., l’autore stigmatizza «l’assurdità dalla situazione attuale, con la profonda frattura che separa le cosiddette arti minori da quelle chiamate maggiori» (p. 7, nota 1). In una recensione in cui parla brevemente della Spätrömische, Benjamin scrive che si tratta di «un’opera d’importanza storica, che con profetica sicurezza ha accostato la sensibilità stilistica e le intuizioni di quell’espressionismo che sarebbe sorto di lì a vent’anni ai monumenti del tardo periodo imperiale, ha voltato le spalle alla teoria della “decadenza”, e in quella che prima di essa era stata definita una “ricaduta nella barbarie” ha riconosciuto un nuovo senso dello spazio. Nello stesso tempo questo libro è una delle più convincenti prove che ogni grande scoperta scientifica rappresenta automaticamente una rivoluzione del metodo, anche se non pretende di esserlo», Libri che sono rimasti attuali, in Ombre corte. Scritti 1928-1929, a cura di G. Agamben, trad. it. Einaudi, Torino 1993, pp. 334-5. 10  Su questo testo di Lamprecht, teso a disegnare i fondamenti di una «sociologia scientifica della storia» prendendo in esame i periodi di transizione –e in particolare il Medioevo germanico– cfr. E. Gombrich, Aby Warburg (London 1970); trad. it. Feltrinelli, Milano 1983, pp. 37-42. 11  Cfr. H. Wölfflin, Psicologia dell’architettura (1886), trad. it. Cluva, Venezia 1985. Sulle tappe fondamentali di questo importantissimo, decisivo dibattito storiografico, cfr., oltre al già cit. Il senso dell’ordine di Gombrich, A. Hauser, Le teorie dell’arte

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Quella che tuttavia a noi qui più interessa è la seconda operazione cui accennavamo, resa possibile appunto dall’impostazione fenomenologica e descrittivo-formale della ricerca riegliana. Prima di affrontarla, però, è necessario che il nostro percorso si soffermi su alcune stazioni intermedie. Delle numerose interpretazioni che si sono avvicendate all’interno del dibattito sul Kunstwollen circa la natura stessa del principio (dibattito al quale hanno partecipato anche filosofi come Lukács e Ernst Bloch), ne scegliamo due a loro modo paradigmatiche. Occorre in un primo momento attraversare sia la lettura neokantiana proposta da Erwin Panofsky, sia quella in chiave normativistico-teleologica fornita da Hans Sedlmayr. Tali letture –sul cui senso abbiamo in generale già accennato– non soltanto pregiudicano di fatto la connessione del principio riegliano con il tema dell’Ornamento, ma fanno schermo anche a quelle ipotesi interpretative attraverso cui è possibile recuperare dimensioni “contemporanee” in un autore come Riegl. Successivamente, sarà un testo celebre e qui decisivo come Vie des Formes di Henri Focillon che ci permetterà di proporre una riformulazione del Kunstwollen tale da poterlo forse disporre al dialogo con quelle dimensioni e con alcune delle riflessioni e delle pratiche artistiche del Moderno interpretabili –in consonanza o in contraddizione– attraverso il motivo conduttore dell’Ornamento. 2 Erwin Panofsky affidò la sua interpretazione del principio riegliano a un saggio pubblicato nel 1920, Il concetto di Kunstwollen. I termini in cui fin dall’inizio è posta la questione sono manifestamente neokantiani. Si impone l’esigenza di trovare una ragione esplicativa in base alla quale il fenomeno artistico, attraverso un tipo di considerazioni che trascendono la sua mera (München 1958); trad. it. Einaudi, Torino 1969, al cap. «Filosofia della storia dell’arte: “storia dell’arte senza nomi”».

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fattualità empirica, possa venir compreso «nelle condizioni della sua esistenza»12. D’altra parte, Riegl viene considerato come uno studioso aderente al criticismo filosofico che non si era reso perfettamente conto di aver fondato una «filosofia trascendentale dell’arte»13. Panofsky dichiara inoltre di volersi limitare a porre un’esigenza di chiarificazione di carattere metodologico, allo scopo di difendere il concetto riegliano dalle interpretazioni erronee e fuorvianti. Dopo aver sottolineato l’esigenza indilazionabile, e correttamente percepita da Riegl, di garantire l’autonomia del linguaggio artistico contro le ipotesi di derivazione tecnico-materialista, Panofsky liquida con grande forza e chiarezza ogni lettura di tipo soggettivo-psicologistico, resa in effetti quantomeno plausibile dal riferimento letterale alla sfera della volontà presente nel «volere artistico» determinato14. Non di “intenzioni dell’artista”, si deve parlare; ma di intenzioni artistiche. L’attribuzione di quel particolare principio compositivo o espressivo all’artista considerato come individuo empirico non può non porsi fin dal primo momento in contraddizione con quel tanto di contenuto oggettivo che il concetto di Kunstwollen deve 12  E. Panofsky, Il concetto di Kunstwollen, in Id., La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, trad. it. Feltrinelli, Milano 1961; citiamo dall’ed. del 1984, p. 158. Der Begriff des Kunstwollens fu pubblicato nel n. xiv della Zeitschrift für Aesthetik und allgemeine Kunstwissenschaft. Sui rapporti tra Panofsky e Riegl, cfr. M. Ann Holly, Panofsky e i fondamenti della storia dell’arte (Cornell 1984); trad. it. Jaca Book, Milano 1991, pp. 63-93 (sul testo panofskyano in questione, cfr. in part. pp. 75 ss., ove però la radice neokantiana rimane in sottordine). Aggiungiamo qui che lo spunto iniziale, sia del nostro commento alle posizioni di Panofsky sia della rilettura critica che più avanti proporremo del Kunstwollen, ci è stato fornito dal saggio di M. Cacciari, Di alcuni motivi in Walter Benjamin, in «Nuova Corrente» n. 67, 1975, cfr. in part. pp. 229-235. 13  E. Panofsky, Il concetto di Kunstwollen, cit., p. 177, nota 18. 14  È bene comunque ricordare che Riegl, nella fase più matura della formulazione del suo concetto-guida, pone la sfera della volontà –che si esprime nel Kunstwollen– all’interno della Weltanschauung, della complessiva visione del mondo coeva alla specifica impresa artistica di volta in volta analizzata. Lo afferma esplicitamente appunto nella Spätrömische Kunstindustrie del 1901; trad. it. Industria artistica tardoromana, Sansoni, Firenze 1953, cfr. pp. 376-377.

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recare in sé. O siamo di fronte a volizioni inconsce, subliminali, che si travasano interamente nell’opera andandone a costituire il nerbo espressivo e il carattere precipuo −e allora il cerchio si chiude e l’oggetto dell’indagine storico-critica (l’opera appunto) non fa altro che confermarsi ulteriormente in quanto tale nel suo carattere autonomo. Oppure, nel procedere dell’analisi, ci confrontiamo con le intenzioni coscienti e programmatiche dell’artista, espresse il più delle volte in formulazioni di poetica o comunque in documenti scritti −e allora si tratta di manifestazioni certamente importanti per gli studi storici e per una comprensione la più approfondita possibile del contesto culturale in cui si è trovato a operare l’artista in questione, ma in ogni caso sempre si tratta di manifestazioni parallele al testo visivo, che appunto documentano, ma non designano direttamente, il volere artistico. Un’astratta e di per se stessa insondabile volontà dell’artista singolo come persona empirica, biografica, che non si concreti e non si esaurisca nella fattualità dell’opera realmente compiuta, effettivamente prodotta, cade del tutto al di fuori degli interessi di una Kunstwissenschaft, di una ‘scienza dell’arte’ indirizzata in prima istanza a circoscrivere l’autonomia del linguaggio artistico come attività distinta e particolare. Le stesse, definitive obiezioni si possono muovere sia a coloro che interpretano il Kunstwollen nei termini di un’intenzione che incarna o simboleggia la psicologia del tempo storico in cui è vissuto l’artista, e che in tal modo non fanno altro che declinare in un’accezione collettivo-epocale la volontà del singolo individuo, cadendo nel medesimo circulus vitiosus; sia a coloro che leggono il concetto-chiave riegliano in termini di Einfühlung, di appercezione-‘compartecipazione’ fisiopsicologica, e che ci restituiscono più l’Erlebnis empatico dello spettatore di fronte all’opera che non la conoscenza specifica e determinata della forma visuale oggettiva, illuminando così il momento della ricezione e non quello della produzione dell’opera. Ciò che deve animare la ricerca, afferma Panofsky, non è una classificazione fenomenico-descrittiva delle caratteristiche dei singoli stili così come si sono storicamente 110

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susseguiti sulla superficie visibile dei linguaggi artistici, bensì una scoperta delle leggi stilistiche fondamentali, della logica interna dello stile. Dunque non si tratta tanto di designare il Kunstwollen come un concetto specifico −desunto per via astrattiva− che definisca le caratteristiche fenomeniche del testo in questione, quanto di vedere in esso «ciò che “sta” (non per noi, bensì obiettivamente) come un senso ultimo e definitivo del fenomeno artistico»15. Qui risiede l’aspetto cogente-“costrittivo” dello stile, in base al quale sarebbe del tutto errato affermare, ad esempio, che Polignoto avrebbe potuto benissimo dipingere un paesaggio naturalistico, ma non lo ha fatto perché non lo trovava esteticamente “bello”. È corretto invece sostenere che Polignoto letteralmente non può aver voluto, o meglio non sarebbe stato in grado di voler dipingere un paesaggio naturalistico, per il semplice motivo che tale tipo di raffigurazione avrebbe sostanzialmente contraddetto il codice di convenzioni visive dell’arte greca del v secolo. Affermata l’autonomia e l’interna organicità del linguaggio artistico, liquidato il pericolo di una lettura psicologistica, respinta l’interpretazione in chiave di sintesi puramente discorsiva o di concetto desunto intellettualmente dall’insieme degli enunciati dell’epoca presa in esame, Panofsky prosegue incurvando il problema dello statuto del Kunstwollen nelle cornici sistematiche di una Erkenntnistheorie, una ‘teoria della conoscenza’, terreno neokantiano par excellence. Compito dei concetti fondamentali della storia dell’arte (i Kunstgeschichtliche Grundbegriffe wölffliniani) è far emergere con chiarezza, all’interno del fenomeno artistico, un fascio di criteri di determinazione che non si riferiscano al fenomeno stesso, ma alle condizioni della sua esistenza; criteri che permettano appunto di cogliere il Kunstwollen solo a partire da categorie a priori e in base a concetti trascendentali. Panofsky non nega affatto −e questo è un punto importante da sottolineare− che il volere artistico debba 15

E. Panofsky, Il concetto di Kunstwollen, cit., p. 166.

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designare un senso immanente all’opera; purché, tuttavia, quasi alla stregua di una conditio sine qua non, esso venga precedentemente sussunto da quei criteri di determinazione dedotti a priori, “compreso” e come disciolto in essi. La considerazione di ordine filosofico-trascendentale estrae dalla proposizione «l’aria è elastica» (l’esempio è tratto dai Prolegomeni ad ogni futura metafisica di Kant) la sua essenza gnoseologica in base alla determinazione del concetto di causalità come categoria intrascendibile, universale e necessaria, prescindendo inoltre da ogni altro rilievo di ordine discorsivo-grammaticale, psicologico oppure logico-formale. Allo stesso modo, argomenta Panofsky, la scienza dell’arte può reperire nei propri oggetti di indagine un significato immanente e autonomo da ogni relazione estrogena, purché esso venga considerato sub specie delle condizioni della sua esistenza, in forza di “essenziali” a priori (come quello della causalità, che ancora si pensava esser tale almeno per la totalità delle manifestazioni fisiche) e all’interno di uno schematismo categoriale volto alla definizione della forma dell’intuizione artistica. Si scopre così che, nell’ambito del procedere argomentativo di Panofsky, la predicazione di un senso immanente al testo, all’opera, viene attivata non per indicarne una rilevanza strutturale, di interna formale connessione di elementi, ma soltanto per ribadire ulteriormente l’autonomia del Kunstwollen rispetto a ogni interpretazione condotta su basi psicologistiche, per distanziare con rinnovata forza −ma in direzione retroattiva− ogni imprestito estrinseco, ogni determinazione eterodiretta nei confronti dell’identità dell’opera. In ogni caso, senso immanente dell’opera si dà solo e soltanto in presenza e sotto la protezione e la garanzia di una unità trascendentale alla quale sussumere ogni singolo fenomeno. Si indirizza così la vis scientifico-interpretativa verso una disciplina, una sistematica dell’arte. Nell’interpretazione panofskyana, la necessità di affermare l’immanenza attuale dell’opera come tratto ineliminabile del Kunstwollen agisce unicamente sotto forma di pars destruens che serve ad allontanare 112

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ulteriormente ogni possibile “ritorno” in chiave psicologistica, di fondazione genetica, empirica o di sintesi puramente discorsiva ex post16. Quando poi si tratterebbe di sviluppare concettualmente, criticamente quella necessità in termini positivi e chiarirne le determinazioni riguardo alla concretezza dell’opera e della sua organizzazione formale, Panofsky finisce invece per discioglierne ogni potenzialità ripiegando su di un’impostazione neokantiana già superata dal dibattito scientifico-filosofico di quegli stessi anni, impostazione che predica categorie universali e logiche aprioristiche volte a “sostanzializzare” ciò che la fisica moderna giusto in quell’epoca andava scoprendo essere se non semplici benché potentissime convenzioni, certamente leggi empiriche di ambito limitato (e l’esempio addotto della causalità è appunto illuminante, paradigmatico in tal senso). Panofsky non intende approfondire l’analisi deducendo quali siano simili categorie atte a definire il concetto di Kunstwollen. Aggiunge soltanto che lo stesso Riegl (nei suoi studi pubblicati postumi sul ritratto di gruppo nella pittura olandese, sulla Vita di Bernini del Baldinucci, sul Barocco romano), proponendo la coppia di concetti «obiettivistico» e «soggettivistico» si è definitivamente affrancato da quelle influenze di tipo empirico-psicologico che ancora appesantivano la polarità «ottico-tattile» proposta nell’Industria artistica tardoromana, avvicinandosi perciò

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Ciò è chiarissimo in alcuni passaggi del testo, cfr. op. cit., pp. 168-169 e 171. Ma che la postulazione dell’immanenza dell’opera sia giocata da Panofsky sostanzialmente come un elemento tattico allo scopo di sbarrare la strada a ogni interpretazione storico-psicologica del fatto artistico, è del tutto esplicito anche in un altro luogo importante (nota 16, p. 176). Dopo aver ammesso che la «considerazione dell’arte» abbia potuto raggiungere un qualche successo nel cogliere il senso immanente dell’opera «anche senza la deduzione e l’uso di concetti fondamentali a priori o almeno fondabili a priori», l’autore sottolinea però che «a queste ricerche mancherà sempre la sicurezza del modo con cui distinguere l’elemento fenomenico, l’elemento psicologicamente o storicamente genetico dall’elemento di senso». Costituzione e strutturazione del senso dell’opera (non solo del suo “significato”) può darsi unicamente e in stretta interdipendenza con la sua fondazione trascendentale. Al di là, o al di qua, dallo schematismo, sembra vigere solo l’accidentalità empirica della sfera fenomenico-psicologica.

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a quella validità categoriale indispensabile al riconoscimento e alla fondazione del Kunstwollen in base a concetti fondamentali dedotti a priori. Concetti la cui necessità non è legittimata su basi storiche come rapporto di dipendenza tra diverse opere successive nel tempo, bensì come «senso unitario» del corso dei fenomeni in quanto «unità ideale». In questo modo, l’interpretazione panofskyana del Kunstwollen comprime ulteriormente la possibilità di render conto dell’emergere delle differenze dei linguaggi artistici, ne semplifica la complessità strutturale e qualitativa. Il generale inquadramento del problema in termini logico-gnoseologici riduce tali differenze alla stregua di questioni meramente metodologiche e “applicative” in senso protocollare, cioè come “attualizzazioni” di discipline fondanti tese a disegnare un sistema deduttivo della conoscenza e delle forme dell’intuizione artistica che mai incontra crisi ma solo autoconferme sintetiche. 3 In uno scritto del 1929 pubblicato come introduzione ai Gesammelte Aufsätze di Riegl17, Hans Sedlmayr, grande storico dell’arte esponente del pensiero tradizionalista, accoglie la pars destruens del saggio panofskyano di nove anni prima, quella in fondo più facilmente condivisibile, indirizzata −come abbiamo visto− alla liquidazione di ogni imprestito di natura contenutistico-psicologistica quale retroterra esplicativo del Kunstwollen. Ma seguiamo lo sviluppo della posizione di Sedlmayr. Il problema iniziale che si pone è quello di collegare il concetto di stile a quello di Kunstwollen. In quale relazione si pongono l’uno rispetto all’altro? Intanto, lo stile è una realtà intuitiva. Non è possibile dedurlo dalla combinazione o dall’articolazione discorsiva di altri concetti. Esso si coglie

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H. Sedlmayr, La storia dell’arte come storia degli stili. La quintessenza delle teorie di Riegl, in Id., Arte e verità (Itzelsberg, 1978); trad. it. Rusconi, Milano 1984. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo.

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solo intuitivamente in un’apprensione visiva diretta e immediata, esperienziale. Mentre i «contrassegni stilistici», afferma Sedlmayr, rappresentano la «variabile indipendente» della fenomenologia espressiva delle opere d’arte, il Kunstwollen ne rappresenta la «variabile indipendente», vale a dire il fattore positivo che in concreto determina i mutamenti di tendenza dello stile. La storia empirica dell’arte non può arretrare ulteriormente rispetto al Kunstwollen, concetto quindi considerato indeducibile, “finale”. E che non si identifica assolutamente con nessun tipo di atto cosciente di volontà. A Panofsky che parla di un senso immanente e oggettivo dei fenomeni artistici (ma nel quadro trascendentalista che abbiamo visto), Sedlmayr obbietta che appare incongruo e improprio usare il termine “senso” per definire il Kunstwollen, giacché tale termine possiede un significato più esteso di quello della categoria riegliana, così che non si può parlare di una “direzione” o di una “tendenza” del senso, ma solo e senz’altro, appunto, di una direzione o di una tendenza del Kunstwollen. Se accettassimo in toto l’interpretazione panofskyana, prosegue Sedlamayr, «il dinamismo che è contenuto nel concetto di Kunstwollen andrebbe in tal modo perso del tutto» (p. 45). A parte il riferimento a questa caratteristica di dinamicità, che in effetti −e lo vedremo più avanti− può portare a sviluppi interessanti, l’argomentazione risulta però sostanzialmente estrinseca, di segno più nominalistico e terminologico che non di merito. Una volta rifiutata la spiegazione in termini di volontà individuale dell’artista singolo o di volontà collettiva del suo «gruppo di appartenenza», Sedlmayr mantiene comunque aperto il problema del «portatore» del Kunstwollen, riferimento in certo modo ancora soggettivistico che invece in Panofsky si decanta e viene abolito per far spazio alla forza e al contenuto oggettivo e toto caelo sovraindividuale (di qualunque “individuo” possa trattarsi) del motivo riegliano. Non possiamo fare appello, sostiene Sedlmayr, per varie e differenti ragioni, né ai «tipi psichici» (forse un implicito riferimento agli Psychologische Typen di Jung del 1921, che contengono 115

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una lunga digressione sul Worringer “riegliano” di Astrazione ed empatia), né a entità quali i popoli intesi in senso etnico-razziale; e nemmeno allo Zeitgeist, allo ‘spirito del tempo’. Per render conto delle possibilità −reali e continuamente riscontrate− circa la compresenza, la diversa estensione e la pluralità degli stili all’interno di un unico e medesimo alveo culturale e storico-geografico, è necessario fare riferimento a un «gruppo di uomini che può essere variamente numeroso», subordinato però nel suo insieme, o meglio indirizzato, da uno «spirito oggettivo», una «volontà collettiva oggettiva» (un portato, annota Sedlamayr, della «moderna sociologia non-atomistica») che si erge dinanzi al singolo in qualità di potenza normativa. Tale volontà sovraindividuale non ha niente di mistico né è direttamente, intuitivamente rintracciabile nella dimensione fenomenico-cosciente dei singoli individui, bensì è «come lo spirito, qualcosa di reale, e cioè, una forza reale» (p. 46). Nonostante i suoi sforzi, tuttavia, non sembra che Sedlmayr riesca a individuare con sufficiente chiarezza il «portatore» del Kunstwollen. Sollevare di nuovo questo tipo di problema fa retrocedere tutta la questione, sostanzialmente la risoggettivizza e così la riporta quanto meno nei pressi di quella direzione interpretativa di carattere psicologistico (anche se stavolta di carattere collettivo) che al contempo si afferma di ricusare. In fondo, poi, lo stesso porre una questione come quella del soggetto «portatore» del Kunstwollen contraddice quanto lo stesso Sedlmayr aveva prima affermato circa l’indeducibilità del volere artistico, giacché chi lo “porta” non può evidentemente non assumere una posizione in senso logico antecedente rispetto al Kunstwollen “portato”. Ciò che in ogni caso vi è da rilevare di più importante è la conferma −per di più alquanto enfatizzata− dell’ottica normativistica che già abbiamo visto all’opera in Panofsky e che nella lettura di Sedlmayr sembra estendersi, rafforzarsi e acquisire ulteriori connotazioni monistiche (e politicamente inquietanti). Sedlmayr prosegue sottolineando positivamente la distinzione 116

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riegliana tra la «superficie dell’immagine», l’apparenza fenomenica dell’opera, e i principi di struttura centrali secondo cui essa è concretamente formata, e rispetto ai quali lo stile è appunto variabile dipendente, manifestazione esterna e visibile, empiricamente riscontrabile, di una precisa organizzazione significante interna, che in qualche modo si dà come legge, necessità, anche se non di natura storico-causale. Se prima di Riegl, nell’ambito degli studi di storia dell’arte, la registrazione dei tratti stilistici era in pratica il limite massimo raggiungibile da un esame unicamente descrittivo, ora quei tratti appaiono finalmente veri e propri oggetti di un’interpretazione, poiché sono deducibili da quei pochi principi centrali formativi le cui trasformazioni sono collegate strettamente alle trasformazioni della struttura spirituale di quel «gruppo di uomini» identificato in precedenza come il «portatore del Kunstwollen». Dunque quei principi di struttura attorno ai quali si forma concretamente l’organizzazione dell’opera non subiscono in Sedlmayr alcun fruttuoso sviluppo di natura strutturale, analitica. Non appaiono affatto, o quantomeno non vengono interpretati, come elementi connettivi della scrittura dell’opera, bensì vengono collegati e spiegati insieme a ragioni, motivi e presenze del tutto extra-testuali; esprimono, dice Sedlmayr, «valori», «obbiettivi della volontà», determinazioni «spirituali». Tali principi concorrono a formare una «teoria delle tendenze insite nel Kunstwollen» individuata risolutamente come «disciplina teoretica a priori» (p. 49). Quell’ottica deduttivistica che in Panofsky −a questo stadio dell’interpretazione− assumeva valenze nettamente gnoseologiche risolvendo il Kunstwollen in un problema di conoscenza, in Sedlmayr acquista invece una curvatura di ordine percettivo-fisiologistico (che riecheggia forse talune attitudini interpretative di Conrad Fiedler). Quei principi, infatti, si afferma prendano vita nell’ambito di una psicologia della percezione declinata non nei termini meccanicistici rifiutati dallo stesso Riegl, bensì assunta nella centralità ghestaltica di un rapporto cooperativo tra stimolo e risposta, esterno e interno. La considerazione «ravvi117

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cinata» oppure «illusionistica», «obiettivistica» o «soggettivistica» della realtà visiva, i concetti di «ottico», «tattile», le varie modalità cioè di percezione visiva ma anche di ordine spirituale che Riegl focalizza via via diventano, nella lettura che ne compie Sedlmayr, i “mattoni fondamentali”, le possibilità ultime e definitive nel cui ambito «si muove ogni Kunstwollen empirico e constatabile» (p. 52). Da questi «tipi naturali», da queste indeducibili «pure forme fondamentali», si può far discendere il movimento e la direzione di ogni Kunstwollen concreto e visibile, secondo un tipo di rapporto analogo −è lo stesso Sedlmayr a sostenerlo− a quello che intercorre tra gli “essenziali” della cristallografia, deducibili a priori dall’analisi della struttura del cristallo, e le forme cristalline empiricamente realizzatesi in natura, riscontrabili nella ricerca scientifica sperimentale. Da qui a ipotizzare una struttura teleologica forte e di conseguenza una predeterminabilità per così dire “naturalistico-storicistica” degli stili artistici susseguentisi in continuum tra loro e in relazione alle altre regioni culturali di una data epoca (religione, scienza, filosofia) secondo attitudini di volta in volta predominanti, il passo è breve. Tale ipotesi d’impianto fondamentalmente positivista è certamente presente in Riegl; anzi, in alcuni snodi centrali della sua ricerca, essa assume la forma di una vera e propria strategia conoscitiva. Di ciò non vi è questione. Ma il punto qui per noi è un altro. Ed è precisamente l’enfatizzazione interpretativa di questo aspetto deterministico. Così, per Sedlmayr, sia sull’asse sintagmatico sia su quello paradigmatico, il nesso interno tra gli stili artistici e quello esterno che li collega alle altre “serie”, alle altre Weltanschauungen, è di natura causale-necessitante, sistematico-deduttiva. Il senso della sua interpretazione del Kunstwollen è basato su tali parametri conoscitivi, ed è qui che essa si salda con la lettura panofskyana. Neokantismo e storicismo evoluzionistico sembrano così trovare una consistente linea di sutura. Esistono tendenze interne, «direzioni unitarie» che ab origine fanno sì (sono tutti esempi dello stesso Sedlmayr) che l’arte tardoromana sia “prevista” nell’arte 118

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greca; che alla concezione ottica debba seguire quella tattile; che dall’osservazione di una testa marmorea di Marc’Aurelio si possa dedurre come debbano essere apparsi i dipinti a encausto coevi senza mai averne visto uno; che nell’arte dell’età imperiale dei primordi risieda già in nuce l’intero sviluppo che poi porterà allo stile del periodo costantiniano, pensabile, costruibile a priori su quella base storico-genetica. Il concetto di stile finisce per venire ridotto ai termini di una grammatica “fondazionalista”, autoritativa, tanto che i fenomeni dell’anticipazione o dell’anacronismo −così frequenti nella storia degli stili artistici− acquistano significato solo se proiettati su questo sfondo teleologico-destinale, quasi come utili deroghe che istituzionalizzano la Regola. Ripetiamo: questi aspetti in Riegl sussistono e si dipanano anche in modo talora sistematico. Ma qui per noi ciò è meno importante del fatto che Sedlmayr li lasci emergere come vettori unici e incontrovertibili. Siamo così di fronte ancora una volta a un oscuramento della dimensione stessa del possibile, della produzione di differenze e sequenze “libere”, e al complementare privilegio concesso al momento della continuità “naturale” e logicizzante su quello della discontinuità eventualistica. 4 Occorre a questo punto che il nostro cammino si lasci illuminare da uno dei testi più importanti della riflessione storico-critica novecentesca, Vie des Formes di Henri Focillon. Vedremo forse giungere a soluzione alcune delle questioni rimaste aperte sia in Riegl, sia nelle interpretazioni che del Kunstwollen hanno fornito Panofsky e Sedlmayr. Sebbene Focillon non citi mai né questi autori né il principio della volontà artistica, i riferimenti interni e gli scambi dialettici saranno talmente chiari ed evidenti da esimerci dall’obbligo di esplicitarne ogni qual volta l’evidenza. Inoltre, l’attraversamento di Vie des Formes ci ricondurrà nel cuore della problematica dell’Ornamento, vero e proprio “basso continuo” di quel testo. 119

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Dinamicità, pluralità, antinomia sono i principi osmotici e flessibili che governano la visione storico-critica di Focillon, chiaramente influenzata dalla coeva filosofia di Bergson. L’opera d’arte non esiste che in quanto forma. Essa non è la “traccia” o la “curva” dell’attività artistica, ma è l’arte stessa: non la indica, la genera. L’“intenzione” dell’opera non ne esaurisce affatto l’identità puntuale. Commentarii e memorie lasciati dagli artisti, per quanto possano essere ricchi di informazioni e delucidazioni sul processo formativo da essi perseguito, non potranno dunque mai sostituire la più fragile opera d’arte: «per esistere, bisogna che questa si distacchi, rinunci al pensiero, entri nella dimensione: bisogna che la forma misuri e qualifichi lo spazio. Proprio in questa esteriorità risiede il suo principio interno»18. Esteriorità che è il perfetto contrario di eteronomia. Precisamente la sua realizzazione concreta e visibile, la sua fenomenizzazione spaziale, garantisce la piena, definitiva autonomia dell’opera d’arte, la sua struttura autosignificante: ed ecco la celebre formula secondo la quale «il segno significa, mentre la forma si significa» (p. 6). Si tratta di un’autonomia operativa, eminentemente dinamica. La forma esercita talvolta una sorta di magnetismo su significati diversi, può sopravvivere a lungo dopo la morte o l’affievolirsi del suo contenuto semantico (vedremo più avanti come per Focillon non si dia alcuna precedenza né storico-cronologica né trascendentale dell’uno rispetto all’altra), può generare tutta una sequenza di 18

H. Focillon, Vita delle Forme (Paris 1934); trad. it. Einaudi, Torino 1972, p. 5. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo. Si tratta in buona sostanza dello stesso “punto” di E. Cassirer, quando nel suo Individuo e cosmo nella filosofia dal Rinascimento del 1927 (trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1974) sottolinea che «sebbene l’artista non intuisca e non formi se non contemplando la pura forma, che determina questa sua attività, tuttavia egli possiede veramente tale forma, solo allorquando gli riesce realizzarla nella materia» (p. 215). Compito dell’artista, così come dell’eros ficiniano, è per Cassirer unire i separati, comporre gli opposti, “cercare” l’intelligibile nel sensibile. Per una monografia completa su Focillon, cfr. A. Ducci, Henri Focillon et son temps. La liberté de formes, Presses Universitaires, Strasbourg 2020.

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“figure” ormai senza più alcun rapporto con la loro origine. Sorge a questo punto il problema dello stile. Ma occorre operare una distinzione tra lo stile e uno stile. Lo stile è sempiterna, immota esemplarità che «si presenta come una sommità tra due declivi, definisce la linea delle vette» (p. 13). Uno stile invece è definito dal suo stesso sviluppo, che presenta momenti di flessione e cedimento all’interno di forme accomunate da una sorta di convivenza reciproca. Vive nella relatività, nell’autolimitazione di quegli elementi formali che ne costituiscono il vocabolario e la sintassi, l’insieme dei rapporti e delle misure. Soltanto operando e tenendo ben ferma questa partizione declinata sul rilievo grammaticale della defferenza tra un articolo determinativo e uno indeterminativo, si può arrivare a comprendere il fenomeno della pluralità degli stili che possono convivere contemporaneamente anche nella medesima cultura artistica, e quello della diversità dei loro sviluppi nei singoli e differenziati dominii tecnici ove essi si esercitano. Le esitazioni di Sedlmayr su questo punto −e le perplessità che esse sollevavano− vengono qui a decantarsi: la pluralità del Kunstwollen è affermata come suo proprio principio interno, sua autonoma e indelegabile spinta motrice. Essa non è più un problema esterno con cui il Kunstwollen deve comporsi, per così dire scendere a patti (e non si pone più, tra l’altro, la questione del «portatore»). Ogni stile, dunque, percorre e attraversa una quantità di fasi, di stadi, di epoche, ma il mutamento è sempre governato dalla logica interna delle forme, che obbediscono a leggi che sono loro proprie e che cementano i loro interni principi costitutivi e strutturali. Lo stesso Classico è uno stato, una configurazione, un momento sospeso sull’orlo di un’incessante autotrasformazione. Non è affatto lenta, monotona, ripetitiva applicazione di regulae (questo, semmai, è lo stadio “accademico” del Classico) ma «un’acutezza felice» in cui «l’ago della bilancia oscilla solo debolmente»: il Classico è in Focillon −del tutto paradossalmente, se si vuole, e comunque lontano da ogni communis opinio fin troppo vulgata− instans in cui accade il pieno possesso delle forme, che non è affatto mera stabilità, fissità 121

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assoluta e aprioristica, ma «miracolo» di una «immobilità esitante», un «tremito leggero, impercettibile» (p. 21). La sostanza vivente del Classico come tremolìo, come fremito: immagine innovativa, straordinaria. Esattamente a questa altezza dell’analisi si colloca l’interrogativo circa la concezione deterministica dello sviluppo storico dell’arte. Sottolineando con tanto vigore l’autonoma logica interna con cui si svolge nel tempo la vita delle forme, «non la facciamo ormai prigioniera della serie e come definita in anticipo?» (p. 25). Ora, ogni cieca predeterminabilità (uno dei nodi sostanzialmente insoluti in Panofsky-Sedlmayr) è del tutto evitata in ragione del fatto che precisamente la specifica, in sé unitaria e autoreggentesi configurazione di uno stile al contempo garantisce e promuove la diversità fenomenica delle opere, la concreta differenziazione dei manufatti. È proprio la potenza dell’ordine formale che autorizza e suscita il libero interrogarsi attorno alle regole impiegate. Se non si danno confini, non si danno neppure territori praticabili, e dunque trasformabili nelle loro estensioni e nei loro rapporti interni. La “libera prateria” è l’ineffettuale, hegeliano nulla senza determinazioni, il perfetto vuoto. Niente, lì, è possibile costruire, edificare: neanche un possibile stesso. Proprio perché limiti-confini devono darsi −e si danno in realtà− essi possono essere interrogati e dunque riformulati, ridefiniti, ridistribuiti. La molteplicità realizzata concretamente delle diverse esperienze e variazioni formali può nascere e svilupparsi, germinare ed espandersi unicamente in funzione dell’esistenza di limiti; è invece proprio lo stato di indeterminata “libertà” che è fatalmente destinato a condurre all’imitazione, alla ricetta applicata nell’automatica, cieca ripetibilità dell’attitudine concettuale e operativa. La forma non si identifica affatto con il proprio schema strutturale-geometrico bensì prende veramente corpo, diventa se stessa solo una volta a contatto con la materia, gli strumenti tecnici e le mani degli uomini. «Qui esse [le forme, ndr] esistono, e non altrove: vale a dire, in un mondo potentemente 122

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differenziato. La stessa forma conserva la sua misura, ma cambia di qualità secondo la materia, l’utensile e la mano. Essa non è un unico testo tirato su carte diverse, giacché la carta non è che il sostegno del testo, mentre in un disegno è elemento di vita, è nel cuore. Una forma senza il suo sostegno non è forma, e il sostegno è esso stesso forma. È dunque necessario far intervenire l’immensa varietà delle tecniche nella genealogia dell’opera d’arte, e mostrare che il principio di ogni tecnica non è inerzia ma azione» (p. 26). Non si potrebbe cadere in un abbaglio interpretativo maggiore se leggessimo in queste parole una specie di riabilitazione positivista del determinismo materialistico e tecnicistico che prese avvio dagli epigoni semperiani. In Focillon, il problema è interamente spostato e riformulato in termini che si pongono del tutto all’altezza della riflessione estetica moderna e contemporanea. Che la forma risulti qualificata-“differita” dal campo specifico in cui si esercita non significa affatto che quel campo −quella tecnica− ne risulti il principio solutore, l’asse portante attorno al quale si proiettano e si innestano le sue determinazioni. La forma produce lo spazio tal quale le torna necessario. Ecco perché, pur sotto l’imperio della prospettiva albertiana, dobbiamo ammettere molte altre modalità di visione, e pensare a costruire un esteso terreno di “leibniziani” possibili di cui la prospettiva razionale è soltanto una tra le occorrenze “vincenti” effettivamente realizzate. Nell’analisi schematico-ricostruttiva della scultura, il rinvenimento degli assi attorno ai quali si imposta la figura ci fornisce il suo movimento, il suo maggiore o minore distanziarsi dalla verticale, la sua ossatura geometrico-strutturale. Ma gli assi sono un’astrazione analitica, metodologica, così come lo sono i profili che ci informano dei contorni della figura a seconda dell’angolo sotto cui la si esamina, le proporzioni che ci chiariscono i rapporti quantitativi tra le parti, il modellato che ci traduce la mobile topografia della luce. Nessuno di questi elementi può sostituirsi al corpo della scultura, al volume, che a sua volta cambia a seconda 123

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della materia, in quanto variano i valori luminosi che lo modellano. Analogamente, applicando i medesimi principi, è possibile studiare l’insieme dei rapporti che in pittura la forma singola intrattiene con lo spazio. Ma di questo spazio la pittura non dispone; lo finge, lo allude, e proprio perciò lo costruisce. Ecco perché «miniatura, tempera, fresco, pittura a olio e di vetrate non potrebbero esercitarsi in uno spazio incondizionato: ognuno di cotesti procedimenti conferisce loro [alle variazioni dello spazio dipinto, ndr] un valore specifico» (p. 41). Qui davvero prende corpo e sostanza una dialettica assolutamente anti-deterministica tra forma e materia; qui davvero è affermata la differenza irricomponibile delle tecniche, il loro universo eminentemente critico. Così, lo “stesso” rosso assumerà proprietà e valori contestuali diversi a seconda delle modalità tecniche della sua stesura e del suo trattamento: non vi è Rosso ma una continua, non sintetizzabile dia-ferenza di rossi. La materia impone «la propria forma alla forma», dice Focillon, tuttavia «non si tratta di materia e di forma in sé, ma di materie al plurale, numerose, complesse, cangianti, aventi un aspetto e un peso, sorte dalla natura, ma non naturali» (p. 52), liberate secondo la loro propria, interna legge, il loro singolo nomos. Uscire da ogni vetusta antinomia tra materia e forma, materia e spirito, è la condizione stessa per penetrare nell’universo plurale della vita delle forme, che non si sviluppa secondo dati fissi e immutabili, «costantemente e universalmente intelligibili, ma genera diverse geometrie all’interno della geometria» (p. 50). Le forme non soggiornano in un luogo iperuranio prima di realizzarsi nella materia; piuttosto esse in qualche modo vi vivono già, anche precedentemente all’azione di prenderne concreto possesso, di abitarla. Se il principio interno della forma è precisamente la sua esteriorità, allora dobbiamo portarci al punto archimedico dell’incontro tra forma, materia, utensile e mano, al luogo geometrico della loro interattività. E occorre soprattutto comprendere che ancor prima di separarsi dallo spirito, dal pensiero, dal suo stato noetico, e accedere nell’estensione e nello spazio reale, la forma in certo 124

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modo è già estensione, materia, tecnica. Se ogni materia mostra la propria vocazione formale (il legno non consente intagli tanto morbidi quanto l’avorio; i minuti lavori di oreficeria sono impossibili con il ferro, che richiede un alto calore di fusione; il bronzo con il tempo si patina e dunque raggiunge effetti chiaroscurali interdetti all’alluminio), ogni forma a sua volta esibisce la propria vocazione materiale: «Nello spirito, essa è già tocco, intaglio, faccetta, percorso lineare, cosa impastata, cosa dipinta, disposizione di masse entro materiali definiti. Non si astrae; non è cosa in sé; impegna la tattilità e la visibilità. Come il musicista non sente dentro di sé il disegno della sua musica, un rapporto di numeri, ma sente dei timbri, degli strumenti, un’orchestra, così il pittore non vede in sé l’astrazione del suo quadro, ma vede dei toni, un modellato, un tocco. La mano, nel suo spirito, lavora. Nell’astratto essa crea il concreto e, nell’imponderabile, il peso» (p. 73). L’estrema flessibilità della morfologia genetica delle forme artistiche è qui del tutto evidente (così come è evidente l’influenza che questi motivi hanno esercitato sull’estetica di Merleau-Ponty). Focillon si riferisce continuamente al pluralismo e all’antinomicità dei diversi principi che presiedono all’un campo e all’altro. Ed è precisamente tale aperta, non sintetizzabile, non valicabile integrazione e molteplicità di fattori, quella che si oppone al rigore aprioristico del determinismo, frantumando −in sede analitico-descrittiva− la complessità del testo in una serie di azioni e reazioni senza alcun principio e alcun termine stabiliti, ma che si danno contemporanei nella viva flagranza dell’opera. Ma qual è in Focillon l’elemento connettivo che agisce da operatore tra i vari principi critici messi in campo, qual è il selettore che articola e compone dinamicità e differenziazione, antinomia e mobilità? Questo elemento è il tempo, attorno al quale le nostre concezioni abituali, sottolinea Focillon, vanno profondamente mutate. Qui −talora distillata in filigrana, talaltra esplicita fino all’evidenza− la presenza di Bergson è decisiva, e contribuisce a liquidare “a distanza” ogni traccia di storicismo positivista 125

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ancora fortemente presente in Riegl. Il punto, dunque, è quello di rinunciare in via definitiva a ogni parcellizzazione puramente lineare, quantitativo-“monumentale”, a ogni concezione isocrona del tempo. Il tempo è fluido, la durata è plastica, proteiforme. Bisogna liberarci dalla visione unilineare e successiva della storia, per abbracciarne un’altra apertamente polifonica, inverata da un capillare, stratificato intreccio di momenti presenti diversamente estesi. Focillon mette qui a frutto la lezione bergsoniana di Matière et mémoire: non solo le diverse durate si danno nella trama della loro radicale pluralità, ma ogni durata accoglie in se stessa una pluralità di ritmi, in un universo “leibniziano” di continui perturbamenti, in una rete fibrillare di modificazioni, cambiamenti di tensioni e di energie. Ogni durata è di per se stessa un assoluto, e a sua volta ogni ritmo che la innerva è esso stesso una ulteriore durata. A più riprese, cediamo al bisogno o al desiderio di distillare dalla storia, dal decorso temporale, la bella immagine di un’armonia prestabilita, di una composizione sintetica in cui i vari momenti trovano una loro giustificazione razionale che a sua volta, tuttavia, può essere predicata solo ex post. Occorre al contrario pensare la storia come «un conflitto di precocità, d’attualità e di ritardi» (p. 87). Soltanto su questa base potremo davvero comprendere quell’interna antinomicità di uno stile di cui prima parlavamo. Esso obbedisce a esigenze endogene ma difformi di accelerazioni e rallentamenti: «La storia dell’arte ci mostra, giustapposte nello stesso momento, sopravvivenze e anticipazioni: forme lente, ritardatarie, contemporanee di forme ardite e rapide» (p. 87). Il fenomeno dell’anacronismo, come quello dell’interna pluralità di ogni Kunstwollen, non è più, come in Sedlmayr, la deroga che conferma la Regola “destinale” degli stili, ma, ancora una volta, principio strutturante e fondativo. La diversità, lo scambio, il conflitto diventano elementi costitutivi della temporalità storica e della durata delle forme, tanto che l’approccio cronologico serve semmai a misurare le differenze tra le lunghezze d’onda, e non (fine cui invece è stato sempre piegato più 126

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o meno implicitamente) la costanza e l’isocronia, non la sequenza ben scandita dei suoi “quadri armonici”. Ecco perché l’arte crea «ambienti imprevedibili», risultato in fieri di velocità ineguali, ritmi intersecantisi, differenziali di intensità, rientranze e sporgenze temporali delinearizzate. Impossibile allora concepire il momento alla stregua di un punto qualunque ricavato dalla traiettoria di una retta, esattamente come in Bergson il movimento non può venir desunto dalla successione dei punti che esso percorre. Nel momento stesso vive immanente una polifonia di tempi, esso è un nodo, un rigonfiamento, un’estroflessione, il luogo dell’incontro antinomico «di parecchie forme del presente» (p. 98). Concezione in certo modo eventualistica del momento. Con accenti benjaminiani, Focillon ricorda che «un’espressione corrente ce lo fa vivamente sentire: “far data”, non è inserirsi passivamente nella cronologia, è far precipitare il momento» (p. 100). Entrare in costellazione, avvicinarsi e respingersi, attraversarsi reciprocamente arrestandosi per un attimo (il ‘tempo-ora’, lo Jetzt-zeit benjaminiano) a formare una configurazione incrociata, l’istantaneo fotogramma di un movimento incessante −per definizione non predeterminabile− di durate differenziate, ognuna con un proprio ritmo. È in questo punto, non prima, che si articola il rapporto tra appartenenza e decisione, tradizione e distruzione, fedeltà e innovazione, il contatto tra i due estremi del tempo in uno stile. La forma, «nell’istante in cui nasce, è un fenomeno di rottura» (ibid.). Ma questa «rottura», questo benjaminiano istante o «momento del pericolo»19 sono già inscritti nella tradizione intesa quale tutto-differenziato, polifonia dissonante di presenti ineguali. La fedeltà è tale solo nel suo momento di apertura ai processi di trasformazione che la innovano, in un’essenziale, fondativa e forse misteriosa coappartenenza di norma e scarto, istituzione ed eccedenza. Rinnovare l’ethos della regola si può solo quando già il 19  W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus, trad. it. Einaudi, Torino 1962, p. 77.

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“passato” (uno stile in trasformazione) di questa regola è marcato dalla traccia paradossale e inusitata del suo infuturarsi, cioè dalla possibilità −immediatamente data e continuamente, integralmente presente all’artista e nell’opera, nella sua pratica− di tornare altro ed estraneo a se stesso, Unheimliche. In questa polifonia di differenze va immerso il Kunstwollen come capacità di interrogare la propria stessa norma, di costruire l’inaudito nel già-udito. E ridefinizione del Kunstwollen può darsi soltanto motivandone le ragioni attraverso questa struttura mobile e antinomica della temporalità, ove, a velocità ineguali, vengono praticati linguaggi diversi, diversi ordini di rapporti, diverse misure. Ora, una di queste misure è senza dubbio l’Ornamento. Focillon vi si riferisce più volte e a più riprese, individuando nella scrittura ornamentale il luogo elettivo del gioco di scambi, rimandi e sovrapposizioni tra forma e segno. La forma può “cadere” a segno perdendo ogni contenuto rappresentativo; il segno può trasformarsi in forma secondo un processo metamorfotico continuamente riscontrabile. Semantica e sintassi vivono unicamente dei loro incessanti reciproci intrecci, tanto che nell’arte ornamentale la con-fusione tra forma e segno si mostra imperiosa e potente quanto mai altrove. Per questo, ogni rilevazione di carattere iconografico ha da essere estremamente mobile, prensile, pronta a collocarsi al punto critico della trasformazione dello statuto della scrittura, del testo visivo. Così, nella medesima figura, molte altre ve ne sono. La cifra ornamentale si annoda su se stessa configurando provvisorie sintesi che celano il rapporto geometrico-proporzionale tra le parti di cui essa si compone, creando, straordinaria formula, «un’arte di pensare che non ha nulla in comune con il pensiero» (p. 9) che si ritrova all’opera nei virtuosistici evangeliari celtici e in particolare in quello di Lindisfarne, nei miniatori anglo-irlandesi della famosa pagina del Chi-Rho nel Libro di Kells che abbiamo già richiamato, nel genio analitico dell’Islam. Apparentemente, non vi è niente di più lontano dalla plasticità, dalla porosità e dall’adattabilità di ogni 128

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principio empirico-vitale, delle combinazioni geometriche dell’ornamento musulmano. Tuttavia, tra quelle fasce che si intersecano, tra quelle guide che senza posa si sovrappongono, si distanziano e poi si incrociano di nuovo; tra quei labirintici intrecci che sembrano perfettamente riducibili alla ripetibilità di schemi matematici, di modularità puramente iterative, vive uno «strano genio della complicazione», una forma estremamente complessa di auto-organizzazione sistemica. Configurazioni «immobili», ma di una immobilità che «balena di metamorfosi, giacché ognuna d’esse potendosi leggere in vari modi, secondo i pieni, secondo i vuoti, secondo gli assi verticali o diagonali, nasconde e rivela il segreto e la realtà di possibilità numerose» (p. 11). Proteo, dunque, presiede all’Ornamento. Non tanto di “struttura” si deve parlare nel suo caso, quanto di attiva strutturazione, di una pratica che produce, inventa ritmi e configurazioni riconducibili alle più pure forme di quel pensare che non è pensiero. La rilevazione geometrico-matematica si può senza alcuna eccezione applicare all’analisi del rapporto tra le parti, poiché l’Ornamento vive di una logica interna autoproliferantesi nel gioco delle sue celate regulae. Ma su tutto ciò, sulla produzione ornamentale, vige la proteiforme complessità del Kunstwollen che ne governa i movimenti. Una complessità che, nell’interpretazione di Focillon, assume un valore assolutamente centrale e dirimente. Avevamo già sottolinea­ to come la forma venga a qualificarsi in primo luogo rispetto al campo speciale, al multiverso delle tecniche in cui prende vita e si alimenta. Ora, la potenza noetica che l’Ornamento esprime sembra tanto forte, tanto intensa da poter travalicare i diversi limiti o dominii tecnici. «Prima ancora di essere ritmo e combinazione, il più semplice tema d’ornamento, la flessione d’una curva, un racemo, che implica tutto un avvenire di simmetrie, di alternanze, di raddoppiamenti, di ripiegamenti, cifra già il vuoto dove appare e gli conferisce un’esistenza» (p. 29). L’Ornamento, proprio perché fondato e sviluppantesi su principi organizzativi endogeni, su ritmi 129

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automorfici, non esiste soltanto per se stesso, ma crea, produce il proprio “ambiente”, cui la sua forma fornisce una forma. In questo universo intervallare e frammentato, il fondo talora resta visibile e la scrittura si distribuisce regolarmente; talaltra, il motivo ornamentale fagocita il piano di posa, e allora non è più possibile discernere le forme, giacché esse non restano solidamente chiuse, delineate a blocchi paratattici, ma al contrario occultano nei loro labirintici intrecci sia lo spazio che le sostiene, sia il loro principio e la loro fine, il loro “corpo”. Il nous che governa l’Ornamento sembra in prima istanza rompere, lacerare ogni confine, ogni “gabbia d’acciaio” di ordine tecnico-materiale. Spazio e forma, dunque, si generano l’un l’altra nella scrittura dell’Ornamento, ordinandosi secondo le medesime leggi in rapporto a se stessi. Ciò non significa che l’ornamentale sia puro grafismo né mera piattezza. Abita invece uno strano, inusitato luogo formale esprimibile con un ossimoro, quello del «modellato piatto». Ancora una volta, Focillon ibrida gli opposti, recupera dimensioni plurali ove appaiono esservi unicamente principi di singolarità regolare, innesca di nuovo l’operatore o il dispositivo dell’antinomia, il meccanismo del conflitto formale. Non appena “liberato” dall’ordine delle tecniche, l’Ornamento vi si reinnesta a un più alto grado di osservazione. Niente potrebbe la sua inflessibile legge formale, la sua autogerminante logica interna, se essa non si aprisse –pur restando intatta nella sua potenza– alla sterminata varietà fenomenica delle datità percettive e delle strategie empiriche del fare: da forma a forza. La straordinaria valenza noetica dell’Ornamento, il suo genio analitico, dunque, si manifestano e assumono la propria interna misura solo incrociandosi con i linguaggi della tecnica, con la metis, la sapiente perizia che essi esprimono, con la capacità tattico-strategica di imporre soluzioni formali concrete tese a mediare, a “dialettizzare” la purezza matematica che gli è propria. Qui, tempo e Ornamento (il tempus “romano”, il flusso dinamico e vivo dell’esistenza) sono uno. Come il tempo è in Focillon un complesso 130

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mobile di durate, una multiforme e stratificata polifonia di ineguali presenti, così l’Ornamento si sposta a rizoma su piani e direzioni difformi, a velocità differenziate: un fascio organizzato di alterità.

L’espressione più limpida e pura Pur descrivendo differenti percorsi interni al plesso gnoseologico indicato dal principio del Kunstwollen, abbiamo visto che le letture fornite da Panofsky e da Sedlmayr tendono entrambe a sottolineare, con diversi accenti, la suscettibilità che avrebbe il tema riegliano di fondare una filosofia trascendentale e teoreticista dell’arte, finendo per saldarsi nell’enfatizzarne gli aspetti apriorici e normativistico-logicizzanti. Sostanzialmente, è vero che Riegl è alla ricerca di “schemi” che assicurino la comprensibilità metastorica delle epoche artistiche, e sarebbe ben difficile non vederne la natura causativa e teleologica. Un’interpretazione del Kunstwollen integralmente purificata da questi elementi sarebbe improponibile, tanto stridente si mostrerebbe l’urto logico con il proprio oggetto. Le prospettive di Panofsky e Sedlmayr sono da questo punto di vista perfettamente plausibili; anzi, potremmo dire, eccessivamente plausibili, dal momento che in buona sostanza non fanno altro che sviluppare temi e determinazioni metodologiche già presenti, talora in piena evidenza, nella nozione riegliana. Occorre allora tentare una dislocazione interpretativa (anche se ciò comporta una qualche ineliminabile forzatura) che permetta di riformulare in chiave testuale-immanente il principio del Kunstwollen. Totalizzandolo come condizione a priori delle singole opere, come sistema “disciplinare” della loro ammissibilità logica, si rischia tra l’altro di ridurre l’intensità potentemente anticlassica di un concetto che non soltanto sigla la definitiva elisione dell’arte dal Bello, ma che permette altresì di liquidare ogni rilevazione di un progresso e di una decadenza nel decorso storico dei linguaggi artistici, rompendo 131

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con rigide classificazioni e distinzioni gerarchiche basate su presunti “valori”. Sotto questo aspetto, Riegl quantomeno si indirizza verso la profonda ridiscussione e la crisi dell’autorità delle estetiche sistematiche, proprio nella misura in cui il post-classico significa per lui la possibilità finalmente raggiunta di una sobria, disincantata analisi fenomenologica dei linguaggi plurali −e irricomponibili in bella sintesi ideale− della diaspora artistica. È a quest’altezza che si dispiega la logica produttiva di quella crisi. Questa prospettiva chiude un secolo e ne apre un altro, definisce uno dei tratti del Moderno e costituisce un retroterra decisivo e ineliminabile per le avanguardie del primo Novecento. Qual è dunque la possibile strumentazione da mettere in campo per un’ipotesi di rilettura del Kunstwollen? Henri Focillon −nell’ambito dell’itinerario che abbiamo condotto fino a qui− ci ha permesso di compiere sostanziali passi avanti proprio in questa direzione. I suoi concetti-cardine di dinamicità e pluralità, di antinomia e di temporalità iridescente innestata su una polifonia di durate, non si presentano soltanto sotto la veste di principi metodologici, bensì imbastiscono dall’interno la trama della scrittura ornamentale, agiscono nella struttura dell’opera: si qualificano come collettori della differenzialità dei testi e non come loro sintesi ideale. Al di qua di tale prospettiva critica, si vanifica ogni analisi del vincolo Kunstwollen-Ornamento. Occorre sviluppare il tema riegliano non come fosse l’orizzonte già dato al quale la fenomenica delle opere risalenti a un certo periodo storico-culturale va ricondotta, e solo da quell’orizzonte deducibile. In un quadro generale di indebolimento delle valenze ricompositive, olistiche, che Riegl stesso assegnò al concetto di volontà artistica, occorre tracciare una linea interpretativa in base alla quale diventi possibile sottolineare la forza analitica e strutturante che il Kunstwollen esercita nei confronti di ogni opera concreta, rilevabile “sperimentalmente”: plesso unico, indelegabile e in sé dialettico di rapporti, snodi e relazioni formali radicalmente immanenti al linguaggio presente, costruito. Occorre cogliere il Kunstwollen come 132

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tendenza, forma aperta dell’organizzazione strutturale-immanente dell’opera. In nessun modo può essere posto a designare l’incontro tra intenzione e realizzazione (e come può davvero esistere autentica intentio al di fuori dell’opera realizzata?) e neppure può intendersi come l’idea, il noumeno, di cui l’opera sarebbe l’icona sensibile, l’immagine fenomenica. Da questo punto di vista, esso non indica alcuna sintesi, alcuna ricomposizione: non è la verità dell’eidos nella cosa. Ma questo non significa che sia semplice restituzione descrittiva dei materiali impiegati, mera ripetizione del loro darsi. In quanto ne rappresenta il principio strutturale e organizzativo, il Kunstwollen si distacca dall’immediata contingenza dei materiali e dalle forme del loro articolarsi, non ne segue l’infinito, dispersivo ed erratico declinarsi nella fatticità empirica di questa o quella singola opera. Possiede sì una sua potenzialità di astrazione-“anticipazione” che si configura come precipitato dell’iridescente compresenza delle attitudini formali e operative, in delicato equilibrio tra normatività-legalità ed empiricità-storicità dell’opera. Anticipazione, però, non nel senso di un teleologismo garante di predeterminabilità sintetiche, ma nel senso della capacità analitica: e ciò significa (come abbiamo visto con Focillon) piena emersione del suo statuto differenziale. Il Kunstwollen designa percorsi inconciliabili aprioristicamente, irriducibili a un orizzonte trascendente, sistematico, “universalistico”, ma disposti nell’analisi al medesimo, flessibile, plurale principio organizzativo. Questa è precisamente la sua capacità di “illuminare”-produrre differenze proprio in quanto tali conoscibili, percorribili da uno sguardo critico alieno da ogni velleità di padroneggiamento astrattamente metalinguistico. Quando ad esempio Riegl afferma che «il Kunstwollen figurativo regola il rapporto dell’uomo con l’aspetto delle cose percepibile dai sensi: è qui che si esprime il modo con cui l’uomo forma di volta in volta le cose o vuole vederle colorate»20, acquista allora un valore 20

A. Riegl, Industria artistica tardoromana, cit., p. 376. Riportiamo qui la migliore e

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interpretativo centrale sottolineare che in questa formulazione non emerge nulla in base a cui poter “sostanzializzare” la volontà artistica per fornirne una lettura di tipo normativo. Vi si nominano invece processi percettivi, relazioni, rapporti del tutto immanenti, aspetti della percezione: modi e non “essenze”. D’altra parte non può non avere una sua valenza sintomale il fatto che in Riegl il principio del Kunstwollen non è mai dedotto teoreticamente. Certo, esso mostra anche una sua cogenza, un aspetto inflessibile; certo, designa un costrutto concettuale coerente rispetto alla dispersione delle singolarità. Ma è precisamente in virtù di questo suo versante “unitario” che Riegl può articolarlo sottilmente: «lo cala e discioglie, per così dire, e lo ritrova nel concreto delle singole opere»21. E proprio in questa capacità del tutto immanente risiede il suo valore epistemologico. Saper inclinare e declinare il Kunstwollen con la sua cogenza regolatrice, ordinatrice, certo: ma per cogliere nuances, dissonanze, inflessioni che innervano il testo come il reticolo linfatico la foglia. Qui, e non nel tratto apriorico-necessitante, non nella facies autoritario-legislativa, risiede la sua potenzialità e la sua disponibilità ermeneutica sia per ciò che riguarda la metodologia storiografica, sia rispetto all’analisi della singola opera o di un gruppo di opere omogenee. Il Kunstwollen è la forma attuale dell’organizzazione dell’opera, il suo senso immanente e storico-mondano; non la sua unità formale-trascendentale categorialmente intesa. Emerge così più chiara traduzione dello stesso passaggio argomentativo contenuta nell’ed. Einaudi, Torino 1959: «Tutta la volontà dell’uomo è tesa a confermare in modo soddisfacente le sue relazioni col mondo (nel senso più ampio della parola, cioè dentro e fuori dell’uomo stesso). La volontà artistica ne regola le relazioni coll’aspetto delle cose percepibili ai sensi: si attua, insomma, esprimendo le cose come l’uomo le vuole vedere, in forma e colore (e nella poesia, esprimendole come l’uomo le vuol sentire espresse) ma anche (attivamente) vuole; e perciò aspira a conformare il mondo così come egli se lo desidera» (p. 272). 21  S. Bettini, Introduzione in A. Riegl, Industria artistica tardoromana (ed. del 1953), cit., p. xliii. Quello di Bettini è un testo per molti versi culturalmente antesignano (si noti ad esempio l’insistenza sul concetto di struttura) e ancor oggi perfettamente “spendibile”.

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il suo statuto critico-differenziale, la sua dimensione di libertà. Il Kunstwollen segna, innerva l’organismo dell’opera, ma non si riduce a restituirla all’analisi come una empiricità transitoria, senza alcuna capacità apprensiva. È il Possibile che resta immanente all’opera, la possibilità di una sua diversa esistentificazione, il sempre-aperto che però fonda ed emerge intatto dal finito dell’opera22. Insopprimibile nell’opera d’arte è la tensione aporetica che in essa si origina e prende forma tra l’oggettualità sensibile e l’oggettualità ideale, e che la colloca in una condizione liminare, illocalizzabile dal pensiero metodico-razionalizzante. Questa feconda forma di “geometrico” quanto enigmatico equilibrio si organizza sulla base di una necessità interna, di un sistema di coerenze che non è lo stesso che connette i dati dell’immediato reale empirico. È piuttosto un comporsi di elementi normativi, nomotetici, e di elementi novatori, indeterministici. Ma qual è il legame che stringe in uno i poli della cosalità e dell’idealità? Lo analizzeremo seguendo alcune considerazioni estetologiche di Nicolai Hartmann23. Secondo una rilevazione di natura fenomenologica, egli chiama quel nesso Erscheinungverhältnis, ‘rapporto di apparizione’, ed è in questo apparire che risiede la specificità del valore estetico. La struttura modale dell’opera d’arte, infatti, si articola per Hartmann in un Vordergrund, ‘primo piano’, lo strato presenziale-sensibile che si offre alla percezione, e in un Hintergrund, ‘strato di fondo’ incosale che invece sfugge alla percezione offrendo i suoi contenuti spirituali a una «superiore in22  Per il motivo del Possibile che stiamo tentando in queste pagine di intrecciare al concetto di Kunstwollen, cfr. M. Cacciari, Icone della Legge, Adelphi, Milano 1985, in part. il cap. «La goccia di Leibniz». 23  N. Hartmann, L’Estetica, a cura di M. Cacciari, trad. it. Liviana, Padova 1969. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo. Il volume raccoglie passi scelti da due opere di Hartmann, Möglichkeit und Wirklichkeit del 1938 e Aesthetik del 1953. Sull’estetica hartmanniana, cfr. F. Löw, L’estetica di Nicolai Hartmann, «aut-aut», 23, 1954; D. Angelucci, Il visibile e l’irreale. L’oggetto estetico nel pensiero di Nicolai Hartmann, Aesthetica Preprint, Palermo 1999.

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tuizione». Soltanto questo secondo strato è proprio e specifico della visione estetica in quanto tale. Appare evidente l’appartenenza di questo modo di porre il problema della presenza dell’opera d’arte a quella tradizione metafisica portata alla sua massima maturazione da Hegel e dall’idealismo, che definiscono il bello come apparire sensibile dell’idea. Hatmann interroga e riformula in termini sofferti, contraddittori e sostanzialmente incompiuti quella tradizione. Ciò che qui tuttavia interessa è il suo centrare l’attenzione sul rapporto arte-possibilità. Il primo strato dell’oggetto estetico cade sotto le leggi della Wirklichkeit, dell’‘effettività reale’. Lo strato di fondo, invece, è pura possibilità svincolata dalla trama cogente delle condizioni reali: è, scrive Hartmann, «possibilità di un “meramente possibile”, che non è in pari tempo necessario e quindi nemmeno effettivo: una possibilità libera dal rapporto di coincidenza e dalla necessità» (p. 74). Lo strato di fondo, dunque, appare nel primo piano; non, però, come apparenza fallace e ingannevole, giacché il bello rinvia a una «pura separazione senza ritorno» (p. 72). È piuttosto un ineffettivo che non pretende di illudere, di darsi come “vero reale”, quindi, nella sospensione in cui si trova, è libero dalle angustie, dall’indigenza e dai vincoli dell’effettualità. Il bello, afferma Hartmann, è il risultato di una Entwirklichung, di una ‘dis-effettuazione’, di una disattivazione del reale: atto specifico e indelegabile della visio estetica che rinvia a una possibilità «disgiuntiva in modo incalcolabilmente molteplice» (p. 76). Anche il bello, certo, si trova condizionato da una necessità, che tuttavia non è reale-effettiva ma intrinsecamente, autonomamente artistica, e si riflette e si articola nella legalità formale, nell’interna determinatezza del suo porsi e della relazione tra i vari strati di cui esso è composto24. Ora, 24  Non a torto Dino Formaggio, nella sua Introduzione ai testi di Hartmann (cit., p. 28) prende le distanze da questa reimmissione dell’elemento effettivo-necessario all’interno del Bello: «Ed infine si capisce ancora come sia la necessità che la effettività, fatte così rapidamente sparire dal campo dell’arte, ricomparissero alla fine all’improvviso e tornassero all’ultimo atto in mezzo alla scena, come per concludere

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quantunque Hartmann sottolinei la centralità dell’elemento sensibile-materiale, dedicando una quantità di considerazioni all’analisi delle gradazioni “sistematiche” degli strati nelle varie singole arti, il rapporto tra Vordergrund e Hintergrund, tra emergenza empirica e senso noetico dell’oggetto estetico, permane ancora, al di là del travaglio terminologico, all’interno di una concezione “scolasticamente” metafisica tra sostanza e accidente, fisicità percettiva e purezza ideale. Già in Möglichkeit und Wirklichkeit, al capitolo «Il mondo del Bello e la sua struttura modale», l’effettivo reale in cui si muove il primo strato dell’opera soddisfa esplicitamente la funzione del tutto vicaria di “portatore” del Bello, dal momento che ne costituisce «la base ontica nell’angustia del reale» (p. 74). La separazione dal realmente effettivo propria dello sfondo in cui si articolano i contenuti e gli elementi spirituali dell’opera «permane nell’ineffettivo, e il suo ricollegarsi all’effettivo è soltanto qualcosa che si aggiunge» (p. 76, corsivo nostro). Il dileguare della necessità e dell’effettività dal campo dell’arte per liberarsi nello slancio di un possibile inteso come rottura delle «catene dell’essere», del reale come “gabbia d’acciaio”, coincide con la “crociana” destituzione o il declassamento della forma sensibile a «mezzo», «aggiunta» e supplemento che costringe e necessita, contro cui infatti si deve «lottare» (cfr. ibid.), quasi si rimettesse in campo il fraintendimento della lezione semperiana che abbiamo già evocato. La Entwirklichung, la disattivazione del reale che “apre” nel Bello alla possibilità disgiuntiva, soffre l’espressione attraverso il materiale sensibile come un vincolo, una limitazione necessaria suo malgrado. Il rapporto di apparizione che vincola gli strati dell’oggetto estetico −anche se l’analisi rimane contraddittoria, irrisolta, talora avvertita dei propri stessi limiti− finisce per irrigidirsi in Hartmann in una relazione

un gioco di prestigio, sotto il cattivo travestimento della necessità interna come legalità dell’opera d’arte e della effettività sui generis come effettività non più reale ma estetica».

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esterno/interno, si modella su di un assetto schematico superficie/ profondità, su di una dialettica interrotta supplemento/fondamento. Ma lo abbiamo già visto: il Possibile che il Kunstwollen lascia emergere nell’opera non può andar disgiunto dall’aperta e irricomponibile articolazione delle forme visibili che la scrittura artistica ci mostra. Solo lì un Possibile può darsi, proprio nella infinita declinazione delle tecniche e dei linguaggi finiti; diversamente, si reifica in categoria pronta a far da matrice di deduzioni sistematiche dalle quali la presenzialità e la flagranza dell’opera singola soltanto discenderebbero come sue applicazioni, in quella prescritte. Proprio il «primo strato», la forma sensibile garantisce l’eccedenza rispetto alla semplice e immediata dispersione dei materiali. Se non si tiene fermo all’aporetica, alla paradossalità di questo fragile equilibrio, si ricade inevitabilmente in una teoria dei “due tempi”, ovvero in uno schema che gerarchizza elementi ante rem (lo Hintergrund) ed elementi post rem (il Vordergrund), “precedenze” e “conseguenze”. L’impressione è che Hartmann imposti il decisivo problema del rapporto tra arte e possibilità, ma poi receda e ne arretri gli sviluppi riportandoli su di un terreno idealistico-tradizionale. Occorre invece riformulare la questione accordando tutto il suo valore alla presenzialità e alla determinatezza dell’opera. Nei “linguaggi” artistici, ogni costruzione effettivamente data si proietta sullo sfondo di possibilità che permangono tali, che non trapassano nella loro empirica realizzazione, che non vi si riducono. L’opera è un percorso non astrattamente prefigurabile attraverso l’universo dei possibili, tra le infinite serie e combinazioni dei possibili. Eppure, il percorso effettivamente realizzato rimane immerso nel Possibile. Potremmo anche dire: il Kunstwollen “è” sempre, ma esiste soltanto e unicamente all’interno dell’opera determinata, nel suo So-sein, nel suo ‘esser-così’. Esso non è un costrutto puramente metodologico, una categoria creata in vitro per essere utilizzata nel corso dell’analisi ricostruttiva; ma non è neppure il contrassegno, la traccia immediatamente verificabile sulla facies dell’opera come 138

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un tatuaggio. Non è l’idea che “riscatta” la materia, ma non è neppure la semplice percorribilità dei materiali esposti. È una latente possibilità, che tuttavia come tale positivamente sussiste e opera. Esso rende evidente e percettibile l’immersione della singola opera in una pluralità coestensiva e paritetica di occorrenze possibili, in una rete di solidarietà e opposizioni strutturali percepibili sì a partire dall’empiricità dell’opera, ma non identificabile né riducibile all’isolata contingenza dell’organizzazione formale realizzata. Il Kunstwollen dovrebbe essere allora interpretato come il Possibile dell’opera nel senso che fa emergere l’intertestualità di quel testo, intesa in una duplice prospettiva. E cioè sia come intima relazione tra il singolo testo e le infinite serie −dialettizzate storicamente− che lì non si sono date, ma che tuttavia −proprio perché questo testo esiste e si offre all’analisi− restano organicamente a esso afferenti attraverso modalità in absentia, strutturandolo “in levare”; sia come rete, trama virtualmente infinita di incroci con altri testi, di cui il singolo testo stesso risulta sede e manifestazione. Il Kunstwollen vive nei particolari, differenti linguaggi, non è un super-ordine né un concetto puramente trascendentale: semmai potremmo dire che indica una ossimorica immanenza trascendente. Precisamente in ragione di ciò, esso da una parte non anticipa il concreto momento produttivo, dall’altra non ripete, non ripercorre semplicemente il “meccanismo” formale dell’opera una volta oggetto di analisi. Costituisce semmai lo strumento interpretativo in forza del quale poterla interrogare nella sua eccedenza, nella sua insopprimibile verticalità. Se l’opera come costruzione formale concreta è il fenotesto, il Kunstwollen potrebbe designarne il genotesto, lo spazio a partire dal quale è pensabile ed è interrogata la datità fenomenica dell’opera25. È il terreno su cui si genera la sua particolare, organica struttura, che solo in tal modo si rende percepibile, dunque comu25  Sulle nozioni di genotesto e fenotesto, cfr. J. Kristeva, Semeiotiké. Ricerche per una semanalisi (Paris 1969); trad. it. Feltrinelli, Milano 1978, in part. pp. 227-302.

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nicabile. Il fenotesto non è leggibile senza il genotesto. In questo senso, il Kunstwollen designa la leggibilità interna dell’opera, la sua attiva disponibilità ermeneutica, la dialettica interpretativa che essa instaura a garanzia della sua analizzabilità. Ma il genotesto non pre-esiste in un iperuranio ideal-formale rispetto al fenotesto. Esso è semmai il principio organico-differenziante della strutturazione dell’opera rinvenuto nell’opera stessa. Germina con questa costituendone il fulcro, il perno struttivo attorno al quale essa ruota e si organizza risuonando dei molteplici registri, delle innumerevoli serie poste in absentia, cioè compossibili nell’intertestualità. Tantomeno il genotesto teleologicamente predetermina il fenotesto. Qui emerge un multiverso iridescente, diacritico-dissonante, e non logico-sistematico. Il Kunstwollen niente può letteralmente “anticipare” dell’opera, se ciò significa prescriverne a priori l’impianto struttivo e le caratteristiche formali intrinseche. Cresce con essa e con essa si modifica. In tal modo riesce a definirne i limiti in perpetua mutazione ed estensione in rapporto alla sua maggiore o minore capacità di ordinare-realizzare sequenze libere. L’opera è lo spazio necessario in cui si affrontano, si confrontano e trovano il loro profilo unitario ed esteticamente intuibile le dialettiche aperte dell’appartenenza a un linguaggio ereditato e della sua modificazione. Essa mostra questa tensione produttiva, fa spazio perché si esprima, si componga visibilmente, si articoli alla luce delle forme, delle tecniche e dei materiali. Districare questi elementi costitutivi e irrigidirli in contrapposizioni normative (è questa l’“avanguardia” ridotta a disciplina, a “militanza”) significa perdere l’opera, consegnarsi allo sguardo spento di Euridice. Il Kunstwollen appare come quel logos polemos che evita la dispersione nullificante dei testi, ma è in sé multiverso di differenti. Come il logos eraclitèo, è alimentato da una profonda, realissima philìa che si esplica per via di differenze. Qui sta il suo momento unitario, il suo aspetto sincretico: a questo livello, non prima. Una matrice generativa di possibili: è proprio reinterpretato nella sua natura diacritica che il 140

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Kunstwollen sa illuminare la reciproca coappartenenza di necessità e arbitrio innovatore, di tradizione e modificazione che in ogni opera vive e attraverso la quale ogni opera si fa riconoscibile in quanto tale e come luogo di accrescimento dell’intelligibilità critico-storica. Vi è certo una logica interna, vi è certo una cogenza strutturale, altrimenti neanche autonomia dell’opera vi sarebbe. Ma, ripetiamo, non è affatto predeterminabile in termini normativi-evoluzionistici la forma della singola opera, del singolo testo. Ciò non significa che il Kunstwollen non renda possibile e plausibile un certo qual margine di previsione; in fondo la pratica dell’attribuzionismo, ad esempio, si basa proprio su una sorta di logica semi-intuitiva in cui si mescolano inferenza, interpolazione e abduzione. Il punto, però, è che non appare possibile dedurre a priori la forma della singola opera dalla “famiglia” stilistica −conosciuta nei suoi tratti generali− cui si ritiene appartenere. Precisamente per questo, cogenza della regola e scarto “libero” mai possono districarsi l’uno dall’altro nell’opera. Soltanto la sua analisi interpretativa (e verbale) può tentare di scioglierne criticamente-analiticamente la dialettica. Il Kunstwollen è allora quell’equilibrio continuamente posto e decètto tra sequenza nomotetica e sequenza libera di cui l’opera singola è immediata incarnazione. Solo se non è interpretato come schema deduttivo che legifera sull’“attività artistica” né come unità formale-trascendentale delle opere; solo se lo si legge come individuazione critico-operativa della struttura organica e immanente dei linguaggi artistici, forma e principium tangibile e analizzabile della loro organizzazione compositiva, e proprio per questo sottoposta a continue crisi di trasformazione storica; solo se si riformula il Kunstwollen in termini di intertestualità, la pratica dell’Ornamento ne può rappresentare, come affermava Worringer, «l’espressione più limpida e pura»26. 26  W. Worringer, Astrazione e empatia (München 1908); trad. it., Einaudi, Torino 1975, p. 69.

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Logiche dell’astrazione: Vienna 1 Giunti a questa fase dell’indagine sul concetto di Kunstwollen, siamo in grado di ricollegarne più strettamente le valenze interpretative al problema dell’Ornamento, ora che queste sono prosciugate da ogni apriorismo deduttivo. Avevamo accennato al fatto che l’impostazione sobriamente descrittivo-fenomenologica di Riegl, del tutto aliena da umori contenutistici o psicologici, consente due importanti operazioni, due mosse decisive. La prima, esplicita in Riegl, è quella che vede l’annessione produttiva al territorio dell’analisi storico-critica di zone, pratiche, settori artistici e linguaggi precedentemente ignorati o scarsamente delineati in ragione di un’idea auratica, preclusiva e normativistica del Bello. E ci siamo già soffermati su questo punto. La seconda mossa conferma la straordinaria fertilità metodologica dell’opera di Riegl (e soprattutto, qui, di Stilfragen), la ricchezza di intenzionalità esplicite e implicite che essa racchiude, ma che possono emergere, animarsi e dar frutti soltanto se rivelate da un corretto e specifico taglio interpretativo. Questa seconda mossa, infatti, è possibile soltanto a partire da Riegl, sviluppandone −o dislocandone, ancora una volta− gli apporti critici fondamentali. Di che cosa si tratta, in sostanza? Il tentativo è quello di connettere complessivamente il senso del lavoro storico-metodologico di Riegl e delle ipotesi di lettura che Stilfragen innesca sul materiale a disposizione, con il problema dell’astrazione e con alcune delle pratiche artistiche che tale problema −emerso consapevolmente proprio a cavallo tra Otto e Novecento− iniziava ad alimentare. Ecco la ragione in base alla quale abbiamo messo in campo uno sforzo analitico per “salvare” il Kunstwollen da letture schematico-trascendentali e finalistico-ricompositive, con il conseguente tentativo di una sua riformulazione metodologica in termini pluralistici, immanenti, intertestuali, mediata dal cruciale riferimento a 142

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Focillon. Operazioni del tutto arretrate e inutili se non avvertissimo che quel principio −esso stesso concepito nella famiglia culturale neokantiana (ma non sottovalutiamo l’influenza dello hegelismo su Riegl)− non è integralmente riducibile a quel genere di letture. Ne rimane come un nocciolo duro utilizzabile sotto altre e diverse prospettive gnoseologiche, ma che non acquista un autentico significato se non in relazione a quei potenti colpi critici che in Stilfragen e nella Spätrömische risuonano (forse in parte anche inavvertiti dallo stesso autore) attraverso la liquidazione di ogni ipoteca di natura psicologico-“discorsiva” dal campo della storiografia artistica, con la conseguente apertura del problema dell’astrazione nell’analisi dell’ornato. Apertura che oggettivamente connette il Riegl di Stilfragen alle poetiche e alle pratiche artistiche del tempo, così come il Riegl dell’Industria artistica, che qualifica l’originalità aclassica dei nuovi stilemi figurativi affermatisi in Europa tra Costantino e Carlo Magno, viene ormai “naturalmente” collegato alle tendenze pittoriche espressioniste coève. In particolar modo, se mettiamo a valore Stilfragen sia nella metodologia applicata sia nell’oggetto trattato, la relazione emerge netta appunto con la pratica dell’astrazione in quanto produzione espressivamente consapevole e culturalmente cosciente di complessi plastico-formali aniconici. Nel suo Dello Spirituale nell’arte uscito nel 1912, Kandinsky pone il problema del rapporto tra ornamentale e composizione pura, astratta, affrontandolo in termini “riegliani”, del tutto alieni da imprestiti di carattere naturalistico-descrittivo. «Siamo all’inizio dello sviluppo di un’arte nuova», aveva già proclamato l’architetto e designer tedesco August Endell nel 1898, con più di dieci anni d’anticipo sul Primo acquerello astratto dello stesso Kandinsky, «dell’arte con forme che non significano nulla, non rappresentano nulla e non ricordano nulla [...] Perché le configurazioni formali, e non piante e animali stilizzati, sono la mèta di tutta l’arte decorativa [...] La pura arte formale è la mia mèta. Basta con ogni associazio143

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ne!»27. Naturalmente, la questione è in Riegl soltanto intuita, mai esplicitamente tematizzata. Occorre considerare che egli proveniva da una disciplina mentale, da una cultura accademica, da una 27  Cit. in F.-L. Kroll, Teoria e prassi ornamentali nello Jugendstil, in «Rassegna», cit., p. 63. Quanto la dichiarazione di Endell rimanga tuttavia un intento di poetica e non si traduca in prassi operativa lo dimostra ad abundantiam proprio la sua realizzazione più famosa (ora distrutta) cioè la facciata dell’Atelier Elvira di Monaco, “tatuata” dalla grande decorazione di netto stampo simbolico-vitalistico jugend e letteralmente “stampata”, applicata ex-post sulla superficie. Per W. Kandinsky, cfr. Dello spirituale nell’arte, trad. it. Laterza, Bari 1968, pp. 82 ss. Ma è, come noto, tutta una temperie artistico-culturale, tutto un clima estetico e filosofico a sentirsi investito dalla problematica dell’astrazione, e a incrociarla con la dimensione dell’Ornamento. Il riferimento più scontato e prevedibile, ancorché corretto, va al Worringer di Astrazione e empatia. Tuttavia preferiamo qui ricordare più estesamente un breve, straordinario testo di Leo Popper dal titolo Arte popolare e animazione della forma, apparso su «Die Fackel», la rivista di Karl Kraus, nel 1911, ma risalente al 1908, in cui sembrano sorprendentemente raccogliersi in sintesi i motivi di fondo che ci hanno fin qui guidato e che continueranno a orientarci. Cfr. Scritti di estetica, trad. it. Aesthetica Preprint, Palermo 1997; sulla figura di Leo Popper, vedi la Presentazione di S. Catucci nello stesso volume. Si tratta di un testo dalla profonda ispirazione riegliana (il Riegl, certo, di Stilfragen, ma anche de L’illustrazione dei calendari medievali del 1889, di Arte popolare, economia domestica e industria a domicilio del 1894, della stessa Kunstindustrie) in cui l’autore rivendica all’arte popolare (non siamo forse negli stessi anni dell’attenzione di Picasso, di Matisse, del Blaue Reiter per le arti etniche ed extra-europee?) il primato di trovarsi già «dove noi saremmo invece arrivati dopo lunghe odissee e con sentimenti estremamente raffinati, nei difficili problemi dell’espressione senza oggetto, dell’ornamento animato» (p. 31). Sono «tutti i confini tra arte della forma e arte dei sensi» a venir meno davanti alla «seria spiritualità», alla «pienezza interiore» degli ornamenti (ibid.). E Popper prosegue, in modo sorprendentemente significativo qui per noi: dietro il lavoro ornamentale dell’arte popolare «in realtà non c’è niente, niente che abbia a che fare con l’anima, dietro questo straordinario regno dell’anima. Possiamo parlare solo della simmetria che qui fa sentire il suo miracolo; del ritmo che si produce spontaneamente quando una superficie viene suddivisa in parti uguali e riempita con decorazioni che si ripetono secondo un ordine periodico [...] Qui hanno lavorato soltanto schemi e proporzioni», e di fronte al «sanscrito di questi fiori oscuri», di questi viluppi di forme, «i sensi», conclude Popper con formidabile intuito fenomenologico, come racchiudendo la lezione husserliana in una sola frase, «non chiedono il senso, ma solo l’apparire, per poi donare all’apparire il proprio senso» (p. 32). Anche György Lukács −amico di Popper, al quale dedicò il saggio d’apertura de L’anima e le forme− nella giovanile Filosofia dell’arte interpreta il «divenire decorazione» come «il ritorno della forma pura» (Filosofia dell’arte. Primi scritti sull’estetica, 1912-1918, trad. it. SugarCo, Milano 1973, vol. i, p. 278).

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severa tradizione di studi che gli impedivano di accogliere le arti contemporanee come meritevole oggetto di studio. A più riprese e in varie occasioni, stigmatizza perfino il fatto che lo scienziato e lo storico dell’arte possano far fatica a compiere il loro dovere, cioè a separarsi e non lasciarsi influenzare, nel corso della propria ricerca, dalle tendenze spirituali e intellettuali del momento e dalle esigenze artistiche o più generalmente espressive del loro tempo28. Ma qui per noi non si tratta di rilevare “attenzioni” soggettive, rapporti coscienti e intenzionali (che comunque esistono in direzione contraria, dalle “avanguardie” verso Riegl). Importa invece mostrare alcune delle analogie strutturali e oggettive che collegano il pensiero e l’impostazione epistemologica dello storico al nomos della produzione artistica del suo tempo. Proprio per questo, particolari e circostanziate consonanze, se non addirittura qualche 28  Vi sono comunque due occasioni in cui Riegl sembra riferirsi esplicitamente (epperò in termini negativi) agli indirizzi artistici moderni. Ciò che qui per noi si rivela molto significativo è il fatto che entrambi attengono alla problematica dell’astrazione. In Problemi di stile, Riegl è impegnato a dimostrare la fondatezza della tesi di far derivare l’origine dell’acanto dallo sviluppo “grammaticale-sintattico” delle forme artistiche, «senza che si debba ricorrere al concetto di una improvvisa imitazione di una particolare specie di pianta, in maniera così slegata da tutto ciò che precedeva l’arte greca» (cit., p. 229). Le tesi correnti di carattere mimetico-raffigurativo, alle quali appunto Riegl si oppone, pretendono di applicare «una prassi moderna a procedimenti del tempo antico: la ricerca di “nuovi” motivi ornamentali nella flora naturale è un tipico prodotto della più moderna esperienza artistica, e, in parte, della moderna insensatezza artistica. Nell’antichità invece la creazione artistica ornamentale seguiva una strada dal tutto diversa, assai più “artistica” nella sostanza di quanto non lo sia una più o meno pedissequa imitazione dei soggetti naturali» (p. 231). Il secondo esempio −che troviamo nell’Industria artistica tardoromana− è del tutto analogo. È proprio sulla base del «materialismo artistico» espresso da chi crede di poter «ricondurre il carattere artistico delle singole forme decorative all’imitazione di determinate specie di piante nella natura», che gli «architetti moderni» così come «tutti i moderni artisti estetizzanti» non riescono a comprendere «la fondamentale differenza tra gli scopi del Kunstwollen antico e quello moderno» (ed. 1953, cit., p. 138). Appare del tutto trasparente che l’obiettivo polemico riegliano sono gli aspetti più marcatamente naturalisti, individualistici e “creativo”-empatici dello Jugendstil. Sulle relazioni talora sotterranee talora più evidenti tra dibattito storico-critico e pratiche artistiche, oltre all’articolo di Kroll già citato, cfr. W. Hofmann, Il dibattito sullo stile nella Scuola di Vienna nello stesso fascicolo monografico di «Rassegna».

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omologia, con il Moderno e con le poetiche delle avanguardie primonovecentesche potrebbero risultare tanto più significative. È ovvio ad esempio che un motivo così denso e articolato come quello della simmetria riesce a collegare Riegl alle ricerche più avanzate di quel versante della pratica pittorica e più generalmente estetica interessato all’astrazione. Il tema è solo impostato in Stilfragen come momento di rilevazione della struttura formale dell’ornato, ma non è sviluppato in termini propriamente scientifico-matematici. Motivo se si vuole “classico”, quello della simmetria e del simmetrico, ma che è assolutamente irrinunciabile (anche, semmai, sotto le vesti di idolo polemico) se vogliamo correttamente interpretare autori e tendenze fondamentali del Moderno, da Klimt a Hoffmann, da Loos al cubismo analitico, da Mondrian all’“astrattismo” europeo solo per citare i casi più immediatamente percepibili. Da questo punto di vista, allora, sarebbe possibile accostare alle intenzionalità riegliane un celebre studio sul tema come quello di Hermann Weyl. In Weyl emerge limpidamente l’intento di costruire e definire una matrice matematica (“radice ontologica” del simmetrico) che possa condurre alla classificazione tassonomica di tutti i possibili ornamenti bidimensionali a rapporto doppio infinito. Ciò può darsi solamente nell’ambito del fenomeno dell’automorfismo, cioè di quel complesso di trasformazioni geometriche che conservano invariata e congruente la struttura dello spazio, e il cui esempio immediato è fornito dalla simmetria bilaterale (“araldica”, nella sua versione più rigorosa) prodotta da una semplice riflessione speculare rispetto al piano. Tutte le diciassette classi di simmetria reperite da Weyl nel corso dell’analisi, essenzialmente diverse l’una dall’altra, si possono ritrovare chiaramente utilizzate nei motivi ornamentali dell’Antichità. La simmetria, dunque, principium individuationis della pratica ornamentale, è il terreno elettivo su cui poter mostrare il modus operandi del pensiero matematico, la sua costruttività aperta: l’arte di pensare che non ha non ha nulla in comune con il pensiero di cui parlava Focillon. L’altissimo grado di fantasia e inventività 146

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matematica espresso dagli artigiani e dagli ingegneri dell’Antichità, sostiene Weyl, è del tutto implicito e irriflesso. Soltanto nel corso dell’Ottocento, con la grande crisi-rivoluzione che subirono le discipline matematiche e le geometrie, si edificò finalmente la vera strumentazione concettuale necessaria alla completa formulazione astratta del problema che sta alla base della simmetria, e cioè il concetto matematico di gruppo di trasformazione. «Solo con questo mezzo», afferma Weyl, «si può dimostrare che le 17 forme di simmetria, già note implicitamente agli artigiani egizi, esauriscono effettivamente tutti i casi possibili»29. In Weyl, così come in tutta la scienza moderna se correttamente interpretata, le leggi morfologiche del materiale sono spiegate in termini di dinamica atomica: l’ornato è metamorfosi per eccellenza, è movimento “cellulare” infinito e regolato. Ma solo l’impostazione formalista, strutturale e fenomenologica di Riegl poteva permettere la radicale riformulazione dello statuto estetico e ontologico dell’Ornamento. Rapporto Ornamento-Astrazione, dunque, attraverso Riegl. Perché anche al di là del problema della simmetria, è costantemente evidente, nell’indirizzo della sua opera, la priorità assegnata alle caratteristiche formali-“astratte” su quelle imitative e di “contenuto”. Riegl riesce a fare epoché dell’assioma plurisecolare fondato sul principio della mimesis tra arte e natura; anzi scioglie, libera la lingua dell’arte dal vincolo naturale-empatico, sottolineando con vigore che l’intentio “associativa”, raffigurativa è soltanto una tra le diverse modalità di espressione del Kunstwollen. Unicamente nella produzione visiva «anorganica», «cristallina», l’uomo appare del tutto all’altezza della creazione naturale, poiché si esprime attraverso complessi percettivi senza alcun modello esterno. Il processo dell’astrazione si fonda sulla perdita di convertibilità del significante visivo con la percezione sensibile che del reale costruiamo, sulla caduta in generale della funzione segnica in quanto rappresen29

H. Weyl, La simmetria (Princeton 1952); trad. it. Feltrinelli, Milano 1975, p. 109.

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tativa-analogica e sulla produzione di un percetto le cui marche pittoriche −diventate autonome e liberate da una dimensione semantica codificata− sono sorrette da strutture non teleonomiche, non animate da alcun fine associativo. Che il loto, ad esempio, fosse o meno una rappresentazione simbolica, che raffigurasse o meno il dato naturale, le ragioni della sua persistenza storica come motivo ornamentale vanno spiegate attenendosi unicamente al piano formale-sintattico, perché è questo il solo che permette di registrare le più sottili distinzioni, le più interne, silenziose trasformazioni del materiale e delle modalità della loro intima connessione. Soltanto nell’ambito di questa vis interpretativa depurata, alleggerita di ogni componente o ipoteca di tipo “narrativo”, ogni nuance si può cogliere, ogni microdinamica evidenziarsi, ogni minima dislocazione interna al partito decorativo venire alla luce. Centrale è dunque l’affermazione riegliana (sviluppata soprattutto nell’Introduzione di Stilfragen e nel primo capitolo, dedicata a Lo stile geometrico) secondo la quale è sì vero che tutti i simboli primitivamente religiosi perdono con il tempo il loro tenore mimetico-simbolico e acquistano caratteristiche prevalentemente ornamentali-astratte, ma purché artisticamente confacenti e funzionali, ovvero soltanto a condizione che tali caratteristiche trovino un loro valore posizionale (esattamente come nella linguistica di Saussure: gli anni sono pressappoco gli stessi), un loro spazio preciso, autonomo e solidale (come le paroles della langue) con gli altri membri della catena interna al tessuto sia etimologico che strutturale-sintagmatico della sequenza ornamentale. Soltanto “aprendo” alla dimensione astratta è dunque possibile far emergere la metrica e la retorica dell’Ornamento, intuirlo come un sistema logico a definizione formale di complessi percettivi elaborati su costanti simmetriche. Questa esigenza di tipo strutturalista si manifesta anche nella trattazione riegliana dell’acanto (il più importante e diffuso tra i motivi ornamentali vegetaliformi), tuttora considerata scientificamente definitiva. Riegl ricusa la tesi vitruviana, che ancora si riteneva valida, secondo cui il 148

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disegno dell’ornato a foglie di acanto deriverebbe da una percezione diretta della pianta, e inquadra invece la potente dinamica formale del motivo «nel complesso di nessi e rapporti propri del normale processo di sviluppo dell’antica arte ornamentale»30. L’Ornamento impegna quindi in Riegl (e poi, come già abbiamo visto, in Focillon, con forza forse ancor maggiore) un tipo di formatività del tutto particolare, una potenzialità espressiva autonoma, indelegabile. Le regulae della costruzione visiva è come se non riuscissero a manifestarsi con altrettanta limpidezza e originalità nella pittura e nella scultura “associative”, “auratiche”. La non-narratività dell’Ornamento è la cauzione del formalismo attinente al suo dispositivo segnico. La completa, definitiva caduta di ogni dimensione psicologistica, contenutistica, semantica, risalta in tutte le sue proporzioni unicamente nel nomos della pratica ornamentale; nella sua perfetta, finalmente raggiunta emancipazione-dissociazione dall’elemento simbolico-raffigurativo. Così come, abbiamo visto, soltanto a patto di indebolirne le dimensioni teleologico-ricompositive, il Kunstwollen può dialogare con alcune delle pratiche artistiche della modernità. L’operazione è la stessa, l’assunto è unico.

30  A. Riegl, Problemi di stile, cit., p. 9. La ricerca riegliana sembra possedere un carattere genealogico più che un carattere tradizionalmente-disciplinarmente “storico”. Da questo particolare punto di vista, e senza operare soverchie forzature, potremmo illuminare le direzioni profonde del lavoro di Riegl in Stilfragen con alcune delle osservazioni di Michel Foucault sulla nozione di genealogia che si trovano nel saggio Nietzsche, la genealogia, la storia (trad. it. in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977). La genealogia −che esige «la minuzia del sapere, un gran numero di materiali accumulati e pazienza» (p. 29)− non ha a che fare con la metafisica e la «teogonia» dell’Ursprung, dell’‘Origine’. Essa va piuttosto alla ricerca della Herkunft, cioè della ‘stirpe’, della provenienza, della «vecchia appartenenza a un gruppo», rispetto alla quale «rintracciare tutti i segni sottili, singolari, sottoindividuali che possono incrociarsi in lui [nell’individuo, nell’elemento, ndr] e formare una rete difficile da sbrogliare» (p. 34), ove ritrovare «gli accidenti, le minime deviazioni» (p. 35), in una «miriade d’avvenimenti aggrovigliati» (p. 44). Non è forse questo lo spirito metodologico con cui in Stilfragen si “risale” la trama micrologica dei motivi ornamentali? E non somiglia forse allo sguardo di Riegl quello che possiede «l’acutezza d’uno sguardo che distingue, distribuisce, disperde, lascia giocare le differenze ed i margini» (p. 42)?

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Ed è per questo che il nostro attraversamento delle posizioni di Panofsky, Sedlmayr e, con un risultato diverso e decisivo, di Focillon non possiede una valenza unicamente metodologica. Perché solo nei termini che abbiamo delineato, Riegl può venire associato al Moderno. Solo all’interno di una rilevanza interpretativa forte assegnata a quella direzione interna che privilegia gli aspetti afigurali e simmetrico-complessi del “linguaggio” visivo, è possibile arrivare fino alla grande astrazione plastico-pittorica che ha segnato il xx secolo. Altrimenti, Riegl resta murato nell’Ottocento. Certamente: l’Astrazione −come non è il Moderno− così non è “semplice” ornato31. Non si esaurisce nel suo nomos, non si riduce alla sua fenomenologia espressiva. Se dal punto di vista sia produttivo che percettivo-ricettivo, l’ornato si colloca prevalentemente in uno spazio già predisposto e ne segue i tratti formali o i percorsi architettonici, l’opera “astratta” del Novecento si presenta invece autonoma e autosufficiente rispetto a ogni precedenza di ordine materiale-concreto, che in essa semmai agisce da supporto pronto all’elaborazione “tettonica”, fino alla sua completa trasformazione in una entità totalmente “espressiva”. Se l’ornato si basa sull’iterazione di uno o più elementi, governata da un certo ritmo che tende a distribuirla in maniera omogenea sulla superficie, che a sua volta continua a trasparire −se non intuitivamente quantomeno mentalmente− come alterità rispetto all’elaborazione disegnativa e cromatica che su di essa appunto si esercita, l’astrazione invece concentra, addensa i suoi elementi formali di base fino a raggiungere una totalità organica e centralizzata (Tavv. 17 e 18). Da questo punto di vista, l’approccio pragmatico-funzionalista del Gombrich de Il senso dell’ordine, secondo il quale l’ornato soddisfa sulla superficie le esigenze del riempimento, dell’inquadramento e del legame, non presenta alcun problema e si dimostra perfettamente sufficiente. 31  Cfr. su questo punto il catalogo della mostra Ornament and Abstraction. The dialogue between non-Western, modern and contemporary art, DuMont, Köln 2001.

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D’altra parte, quelle ovvie distinzioni tra Astrazione e Ornamento si basano su rilievi di ordine strutturale e percettivo che lasciano semplicemente emergere diverse pertinentizzazioni dell’operatività visiva e plastica, al di là di ogni riferimento a “valori” più o meno istituzionalizzati. Ma è appunto un dialogo tra differenti quello che cerchiamo di seguire, fatto di connessioni, legami, rapporti a distanza, e non di identificazioni immediate, che non farebbero altro che dissolvere nell’indifferenziato e nel generico il problema appena emerso all’analisi. 2 Omologie strutturali all’interno della catena Kunstwollen-Ornamento-Astrazione sono storicamente verificabili e ricostruibili. Ma non per questo sono ipso facto correttamente interpretabili se non si segue un percorso del tipo fin qui svolto. E il punto di osservazione, ripetiamo, dobbiamo intenzionarlo, costruirlo. In Riegl, come tale, non c’è. Eppure, basta confrontare il materiale illustrativo che accompagna Stilfragen con gli studi di ornamenti di Joseph Hoffmann o Kolo Moser per la Wiener Werkstätte, e accorgersi che il rapporto è diretto, immediato, pressoché intuitivo. Ma è tutto lo Jugendstil austriaco che dialoga con Riegl, e specialmente il suo versante più aniconico-costruttivo, quello che tende a risolvere la forma in termini bidimensionali (è la Flächenkunst di cui Hoffmann riconosce a Moser le anticipazioni) attraverso il potenziamento del codice lineare e il rifiuto della tecnica del modellato per campire le forme già definite dal disegno dei contorni. Il valore di tali soluzioni e il loro carattere fortemente anticipatore rispetto allo sviluppo di alcuni stilemi propri delle avanguardie novecentesche sono evidenti e indiscutibili. Ne portiamo un esempio. L’allestimento della xiv mostra della Secessione, nel 1902, fu affidato a Josef Hoffmann. L’esposizione, come noto, ruotava attorno al gruppo plastico di Max Klinger dedicato a Beethoven. 151

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Tale opera costituiva il centro nevralgico e il perno centrale anche per i pittori secessionisti che esponevano nelle varie sale dell’edificio-manifesto di Olbrich. Nel vano di una nicchia scavata direttamente nell’intonaco grezzo e bianco a corona dell’architrave di una delle porte di passaggio tra un ambiente e l’altro (una di queste si trovava proprio sotto una sezione del famoso Beethoven Freis, il lungo fregio di Klimt), furono disposte forme bianche collocate in senso verticale a mo’ di parallelepipedi cristalliformi assiepati e parzialmente sovrapposti gli uni agli altri, che lo stesso Hoffmann chiamava «intonaco cristallizzato»32 (Tavv. 19a e 19b). Ora (pur tenendo conto delle differenze tra ornato e opera “autonoma” che abbiamo poco fa ricordato), queste soluzioni anticipano di quasi vent’anni alcuni stilemi suprematisti e neoplastici. La dinamica geometrica dell’impaginazione dei piani richiama −in termini assolutamente letterali− non solo gli elementi-base del costruttivismo russo, ma più in particolare sia i disegni, gli studi preparatòri e i plastici degli architektoni o planiti del Malevi/ degli anni Venti, sia le forme modulari impiegate nelle 32

Cfr. sull’opera di Hoffmann, D. Baroni e A. D’Auria, Josef Hoffmann e la Wiener Werkstätte, Electa, Milano 1981; G. Fanelli-E. Godoli, La Vienna di Hoffmann architetto della qualità, Laterza, Bari 1981. Com’è ampiamente noto, attorno ai “linguaggi” della finis Austriae −vero e proprio cliché culturale degli ultimi decenni− si è accumulata un’enorme messe di studi e pubblicazioni. Tra i contributi più generalmente storico-ricostruttivi sulle arti, ci limitiamo a citare N. Powell, The Sacred Spring. The Arts in Vienna 1898-1908, London 1974; Le Arti a Vienna. Dalla Secessione alla caduta dell’Impero Asburgico, La Biennale di Venezia-Mazzotta, Milano 1984; K. Varnedoe, Vienna 1900: Art, Architecture & Design, Museum of Modern Art, New York 1986. Per quanto riguarda il versante più specificatamente scientifico-filosofico, cfr. A. Janik-S. Toulmin, La grande Vienna (1973), trad. it. Garzanti, Milano 1975; i fascicoli monografici delle riviste «Critique», 339-340, 1975, e «Nuova Corrente», 79-80, 1979. Indispensabile, e antesignano per gli studi italiani, il saggio di R. Calasso, Una muraglia cinese, in K. Kraus, Detti e contraddetti (München 1955); trad. it. Adelphi, Milano 1972. L’autore italiano che con maggiore apertura problematica ha riflettuto sul tema in questione è Massimo Cacciari. Ricordiamo in particolare −oltre ai contributi specifici su Loos che citeremo tra breve− Krisis, Feltrinelli, Milano 1976; La Vienna di Wittgenstein, in «Nuova Corrente», 72-73, 1977; Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Adelphi, Milano 1980.

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sue pitture suprematiste. Si può fare inoltre riferimento alla strategia dispositiva dei segni e degli elementi geometrici nel Mondrian dei tardi anni Dieci, e soprattutto alla serie delle Composizioni scandita tra il 1917 e il 1919, il periodo di De Stijl. Ad accrescere e potenziare l’impatto della struttura compositiva, dell’orchestrazione formale e del suo effetto di astrazione, intervengono tra il 1903 e il 1906 altri due fattori decisivi. Ci riferiamo in primo luogo alla Weiss-Schwarz Art, la ‘maniera bianco-nera’ elaborata in comune da Hoffmann e Moser durante il loro sodalizio per la Wiener Werkstätte. Si tratta della riduzione dei colori alla bicromia oppositiva essenziale, che enfatizza la vis geometrizzante e la piattezza linearistica della composizione, lasciando emergere il senso grafico e iterativo delle articolazioni sintattiche. L’uso del bianco e del nero fu poi ripreso molte volte da Klimt, sia in alcuni degli inserti decorativi dei suoi quadri, sia nel disegno a scacchiera del vestito per Emilie, una delle tre sorelle Flöge, che aprirono un salone di moda nella Mariahilfer Strasse, allestito da Hoffmann e Moser nel 1904-1905 e chiuso nel 1938 all’arrivo dei nazisti. In secondo luogo, e in stretta relazione con il primo fattore, ci riferiamo all’uso costante del modulo quadrato come germe costruttivo della composizione, che di questa rafforza la tensione reticolare e la “legge” della ripetibilità. Anche in questo caso, Hoffmann e Moser lavorarono in sodalizio. Il primo fu soprannominato Quadratl-Hoffmann (Tavv. 20 e 23); e circa il secondo, il critico Hermann Bahr ricorda che la maggior parte dei viennesi credeva addirittura fosse lui l’inventore della scacchiera. Entrambe le operazioni −l’uso del bianconero e del modulo quadrato− sono spesso realizzate all’unisono e denotano una chiara volontà di riduzione e semplificazione della struttura dell’immagine e della sua dinamica interna: una volontà del tutto analoga all’analisi dell’evoluzione dell’ornato in Riegl. È da considerare inoltre la nota influenza esercitata dalle arti figurative estremo-orientali, alle quali fu dedicato il nono numero della rivista «Ver Sacrum» (l’organo della Secessione viennese), 153

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interamente illustrato con riproduzioni di katagami, le mascherine usate dagli artigiani giapponesi per il disegno decorativo dei tessuti33. In ogni caso, è ovvio che il japonisme non si limita certo all’uso della bicromia di base, ma si estende a caratterizzare tutto un esteso fenomeno di gusto estremamente tipico nelle arti figurative, nella letteratura e nella cultura europee tra Otto e Novecento. Dopo l’esposizione universale del 1873, che prese a modello quelle di Parigi e di Londra, dove per la prima volta furono presentati a Vienna esempi di arte giapponese, fu proprio la vi Mostra della Secessione, nel 1900, a consacrare ufficialmente il japonisme. Prendendo spunto da questa occasione, Hermann Bahr scrisse un saggio apparso sul terzo numero di «Ver Sacrum», in cui collegava l’influenza della pittura e dell’estetica giapponese alla liquidazione del naturalismo descrittivo operata dall’Impressionismo e dal Post-Impressionismo di van Gogh. Bahr ne sottolinea inoltre l’influsso su Knut Hamsun, Stefan George e soprattutto su Peter Altenberg. In sostanza, la questione centrale era portata sulla necessità di cogliere l’essenziale della percezione (non vi è un’assonanza, anche qui, con la lezione fenomenologica?) senza smarrirsi nell’illusionismo naturalistico, mostrando il particolare −in una rarefazione plastica e cromatica accentuata, trascritta appunto dall’esperienza figurativa orientale− come racchiudente in sé tutto un universo micrologico cui porre cura e attenzione per non disperderne le infinite possibilità. Questo e non altro è il senso del breve frammento di Altenberg intitolato Melo giapponese. «In Giappone i meli in fiore sono belli come in nessun altro paese. Ma non fruttificano mai! I fiori che devono conservare la loro forza per i frutti non possono diventare così belli come i fiori cui è concesso di utilizzare tutta la propria forza

33  Attorno all’influenza orientale sull’arte e sulle culture visive europee a cavallo tra gli ultimi due secoli, cfr. S. Wichmann, Japonisme, Chêne/Hachette, Paris 1982, e F. Arzeni, L’immagine e il segno. Il giapponismo nella cultura europea tra Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna 1987.

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per se stessi, per la propria fioritura!»34. Il frammento risente di lontani “accordi” schopenhaueriani. Allo stesso modo in cui il fiore trattiene, conserva in sé la sua potenza senza diventare-altro, senza cadere-annullarsi nell’effettualità del frutto, ma mantenendosi sulla soglia densa e intensa delle proprie infinite possibilità, e solo in tal modo potendo mostrare, descrivere la propria bellezza che si apre e si ritrae al contempo, così la riduzione ai principi del Bianco e del Nero, al loro vincolo luminoso, ricorda tutti i colori del mondo senza percorrerli, senza narrarli. Comprende, intuisce, governa −precisamente nella povertà del suo ritmo alternato− la mirabile iridescenza cromatica del reale senza raccontarne l’illusorietà. L’assenza del colore è memoria del colore: il vincolo tra luce interamente trattenuta e luce interamente restituita è sufficiente al principio di “economia spirituale” che deve guidare il linguaggio espressivo. D’altra parte, il senso complessivo di tale evoluzione dal simbolico al formale, dal semantico al sintattico, si ritrova ampiamente nello stesso procedimento di base di tutta la produzione ornamentale della Secessione, sia essa impiegata nella grafica, nella creazione di tessuti, nell’arredamento dell’intérieur o nella progettazione architettonica su più vasta scala. L’indirizzo è quello di stabilire l’inizio “logico” dell’immagine su di una base di partenza essenzialmente organico-figurale ed empatica (che si potrebbe equiparare alla fase “floreale”), per poi impegnare le strutture compositive in un graduale processo di sempre maggiore stilizzazione del “naturale”, fino all’astrazione geometrica risolta nella ripetibilità tendenzialmente infinita del pattern. I ritmi complessi, i contrasti dinamici, gli scambi di forme in negativo-positivo, le configurazioni strutturali e i criteri formativi nel rapporto tra le soluzioni ornamentali di Hoffmann-Moser sembrano talora esser tratti direttamente dalle

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P. Altenberg, Favole della vita, trad. it. Adelphi, Milano 1981 p. 136; questo ‘‘telegramma dell’anima” si trova in Ciò che mi porta il giorno, una raccolta di brevi testi del 1901.

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illustrazioni di Stilfragen. Un ottimo esempio, ma non certo l’unico, di questo strettissimo dialogo potrebbe essere costituito dall’album Die Quelle/Flächenschmuck, che nel 1901 Kolo Moser pubblicò per l’editore Gerlach. Si tratta di una raccolta di sessanta tipi di decorazione piatta (trenta tavole utilizzate sul recto e sul verso, stampate in cromolitografia) in cui la stilizzazione iterativa dei motivi combinatòri crea un’impaginazione grafica di carattere ghestaltico, e l’intreccio degli elementi segue una logica estremamente raffinata e complessa (Tavv. 21 e 22)35. Riegl è letto, citato, “praticato” dalle avanguardie del tempo intente a costruire –attraverso la collaborazione paritetica di tutte le espressioni e tecniche artistiche– il Kunstwollen specifico del Moderno. Un Kunstwollen inteso fondamentalmente, però, come ricerca di “consonanza”, come ricomposizione ideologica delle contraddizioni proprie del tipo di produzione capitalistico, operata sul piano di un’estetica empatica e dell’“interiorità”, attraverso cui si pensava che la Tecnica dovesse venire “giustificata”, “riscattata” dall’arte. Il conferimento della qualità al prodotto industriale veniva legittimato sub specie dello stile, dell’“impronta creativa”, individuale, “artistica”. Jugendstil, Wiener Werkstätte, Deutscher Werkbund, e in generale tutti quei settori delle avanguardie storiche che –interpretando letteralmente la dizione “arti applicate”– rinunciano all’aura dell’opera singola solo per mantenerla al fine di socializzarne lo spirito più profondo, vogliono dire il proprio tempo come “stile totale”. Intenzionalmente ne fanno l’oggetto di applicazione della volontà artistica. Questi «germi di utopie regressive»36 sono 35  Per un panorama storico sulla grafica art nouveau, cfr. G. Fanelli, La linea viennese, Cantini, Firenze 1989. Di G. Fanelli-R. Gargiani, cfr. anche Il principio del rivestimento. Prolegomena a una storia dell’architettura contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1994. 36  M. Tafuri-F. Dal Co, Architettura contemporanea, Electa, Milano 1976, p. 11. Per l’Art Nouveau, affermano i due autori, si tratta di «un compromettersi con la “materia” per trascenderla»: essa è al massimo «apologia delle tecniche, mai “progettazione” della loro crisi» (p. 7).

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esattamente ciò che Adolf Loos maggiormente aborriva. E ci arriveremo. In una preziosa digressione sul liberty contenuta in Parigi. La capitale del xix secolo, Walter Benjamin, dopo aver significativamente notato che la casa in Van de Velde «appare come espressione della personalità» e che dunque «l’ornamento è, per questa casa, ciò che la firma è per il quadro», vede nello stile liberty «l’ultimo tentativo di sortita dell’arte assediata dalla tecnica nella sua torre d’avorio». E proprio perché tale tentativo deve fare appello a «tutte le riserve dell’interiorità», ecco la posizione del liberty nei confronti dei nuovi materiali e delle nuove tecniche costruttive del tempo (cemento armato, ferro, ghisa ecc.): «nell’ornamento esso si sforza di riconquistare queste forme all’arte». Tuttavia, nonostante ogni sforzo messo in campo, «il tentativo dell’individuo di tenere testa alla tecnica in nome della propria interiorità conduce alla rovina» (Tavv. 24 e 25)37. 3 Ma riprendiamo il profilo storico che in sintesi qui ci guida. Tutta una “famiglia” artistico-culturale trova punti di consolidamento e connessione in alcuni nuclei specifici, mostrandosi essi attraverso modalità più o meno evidenti. Sostenere l’equivalenza di tutti i periodi storico-artistici in termini di validità stilistica, interpretando l’arte della fine dell’età classica non più come balbuzie espressiva o incapacità tecnica e spirituale di genti barbare, ma alla stregua di un mutamento organico, di una trasformazione strutturale dei codici visuali; insistere di conseguenza sull’impossibilità di gerarchizzare arti “maggiori” e arti “minori” e quindi sulla pariteticità di arte

37  W. Benjamin, Parigi. La capitale del xix secolo, in Angelus Novus (1955); trad. it. Einaudi, Torino 1962, pp. 153-154. Ecco perché «il Lete scorre negli ornamenti dello Jugendstil» (Id., Parigi. La capitale del xix secolo, trad. it. Einaudi, Torino 1986, p. 1039). Sui rapporti Benjamin-Riegl (e più generalmente la Wiener Schule), cfr. W. Kemp, Walter Benjamin e la scienza estetica: i rapporti tra Benjamin e la Scuola Viennese, «aut-aut», 189-190, 1982.

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“figurativa” e arte “decorativa”; affermare che soltanto attraverso l’ornato la volontà artistica si determina ed emerge “matematicamente” pura configurandosi con chiarezza e originalità: questi punti-forza riegliani, questi veri e propri atout della “scienza dell’arte” non potevano non esercitare un fascino potentissimo sul movimento della Sezession, ansiosi di liberarsi da ogni estetica normativistica basata sulla classificazione valoriale per generi e sulla predicazione tipologica del Bello. È dunque all’interno di un ampio orizzonte culturale, teorico e artistico entrato in profondo sommovimento, che la produzione ornamentale astratto-geometrica, sganciata da ogni vincolo tematico o rappresentativo preliminare, attrae e influenza gli artisti −i pittori, i primi designers, gli architetti− che negli stessi anni, al volgere del secolo e in consonanza stretta con tutto un clima europeo post-impressionista, imboccavano la strada specificamente moderna del ribaltamento in superficie dell’immagine, della piattezza e della bidimensionalità. In qualche modo, è come se la pratica artistica del tempo inverasse i principi riegliani (considerati ovviamente parte di un indirizzo formalista più ampio), facesse ad essi passare, una volta stabilitisi a livello di riflessione storico-analitica, la prova del fuoco della prestazione concreta, dell’operatività linguistica. Attraverso la lente di questo rapporto, la questione è interamente dispiegata, i suoi momenti interni totalmente sviluppati ed esposti in tutta la loro complessità e interdipendenza. E il problema del rapporto ambivalente e permutabile tra figura e sfondo −cioè tra spazio-volume e ornato-piano− affrontato nelle opere “barbarico-bizantine” di Klimt non riecheggia forse in termini talora letterali il medesimo problema di percezione che per il Riegl della Spätrömische sta al centro della trasformazione lenta, complessa ma radicale da “tattile” a “ottico” che la forma artistica subisce nel tardo-antico? In Klimt, l’elemento ornamentale fa da raccordo tra il naturalismo “tradizionale” còlto nel momento del suo sfaldarsi ottico-percettivo, plastico e cromatico innescato dall’impressionismo, e l’impianto 158

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spaziale radicalmente anti-illusionistico e autosignificante. I concreti episodi figurativi che si potrebbero richiamare sono numerosissimi. Ci limitiamo, in via esemplificativa, ad analizzare due nuclei: una prodigiosa, celebre terna di ritratti femminili racchiusi tra il 1905 e il 1907, e i cartoni per il fregio Stoclet, realizzati tra il 1905 e il 1909. La serie dei ritratti è dominata dalla progressiva integrazione tra la figura in primo piano e lo sfondo decorativo astratto. Nel Ritratto di Margaret Stonborough-Wittgenstein (Tav. 26), del 1905, la figura in piedi, con un ampio vestito bianco di cui si intravedono i ricami sulla stoffa leggera, si staglia netta su di uno sfondo con il quale non sembra intrattenere alcun rapporto. Separate da una striscia orizzontale in cui compare la quadrettatura bianco-nera −citazione esplicita dei motivi geometrici che abbiamo visto cari a Hoffmann-Moser, e la cui collocazione è desunta dalla sezione aurea− due larghe zone monocromatiche (l’una, in basso, sotto la striscia, verde-azzurra; l’altra, in alto, grigiastra) arrivano all’altezza delle spalle della figura. Qui lo schermo del fondo comincia a spartirsi in sezioni decorative rettangolari piatte anche se cromaticamente mosse dal tocco del pennello, che tutte assieme formano una composizione astratto-costruttiva in simmetria bilaterale, di cui il profilo sinistro della spalla, del collo e del volto, raffigurato di tre quarti, rappresenta l’asse centrale di rotazione. La testa della figura femminile, molto espressiva, trattata naturalisticamente, dalla capigliatura folta e mossa, è aureolata da motivi spiraliformi e cerchiati. Nel Ritratto di Fritza Riedler (Tav. 27), del 1906, la donna, innestata sulla diagonale della composizione, è seduta a destra su di una poltrona, lasciando ampio spazio all’intersezione delle fasce e dei piani monocromatici del fondo, popolati di piccoli quadrati e rombi in disposizione geometrica, ripetuti a distanza oppure sommati con cerchi e triangoli in un’unica soluzione decorativa. Rispetto al taglio interpretativo che qui ci interessa, questo ritratto assume una posizione intermedia. Tutto il torso della figura è ancora ben 159

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stagliato come una silhouette sul fondo, ma la poltrona rappresenta già il punto di fusione tra primo e secondo piano, giacché i motivi ovoidali del tessuto −come palpebre che lentamente si dischiudono alla luce− possono quasi indifferentemente, in particolar modo nella sezione spaziale mediana, assegnarsi al fondo oppure alla poltrona trattata del tutto irrealisticamente. Inoltre, quei motivi sono del medesimo colore beige, azzurrognolo e bianco di una delle tarsie decorative, a questo dunque assimilandosi. L’opera risulta perfettamente bilanciata sul punto archimedico tra il naturalismo delle mani intrecciate, della tonalità cromatica del volto dalle guance arrossate, con gli occhi vividi, espressivi, da una parte, e, dall’altra, il compiuto anti-illusionismo del gioco decorativo dei piani piatti e giustapposti, rinforzato dall’inserimento del colore metallico in foglia, che restituisce o assorbe la luce a seconda del punto ottico dello spettatore. Un gioco autonomo, “liberato” sin dall’inizio. Non è senza rilevanza ricordare allora che proprio gli inserti decorativi (per la precisione, la già citata striscia orizzontale in basso à la Hoffmann-Moser, e la sezione ornamentale dietro la testa) furono aggiunti nel precedente Ritratto di Margaret Stonborough-Wittgenstein dopo la sua prima comparsa, nell’autunno del 1905, alla ii Mostra berlinese del Deutsche Kunstlerbund, quasi a conferma della progressiva fusione tra primo e secondo piano, tra figura e fondo, tra rappresentazione e Ornamento. Fusione che si realizza definitivamente nel Ritratto di Adele BlochBauer (Tav. 28) del 1907, vero e proprio «scudo apotropaico»38 in cui il pittore mineralizza, litifica la figura della donna, trasformata in gemma preziosa con lo scintillìo e la lucentezza fredda del metallo nobile. Già si attenua, si deanima nel volto e nelle mani quel tocco naturalistico dei primi due ritratti. Tutto qui è ancora più stilizzato, geometrizzato. Klimt sembra seguire un nomos matema38  J. Clair, Il nudo e la norma. Klimt e Picasso nel 1907 (Paris 1988); trad. it. Leonardo, Milano 1988, p. 90.

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tico: la torsione innaturale, quasi ad angolo retto, del polso sinistro; l’ovoide regolare in cui gli elementi del volto sono inseriti in maniera leggermente asimmetrica; la capigliatura che, in modo del tutto innaturale, si piega come per far posto al sontuoso profluvio della decorazione. Il rapporto tra figura e sfondo resta sospeso nell’ambiguità spaziale-percettiva. Corpo, vesti e poltrona si innestano l’uno nell’altra senza soluzioni di continuità, amalgamandosi totalmente anche per l’intervento degli elementi ornamentali che per la maggior parte si disseminano sulla superficie senza seguire l’obbligo descrittivistico di evocare o restituire le sinuosità volumetriche o gli arretramenti naturali del corpo inserito nello spazio. Ricompare la fascia quadrettata in bianco e nero del primo ritratto che abbiamo esaminato, ma stavolta è la figura a essere inserita in un contesto decorativo che la rende elemento tra gli altri, quasi senza alcun privilegio simbolico o spaziale. L’oro (il “non colore” dell’icona), con l’argento, è lo schermo-orizzonte che fa da culmine all’intera scala cromatica del quadro, ed entrambi i materiali sono applicati in diverse tonalità. La profusione per così dire “enciclopedica” dei motivi ornamentali (il quadrato, la spirale, i girali, la semisfera, il triangolo “egizio” con l’ocello inserito, la mandorla spaccata, simbolo sessuale femminile, e incastonata nel quadrato) raggiunge il suo apice derealizzando completamente la composizione. Il Ritratto di Adele Bloch-Bauer fu esposto, tra gli altri, nella sala di Klimt alla Kunstschau del 1908, allestita splendidamente da Kolo Moser (grande maestro della Raumkunst) disseminando sulle pareti bianche elementi quadrettati scuri “a bottone” secondo un’organizzazione geometrica lineare e iterativa che sembrava ribaltare all’esterno delle tele, nello spazio fisico-ambientale, alcuni dei motivi decorativi già presenti nei quadri di Klimt. Passiamo al secondo nucleo di opere. Nel 1904 un industriale belga del settore carbonifero, Adolf Stoclet, commissionò a Hoffmann il progetto di quello che sarebbe diventato il palazzo Stoclet a Bruxelles (terminato dieci anni dopo), uno dei momenti centrali 161

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dell’architettura moderna. Hoffmann affidò a Klimt la decorazione della sala da pranzo. Probabilmente, i cartoni erano già ultimati nel 1906-1907, e sono dunque da considerarsi contemporanei ai ritratti femminili che abbiamo esaminato. Il progetto fu realizzato a mosaico in ceramica dalla Wiener Werkstätte, e la lavorazione dei tre pannelli durò dal 1909 al 1911. I due destinati alle pareti più lunghe, collocati l’uno di fronte all’altro, simboleggiano entrambi il motivo mitologico dell’Albero della vita, e vi sono inserite le celebri composizioni L’Attesa e L’Abbraccio (chiamato anche Estasi). Il terzo pannello, sistemato verticalmente sulla parete di fondo della sala, non presenta alcun richiamo figurativo e si struttura sul criterio della simmetria bilaterale ritmicamente contravvenuta: decorazione del tutto aniconica, gioco coloristico e geometrico-lineare totalmente “purificato” da ogni associazione mimetica, da ogni presupposto rappresentativo, in una sorta di vitalismo empatico astratto (Tav. 29). L’intera composizione del fregio Stoclet (i cui cartoni sono conservati presso l’Österreichiches Museum für angewandte Kunst di Vienna) non mostra alcuna profondità, è puramente bidimensionale. La superficie è uno schermo piatto invalicabile (la Flächenkunst), l’interesse raffigurativo è compresso fin quasi all’annullamento, il corpo è diventato un’entità “irrappresentabile” invasa dalla decorazione come da una metastasi. Sulle figure, nelle figure ha pieno campo il nomos ornamentale bizantino e barbarico, egizio e giapponese degli scambi ritmici tra i colori e le sinuose trame lineari: il corpo −come già quello di Adele Bloch-Bauer− si è trasformato nello spettacolo dell’Ornamento. La spirale e il triangolo ordinano l’intera composizione governandone le scansioni interne. L’appiattimento e il radicale anti-illusionismo della superficie sono enfatizzati dall’inserimento di oro, smalti, pietre dure, bronzo argentato, vetri colorati. Un impiego da collegare al viaggio che Klimt fece a Ravenna nel 1903 per ammirarne i mosaici. Ma che non può non rimandare (e in termini anticipatori, come nel caso di Hoffmann) alla pratica del collage cubista degli anni Dieci, con la differenza che se in Klimt la 162

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direzione simbolica dei materiali ready-made va verso l’aulico-auratico, in Picasso prima di tutti, poi in Braque e negli altri artisti impegnati in questa tecnica radicalmente innovativa, il prelievo avviene dal prosaico, dal quotidiano, dal negletto. I pochissimi elementi raffigurativi (gli uccelli appollaiati sui rami dei due alberi stilizzati, mani, braccia, volti come sconnessi dal resto del corpo in frammenti) appaiono svuotati del loro contenuto semantico, fino a incastonarsi come tessere musive tra le altre e senza alcuna soluzione di continuità all’interno della composizione complessiva, quasi fossero a loro volta ornamenti di un più vasto partito ornamentale. 4 Nonostante la lettera di molte delle celebri posizioni assunte −così fortemente polemiche, affilate alla lama di un irriverente quanto elegante sarcasmo− Adolf Loos, in tutta evidenza, non è affatto estraneo all’universo di pratiche espressive e teoriche sin qui sinteticamente delineato. Sarebbe toto caelo assurdo e improduttivo impostare il problema dei rapporti tra «l’anima di loto sotto il gorilla»39 e la Vienna dell’Ornamento, la “città tatuata”, in termini di pura e semplice estraneità o indifferenza. La lettura dei suoi scritti (molti ancora sorprendentemente attuali) e della sua opera architettonica in chiave di proto-razionalismo e di ascesi funzionalista ha dominato a lungo ma si rivela del tutto impropria. In realtà, la teoria, la poetica, la prassi progettuale loosiane sono alla continua ricerca di quel fragile eppure, una volta temporaneamente raggiunto, potente equilibrio, 39  Così Else Lasker-Schüler chiama Loos nel suo contributo alla Festschrift pubblicata nel 1930 in occasione del sessantesimo compleanno dell’architetto. La pubblicazione raccoglieva brevi scritti e testimonianze di amici ed estimatori, da Alban Berg ad Arnold Schönberg, da Karl Kraus a Georg Trakl, da Peter Altenberg ad Anton Webern e Tristan Tzara, solo per nominarne alcuni. La traduzione italiana della Festschrift si trova in A. Loos, Das Andere/L’Altro, trad. it. Electa, Milano 1981 (la citazione è a p. 103). «Das Andere» è il titolo della rivista che ebbe breve vita −due soli numeri, nel 1903− interamente redatta da Loos.

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di quel punto archimedico in cui tra architettura della tabula rasa (come chiamava Kark Kraus quella dell’amico) e tradizione (un tema questo assolutamente decisivo e inaggirabile in Loos) si scioglie ogni supposto o preteso conflitto. Soprattutto perché egli è convinto che l’emancipazione dal cattivo ornamento inteso come maschera grottesca, e dunque la tendenza insopprimibile verso la purezza dei materiali, si trovino già all’interno delle dinamiche evolutive della tradizione e della memoria collettiva “senza nomi”, che conducono fino al presente operativo che quella tradizione deve elaborare, sviluppare, complicare. L’intera opera loosiana mostra dunque, rispetto a ogni sua riduttiva lettura, una stratificazione, una densità, una complessità problematica già messe in luce, d’altronde, da vari interpreti40. Ed è per questo che, dandone per acquisiti i temi di fondo, ci limiteremo qui ad alcune osservazioni intorno ai rapporti tra il pensiero (teorico e plastico) di Loos e la costellazione KunstwollenOrnamento per come l’abbiamo qui profilata. Osservazioni forse utili a inquadrare la critica loosiana contro l’“epidemia decorativa” assegnandole i corretti limiti. Se, per così dire, ci affidassimo a ciò che l’“avanguardia” pensava o credeva di se stessa e ci limitassimo dunque alla profezia dai toni biblici contenuta nel celeberrimo Ornamento e delitto del 1908, in fondo nessun problema si porrebbe. «Noi abbiamo superato 40  Ci riferiamo in particolar modo, come già anticipato, ai lavori di M. Cacciari che abbiamo tenuto qui costantemente presenti: Loos-Wien, in F. Amendolagine-M. Cacciari, Oikos. Da Loos a Wittgenstein, Officina, Roma 1973; Dallo Steinhof, cit., cfr. pp. 111ss.; Adolf Loos e il suo angelo, in A. Loos, Das Andere/L’Altro, cit. Per ciò che riguarda specificamente la critica architettonica, antesignano negli studi compiuti in Italia fu l’articolo di Aldo Rossi, Adolf Loos 1870-1933, pubblicato in «Casabella», 233, 1959. Pregevoli per l’illuminante sintesi sono le brevi pagine su Loos di Tafuri e Dal Co nel loro già cit. Architettura contemporanea, cfr. pp. 97-101. Ampia, problematica e particolareggiata (con una quantità di ottime riproduzioni fotografiche di R. Schezen) è la monografia di B. Gravagnuolo, Adolf Loos. Teoria e opere, Idea Books, Milano 1981. Per il lato più specificamente saggistico-polemista della produzione loosiana, cfr. S. Velotti, Adolf Loos. Lo stile del paradosso, De Donato, Bari 1988.

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l’ornamento, con fatica ci siamo liberati dall’ornamento. Guardate, il momento si approssima, il compimento ci attende. Presto le vie delle città risplenderanno come bianche muraglie! Come Sion, la città santa, la capitale del cielo. Allora, sarà il compimento»41. Più alcun simbolo, più alcuna immagine: la Presenza stessa si fa presente, attuale, utopicamente liberata dalla «sconcertante maledizione dell’esser-segno» di cui parlava pressoché nello stesso giro di anni il giovane Lukács42. Sotto questo profilo, la “parusiaca”, progressiva emancipazione dall’Ornamento è il senso stesso, l’ètimo non solo dell’avanguardia novecentesca, ma a ben guardare dell’opera d’arte autonoma tout court43, e le parole di Loos, in questo contesto, sono perfettamente inquadrabili nella dimensione visionaria e profetica 41  A. Loos, Ornamento e delitto, in Id., Parole nel vuoto (Wien-München 1962); trad. it. Adelphi, Milano 1980, p. 219. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nelle note con la sigla Pv. 42  G. Lukács, Filosofia dell’arte, cit. p. 26. 43  Ci sembra sostanzialmente questa l’ispirazione prima di T.W Adorno in una sua relazione tenuta nel 1965 a un congresso del Deutscher Werkbund (come dire “a casa” del longevo “nemico” di Loos), certo acuta ma infelicemente intitolata (forse in omaggio alla sede) Funzionalismo oggi, per lo meno nella misura in cui si occupa per la maggior parte delle tesi antiornamentali del Baumeister viennese, irriducibili, appunto, a purismo razional-funzionalista (cfr. Parva Aesthetica, Frankfurt a.M. 1967; trad. it. Feltrinelli, Milano 1979). È indubbio che nell’opera d’arte in generale e nell’arte moderna in particolare −“fondata” filosoficamente sulla formula kantiana della finalità senza scopo− «la ricerca del necessario e la resistenza al superfluo», insomma l’affermazione antiornamentale, appaiano alla stregua di «elementi costitutivi» (p. 104). Indubbio, ma poco concernente la problematica specifica avanzata da Loos. Più interessante e stimolante, invece, il passaggio attraverso il quale un Adorno come sempre ultradialettico, e invero un po’ sofistico, arriva in sostanza alla tesi diametralmente opposta. Basandosi sull’osservazione secondo cui le arti “autonome” e quelle “applicate” «non sono tra loro in quel radicale contrasto» (p. 105) che Loos supponeva, e che dunque, a ragione, estetico e funzionale non si presentano mai chimicamente puri, Adorno fa l’esempio della «rivoluzionaria» Kammersymphonie di Schönberg, in cui del tutto paradossalmente e ironicamente «l’ornamento è l’idea portante» (p. 107). La conclusione logica del ragionamento è facilmente prevedibile, ancorché efficace e suggestiva: «Se l’odio di Loos contro l’ornamento fosse stato conseguente, avrebbe dovuto estendersi all’arte nella sua totalità. L’arte infatti, una volta pervenuta all’autonomia, non può evitare del tutto inflessioni ornamentali, essendo ornamento, secondo i criteri del mondo pratico, la sua esistenza stessa» (pp. 107-8). Siamo ormai al di fuori, però, della problematica loosiana, “dialetticamente” fagocitata da quella adorniana.

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del Moderno come liquidazione radicale di ogni vincolo, scioglimento dalla Tradizione (nei fatti, poi, da una certa tradizione). Il bianco delle muraglie loosiane ha la stessa intensità abbagliante, la stessa compattezza nihilista del bianco in cui, passato oltre l’iride di tutti i colori, penetra Malevi/ incoraggiando i «compagni aviatori» a seguirlo nell’«abisso infinito»44. Fissati i termini della questione in questa cornice, nessun interrogativo può sollevarsi, soltanto una rilevazione ormai storico-documentale che non riesce a trasformarsi in problema. Occorre dunque mutare prospettiva. Intanto, il tema dell’anonimità della pratica espressiva, il suo anti-soggettivismo e la tematizzazione critica dell’enfasi auratica legano fortemente Loos al senso profondo di quei “tagli” metodologico-problematici cui abbiamo più volte accennato, e che così innovativamente caratterizzano la storiografia artistica della Wiener Schule e l’universo culturale di cui Riegl è tra i protagonisti. È volendo “creare” per il proprio tempo, che non si è del proprio tempo. Certamente resta vero che Loos riconverte “semperianamente” l’accento sul Können, sul potere-sapere dell’arte. Ma il tipo di volontà cui Loos si riferisce e contro cui si scaglia non è lo stesso tipo di volontà che si esprime nel Kunstwollen riegliano. In questione, infatti, è piuttosto la volontà-tatuaggio che incolla un ornamento come che sia su una superficie quale che sia; la volontà che falsa il principio del rivestimento dei materiali dipingendo il legno colore del legno (cfr. p. 83); quella che anima i Potëmkin 44

Così, con queste “eroiche” parole nelle quali riecheggia la chiusa della Gaia scienza nietzscheana, si esprime Malevi/ nel testo Suprematismo, pubblicato nel catalogo della Decima Mostra di Stato organizzata a Mosca nel 1919, dove egli presentò per la prima volta il Quadrato bianco su fondo bianco, cfr. Scritti, trad. it. Feltrinelli, Milano 1977, p. 193. Per un approfondimento filosofico-teologico di questo anelito alla purezza, cfr. il ns. Malevi/. L’ultima icona, cit., in part. pp. 115-20. Fa bene Gravagnuolo nel suo Adolf Loos, cit., a collegare la ricerca loosiana al ready-made duchampiano «fondato sulla concretezza cosale in sostituzione della rappresentazione simbolica» (p. 71). Sul sublime rovesciato cui perviene l’estrema, spietata riduzione linguistica in Malevi/ e Duchamp, cfr. il ns. Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi, Roma 1993.

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viennesi a costruire villaggi fatti di tela e cartone «per trasformare agli occhi di Sua Maestà Imperiale un deserto in un paesaggio fiorente» (p. 103); la volontà insomma che, necessariamente mentendo, vuole dire, “esprimere” lo “stile” del proprio tempo, e che così facendo, così “ornando”, lo espone alla cattiva transitorietà. È questo tipo di volontà che si incarna, per Loos, oltre che nel falso storicismo ottocentesco, nella coppia Olbrich-Van de Velde, più che in quella Hoffmann-Moser, sulla quale i giudizi (scarsi, per la verità) sono, probabilmente anche per ragioni contingenti di natura tattico-“politica” e di strategia culturale, molto più sfumati (cfr. ad es. pp. 214 e 244). Chiarito questo punto, Loos si trova in perfetta consonanza con Riegl nel rifiuto sia di ogni narcisismo “creativo” impasticciato di mitologie personali e deliri autobiografici, sia di ogni ego idealistico-trascendentale che ordini “razionalmente” da un esterno puro e incontaminato i materiali a disposizione, piegandoli a un Progetto che prefigura il loro “riscatto”, ma annichilendone nei fatti la concretezza linguistica, la cogenza costruttiva, le qualità peculiari. Al Semper che in Der Stil indaga su «quello stile che si può formare solo nell’uso millenario del popolo»45, Loos fa eco “rispondendo” che «nessun uomo e nessuna associazione hanno creato i nostri mobili, i nostri portasigarette e i nostri gioielli. Li ha creati il tempo» (p. 211), e che dunque «lo stile del nostro tempo lo possediamo già. Lo abbiamo dovunque l’artista, vale a dire ogni membro di quell’associazione [il Deutscher Werkbund, ndr] non è ancora andato a ficcare il naso» (p. 212). Se «sprecare l’arte nell’oggetto d’uso è incivile» (p. 327), allora bisogna essere sufficientemente disincantati

45  G. Semper, Lo stile, cit., p. 11. Sono numerosi i motivi semperiani nelle pagine di Loos, che dal 1890 al 1893 studiò al Politecnico di Dresda, lo stesso in cui Semper insegnò per quindici anni a partire dal 1834. Ci riferiamo ad esempio alla già accennata insistenza sul Können, sull’arte come sapere; al tema della “primarietà” dell’impulso decorativo posto alle origini dell’arte (cfr. PV, 218); all’esplicita citazione semperiana con cui si apre Vetro e argilla, un testo del 1898 (cfr. PV, pp. 41-47).

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da riconoscere che in realtà «noi abbiamo bisogno di una civiltà da falegnami. Se gli artisti delle arti applicate si rimettessero a dipingere quadri o scopassero le strade, l’avremmo» (p. 210); bisogna essere tanto lucidi, conseguenti e inflessibili da affermare che se «volete un artigianato conforme allo spirito del nostro tempo, volete oggetti d’uso conformi allo spirito del vostro tempo, allora avvelenate gli architetti» (p. 287). Il singolo individuo, nella sua feticistica separatezza e autonomia “creativa”, non ha alcuna facoltà-possibilità di “inventare” la forma: Se «la forma e l’ornamento sono il risultato dell’inconscia opera comune degli uomini che appartengono a un certo cerchio di civiltà» (p.327), allora, «la forma migliore è sempre già pronta [...] Ne abbiamo abbastanza del genio originale! Ripetiamoci all’infinito!» (p. 283) (affermazione, quest’ultima, che sarebbe semplicemente insensato interpretare “in direzione” del funzionalismo serial-macchinico). Nella krausiana lotta di Loos col drago ornamento di cui parla Benjamin, nella quale, come nell’angelus novus di Klee, si fa avanti «un’umanità che si afferma nella distruzione»46, sono dunque evidenti gli intrecci tra ragioni estetiche, logico-economiche ed etico-educative. E sono precisamente questi rilievi che ne portano con sé un altro qui per noi essenziale. Scettico su ogni ingenua mitologia del futuro (e anche qui, proprio oggi, quanto polemicamente attuale!) perfino fosse, come in questo caso, favorevole alle proprie posizioni, Loos sa benissimo che contro l’Ornamento non si può “legiferare”. Il fatto che esso eluda, come già ben sappiamo, ogni “centratura” soggettivistica, ogni astratta volontà dell’ego, implica anche che il suo infausto «risveglio» non possa venire semplicemente “bandito” dalla comunità con un editto individuale. Sarebbe come acquisire i caratteri propri di ciò contro cui si combatte; sarebbe un ennesimo tatuaggio, una decisione à la Potëmkin, sarebbe come tingere il le46  W. Benjamin, Karl Kraus (1931), in Avanguardia e rivoluzione, trad. it. Einaudi, Torino 1973, p. 132.

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gno color del legno: menzogna, falsità, velleitarismo. «Non ho mai sostenuto, come ad absurdum hanno fatto i puristi», afferma molto significativamente e con estrema chiarezza Loos, «che l’ornamento debba venir eliminato in modo sistematico e radicale» (p. 329). La sua progressiva scomparsa –benché questo fatto «si realizzerà forse tra millenni» (p. 223)– avverrà in modo del tutto naturale, non sottoposto ad alcuna volontà, così come naturalmente scompaiono le vocali dalle sillabe finali nella lingua parlata (cfr. p. 329)47. «Ciò che è decisivo si compie nonostante tutto»: è la frase di Nietzsche che compare come esergo alla raccolta di saggi intitolata appunto Trotzdem, uscita nel 1931. La progressiva emancipazione dall’ornamento avverrà, appunto, nonostante tutto. Anche nonostante il fatto che, se «ogni arte è erotica» (p. 218), è lo stesso Loos a riconoscere –giacché per lui eros e civiltà possono coniugarsi solo in forma disgiuntiva– che «l’ornamento al servizio della donna durerà in eterno» (p. 330). Ma il punto rimane: così come è esattamente un intervento intenzionale che separa dal proprio tempo, nessun nuovo intervento altrettanto dettato da una forma di volontà, anche se di segno contrario, sarà la via per riaccedervi. Torna qui il tema che già conosciamo dell’intenzionalità collegata al nomos ornamentale. Lo stile del proprio tempo non può essere oggetto di alcuna intentio; deve solo mostrarsi. E ciò vale, appunto, a senso alterno: voler eliminare l’Ornamento è tanto indecente quanto il volerlo dappertutto. Perché le due volizioni sono entrambe espressioni, atti di un’unica e medesima supposta, “libera” volontà-intenzionalità, quella di un Ego trascendente e normativo che non esiste più se mai è esistito, 47 Dalla Grammar of Ornament (1856) di Owen Jones alla Grammar of the Lotus del Goodyear e all’impostazione metodologica riegliana, la metafora, il paragone, l’analogia proveniente dalla sfera della lingua e degli studi linguistici sono costanti nelle ricerche sull’Ornamento. Appoggiandosi a una lunga citazione di Jacob Grimm in cui già il linguista tedesco avvicina l’inutile ghirigoro calligrafico all’orpello decorativo in architettura, nell’Introduzione a PV (cfr. pp. 3-6) Loos dichiara la sua scelta “antiornamentale” di scrivere i sostantivi con l’iniziale minuscola, contrariamente alla norma grammaticale tedesca che prescrive la maiuscola.

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che è messo in mora, che non può più governare-progettare-prefigurare alcunché. Ma dove questo Ego perde veramente ogni effettualità, dove veramente non ha più alcun senso questo velleitario sforzo di dominio? Nella Tradizione, anonima e impersonale. È da essa che dobbiamo attingere le risorse atte a forgiare la nostra sensibilità moderna. Ad essa dobbiamo riagganciarci, nel suo ampio solco operare, i suoi linguaggi custodire. Tradizione è in Loos estrema cura dei materiali e delle loro percorribili differenze, dei mestieri-pratiche-usi. Ogni materiale possiede una propria declinazione, una propria suscettibilità formale, che non consente alcuna «scellerata» trasposizione (cfr. p. 80 ss.). Qui sta il nesso tra il senso, anzi l’etica del limite, e conseguentemente il riconoscimento dell’aperta pluralità dei linguaggi. Su questa polifonica “dissonante armonia” tra materiali, tecniche e formatività, Henri Focillon, pochi anni dopo Loos, lo abbiamo visto, non dirà nulla di diverso; così come Riegl nulla di sostanzialmente diverso aveva già detto quando in Stilfragen si opponeva alla possibilità di “trasporre” dalla tessitura alla ceramica il medesimo progetto formale. I materiali e i linguaggi si differenziano e insieme dialogano e costruiscono precisamente restando autonomi, ognuno con le proprie leggi, le proprie tecniche, i propri “giochi”: che si possono apprendere nell’uso, nella prassi che incessantemente li trasforma. Il testo della Tradizione è solcato da itinerari e percorsi differenti: “ascoltarlo” e dialogarvi in una sorta di ermeneutica operativa non è cieco, automatico ripetersi, ma collegarsi a questo già-differenziato; non è immobilità né feticistica osservanza della legge formale. Agire in base all’ethos della Tradizione è in Loos già una scelta, una decisione, non eterno ritorno della Norma. Vi abbiamo precedentemente accennato: la Tradizione può ri-scriversi, può aprirsi a ulteriori sviluppi proprio perché già il suo tempo è esposto, disposto alla ripetizione che la differenzia. Rinnovare l’ethos della regola si può soltanto nella misura in cui già questa è segnata dalla paradossale possibilità di tornare altra ed estranea a 170

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se stessa. Rinunciare alla lezione classica che ha creato l’unità della civiltà occidentale, argomenta Loos, sarebbe come distruggere le fondamenta, le radici stesse della nostra presenza storica. Per questa ragione, «non solo bisogna coltivare l’ornamento classico, ma si devono studiare anche gli ordini e le modanature» (p. 331). Qui, Loos ripete quasi alla lettera Riegl “citando” Wittgenstein: l’Ornamento è una «grammatica», e come tale una «disciplina», una struttura che «porta ordine» nel nostro pensiero cioè nei nostri usi-linguaggi-giochi, nelle nostre tecniche, nelle nostre forme di vita: «la greca −la precisione dell’ingranaggio! La rosetta− la precisa individuazione dell’asse centrale, ma anche la punta della matita ben affilata!» (ibid.). Ma soltanto nel fitto dialogo-scambio con la Tradizione (che è anche un principio economico: non si può ripartire sempre daccapo!), la punta della matita ben affilata può svolgere correttamente il compito che le è assegnato, non nell’architettura “moderna”, ove invece impera la follia grafica del “libero interprete”, ove il disegno ha soppiantato la concreta progettazione degli spazi tridimensionali. Ove dunque, essendo per definizione “creatura” del piano, può svilupparsi altrettanto “liberamente” la decorazione, il cattivo ornamento che non porta ordine, bensì incolla, aggiunge a posteriori il segno alienato della pretesa “artisticità”, il feticcio della vita creatrice. Loos stima come grande motivo di orgoglio il fatto che gli spazi interni da lui realizzati «non facciano alcun effetto in fotografia» (p. 248). Un punto importante, questo, su cui indirettamente torna Arnold Schönberg quando pensa a un Loos che, come Michelangiolo, «vede l’oggetto da molti lati contemporaneamente», in modo irriducibile al principio di superficie. Nel disegno, le tre dimensioni −lo specifico antropometrico dell’architettura− non possono che sciogliersi e svilupparsi in successione, una dopo l’altra, “discorsivamente”. In Loos invece, prosegue Schönberg nel suo contributo alla Festschrift del 1930, «si è pensato, inventato, composto, raffigurato nello spazio, senza alcun espediente, senza il sussidio delle superfici, 171

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delle sezioni, degli spaccati; immediatamente, come se tutti i corpi fossero trasparenti; allo stesso modo in cui l’occhio spirituale ha davanti a sé lo spazio in tutte le sue parti e contemporaneamente come unità»48. Qui davvero, se non può darsi superficie-piano che annichila l’esperienza concreta dello spazio architettonico multidimensionale in cui fluisce la vita, l’esistenza reale, finalmente neanche Ornamento può darsi. Ma ciò non significa che nell’opera costruita di Loos non vi sia “decorazione”, se con questa si intende controllata, orchestrata apertura d’una vena simbolico-allusiva rivolta verso l’immaginario. Basterebbe semplicemente osservarne alcuni esempi per vedere come semmai egli adotti un diverso linguaggio decorativo, che appunto deriva nella sua sostanza dalla grammatica della Tradizione, dalla cultura classica come techne del pensiero. Basterebbe pensare al gioco di finzioni e illusioni ottiche introdotto da un uso sapiente e raffinatissimo delle superfici speculari imbastito su una trama geometrica di ortogonali (Tavv. 31, 32, 33) o alle venature dell’onnipresente marmo: “ornamento naturale”, immagine della materia (Tavv. 34 , 35a, 35b). Si misura qui tutta la distanza della sua lotta antiornamentale da ogni semplice, asfittica, catastale ricerca di coerenza funzionale tra forma e uso. Essa è semmai “semperiana”, riegliana Stilfrage: problema, interrogazione, questione di stile, nel senso, appunto, più impegnativo, più responsabile del termine. Ma ciò significa appunto che Loos, lungi dall’opporre un immediato rifiuto purista, espone l’Ornamento a una complessità etica, storica ed estetica, ben più di coloro che –alfieri delle arti applicate– lo “esponevano” dappertutto. Nel fondamentale saggio del 1910, Architettura, Adolf Loos scrive: «se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura» (p. 48

A. Schönberg, in A. Loos, Das Andere/L’Altro, cit., p. 112.

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255). Nella sua rigorosa separazione tra arte e uso-scopo-funzione, Loos (che amava essere chiamato Baumeister, ‘maestro costruttore’, e non Architekt) lascia socchiusa una benjaminiana “piccola porta” attraverso cui può passare la Costruzione e trasformarsi in Architettura, disponendosi così alla soglia dell’arte: quando essa è sepolcro o monumento (morte e memoria: gli “indicibili”)49. Due anni prima della morte, nel 1931 −gravemente ammalato e ormai consapevole del proprio destino− Loos fa uno schizzo di quella che dovrà essere la propria tomba: un semplice, nudo, silenzioso cubo di granito poggiato su una lastra dello stesso materiale. Il confine estremo della forma, forse il solo che può racchiudere e insieme evocare il mysterium magnum. Ma proprio per questo, proprio perché un limite è stato raggiunto, un limite ove gli opposti si congiungono al termine del loro tragitto, la tomba di Henri Matisse, lui, il grande innamorato dell’Ornamento, può starle a fianco nel comune, disincantato, geometrico silenzio (Tavv. 36 e 37).

49  Si potrebbe a questo proposito rammentare la pagina semperiana in cui si parla del «segno» che marca «un luogo consacrato», che «ha la forma di un cumulo di terra» indicante «per lo più tombe di guerrieri o di principi caduti in battaglia», e che fa parte dei «più antichi monumenti diffusi quasi in tutto il mondo» (Lo stile, cit., p. 33). «Alla rinuncia a parlare con l’architettura», così commenta Manfredo Tafuri le parole di Loos, «può sfuggire solo ciò che si sottrae alla vita: il monumento −l’artificiosa creazione di una memoria collettiva, vera “azione parallela” di uomini “senza qualità”− e la tomba −l’illusione di un universo oltre la morte», in La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70, Einaudi, Torino 1980, p. 334.

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Intermezzo MATISSE

Forse nessun artista della modernità si è rifiutato di avallare la tesi di una subordinazione dell’Ornamento quanto Matisse. Per lui, non solo espressione e intento decorativo sono la medesima cosa, ma addirittura il lavorìo ornamentale riesce a innescare un processo di conoscenza della realtà percepibile. È quanto si può dedurre ad esempio da una sua dichiarazione risalente al 1919. A uno storico dell’arte svedese venuto nel suo atelier per intervistarlo, Matisse mostra una serie, disposta cronologicamente, di disegni di un unico dettaglio figurativo, un colletto di pizzo femminile. I primi sono eseguiti minuziosamente, cercando la resa realistica di ogni particolare. «In un secondo tempo», dice l’artista al suo ospite, «ho potuto semplificare sempre di più, fino all’ultimo disegno, questo, in cui, conoscendo quasi a memoria il pizzo, posso tradurlo in ornamento con pochi rapidi tratti, farne un arabesco senza che perda il suo carattere di pizzo, anzi di questo pizzo determinato»1. Dunque, 1  H. Matisse, Scritti e pensieri sull’arte (Paris 1972); trad. it. Einaudi, Torino 1979, p. 298. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo.

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proprio trascrivere, trasporre l’oggetto in motivo ornamentale vuol dire né più né meno conoscerlo. (L’Ornamento come attrezzo epistemologico: un monstruum per il razionalismo scientifico, quasi una boutade per il puritanesimo funzionalista). E la conoscenza del reale si identifica sempre, per un pittore, con la sua espressione visiva. Ora, qui è particolarmente notevole il fatto che proprio il processo astrattivo, di prosciugamento e semplificazione dell’immagine, che sta alla base di ogni modus ornamentale riesca ad afferrare l’oggetto singolo nella sua determinatezza, nel suo essere così-e-così, questo e non quello. Proprio il principio della ripetizione consente di restituire, via conoscenza espressiva, l’unicità dell’oggetto raffigurato. È come se per Matisse astrazione e contingenza, paradossalmente, si saldassero nell’Ornamento inteso quale processo operativo in cui conoscenza ed espressione vanno all’unisono. È impossibile sciogliere il legame essenziale e fondante che l’estetica della decorazione intrattiene con il progressivo affermarsi dell’autonomia “linguistica” e strutturale della pittura matissiana, dal periodo fauve fino agli anni estremi dei papiers découpés (una tecnica di cui l’artista afferma essersi servito la prima volta già nel 1911 per i costumi de Il canto dell’usignolo) quando il pattern conquista, al diapason della luminosità, l’intera superficie e fagocita lo spazio, anzi produce la propria stessa spazialità. Qui perfino l’elemento umano perde la sua identità peculiare ed è subordinato al principio del ritmo decorativo. Il compito dell’ornamentale non è quello di esprimere o raffigurare iconicamente l’umano. Anzi questo elemento, nel caso della pittura architettonico-decorativa, deve essere «temperato, se non escluso» −scrive Matisse in una lettera del 1934 a proposito della Danza della Fondazione Barnes a Merion− perché «lo spirito dello spettatore non deve fermarsi su quel carattere umano con cui si identificherebbe e che lo separerebbe, immobilizzandolo, dalla grande associazione armonica, viva e movimentata, dell’architettura e della pittura». Tanto che lo stesso Michelangiolo −prosegue Matisse con un’affermazione che ricorda 176

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da vicino quella di Wölfflin che già conosciamo− ha «appesantito», con «l’espressione di questo umano, che ci separa in continuazione dall’insieme», anche il Giudizio universale (pp. 111-112). «Dipingo raramente ritratti», dice già nel 1913, «e quando lo faccio è sempre in maniera decorativa» (p. 66, nota 28). Nel celebre La Tovaglia: armonia in rosso, del 1908, il volto di profilo e la pettinatura della cameriera sono omologati come in un’eco visiva ai moduli decorativi fitomorfi che la circondano. Nella Famiglia del pittore, del 1912, non modelli occasionali, ma proprio le figure della moglie e dei figli, i destinatari dell’inconfondibile intimità e unicità affettiva del marito e del padre, sono stampigliati −i volti in abbreviazione stenografica− sulla superficie inverosimilmente satura e proliferante di arabeschi. Nell’enorme gouache ritagliata del 1953, Grande decorazione con maschere, i volti non sono ormai più che motivi anonimi ripetuti a calcolata distanza, del tutto equiparabili ai patterns vegetaliformi cui si associano ritmicamente. L’estetica dell’Ornamento attraversa tutte le dimensioni −operativa, concettuale, poetica− dell’arte di Matisse, che non ha mai avuto alcuna remora a considerarsi e presentarsi come un «decoratore». Se sottovalutiamo questo dato, potrebbe risultare sorprendente fino all’incomprensibile il fatto che tre dei più alti traguardi raggiunti dalla pittura del Novecento −il già citato La Tovaglia: armonia in rosso così come i celeberrimi La Danza e La Musica del 1909-1910 dipinti per lo scalone del palazzo moscovita del collezionista S/ukin− siano stati esposti dal loro autore come «pannelli decorativi», e il primo addirittura, al Salon d’Automne del 1908, con la specifica «per sala da pranzo». Tale attitudine percorre tutto intero l’itinerario creativo matissiano: nel 1951, come riecheggiando il famoso Il faut être absolument moderne di Rimbaud, dichiara che «bisogna essere per prima cosa decorativi» (p. 289, nota 31). Ciò significa non soltanto affermare la realtà autonoma del processo pittorico e dei suoi valori cromatici, bilanciare perfettamente pesi e posizioni, saper orchestrare i diversi elementi. Significa anche riconoscere e 177

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produrre il profondo, musicale intrecciarsi di ripetibilità e novum, di continuità e interruzione da cui trae linfa ogni organismo ornamentale. Matisse (elemento qui per noi molto importante) coglie perfettamente tale rapporto tra iterazione e “catastrofe”. «Penso», dichiara nel 1950, «ai temi decorativi degli affreschi romanici: pochi motivi, semplicissimi, sempre uguali, palmette, racemi, tortiglioni, eppure ogni volta è una sorpresa»2 (corsivo ns.). Affermazione straordinariamente significativa, che sembra compendiare in formula uno degli aspetti fondamentali del nostro stesso itinerario. Le fratture e i tagli dell’immagine, gli stridori compositivi e le inquadrature decentrate degli anni Dieci cedono il passo negli anni Venti a un’ansia di conciliazione armonica delle forme. Per circa tutto il decennio successivo Matisse −rinunciando al modellato e alla prospettiva come valore in sé− sarà alla costante ricerca di un’accettabile posizione di compromesso, di un punto di equilibrio tra realtà letterale-materiale della superficie da una parte, e costruzione dei volumi, profondità “realista” dall’altra; equilibrio cercato soprattutto nei termini del tormentato rapporto −che gli deriva dall’amatissimo Cézanne− tra figura e fondo. Lungo un itinerario che, fatte salve le ovvie differenze, è forse possibile idealmente ricollegare a un segmento del percorso formale e poetico klimtiano, gli ultimi venti anni della sua opera −fino alla morte nel 1954− Matisse li dedica interamente all’emancipazione dell’Ornamento da ogni residuo legame con l’illusorietà tridimensionale dell’immagine, da ogni retaggio prospettico-narrativo-“occidentale”. E la progressiva affermazione della bidimensionalità procede all’unisono e si identifica da un lato, certo, con l’“età dell’oro”, con l’imperturbabile 2

Cit. in P. Schneider, Matisse (Paris 1984); trad. it. Mondadori, Milano 1985, p. 179. È a questa fondamentale e a suo modo definitiva monografia storico-critica che rimandiamo per qualsiasi approfondimento interpretativo dell’opera matissiana e –giacché solo questa vogliamo qui tratteggiare− della sua particolare tensione ornamentale (cfr. soprattutto i capitoli «La rivelazione dell’Oriente» e «Nella luce, nello spazio»). Su quest’ultimo tema, cfr. anche A. Goldin, Matisse and Decoration: the Late Cut-Outs, «Art in America», July-August 1975, pp. 49-59.

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capacità simmetrico-“ricompositiva” dell’estetica della decorazione; ma dall’altro lato anche con la carica a suo modo corrosiva, dirompente, dissolvente del pattern rispetto ai postulati pittorici della tradizione europea. Rovesciati completamente valori, assi e paradigmi di riferimento, le opere degli anni Quaranta e Cinquanta saranno ormai sola e pura “decorazione”, perfettamente, definitivamente emancipata da ogni imprestito realistico-descrittivo, immersa nella luce e nel colore. Ma per Matisse, Ornamento è Oriente. Nulla si comprende della sua passione decorativa se non la si vede crescere e alimentarsi in profondo e consapevole accordo con i motivi e le dimensioni orientali della sua estetica. Dimensioni non soltanto, ovviamente, del tutto aliene dal kitsch esotistico e dal bric-à-brac orientaleggiante di tanta pittura (soprattutto francese) a cavallo tra Otto e Novecento, ma anche dimensioni più profonde e prolungate nel tempo di quelle indotte nell’arte europea al volgere del secolo dal japonisme, cui pure Matisse rende convinto omaggio, soprattutto nei termini dell’utilizzo non descrittivo ma espressivo del colore puro, che metterà a frutto all’apice del periodo fauve. Qual è dunque il contesto storico-culturale e il significato poetico-formale della «rivelazione» che gli è «venuta dall’Oriente» (p. 159)? Esposizioni d’arte musulmana si tennero a Parigi a più riprese: nel 1893 al Palais de l’Industrie, un anno dopo all’Elysée, e nel 1903 al Pavillon de Marsan. All’Esposizione Universale del 1900, nei padiglioni coloniali e in quelli egiziano, turco, marocchino e persiano, furono ricostruiti suk e bazar in cui veniva mostrato l’artigianato di quei Paesi: tappeti, stoffe, vasellame, ceramiche, tessuti. Matisse, lui stesso lo ricorda varie volte, ne rimarrà affascinato, conquistato. E lo sarà definitivamente (senza contare l’attrazione per la miniatura persiana nata visitando le collezioni d’arte islamica del Louvre) nel 1910 −un anno prima del viaggio nella Mosca delle icone cristiano-orientali −alla Mohammedischen Ausstellung di Monaco. Per due inverni successivi, tra il 1911 e il 1913, soggiorna in Marocco. 179

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Ne trarrà, come noto, tele stupende −tra le quali due supreme: Il Caffè arabo e I Marocchini− restando completamente immune da ogni forma di esotismo. «Sono troppo antipittoresco», dirà nel 1952, «perché i viaggi possano avermi dato molto» (p. 73). Ma Oriente, per Matisse, non è soltanto una condizione e una scelta estetica; è anche, in una certa misura, uno stile di vita, un atteggiamento etico. L’una cosa alimenta l’altra. Ad esempio, acquista brandelli di arazzi (nato e cresciuto in una famiglia dedita all’industria tessile e al suo indotto, ha innata dimestichezza con tutto ciò che ha a che fare con stoffe e tessuti), maioliche e altro “armamentario orientale”, raccoglie oggetti e materiali decorativi, ma non si considererà mai un collezionista. Anzi, ne rifuggirà sempre l’idea proprio in base a una motivazione di tipo “orientale”, cioè l’avversione nei confronti della volontà accumulatrice, della dimensione o dell’attitudine proprietaria del soggetto: «Se ami le cose belle, va’ al Louvre invece di cedere a un sentimento di possesso»3. La Cappella di Vence denuncia una complessiva concezione architettonico-decorativa di chiara provenienza islamica. A fra’ Rayssiguier (il giovane novizio domenicano che lo aiuterà a condurre in porto il progetto e con il quale stabilisce un fitto colloquio sul tema del rapporto tra arte e sacro) Matisse scrive che nella cappella «a chiunque sarà dato di sperare quale che sia il suo fardello di colpe, giacché potrà abbandonarle alla porta come i maomettani lasciano la polvere della via sulla suola dei sandali abbandonati alla porta delle moschee». Lo stesso gesto rituale l’ha compiuto lui stesso, dichiara poco dopo, perché il lavoro per Vence ha rappresentato una «purificazione»4. Le vetrate, nel loro ritmico spartirsi in forme geometriche, non saranno concepite da Matisse altro che come arte orientale. Della Madonna con Bambino realizzata in ceramica come puro segno grafico-scritturale nero sul bianco assoluto delle matto3  4

Cfr. P. Schneider, Matisse, cit., p. 184, nota 34. Cfr. Op. cit., p. 677.

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nelle, e collocata sulla parete di fronte alla vetrata de L’Albero della vita a riceverne i mutevoli, equorei riflessi gialli, blu e verdazzurri, dirà decisamente che «è una composizione cinese»5. Nel testo che accompagna le venti tavole di Jazz −il libro pubblicato da Tériade nel 1947− l’artista racconta un aneddoto simile, nel suo spirito di fondo, a una parabola zen. Raccoglie fiori nel suo giardino e torna in studio con l’idea di dipingerli. Ma dopo averli disposti, si avvede che il loro fascino è scomparso: messi in ordine, “composti”, non possono che deluderlo: all’accostamento inconscio e casuale della raccolta, si è sostituita una «disposizione volontaria» (p. 201) che ha come ridestato l’intenzionalità progettuale e razionale dell’ego. Per di più, quei fiori li aveva disposti in una maniera «derivata dai ricordi di mazzi ormai morti, che hanno lasciato nella mia memoria il loro fascino di allora» (ibid.). Quando si rimane legati al passato, quando esso getta ancora la sua ombra mortale sul presente, l’immediatezza del vivere, il fluire aereo, leggero e senza scopo del mondo scompaiono proprio perché un pervicace spirito intenzionale pretende di irretirne la dinamica emotiva. E dunque «non c’è niente da capire: bisogna sentire, lasciare che le cose vedano da sé, soprattutto non forzarsi» (p. 311). Non si tratta di cosa facile: «da sempre c’è voluto coraggio per essere semplici. Credo che non ci sia niente al mondo di più difficile» (p. 326). È l’ego “occidentale” che deve deporre la sua tracotante volontà di appropriarsi degli essenti, che deve abbandonare la sua hybris: «Ho raggiunto l’età felice dell’impotenza», diceva Delacroix; e Matisse sottoscrive (cfr. p. 185). E a ottantadue anni, nel 1952, dichiara che è bene «che un artista anziano e maturo si abbandoni alla grazia» (p. 343). Non si può volere l’involontarietà: il Semplice va lasciato crescere dentro di sé, atteso con pazienza infinita, la stessa con cui il pittore zen attende −ma non è, beninteso, un’attesa psicologica− con sovrana, meditativa noncuranza, che maturi la potenza gestuale 5

Cfr. Op. cit., p. 688.

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del segno che fulmineamente traccerà sulla superficie. Questa disposizione tanto profondamente coltivata verso una crescita organica degli elementi che nessun ego legislatore-progettuale può interrompere o alienare fa sentire a Matisse ormai «mutilati» i due tigli della sua residenza di Issy che il giardiniere lo ha convinto a tagliare di un metro e mezzo all’apice. Di colpo, tutto l’interesse per quegli alberi svanisce, è perduto, si dilegua come il fascino che emanavano i fiori del giardino una volta raccolti e composti (cfr. pp. 129 e 260-261). Bisogna invece «sentire l’albero per intero», bisogna fare come i Cinesi: crescere insieme all’albero. «Non conosco nulla di più vero», commenta Matisse (p. 165). Solo così, di questo albero può darsi scrittura. L’uso continuo e ripetuto del paradigma o della metafora scritturale −per di più associati al motivo del vuoto− davvero orienta Matisse. Già nel 1908 nelle Notes d’un peintre, un punto nero su di un foglio bianco è una «scrittura chiara» (p. 8). Un anno dopo, il proposito di semplificare la pittura implica la necessità di «imparare −forse di imparare di nuovo− una scrittura che è quella delle linee» (p. 18). Passano trent’anni e, in un articolo per «Le Point», è ancora lo stesso linguaggio a tratteggiare l’autonomia del processo espressivo-decorativo, l’astrazione del segno «della mano birmana» (p. 174, nota 68). L’emozione, afferma Matisse, trova il mezzo della «scrittura plastica», e il primo tratto modella la luce del foglio facendo nascere il bianco a se stesso: a quel punto non si può più «aggiungere né riprendere qualcosa. La pagina è scritta. Nessuna correzione è possibile» (p. 125). E l’ayn o il lam-alif arabo, l’ideogramma cinese, la J di Jazz: «Adesso so che cos’è un J», dice ad Aragon nel 19466. Per questo, non si deve “rappresentare” l’albero, ma trovare il segno, l’“ideogramma” che gli corrisponda. Questa scrittura dialoga con il vuoto, è innervata, percorsa, scandita dal «tratto vuoto delimitato dalle due punte del pennino cui non 6

Cfr. Op. cit., p. 184, nota 23.

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è ancora arrivato l’inchiostro» (p. 163, nota 7). Nei disegni degli Orientali, nota Matisse, le foglie di un ramo sono più in rapporto con le foglie che stanno sul ramo vicino che non con quelle cresciute sul medesimo ramo; un’assenza le separa, un intervallo che fa da contrappunto: e questo vuoto va disegnato. Solo in tal modo se ne può fare scrittura, sottraendosi allo stereotipo visivo dell’albero che la tradizione pittorica −con cui pure dobbiamo dialogare− ci ha tramandato (cfr. pp. 129 e p. 165, nota 17). È lo stesso vuoto che ritma la concentrazione spirituale, l’azione interiore dei marocchini seduti nel giardino (motivo, come sappiamo, islamico, coranico) del Caffè arabo, dei disegni della casbah così filiformi, disincarnati. La creazione, o meglio il dinamico crearsi di questo vuoto, non è un’“astensione”, intesa come nihilistica rinuncia al mondo. È piuttosto il risultato non intenzionale, non “atteso” né “in-teso”di una pratica che attiene al corpo. Straordinario è lo spirito di leggerezza (quasi uno Zarathustra nietzscheano) con cui Matisse accompagna la grazia −alla quale, lo sappiamo, un artista maturo deve abbandonarsi− necessaria all’atto del disegnare, atto paragonato alla destrezza agile e svagata del giocoliere (cfr. p. 130). «Io sono il ballerino o l’equilibrista», scrive Matisse nel già citato articolo per «Le Point», «che comincia la sua giornata con molte ore di vari esercizi di flessione, in modo che tutte le parti del corpo gli obbediscano quando, davanti al suo pubblico, vuole tradurre le sue emozioni in una successione di movimenti di danza, lenti o vivaci, o in una piroetta elegante» (p. 125): la stessa piroetta che accenna per la felicità entrando nella Cappella di Vence quasi ultimata nel giugno del 1950. È lo slancio del corpo emozionato che si fa scrittura nello spazio, è l’arabesco che «traduce con un segno l’insieme delle cose, fa di tutte le frasi una frase sola» (p. 119 nota 6), l’arabesco che «si organizza come una musica» (p. 162, nota 5). Il giocoliere matissiano è cinese e arabo, indù e persiano. L’Occidente non lo riguarda. Ora, questi motivi della non intenzionalità, della scrittura, del 183

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vuoto, si collegano a un elemento strutturale del linguaggio pittorico matissiano. E tale connessione ci riconduce poi a una categoria essenziale dell’Ornamento, che abbiamo già analizzato. Matisse ha una concezione eminentemente differenziale della pittura e del disegno. Nel senso che ciò che contano non sono gli elementi singoli, le emergenze univoche, ma i rapporti: «la questione capitale è lì», e anche «gli antichi» lo sapevano e agivano di conseguenza (p. 152). L’opera matissiana è il luogo del conflitto continuamente rilanciato tra paradigma ornamentale-decorativo e sistema prospettico. Di quest’ultimo, fino agli anni Venti-Trenta rimane un residuo che l’attrazione dissolvente della bidimensionalità non riesce a fagocitare. Portiamo un solo esempio, limitandoci a rapidi accenni descrittivi. Interno con melanzane, del 1911, è un caso straordinariamente ricco e complesso di tale conflitto tra superficie e profondità, Oriente e Occidente, astrazione e realismo (Tav. 38). Tutti gli elementi sembrano avanzare sullo stesso piano di posa nello stesso tempo; l’impatto visivo è globale. La finestra aperta sulla destra lascia intravedere un esterno che però si ribalta subito in superficie, anche mediante l’accordo cromatico che stabilisce con l’interno. Agli accenni di scorci e alle ombre portate “risponde” il motivo pentalobato che si dissemina a tampone sul pavimento e i muri come su una stoffa, su un tessuto. La statuetta “matissiana” sul tavolo disegna la stessa linea ricurva delle volute del pattern impresso sul paravento retrostante. La specchiera a sinistra raddoppia, oltre alla natura morta sulla tovaglia, parte dell’immagine totale, complicandone la struttura in un insieme strofico di echi e rimandi visivi ora per similarità ora per opposizione. L’immagine appare costruita su di una complessa, musicale architettura di ripetizioni e differenze, scarti, slittamenti e assonanze perfettamente orchestrate. Nessun elemento si lascia racchiudere nella sua identità-riconoscibilità percettiva e oggettuale, bensì −nel flusso, nella durata in cui si trova immerso− ne richiama subito un altro analogo per forma o colore, oppure associato per opposizione. Neanche un oggetto 184

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è uno: «ricordatevi», scrive Matisse nelle Notes d’un peintre, «che un piede è un ponte» (p. 21). A ulteriore conferma del fatto che un’opera come Interno con melanzane è governata da una logica e un’estetica ornamentale che essa stessa elabora e sviluppa, possiamo richiamare qui due circostanze. La versione ad acquerello su carta è fornita di una finta cornice sulla quale proseguono disponendosi in fila gli stessi patterns decorativi dell’immagine ma in colori diversi, esattamente come accade nel Grande Nudo o Nudo decorativo dello stesso anno, ora distrutto. Inoltre, esiste una foto dello studio di Matisse a Clamart, datata circa 1911, in cui compare −proprio accanto al Nudo decorativo appena citato− la tela dell’Interno con melanzane senza cornice e appesa libera alla parete esattamente come un tappeto nell’uso arabo7. «Io non dipingo le cose», dice molto significativamente Matisse, «dipingo le differenze tra le cose» (p. 165, nota 17). Conosciamo bene questo movimento, questa tensione: è lo status diacritico dell’Ornamento che trova nell’articolazione, nel frammezzo, nell’intervallo, una delle sue categorie estetiche e ontologiche di fondo. Da questo punto di vista, la pratica e il pensiero matissiani ne sono l’eco perfetta, cristallina. Tanto che la passione decorativa dell’artista non si limita all’esteso, onnipervadente utilizzo (sia pure modulato negli anni) dell’elemento ornamentale nell’arredo, sulle stoffe e i tappeti, sui tessuti e su tutti gli altri oggetti da interno che popolano i suoi quadri. Neanche si identifica soltanto con la presa di possesso totale dello spazio da parte del pattern −uno spazio ormai ridotto a pellicola bidimensionale continua, infinita− che caratterizza le grandi gouaches indirizzate verso l’astrazione totale degli anni estremi, ritagliate a vivo nel colore, da Gerusalemme celeste a L’Onda, da La Piscina a Polinesia e Oceania. Non si limita, quella passione, all’immediato aspetto percettivo delle opere; non 7  Cfr. Op. cit., p. 346. D’altronde anche le vetrate di Vence sono pensate e realizzate da Matisse come drappi appesi.

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si registra soltanto sulle apparenze −sia pure nietzscheanamente “superficiali per profondità”!− del dato formale e visivo. L’estetica, la logica e lo spirito dell’Ornamento si innestano in Matisse perfino nella genesi del meccanismo mentale che dà origine alle sue idee creative. È il suo coeur mis à nu. È la lente attraverso cui guarda e ricrea il mondo. Tanto spessa da creargli, talvolta, qualche problema. A che cosa ci riferiamo? È significativo richiamare qui un episodio occorso durante i lunghi studi preparatòri −iniziati nel 1947− per la già citata decorazione della Cappella di Vence, inaugurata nel giugno del 1951. Lavorando al cartone della Via crucis, Matisse sbaglia due volte. Prima non colloca al posto giusto, secondo la corretta consequenzialità narrativa, la figura della Veronica; successivamente, si dimentica addirittura la Seconda Stazione della Croce e deve rifar tutto da capo. Se disposti sotto l’angolazione prospettica che qui ci interessa, questi errori sono estremamente sintomatici. Che cosa rimuovono questi lapsus? Che cosa “dimentica” Matisse? Dimentica precisamente il tenore iconografico del tema a cui sta lavorando, la sua dimensione semantico-intenzionale; dimentica che la Via crucis −così come ogni altro soggetto storico− si dispone e si sviluppa secondo i ritmi progressivi di una narrazione; dimentica che si tratta di un racconto del quale vanno rispettate le scansioni, le tappe logiche che ne costruiscono via via il senso fino al suo scioglimento finale. D’altra parte, non è l’unico “atto mancato” intervenuto nel lavoro di Vence. Nel medaglione in ceramica, il Bambin Gesù in braccio alla Madonna non ha il pene: «È una bambinetta», dice Matisse. «Spero che non sia scandaloso» (p. 235). (Una vera manna per la psicanalisi freudiana, dell’artista e non!). Completamente proiettato in una dimensione dominata dall’impeto decorativo e dunque da un procedimento di tipo globale, olistico, che può applicarsi alle diverse parti della composizione contemporaneamente (e che, per di più, non conosce dramma, non conosce tragedia), Matisse, nel lavoro attorno alla Via crucis, lascia emergere, precisamente attraverso 186

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questi lapsus, l’assoluta incompatibilità del principio ornamentale con l’aneddoto, con lo svolgimento in successione logico-semantica di un insieme organizzato narrativamente, di una storia dotata di una precisa, significativa vettorialità che stabilisce un principio, uno sviluppo e una fine. Una dimensione mentale che gli rimarrà comunque estranea. Come utilizzando quei lapsus, decide alla fine di costruire una Via crucis “in diagonale”, aggirando l’“ostacolo” della processualità narrativa, stravolgendo l’ordine compositivo e la successione canonica degli episodi, focalizzando l’attenzione sulla figura del Cristo, in qualche modo svincolata dagli eventi che pure nel racconto evangelico lo vedono tragico protagonista. Il risultato finale sarà un insieme figurativo centralizzato in cui le immagini che corrispondono alle varie Stazioni non si dispongono tradizionalmente una dopo l’altra da sinistra a destra e dall’alto verso il basso. Siamo di fronte a una composizione assiepata e compatta le cui singole scene talora si intersecano l’una nell’altra, contrassegnate da numeri arabi per renderne più comprensibile il riferimento tematico e iconografico. Probabilmente è vero che la parete della Via crucis −anche per le contraddizioni, le difficoltà di base che abbiamo visto− rimane la meno risolta e convincente della Cappella. Ma è estremamente significativo qui per noi che alle critiche di cui subito fu oggetto, Matisse rispondesse che essa era «svolta in modo allusivo, che è una rappresentazione volutamente segnaletica. È come un cartello stradale, una somma di segni» (p. 229). E soltanto «coi segni si può comporre in modo libero e ornamentale» (p. 174). Proprio quella libertà attraverso la quale Matisse coglie e annette progressivamente al proprio linguaggio un altro tratto peculiare (e antinomico) dell’estetica della decorazione. Il partito ornamentale si trova in intima connessione, dialoga strettamente con le caratteristiche spaziali specifiche e individue dell’ambiente, del luogo che lo accoglie. Tuttavia, nello stesso tempo, nello stesso movimento, si può affermare che esso è una forma di linguaggio così duttile da potersi adeguare a qualunque 187

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tipo di superficie o di spazio, come una levigata pellicola che, proprio tramite l’indifferenza verso ciò su cui si posa, mostra di accettare in toto la propria precarietà, il proprio destino aleatorio. Mentre le opere per S/ukin erano ancora quadri che andavano, in una fase successiva alla loro creazione, collocati in un contesto architettonico, lo sforzo profuso per la Danza del 1931-1933 è già quello di trovare una sorta di equivalente architettonico della pittura che possa fondersi armonicamente con le caratteristiche struttive dello spazio pre-esistente. E la progressiva emarginazione della figura umana ritrattisticamente concepita −cui già abbiamo accennato− avviene anche in funzione dell’importanza via via maggiore assegnata ai valori precipuamente ambientali della decorazione −«In questo caso», dichiara Matisse, «è lo spettatore l’elemento umano dell’opera» (p. 112)− considerata come lo sfondo, l’Umwelt nel quale la vita reale si produce, le donne e gli uomini in carne e ossa si muovono e agiscono. La dimensione decorativa −forma volatile e onnipervadente dell’estetico− è profondamente coinvolta nell’esistenza, nella prassi, negli atteggiamenti e negli stili di vita, nelle contingenze del quotidiano. Ne scandisce silenziosa i tempi, gli spazi, ne accompagna, più o meno discreta, gli sviluppi. L’Erlebnis dell’Ornamento non è puntiforme, condensato nella singola opera, ma diffuso, esteso, prensile. Proprio perché spirito della superficie caduco, provvisorio, proprio perché ha il potere di distendersi su ogni spazio e in ogni luogo, l’ornamentale vive di un processo di osmosi e di continuo scambio percettivo e psicologico con l’environment. Per Matisse, questo scambio si sostanzia principalmente nell’apertura, nel respiro allargato che la decorazione fornisce allo spazio. Dunque, partendo da una superficie limitata, «dare l’idea di un’immensità»: questo è il risultato da raggiungere, dato che «il ruolo di tutta la pittura decorativa è quello di ingrandire le superfici» (p. 229). E la sfida che Matisse raccoglie a Vence sta esattamente nel «prendere uno spazio chiuso di proporzioni ridottissime e dargli dimensioni infinite col solo gioco dei colori e 188

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delle linee» (p. 238, nota 14). Solo in questo modo, si può «rendere viventi un tratto, una linea, fare esistere una forma» (p. 214): non soltanto disegnarla o dipingerla, ma immergerla nello spazio illimitato che è bios originario, lontano ormai da ogni distinzione o contrapposizione intellettualistica. Nell’opera di Matisse, il pattern finisce per diventare indifferente allo spazio che lo accoglie, uno spazio reversibile, non focalizzato, acefalo, perfettamente trasparente a se stesso. Così, l’artista ottantenne, ormai abbandonatosi alla grazia, ricopre le pareti del suo studio di enormi fogli bianchi su cui applica le grandi forme disegnate nel colore con le forbici, libere da ogni cornice; oppure finisce per appuntare direttamente sulle pareti nude le gouaches ritagliate, senza più principi restrittivi di alcuna sorta se non i confini fisici dell’ambiente. Come se il mondo stesso, intero, continuo e infinito, in una nuova Età dell’Oro, fosse diventato il teatro dell’Ornamento. Esente da limitazioni, è lo spazio stesso che si emancipa da qualsiasi vincolo tettonico-tellurico per trasformarsi ancora una volta nell’eden coranico, nel giardino sospeso nell’aria, spazio di meditazione ed esperienza del corpo immenso del Vuoto.

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Capitolo terzo DIALETTICHE DELL’ORNAMENTO II: SUPPLEMENTO-FONDAMENTO L’uomo adamitico era nudo, privo di vesti di pelle morta, e per questa ragione guardava senza vergogna il volto di Dio Gregorio di Nissa, Sulla verginità

I parerga di Kant La temuta potenza del colpo nemico riscatta l’Ornamento dalla sua marginalità. Nello scudo antico, la decorazione si infittisce al centro in corrispondenza della mano che da dietro lo impugna, in modo da creare uno spessore maggiore che più efficacemente protegga il combattente nella battaglia. Qui, la decorazione non ha solo uno scopo esornativo o edonistico, non nasconde né tradisce la verità del manufatto. Al contrario vi si ricollega, concorrendo a definirne il valore utilitario. Siamo di fronte a un caso di funzionalizzazione dell’Ornamento, analogo a quello (già evocato per l’architettuta islamica) in cui il partito decorativo si spinge fino a identificarsi con la struttura dell’edificio. Si tratta di un’istanza comune all’interno delle teorie dell’architettura. Per limitarci a un solo esempio, appare evidente che proprio di questo si tratta quando Argan, analizzando l’opera del Borromini, scrive (riecheggiando, lo vedremo, le posizioni di Ruskin) che «la decorazione, in quanto non è soggetta a nessuna condizione statica ed è puro, 191

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disinteressato omaggio ad un supremo ideale di bellezza, diventa l’elemento essenziale, il solo veramente artistico dell’architettura; onde può dirsi che lo scopo di quella tecnica ispirata e intimamente poetica [propria del Borromini, ndr] è appunto di trasformare in decorazione anche gli elementi che hanno, nella struttura, un’essenziale funzione di forza»1. La complessità delle “lingue” e della techne rhetorike dell’Ornamento trova modo di aprire al proprio interno uno spazio in cui si rovescia, o piuttosto perde terreno la tradizionale accusa (che così spesso ha assunto risonanze etiche e morali) di esornatività, inutilità e parassitismo della decorazione. Ma questo significa che lo statuto dell’Ornamento non può pensarsi, descriversi, analizzarsi al di fuori del cono d’ombra proiettato dal binomio supplemento-fondamento che abbiamo introdotto nel primo capitolo a proposito della posizione husserliana. Supplemento è ciò la cui addizione si colloca al posto di una mancanza originaria, è un elemento aggiuntivo che svela però una carenza essenziale, un più che denuncia il meno che supplirebbe. L’ornamentale è una delle declinazioni, delle figure del supplemento: un’ulteriorità che sostituisce ciò che non c’è mai stato. Un ossimoro: una marginalità centrale. Questa definizione guiderà il nostro terzo e ultimo percorso attraverso le “lingue” dell’Ornamento. Per illuminare questi motivi, disponiamoci ad analizzare con attenzione alcune pagine kantiane. Le riflessioni sull’Ornamento contenute nella Critica del giudizio, benché non tematicamente organizzate, rappresentano un caso classico e al tempo stesso sorprendente di totale rovesciamento dei termini in gioco. Tra oscillazioni e ambiguità che non mancheremo di sottolineare, la decorazione (inserita nel potente contesto sistematico della distinzione tra forma e materia) si trasforma sotto i nostri occhi da oggetto della mera attrazione dei sensi nell’unico oggetto possibile del puro giudizio di gusto. Ma ogni ribaltamento integrale e specularmente simmetrico 1

G.C. Argan, Borromini, Mondadori, Milano 1978, p. 56.

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dei valori lascia le cose come stanno, sia pur cambiate di segno. Non si tratterebbe tanto, allora, di collocare l’Ornamento nel fondamento rivendicandone immediatamente l’essenzialità, l’irriconosciuta centralità, quanto piuttosto di indicare le molteplici e contraddittorie tensioni che nello statuto estetico-filosofico dell’Ornamento e nei suoi concreti linguaggi si sviluppano tra supplemento e fondamento, tra principio di sostituzione vicaria e struttura centrale. È l’itinerario che intendiamo percorrere. Cominciando a leggere il ricchissimo testo kantiano. Nella Critica del giudizio (all’Analitica del bello, paragrafo 14) l’Ornamento viene attribuito alla categoria dei parerga. I fregi (Zierathen) sono parerga: «Vale a dire quelle cose che non appartengono intimamente, come parte costitutiva, alla rappresentazione totale dell’oggetto, ma soltanto come accessori esteriori»2. Ma che cos’è un parergon? È una figura e, sotto taluni aspetti, l’exemplum paradigmatico del supplemento. Jacques Derrida, commentando a lungo e magistralmente le pagine kantiane cui facciamo riferimento, definisce il parergon come qualcosa che «sta in cambio, in posizione subordinata e in più dell’ergon, del lavoro compiuto, del fatto, dell’opera, ma non si trova a lato, si riferisce e coopera, da un certo di fuori, all’interno dell’operazione. Non è né semplicemente al di fuori, né semplicemente all’interno»3. Posizione mediana e spuria. Posizione eminentemente critica: perché il parergon mostra, svela che l’opera −l’ergon, l’interno− non è sufficiente a sé stessa. Ma allora proprio il parergon, proprio l’Ornamento sarebbe-svelerebbe la verità stessa dell’opera? I panneggiamenti delle statue, le cornici dei quadri, i peristili degli edifici sono gli esempi portati da Kant

2  I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 70. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo. 3  J. Derrida, La verità in pittura (Paris 1978); trad. it. Newton Compton, Roma 1981, p. 55. I saggi del volume in cui Derrida sviluppa la sua lettura della trattazione kantiana del Bello sono tre: Il parergon e Il senza della cesura pura e, pubblicato a parte, Economimesis. Politiche del Bello (Paris 1975); trad. it. Jaca Book, Milano 2005.

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per illustrare non solo e non tanto che cosa sono i parerga, quanto come funzionano; e qui è una vera e propria economia del Bello e della bellezza che viene allestita. Per la statua, per il corpo scolpito, i panneggi (le vesti?) funzionerebbero dunque da ornamento. Se ne può dedurre senza eccessive forzature che per Kant l’essenza stessa della rappresentazione, il fondamento del mimetico appare nel rappresentato come corpo nudo, come “assoluto naturale” al di qua della cultura. La visibilità e la pensabilità della bellezza pura, mondata e totalmente aliena da ogni «attrattiva sensibile» (già abbiamo toccato questo punto e dovremo tornarvi) si identificherebbe con la nudità dell’oggetto, del corpo rappresentato: nuda veritas. Nessuna integrità sostanziale della visione cosciente può darsi (esattamente come in Husserl) se l’attenzione che deve o dovrebbe sostare, arrestarsi e chiudersi su se stessa è stornata, deviata da elementi accessori, decorativo-ornamentali, che ne impediscono la perfetta delimitazione, la puntuale circoscrizione. Ma allora non è forse legittimo chiedersi se pressoché tutta l’arte prodotta dall’uomo non sia, giustappunto, “decorativa”? Già da sempre intaccata, aggredita dall’Ornamento? Si apre qui un’economia abissale. Davvero esiste, davvero può darsi un’arte rappresentativa che incarni una bellezza oggetto non di un giudizio estetico empirico-materiale ma di un giudizio estetico puro-formale, cioè di un vero giudizio di gusto secondo la definizione kantiana? Davvero può darsi una nuda veritas? E ancora. Nella sua lettura di queste pagine della terza Critica, Derrida −dal momento che la questione è posta dallo stesso Kant in questi termini− si domanda in che modo possano venir considerati «i veli completamente trasparenti» di tanta pittura4. Interrogativo logicamente conseguente. Ma forse anche, per così dire, analiticamente eccessivo. Sarebbe sufficiente chiedersi ove mai −nell’ambito degli stili artistici che Kant 4  J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 58. «Non crediamo che la verità resti ancora verità quando le si tolgono i veli di dosso», diceva Nietzsche nel Contra Wagner.

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ha potuto storicamente conoscere o immaginare al suo tempo− si possa reperire una veste, un qualsiasi abbigliamento che ricopra il corpo senza alcun panneggio, senza la rappresentazione illusiva di pieghe, di flessioni. Il parergon ornamentale è un elemento accessorio, non appartiene all’essenza rappresentativa dell’oggetto, alla sua costituzione. Ma se c’è −e c’è sempre− significa che supplisce a una mancanza scavata all’interno dell’ergon, dell’opera; supplisce al fondamento, è collegato criticamente al suo intimo, all’intimità stessa della rappresentazione. Vicario ed essenziale al contempo. E allora, quale miglior esempio proprio di quel panno che ricopre e nasconde il sesso dei corpi scolpiti o dipinti, per indicare il paradosso di questo supplire essenziale? Un panneggio di cui certo non si vorrà affermare o difendere l’opzionalità ornamentalistica, ma che al contrario si dovrà collegare alla necessità morale e sociale, prima ancora che estetica, del decoro5. Ci si accorderà facilmente che è del tutto manifesta l’impossibilità di pensare lo statuto di questa 5  La nozione di decorum nasce all’interno della retorica antica. Nell’Orator ciceroniano, sapere che cosa convenga e che cosa non convenga al discorso, l’abilità nell’adattare le parole ai luoghi, ai tempi, all’uditorio, si rivela essere una qualità essenziale dell’argomentazione retorica. Correlativamente, quando la semantica del termine fa ingresso nel sistema di senso della letteratura artistica e nella teoria delle arti figurative, decorum starà a signifcare la qualità del rapporto che si instaura tra l’iconografia dell’opera e il luogo in cui essa è collocata, secondo le convenzioni morali e i dogmi religiosi del tempo, tanto che Giovanni Andrea Gilio nei suoi Dialoghi stampati a Camerino nel 1564, in piena Controriforma, definisce il decorum semplicemente identificandolo con ciò che la Chiesa impone dottrinalmente sulla produzione delle immagini tratte dalla storia sacra. Lo stesso Aretino, come noto, biasimerà i nudi del Giudizio michelangiolesco partendo proprio dal punto di vista del decorum, nozione che per la prima volta fu riportata alle fonti antiche di Cicerone e Quintiliano dall’Alberti nel De Pictura. Così che, scrive Schlosser, «il decor del maestro e modello Vitruvio già nel Palladio è, molto più scolasticamente, trasformato nella convenienza del tempio alla sua destinazione», La letteratura artistica, cit., p. 448. Nella decorazione come intervento estetico, “calliforo”, apportatore di bellezza che plasma i valori spaziali dell’ambiente che l’accoglie, risuona quindi originariamente quanto potentemente la dimensione etica del Luogo. Per la centralità della nozione di decorum e i suoi slittamenti semantici nella retorica antica, focalizzati attorno alla effettualità del Bello, cfr. M. Perniola, Dal prepon al decorum. Note sulla bellezza effettiva, «Rivista di Estetica», cit.

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necessità soltanto all’interno di un giudizio meramente empirico dei sensi. Ma è ormai altrettanto evidente che l’interrogativo centrale si focalizza sul rapporto tra panneggio-veste-ornamento e corpo nudo-fondamento. Come individuare i tratti e soprattutto i limiti, i confini dei parerga? Quale ne sarebbe l’inizio, quale la fine? Dove fermarsi? Perché non considerare ornamento la pelle stessa che fascia il corpo, così che l’essenza rappresentativa della pura bellezza non sarebbero altro che le viscere rovesciate ed esposte all’esterno in piena quanto oscena visibilità? Se il Bello deve o dovrebbe prescindere da ogni parergon ornamentale, non ne sarebbe forse perfetta realizzazione lo squartamento del corpo? E anche arrivati −seguendo, si badi bene, la logica che lo stesso Kant ha inaugurato− a questo punto estremo, non saremmo affatto ancora sicuri che la progressione (auto)distruttiva innescata dalla (impossibile) delimitazione reciproca tra Ornamento e Opera, tra parergon ed ergon, (tra decorazione e arte?) possa aver fine. Sotto questo aspetto, l’economia di una parte della trattazione kantiana del Bello si rivela inaspettatamente quanto profondamente nihilista. Nel Bello, con il Bello, Kant vuole il nulla. In termini meno enfatici ma che non stemperano la centralità della questione: Kant si confronta qui con una certa impossibilità a finire, a porre termine e a porre limiti. Tanto vero che il Bello, allora, sarà definito da Kant, sotto il profilo teleologico, come totalità interrotta, inconclusa, sospesa. Non è dunque un caso se i due motivi −quello dello statuto da assegnare ai parerga e quello della definizione dei giudizi di gusto secondo la relazione con lo scopo, terzo momento dell’Analitica del bello −sono intimamente intrecciati e l’un l’altro conseguenti. Avremo modo di tornare su questo punto, dal quale muoveremo per proporre alcune ipotesi conclusive. Proseguendo nella lettura del paragrafo 14 (Illustrazione con esempi) dell’Analitica del bello, ci accorgiamo che in realtà non è vero che ogni parergon viene escluso dalla genesi del Bello, che ogni tipo di ornamentazione nuoce senz’altro alla pura bellezza. Vi 196

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è una condizione da soddisfare. O meglio un filtro, un operatore, un dispositivo che permette all’elemento parergonale (ornamentale) di poter contribuire e anzi accrescere l’intensità del piacere connesso al gusto estetico puro. Questa condizione, questo operatore è la formalità, la Forma. Gli «accessori esteriori» possono aumentare il piacere del gusto, tuttavia «non compiono tale ufficio se non per via della loro forma: così le cornici dei quadri, i panneggiamenti delle statue, i peristili degli edifici. Ma, se il fregio non consiste esso stesso nella bella forma, ed è adoperato, come le cornici dorate, soltanto per raccomandare il quadro all’ammirazione mediante l’attrattiva, allora esso si chiama ornamento, e nuoce alla pura bellezza» (p. 70). I parerga “retrocedono” a mero «ornamento» (il termine usato da Kant è Schmuck) se non passano attraverso il selettore della formalizzazione e rimangono sul piano (che però è nello stesso tempo loro “naturale”) della semplice attrattiva sensibile, empirica. Su questo piano «il gusto resta sempre barbarico, quando abbia bisogno di unire al piacere le attrattive e le emozioni, o di queste faccia anche il criterio del suo consenso» (p. 67). Un «semplice colore», un «semplice suono», e cioè «la semplice materia della rappresentazione» (pp. 67-68) sono le “esche” dell’attrattiva (ad esempio la cornice dorata) che possono dar luogo solamente a sensazioni, emozioni, ma non possono considerarsi oggetto di giudizi puri. O meglio: anche il colore, anche il suono possono venire ammessi, ma soltanto dopo che si sono mostrati disponibili a un’operazione formalizzante, a un passaggio, per così dire, dal continuo al discreto. Ciò che più importa, infatti, è che si possano percepire colori e suoni non solo mediante i sensi, bensì con il contributo determinante della riflessione che li pensa come «giuoco regolare delle impressioni» (p. 68). È notevole, ci sembra, riscontrare come qui Kant −onde mantenere il “punto” della forma− si senta obbligato a letteralizzare, a riconvertire al suo senso proprio-originario la metafora (ma è poi una metafora?) del linguaggio teoretico anche a costo di un’evidente banalizzazione dell’assunto: il «colore puro» è proprio quello che 197

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non è «misto» (ibid.), cioè non mescolato ad altre tinte in senso materiale, fisico, tecnico, percettivo. La condizione essenziale, quella davvero pregiudiziale, è di astrarre dalla qualità delle sensazioni, e dunque poter ipotizzare un oggetto semplice in grado di produrre una sensazione semplice, cioè non «turbata e interrotta da alcuna sensazione estranea», dunque appartenente o risalente «soltanto alla forma» (ibid.). Unicamente i colori (e i suoni) puri, semplici, soddisfano questa condizione; quelli «misti» non hanno tale proprietà. È evidente che Kant si sta muovendo all’interno di una tradizione classica e classicista ben consolidata. Più che eloquente in questo senso è l’uso del termine «barbarico», che sopra abbiamo citato, per definire un gusto che abbia bisogno delle attrattive e delle emozioni, chiaramente connesse al dato cromatico bruto (cioè, nello stesso tempo, puro). Nel vocabolario e nel lessico di quei saperi che istituzionalmente sono poi confluiti a regime nella storiografia, nella critica e nella teoria dell’arte, “barbarico” è il colore, “classico” il disegno. E infatti soltanto disegno e composizione «costituiscono l’oggetto proprio del puro giudizio di gusto» (p. 69). Suoni e colori dunque (Kant riporta l’ipotesi di Eulero) sono ammissibili nell’ambito della bellezza soltanto se vengono sottoposti a un processo di matematizzazione che li privi delle qualità sensibili, misurandoli e riducendoli a quantità discrete, padroneggiabili intellettualmente: essi allora «anziché semplici sensazioni, sarebbero già una determinazione formale dell’unità di un molteplice, e perciò potrebbero essere considerati per se stessi come bellezze» (p. 68). Sono, solo se non sono. Il contenuto materiale è, solo se si trasforma in determinazione formale. Quindi, soltanto le cornici dorate sono Schmuck. Ora è evidente che −all’interno di un’estensione della nozione di parergon a più ampio dispositivo concettuale che regola e governa il complessivo enunciato teoretico kantiano− l’«attrattiva sensibile» stessa è il supplemento necessario della (alla) bellezza. E come il panneggiamento della statua, come la cornice, come ogni parergon, si situa in una posizione illocalizzabile, dentro-fuori rispetto all’es198

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senza rappresentativa del Bello. Letteralmente non sappiamo dove finisca l’uno e dove cominci l’altro. Le ambiguità e le oscillazioni del testo kantiano si presentano a poche righe di distanza le une dalle altre, portatrici alternativamente di una connotazione “positiva” e di una “negativa” da assegnare alle capacità di attrazione sensibile-materiale. Analoga situazione l’avevamo già riscontrata in Husserl, e proprio allo stesso proposito. Continuiamo a riferirci al paragrafo 14. Kant ammette che sì, l’attrattiva esercitata dai colori e dai suoni «piacevoli» può «contribuire all’effetto», anche se essi non costituiscono in quanto tali oggetto del puro giudizio di gusto. Tuttavia la causa di questo positivo apporto nei confronti della bellezza non va ricercata nel fatto che «possano portare un contributo omogeneo alla forma, ma solo che la rendono più esattamente, determinatamente e perfettamente intuibile»: una funzione ottimizzatrice di non scarso rilievo, parrebbe, se per il suo tramite i colori «vivificano con la loro attrattiva la rappresentazione, risvegliando e conservando l’attenzione sull’oggetto» (pp. 69-70). (Ricordiamoci dell’importanza del nesso attenzione-intenzione in Husserl). Davvero pare non si tratti di un contributo da poco, anche perché rivolto alla determinatezza dell’intuibilità significativa della forma, architrave del Bello kantiano. Eppure, non più di trenta righe prima, Kant aveva affermato perentoriamente che le attrattive «turbano il giudizio di gusto, se attirano su di sé l’attenzione, come se fossero esse i motivi del giudizio sulla bellezza» (p. 69). E per rafforzare l’assunto, aggiunge che «esse sono tanto lungi dal contribuire alla bellezza che, piuttosto, possono essere tollerate come estranee solamente quando il gusto sia ancora debole e incolto in quanto non guastano la bella forma» (ibid.). Le attrattive sensibili, dunque, conservano l’attenzione sull’oggetto, ma non sono (non debbono o non dovrebbero essere) oggetto esse stesse di attenzione: devono attrarla come in una trappola ma, per così dire, non farsene nemmeno sfiorare per rinviarla immediatamente al suo vero destinatario, come se essa semplicemente vi rimbalzasse 199

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sopra. Forse troppo −anche per il genio analitico kantiano− per considerare questa progressione espositiva come una discordanza solo apparente perché calata all’interno di un quadro di distinzioni concettuali raffinatissime e capillari, e non invece un’oscillazione fortissima, un’effettiva ambiguità, insomma una contraddizione tra due assunti calati nel medesimo contesto argomentativo. L’unica via d’uscita, l’unica conclusione −sebbene parziale e poco soddisfacente− che si potrebbe trarre è che le attrattive sensibili servano in quanto puramente, nudamente funzionali, cioè operino soltanto nella misura in cui scompaiono nell’uso come lo strumento nel suo utilizzo. Impurità che però non sono più tali se collaborano all’economia della purezza. Ancora una volta: sono in quanto vengono abolite, annichilite. Al Bello è sempre connesso un nihil, una privazione, una recisione. Questo doppio ruolo del parergon di attrarre su di sé l’attenzione solo per un attimo e rilanciarla verso ciò che unicamente la merita, il contenuto rappresentativo vero-formale della bellezza, lo si ritrova in Gadamer. In Verità e metodo l’architettura, intesa quale semplice e nuda strutturazione, quasi automovimento dello spazio, «non abbraccia tutti i modi di organizzazione decorativa dello spazio, fino all’ornamentazione, ma è nella sua essenza stessa decorativa»6. Gadamer −riprendendo un tema centrale dell’estetica di Hamann su cui tra poco ci soffermeremo− colloca il decorativo a medio tra la costituzione estetica e l’inserimento in una situazione vitale, che rimanda simbolicamente oltre se stesso pur notificando la propria presenza. Attrae a sé e nello stesso tempo distrae da sé; ed è ancora il gioco indecidibile di una trazione (come in Husserl-Kant) a insinuarsi nello statuto dell’Ornamento. Questo carattere duplice del decorativo lo si ritrova, prosegue Gadamer, anche nell’ornamentazione vera e propria, stilisticamente individuata. Essa deve 6  H.G. Gadamer, Verità e metodo (Tübingen 1960); trad. it. Fabbri, Milano 1972; ed. cit. Bompiani, Milano 1983, p. 195.

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unicamente svolgere una funzione di «accompagnamento», ed è per questo che di solito non è portatrice di alcun contenuto oggettivo-figurativo; e ove questo sia presente, è talmente stilizzato nella ripetizione dei motivi da perdere ogni interesse per lo sguardo, che infatti semplicemente vi scivola sopra, intuendone e conservandone soltanto l’insieme. Tramite la serialità iterativa in cui viene immessa, la forma iconica eventualmente proposta nell’ornamentazione non viene riconosciuta in grado di attrarre, di focalizzare lo sguardo (come in Riegl-Wölfflin). Ed è proprio così che essa evita di produrre, dice Gadamer, una «penosa monotonia». Se tuttavia l’Ornamento fosse soltanto di-passaggio, puro tramite ad altro, diventerebbe una semplice assenza che a suo modo coopera al risultato estetico finale, e non costituirebbe un problema. Ecco la ragione per cui esso, conclude Gadamer, non deve apparire come «qualcosa di morto o di uniforme, perché come accompagnamento deve esercitare un’azione vivificante; sicché bisogna che, fino a un certo punto, attiri anche l’attenzione su di sé»7 (corsivi ns.). «Vivificante», letteralmente come in Kant, è la presenza del parergon solo se «fino a un certo punto» (impossibile ma al contempo necessario sarebbe qui specificare fino a quale punto) attira l’attenzione su di sé. Ed emerge di nuovo sia il tema, e anzi quasi una “sistematica”, dell’attrazione-attenzione, sia −soprattutto e ancora una volta esattamente come in Kant− il tema di un costitutivo, essenziale non saper dove fermarsi né a che punto stabilire un limite, tracciare una linea tra dentro e fuori nell’indecidibilità della connessione tra ergon e parergon, tra arte e decorazione, tra Opera e Ornamento. L’impossibilità di distinguere, di discriminare una volta per tutte, è la stessa impossibilità di discernere la forma pura (che origina il 7  H.G. Gadamer, Op. cit., p. 195. Tutto il substratum teorico del lavoro di Oleg Grabar (L’ornement, cit.), che poggia sulla caratterizzazione dell’ornamentale come daimon calliforo, apportatore, mediatore, trasmettitore della bellezza, è interamente inscritto (e confinato) nel tipo di logica supplementare di cui andiamo discutendo in queste pagine.

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Bello) dall’attrattiva sensibile (che gli nuoce ma vi coopera, parassita organico). Proprio perché debbono imperativamente (sistematicamente) essere distinte, proprio perché bisogna che a priori sia così: precisamente per questo la distinzione non può essere percorsa, consumata fino in fondo. Restano dei margini eccedenti, degli spazi inassegnabili. Una no man’s land spuria, illocalizzabile e inclassificabile. Ed è proprio ai bordi di questa terra di nessuno che lo statuto parergonale della cornice si saprebbe fermare e sostare solo se essa non fosse «dorata», se non si appellasse alle qualità sensibili e «barbare» dell’attrattiva che attrae a sé distraendo dalla vera rappresentazione. Se la cornice cioè accettasse fino in fondo quel destino di tipizzazione-standardizzazione moderna che vedremo in Simmel ma che già è all’opera in Kant, adeguandosi alla sua pura ortogonalità, misurandosi sulla sua semplice struttura assiale, soltanto disposizione di linee, composizione di angoli (ma proprio trasformandosi in questo senso nell’astrazione novecentesca, in Mondrian ad esempio, l’ornato non è più tale: diventa opera). Solo così essa potrebbe funzionare da mero empirizzatore dell’immagine che incornicia e che media al contesto generale dell’ambiente. Solo così potrebbe forse non attrarre su di sé quell’attenzione di cui deve limitarsi a essere il veicolo, il tramite. Eppure, proprio perciò, tacitamente, silenziosamente funzionare. Ma in questo passaggio sta tutta un’estetica, sta tutta una filosofia. Matematizzato, formalizzato, il parergon diventerebbe talmente se stesso da rovesciarsi (finalmente) nel suo contrario. Ma come l’interesse può volgersi alla pura forma immediatamente, senza passare per l’attrattiva sensibile? Questo interrogativo in Kant rimane aperto. La ragione è che non deve chiudersi, non deve finire. Riemerge qui la questione della definizione “sospesa” del Bello, recisa, mancante a se stessa. Alla fine del Terzo momento dell’Analitica del bello, quello che pone il giudizio di gusto secondo la relazione con lo scopo, la bellezza viene definita come «la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita 202

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senza la rappresentazione d’uno scopo» (p. 81). Del Bello, manca l’estremità: il fine, la fine. Per questo, appare legittimo interrogarsi, come abbiamo fatto, se la pelle non sia Ornamento alle viscere. Il sentimento del Bello come piacere disinteressato si fonda su questa impossibilità a finire. «Il sentimento della bellezza, l’attrazione senza attrattiva, il fascino senza desiderio», scrive Derrida, «tenderebbero a questa “esperienza”: con un movimento orientato, finalizzato, armoniosamente organizzato in vista di un fine che, malgrado tutto, non è mai visto [...]. Occorre la finalità, il movimento orientato, senza il quale non vi sarebbe bellezza, ma occorre che l’oriente (la fine che dà origine) manchi. Senza finalità non c’è bellezza. Ma non c’è neppure se una tale bellezza fosse determinata da un fine»8. Nel senza di questa «cesura pura», improvvisa ma essenziale, una totalità organizzata teleologicamente diventa bella nell’istante in cui il fine che la governa, la indirizza, la totalizza, manca a se stesso, rimane sospeso. Questa interruzione, questo senza (che resta una delle più ricche e affascinanti intuizioni estetiche di Kant) si mostra, si esibisce, appare. Non è bella né la finalità né la semplice assenza di qualsiasi scopo: Kant considera bello il teleologico senza telos. Un utensile di pietra ritrovato in un’antica tomba (è l’esempio addotto in una nota relativa alla definizione di bellezza come finalità senza scopo) può anch’esso presentare nella sua forma una finalità di cui non si comprende (ancora) lo scopo. Tuttavia, questo utensile può essere oggetto di un procedimento scientifico induttivo che ricostruisce il contesto storico-tecnologico e che quindi può portare a identificare in maniera plausibile l’intenzionalità soggiacente alla sua fabbricazione, il suo scopo determinato. Il non-finito, qui, è un non-finito che significa, è una negatività “hegeliana” che lavora al servizio del senso, del sapere, della scienza. L’ascia è semplicemente, contingentemente incompleta; proprio per questo la si può completare e de-finire in un contesto cui aderisce (fosse bella, lo sarebbe 8

J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 84.

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in virtù di una bellezza aderente, che presuppone, al contrario di quella libera, il concetto di ciò che l’oggetto deve essere). L’ascia può essere “prolungata” dal sapere: è ortopedizzabile. Del Bello non si dà scienza (soltanto critica, come dell’economia politica in Marx). Non ammette ortopedìa. La bellezza aderente reclama che il concetto cui aderisce condizioni e determini un fine ed è perciò attribuita a quegli oggetti «i quali stanno sotto il concetto di uno scopo particolare» (p. 74); la bellezza libera si riferisce e rimanda soltanto a se stessa, è imparagonabile9. Solo la bellezza libera è davvero pura. Perché non significa alcunché. Paradossalmente puro, allora, non è forse proprio l’Ornamento? Puro è proprio il supplemento, il parergon, precisamente ciò che non poteva essere oggetto di un giudizio estetico puro10. Esempi di bellezze libere

9 Analoga imparagonabilità si ritrova nella sezione dedicata all’Analitica del sublime, dove il sublime matematico è caratterizzato appunto da ciò che è «al di là di ogni comparazione» (Critica del giudizio, cit., p. 96). Sulle connessioni tra questo motivo kantiano e alcuni tra gli esiti più significativi delle arti moderne e contemporanee cfr. il ns. Il Sublime è Ora, cit., pp. 21-25, 55, 103 dell’ed. 1998. 10 In Verità e metodo, cit., Gadamer giudica un’«antica consapevolezza che va recuperata» il fatto che «l’ornamento, la decorazione, coincide, nel suo senso originario, con il bello, puramente e semplicemente» (p. 196). Nella sua Storia di sei Idee (trad. it. Aesthetica Preprint, Palermo 1993) Tatarkiewicz rende conto di questa «antica consapevolezza» esaminando sinteticamente la tradizione interpretativa e classificatoria dell’ornamentale rubricato sotto l’idea del Bello inteso categorialmente. Costituendo «l’antidoto più potente e salutare» al modo convenzionale e teoreticista di fare storia dell’estetica –come afferma Luigi Russo nella Postfazione– l’impostazione di Tatarkiewicz prospetta i nuclei tematici esemplari dell’estetica, le sue “Idee” appunto, non come «modelli a priori, pure entità noetiche di cui giudicare “dall’alto” con metro veritativo, bensì entità storiche, quindi intrinsecamente metaboliche, qualificate “dal basso”, all’interno delle congerie formative delle singole epoche» (p. 436). Ciò si conferma nella breve disamina storico-terminologica delle concezioni dell’Ornamento dalla Scolastica (bello strutturale è formositas e compositio; bello decorativo è ornamentum ma anche venustas) fino a Loos, passando attraverso l’Alberti, per il quale l’Ornamento è complementum del Bello. Disamina giustamente innestata dall’Autore sull’articolazione concettuale e gli slittamenti semantici tra il Bello e la sua “varietà” dell’adeguatezza (prepòn-aptum-decorum). Se è vero che «le eterne fluttuazioni nel rapporto tra arte e ornamento» –quelle stesse di cui qui, secondo la nostra prospettiva, richiamiamo la centralità– sembrano volgersi a svantaggio del se-

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sono infatti, come già sappiamo, «i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie», che per se stessi «non significano nulla, non rappresentano nulla», così come le «fantasie (senza tema), e anche tutta la musica senza testo» (ibid.; corsivi ns.). Vertiginosa ma logica deduzione: tutta la musica esclusivamente strumentale, senza lettera, senza struttura verbale-significativa che la “sostenga”, sarebbe parergon, sarebbe Ornamento? Eppure proprio così sembra di poter concludere. Fatto sta che il senza della «cesura pura», della totalità organizzata teleologicamente ma essenzialmente interrotta e che non ammette alcuna ortopedìa, è la forma di finalità inconclusa che manca a se stessa e che proprio perciò origina il Bello. Questa interruzione si mostra esemplarmente appunto nell’Ornamento (che altro sarebbero «i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie?»), e solo nell’Ornamento, dunque, può collocarsi il giudizio puro di gusto. Fosse presupposto un concetto di scopo, a essere limitata sarebbe la libertà dell’immaginazione11. Se Bello è l’Ornamento, il fondamento è il supplemento. E se, ancor più profondamente, ancor più paradossalmente, il Bello fosse Ornamento a se stesso? Perché se non c’è ortopedìa del senza che fonda il Bello, se l’interruzione che origina la bellezza non si può sostituire-supplire dato che è la sua ultima, definitiva eppur “mancante” essenzialità, sarà quindi il Bello stesso che, non soltanto “coincide” con l’Ornamento, ma è l’Ornamento: elettivamente, essenzialmente. Perché se un senza è costitutivo, se è proprio una condo termine, «la sua negazione», conclude Tatarkiewicz, «ha segnato un periodo, ma non il termine, dell’evoluzione» (p. 199). 11  Nella prima parte del presente lavoro avevamo sviluppato, partendo dalla medesima citazione kantiana, una lettura diversa e per certi aspetti opposta. Ci sarà facilmente accordato, tuttavia, che lì, dato il differente contesto interpretativo, ciò che interessava sottolineare, in ordine alla definizione dell’ornamento come bellezza libera, era il fatto che ciò avvenisse in conseguenza della mancata costituzione di rappresentatività oggettuale nel pattern decorativo. Qui invece, mutato il vettore che guida l’analisi, proprio l’assenza di una costituzione d’oggetto conduce la supplementarietà dell’Ornamento a una sorta di purezza “fondamentale” in cui l’attrattiva sensibile si rovescia, dovremmo concludere, nel suo perfetto contrario.

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mancanza a fondare e a rendere ragione del Bello, allora ciò significa che quel che comunque c’è (non che “resta”, giacché l’interruzione non si presenta “dopo” ma nel Bello) è in qualche modo di più a se stesso, “sopravvive” ornamentalmente a se stesso, è Ornamento di e in se stesso. Perché trovi bella questa totalità organizzata bisogna che già il suo esser-così sia un di-più che sia una totalità in eccesso a se stessa. Appunto: un Ornamento.

Cornici: Malraux, Simmel, Hamann Risultandone gli esempi perfetti, oggetti-simbolo come il quadro e la cornice sembrano incarnare elettivamente il ruolo di protagonisti nell’opposizione tra ergon e parergon. Ma quanto “tiene” questa opposizione? Cerchiamo di verificarlo attraverso tre autori così distanti tra loro quali André Malraux, Georg Simmel e Richard Hamann. La tesi di Malraux nel Musée Imaginaire si basa su una sorta di progressiva fantasmizzazione concettuale dell’arte. Dal xvii al xix secolo, il diffondersi della tecnica dell’incisione quale strumento di traduzione-riproduzione del dipinto annulla dell’opera sia la qualità cromatica sia le dimensioni: la prima sarà prosciugata al bianco-nero che mantiene soltanto l’impianto strutturale del disegno; le seconde saranno sostituite-abolite dai margini “artificiali” e comunque ridotti dell’incisione. La riproducibilità fotografica perfeziona e conclude il processo di formalizzazione e “purificazione” dell’arte inteso anche −ma non solo− come dissecazione della sua aura. Le opere perdono definitivamente il loro carattere di oggetti fisici inseriti in un ambiente; smarriscono per strada la loro qualità materica, la loro effettiva sostanzialità, ed entrano a far parte di una galleria esemplificativa di stili che, disincarnati e decontestualizzati, si susseguono gli uni agli altri sulle pagine che ne ospitano la riproduzione. Il tempo stesso, in tal modo, viene 206

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abolito e contratto in un’immediata compresenza sincronica: nella serie tendenzialmente infinita di riproduzioni fotografiche del libro d’arte, il misterioso feticcio apotropaico e l’infuocato paesaggio di van Gogh, la pala d’altare e il readymade alienano la loro specifica temporalità-individualità in favore dell’immediata, comune partecipazione allo stesso Museo ideale. E l’universo del Libro non tollera alcun tipo di cornice se non quella, totalmente trasformata, del margine bianco della pagina12. Ma nel luogo e nel tempo in cui l’arte appartiene a se stessa, quale ruolo gioca la cornice? «Du plus transfiguré des portraits de Titien ou de Rembrandt au plus médiocre portrait de Nattier, nous ne regardons pas sans surprise les figures désencadrées: elles nous semble amputées ou transformées»13. Se i quadri senza cornice ci sembrano amputati, non finiti, bisognosi di un “supplemento necessario”, significa che questa amputazione, questa sospensione è essenziale all’opera. Nei due sensi: serve all’opera per definirsi tale; ma è anche un’essenza (un’assenza) che opera, che lavora, che produce effetti. La mancanza che il parergon-cornice colma e sostituisce è interna all’opera, fa parte della sua costituzione, parte di-da essa. Vi è sì un luogo in cui la cornice semplicemente “non esiste”, non fa problema: l’atelier dell’artista al lavoro. Eppure, contrariamente a ogni apparenza, «le peintre lui-même tenait pour inachevé le tableau sans cadre»14. Qui entra in gioco lo statuto stesso dell’arte occidentale, che è quello della mimesis, del carattere allusivo-illusivo dell’immagine, in virtù del quale, proprio per rivaleggiare con la natura, la pittura non deve confondersi con essa ma autolimitarsi in un luogo-proprio, in un perimetro convenzionale. Precisamente allo scopo di mantenersi inalterato ed effettualmente potente, il principio mimetico, pur nella sua fondamentale ambiguità o allusività, non può arrivare ad 12

Cfr. A. Malraux, Le Musée imaginaire, Gallimard, Paris 1965, p. 19. Op. cit., p. 213. Non per nulla Semper afferma che «la cornice è una delle forme fondamentali dell’arte» (Lo stile, cit. p. 24). 14  Op. cit., p. 218. 13

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abolire ogni distinzione tra il dominio dell’apparenza e il dominio del reale. La cornice fa da cerniera, da elemento mediatore; permette che l’opera, non minacciata nella propria identità sostanziale, al contempo soggiorni nell’alterità da se stessa. Malraux inserisce esplicitamente questo passaggio dell’opera nel contesto sotto il segno “economico-funzionale” della decorazione: la cornice «accorde le tableau, toujours confusement tenu pour un décor, à la décoration du palais, puis de l’appartement; il fait de l’oeuvre d’art un objet d’art»15. Mediante la cornice, l’opera non soltanto si inserisce in un tessuto continuo del quale vocativamente non farebbe parte, ma in certo modo cambia perfino il proprio statuto perfezionandosi e diventando oggetto compiuto come raggiungesse finalmente il suo telos. La cornice agisce quindi da “empirizzatore” dell’opera: ne legittima l’inserzione nel reale, perimetrando l’irreale, l’immaginario che in essa è contenuto o che da essa è evocato. Trasponendo e inclinando di poco il senso dei termini in questione, ciò significa che la cornice (limite, soglia, bordo, margine) è uno degli oggetti-simbolo della dialettica critica tra Forma e Vita. Nel 1908, Georg Simmel dedicò all’argomento un breve saggio. Elemento di giunzione e articolazione, essa stessa «ponte e porta» (gli a priori fenomenologici analizzati nell’altro omonimo saggio simmeliano), alla cornice viene affidato il compito “nietzscheano” di cogliere nuances, di sostare in quella «delicatissima ponderazione di accenti e sfumature, di energie e di ostacoli» al fine di «svolgere nell’ambito del visibile la funzione di mediare l’opera d’arte e il milieu, separando e congiungendo − un compito che trova la propria analogia in campo storico quando si vuol evitare che l’individuo e la società si schiaccino reciprocamente»16. Delle due funzioni, 15

Op. cit., p. 214. G. Simmel, La cornice, in Il volto e il ritratto, trad. it. il Mulino, Bologna 1985, p. 108. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo. Di Simmel cfr. anche Excursus sull’ornamento, in Sociologia (Liepzig 1908); trad. it. Edizione di Comunità, Milano 1989, pp. 315-20. 16

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quella di connettere e quella di separare, Simmel enfatizza nella sua disamina la seconda. La cornice sottolinea, ripete e potenzia l’essere-per-sé dell’opera, ne difende la sintesi unificante nei confronti dell’osmosi con l’esterno. Il quadro (l’ergon) è una totalità organica avulsa dalla vita immediata. La cornice (il parergon) ne custodisce la distanza. Non è un caso che Simmel giudichi un’aberrazione −«rara, per fortuna» (p. 103)− il fatto che essa acquisti una significatività autonoma che distrae dall’opera, dall’isola che essa rinserra, come nel caso in cui le forme e i colori della tela, dell’opera-ergon tracimano e si espandono sulla cornice-parergon. Il motivo del “limite svelato”, della cornice e della sua logica vertiginosa, attraversa tutta l’arte occidentale, dai giochi illusionistici tra pittura e architettura dell’affresco antico (si pensi solo alla pittura romana del periodo imperiale: Boscoreale, Ercolano, Pompei, Stabia) e dell’affresco rinascimentale alle agudezas del manierismo più intellettualmente sofisticato, dalla profusione decorativa della cornice rococò alle esperienze surrealiste e concettuali. Qui Simmel adotta una visione essenzialmente storicista. La cornice dorata cinque-secentesca, scolpita, riccamente sagomata, si giustifica fintanto che l’autonomia, la separatezza dell’opera rispetto alle sue connessioni con il reale e con la socialità non è compiutamente percepita (nell’arte di ispirazione religiosa, ad esempio, in cui la verità dell’opera è ad essa esterna) e dunque si avverte il bisogno di potenziare la forza racchiudente-costrittiva della cornice (Tav. 39). Nel suo sviluppo storico, tuttavia, l’arte respinge progressivamente ogni influenza delle sfere extra-artistiche e diventa una totalità autosufficiente e chiusa su se stessa, tanto che le opere non mostrano più alcuna necessità di enfatizzare i propri margini fisici. Il lavorìo sulla cornice, che tende a renderla un elemento di linguaggio integrato nell’immagine, riemerge invece nel Moderno attraverso il Simbolismo, la Secessione, l’Art Nouveau (basti pensare solo a Gaguin, a Klinger, allo stesso Klimt) per poi proseguire nella sperimentazione delle avanguardie del Novecento, che mettono 209

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continuamente in questione la convenzionalità dei confini dell’opera17. Con ogni probabilità −e all’epoca in cui il saggio fu scritto poteva già farlo− Simmel si riferisce ad alcuni di questi esiti artistici collocati a cavallo del secolo, quando giudica ormai storicamente aberrante il fatto che, attraverso la sagomatura o comunque la riconquistata “organicità” della cornice, «il mondo possa, per così dire, penetrare nel quadro, o il quadro possa uscire nel mondo» (ibid.) (Tavv. 40 e 41). Dato che proprio questa è la direzione che successivamente e fino a oggi le arti hanno intrapreso, tale posizione potrebbe apparire conservatrice. Ma solo se si legge “avanguardisticamente” l’avanguardia come progressiva abolizione di ogni limite, come affrancamento semplice e immediato dalla Tradizione, come “liberazione” lineare e continua da ogni luogo proprio18. Torniamo alle raffinate nuances simmeliane. Ci troviamo nuovamente di fronte a un caso tipico di funzionalizzazione dell’elemento ornamentale, dunque di gioco tra supplemento e fondamento. Quando il lato della cornice è incastonato tra due liste, dice Sim17  Tra Otto e Novecento, e poi con le avanguardie, la cornice è il luogo in cui forse più chiaramente emerge la volontà di affermare il continuum tra arte e vita, rappresentazione e realtà, testo e contesto. La sagomatura e l’enfatizzazione scultuale della cornice simbolista e jugend, la prosecuzione sul bordo di forme e colori appartenenti all’immagine, all’“interno” del quadro; l’incessante lavorìo sulla letteralità e convenzionalità dell’opera come manufatto nel minimalismo statunitense (shaped canvases, hard edge), fino agli sviluppi dell’arte concettuale e della land art: tutto ciò testimonia ad abundantiam della continua attenzione verso gli orli, i bordi, i margini del linguaggio artistico, sia nella loro accezione fisico-concreta che in quella mentale-ideale. Un buon repertorio iconografico che segue questo tragitto lo si può trovare in Il limite svelato. Artista Cornice Pubblico, a cura di G. Celant, Electa, Milano 1981. Sia la logica di per sé labirintica o comunque en abîme della questione-cornice, sia le sue evidenti ramificazioni di ordine socio-istituzionale e latamente politico indicherebbero l’esigenza di un approfondimento della ricerca in tal senso, sviluppando spunti e ipotesi di lavoro già presenti ad esempio nel già citato testo di Derrida sul parergon. In realtà, insomma, l’economia di qualcosa come la cornice sottintende e rivela un’economia di ben più vasta portata. 18  Sul tema dei limiti dell’opera d’arte moderno-contemporanea e sull’abbandono progressivo del suo “luogo proprio”, cfr. i ns. Non vedi niente lì?, cit., in part. pp. 3743, 169, e La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, Jaca Book, Milano 2007.

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mel, allora l’eventuale ornamentazione «scorre come una corrente tra due rive» (p. 102). Ciò non può che rafforzare positivamente la sua funzione racchiudente-separante. Lo sguardo scorre sul perimetro del quadro e torna su se stesso, sottolineando l’insularità dell’opera, il suo essere-per-sé. Ma la particolare, acutissima attitudine micrologica tipica delle esegesi simmeliane va oltre questa prima osservazione. Proprio perché lo sguardo deve fluire sulla cornice, deve o dovrebbe essere ostacolato da elementi che ne rilancino la forza intensificandone il senso perimetrale. Ecco perché l’ornamentazione non deve necessariamente disporsi in modo parallelo al bordo, bensì i suoi motivi «debbono divergere fortemente, fino alla verticale, dalle parallele» (p. 103), così che le linee oblique possano rappresentare empaticamente continui arresti e rilanci, ostacoli e superamenti “regolati”. Proprio per questo, l’elemento ornamentale deve intervenire sotto forma di astratta matematizzazione del segno, impedendo in tal modo alla cornice di assumere un improprio, «aberrante» valore autonomo. Qui Simmel è in perfetta sintonia con Kant. Si ingenera equivoco e cattiva confusione nei ranghi e nelle funzioni gerarchiche quando si usano per la cornice gli «ornamenti figurati» e il «fascino del colore» (p. 105), che inevitabilmente quanto impropriamente promuovono con la loro attrattiva quella funzione del parergon che invece deve rimanere subordinata, portatrice di una generalità indeterminata e non di una singolarità autocentrata. Qui Simmel mostra significativi accenti “loosiani”. Come il mobile −che è per-noi− non deve essere considerato un’opera d’arte −che è per-sé−, così la cornice «non deve avere un’individualità, ma uno stile» (p. 105): «Come manifestazione sensibile di un’unità spirituale, l’opera d’arte pittorica può avere anche un grado di individualità così alta: appesa nella nostra stanza, non si intromette nelle nostre cerchie di attività, perché ha una cornice, ossia perché è nel mondo come un’isola, che attende il nostro arrivo, ma davanti alla quale si può anche passare oltre. Invece, il mobile lo tocchiamo continuamente, si mescola 211

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alla nostra vita e non ha quindi alcun diritto ad un essere-per-sé» (ibid.). Ora, la cornice simbolista e jugend smentisce e si oppone vanamente a quel «principio dell’evoluzione culturale di più ampia portata» (p. 107) in cui dovrebbe trovarsi inclusa anche la cornice veramente «moderna», cioè caratterizzata dalla semplicità meccanica e geometrica dei quattro lati uguali perpendicolari gli uni agli altri. Essa insomma deve piegarsi a quel processo di Tipisierung, di tipizzazione-standardizzazione che per Simmel (e per larga parte della sociologia tedesca tra Otto e Novecento) contraddistingue lo spirito e la logica stessa della produzione industriale moderna, che di necessità sospinge ogni formazione singola, ogni unità («il cavaliere medievale», «l’artigiano indipendente»), originariamente autosufficiente e chiusa su se stessa, a cedere il proprio essere-per-sé a una totalità meccanico-relazionale di cui si riconosce essere parte («il soldato dell’armata moderna», «l’operaio di fabbrica»). Emergono qui, in tutta evidenza, i motivi simmeliani più consueti. Solo apparentemente, dunque, la cornice “architettonico-organica” o comunque portatrice di un proprio autonomo significato denota una più elevata spiritualità. Questa, in realtà, si incarna proprio nel disincanto della «forma meccanicamente uniforme e priva di significato» (ibid.) della cornice moderna, che comprende l’intero in cui viene trascinata ineluttabilmente e a cui in verità ormai appartiene: la metropoli, l’organizzazione mercantile dell’economia monetaria mondiale. Tanto che «il rapporto tra il quadro e l’ambiente solo ora è stato integralmente compreso e adeguatamente espresso» (ibid.). È comunque importante sottolineare il fatto che questa formalizzazione-tipizzazione del “principio cornice” è in Simmel sempre strettamente connessa al processo di secolarizzazione da cui è investita l’arte moderna. È il suo progressivo rendersi autonoma da ogni sfera con finalità extra-artistiche che mette in grado l’opera di fare sempre più a meno della forza tutto-limitante della cornice. L’opera d’arte moderna esige un confine, un margine, un bordo meccanicamente uniforme e del tutto privo di ogni significato 212

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empatico od organico-“ricompositivo”, proprio nella misura in cui essa respinge ogni relazione extra-contestuale. Ed è precisamente all’interno di una dinamica di questo tipo che la cornice può rivelare interamente la sua funzione gregaria e subordinata. Anche per Simmel, dunque, come già per Kant, la verità del parergon sta nel suo omologante, geometrico, “spirituale” annullamento. Nella potenza del suo scomparire. Appare evidente che il problema della cornice è in stretta correlazione −proprio perché complementare− con quello dell’ambiente, dell’apertura dello spazio, del contesto dei nessi vitali che circondano l’opera. Non può sussistere ambiente se non in rapporto a una cornice, a un limite, a un qualsivoglia confine. È da questo rapporto dialettico che lo storico dell’arte Richard Hamann muove, nella sua Aesthetik del 1911, per operare la distinzione tra Erlebniskunst e dekorative Kunst19. La prima è caratterizzata da quella somma di definizioni che abbiamo già visto Simmel estendere a tutta la produzione artistica vera e propria: denuncia la struttura del per-sé; si autoesclude dal contesto vitale; è una totalità di relazioni interne e conchiuse ma solidali nel loro concentrarsi e intensificarsi su se stesse, sul proprio autonomo significare. La fascinazione esercitata dall’Erlebniskunst esige la sospensione se non l’abolizione di ogni legame contestuale ed extra-artistico. La sua messsa in cornice, potremmo forse dire la sua epoché, attualizza, manifesta questa separazione istituente. Ciò che al contrario riannoda e rafforza i nessi con l’esperienza vitale corrente è la dekorative Kunst, in cui i valori dell’Umwelt, del ‘mondo circostante’, del mondo-ambiente, diventano struttura portante, tessuto continuo, fluido e plasmabile, proprio perché relativamente libero da ogni limitazione che qualcosa come la cornice porta inevitabilmente con sé. Il regno dei fini e la dimensione empirico-utilitaria dell’esistenza riaffluiscono 19  Cfr. L. Bottani, Erlebnis e decorativo. Studio sull’estetica di Richard Hamann, in «Rivista di estetica», cit.

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nell’esperienza estetica (non più, appunto, “artistica” in senso stretto) proprio perché questa, nella decorazione, non rapisce più il soggetto con l’imperiosa interruzione dei nessi mondani, ma al contrario lo accorda al suo ambiente vitale, coordinandone e omologandone le aspettative psicologiche. L’Ornamento richiede così soltanto quel minimo indispensabile di concentrazione e focalizzazione sulla propria presenza (abbiamo già incontrato tra Kant e Gadamer questa argomentazione) che gli impedirebbe di scorrere via totalmente inosservato e neutralizzato nel fluire continuo della scena del mondo della quale pur fa parte integrante. Se dunque l’Erlebniskunst è arte enfatica, addensata, psicologicamente impegnativa, la dekorative Kunst è arte vicina alla prassi, non auratica: è una forma debole, leggera e onnipervadente dell’Estetico (Tavv. 42, 43, 44a, 44b). Questa opposizione, però, non è categorica. Anzi, proprio la tensione dialettica che vige tra i due poli fa sì che essi non ricadano in una semplice, reciproca indifferenza. È ovvio che il decorativo non può limitarsi a tradurre e riproporre su un diverso piano l’adeguazione dei mezzi agli scopi che domina e definisce la sfera razionale e la dimensione “economico”-teleologica della vita. Queste connessioni rimangono certo necessarie. Ma sullo sfondo (quello sfondo che la decorazione riassume e rappresenta) non possono del tutto scomparire quelle determinazioni fondamentali che attengono alla libertà estetica: anche l’Ornamento, quindi, nella sua interna formatività, nel suo status simbolico, eccede gli scopi strettamente funzionali-razionali, mostrando una ridondanza immaginativa che lo collega all’Erlebniskunst. Il decorativo, così, è il termine medio tra il prezzo pagato alla necessaria razionalità economica e l’altrettanto necessaria ridondanza estetica, l’“indispensabile inutilità” del Gioco: è l’accordo armonico cercato e raggiunto tra la separatezza dell’arte e la subordinazione agli scopi della vita sociale. In questi termini, Hamann trasforma e ridefinisce il problema dello statuto della cornice e del parergon. Statuto “debole” ma indispensabile proprio in virtù della sua necessaria, funzionale debolezza. 214

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Statuto essenzialmente legato all’elemento della ripetibilità. Infatti, se l’Erlebniskunst si fonda sulla Gestaltung, sull’articolazione-edificazione di Gestalten, di forme concentrate su se stesse, individue, irripetibili nella loro espressività, per definizione uniche e originali, alla base della dekorative Kunst sta invece la Form mediata al­l’Umwelt, all’ambiente quotidiano e prosaico che non attrae a sé con la forza della propria unicità espressiva, bensì tende ad accordarsi al libero spazio circostante e alle sue intrinseche caratteristiche. La bellezza (non la sublimità) che le Formen decorative producono, accetta e fa propria la dimensione del ritmico, del ripetitivo, del tipico, che è indispensabile e conforme alla vita comunitaria, allo scambio sociale, alla tecnologia e allo spirito stesso del lavoro sociale. Per questa ragione, la dekorative Kunst è arte metropolitana per eccellenza, dal momento che si adegua a quegli standard, a quelle tipizzazioni (vedi Simmel), a quelle convenzioni che rendono scorrevole, funzionale, supremamente indifferente la vita blasé delle grandi città20 (Tav. 45). L’arte decorativa si connette in tal modo a considerazioni di natura economica, di risparmio di energia e di tempo, tese a facilitare il movimento e lo scambio comunicativo che ha luogo nell’ambiente inteso come continuum relazionale dei nessi vitali quotidiani. Il decorativo non è separato-alienato e incorniciato nell’istituzione museale come l’Erlebniskunst; lo si vive, lo si “consuma”, ma non fa parte di un rito individuale, personale, bensì collettivo. L’iterazione su cui si basa la sua struttura formale ben si adegua e si accorda alla ripetibilità necessaria ai meccanismi sociali. La transitorietà “impressionistica” e la caducità dei contenuti e delle esperienze della vita metropolitana trovano adeguata rappresentazione nell’Ornamento moderno, nella scomparsa, in esso, di ogni presunta profondità “naturale” intesa come immediata espressione del Vero.

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Su questi temi della sociologia tedesca dei primi due decenni del Novecento, perfettamente presenti a un autore come Hamann, cfr. M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Officina, Roma 1973.

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La questione della cornice si è così sviluppata e ridistribuita, con Hamann, nei termini più vasti e generalizzanti di quello che potremmo chiamare un “ambiente parergonale” collegato all’adeguatezza degli scopi della vita sociale e quindi alla razionalità produttiva e comunicativa dello scambio simbolico. L’estensione della funzionalità economica propria dei ritmi lavorativi della fabbrica all’intera collettività deve venire mediata dalla gradevolezza, piacevolezza e accessibilità di quell’estetica diffusa necessaria a garantire che quei processi vengano accettati socialmente. Non è un caso, da questo punto di vista, se l’intento di Hamann appare costantemente rivolto alla valorizzazione del carattere armonico, “eufonico” dell’uguaglianza e della simmetria delle forme decorative. Da una parte, dunque, Hamann non è interessato a cogliere la dimensione critica dell’Ornamento. La discontinuità estetica di cui esso è portatore viene circoscritta, ricomposta e alfine omologata nel continuum di un tessuto vitale che ha relegato lo strappo, l’estraneazione, l’antinomia all’interno del momento privilegiato e apicale dell’Erlebniskunst. L’Ornamento, insomma, viene sì valutato nella sua importanza all’interno della vita sociale, ma è ancora pensato e analizzato in termini di aggiunta, complemento, surplus di natura estetica. Per altro verso, tuttavia, proprio questa posizione presenta un aspetto significativo, dal momento che manifestando la sua porosa e “ricompositiva” espansività, esplicando la sua significativa funzione sociosimbolica, in Hamann l’Ornamento non ha più necessità di conquistarsi una legittimazione mutuando le caratteristiche del proprio contrario. È positivamente inessenziale.

Per incerti confini 1 All’inizio del nostro itinerario attraverso le pagine della Critica del giudizio, avevamo parlato di un rovesciamento dei termini in 216

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gioco. Da entità facilmente integrabile nella sfera dell’accessorio, l’Ornamento si trova ad essere oggetto di un godimento estetico puro; da rappresentante del pratico-contingente (l’artigianato, le arti applicate), ad exemplum di bellezza libera. Un simile rovesciamento di valori e posizioni lo ritroviamo in Hartmann, allorché egli affronta la problematica dell’ornato all’interno della parte della sua Estetica −alla quale abbiamo già fatto riferimento− intitolata «Primo piano e sfondo nelle arti non rappresentative». La specificità del valore estetico di un’opera d’arte risiede per Hartmann, lo ricordiamo, nel ‘rapporto di apparizione’ (Erscheinungverhältnis) che collega lo strato presenziale, sensibile-materiale (Vordergrund) con lo strato di fondo, incosale e ineffettuale, indirizzato verso più vasti contenuti spirituali (Hintergrund). Questa interrelazione tra gli strati individua e definisce la determinatezza ontologica dell’opera d’arte, che si fonda sull’Erscheinung, sull’‘apparizione’ in senso fenomenologico. È a questo punto che Hartmann colloca la questione dell’Ornamento. Questo è kantianamente bello anche se in esso nulla appare. La domanda decisiva verte dunque sull’esistenza o meno di uno strato diverso da quello sensibile-di primo piano. Di più: ciò che la presenza dell’Ornamento mette in questione è il carattere di condizione necessaria, per il costituirsi dell’oggetto estetico, proprio del rapporto di apparizione, vale a dire proprio di quel concetto-chiave che forniva la specifica identità dell’opera d’arte. Può essere confinato l’Ornamento nella semplice eccezione che conferma la regola? Nient’affatto, tanto che lo stesso Hartmann riconosce di essere arrivato con l’analisi dell’Ornamentik a una soglia critica, a un punto-limite della sua concezione estetica, e cioè «alla fine del rapporto degli strati d’apparizione», al quale il bello dell’arte ornamentale appunto non può ridursi21. Nei tralci e negli arabeschi, nei motivi stilizzati 21  N. Hartmann, L’Estetica, cit., p. 175. Tutte le citazioni che seguono nel testo si trovano alle pp. 175-7.

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e nelle catene decorative tipiche dell’ornato, non si può in verità cogliere alcun contenuto, alcun oggetto che appaia in quanto tale; piuttosto ciò che s’impone alla percezione è la simmetria funzionale, l’ordine geometrico, le trasformazioni plastico-disegnative regolate matematicamente, cioè il kantiano libero gioco con la forma, che diventa totalmente autonomo rispetto a ogni (abolito) rapporto di apparizione. Ma allora donde proviene il piacere estetico attinente all’ornato? Invocare la dimensione ludica è insufficiente. Si tratta invece, secondo Hartmann, di «riprendere la questione sulla base di momenti fondamentali molto più primitivi, che appartengono alla forma visibile stessa: il contrasto, l’armonia, l’intreccio, la connessione, la sovrapposizione, in breve sulla base di certi elementi strutturali che sono in generale capaci di avere carattere categoriale» e che sono comuni «ad ogni contenuto coscienziale». Ecco dunque, sembra di poter concludere, dove alla lunga può condurre, ad esempio, l’analisi di un prosaico «“disegno a rape” di un tappeto Buchara»: all’oscura coscienza di una legge inflessibile, a stratificazioni ipercategoriali, costitutive, metafisiche. Tanto che esse potrebbero segnare il ritorno di quello Hintergrund precedentemente abolito nell’ornato, sostanziato stavolta nel rapporto «tra unità e molteplicità», del tutto inoggettivo, “astratto”, ma comunque lievitante al di sopra o al di là del mero gioco formale vuoto e generico, che resta in ogni caso espresso nella materia sensibile. L’analisi di Hartmann si fa qui significativamente incerta e contraddittoria. La conclusione, come che sia, è che «lo sfondo apparente nell’ornato non sarebbe per nulla inferiore al regno delle stesse categorie fondamentali». Ancora una volta, la questione dell’Ornamento si rivela un limite che si colloca al punto critico dell’analisi: un terreno mobile, sfuggente e obliquo, che in certo modo mette alla prova le nozioni tradizionali o i presupposti più o meno sottaciuti della tradizione disciplinare dell’estetica. La sua pretesa dimensione solo-sensibile, facoltativa e surrogatoria si rovescia in entità solo-mentale, in indice categoriale, fondativo. Come dire: supplemento e fondamento a 218

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distanza zero. Nell’Ornamento insomma affiorerebbero in superficie le condizioni archetipali e antropogenetiche del pensiero, della percezione e della fabbrilità umana; tornerebbe alla luce uno strato arcaico-fontale della percezione e del Denkbild, del ‘pensiero per immagini’ (i mandala potrebbero esserne un ottimo esempio), uno strato che si sedimenta su momenti «molto più primitivi», su aurorali Gestaltungen22. Non altro infatti sono «il contrasto, l’armonia, l’intreccio, la connessione, la sovrapposizione». Sarebbe difficile negare che all’interno dello statuto dell’Ornamento e nella sua stessa pratica vivano anche questi sigilli ontologici, queste figure insieme operative e metafisiche della visibilità, e forse del pensiero tout court. È però altrettanto chiaro che esse −all’interno dell’analisi hartmanniana di manifesta incertezza− risultano prive di quegli indispensabili nessi (proprio quei nessi, se si vuole, che vengono invece affrontati, certo sotto tutt’altra prospettiva, da Semper) che possano collegarle alla concreta poiesis, alla fabbrilità-costruttività del lavoro ornamentale e alla pluralità dei suoi dialetti. In una pagina straordinaria dell’Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, Paul Valéry analogamente riconduce l’Ornamento a una inusitata profondità categoriale-strutturale, ma lo fa nei termini di una dislocazione analitico-matematica23. Valéry, in questo brano che bisognerebbe riportare per intero, menziona una lunga serie di materiali apparentemente eterogenei, dalle simmetrie gotiche alle «pareti voluttuose degli Arabi», dalla «melodia pri-

22  Questa mobilitazione di nessi archetipici “incontaminati” e di categorie fondative a proposito di una dimensione periferica come quella dell’ornamentale la si ritrova spesso in vari autori appartenenti alle grandi correnti tradizionaliste: cfr. ad es. A.K. Coomaraswamy, L’ornamento (1939), in Il grande brivido (Princeton 1977); trad. it. Adelphi, Milano 1987, e T. Burckhardt, Il folclore nell’arte ornamentale, in Considerazioni sulla conoscenza sacra, cit. È d’altra parte noto nel greco kosmòs l’originario avvincersi semantico dell’armonia celeste con l’ordine formale, con la misura dell’ornato. 23  P. Valéry, Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, cit., pp. 51-2 tutti i brani citati nel testo.

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mitiva» del linguaggio al variare dei timbri vocali, dalle metafore e le «onomatopee psichiche» alle «onde, le fiamme, i fiori sulla lacca e il bronzo giapponesi». Tutta questa «vitalità multiforme» può racchiudersi in un’unica parola, «e tale parola è decorazione». Le «manifestazioni enumerate» di essa possono intendersi «come porzioni finite di spazio e di tempo contenenti variazioni diverse, le quali sono talvolta oggetti caratterizzati e noti, ma il cui significato e uso ordinari vengono aboliti affinché di essi non sussistano che l’ordine e le reazioni reciproche. L’effetto dipende da questo ordine. È lo scopo del decorativo, e l’opera assume così il carattere d’un meccanismo per impressionare il pubblico, per suscitare emozioni e per stabilire mutue corrispondenze tra le immagini. Sotto questo aspetto, la concezione del decorativo sta alle arti particolari, come la matematica sta alle altre scienze […] È dunque tramite un’astrazione che l’opera d’arte è suscettibile di essere prodotta, e tale astrazione è più o meno energica, più o meno facile da definire, a seconda che gli elementi tratti dalla realtà ne rappresentino porzioni più o meno complesse». Ornamento, dunque, raccolto nella sua dimensione matematico-geometrica, come “radicale” dell’operari artistico-costruttivo. Che tuttavia −in virtù delle profonde compenetrazioni tra il regolare e l’irregolare che vi si ordinano− sa sporgere oltre se stesso, oltre la propria grammatica; segno che sa esprimere. Dall’analitica della decorazione, dal suo stesso statuto, Valéry lascia infatti anche emergere il tema in essa centrale che riguarda la produzione dell’effetto, quindi la sua ricezione: l’organismo espressivo è inteso come una macchina costruita su strutture d’ordine allo scopo di suscitare emozioni. Così non fosse, il «piccolo tempio» che Eupalinos −nello splendido Dialogo omonimo− ha costruito in onore di Hermes, «quel tempio delicato», scrive Valéry, non sarebbe «l’immagine matematica di una ragazza di Corinto» un tempo felicemente amata24. Immagine 24

P. Valéry, Eupalinos o l’Architetto, in Tre dialoghi, trad. it. Einaudi, Torino 1990,

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segreta, però, celata, “interna”, perché è difficilissimo −lo stesso Socrate nel Dialogo se ne dichiara incapace− «di avvincere, come sarebbe necessario, un’analisi a un’estasi»25. Per Valéry dunque l’Ornamento è il lavorìo dell’ordine e del numero che “comprende”-organizza l’ineguaglianza. Ma nello stesso tempo, o forse proprio per questo, si rivela nello stesso istante matrice nascosta di tutte le “narrazioni” possibili, potenza tutta umana del costruire, facies analitica dell’estasi. 2 Il punto resta in ogni caso che rovesciarne in toto la qualificazione surrogatoria e supplementare per ritrovarvi il regno delle categorie necessarie e fondamentali può rappresentare solo una delle tappe interne alle dialettiche dell’Ornamento. La strada da percorrere, allora, potrebbe essere un’altra. Forse quella che ci conduce attraverso i confini frastagliati e porosi, mai definitivamente accettati e accertati, che si disegnano, con tratti più o meno visibili come una sospetta frattura, sull’effigie storico-antropologica di quel rapporto tra supplemento e fondamento che, al pari di quello tra soggetto e oggetto, restituisce alla problematica ornamentale il proprio eccentrico destino. Non si tratta di scoprire “finalmente” −in alternativa a una secolare tradizione− la centralità fondativa, l’organicità strutturale dell’Ornamento come per riscattarlo da un lunghissimo servaggio estetico, filosofico e morale. Non si tratta di proporre una rivalutazione del decorativo così come viene “riabilitato” nell’architettura e nel design postmoderni o (sia pure con notevoli diversità tra un artista e l’altro) nei profluvi ornamentali e volutamente kitsch della pattern painting statunitense degli anni Settanta26 (Tavv. 46 p. 53. Su questo straordinario testo di Valéry scritto nel 1921, cfr. il ns. La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, cit., in part. pp. 87-108. 25  Op. cit., p. 58. 26  Sulla ripresa decorativa della pattern painting collocata nel contesto teorico che andiamo sviluppando cfr. il ns. Decorazioni, «Segno», 18, 1980.

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e 47), rispetto ai quali ad esempio l’opera di Luigi Ontani mostra una più complessa e raffinata caratura sia operativa sia concettuale (Tav. 48)27. Il problema (il percorso) è invece quello di seguire e descrivere le linee erratiche e conflittuali, i vicendevoli avvicinamenti e distanziamenti che all’interno dello statuto dell’Ornamento si animano tra una certa vicarietà e una certa essenzialità, tra ciò che è classificato come inutile-esornativo e ciò che viene addotto come funzionale-costruttivo. Uno tra i numerosi esempi di come queste polarità possano collaborare ce lo propone Hegel quando nell’Estetica, soffermandosi su quella che chiama architettura «romantica», affronta (così come in altri diversi passaggi) il tema della decorazione. Mentre nell’architettura classica, dice Hegel, l’ornato svolge un ruolo semplice e sobrio, nell’architettura gotica −la cui complessità struttiva tende verso l’alto− «pilastri, archi acuti e triangoli acuti che su di essi si innalzano ritornano anche nella decorazione»28. L’ornato dunque “ripete” la struttura; si aggiunge ad essa ma al contempo ne conferma gli assi direzionali ribadendone le determinazioni più proprie. Le grandi masse vengono frantumate ed elaborate finemente nella decorazione, così che è proprio la sua molteplicità “strutturale” a far emergere l’unità organica dell’edificio. L’ornato gotico ripone il suo significato «non nel distruggere o mascherare le linee fondamentali attraverso una quantità e una varietà di decorazioni, ma nel lasciarle apparire completamente, quale unica cosa essenziale e importante, attraverso la molteplicità». Precisamente ciò che si definisce come “sovrappiù” e come “accidente” contribuisce al puro presentarsi della misura e della sostanza. Non solo: a tutto ciò Hegel annette un’importanza di natura spirituale. Assumendo una posizione analoga a quella di Goethe rapito in ammirazione 27  Sulla dimensione ornamentale nell’opera di Ontani cfr. G. Giambrone, Luigi Ontani in teoria. Filosofia, estetica, psicanalisi nell’opera e nell’artista, Alpes, Roma 2019, pp. 55-68. 28  G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 778 tutti i brani citati nel testo.

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di fronte al Duomo di Strasburgo −e perfettamente contraria a quella di Bernardo da Chiaravalle aspro nemico degli sprechi, delle frivolezze, delle malate fantasie decorative che nelle chiese e nei monasteri distraevano il fedele dalla meditazione assorta della preghiera−, Hegel adduce proprio a questa viva molteplicità e finitezza particolaristica dell’ornamentale un valore quasi liturgico per il cristiano. «Come la devozione religiosa deve passare per tutte le particolarità dell’animo, dei rapporti vitali di ogni individuo e in modo indistruttibile imprimere nel cuore le salde rappresentazioni universali», scrive, «così anche i fondamentali tipi architettonici semplici devono sempre riaccogliere in quelle linee principali le più diverse suddivisioni, interruzioni e ornamenti e in esse farle sparire». Magistrale saggio di psicologia della ricezione estetica. Qui Hegel, con accenti che rammentano anche l’esperienza religiosa musulmana, sottolinea la dimensione simbolico-spirituale dell’Ornamento, la sua capacità di indurre effetti di raccoglimento interiore e di meditazione, basandosi su di un’analogia tra l’ordine visivo micrologico e lenticolare della scrittura decorativa e le tappe particolari e individue attraverso le quali l’animus religioso deve passare per accedere al cuore dell’universale. Se in questo caso proposto da Hegel emerge l’importanza dell’apporto della decorazione nel raggiungimento del risultato estetico e spirituale, situazione analoga −anche se in termini rovesciati, ma ciò è ancor più significativo− si verifica ove il dispositivo ornamentale viene confrontato e messo in relazione biunivoca con i materiali e il loro utilizzo. È interessante infatti notare che l’eventuale assenza di ornamentazione viene sempre fatta corrispondere a un incremento concernente la preziosità dei materiali impiegati nel manufatto e nel loro trattamento. La Rivoluzione Francese coincise con una decantazione neoclassica delle forme che diffuse la purezza di un gusto severo e solenne in tutta Europa. Goethe, nell’Arminio e Dorotea, dà la parola al farmacista tedesco che a malincuore deve rinunciare alla grotta con le sue conchiglie e i 223

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suoi coralli, a tutto il bric-à-brac rococò ormai passato di moda, e adeguarsi al nuovo gusto sobrio e disdadorno: «Tutto è semplice e liscio, intagli non più, o dorature/Si vogliono, ed al giorno d’oggi è il legno di fuori che viene più caro»29. La misura, il rifiuto di ogni eccesso, la controllata semplicità è il nuovo verbo. Ma ciò non significa affatto penuria. Anzi, il nuovo stile permette di concentrare l’attenzione sulla qualità dei materiali e sulla lavorazione dei manufatti, elementi che devono −molto significativamente qui per noi− compensare l’esclusione dell’Ornamento. Ma questa compensazione che cosa mai può significare se non che l’Ornamento è il supplemento di una carenza? Che, presente, svolgeva un ruolo per l’appunto decisivo ancorché negato o irriconosciuto, la cui assenza provoca una sorta di vuoto da riempire, da surrogare? Fosse stata realmente mera, “accidentale” superfetazione così come la si giudicava, l’“incrostazione” decorativa non avrebbe sollevato −una volta respinta nel gusto e nella prassi operativa− l’esigenza di venir sostituita da un’altra specie di aggiunta, di maggiorazione, di intensificazione, e cioè l’incremento (anche in termini economici) del valore dei materiali. All’inverso, nell’ornamentazione islamica, in Matisse, vi è la volontà dichiarata di far nascere effetti di splendore e di ricchezza da materiali modesti, tutt’altro che aulici. La logica è dunque sempre e ancora quella di una sorta di accrescimento suppletivo e surrogatorio. Anche nella poetica e nella pratica architettonica di un autore centrale come Loos si trovano spesso questi riferimenti a un principio di sostituzione, compensazione e riequilibrazione tra la scomparsa dell’ornato e l’aumento in preziosità dei materiali impiegati. Sotto questo punto di vista, l’istanza ornamentale è pensata ancora e comunque −magari indirettamente, per così dire con un passaggio in più che l’allontana dalle versioni più esplicite− in una dimensione vicaria e subalterna, come risposta all’horror vacui, all’insopporta29

Cfr. E. Gombrich, Il senso dell’ordine, cit., pp. 52-5.

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bilità del silenzio, della pausa e dell’intervallo (questo, però, non è certo il caso di Loos!)30. Sarà Le Corbusier a respingere non solo la decorazione, reputata un fattore inconciliabile con lo spirito moderno, ma anche la logica suppletiva e di secondo grado che la sua eliminazione innesca, sospettando appunto nell’impreziosirsi dei materiali una nuova funzione surrogatoria, un ricostituirsi sotto altre vesti dell’“inganno” ornamentale. «L’ultima trincea del fasto», scrive forse pensando anche a Loos, «è nei marmi levigati dalle venature insolite, nelle impiallacciature con legno raro che ci lasciano stupiti [...] La religione dei materiali preziosi si riduce ancora una volta all’ultimo spasimo di un’agonia»31. Se si osservano sotto il profilo di quell’esigenza di purezza e verità (anche in senso etico) che sempre anima i presupposti ideologici ed estetici di ogni posizione anti-ornamentale, queste affermazioni di Le Corbusier si innestano perfettamente nel solco tracciato da Ruskin alla metà dell’Ottocento, che parte dalla netta distinzione tra Costruzione e Architettura. La prima edifica gli spazi e i luoghi utili all’uomo, opportunamente rispettando e applicando i criteri ingegneristico-matematici della stabilità. Non sono “architettoniche” le leggi che regolano la statica di un edificio, architettonico è il tratto non indispensabile, la modanatura che percorre la superficie della pietra, quale una purissima “onda” borrominiana (Tavv. 49 e 50). Le strutture aggettanti di per sé afferiscono alla Costruzione. Ma se esse vengono modellate «in sagome arrotondate, che sono inutili, e se il coronamento degli intervalli è arcuato o trilobato, il che è inutile, quella è Architettura»32. Per 30  All’interno di questa “versione” interpretativa dell’Ornamento, ha ragione Cacciari ad affermare che «si può “ornare” soltanto ciò che si ritiene in sé insignificante. Il “tatuaggio” dell’ornamento vorrebbe prestare armonia e forma al mero dettaglio, al marginale, vorrebbe riscattare la supposta volgarità del particolare», in Dallo Steinhof, cit., p. 216. 31  Le Corbusier, Arte decorativa e design (Paris 1925); trad. it. Laterza, Bari 1972, pp. 101-102. 32  J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, trad. it. Jaca Book, Milano 1982, p.

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Ruskin, dunque, l’archè dell’archi-tettura, il suo cuore etimologico, concettuale e spirituale, è l’Ornamento. Proprio per questo, proprio per una profonda esigenza di verità in cui l’Architettonico deve saper dimorare e potersi esprimere, il massimo scandalo, la massima indecenza (come poi, lo sappiamo, in Loos: e non è affatto paradossale questo accostamento) è la decorazione falsa, quella che pretende di avere un valore che non ha, che artificiosamente tenta di sollevare gli oggetti triviali al rango di oggetti preziosi: «È un’impostura, una volgarità, un’insolenza e un peccato [...] lasciamo il suo posto disadorno sul muro, piuttosto [...] lasciamo i nostri muri spogli come tavole piallate, o costruiamoli di fango essiccato e paglia, se è necessario; ma non impiastricciamoli di falsità»33. Proprio perché teorico e appassionato dell’Ornamento, Ruskin rinuncia decisamente ad applicare il principio suppletivo-additivo al rapporto tra materiali e decorazione. Meglio le loosiane «bianche mura» di Sion, meglio “regredire” alla mera, arcaica regula costruttiva, piuttosto che dar sfogo al non etico della falsa decorazione. Ed è precisamente questo oltraggio alla nuda veritas (collegato alla crescente industrializzazione della sfera produttiva) l’idolo polemico del Le Corbusier che invoca lo strato di Ripolin bianco per eliminare le zone oscure, per permettere che tutto si mostri com’è, costringendo l’oggetto quotidiano ad essere se stesso e far sì che finalmente geometria e divinità possano sedersi assieme sullo stesso trono. Il motivo di fondo di tali posizioni sta soprattutto nel fatto che, nell’epoca dell’espansione industriale, la questione dell’ornato (si pensi solo alle Arts and Crafts di William Morris) viene a trovarsi 46. Mentre in Ruskin si ha l’immediata identificazione tra Ornamento e Architettura, in Brandi l’ornato è il primo elemento di mediazione, la prima apertura immaginifica –necessaria ma non sufficiente– che permetterà la subida da conformazione a forma, da mera tettonica ad architettura intesa come immagine astante, ascesa che si concluderà con il reperimento del rapporto strutturale tra interno ed esterno l’uno all’altro afferenti. Cfr. su questo punto il ns. Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori Riuniti, Roma 1992; seconda edizione Jaca Book, Milano 2004, pp. 114-6. 33  Op. cit., pp. 88-89.

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al centro di quella diffusa e pervasiva degenerazione e profonda ridistribuzione dei valori indotta dallo sviluppo inarginabile dei processi produttivi. La macchina omologa e standardizza l’oggetto, ma proprio per questo, una volta funzionalmente prodotto, lo “abbellisce”, lo tatua con l’inganno di una lavorazione macchinale che tenta di riprodurre-supplire le fasi della lavorazione manuale e il “tocco” dell’artigiano, così come i primi dagherrotipi cercano una sorta di legittimazione estetico-sociale facendo il verso al ductus pittorico. Il lusso («l’unica forma di bellezza che il borghese conosca», diceva Marx), la preziosità −tradizionalmente apportati dal surplus decorativo− si capovolgono in falsa apparenza e falsa coscienza, si trasformano nel segno vacuo di se stessi. Sotto questo profilo, la decorazione è l’esteticità aggiunta al valore d’uso allo scopo di farne dimenticare la marginalizzazione a favore del valore di scambio; è il segno del Bello che riscatta il prosaico utilitarismo del prodotto industriale “emancipandolo” attraverso il panestetismo dell’intervento “creativo” intervenuto in post-produzione. L’ornamentale qui si propone sotto le spoglie dell’ultima esangue incarnazione del kantiano disinteresse: sola presenza in grado di “sublimare” e “redimere” l’oggetto dalla sua genesi produttiva tipizzante, deanimata, tecnologica. È l’ideologia borghese del supplemento d’anima che riscatta la merce in cui si racchiude la forza-lavoro: conferendole slancio e vigore decorativi (i tratti della morfologia empatica) “ricorda” e insieme sopprime il lavoro vivo che essa aliena occultandone l’origine, per neutralizzare quella potenzialità eversiva che le proviene dall’esser prova tangibile −anche se da decifrare come il geroglifico marxiano− del rapporto sociale rovesciato da cui è nata. Dunque, falsa coscienza da cima a fondo. È questo l’orizzonte problematico in cui calare la “soluzione” prospettata da Ernst Bloch in quel fiammeggiante capitolo de Lo spirito dell’utopia dedicato alla «Produzione dell’ornamento», scritto nel 1916, e da considerarsi in costante dialogo − e anche in polemica− con le posizioni assunte nel medesimo torno di anni da Leo 227

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Popper e da Lukács, oltre che con il Kunstwollen riegliano, di cui il capitolo contiene un’elaborazione critico-metodologica e “applicativa”34. Il Moderno di Archipenko, di Lehmbruck e di tutta la nuova scultura non potrà mai rivestire le forme funzionali degli ascensori, delle finestre o delle scrivanie prodotte industrialmente; riuscirebbe soltanto a rendere patetici questi oggetti, che trovano invece il proprio valore «nella prassi priva di pathos, nella finalità rigorosamente utilitaristica, nella sobrietà felicemente chiara dell’inessenziale» (p. 19). Il minimum stilistico-decorativo storicamente attinto viene impiegato, per Bloch, nell’ascetica purezza del Biedermeier, nel suo perfetto equilibrio tra forme funzionali e «corrispondenza artistica». Permane tuttavia potente nel Moderno l’esigenza all’«espressione puramente spirituale e musicale che vuole l’ornamento» (p. 20). A questo punto, la mossa di Bloch è duplice. In prima istanza, occorre “loosianamente” separare con nettezza la sfera pratica da quella estetica, l’Io che si esperisce nell’atto dall’Io che si esperisce nel simbolo. Solo in questo modo, le due polarità potranno, marciando separate, colpire unite: deve dominare la «grande tecnica» che trasferisce la fatica sulle macchine, rendendo automatico e centralizzato l’inessenziale. E insieme, all’unisono, deve dominare la «grande espressione» che sappia di nuovo dirigere «l’ornamento in profondità» (p. 21). Separata con sufficiente determinatezza l’arte dall’uso (operazione nella cui possibilità Bloch nutre, proprio come Loos, una singolare fiducia), bisogna tuttavia, in una tappa successiva, recuperare alla memoria il senso spirituale, degno perciò di essere salvato, dell’arte applicata storica. Nella «vecchia sedia», nella 34  E. Bloch, Lo spirito dell’utopia, nuova ed. rielaborata della seconda stesura del 1923 (Frankfurt a. M. 1964); trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1980. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo. Sul significato filosofico dell’Ornamento, cfr. che cosa afferma lo stesso Bloch negli anni Settanta riconsiderando la sua opera, pp. viii e 337. Si noterà inoltre come queste pagine del Geist der Utopie abbiano forse costituito, anche sul piano terminologico, un modello (taciuto) per le considerazioni estetiche di Deleuze-Guattari in Mille piani (il «voler-diventare», la centralità della linea ecc.).

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sua realtà «leggermente spettrale e fiabesca» non cessa di vivere, di permanere spiritualmente qualcosa che non si può ridurre al mero utilizzo, alla comodità, all’uso. Se, «avendo in cuore il socialismo e la Riforma», riusciamo a infrangere quell’«alleanza blasfema» tra il potere secolare e «il metafisico», che dava un rilievo «quasi divino all’arte ornamentale» in tempi in cui «i troni si confondevano con gli altari», allora risulterà chiaro che l’arte applicata storica «veramente grande» non è l’indecente sostegno del lusso opulento del potere, ma «allude invece a un apriori spirituale della costruzione e dell’architettura [...] mirante al grande sigillo verso un mondo differente» (pp. 22-23). Allora, tra la sedia e la statua, tertium datur. Ma è un tertium che Bloch assegna esplicitamente (complici il primitivismo che attraversava molte delle avanguardie del tempo) all’arcaico, al primordiale. Qui, non sussiste più il pericolo che l’arida terrestrità dell’uso funzionale-utilitario (che, appunto, secondo la prima mossa blochiana, dovrà rimanere nell’ambito del proprio limitato raggio d’azione) si mescoli all’angelicità dell’Ornamento come presagio dell’incontro con il Sé. Sarà un’arte applicata di «ordine superiore», che lascia stendere «un tappeto autentico dalla pura forma astratta che guarda oltre», dove «l’ornamento lineare ad arabesco si presenta come un preludio» che conduce «all’ornamento esploso, pluridimensionale» [...] all’ornamento della nuova pittura, della nuova scultura e della nuova architettura» (p. 23). Bloch indirizza (con grande, significativo tempismo: gli anni sono gli stessi) questa inedita, visionaria dimensione, questa utopica esistenza totale verso il primitivo e l’apotropaico del Blaue Reiter, di Kandinsky (soprattutto), di Marc, di Klee. Risale ai primordi, «in una zona oltre confine», verso i totem, verso le «maschere rituali». L’«ornamento esploso, pluridimensionale» di Bloch, dunque, simboleggia la grande espressione, sigla l’effigie della libera costruttività che trascende la dimensione terrena-tettonica. Il funzionale, l’utile non attendono e non hanno bisogno di essere “riscattati”; rimangono nei propri limiti, lì ove con giustizia devono dominare. Ma il segno sporge sempre oltre se 229

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stesso, è continua aferesi verso altro, verso un «mondo differente», verso «il Regno finalmente puro» (p. 32), irraggiungibile dalla grande tecnica: una dimensione che è approfondimento-inveramento della Sehnsucht, del nostro desiderio-nostalgia per l’«occulta Gerusalemme dell’anima» (p. 42). È questo lo spazio puro del tat twam asi, del sanscrito ‘tu sei questo’ in cui l’intimo e l’esterno si armonizzano e si fondono in quell’assoluto incontro con il Sé incarnato nel «nostro segreto monogramma pittorico» (p. 40). In questo spazio che Bloch vede aperto da van Gogh abitano Boccioni e Braque, Derain e Picasso, Kandinsky e Kokoschka, tutti artisti citati e commentati in queste pagine, lo ripetiamo, con grande e singolare tempestività. L’Ornamento non ha qui più niente a che fare con alcun posticcio decorativismo che abbellisce ciò che ritiene insignificante come per riscattarlo dalla sua supposta volgarità, poiché tende a far riaffiorare alla memoria le realtà remote della maschera rituale, del feticcio apotropaico, della scultura intagliata interpretate nella loro potenza critica, nella loro purezza eversiva. Bloch apre nel cuore stesso del Moderno, della grande tecnica, una tensione arcaico-primitiva. E la apre proprio percorrendo la via dell’Ornamento. Dovremo anche noi seguire, da ultimo, qualche traccia di questo itinerario. 3 Sotto il profilo di un’estetica antropologica, è il corpo il punto di partenza dell’Ornamento. Su di esso si scandiscono per la prima volta le memorie e i ritmi di una cultura. «Ci è infatti apparso assai più elementare del bisogno di proteggere il corpo con prodotti tessili», scrive Riegl, «quello di adornarlo. Decorazioni che non servono ad altro che ad appagare il gusto per l’ornamento, e tra queste anche le forme lineari-geometriche, appaiono già molto tempo prima che abbiano origine le arti tessili»35. Già Semper aveva sostenuto che «tra i primi bisogni della giovane umanità ci 35

A. Riegl, Problemi di stile, cit. p. 4.

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sono infatti il gioco e l’ornamento», e che quest’ultimo «è uno dei privilegi dell’uomo, forse il più antico di cui abbia fatto uso [...] il primo fondamentale passo in direzione dell’arte: nelle sue leggi c’è già l’intero codice dell’estetica formale»36. Esso si colloca dunque all’incipit della dimensione simbolica, ne vidima il significato tutt’altro che facoltativo. Ed anche nella Grammar of Ornement di Owen Jones, l’Ornamento è associato a una sorta di regressione del soggetto, al recupero di una dimensione infantile e “selvaggia”. Il gioco dialettico tra Fondamento e Supplemento è già qui dispiegato. Si tratta di svilupparlo secondo direzioni e svincoli interpretativi che assumano a criterio di base non un rovesciamento speculare dei termini del rapporto, bensì la tensione costante che tra i due poli non cessa di manifestarsi, i punti di sutura e insieme di differenza: come percorrendo quelle cuciture che, nelle vesti delle popolazioni dell’Alaska, sostengono la struttura dell’abito e nello stesso tempo diventano elementi decorativi “inutili” ma ineliminabili. Non soltanto l’abbigliamento è ornamento ancor prima di essere mezzo di protezione, ma, come ricorda Marcel Mauss, «deformando e tatuando il proprio corpo lo si scolpisce»37. E se i segni incisi vengono compresi diventando simboli appartenenti a un universo comunicativo socialmente riconosciuto, il corpo ornato diventa una forma di scrittura. Ce lo mostra ampiamente la stessa arcaica pratica del tatuaggio e del piercing diffusa tra le culture giovanili (Tav. 51). Il decoratore non soltanto ordina, compone, ma dice, organizza un atto locutorio, fissa le frasi ornamentali su di un supporto scritturale. Così è sul corpo che si inscrivono e si indicano le differenze che l’uomo riscontra tra gli oggetti del mondo.

36  G. Semper, Architettura, arte e scienza, a cura di B. Gravagnuolo, Clean, Napoli 1987; le citazioni, nell’ordine, p. 90 e p. 100. La prima è tratta da uno scritto giovanile del 1834, la seconda da una conferenza del 1869: la loro analogia dimostra come il problema dell’Ornamento sia stato centrale e costante nell’opera di Semper. 37  M. Mauss, Manuale di etnografia (Paris 1967); trad. it. Jaca Book, Milano 1969, p. 85.

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È il ritmo dell’Ornamento che produce l’articolazione tra le parti; non il designatum ma le modalità di inscrizione del designans. «Il ritmo è tutto, niente il significato», diceva Karl Kraus. Per diventare «sapienti di musica», afferma Socrate nel Filebo platonico, occorre prima di tutto conoscere «il numero degli intervalli», dei diastèmata (proprio ciò in cui avevamo riconosciuto spazialmente originarsi l’Ornamento) e i sistemi che «risultano dalla loro congiunzione», cioè le «armonie» che gli antichi chiamavano «“ritmi” e “misure”» (17d). Il rhythmòs è ciò che «si realizza dal rapido e dal lento, in origine discordanti ma poi accordati» (Simposio, 187b-c), ed è anche «il nome del movimento ordinato del corpo» (Leggi, ii, 665a). Così come lo sviluppo sintattico dell’Ornamento è soggetto a una taxis, a un ordine distributivo-classificatorio, il ritmo come forma e configurazione del movimento e della coreo-grafia corporea è scandito da un metron, da una ‘misura’ che ne esprime la legge matematica. D’altronde Benveniste, analizzando l’originario valore semantico di rhythmòs, può specificarne i caratteri con termini affatto similari a quelli in cui potrebbe condursi la descrizione di un’ornamentazione islamica: esso «designa la forma nell’attimo in cui è assunta da ciò che si muove, è mobile e fluido, la forma di ciò che non ha consistenza organica: si addice al pattern di un elemento fluido, a una lettera arbitrariamente modellata, a un peplo che si dispone a piacimento»38. Ed è attraverso questa nozione di scrittura intervallare, diastematica, che andrebbe riletta l’analisi di Franz Boas sulle pitture corporali kwakiutl (una tribù indigena americana) in cui mediante la split representation, ‘immagine sdoppiata’, che si connette a un’istanza magica, la rana dipinta sul corpo «viene rappresentata come se il corpo della persona fosse la rana stessa»39. Ciò che importa 38  E. Benveniste, La nozione di “ritmo” nella sua espressione linguistica, in Problemi di linguistica generale (Paris 1966); trad. it. il Saggiatore, Milano 1971, p. 396. Cfr. anche la voce Ritmo, Enciclopedia Einaudi, vol. 12, Torino 1981. 39  F. Boas, Arte primitiva (Oslo 1927); trad. it. Boringhieri, Torino 1981, p. 273.

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non è l’intenzione raffigurativa, l’apparenza o l’enfatizzazione della componente mimetica dell’operazione, bensì la scrittura delle distorsioni, delle differenziazioni, dei dispositivi intervallari con cui l’immagine dell’animale totemico, vera e propria veste simbolica, viene proiettata, scritta e “indossata” sul corpo aderendo alla sua plastica, alle sue sporgenze e alle sue rientranze: al suo ordine, alle sue articolazioni. Spazio e tempo diventano autentiche esperienze vissute soltanto nella misura in cui, materializzandosi, vengono percepiti come fenomeni ritmici. Talvolta, infatti, è la stessa ripetizione ritmata che direttamente crea il pattern (confermando così le sorgenti fisiologiche, le origini corporee-gestuali del rhythmòs-Ornamento) (Tav. 52), come nel churinga australiano, una piastra di legno o di pietra incisa con motivi astratti a spirale, rette o insiemi di punti, oppure −caso qui per noi ben significativo− nei lavori in metallo degli Indiani della costa settentrionale del Pacifico, ove «i colpi del martello sono così regolari che il motivo decorativo è costituito proprio dalla superficie stessa»40. Siamo arrivati a una soglia, a un passaggio cruciale. Qui la presenza dell’ornamentale non può interpretarsi nei termini di un’aggiunta surrogatoria che interviene dall’esterno e a posteriori come una qualificazione ulteriore, vicaria e inessenziale: qui Struttura e Ornamento si identificano, Costruzione e Decorazione sono in uno.

40  Ibid., p. 64. Un analogo ricorso alla totalità del contesto ambientale e percettivo −che mostra inoltre significativi nessi con l’accezione ampia del concetto di decorazione che abbiamo visto in Valéry− lo si ritrova nella magistrale analisi di Eric Havelock attinente alla nascita del discorso poetico nella Grecia arcaica: «Lo stile proto­ geometrico in pittura non fu inizialmente un riflesso psicologico di quel rigoroso addestramento ai moduli acustici che le esigenze del vivere e dell’ascoltare ogni giorno richiedevano? Gli schemi dell’Iliade sono stati considerati alla stregua di un disegno visivo, contrariamente alla premessa che la composizione era orale, e sono stati quindi paragonati agli schemi visivi dei vasi geometrici. Non è più giusto considerarli schemi costruiti su principi acustici, che sfruttano la tecnica dell’eco come espediente mnemonico? In questo caso, la geometria visiva dell’artista figurativo potrebbe essere un riflesso in lui di quell’istinto acustico ora trasferito alla visione, e non viceversa», in Cultura orale e civiltà della scrittura (1963); trad. it. Laterza, Bari 1973, p. 107.

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Va ricordato d’altra parte che questo nesso tra supposti contrari può anche essere considerato (sotto certi aspetti e a certe condizioni) un locus classicus, già lo abbiamo accennato, della teoria e della prassi architettonica di tutti i tempi, di cui il mausoleo di Ismail a Buchara che già conosciamo potrebbe forse rappresentare uno tra gli esempi più compiuti. Ma la problematica del rhythmòs di per sé induce all’interrogativo circa lo statuto temporale dell’Ornamento. Dal punto di vista storico-diacronico, esso si profila secondo le arcate lunghe, continue e trans-crescenti degli avvicendamenti e delle trasformazioni delle forme, del gusto e degli stili. Sotto questo aspetto, siamo ancora all’interno della concezione classica del tempo in termini di categoria obbiettiva, cornice esterna e indipendente dei e dai fenomeni, dato invariabile e condizione dell’onnitudo universalmente prescritta. Secondo una prospettiva strutturale e sincronico-formale, invece, le cadenze, le “battute”, le fughe della partitura ornamentale fanno forse segno verso un tempus granulare, eccedente e polifonico, in cui i rallentamenti e le accelerazioni, le discontinuità e le connessioni plasmano lo spazio aprendolo a una forma spuria di temporalizzazione. Un tempo fuori (del) Tempo: inteso non come inarrestabile consumo entropico né come la durata individuale della coscienza e del soggetto, ma come “eterno ritorno” differente-differito del pattern, incessante experimentum costruttivo-inventivo innestato sì sul principio di ripetizione, epperò −esattamente come nel Musicale− ek-staticamente contraibile ed espandibile nel respiro delle molteplici, infinitesimali variazioni, ognuna delle quali mostra micrologicamente una propria, autonoma, germinante forma di temporalità lenticolare, di durata irriconducibile a un unico Tempo universale41. Si fa forse avanti una dimensione del tempo 41  Nel suo Incantesimo del ritmo (Tranchida, Milano 1993) Sini propone alcune riflessioni sul nesso tra tempo e ritmo che potrebbero venire indirizzate verso la tematica dell’Ornamento. Stante che «non è il tempo che fonda il ritmo, è il ritmo che fonda il tempo» (p. 54), Sini osserva che «nel tempo riaccade sempre la stessa struttura.

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come evento dello spazio. Nessuno dei due poli fa da cornice categoriale-apriorica all’altro. Il tempo non sarebbe qui che l’automovimento, la “scrittura” dello spazio. Nell’Enciclopedia −alla prima sezione della filosofia della natura dedicata alla meccanica− Hegel formula la questione della dialettica spazio-tempo sul paradigma di una continuità di negazioni determinate. Lo spazio è la pura, indifferente esteriorità astratta immediata. Soltanto attraverso una serie di negazioni e superamenti-Aufhebungen che conducono dal punto fino alla determinazione della superficie passando attraverso la linea, si perviene alla totalità spaziale, stavolta però determinata, cioè alla «superficie chiusa, che separa un singolo spazio»42. Questo lavoro del negativo che lo spazio sviluppa come suo essere-per-sé non appartiene però esso stesso alla categoria della spazialità. Appartiene alla temporalità, è temporalità, come se lo spazio mutasse la propria determinazione precisamente insistendo in se stesso, inabissandosi nella propria essenza. La negatività che svolge in progressione le sue determinazioni qualitative come punto, linea e superficie, «posta così, è il tempo»43. Nell’Ornamento, nel suo principium individuationis, lo stesso intensificarsi dell’identità spaIl tempo è la ripetizione della sua struttura» ed è proprio quest’ultima che ci permette di fare «quella fondamentale esperienza che dice: eccolo di nuovo» (p. 51). Anche l’Ornamento è in fondo la ripetizione della sua stessa struttura iterativa di base, ma dovremmo sottolineare l’espressione che Sini stesso usa: questa ripetibilità (il ritorno del pattern) ri-accade, cioè rimane comunque un accadimento, un evento. Ecco perché nell’«eccolo di nuovo» con cui accogliamo il ritorno del motivo ornamentale, dovremmo in qualche modo indebolire l’accezione iterativa, secondo cui un sempre-uguale ancora una volta si ripresenta, e invece sottolineare, rafforzare, come controcorrente rispetto al significato comune della locuzione, ciò che la risorsa del linguaggio ci rende comunque disponibile, cercando cioè di udire in quell’ecco, in quel nuovo il senso di qualcosa che pur ritornando si inaugura, pur ripetendosi differisce. Nei «pochi motivi, semplicissimi, sempre uguali», Matisse come l’artigiano islamico, lo abbiamo visto, sapevano perfettamente udire l’«eppure ogni volta è una sorpresa». Ma su questo ultimo punto, cfr. anche G. Marramao, Kairos. Apologia del tempo debito, Laterza, Bari-Roma 1992. 42  G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817); trad. it. Laterza, Roma-Bari 1975, p. 231. 43  Op. cit., p. 233.

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ziale come continuum allucinatorio di contigui isomorfi rovescia lo spazio stesso dis-identificandolo in temporalità. Nelle “durate” plurali e ricorsive dell’iterazione talora dissonante del pattern (può variare un colore, il rapporto figura-sfondo, l’inclinazione di una unità geometrica), l’automovimento, il tratto dello spazio è tempo. Il lavorìo grafico-pittorico dell’Ornamento, la sua instancabile ars inveniendi di relazioni e relazioni di relazioni −che si sviluppa in una trama fibrillare di anelli e polilobi, palmette e racemi, fasci di linee e intrecci− è azione dello spazio su se stesso che in tal modo secerne, produce temporalità. Il tempus dell’Ornamento, “liberato” dall’onnitudo, è irriducibile a sistema: si trova immerso in una totalità ambientale di ritmi auditivi, visivi, fisiopsicologici, muscolari, in cui il tempo non è un dato ma una costruzione di tempi parziali, plurimi e discreti, ricorsivi e insieme dissonanti. I motivi del tempo, del ritmo e della scrittura propri dell’Ornamento non sono dunque soltanto entità metodologico-descrittive, bensì qualificano l’operatività dei suoi linguaggi, delle sue procedure, modellandone la sintassi profonda. Sappiamo dagli studi di Leroi-Gourhan che solo verso il 30.000 appaiono le prime forme riconoscibili come figurative44. Il grafismo delle origini è totalmente astratto e geometrico-lineare, ed è una trasposizione simbolica della realtà collegata ai codici e ai dispositivi, ai supporti e all’immaginario della scrittura. Ai suoi apparati e ai suoi effetti grafematici. Seguendo il senso della progressiva linearizzazione fonetica, che vede nella cancellazione del significante sensibile la garanzia stessa della trasparenza del significato, la scrittura −ormai lontana e scissa da ogni aurorale ipoiconicità pittografica o mitografica− acquisterebbe della dimensione ornamentale sia il carattere di astrazione aliena dall’analogia mimetico-raffigurativa, sia il carattere tradizionalmente inteso come residuale-supplementare. Scrittura alfabetico-fonetica in quanto pegno e resto di un’operazione e di 44

Cfr. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., vol. i, in part. pp. 221-54.

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un’economia di pensiero che si svolge nell’intimità di un nous, di un pensiero disincarnato ma che al contempo può costituirsi solo partendo dal presupposto del dato scritturale. Ora, è significativo notare come in Hegel questo processo approdi a una sorta di “ritorno del geroglifico”, cioè proprio di quell’articolazione sensibile visivo-auditiva, “ornamentale”, che la scrittura fonetica ha rimosso per nascere a se stessa. Di un legame esplicito tra scrittura e decorazione, significato e pura forma, si può parlare in generale per i primordi dell’espressione grafico-pittorica e in particolare oltre che, già lo sappiamo, per l’arte islamica, anche per quella cinese antica, ad esempio per il motivo taotie45 (Tav. 53). E cioè, in senso ampio, per tutta quella fase dello sviluppo dello spirito che Hegel nell’Estetica chiama in generale «simbolica», in cui il corpo sensibile del segno conserva ed esibisce una relazione motivata e parzialmente analogica con ciò che rappresenta. Ciò accade nella scrittura geroglifica che, scrive Hegel nell’Enciclopedia, «designa le rappresentazioni mediante figure spaziali»46, dunque presenta un versante sensibile-materiale che non può venire immediatamente trasceso come un veicolo neutrale, da cui cioè lo spirito deve di necessità passare per accedere all’ordine puro del Senso. Il perfezionamento logico della notazione si indirizza quindi verso la scrittura alfabetico-fonetica, che pone davanti alla coscienza soltanto i suoni della lingua, dunque l’idealizzazione-astrazione del significato. La riduzione del volume della scrittura conduce perciò lo spirito «dal fatto sensibilmente concreto all’attenzione verso ciò che è più formale, alla parola risonante e ai suoi elementi astratti, e contribuisce in modo essenziale a preparare e sgombrare nel soggetto il campo dell’interiorità»47. Precisamente a questo punto 45

Cfr. in Gombrich, Il senso dell’ordine, cit., p. 362. Il motivo ornamentale, secondo gli studiosi, significa pioggia o tuono, e simbolizza la terra, la luce del cielo e l’acqua. 46  G.W.F. Hegel, Enciclopedia, cit., p. 451. 47  Op. cit., p. 454.

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torna il geroglifico, il simbolico: il rimosso. E torna proprio in virtù della compiuta perfezione raggiunta dalla scrittura alfabetica, che riesce ad abolire-superare, a fare Aufhebung perfino della stessa dimensione fonica in cui si produce. In che modo? È l’abitudine alla lettura diventata ormai operazione automatica, dice Hegel nella stessa pagina, a cancellare «anche la peculiarità onde la scrittura alfabetica appare, nell’interesse della vista, come una via indiretta per giungere mediante l’udibilità alle rappresentazioni; e ne fa per noi una scrittura geroglifica, cosicché nell’uso di essa non abbiamo bisogno di avere nella coscienza, dinanzi a noi, la mediazione dei suoni: le persone, invece, che hanno poca abitudine di leggere, pronunziano ciò che leggono a voce alta, per intenderlo nei suoi suoni. Oltre al restare −in quell’abilità che muta la scrittura alfabetica in geroglifici− la capacità di astrazione acquisita con quel primo esercizio, il leggere geroglifico è per se stesso un leggere sordo e uno scrivere muto». L’abolizione-astrazione determinata dello strato sonoro (proprio quello in cui si forma la scrittura “civile”, progressivamente linearizzata e logicizzata) corrisponde in sostanza (per le classi istruite, per Hegel stesso) alla riemersione del geroglifico come immediata riconoscibilità ornamentale del segno nella sua connotazione derogatoria, stavolta completamente purificata da ogni spaziatura, da ogni appello all’ordine del sensibile se non quello di una pura segnaletica astratta. Ornamento e supplemento della memoria, ricordo del nome in cui pensiamo. 4 I motivi del ritmo e della scrittura non sono soltanto chiavi interpretative o entità metodologiche, bensì qualificano direttamente l’operatività delle lingue dell’Ornamento modellandone la sintassi profonda. Continuando a seguire il filo sottile di quelle fratture, di quei confini porosi che si disegnano tra centralità e marginalità all’interno del territorio della decorazione, occorre però collegare questa sorta di fondazione genetica nel ritmo e nella scrittura con 238

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un’altra determinazione che abbiamo già analizzato in una diversa prospettiva, ma che ora occorre riprendere. All’interno dello statuto dell’Ornamento, sappiamo che un movimento pendolare si produce tra i poli dell’astrazione e della figurazione. E sappiamo inoltre che nella sintassi dell’organismo ornamentale anche le singole corrispondenze tra elemento formale e realtà esterna percepibile vengono ridotte e composte secondo schemi di ripetizioni, opposizioni, alternanze di natura simmetrico-ritmica del tutto indipendenti dalla resa (beninteso essa stessa basate su convenzioni visive socialmente pattuite) di uno spazio più o meno naturale-realistico. Nonostante ciò, i rapporti tra Ornamento e Rappresentazione sono talora inestricabili, non fosse altro per il fatto che una catena ornamentale aniconica può avere come riferimento, all’interno di un codice stabilmente riconosciuto, una messe di significati di natura simbolico-“narrativa”; e nello stesso tempo una catena ornamentale che mostri elementi iconici può assumere −a seconda del contesto monumentale e architettonico in cui si trova− un valore convenzionalmente decorativo. Ma a sua volta questa oscillazione deve potersi rileggere anche attraverso i parametri e i protocolli di un’estetica funzionale. Secondo Leroi-Gourhan, «la bellezza funzionale viene raggiunta nella misura in cui la figuratività abbandona l’oggetto»48. L’aspetto di carrozza che avevano le prime automobili era una sorta di sopravvivenza, di Nachleben, di ‘vita postuma’ di natura “figurativo”-simbolica, loro necessaria per permettere alla novità tecnologica di venire più facilmente assunta ricorrendo a parametri percettivi e ampiamente conoscitivi appartenenti a un universo di oggetti già socialmente consaputo. Ma il rapporto tra funzione e figurazione è di ordine diverso dal rapporto tra funzione e decorazione. In realtà la funzione tra48  A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., vol. ii, p. 349. Da ora in poi le pagine corrispondenti alle citazioni sono segnalate nel testo.

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spare, emerge e si mostra (già abbiamo analizzato questo nesso) attraverso l’elemento decorativo che si offre in uno con la forma. Ed è precisamente a questa base che va ricondotta l’inestricabilità del rapporto decorazione-rappresentazione. Anche se la funzione e la forma complessiva di un oggetto si equilibrano nel tempo in un gioco di mutue ibridazioni e reazioni reciproche, effettivamente entrambe si inscrivono in un’unica traiettoria indirizzata verso un adeguamento progressivamente maggiore della forma alla funzione o, per meglio dire, verso un punto ideale e asintotico di coincidenza o sovrapposizione tra immagine e utilizzabilità. La dimensione decorativo-ornamentale rappresenta in certo modo il limite, il confine entro cui quella traiettoria di approssimazione funzionale si configura. Nella filogenesi delle forme naturali, è dato osservare il fenomeno secondo il quale a ogni singolo stadio evolutivo «la forma funzionale è avvolta in un velo “decorativo”, colori, appendici, curve sconcertanti, analogo a quello che riveste gli oggetti umani, come se nell’uomo la funzione decorativa rispondesse anch’essa ad un equilibrio non artificiale» (p. 350). In altri termini: se è vero che la “perfezione” funzionale è soltanto in realtà un’approssimazione funzionale che non riesce mai a concludersi riducendo il senso alla formula meccanica applicata, allora proprio la forma per dir così “integralmente” funzionale deve passare attraverso il decorativo per riconoscere se stessa. Come dire, nei nostri termini, che la tensione tra ciò che si considera strutturale e ciò che si considera supplementare è già da sempre iniziata. Mentre nell’animale la decorazione fa parte del campo di segni di origine filetica che lo legano al passato della specie (le macchie colorate e le striature delle ali delle farafalle hanno svolto, per un dato periodo nella storia della specie, una funzione mimetico-protettiva che non interferisce con la meccanica dello spostamento aereo), nell’uomo, la decorazione (che, entro certi limiti, può essere identificata con un rivestimento in linea di massima a-funzionale) è collegata al passato dell’etnia, è un segno insieme 240

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di sopravvivenza e di appartenenza sociosimbolica, in quanto offre «una conferma del carattere costante di sostituzione dell’etnia alla specie» (p. 351). Proprio questa sorta di simbolizzazione etnica costituisce la base per la formazione di uno stile. E lo stile è uno dei tre valori che −assieme alla funzione meccanica ideale e alle soluzioni possibili nell’ambito di un certo stadio di sviluppo della tecnica− configurano la forma di un utensile. Ciò è ovviamente connesso al fatto che nelle epoche remote e comunque fin dal Paleolitico, il valore estetico sembra non avesse alcuna autonomia rispetto al valore funzionale. Da questo punto di vista, quindi, non si pone alcun problema circa l’aspetto “gratuito” della decorazione. Essa è perfettamente integrata nella forma dell’utensile, funzionale e in uno simbolica: «le figure della più piccola zagaglia non sono diverse da quelle sulle pareti delle caverne. Se il buco del bastone forato è circondato di bisonti e il manico decorato con cavalli», scrive Leroi-Gourhan, «è perché il buco corrisponde al simbolo femminile e il manico al simbolo maschile» (p. 447). Non ha neanche senso parlare di un valore estetico. Sarebbe una rilevazione del tutto anacronica, una forma di retroflessione concettuale, dal momento che ciò che chiamiamo con quel termine non è ancora separato dal valore utilitario-funzionale. Piuttosto dobbiamo dire che, a questo livello, la decorazione (che appunto, ripetiamo, non è ancora pensata come un’aggiunta) partecipa di un vero e proprio universo di discorso comunicativo in cui gli oggetti parlano. È in questo quadro che va ricollocata la questione del confronto tra stile realistico-figurativo e stile geometrico-astratto nell’ambito delle espressioni artistiche delle culture indigene che molti antropologi ed etnologi chiamano ogge “ristrette” e non più “primitive”. Aldilà delle continue ibridazioni tra stili raffigurativi e stili geometrici, resta il fatto che in linea di massima i motivi figurali si valutano sulla base della loro somiglianza percettiva con la classe degli oggetti rappresentati, mentre i motivi astratti vengono utilizzati sia per indicare (mediante le particolari, specifiche configurazioni di 241

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linee, cerchi o file di punti) il clan a cui appartiene il manufatto, sia per evocare determinati eventi mitico-sacrali, suggerendo simultaneamente più significati per ciascun singolo motivo o pattern. E questa è una delle ragioni per le quali le composizioni astratto-geometriche o comunque aniconiche (ad esempio quelle likanbuy degli Yolngu, aborigeni australiani) sono quelle di maggior valore, difficilmente accessibili se non quando collocate in luoghi segreti49. Sotto questo cono prospettico, davvero la dimensione decorativa occulta-rivela la sua funzione primaria: non dice né nasconde ma accenna, come il Signore che ha l’oracolo in Delfi. Un grado zero della forma-funzione non esiste; quindi, in un contesto empirico secondo cui «la riduzione delle forme a nude formule sarebbe stata contraria all’equilibrio sia nella diversificazione della specie sia in quella delle etnie» (pp. 355-6), il continente estetico, tecnico e antropologico dell’Ornamento ritrova la sua istitutiva esigenza in una duplice direzione. A un primo livello e in termini generali, esercita una funzione socialmente agglutinante nel riconoscimento dell’appartenenza all’etnia e alla sua istanza filetica; a un secondo livello, e nella sua versione geometrico-astratta, può agire da elemento distintivo-differenziante, dal momento che è ad essa che viene affidato l’incarico di contrassegnare emblematicamente-elettivamente il contesto espressivo di provenienza, recando l’impronta sacrale e simbolica in cui il clan si riconosce per vincolo comunitario. 5 La tradizione vuole che ci sia un Ornamento “buono” e un Ornamento “cattivo”. Il primo sarebbe conseguente ai modi e al contenuto dell’ergon, perfettamente cooperante e funzionale alla sua riuscita estetica; deriverebbe dall’“interno”, richiesto ed espresso dalla struttura: motivato, proprio, appropriato. Il secondo invece 49  Cfr. R. Layton, Antropologia dell’arte (London 1981); trad. it. Feltrinelli, Milano 1983, in part. pp. 198-206.

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sarebbe puramente gratuito, pleonastico, esornativo, non richiesto ed estraneo, proveniente da un “esterno”: del tutto immotivato, confìtto e dannato nella propria impura eccessività. Il bersaglio polemico di Vitruvio non sono le decorazioni murali in se stesse, ma la capricciosità e la licenziosità che risvegliano il dèmone del riso. Pitture fantastiche «le quali», scrive Montaigne, «non hanno altro merito che la loro varietà e stranezza»50. Paradossi contro natura di un universo visivo “minore” e a latere, stravagante, illogico e irrazionale, sganciato dalla struttura portante, è quello che si scopre nei primi decenni del Cinquecento durante gli scavi della Domus Aurea di Nerone all’Esquilino della metà del secolo i. Quindi moralmente condannabile in quanto “cattivo” Ornamento (Tavv. 5a e 5b). Diverse sono le decorazioni a parete −numerose nella pittura romana imperiale− che creano l’illusione di un’estensione maggiore dello spazio: dunque ammissibili e prescrivibili perché collegate o meglio indirizzate all’equilibrio architettonico del luogo sia pure in termini di immaginario spaziale, e recanti un senso preciso, assegnabile. Quindi exempla di “buon” Ornamento. Il criterio vitruviano della corrispondenza logico-naturale sarà la matrice di tutte le argomentazioni polemiche contro l’istanza ornamentale tipiche dei razionalismi estetici che si sono succeduti nella storia. Identica la posizione di Cicerone: le metafore, i tropi, gli ornamenti del discorso dovranno scaturire direttamente −ed essere autorizzati− dal senso, dal contenuto espresso, dalle idee che stanno “oltre” il corpo della parola: e qui trovare completa legittimazione. In caso contrario, saranno solo ridondanze fastidiose, inutili belletti. Da questo punto di vista, una certa estetica della modernità si inserisce perfettamente nel medesimo orizzonte, non sposta di una virgola queste motivazioni forti del pensiero classico. Anche le avanguardie funzionaliste continuano a riconoscersi nella sentenza di Fénelon secondo la quale 50 Montaigne,

Saggi i, trad. it. Adelphi, Milano 1992, p. 243.

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«tout ornement qui n’est qu’ornement est de trop». Viollet-le-Duc contrapponeva alla tipologia decorativa greca, “vera” e conseguente, la decorazione romana, considerata mero rivestimento privo di rapporti con il fondamento murario-architettonico, dissociato dalla struttura dell’edificio. Il presupposto soggiacente alla polemica della teoria architettonica classica contro l’esornatività decorativa è sempre lo stesso: l’idea (e la volontà) di una corrispondenza, di un’armonia razionale tra immagine e significato, la necessità di un senso logico che colleghi il visibile al verosimile. Seguendo la medesima logica, Henri van de Velde distingueva tra ornamentazione e ornamento. La prima è semplicemente applicata, “incollata”, dunque non intrattiene alcuna relazione con l’oggetto sul quale si deposita, mentre il secondo è funzionalmente, strutturalmente determinato, fa parte integrante e organica dell’oggetto. Per tutto il modernismo architettonico l’accettabilità dell’ornato continua a misurarsi sulla sua capacità o di concludere coerentemente il processo evolutivo innescato a livello della struttura interna dell’opera, oppure (conosciamo già questa istanza) di partecipare pienamente −ad esempio quando l’elemento decorativo funge anche da sostegno− alla sua dimensione funzionale. In caso contrario, quando esso è stampato, incollato a posteriori su di una superficie o su di un corpo plastico già in sé strutturalmente e funzionalmente sufficiente, definito e conchiuso (come quando nelle grottesche la decorazione serve solo a coprire le superfici bianche delle volte), allora è un’offesa al gusto e uno spreco economico. Le tubazioni e gli altri elementi funzionali lasciati esposti e visibili esternamente sulle superfici dell’edificio designerebbero la sua nuda veritas51, ed è evidente il richiamo a quella logica che abbiamo visto in Kant di progressivo denudamento cui il Bello sarebbe sottoposto per raggiungere la propria pura essenza. Fatto 51  Ma attenzione: una volta denudata, la verità ride, come nella scultura del Bernini al Museo di Villa Borghese.

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salvo che, ad esempio nel Centre Pompidou di Piano e Rogers, proprio esponendo le viscere dell’edificio, il risultato (non poi troppo paradossale, secondo la logica del percorso che abbiamo seguito) è un manifesto, incontrovertibile effetto ornamentale (Tav. 54). «Non crediamo più che verità resti ancora verità, se le si tolgono i veli di dosso», scriveva Nietzsche nella Prefazione a Gaia scienza. Legittimi sono dunque soltanto i parerga espressi, richiesti e giustificati dall’ergon. Il punto decisivo del problema, di nuovo, è proprio questo: se è vero che si ammette l’Ornamento-Supplemento soltanto nella misura in cui è conseguente alla Struttura-Fondamento, allora ciò significa che esso si trova a venir legittimato unicamente all’interno della propria cancellazione. Il paradosso insomma è sostanzialmente questo: se la decorazione dipende dalla struttura, se è solo da questa governata, non è più decorazione, perde la propria eccedente e nomadica identità, si omologa all’altro da sé ritenuto unica fons et origo della sua stessa esistenza. Per quanto si possa attribuirle una qualche “verità”, la decorazione sarebbe “vera” unicamente se, per così dire, si disponesse al centro, ovvero se si negasse e si abolisse nel proprio contrario. In qualche modo, è come se si rimproverasse all’Ornamento di non agire da Fondamento. Ma così facendo lo si liquida in quanto tale. E soprattutto se ne liquidano le fruttuose tensioni, le dissonanze interne a quello che abbiamo chiamato il suo statuto di marginale centralità. Una critica dell’Ornamento fondata su tali presupposti esibisce tra l’altro una sorprendente fiducia nella capacità di distinguere nettamente e una volta per tutte il senso proprio dal senso figurato, il necessario dall’accidentale, la funzione prima dalle funzioni seconde, il Fondamento dal Supplemento. Inalberando queste opposizioni classico-metafisiche, si dimentica che la “semplicità” e il “grado zero” non sono essi stessi altro che un effetto testuale, uno scarto retorico, una derivazione e una scelta stilistica. Sottoposti alla medesima logica, i campi dell’ornamentale e della metafora (che è appunto classicamente l’ornamento del discorso) trovano vasti spazi 245

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in comune. In quanto senso dislocato, la metafora è portatrice di uno spostamento esornativo. Non è una coincidenza se −al pari di quanto avviene, come abbiamo visto, nella versione comune del rapporto tra decorazione e struttura− per evitare surrettiziamente il pericolo di un senso erratico e inassegnabile alla logica semantica, la metafora come figura poetica viene spesso pensata come espressione diretta e sorgiva dell’idea. Siamo in ogni caso di fronte a una costruzione, a una pragmatica particolare, a un uso ben specifico del linguaggio e non a un suo utilizzo supposto innocente e neutrale. Cosa d’altronde già perfettamente nota a Cicerone (e a tutta la retorica classica perlomeno fino a Boileau), se è vero che anche l’assenza di ornamenti nel discorso riveste un valore estetico giacché «lo stile semplice, anche se disadorno», è pur esso un «ornamento» (Orator, 78-79), esattamente nella stessa misura in cui, nel Perì hypsous dello Pseudo-Longino, il pensiero spoglio e privo di voce, il profondo e nobile silenzio di Aiace disceso nella Nekya, nel regno dei morti, è la forma più alta del Sublime52. Il problema, quindi, si sposta sulle nuances, sulle gradienze dello scarto, dello spostamento, sulle sue tensioni irrisolte, e non sul reperimento analitico-“sistematico” di uno scarto definitivamente scriminante. Sempre vi è effetto ornamentale, perché è inaccettabile accettare l’Ornamento soltanto nella misura in cui si trasforma nel proprio contrario. Occorre amarlo in quanto tale, così come lo ama l’arte islamica, così come nel Moderno lo ama forse soltanto Matisse. Come lo ama il pensiero indigeno. Nello studio Lo sdoppiarsi della rappresentazione nelle arti −che riprende una fondamentale categoria interpretativa utilizzata da Boas alla quale già abbiamo accennato− Lévi-Strauss, dopo aver minutamente analizzato una serie di testi figurativi Caduveo e Maori, propone alcune considerazioni generali. Nelle espressioni artistiche delle culture ristrette,

gli oggetti destinati all’ornamentazione non sono affatto pensati, selezionati, valutati come oggetti indipendenti e preesistenti alla loro decorazione. Anzi, «le esigenze della decorazione s’impongono alla struttura e l’alterano», e di conseguenza quegli oggetti «acquistano la loro definitiva esistenza solo attraverso l’integrarsi della decorazione con la funzione utilitaria»53. Non è un caso se la lavorazione ornamentale viene eseguita con una cura, un dispendio di tempo e un’abilità tecnica spesso maggiori di quelli impiegati nella fabbricazione dell’oggetto stesso come semplice strumento adatto all’uso. Oltre a evidenti richiami semperiani e riegliani, emerge qui il fatto che l’impulso alla decorazione e alle pratiche ornamentali risale alla part maudite di Bataille: si tratta di figure del lusso e del potlatch, dell’eccedenza e della sovranità in cui il soggetto si disidentifica in una sorta di estatica regressione nella ripetitività dislocata e nel calcolo labirintico del pattern. E non appartiene forse al medesimo ordine di considerazioni, la domanda “eccessiva”, “scandalosa” che Ruskin giudica l’unica legittima da porsi nei riguardi di qualsiasi ornamento, cioè quella sulla gioia e la felicità dell’artigiano mentre vi lavora?54. Ben più che nell’erma o nella cariatide che sostiene un architrave, per l’operatività simbolica del “pensiero selvaggio”, presupposti e risultati del lavoro ornamentale si fondono in uno, senza alcuna possibilità di divaricazione tra funzionale e accessorio, utilitario e facoltativo. Nella pittura facciale la decorazione crea il volto, lo genera, lo porta alla luce, all’esistenza: solo questo intervento dona, conferisce al volto dignità umana, valore sociale e significato spirituale. Qui davvero l’Ornamento −inteso nella sua essenza donativa come puro dispendio− non è più l’elemento supplementare destinato a riempire il vuoto di una carenza, ma riesce a essere «l’evento che apre il luogo stesso della significazione [...]

53

52

Cfr. il ns. Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi, Roma 1993, in part. pp. 33-47.

246

Ornamentale.indb 246-247

C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale (Paris 1958); trad. it. Il Saggiatore, Milano 1966, p. 291. 54  Cfr. E. Gombrich, Il senso dell’ordine, cit., p. 75.

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l’atto stesso del farsi senso del reale»55. Ecco allora le scarificazioni, le deformazioni e le mutilazioni a carattere ornamentale praticate sulle parti genitali nelle cerimonie d’iniziazione presso numerose tribù indigene: tramite il sigillo indelebile di quegli interventi rituali, qualcosa si dischiude, si inaugura, il giovane lascia la pubertà, fa definitivo accesso nel consorzio tribale ed è finalmente giudicato capace di dare inizio alla sua vita sessuale. Tutto un senso, tutto un ordine del reale si apre, si offre all’esperienza. Vi è insomma, al di là di ogni categorizzazione gerarchica, di ogni pretesa espressione di “valori”, un attrarsi, un cercarsi reciproco tra Fondamento e Supplemento, tra Struttura e Decorazione, in cui le cogenze oppositive delle due polarità si delocalizzano, slittano e cominciano a perdere di senso. Si stabilisce sì un’integrazione di natura estetico-funzionale tra dispendio puro e ragione socio-simbolica: ma proprio perché quelle che il pensiero estetico-filosofico della tradizione occidentale ha sempre considerato come due polarità separate e talora contraddittorie vengono pensate e operate in uno. Significativo, allora, è il loro reciproco “cercarsi” e attendere l’una all’altra. Ed ecco la ragione per la quale la tensione cui abbiamo più volte fatto riferimento non è, nella produzione estetico-figurativa delle culture ristrette, ridotta o annullata, ma è presupposto e insieme risultato dell’operatività. Volto e decorazione non sono immediatamente uno: si compongono in uno. La decorazione, scrive Lévi-Strauss, «è fatta per il volto, ma, in un altro senso, il volto è predestinato alla decorazione, poiché solo in virtù della decorazione e attraverso essa il volto riceve la sua dignità sociale e il suo significato mistico. La decorazione è concepita per il volto, ma il volto medesimo esiste solo grazie a essa»56 (Tav. 55). Si tratta sì di un’attività “ricompositiva”, ma che non sopprime, non liquida semplicemente la dialettica tra i due poli considerandola indifferente: la lascia emergere alla presen-

za in quanto unità simbolica, come un logos polemos alimentato da una più profonda philía. Ornamento finalmente pensato, appunto, secondo la sua paradossale, ossimorica condizione di marginale centralità. Non serve, insomma, ricostituire una gerarchia al cui vertice, stavolta, si accamperebbe, “riabilitato”, l’Ornamento: significherebbe rovesciare specularmente le posizioni solo per lasciarne intatte le valenze. Occorre dunque svincolare la situazione da ogni ipoteca fondata sul binomio vero/falso. Di nuovo e da ultimo, si misura qui quanto l’Ornamento non sia “questione ornamentale”; quanto esso, se correttamente interpretato, faccia vacillare alcuni degli assunti, dei canoni, dei principi profondamente solidali con la tradizione vincente del pensiero estetico-filosofico. Di nuovo, occorre richiamare categorie essenziali e fondative a proposito di un semplice pattern di motivi trilobati, un’arabescatura o una teoria di intrecci a nastro. Finché vigono Valori, finché si fa appello all’Autentico, ogni versione supplementaristica, ogni giudizio di gratuità-vica­ rietà puramente esornativa sarà automaticamente, in senso forte sistematicamente giustificata e autorizzata. Si potranno fornire dei linguaggi dell’Ornamento descrizioni quanto si vuole analitiche, ma saranno sempre e comunque descrizioni costrette in posizione subordinata all’interno di una logica dell’incarnazione del Vero o, in seconda istanza, del verosimile. Allora sì l’Ornamento sarà soltanto semplice “decorazione”. È proprio a questa impasse che Gadamer, in Verità e metodo, sembra riferirsi quando propone di dissociare definitivamente il concetto di decorazione da quello di «coscienza estetica» e dunque dal pregiudizio che l’opera d’arte autentica sia tale solo in quanto e per quanto si offra totalmente al di fuori di ogni collocazione storica e perfino spazio-temporale57. Secondo questa

57

55

G. Carchia, L’ornamento come dono, in «Rivista di estetica», cit., p. 57. 56  C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, cit., p. 292.

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Cfr. H.G .Gadamer, Verità e metodo, cit., pp. 195-6. Ma da tener presente è tutta la sezione Il fondamento ontologico dell’arte decorativa e d’occasione, cui già abbiamo fatto riferimento in precedenza.

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visione, l’ornamentale non sarebbe «opera del genio», ma soltanto arte applicata. Si tratta appunto di liquidare queste categorie aprioristiche, liberare l’impulso decorativo dalla sua forzata connessione con l’arte dell’Erlebnis in base alla quale viene impropriamente giudicato, e considerarlo finalmente parte integrante della struttura ontologica della rappresentazione nel senso specifico di Gadamer: non determinazione derivata e “conclusa” nella sua accezione mimetica ma, appunto, repraesentatio, vale a dire vero e proprio atto ontologico, evento, accadimento-accrescimento dell’essere. Siamo qui finalmente lontani dalla tradizionale gerarchizzazione che ha segnato il rapporto tra arte e decorazione. Epperò, nella posizione di Gadamer, nel suo tentativo di riposizionarlo positivamente, è ancora presente un’eco di quella necessità, di quella spinta quasi inconscia e spesso automatica a legittimare l’Ornamento in base a parametri che non gli sono propri e nei termini unicamente critico-dissolventi rispetto alla coscienza estetica correlata alla presenzialità assoluta dell’Erlebnis come genuina esperienza estetica. È come se le determinazioni di autenticità che individuano l’arte auratica venissero estese anche all’ornamentale, valutato non iuxta propria principia ma in base agli stessi parametri che fondano l’arte dell’Erlebnis e che rinviano a universali momenti ontologici dell’esteticità, in cui anche l’Ornamento si riconosce debba finalmente rientrare. La dissociazione con le sfere della verità e dell’autenticità, e quantomeno con il loro utilizzo apriorico-gerarchizzante, deve allora presentarsi in modo da una parte più deciso, dall’altro più attento a mantenere quello spazio tensionale cui più volte abbiamo fatto riferimento. Per riprospettare la sospensione (questo è il punto) del binomio oppositivo vero/falso, occorre richiamare proprio il principio della ripetibilità su cui l’ornamentale fonda il suo impatto percettivo ma anche la sua matrice concettuale, un principio, già lo sappiamo, indissolubilmente connesso ai continui collassi della forma, alle catastrofi locali, ai mutamenti di ordine del pattern, in 250

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cui emerge alla visibilità, assieme al procedere iterativo, l’ars inveniendi e l’ars variandi del Kunstwollen ornamentale. Una ripetizione svincolata da ogni tipo di derivazione o replica secondaria rispetto a un’origine supposta autentica, e quindi collocata al di là di sistematiche, metafisiche contrapposizioni. Non perché l’iterazione del motivo ornamentale si lasci ricondurre sotto l’autorità di uno dei due poli del binomio, e neppure perché le valenze ontologiche dell’autentico e dell’originario debbano estendersi alla replica e alla derivazione. Il fatto è che quelle continue ibridazioni tra ergon e parergon, struttura e decorazione, quei movimenti oscillatòri tra Fondamento e Ornamento, quei punti di sutura e insieme di differenza tra una certa vicarietà e una certa essenzialità −come quelle cuciture già evocate che al contempo ornano e sostengono le vesti delle popolazioni dell’Alaska− insomma tutte queste impadroneggiabili tensioni, di fatto neutralizzano, dislocano lo stesso criterio oppositivo da cui pure prendono vita e significato, fino al punto di delegittimarne la cogenza, come disciogliendone l’apparenza di necessità imprescrittibile, come trasferendole in un territorio ove non ha più senso l’opposizione tra sostanza e accidente, contenuto e supplemento, ma hanno senso soltanto le loro dialettiche aperte. La sua stessa proteiforme sintassi e fenomenologia espressiva induce il principio dell’Ornamento, come si è visto, a transitare incessantemente, conflittualmente, criticamente dal facoltativo al necessario, dal puro dispendio al correttivo funzionale e viceversa. Il punto, ripetiamo, non è quello di un immediato superamento delle tensioni dialettiche o delle dissonanze. Il punto è di mantenerle aperte, di ereditare le opposizioni tradizionali ma spostandone, illocalizzandone il senso costrittivo e necessitante. La “catena” intenzionalità-figuratività-significato, le coppie soggetto-oggetto, supplemento-fondamento, origine-ripetizione: lo statuto diacritico, differenziale dell’Ornamento sospende, fa satori della signorìa di questi idola, come mettendone a nudo il carattere convenzionale e pattizio. Lo sgranarsi iterativo delle forme ornamentali è governato 251

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da una ripetizione che ripete ciò che non è mai stato originale, che evoca il ritorno ricorsivo di un sigillo, di un prototipo non perduto ma infinitamente moltiplicato e diffuso, che trae la propria linfa dalla genesi stessa del visibile e della percezione. Insensato sarebbe pretendere di risalire a un primum ontologico, a un grado zero del senso e della forma per coglierne quella che si ritiene essere la sostanza e distinguerla da quello che si ritiene essere l’accidente. Il Kunstwollen ornamentale nasce e si sviluppa già all’interno di questo scarto, si riconosce precisamente attraverso questa opposizione. Narra Plutarco che, durante il regno di Numa, una grave pestilenza colpì e invase la città58. Dal cielo, inviato dagli dèi, cadde uno scudo di bronzo che finì proprio in braccio al re di Roma, a cui fu ingiunto di ordinarne la fabbricazione di altri undici perfettamente uguali all’originale onde sventare ogni possibile furto del prezioso pegno di salvezza dalla sventura. Soltanto il fabbro Veturio Mamurio raccolse la temibile sfida, e la sua maestrìa fu talmente grande che neppure lo stesso Numa riuscì a distinguere quali fossero le copie e quale l’originale. In questa cancellazione del prototipo operata nell’atto stesso di conservarlo, in questa moltiplicazione del visibile in cui cade la possibilità di qualcosa come un inganno, e che frantuma o disarticola l’identità stessa dell’oggetto, ritroviamo la dislocazione della logica vero/falso, autentico/derivato che caratterizza il principium individuationis dell’Ornamento. Non perché ne rappresenti la sintesi dialettica, bensì perché ne segna l’attraversamento neutralizzante ma conservandone la tensione, come, appunto, sospendendola, facendo epoché delle sue prescrizioni metafisicamente vincolanti. Una lettura “positiva” dell’ornamentale e della pratica decorativa si colloca dunque nel quadro di una liquidazione dell’enfasi tradizionalmente portata sul dato autentico, originario, veritativo, prototipico. Nella dialettica tra iterazione e modificazione, ripetibilità e novità, sequenza 58

nomotetica e costruzione “libera”, si esprimono la metis, cioè la sagacia, la perizia, l’accortezza tecnica, e l’immaginario algebrico, la spiritualità geometrico-matematica di cui è depositaria quella casta −non privilegiata ma dimidiata− di technitai celebranti il rito dell’Ornamento, che si trasmettono grammatiche e regole aperte alla tyche, all’occasione favorevole che modifica il pattern, che innova la sequenza dei motivi, in un movimento di dépense come sovrano improduttivo consumo. È nella disposizione orientale, “islamica” di Riegl e di Matisse −che rammemorano, al di là di qualsiasi indecente “innocenza”, l’arte dei Caduveo e dei Maori− che la leggerezza simmetrica, l’ebbrezza spirituale dell’Ornamento è davvero libera da ogni tentativo di “rivalutazione” proposta in base a “valori”. E se nell’arte moderna e contemporanea arriva a compimento il dissolversi del concetto di verità come incarnazione dell’autentico e dell’originario, allora il principio dell’Ornamento, intuito nella complessità delle sue lingue, potrebbe paradossalmente pensarsi come uno dei segni sotto i quali quell’esperienza si consuma.

Cfr. M. Perniola, Transiti, Cappelli, Bologna 1985, pp. 149 sgg.

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tavole a colori


1. Swastika, bassorilievo, Città Proibita, Pechino.

2. Helmut Federle, Asian Sign, 1980, pittura a dispersione su tela, 234 × 288 cm, Öffentliche Kunstsammlung Basel, Kunstmuseum.


3. Giotto da Bondone, La cacciata dei mercanti dal Tempio e la Pentecoste (in basso), 1303-1306 ca., fasce ornamentali, Cappella degli Scrovegni, Padova.


4. Basilica di Santa Maria Maggiore, pavimento cosmatesco, xii secolo, Roma.


5a. Raffaello Sanzio, particolare delle grottesche degli appartamenti vaticani: tralcio d’acanto popolato da animali e lesene che lo contornano, pilastro ix. Città del Vaticano.

5b. Raffaello Sanzio, gruppo di quattro medaglioni in stucco, particolare delle grottesche degli appartamenti vaticani, pilastro ii. Città del Vaticano.


6. Coro del Duomo di Monreale, fine secolo xii, Palermo.


7. Jean Nouvel, Institute du Monde Arabe, facciata, 1987, Parigi.


8. Mashrabiyya all’ingresso della Cappella Palatina, xii secolo ca., Palazzo dei Normanni, Palermo.


9. Pagine dal Corano manoscritto in thuluth e corsivo del Maestro Ahmad Shamsaddin Karahisari (-1556), tsm, inv. E. 11.416, col. 1v-2r. Istanbul.


10. Introduzione al Vangelo di San Matteo, da I Vangeli di Lindisfarne, 710-721, D. iv, f. 26v, inchiostro su pergamena, The British Library, Londra.


11. Miniatura dal Vangelo di San Matteo, Libro di Kells, pagina del Chi-Rho, 800 ca., ms 58 fol.34r, capitolo 1, versetto 18, inchiostro su pergamena, Trinity College, Dublino.


12. Mausoleo di Ismail Samani, emiro della dinastia Samanide, 905 ca., Bukhara, Uzbekistan.

13. Tadao Ando, Museo storico Chikatsu-Asuka, 1990-1994, Minamikawachi, Osaka.


14a e 14b. Facciata e particolare con volte a muqarnas della moschea Nasir ol Molk di Shiraz, xix secolo, Iran.


15a. Decorazione a muqarnas del soffitto dell’ivan est della moschea del Venerdì di Isfahan, xi-xii secolo, Iran.

15b. Decorazione parietale a muqarnas, facciata ovest della moschea del Venerdì di Isfahan, xi-xii secolo, Iran.


16a. Tappeto turco con decorazione geometrica, xvi secolo, mtia, inv. 417, Istanbul.

16b. Tappeto turco con animali stilizzati, xiv-xv secolo, inv. 1990. 61, The Metropolitan Museum of Art, New York.


17. Nodo vinciano, realizzato da anonimo incisore milanese su disegno di Leonardo da Vinci, Incisione 9596 b., Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Milano.

18. Piet Mondrian, Broadway Boogie Woogie, 1942/43, olio su tela, 127 × 127 cm, Museum of Modern Art (MoMA), New York.


19a e 19b. Joseph Hoffmann, rilievo per la 14° esposizione della Secessione viennese, originale del 1902 e a fronte ricostruzione del 1985, legno e pittura bianca, 94 × 96 × 15 cm, Collezione dell’Università di Arti Applicate, Vienna.


20. Joseph Hoffmann, astrazione geometrica, 1925 ca., inchiostro su carta, 29,5 × 29,5, collezione J. Hummel, Vienna.


21. Koloman Moser, Flachenschmuck – Die Quelle, a cura di Martin Gerlach, 1902, litografia, 295 × 249 mm, collezione privata.


22. Koloman Moser, Flachenschmuck – Die Quelle, a cura di Martin Gerlach, 1902, litografia, 295 × 249 mm, collezione privata.


23. Koloman Moser, bozzetto con firma, 1902.


24. Antoni Gaudí, Casa Vicens, Barcellona, 1883-1888.


25. Antoni Gaudí, cripta della chiesa di Santa Coloma de Cervelló, Colonia Güell, paramento murario esterno, 1890-1915, Barcellona.


26. Gustav Klimt, Ritratto di Margaret Stonborough Wittgenstein, 1905, olio su tela, 179,8 × 90,5 cm, Neue Pinakothek, Monaco di Baviera.


27. Gustav Klimt, Ritratto di Fritza von Riedler, 1906, olio su tela, 153 × 133 cm, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna.


28. Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer, i D 150, 1907, olio, argento e oro su tela, 138 × 138 cm, Neue Galerie, New York.


30. Gustav Klimt, particolare del Fregio di Palazzo Stoclet, Il cavaliere, 1905-1909, mosaico, Palazzo Stoclet, Bruxelles.


31. Adolf Loos, American Bar, 1907, Vienna.


32. Adolf Loos, American Bar, gioco di specchi.

33. Tadao Ando, Casa del Tè, Oyodo, regione del Kansai, Giappone.


34. Adolf Loos, Casa Müller, soggiorno, 1930, Praga.


35a e 35b. Adolf Loos, Villa Karma, sala da bagno, 1904-1906, rue St. Moritz, 352, tra Clarens e Vevey, Montreux, Svizzera.


36. Tomba di Adolf Loos, Vienna.

37. Tomba di Henri Matisse, Nizza.


38. Henri Matisse, Interno con melanzane, 1911, olio su tela, 212 × 246 cm, Museo di Grenoble.


39. Francesco Sacconi, cornice dorata dell’Allegoria della Sapienza di Luca Giordano, Biblioteca Riccardiana, Firenze.


40. Cornice in legno di mogano tinto con motivo floreale di viole del pensiero e iris, xx secolo, 93 × 83 cm, Boemia.


41. Cornice in legno e stucco decorata con iris e ramo di castagno dorato su sfondo verde, 1900 ca., 37 × 60 × 14 cm, Francia.


42. Sala interna di Palazzo dei Normanni, Palermo.


43. Duomo di Monreale, pannelli decorativi, fine del xii secolo, Palermo.


44a e 44b. Bridget Riley, Ospedale di Liverpool.


45. Apecar e decorazione pavimentale, Lisbona.


46. Joyce Kozloff, An Interior Decorated, 1980, Mint Museum, Charlotte NC.


47. Valerie Jaudon, Palmyra, 1982, olio su tela, 213,4 × 289,6 cm, Heather James Fine Arts Gallery, San Francisco.


48. Luigi Ontani, ErmEstetiche, mostra MAMbo, Museo d’Arte moderna di Bologna, 2008.


49. Francesco Borromini, facciata della chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-1644, Roma.


50. Francesco Borromini, cupola della chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-1644, Roma.


51a e 51b. Esempi di piercing e tatuaggio.


52. Segni su una sporgenza rocciosa nella grotta di Niaux, Ariège, Francia.


53. Campana in bronzo con maschera taotie che si dispiega nel groviglio di linee formate dai draghi intrecciati nella parte inferiore, dinastia Zhou dell’Est, vi-v secolo a.C., British Museum, Londra.


54. Renzo Piano e Richard Rogers, Centre Pompidou, 1972-1977, Parigi.


55. Ritratto del Re Maori Tawaiho, inizi xx secolo, Library of Congress, Washington D.C.


Indice dei nomi

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Adorno, Thodor Wiesengrund 165n Alberti, Leon Battista 26, 123, 195n, 204n Altenberg, Peter 154, 155n, 163n Amendolagine, Francesco 164n Angelucci, Daniela 135n Aragon, Louis 182 Archipenko, Alexander 228 Argan, Giulio Carlo 191, 192n Aristotele 26, 53-54 Arzeni, Flavia 154n Atlan, Henri 73-74, 73-74n Bahr, Hermann 153-154 Baldinucci, Filippo 113 Baltrušaitis, Jurgis 79n, 83n Balzac, Honoré de 15 Barocchi, Paola 33n Baroni, Daniele 152n 357

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Bataille, Georges 247 Beethoven, Ludwig van 151 Benjamin, Walter 107n, 127, 127n, 157, 157n, 168, 168n, 173 Benveniste, Émile 232, 232n Berenson, Bernard 29 Berg, Alban 163n Bergson, Henri 120, 125-127 Bernardo da Chiaravalle 49, 223 Bernini, Gianlorenzo 113, 244n Besançon, Alain 84n Bettini, Sergio 84n, 134n Bloch, Ernest 108, 227-230, 228n Boas, Franz 232, 232n, 246 Bocchi, Gianluca 67n Boccioni, Umberto 230 Boileau, Nicolas 246 Borromini, Francesco 191-192, 192n, 225; 49, 50 Bottani, Livio 213n Braga, Ariane Varela 20n Brandi, Cesare 55-56n, 56-58, 60, 226n Braque, Georges 163, 230 Brendel, Otto 104n Burckhardt, Titus 83n, 219n Cacciari, Massimo 102n, 109n, 135n, 152n, 164n, 215n, 225n Calasso, Roberto 152n Carchia, Gianni 248n Carlo Magno 143 Carpaccio, Vittore 91 Cassirer, Ernst 120n Catucci, Stefano 144n 358

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Celant, Germano 210n Cézanne, Paul 178 Charbonnier, Georges 59, 59n Chastel, André 32n Cicerone 195n, 243, 246 Clair, Jean 160n Collu, Cristiana 67n Coomaraswamy, Ananda K. 219n Costantino, il Grande 143 Curatola, Giovanni 83-84n Dal Co, Francesco 103n, 156n, 164n D’Auria, Antonio 152n Delacroix, Eugène 181 Deleuze, Gilles 27-28n, 102n, 228n Derain, André 230 Derrida, Jacques 42n, 47, 77, 193-194, 193-194n, 203, 203n, 210n Ducci, Annamaria 120n Duchamp, Marcel 166n Dürer, Albrecht 48, 91 Endell, August 143, 144n Eyck, Jan van 91 Eulero (Euler, Leonhard) 198 Fanelli, Giovanni 152n, 156n Fénelon, F. Salignac de la Mothe 243 Fiedler, Conrad 105, 117 Flöge, Emilie 153 Florensky, Pavel 21-22, 21n Focillon, Henri 101, 108, 119-121, 120n, 123-130, 132-133, 143, 146, 149-150, 170 359

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Formaggio, Dino Förster, Heinz von 72, 75 Foucault, Michel 149n Franzoni, Claudio 21n Gadamer, Hans-Georg 200-201, 200-201n, 204n, 214, 249-250, 249n Gadda, Carlo Emilio 51, 51n Gargiani, Roberto 156n George, Stefan 154 Gerlach, Martin 156; 21, 22 Ghirlandaio, Domenico 91 Giambrone, Giulia 222n Gilio, Giovanni Andrea 195n Godoli, Ezio 152n Goethe, Wolfgang 222-223 Goldin, Amy 178n Gombrich, Ernst 14, 20, 20n, 107n, 150, 224n, 237n, 247n Goodyear, William Henry 169n Grabar, Oleg 83n, 201n Gravagnuolo, Benedetto 102n, 164n, 166n, 231n Gregorio, di Nissa 191 Grimm, Jacob 169n Guattari, Félix 27n, 228n Hamann, Richard 12, 200, 206, 213-214, 215n, 216 Hamsun, Knut 154 Hanslick, Eduard 45n, 105, 105n Hartmann, Nicolai 22, 135-138, 135-137n, 217-219, 217n Hauser, Arnold 107n Havelock, Eric Alfred 233n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 24n, 34, 136, 222-223, 222n, 235, 235n, 237-238, 237n 360

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Heisenberg, Werner 66, 83 Herbart, Johann Friedrich 105 Hildebrand, Adolf von 105 Hoag, John D. 83n Hoffmann, Josef 146, 151-153, 152n, 155, 159-162, 167; 19a, 19b, 20 Hofmann, Werner 145n Holbein, Hans 91 Hollanda, Francisco de 32n Holly, Michael Ann 109n Husserl, Edmund 35-36, 35n, 37, 37n, 39-49, 39n, 42-45n, 55-56, 58-60, 60n, 105-106, 106n, 194, 199-200 Illich, Ivan 92n Iversen, Margaret 20n Janik, Allan 152n Jones, Owen 29n, 169n, 231 Jullien, François 34n Jung, Carl Gustav 115 Kandinsky, Wassily 63, 143, 144n, 229-230 Kant, Immanuel 30, 30n, 44, 44n, 47, 47n, 49, 54-55, 55n, 66, 112, 191, 193-194, 193n, 196-203, 211-214, 244 Kitzinger, Ernst 33n Kemp, Wolfgang 157n Klee, Paul 168, 229 Klimt, Gustav 146, 152-153, 158, 160-162, 209; 26, 27, 28, 30 Klinger, Max 151, 209 Kokoschka, Oskar 230 Kraus, Karl 144n, 152n, 163n, 164, 232 Kristeva, Julia 139n 361

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Kroll, Frank-Lothar 144-145n Lamprecht, Karl 107, 107n Lasker-Schüler, Else 163n Layton, Robert 242n Le Corbusier (Charles-Edouard Jeanneret) 225-226, 225n Lehmbruck, Wilhelm 228 Leonardo da Vinci 92; 17 Leroi-Gourhan, André 26, 26n, 236, 236n, 239, 239n, 241 Lévi-Strauss, Claude 56, 59-60, 59n, 246, 247-248n, 248 Loos, Adolf 16, 146, 152n, 157, 163-173, 163-167n, 169n, 172-173n, 204n, 224-226, 228; 31, 32, 34, 35a, 35b, 36 Lotto, Lorenzo 91 Löw, Friedrich 135n Lukács, György 108, 144n, 165, 165n, 228 Mach, Ernst 105 Magritte, René 13 Malevi/, Kazimir 63, 152, 166, 166n Malraux, André 12, 206, 207n, 208 Mantegna, Andrea 91 Marc’Aurelio 119 Marc, Franz 229 Marx, Karl 204, 227 Marramao, Giacomo 235n Matisse, Henri 14, 25n, 62, 144n, 173, 175-189, 175n, 178n, 185n, 224, 235n, 246, 253; 37, 38 Maturana, Humberto 71 Mauss, Marcel 231, 231n Memling, Hans 91 Merleau-Ponty, Maurice 44n, 62-63, 62-63n, 125 Michelangiolo, Buonarroti 32, 32n, 38, 171, 176 Misler, Nicoletta 21n 362

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Mondrian, Piet 10, 63, 146, 153, 202; 18 Morin, Edgar 68-69n Montaigne, Michel de 243, 243n Morris, William 226 Moser, Koloman 151, 153, 155-156, 159-161, 167; 21, 22, 23 Nardoni, Pierluca 21n Nattier, Jean-Marc 207 Nietzsche, Friedrich 61, 61n, 169, 194n, 245 Nouvel, Jean 84; 7 Olbrich, Joseph-Maria 152, 167 Olin, Margaret 20n Palladio, Andrea 195n Panofsky, Erwin 101, 108-113, 109n, 111n, 113n, 115-117, 119, 122, 131, 150 Pasqualotto, Giangiorgio 34n Perniola, Mario 195n, 252n Piano, Renzo 245; 54 Picasso, Pablo 144n, 163, 230 Plutarco 252 Polignoto 111 Popper, Leo 22, 67, 68n, 144n, 228 Powell, Nicholas 152n Prigogine, Ilya 70n Quintiliano, Marco Fabio 195n Raffaello Sanzio 24n; 5a, 5b Rayssiguier (Fra’) 180 Rembrandt, Harmenszoon van Rijn 207 363

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Riegl, Alois 10, 19-20, 19n, 21n, 22, 28n, 30, 31n, 49, 8485n, 85, 97, 101-109, 102n, 104n, 109n, 113, 117-119, 126, 131-134, 133-134n, 142-151, 144-145n, 149n, 153, 156, 157n, 158, 166-167, 170-171, 201, 230, 230n, 253 Rimbaud, Arthur 177 Rogers, Richard 245; 54 Rossi, Aldo 164n Ruskin, John 29, 191, 225-226, 225-226n, 247 Russo, Luigi 204n Rykwert, Joseph 102n Sahl, Ibn’ Abdallah 89 Sartre, Jean-Paul 58 Scarcia, Gianroberto 83n Scarrocchia, Sandro 19n Schezen, Roberto 164n Schlosser Magnino, Julius von 25n, 43n, 104n, 195n Schönberg, Arnold 163n, 165n, 171, 172n Schneider, Pierre 178n, 180n Schopenhauer, Arthur 103n Schuon, Fritjof 83n Schrödinger, Erwin 66, 67n, 72 S/ukin, Serghej Ivanovic 177, 188 Sedlmayr, Hans 101, 108, 114-122, 114n, 126, 131, 150 Semper, Gottfried 10, 19, 101, 102n, 107, 107n, 167, 167n, 207n, 219, 230, 231n Sickel, Theodor von 104 Simmel, Georg 12, 202, 206, 208-213, 208n, 215 Sini, Carlo 234-235n Socrate 221, 232 Squicciarino, Nicola 102n, 107n Stengers, Isabelle 69-70n Stoclet, Adolf 159, 161-162; 30

Tafuri, Manfredo 156n, 164n, 173n Tatarkiewicz, Wladyslaw 204-205n Tériade, Emmanuel 181 Thausing, Moritz 104 Tiziano Vecellio 207 Toulmin, Stepehn 152n Trakl, Georg 163n Tzara, Tristan 163n Valéry, Paul 14, 62, 62n, 64, 64n, 219-221, 219-221n, 233n Van de Velde, Henri 157, 167, 244 Van Gogh, Vincent 154, 207, 230 Varela, Francisco 71 Varnedoe, Kirk 152n Velotti, Stefano 164n Veturio Mamurio 252 Viollet-le-Duc, Eugène 33n, 244 Vitruvio, Marco Pollione 195n, 243 Webern, Anton von 163n Weyl, Hermann 146-147, 147n Wichmann, Siegfried 154n Wickhoff, Franz 104, 104n Wittgenstein, Ludwig 61, 62n, 171 Wölfflin, Heinrich 32-33, 32-33n, 38, 107, 107n, 177, 201 Worringer, Wilhelm 28n, 116, 141, 141n, 144n

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Crediti iconografici delle tavole a colori Tavv. 5a e 5b: Archivio Jaca Book; tav. 9: Hadiye Cangökçe, Istanbul; tavv. 10 e 11: Archivio Jaca Book; tav. 13: © Tadao Ando; tavv. 15a e 15b: Archivio Jaca Book; tav. 16a: Archivio Jaca Book; tav. 18: © 2021 The Museum of Modern Art; tav. 24: Archivio Jaca Book; tav. 25: Lunwerg/Jaca Book; tav. 38: © Succession H. Matisse/Siae 2021; tav. 55: Courtesy Library of Congress, Washington D.C.

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Dal catalogo M. Andaloro, S. Romano (a cura di), Arte e iconografia a Roma. Da Costantino a Cola di Rienzo, 2000, ult. ed. 2018 I. Balestreri, L. Facchin (a cura di), Arte e cultura tra classicismo e lumi. Omaggio a Winckelmann, 2018 I. Bargna, Arte africana, 2003 X. Barral i Altet, Contro l’arte romanica? Saggio su un passato reinventato, 2009, ult. ed. 2019 —, Vetrate medievali in Europa, 2003 M. Baxandall, Giotto e gli umanisti, 1994, 2007, ult. ed. 2018 F. Bœspflug, Gesù fu veramente bambino? Un processo all’arte cristiana, 2020 —, Il giorno di Pasqua nell’arte, 2021 F. Bœspflug, R. Cassanelli, J. Sureda, J.-L. Cohen, T. Velmans, C. Tiberi, Le grandi stagioni dell’arte antica e medievale, 2020 F. Bœspflug, C. Cossu, E. Fogliadini, A. Toni, Spazio sacro e iconografia. Limiti, sfide, responsabilità, 2020 F. Bœspflug, E. Fogliadini, La Risurrezione di Cristo nell’arte d’Oriente e d’Occidente, 2019 —, La Natività di Cristo nell’arte d’Oriente e d’Occidente, 2016 —, La fuga in Egitto nell’arte d’Oriente e d’Occidente, 2017 —, Il Natale nell’arte, 2020 P. Boucheron, Scongiurare la paura. La forza politica delle immagini, 2018 C. Brandi, Tra Medioevo e Rinascimento. Scritti sull’arte da Giotto a Jacopo della Quercia, a cura di M. Andaloro, 2006 L. Bressan, Maria nella devozione e nella pittura dell’Islam, 2011 M. Clayton, Leonardo. Il genio nei disegni, 2019 N. Dacos, Le logge di Raffaello, 2208, ult. ed. 2020 —, Artisti stranieri a Roma nel ’500. Il decoro di palazzo Ricci-Sacchetti, 2016 C. De Bernardi, L. Fumagalli, Maciachini. Un positivista eclettico, 2019 M. Della Valle, Costantinopoli e il suo Impero. Arte, architettura, urbanistica nel millennio bizantino, 2007, ult. ed. 2017 E. Fogliadini, Il volto di Cristo. Gli Acheropiti del Salvatore nella tradizione dell’Oriente cristiano, 2011

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—, L’immagine negata. Il concilio di Hieria e la formalizzazione ecclesiale dell’iconoclasmo, 2013 —, L’invenzione dell’immagine sacra. La legittimazione ecclesiale dell’icona al secondo concilio di Nicea, 2015 C.L. Frommel, Raffaello. Le stanze, 2017, ult. ed. 2020 A. Grabar, Le vie dell’iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, 1983, 2011 (nuova ed. a cura di M. Della Valle), ult. ed. 2015 —, Le origini dell’estetica medievale, 2001, ult. ed. 2011 G. Ladner, Il simbolismo paleocristiano. Dio, Cosmo, Uomo, 2008 S. Langé, L’eredità romanica. La casa europea in pietra, 1989, ult. ed. 2020 T. Mathews, Scontro di dei. Una reinterpretazione dell’arte paleocristiana, 2005, ult. ed. 2018 M.-J. Mondzain, Immagine, icona, economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo, 2006 B.V. Pentcheva, Icone e potere. La Madre di Dio a Bisanzio, 2010, ult. ed. 2018 A. Pergoli Campanelli, La nascita del restauro. Dall’antichità all’Alto Medioevo, 2015 H.W. Pfeiffer s.j., La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro, 2010 P. Piva (a cura di), L’arte medievale nel contesto (3001300). Funzioni, iconografia, tecniche, 2006, ult. ed 2019 —, (a cura di), Pittura murale del Medioevo lombardo. Ricerche iconografiche (secoli xi-xiii), 2006, ult. ed. 2019 Procopio di Cesarea, Santa Sofia di Costantinopoli. Un tempio di luce (De Aedificiis i 1,1-78), a cura di P. Cesaretti e M.L. Fobelli, 2011 M. Sartor, Arte latinoamericana contemporanea dal 1825 ai giorni nostri, 2003 G. Sauron, Il grande affresco della villa dei Misteri a Pompei, 2010 —, Augusto e Virgilio. La rivoluzione artistica dell’Occidente e l’Ara Pacis, 2013 —, La storia vegetalizzata. Il duplice messaggio dell’Ara Pacis, 2018 F. Scirea, Pittura ornamentale del Medioevo lombardo. Atlante (secoli viii-xiii), 2012 J. Shearman, Arte e spettatore nel Rinascimento italiano. «Only connect…», 1995, ult. ed. 2021 F. Sricchia Santoro, L’arte del Cinquecento in Italia e in Europa, 1998

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F. Tamisari, F. Di Blasio (a cura di), La sfida dell’arte indigena australiana, 2007 S.B. Tosatti, Trattati medievali di tecniche artistiche, 2007, ult. ed. 2009 M. Toti, La preghiera e l’immagine. L’esicasmo tardobizantino (xiii-xiv secolo): temi antropologici, storico-comparativi e simbolici, 2012 H. Toubert, Un’arte orientata. Riforma gregoriana e iconografia, 2001 L. Uspenskij, V. Losskij, Il senso delle icone, 2007 T. Velmans, La visione dell’invisibile. L’immagine bizantina o la trasfigurazione del reale, 2009 T. Villata (a cura di), L’arte rinascimentale nel contesto, 2015, ult. ed. 2020

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