BUDDHIST ART

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Gilles Béguin

L’ARTE BUDDHISTA UN ATLANTE STORICO


Indice

© internazionale, 2009 Editoriale Jaca Book S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana settembre 2009 Traduzione dal francese di: Guendalina Carbonelli (Campa, Vrivijaya, Thailandia, Myanmar, Gandhara, Tarim, Nepal, Tibet e Mongolia, Corea); Paolo Villani (Prefazione, Dottrina, Buddhismo e arte, India, Espansione del buddhismo in Asia, Vri Lanka, Giava, Impero Khmer, Cina, Giappone) In copertina: Buddha in piedi bronzo dorato, metà viii - metà ix secolo Anuradhapura Archaeological Museum Retro di copertina: Mapdala di Vasudhara, 1367 Collezione privata

Prefazione p. 7

Myanmar (Birmania) p. 191

La dottrina p. 9

e l’Asia centroccidentale

Il buddhismo e l’arte p. 27 India p. 63 L’espansione del buddhismo in Asia p. 107 Vri Lanka p. 111 Giava p. 127 L’impero khmer p. 145 Il regno del Campa p. 165

ISBN 978-88-16-60419-3 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book S.p.A., Servizio Lettori, via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520-29; fax 02 48193361; e-mail serviziolettori@jacabook.it; sito internet: www.jacabook.it

Il Gandhara p. 205

Il bacino del Tarim p. 227 Nepal p. 247 Tibet e Mongolia p. 257 Cina p. 279 Corea p. 333 Giappone p. 349

Vrivijaya p. 169

Bibliografia di orientamento p. 388

Thailandia p. 173

Indice dei nomi p. 406


PREFAZIONE

In ricordo di Tobie Loup de Viane

Il buddhismo è la più antica religione missionaria. Solo fattore di unità del continente asiatico, esso ha ispirato una produzione artistica di grande spiritualità, un campo del patrimonio universale i cui confini non sono semplici da tracciare. Può pertanto apparire presuntuoso volerne fornire una visione panoramica in un’unica opera. L’assenza di dogmi unificanti, l’estrema varietà e l’eterogeneità di numerose tradizioni a seconda del paese, lo stato di conservazione assai poco omogeneo dei monumenti e delle loro decorazioni, il proliferare della bibliografia ne rendono particolarmente complesso lo studio e ardua la sintesi. Sono molti anni che abbiamo tuttavia raccolto la sfida, su richiesta di Adam Biro, e in seguito di Sante Bagnoli, e pensiamo, paradossalmente, che l’unità concettuale assicurata da un unico autore costituisca, nel caso di un argomento a tal punto multiforme e di difficile approccio, un vantaggio indiscutibile. L’immensità del tema ci ha nondimeno costretto a cesure e semplificazioni inevitabili. Quest’opera non è quindi destinata agli specialisti, sempre avidi di informazioni inedite, ma è volta a soddisfare la curiosità intellettuale di persone colte, fornendo loro una introduzione chiara e agevole dalla quale possano trarre ispirazione per eventuali studi più avanzati. È in tale prospettiva che si è preferito un taglio geografico, dal disegno più esplicito, a un approccio per grandi temi, che soddisferebbe maggiormente il lettore ma esigerebbe da lui solide basi storiche e familiarità con i grandi siti archeologici e le grandi scuole artistiche. Fa da ausilio a questo scopo didascalico la presenza di una copiosa iconografia, ad oggi la più abbondante che sia stata raccolta in un’unica opera sul tema, e di numerosi disegni e cartine. Abbiamo comunque posto al principio del vol-

ume due capitoli che affrontano in modo sintetico l’evoluzione della dottrina buddhista e i suoi rapporti con l’arte, in modo da stemperare lo spirito poco sistematico degli altri capitoli. In maniera simile, pur trattando un arco cronologico più ampio rispetto alla maggior parte delle opere analoghe, abbiamo ignorato, per ciascuna area culturale, il periodo più tardo, meno interessante e originale. Presso il grande pubblico, gli orientalisti hanno fama di parlare in gergo. Al fine di rendere estremamente chiaro il mio discorso ho volontariamente escluso tutti i termini tecnici, in campo iconografico soprattutto. Il lettore desideroso di approfondimenti troverà facilmente nell’indice i termini specialistici. Per dare uniformità all’opera abbiamo preferito la terminologia sanscrita a ogni altra. La bibliografia è una semplice lista di opere di carattere orientativo ed è pertanto inevitabilmente lacunosa. Ma l’alto numero di lavori citati fornisce comunque per la maggioranza dei temi trattati uno o due titoli utili ad agganciarsi a una ricerca più articolata. Ci assumiamo la responsabilità di tutte queste incompletezze e di tali limiti. La stesura di quest’opera, scritta parallelamente ad altri lavori, ci ha impegnato per una decina d’anni, durante i quali abbiamo profittato dell’aiuto e del sostegno di Annie Desvachez, che ha apportato delicate riformulazioni del nostro manoscritto tanto a lungo in gestazione, di Laurence Goldstenne, che ha lavorato impeccabilmente alla rilettura, di Charlotte Lanciot, che ha contribuito alle illustrazioni, e di Jacqueline Germain e Nathalie Fremaux, che hanno dato alla bibliografia la forma finale. Esprimiamo la nostra gratitudine anche a tutti coloro i quali, con grande generosità, hanno permesso la riproduzione delle proprie fotografie.

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LA DOTTRINA

Il buddhismo antico

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1. Monaco in meditazione, dipinto su impasto di argilla e paglia (torchis), 500 circa. Berlino, Staatliche Museum für Indische Kunst (provenienza: grotta del Navigatore, Qyzyl, Xinjiang, Cina).

Il buddhismo nasce in India in una temperie spirituale particolare. Il vi secolo a.C. è infatti caratterizzato da una parziale disaffezione per la religione vedica, considerata in quel periodo troppo ritualista e priva di interesse nei confronti delle esigenze individuali di assoluto. Attirano attenzione speculazioni filosofiche concernenti, fra altri temi, la natura dell’Essere (Brahman) e dei suoi rapporti con un principio spirituale (atman) proprio ad ogni individuo. L’elaborazione delle Upanisad, redatte parecchi secoli dopo, testimonia queste nuove preoccupazioni. Altri elementi estranei alla cultura vedica, quali la credenza nella metempsicosi e la fiducia nelle tecniche psicogimniche dello yoga, irrompono nella vita religiosa. Essa non è più incentrata sul sacrificio ma sulla salvezza personale. Un intenso attivismo religioso prende piede in parte degli ambienti sacerdotali dei brahmani, ma anche fra membri di altre caste. Cultori della rinuncia alle vanità mondane e predicatori di ogni sorta, dalle appartenenze dottrinali più disparate, si diffondono nel nord dell’India. Sarà da tale effervescenza che emergeranno le due grandi eresie destinate a divenire religioni del tutto a sé stanti: il jainismo e, poco più tardi, il buddhismo. Solo quest’ultimo, a causa di una grande flessibilità dogmatica, saprà uscire dal quadro limitato del sub-continente indiano per diffondersi in tutta l’Asia. Oggi nulla nega la storicità del suo fondatore, chiamato il Buddha (il «Risvegliato«) o Vakyamuni (il «Saggio [del clan] degli Vakya«). Egli visse dal 566 al 486 a.C., con un margine di qualche anno di differenza a seconda degli autori. Malgrado l’assenza di dogmi codificati, tutte le scuole buddhiste pongono al centro dei propri insegnamenti le quattro «nobili verità« (aryasatya) predicate in origine dal Buddha nel parco delle Gazzelle di Sarnath, presso Benares, poco

dopo il suo Risveglio. La prima verità è la constatazione della esistenza del dolore (dukka), inerente la condizione umana e la natura transitoria (anicca) dell’universo, privo di essenza. In un secondo momento è opportuno rintracciare l’origine di tale dolore, che è tanto la sete di piacere e di esistenza quanto il desiderio di inesistenza. La terza verità riguarda l’estensione di questa sete di esistenza. Come quarto e ultimo momento il Buddha indica il cammino che conduce alla estinzione del dolore grazie a otto mezzi corretti (atangamarga). Attraverso il rifiuto della vita mondana e l’osservanza di una disciplina severa ma esente da eccessi ascetici, l’individuo acquisirà consapevolezza della inanità del proprio Io, una illusione composta da «aggregati« (skandha), sorta di gruppi di elementi psicofisici che nascono e spariscono in ogni istante, in moto perpetuo all’interno di un concatenamento causale ineluttabile (pratityasamutpada), fonte di reincarnazioni senza fine. Secondo le prime scuole buddhiste a noi note tramite testi pali, questi skandha sono di cinque tipi: corporeità, sensazione, costruzione psichica, volizione e conoscenza. Anche le cose che compongono il mondo sensibile sono prive di per sé di esistenza ed egualmente costituite di «aggregati«. Questo messaggio fondamentale, di grande semplicità, mette in un colpo solo da parte le domande alle quali in genere le altre religioni cercano di dare risposta, quali l’esistenza dell’Essere o le molteplici questioni riguardanti la cosmogonia e la metafisica. Il ricco retaggio culturale dell’India antica, che il buddhismo porterà con sé durante tutta la propria storia e che include intere porzioni della antica religione brahmanica, non arriverà mai a occultare le fondamenta della dottrina. Le pratiche culturali di vari popoli e gruppi sociali, la moltitudine di divinità di svariato tipo, finanche i geni della natura dei culti agrari primitivi, trovano posto nella ricca mitologia buddhista. Queste divinità tuttavia non possono avere accesso alla

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massima trascendenza. Malgrado il loro potere soprannaturale nel dominio dell’universo delle apparenze, esse sono sottomesse al turbine della trasmigrazione. L’annientamento delle passioni e degli errori libera dall’universo fenomenico, in continuo divenire e fonte di dolore. Ma il mondo, le sue preoccupazioni sociali e superficiali non permettono la presa di coscienza della inanità dell’Io. Solo una scelta di rinuncia in seno a una congregazione monastica offre un ambiente adeguato a tale processo. Gli «uditori« (vravaka) che, abbandonato il proprio ruolo nella società, seguirono Vakyamuni nella sua esistenza errante, prefigurano una immensa corrente monastica ancora viva nel xx secolo. La comunità di discepoli si era formata in maniera spontanea attorno alla figura del Maestro. Una volta scomparso il Buddha, il suo messaggio rischiava di venire modificato se non addirittura perso. Secondo la tradizione, un anno dopo la sua «Estinzione del soffio« (parinirvapa), si tenne a Rajagrha, l’odierna Rajgir in Bihar nell’India settentrionale, un primo concilio. La dottrina di questo buddhismo primitivo si organizzò sulla base di tre grandi temi che costituiscono il Tripitaka (Triplice canestro), composto da insegnamenti riguardanti la disciplina monastica (vinaya) descritta in trattati (kandala), da sermoni (sutra) attribuiti al Buddha sotto forma di collezioni (nikaya) e di dialoghi, e infine da commentari sulla dottrina (abhidharma). La natura orale di questi insegnamenti spiega la loro forma ritmata e le numerose ripetizioni destinate a favorire la memorizzazione. Queste particolarità verranno conservate al momento della loro redazione, posteriore di molti secoli. Fin dall’epoca più remota, la neonata fede circonda di speciale attenzione tre gioielli (triratna): il Buddha, la Legge (dharma), costituita dalla dottrina e dalle regole della disciplina monastica, e la Comunità dei monaci (sangha). La «Presa di rifugio« (varapagamana) nel triplice tesoro costituisce la fase essenziale della ordinazione di un monaco. Un secondo concilio si sarebbe tenuto verso il 375 a Vaivali, concilio considerato da alcuni leggendario: vi si sarebbe affrontato il problema della disciplina. L’allargamento della comunità e l’assenza di dogmi comportarono come è ovvio l’emergere di numerose correnti di interpretazione, che sfociarono in alcune contraddizioni fonte di polemiche, che i filosofi risolveranno tramite artifici logici. Gli strati originali della filosofia buddhista, quali essi appaiono nei sutta, sono redatti in pali, antica

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lingua volgare dell’India. Si tratta di testi concepiti prima dei sutra sanscriti e presentano una forte inclinazione verso il razionalismo e le classificazioni, una tendenza rigorosamente logica non unica nell’India antica, bensì condivisa con altre correnti religiose quali il jainismo. Essa resterà una caratteristica del buddhismo theravada. I teorici concentrano la propria attenzione in particolare su cinque campi: gli «aggregati«, la retribuzione «automatica«, la lotta contro le passioni, il Risveglio e la «disciplina monastica«. Così la tesi degli «aggregati« ha dato luogo a molteplici distinguo. Lo stesso può dirsi della retribuzione «automatica« degli atti, che condusse alla loro ripartizione in atti buoni (kuvala) o malvagi (akuvala), realizzati tramite una volizione (cetana) necessaria alla loro traccia nei meccanismi psichici del loro autore e aventi effetto sul destino di costui. La dottrina morale, scaturita da tali ragionamenti, richiede una attitudine corretta (vila) tramite l’astensione da colpe del corpo (uccisione di esseri viventi, furto e lussuria) e della voce (menzogna, maldicenza e ingiuria); ma i più gravi sono i peccati del pensiero. Si metteranno così in primo piano tre passioni fondamentali, le «radici del Male« (akuvalamula), che sono: il desiderio, che porta il soggetto verso l’oggetto; l’odio, che allontana il soggetto dall’oggetto; e l’errore, che pone il soggetto di fronte a un oggetto non conforme alla realtà. Un terzo campo della letteratura pali riguarda la lotta contro le passioni, da attuare tramite la visione (darvana) dell’errore, la meditazione (dhyana), il raccoglimento (samapatti) e la concentrazione (samadhi). I testi più antichi sottolineano l’importanza della meditazione e citano per metterla in atto numerose tecniche, alcune delle quali influenzate dallo yoga. La concentrazione, vicina alla assenza di distrazioni e alla tranquillità mentale, ma da esse distinta, esige la fissazione del pensiero su di un punto. Attraverso la ripetizione di questa pratica, lo spirito di chi medita perde poco a poco la propria attività naturale e diventa sempre più «chiaro«. Altre teorie concernono il Risveglio. Si distingue fra differenti stadi di santità. Al quarto stadio, il «meritevole« (arhat) evade dal ciclo della trasmigrazione e diviene tramite della propria salvezza. Al nono stadio, a causa della dissoluzione della coscienza e delle sensazioni, le passioni vengono distrutte e il devoto raggiunge il Risveglio, il «nirvapa in questo mondo« (alla lettera «Estinzione del soffio«). La tradizione afferma che la pratica della concentrazione per-

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2. Attività monastiche. a. Monaci che accolgono un superiore; b. Monaci che studiano sotto la guida di un maestro; c. Presentazione di un novizio al suo maestro; d. Salmodia di sutra; e. Pasto di mezzogiorno in un monastero; f. Culto reso a tre statue di Manusi Buddha. Inchiostro su carta, xix secolo. Londra, The British Museum (provenienza: Cina).

mette di ottenere sei poteri spirituali (abhijna) miracolosi, fra i quali il ricordo delle esistenze precedenti. La saggezza (prajna) è necessaria al «Risveglio completo« (sambodhi) che è la caratteristica del Buddha. Essa consiste in una visione chiara e precisa dei quattro caratteri generali delle cose: l’impermanenza, il dolore, l’impersonalità dei dharma e l’esperienza del nirvapa. Questo stato supremo non è un annientamento, bensì uno «stato di assenza« che non si può descrivere se non indirettamente per mezzo di negazioni e mai con degli attributi. La «disciplina monastica« (vinaya) costituisce infine l’ultimo grande tema affrontato. La letteratura del buddhismo antico serve da fondamenta in questo campo fino ai nostri giorni,

nonostante i molteplici adattamenti della vita monastica ad ambienti e a contesti sociali molto vari. Alcune di queste peculiarità hanno origine già all’epoca del Buddha. La comunità è aperta a tutti. Diversamente da quella dei brahmani induisti, essa non costituisce una classe socialmente distinta. Dopo qualche tentennamento, le donne otterranno del resto anche esse la possibilità di costituire dei conventi, con regole di vita monastica ancora più rigorose di quelle richieste ai loro omologhi maschili. Il novizio, dopo avere ricevuto gli insegnamenti religiosi, proclamerà i propri voti. Questa cerimonia è oggi sistematicamente raddoppiata. Si distingue infatti fra l’uscita dal mondo (pravrajya) che si può compiere una volta compiuti gli otto anni di età, e l’ordinazione propriamente detta, minuziosamente descritta nelle Karnavacana. Il nuovo monaco veste da allora un abito giallo o rossastro, del colore dei sudari dell’India antica. Egli non possiede beni propri. Ha a disposizione tre vesti: una intima (antaravasaka), e una da indossare sopra (uttarasapga) alla quale è aggiunto un mantello (sakghati). Possiede una ciotola per mendicare il cibo del suo unico pasto quotidiano, un ventaglio, e un sistro per annunciare il proprio arrivo agli abitanti dei villaggi. I numerosi dettagli che scandiscono la giornata, sia per l’impiego del tempo, il cibo e l’igiene, sia per le regole di compostezza sono codificati con cura. Colpe gravi quali il furto, l’omicidio, la fornicazione e l’usurpazione delle perfezioni spirituali comportano l’immediato allontanamento dalla congregazione. In concomitanza con la luna piena e la luna nuova, i membri di una stessa comunità celebrano assieme un giorno di osservanza (uposatha) che comprende la recitazione pubblica della regola monastica (pratimoksa) e la confessione delle proprie colpe alla presenza di tutti. Le donazioni fatte al Buddha da parte del re Bimbisara, ossia il parco dei Bambù a Rajagrha, e da parte del mercante Anathapipdada del Jetavana (bosco [del principe] Jeta), giustificano il possesso da parte della comunità di valori fra i quali i beni immobiliari. Il principio del dono di oro, argento e proprietà fondiaria venne adottato dal concilio di Vaivali. Le prime comunità itineranti non potevano di fatto resistere senza un riparo. L’istituzione di asili fissi, imitazione del Jevatana, resi necessari dai periodi monsonici, occasioni di ritiro spirituale, fu all’origine dello straordinario sviluppo della architettura religiosa. La fine della stagione delle piog-

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ge è segnata, ancora ai nostri giorni, dalla festa detta pravarapa, durante la quale si è soliti presentare dei doni ai monaci. Nonostante le tenebre che avvolgono la storia del lento sviluppo della comunità, sembra che durante il primo secolo dopo la morte del Maestro, il buddhismo abbia messo piede, a partire dal bacino centrale del Gange, nella regione di Mathura a ovest e nel nord-est del Dekkan. L’assenza di dogmi fissi e di pontificato unico e incontestato innescherà la moltiplicazione delle tradizioni orali, che poco a poco daranno vita a correnti di pensiero. Polemiche sulla esegesi e rivalità fra maestri porteranno a dei veri e propri scismi, dando luogo a scuole (vada) autonome, che secondo la tradizione sarebbero giunte al numero di diciotto, e a sette (nikaya) alcune delle quali, menzionate nei testi antichi, sono scomparse senza lasciare traccia. La cesura più radicale avviene nel iv secolo a.C., poco dopo il concilio di Vaivali. Un monaco di nome Mahadeva, originario di Pataliputra, capitale del Magadha, all’epoca il più potente regno dell’India settentrionale, formulò cinque proposizioni riguardanti la natura di arhat. Ne scaturì una disputa dalla quale presero vita le due maggiori correnti del buddhismo antico: gli Sthavira e i Mahasakghika. Gli Sthavira, fedeli alla tradizione originale, si suddivisero in varie ramificazioni. Una di esse, il Theravada («Dottrina degli Antichi«), originaria dello Vri Lanka, dopo diverse scissioni interne, venne riunificata verso il 1160 dal re di Ceylon Parakramabahu i (1153-1186). I Mahasakghika invece accettarono le cinque proposizioni di Mahadeva. La loro tradizione stabilì una distinzione fra le cose del mondo (laukika), prive di esistenza in quanto scaturite dagli atti e dall’errore, e le cose «sopramondane« (lokottara), le sole veramente esistenti. È all’interno di tale ramo dottrinario che alcune nuove speculazioni riguardanti la natura dei buddha e dei bodhisattva preparano il terreno per l’emergere del «Grande Veicolo« (Mahayana). La nozione di «bodhisattva« (essere destinato al Risveglio), stato dei futuri buddha prima della loro Illuminazione, inizia in effetti a occupare un posto vieppiù importante all’interno delle teorie religiose. I Mahasakghika daranno vita a loro volta ai Lokottaravadin, che saranno particolarmente attivi in Afghanistan nel vii secolo. A loro volta anche gli Sthavira conosceranno una serie di scissioni. La più importante sfocerà nella creazione della scuola dei Sarvastivadin, nel iii secolo a.C. Nell’India settentrio-

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nale questa corrente ha messo radici soprattutto nel Kashmir e poi oltre, in Asia centrale. È attestata in Indonesia. L’insegnamento dei Sarvastivadin, specializzato negli studi di scolastica, si poggia su immensi commentari, l’Abhidharma, parte dei quali ci è giunta attraverso traduzioni cinesi. Dai Sarvastivadin nasceranno, fra altre correnti di pensiero secondarie, i Mulasarvastivadin, il cui canone è stato in parte conservato a Gilgit e in Tibet. Queste numerose scissioni, nate dalla volontà di razionalizzare la dottrina, sono i sintomi della espansione sempre maggiore della nuova religione in tutta l’India del nord. La conversione dell’imperatore Avoka (271-235 a.C. circa) della dinastia dei Maurya rappresenta un evento di capitale importanza nella storia del buddhismo. La comunità, forte del sostegno politico del sovrano, si sviluppò in maniera spettacolare. Essa si diffonderà nell’India meridionale dove resisterà più secoli dopo la sua scomparsa nel nord. Ci sono testi che danno conto dell’invio a Ceylon, nell’Asia centrale ellenizzata e in Nepal, di predicatori con reliquie. La conversione e l’azione apologetica di Avoka, esaltata nella tradizione, servirono da modello per i futuri rapporti che il buddhismo stabilì con il potere politico. Nella maggior parte dei paesi asiatici, la protezione di una corte dinastica costituirà un elemento indispensabile alla diffusione della dottrina, spesso favorendo nel contempo i membri della comunità con statuti amministrativi privilegiati. L’eventuale perdita di sostegno da parte delle autorità comporterà, al contrario, un considerevole indebolimento del buddhismo, talora fino alla pura e semplice scomparsa. Le missioni inviate dall’imperatore esaltano il carattere universale della nuova religione che, in maniera opposta rispetto all’induismo, si rivolge a tutti senza distinzione di razza o di nazionalità. Così il buddhismo si estende mano a mano in numerosi paesi dell’Asia. Quest’epoca vede anche la redazione delle tradizioni orali che costituiscono il Tripitaka. L’elaborazione di testi sacri e di loro innumerevoli commentari proseguirà per secoli. Il buddhismo antico, per merito delle correnti più svariate, fu attivo nell’Asia tanto settentrionale che meridionale. Paradossalmente esso non giunse fino in Cina. Saranno scuole più innovatrici infatti, secoli dopo, a raggiungere l’Estremo Oriente. Di tutti i movimenti del buddhismo antico l’unico a sopravvivere è il Theravada, attivo in Vri Lanka, in Birmania, in Thailandia, nel Laos e in Cambogia.

Il «Grande Veicolo« (Mahayana)

3. Il bodhisattva Maitreya, bronzo dorato, Dinastia dei Pallava, viii-ix secolo. Chennai (Madras), Government Museum (provenienza: India meridionale).

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Poco a poco vengono alla luce nuove tendenze. La loro origine resta oscura e controversa. Sembra che alcune comunità Mahasakghika del sud dell’India abbiano giocato un ruolo determinante in tale gestazione. È tuttavia nell’India settentrionale, all’epoca della dinastia kusapa (i-iii secolo), che la nuova scuola si sviluppa appieno. Analogamente al caso di Avoka, che avrebbe riunito, secondo la tradizione theravadin, un concilio a Pataliputra, riconosciuto come il terzo concilio buddhista dei devoti del buddhismo antico, la tradizione ascrive a Kaniska i (78 o 120), il più importante sovrano dei kusapa, l’iniziativa di un consiglio in Kashmir nel quale trionfarono gli insegnamenti innovatori. La nuova scuola proclama di essere il «Grande Veicolo« (Mahayana), nel senso di Strada Maestra che conduce al Risveglio e denigra le correnti precedenti qualificandole, in accezione peggiorativa, come «Piccolo Veicolo« (Hinayana). Essa ha la pretesa di rappresentare il pensiero profondo del Buddha Vakyamuni, comunicato ad alcuni discepoli privilegiati in occasione di prediche particolari tenute, ad esempio, sul picco dell’Avvoltoio, presso Rajagrha, e considera la dottrina antica alla stregua di insegnamenti preparatori. La nuova scuola sviluppa le speculazioni dei Mahasakghika, ma fa riferimento anche ad alcune opere dei Sarvastivadin. Il Mahayana è fonte nel corso del tempo di una enorme letteratura, in grande parte conservatasi, sia in sanscrito, lingua classica del nord dell’India, sia in traduzioni cinesi o tibetane. Si tratta di una letteratura ripartita in due tipi principali di testi: sutra, esposizioni originali, e vastra, commentari. Le prescrizioni che regolano la vita religiosa, sviluppate a lungo nella tradizione pali, occupano in questa letteratura una posizione secondaria. Tre sono i temi particolarmente sviluppati dal Mahayana: l’ideale di bodhisattva, la natura di Buddha e la vacuità. Il primo riguarda dunque l’ideale di bodhisattva. Il buddhismo antico predica come fine del monaco il raggiungimento della condizione di arhat. Il «meritevole« cerca di entrare nel nirvapa attraverso il rifiuto del mondo. Questa lunga ricerca personale porta a una liberazione totale dal doloroso ciclo della trasmigrazione in un assoluto irreversibile. Solo i religiosi possono aspirare a un simile ideale. Ma a differenza degli «uditori« (vravaka), che ascoltarono i sermoni del Buddha in persona e poterono ottenere il Risveglio in una unica vita,

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agli arhat è necessaria una infinità di esistenze virtuose per liberarsi dalla catena causale. I devoti o le devote (upasika) laici accompagnano con doni coloro che rinunciano al mondo, accumulando in questo modo dei meriti che permetteranno loro di ottenere in futuro una condizione di vita migliore. L’ideale del Mahayana è diverso. Esso fornisce ai chierici come ai laici il modello della condizione di bodhisattva. Il buddhismo antico già conosceva questa condizione particolare condivisa da Vakyamuni prima del Risveglio e da Maitreya, il Buddha del prossimo periodo cosmico. Ma secondo il Mahayana i bodhisattva sono degli esseri spirituali che, sospinti alla soglia del nirvapa dalla innumerevole quantità di meriti accumulati nelle loro vite precedenti durante l’arco di parecchi periodi cosmici (kalpa), non possono regredire all’interno del ciclo delle esistenze. Questa lunga ricerca consta di dieci tappe, che i testi chiamano «Terre« (bhumi), spiegate nel Davabhumika sutra (Sutra delle dieci Terre). Presi da compassione (karupa) per l’assieme delle creature sofferenti i bodhisattva fanno voto di non ottenere il Risveglio supremo finché esisterà un solo essere da salvare. I loro poteri soprannaturali, inerenti la loro natura spirituale, gli permettono d’intervenire nel mondo fenomenico. Le loro dieci perfezioni (paramita) sono dei modelli per i fedeli. Esse si trovano elencate da alcuni testi che menzionano la carità, la moralità, la pazienza, l’energia, la meditazione, la saggezza, l’abilità nei mezzi, la fedeltà al voto, la forza e la conoscenza. I bodhisattva sono oggetto di devozione e posseggono la capacità di proteggere i propri fedeli. Tale legame personale che essi intrattengono con i devoti non è privo di rapporti con il concetto induista di bhakti, amore reciproco fra la divinità e il suo seguace, una nozione che prende forma anch’essa agli inizi della nostra era. Se il numero dei bodhisattva è smisurato, ben poche di queste entità possiedono nei testi una vera e propria personalità. Nondimeno il loro assieme andrà crescendo ininterrottamente in proporzione con lo sviluppo della letteratura religiosa. Molte scuole del Mahayana riconoscono otto bodhisattva principali, elencati in una lista con possibili varianti. Il più spesso enfatizzato è Maitreya (il «benevolente«), il quale attende nel cielo dei Tusita il momento propizio per la propria ultima reincarnazione, che porterà nel mondo fenomenico una sorta di età dell’oro. Avalokitevvara («colui il quale osserva dall’alto in basso [con compassione]«) salva da dieci

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pericoli, come descritto nel Saddharmapupdarika sutra (Sutra del Loto della Buona Legge). A seconda delle versioni, i pericoli più frequentemente menzionati sono il fuoco, l’annegamento, l’andare alla deriva sull’oceano, l’omicidio, gli attacchi da parte di demoni, le punture di insetti e i morsi di serpenti, gli animali selvatici, l’imprigionamento ingiusto, i banditi, le cadute nei precipizi. Manjuvri («colui dall’affascinante bellezza«), anche chiamato Manjughova («colui dalla voce soave«), è considerato il bodhisattva della conoscenza, il patrono degli eruditi, dei grammatici e dei maestri che insegnano la dottrina. In Cina, a partire dal vii secolo si stima, gli verrà consacrato il Wutaishan («monte dalle cinque cime«), che rimarrà un attivo centro di pellegrinaggio. Il gruppo dei bodhisattva com-

4. Avalokitevvara «Salvatore da tutti i pericoli«, colori su seta, seconda metà x secolo, Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, Cina).

5. Il bodhisattva Samantabhadra, frontespizio di un Kanfugen bosatsukyo, oro e argento su carta blu, prima metà del xii secolo, Washington, The Freer Gallery of Art (provenienza: Giappone). 6. Avalokitevvara fra due dee del rango di bodhisattava, prima metà vi secolo, India, Kanheri, grotta n. 90 (muro di destra).

prende anche Vajrapapi (il «portatore di vajra«). Esaminando le immagini è possibile seguire la straordinaria carriera di questo assistente del Buddha, rappresentato sui bassorilievi del Gandhara con tratti da atleta talvolta barbuto, spesso coperto con le spoglie di un leone alla maniera di Ercole e con in mano un fulmine (vajra) stilizzato. Questo personaggio, incluso nel novero dei bodhisattva, sotto una forma sublimata diverrà una delle divinità più importanti del buddhismo esoterico. Il suo attributo, nel contempo «fulmine« e «diamante« sarà oggetto di rilevanti speculazioni. Ksitigarbha («che ha la Terra per matrice«) beneficerà di un fervente culto in Cina, sotto il nome Dizang, a partire dall’epoca dei Tang (618-907). In Estremo Oriente, da allora fu noto per la sua intercessione, presso il tribunale dei morti, volta ad alleggerire la sentenza dei dieci re giudici degli Inferi. Samantabhadra (l’«augurante«) favorisce la ricerca del Risveglio. Si attribuisce a lui uno dei testi fondamentali del Mahayana, il Saddharmapupdarika sutra, predicato agli esseri «del tempo finale«. È al suo seguito che ottiene il Risveglio il giovane principe Sudhana, eroe del Gapdavyuha sutra, uno dei testi che costituiscono il Buddhavataksaka sutra (Ghirlanda dei Buddha). La maggioranza dei testi aggiunge altri due personaggi al gruppo dei bodhisattva: Mahasthamaprapta («colui che ha ottenuto una grande potenza«) e Sarvanivarapaviskambhim («colui che si oppone a tutti gli ostacoli«). Lo sviluppo delle speculazioni concernenti i bodhisattva comporta come corollario il diffondersi della devozione cultuale accessibile ai laici che, per mezzo di preghiere e offerte, possono trovare un aiuto per la propria vita quotidiana e un sostegno spirituale. La venerazione accordata ai bodhisattva, esseri immateriali che a causa del proprio grado di santità non dovrebbero essere sessuati, prende una direzione inattesa. Prende piede poco a poco, in maniera paradossale, il culto di dee elevate al rango di bodhisattva. L’origine di questa tendenza è oscura. Essa parrebbe propria del buddhismo, in quanto nell’iconografia di queste divinità femminili nulla ricorda le numerose dee dell’induismo, ed essa sembrerebbe relativamente tarda dal momento che nessun passo dei grandi sutra del Mahayana vi fa allusione. La rappresentazione più antica, databile alla prima metà del vi secolo, si trova nella grotta n. 90 di Kanheri nel Maharastra [fig. 6]. Tara (la «Salvatrice«) sarà così considerata l’equivalente femminile di Avalokitevvara e diverrà oggetto

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di una importante devozione cultuale. Altre dee sono delle astrazioni personificate, come nel caso di Prajnaparamita, personificazione del Prajnaparamita sutra, o di Pancaraksa, personificazione di cinque formule scaramantiche «portatrici« (dharapi), che protegge da ogni sorta di incidente e malattia. Di fatto, l’irrealtà nella quale numerosi teorici del Mahayana considerano sia immerso il mondo sensibile mette in moto la possibilità di agire su dei fenomeni considerati illusori. Si sviluppa in tal modo tutta una letteratura specializzata nelle formule magiche. Questi sutra particolari, in genere brevi, costituiscono le dharapi. Esse sono all’origine di importanti sviluppi nel buddhismo esoterico. La natura di Buddha costituisce un secondo tema privilegiato di speculazione. Una parte rilevante di letteratura del Mahayana, fra cui il Saddharmapupdarika sutra, tratta dello stato di buddha. Queste speculazioni sviluppano alcune teorie avanzate dai Mahasakghika. All’interno di una cornice spaziale infinita si immaginano una infinità di mondi, ognuno dotato dei propri buddha salvatori e predicatori. Un episodio della storia di Vakyamuni, come il miracolo di Vravasti attesta il carattere sovrumano e anche sovrannaturale del Buddha. Si concederà poco a poco al Buddha una dimensione cosmica, esaltandolo come «re del mondo«. Si concepiranno buddha sopramondani (lokottara), perfettamente puri corporalmente e spiritualmente, ai quali saranno attribuiti l’eternità e una potenza infinita. Queste entità supreme manifestano la propria presenza nel mondo fenomenico attraverso delle immagini create per magia. Il secondo capitolo del Saddharmapupdarika sutra considera Vakyamuni e tutti i suoi predecessori come una emanazione del Tathagata eterno e trascendente. È difficile tradurre il termine sanscritoTathagata, che dà l’idea nel contempo di arrivo e partenza: «colui il quale è venuto così«. Il Tathagata adopera una virtù speciale, l’«Abilità nei mezzi« (upayakauvalya), per incitare gli uomini a cercare la salvezza. Il filosofo Asanga (fine del iv secolo) concepì la dottrina dei tre corpi (trikaya) dei buddha. Egli distingue un «corpo della Legge« (Dharmakaya), spirituale, trascendente, assoluto, eterno, infinito, essenza di tutte le cose; un «corpo di godimento« (sakbhogakaya), glorioso ed eterno, visibile ai soli bodhisattva, frutto delle buone azioni compiute dai buddha nelle loro vite anteriori e caratterizzato da trentadue segni primari di buddhità e ottanta segni sec-

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ondari; infine un «corpo di creazione magica« (nir­ma­pakaya), «fantasma« che altro non è se non un semplice strumento materiale e mortale nel mondo sensibile. L’identificazione della natura profonda dei buddha con un principio ultimo e universale, fa considerare tutti gli esseri compartecipi di essa, cioè aventi in se stessi il germe della propria futura buddhità. Questa teoria chiamata «embrione di Tathagata« (tathagata garbha), che giocherà un ruolo significativo nel buddhismo cinese e giapponese, ha dunque origine in India. Nei testi appaiono saltuariamente molti altri buddha, distinti dai predecessori leggendari di Vakyamuni esaltati dalla letteratura, che poi ispireranno a loro volta dei trattati specifici. Essi regnano su universi meravigliosi e lontani che fanno sempre parte del mondo fenomenico, le «Terre pure«. I fedeli sperano di rinascere in queste specie di paradisi per vivere un’ultima esistenza alla fine della quale, in virtù degli insegnamenti ricevuti e la semplice presenza di esseri trascendenti, saranno liberi per sempre, del tutto, dal ciclo delle reincarnazioni. In direzione occidentale si trova Sukhavati (la «fortunata«), terra del buddha Amithabha («Splendore infinito«), anche chiamato Amitayus («Longevità infinita«). Il suo culto, nato certamente ai confini fra l’India e l’Asia settentrionale, sarebbe stato introdotto in Cina nel ii secolo. A partire dal vi secolo esso conobbe una considerevole fortuna. In maniera simmetrica si situa ad oriente Abhirati («Piacere supremo«), la Terra pura di Aksobhya (l’«Incrollabile«), il cui culto sembra più tardo, e al quale si sostituisce talora Bhaisajyaguru (il «Maestro con i rimedi«), una delle forme superiori di Vakyamuni. Anche Vakyamuni e Maitreya presiedono ciascuno una propria Terra pura, una in cima al monte Meru, montagna al centro del mondo, l’altra il paradiso dei Tusita. Questi sviluppi non sono documentati nell’arte indiana. Alcuni rilievi del Gandhara, che rappresentano vari assiemi di personaggi e che tradizionalmente sono stati identificati come dei miracoli di Vravasti, sono oggi considerati da parte di numerosi specialisti come raffigurazioni di Sukhavati [fig. 7]. Il terzo grande sviluppo filosofico del Mahayana concerne la vacuità (vunyata). Le polemiche sollevate da queste speculazioni sfoceranno nella formazione di due grandi scuole: quella dei Madhyamika e quella degli Yogacara. Il fondatore dei Madhyamika fu Nagarjuna (ii o iii secolo), che la tradizione considera come l’autore di uno dei tre testi fondamentali del Ma-

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7. Amitabha in preghiera nella Terra pura di Sukhavati, oppure Vakyamuni che spiega il Sutra del Loto della Buona Legge, scisto, iii secolo, Lahore, Lahore Museum (Mohammed Nari).

hayana, il Mahaprajnaparamita sutra (Grande sutra della Saggezza perfetta), compilato senza dubbio in Kashmir nel iv secolo. Benché esistano numerose versioni più o meno lunghe di quest’opera, quella in ottomila stanze (vloka), l’Astasahasrika è la più diffusa. Per i Madhyamika, in maniera analoga ai nichilisti, la vacuità non è un assoluto negativo. Essi rinunciano ad attribuire un qualsivoglia carattere agli esseri e alle cose essendo questi privi di esistenza. Essi si rifiutano di scegliere fra opinioni estreme, ed è da ciò che deriva il loro nome di Madhyamika («quelli del centro«). Dialetticamente eccellenti, essi saranno capaci di destabilizzare gli avversari annientandone le argomentazioni. La loro dottrina si può riassumere in quattro coppie di proposizioni negative: gli esseri e le cose non conoscono né cessazione né produzione; né annientamento, né eternità; né unità, né

molteplicità; né arrivo, né partenza. Una dottrina del genere, una volta sviluppata, doveva portare alle conclusioni estreme, negando del tutto l’atto e l’agente attivo, il bene e il male, il ciclo causale e la liberazione, e fare andare in frantumi tutti i sistemi filosofici del tempo. Si può situare l’apogeo di questa scuola fra i secoli v e vi. Essa si scinderà in due correnti, gli Svatantrika e i Prasangika. Sebbene la maggioranza dei maestri Madhyamika fosse originaria del nord-est del Dekkan, la scuola era particolarmente influente nel bacino centrale del Gange. I Madhyamika furono molto potenti anche nell’università di Nalanda nel Bihar. La seconda grossa corrente del Mahayana fu fondata da Asanga all’inizio del v secolo. È rimasta famosa la conversione del suo fratello minore Vasubandhu, convinto dalla coerenza dei suoi insegnamenti. Alla fine del v secolo, Dinnaga fu uno degli argomentatori più brillanti della nuova scuola e il fondatore della logica indiana. Questi maestri, denominati Yogacara («coloro che praticano lo yoga«) oppure Vijnanavadin («coloro che insegnano la coscienza«), svilupparono certe teorie dei Sarvastivadin, che sfociarono in una sorta di monismo idealista. Le cose sono semplici fenomeni mentali, senza altra realtà che quella del pensiero. Un flusso psichico subconscio assicura un legame fra le diverse esistenze. Gli esercizi yogici sono un mezzo essenziale per raggiungere il Risveglio. Questa «illuminazione« è la presa di coscienza della fondamentale identità fra soggetto e oggetto. Le polemiche particolarmente vivaci che in India opposero i Madhyamika e gli Yogacara durante i secoli vi e vii non frenarono l’espansione del Mahayana nel resto dell’Asia, dove le due scuole costituirono due sistemi di riferimento intellettuale fondamentali. Il Vajrayana A partire dal vii secolo, dei nuovi testi sanscriti, spesso in versi, prendono il nome di tantra, che significa «filo«, «trama« di un tessuto e, per estensione, «libro«, «trattato«. Tali voluminose opere sono la testimonianza di nuove speculazioni che proiettano le dottrine del Mahayana fino alle loro conseguenze logiche estreme. Questa nuova scuola di salvezza viene chiamata Vajrayana («mezzo di avanzamento tramite il fulmine-diamante«) oppure Mantrayana («mez­ zo di avanzamento tramite formule rituali«). La saggistica occidentale la chiama spesso «buddhismo tantrico« e, per la forma originale che

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assunse in Tibet, «buddhismo lamaista«, lama avendo il significato di «maestro«. In Estremo Oriente la si designa con l’espressione «buddhismo esoterico«. Secondo il Vajrayana è possibile ottenere il Risveglio in una sola vita terrestre, ciascuno facendo ricorso a modalità differenti a seconda della propria evoluzione spirituale. I religiosi praticano varie tecniche di meditazione e di yoga, facendo esperienza anche di periodi di un rigoroso ascetismo che può giungere fino alla clausura. I laici praticano molteplici atti pii, le cui manifestazioni più diffuse sono il pellegrinaggio e la continua recitazione di formule sacre. I nuovi insegnamenti, in parte esoterici, sarebbero giustificati da predicazioni particolari ascritte a Vakyamuni, secondo uno stratagemma elaborato già in precedenza dai fondatori del Mahayana per affermare la validità della loro scuola. Il Vajrayana non elabora alcuna nuova teoria riguardante la vacuità, nondimeno l’assenza di dualità fra soggetto e oggetto e di due oggetti fra loro permette di proporre delle corrispondenze fra macrocosmo e microcosmo nonché svariate pratiche magiche. L’uso da parte del Mahayana di formule scongiuratorie (dharapi) è all’origine dell’impiego di «sillabe seme« (bija) e di formule sacre (mantra). Un ritualismo complesso e articolato è insomma una caratteristica del Vajrayana. L’azione di queste cerimonie, talora pubbliche, talora segrete, si manifesta su due piani, quello di una efficacia immediata nel mondo fenomenico ma anche su di un piano puramente spirituale, in quanto ogni rituale permette di far progredire l’assieme degli esseri viventi sul percorso della salvezza. Il praticante tantrico, nel passaggio attraverso i diversi stadi della ricerca del risveglio, riceverà l’aiuto di un numero infinito di divinità che, una volta ammessi al livello spirituale, si riveleranno esse stesse filosoficamente vuote di essenza e di significato. Prende così forma un immenso pantheon di parecchie migliaia di divinità, che si trasmette da una tradizione monastica a un’altra. Molte di esse posseggono aspetti complessi le cui varie caratteristiche sottintendono un ardito insieme di significati iconologici, ancora male studiati, che inoltre variano a seconda delle differenti genealogie di trasmissione da maestro a discepolo. La loro iconografia fa spesso ricorso a una forte simbologia sessuale e macabra. Le rappresentazioni di unioni sessuali totalmente esenti da erotismo sono particolarmente numerose nel lamaismo e nel buddhismo nepalese. Si tratta di trascrizioni sim-

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boliche della complementarietà di due principi fondamentali inerenti al Risveglio: l’unione della saggezza e del mezzo [fig. 9]. La presa di coscienza della vacuità universale è considerata la saggezza per eccellenza (prajna). Questa presa di coscienza del vuoto è comparata al sesso femminile. I mezzi (upaya) adoperati per ottenere la presa di coscienza della vacuità sono comparati al sesso maschile. Lo slancio del mezzo verso l’intelligenza assoluta assorbe in sé tutte le energie, tutte le pulsioni dell’individuo e sfocia in una unione mistica, fonte di «pensiero di Risveglio« (bodhicitta) caratterizzato da una «grande felicità« (mahasukha). Questa unione oltrepassa le semplici codificazioni delle rappresentazioni sacre. Essa è manifestata anche tramite l’amplesso, spesso simbolico ma talora effettivo in certe tradizioni marginali himalayane. I medesimi significati sono assegnati ai due strumenti liturgici fondamentali del Vajrayana: il «fulmine-diamante« (vajra) e la campanella (ghanta), rispettivamente associati al polo maschile e femminile [fig. 8]. Il carattere macabro di certi testi e di numerose rappresentazioni figurative enfatizza l’aspetto effimero e vano del mondo fenomenico. Le divinità dall’aspetto minaccioso possiedono di fatto un carattere benevolo e protettivo. L’originalità del Vajrayana è la credenza in un Buddha supremo «nato da se stesso« (adibud-

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8. Strumenti utilizzati nei riti scongiuratori con il fuoco (goma), bronzo dorato, xiii secolo, Nara, Muroji, Giappone.

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9. Guyamanjuvajra e la sua paredra, bronzo dorato, xvi secolo. Zurigo, Museum Rietberg, Berti Aschmann Foundation of Tibetan Art (provenienza: Tibet, Cina).

dha), che domina il complesso del pantheon divino. La sua identità varia a seconda delle tra­dizioni. La maggior parte delle scuole assegna questo ruolo preminente a Mahavairocana, la cui dottrina poggia su due testi della fine del vii secolo, il Mahavairocana sutra (Sutra del Grande Risplendente) e il Vajrospisa sutra (Sutra della fronte adamantina). Al di sotto si trovano cinque buddha trascendenti in perpetua meditazione. Essi vengono chiamati jina («vincitori«) nei testi sanscriti, e sono tradizionalmente associati a una regione dello spazio. Vairocana, ipostasi di Mahavairocana, sta al centro del gruppo. Questi jina sono i

«capostipiti« di cinque famiglie spirituali (kula) nelle quali si dividono le innumerevoli divinità del pantheon. Queste ultime cambiano a seconda del paese. Vi si ritrovano moltitudini enormi di bodhisattva, ai quali si aggiungono divinità secondarie di ascendenza prebuddhista, incorporate dal Mahayana, ma prima appartenute alle tradizioni dei paesi convertiti al buddhismo, per non contare numerose entità di nuovo conio. Il Vajrayana indiano consiglia a ogni monaco di venire iniziato al ciclo di un dio tutelare (ista devata), personificazione di un testo canonico che descrive con minuzia le diverse fasi di un rituale nel corso del quale

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saranno divulgate all’adepto alcune speculazioni filosofiche atte a favorirne il Risveglio. Lo Shingon giapponese riconosce, da parte sua, la potenza dei myoobu o vidyaraja, «re di scienza«, personificazione dell’efficacia delle formule sacre. Un’altra caratteristica originale del buddhismo esoterico sono i mapdala [fig. 12]. Il termine sanscrito «mapdala« significa «disco«, «cerchio«, e per estensione «contrada« o «territorio«. I cosmogrammi presenti in certe cerimonie sono in rapporto a questa concezione planimetrica e corrispondono al piano del nirmapakaya. Nel Vajrayana, questa parola designa la proiezione in due o tre dimensioni del palazzo celeste di una delle divinità che per la maggior parte popolano il Sakbhogakaya, sotto l’aspetto di una rappresentazione simbolica incentrata su di un asse e orientata. Come numerose civiltà antiche, quella indiana sviluppò un vasto simbolismo legato a delle figure geometriche, centrate intorno a un asse e

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orientate, considerate come microcosmi. I piani dei «tumuli reliquiario« (stupa) sono riconducibili a considerazioni simili. Il tantrismo sviluppa molto maggiormente queste considerazioni moltiplicando i significati da attribuire alle rappresentazioni simboliche e collegandoli a delle precise tecniche di meditazione e a delle iniziazioni rituali. In occasione di talune cerimonie, così, in India e nella cultura tibetana, si traccia un mapdala sul terreno adoperando polveri colorate. Durante la cerimonia il maestro spirituale conduce l’iniziando all’interno della rappresentazione e, attraverso una successione di tappe, lo fa penetrare fino al cuore del disegno, dentro il «santuario« (kutagara). Si presume che lì l’allievo si unisca mentalmente alla divinità. Una volta terminato il rito iniziatico, quel che resta del mapdala viene generalmente gettato in un corso d’acqua. I monaci rinnovano riti simili durante le sedute di meditazione al fine di aiutare il cammino

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10. I cinque Jina del Vajrayana, colori su seta, x secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, China). 11. Hevajra sotto il suo aspetto Kapaladhara, tempera su seta, xvi secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, Cina).

12. Mapdala appartenente al ciclo di Hevajra, tempera su tela, prima metà xv secolo. Londra, The British Museum (provenienza: Tibet, Cina).

delle creature sul sentiero della salvezza. Dipinti portatili facilitano talora esercizi spirituali di genere analogo. Certi mapdala esistono anche sotto forma di modellini tridimensionali. Vi sono templi tibetani e sino-tibetani che ospitano simili miniature architettoniche. Ugualmente, numerose pitture murali hanno per soggetto dei mapdala. Queste rappresentazioni simboliche ricapitolano, sotto forme grafiche, l’insieme del sistema dell’ordine religioso che commissiona l’opera. Nel buddhismo tibetano esistono tre tipi di mapdala. La maggioranza rappresenta antropomorficamente le divinità e, secondo le teorie del buddhismo esoterico, corrisponde al «piano del corpo« (kaya mapdala) [fig. 12]. Altri non fanno altro che trasmettere dei bija che daranno vita alle divinità nel corso della cerimonia. Questo secondo tipo di rappresentazioni corrispondono al «piano della parola« (van mapdala). Sui terzi e ultimi, collegati al «piano del pensiero« (citta mapdala),

infine, non figurano che i principali attributi di solito posseduti dagli dei. I monaci dotati di una spiritualità superiore sono creduti capaci di visualizzare mentalmente certi mapdala senza l’aiuto di nessun supporto grafico. Numerose divinità sono oggetto di mapdala specifici, la cui più o meno complessa concezione obbedisce sempre allo stesso schema. Al centro, nel «santuario«, quasi sempre al centro di un loto sbocciato, siede il dio «sovrano del mapdala« (mapdaleva). Tutto attorno, su dei petali staccati, stanno delle divinità secondarie, considerate, in questa prospettiva, ipostasi della divinità principale. Ciascuna corrisponde a una delle regioni specifiche dello spazio, per cui il loro numero è spesso di quattro (i punti cardinali) oppure di otto (con l’aggiunta dei punti intermedi). Nell’esoterismo indiano e tibetano, i quattro quadranti del mapdala assumono un colore particolare corrispondente a ciascuna delle direzioni nello spazio. L’Oriente, blu o

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verde, la regione fausta, è la prima a offrirsi allo sguardo dell’iniziato o dell’osservatore e si trova nella parte bassa del dipinto. Il praticante tantrico percorre poi gli altri quadranti seguendo il «senso favorevole« (pradaksina), tenendo l’oggetto sacro, il centro della rappresentazione, alla propria destra. Incontrerà così il sud, giallo o oro, l’Occidente, rosso, e infine il nord, verde. Questa disposizione simbolica di base corrisponde alla ripartizione attorno a Vairocana degli altri quattro jina. Si tratta del posizionamento tradizionale, suscettibile di variazioni, delle diverse regioni spaziali e dei colori a esse attribuiti. Intorno a questa parte centrale, delle gallerie (pattika) e dei recinti ospitano divinità secondarie. Una porta occupa il centro di ciascuno dei lati. I recinti e le porte sono rappresentate allo stesso tempo in piano e in elevazione. La rappresentazione simbolica nel suo complesso si inserisce all’interno di «cerchi di protezione« (raksacakra), che sono di solito tre: fiamme, fulmine-diamante e loto. Questo schema ideale può andare incontro a modifiche più o meno importanti. Alcuni mapdala, in particolare quelli collegati al ciclo di Vairocana, hanno il centro ripartito in una scacchiera di nove caselle. Altri contengono qua e là dei mapdala più piccoli. I mapdala delle divinità dall’aspetto minaccioso possiedono un cerchio di protezione supplementare, costituito dagli otto tumuli crematori mitici della tradizione tantrica (vmavana). Il Vajrayana, ancora più di altre scuole buddhiste, assegna grande importanza al culto rivolto ai maestri spirituali, venerati allo stesso modo di divinità. L’adepto aderisce in effetti a una genealogia che va da maestro a discepolo e che risale a una entità originaria rivelatrice degli insegnamenti. Il maestro prende il posto della divinità stessa nei momenti rituali. Nel buddhismo tibetano, la teoria dei tre corpi (trikaya) dei buddha giustifica la credenza in alcune incarnazioni di buddha o di bodhisattva abitanti il sakbhogakaya nel nirmapakaya immaginario – mondo dei fenomeni illusori –, albergato nel corpo di certi bambini chiamati alle più alte funzioni ecclesiastiche. Queste «incarnazioni« vanno distinte dalle «reincarnazioni« subìte dai comuni esseri viventi, immersi nel perenne moto del saksara. Il buddhismo esoterico indiano riconosce due genealogie importanti. Una risale a Nagarjuna (ii), omonimo del grande filosofo del ii secolo. Questo mistico sarebbe vissuto all’inizio del vii secolo. Fanno parte di questa tradizione Vajrabodhi, nato nell’India centrale

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(670-741 circa), e il suo discepolo Amoghavajra, originario di Ceylon (705-774). Vajrabodhi e Amoghavajra introdussero il buddhismo esoterico in Cina. È opportuno menzionare anche Vubhakarasikha, nato in Orissa (635-735 circa?), giunto in Cina nel 716, che su richiesta dell’imperatore Xuanzong (712-756) tradusse il Mahavairocana sutra in cinese. Questi tre religiosi predicarono il tantrismo spiritualista che era insegnato a Nalanda, privo della maggior parte

13. Itinerari dei principali pellegrini cinesi.

delle sue connotazioni erotiche. La seconda grande genealogia risale a Saraha al principio del vii secolo. Il suo discepolo Lu-i-pa, originario dell’India occidentale, fondò una scuola in Bengala, assegnando un ruolo preminente ai siddha (i «perfetti«) che hanno il potere di visualizzare le divinità del sakbhogakaya. In questa corrente di pensiero gli elementi magici giocano un ruolo rilevante. Due dei quattro principali discepoli di Lu-i-pa (fine vii e inizio viii secolo) intratterranno rapporti con l’Uddiyana, l’odierna vallata dello Swat nel Pakistan settentrionale, regione rinomata per i suoi esoteristi e per le dottrine segrete. Essi saranno anche a conoscenza delle speculazioni del tantrismo induista kashmiro e sapranno opporsi a queste dottrine, snaturandone il contenuto attraverso la reinterpretazione di alcune analogie in una prospettiva puramente buddhista. Nella stessa genealogia possiamo collocare la corrente Sahajayana («mezzo di avanzamento tramite l’Innato«), che considera la conoscenza della realtà fondamentale un principio innato (sahaja). Il Risveglio si può ottenere adoperando la forza naturale delle passioni e degli istinti. In India il Vajrayana rimpiazza poco a poco il Mahayana. Nessun testo mahayanico importante è del resto posteriore al vi secolo. Verso l’anno 800, il re Dharmapala fonda l’università di Vikramavila nel Bihar, non lontano da Nalanda. Si trattava di un monastero specializzato nell’insegnamento delle dottrine esoteriche, dove trionfarono le correnti risalenti a Saraha. A partire dal x secolo, il Kalacakrayana («mezzo di avanzamento tramite la Ruota del tempo«) esalta l’adibuddha, entità suprema «nata da essa stessa«, assegna una grande importanza agli aspetti minacciosi delle divinità e rinnova l’interesse per le pratiche yoga basate sul controllo del respiro. Questa nuova scuola conoscerà grande splendore in Tibet. Il buddhismo, religione universale In India, il progressivo indebolimento nel Bihar della dinastia pala (750-1200 circa) nei confronti dei suoi vassalli Sena (1095-1230) e Candra, favorevoli all’induismo, porta alla fine della protezione monarchica goduta fino allora dal buddhismo. Le invasioni musulmane gli daranno, intorno al 1200, il colpo mortale. Le grandi università del Bihar e del Bengala, luoghi da cui la cultura buddhista si irradiava con dimensioni internazionali, sono rase al suolo. Fino al xiv secolo, tuttavia, la dottrina manter-

rà una propria vivacità in certe regioni meridionali, nonostante il Dekkan e il Sud, territori induisti per eccellenza, abbiano conosciuto lo sviluppo della filosofia vedanta, propagandata dai brahmani, violentemente antibuddhista. Il buddhismo scomparve dunque dall’India, suo paese di origine. Ma l’avere messo radici in quasi tutta l’Asia gli ha permesso di perpetuarsi fino ai nostri giorni. L’introduzione del buddhismo nei vari paesi appartiene alla storia delle comunità regionali. Il suo straordinario sviluppo fuori dell’India esige però qualche parola a proposito della quasi impermeabilità alla dottrina da parte dell’Occidente – fino a tempi recenti –, del ruolo dei monaci itineranti e dell’emergere di scuole proprie dell’Oriente estremo. Benché Avoka affermi, in uno dei suoi editti su pietra, di avere inviato dei missionari presso quattro re greci, identificati come i più grandi sovrani dell’Oriente mediterraneo, e benché delle delegazioni diplomatiche li abbiano messi in relazione con Tolomeo ii Filadelfo d’Egitto (regnante 283-246 a.C.), non solo nessuna menzione in testi occidentali ma neanche alcuna testimonianza archeologica documenta la presenza di monaci buddhisti nell’Oriente ellenizzato, ad Alessandria per esempio. Il fatto è sorprendente se si pensa che più di una fonte, invece, attesta la venuta di brahmani e di yogi induisti nel Mediterraneo e una curiosità verso la tradizione upanisadica. L’avvento dell’Impero kusapa aprì al buddhismo la strada centro asiatica e fin oltre la Cina, mentre il rafforzamento della potenza parta dal i secolo a.C. costituì un ostacolo invalicabile per i missionari. Le popolazioni rivierasche del Mediterraneo, estranee alla nozione di metempsicosi, sarebbero state ad ogni modo difficilmente sensibili nei confronti della dottrina del Buddha. Bisogna nondimeno citare un caso curioso, un racconto, Vita dei santi Barlaam e Joasaph, tradotto dal georgiano in greco nel x secolo da sant’Eutimo l’Agiorita, che contiene dei frammenti di episodi – redatti in sanscrito poco prima della nostra epoca – della storia di Vakyamuni. Una versione di questo testo agiografico venne ripresa da San Giovanni Damasceno. L’introduzione e la propagazione del buddhismo in Cina comportarono il dispiegarsi di un immenso lavoro di traduzione, che doveva fare i conti con la delicata ricerca di un lessico equivalente e confrontarsi non senza difficoltà con l’aspetto eteroclito delle tradizioni religiose giunte fino all’Estremo Oriente. La ricerca di

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fonti affidabili porterà numerosi monaci pellegrini in Asia centrale o in India per acquisire manoscritti. Certuni scriveranno relazioni di viaggio, alcune delle quali sono rimaste conservate [fig. 13]. Essi forniranno anche vari dati su regioni a Occidente a degli autori restati in Cina. L’insieme di questi testi è di importanza capitale per la conoscenza del mondo indiano. Zhu Shixing, il primo pellegrino di cui si ha notizia, lasciò la Cina nel 260 per il Khotan, a sud-ovest del bacino del Tarim, dove rimarrà fino alla morte. Poco dopo, Zhu Fahu, più noto con il suo nome indiano di Dharmaraksa, viaggiò attraverso l’Asia centrale e ritornò a Chang’an, la capitale dell’Impero di mezzo, nel 265. A partire dal 400, i pellegrini si moltiplicano. Il più celebre viaggiatore di quest’epoca fu senza dubbio Faxian. Egli lasciò la capitale a più di sessanta anni di età nel 399. Il suo viaggio lo portò a Kucha, nel Khotan, nel Kashmir, nella regione di Kabul, nel Panjab e nella valle del Gange. Dopo il Bengala raggiunse Ceylon, lo Vrivijaya e ritornò a Chang’an nel 412. Egli portò con sé una ampia raccolta di manoscritti e redasse il racconto del proprio viaggio, il Foguoji (Memorie sui regni buddhisti). Il suo contemporaneo Fayong e i suoi venticinque compagni, partiti nel 420, raggiunsero l’India attraverso le strade carovaniere dell’Asia centrale e rientrarono in Cina via mare. Un altro viaggiatore, Zhimeng, lasciò Chang’an nel 404 e tornò nel Gansu nel 424. Song Yun, partito da Luoyang nel 518, giunse in Khotan e nell’India nord-occidentale prima di riguadagnare la capitale dei Wei del nord nel 522. In epoca Tang (618-907) i pellegrinaggi conobbero il massimo sviluppo. Xuanzang (602-664) e Yijing (635-713) segnano il buddhismo cinese con una forte impronta. Xuanzang, uno degli eruditi più noti della propria epoca, intraprese nel 629 un lungo viaggio finalizzato a procurare un esemplare dello Yogacaryabhumi vastra (Trattato sulle Terre dei maestri dello yoga) e a tentare di risolvere le contraddizioni delle differenti tradizioni buddhiste giunte in Cina. Il suo pellegrinaggio durò sedici anni e lo condusse fino al Kashmir e al Bihar. Rimase a Nalanda cinque anni. Al ritorno, nel 645, dirigerà per diciotto anni un progetto al quale si deve un quarto delle traduzioni dei testi indiani in cinese. Dopo la sua morte e a partire dalle sue note vennero redatti il Datang xiyu ji (Relazione sui paesi ad occidente all’epoca dei grandi Tang) e la sua biografia, consacrata in particolare al racconto del suo viaggio: il Daci’ensi

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nel 729, e Wukong (in viaggio dal 751 al 790). Dopo la grande persecuzione antibuddhista attuata fra 843 e 845, i pellegrinaggi si fecero rari. L’ultimo grande pellegrinaggio vide, dal 966 al 976, cinquanta monaci attraversare l’Asia centrale e visitare l’India e il Nepal. Aspirazioni analoghe spingeranno i monaci giapponesi a organizzare viaggi di studio sul continente. Molti furono coloro che compirono pellegrinaggi in Cina, ma nessuno visitò i luoghi sacri dove aveva vissuto Vakyamuni. A dispetto della straordinaria diversità risultante dalla diffusione all’interno delle più varie civiltà, il buddhismo conserverà la propria unità, facendo ininterrottamente riferimento ai testi pali o sanscriti, fondamento delle tradizioni. Esiste tuttavia una scuola cinese, il Chan, meglio nota con il nome giapponese di Zen, i cui legami con gli insegnamenti indiani sono difficili da trovare. Essa appartiene al Mahayana, eppure presenta una originalità tale da richiedere un discorso a parte. «Chan« o «channa« è la deformazione fonetica del termine sanscrito dhyana (meditazione stando seduti). La sua origine è circondata di leggenda. Bodhidharma, il fondatore, sarebbe un monaco indiano sbarcato a Guangzhou verso il 520. Egli si sarebbe stabilito nel tempio della Piccola Foresta (Shaolin), nei pressi del picco del Centro (Songshan), nel distretto Denfgeng, nella provincia dello Henan. Il monastero, famoso per la pratica delle arti marziali, costituirà uno dei centri più importanti. In realtà, la setta venne creata verso il 700 dal monaco Huineng (638-713), originario di Guangzhou. I suoi allievi scissero il movimento in due. Una polemica oppose i sostenitori di un Risveglio graduale accompagnato da esercizi di

meditazione ai partigiani di un Risveglio subitaneo. La scuola definita «del nord« si estinse verso il 750, mentre quella «del sud« conobbe uno sviluppo senza precedenti. Il Chan rifiuta le lunghe pratiche di concentrazione, tecnicamente vieppiù complesse, che nel Mahayana predispongono al Risveglio. In reazione alle sontuose liturgie dei templi imperiali, le polemiche dottrinarie e la pia devozione delle Terre pure, la nuova scuola esclude ogni speculazione intellettuale e ogni ritualismo. Limita il ricorso ai testi e nega ogni possibilità di accumulare o di trasferire dei meriti in vista di una futura esistenza migliore. Essa si vota a un ritorno alla semplicità e alla povertà tese verso un unico fine: conseguire il Risveglio in maniera immediata, foss’anche brutale. Lo spirito si deve distaccare da tutto il pensiero verbale e dalla nozione dell’«Io«, e ciò per mezzo della meditazione su temi assurdi, i «casi« (gong’an), tramite risposte fuorvianti dei maestri spirituali e tramite atti il più possibile spontanei, quali grida (banghe) o colpi di bastone (bang). Il maestro, rigettando ogni insegnamento sistematico, cerca eco, attraverso delle parole o dei gesti spontanei impregnati di Risveglio, nel proprio allievo, il quale, come ogni elemento del mondo fenomenico, possiede la buddhità in uno stato latente. Molti autori hanno sottolineato le numerose somiglianze fra il Chan e il taoismo. Questa convergenza facilita l’adozione della nuova scuola da parte della élite colta. Dopo la grande persecuzione avutasi fra l’843 e l’845, il Chan divenne, assieme con l’Amidismo (culto della Terra pura del Buddha Amida), una delle due principali scuole buddhiste in Cina, e questo per quattro secoli, fino al rinnovamento del Vajrayana sotto l’azione degli imperatori Yuan (1260-1368).

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sanzangfashi zhuan. Yijing dal canto suo effettuò un lungo periplo marittimo, dal 671 al 695. Ritornato a Luoyang, la capitale, venne accolto dalla imperatrice Wu Zetian in persona. Fu nello Vrivijaya che egli compose le due celebri opere che inviò a Guang­zhou nel 692: il Nanhai jigui neifa zhuan (Relazione sul buddhismo inviata dai mari del Sud) e il Datang xiyu qiufa gaoseng zhuan (Relazione sui monaci eminenti che andarono a cercare la Legge nei paesi ad occidente all’epoca dei grandi Tang). Restano da menzionare i monaci Huichao, di ritorno

14. Monaco-pellegrino cinese carico di libri sacri, colori su seta, ix secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, Cina).

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1. Interno del Chusonji, xii secolo. Konjikido, Hiraizumi, provincia di Iwate, Giappone. 2. Pilastro, pietra, iii secolo. Lumbini. Nella pagina seguente: 3. La distribuzione delle reliquie del Buddha, ii-iii secolo. Londra, The British Museum, acquisito con fondi Brooke Sewell (provenienza: Gandhara, Pakistan). 4. L’Adorazione dello stupa, scisto, ii secolo circa. Londra, The British Museum (donazione del Capitano B.C. Waterfield; prov.: vallata dello Swat). 1, 2

È paradossale che una delle più grandi arti religiose dell’umanità sia nata da una religione assolutamente priva della necessità di luoghi in cui radunare i propri fedeli, nonché di qualsivoglia base liturgica. Ciò è ancora più sconcertante se si considera che nulla, a prima vista, fonda una qualunque pratica artistica propria al buddhismo, la maggioranza dei cui elementi poggia su testi sacri scaturiti essi stessi da insegnamenti orali. Stupa e reliquiari Due tradizioni, attestate nella società indiana prebuddhista, sembrano avere giocato un ruolo nella gestazione delle tradizioni artistiche: la costruzione di tumuli funerari e le visite in omaggio a uomini santi. Secondo la leggenda, dopo la morte di Buddha, la cremazione ebbe luogo in territorio Malla, per cui i principi del regno avrebbero voluto conservarne le ceneri. I capi di sei clan vicini a Kuvinagara ne reclamarono una parte per poterle onorare. I due gruppi dovettero contendersi armi alla mano il possesso delle preziose reliquie. Le ceneri, divise in otto parti dal brahmano Dropa, sarebbero state all’origine di tumuli commemorativi. Più esplicite in proposito si fanno le testimonianze facenti riferimento all’epoca dell’imperatore Avoka, nel iii secolo a.C. Il sovrano ripartisce le preziose ceneri all’infinito, moltiplicando, fino a 84.000 secondo la tradizione, i tumuli-reliquiario. Si innalzano monumenti commemorativi simili a pilastri in corrispondenza dei siti importanti della vita di Buddha, come il luogo della sua nascita a Lumbini [fig. 2], oppure in omaggio a un buddha del passato di nome Konakagamana. Le iscrizioni precisano che il re vi si è recato di persona e ha reso «omaggio«. «Mahiyite«, la parola pali adoperata, è l’equivalente del sanscrito «puja«. A partire da quell’epoca, l’offerta di fiori, di ghirlande, di stendardi, di parasole, di profumi, sembra

quindi bene documentata. In maniera analoga, il tumulo sacro è venerato secondo l’antico rito indiano della processione in circolo in direzione del procedere del sole, tenendo sulla destra l’oggetto di culto (pradaksina [fig. 4]). Omaggi del genere, considerati come meritori, orientano psichicamente in modo favorevole a una rinascita in condizioni migliori. Nel corso dei secoli che precedono l’era cristiana si sviluppano quindi varie pratiche pie, di certo spontanee, che, allo stesso titolo delle offerte di cibo o vestiario fatte ai monaci, permettono ai laici di partecipare alla vita religiosa. Verso l’inizio della nostra era, i rilievi di Sanci testimoniano quanto tali atti devoti avessero preso piede [fig. 5]. Benché le scene di adorazione rappresentate siano legate a tale o tale altro episodio della storia di Vakyamuni, esse riflettono una situazione contemporanea alla loro esecuzione. L’edificazione da parte di Avoka di tumuli monumentali rivela un disegno molto più ambizioso di un semplice omaggio in un luogo reputato sacro. Il culto delle reliquie conobbe uno sviluppo enorme in tutta la cultura buddhista, fatta eccezione per la scuola Chan. La tradizione pali distingue tre tipi di elementi materiali relativi al ricordo di Buddha: le reliquie corporee (sarira o saririkadhatu), gli «elementi adoperati« (paribhogakidhatu), vale a dire i suoi oggetti personali, infine gli «elementi assegnati« (uddesikadhatu), oggetti o monumenti commemorativi delle massime gesta della sua ultima vita o delle sue esistenze anteriori. Il Theravada riconosce ad esempio sette reliquie principali del corpo di Buddha: i suoi quattro canini, le due clavicole e l’osso della fontanella. La tripartizione degli oggetti sacri nel buddhismo antico si ritrova in forma leggermente diversa nel Mahayana e nel Vajrayana, che classificano le reliquie in «monumenti funebri corporei«, «monumenti funebri affettivi« costituiti da oggetti personali, e «monumenti funebri spirituali«, cioè gli insegnamenti sacri dei massimi esponenti religiosi, opere

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nell’Impero gupta [Ajapta, n. 19 e n. 26], sia in Asia centrale, dove spesso un pilastro circondato da una struttura per la deambulazione simbolizza il tumulo sacro [Qyzyl]. Le considerazioni del Mahayana circa la natura dei buddha contribuirono anche alla moltiplicazione delle loro immagini, prodotte in maniera più o meno stereotipata, rappresentate sui molteplici piani dei piedistalli. Anche in questo caso l’arte del Gandhara è un modello fondamentale. In Cina, le torri – adoperate sia come bastioni di guardia che come luoghi di detenzione – caratteristiche dell’architettura delle grandi proprietà rurali dell’epoca degli Han orientali (25-220) e conosciute bene grazie al ritrovamento nelle tombe di numerose riproduzioni, servono da modello per le prime pagode [fig. 11]. Dotate di spazi sostanzialmente vuoti, esse rinnovano la concezione degli stupa tradizionali, includendo talora delle immagini sacre nel loro piano inferiore. Le pagode hanno sempre un asse mediano, la torre centrale forma una sorta di piedistallo che si differenzia per dimensioni, ma l’aspetto della decorazione in cima al tetto conserva la forma tradizionale dello stupa indiano miniaturizzata. Una prospettiva sinottica dei tipi più comuni di stupa e pagode diffusi in Asia mostra evidenti legami di parentela e rivela una vera e propria evoluzione [fig. 10]. Il processo sembra tuttavia essere stato molto più complesso. In Asia sudorientale, in Birmania e in Thailandia in particolare, una tipologia estremamente variabile obbedisce, secondo modalità che restano da approfondire, a variazioni dottrinali e a giochi architettonici puramente estetici. Nella stessa Cina le forme sono diversificate. Accanto alle torri a piani multipli (ta) a pianta quadrata o ottagonale, costruite in muratura o in legno, esistono dei padiglioni (ting) di un unico piano, la cui pianta è erede

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letterarie da essi composte incluse. Tali reliquie, sul modello dei resti di Buddha, vennero poste all’interno di tumuli, di mole talora imponente. Gli antichi tumuli funerari dell’India post­vedica furono dunque adottati dal buddhismo. Essi, nel contempo tumulo e reliquiario, portano il nome sanscrito di «stupa«, «crocchia« e, per estensione, «cima« e «monticello«. L’omaggio reso a questo monumento si rivolge al Buddha stesso, di cui diviene simbolo essenziale. Ogni comunità monastica deve possedere il proprio, vuoi al fondo della sala assembleare dei monaci, come nei monasteri scavati dell’India antica [fig. 6], vuoi all’esterno della clausura, nell’asse dell’ingresso, come spesso nel Gandhara, vuoi al centro dell’atrio, ancora nel Gandhara o nella valle di Kathmandu. La pratica devozionale di offrire degli ex voto, sempre più diffusa, fa sì che essi si moltiplichino nei luoghi del monastero accessibili ai laici. In India, i primi stupa monumentali costituiscono una sorta di archetipo che sarà all’origine, più o meno direttamente, della straordinaria mutazione alla quale andrà incontro nel resto dell’Asia questa scelta architettonica [fig. 8]. Costruito sopra un piedistallo (medhi), il tumulo semisferico (apda), sostiene un blocco cubico (harmika) comunicante con una piccola cavità murata che contiene le reliquie [fig. 7]. Un palo (yasti) che sorregge un numero canonico di parasole (chattra) sovrasta il tutto. Il rito di circumambulazione può essere effettuato sul piedistallo, nel caso la sua larghezza permetta di adoperarlo come terrazzamento, ma più spesso su di una passerella (pradaksinapa) al livello del suolo, costruita appositamente e circondata da una balaustra (vedika). Gli stupa antichi han-

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no mura interne, celate nella costruzione, che irraggiandosi dal centro conferiscono all’edificio una solidità maggiore. Si attribuirà a questo diagramma interno [fig. 9], invisibile una volta terminati i lavori, un carattere simbolico proporzionato ai significati più vari che verranno attribuiti agli stupa stessi. Se ne farà così una sorta di microcosmo, ciascuna parte del quale corrisponde a uno strato dell’universo fenomenico. In tale contesto, i quattro punti cardinali sono segnalati in maniera particolare, ad esempio, nell’India antica con delle porte monumentali (torapa), a Ceylon invece con dei massi di muratura decorati (vahalkada). Il Mahayana e il Vajrayana moltiplicano speculazioni di questo tipo, facendo coincidere le varie parti dello stupa con gli elementi costitutivi del mondo [fig. 12], i colori, le parti del corpo del Buddha e i diversi stadi della ricerca spirituale. In Tibet a queste corrispondenze si aggiunge la lista dei jina. Lo stupa fu uno strumento privilegiato, al pari della predicazione, per propagare gli insegnamenti sacri. A partire dal ii secolo a.C., vengono scolpiti, sulle balaustre e sui torapa, degli episodi della vita del Buddha e delle sue esistenze precedenti (jataka), anche se non si rappresenta, per rispetto, il Beato, ma lo si evoca tramite suoi simboli, l’impronta dei piedi o un parasole, ad esempio (iconografia aniconica). In era cristiana, nelle zone geografiche andhra, anche sui piedistalli del tumulo troviamo pannelli istoriati. Il fenomeno si amplifica nel Gandhara e nelle regioni limitrofe. Non si sa se questa evoluzione condizionò la forma stessa degli stupa. Si nota comunque il ruolo sempre più importante attribuito al volume del piedistallo, sia

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5. L’Adorazione dell’albero del bodhi, pietra, i secolo a.C.-i secolo d.C. Sanci, Madhya Pradesh, India. 6. Stupa e cappella, cripta di tipo caitya, 100 a.C. circa. Kondivte, Maharavtra, India.

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10. Stupa e pagode: a) India antica b) Gandhara c) pagoda cinese in pietra d) pagoda in legno. 11. Pagoda, 470 circa. Yungang, Shanxi, Cina, grotta n. 5. 12. Reliquiario a forma di stupa, bronzo, ix-x secolo. New Delhi, National Museum (provenienza: Nalanda, India nordorientale).

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7. Stupa n. 3, i secolo a.C. Sanci, Madhya Pradesh, India. 8. Piccolo stupa (cesellato dal 1905), vicino al grande stupa, Amaravati, Andhra Pradesh, India. 9. Pianta del grande stupa, ii secolo. Ghaptavala, Andhra Pradesh, India.

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degli antichi santuari centroasiatici [fig. 13]. Una struttura destinata alla deambulazione permette di compiere il giro rituale intorno a un pilastro centrale che ha sculture di buddha raffigurate sui quattro lati. Alcune forme, ad esempio quelle della pagoda Jiuding a Licheng, testimoniano una evidente innovazione [fig. 14]. Questi prototipi cinesi, che raggiungono l’apogeo all’epoca dei Tang (618-907), li ritroviamo in Giappone. Nel xiii secolo, l’introduzione del lamaismo in Cina rinnova le forme degli stupa, fra l’altro in virtù della introduzione di una precisa tipologia caratterizzata da un restringimento alla base della parte semisferica. Uno degli esempi più antichi di questo genere è quello che sovrasta una porta sulla collina Yuntai, a Zhenjiang, nella provincia del Jiangsu [fig. 15]. Esso è anche il più antico stupa costruito sopra una porta che sia rimasto in Cina. Si tratta di una scelta architettonica particolare alquanto deviante, se si considera che i tumuli-reliquiario, di qualsivoglia dimensione, sono in origine delle costruzioni che si elevano in maniera massiccia dal suolo. La santificazione delle uscite condurrà nondimeno gli architetti indiani a piazzare stupa in cima alle porte monumentali dei cortili che circondano i templi dell’epoca pala (7501200 circa). Stupa-porte a imitazione dell’India si ritrovano in Birmania. A Pagan sono numerosi. Attenzione molto particolare viene data agli oggetti consacrati. La reliquia è posta dentro

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13. Pagoda a quattro porte, 661. Licheng, Shandong, Cina. 14. Pagoda Jiuding, 756 circa. Licheng, Shandong, Cina.

[fig. 18], dove la forma dei reliquiari portatili influenza, in direzione inversa, la tipologia degli stupa [fig. 17]. Santuari 19

15. Porta, fine xiii secolo. Zhenjiang, collina Yuntai, Jiangsu, Cina. 16. Reliquiari a forma di stupa, steatite, i secolo (?). Londra, The British Museum, donazione di Sir Alexander Cunningham (provenienza: Manikyala, Gandhara, Pakistan). 17. Pagoda a forma di reliquiario, regno di Gaozong (1127-1162). Kuayuansi, Quanzhou (Fujian, Cina). 15

un piccolo recipiente in materiali preziosi (oro, cristallo di rocca oppure, in casi eccezionali in Estremo Oriente, vetro [figg. 19-21]). Questo ricettacolo primario è in genere contenuto in una «scatola« in pietra o in bronzo. Nel Gandhara essa prende spesso la forma di uno stupa miniaturizzato [fig. 16]. Questa pratica è attestata anche nella Cina di epoca Song (960-1279)

18. Reliquiario, rame dorato, 1155. Hefei, Museo provinciale dell’Anhui (prov.: Hefei, Qingyang, Anhui, Cina).

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21. Reliquiario a forma di anatra, cristallo di rocca, i secolo (?). Londra, The British Museum (provenienza: Taxila, Gandhara, Pakistan).

19. Coppa e ampolla (particolare della fig. 20). 20. Reliquiario, vetro e bronzo dorato, Grande Silla (668-935). Seul, Museo Nazionale di Corea (prov.: pagoda di Chǒngnim-sa).

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L’entrata in scena della iconografia iconica, e del culto delle immagini che di lì a poco ne conseguì, rinnovarono le fondamenta dell’architettura buddhista. Veri e propri santuari, destinati a ospitare una statua del Buddha, si moltiplicano nel giro di qualche secolo, tanto nei paesi dominati dal Theravada quanto in quelli ove predomina il Mahayana o il tantrismo. La tradizione pali designa questi luoghi sacri con il termine «patimaghara«, dal quale deriverà il nome singalese «piúimage«. In un primo momento, questi santuari riprendono la tendenza architettonica assunta dalle sale assembleari (caityagrha) in abside, spesso designate con l’abbreviazione «caitya« («oggetto di venerazione«) in riferimento al piccolo stupa ivi presente. Così, nel iii secolo, uno dei monasteri di Nagarjunakopda presenta faccia a faccia, da una parte e dall’altra dell’ingresso, due sale ad abside, una ospitante un caitya, l’altra in passato una statua di Vakyamuni. Una soluzione del genere verrà rapidamente abbandonata già in India. Nel corso della lunga evoluzione del buddhismo, i santuari conosceranno una variabilità tipologica tale da rendere impossi-

bile fornirne una benché succinta sintesi. Nel contesto monastico indiano, bisogna accennare a una cappella che, nell’asse del cortile, ospita la rappresentazione del Beato. Ajapta, nei secoli v e vi, offre gli esempi forse più emblematici di questa disposizione che si diffonderà in numerosi paesi dell’Asia in cui prevale la cultura di ascendenza indiana [p. 84, figg. 48, 50]. La parte dei luoghi sacri alla quale i devoti hanno accesso ospita piccole cappelle, precedute talora da una porta come il piccolo santuario n. 17 di Sanci. Nell’India nordorientale, queste celle, con in cima una torre simile a quella di un santuario induista, assumono a volte una ampiezza colossale. Una tavoletta in terracotta [fig. 24], scoperta a Kumrahar, nei pressi di Patna in Bihar, dimostra che questa tendenza architettonica prese piede a partire dall’epoca kusapa (i-iii secolo). Il monumento più celebre di questo tipo è senza dubbio il tempio di Mahaboddhi a Bodhgaya, costruito sul luogo stesso in cui il Buddha ottenne il Risveglio. Si ignora l’aspetto antico dell’edificio, totalmente ricostruito nel vii secolo dopo la sua distruzione da parte di un fanatico sovrano vivaita, Vavapka, primo re del Bengala (fine secolo vi). Il santuario, dominato da una gigantesca torre curvilinea (vikhara), circondata da quattro torri più piccole, poggia su di una piattaforma [fig. 22] in maniera simile a una montagna ideale a cinque cime (pancayatana). Il monumento, restaurato a più

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riprese, segnatamente a opera di alcuni sovrani birmani, costituì il modello di numerose repliche in Asia sudorientale e in Cina [fig. 23]. Le torri santuario con quattro avancorpi, così frequenti nell’architettura induista, si incontrano spesso in Bihar nell’epoca pala (750-1200 circa). Questa trovata architettonica ispirerà, reinterpretata dall’ingegno locale, numerose costruzioni dell’Asia sudorientale, come la cella centrale di Capdi Sewu (fine del secolo viii). La maggioranza dei paesi creerà una tipologia a sé propria. In Vri Lanka, così, si trovano piúimage costituiti in alcuni casi da una sala ipostila in pietra che fa da sostegno a dei piani in legno, che sono ora scomparsi [fig. 25], in altri casi, più di rado e soltanto a partire dal secolo xi, da una navata a volta. In Estremo Oriente si adotta il tradizionale padiglione cinese costruito su di un podio dalla funzione nuova, in cui le statue del culto trovano posto al centro della sala colonnata.

rie aree geografiche. Così numerosi monasteri (vihara, sakgharama) sorgono fuori dell’abitato, ma non tanto lontano da non poterli raggiungere con una breve marcia. Se il paese non è orograficamente omogeneo si preferiscono le zone prive di interesse agricolo, poiché non irrigabili, oppure le prime alture dei monti. Un corso d’acqua nei pressi degli edifici facilita la vita della comunità. Alle prime capanne in cui i monaci potevano ripararsi durante la stagione delle piogge si sostituiscono gradualmente delle costruzioni più ambiziose che comprendono celle, sale assembleari, servizi. Prima dell’era cristiana, in India e nel Gandhara queste diverse componenti verranno organizzate in maniera funzionale. Le celle saranno disposte intorno a un cortile quadrato. Una ampia sala (caityagrha) contenente un piccolo stupa, «oggetto di adorazione« (caitya), costituisce la parte architettonica più originale. Se ne ignora l’esatta destinazione, ma probabilmente essa serviva a radunare la comunità. Ben caratterizzata in India, nel Gandhara non sarà mai il pretesto per strutture altrettanto imponenti. In molti luoghi l’ubicazione di una simile sala assembleare resta ipotetica. Il cortile quadrato circondato da celle costituisce lo schema fondamentale della maggioranza dei monasteri indiani, come dimostrano i vihara di Ajapta, senza che la presenza di una cappella nell’asse di ingresso modifichi la concezione generale. Quanto al Bihar

Architettura monastica L’architettura monastica non ha un carattere unitario. Ogni cultura crea la sua tradizione seguendo le ispirazioni locali. I testi theravada che trattano il tema della disciplina (vinaya) servirono sì come riferimento al di là delle scissioni fra le varie scuole, ma le loro regole saranno adattate all’ambiente e alle abitudini delle va-

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22. Tempio di Mahaboddhi nello stato del xii secolo. Bodhgaya, Bihar, India.

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23. Pagoda del trono di diamante, 1748. Tempio di Biyunsi, nord-ovest di Pechino, Hebei, Cina. 24. Santuario buddhista, terracotta, ii secolo circa. Kumrahar, nei pressi di Patna, India, Patna Museum. 25. Piúimage, x secolo. Avokarama, Anuradhapura, Vri Lanka, India. 26. Pianta dello Xiantongsi, inizio dell’epoca Ming (1368-1644), Wutaishan, Shanxi, Cina. 27. Xuangongsi. Monte Hengshan, Hunyeranxian, Shanxi, Cina.

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vale lo stesso discorso per i monasteri a più piani di epoca pala. La caverna Tin Thal di Ellora documenta uno schema che deve essere stato relativamente diffuso nell’epoca post-gupta. Piccole celle circondano la sala ipostila del piano terra. Il primo piano è stato forse adoperato come cappella e sala per riunioni. La devozione cultuale propria al Mahayana e il proliferare degli ex voto comporta la moltiplicazione di antisale aperte ai fedeli, bene separate dalla clausura. Si tratta di una evoluzione, particolarmente visibile nel Gandhara e nelle regioni limitrofe, foriera di una grande varietà planimetrica degli insediamenti, che si svilupparono rispondendo in maniera organica a esigenze e condizioni specifiche del suolo, senza una vera e propria visione progettuale condivisa (per esempio Jamalgarhi nei pressi di Peshawar, oppure Charsadda e Manikyala nei pressi di Rawalpindi). Non avviene lo stesso in Estremo Oriente. La protezione di sovrani e di potenti desiderosi di ostentare in istituzioni grandiose la propria fede, l’adozione dei principi dell’architettura cinese dedita alle sedi di potere, simmetricamente ordinata secondo un asse sud-nord [fig. 26] e, parallelamente alla tradizionale regola di erigere monasteri fuori degli agglomerati urbani, la creazione di nuovi conventi al centro delle città, comportarono delle profonde modifiche dell’architettura monastica. In epoca Tang (618-907), così, malgrado le lacune della

documentazione, sembra di potere affermare che una regolarità vieppiù marcata nel corso del tempo sia la caratteristica dei grandi monasteri. Pagoda in principio unica, poi raddoppiata all’ingresso, coppia di pilastri ottagonali intarsiati con formule scongiuratrici (dharapi) disposti simmetricamente rispetto a ciascun lato degli ingressi, moltiplicazione dei cortili che danno accesso ai vari santuari, abitacoli dei monaci e servizi arretrati in strutture secondarie laterali, il monastero buddhista cinese prese in quell’epoca il proprio aspetto definitivo. I Liao (907-1125) in Cina settentrionale, i Song (9601279) e i Ming (1368-1644) perpetuarono questa tradizione. I complessi monastici fondati in Giappone nei secoli vii e viii ne testimoniano la diffusione. Numerosi monasteri costruiti in zone rurali fanno proprio il medesimo disegno assiale, ma altri situati fra le montagne possiedono una organizzazione pittoresca. Gli esempi abbondano in Cina e in Corea. Gli eleganti edifici dello Xuangongsi, negli antri del monte Hengshan (Shanxi), forse ne offrono degli esempi rappresentativi [fig. 27]. L’architettura rupestre costituisce un’altra grande tradizione. Le sue origini sono antecedenti al buddhismo. Anacoreti e penitenti di ogni sorta, dediti a una vita di privazioni estrema, usavano ritirarsi in rifugi rocciosi, particolarmente abbondanti nell’India centrale e nel Dekkan. Le prime caverne abitate si trovano nei dintorni di Gaya, fra

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le colline di Barabar e di Nagarjuni. Esse datano al regno di Avoka e di suo nipote Davaratha. Su sette grotte, almeno quattro appartengono alla disciplina degli Ajivika, asceti brahmanici che forse intrattennero rapporti con il jainismo e il cui pantheon includeva varie divinità vediche. A partire da ii secolo a.C., dei siti quali Guntupalli nella zona geografica andhra, e poi nel i secolo numerose dimore nel Maharastra, mostrano la rapidità delle comunità buddhiste nell’adottare e sviluppare questa originale formula architettonica. Le caverne buddhiste indiane sono dei veri e propri monasteri, e possiedono le stesse strutture delle costruzioni conventuali: piccole celle che si aprono su di uno spazio centrale quadrangolare, grande sala assembleare destinata alla preghiera e alla liturgia, grondaie per incanalare l’acqua piovana ed eventuali cisterne. Questi monasteri rupestri sono evidentemente preziosi, in quanto imitano piante ed elevazioni di edifici costruiti in materiali deperibili e quindi scomparsi per sempre. Essi costituiscono anche i primi esempi di una lunga tradizione che si andrà diffondendo fino all’Oriente estremo. In India, queste residenze rupestri sono realizzate principalmente per le esigenze della comunità. Le caverne centroasiatiche e cinesi obbediscono invece a una differente esigenza. Scavate nel fianco di dirupi montani, esse fanno da complemento a istituzioni monastiche costruite a un livello inferiore. La presenza di comunità è talora attestata come a Qyzyl; altrove, certe grotte sembrano essere servite da dimora per monaci guardiani (Bamiyan), ma la maggior parte delle caverne buddhiste fuori dell’India costituisce degli immensi templi aperti alla devozione dei fedeli. Si è soliti studiare i siti rupestri seguendo il lento percorso che conduce da occidente verso oriente, il distendersi delle piste carovaniere della Via della Seta, dall’Afghanistan fino alla Cina [figg. 2829]. La realtà è più complessa. Yungang nello Shanxi, scavato nel v secolo, è contemporaneo a Bamiyan in Afghanistan e ai più antichi dei siti dell’oasi di Kucha. Queste grandiose realizzazioni sono in effetti contemporanee e fanno parte di una medesima corrente spirituale che va oltre le culture locali [fig. 30]. Salvo eccezioni, la grande arte rupestre sarà ignorata in Giappone e nei paesi dell’Asia sudorientale. L’odierno stato rovinoso delle facciate di queste grotte non deve ingannare. In origine strutture in legno aggiunte alla roccia davano loro l’aspetto di veri e propri edifici sacri. Tet-

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ti proteggevano le pareti montuose dai pericoli di erosione. Quasi la totalità di queste facciate artificiali sono scomparse oppure sono state ricostruite in età recente. I fondamenti dell’arte buddhista Quale che sia il paese asiatico in cui il buddhismo ha messo radici e quale che sia la forza delle tradizioni culturali autoctone, l’arte resta debitrice degli antichi princìpi che, fin dall’antichità più remota, presiedono alla edificazione delle architetture sacre e alla rappresentazione dei personaggi mitologici e divini. Le fondamenta dell’arte indiana, veicolate più o meno consciamente dal buddhismo come complesso di dati brahmanici, vivono pertanto una immensa diffusione. L’opera d’arte era eseguita al fine di accrescere i meriti del committente, il cui nome precedeva tutto il resto nelle cerimonie di consacrazione e nelle iscrizioni. Quello dell’artigiano, nella tradizione indiana, nella maggioranza dei casi passa sotto silenzio. È dunque arduo interpretare certe iscrizioni, in quanto il sanscrito non distingue il committente dall’artista. Tale ambiguità è minore per quanto con28 29

28. Episodi del Saddharmapupdarika sutra, dipinto su impasto di argilla e paglia, vii-prima metà viii secolo. Grotta n. 217, Dunhuang, Gansu, Cina. 29. Maijishan Gansu, Cina. 30. Principali siti rupestri buddhisti cinesi.

cerne i paesi estremo-orientali, dove i pittori presero ben presto a firmare le proprie opere. Le dediche iscritte sui monumenti buddhisti dell’India antica sottolineano l’importanza delle donazioni offerte dai guerrieri (ksatriya), dai mercanti e dai cortigiani di alto lignaggio. Gli Occidentali credono spesso che la maggioranza delle opere d’arte buddhiste sia stata realizzata da membri del clero. Ogni qualvolta le fonti forniscono precisazioni sulla condizione sociale degli esecutori (vilpin), si constata invece che i monaci, benché presenti, sono rari, e che per lo più gli artigiani sono dei laici la cui arte è stata appresa spesso nell’ambiente familiare. L’erezione di un monumento, uno stupa per esempio, perpetua con relativa fedeltà antichi rituali che trovano origine nella costruzione dell’altare vedico. Scelta del terreno, data propizia all’inizio dei lavori, sequenza di cerimonie a ogni tappa importante della esecuzione, consacrazione finale, tutto obbedisce a minuziose prescrizioni. Lo stesso vale per le raffigurazioni sacre. Ogni fase in cantiere partecipa di un complesso teorico liturgico che termina con la chiusura di un deposito consacrato posto nel dorso della statua o all’interno del suo piedistallo e costituito dalle più varie reliquie e da elementi simbolici. La «apertura degli occhi delle divinità«, sia dipinte che scolpite, dà compimento a questo procedimento rituale e conferisce valore rituale (pranapratistha) all’opera. L’esatto svolgimento di queste cerimonie religiose non è per nulla uniforme e varierà molto a seconda dei paesi e delle scuole. Si tratta di un aspetto dell’arte buddhista ancora poco studiato e mai nella sua globalità storica. Parimenti all’arte indiana nel suo complesso, l’arte buddhista rappresenta un mondo ideale privo di rapporti diretti con la realtà quotidiana. Questa trasposizione mentale dal «visto« al «conosciuto« si presta particolarmente bene alla evocazione del sakbhogakaya. I personaggi obbediscono a delle codificazioni prestabilite, sempre più stringenti con il passare del tempo, corrispondenti a degli schemi mentali che facilitano una «lettura« veritiera da parte dell’osservatore. L’arte buddhista ha in effetti ereditato dall’India una generale tendenza alla codificazione. Così, a partire dal iii secolo, si impongono «sei regole« (sadapga) alle quali l’opera d’arte deve conformarsi: la scienza delle forme (rupabheda), il senso dei rapporti o delle esatte misure (pramapa), l’influenza del sentimento (bhava) sulla forma, il senso della grazia (lava­piya-yoganam), le comparazioni (sadrvyam) e la scienza dei colori (varpika-bhan-

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ga). Il retaggio dell’arte indiana fa sì che l’arte buddhista attribuisca una grande importanza alle proporzioni delle immagini (talamana). Nel subcontinente esistono numerosi trattati (vastra) che descrivono gli schemi ideali delle rappresentazioni dei personaggi sacri e le loro «esatte misure« (pramapa). Vanno menzionati, come patrimonio comune a tutte le scuole, il Manasara, il Pratimanalaksapam conosciuto dalla tradizione tibetana, il Matsyapurapam, il Kavyapavila, il Brhatsakhita, e lo Variputra. La tradizione pali non è meno ricca. La perfezione delle proporzioni e la bellezza formale favoriscono in effetti l’efficacia spirituale delle immagini. Le anomalie plastiche, al contrario, rendono l’opera inadatta sia alla funzione cultuale sia a quella di ausilio nella meditazione. I testi indiani distinguono così delle unità di misura che rinviano alla corporatura dello stesso committente o dell’esecutore. Due hanno rilievo particolare: apgula e tala. L’apgula corrisponde al dito dell’artista e il tala alla lunghezza del palmo della mano, ovvero dello spazio compreso fra le estremità del suo pollice e del suo anulare estesi al massimo. La parola tala, scritta a volte tala, serve anche a designare il volto di un personaggio. Certi testi dell’India meridionale fissano l’altezza totale della immagine di una divinità a nove tala, vale a dire nove volte la dimensione della testa, corrispondente a un totale di centonove apgula. Si tratta di prescrizioni parziali e puramente teoriche. Le unità di misura e le proporzioni suggerite variano da un personaggio sacro all’altro, da una tradizione locale o testuale a un’altra e, di tutta evidenza, a seconda delle abitudini di ogni laboratorio artistico. L’idea tuttavia persiste, e talune opere grafiche incompiute o destinate a fare da modello mostrano una sottile rete di linee finalizzate a proporzionare perfettamente la rappresentazione religiosa. Questo grafico in seguito era nascosto dall’aggiunta dei colori [fig. 31]. Le espressioni dei protagonisti sono fissate con analoga cura. Esse indicano dei sentimenti (bhava) e provocano delle sensazioni (rasa) negli osservatori. Bhava e rasa corrispondono a delle liste stabilite definitivamente senza dubbio in epoca gupta (320-647 circa). Le immagini buddhiste ereditano dall’India anche le basi fondamentali della loro iconografia (pratimalaksapa). Questi elementi iconografici travalicano i confini fra confessioni religiose dal momento che governano in maniera uguale le rappresentazioni delle divinità induiste, in maggioranza posteriori alle testimonianze più re-

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31. Gapapati, inchiostro su tela, xix secolo. Museo delle Belle Arti, Ulan Batar, Mongolia.

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32. Principali mudra: a) vajrahumkara mudra; b) prajnalingana bhinaya, abbraccio; c) varada mudra, donazione; d) bhumisparva mudra, prendere la terra a testimone; e) dharmacakra mudra, predicazione, fare girare la «Ruota della Legge«; f) vitarka mudra, argomentazione; g) bodhyagri mudra, impugnare il Risveglio; h) abhaya mudra, protezione, assenza di vanità; i) anjali mudra, offerta; j) dhyana mudra, meditazione.

mote dell’arte buddhista. Essi fanno riferimento a campi assai vari della cultura indiana, quali la danza, il teatro o la poesia. L’emergere del Mahayana nel i secolo favorisce uno sviluppo, embrionale in epoca antica, delle codificazioni iconografiche senza precedenti, codificazioni che diverranno sempre più rigide con il passare del tempo. In epoca gupta vengono redatti dei trattati sulla realizzazione delle immagini (vilpavastra) e dei trattati di iconografia oggi perduti. Il Vajrayana, nel moltiplicare all’infinito le dimensioni del pantheon religioso, attribuisce una grande importanza alle raccolte iconografiche, la più celebre delle quali, la Nispannayogavali, è una compilazione messa assieme nel secolo xi, a partire da tradizioni più antiche, nell’India nordorientale. Anche la maggioranza dei gesti rappresentati risponde a minuziose indicazioni. Questi gesti, chiamati «sigilli« o «segni« (mudra), traggono origine dalla gestualità dei predicatori che, durante le sedute oratorie, dovevano rendere chiara agli uditori, talora lontani, la natura degli argomenti logici adoperati. Gesti del genere sono ancora in uso nei monasteri tibetani in occasione di dibattiti filosofici. I mudra sono innumerevoli. In epoca antica furono oggetto di parecchi sommari e libretti di illustrazioni [fig. 35]. I più importanti corrispondono ai gesti compiuti da Vakyamuni in occasione degli avvenimenti principali della sua ultima vita terrena (iryapatha [fig. 32]). Il

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35. Mudra, inchiostro su carta, fine ix secolo. Londra, The British Museum (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, Cina).

33. Principali posture: a) sthanaka, in piedi; b) tribhanga, tripla flessione; c) vajraparyanka, postura del loto o del diamante; d) ardhaparyanka, postura del rilassamento; e) sattvaparyanka, postura nobile; f) postura di Acala; g) maharajalilasana, atteggiamento regale; h) pratyalidha, postura flessa verso destra; i) ardhaparyanka, postura del rilassamento; j) alidha, postura flessa verso sinistra. 34. Principali mudra: a) Buddha, scisto, ii secolo circa. Londra, The British Museum (provenienza: Gandhara, Pakistan); b) Maitreya, bronzo, xii secolo. Collezione privata (provenienza: Tibet, Cina); c) Il re Khri-srong ldebr-tsar, argilla essiccata dipinta, 1423. Chos-rgyal lha-khang, gTsuglag-khang, Chos-sde, rGyal-rtse, Tibet meridionale, Cina; d) Maitreya, bronzo dorato, x-xi secolo. San Pietroburgo, Museo di Stato dell’Ermitage (provenienza: Kashmir, India); e) Il bodhisattva Mapjuvri, bronzo dorato incastonato, xvi secolo. The Zimmerman Collection (provenienza: Tibet, Cina).

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«gesto di prendere la Terra a testimone« (bhumisparva mudra) equivale a sfiorare la terra con la mano destra. In occasione della tentazione di Mara, fu così che Vakyamuni prese la dea Terra a testimone del proprio giuramento di insegnare alle creature il mezzo per sfuggire al ciclo causale e di non salvarsi solo. Il «gesto di meditazione« (dhyana mudra), eseguito dopo il Risveglio, consiste nel porre le mani in grembo con il dorso della mano destra sul palmo della sinistra. Il «gesto di fare girare la Ruota della

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Legge« (dharmacakra mudra oppure dharmacakrapravartana mudra), effettuato in occasione del primo sermone a Sarnath, consiste nel congiungere il pollice e l’indice di ciascuna mano e nel mostrare i due cerchi in tale modo figurati, mano destra rivolta all’osservatore, mano sinistra verso sé. Esso ha numerose varianti che corrispondono a delle distinzioni fra scuole ancora non ben conosciute [fig. 34]. Ne deriva il «gesto di insegnamento« o «di argomentazione« (vitarka mudra o vyakhana mudra), che si limita a congiungere pollice e indice della sola mano destra alla maniera del dharmacakra mudra. Il «gesto di assenza di timore« (abhaya mudra), mano destra con il palmo dritto verticalmente in avanti, permise al Buddha di calmare Nalagiri, l’elefante furioso liberato per le strade di Rajagrha su istigazione di Devadatta, il cugino geloso. Il «gesto del dono« (varada mudra oppure vara mudra), mano destra abbassata verso il suolo con il palmo in direzione dell’osservatore, fu eseguito da Vakyamuni in occasione della discesa dal cielo dei Trentatré dei (Trayastrikva), a Sakkavya. Il Vajrayana moltiplicherà i gesti canonici. Il più noto è senz’altro il «gesto di impugnare il Risveglio« (bodhyagri mudra), appannaggio del buddha

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38. Buddha, stampino (pochoir), inchiostro su carta, metà x secolo. Londra, The British Museum (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, Cina). 36. Zanabazar (1635-1723), il bodhisattva Maitreya, rame dorato. Ulan Bator, Museo di storia della religione, Mongolia. 37. Mahavajrabhairava, rame dorato, xv secolo. Collocazione odierna sconosciuta (provenienza: Cina settentrionale).

39. Raccolta iconografica quadrilingue, stampa su carta, 1431. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: Cina settentrionale). 40. Nyi-ma’odzer, aspetto di Padmasambhava, disegno xilografato, xix secolo. Tibet, Cina.

supremo, il jina centrale Vairocana, la cui mano destra stringe l’indice e il medio della mano sinistra. Le posture sono altrettanto minuziosamente codificate [fig. 33]. Si distingue fra posture in piedi (sthanaka), senza flessione (samabhanga), con doppia (dvibhanga oppure abhanga) o tripla flessione (tribhanga) e posture seduti (asana), «nobile« (sattvaparyanka), a gambe incrociate, la destra poggiata sulla sinistra, le ginocchia lontane fra loro, «in loto« (padmaparyanka) o «in diamante« (vajraparyanka), con le gambe strettamente incrociate orizzontalmente, le piante dei piedi rivolte verso l’alto; «in rilassamento« (ardhaparyanka), con la gamba destra sospesa e la sinistra ripiegata, o «in atteggiamento regale« (maharajalilasana), con il piede destro sul seggio, il ginocchio che sostiene la mano, la gamba sinistra sospesa. Alcuni segni distintivi giocano, infine, un ruolo fondamentale per definire l’identità dei bodhisattva e dei personaggi secondari. Ed è così anche per certi elementi del vestiario, degli ornamenti e dei colori, sovente canonici, in particolare quelli della carnagione. Come nell’arte dell’India antica, i paradigmi iconografici classici vietano ogni componente non armoniosa. I personaggi, di aspetto giova-

nile, rispondono a un canone somatico ispirato al corpo femminile, che conferisce a taluni bodhisattva un aspetto quasi ambiguo agli occhi degli occidentali [fig. 36]. Lo sviluppo del Mahayana provoca poco a poco una immissione di rappresentazioni più espressive che contrastano con la soavità di numerose iconografie religiose. Il Vajrayana sviluppa temi suoi propri, non esita a introdurre elementi simbolici ricchi di accentuazioni macabre o sessuali [fig. 37], e moltiplica anche, continuando una tradizione della iconografia religiosa indiana, le teste e gli arti delle divinità. Quest’ultima caratteristica fa riferimento a contesti agiografici sviluppati in maniera prolissa nelle scritture, oppure serve a mostrare la potenza degli esseri sovrumani, sostanzialmente in fatto di dominio da parte loro sulle forze ostili alla religione. Essa sottintende dei significati iconologici più o meno complessi, o semplicemente, come nel caso della moltiplicazione dei tratti caratteristici, aiuta a individuare i numerosissimi personaggi del pantheon. Ben presto, dei trattati iconografici illustrati sistematizzano le raffigurazioni religiose [fig. 39]. La volontà di moltiplicare le immagini sacre nel contesto devozionale del Mahayana e del Vajrayana impone di ricorrere alla tecnica dello spolvero, adoperata per produrre tanto dipinti portatili quanto dipinti murali, come a Dunhuang [fig. 38]. Per le medesime ragioni in Tibet, a partire dalla fine del xvii secolo, dei procedimenti xilografici permettono la riproduzione, in poco tempo e con una fedeltà perfetta, dei disegni complessi che, una volta colorati, avranno pieno diritto di fare parte della più sofisticata arte sacra [fig. 40]. L’iconografia aniconica La prima iconografia buddhista non raffigura il Buddha Vakyamuni sotto forma antropomorfica ma ne suggerisce la presenza in maniera simbolica, per mezzo di «immagini non manifeste« (avyaktamurti). Le ragioni di tale mancanza di icone si ignorano. Essa non è dettata da un divieto iconografico come quello praticato dal giudaismo e dall’islam. Esistono, certo, testi del canone pali, quali il Sutta Nipata, che sottolineano la impossibilità di concettualizzare la sostanza dell’essere di Vakyamuni, ma i più antichi artisti evitano di raffigurare il futuro Beato anche prima del suo accesso al Risveglio, quando egli altro non è che «bodhisattva«. Questa presa di posizione, contraria alla tendenza a realizzare dei cicli narrativi di carattere

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apologetico, continua una antica tradizione brahmanica di non rappresentare gli dei vedici antropomorficamente bensì di evocarli tramite simboli cultuali. In una prima fase, pertanto, gli esecutori suggeriscono la presenza di Vakyamuni attraverso immagini emblematiche quali l’albero del Risveglio, la Ruota della Legge, un pilastro fiammeggiante, l’impronta dei suoi piedi (buddhapada), un cuscino con la svastica, segno particolarmente fausto, e, ovviamente, lo stupa, simbolo del parinirvapa. Talora il centro della composizione rimane vuoto, con l’immagine del Beato semplicemente omessa, anche se un parasole o altri elementi indicano omaggio o rispetto [fig. 41]. Taluni di questi simboli sono attestati già prima dello sviluppo del buddhismo. La nuova religione li fa propri e ne trasforma il significato. Molti di loro evocano un episodio preciso della storia del Buddha. Per esempio, i montanti fra le traverse della parte superiore del torapa est dello stupa n. 1 di Sanci mostrano sulla loro faccia esterna la dea Laksmi, che evoca la natività; l’albero e il trono evocano il risveglio; la ruota evoca il primo sermone. Alcuni continueranno ad esistere come oggetti di culto indipendentemente dallo sviluppo delle rappresentazioni iconiche. È così ad esempio per le impronte dei piedi del Buddha, che vanno messe in relazione a raffigurazioni analoghe presenti in altre religioni indiane [fig. 42]. Nell’Asia sudorientale esse presentano spesso cento otto segni caratteristici. Una delle più celebri si trova a Ceylon, sul Sumanakuta («picco di Sumana«), chiamato dagli occidentali «picco di Adamo«. I jataka La presenza sui bassorilievi della balaustra dello stupa di Bharhut (seconda metà del ii secolo o inizio del i secolo a.C.) di numerosi episodi delle vite anteriori, jataka, del Buddha, attestano l’antichità di questi cicli leggendari [fig. 44]. La lunga successione delle vite precedenti di Vakyamuni lo porta infatti a fare sfoggio delle dieci «perfezioni« (paramita) nel corso di esistenze di vario tipo, anche di natura animale. Benché la lista di queste virtù sia diversa a seconda delle scuole religiose, tutte le tradizioni considerano il dono come la più importante di esse. Una delle rinascite più famose, riportata dal Vessantara jataka, esalta tale virtù. Il complesso dei jataka nella tradizione pali consiste di cinquecentoquarantasette testi nella redazione classica, ripartiti in ventidue sezioni (nipata),

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41. Scena di omaggio al Buddha, calcare marmoreo, ii secolo circa. Londra, The British Museum (provenienza: Amaravati Andra Pradesh, India). 42. Buddhapada, pietra, seconda metà xvi secolo, Preah Pean di Angkor Vat, Angkor, Cambogia. 43. Vibi jataka, pietra, ii secolo circa. Londra, The British Museum (provenienza: Gandhara, Pakistan).

secondo il numero delle loro stanze. Questa classificazione ha delle eccezioni, indicative dei cambiamenti avvenuti dopo che il testo era stato fissato. Sembra in effetti che l’assieme abbia incluso numerose fiabe preesistenti di carattere moraleggiante reinterpretandole in una prospettiva buddhista. A causa della varietà tematica e della natura pittoresca delle situazioni trattate, con frequenti interazioni fra uomini e animali, i jataka sono stati fino allora il soggetto di vari cicli narrativi. I trentaquattro jataka più importanti vengono ripresi nel Cariyapitaka (Il Canestro dei modi di agire), un’altra compilazione del canone pali. I jataka, rappresentati a volontà nei paesi a egemonia theravada, furono paradossalmente meno frequenti nell’arte del Gandhara [fig. 43]. Contrariamente ad altri soggetti dell’iconografia buddhista, essi non obbediscono ad alcuno schema compositivo stringente. L’interpretazione iconografica di queste storie a sfondo morale è lasciata all’ingegno di ciascuna scuola artistica. Gli avadana del canone sanscrito, noti nella tradizione pali con il termine apadana, sono dei racconti simili ai jataka. Queste «gesta«, compiute nella loro trasmigrazione spirituale attraverso varie

condizioni di esistenza sia dal futuro Buddha sia da esseri devoti, vedono la partecipazione delle divinità (deva) e dei dannati sottoposti alla pena della fame (preta). Lo Avadapavataka contiene alcune delle più celebri leggende del buddhismo. Alcuni racconti si ritrovano sotto una forma simile nei jataka del canone pali. Una famosa traduzione farà conoscere questa raccolta nella cultura tibetana.

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La raffigurazione del Buddha

44. Mahakapi jataka, pietra, seconda metà ii o inizio i secolo a.C. Calcutta, Indian Museum (provenienza: Bharhut Pradesh, India).

L’abbandono della iconografia aniconica resta uno degli enigmi della archeologia indiana. Essa non fu sistematica, in quanto in rilievi contemporanei del grande stupa di Amaravati, il Buddha talora viene omesso, talaltra viene invece rappresentato. Sembra che l’aniconografia sia stata abbandonata progressivamente. Vakyamuni e poi, come lui, gli altri buddha, sono rappresentati come monaci. Indossano una tunica (antaravasaka) e, su di essa, una veste (uttarasanga) alle quali nelle regioni fredde si aggiunge un mantello (kasaya). Il Buddha è considerato come un «grande uomo« (mahapurusa) e possiede, in quanto tale, dei segni dis-

tintivi (laksapa), trentadue principali e ottanta secondari. È evidente che nessun esecutore ha mai realizzato una qualunque immagine conforme a criteri tanto stringenti. Solo un piccolo numero di caratteristiche, diffuse in Asia dall’arte del Gandhara [fig. 45] e dall’arte gupta, costituiscono i tratti distintivi di Vakyamuni, degli altri buddha storici (manusi buddha) e dei buddha in genere [fig. 46]. Abbiamo così l’uspisa, una protuberanza sul cranio, all’altezza della fontanella, e l’urpa, un ciuffo di peli bianchi fra i due occhi. L’origine di questi segni e la loro interpretazione sono discussi, tanto da non poterne qui tentare una sintesi. Un altro tratto distintivo è di natura aneddotica. Il Buddha, durante la sua gioventù principesca, portava degli orecchini il cui peso allungava i lobi delle orecchie. Quando si libera dei gioielli, i lobi bucati e allungati gli arrivano fino all’altezza delle spalle. Altri segni non vengono rappresentati in maniera sistematica. Per esempio le dita palmate, alcune Ruote della Legge sui palmi delle mani e le pianta dei piedi, la pelle dorata, i talloni larghi, le dita allungate, gli occhi neri e la mascella paragonabile a quella di un leone, provvista di quaranta denti uguali, senza

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del passato e annuncia la venuta del Buddha del futuro Metteya (Maitreya). Esso include diversi episodi del percorso di Vakyamuni. Due testi sanscriti ebbero nondimeno una importanza capitale per lo sviluppo dell’iconografia: il Lalitavistara e il Mahavastu. Il Lalitavistara ([Biografia] sviluppata a piacere) appartiene alla tradizione Mahayana, anche se lo si può mettere in rapporto con il canone più antico dei Sarvastivadin. È stato senza dubbio redatto al principio del i secolo. Il Mahavastu (Grande Maestro) mette l’ultima esistenza del Buddha in relazione con le sue vite precedenti. I due testi insistono sugli episodi della giovinezza e sull’inizio della vocazione religiosa, fino al primo sermone a Sarnath. Il Mahavastu include, 47

47. Sutra delle cause e degli effetti (Eingakyo), inchiostro e colori su carta, metà viii secolo. Nara, Museo Nazionale (provenienza: Jobonrendaiji, Kyoto, Giappone). 48. Il sogno di Maya, pietra, seconda metà ii secolo o inizio i a.C. Calcutta, Indian Museum (provenienza: Bharhut, Madhya Pradesh, India).

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spazi fra loro e bianchissimi. Le braccia sono così lunghe da raggiungere le ginocchia (ajanulambita bahu). Il suo corpo ha la solidità del legno dell’albero vala. Molti testi, alcuni dei quali conobbero una enorme diffusione, narrano gli episodi dell’ultima esistenza terrena di Vakyamuni [fig. 47]. Nel canone pali, il Mahavagga incomincia con un racconto della vita del Buddha, a partire dal suo Risveglio fino all’inizio della predicazione, prima di precisare le regole di ammissione alla comunità e vari punti della disciplina. Il Mahaparinibhana sutta (Testo della Grande Estinzione Totale), riporta l’ultimo anno della vita del Buddha, la sua morte e i suoi funerali, in un racconto intramezzato da dialoghi. Il Buddha­ vaksa racconta la storia di ventiquattro buddha

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45. Buddha, scisto, ii-iii secolo, Lahore Museum (provenienza: Gandhara, Pakistan). v

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46. Buddha, pietra, secolo. Sarnath Museum, Sarnath, Uttar Pradesh, India.

tuttavia, alcuni importanti episodi posteriori. Il Divyavodana (Gesta divine), un altro racconto, avrebbe in origine fatto parte della tradizione dei Mulasarvastivadin. Bisogna citare anche il Karmavataka e l’Avadapavataka. La carriera del Buddha ispirò dei testi più tardi, redatti a partire da compilazioni varie. Secondo la tradizione, in epoca kusapa (secoli i-iii) il monaco del Gandhara Sangharaksa mise assieme, su richiesta del famoso imperatore Kaniska, il Buddhacarita (Atti del Buddha). Avvaghosa, quasi suo contemporaneo, scrisse un’altra biografia. In epoca pala (750-1200 circa), Ksemencadra, un erudito forse induista ma favorevole al buddhismo, compose l’Avadapakalpalata su richiesta di uno dei suoi amici buddhisti di nome Nakka, con l’aiuto dell’acarya Viryabhadra. Una prima versione del testo venne completata nel 1052. Da segnalare anche la ancora più tarda versione dello storiografo tibetano Taranatha (1570-1634?), composta di non meno di venticinque episodi. In tale congerie di testi, ben più complessa di quanto non lasci intravedere questa enumerazione di trattati celebri arricchiti di vari avvenimenti secondari derivanti da una moltitudine di scritti filosofici e di altra natura, i prestiti e le reciproche influenze sono ovviamente numerosissimi. La storia del Buddha, come raccontata nel Lalitavistara, descrive una trama storicamente indiscutibile, resa ancora più credibile dalla presenza di contraddizioni o di dettagli difficilmente accettabili dalla mentalità moralista e bigotta dei letterati buddhisti del i secolo, periodo in cui il testo vide probabilmente la redazione defin-

itiva. L’assieme è tuttavia immerso in un miscuglio fantasioso, in cui interventi soprannaturali si amalgamano con digressioni narrative. I medaglioni della balaustra di Bharhut presentano una iconografia, relativamente elaborata, di molti avvenimenti della vita di Vakyamuni [fig. 48], quando le principali biografie del Buddha, sicuramente già composte e trasmesse oralmente, non sono ancora messe per iscritto. L’iconografia aniconica, a Bharhut come ad Amaravati, comprende episodi che diventeranno inusuali, quali l’acquisto del Jetavana da parte di Anathapidada oppure la visita del Buddha ad Ajatavatru, il re parricida. Questa libertà nella scelta delle scene – forse lasciata all’iniziativa del committente – e una vera e propria capacità inventiva nella composizione cedono poco a poco il passo a schemi più convenzionali. Le scuole artistiche delle quali resta un numero consistente di episodi della vita di Vakyamuni sono oggi poche: il Gandhara e la sua infinità di bassorilievi, Java e il ciclo del Borobudur, i dipinti murali della Thailandia e del Tibet. Altrove, sembrerebbe che le immagini non abbiano raffigurato che gli otto eventi principali della vita del Beato, le «otto grandi dimostrazioni illusorie« (astamahapratiharya), a cui si aggiungono un certo numero di episodi secondari che godono di una certa venerazione locale. Questo carattere lacunoso delle opere conservateci chiaramente non dà conto della realtà. Il fatto che la pittura sia quasi scomparsa dal mondo indiano impedisce oramai di conoscere la formazione e lo sviluppo di tali cicli iconografici, come pure dei manualetti illustra-

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ti dei dipinti su tela. Su questo punto, i dipinti murali dei monasteri dell’India gupta o delle università pala costituiscono delle testimonianze essenziali senza le quali è difficile trovare le fonti di molti schemi iconografici largamente diffusi in Asia.

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La vita del Buddha [fig. 49] Il futuro Buddha, come ogni bodhisattva prima di affrontare la sua ultima esistenza terrena, rinasce nel cielo dei Tusita, gli dei «soddisfatti«, per una penultima incarnazione. Lì, sotto le spoglie di Vvëtakëtu («Apparizione Bianca e Splendente«), egli riceve le suppliche delle divinità dei «Diecimila Mondi« giunti a pregarlo di nascere per un’ultima esistenza fra gli uomini, essendo la condizione umana l’unica che permette l’accesso al Risveglio completo [fig. 50]. Dopo avere deciso le modalità della sua destinazione futura, egli investe solennemente

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il proprio successore, il bodhisattva Maitreya. Per l’ultima vita terrena sceglie, in ragione della sua purezza, la famiglia del re Vuddhodana, del clan degli Vakya, a Kapilavastu, senza dubbio l’odierna Tilaurakot, nel Terai nepalese. Vuddhodana discendeva dalla genealogia brahmanica di Gotama, cosicché Gautama, derivato da quel nome, serve talora a designare il Risvegliato. Sotto forma di un elefante bianco egli penetra nel ventre della madre, la regina Maya, la quale conserverà un ricordo onirico di tale miracolo. Questo sogno presagisce la nascita di un figlio che diverrà un sovrano universale

49. Luoghi della vita del Buddha. 50. Il bodhisattva Vvëtakëtu nel cielo dei Tusita, prima della sua ultima incarnazione, ix secolo. Borobudur, primo corridoio (Giava, Indonesia). 51. Nascita di Siddhartha, grès, vii secolo circa. Kathmandu, Museo Nazionale (provenienza: Nepal).

52. Il bagno del neonato nel parco di Lumbini e i suoi primi passi, inchiostro e colori su seta. Londra, The British Museum (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, Cina). 53. Il ritorno a Kapilavastu in palanchino, scisto, ii-iii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: Gandhara, Pakistan).

(cakravartin) o un penitente. Dieci mesi lunari dopo questo concepimento miracoloso, Maya desidera fare visita ai propri genitori. Lascia la capitale in compagnia di Mahaprajapati Gautami, sua sorella minore. Durante il viaggio, conscia del parto imminente, la regina si sofferma nel parco regale di Lumbini. Come si conviene a una madre di Buddha, ella mette alla luce il futuro Risvegliato restando in piedi, con il braccio destro sollevato, tenendo l’estremità di un ramo di un albero avoka [fig. 51]. L’iconografia antica attribuisce il medesimo gesto alle driadi (yaksi), compagne dei silvani (yaksa). Il neonato, uscito dal ventre di Maya in una bolla d’oro, viene raccolto dalle divinità induiste Cakra (Indra) e Brahma, le quali lo depongono al centro di un immenso loto spuntato miracolosamente. Il bambino compie allora

sette passi in direzione nord e poi in direzione degli altri punti cardinali e fa giuramento di vincere «la malattia e la morte«, affermando così la propria supremazia sul mondo fenomenico [fig. 52]. Sette giorni dopo il parto Maya muore e si reincarna nel cielo dei Trentatré dei (Trayastrikva), oppure, a detta di altre fonti, in quello dei Tusita. Il bambino sarà allevato dalla zia Mahaprajapati Gautami, la seconda sposa del re. Riportato a Kapilavastu, egli viene presentato al tempio del dio Abhaya («Privo di Timore«), protettore del clan degli Vakya. Suddhodana nell’occasione dà al figlio il nome di Siddhartha («Che ottiene successo«) [fig. 53]. L’oroscopo effettuato dagli indovini e i segni da mahapurusa che egli porta rivelano il suo destino eccezionale. Il saggio Asita riconosce allora in lui il futuro Buddha e piange la pro-

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pria vecchiaia che gli impedirà di assistere all’esito degli avvenimenti. Negli anni giovanili Siddhartha mostra tanto agilità negli esercizi fisici quanto sagacia negli impegni intellettuali. A sedici anni, decide di sposarsi e nota la sua futura prima sposa in occasione della distribuzione di corredi alle fanciulle. Conquista la bella Gopa («Vaccara della terra«) durante delle gare nel corso delle quali riesce a sollevare e a tendere l’arco di Sikhahanu, un antenato [fig. 54]. I testi non possono ignorare, con evidente imbarazzo, l’esistenza di più spose, fra cui Yavodhara («Portatrice di gloria«). Il sovrano, desideroso di mantenere il figlio al servizio del

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regno, lo stordisce con una vita ricca di piaceri e lontana dal mondo, vissuta all’interno di palazzi e giardini. Nel corso di quattro delle sue escursioni verso dei parchi di piacere, il principe, accompagnato dal suo scudiero Chandaka, fa quattro incontri decisivi [fig. 55]. Prima trova sul proprio percorso un vecchio e interroga in proposito lo scudiero. Chandaka non può mentire: tutto con l’avanzare dell’età diviene decrepito. Durante altre sortite, Siddhartha incrocia un malato, un morto che la famiglia porta al becchino, un sant’uomo che ha rinunciato al mondo. L’iconografia buddhista darà con molta evidenza a questo asceta

54. La gara per ottenere la mano di Yavodhara, colori su seta, seconda metà ix secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, Cina). 55. I quattro incontri, colori su seta, seconda metà ix secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, Cina).

57. La «Grande Partenza«, calcare marmoreo, i-inizio del ii secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: Ghaptasala, Andhra Pradesh, India).

56. Siddhartha in mezzo alle proprie donne addormentate, calcare marmoreo, ii secolo circa. Londra, The British Museum (provenienza Amaravati, Andhra Pradesh, India).

58. La sconfitta di Mara, colori su seta, seconda metà ix secolo-inizio x. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu, Cina).

i tratti di un monaco, modernizzando per l’osservatore questo racconto apologetico. I quattro incontri provocano nel giovane una intensa crisi spirituale. Dopo avere compiuto il proprio dovere dinastico nei confronti della genealogia paterna con la messa al mondo di un figlio, il principe aspira a rinunciare alla propria condizione. Questo figlio, che alcune fonti fanno nascere dopo la sua partenza, sarebbe venuto al mondo durante una eclissi, da cui il nome di Rahula («Preso da Rahu«, il dio all’origine delle eclissi). Una notte, la vista delle proprie spose nell’abbandono del sonno evoca al giovane uomo l’immagine di cadaveri [fig. 56]. Il principe decide allora di lasciare il palazzo paterno. Questa «Grande Partenza« (Mahabhini­skra­mapa) è uno dei momenti decisivi della carriera del bodhisattva. A ventinove anni, il giorno del proprio compleanno, convoca in segreto lo scudiero Chandaka e, in groppa al proprio cavallo Kapthaka, attraversa la capitale. Gli dei, consci della precarietà della loro condizione e del futuro messaggio di liber-

azione che il penitente rivelerà, silenziano il passo del cavallo e aprono miracolosamente i pesanti battenti in legno delle porte della città [fig. 57]. Il principe guada il fiume Anoma che segna il confine del regno. Lì si libera del corredo principesco, lo affida a Chandaka – che di ritorno alla capitale non potrà essere accusato di avere fatto sparire il principe – e gli dice addio. Taglia gli abbondanti capelli per affermare il carattere definitivo della propria rinuncia al mondo. La capigliatura viene portata dalle divinità nel palazzo di Indra. Cambia il proprio abito con quello di un cacciatore. Vaga per sei anni nelle regioni Rajagrha e Gaya, seguendo l’insegnamento di vari maestri che lo lasciano insoddisfatto. Ha ben presto al proprio seguito cinque discepoli, i Bhadravargiya («Quelli del fortunato gruppo«), particolarmente sensibili al suo carisma. Con loro egli sperimenta le più varie tecniche psicofisiche dello yoga e si dà, nudo, alle privazioni di una rigida ascesi alla maniera degli antichi eremiti «muni« dell’India antica. Diventa allora Vakyamuni (Il «Saggio [del clan] degli Vakya«). Un digiuno assoluto lo rende immobile, scheletrico, e gli fa perdere l’aspetto umano. Di fronte alla inutilità di simili pratiche, che egli giudicherà eccessive, le abbandona per cercare una «via di mezzo«. I compagni, scossi da ciò che considerano un tradimento, lo abbandonano. Vakyamuni, dovendosi innanzi tutto vestire, colora degli scampoli di tela e se ne veste. Queste pezze di tessuto, di un colore giallo brunastro poiché tinte (kavaya) nel modo al tempo più economico, sono all’origine dell’abito monastico. Egli interrompe il digiuno e accetta una ciotola di riso cotto con degli aromi da Sujata, giovane abitante di un villaggio. Si bagna nel fiume Nairanjana. Conscio, a causa di sogni rivelatori, dell’imminenza del Risveglio, egli divide il riso ricevuto in quarantanove razioni per le sette settimane seguenti. Ai primi bocconi ritrova la bellezza di un tempo. A Gaya, in un luogo chiamato Bodhimapda, dove i buddha delle epoche passate hanno conosciuto il loro Risveglio, si siede sotto un fico sacro (Ficus religiosa). Una balla di erbe kuva, raccolte da un brahmano, gli fa da seggio. Mara («Morte«), il dio dei desideri perennemente insoddisfatti che causano le reincarnazioni, avverte la minaccia al proprio impero da parte di un mezzo salvifico che verrà predicato alle creature, e tenta di distrarre il Beato dalla meditazione con l’assalto delle proprie armate demoniache [fig. 58]. Ma, protetto dalla quantità di meriti accumulati

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nelle sue innumerevoli vite precedenti, il bodhisattva resta incrollabile. I dardi lanciati dagli spiriti maligni si mutano in pioggia di fiori. Mara, dio del mondo sensibile, prova allora a rivendicare per se stesso il trono del Risveglio e chiama a testimoniare le sue infinite truppe. Vakyamuni invece è solo. Nel momento cruciale della propria carriera di bodhisattva che diverrà uno degli episodi più raffigurati della sua vita, egli prende allora la dea Terra come testimone (bhumisparva mudra). La Terra come segno di accettazione trema in sei maniere differenti, poi appare e si fa garante della sua buona fede. In occasione di un terzo tentativo, Mara invia le proprie figlie a sedurre il giovane uomo. Esse, di una bellezza conturbante, si chiamano «Desiderio« (Trspa), «Piacere« (Priti) e «Voluttà« (Rati). I loro sforzi restano però vani. Mara è sconfitto (Maravijaya). Il bodhisattva può a questo punto raggiungere il Risveglio. 59

Questo evento avviene in coincidenza con il suo trentacinquesimo compleanno, la notte di plenilunio del mese vaivakha (aprile-maggio). Nel primo stato di veglia il bodhisattva percorre i quattro stadi della meditazione che liberano lo spirito da ogni influenza esterna, a capofitto nel mondo degli esseri sballottati da una esistenza all’altra. Nella seconda ricapitola in un istante le proprie esistenze precedenti e quelle altrui. Durante la terza raggiunge il« Risveglio perfetto e completo« (samyaksambodhi), prendendo coscienza della concatenazione causale delle esistenze e stabilendo la legge della loro «produzione reciproca« (pratityasamutpada) e i mezzi per fermare tale produzione. Nelle sette settimane successive il Buddha rimane a Gaya. Egli accetta in una ciotola da elemosina il cibo donatogli dai mercanti Trapusa e Bhallika. Si reca poi a Benares (Varapasi) e, non lontano dalla città, a Sarnath, un luogo di eremitaggio

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59. La sottomissione del naga Apalala, scisto, ii-iii secolo. Londra, The British Museum, donazione J. Napier (provenienza: India nordorientale). 60. Conversione di asceti, forse dei Kavyapa, scisto, ii-iii secolo. Londra, The British Museum, acquisito con fondi Brooke Sewell (provenienza: Gandhara, Pakistan). 61. Il primo sermone, scisto, viii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: India nordorientale).

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62. Il mercante Anathapipdada fa ricoprire d’oro il parco Jetavana, grès, ii secolo o inizio i a.C. Calcutta, Indian Museum (provenienza Bharhut, Madhya Pradesh, India). 63. Visita del Buddha al re parricida Ajatavatru, calcare marmoreo, ii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: Amaravati, Andhra Pradesh, India).

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Nella pagina seguente: 64. Sottomissione dell’elefante infuriato, Nalagiri, calcare marmoreo, ii secolo circa. Chennai (Madras) Government Museum (provenienza: Amaravati, Andhra Pradesh, India). 65. Il Mahaparinirvapa, scisto, ii-iii secolo. Londra, The British Museum, donazione del luogotenente colonnello G.A. Dale (provenienza: Gandhara, Pakistan). 66. Frammento di un Mahaparinirvapa, scisto, ii-iii secolo. Londra, Victoria and Albert Museum (provenienza: Gandhara, Pakistan). 67. Buddha agghindato, legno dorato, xiv secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: Birmania).

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frequentato da numerosi predicatori e religiosi, il «bosco delle Gazzelle« (Mrgadava), ritrova il gruppo dei propri vecchi discepoli che riconduce di nuovo a sé e che convertirà uno ad uno. Discepoli e divinità lo supplicano di spiegare il suo messaggio di liberazione [fig. 61]. Vakyamuni predica allora per la prima volta. Questo primo sermone contiene le fondamenta della dottrina buddhista. Egli mette così in azione la Ruota della Legge (dharmacakrapravartana), mezzo di salvezza volto a interrompere il ciclo perpetuo della concatenazione causale, che è alla base delle reincarnazioni. Nel corso dei decenni seguenti il Buddha viaggia nella valle del Gange, raccogliendo un numero crescente di discepoli, convertendo gente di ogni condizione sociale e talora anche creature non umane, malevole come dei serpenti (naga), che regnano sulle acque e sul mondo sotterraneo, yaksa e vari demoni benevoli [fig. 59]. Alcuni episodi sono particolarmente celebri. Ad esempio, la conversione, nella città di Uruvilva, dei tre fratelli Kavyapa, brahmani dediti ai sacrifici vedici e con i capelli in crocchia (jatila) [fig. 60]; a Rajagrha, le conversioni di Variputra e di Maulgalyayana, famosi uomini di fede; quella dell’asceta Mahakavyapa. Egli fu protetto di re. Così Bimbisara, re del Magadha, dona alla comunità il parco del Boschetto di bambù (Vepuvana) nei pressi della capitale, Rajagrha, mentre Prasenajit, re del Kovala, lo accoglie a Vravasti. È negli Stati di quest’ultimo sovrano che il mercante Anathapipdada dona al Buddha il giardi-

no Jetavana e lo fa ricoprire d’oro [fig. 62]. Il Buddha visita il proprio paese natale e converte, fra gli altri, suo padre, il fratellastro Nanda, e il figlio Rahula [fig. 63]. A Vaivali, capitale dei Licchavi, pone fine con la sua sola presenza a una epidemia di peste. È allora che hanno luogo due avvenimenti di grande importanza. Prasenajit lo invita a partecipare a una gara oratoria con i Tirthya, sei maestri rivali fautori di dottrine salvifiche. Vakyamuni accetta l’invito. In presenza di Prasenajit, sotto un vasto padiglione costruito fra Vravasti e il Jetavana egli, che aveva proibito ai discepoli di fare sfoggio dei loro poteri magici, confonde gli eretici con dei miracoli. Le differenti tradizioni riportano in maniera varia questo prodigio. Così, secondo il Theravada, il Buddha fa spuntare un enorme mango, emette dei raggi di luce e dei getti d’acqua e controlla a comando gli Elementi. Secondo una tradizione settentrionale vicina alle correnti mahayaniche, egli si siede su di un immenso loto fiorito spontaneamente, volteggia in cielo da est a ovest e moltiplica la propria immagine all’infinito. Poi il Beato, guadagna il cielo dei Trayastriqva, dove predica alla madre la dottrina della salvezza. Ella nell’ascoltare il sermone si spegne lentamente, liberata dal ciclo delle reincarnazioni. La tradizione individua Sakka­vya, nel Brahmarsideva, molto più a ovest delle regioni percorse abitualmente dal Buddha, quale luogo della discesa sulla terra del Beato dopo questo prodigio. Riaccompagnato da Indra e Brahma, è accolto dalla monaca Up-

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alavarpa, e secondo alcune fonti da Udayana, il re di Kauvambi, ai piedi di una tripla scala concepita da Vivvakarman, l’architetto degli dei. Più di una tradizione ambienta nei pressi di Vaivali il seguente aneddoto: una piccola scimmia, che ha rubato la ciotola per l’elemosina di Ananda, si arrampica lungo un albero tala per raccoglierne la linfa (madhu) e presenta questa bevanda lattiginosa e zuccherata al Buddha. Il Beato le chiede di allungarla. La scimmia si precipita sulla riva dello stagno Markata-Hrada e rende il succo meno denso aggiungendovi dell’acqua. Il Buddha accetta il dono. L’animale, arricchito dai meriti ottenuti tramite la frequentazione di Vakyamuni, impaziente di godere di una reincarnazione migliore, rifiuta la propria vita e si tuffa in una fonte ai piedi dell’albero tala. Gli ultimi anni della vita del Buddha sono oscurati da intrighi orditi su istigazione di religiosi rivali, da scissioni in seno alla comunità, da eventi luttuosi, fra cui quello del re Bimbisara, avvelenato dal figlio Ajatavatru, e dallo sterminio del clan degli Vakya da parte di Virudhaka, il figlio del re Prasenajit. La cosa più terribile è che Devadatta, il cugino del Buddha, desideroso di sostituirlo come capo della comunità, tenta più volte di ucciderlo.

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L’episodio più noto è ambientato a Rajagrha, dove Devadatta, con la complicità di Dhirapa, l’uomo che si prende cura degli elefanti del Palazzo, gli lancia contro l’elefante Nalagiri [fig. 64]. Il Beato, con un semplice gesto di pacificazione (abhaya mudra) calma l’animale. A settantanove anni, malgrado il declino delle proprie forze, continua la vita itinerante. Trascorre la stagione delle piogge a Rajagrha, prendendosi cura di ricapitolare gli insegnamenti essenziali della dottrina. Raggiunge poi Pataligrama, che diverrà la potente città fortificata Pataliputra, e prosegue verso Vaivali, dove la ricca cortigiana Amrapali dona alla comunità un giardino fuori della città. Al ritorno della stagione delle piogge si insedia non lontano da lì, nel «villaggio dei bambù« (vepugrama), dove viene a sapere della morte di Variputra e di Maudgalyayana, i discepoli preferiti. È colpito egli stesso da un violento attacco di dissenteria. Su sua richiesta Ananda riunisce i monaci che si trovano dalle parti di Vaivali per una ultima esortazione. Un pasto presso il fabbro Cunda gli sarà fatale. Una «pietanza di maiale« – della carne di maiale oppure dei vegetali di cui i maiali sono ghiotti – gli causa una diarrea sanguinante. Raggiunge con estrema difficoltà

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68. Stupa, calcare marmoreo, fine ii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: Amaravati, Andhra Pradesh, India).

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69. Scene della vita del Buddha, grès, fine v secolo. Sarnath, Archaeological Museum.

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Kuvinagara e si stende in un boschetto di vala (Shorea robusta roxb.) fra due alberi gemelli, coricato sul fianco destro, il viso rivolto verso occidente, con la testa a nord. Dopo parecchie ore raggiunge così la «Grande Estinzione Totale« (Mahaparinirvapa) [figg. 65-66]. Questo racconto, che amalgama in episodi vari una ricerca spirituale, una intenzione moralizzante, elementi meravigliosi e anche considerazioni sulla filosofia politica e la salvezza individuale, avrebbe dato vita a cicli apologetici. I numerosi episodi della biografia di Buddha vengono rappresentati intorno agli stupa, in maniera ben più sistematica che nelle prime realizzazioni di epoca vunga, e costituiscono nel complesso un vero e proprio programma iconografico [fig. 68]. Otto accadimenti mag-

giori, le «otto grandi dimostrazioni illusorie« (astamahapratiharya), attirano l’attenzione in modo particolare poiché ciascuno è legato più o meno a un luogo di pellegrinaggio [fig. 69]. Bisogna ricordare la nascita a Lumbini, la Maravijaya a Bodhgaya, il primo sermone a Sarnath, la dimostrazione dei poteri soprannaturali a Vravasti, la discesa dal Trayastrikva a Sakkavya, la pacificazione dell’elefante Nalagiri a Rajagrha, il dono dell’idromele da parte di una scimmietta a Vaivali e il parinirvapa a Kuvinagara. Alcuni cicli trattano solo quattro eventi: nascita, Maravijaya, primo sermone e parinirvapa. Dall’epoca gupta (320-647 circa) prese piede l’abitudine di non rappresentare su delle steli ex voto altro che un piccolo numero di avvenimenti principali della carriera di

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Vakyamuni. Questa tradizione è proseguita in India nella statuaria pala e in Birmania. Anche alcuni dipinti su stoffa rientrano nella stessa tipologia iconografica. Così in una composizione murale proveniente dalle grotte di Qyzyl (oasi di Kucha nello Xinjiang) si mostra ad Ajatavatru un velo raffigurante i quattro miracoli principali. Nel vederlo il re comprende che il Buddha non è più. Una iconografia particolare rappresenta il Buddha agghindato e incoronato [fig. 67]. Si tratta di un tipo di raffigurazione, frequente nell’arte pala (750-1200), che si ritrova nell’Asia sudorientale, in Himalaya e in Cina. Essa verrà spiegata in maniera differente a seconda degli orientamenti delle varie scuole. I monaci del Theravada chiamano questa forma «re dei re« (rajadhiraja). Sovrano spirituale, Vakyamuni riceve l’o­maggio delle divinità e degli uomini e regna su di loro e sul loro dharma. Una tradizione thailandese, visibilmente apocrifa, spiega la iconografia del Buddha agghindato con una leggenda. Il Buddha si sarebbe mostrato in aspetto maestoso per confondere il potente re eretico Jambupati. Per i seguaci del Mahayana questo aspetto sublimato è quello che il Buddha può assumere nel mondo del sakbhogakaya. Gli artisti del Vajrayana rappresentano spesso Vakyamuni e i cinque jina incoronati. L’iconografia di Vakyamuni condiziona quella di sei altri buddha storici (manusi buddha) che vissero in epoche del passato fortunate (bhadrakalpa) per avere permesso l’apparizione di un salvatore. Maitreya, Buddha dei tempi futuri, è raffigurato in un modo speciale. Sia sotto l’aspetto di un buddha, sia sotto quello di un bodhisattva, egli è sovente rappresentato seduto con le gambe sospese, in una posizione erroneamente chiamata dagli orientalisti occidentali «alla europea«. Alcuni testi theravada enumerano fino a ventiquattro manusi buddha. Testi sanscriti riducono spesso il loro numero a sei. Il Mahavastu aggiunge tuttavia Dipankara, rappresentato frequentemente nel Gandhara [fig. 70]. Megha, un giovane uomo, gli si prosterna innanzi e gli annuncia che sarà buddha in un tempo futuro. Fare voto di divenire buddha (prapidhana) costituisce uno dei grandi temi iconografici del Mahayana, specialmente in Asia centrale. Il Mahayana, e soprattutto il buddhismo lamaista, moltiplicano i buddha: buddha della medicina, trentacinque buddha di confessione delle colpe, e così via. Solo i mudra e altre eventuali caratteristiche permetteranno di distinguerli l’uno dall’altro.

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70. Dipankara jataka, scisto, ii secolo circa. Londra, The British Museum, donazione della Sig.ra Mary Eustace Smith (provenienza: Gandhara, Pakistan).

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Stile e iconografia Quale che sia la parte interpretativa e inventiva delle varie scuole artistiche, il riferimento alla estetica indiana, fosse anche puramente convenzionale o congetturale, è una delle grandi caratteristiche dell’arte buddhista. Ciò si avverte con particolare evidenza nell’aspetto dato ai bodhisattva e ai molteplici dei e dee che popolano il mondo del sakbhogakaya, divinità secondarie comprese, come le ninfe celesti (apsaras) e i geni celesti (gandharva). L’aspetto antropomorfico dei bodhisattva, il loro busto seminudo, le loro pose languide, il drappeggio della loro veste di cui spesso un lembo legato al tronco ricade in avanti (katisutra), la presenza del cordone brahmanico (yajpopavita), l’abbondanza di gioielli sono altrettante caratteristiche che trovano origine nel subcontinente, al di là della loro totale assimilazione da parte delle culture locali [figg. 72-74]. Tramite la mediazione dell’arte del Gandhara e delle regioni limitrofe, giungeranno fino all’Estremo Oriente influenze occidentali del mondo ellenistico-romano, quali la fluidità dei drappeggi, la muscolatura dei torsi maschili e alcuni temi ornamentali [fig. 71]. Questi elementi riguardano più lo stile delle immagini che la vera e propria iconografia. L’iconografia più antica

71. Buddha, bronzo, v secolo. Londra, The Victoria and Albert Museum (provenienza: Sahri Bahlol, Pakistan). 72. Avalokitevvara, inchiostro e colori su seta, 1323. Kyoto, Collezione Sumitomo (provenienza: Corea).

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73. Bodhisattva e assistenti, dipinto sopra impasto di argilla e paglia, vii secolo. Grotta n. 57, Dunhuang, Gansu, Cina. 74. Akavagarbha, inchiostro e colori su seta, xii secolo (particolare di un rotolo verticale). Tokyo, National Museum.

Nella pagina seguente: 75. Vajrapapi (Jingang), terra essiccata, modellata e dipinta, vii-viii secolo. Maijishan, Gansu, Cina. 76. Vaivravapa, legno, prima metà viii secolo. Kyoto, Toji.

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di Vajrapapi costituisce al proposito una eccezione, ma alcuni particolari, quali la pelliccia felina alla maniera del leone di Nemea, non sopravvivranno in Cina all’epoca dei Tang e all’avvento del Vajrayana. Gli artisti iraniani sono più interessanti. Su influenza del Gandhara, i raggi e le aureole sono unanimemente adottati dall’arte buddhista, quale che siano le scuole. Terribili silvani (yaksa), demoni benevoli e re serpenti (nagaraja) convertiti, secondo la tradizione, dallo stesso Vakyamuni, hanno al seguito un numero sempre crescente di divinità locali (per esempio dei induisti in India, divinità locali come i nat in Birmania, geni locali in Tibet) incorporate dal buddhismo nel corso del procedere della sua espansione geografica e della sua evoluzione dottrinaria. Queste entità secondarie, alle quali il fedele chiede protezione, salute e prosperità, particolarmente attivi

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77. La dea Vajravarahi, paredra di Sakvara, inchiostro e colori su tela, dopo il 1159. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage (provenienza: Khara-Khoto, Gansu, Cina).

80. Namu Amida butsu (Onore al buddha Amida), oro e colori su seta, xii secolo. Ryujoji, Nara.

78. Raktayamari e la sua paredra, colori a tempera su tela, Tibet (Cina), seconda metà xvii secolo. Boston, Museum of Fine Arts, donazione di Edward W. Forbes. 79. Robert Beer, illustrazioni nello stile della scuola tibetana sMan-bris: a) occhi delle divinità poco irate; b) occhi delle divinità molto irate.

Nella pagina seguente: 81. Buddha incoronato e otto bodhisattva, legno parzialmente dorato, fine viii-inizio ix secolo. Kansas City, Nelson-Atkins Gallery-Museum of Arts (provenienza: bacino del Tarim, Xinjiang, Cina).

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nel Nirmapakaya, serbano numerosi tratti della loro cultura di origine. L’esempio più celebre è forse il dio guerriero protettore della famiglia reale del Khotan in Asia centrale, buddhizzato sotto le fattezze di Vaivravapa, aspetto irato di Kubera, il dio delle ricchezze. Il suo culto si sviluppò lentamente nello Xinjiang e venne poi accolto all’interno del buddhismo cinese. La sua scorta di legioni celesti costituite da yaksa faciliterà la creazione di importanti rituali, particolarmente in auge in epoca Tang, e più tardi in Tibet. Anche nelle raffigurazioni maggiormente sinizzate, quali la celebre statua cinese conservata nel Toji di Kyoto [fig. 76], le immagini di Vaivravapa serbano certi tratti della loro lontana origine centroasiatica: stivali, caffettano modificato in armatura cinese, una particolare acconciatura dei capelli, in alcune rappresentazioni un paio di ali dispiegate, etc. Le divinità dall’aspetto temibile costituiscono una caratteristica del buddhismo come dell’induismo. È il caso dei guardiani di porte (dvarapala), che sono raffigurati in atteggiamento

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82. Buddha, due bodhisattva e assistenti, legno prima dell’806. Koyasan, Kongobuji, Giappone.

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adirato. Si narra che Vakyamuni avrebbe affidato la sorveglianza sull’accesso al parco Jetavana allo yaksa Guhyaka, chiamato in alcuni testi Vajrapapibalin (il «Forte che tiene il fulmine«). In Cina, esso sarà sdoppiato in due personaggi cosicché, specialmente durante il primo millennio, due yaksa giganti, dal torso particolarmente muscoloso, fanno da guardia all’entrata dei templi: Vajra (Jingang), riconoscibile dalla bocca socchiusa [fig. 75] e Balin (Lizhi), con la bocca chiusa. In seguito, queste due divinità cedono il posto ai re-guardiani dei quattro continenti (lokapala), che hanno alla loro testa Vaivravapa, il sovrano del continente settentrionale. Il Vajrayana moltiplica le divinità irate che la tradizione attornia, così come i loro compagni e il loro seguito, con un apparato impressionante: aureola fiammeggiante, addobbi di ossa umane, particolari macabri, fondali di fosse comuni piene di animali selvatici e vampiri [fig. 77]. Le iconografie tibetane renderanno più raffinate le raffigurazioni di questi esseri, troppo grottesche per fare davvero spavento

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[figg. 78-79]. Tale distanziamento, spesso voluto dagli artisti, indica l’aspetto fantasmagorico di queste forme destinate a sottomettere degli esseri demoniaci, perduti nell’errore dovuto alle loro passioni. Gli stessi princìpi sottendono, benché in maniera meno teatrale, l’iconografia dei «re di Scienza« (vidyaraja, myoo-bu) della tradizione Shingon giapponese, equivalenti alle divinità tutelari ista devata del tantrismo indo-himalayano. Le speculazioni tantriche sul simbolismo fonico poggiano su alcune concezioni originarie del Mahayana, segnatamente quella della recitazione della formula sacra in onore di Amitabha [fig. 80]. L’evocazione della presenza dei cinque buddha trascendenti della tradizione esoterica, i cinque «Vincitori« (jina) passa così attraverso la rappresentazione e la intenta recitazione della sillaba seme (bija) propria a ciascuno di loro. Sillaba seme, formule scaramantiche «portatrici« (dharapi) e formule sacre (mantra) saranno nel corso del tempo associate a un numero crescente di divinità. Nonostante la diversità

delle estetiche nazionali, alcune statue di piccola dimensione, acquistate nelle località di pellegrinaggio e portate lontano, alcuni reliquiari, illustrazioni varie, regali principeschi hanno dato all’arte buddhista una relativa unità. Esistono trittici portatili destinati al culto privato. Si tratta di immagini scolpite, ispirate forse a dittici in steatite della tarda tradizione del Gadhara, e costituiscono collegamenti importanti per la diffusione verso est di certi schemi iconografici. Tre di questi, databili ai secoli viii e ix, sono particolarmente celebri. Quello stilisticamente più antico proviene dall’Asia centrale [fig. 81]. Il secondo fu portato in Giappone nell’anno 806 da Kukai, il fondatore della scuola Shingon [fig. 82]. Il terzo è di fattura coreana [fig. 83]. Mentre il primo presenta elementi che indicano un rapporto indubitabile con il Vajrayana, soltanto dei nessi storici legano il secondo all’esoterismo. Nonostante delle evidenti analogie plastiche, il carattere estremo orientale degli ultimi due è più marcato e testimonia l’esistenza di una produzione che dovette essere molto importante ma della quale non restano che due esemplari isolati. Nella iconografia buddhista, i vari racconti ambientati nel mondo sensibile e illusorio del Nirmapakaya hanno spesso come palcoscenico un quadro contemporaneo familiare agli artisti. Il vestiario e le architetture sono pienamente coerenti con la cultura delle varie civiltà. L’iconografia buddhista, a causa della pregnanza dei suoi precedenti indiani, necessita di una lettura particolare delle immagini. Il devoto o l’osservatore laico informato sa identificare il personaggio raffigurato con un atto intellettuale apparentemente spontaneo ma che ha bisogno di un lungo apprendistato. In un gruppo, la posizione della divinità in rapporto agli altri personaggi fornisce una idea della sua importanza e delle indicazioni sul ciclo trattato. La postura, seduta o in piedi, il numero di braccia e di teste, gli oggetti tenuti con le mani principali e, in grado minore, con le mani secondarie, il colore della pelle e, più di rado, la tipologia dei gioielli sono altrettanti indizi che facilitano l’identificazione [fig. 84]. In questa abbondanza figurativa i religiosi occupano un posto a parte. Alcuni discepoli di Vakyamuni assumeranno tratti somatici particolari. Ananda e Mahakavyapa, segnatamente, diedero luogo a raffigurazioni molto contrastanti: alla giovanilità dell’uno si oppongono la maturità e il rigore di carattere dell’altro. Con lo sviluppo del Mahayana, si elaborano anche delle conven-

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zioni ritrattistiche per i compagni di Vakyamuni (arhat). In Cina prevalgono due tipi di rappresentazioni. Una, dovuta al pittore Gunxiu (832912), conferisce ai discepoli delle espressioni esacerbate, quasi caricaturali. L’altra, istituita da Li Longmian (1040-1106 circa), sottolinea la nobiltà dei personaggi. Nell’area di diffusione del buddhismo lamaista, alcuni «grandi realizzati« (mahasiddha), all’origine dei principali cicli testuali e rituali delle divinità tutelari ista devata beneficeranno così di un aspetto convenzionale. Il Mahayana e il Vajrayana non limitano il culto delle «reliquie corporee« varirikadhatu ai resti della spoglia, ma assegnano un posto importante alle raffigurazioni dei maestri che sono apparsi nel Nirmapakaya. Già solo vederle è fonte di meriti. La loro identificazione, facilitata da caratteristiche molto individuali, sfocia nella realizzazione di veri e propri ritratti, numerosi in Estremo Oriente. I tratti somatici del defunto, riprodotti incessantemente, ne perpetuano l’aspetto nei secoli [fig. 85]. Questi ritratti costituiscono delle vere e proprie sequenze nell’ambito del medesimo ordine monastico, alla maniera delle raffigurazioni degli arhat. Spesso le rappresentazioni convenzionali dei maestri più antichi all’origine della genealogia spirituale precedono i ritratti realistici di religiosi vissuti in periodi più recenti. Anche i mecenati sono strettamente associati alle rappresentazioni religiose, sia sotto forma di una dedica che fornisce il loro nome e il loro titolo, sia, più di rado, immortalati sotto forma di piccole figure inginocchiate in preghiera. In casi eccezionali essi occupano una superficie relativamente significativa delle grandi decorazioni scolpite o dipinte. È il caso di rammentare in proposito i cortei imperiali della grotta centrale Binyang (primo quarto del vi secolo) di Longmen (Henan) o anche il gruppo di aristocratici della grotta dei Sedici porta-gladio di Qyzyl (prima metà del vii secolo [fig. 86]). Alcune scuole del Mahayana svilupperanno dei rituali che permettono di fornire meriti post mortem «assegnando a tutti gli esseri [una parte] del merito che si possiede« (paripamana). E accade che, come su numerosi stendardi di Dunhuang, vengano raffigurate le persone decedute e non i membri della loro famiglia che hanno richiesto la celebrazione di cerimonie del genere. Libri e oggetti liturgici La redazione del canone pali, e la composizione della immensa letteratura buddhista in sanscri-

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83. Buddha e due bodhisattva, legno, Grande Silla (668-935), tempio di Songwansa, Jeonra Nam Do, Corea. 84. La dea Usnisavijaya, colore su tela, xiv secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet, donazione di Lionel Fournier (provenienza: Tibet, Cina). 85. Jiondaishi (632-682), fondatore della scuola Hosso (particolare), colori su seta, xi secolo. Yakushiji, Nara, Giappone.

to, sfociarono in una incontestata primazia del testo, e la maggioranza delle raffigurazioni sacre trova spiegazione in uno degli innumerevoli trattati che spesso integrano in un quadro leggendario discussioni, polemiche e sviluppi filosofici. La cultura buddhista indiana è caratterizzata da due tipi di libri. Numerosi manoscritti sono privi di illustrazioni. Benché le opere superstiti siano riprodotte su foglie di palma seccate e allungate, non si può escludere che l’uso della carta sia stato comune per dei libri a buon mercato, in particolare nel Gandhara e nelle regioni limitrofe. In epoca medievale si diffonde il culto dedicato a certi testi, quali l’Astasahasrika Prajnaparamita, a cui sarà reso omaggio come a una divinità. Esso suscita la produzione di opere i cui piatti di copertura interni e le pagine del testo erano riccamente dipinte con decorazioni eseguite da miniaturisti specializzati, distinti dagli amanuensi. Una trentina di queste sontuose produzioni sono state conservate integralmente. Non erano fatte per essere lette, bensì destinate alla venerazione in cappelle private oppure a essere offerte come ex voto [fig. 87]. In ciascun monastero viene conservato un esemplare del canone buddhista che raccoglie tutti i testi riconosciuti dalla scuola religiosa interessata. Questa necessità intellettuale e culturale moltiplica all’infinito i manoscritti. Mentre non è sopravvissuta fino ai nostri giorni

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87. Episodi della vita del Buddha. Pagine di un Astasahasrika Prajnaparamita, inchiostro e colori su foglie di palma essiccate, 1125-1150 circa. Londra, The British Museum Library (provenienza: India nordorientale).

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88. Estratto dal Bikkhupatimokkha, inchiostro, argento, oro e lacca su palma, xviii-inizi del xix secolo. Londra, The British Museum Library (provenienza: Dunhuang, Cina). 89. Vajracchedika sutra, xilografia su carta, 868. Londra, The British Museum (provenienza: Dunhuang, Gansu, Cina). 90. Copertina di libro, legno dorato, xv-xvi secolo. Londra, The British Museum (provenienza: rGyal-rtse Dzong, Tibet, Cina). 91. Cosmogramma, oro e turchesi, metà xvii secolo. Taipei, Museo Nazionale del Palazzo (provenienza: Tibet, Cina).

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nessuna biblioteca dell’India medievale, nello Vri Lanka e in Asia sudorientale sono conservati degli esemplari completi, particolarmente numerosi a partire dal xviii secolo. In Birmania e in Thailandia, in specialmodo, le foglie di palma secche, spesso decorate con oro e argento, sono laccate. Così protette dalla umidità, esse sono notevolmente flessibili [fig. 88]. In Estremo Oriente, la richiesta di manoscritti eccezionali, talora scritti in oro su carta indaco a partire dall’epoca Tang, dà vita a realizzazioni sontuose, assoluti capolavori di bibliofilia. Le intestazioni di capitolo sono ornate da illustrazioni estremamente raffinate. Nella Cina di epoca Tang per le copie ufficiali del canone buddhista il governo fissa il numero di bande di carta (zhi) che costituiscono i rotoli (juan) del testo, così come il numero e la disposizione dei caratteri su ogni banda. Un capitolo del Vajracchedika sutra, stampato nell’anno 868 e scoperto a Dunhuang nel nascondiglio attiguo alla grotta n. 17 (Pelliot n. 163) è il più antico esempio di testo xilografato. L’illustrazione iniziale è stata composta su

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di un unico blocco di legno intagliato, il testo su più pannelli [fig. 89]. L’adozione di questa nuova tecnica si diffonde rapidamente mettendo in moto uno sviluppo degli studi senza precedenti. Il Tripitaka più antico fu stampato nel Sichuan dal 972 al 983. Esso comprendeva 1076 titoli in 5048 sezioni. Durante la dinastia Song (960-1279) si succedono quattro edizioni,

Nella pagina precedente: 86. Donatori, pittura sopra impasto di argilla e paglia, prima metà vii secolo. Berlino, Staatliche Museum, Indische Kunst (provenienza: grotta dei Sedici Portatori di Spada, Qyzyl, Xinjiang, Cina).

a cui si aggiungono nuove edizioni durante le epoche Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911). In Corea il monastero Hae’in, nei pressi di Taegu, conserva i blocchi necessari alla stampa del Tripitaka. Si tratta di un assieme, realizzato fra il 1237 e il 1251, costituito da 81.137 blocchi. In epoca moderna i buddhologi fanno spesso ricorso al canone buddhista cinese, riedito in Giappone nel periodo Taisho (1912-1925). La xilografia facilita anche la riproduzione di formule utilizzate in rituali magici. Ne è stato scoperto un certo numero nel nascondiglio della grotta n. 17 di Dunhuang. In Tibet, sul lato esterno di alcune tavole di legno che fanno da copertura a manoscritti e testi a stampa, viene incisa una decorazione, talvolta di alta qualità

[fig. 90]. In tutta l’Asia i libri sacri, in volumini o in fascicoli, sono spesso protetti da confezioni o da scatole. Speciali armadi (Asia sudorientale), cassetti (Cina), scaffalature (Cina) ne facilitano il deposito. Sono raccolti lungo il muro di una sala destinata a tale scopo o raggruppati in un edificio che funge da biblioteca. Mentre il testo occupa un posto essenziale nel buddhismo, questa religione di salvezza individuale, basata su pratiche di meditazione, non ha in teoria bisogno di alcun oggetto liturgico o rituale. Il Theravada è in proposito esemplare. Lampade accese presso i luoghi sacri, vassoi o panieri portati dai fedeli e contenenti offerte sono i rari elementi che si vedono nei santuari del Piccolo Veicolo. Con lo sviluppo del Mahayana le cose vanno incontro a una lenta evoluzione. Le lampade intarsiate, i porta-incenso multipli, i seggi per gli abati sono le componenti essenziali del ricco mobilio delle sale assembleari dei monasteri. Il Vajrayana esige oggetti rituali adatti alle sue complesse liturgie. Essi obbediscono a una tipologia estremamente precisa. Se tutte le scuole tantriche assegnano una importanza primaria al «fulmine-diamante« (vajra) e alla campanella (ghapta), il buddhismo lamaista diversifica significativamente gli strumenti di culto: coppe per offerte (kapala) in osso umano o in altro materiale, lame (kartrika) e ogni sorta di armi destinate a sottomettere e a distruggere entità malefiche rappresentate da piccoli personaggi grotteschi (linga) nel corso di rituali di esorcismo. Altre cerimonie del Vajrayana non possiedono un così spiccato carattere esoterico. È il caso, ad esempio, dell’offerta del mondo sensibile fatta alle divinità. Questa liturgia necessita la produzione di cosmogrammi. In Cina questi oggetti in parte effimeri sono rimpiazzati da modellini. Uno dei più belli, conservato al

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L’India, terra di origine del buddhismo, è anche la fonte da cui scaturisce la sua arte. È così per le grandi soluzioni architettoniche quali i tumuli-reliquiario (stupa) e i santuari scavati nella roccia, come per le fondamenta iconografiche e stilistiche delle raffigurazioni sacre. Al carattere narrativo delle rappresentazioni più antiche succede una seconda fase caratterizzata da una estetica interiorizzata spoglia e impregnata di misticismo. Queste nuove creazioni, divenute dei motivi convenzionali, si ritroveranno, più o meno adattate, negli altri paesi asiatici. Il loro studio è quindi indispensabile. I Maurya

1. Torapa ovest, fine i secolo a.C.-inizio i d.C. Sanci, stupa n. 1. 2. Carta.

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3. Capitello con leoni, grès, fra 271 e 235 a.C. circa. Sarnath, Sarnath Site Museum.

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Le più antiche vestigia buddhiste risalgono all’epoca dei Maurya (313-185 a.C. circa); esse sono quindi di due secoli posteriori alla scomparsa di Vakyamuni. La loro perfezione tecnica non può che essere il frutto di una lenta gestazione, le cui modalità restano sconosciute. Come per altre componenti dell’arte indiana, si ipotizza che per un lungo periodo gli artigiani alla pietra abbiano preferito il legno, materiale deperibile nelle condizioni climatiche subtropicali. L’emergere di un’arte buddhista è strettamente legata al patrocinio dell’imperatore Avoka (271235 a.C. circa). Alla morte del padre, questo figlio minore di Candragupta, fondatore della dinastia, fa giustiziare il fratello maggiore e si appropria del potere. Dopo la cruenta conquista del Kalinga (Orissa), attanagliato dal rimorso, si converte al buddhismo. In accordo con la tradizione della maggior parte delle antiche dinastie indiane, egli concede attenzione a più religioni facendo dono, ad esempio, di grotte scavate nella roccia agli ajvika, asceti brahmanici di stretta osservanza. Con numerosi editti incoraggia anche la tolleranza fra le correnti religiose diffuse nell’Impero. La sua azione in favore del buddhismo, esaltata dalla tradizione

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theravada, costituirà nel corso dei secoli un modello per i monarchi desiderosi di proteggere la religione del Beato. Avoka impersona in effetti il cakravartin per eccellenza, il sovrano universale che innalza alla loro perfezione gli ideali religiosi. Le colonne (stambha) e le incisioni di editti costituiscono le realizzazioni maurya più celebri. Eretti su ordine di Avoka, e alcune di essi anche da suo padre Candragupta, questi imponenti pilastri di arenaria possiedono una raffinatezza specifica. Parecchi poggiano su di una lastra interrata che contribuisce alla loro stabilità. Una lieve rastremazione del fusto ne accentua l’effetto prospettico e contribuisce a un risultato più maestoso. Un ampio capitello a forma di fiore di loto capovolto, molto lavorato, sostiene un abaco, più o meno significativo, in genere circolare, decorato da ornamenti a forma di palme o talora di piccoli fiori. L’abaco sostiene un animale a tuttotondo: leone, zebù, o elefante. La colonna eretta a Sarnath, nel parco dove il Buddha aveva tenuto il primo sermone, ha un capitello particolarmente imponente [fig. 3]. Sull’abaco figurano vari elementi. Quattro ruote (cakra), che evocano senza dubbio il carattere universale della legge buddhista, indicano ciascuna un punto cardinale. Esse si alternano con un elefante, uno zebù, un cavallo e un leone, che avanzano nella direzione fausta (pradaksinam). Il significato di questi animali rimane dibattuto. Quattro protomi leonine

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sovrastano la composizione. Sottili ciuffi di peli stilizzati disposti simmetricamente riprendono un motivo convenzionale della scultura achemenide. Le fauci ruggenti denotano invece un certo «naturalismo«. Una ampia ruota in posizione verticale, simbolo della dottrina del Beato e della giustizia regale, incorona il tutto. Il brillante effetto levigato, ottenuto grazie a una lunga pomiciatura con polvere di agata, aggiunge raffinatezza all’opera. Un pilastro fornito di un capitello simile si ergeva sul sito di Sanci. L’imperatore moltiplica anche gli stupa eretti, fra altre, sulle reliquie del Buddha. La loro costruzione è attestata per quest’epoca anche nello jainismo. Nessuno degli stupa dell’epoca di Avoka, realizzati in mattone, è giunto fino a noi nel suo aspetto originario. Muri disposti al suo interno come i raggi di una ruota caratterizzano quello di Tiraulakot, il luogo in cui presumibilmente sorgeva l’antica Kapilavastu, capitale del regno degli Vakya, nel Terai nepalese.

6. Visita del re Vidudabha al Buddha, seconda metà del ii o inizi del i secolo a.C. Calcutta, Indian Museum (provenienza: Bharhut). 7. Vedika, grès, seconda metà del ii o inizi del i secolo a.C. (particolare della faccia interna della balaustrata est). Calcutta, Indian Museum (provenienza: Bharhut).

Gli Vunga Verso il 184 a.C. Pusyamitra, il principale capo militare dell’ultimo monarca, assassina il sovrano e fonda una propria dinastia. Come propria residenza egli preferisce a Pataliputra (Patna), capitale dei suoi predecessori nel Bihar settentrionale, l’importante città mercantile di Vidiva (Besnagar), situata, nell’India centrale, sulla

4. Stupa n. 2, 100 a.C. circa. Sanci. 5. Mahakapi jataka, grès, seconda metà del ii o inizi del i secolo a.C. Calcutta, Indian Museum (provenienza: Bharhut).

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rotta commerciale che unisce la costa occidentale del subcontinente alla pianura del Gange. Numerose vestigia buddhiste e induiste provano l’importanza di questa regione durante i due secoli che precedono l’era cristiana. Non lontano da Vidiva si trova il sito di Sanci. La maggioranza degli archeologi data al ii secolo a.C. Sanci n. 2, lo stupa più antico del complesso monumentale [fig. 4]. Le parti superstiti sono caratteristiche della erezione dei tumuli reliquiari dell’India antica. Esso ospitava le reliquie di un famoso religioso contemporaneo di Avoka, Mijjina, nonché quelle di due

discepoli. Questo monaco missionario aveva viaggiato nelle regioni himalayane. La balaustrata (vedika) in pietra, che delimita lo spazio sacro e crea il passaggio per la circumambulazione (pradaksipa patha) dei fedeli, è costruita seguendo una tecnica ereditata dall’architettura in legno. Lunghi montanti verticali (stambha) dai lati scavati da fori oblunghi che sostengono traverse (suci) dalle estremità modellate a tenoni. Il percorso tortuoso dell’unico ingresso impedisce agli spiriti maligni, che la tradizione indiana crede possano procedere solo in linea retta, di accedere al luogo sacro. Medaglioni con motivi floreali o con temi istoriati e alcuni pannelli scolpiti adornano i montanti. I soggetti raffigurati non costituiscono un insieme coerente. I medaglioni a forma di loto sono lavorati con estrema precisione. La balaustrata in parte conservata dello stupa di Bharhut (seconda metà del secolo ii o inizio del i a.C.), nel nord dello Stato del Madhya Pradesh, offre una decorazione di tutt’altra estensione. Al tempo degli scavi, nel 1873, venne scoperta una sola porta monumentale (torapa) in relativamente buono stato. Quattro colonne ad assemblaggio di blocchi separati, disposte in fasci, costituiscono ciascuno dei montanti verticali. Due leoni accucciati le sovrastano. Al di sopra tre grandi architravi, lievemente curve, che terminano con dei mostri celesti (makara) dalla coda avvolta sono congiunte da traverse verticali. La balaustrata, alta 2,14 metri, benché

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simile a quella di Sanci n. 2, presenta una decorazione più ricca: personaggi di grosse dimensioni – yaksa, driadi (yaksi, yaksipi) in particolare – e serpenti (naga) divinizzati dall’aspetto antropomorfo [fig. 7]. Le donne hanno le forme armoniosamente sviluppate che costituiranno una delle grandi caratteristiche dell’arte indiana durante tutta la sua evoluzione [fig. 7]. Scene narrative, incluse spesso in medaglioni o circoscritte da pannelli quadrangolari, contengono varie peripezie della vita di Vakyamuni, ma anche alcune azioni particolarmente meritorie delle sue esistenze precedenti (jataka) [fig. 6]. Ciascuna delle scene edificanti è accompagnata da una dedica o da una spiegazione scritta. Si possono pertanto contare ventisei donatori, provenienti da ventotto località e appartenenti a tutte le classi sociali. Vakyamuni e i buddha dei periodi cosmici passati non sono mai raffigurati [fig. 6], in conformità con la tradizione della iconografia aniconica. Una recente teoria ipotizza che gli episodi in questione, tradizionalmente interpretati come avvenimenti biografici, altro non siano che scene di adorazione dei luoghi sacri legati alla memoria di Vakyamuni. Tale tesi, benché suggestiva, non spiega tutte le composizioni interessate, ed è talvolta contraddetta dalle iscrizioni. L’insieme presenta un carattere narrativo molto pronunciato. I personaggi, per lo più di faccia, hanno corpi brevilinei, e i loro movimenti mancano di agilità. I numerosi animali appaiono, salvo eccezioni, di profilo. Si nota un trattamento maldestro dello spazio tramite piani sovrapposti. Le varie forme di agghindamento costituiscono un vero e proprio repertorio della gioielleria del tempo. Una grande ghirlanda si estende sul corrimano e separa diversi pannelli istoriati. Si nota in più luoghi la presenza di numerosi motivi di origine straniera, achemenide o greca, più o meno assimilati. Un ornamento particolare, la cui forma ricorda una mezzaluna dal profilo limato, già attestato a Sanci n. 2, si ritrova in tutta l’antica arte indiana. In origine segno portafortuna, verrà interpretato dai buddhisti come un simbolo del «triplice gioiello« (triratna): il Buddha, la Legge (dharma), la Comunità dei monaci (sangha). Lo sviluppo della architettura rupestre Spesso si incontra uno speciale tipo di architettura scavata nella roccia. I siti rupestri sono particolarmente numerosi nello Stato del Maharastra, regione caratterizzata sempre da una

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forte identità culturale. Il contesto storico dei periodi antichi è poco conosciuto. Alcune iscrizioni sottolineano l’esistenza di una dinastia locale degli Vaka, attestata nel i secolo, che riuniva sotto il proprio dominio, al momento del proprio apogeo, il Madhya Pradesh occidentale, una parte del Rajasthan, il Gujarat e il nordovest del Dekkan. Questi dinasti dovettero a più riprese riconoscere la sovranità di altre famiglie principesche. In India le grotte sono di due tipi: monasteri (vihara) e sale assembleari (caityagrha), spesso chiamate «caitya« («oggetto di venerazione«), che è la denominazione corrente del piccolo stupa (dagoba) che esse ospitano. Non si conosce la loro destinazione precisa, né se esse fossero o meno accessibili ai laici. Bhaja, il più importante e compiuto di questi primi monasteri scavati nella roccia, risale al primo terzo del i secolo a.C. La pianta dei vihara testimonia ancora dei tentennamenti [fig. 8]. La grotta n. 20 presenta tuttavia sulla facciata una tettoia ipostila e una sala quadrata su cui si aprono quattro celle. Archi scolpiti in una fedele imitazione di costruzioni lignee dalla forma caratteristica dell’antica arte indiana dominano le porte delle celle e le eleganti nicchie scavate nei muri della sala centrale [fig. 11]. Sotto la tettoia due imponenti rilievi incorniciano l’accesso a un piccolo spazio laterale. Vi si fronteggiano due protagonisti. Quello di destra, in groppa a un elefante, viene di solito identificato con Indra, il re degli dei. Il secondo, in una quadriga e affiancato da due assistenti, pone maggiori problemi di identificazione. La maggioranza degli autori riconosce in lui Surya, il Sole [fig. 10]. I vari personaggi, di dimensioni proporzionali alla propria importanza, sono raffigurati con una qualche rozzezza che non esclude un realistico senso del movimento. Diversificazioni di piano molto accentuate catturano la luce e conferiscono all’assieme una qualità quasi pittorica. Altre grotte più antiche permettono di conoscere in certa misura le tappe degli sviluppi che hanno portato a realizzare caitya dalle forme compiute come a Bhaja. Lo stupa, uno degli elementi fondamentali di ogni monastero buddhista, doveva essere all’interno di una grotta creata all’uopo come gli altri spazi necessari alla comunità. A Guntupalli (Andhra Pradesh) una piccola grotta, datata al ii secolo a.C., è costituita da un vestibolo e da una sala tonda che ospita il tumulo. Una intelaiatura finta, scolpita nella roccia, ricopre il tutto.

8. Pianta dei vihara, primo terzo del i secolo a.C. Bhaja. 9. Interno, primo terzo del i secolo a.C. Bhaja, grotta n. 20 («Piccolo vihara del sole« [caityagrha]). 10. Indra e Surya, primo terzo del i secolo a.C. Bha­ ja, grotta n. 20 («Piccolo vihara del sole« [tettoia]). 11. Ingressi delle celle, vihara absidale, metà del i secolo a.C. Bedsa.

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12. Facciata, primo terzo del i secolo a.C. Bhaja, caityagrha. Nella pagina seguente: 13. Interno, primo terzo del ii secolo. Karli, caityagrha.

Preghiere collettive e liturgie varie richiedevano l’esistenza di caityagrha molto ampie. A Kondivte (Maharastra) una lunga stanza precede uno spazio circolare, a imitazione di una capanna, separata da una sottile parete curva animata da due finestre a claustra, che contiene uno stupa di dimensioni imponenti. La caityagrha di Bhaja si colloca al termine di tale

evoluzione [figg. 9, 12]. La grotta ha una pianta basilicale che termina in abside. Le navate laterali, separate dalla navata centrale da colonne a blocchi separati, si prolungano in un corridoio destinato alla circumambulazione rituale intorno al piccolo stupa, oggetto di venerazione. La volta scavata in una successione d’archi sopraelevati, è fittiziamente sostenuta dalle volte di una intelaiatura in legno applicata sulla pietra. L’imponente facciata alternava elementi in legno alle parti scavate nella parete rocciosa. Un muro-schermo, con tre porte corrispondenti alla navata centrale e alle navate laterali, separava la sala. Un grande arco indiano lasciava entrare aria e luce. Un gioco di finti piani di balconi e di archi indiani secondari, con eleganti e raggianti claustras interne, lascia intravedere la vivace scultura di coppie in turbante dal viso sorridente. Kopdane e Pithalkora, sempre nel Maharastra, dispongono di architetture analoghe a quelle di Bhaja. A Pithalkora (100-70 a.C. circa) una terrazza precede la grotta n. 4. La facciata fittizia del suo contrafforte è adornata di una originale decorazione di protomi di elefanti di dimensioni imponenti. A sinistra una porta che dà accesso alla scala della terrazza è affiancata da due guardiani di porta (dvarapala), raffigu-

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rati con tratti realistici. Hanno un viso tondo e sorridente, e la loro fattura è più curata rispetto ai personaggi di Bhaja. Con l’inoltrarsi nell’era cristiana nel Maharastra l’architettura rupestre si sviluppa prepotentemente. Le caityagrha arrivano ad assumere dimensioni particolarmente maestose e le loro decorazioni si arricchiscono di abachi decorati con opulenza. Uno schermo di pietra chiude la navata e accresce la solennità della facciata preceduta da colonne isolate secondo la tradizione del periodo di Avoka (Bedsa, Nasik). Il complesso più importante è senza dubbio Karli [figg. 13-16]. Una immensa tettoia che fa da portico è monumentalmente decorata con protomi elefantine. Sullo schermo delle coppie in pose noncuranti, dei donatori forse, raffigurate secondo i canoni allora in auge nella pianura del Gange. Questi personaggi si alternano con dei pannelli visibilmente più tardi (v o vi secolo). Le basi delle colonne della navata, dal solido fusto a blocchi separati, hanno la forma di un vaso del tipo di quelli in terracotta che, in queste regioni tropicali, isolano dal suolo i pilastri di legno al fine di evi-

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tare che marciscano. Sopra i capitelli, a forma di fiori di loto capovolti e stilizzati, gli abachi in forte risalto presentano due coppie di amanti in groppa a elefanti. Una intelaiatura di legno, relativamente ben conservata, dà la perfetta illusione di una architettura costruita. Soffitti piatti coprono le navate laterali. La datazione di questo complesso è ancora incerta e dibattuta. L’ipotesi più plausibile è quella del primo terzo del secolo ii.

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14. Pianta e sezione, primo terzo del ii secolo, Karli, caityagrha. 15. Capitello, grès, primo terzo del ii secolo, Karli, caityagrha. 16. Cinta di clausura, grès, primo terzo del ii e v secolo. Karli, caityagrha.

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I Satavahana Prima del 64 a.C. gli Vunga – dinasti regnanti nell’India centrale – riconoscono la supremazia dei loro vassalli, gli effimeri Kanva, che riportano il baricentro del regno nel Magadha, nell’India nordorientale. In un secondo momento essi sono completamente sconfitti dal loro potente vicino meridionale, Simuka Satavahana. Questo energico sovrano fonda una solida dinastia la quale riunisce, a partire dalle regioni andhra, nel Dekkan centrorientale, importanti territori che si estendono sulla penisola da est a ovest. Questa parziale unificazione del nord del Dekkan e dell’India centrale, che sarebbe durata parecchi secoli, non comporta tuttavia una corrispondenza in campo artistico. Si possono pertanto distinguere due grosse zone: la regione dell’antica capitale Vidiva, sede di un attivo centro di produzione d’arte, e le regioni andhra, dove si sviluppa la scuola di Amaravati. Il grande stupa di Sanci (Sanci n. 1) sviluppa al massimo i princìpi sperimentati in luoghi quali Bharhut. Il tumulo, senza dubbio fondato nell’epoca di Avoka, venne inglobato, alla

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17. Stupa n. 1, fine i secolo a.C.-inizio i secolo d.C. Sanci. 18. Torapa est, fine i secolo a.C.-inizio i secolo d.C. Sanci, stupa n. 1.

19, 20. Pianta del sito e pianta dello stupa n. 1, fine i secolo a.C.-inizio i secolo d.C. Sanci. 21. Dvarapala, grès, fine i secolo a.C.-inizio i secolo d.C. Sanci, stupa n. 1 (torapa ovest).

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22. Episodi della vita di Vakyamuni, grès, fine i secolo a.C.-inizio i secolo d.C. Sanci, stupa n. 1 (torapa est [pilastro sinistro]).

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fine del i secolo a.C., in una più vasta massa in mattone, seguendo una abitudine che rimarrà in uso in tutto il mondo buddhista fino all’epoca moderna [figg. 17, 19]. Il complesso, particolarmente maestoso, dal diametro di circa 36 metri, è il prolungamento dell’arte indiana delle prime dinastie. Lo stupa beneficia di due corridoi per la circumambulazione. Uno, al livello del suolo, è delimitato da un’alta balaustrata. Alcuni torapa dalle abbondanti decorazioni scolpite ne segnalano i quattro accessi, dal percorso tortuoso, in direzione dei quattro punti cardinali [fig. 20]. L’altra, su di un’alta base, leggermente debordante, dona maestà al tumulo ed è connessa al suolo da due volute di scale. Il ripristino della sovrastruttura in epoca moderna ha alterato l’aspetto del monumento, la magnificenza del cui stupa era un tempo accentuata dalla presenza di alcuni parasole di grosse dimensioni. Il torapa sud sembra essere il più antico [fig. 17]. Esso segna l’entrata principale del complesso, ergendosi a lato di una colonna risalente all’epoca di Avoka e innanzi alla doppia scala che dà accesso al corridoio superiore. Una is-

crizione sui rilievi delle sue parti alte menziona il nome del re Vri Satakarpi, senza dubbio Satakapi i degli Satavahana, che regnò nei primi anni dell’era cristiana. È difficile ricostruire l’ordine nel quale vennero costruite le quattro porte, ma il torapa orientale è il più riuscito in quanto a proporzioni e a qualità plastiche [fig. 18]. I pannelli sembrerebbero essere stati eseguiti secondo un ordine non prestabilito bensì in accordo alle donazioni, cosicché uno stesso devoto si trova menzionato in più luoghi. I montanti verticali delle porte sono sovrastati da capitelli a forma di animali: quattro protomi leonine segnano il torapa sud, quattro nani (gapa) piegati sulle ginocchia, quello ovest, e quattro elefanti le altre due porte. Sui lati, delle mensole sono costituite dal corpo di amabili yaksa, appesi a dei rami d’alberi [fig. 18], che connettono, con un grazioso ancheggiare, la parte alta del pilastro alla parte fuori del corpo della prima architrave. Animali, talvolta fantastici, decorano i pannelli che si trovano alle intersezioni fra montanti verticali e architravi. Alcuni tradiscono influenze straniere, achemenidi fra le altre, ereditate dall’epoca precedente ma

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del tutto assimilate. Alcuni personaggi di grandi dimensioni decorano la faccia laterale interna dei pilastri. Le loro proporzioni eleganti, i loro gesti studiati e la loro gioielleria di vario genere rinnovano il tema degli usuali dvarapala [fig. 21]. Come a Bharhut, i numerosi rilievi propongono, senza un apparente ordine, degli episodi della vita di Vakyamuni, dei racconti delle vite precedenti e delle scene che narrano il Risveglio o l’Estinzione (nirvapa) del buddha del passato [fig. 22]. Come è di norma nell’arte antica dell’India, il Buddha non è raffigurato. Mentre a Bharhut l’interesse era concentrato sul momento più importante dell’episodio evocato, a Sanci n. 1 una migliore padronanza dello spazio permette di incorniciare la scena principale con componenti secondarie, spesso aneddotiche. Alcune architetture molto curate ed elementi della flora raffigurati fedelmente ritmano numerose composizioni e conferiscono una maggiore leggibilità ai pannelli, minuziosamente scolpiti su tutta la superficie. I personaggi, dai visi paffuti e sorridenti, e gli animali sono ritratti in pose e atteggiamenti delicati. Questa estetica sviluppa con consumata abilità i princìpi definiti nell’India centrale all’epoca Vunga, distinguendosi quindi molto dall’arte delle regioni andhra, cuore storico dell’Impero dei Satavahana. Nel bacino delimitato dai fiumi Godavari e Krspa, nel Dekkan orientale, numerosi siti buddhisti testimoniano l’esistenza durante più di quattro secoli di un’arte originale. Il sito più importante, Amaravati, dà il proprio nome all’intera scuola, caratterizzata fra altro dall’impiego quasi senza eccezioni di un calcare marmoreo bianco e facile da lavorare. Numerosi pannelli narrativi o decorativi decoravano la balaustrata degli stupa, le loro basi e il corpo stesso dei tumuli, come raffigurazioni di monumenti simili attestano [fig. 23]. La balaustrata è ben visibile ma si nota l’assenza, in questa zona dell’India, della porta monumentale e dell’ingresso a percorso curvo. È possibile seguire con precisione l’evoluzione dello stile dal i secolo a.C. fino al iii secolo, e spesso la si divide in tre grossi periodi. Il primo (i secolo a.C.-ii secolo d.C.) si ritrova in particolare a Jaggayapeta e ad Amaravati. Un rilievo di Jaggayapeta, che raffigura il sovrano universale (cakravartin), è tipico di questa prima tendenza stilistica [fig. 24]. Sette tesori circondano il monarca idealizzato, di dimensioni sovrumane: la ruota, simbolo della sovranità,

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23. Rivestimento raffigurante uno stupa, marmo bianco, ii secolo. Chennai, Government Museum (provenienza: Amaravati). 24. Il cakravartin ed i suoi sette tesori, marmo bianco, i secolo a.C. Chennai, Government Museum (provenienza: Jaggayapeta). 25. Pilasto di balaustrata, marmo bianco, ii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: Amaravati).

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posta in cima a un pilastro, il parasole, il cavallo, l’elefante, il buon ministro, il tesoriere e la sposa virtuosa. Una giustapposizione di questi vari elementi, in certo modo maldestramente collocati, i gesti rigidi dei personaggi, il drappeggio stereotipato dei tessuti reso con un doppio tratto inciso, la debolezza delle forme sono altrettanti indizi di un’arte in via di formazione. Abiti e gioielli ricordano forme in uso nell’India centrale nello stesso periodo. Un pannello, proveniente da Amaravati, che raffigura la Grande Partenza già mostra una estetica compiuta. Un accentuato senso del movimento permette uno svolgimento quasi cinematografico della scena: deva in volo che hanno aperto le porte della città al Beato, cavallo al trotto con nessuna zampa a contatto con il suolo, altre divinità in cielo, contrasto fra i personaggi e la porta della città scolpita con cura. I gesti delicati dei protagonisti sono enfatizzati da un forte rilievo che cattura la luce e accentua la drammatizzazione. Nella prima metà del ii secolo, forse sotto il regno di Vasipthiputra Pusumavi, lo stupa di Amaravati, chiamato un tempo Dhanakataka, viene ingrandito. L’imponente monumento, conosciuto dal 1797, contava numerosi rilievi di straordinaria qualità. Alcuni pannelli dello stile precedente vennero riutilizzati sulla base. La maggioranza degli altri appartiene al secondo periodo. Un pilastro riccamente decorato [fig. 25], conservato al British Museum di Londra e proveniente dalla balaustrata, permette di apprezzare la raffinatezza di questo secondo stile, sia nelle parti puramente ornamentali sia nelle scene istoriate. La moltiplicazione dei motivi non è mai soffocante, poiché essa non ostacola la rigorosa organizzazione geometrica dell’assieme. Il medaglione centrale della faccia del pilastro, orientato verso il percorso della circum­ ambulazione, mostra la giovane Sujata che porta una ciotola di cibo al Buddha accompagnata da altre donne del villaggio. I corpi morbidi e longilinei, i gesti stilizzati all’estremo, un certo naturalismo nella resa dei seni sono caratteristiche che si protrarranno, sotto altra forma, nell’arte dell’India meridionale. Su di un medaglione, esempio tipico di questo senso del movimento e della agilità della composizione, il Buddha placa l’elefante Nalagiri. Le donne di corte osservano l’avvenimento dalle finestre del Palazzo. L’elefante, raffigurato due volte, si inchina ai piedi di Vakyamuni, nella parte destra del rilievo. Questa rottura rispetto alla tradizione aniconica, fino allora severamente rispettata in quest’area del Dekkan, sembrerebbe più tarda

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che nell’India settentrionale, dove comunque la sua attestazione risale, come qui, alla fine del ii secolo. Al centro del medaglione una elegante donna di fronte alla violenza della scena si getta fra le braccia del proprio compagno in un gesto di terrore e di tenerezza insieme. La raffinata cura del rilievo, più o meno in risalto, accentua i vari piani e concorre a drammatizzare il tutto. Nell’arte di Amaravati la comparsa delle prime statue del Buddha è circondata da incertezze di appartenenza dottrinaria come nell’India settentrionale. A Nagarjunkopda si nota tuttavia la presenza del Mahayana. Queste statue, opera dell’ingegno degli artigiani del luogo, devono poco ai modelli kusapa dell’India settentrionale, sia di Mathura sia del Gandhara. Il viso dal mento perfettamente ovale porta i segni tradizionali della buddhità: urpa e uspisa. Il drappeggio del mantello monastico, dalle pieghe striate che sottolineano le forme, ricade elegantemente sul braccio sinistro. Questo originale tipo di raffigurazione del Buddha avrà immensa eco a Ceylon e in Asia sudorientale. Nagarjunkopda, un tempo Vijayapura, capitale fortificata dei re Iksvaku, è tipica della terza fase (iii secolo). I rilievi di questo terzo stile, scolpiti nel concavo, mostrano un carattere narrativo più accentuato. Il corpo dei personaggi, più spigoloso, si stacca uniformemente in un debole rilievo. I pannelli istoriati, dalle composizioni affollate, sono talora scanditi da coppie amorose (mithuna) in pose ancheggianti e vagamente languide, piazzate lì a fini protettivi. Gli Iksvaku professavano l’induismo, ma la città conobbe una importante attività buddhista. Gli scavi hanno così portato alla luce le fondamenta di trentasette monasteri, appartenenti a quattro scuole diverse, benché sia difficile collegare gli edifici a tale o a tale altro indirizzo dottrinario. Uno di essi, ben conservato, offre una plani-

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metria particolarmente omogenea [fig. 26]. Il complesso comprende uno stupa accessibile ai fedeli, dalla struttura interna a forma di ruota bene visibile, e una clausura caratterizzata da due caityagrha, ospitanti uno un piccolo stupa, l’altro, un tempo, una statua di Vakyamuni. Questo raddoppiamento dei santuari non è raro. Lo si ritrova nelle regioni andhra a Thotla Kupda. Si spiega con una diversificazione delle esigenze della vita religiosa. Una delle sale, nella letteratura designata con il termine patimokkha, era adoperata solo dai monaci, segnatamente per la confessione delle colpe. L’altra, semplice stanza di riunione (upatthanasala), era accessibile sia ai fedeli laici che ai membri della comunità monastica. Posteriormente, le celle dei monaci si aprono su di un cortile centrale occupato da una ampia sala ipostila (mapdapa) adoperata per la vita quotidiana. I Kusapa nel bacino del Gange All’inizio del i secolo, degli invasori di origine sciita (Vaka) provenienti dall’Asia centrale, federati dall’energico Kadphises del clan Kujula (Kusapa), conquistarono un immenso territorio che si estendeva su grossa parte degli odierni Afghanistan e Kashmir. Il figlio di Kadphises, Vima Kadphises (Kadphises ii), spinge ulteriormente verso oriente le proprie ambizioni annettendo il Gandhara, il Panjab e la regione di Mathura al centro dell’India settentrionale. Kaniska il Grande, il terzo sovrano della dinastia, è incontestabilmente il più brillante. La data della ascesa al trono, all’inizio dell’era che porta il suo nome, è oggetto di discussione, ma gli anni 78 e 120 sono le due ipotesi più plausibili. Egli incoraggia tutti i tipi di culto mostrando massima tolleranza religiosa. I testi buddhisti vantano il suo zelo nel proteggere la religione del Beato. La corte si divideva fra due capitali: una residenza invernale a Purusapura, l’odierna Peshawar nel Gandhara, e una estiva a Kapivi, oggi Begram, in Afghanistan. Queste due sedi sottolineano l’importanza delle regioni settentrionali, legate al grosso commercio internazionale, nella organizzazione dell’Impero. Mathura era una città non meno importante dal punto di vista economico, e attraeva una grossa parte di ricchezze della pianura del Gange. La duplice centralità urbana influenza il panorama artistico. Mathura, sede di una produzione fiorente, dà lustro alle tradizioni regionali dell’India centrale. Nel nord dei possedimenti kusapa si crea una scuola

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26. Pianta di monastero, secolo circa, Nagarjunakopda.

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27. Bodhisattva del Biksu Bala, grès, 81 o 123. Sarnath, Sarnath Site Museum.

28. Buddha e assistenti, grès, inizi ii secolo. Mathura, Government Museum (provenienza: Katra).

originale della quale il Gandhara costituisce il centro principale. Malgrado innegabili influenze reciproche, le due scuole mostrano una fortissima originalità. L’arte del Gandhara, per gli stretti legami con l’Asia centrale, merita di essere trattata separatamente da quella di Mathura, e in questo libro ha quindi un capitolo a sé stante. Gli scultori di Mathura impiegano come materiale un caratteristico grès rosa sostenuto proveniente da cave di Sikri. Le loro opere non si ritrovano soltanto nella regione di Mathura poiché vennero esportate in tutta l’India gangetica. L’Impero kusapa fece da cornice a due importanti mutamenti religiosi: l’emergere del Mahayana e l’apparire delle prime raffigurazioni di Vakyamuni, ma non è dato stabilire con certezza un nesso fra i due fenomeni né escludere che una evoluzione intellettuale in alcune

comunità del buddhismo antico togliesse il divieto di raffigurare il Beato. A Sarnath, due colossali statue fanno parte delle prime rappresentazioni di Vakyamuni [fig. 27]. Una porta una dedica con il nome del donatore, il monaco Bala (Bhiksu Bala), nonché la data: Terzo anno del regno di Kaniska – l’81 oppure il 123. L’iscrizione in chiusura assegna al Beato l’epiteto bodhisattva (destinato al Risveglio). Un leone, tradizionalmente associato al clan degli Vakya e allo stesso Vakyamuni, seduto fra i piedi, l’assenza di gioielli e l’abito monastico non danno adito a dubbi circa l’identità del personaggio. La statua prosegue una tipologia iconografica più antica, quella degli yaksa dell’India antica, le cui molteplici raffigurazioni caratterizzavano spesso i luoghi sacri venerati dai contadini in numerose località delle campagne indiane. Essa ne possiede la maschia sicurezza, la posa con le gambe leggermente divaricate, la forte corporatura con i pettorali in risalto e dal sesso assai evidente sotto il drappeggio delle vesti. I capelli sono lisci, la testa tondeggiante con gli occhi globulari e le ampie arcate sopracciliari scavate. Un lembo dell’abito monastico (uttarasapga) ricade sul polso sinistro, tenuto all’altezza della vita. La mano destra, oggi in pezzi, doveva compiere il gesto dell’assenza di timore, come nella maggior parte dei Buddha della scuola di Mathura. L’aspetto particolarmente corpulento del personaggio fa propendere per la datazione meno tarda (anno 81 della nostra era) in quanto le raffigurazioni del Buddha si allontaneranno poco a poco da questo archetipo antico ispirato ai culti popolari. Un secondo Buddha, una creazione locale, si ispira al primo. Non è scolpito nel grès rosa di Mathura, bensì in un grès giallastro proveniente dalle cave del Chunar. Una bella stele, risalente probabilmente alla prima metà del ii secolo, trovata a Katra, uno dei siti della regione di Mathura, raffigura il Buddha seduto, le gambe strettamente incrociate nella posizione del loto (padmaparyanka), la mano destra sollevata nello abhaya mudra, la mano sinistra poggiata sulla gamba [fig. 28]. Il corpo è massiccio e conserva anche altre caratteristiche del bodhisattva del Bhiksu Bala, ma la testa si è affinata e il gesto ha acquistato maggiore agilità. I segni della buddhità, ben visibili, sottolineano la personalità straordinaria del protagonista: urpa alla base della fronte, uspisa ricoperto da un ciuffo attorcigliato, cakra sui palmi di mani e piedi. Due assistenti, pesantemente agghindati nello stile caratteristico di Mathura, portano degli scacciamosche.

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Nella parte superiore una grossa aureola e due geni volanti (gandharva) conferiscono maestà al Buddha. Il seggio, la cui base è ornata da leoni, e il Ficus religiosa sullo sfondo con le foglie ben visibili evocano Bodhgaya, il luogo in cui Vakyamuni conobbe il Risveglio. La vita di Buddha a partire dal i secolo divenne, con la redazione del Lalitavistara, un tema letterario diffuso. Un raro bassorilievo proveniente da Rajghat, a Mathura, ne presenta gli avvenimenti principali [fig. 29]. Da destra a sinistra si individua la nascita, con la regina Maya che si tiene a un ramo di albero alla maniera delle driadi. Sotto i due re serpenti, Napda e Upa­ napda, adorano il neonato. L’episodio che segue riguarda il Risveglio del Beato, che prende la terra a testimone della propria buona fede. La discesa dal cielo dei Trentatré dei occupa una posizione privilegiata, al centro del pannello. Nella parte sinistra il primo sermone a Sarnath accanto al parinirvapa. Può sembrare paradossale che soltanto questo pannello e rari frammenti narrativi illustrino, nell’arte di Mathura, soggetti del genere, mentre essi sono frequenti nel Gandhara e nella parte più settentrionale dell’Impero kusapa. Il bassorilievo del Rajghat concede una posizione importante agli episodi secondari, che nella parte superiore completano le scene principali. La composizione, molto rozza, non ha alcun rapporto con la disposizione dei rilievi del Gandhara, spesso abilmente strutturati tramite componenti architettoniche. La credenza nei bodhisattva, gli esseri di sos-

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d’amore che il suo amante lontano non le può sussurrare; un’altra si aggiusta con civetteria un ornamento all’orecchio. La sua vicina fa penzolare un fiore odorifero con la mano destra, abbassata con noncuranza. Queste giovani donne sontuosamente ingioiellate secondo la moda dell’epoca kusapa rispondono a un canone che, attraverso i vari stili dell’arte indiana, continuerà immutato nel corso di secoli. I seni sviluppati e pesanti e le anche armoniose messe in risalto da cinture lavorate contrastano con la vita sottile e costituiscono i caratteri più evidenti. Queste donne eleganti, eredi delle yaksipi di epoca vunga, garantiscono, come queste ultime, abbondanza e protezione. Lo stesso vale per le coppie di innamorati (mithuna) che si intrattengono piacevolmente al balcone sopra le donne. Sotto i piedi vi sono gapa proni con il viso bonario, per la cui presenza non è stata ancora fornita una spiegazione. La faccia dei montanti rivolta in direzione del verso in cui avviene la circumambulazione, scolpita in stiacciato, mostra delle piccole scene di jataka. Il loro ordinato posizionamento, strutturato tramite elementi architettonici in miniatura che incorniciano i vari episodi, prosegue uno schema compositivo già attestato a Sanci n. 1, due secoli prima. Il numero relativamente scarso di sculture buddhiste prodotte nella regione di Mathura in epoca kusapa, molto meno numerose delle opere jainiste ad esempio, può lasciare stupiti, ferma restando la loro qualità. Questa relativa scarsezza è forse dovuta all’assenza, dopo Kaniska, di un rinnovato sostegno dinastico, in quanto i sovrani appoggeranno principalmente i culti induista e jainista.

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tanza puramente spirituale capaci di intervenire nel mondo fenomenico, costituisce una delle innovazioni del Mahayana. Alcune statue ne attestano il culto nella vallata del Gange in epoca kusapa. La meglio riuscita, scoperta ad Ahicchattra, nell’Uttar Pradesh, a cento chilometri circa a est di Mathura, raffigura Maitreya [fig. 31]. La caratteristica pietra rosa prova l’irraggiamento della civiltà di Mathura in tutta l’India settentrionale. La divinità, riconoscibile dall’acquamanile (kupdika), si confà a una iconografia già abituale nell’arte del Gandhara nel ii secolo. Maitreya, il Buddha del futuro, ancora non possiede i segni della buddhità. Adornato di gioielli come un principe o un dignitario, egli indossa un dhoti dagli ampi lembi trattenuto da una cintura decorata da motivi floreali. Posa, gesto e lavorazione dei tratti somatici riproducono quelli delle immagini dello stesso periodo del Buddha in piedi. Il viso allungato, quasi perfettamente ovale, si ritrova in altre statue. Si tratta di un dettaglio che non parrebbe indicare una evoluzione cronologica ma, più verosimilmente, una tradizione dei laboratori artigianali. L’arte di Mathura è giustamente celebre per le raffigurazioni di corpi femminili dalla sensualità accentuata. La balaustra, in parte conservata, dello stupa di Bhutevvara, nei pressi di Mathura, presenta una decorazione tipica in tal senso [fig. 30]. La faccia esterna dei montanti è adornata da giovani donne in varie pose che evocano temi letterari sempre in voga. Una bella fanciulla insegna a un mainate le parole

I Gupta

29. Episodi della vita del Buddha, grès, ii secolo. Mathura, Government Museum (provenienza: Rajghat [Mathura]). 30. Pezzo di balaustra, grès, ii secolo, Calcutta, Indian Museum (provenienza: Bhutevvara). 31. Maitreya, grès, secolo, New Delhi, National Museum (provenienza: Ahicchattra). ii

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Un piccolo sovrano del Magadha, Candragupta i (320-335 circa), diede origine a una delle più prestigiose dinastie dell’India, i Gupta (320647 circa). Suo figlio Samudragupta (335-375 circa) ingrandì molto i possedimenti della famiglia, occupando il territorio dei kusapa sul medio corso del Gange, e respingendo nel Dekkan le dinastie Vakataka e Pallava. Candragupta ii (375-414 circa) conquistò tutti i territori fino alla costa occidentale del subcontinente, inglobando il Malwa e il Gujarat, e fornendo all’Impero l’accesso al mare che permise la partecipazione al grosso commercio internazionale. Inoltre, per avvicinarsi alle strade carovaniere, egli spostò la propria capitale dall’antica Pataliputra verso occidente, a Ujjain nel Bihar.

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La dinastia raggiunge il massimo potere nella prima parte del secolo v. A partire dal 455 le incursioni devastatrici degli Unni bianchi (Vvetahupa) indeboliscono l’Impero e sconvolgono il grosso commercio. Kumaragupta (414-455 circa) e Skandagupta (455-467 circa) riuscirono a respingere questi attacchi, ma a prezzo di imponenti sacrifici finanziari che causarono la rovina del tesoro e la demotivazione dei vassalli. I successori abbandonano la parte occidentale dell’Impero e si rifugiano a Pataliputra. Harsavardhana di Kanauj (612-657) ricostituisce temporaneamente l’Impero. Alla sua morte il paese per più secoli si divide in principati rivali. L’epoca gupta segna una sorta di età classica della civiltà indiana, e l’arte buddhista è partecipe della fioritura. I suoi modelli, testimonianza della vitalità della comunità buddhista del tempo, si irradiano più o meno direttamente su larga parte dell’Asia. Il buddhismo non era tuttavia la religione professata dai sovrani. I Gupta erano particolarmente devoti al dio induista Vispu. Harsavardhana era invece di obbedienza vivaita. I monarchi erano onorati di sostenere tutte le religioni praticate nell’Impero. Taluni re si dichiararono nondimeno protettori particolari della religione del Beato. Budhagupta (476-495 circa) avrebbe fondato l’università di Nalanda sul luogo ove si presumeva fosse nato Variputra, uno dei discepoli preferiti di Vakya-

muni. Baladityagupta (inizio secolo vi) sarebbe stato un fervente seguace del Buddha. Harsavardhana di Kanauj, particolarmente sensibile nei confronti della filosofia buddhista, nel 643 convocò un concilio radunando le più eminenti personalità delle varie religioni per favorire un dialogo ecumenico. Malgrado questo sostegno ufficiale, il mantenimento dei monasteri, il loro sviluppo e il loro abbellimento sembrano essenzialmente dovuti alle donazioni di persone pie. Il periodo vede l’emergere delle prime architetture in pietra da taglio. Il tempio più antico, la struttura n. 17 di Sanci, è caratteristico di questa fase ancora embrionale. Il piccolo edificio, costruito con pietre disposte a giunti ben chiusi su delle fondamenta rudimentali, comprende una sala squadrata preceduta da un atrio ipostilo. Questa pianta molto semplice è in quel periodo condivisa dai luoghi di culto induista e buddhista. Animano il muro esterno un’alta base e una banda d’attico superiore enfatizzata da due modanature. Un doccione, situato lateralmente, permette alle acque pluviali cadute sul tetto piatto di defluire. Alcuni specialisti hanno ipotizzato che un tempo l’edificio fosse ricoperto da un tetto in mattoni di profilo curvo (vikhara). La statua di culto è scomparsa, cosicché gli abachi dei capitelli sono i soli elementi scolpiti di qualche importanza. La fattura dei leoni accucciati, separati da palme

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32. Dhamekh stupa, 600-650 circa. Sarnath. 33. Girali e motivi decorativi, grès, 600-650 circa. Sarnath, Damekh stupa. 34

34, Colonne, grès, 460-480 circa. Sarnath. 35. Buddha, grès, 390-395 circa. Lucknow, Lucknow Museum (provenienza: Katra). 36. Buddha, grès, 440-455. Mathura Government Museum (provenienza Jamalpur). 37. Bodhisattva, grès, 430-460 circa. Lucknow, Lucknow Museum (provenienza: Mathura). 38. Buddha, grès, 465-480 circa. Calcutta, Indian Museum (provenienza: Sarnath).

stilizzate, prosegue lo stile dell’epoca kusapa, benché l’edificio risalga all’inizio del secolo v. I capitelli a forma di campana e i pesanti pilastri a sezione quadrata si collegano a tradizioni ancora più antiche. Il lessico ornamentale si evolve con rapidità come testimoniano, a Sarnath, eleganti colonne inanellate, datate alla seconda metà del secolo v, che sostengono una struttura in legno [fig. 34], e parecchi piedritti eseguiti verso il 500, in cui si alternano gruppi di coppie di amanti, di nani grotteschi e di ricchi girali particolarmente fioriti. L’estrema raffinatezza della decorazione, la sua varietà tematica e la sottile alternanza fra zone più o meno ricche di ornamenti caratterizzano il complesso di questi frammenti. È difficile farsi una idea precisa di come si elevasse il Dhamekh stupa di Sarnath, risalente alla prima metà del secolo vii [fig. 32]. I volumi di muratura rimasti suggeriscono che la base occupasse un posto vieppiù grande. Lo stesso apda evoca più una torre che una semisfera, benché si debba considerare che tale caratteristica sia stata accentuata dalla forte erosione alla quale il monumento è stato soggetto. La base presenta la più estesa decorazione scolpita che ci sia giunta da tale periodo [fig. 33]. Un gruppo di riccioli di loto distesi, si oppone con la sua dinamicità a una grossa cornice di motivi geometrici. La statuaria è dominata da due grandi centri:

Mathura, con laboratori sempre molto attivi, e Sarnath. In un primo tempo i buddha di Mathura continuano i canoni di epoca kusapa ammorbidendoli lievemente. Un Buddha datato al secondo decennio del secolo iv, tipico di questa prima fase, proviene da Katra, nei dintorni di Mathura [fig. 35]. Un drappeggio simmetrico in leggero rilievo copre un corpo ancora robusto. La testa, più sottile, e gli occhi semichiusi intensamente curati contrastano con le labbra carnose caratteristiche delle opere dell’epoca precedente. Un’ampia aureola, una delle maggiori particolarità del periodo, contiene più gruppi di raggi luminosi e di motivi vegetali. Il Buddha, posteriore di una cinquantina di anni, di Jamalpur, alto più di due metri, è illustre esempio della produzione dei laboratori di Mathura al loro apogeo [fig. 36]. Una grande padronanza tecnica permette di eseguire pezzi di simili dimensioni. Il corpo agile del Beato, dalla fluida muscolatura, si disegna sotto una veste attillata, la asimmetria del cui drappeggio è particolarmente avvertibile all’altezza dei pettorali. Il viso ben strutturato e più allungato mostra dignità e solennità. L’aureola possiede una estrema piacioneria decorativa. I bodhisattva godono del medesimo trattamento estetico [fig. 37]. Il corpo più muscoloso e il sesso accentuato sottolineano il loro essere immersi nel mondo fenomenico. La ricca gioielle-

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ria estremamente diversificata, che sembrerebbe rifarsi a gioielli realmente in uso, si alterna a collane di perle e talora a fermagli preziosi e pendagli. Il secondo centro si trova a Sarnath, uno dei luoghi dell’epoca gupta in cui si concentrano vestigia buddhiste. Numerosi ex voto di varie dimensioni, in grès beige di grano molto sottile proveniente dalle cave di Chunar, costituiscono uno dei picchi della statuaria mondiale. La loro iconografia privilegia Vakyamuni, spesso in piedi, più raramente seduto, talora attorniato da assistenti o donatori. Un Buddha in piedi, databile al terzo quarto del secolo v, conservato presso l’Indian Museum di Calcutta [fig. 38], è un ottimo esempio di tale produzione. Si stacca da uno sfondo di stele priva di decorazioni, un tempo certamente riccamente dipinta. I corpi del Beato e dei due bodhisattva che lo assistono sono molto allungati. I vestiti, battuti dal vento, si sposano a forme delicatamente modellate. Solo alcune pieghe alla verticale di collo e braccia rompono l’aspetto totalmente liscio delle carni trasfigurate. Un impercettibile sorriso anima il viso dagli occhi socchiusi. Il Celebre «Buddha di Sarnath«, con la sua ancora più accentuata espressione di meditabonda interiorità, partecipa del medesimo gusto estetico [fig. 39]. Grandi superfici lisce concentrano l’attenzione sulle mani che mettono in mostra la Ruota della dottrina. Una grossa aureola, il cui ampio componimento esterno è animato da girali di loto in morbidi cespugli, sovrasta il trono raffigurato con un certo realismo e decorato con leogrifi impennati. Nella parte inferiore donatori in preghiera su ciascun lato della ruota, simbolo abituale, nella iconografia, del primo sermone. I bodhisattva prodotti in quel periodo possiedono la stessa eleganza. Il museo di Sarnath conserva, ad esempio, una bella raffigurazione di Avalokitevvara, riconoscibile dalla piccola immagine di Amitabha, il buddha dell’ovest, sulla fronte [fig. 40]. La divinità appare sotto le spoglie di un adolescente dalla grazia perfetta e dalle delicate membra. Occhi socchiusi e bocca imbronciata conferiscono una sfumatura aristocratica al viso. Il personaggio tiene con la mano sinistra il gambo di un loto ora scomparso. Non è tuttavia dato ridurre la statuaria di epoca gupta ai due soli centri di Mathura e di Sarnath. Da questi due luoghi infatti si irraggia un’arte che ispira centri secondari più o meno periferici la cui abbondante produzione è sovente di buona qualità. A Sanci quattro statue del Buddha seduto sono poste alle porte dello stupa

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n. 1. Quella rivolta a est [fig. 41], la meglio conservata, permette di giudicare la raffinatezza della lavorazione. Messe in situ nel 450 da una donatrice, Harisvamini, queste opere testimoniano l’irradiarsi della cultura artistica di Mathura: la struttura dell’ampia aureola dietro la testa del Beato, i tratti del viso e la fattura delle pieghe trasparenti e attillate, conservatesi in maniera ineguale, del mantello monastico. Due bodhisattva accompagnano Vakyamuni. Quello alla sua destra, che porta uno scacciamosche, non è identificabile, mentre il vajra in possesso di quello alla sua sinistra permette di riconoscerlo come Vajrapapi. I tre personaggi e i due gandharva negli angoli superiori, in altorilievo, si distaccano con agilità dal fondale della stele lasciata liscia alla maniera di certe statue dei laboratori artistici di Sarnath. Alcuni bassorilievi narrano i principali avvenimenti della vita di Vakyamuni. Le scene, in numero meno elevato rispetto all’arte del Gandhara e più codificato nella loro composizione, servirono da modelli in numerosi paesi asiatici. Bisogna menzionare anche le piastre di terracotta modellate che ricoprivano la base di alcuni stupa, come quello di Devnimori (inizio del secolo v) oppure di Mirpur Khas (prima metà del secolo v). La loro plasticità ripetitiva non mostra le sottigliezze della statuaria in pietra. Le più antiche vestigia scoperte a Nalanda, nel Bihar, sito oggetto di scavi in parte dal 1915, risalgono ai secoli v e vi. Di quest’epoca di fondazione sopravvive l’alta base della struttura n. 3, di fatto un gigantesco stupa circondato da quattro caitya più piccoli ricoperti di stucco scolpito [fig. 42]. L’assieme evoca una delle montagne a cinque cime (pancayatana) che si possono incontrare in India. Un gioco di pilastri e di cornici ritaglia ogni lato come una vera e propria facciata. Le nicchie e gli archi indiani ospitano dei piccoli buddha dal corpo slanciato in cui si avverte l’influsso degli artigiani di Sarnath. È evidente che, malgrado antiche riparazioni, nel corso dei secoli si è tenuto a conservare lo stile originario, caratteristico di un periodo particolarmente prestigioso della storia del sito. A nordest dello stupa n. 3 si susseguono dei monasteri [fig. 43]. Tutti si aprono all’esterno tramite un vestibolo sporgente. I cortili rettangolari, perimetrati da un colonnato, danno accesso alle celle dei monaci. Delle scale, i cui primi gradini sono ancora conservati, conducevano a uno o più piani superiori. Nell’asse

39. Buddha in predicazione, grès, 475-485 circa. Sarnath, Sarnath Site Museum. 40. Avalokitevvara, grès, 465-485 circa. Calcutta, Indian Museum (provenienza: Sarnath). 41. Buddha (direzione est), pietra, 435-450 circa. Sanci, stupa n. 1.

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42. Grande stupa, fine viinizi vii secolo. Nalanda. 42

43. Vihara, fine vi-inizi vii secolo. Nalanda.

del vestibolo una cappella è talora dotata di un corridoio per la deambulazione. Si tratta di una planimetria identica a quella che si ritrova a Pagan in Birmania e in Nepal. La statuaria in metallo dei secoli vi e vii È opportuno menzionare anche alcune rare statue in rame e in ottone, testimoni di una produzione della quale, per colpa delle distruzioni in massa causate dalla conquista musulmana dell’India settentrionale all’inizio del secolo xiii, non rimangono che piccoli resti. Il Buddha della collezione Rockefeller iii (The Asia Society, New York) regge il confronto con le più belle creazioni delle botteghe artigianali di Mathura [fig. 44] della prima metà del secolo vi: il corpo muscoloso e il viso tondo e idealizzato del Beato, con la bocca imbronciata; la morbidezza del drappeggio trasparente e attillato in diagonale sul torso; i risvolti animati da zigzag nella parte bassa dei lembi del mantello monastico. Certi esemplari raggiungono notevoli dimensioni. Non resta che una unica attestazione di questa arte statuaria monumentale: un grande buddha, alto più di due metri, conservato a Birmingham [fig. 45]. L’opera, scoperta a Sultanganj, distretto di Bhagalpur (Bihar), nel 1862, mostra inflessioni stilistiche differenti rispetto al Buddha della collezione Rockefeller. Numerosi particolari rinviano a

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prototipi di Mathura, ma il corpo, più fluido, dalle gambe smisuratamente allungate, e il viso più rettangolare, composto di volumi quasi geometrici, che accenna un impercettibile sorriso, sono forse indizi di una produzione leggermente più tarda (metà del secolo vi). Il profilo della statua evoca quello dei buddha in stucco del complesso n. 3 di Nalanda dei secoli v-vi [fig. 46]. Fra i bronzi gupta si trovano anche degli ex voto di dimensioni ridotte, facilmente trasportabili. Queste statuette giocarono un ruolo fondamentale nella diffusione dell’estetica gupta sia in tutta l’India sia in altri paesi più o meno lontani. Si tratta di una produzione eterogenea ma che conta alcuni capolavori. Il National Museum di New Delhi conserva, ad esempio, due preziose statuette di rame dorato scop-

44. Buddha, bronzo, prima metà del vi secolo. New York, The Asia Society (John Rockefeller iii Collection). 45. Buddha, bronzo, seconda metà del vi secolo. Birmingham, Museum and Art Gallery (provenienza: Sultanganj).

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46. Avalokitevvara Padmapapi, bronzo dorato, 650-700 circa. New Delhi, National Museum (provenienza: Nalanda). 47. Tara, bronzo dorato, 670-700 circa. New Delhi, National Museum (provenienza: Nalanda).

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Nella doppia pagina seguente: 48. Veduta generale di Ajapta. 49. Pianta di Ajapta. 50. Pianta dei vihara n. 17 (a), n. 2 (b), n. 6 superiore (c). Ajapta. 51. Interno del vihara n. 2, fine v secolo, Ajapta.

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52. Ingresso della cappella, fine v secolo, Ajapta, vihara n. 2.

erte a Nalanda [figg. 46-47]: un Avalokitevvara Padmapapi e una Tara, risalenti alla seconda metà del secolo vii. Le due divinità stanno su piedistalli squadrati e lavorati. Un nembo fiammeggiante e traforato sottolinea l’importanza del personaggio. I volti piuttosto tondi e il corpo dalle forme «naturaliste« della dea sono tratti che troveranno continuità in certe scuole artistiche dell’Asia sudorientale e che traggono origine dal Bihar già prima della ascesa della dinastia pala a metà del secolo viii. L’architettura rupestre nel regno dei Vakataka Se nell’Impero gupta propriamente detto non è sopravvissuto nessun dipinto, il complesso di

Ajapta, situato nell’antico Vidarbha (l’odierno Maharastra nordoccidentale) e scoperto dai britannici nel 1819 in occasione di una battuta di caccia alla tigre, è celebre per le grandi decorazioni pittoriche. Nel Vidarbha regnava la potente casata dei Vakataka, legata ai Gupta da rapporti matrimoniali. Ad Ajapta, nel cuore delle colline di Indryadri, il fiume Waghora scorre in fondo a una gola a gomito. Ventotto grotte occupano a metà pendio la scarpata sinistra [figg. 48-49]. Il sito copre due periodi. Gli alloggiamenti più antichi, tre vihara e due caitya, risalgono ai secoli dal ii a.C. al i della nostra era, epoca in cui la regione faceva parte dei possedimenti dei Satavahana. Dopo oltre cinque secoli i lavori ripresero a

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partire da questo nucleo centrale. Si mise mano dapprima, a quel che è dato ipotizzare, ai vihara n. 11 e n. 7 e al livello inferiore del monastero n. 6. Le colonne che attorniano la sala centrale non sono proporzionate in maniera elegante e hanno un impianto irregolare. Diversamente accade per altre grotte che sembrano risalire al regno del potente Harisepa (ultimo terzo del secolo v?) e forse all’inizio del secolo vi. Nella grotta n. 16 si trova una lunga iscrizione di un ministro di Harisepa, Varahadeva, e nel monastero n. 17 una dedica di uno dei vassalli del potente sovrano. La pianta dei vihara, molto elaborata, comporta una piccola spianata sulla quale si aprono delle stanze di servizio, un portico nartece, e una grossa sala centrale circondata da un colonnato [fig. 50]. Gli imponenti pilastri sono animati grazie a tronconi di un assemblaggio a blocchi separati e scanalature [fig. 51]. Decorazioni a forma di frutti amalaka, originari dei tropici, e sostegni di intavolature con raffinate sculture ornamentali o narrative ne rafforzano l’aspetto maestoso. Le celle si aprono, come d’abitudine, sullo spazio centrale. Sul fondo, in asse con l’entrata, un piccolo portico dà accesso a una cappella dedicata a Vakyamuni. Il Beato, che dispiega il dharmacakra mudra, siede su

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Nella doppia pagina seguente: 53. Apsaras, colori su imprimitura, terzo terzo del v secolo (particolare della fig. 57). Ajapta, vihara n. 17. 54. Avalokitevvara Padmapapi (il «bel bodhisattva«), colori su imprimitura, terzo terzo del v o inizi del vi secolo. Ajapta, vihara n. 1. 55. Vajrapapi (il «bodhisattva scuro«), colori su imprimitura, terzo terzo del v o inizi del vi secolo. Ajapta, vihara n. 1.

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56. Episodi del Vivvantara jataka, colori su imprimitura, terzo terzo del v secolo. Ajapta, vihara n. 17. b

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57. Episodi del Vivvantara jataka, colori su imprimitura, terzo terzo del v secolo. Ajapta, vihara n. 17.

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di un trono più o meno riccamente decorato. Assistenti con scacciamosche e gandharva che si librano nell’aere gli rendono omaggio. I tratti del Buddha e le sue vesti attillate sul corpo rimandano allo stile di Sarnath. L’opulenza delle forme, come gonfiate, caratterizza invece numerose statue del Dekkan nordorientale. Una ricca decorazione riveste i montanti multipli della porta della cappella. Tortiglioni di perle e svariati motivi decorativi delimitano piccoli pannelli popolati da assistenti secondari, coppie di amanti e, nella parte bassa, da dee fluviali [fig. 52]. La grossa statua della grotta n. 2 costituisce un esempio tipico degli interni. Dipinti murali eseguiti a secco su imprimitura di terra e di escrementi bovini, di paglia e di balle di riso, decoravano un tempo tutte le grotte. Benché numerosi frammenti ne attestino la sontuosità, solo sei monasteri hanno conservato la maggior parte di tali decorazioni. La loro iconografia si iscrive in una prospettiva mahayana. Racconti edificanti, tratti da jataka (vihara n. 1, n. 2 e n. 17) o dalla biografia di Vakyamuni (vihara n. 2), sviluppano ininterrottamente i loro episodi sui muri delle grosse sale centrali [fig. 56]. Le scene, a prima vista un po’ confuse a causa della loro concentrazione, sono organizzate secondo precise regole:

separate le une dalle altre da architetture in prospettiva cavaliera o da motivi vegetali, esse si dispiegano secondo schemi ovoidali, centrati intorno a personaggi principali. Questi ultimi, come numerosi protagonisti, sono spesso ritratti di tre-quarti. Alcuni assistenti possono così collegare con lo sguardo un episodio all’altro. I colori, per lo più di origine minerale, ma anche vegetale (indaco) e animale (coccinella), offrono una gamma limitata in cui predominano gli ocra, i castani e i verdi [fig. 53]. Alcuni lumeggiamenti più chiari e alcuni aloni concentrici di intensità cromatica variabile modellano i volumi con sapienti gradazioni di semitoni, come se la luce si irradiasse dall’interno delle forme. L’universo puramente idealizzato in tal guisa dipinto mostra soltanto personaggi giovani, dalla bellezza perfetta. I corpi flessuosi, anatomicamente convenzionali, assumono pose languide quando non lascive. I gesti eleganti si corrispondono o si contrappongono in sapienti bilanciamenti [fig. 57]. La carnagione chiara dei personaggi eminenti contrasta con quella più scura delle altre persone raffigurate. Le pupille brune molto evidenziate sul fondo bianco degli occhi rendono più intensi gli sguardi. Tutti questi elementi contribuiscono innegabilmente a creare una atmosfera lirica di cui è op-

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portuno segnalare il rapporto con le arti drammaturgiche e coreografiche, assai diffuse in epoca gupta in tutte le classi sociali. Un esame accurato dei dipinti evidenzia una pluralità di maniere espressive più o meno abili. La grotta n. 1 possiede forse la decorazione meglio riuscita. Due bodhisattva affiancano la porta della piccola cappella, in fondo alla grotta. In quello sulla destra [fig. 54], detto il «bel bodhisattva« si può identificare con certezza Avalokitevvara sotto il suo aspetto Padmapapi. L’identità di quello sulla sinistra (il «bodhisattva scuro«) è dibattuta [fig. 55]. I loro corpi molto ancheggianti, i gesti estremamente delicati, i volti introversi dagli sguardi in parte ascosi dalle palpebre socchiuse, il sottile profilo, i gioielli vari e la complessa acconciatura dei capelli ne fanno due assoluti capolavori dell’arte buddhista. Alcuni pannelli aprono un varco in questa generale armonia. Nel vihara n. 2 una decorazione a tappeto di «mille buddha« copre i muri dell’anticamera della cappella [fig. 51]. Questa moltiplicazione dell’immagine di Vakyamuni è una allusione più o meno diretta al grande miracolo di Vravasti. I buddha moltiplicati, quale che sia il loro esatto numero, li si considera mille, cifra simbolo dell’infinito, ma si sottintende anche 53

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58. Soffitto, colori su imprimitura, terzo terzo del v o inizi del vi secolo. Ajapta, vihara n. 2 (santuario). Nella doppia pagina seguente: 59. Interno, terzo terzo del v secolo. Ajapta, caityagrha n. 19. 60. Nagaraja e compagna, pietra, terzo terzo del v secolo. Ajapta, bassorilievo vicino al caityagrha n. 19. 61. Facciata, terzo terzo del v secolo. Ajapta, caityagrha n. 19. 62. Interno, fine v secolo. Ajapta, caityagrha n. 26.

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63. Piante dei caityagrha, pietra n. 19 e n. 26. Ajapta.

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che essi possano essere assorbiti in uno solo. Tali pannelli, iconograficamente originali nel contesto di Ajapta, non raggiungono la complessità delle restanti decorazioni della grotta, come, ad esempio, il soffitto del vestibolo stesso [fig. 58]. Di fatto i soffitti dei monasteri di Ajapta imitano vuoi i cassoni dipinti di soffittature in legno, vuoi i velari tesi sopra cortili e sale di architetture propriamente dette. Giochi di quadrati e rettangoli, grosse rosali ricche di motivi floreali e faunistici e talora anche una infinita varietà di figure grottesche si staccano dal fondo nero o porpora con intensità. Il momento di massimo splendore del sito portò anche alla esecuzione dei due caitya n. 19 e n. 26. La grotta n. 19, preceduta da un piccolo cortile, dispiega una facciata abbondantemente scolpita [fig. 61]. Un bel portico riposa su colonne con scanalature alle quali dona eleganza una rastremazione sotto il capitello. Un grosso arco indiano dalla intelaiatura evocata da intagli nella pietra è erede di una antica tipologia. Gruppi di composizioni danno l’impressione di piani in attico superiore. Colonne e pilastri legati conferiscono un ritmo alla facciata e delimitano degli ampi spazi ritagliati in pannelli di dimensioni variabili, scolpiti in misura corrispondente alle donazioni. I motivi in essi ricorrenti sono le immagini armoniose del Beato o di Maitreya. 62

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Su uno di questi pannelli è raffigurato un nagaraja e la sua compagna seduti in posizione di rilassamento su delle rocce [fig. 60]. Come nell’arte gupta, la massa di pietre è trattata sotto forma di piccoli cubi striati. Solo dai cappucci da rettili sulla testa è dato intuire la loro natura ofide. La delicatezza dei gesti, il tratto fluido e disteso dei muscoli, l’espressione serena dei volti dalle labbra imbronciate e carnose che accennano un sorriso impercettibile erano enfatizzati da una policromia andata completamente perduta. L’interno del caitya testimonia l’evoluzione di questa tipologia architettonica dopo l’epoca dei Satavahana. Una larga banda corre sotto i costoloni della finta volta. I pannelli di questo fregio alternano girali dalle eleganti volute a buddha seduti e in piedi. Il caitya propriamente detto presenta una evoluzione di vari elementi costitutivi dello stupa [fig. 62]. Una base squadrata in aggetto sostiene un ampio tamburo scandito da colonnette legate. Un

alto harmika sovrasta la parte semisferica, molto rastremata alla base. Atlanti nani sostengono con le braccia tre parasole sovrapposti. Quattro colonne hanno la funzione fittizia, imitando un dispositivo reale in legno, di sostenerli. Una grossa nicchia, in asse rispetto all’ingresso della sala, contiene una effige del Buddha in piedi. Il corpo più magro che nelle usuali raffigurazioni di Vakyamuni ad Ajapta e la veste attillata e priva di pieghe rinviano a dei prototipi di Sarnath. La facciata del caitya n. 26 [fig. 63] è di dimensioni maggiori ma più semplice di quella della grotta n. 19. La decorazione interna, più ricca [fig. 62] fa pensare a una fattura leggermente posteriore (500 circa?). Un gioco di nicchie, di dimensioni ineguali, adorna il muro del corridoio per la deambulazione. Un Buddha steso occupa la maggior parte del muro sinistro [fig. 64]. Il parinirvapa di Vakyamuni raffigurato in scala colossale diverrà un tema relativamente frequente, sia in Asia settentrionale che in Asia

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64. Parinirvapa, pietra, fine v secolo. Ajapta, caityagrha n. 26.

n. 90 un bassorilievo ha per tema il miracolo di Vravasti [fig. 67], con l’immagine del Beato moltiplicata all’infinito. Il Buddha è seduto su un loto alla cui base stanno Napda e Upanapda, come in occasione della predicazione del Loto della Buona Legge. Due figure femminili, poste a fianco dei due bodhisattva, costituiscono la attestazione più antica del culto di dee (prajna) nel buddhismo indiano. Su di un altro pannello della stessa grotta Avalokitevvara appare fra due assistenti. Queste graziose divinità, ancora poco differenziate iconograficamente, verranno in seguito, nella tradizionale iconografia tantrica, identificate con Tara e Bhrkuti. I lati del rilievo sono occupati da piccole scene che illustrano la protezione accordata da parte di Avalokitevvara ai suoi fedeli contro otto tipi di pericoli. Si tratta di un tema già attestato ad Ajapta, ma al quale è qui dedicato spazio maggiore. Così, nella stessa grotta, Avalokitevvara, provvisto di undici teste, è raffigurato sotto il suo aspetto Ekadavamukha («che fa fronte ovunque«), una iconografia che avrà poi enorme successo nell’Asia settentrionale [fig. 68]. Una delle pareti del fondo del vestibolo del vihara n. 7 di Aurangabad ha per tema Avalokitevvara che protegge dagli otto pericoli [figg. 66, 71]. Il bodhisattva occupa tutta l’altezza del muro. Sui lati vengono animatamente raffigurati i suoi in-

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65. Pianta del vihara n. 2. Bagh. 69. Tara, grès, fine vi-inizi vii secolo (?). Aurangabad, grotta n. 7 (ingresso del santuario [muro sinistro]).

66. Pianta del vihara n. 7. Aurangabad. 67. Il Grande Miracolo di Vravasti (?), grès, prima metà del vi secolo, Kanheri, gotta n. 90 (muro sinistro). 68. Avalokitevvara Ekadavamukha, grès, prima metà del vi secolo. Kanheri, grotta n. 41.

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sudorientale. Alla postura prosternata degli assistenti in primo piano si contrappone il lirico volo delle divinità nella parte superiore. Quanto al caitya, perfettamente proporzionato, è composto da un’alta base circolare divisa in due livelli, separati da tettoie fittizie e dotati di una fila di buddha in piedi ritmati da pilastri. Avanti, due colonne sostengono i tetti sdoppiati di un edificio di pianta bislunga. La facciata rientrata consente ai devoti di contemplare il Buddha in predicazione, seduto con le gambe sospese (pralambapadasana). Benché l’iconografia generale della grotta non lasci dubbi a proposito della identificazione del Beato, bisogna dire che questa rara postura è in genere associata a Maitreya. Due piccoli serpenti sotto il loto che sostiene i piedi di Vakyamuni farebbero pensare che si possa trattare della predicazione del Saddharmapupdarika sutra (Sutra del Loto della Buona Legge). Il corpo del Buddha, ancora più elegante di quello del caitya n. 19, regge il confronto con le migliori creazioni di Sarnath. Il piccolo sito di Bagh nella vallata di Narmada, che pure è molto lontano da Ajapta, mos-

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70. Scena di musica e danza, grès, fine vi-inizi vii secolo (?). Aurangabad, grotta n. 7 (ingresso del santuario [muro sinistro]).

tra stretti legami di parentela con il grande sito mahayana della catena dei ghat occidentali. In effetti, fra 470 e 480 circa, uno dei figli di Harivepa avrebbe regnato in quella regione, che nel 486 sfugge al controllo della casata dei Vakataka. Il vihara n. 2 riprende la pianta delle grotte di Ajapta, ma rendendola più complessa e regolare [fig. 65]. Buddha e bodhisattva dai corpi slanciati e smaccatamente ancheggianti animano i pannelli delle pareti laterali del corridoio esterno, attestando una padronanza artistica pari a quella delle sculture della grotta n. 26 di Ajapta.

71. Avalokitevvara protettore dai pericoli, grès, metà del vi secolo, Aurangabad, vihara n. 7 (vestibolo).

terventi miracolosi, il cui movimento contrasta con il carattere sereno e immoto di «colui che guarda tutto con compassione«. Nella parte superiore della composizione alcuni geni volanti si portano di fronte all’osservatore, dandogli così l’impressione di bucare lo spazio e accentuando la sensazione di teofania un tempo sottolineata anche da una delicata pittura policroma. Su di un altro pannello, a sinistra della porta del santuario principale, compare Tara, identificabile per via del loto padma che la caratterizza, attorniata da assistenti come altrettante ipostasi [fig. 69]. Il suo pronunciato ancheggiare e i seni prominenti caratterizzano la nuova estetica che, a partire dai canoni classici gupta, si affida maggiormente all’espressione e all’effetto. Questo medesimo stile, da alcuni autori chiamato «post-gupta«, si ritrova in un rilievo del muro sinistro del santuario, dove figura una scena di musica e danza [fig. 70]. La disposizione a semicerchio dei musici, i personaggi in primo piano in forte risalto e il passo di danza colto sul vivo sono impregnati di originalità e vigore. La presenza di una simile scena a fianco di una statua di Vakyamuni non è mai stata spiegata in maniera soddisfacente. I due pannelli sono comunque testimonianza di pratiche tantriche in un contesto buddhista della seconda metà del vi o dei primi anni del

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Altri siti rupestri Nel Maharastra altri luoghi scavati nella roccia presentano dei pannelli scolpiti dalle iconografie nuove, che sottolineano l’evoluzione del Mahayana. Kanheri, al nord di Mumbai (Bombay), per esempio, conobbe una grande attività alla fine del v e durante la prima metà del vi secolo, al tempo dell’apogeo della dinastia dei Traikutaka, che controllò la regione dopo la dissoluzione dei Vakataka. Nella grotta

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vii secolo. Riferimenti del genere sono rari a Ellora, ultimo grande sito del Maharastra scavato nella roccia. Si tratta di un complesso nel quale si trovano giustapposte trentaquattro grotte sia buddhiste che jainiste. Si sa che la dinastia dei Rastrakuta immortalò la propria potenza nel secolo viii ricavando nella roccia il grande tempio rupestre del Kailasanatha, ma si ignora quale famiglia dinastica regnasse sulla regione un secolo prima, all’epoca in cui si mise mano alle dodici grotte buddhiste. Tutte appartengono al Mahayana. Le planimetrie dei vihara segnano una rottura rispetto all’ordine perfettamente equilibrato di Ajapta, per diversificarsi in grossi spazi dalle varie funzioni, suscettibili di ospitare una vasta comunità. Per esempio, la grotta n. 5 (vii secolo) è una ampia sala rettangolare provvista di due ampi banchetti al centro [fig. 73]; pilastri di fusto quadrangolare alto e massiccio che sostengono un grosso capitello, a forma di amalaka schiacciato e a coste, trattato con una maestosità e una possanza fino allora sconosciute. Le grotte n. 11 e n. 12 hanno tre piani. Il vihara n. 12 (Tin Thal), preceduto da un largo cortile chiuso, è il meglio riuscito (fine vii-inizi viii secolo) [figg. 72, 74]. Nelle ali di angolo larghe scale collegano i vari piani. A ogni piano la cappella nell’asse principale è preceduta da una ampia rientranza della sala principale, su una o più campate. Esse ospitano una scultura di Vakyamuni fra due bodhisattva: Avalokitevvara e Vajrapapi oppure Manjuvajra. Al livello superiore, senza dubbio un antico dormitorio, dei banchetti in pietra riuniscono la base dei pilastri. Intorno a questa sala ipostila, delle nicchie ospitano multiple immagini di Vakyamuni. Sul muro est i sette buddha storici (manusi buddha) giustapposti. Alla base delle scale, una figurazione che evoca un mapdala raggruppa gli otto bodhisattva del Mahayana attorno a Vakyamuni. In vari luoghi del sito statue di grosse dimensioni sottolineano l’obbedienza mahayana. Un Avalokitevvara affianca la porta del santuario della grotta n. 2. Il muro laterale dell’anticamera del santuario della grotta n. 6 è dedicata a Tara e alle sue assistenti [fig. 77]. La divinità, in posizione perfettamente frontale, si stacca da uno sfondo concavo sotto arcate convergenti con motivi vegetali. La grotta n. 10 (Vivvakarman), ampia caitya preceduta da cortile [figg. 75, 78], dispone di una facciata ritagliata in grosse basi alla maniera di una costruzione in legno. L’arco in-

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diano ha una forma trilobata. L’interno riprende una struttura analoga a quella delle grotte n. 19 e n. 26 di Ajapta. Le colonne, composte da un semplice fusto a blocchi separati, di estrema agilità, si riannoda agli schemi più antichi. Innanzi allo stupa [fig. 76] la statua di Vakyamuni in predicazione, imponente, è accompagnata da due bodhisattva e sovrastata da un ampio arco costituito da due gruppi di devata in volo che gli rendono omaggio. Un soffio lirico inabita questo assieme di grande maestosità. Appar-

72. Facciata, fine vii-inizi viii secolo. Ellora, vihara n. 12. 73. Pianta del vihara n. 5, Ellora. 74. Piante dei tre livelli. Ellora, vihara n. 12. 75. Facciata, vii secolo. Ellora, Vivvakarman.

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76. Dagoba, Buddha e bodhisattva, pietra, vii secolo. Ellora, Vivvakarman. 77. Tara, grès, vii secolo. Ellora, vihara n. 6, vestibolo. 78. Arco indiano, grès, vii secolo. Ellora, Vivvakarman (cortile della facciata [nicchia sud]).

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entemente più recenti delle decorazioni più evolute di Aurangabad, le sculture buddhiste di Ellora sembrerebbero meno innovatrici sia dal punto di vista stilistico che iconografico. Il Kashmir Nella parte nordoccidentale della penisola indiana, la vallata del Jhelum, un tempo chiamato Vitasta, fu il centro di un prospero regno dalla cultura originale che, traendo a più riprese vantaggio dall’indebolimento dei grandi Imperi nell’India settentrionale, stabilì la propria egemonia ben oltre le proprie frontiere naturali. La sua storia è conosciuta meglio di quella di altri regni indiani grazie al Rajatarangini (Il Fiume dei re), opera annalistica compilata verso il 1148 da Kalhapa. I periodi antichi restano tuttavia avvolti nell’oscurità, e sono rare le testimonianze archeologiche anteriori al secolo iv. Il buddhismo era stato introdotto in Kashmir all’epoca di Avoka. Malgrado quanto racconti la storiografia locale, l’importanza di questa regione in epoca Maurya rimane marginale. La posizione geografica favorì lo sviluppo del Kashmir e suscitò l’interesse dei Kusapa (secoli

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i-inizio iv).

La vallata del Kashmir è infatti protetta, rispetto alla piana del Panjab, dalla catena dei Siwalik e dal Pir Panjal, prolungamento dello Himalaya medio, ma si trova non lontano dallo stretto passaggio fra il massiccio himalayano e le montagne afghane, percorso privilegiato delle carovane della Via della Seta. Kaniska il Grande vi avrebbe organizzato il iv concilio buddhista. Dal secolo iv il Kashmir svolge un ruolo di primo piano nella propagazione del buddhismo verso oriente, e numerose testimonianze attestano il dinamismo dei suoi monasteri. I testi cinesi sottolineano l’importanza dei missionari e dei traduttori kashmiri. Il Maha­ vibhasa (Grande Esegesi), di un autore kashmiro chiamato «shetuopanni«, tradotto in cinese nel 383 da un altro monaco kashmiro, Sakghabhadra, è conservato nel canone cinese, mentre l’originale sanscrito è oggi perduto. Ancora un monaco kashmiro, Vimalaksa, potrebbe essere stato il primo missionario a entrare in Cina. Il suo allievo e grande traduttore Kumarajiva (344-431) giunge in Kashmir all’età di otto anni e vi compie una parte importante dei propri studi. Parallelamente Buddhabhadra, un celebre abate di Nanjing, soggiorna per studio nella vallata del Vitasta. Questo irradiamento culturale continua al principio del secolo v. Anche Dharmabhiksu, un famoso maestro di yoga, parte per la Cina. Monaci cinesi seguono il percorso inverso per studiare in Kashmir. Sotto gli Unni bianchi (Hupa) il Kashmir servì da base di ripiegamento ai suoi bellicosi sovrani, le cui incursioni indebolirono l’Impero gupta. Un unico sito archeologico permette di farsi una idea di questa antica epoca di splendore. Harwan, situato nei pressi del lago Dal, non lontano dai giardini moghul di Shalimar, è stato identificato con il monastero di Sadarhadvana, il «Boschetto dei sei santi« menzionato nel Rajatarangipi. Tre terrazzamenti si susseguono sul fianco di una collina. Al piano inferiore un recinto rettangolare ospitava uno stupa, una cappella e le celle dei monaci. Sul terzo terrazzamento si ergeva un tempio absidale. Questa disposizione a vari piani e la pianta del tempio absidale ricordano alcune tradizioni del Gandhara. Piastre in terracotta lavorate pavimentavano le due terrazze [fig. 80]. Alcune, giunte nei musei occidentali, permettono di farsi una idea del luogo, in grossa parte distrutto da frane [fig. 79]. Le piastre, stampate prima della cottura, mostrano disposizioni di motivi ripro-

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dotti a calco e spesso una numerazione in caratteri kharosthi. Asceti seduti in una posizione yoga, coppie al balcone che rammentano un tema analogo della statuaria di Mathura in epoca kusapa, anatre (haksa), danzatori, suonatori di tamburo e cavalieri sono i motivi più frequenti. Essi rinviano sia all’arte della pianura del Gange, sia al Gandhara. Un pezzo di moneta del sovrano hupa Toramapa, trovato nello stupa del terrazzamento superiore, consente di datare il sito alla fine del secolo v. Benché convertiti all’induismo, talora in maniera fanatica come nel caso di Mihirakula (515 circa-prima del 530), sembra che alcuni sovrani hupa, Toramapa ad esempio, abbiano protetto il buddhismo. Il sito di Harwan resta oggi come oggi una eccezione. Le rare vestigia scultoree dei secoli ivvi si riagganciano alla tarda arte del Gandhara. Alcune tradiscono nondimeno una influenza gupta. Due siti buddhisti sono in proposito tipici: Uskur, non lontano da Baramula, e Akhnur, a sud della catena del Pir Panjal, ben oltre i limiti della vallata. In questi due complessi, come per certe decorazioni del Gandhara, si sono conservate soltanto le teste in stucco dei personaggi in altorilievo. I corpi in terra seccata sono scomparsi. A Uskur, l’antica Huviskapura delle fonti annalistiche, le teste si riagganciano alla tarda arte del Gandhara quale appare a Taxila [fig. 81]. Benché la città sia stata rioccupata nel secolo viii, la fine del secolo iv costituisce una ipotesi di datazione plausibile. Le teste di Akhnur possiedono tratti differenti [fig. 82]. Su fattezze tondeggianti, dai contorni

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79. Piastrella di pavimentazione, terracotta lavorata, fine v secolo. Londra, Victoria and Albert Museum (prov.: monastero di Harwan [vallata di Vrinagar]).

82. Testa femminile, terracotta, fine vi-inizi vii secolo. New Delhi, National Museum (provenienza: Akhnur). 83. Buddha incoronato, pietra, secondo quarto del viii secolo. Vrinagar, Sri Pratap Singh Museum (prov.: Parihasapura).

80. Cortile, fine v secolo. Vallata di Vrinagar, monastero di Harwan. 81. Testa maschile, terracotta, fine vi secolo. Vrinagar, Sri Pratap Singh Museum (prov.: Uskur).

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paffuti e bambocceschi, risaltano labbra sensuali e occhi globulari semiaperti che ricordano tradizioni gupta. Alcune fra esse sono impregnate di un pathos espressivo in cui si avverte una lontana eco dell’arte del Gandhara. La datazione di questo secondo sito dà adito a discussioni. Anteriore all’avvento, intorno al 626, della dinastia dei Karkota, esso sembra tuttavia posteriore a Uskur, e l’ipotesi più plausibile potrebbe essere l’inizio del secolo viii. I primi sovrani karkota (626-856 circa), in particolare Lalitaditya Muktapida (724?-761?), portano al massimo splendore il regno del Kash­­mir. Benché fedeli induisti, i monarchi proteggono tutti i culti. L’abbondanza di metalli preziosi e di monete provenienti dai saccheggi e dai tributi imposti alle popolazioni assoggettate consentono di moltiplicare le istituzioni monastiche. Il pellegrino cinese Xuanzang (602-664) soggiorna per due anni nel Kashmir, accolto dal fondatore della dinastia, Durlabhavardhana (626662), e descrive una situazione molto contraddittoria. Enumera un centinaio di monasteri presenti nella vallata per un totale di cinquemila monaci. Annota l’esistenza di un pellegrinaggio che avrebbe per meta un dente del Buddha. Nel resto del regno i conventi hanno invece difficoltà a riprendersi dalle persecuzioni subite un secolo prima a opera di Mihirakula. Cento anni dopo un altro pellegrino cinese, Oukong, risiede dal 759 al 763 in Kashmir, e documenta uno sviluppo della comunità senza precedenti. La vallata conta allora trecento monasteri in

prevalenza Mulasarvastivadin. Il Rajatarangini menziona l’esistenza di un colossale buddha in rame «che raggiunge il cielo«, eretto da Lalitaditya Muktapida, simbolo della potenza della Chiesa buddhista. Gli annali serbano traccia di Cankupa, fervente buddhista di origine tokharica, principale ministro di Lalitaditya Muktapida. Gli archeologi hanno ritrovato sul luogo della capitale, Parihasapura, uno dei monasteri da lui fondati. Lo stupa, che misura circa trentanove metri di lato, con due basi in aggetto, ha conservato resti delle decorazioni scolpite. Alcune nicchie ospitano alternativamente buddha seduti e in piedi [fig. 83]. Il loro aspetto agghindato rimanda alle speculazioni del buddhismo mahayana. Dal punto di vista stilistico queste opere, pure debitrici nei confronti sia della tradizione del Gandhara sia dell’estetica gupta, testimoniano l’originalità degli artisti kashmiri. L’arte del Kash­mir è oramai matura per diffondersi per più secoli oltre i confini della vallata. La sua influenza sarà essenziale nella formazione dell’arte tibetana. Tuttavia nessuna testimonianza architettonica documenta la vitalità dei monasteri buddhisti sotto le dinastie degli Utpala (prima metà del ix-inizi xi secolo) e dei Lohara (inizi secolo xi-1338). Contrasta con la rarità delle statue in pietra, senza dubbio un esito del fanatismo musulmano a partire dal secolo xiv, l’abbondanza delle opere in metallo, giunte numerosissime nei monasteri tibetani e conservate al riparo dalle persecuzioni. Ciò spiega perché le opere buddhiste si siano conservate più delle statuette induiste, sicuramente prodotte in numero maggiore ma meno esportate fuori della vallata. Le statuette buddhiste offrono una grande varietà stilistica a causa dell’ampia forbice cronologica della loro produzione (secoli vi-xiv), delle tradizioni dei laboratori artigianali e dell’area geografica disomogenea, che, oltre al Kashmir propriamente detto, ingloba Gilgit, lo Swat, una parte dello Himachal Pradesh, etc. Affianco a modesti ex voto si trovano pezzi di perfetta fattura, forniti talvolta di prestigiose dediche. Un Buddha, un tempo parte della collezione Pan-Asian [fig. 84], datato all’anno 714, porta ad esempio una dedica del re Nandivikramaditya Nandideva di Gilgit, del suo ciambellano Upala e della regina madre Ujvapi. Vakyamuni vi figura agghindato, incoronato dalle sette materie preziose (saptaratnamaya). Con la mano destra compie un gesto raro, chiamato bhaisajyaraja mudra, volto a proteggere imponendo le mani così come lo descrive un passo del Sad-

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dharmapupdarika sutra. L’opera, ottimo esemplare rivelatore della produzione artistica di Gilgit, rispetto alla maggioranza dei pezzi kashmiri propriamente detti possiede forme più massicce e un po’ appesantite, ma più vigorose. La differenza di esecuzione risulta evidente dal confronto di questo bronzo con il Buddha agghindato della collezione di John Rockefeller iii (Asia Society, New York), uno dei capolavori dell’arte karkota [fig. 85]. L’opera, datata 734 (?), è stata offerta da due personaggi di corte: Vapkarasena «Grande signore della brigata degli elefanti« e la principessa Devavri. La scultura, molto complessa, raffigura il sermone sul picco dell’Avvoltoio, descritto nel Saddharmapupdarika sutra. Il Buddha, autoproclamatosi «re della Legge«, predica seduto su di un loto gigante sostenuto alla base da Napda e Upanapda. Il Beato porta una mozzetta con nappe, come un Buddha iconograficamente uguale scoperto a Fondukistan in Afghanistan. Lo stupa del Buddha Prabhutaratna, qui sdoppiato, appare alla assemblea dei devoti. Le ripide scale e la spirale dei parasole, particolarmente sviluppata, si possono paragonare a quelle dipinte in vari luoghi dell’Asia settentrionale, fra cui Kakrak. Questo tipo di stupa assai particolare, grazie alla connessione kashmira, lo si ritroverà nel Tibet occidentale. Sul finire del secolo x, sino al secolo xii, il canone dei bronzi kashmiri si affina. Le modanature dei piedistalli, la tipologia dei gioielli e i vari temi ornamentali subiscono poche modifiche, ma alle forme appesantite del secolo viii succede una estetica nervosa spesso impregnata di una rimarchevole eleganza. Il famoso Buddha in piedi del Cleveland Museum of Art [fig. 86] porta iscritto in tibetano Nagaraja, appellativo forse di uno dei figli del re bTsan-po’khor-re, il sovrano del sPu-’rangs che entrò nell’ordine monastico ai primi del secolo xi sotto il nome di Ye-shes’od’s. L’opera, portata nel Kashmir o prodotta nel Tibet occidentale da artigiani kashmiri, non riflette meno la produzione kashmira al suo migliore livello. Il Kashmir fu un centro attivo del Mahayana e del tantrismo. Lì pertanto il culto della dea Tara conobbe un grosso sviluppo. Analogamente, i testi fondanti il culto del dio protettore Mahakala videro la luce nella vallata. Le raffigurazioni più complesse delle divinità tutelari furono eseguite molto presto, come dimostra una statuetta di Sakvara, conservata presso il Los Angeles County Museum of Art, notevole per il suo accentuato dinamismo. Le vestigia che permettono di farsi un’idea

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del lusso dell’aristocrazia kashmira sono rare, in particolare per quanto riguarda l’epoca karkota. Alcuni avori tuttavia, sebbene il tema iconografico sia di natura religiosa, fanno parte delle arti voluttuarie. Un pannello, conservato a Londra presso il British Museum [fig. 87], forse il frammento di un reliquiario portatile, giustappone un pezzo in avorio e una ricca cornice in legno che porta tracce policrome. L’architettura miniaturizzata prende a modello le forme abituali delle costruzioni kashmire: timpani ad angolo acuto sovrapposti, arcate polilobate etc. La vivacità dei personaggi e il loro affollato gruppo sono trattati con una libertà inusitata nelle raffigurazioni religiose del tempo. I Pala Dopo il secolo

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il buddhismo si incammina

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Nella doppia pagina precedente: 84. Buddha agghindato, bronzo, 714. Già parte della collezione Pan-Asian (provenienza: Gilgit). 85. Buddha agghindato, bronzo, 734 (?). New York, The Asia Society (Mr. and Mrs John D. Rockefeller Collection; provenienza: Kashmir).

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In questa pagina: 86. Buddha in piedi, bronzo, intorno al 1000. Cleveland, Cleveland Museum of Art (acquisito con i fondi John L. Severance; provenienza: Kashmir).

87. Bodhisattva, legno e avorio con tracce di policromia, viii secolo. Londra, The British Museum (acquisito con fondi Brooke Sewell; provenienza: Kashmir). 88. Pianta del monastero. Paharpur.

verso un declino ineluttabile nella maggior parte dell’India. Ne sono concausa le polemiche dottrinali e le scissioni interne, il peso economico dei monasteri, incapaci di soddisfare del tutto alla pari dei brahmani la sete di religiosità del volgo, il rafforzarsi dell’induismo. Tutto ciò priva le comunità del sostegno dei principi. Questo lento esaurimento non avviene senza resistenze e contraccolpi. Alcune comunità ancora prosperano nell’Orissa, nel Kashmir, a Sanci nel Madhya Pradesh e nelle regioni meridionali di Kancipuram e di Nagapattinam. Soltanto i sovrani pala, nella parte nordorientale del subcontinente, proteggono attivamente e con costanza la religione del Beato. Dopo il secolo di smembramento politico e di caos che segue l’uccisione di Harsavardhana di Kanauj nel 647, Gopala i (750-770 circa), abile principe, getta le fondamenta di un potente Stato nella parte nordorientale del subcontinente. Egli fonda la dinastia dei Pala («protettori« [750-1200 circa]). Il ricco Bihar, una volta interamente conquistato, diventerà il cuore dell’Impero, che si estende di molto sotto i regni di Dharmapala (770-810 circa) e di

Devapala (810-850 circa). Quest’ultimo sovrano conquista tutta l’India settentrionale, fino alle frontiere con il Kashmir. Parecchie piccole dinastie locali, più o meno fedeli, riconoscono la sovranità dei Pala. Celebre resta quella dei Sena (1095-1230) di osservanza induista. Dopo il 1162 i Sena, divenuti i più forti, oscurano il potere dei Pala. Nel Bihar alcuni luoghi importanti per il buddhismo, mete di pellegrinaggi come Bodhgaya, e centri intellettuali quali numerose grandi università, godevano di una certa rinomanza nella maggior parte dei paesi buddhisti. In università come Nalanda, alcuni monasteri ospitavano studenti provenienti dallo stesso paese, Nepal o Sumatra ad esempio. La corte dinastica proteggeva questi centri, religiosi e accademici a un tempo. L’archeologia conferma l’importanza di tali istituzioni. Le rovine di Nalanda, un complesso ingranditosi costantemente, sono imponenti. Vikramavila, forse l’odierna Antichak (distretto di Bhagalpur), fu fondata da Dharmapala. Oddantapura, forse l’odierna Bihar Sharif (distretto di Nalanda), deve la nascita a Devapala. Parallelamente all’antico schema fissato in epoca gupta e sempre in uso, vede la luce un nuovo tipo di monasteri. Uno stupa, attorniato da cappelle e portici che gli conferiscono una pianta cruciforme, occupa il centro di un ampio cortile squadrato ai cui lati si trovano numerose celle – duecento circa a Paharpur [fig. 88]. In questa massa di grosse dimensioni le quattro cappelle così formate, senza dubbio consacrate

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ano, definitivamente fissate in epoca gupta, si aggiungono delle nuove raffigurazioni legate allo sviluppo del tantrismo. L’organizzazione razionale dei laboratori artistici e l’esistenza di tipologie proprie a uno o più luoghi precisi spiegano l’aspetto spesso ripetitivo di questa estetica che è stata per decenni giudicata marginale dagli specialisti. Oggi le differenze qualitative presenti all’interno di questo immenso assieme vengono afferrate meglio. Essendo la diffusione dell’arte pala estremamente importante al di fuori dell’India, è opportuno soffermarsi sulla sua scultura, della cui

92. Stele, basalto, x-xi secolo. Nalanda, Nalanda Museum.

89. Pancika, rame, 813 circa. New Delhi, National Museum (provenienza: Nalanda).

93. Stupa, grès, xi secolo. Londra, The British Museum (provenienza: India nordorientale).

90. Jatamukuta Lokevvara, ottone incrostato, x secolo. Patna, Patna Museum (provenienza: Kurkihar).

94. Loto contenente le divinità del mapdala di Vajratara, ottone, xii secolo circa. Calcutta, Indian Museum (provenienza: Patharghata).

91. Buddha agghindato, ottone incrostato, 1056 circa. Patna, Patna Museum (provenienza: Kurkihar).

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ciascuna al buddha di uno degli Orienti, testimoniano una evoluzione dottrinaria che assegna un ruolo di prim’ordine ai jina nel quadro del pantheon del Vajrayana. Si tratta di una disposizione presente a Paharpur (Somapura), ad Antichak e nel Bangladesh sudorientale, a Mainamati. La distruzione in massa dei monasteri e dei loro corredi artistici da parte dei musulmani intorno al 1200 restringono la documentazione ai soli ex voto scolpiti. Nei giorni precedenti le invasioni islamiche i fedeli buddhisti o induisti nascosero numerosissime statue per sottrarle alla furia iconoclasta dei conquistatori. Alcuni pozzi vennero riempiti di steli che erano state un tempo offerte ex voto. Alcuni nascondigli protessero intere collezioni di bronzi. Numerosi pezzi di piccole dimensioni furono portate da esuli nei paesi vicini, in particolare verso le regioni himalayane. Nonostante la distruzione delle opere di grosse dimensioni ancorate a un contesto architettonico, la restante produzione pala, particolarmente prolifica, consente uno studio serio della iconografia e dello stile. Alle iconografie tradizionali del buddhismo indi-

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evoluzione è tuttavia difficile dare un quadro globale e lineare. Il Bihar, l’antico Magadha in particolare, e più a oriente il Bengala, costituiscono due grandi entità stilistiche, anche se numerose vestigia, scoperte fra le altre nella zona mediana di Bhagalpur (antico principato di Anga), contraddicono questa asserzione. Ciascuno dei grandi centri religiosi quali Bodhgaya, Nalanda o Kurkihar, possedeva prosperi laboratori artistici con specifiche tradizioni. I bronzi sembrano più innovati rispetto alle opere in pietra, dallo stile più convenzionale. Se le statuette in rame o in ottone sono di origine locale, le steli, di solito in pietra nera (grès, basalto e, più di rado, marmo) erano importate dalle montagne, distanti anche molte centinaia di chilometri. Sgrossate in uscita dalla cava, esse subivano la lavorazione finale una volta giunte a destinazione. Gli artigiani le tiravano a lucido affinché il loro colore scuro le facesse sembrare in metallo. Questa pulizia un poco fredda, risultante spesso in una relativa geometrizzazione delle forme, la prosecuzione del canone gupta, privo di eccessi lirici o di sensualità, conferiscono un certo carattere «neoclassico« alla scuola pala. Fra le numerose statuette ritrovate a Nalanda, un Pancika [fig. 89], alto 30 centimetri circa, porta una iscrizione che informa che esso venne donato da una dama Vikhaka (Vivakha), nell’anno iii del regno di Devapala (813 circa). Pancika, il generale degli yaksa, vi è raffigurato basso e grassoccio come Jambhala, il dio della ricchezza. Il personaggio prosegue, per atteggiamento e postura, una tipologia corrente in epoca gupta. Il trono con animali sovrapposti, simboli dei vari mondi sensibili, appartiene a un modello che diverrà immensamente diffuso, dall’India nordorientale fino a Giava e al Nepal. Nel 1930 il sito di Kurkihar, nel distretto di Gaya, rivelò circa centocinquanta sculture metalliche, conservate presso il Patna Museum. Fra queste opere di tutte le dimensioni alcune sono datate. Esse coprono senza soluzione di continuità tutto il periodo, benché più numerose siano le opere del secolo xi e xii. Un grande Avalokitevvara a quattro braccia, databile al secolo x, costituisce uno dei pezzi più imponenti [fig. 90]. Non si nota, ancora una volta, rottura alcuna rispetto alla tradizione gupta. L’agilità della posa, l’eleganza delle mani, la varietà della oreficeria, il movimento del cordone brahmanico che accentua sia l’ancheggiare che la posizione del secondo braccio sinistro, la raffinata cura delle masse muscolari, sono compo-

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nenti artistiche ispirate ai meglio riusciti pezzi gupta. Vakyamuni conserverà di tutta evidenza l’attenzione particolare degli scultori. Il Beato appare su numerose steli, attorniato da raffigurazioni più piccole connesse agli otto episodi più importanti della sua vita terrena – quattro corrispondono alle tappe del suo progresso spirituale (nascita, Risveglio, prima predicazione e parinirvapa); altre quattro evocano le quattro città dei grandi pellegrinaggi (Vravasti, Rajagrha, Vaivali e Sakkavya). Qualche volta, come su di una stele scoperta a Nalanda [fig. 92], a delle scene originali – quella, dopo il Risveglio, del serpente Mucilinda che protegge Vakyamuni dalla violenza del monsone (in basso al centro) – si giustappongono episodi bene riconoscibili – la nascita miracolosa (in basso a sinistra), il parinirvapa (in alto) o il primo sermone (in alto a destra). La pietra, databile al secolo xi, possiede una fattura di pulizia e levigatezza particolari. Si fa notare la forma geometrica dei due fioroni al di sopra del trono. Questa geometrizzazione si ritrova in numerosi pezzi del secolo xi, quali una statuetta di Kurkihar, datata al terzo anno di Vigrahapala iii (terzo quarto del secolo xi). Vakyamuni è in piedi in posizione completamente frontale. Esaltato a livello spirituale come un cakravartin, è agghindato con una tiara e con gioie. Si stacca su di un fondo di stele fiammeggiante, ampio e piatto. Sono caratteristici la sua corona dai fioroni stilizzati che formano dei triangoli particolarmente acuti, gli occhi e altre parti incrostate. Pezzi analoghi, prodotti in grosso numero ed esportati in tutti i paesi buddhisti che intrattenevano rapporti con l’Impero pala, contribuirono a diffondere, talora fino a luoghi assai lontani, questa tipologia molto riconoscibile. Parallelamente a questa immensa produzione iconograficamente tradizionale si fanno largo delle raffigurazioni nuove e complesse legate al Vajrayana. Con il passare del tempo divengono vieppiù frequenti le immagini dei jina, che occupano la parte superiore di una stele o i quattro lati di uno stupa votivo. Uno stupa conservato a Londra presso il British Museum [fig. 93], conta quattro grosse nicchie che le ospitano, sovrastate da una arcata lavorata. Al fine di sottolineare il primato della nuova dottrina, delle nicchie molto più piccole, sulle modanature inferiori, contengono le minuscole immagini dei manusi buddha. Numerose statuette hanno forse fatto parte di oggetti rituali. È probabilmente il caso di

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straordinari fiori di loto in metallo che lasciano intravedere, socchiusi, una divinità attorniata dal suo seguito, alla maniera di un mapdala [fig. 94]. Vi si trova spesso Vairocana sotto il suo aspetto Sarvavid, «L’onnisciente« [fig. 96]. Egli fa il gesto di «impugnare il Risveglio« (bodhiyagri mudra), a lui proprio. Si ritroverà questa iconografia fino in Giappone. Lo stesso vale per le divinità facenti parte del suo mapdala, Trailokyavijaya ad esempio [fig. 97], il cui aspetto particolarmente complesso sottintende un ricco intreccio di significati simbolici. Le grandi divinità tutelari e guardiane avranno una diffusione altrettanto significativa. I cicli, contemporaneamente letterari e rituali, della divinità protettrice costituiscono un fondamento di non poca importanza del Vajrayana nello Himalaya, segnatamente quelli di Hevajra e di Sakvara [fig. 98]. Una piccola statuetta di Sakvara, ritrovata a Patharghata (distretto di

95. Mahakala, basalto, secolo. Londra, Victoria and Albert Museum (provenienza: India nordorientale). xii

96. Sarvavid Vairocana, rame in parte dorato, x secolo (?). New Delhi, National Museum (provenienza: Nalanda).

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97. Trailokyavijaya, bronzo, x secolo (?). Patna, Patna Museum (provenienza: Nalanda). 97

98. Sakvara, bronzo incrostato, x-xi secolo. Calcutta, Indian Museum (prov.: Patharghata). 99. Avalokitevvara Padmapapi, rame dorato e incrostato, xii secolo. Patna, Patna Museum (provenienza: Kurkihar).

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100. Avalokitevvara Padmapapi, basalto, fine xi-inizio xii secolo. Calcutta, State Archaeological Museum of Bengal (provenienza: Tapandighi).

Bhagalpur) e conservata presso lo Indian Museum di Calcutta, obbedisce scrupolosamente alle prescrizioni iconografiche delle grandi compilazioni dell’epoca. Queste raffigurazioni non si ritrovano su steli di grosse dimensioni. Acquista invece spazio il ruolo dei guardiani della Legge (dharmapala) [fig. 95]. Quale potrebbe essere stata la funzione di queste raffigurazioni le cui differenti fattezze corrispondono alle modalità espressive dei vari laboratori? È ben possibile che esse siano state poste all’entrata di un luogo sacro, un santuario o un monastero. La maggioranza di queste divinità, in origine dei induisti convertiti alla dottrina del Beato, ha serbato numerosi tratti delle proprie radici brahmaniche. Il caso di Bhairava, aspetto irato di Viva, diventato Mahakala nel Vajrayana, è in proposito emblematico. Lo stato odierno delle conoscenze rende dif-

ficile stabilire grandi tendenze cronologiche o regionali nell’immensa produzione pala. Si può tuttavia affermare che esiste una stilizzazione vieppiù netta delle forme, che a partire dai pezzi ancora caratterizzati dal sapore dell’epoca post-gupta sfocerà nel secolo xi in raffigurazioni, del tutto spoglie di sfumature aneddotiche, talora estremamente espressive. Nel secolo xii, come testimonia un Avalokitevvara in rame dorato scoperto a Kurkihar [fig. 99], alcuni laboratori d’arte si riagganciano allo stile precedente. Analogamente, a partire dalla fine del secolo xi, si nota un certo contrasto fra le steli scoperte in Bengala, talvolta decorate a profusione [fig. 100], e quelle più sobrie del Bihar. I rari frammenti di pittura murale scoperti a Nalanda non consentono di farsi una idea della ricchezza delle decorazioni monumentali. Tuttavia in alcuni manoscritti dello Astasahasrika

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Prajnaparamita sutra e, più di rado, del Pancaraksa sutra, il testo è inframezzato da vignette miniate. Questi manoscritti sono su fogli allungati ricavati da foglie seccate della palma borasso (Palmus borassus), albero originario delle regioni che si affacciano sul golfo del Bengala. Questo supporto duro, brillante e flessibile è molto resistente. Le pagine, che misurano una cinquantina di centimetri in lunghezza per cinque centimetri e mezzo di altezza, erano sovrapposte una sull’altra, attraversate da cordicelle e fissate a due tavolette di legno che fungevano da copertura. Le opere che hanno conservato la loro copertura originaria, con le facce interne dipinte in misura eguale, sono rare. I colophon contengono delle date di regno, che malgrado le fluttuazioni delle cronologie dei sovrani permettono di collocare i manoscritti nel tempo con una certa precisione. Il più antico, conservato presso la Asiatic Society di Calcutta (inv. G 4713), contiene l’indicazione «Sesto anno di Mahapala«, senza dubbio Mahapala i, il che collocherebbe l’opera negli ultimissimi anni del secolo x. Come le sculture dello stesso periodo le miniature pala risentono di molte correnti. Le vignette che ornano lo Astasahasrika Prajnaparamita sutra (Ms. Sansk. a.7.r.) della Bodleian Library di Oxford, eseguite a Nalanda nel quindicesimo anno di Ramapala alla fine del secolo xi, mostrano il massimo splendore di questa arte. Un Vajrapapi [fig. 101] caratteristi-

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co di questo insieme accenna una posa elegante con il proprio corpo flessuoso, alla maniera dello Avalokitevvara di Kurkihar [fig. 99]. Le caratteristiche somatiche molto stilizzate non sono modellate da aloni di colore come nei dipinti di Ajapta. La tecnica ormai in disuso impedisce di fare vibrare il colore in ampie zone di tinta piatta. Queste caratteristiche si accentuano con il tempo. Un manoscritto conservato presso la British Library (Or. 6902) datato al quindicesimo anno di Gopaladeva iii (prima metà del xiii secolo), benché eseguito a Vikramavila, offre una decorazione densa nello stile di certe steli del Bengala [fig. 102]. Il bodhisattva sta dentro un santuario dalle tettoie a piani (prasada) la cui facciata sembrerebbe sparita per lasciare vedere l’interno. Una vignetta estratta da un manoscritto conservato a Londra presso la Royal Asiatic Society (Hodgson Ms. 1) e datato al quarto anno di Govindapala (terzo terzo del xii secolo) documenta lo stato della pittura indiana qualche anno prima del cedimento dell’India settentrionale di fronte all’Islam. Vakyamuni, fra Brahma e Indra, scende dal cielo dei Trentatré dei a Sakkavya. La estrema stilizzazione delle forme, l’horror vacui già evidente nella miniatura precedente, l’evocazione della natura con grandi fiumi nella parte superiore, i particolari fregi dell’aureola fanno di questa illustrazione un esempio caratteristico dell’ultima fase della pittura pala. Espressività e movimento si

101. Vajrapapi, inchiostro e colori su palma secca, Astasahasrika Prajnaparamita sutra, 1097 circa. Oxford, The Bodleian Library (provenienza: Nalanda). 102. Avalokitevvara, inchiostro e colori su palma secca, Astasahasrika Prajnaparamita sutra, prima metà del xiii secolo. Londra, The British Library (provenienza: Vikramavila). 103. Busto di Avalokitev­ vara, basalto, ix secolo. Londra, The Victoria and Albert Museum (provenienza: Sanci).

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ritroveranno nella pittura nepalese. Il Madhya Pradesh Fra i secoli viii e xi alcune testimonianze isolate lasciano presagire una produzione differenziata nel Madhya Pradesh. Una sessantina di bronzi buddhisti sono stati scoperti in un monastero a Sirpur, non lontano dai celebri templi induisti che hanno dato notorietà alla città. Uno dei più importanti è conservato presso il Los Angeles County Museum of Art [fig. 104]. Una iscrizione cita i nomi di Dropaditya e di Kumaradeva, scultori oppure, più verosimilmente, autori della dedica. Un trono riccamente ornato sovrasta delle modanature multiple innanzi alle quali sono inginocchiati un donatore e due nagaraja. Tre dee dominano la composizione. Benché la loro iconografia diverga da quella per loro correntemente adottata, si riconosce Tara, seduta nell’atto di distribuire i propri doni, fra Cunda e Bhrkuti. L’opulenza decorativa e l’aspetto bambolesco dei volti sembrano essere una caratteristica locale. A dispetto della diffusione internazionale lo stile pala sembra avere avuto in India una diffusione limitata. Una eccezione obbliga tuttavia a moderare tale giudizio: il busto di Sanci, capolavoro conservato a Londra presso il Victoria and Albert Museum [fig. 103]. Si tratta del frammento di una statua di grandi dimensioni raffigurante Avalokitevvara che proverrebbe dal santuario n. 45 del noto sito buddhista del Madhya Pradesh, e che risalirebbe alla prima metà del secolo ix, il periodo di massima espansione, grazie alle conquiste di Devapala, dell’Impero pala. La levigatezza della pietra e una discreta geometrizzazione delle masse muscolari possono essere considerate una influenza della statuaria del Bihar. L’ancheggiare molto pronunciato e la ricchezza dei gioielli continuano forse tradizioni locali ancora fedeli al canone gupta. Le invasioni islamiche che, verso il 1200, annientano i regni autoctoni nella parte settentrionale del subcontinente, segnano la fine dell’arte buddhista in India. Nel sud, a Nagapattipam,

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nel distretto di Tanjore, dei laboratori di artigiani del bronzo, attivi fin dal secolo vii, perpetueranno ancora un poco la tradizione della statuaria theravada. Scomparso dall’India, il buddhismo proseguirà il proprio straordinario sviluppo nel resto dell’Asia.

104. Tara fra Cunda e Bhrkuti, bronzo, 800 circa. Los Angeles, The Los Ageles County Museum of Art (provenienza: Sirpur).


L’ESPANSIONE DEL BUDDHISMO IN ASIA

Il buddhismo dall’India raggiunge la maggior parte dei paesi asiatici. Le vie commerciali terrestri e marittime che connettono i vari centri di civiltà sono rapidamente utilizzati da monaci missionari. Gli scambi economici risalgono probabilmente a tempi remoti. È possibile che l’estensione a est dell’Impero achemenide sia stata motivata dal desiderio di controllo sugli itinerari carovanieri. Alessandro Magno (356323 a.C.) guidò le proprie truppe, all’inseguimento del re dei re, fino ai confini dell’India. Ignoriamo le origini del commercio fra Oriente e Occidente, ma il volume delle transazioni in quell’epoca remota doveva essere modesto. Il regno di Avoka segna una seconda importante tappa nello sviluppo delle relazioni internazionali. Lo zelo religioso del monarca produsse l’invio di missionari buddhisti in Vri Lapka e forse in Nepal, due future interconnessioni degli scambi. Se numerosi indizi lasciano ipotizzare un lento sviluppo del commercio all’ingrosso nei secoli che precedono l’era cristiana, è solo nel i secolo che esso acquista un vero slancio. La fortissima richiesta da parte del mondo mediterraneo di spezie e di oggetti preziosi suscita la creazione di veri e propri itinerari che sfruttano sia piste carovaniere nel cuore dell’Eurasia sia rotte marittime lungo le coste. Il periplo del mare eritreo, un testo greco redatto nel i secolo, documenta l’importanza di questi scambi marittimi. Esso testimonia la conoscenza degli alisei che facilitano, ogni sei mesi, la navigazione. La seta, presente in Occidente sotto il regno di Traiano (98-117), diventa il simbolo di questo commercio che manterrà in contatto nei secoli il mondo romano, e poi bizantino, alla capitale della Cina. Le piste carovaniere, attraverso l’Asia settentrionale, aggiravano l’altopiano tibetano a nord. In realtà gli itinerari cambiarono nel corso del tempo. La Via della Seta non era percorsa interamente dagli stessi mercanti. I prodotti, venduti con ritorni eco-

nomici convenienti, erano in parte consumati sul posto, in parte trasportati fino a un mercato più distante. I guadagni, proporzionali ai rischi affrontati, erano molto elevati. Le vie terrestri erano caratterizzate da deserti più o meno aridi, tempeste di sabbia, briganti e difficoltosi passaggi attraverso le catene montuose. Le vie di navigazione erano minacciate da tempeste e pirati. Gli Stati traevano dal commercio vantaggi significativi. Nei primi secoli dell’era cristiana gli Imperi romano, parto, kusapa e Han assicurarono un minimo di sicurezza alle carovane. In seguito i grandi Imperi marittimi dell’India meridionale o dell’Asia sudorientale combatterono la pirateria, controllarono gli stretti e mantennero, tramite scambi diplomatici, buoni rapporti con i loro abituali partner commerciali. L’intensificarsi degli scambi marittimi caratterizza l’epoca gupta. La crescente richiesta di prodotti rari da parte dell’Occidente mette in moto la ricerca sempre più a est di fonti di spezie e di pietre preziose. L’India esporta elementi fondamentali della propria cultura attraverso le rotte commerciali sia terrestri che marittime. Dai ripetuti contatti e dall’insediamento di mercanti che si mescolano alle élite locali consegue una vera e propria colonizzazione pacifica di regioni più o meno lontane. Questo lento processo è particolarmente evidente in Asia sudorientale. Il radicamento di queste comunità mercantili spiega in parte la durevole espansione verso oriente delle grandi religioni indiane, mentre i severi editti dei sovrani iraniani e la resistenza culturale del mondo occidentale non permettono il sorgere di un fenomeno analogo nell’altro capo dell’Eurasia. Una antica credenza voleva che un brahmano intaccasse la propria purezza se oltrepassava il mare. Eppure testimonianze scolpite provano che religiosi vaispava prima, vivaiti poi, sfidarono il divieto. Il buddhismo, religione missionaria, avrebbe invece tratto appieno profitto dalla particolare

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situazione geo-economica. Che esso penetrò assai presto in Asia centrale e in Asia sudorientale è un dato di fatto, benché le antiche vestigia archeologiche siano rare e isolate. Parecchi buddha in bronzo, importati dall’India profonda o da Ceylon, oppure prodotti sul luogo a imitazione di quelli, sono stati rinvenuti in Asia sudorientale, talora in località remote come l’isola Celebes [fig. 1]. Oltre il mondo indianizzato, religiosi spesso

originari del Gandhara, del Kashmir e del bacino del Tarim, propagarono il buddhismo fino in Cina. Monaci cinesi compirono il cammino inverso, giungendo in pellegrinaggio sui luoghi dove aveva vissuto Vakyamuni. Dalla Cina il buddhismo arriverà in Corea e in Giappone. La religione del Beato, unico grande fattore di unità delle varie civiltà asiatiche, assunse di conseguenza aspetti molto diversi di paese in paese, ispirando un’arte assai variegata.

1. Buddha, vii secolo. Sulawesi ovest, Sikendeng, Giacarta, Museo Nazionale. 2. Buddha, bronzo, vi-vii secolo. Ho-chi minh City, Museo di Storia (provenienza: Dong-du’o’ng). 2

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1. Buddha seduto, bronzo, vi secolo circa. Colombo, National Museum (provenienza: Badulla). 2. Carta dell’isola con indicazione dei siti archeologici. Nelle due pagine seguenti: 3. Piccolo dagäba, pietra, ii secolo. Anuradhapura, cinta del Ruvanväli Mahasäya.

Lo Vri Lanka, l’antica Ceylon, costituisce una tappa fondamentale della diffusione del buddhismo in Asia sudorientale. Nonostante la presenza, anticamente, di una forte comunità del Grande Veicolo, l’ultima ramificazione del buddhismo antico prese lì il proprio aspetto definitivo, il Theravada. Il canone dei maestri singalesi divenne il punto di riferimento irrinunciabile per l’ortodossia delle tradizioni religiose.

4. Buddha, calcare bianco, iv secolo circa. Anuradhapura, Ruvanväli Mahasäya (vihara). 5. Testa di buddha, calcare, iii-iv secolo. Distretto di Anuradhapura, Maha Illuppalama. 6. Testa di bodhisattva (?), calcare, fine ii secolo. Colombo, National Museum (provenienza: Thuparama, Anuradhapura). 7. Figura femminile, calcare marmoreo, iv secolo circa. Anuradhapura, Jetavana Thupa (vahalkada est). 1

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Primo periodo di Anuradhapura iii secolo a.C.-432 d.C. Cronache antiche e numerose testimonianze epigrafiche permettono di ricostruire con molta precisione la storia dello Vri Lanka. L’origine del buddhismo a Ceylon rimonta al viaggio di Mahinda, uno dei figli di Avoka, entrato a fare parte dell’ordine. Il giovane uomo fonda una prima comunità a Mihintaúe e converte alla religione buddhista il sovrano del luogo, Deva­ nakpiyatissa (250-210 a.C. circa). Quest’ultimo erige ad Anuradhapura il Mahavihara («Grande monastero«), che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella storia religiosa di Ceylon, e il Thuparama dagäba, il primo stupa dell’isola. La monaca Sakghamitta, sorella di Mahinda, organizza le prime comunità femminili. Ella è rimasta famosa soprattutto per avere portato nell’isola una gemma dell’albero del Bodhi, venerabile reliquia. Questo evento, fondamentale per la storia dello Vri Lanka, è all’origine di un importante culto delle reliquie che continua fino all’epoca moderna. Asceso al trono, Dutthagamapi (161-137 a.C.) intra­pren­de una serie di grandi lavori ad Anuradhapura, la sua capitale. In commemorazione della propria vittoria sull’usurpatore Eúara egli costruisce il complesso monastico di Mirisavätiya. Il dagäba di Mirisavätiya, il più grande fino allora eretto nello Vri Lanka, misura 60 metri di diametro. Il sovrano, forte di questa prima realizzazione, desideroso di lasciare testimonianza della propria fede con un tumulo di dimensioni ancora maggiori, dà il via alla costruzione del Maha­ thupa (Ruvanväli dagäba) nel Mahavihara, ma muore prima del completamento dell’opera. Il complesso ha subìto un drastico restauro a partire dal 1893. Un piccolo dagäba votivo antico situato nelle vicinanze, permette di rievocarne la forma originale [fig. 3], fedelmente ispirata agli esempi indiani. Una ampia cupola (apda)

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poggia sopra una tripla base (trimala). Un grosso harmika a sezione quadrata sostiene una colonna finale (yupa). In cima i parasole erano un tempo distinti. Sembrerebbe che l’odierna spirale formata da parasole contigui sia un elemento aggiunto. Il dagäba poggia su un ampio basamento dai bordi decorati con un fregio di protomi di elefanti. Dutthagamapi promosse anche la ricostruzione degli alloggi monastici facenti parte del Mahavihara. Il Lohapasada si presentava come un edi­fi­cio di nove piani che comprendeva mille abitacoli ed era coperto di piastre di rame, da cui il soprannome di «palazzo di bronzo«. L’assegnazione del piano avveniva in ragione della anzianità di ciascuno all’interno della comunità, e i maestri spirituali occupavano il li­vel­lo più alto. Quindici anni dopo la sua co­ struzione l’edificio prese fuoco, forse a causa delle migliaia di lampade alimentate da olio di noce di cocco. Saddhatissa, il fratello di Dut­ thagamapi, lo ricostruì, ma con soli sette piani. Più volte distrutto e riedificato, con un numero di livelli variabile, il Lohapasada segna l’esordio di una tradizione architettonica esclusivamente singalese di edifici ipostili a più piani. Le odierne rovine non risalgono che all’epoca di Parakramabahu il Grande (1153-1186). Mille e seicento pilastri, molti dei quali furono riutilizzati, costituivano solide ossature per sovrastrutture in legno. Specialmente durante il primo periodo di Anuradhapura, in data sconosciuta, gli stupa dello Vri Lanka furono caratterizzati da edicole sopraelevate, cappelle protese in direzione dei quattro punti cardinali (vahalkada). La loro presenza è comunque bene documentata a partire dalla seconda metà del ii secolo. Le polemiche che agitavano gli ambienti delle comunità della capitale condizionarono la vita religiosa nel suo complesso. Di conseguenza, sotto il regno di Vattagamani, verso l’anno 89 a.C., uno scisma in seno ai Mahaviharavasin, monaci del Mahavihara, portò alla fondazione dell’Abhayagirivihara («monastero della montagna di Guardia«). Più aperto alle correnti innovatrici, esso divenne col tempo la sede delle dottrine Mahayana, giudicate eterodosse da gran parte del clero. La rivalità fra Mahaviharavasin e Abhayagirivasin (spesso chiamati Dhammarucika) diede luogo, durante il regno di Mahasena (274-301 circa), alla fondazione del Jatava­na­ rama, nel parco Jotivana, all’interno del recinto stesso del Mahavihara. Il convento del Jatavanarama, sede della scuola Sagaliya, produsse un

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probabilmente più tardi, sicuramente importate da monaci indiani residenti presso l’Abhayagirivihara. Questa comparsa relativamente recente spiega in parte l’importanza che nello Vri Lanka verrà sempre data ai simboli aniconici del Beato, stupa o impronte di piede, come segni di devozione. La scultura del primo periodo di Anuradhapura scaturisce direttamente dalla scuola di Amaravati della regione andhra. Caratteristico di tale impronta iconografica e stilistica del sud del subcontinente è, nonostante i pesanti restauri, un Buddha in calcare bianco, conservato nel vihara del Ruvanvälisaya [fig. 4]. Un abito monastico con ampie pieghe stirate, che lascia la spalla destra scoperta, aderisce a un corpo dalle forme stilizzate di dimensioni imponenti e dal bacino marcato. Lo Vri Lanka farà propria questa tipologia di origine straniera e la conserverà con minime variazioni fino all’epoca moderna. La testa di un Buddha in relativamente buono stato, trovata a Maha Illuppalama (iii-iv secolo? [fig. 5]), ha le stesse caratteristiche. Il volto allungato, l’urpa molto pronunciato alla base della fronte, la capigliatura costituita di piccoli ciuffi giustapposti sono elementi che attingono all’arte di Amaravati. Gli occhi, forse ingranditi in un secondo momento, erano rivestiti di materie preziose, cambiate in occasione di alcune feste. Gli elementi architettonici che possono con certezza essere attribuiti a questo periodo (pilastri poco

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temporaneo indebolimento del Maha­vihara. Il pellegrino cinese Faxian racconta che, al tempo del proprio soggiorno ad Anu­radhapura, all’inizio del v secolo, il Mahavihara non contava che tremila monaci, mentre lo Abhayagirivihara raggiungeva il numero di cinquemila religiosi. Tutti i monasteri singalesi dipendevano, di fatto, da uno dei tre grandi monasteri della capitale. I dissensi fra loro continueranno, in maniera più o meno aperta, fino al xii secolo. Molti sovrani erigeranno, sull’esempio di Dut­ thagamani, stupa colossali. Il più grosso è incontestabilmente il Jetavana Thupa, costruito da Mahasena come stupa principale dello Jetavanarama, monastero al quale egli elargì protezione. Sotto il regno di Sirimeghavappa (301-328), venne portato dal Kalinga (Orissa) un dente del Buddha. Questa straordinaria reliquia, riposta nell’Abhayagirivihara, divenne il talismano pro­tettore del regno. Benché curiosamente le cronache locali menzionino l’esistenza di statue d’oro del Buddha a partire dal iii e ii secolo a.C., le raffigurazioni del Beato compaiono

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8. Pianta del Pubbaramavihara. Anuradhapura, Puliyankulam. A. Recinzione sacra: 1) Stupa; 2) Patimaghara (tempio dell’Immagine); 3) Uposathaghara (sala capitolare); 4) Bodhighara (piattaforma dell’Albero sacro). B. Recinzione residenziale con celle. C. Recinzione esterna: 5) Edificio per il bagno; 6) Refettorio.

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lavorati, pannelli di rivestimento, rilievi come quello del Vahalkada est del Jetavana Thupa [fig. 7]), si rifanno fedelmente ai modelli di Amaravati. Alcune statue si ispirano ad altre fonti. In alcuni personaggi ieratici agghindati sono stati così riconosciuti bodhisattva, divinità secondarie locali, e perfino mecenati. Una testa del National Museum di Colombo, trovata presso il Thuparama di Anuradhapura, si può forse datare al ii secolo [fig. 6]. I tratti più tondeggianti e le labbra più sensuali evocano una sensibilità estetica più settentrionale, debitrice nei confronti dei modelli della regione di Mathura. Nel 432 i Tamil dell’India meridionale conqui­ starono una parte dell’isola e occuparono Anuradhapura. L’invasione, sfociata nel controllo più o meno esteso del paese, prelude alle due occupazioni dal 992 al 1070 e dal 1211 al 1255. I sovrani singalesi, indeboliti da dissidi dinastici, parti in causa nel grosso commercio marittimo, legati alla politica del subcontinente da rivalità economiche e alleanze politiche spesso rafforzate da matrimoni fra principi, non si poterono mai emancipare dai grandi rivolgimenti che ciclicamente scuotevano i regni dell’India meridionale. Secondo periodo di Anuradhapura 459-993 Liberata dal giogo tamil da Dhatusena (455473 circa), Anuradhapura ritorna a essere la capitale salvo per gli intervalli dovuti al regno di Kassapa i (473-491 circa) (egli preferì ritirarsi nella fortezza di Sigiriya) e alle lotte con i Pallava, che dominavano l’India meridionale alla fine del vii secolo. Aggabhodi vii (722-777) abbandona momentaneamente Anuradhapura in favore di Polonnaruva, meno esposta agli invasori venuti dal subcontinente. Malgrado una grande imprecisione cronologica legata in parte al costante rifacimento degli edifici e al conservatorismo delle raffigurazioni sacre, questo lungo periodo segna l’apogeo dell’arte singalese. Nei monasteri, al fianco dello stupa, parte integrante di ogni istituzione monastica, della piattaforma per l’albero sacro (bodhighara), spesso nato da una gemmazione del vero albero del Bodhi, e della sala capitolare (uposathaghara), si sviluppa un piccolo santuario che ospita una immagine del Buddha in piedi, il tempio dell’Immagine (patimaghara). I Dharmarucika sistematizzano questi elementi e costruiscono monasteri provvisti di recinzioni. Gli edifici

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9. Thuparama dagäba. Anuradhapura, Mahavihara. 10. Pianta del Thuparama dagäba. Anuradhapura, Mahavihara. 11. Vatadage, seconda metà vii secolo. Distretto di Anuradhapura, Mädirigirya. 12. Pianta di Vatadage, seconda metà vii secolo. Distretto di Anuradhapura, Mädirigirya. 13. Nagaraja, gneiss, viisecolo. Anuradhapura,

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sacri sono raggruppati al centro del complesso monastico, e la cinta esterna funge da dimora dei monaci [fig. 8]. Analogamente, i dagäba diedero luogo a complesse evoluzioni la cui gestazione resta sconosciuta. I Vatadage, bene documentati nel vii secolo, sono dagäba circondati da più cerchi concentrici di pilastri di pietra le cui dimensioni decrescono nel procedere dall’interno all’esterno. Queste colonne sostengono in alcuni casi delle cupole in legno poste a protezione del tumulo sacro. Si tratta di un tipo di edificio peculiare alla architettura singalese. Il Thuparama dagäba ne fornisce un buon esempio [figg. 9-10]. Questo stupa, il più antico dello Vri Lanka, con il passare dei secoli abbandonato, venne ricostruito da Aggabodhi ii (604-614 circa), che lo trasformò in un vatadage. In un monumento così grosso la disposizione delle pesanti strutture di copertura pone dei problemi agli archeologi in quanto nessuna di esse è sopravvissuta. Diverso è il caso dei dagäba più piccoli, innalzati su piattaforme e costituenti il cuore di veri e propri santuari circolari. Il numero delle traverse è variabile: due a Mihintaúe e tre a Mädirigirya. Quest’ultimo vatadage, è considerato il monumento più riuscito del suo genere a causa della eleganza delle proporzioni [figg.

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11-12]. I singalesi rielaborarono poco a poco in maniera originale, a partire da modelli indiani, le tipologie di accesso ai monumenti e ai luoghi sacri. Questi ingressi «alla singalese« constano di una serie di elementi caratteristici: soglia in pietra a mezzaluna (sanda-kada-pahapa, moon stone o «pietra di luna«), mura con cosciali di scale e steli ornate di divinità guardiane (mura gala). Sulle mura gala (guardstone o «pietra di guardia«) re serpenti dal corpo antropomorfo [fig. 13], portatori dei tesori del mondo sotterraneo assistiti da nani, proteggono lo spazio sacro e tengono in mano dei vasi di abbondanza (purpaghata). Le mura gala del secondo periodo di Anuradhapura sfoggiano composizioni di grande raffinatezza. I personaggi, in forte rilievo benché pochissimo aggettanti, adorni di molti gioielli, fanno mostra di un ancheggiare più o meno accentuato. Il loro corpo longilineo e agile, dalla muscolatura delicata, richiama alla mente alcune creazioni dell’arte pallava. Non è facile precisare la data di queste opere, in particolare quelle che ornano i monumenti della capitale, che sono stati sottoposti a continue manutenzioni e modificazioni. Un santuario (piúimage, «tempio dell’immagine«) vicino al Thuparama dagäba, ad esempio, ospitava un tempo una statua di Buddha. Le mura

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Mahavihara (rudere a sudest del Thuparama, pietra di guardia, sinistra). 14. Nagaraja, gneiss, seconda metà xii secolo. Polonnaruva, Ratnagiri vatadage (Dalada Maluva, pietra di guardia, destra).

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15. Moon stone, «pietra di luna«, calcare marmoreo. Polonnaruva, Ratnagiri, vatadage (Dalada Maluva). 16. Muro decorato, gneiss, viii-ix secolo. Anuradhapura, Puliyankulam (Pubbaramavihara). 17. Buddha seduto, gneiss, vi secolo circa. Anuradhapura, Mahavihara (santuario a est della vrimahabodhi). 18. Buddha seduto, pietra, vii secolo (?). Anuradhapura, Abhayagirivihara. Nelle due pagine seguenti: 19. Buddha in piedi, bronzo dorato, metà viii-metà ix secolo. Anuradhapura, Archaeological Museum (provenienza Veragala Sirisangabovihara, Ällaväva). 20. Avalokitevvara, bronzo dorato, viii-ix secolo. Colombo, National Museum (provenienza: Veragala Sirisangabovihara, Ällaväva).

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gala dell’entrata, forse del vii secolo, sono fra le più riuscite dell’arte singalese. Quelle della sala capitolare dell’Abhayagirivihara, edificio noto con il nome Ratanapasada («sala del tesoro«), prodotte su ordine di Mahinda iii (801804 circa), sono ancora più complesse [fig. 14]. Il nagaraja si stacca sotto un pesante arco decorativo nel quale si mescolano raffigurazioni della vegetazione, ghirlande minutamente lavorate e atlanti nani. Il personaggio principale, dal corpo longilineo, molto ancheggiante, con i tratti del viso particolarmente delicati, porta numerosi gioielli di svariato tipo. Sul retro delle mura gala, dei muri di sostegno decorati fanno da cornice alle scale. Attraverso una sottile fessura essi permettono all’occhio di raggiungere il basamento dell’edificio. Quelli della fine del secondo periodo di Anuradhapura possiedono la vibrazione lirica dei motivi scultorei propri dell’arte singalese. Quelli del monastero di Puliyankulam ad Anuradhapura, tipici del massimo livello di tale produzione, sono fregiati da

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un leone raffigurato con una zampa sollevata [fig. 16]. Un ampio e flessuoso girale, che fuoriesce da un protome di makara dalla criniera lavorata, sottolinea il muro con cosciali di scale e si avvolge a livello del suolo. La zampa del mostro, celeste e acquatico allo stesso tempo, poggia su una colonna molto tornita. Anche le pietre di luna sono elaboratamente scolpite [fig. 15]. I loro precedenti vanno cercati nell’arte di Amaravati, a partire dalla quale i singalesi svilupparono un vocabolario plastico dai contenuti simbolici diversificati. Una decorazione in bassorilievo, di fattura perfetta, adorna queste pietre a mezzaluna. Le più belle si trovano nel Mahavihara, in cinque piccoli edifici costruiti in gruppo (vii secolo?) davanti a un piccolo santuario dell’Abhayagirivihara (viii-ix secolo?), a nord della città. Le soglie segnano una cesura fra mondo profano e mondo trascendente. Antichi testi assimilano simbolicamente un tempio a un «palazzo della Verità« – situato al di sopra dell’universo

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fenomenico – in cui il Buddha predica la dottrina della liberazione alle creature che popolano il mondo sensibile. Le varie combinazioni corrispondono ai vari stadi della evoluzione spirituale. Il loto fiorito, al centro della pietra, ne costituisce il motivo essenziale, simbolo del piano esistenziale più alto, precedente il nirvapa. Vi sono temi che appaiono sistematicamente. Una prima combinazione, procedendo dall’esterno verso l’interno, raffigura delle fiammelle battute dal vento. I testi buddhisti paragonano spesso a fiamme il desiderio e l’odio, due vizi che alimentano il ciclo delle reincarnazioni. Sulle pietre di luna iconograficamente più piene questa prima combinazione è seguita da altre quattro caratterizzate da figure di animali. Esse simboleggiano le quattro direzioni, affermando così l’universalità del messaggio del Beato. L’elefante farebbe riferimento all’est, il cavallo al sud, il leone al nord e il bufalo all’ovest. L’origine di questi simboli è in India. Anche il capitello del pilastro di Sarnath, del iii secolo a.C. [cfr. fig. 3, p. 63], oppure le pietre di luna di Nagarjuna­kopda presentano animali dal simbolismo complesso e dibattuto, tematicamente analoghi ma chiaramente precedenti. La parola pali «disa« (quartiere) possiede anche l’accezione di «pericolo«, ragion per cui i quattro animali potrebbero simboleggiare i quattro pericoli che alimentano il ciclo delle reincarnazioni (saksara): nascita, vecchiaia, malattia, morte. Gli antichi predicatori dovevano fare spesso ricorso a speculazioni analoghe. Poi si arriva a una combinazione di ampi girali. Il canone pali compara spesso i girali ai de-

sideri umani che rinascono incessantemente. Le anatre (haksa) fanno parte del vocabolario tematico delle pietre di luna. Si crede infatti che esse distinguano il bene dal male. Questi uccelli sarebbero capaci, se si offre loro un miscuglio di latte e acqua, di bere il latte lasciando l’acqua. Gli uomini paragonati ad anatre sono dotati della capacità di discernere fra azioni generatrici di un buono o di un cattivo karman. La combinazione si contrappone al mondo delle passioni raffigurato tramite i girali. Su molte pietre i volatili hanno nel becco dei boccioli o degli steli di loto, allegorie – in tale visione – del frutto ottenuto con la rinuncia. Le haksa che hanno lasciato il proprio stagno rappresentano coloro che rinunciano al mondo, raggiungendo così uno stadio di non-ritorno sulla strada che conduce alla liberazione dal ciclo delle reincarnazioni. La cronologia della produzione delle prime statue del Buddha seduto è poco chiara. Visibilmente recenti rispetto alle più antiche raffigurazioni del Buddha in piedi, esse si rifanno a modelli indiani diversi dalla scuola di Amaravati. I tratti paffuti di alcune di esse e il sorriso ineffabile fanno pensare a dei prototipi gupta molto modificati. Una statua del Buddha (vi secolo circa) situata in un piccolo santuario a est dell’albero della vrimahabodhi del Mahavihara [fig. 17] è caratteristica di questa produzione. È il solo buddha in pietra singalese che faccia il «gesto di prendere la terra a testimone«. Altri esemplari esulano dal canone tradizionale e rivelano, nella accentuazione dei tratti somatici, la creazione di una sensibilità estetica propria18



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mente singalese. Fra questi lo sbalorditivo Buddha in bronzo di Badulla (vi secolo) conservato al National Museum di Colombo [fig. 1]. Il naso curvo conferisce al viso una stilizzazione che rafforza una espressione di estremo rigore. Il medesimo impianto di capelli in boccoletti, leggermente discendenti verso la parte centrale della fronte, le medesime arcate sopracciliari a semicerchio, la medesima bocca imbronciata dell’enigmatico Buddha in pietra, seduto in meditazione, dell’Abhayagirivihara [fig. 18]. La datazione rimane controversa. Esso possiede comunque un volto più tondo e dei tratti più sottili rispetto a quello di Badulla e si potrebbe situare cronologicamente dopo quest’ultimo (vii secolo?). La seconda epoca di Anuradhapura è celebre per la qualità straordinaria dei bronzi dorati. Un piccolo gruppo di assoluti capolavori, nascosti durante disordini e invasioni, costituisce uno degli apici dell’arte buddhista [figg. 19-20, 22]. La qualità dei materiali, il perfetto senso del tuttotondo, l’equilibrio fra il naturalismo dei corpi e la stilizzazione delle forme, la cura con la quale il drappeggio si accorda al tema trattato, talora molto sottilmente piegato, talaltra ampiamente dispiegato, sono i punti che caratterizzano lo stile di queste statue eccezionali. Se è difficile mettere il Buddha di Ällaväva in relazione con una qualunque scuola religiosa [fig. 19], le statue di bodhisattva e di dee si situano per principio in una concezione mahayanica del mondo, illustrata dall’Abhayagirivihara e il Jetavanarama. Il British Museum di Londra conserva, ad esempio, una celebre Tara che misura 1,46 metri di altezza [fig. 22], men-

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tre il National Museum di Colombo, un raro Avalokitevvara nella postura di rilassamento di estrema raffinatezza [fig. 20]. La stessa perfezione si ritrova in alcuni oggetti come una bella maniglia di porta in bronzo dorato, a forma di felino che mostra i denti, scoperta nel monastero di Ällaväva [fig. 21].

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Polonnaruva Situata al centro di un sistema di irrigazione che permetteva di sfruttare nuovi terreni, Polonnaruva, città in piena crescita, divenne capitale dello Vri Lanka dopo la conquista della maggior parte dell’isola a opera delle armate cola, giunte dall’India meridionale nel 993. Dopo alcuni decenni di occupazione, Vijaya-

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21. Maniglia di porta, bronzo dorato, metà viii-metà ix secolo. Veragala Sirisangabovihara, Ällaväva. 22. Tara, bronzo dorato, prima metà xii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: costa orientale dello Vri Lanka). 23. Lankatilaka, seconda metà secolo. Polonnaruva, Aúahana Parivepa.

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bahu i (1055-1110) caccia i Tamil e nel 1073 stabilisce la propria capitale a Polonnaruva. Il sovrano più importante ne fu indiscutibilmente Parakramabahu i (1153-1186), soprannominato «il Grande«, monarca desideroso di ripristinare le antiche tradizioni singalesi. I trentatré anni del suo lungo regno costituiscono il periodo di apogeo politico ed economico di tutta la storia dello Vri Lanka. Nel 1160 il sovrano ordina, con un solenne proclama, il Parakramabahu Kalikavata, l’integrazione delle varie correnti che da secoli dividevano il clero buddhista in seno al Mahavihara, che assunse allora il nome di «Ordine supremo« (Sangha Nikaya). La disciplina monastica venne ristabilita in tutto il suo rigore. Una nuova occupazione tamil, nella prima parte del xiii secolo, mette fine a questo periodo aureo. Aúahana Parivepa, uno dei complessi monastici di maggiore importanza della capitale [fig. 24], possiede più recinzioni concentriche. La sua pianta non ha tuttavia il rigore dei conventi più antichi della scuola dhammarucika. Il Buddhasima Pasada, una vasta costruzione a vari piani, serve da alloggio ai monaci. Grossi edifici, evoluzione dei templi dell’Immagine (piúimage) dell’epoca precedente, ospitano una colossale statua del Buddha. Essi costituiscono una caratteristica originale del periodo. Il Lapkatilaka, il più ampio, si situa al centro dello Aúahana Parivepa [fig. 23]. L’edificio, costruito in mattone e dotato di pareti rinforzate da pilastri di pietra, è composto da un portico monumentale e da una lunga sala. Una immensa statua del

24. Pianta dell’Aúahana Parivepa. Polonnaruva. 1) Kiri Vegera; 2) Dagoba funerari; 3) Lankatilaka; 4) Mandapaya; 5) Buddhasima Pasada; 6) Bagni; 7) Sala capitolare; 8) Cripta.

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Buddha, scolpita nel mattone, attira l’attenzione dei fedeli. Uno stretto passaggio alle spalle della statua permette di compiere il rito della circumambulazione. Stucchi modellati e dipinti un tempo ricoprivano interamente l’edificio. I frammenti superstiti testimoniano l’influenza della estetica cola. Lo scavo di immense statue rupestri costituisce un’altra particolarità dello stesso periodo. Attestate a Ceylon almeno a partire dal vii secolo, le colossali raffigurazioni più antiche non possono competere con la enorme dimensione delle statue del Gal Vihara. Parakramabahu i fece erigere a settentrione dell’Aúahana Parivepa lo Uttararama (Monastero del nord). Il complesso comprendeva una parete di granito. Le immagini scolpite, ospitate un tempo in dei santuari in mattoni, formavano altrettanti piúimage. Le due

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statue nella parte nordorientale della roccia sono le meglio riuscite. Un imponente personaggio in piedi, vestito in abito monastico e con le braccia incrociate sul petto, raggiunge quasi i 7 metri di altezza [fig. 25]. Gli archeologi, che lo avevano talora identificato con Ananda, il discepolo cugino del Buddha, riconoscono in lui Vakyamuni che compie un mudra molto raro e tuttavia attestato nello Vri Lanka e in Thailandia. Il Buddha avrebbe eseguito il gesto innanzi all’albero del Bodhi nel corso di una particolare meditazione, la seconda settimana dopo il proprio Risveglio. La perfezione dell’opera lascia rapiti. La lieve flessione della gamba sinistra e le pieghe del drappeggio che si adatta perfettamente al corpo donano al personaggio una sorta di tensione lirica accentuata dall’ampio lembo dell’abito trattenuto dal braccio sinistro.

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Nella pagina precedente: 25. Buddha in piedi, pietra, seconda metà xii secolo. Polonnaruva, Gal Vihara. 26. Buddha in piedi e buddha coricato, pietra, seconda metà xii secolo. Polonnaruva, Gal Vihara. In queste due pagine: 27. Ingresso nord, seconda metà xii secolo. Polonnaruva, Daúada Maluva. 28. Nivvakka Latamapdapa, fine xii secolo. Polonnaruva, Daúada Maúuva.


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Una doppia incisione marchia ogni piega come avviene per la maggioranza dei buddha singalesi. Il bel volto meditabondo, perfettamente ovale, emana una avvertibile serenità. Nelle vicinanze, il Buddha coricato [fig. 26] misura più di 14 metri di lunghezza. I resti del santuario in mattoni che lo ospitava sono ben visibili. La testa, più geometrica di quella del Buddha in piedi, poggia su di un cuscino la cui estremità, divisa in quarti, come un fiore sbocciato, documenta l’arte tessile dell’epoca. Nel cuore di Polonnaruva una cinta sicuramente parte di un monastero importante contiene i più prestigiosi edifici religiosi della città. Questo spazio, denominato The Quadrangle dagli archeologi britannici, era un tempo chiamato Daúada Maúuva. Il monumento più raffinato, un vatadage costruito da Parakramabahu i, fu sottoposto ad abbellimenti sotto il regno del fastoso Nivvakkamalla (1187-1196), l’ultimo grande sovrano di Polonnaruva [fig. 27]. Esso fa parte di una corrente arcaicheggiante che, passata l’occupazione cola, cerca di continuare l’arte del secondo periodo di Anurad-

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hapura. L’edificio si presenta come una copia relativamente fedele del vatadage (vii secolo) di Mädirigirya, un principato ereditato da Parakramabahu i nel corso del proprio regno [fig. 29]. Orientato verso il nord, il vatadage di Polonnaruva era preceduto da un portico in forte risalto. Il monumento stesso si erge su di una terrazza circolare. Un colonnato e un parapetto intarsiato conferiscono eleganza al corpo dell’edificio. All’interno due fila circolari di pilastri sostengono il solaio. La più interna sembrerebbe aggiunta dopo il completamento del vatadage. Quattro statue di buddha in meditazione, ciascuna rivolta in direzione di un punto cardinale, affiancano il dagäba centrale. Le decorazioni scolpite mostrano delle differenze di qualità fra un ingresso e un altro, o poiché la loro realizzazione venne affidata a vari laboratori artigiani, o poiché venne ripartita in più tempi. Gli ingressi rivolti a nord e a est sono quelli meglio lavorati. I leoni della faccia esterna mostrano una vivacità sconosciuta ai precedenti esemplari di Anuradhapura. Le pietre di luna presentano delle varianti compositive

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29. Facciata nord, fine xiii secolo. Polonnaruva, Tivanka. 30 31

30. Pianta del Tivanka, fine xiii secolo. Polonnaruva. 31. Devata in preghiera, xiii secolo. Polonnaruva, Tivanka (facciata sud). 32. Devata che rende omaggio al futuro Buddha, dipinto murale, xiii secolo. Polonnaruva, Tivanka (muro sud, vestibolo della sala).

rispetto a quelle della capitale. La combinazione delle haksa è spostata verso l’esterno. Le altre combinazioni animali prevedono una sola specie: elefanti, leoni o cavalli. I bovini sono scomparsi, forse per non obbligare gli induisti, minoritari ma presenti nella città, a calpestarli. Colonne originali, scolpite a imitazione di giganteschi vegetali, abbelliscono parecchi edifici che parrebbero datare tutti al regno di Nivvak­ kamalla. Il Nivvakkamalla mapdapa (Nivvakka Latamapdapa), sala in cui il sovrano ascoltava la salmodia dei testi buddhisti, fornisce l’esempio migliore di questa tipologia architettonica [fig. 28]. Il Tivanka, l’ultimo grande monumento del luogo, eretto nella parte settentrionale della città nel Jetavanarama fondato da Parakramabahu,

conserva l’aspetto che aveva alla fine del xiii secolo. Questo importante piúimage ospita una colossale statua del Buddha, in mattone stuccato, raffigurante il Beato in occasione della discesa dal cielo dei Trentatré dei. Per la prima volta a Polonnaruva, un corridoio che fa parte della muratura permetteva di compiere il giro intorno alla sala [fig. 30]. Grazie alla ricca decorazione stuccata e dipinta, ancora al suo posto, l’edificio facilita la ricostruzione di altri complessi architettonici conservati meno bene. Le facciate laterali [fig. 29] sono abbondantemente adornate con padiglioni celesti dalle tettoie sovrapposte e con nicchie contenenti dei devata in preghiera [fig. 31]. Benché rovinate dal tempo, queste figure, dal corpo longilineo e sinuoso, esibiscono un ancheggiare più o meno accentuato. Le estremità della cinta delle vesti sono agitate dal vento. Il fascino dei personaggi è aumentato da gioielli di vario tipo. Tutte le differenti pose di ognuno esaltano il miracoloso evento celebrato nella sala. Dipinti murali raffiguranti jataka abbelliscono le pareti del primo vestibolo, divisi in combinazioni e scanditi da pilastri a pezzi separati. Sui muri della galleria che precede la sala, eleganti devata rendono omaggio al futuro Buddha, alla sua penultima incarnazione [fig. 32]. Nonostante i soli tre colori a disposizione, giallo, rosso e verde, la gamma cromatica è assai ampia grazie all’impiego di semitoni. Le carnagioni danno l’impressione di un lieve rilievo. Le forme sono disegnate con molta morbidezza. Le pose si equilibrano vicendevolmente. A metà del xiii secolo Polonnaruva cessa di essere la capitale. Altre città più a sud saranno residenza della corte, senza beneficiare però di architetture comparabili a quelle di Anuradhapura o di Polonnaruva. I princìpi architettonici dell’India meridionale influenzano fortemente l’edilizia religiosa. Gli artigiani riproducono a volontà le immagini grazie a decalcomanie basate sui periodi precedenti. Soltanto dipinti murali quali quelli delle grotte di Dakbulla, conservatisi nelle condizioni in cui erano alla fine del periodo di Kandy (1480-1815 circa), caratterizzati da una vivacità popolare a volte piccante, e la scultura in avorio presentano un certo interesse. Questi due campi artistici rimangono tuttavia marginali nel complesso dell’arte buddhista.

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Il buddhismo e la sua arte, malgrado la loro presenza relativamente effimera nell’arcipelago indonesiano, conobbero lì uno dei loro apogei. Le vestigia più antiche

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1. Borobudur, terrazza superiore. 2. L’isola di Giava, luoghi dei maggiori monumenti.

I testi cinesi contengono informazioni preziose sulle origini del buddhismo a Giava. La scuola theravada sarebbe stata introdotta presso la corte di Shebo (Giava) dalla predicazione di un monaco di origine kashmira chiamato Gupavarman, il cui soggiorno lì si situerebbe fra il 396 e il 424. Questo monaco, appartenente all’ordine dei Sarvastivadin, riuscì a convertire prima la regina madre, quindi il sovrano del regno. Quest’ultimo fece costruire un vihara per ospitare la comunità fondata dal religioso, il quale avrebbe poi lasciato Giava per raggiungere la penisola indocinese. Faxian racconta che, nel ritornare in Cina nel 414, egli si fermò quattro mesi a ovest di Giava nel regno di Yebodi, dove una minoranza di credenti buddhisti si affiancava agli induisti e alla maggioranza di fede animista. Poche sono le vestigia di questo remoto periodo. Due statue di Buddha, di difficile datazione, sono state scoperte a Giava. Una, trovata a Kuta Blater (Giava orientale), è conservata presso il Museum van Aziatische Kunst di Amsterdam; l’altra, di provenienza sconosciuta, si trova al Rijksmuseum voor Volkenkunde di Leida. Importate o prodotte sul luogo che siano, esse sono debitrici nei confronti della estetica indiana. Giava divenne molto rapidamente un rinomato centro di studi buddhisti, visitato volentieri da pellegrini cinesi, quali Yijing, nel corso del loro viaggio in India. È attestata la presenza, assieme alla scuola theravada, del Mahayana e del Vajrayana. Nessuna architettura tanto antica è sopravvissuta, in quanto i materiali utilizzati erano deperibili. Le più antiche sculture in metallo scoperte nell’arcipelago indonesiano lasciano intuire che le fonti di ispirazione furo-

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no varie, e pongono il delicato problema del luogo di fabbricazione e del loro percorso in Asia sudorientale. Un Buddha in piedi, in bronzo dorato, del vii secolo, scoperto a Manyargading (Jepara), è strettamente imparentato, ad esempio, con l’arte di Dvaravati [fig. 3], ma il modo in cui il soprabito (uttarasapga) si avvolge attorno al polso sinistro non è comune nell’arte mon della Thailandia antica. Un altro Buddha, scoperto a Kota Bangun, nella parte orientale dell’isola di Kalimantan [fig. 4], che fa, come l’altro, il gesto dell’insegnamento e tiene in mano la ciotola per l’elemosina, potrebbe essere più recente (vii-viii secolo). Il torso e il ventre, dalle agili forme intuibili sotto il vestito che li avvolge, rimanda a prototipi gupta. Le forme spigolose del viso prefigurano l’estetica pala dei secoli ix-xi. Le influenze dell’India meridionale, pallava fra le altre, attestate con chiarezza nelle opere induiste, traspaiono poco nella produzione buddhista, in quanto per le comunità monastiche i legami con l’India settentrionale erano molto più forti dei rapporti con il sud del subcontinente indiano.

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Gli Cailendra (viii-ix secolo) L’arte buddhista indonesiana vera e propria non inizia che con l’ascesa al potere della dinastia degli Cailendra nel centro di Giava alla metà del secolo viii. La storia di questa famiglia resta poco conosciuta, ma il suo splendore è documentato dall’importanza dei monumenti che essa stessa o i vassalli, i principi di Sapjaya, fecero erigere. La loro ascesa corrisponde a una fioritura senza precedenti del buddhismo vajrayana. I monumenti prodotti dai seguaci del Buddha nel corso di circa un secolo sono molto più numerosi dei santuari induisti. La genesi dell’architettura degli Cailendra resta sconosciuta poiché nulla, a causa della deperibilità dei materiali, resta di ciò che c’era precedentemente. Essa ci si presenta pertanto come un assieme già costituito. Alla perfezione delle forme corrisponde una estrema diversificazione del vocabolario decorativo. La costruzione dell’immenso stupa di Borobudur domina il periodo. Si ignora su quale venerabilissima reliquia il complesso monumento sia stato eretto. Esso, come i resti archeologici ritrovati nei dintorni lasciano ipotizzare, era una importante meta di pellegrinaggi. Anche il nome, «Borobudur«, deformazione di un antico epiteto, è oggetto di discussione. Po-

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5. Visione di assieme del Borobudur, ix secolo.

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6., 7. Veduta aerea e pianta del Borobudur, ix secolo. 8. Borobudur, ix secolo. 8

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trebbe trattarsi di una forma abbreviata della espressione Bhumisambharabhudhara («monastero della accumulazione delle virtù nelle dieci tappe di bodhisattva«). Una collina sterrata e riempita con terrazzamenti di terra battuta forma il cuore del tumulo [figg. 6-7]. Il complesso, rivestito di blocchi di andesite, costituisce una vasta struttura dalla planimetria squadrata,

3. Buddha, vii secolo. Giacarta, Museo Nazionale (provenienza Manyargading). 4. Buddha, bronzo, vii-viii secolo. Giacarta, Museo Nazionale (provenienza: Kota Bangun).

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orientata in funzione dei punti cardinali, che misura 113 metri di lato e 42 in altezza, per un totale di 5.500 metri cubi di pietra. Quattro scalinate assiali intersecano quattro terrazze squadrate che si innalzano una rispetto all’altra, permettendo di raggiungere la quinta terrazza in cima, anch’essa di pianta squadrata. Le quattro terrazze inferiori hanno dei corridoi all’aperto che fanno il giro del monumento [fig. 9]. La loro parete interna è costituita dal bordo della base della terrazza superiore, e all’esterno hanno un alto parapetto che nasconde la vista dei dintorni. Cinque chilometri di bassorilievi, divisi in 1.460 pannelli istoriati e 1.211 rilievi decorativi, adornano le pareti dei corridoi. Delle nicchie si aggiungono ai muri esterni. In cima all’edificio tre terrazze circolari fanno da base a settantadue stupa traforati. Uno stupa centrale domina la gigantesca costruzione. La sua dimensione, modesta rispetto a quella delle molte basi, rende possibile il dispiegamento di un programma iconografico rigoroso e puntuale che pone ancora numerosi problemi agli specialisti. La planimetria evoca il disegno di un mapdala del buddhismo esoterico. Il fedele si addentrava nel monumento senza avere contezza delle dimensioni. Percorrere i corridoi in senso pradaìsipa gli permetteva di attraversare i vari stadi dell’universo sensibile, e poi del mondo puramente spirituale [fig. 10]. Le nicchie dei muri esterni contengono statue di buddha ricche di legami con questi differenti livelli [fig. 8]. Un’altra terrazza ancora, alla base del monumento, abbraccia l’intero tumulo. Essa nascondeva, fino alla loro scoperta e documentazione fotografica nel 1885, centosessanta bassorilievi, in parte incompiuti, che raffigurano scene del

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9. Primo corridoio, Borobudur, ix secolo. 10. Sezione del Borobudur, ix secolo. 11., 12. Le cause e gli effetti del bene e del male, scene del Mahakarmavibhapgga, ix secolo. Borobudur, terrazza inferiore.

Terrazze circolari

arupadhatu

rupadhatu

Kamadhatu

13. Arco con una testa di kala, Borobudur, ix secolo, scala assiale.

Terrazze quadrate

14. In primo piano: gli dei si apprestano ad accompagnare il bodhisattva sulla terra per la sua ultima reincarnazione; in secondo piano: il sogno di Maya, ix secolo. Borobudur, primo corridoio.

Mondo della non-forma e della non-apparenza

Mondo delle forme e delle apparenze

Mondo delle passioni

Basamento

mondo dei desideri (kamadhatu), descrivendo i vari atti derivanti dalla voglia di godimento e che alimentano senza fine la concatenazione delle cause e degli effetti [figg. 11-12]. Brevi iscrizioni indicano il tema delle scene, descritte nel Mahakarmavibhapgga (L’Annientamento del grande Karman), uno dei grandi classici buddhisti. Alcuni di questi bassorilievi sono stati spostati nell’angolo sudest in occasione dell’ultimo restauro del xx secolo. Si è dissertato a lungo a proposito dei motivi che condussero alla edificazione di questa terrazza supplementare. Il carattere apologetico dei temi raffigurati nei bassorilievi, fondamentali nell’insegnamento di ogni scuola buddhista, impedisce di credere che li si sia nascosti per motivi religiosi. C’è chi pensa che la terrazza inferiore fosse il primo stadio di un nuovo Borobudur, ancora più colossale, che avrebbe interamente ricoperto la struttura oggi nota. L’ipotesi dell’allargamento, coerente con la logica della tradizione buddhista di avvolgere gli stupa in stupa più grandi in ragione delle donazioni, cozza però con una obiezione: la terrazza inferiore non alloggia né pilastri abbozzati grossolanamente né un corredo di pannelli adatti a essere in un futuro scolpiti. La sua parete del tutto liscia non rientra nei canoni ben noti del modo di procedere dei laboratori artigianali. L’installazione di eventuali decorazioni era abbozzata in grosse masse geometriche già al momento della costruzione, prima della lavorazione definitiva che veniva fatta quando il blocco era stato messo al proprio posto. La massa alla base del monumento è stata, più verosimilmente, aggiunta per motivi tecnici, come contenimento della enorme quantità di pietra, prima dell’ultimazione dei lavori, quando i bassorilievi della

base non erano ancora finiti. Servendosi delle scalinate assiali, scandite a ogni piano da monumentali archi decorati dal volto minaccioso di un mostro protettore (kala) [fig. 13], il visitatore raggiunge i corridoi delle prime quattro terrazze. Nella cosmografia buddhista esse corrispondono al mondo della forma e del concetto (rupadhatu). I bassorilievi del primo piano hanno per tema le esistenze precedenti (jataka e avadana) e l’ultima vita terrena di Vakyamuni [fig. 14]. Jataka e avadana si mescolano senza distinzioni, anche se i jataka sono raffigurati quasi esclusivamente sulla

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parte superiore della balaustra. Fra gli avadana meglio illustrati bisogna citare il Sudhanakumara avadana (Le Sante Azioni del principe Sudhanakumara), e il Rudrayana (La dottrina di Rudra). La serie di pannelli che presenta vari eventi, dal concepimento del Beato fino al primo sermone, si rifà a una versione del Lalitavistara. All’esterno, le nicchie di questo piano contengono le statue dei buddha storici: Kanakamuni a est, Kavyapa a sud, Vakyamuni a ovest e Maitreya a nord. Questi salvatori incarnati possiedono corpi di natura, come l’assieme del mondo sensibile, illusoria (nirmapakaya). I bassorilievi dei corridoi della seconda terrazza raffigurano degli episodi del Gapdavyuha [fig. 16]. Questo testo sanscrito narra la ricerca del giovane Sudhana, figlio di un ricco mercante, partito in cerca della verità assoluta dopo il proprio incontro con il bodhisattva Mapjuvri. Sudhana percorre l’universo, ponendo interrogativi a vari maestri spirituali, ognuno dei quali gli dice a chi rivolgersi di seguito per avere risposte mano a mano più difficili, nessuna delle quali lo soddisfa però pienamente. Nella sequenza di guru, che comprende anche qualche raro personaggio femminile, si distinguono Avalokitevvara e il dio dell’induismo Viva-Mahadeva. Il racconto del Gapdavyuha prosegue su mura e balaustre del terzo e quarto corridoio, con episodi tratti dal Bhadracari (Il Buon viaggiatore). I bassorilievi del terzo corridoio sono, ad esempio, dedicati agli innumeri miracoli di Maitreya. Sudhana, molto impressionato dai prodigi, non afferra realmente ciò che gli accade. Sui bassorilievi del quarto corridoio, Sudhana si reca presso la residenza del bodhisattva Samantabhadra, raffigurato con in mano uno stelo che sostiene tre boccioli di fiori. In tutto l’edificio la scultura ornamentale mostra la stessa cura dei rilievi narrativi [fig. 17]. Le nicchie, sulla parte esterna dei parapetti di questi tre piani di corridoi, ospitano le statue dei jina: Akxobhya a est, Ratnasambhava al sud, Amitabha a ovest e Amoghasiddhi al nord, ciascuno dei quali esegue il mudra che lo caratterizza. Al di sopra dei corridoi, il parapetto che perimetra la piattaforma squadrata più elevata ha la propria serie di nicchie consacrate a Vairocana, jina del centro, superiore a tutti gli altri. Questi buddha vittoriosi possiedono corpi di godimento (sakbhogakaya), visibili ai bodhisattva e ai fedeli. La parte superiore del monumento corrisponde all’Arupadhatu, «mondo senza forma«, di pura intellettualizzazione [fig. 15]. Le terrazze

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15. Terrazza superiore con stupa traforato, ix secolo. Borobudur. 16. Scena di rilassamento, ix secolo. Borobudur, secondo corridoio. 17. Gargouille, ix secolo. Borobudur.

circolari contengono settantadue stupa traforati che ospitano delle statue di un medesimo buddha che esegue il dharmacakra mudra. Molti autori credono di potere riconoscere in lui Mahavairocana, forma trascendente di Vairocana [figg. 15, 18]. Al centro della composizione si erge uno stupa alto otto metri corrispondente al dharmakaya, principio supremo del buddhismo mahayana e vajrayana. Come nei grandi stupa nepalesi, il Buddha supremo nato da se stesso (adibuddha) non è raffigurato. Questa struttura centrale è cava. In origine le pareti non avevano ingressi. È logico pensare

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18. Mahavairocana e stupa traforati, ix secolo. Borobudur, terrazza superiore. Nella doppia pagina seguente: 19. Composizione superiore: Siddhartha incontra un vecchio. Composizione inferiore: Vibi jataka, ix secolo. Borobudur, primo corridoio. 20. Rilievo narrativo e stupa. Borobudur, corridoio delle terrazze quadrate.

che questo enorme volume fosse stato alleggerito al massimo per ragioni di peso, in maniera analoga alle torri curvilinee (vikhara) dell’architettura induista. Durante la prima metà del secolo xix, per compiacere gli archeologi, si sventrò la parete e dentro si piazzò una statua di Akxobhya, antica ma non proveniente dal monumento. Questo spazio centrale ospitava forse un deposito sacro, ormai da tempo saccheggiato, qualche importante reliquia venuta dall’India oppure magari qualche testo particolarmente venerato. Il monumento – artisticamente privo di qualsivoglia simbolismo sessuale e macabro e di qualsiasi divinità guardiana e tutelare – è la testimonianza di una fase primordiale del buddhismo vajrayana, originario senza dubbio di Nalanda. Il Borobudur non costituisce un monumento isolato ma è corredato da due piccoli santuari, Capdi Mendut e Capdi Pawon [fig. 27]. Queste cappelle fungevano forse da luogo di sosta per i pellegrini che traversavano, in virtù del loro viaggio devozionale, i dieci stadi del bodhisattva (Davabodhisattvabhumi). Le iscrizioni sui bassorilievi nascosti dal basamento inferiore (800 circa?), così come quella datata 824 del Capdi Mendut, costituiscono indizi preziosi per la cronologia del monumento. I colossali lavori che permisero l’erezione del Borobudur devono essere durati numerosi anni. Incominciati alla fine

del secolo viii, essi proseguirono almeno durante tutta la prima metà del secolo successivo. La pietra vulcanica scabra e grigiastra era un tempo rivestita da stucchi policromi di cui esistono ancora rare vestigia. La grande tradizione classica indiana dell’epoca gupta e dell’inizio della dinastia pala ha influenzato fortemente la scultura del Borobudur [figg. 21-24]. I bassorilievi, di forte espressività, sono strutturati con cura. I protagonisti, dalle pose eleganti e composte, sono ripartiti secondo un ordine rigoroso. Numerose figure secondarie, in pose svariate, conferiscono maestosità agli episodi raffigurati. I loro gesti si concertano in sapienti ritmi che alternano le forme in una modulazione quasi musicale. I volti, lievemente infantili, evocano canoni indiani dei secoli vii e viii. Alcuni chiari elementi della ambientazione permettono di individuare i vari episodi [fig. 19]. I pannelli puramente ornamentali sono stati eseguiti con notevole perfezione. Nonostante questa estrema armonia le decorazioni scolpite rivelano importanti differenze nella fattura, dovute ai temi trattati – che richiedono un sentimento lirico modulato oppure al contrario un aspetto più o meno marcatamente spoglio –, alle tradizioni dei laboratori artigianali, o a iati cronologici. Le decorazioni del primo e del secondo corridoio sono le più complete. Quelle dei corridoi superiori prefigurano, per alcuni dettagli ornamentali, l’arte induista di Prambanam (prima del 929).

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25. La dea Cunda assistita da due bodhisattva, inizi ix secolo. Capdi Mendut.

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26. Capdi Mendut, inizi ix secolo. 27. Carta dei dintorni del Borobudur.

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29. Capdi Mendut, inizi ix secolo.

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21. Maya in viaggio per Lumbini, ix secolo. Borobudur, primo corridoio.

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28. Vakyamuni. Capdi Mendut.

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ale dei tre monumenti. Può darsi che la scena rappresenti il primo sermone di Vakyamuni, nel qual caso il Buddha sarebbe affiancato da Avalokitevvara Lokevvara e da Vajrapapi. Non mancano tuttavia autori che hanno voluto vedere in quest’ultimo personaggio Manjuvri. Le interpretazioni sono varie anche per quanto concerne la decorazione dei tre muri ciechi esterni [fig. 25]. Alcune dee, fra cui Cunda – in tale contesto paredra di Avalokitevvara – ne occupano il centro. Su ciascuna delle facciate due bodhisattva completano la composizione. Le otto divinità così raffigurate sono conformi alla lista più comune del Mahayana e del Vajrayana: Avalokitevvara, Akavagarbha, Vajrapapi, Kvitigarbha, Sarvanivarapaviskambhim, Maitreya, Samantabhadra e Manjuvri. Nubi abitate da vidyadhara, baldacchini riccamente ornati, sospesi nel vuoto, alberi dal fogliame stilizzato animano questi grossi pannelli il rilievo dei cui personaggi è più o meno sbalzato. La loro faccia paffuta, quella delle divinità principali all’interno dell’edificio in particolare, ricorda l’estetica indiana. I pannelli puramente orna-

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Secondo la dottrina dei dieci stadi della carriera dei bodhisattva, Capdi Mendut, a tre chilometri dalla collina sacra, e Capdi Pawon costituirebbero due tappe preparatorie (laukika) del percorso del pellegrinaggio [fig. 29]. Nel 1908, i lavori di anastilosi condotti su Capdi Mendut hanno rivelato che la costruzione del santuario è avvenuta in due momenti. Un primo edificio in mattone, finito ad eccezione degli ornamenti scolpiti, venne inscatolato in un secondo tempio in pietra, di maggiori dimensioni. La costruzione, di pianta squadrata, poggia su di una ampia terrazza molto elevata [fig. 29]. Piccoli stupa, ispirati alla miniaturizzazione di edifici nell’architettura indiana, stanno sui gradoni che fanno da tetto. Uno stupa di grosse dimensioni un tempo sovrastava il monumento. All’interno una statua di Buddha di enormi dimensioni, seduta a gambe sospese (pralambapadasana), fa il gesto di «fare girare la Ruota della Legge« [fig. 28]. Due bodhisattva gli fanno compagnia. Si tratta di un gruppo di non semplice identificazione, il che condiziona in parte la comprensione del significato gener-

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Borobudur Wetan Borobudur

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22. Principe che tende l’arco, ix secolo. Borobudur, primo corridoio. 23. Composizione superiore: Vakyamuni mentre attraversa il fiume Nairanjana e mentre cammina sulle acque; composizione inferiore: arrivo del ministro Hiru a Barakachcha, ix secolo. Borobudur, primo corridoio. 24. Bodhisattva, scena dal Samantabhadra pranidhana, ix secolo. Borobudur, quarto corridoio.

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35. Tempietto, ix secolo. Capdi Sewu. 36. Guardiano inginocchiato, ix secolo. Capdi Plaosan. 37. Capdi Plaosan. 32

mentali sono consoni alla raffinatezza artistica del Borobudur [fig. 26]. Altri monumenti di Giava centrale Più a oriente, nella vallata ove al principio del x secolo si ergerà il grosso complesso induista di Prambanam, si trovano numerosi monumenti buddhisti, la cui densità dimostra che la regione era densamente popolata. Capdi Kalasan, fondato nel 778, ci è pervenuto nello stato in cui era a metà del secolo ix. La sua struttura a croce greca contiene tre sale che una volta erano occupate da grandi statue di bronzo. In alto sottili passaggi modellati conducono l’occhio di questo spazio cruciforme a un tamburo ottagonale e, in cima, alla base circolare di uno stupa centrale [fig. 30]. I muri

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esterni [fig. 31] sono finemente decorati con girali, ispirati alla flora, cesellati con delicatezza in leggero rilievo. Maschere di kala, espressive benché stilizzate, sovrastano colossali nicchie destinate a ospitare grandi statue divine, oggi scomparse. Capdi Sari e Capdi Plaosan [fig. 37], preziose testimonianze contemporanee di Capdi Kalasan attraverso cui possiamo ricostruire l’architettura del tempo in materiali deperibili, hanno una struttura a un solo piano. Capdi Plaosan [fig. 32] è attorniato da cinquantotto tempietti e da cinquantotto stupa ripartiti con ordine dentro una cinta ester-

na quadrangolare. Al centro del complesso il tempio medesimo si divide in due edifici costituiti ciascuno da tre sale circondate da una recinzione interna. Questa struttura a scacchiera raggiungerà l’apogeo nello Capdi Sewu, gigantesco mapdala al livello del suolo, dal disegno squadrato, dedicato senza alcun dubbio a Vajradhatu, aspetto sublimato di Vairocana. Il monumento si erge sul luogo di una struttura più antica, essa stessa abbellita nel 792. Come la maggioranza degli altri santuari buddhisti di Giava centrale, Capdi Sewu è della fine del ix secolo. Un corridoio circonda la sala centrale, e serve anche a raggiungere quattro cappelle dedicate ai quattro jina, alla loro paredra e a quattro divinità dal nome in vajra [fig. 33]. Duecentoquaranta tempietti ricoperti da tetti in parte modellati e con piccoli stupa agli angoli, in parte a forma di un unico stupa di grosse dimensioni, attorniano la struttura centrale [fig. 35]. Le nicchie delle varie edicole contenevano un tempo raffigurazioni di diverse divinità del mapdala di Vajradhara. Tutte quelle statue in bronzo sono scomparse. Guardiani inginocchiati proteggono l’entrata. La loro espressione violenta e la loro anatomia decisamente poco proporzionata prefigurano l’estetica di Giava orientale [fig. 36]. Sopravvivono numerose statuette metalliche dei secoli viii e ix, per lo più di ottima fattura. Si tratta di opere ispirate al medesimo gusto estetico, fortemente influenzato dall’India, dei grandi monumenti della stessa epoca. Il loro stile presenta comunque sapienti modulazioni.

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30. Capdi Kalasan, metà ix secolo. 31. Particolare dei muri esterni, metà ix secolo. Capdi Kalasan. 32. Pianta di Capdi Plaosan. 33. Pianta di Capdi Sewu, ix secolo. 34. Prambanam e dintorni.

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Per grosse linee possiamo catalogarle in due grossi gruppi. Uno, probabilmente il più antico, risale forse ai secoli viii e ix. I personaggi hanno le forme rilassate delle sculture in pietra del tempo. Un grande Avalokitevvara scoperto a Tekaran (Wonogini) e conservato presso il Museo Nazionale di Giacarta fornisce un buon esempio di questa produzione [fig. 39]. I gioielli dorati si adagiano con un sapiente gioco sul corpo argentato, testimoniando una predilezione per le materie preziose. Alcuni esemplari più recenti (ix-inizio del x secolo) devono molto ai bronzi pala. È il caso di un Buddha, seduto su di un trono decorato con numerosi animali, conservato presso il Rijksmuseum voor Volkenkunde di Leida [fig. 38]. Il corpo slanciato del Beato e il movimento assai pronunciato dei leogrifi all’altezza delle braccia ricordano i bassorilievi della fase induista dell’arte della

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parte centrale di Giava. Della stessa epoca sopravvivono anche alcuni oggetti di estrema perfezione della liturgia tantrica [fig. 42]. Una campana, in possesso del Rijksmuseum di Amsterdam, obbedisce alla stessa logica simbolica delle campanelle del buddhismo tibetano ed evoca, in questo caso tramite dei volti, le quattro grandi prajna, paredre dei jina. All’interno delle punte ricurve del vajra superiore, in una espressione artistica che ricorda i petali di un mapdala in bronzo a forma di loto fiorito di epoca pala, appare una delle assistenti della dea suprema. Alla fine del ix secolo, l’induismo godette a propria volta della protezione delle corti dinastiche. Una notevole attività di mecenatismo portò alla costruzione di grandiosi templi caratterizzati da una costante tensione decorativa. Balitung (899-910 circa) e il suo effimero suc-

40. Vajrantya, bronzo, inizio x secolo. Surucolo, Suaka Peininggalan Sejarah dan Purbakala, Diy, Bogèm, Kalasan.

38. Buddha seduto su un trono, bronzo, ix secolo. Leida, Rijksmuseum voor Volkenkunde. 39. Avalokitevvara, bronzo dorato, viii-ix secolo. Giacarta, Museo Nazionale (provenienza Tekaran).

41. Hayasya (?), bronzo, inizio x secolo. Surucolo, Suaka Peininggalan Sejarah dan Purbakala, Diy, Bogèm, Kalasan. 42. Campana, bronzo, ix-x secolo. Amsterdam, Rijksmuseum (Society of Friends of Asiatic Arts Collection).

cessore Daksa (913-919), due principi vassalli sia degli Cailendra sia dei Sapjaya erigono, non lontano da numerose fondazioni buddhiste dell’epoca degli Cailendra, l’immenso complesso vivaita di Prambanam (prima del 929). Senza rompere con i canoni dell’epoca precedente la scultura offre scene estremamente drammatiche, popolate da personaggi in posture molto dinamiche. Alcune statuette buddhiste del principio del x secolo fanno parte di questa arte «baroccheggiante«. A Surocolo (Giava centrale) si sono scoperte, interrate dentro una giara, ventidue statuette buddhiste provenienti da uno o più mapdala. La maggioranza delle divinità è seduta nella posizione del diamante su seggi di loto, ma alcuni personaggi – segnatamente Hayasya, «dea dalla testa di giumenta« (? [fig. 41]), e Vajrantya [fig. 40], raffigurate in una frenetica danza – sono in piedi, in un

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modo che enfatizza la caratteristica longilinea degli arti. Giava orientale Nel 929 il re Sindok sposta la capitale nella parte orientale di Giava, regione meno esposta agli attacchi delle armate di Vrivijava, potente impero marittimo. Al regno di Kediri (1016-1222) fanno seguito quelli di Singhasari (1222-1295) e di Mojopahit (1293-1520 circa). Nel corso di questo lungo periodo il buddhismo sembrerebbe avere conservato tutta la propria importanza nonostante le corti regali privilegino il culto induista. Le fonti storiografiche delle epoche di Singhasari e di Mojopahit permettono di distinguere una tendenza duplice. È attestata in primo luogo la presenza della scuola kalacakra. Krtanagara (1268-1292), l’ultimo sovrano singhasari, sarebbe stato un seguace di questo culto tantrico, e Capdi Singhasari ne perpetua la memoria. Non sopravvivono fondazioni monastiche del tempo, costruite in materiali deperibili con la eccezione del tempio funerario di Capdi Sing-

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hasari, eretto verso il 1300. Questo edificio in pietra, dalla concezione originale, si inserisce in un assieme di piccole costruzioni rese necessarie dalla complessità dei locali riti funerari, in particolare i dodici che fanno seguito alla cremazione del sovrano. La maggior parte di queste cappelle mostra delle distorsioni a fini espressivi degli schemi architettonici e ornamentali dell’arte della fine del periodo di Giava centrale (ix secolo). Il santuario [fig. 43], cinto da un gioco di basi rialzate, è dominato da una sala finta con tanto di porte fittizie sulle facciate. La monumentale statuaria, quale quella delle colossali maschere di kala dall’aspetto «barocco« che sovrastano gli ingressi, contrasta con la perfezione un poco fredda di una delle statue di culto, la meditabonda Prajpaparamita [fig. 44]. Si tratta di una celebre opera, conservata a lungo presso il Rijksmuseun voor Volkenkunde di Leida prima di essere restituita allo Stato indonesiano, che documenta una sorta di «revival neoclassico« della grande arte di Giava centrale. Il lento istaurarsi di una tendenza al sincretismo fra buddhismo tantrico e shivaismo, due culti in

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44. Prajpaparamita, pietra, 1300 circa. Giacarta, Museo Nazionale (provenienza: Capdi Singasari).

apparenza inconciliabili, costituisce la seconda caratteristica di questo lungo periodo. Le due comunità clericali, che assunsero un ruolo quasi di funzionariato, e l’importanza dei rituali religiosi nella vita cerimoniale dei monarchi favorirono la fusione. I poeti di corte del xiv secolo, Prapanca ad esempio, sovrintendente del clero buddhista, esaltano una entità immateriale e onnisciente chiamata Viva-Buddha. Una statua di Mahakala, alta quasi quattro metri, costituisce una delle ultime creazioni dell’arte buddhista indonesiana (metà del xiv secolo). Scoperta a Sungai Langsat, al centro di Sumatra, e conser-

vata presso il Museo Nazionale di Giacarta, essa è forse la statua di apoteosi di Adityavarman, un principe di Sumatra vassallo di Mojopahit: il sovrano dopo la morte «si fonde« nella sua divinità prediletta. L’iconografia della divinità adirata è conforme ai canoni fissati nel ix secolo dall’arte pala del Bihar. Una piccola immagine del jina Akxobhya nella crocchia sottolinea l’appartenenza della divinità al buddhismo. A causa della monumentalità e del vigore che emana, l’opera è straordinariamente espressiva. Nel xv secolo, strati sempre più consistenti della popolazione abbandonano le religioni di origine indiana, fra le quali il buddhismo, e si convertono spontaneamente all’islam.

43. Capdi Singhasari, 1300 circa.

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L’IMPERO KHMER

Nelle antiche regioni khmer, il buddhismo occupa una posizione quasi paradossale. Molto presente ai tempi delle origini e nel periodo della sua ultima fioritura, esso ha lasciato solo esigue testimonianze quando l’Impero attraversava le fasi della fondazione e dell’apogeo. Una prima fioritura

1. Torre volto, fine xii-inizio secolo. Angkor Thom, Bàyon. xiii

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2. La regione dell’Impero khmer, nel bacino del fiume Mekong.

Come in altri paesi del Sud-Est asiatico, i delta dei grossi fiumi hanno lasciato importanti tracce di antichi centri urbani resi prosperi dal commercio internazionale. È così nel corso dei primi secoli dell’era cristiana anche oltre le frontiere della moderna Cambogia, del delta del Mekong, in Cocincina. Monete con l’effige di imperatori romani, Antonino Pio (96-131) ad esempio, e pietre preziose provano l’esistenza di scambi indiretti con le regioni geografiche più lontane. Fra gli oggetti di origine indiana una testa in bronzo di Vakyamuni, forse del Gandhara, ritrovata a Phnom Bathe, rivela l’antichità della presenza del buddhismo nella regione, benché queste uniche vestigia non abbiano alcun rapporto con le raffigurazioni religiose posteriori. Il sito archeologico di Oc-èo – centro urbano, è dato pensare, di prima importanza del regno del Funan (secoli i-vi circa) – ha fornito solo pochissime testimonianze monumentali costruite in materiali non deperibili. Degno di nota è l’edificio A, orientato su di un asse est-ovest, dotato di imponenti fondamenta in mattone che corrispondono alla base di uno stupa. A Nui Sam sono stati scoperti due finti lucernai in stucco, databili forse ai secoli v e vi. Essi provengono da un edificio religioso di incerta affiliazione dottrinaria. Verso l’alba del v secolo il buddhismo cambogiano inizia a essere bene documentato nella letteratura cinese. All’epoca del re Kaupdinya-Jayavarman (478514 circa), che intratteneva regolari rapporti con la Cina, Nagasena, un monaco buddhista indiano, dona all’imperatore, come regalo da parte del proprio monarca, delle statue di Buddha prodotte nel Funan. Non è tuttavia rimasto nulla di questa produzione antica. La lacunos-

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6. Testa di Maitreya, bronzo, viii secolo. Bangkok, Museo Nazionale (provenienza: Ban Tanot).

3. Testa di Buddha, grès, vi (?)-vii secolo. PhnomPenh, Museo Nazionale (provenienza: Vat Romlok [Angkor Borei]). 4. Buddha seduto in meditazione, grès, vii secolo. Phnom-Penh, Museo Nazionale (provenienza: Phum Thei [Kompong Spu’].

ità di opere del tempo potrebbe essere dovuta a una persecuzione antibuddhista, di cui si trova menzione negli scritti del pellegrino cinese Yijing. Le prime sculture rimaste risalgono ai secoli vi e vii. Molte delle meglio riuscite provengono dal monastero Vat Romlok di Angkor Borei, dove esse sono state raccolte nel corso dei secoli. Altre sono state scoperte nella stessa regione. Si tratta di ritrovamenti che confermano l’esistenza di un vero e proprio centro di produzione locale. Le statue di buddha sono profondamente diverse dalle loro contemporanee, di forme stilizzate e maestose, prodotte dalla devozione induista di Phnom Dà (vii secolo). Esse, esteticamente differenti anche dagli elementi architettonici decorativi di Sambor Prei Kuk, un tempo Ivanavarman (616-635 circa), capitale del re di Zhenla, testimoniano una discreta varietà stilistica. Si è tentato di catalogarle in più gruppi in base ai dettagli o ai tipi di drappeggio dell’uttarasapga. La maggioranza si riaggancia a prototipi originari dell’India meridionale oppure di Ceylon [figg. 3-4]. Sono riconoscibili anche alcune influenze dell’arte gupta: la veste non ha le pieghe comunemente presenti nei drappeggi di Amaravati o di Anuradhapura. Il buddha di Phum Thmei (Kong Pisei, Kompong Spu’), conservato presso il

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7. Buddha in piedi, legno, vii secolo (?). Saigon, Museo Nazionale (provenienza: Cong Nguyen).

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8. Avalokitevvara, bronzo, vii secolo. Phnom-Penh, Museo Nazionale. 7, 8

5. Buddha in piedi, grès, inizio vii secolo. PhnomPenh, Museo Nazionale (provenienza: Vat Romlok [Angkor Borei]).

Museo Nazionale di Phnom-Penh [fig. 4], è tipico delle opere dell’epoca. Il viso, con gli occhi socchiusi e l’impercettibile freddo sorriso, ricorda l’arte di Ceylon. Il torso modellato con cura, la cintura carnosa all’altezza della vita, percettibile attraverso la stoffa del vestito, il lembo del mantello monastico che ricade dal braccio sinistro sulla coscia, evocano una certa tendenza «naturalista« propria dell’arte khmer. Le gambe invece sono molto geometriche, alla maniera delle statue induiste dello stile di Phnom Dà del vii secolo. Da notare la forma originale dei motivi floreali stilizzati del seggio. Quest’ultimo, più stretto del personaggio seduto, rappresenta una rarità nell’ambito artistico indiano. Egualmente rimarchevole l’assenza di urpa sulla fronte del Beato. Si tratta di una particolarità iconografica costante dell’arte buddhista in Cambogia. Un celebre buddha in piedi, proveniente dal Vat Romlok e conservato presso il Museo Nazionale di Phnom-Penh [fig. 5], sembrerebbe di poco più tardo (seconda metà del vii secolo). L’accentuato ancheggiare gli conferisce una posa davvero originale nell’ambito della produzione preangkoriana. Il drappeggio attillato al corpo alla maniera della scuola di Sarnath in epoca gupta (iv-vi secolo) si adatta alle forme dai volumi nel contempo fluidi e contrastati. Nonostante la perdita delle braccia, si può supporre che Vakyamuni eseguisse l’abhaya mudra con la mano destra e che tenesse con la mano sinistra l’estremità del soprabito monastico, come in numerosi esempi indiani. Alcuni rari buddha in legno, di grosse dimensioni, conservati presso il Museo Nazionale di Ho-chi minh City-Saigon, si ricollegano a questa arte buddhista preangkoriana [fig. 7]. Molto ieratici, essi mostrano varie modulazioni stilistiche ispirate all’arte di Dvaravati del basso bacino del Menam (cfr. il capitolo Thailandia). Benché nel secolo vii esistessero grosse statue in bronzo, sono rimasti soltanto esemplari di piccole dimensioni. Alcune raffigurazioni di Avalokitevvara e di Maitreya attestano l’esistenza di fiorenti comunità del Mahayana. Sebbene stilisticamente esse non costituiscano un assieme omogeneo, rivelano numerosi elementi tratti dall’India meridionale, da Giava e dalla cultura di Dvaravati. Un piccolo Avalokitevvara conservato presso il Museo Nazionale di Phnom-Penh [fig. 8] si riaggancia indirettamente a questa ultima scuola. I tratti del viso spessi, il profilo del corpo semplificato, leggermente ancheggiante, sono caratteristiche che si riscontrano nella parte

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meridionale dell’odierna Thailandia. Gli archeologi sono soliti qualificare con l’etichetta «stile di Prei Khmeng« le opere di fine vii e viii secolo. Il secolo viii, storicamente poco conosciuto, sembrerebbe corrispondere a un declino del potere centrale. Ne sarebbe testimonianza una certa degenerazione delle statue induiste commissionate dalla corte. La congiuntura politica sfavorevole non influenza la totalità della produzione buddhista. Le opere in bronzo sono di notevole qualità. La rara testa di Maitreya scoperta a Ban Tanot e conservata

produzione di Vrivijava. Una religione emarginata

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presso il National Museum di Bangkok [fig. 6], pur essendo il frammento di una statua, rivela, nell’imponenza della dimensione, nella bocca carnosa e negli occhi un tempo rivestiti di altro materiale, la abilità tecnica del periodo. Esistono anche altre testimonianze di questo stile maestoso. A Prakon Chai, in territorio thai, un nascondiglio contenente parecchie centinaia di bronzi mette assieme le opere appartenenti allo stile di Dvaravati con quelle nello stile di Prei Khmeng. Fra le statue di piccole dimensioni

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9. Maitreya, bronzo, viii secolo. New York, The Asia Society, Collezione John D. Rockefeller iii (provenienza: Prakon Chai). 10. Buddha protetto dal naga, grès, seconda metà xi secolo. Phnom-Penh, Museo Nazionale (provenienza: Kompong Cham).

11. Buddha agghindato protetto dal naga, grès, prima metà xii secolo. Phnom-Penh, Museo Nazionale (provenienza: caverna della regione di Sisophon).

troviamo quelli che potrebbero essere considerati i capolavori di questo gruppo: il Maitreya della collezione John D. Rockefeller iii [fig. 9] e due bodhisattva con quattro braccia, uno del National Museum di Bangkok, l’altro del Metropolitan Museum of Art di New York. Un lievissimo sorriso traspare dai volti, i capelli, legati in un’alta crocchia, ricadono simmetricamente in una serie di boccoli intrecciati. Privi di gioielli, con indosso il succinto abito degli asceti, impercettibilmente ancheggianti, i bodhisattva mostrano la grazia un po’ manierata della

Nell’anno 802, il patrocinio di un culto regale vivaita sulla collina di Phnom Kulen da parte di Jayavarman ii (802-850) segna l’inizio di alcuni secoli di emarginazione del buddhismo rispetto all’induismo ufficiale. Si ignora del tutto il peso delle comunità e dei loro orientamenti dottrinali. Le poche costruzioni buddhiste del periodo angkoriano rimasteci sono indistinguibili dai santuari brahmanici. Il lessico architettonico decorativo è il medesimo. Va tuttavia segnalato il tempio di Bàt Chum, eretto da Kavindrarimathana, un ministro del re Rajendravarman (944-968). Tre torri-santuario vennero dedicate, nel 953, rispettivamente al Buddha, al bodhisattva Vajrapapi e alla dea Prajnaparamita. Sul rivestimento di una di esse è scolpito un cartiglio in cui petali di loto stilizzati si mescolano a bija. Bisogna attendere lo stile di Bàphuon (1060 circa) affinché i temi buddhisti emergano negli ornamenti architettonici, per esempio su di una traversa proveniente dal Pràsàt Chràp di Porsàt. Costruzioni specificamente buddhiste contemporanee del tempio di Angkor Vat (secondo quarto del secolo xii) vengono prodotte a partire dall’abituale lessico architettonico delle aree khmer. A Beng Mealea molteplici edifici, la cui destinazione è difficile definire, sono aggiunti all’interno e all’esterno dei recinti. A Pràsàt Sasar Sdam una sala con quattro pilastri monoliti ospitava uno stupa. Alla fine del x e durante tutto il secolo xi, nuove raffigurazioni del Buddha fanno la loro comparsa. Isolate e destinate certamente a santuari costruiti in materiali deperibili, esse contrastano con i grandi complessi induisti commissionati dalla monarchia. Una iconografia, marginale in India, mostra Vakyamuni in meditazione durante la sesta settimana dopo il Risveglio. Seduto nei pressi di un lago, immerso nella profondità mistica, egli è protetto dalle piogge torrenziali da parte del serpente Mucilinda (o Mucalinda) che lo eleva al di sopra delle acque con le sue numerose spire e lo protegge coprendolo con le proprie sette teste. Nelle regioni khmer, questa particolare iconografia acquisterà una importanza sempre maggiore, fino a diventare il simbolo del buddhismo. Una statua, del 1060 circa, proveniente da Kompong Cham e conservata presso il Museo Nazionale di Phnom-Penh si riaggancia allo stile del Bàphuon [fig. 10]. Il mento segnato nel mezzo da

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una fossetta e gli occhi dai contorni semplicemente incisi caratterizzano la produzione del terzo quarto del secolo xi. Il busto e le braccia sembrerebbero nudi, ma un sottile rilievo alla base del collo suggerisce la presenza di un abito, trasparente e impalpabile, perfettamente aderente al corpo. Sicura conseguenza di una contaminazione induista, la tradizionale pettinatura a boccoletti ha lasciato il posto a sottili trecce tirate all’indietro. La crocchia a forma di cono è punteggiata di spille. Nella parte alta della fronte una sottile fascia preziosa copre la radice dei capelli. Questi gioielli sono ancora molto discreti. Nell’epoca di Angkor Vat (prima metà del secolo xii), un ricco diadema e un copricapo conico sopra la crocchia con raffinate decorazioni in lieve rilievo trasformano numerosi buddha seduti sul naga in veri e propri buddha acconciati con le apparenze di un cakravartin. Uno dei più maestosi, conservato presso il Museo Nazionale di Phnom-Penh, proviene da una grotta della regione di Sisophon [fig. 11]. L’opera, decisamente ieratica, unisce a una semplificazione dei volumi una estrema raffinatezza nella esecuzione dei dettagli.

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a sé le truppe fedeli e respinge l’invasore in un sussulto di orgoglio nazionale. Si fa incoronare con il nome Jayavarman vii («Protetto della vittoria« [1181-1219 circa]). Con alcune fulminee campagne militari ricostituisce l’Impero, che sotto il suo regno raggiungerà la massima espansione. Egli sviluppa un sistema di irrigazione complesso e dota il paese di una rete di ospedali e di istituti di beneficenza. Restaura la maggior parte dei monumenti eretti dai predecessori e in trenta anni fa edificare altri monumenti, numerosi quanto quelli edificati durante i tre secoli precedenti. Non sempre è possibile ricostruire con esattezza la cronologia di questi complessi architettonici, spesso di grosse dimensioni, in quanto in corso d’opera essi subivano frequenti cambiamenti di soluzioni architettoniche. Un accorto esame dei suc-

14. Pianta del Tà Prohm, 1186. Angkor. 15. Pianta del Preah Khan, 1191. Angkor.

12. Pianta del Banteay Kdei. Angkor.

Nella doppia pagina seguente: 16. Tà Prohm, 1186. Angkor.

13. Angkor al tempo di Jayavarman vii.

complesso si ignora poiché la stele di fondazione è scomparsa. Alcune parti, nello stile di Angkor Vat, fanno supporre che il monarca abbia terminato un edificio rimasto incompiuto a causa dei torbidi della metà del secolo xii. Tà Prohm [fig. 14] venne eretto nel 1186 in memoria della madre del re, considerata una incarnazione della dea Prajnaparamita, e Preah Khan, nel 1191 [fig. 15], in ricordo del padre, ipostasi di Lokevvara. Lo schema dei santuari sviluppa, a livello del suolo, un disegno a griglia. Banteay Kdei ne è l’esempio più semplice. Un mapdapa (sala con pilastri), a est, precede la seconda recinzione. Un grande chiostro delimita un ampio quadrilatero di circa 50 metri per 40. Una serie di santuari cruciformi collegati da corridoi e due piccoli edifici secondari costruiti dentro due cortili interni disegnano un assieme

di grande leggibilità. Pur avendo lo stesso schema di base, Tà Prohm e Preah Khan si rivelano più complessi. A Preah Khan i corridoi secondari e i santuari annessi rendono i volumi affollati. Fra il tempio e la recinzione più esterna un ampio spazio è riservato agli alloggi di servitori e servi, il che fa di questi luoghi sacri delle vere e proprie città dotate di cinte murarie. A Tà Prohm una grande stele ancora al proprio posto descrive minuziosamente le risorse messe a disposizione del tempio: 3.140 villaggi e 79.365 persone, di cui 18 grandi sacerdoti, 2.740 officianti, 2.202 assistenti e 615 danzatrici. Il totale delle stoviglie in oro pesava oltre cinque tonnellate, poco meno quelle in argento. Perle e pietre preziose, 2.387 capi di vestiario per adornare le statue, enormi quantità di vari prodotti da utilizzare per la celebrazione

Jayavarman vii Il sistema religioso khmer, fondato sull’induismo, giustificava il potere dinastico, facendo del monarca una sorta di incarnazione della divinità. Esso aveva già subito una profonda risistemazione dopo la fine della dinastia solare intorno al 1080. Al culto vivaita, erede dell’antico rituale fondato sul monte Phnom Kulen da Jayavarman ii, si sostituisce, al tempo di Suryavarman ii (1113-1150), una liturgia vaispava di cui Angkor Vat era il centro. Nel 1177 – quando i Cam sopraggiunti via mare dall’Annam, risaliti con i propri battelli il Mekong e il Grande Lago (Tonle Sap), assalirono di sorpresa, saccheggiandola e incendiandola, Angkor, allora dominata da un re usurpatore – gli antichi culti dinastici vennero bruscamente resi obsoleti dalla catastrofe. Il buddhismo divenne l’unico sistema religioso a cui ricorrere per restituire un potere sacrale allo Stato. Fu un principe fuori dal comune a compiere questa «rivoluzione«. La genealogia di questo personaggio già maturo ne faceva quanto meno il continuatore, per parte di padre, degli ultimi sovrani legittimi e, per parte di madre, della prima dinastia angkoriana. Generale veterano delle battaglie nel Campa, egli raccoglie attorno

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cessivi rimaneggiamenti nella maggioranza delle costruzioni regali e della evoluzione di certi motivi decorativi, permette di distinguere tuttavia tre periodi. Alla prima fase risalirebbe una buona parte dei lavori dei templi della generazione precedente, caratterizzati da una planimetria a griglia alla maniera di Angkor Vat. Alla seconda epoca corrisponderebbe lo sviluppo senza precedenti del culto di Lokevvara, aspetto magnificato di Avalokitevvara. Anche nella messa in cantiere di Bàyon, opera essenziale del terzo periodo, si possono distinguere almeno due momenti. Nel solo sito di Angkor tre ampi santuari risalgono ai primi anni del regno. Il più antico sarebbe Banteay Kdei [fig. 12], all’estremità di un bacino il cui nome moderno è Srah Srang («Bagno reale«). La destinazione di questo

Banteay Thom Banteay Prey

Preah Khan

Pari Plasat

Neak Pean

Ta Som

Tà Nei Thommanon Chan Say Tevoda Tà Kev

Mebon Orientale Banteay Samrè

Bàyon Mebon Occidentale

ANGKOR THOM

Tà Prohm Srah Srang Banteay Kdei

ANGKOR VAT

dei culti quotidiani testimoniano la ricchezza dell’Impero khmer. Dotazioni altrettanto adeguate dovevano infatti essere concesse ai santuari di pari importanza, ad esempio l’immenso tempio di Banteay Chmar, una delle maggiori istituzioni del regno. Niente del loro aspetto distingue questi grandi edifici del principio del regno dai santuari induisti. Le stesse decorazioni scolpite non mostrano cesure sostanziali rispetto alle epoche precedenti. I devata induisti nello stile di Ang­kor Vat hanno ceduto il passo alle apsaras buddhiste, dee secondarie iconograficamente indistinguibili fra loro spesso anche agli occhi di molti specialisti [fig. 17]. A Preah Khan la facciata occidentale della terza recinzione riprende un ritmo architettonico dell’epoca di An­­g­kor Vat. Tuttavia, immensi dvarapala con

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17. Corridoio, 1186 circa. Angkor, Tà Prohm. l’impero khmer

18. Gopura ovest, xiii secolo. Angkor, Preah Khan (terza recinzione). 19. Viale di accesso ovest. Angkor, Preah Khan.

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le mani poggiate su di una clava, affiancano la porta principale e le conferiscono una teatralità di cui le costruzioni dei periodi precedenti sono prive [fig. 18]. Nelle quattro direzioni le carreggiate di accesso a questa terza recinzione sono perimetrate da statue di deva e di yaksa che tengono il corpo di un serpente le cui molte teste rizzate costituiscono uno dei motivi emblematici dell’arte khmer a partire dallo stile di Angkor Vat [fig. 19]. Preah Khan ha subìto molte ristrutturazioni ed è pertanto rischioso, ma plausibile, datare questi ingressi monumentali a prima dell’allestimento di Angkor Thom, dove il medesimo tema sarà trattato in un modo molto più monumentale. Contrariamente alla maggior parte delle decorazioni murali la statuaria conosce una vera e propria mutazione stilistica. Correzioni in corso d’opera in numerose parti del tempio attestano che si mise mano ai lavori in momenti diversi ponendo i presupposti per confusioni cronologiche. Lo stesso discorso vale per la costruzione nei cortili di numerosi piccoli santuari in memoria di vari membri deceduti della famiglia

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dinastica. È pertanto difficile datare con certezza il grande Lokevvara che un tempo occupava il santuario principale. Esso raffigura l’apoteosi di Dharanindravarman ii, il padre del sovrano, «fusosi« dopo la morte con la divinità. Lo studio delle iscrizioni non permette di conoscere in modo compiuto le complesse speculazioni che costituivano l’originalità del buddhismo ufficiale all’epoca di Jayavarman vii. Lokevvara occupa in esse un posto privilegiato. Benché i testi sottesi a questo culto originale siano andati perduti, bisogna dividere in due gruppi principali le numerose raffigurazioni di Lokevvara. Alcune sue statue, la cui iconografia è un prolungamento di quella più comune di Avalokitevvara, formano un primo insieme. Il Buddha occidentale, Amitabha, ad esempio, figura sulla parte anteriore della pettinatura di questi Lokevvara. La statua di apoteosi di Dharanindravarman ii appartiene a questo primo gruppo. La maggioranza dei Lokevvara della fine del xii e del xiii secolo hanno quattro braccia, ognuna delle quali porta un oggetto: loto padma, rosario, libro e flacone

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20. Apsaras, grès, 1186 circa. Angkor, Tà Prohm. 21. Avalokitevvara, grès, secolo. PhnomPenh, Museo Nazionale (provenienza: «porta dei morti«, Angkor Thom). xii-xiii

22. Lokevvara, grès, xiixiii secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza Prah Thkol).

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23. Tara inginocchiata, grès, fine xii secolo-inizio xiii. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: Preah Khan, Angkor).

di ambrosia. Un esemplare di colossali dimensioni è stato scoperto in corrispondenza della «porta dei morti« di Angkor Thom [fig. 21]. Fanno parte del secondo gruppo, veramente originale, statue che raffigurano Lokevvara coperto di piccoli buddha in meditazione, come se sprizzassero fuori dal suo corpo [fig. 22]. Un passo del Kapdavyuha sutra, la cui presenza in Cambogia è documentata a partire dalla seconda metà del x secolo, esalta ciascun poro della pelle del bodhisattva, considerato un microcosmo contenente un intero universo. Due statue di donne inginocchiate, in dimensione naturale, ritrovate nel Preah Khan di Angkor e conservate una presso il Museo Nazionale di Phnom-Penh, l’altra presso il Musée National des Arts Asiatiques-Guimet di Parigi, raffigurano Tara, ancora non distinta da Prajnaparamita, nome con cui la si designa talora nelle iscrizioni [fig. 23]. Come Avalokitevvara, del quale costituisce l’equivalente femminile, Tara porta sulla parte anteriore della crocchia un piccolo Amitabha. Queste due statue vengono considerate spesso, a causa dei tratti «realistici«, ritratti di apoteosi della regina Jayarajadevi, una delle spose defunte del sovrano. Il viso allungato, dal sorriso meditabondo, contrasta con la stilizzazione del busto e dell’abito. Le ginocchia e i piedi, semplicemente sbozzati, caratterizzano l’arte al tempo di Jayavarman vii, nella statuaria come nella costruzione di edifici. Più dediti a produrre sensazioni che a realizzare opere perfette, gli esecutori, sottomessi a delle scadenze molto brevi, dovevano soddisfare con poca spesa la volontà imperiosa e mutevole del monarca. Il santuario di Neak Pean, al centro di un grosso stagno artificiale, a est, nell’asse di Preah Khan, testimonia la volontà di rimettere mano alle opere [figg. 24, 27]. In partenza si trattava di una piccola struttura cruciforme costruita al centro di un bacino. Il monumento fu trasformato radicalmente: lastre di pietra adornate da grandi raffigurazioni di Lokevvara a rilievo vennero a murare tre delle porte [fig. 26]. Due serpenti intrecciati, dalle molte teste, circondano la base inglobata in una terrazza circolare. Fu forse in questa seconda fase che vennero creati i bacini secondari nei quali si riversa l’acqua del bacino centrale, conferendo al tempio la sua straodinaria originalità. L’assieme, in effetti, simbolizza il meraviglioso lago Anavatapta, consacrato ad Avalokitevvara, dal quale scaturiscono, secondo la cosmografia buddhista, quattro fiumi le cui acque «liberano dal fango

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24. Veduta del Neak Pean, fine xii secolo. Angkor. 25. Balaha, grès, fine xii secolo. Angkor, Neak Pean.

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26. Lokevvara, grès. Angkor, Neak Pean (santuario centrale).

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27. Planimetria del Neak Pean, fine xii secolo. Tentativo di ricostruzione di Jean Bisselier, «Pouvoir royal et symbolisme architectural: Neak Pean«, Arts asiatiques, xxi, 1970.

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dei peccati«. Questa identificazione era resa più esplicita dalla presenza, nell’asse dell’edificio, di un gruppo scolpito di grosse dimensioni raffigurante il cavallo Balaha che nuota in direzione del santuario [fig. 25]. Balaha, metamorfosi di Avalokitevvara offre, secondo il Karapdavyuha sutra, la salvezza al mercante Sikhala e ai suoi compagni trattenuti nell’isola di Lanka da giovani donne dedite alla stregoneria, in pratica delle terribili orche. Solamente Sikhala, che ha il coraggio di non guardarsi alle spalle, verrà salvato. Questo gruppo scultoreo è eccezionale nella produzione khmer, in quanto vi si amal-

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gamano felicemente monumentalità, naturalismo e vigore. La grande opera di Jayavarman vii è senza dubbio la ricostruzione, durante la terza parte del proprio regno, della città di Angkor sul luogo dove sorgeva Angkor Thom e, al suo centro, l’edificazione del tempio Bàyon [fig. 30]. La nuova capitale, di pianta squadrata, costruita a immagine della città celeste di Indra, il re delle divinità, è circondata da ampi fossati, connessi a un complesso sistema di irrigazione. Cinque grossi ponti ai cui bordi si succedono statue di dimensioni monumentali di deva e di yaksa,

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28. Veduta panoramica del Bàyon da nordovest, fine xii-inizio xiii secolo. Angkor Thom. 29. Porta nord, fine xii secolo. Angkor Thom.

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30. Templi buddhisti del sito di Angkor, secondo Encyclopaedia universalis, all’epoca del Bàyon: 1) Banteay Kdei; 2) Tà Prohm (1186); 3) Preah Khan (1191); 4) Neak Pean; 5) Tà Som; 6) Angkor Thom (cinta) – a) porta della vittoria b) porta dei morti –; 7) Bàyon. 31. Porta sud, fine xii secolo. Angkor Thom.

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spesso commisti con demoni benigni (asura), la collegano all’esterno. Questi esseri mitici tengono immensi serpenti che come arcobaleni permettono di accedere dal mondo profano alla città sacra, simbolicamente assimilata alla dimora celeste di Indra [fig. 29]. Torri decorate da quattro colossali volti sorridenti, prima citazione di un tema ricorrente nel Bàyon, sovrastano le porte della capitale [fig. 31]. Questi giganteschi ingressi, a metà dei lati, danno accesso ad ampi viali che portano al nuovo tempio reale: Le mura di cinta della città coincidono con la recinzione del tempio rafforzan-

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do così il suo carattere religioso. Il Bàyon continua, modificandola, la lunga tradizione dei templi-montagne, piramidi a gradini soprelevati a ogni successione di dinastia o spostamento di capitale, che permettono la celebrazione del culto ufficiale, fondamento simbolico del potere del monarca [fig. 28]. Il Bàyon, con il proprio orientamento buddhista, rompe con i principi architettonici precedenti e costituisce un unicum. Il monumento, di imponente maestà osservato dall’esterno, cela un complesso disegno, a prima vista confuso, che rivela molti stadi di intervento [figg. 33-34]. Un primo stadio dell’opera, a livello del suolo, giustappone padiglioni e corridoi, partecipando così delle caratteristiche che portarono al concepimento del Tà Prohm e del Preah Khan di Angkor. Un corridoio cruciforme circonda il cuore dell’edificio le cui strutture inferiori sono interrate sotto l’erezione di un nuovo santuario, di forma sommariamente circolare, che comprende una sala centrale, un corridoio e delle piccole cappelle quadrate o triangolari fornite di anticamere. Benché sia difficile ricostruire con esattezza l’ordine dei lavori, parrebbe che i corridoi e i padiglioni angolari, che chiudono in uno spazio squadrato la recinzione cruciforme, delimitando in tal modo quattro chiostri agli angoli, appartengano a questa seconda fase. Sedici cappelle allungate facevano da raccordo fra questa recinzione e il corridoio esterno. Questi passaggi furono distrutti, ma loro tracce sono visibili sul suolo. La moltiplicazione dei corridoi e dei passaggi viene talora interpretata come un desiderio di ospitare le numerose statue di apoteosi dei funzionari e dei nobili cui era concesso, alla stregua dei membri della famiglia dinastica, il privilegio di fondersi dopo la morte con la divinità. Il tempio presenta numerose irregolarità sia planimetriche che volumetriche, e vi sono costruzioni che ostruiscono alcune porte più antiche le cui frange decorative sono rimaste nello stadio di abbozzo. La sala centrale ospitava una statua, che è stata ritrovata a pezzi, del Buddha protetto da Mucilinda. I tratti un po’ pesanti e spessi del Beato [fig. 35], con labbra carnose che accennano un sorriso impercettibile, evocano quelli di molti Lokevvara dello stesso periodo. Questa particolarità somatica non è tuttavia una semplice caratteristica dello stile. Tre statue più o meno mutilate e parecchie teste decollate posseggono tale espressione del viso [fig. 36]. Questi resti vanno messi in relazione con i bassorilievi del tempio del cor-

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poc’anzi. Quest’uomo di mezza età, corpulento, dal viso leggermente paffuto, porta i capelli tirati all’indietro e legati in cima al capo in una piccola crocchia. L’originale acconciatura non dovrebbe essere quella di una divinità. I tratti lievemente asimmetrici del viso fanno pensare a qualcosa che si avvicina al ritratto. L’epigrafia conferma indirettamente la verosimiglianza di questa ipotesi. Una lunga stele del tempio del Phimeanakas, all’interno stesso del Palazzo reale, non ci dà forse conto della erezione in numerosi luoghi di immagini del padre, della madre e dei fratelli della regina Jayarajadevi e, dopo la morte di costei, di suoi ritratti postumi e di quelli del re, dovuti alla devozione della regina Indradevi, sua sorella maggiore? Cinquantaquattro torri, ciascuna provvista di quattro volti colossali, costituiscono la grande originalità del Bàyon [fig. 1]. Questi visi dal sorriso un poco trattenuto – il famoso «sorriso

32. Torre centrale vista dalla terrazza, fine xiiinizio xiii secolo. Angkor Thom, Bàyon. 33. Pianta del Bàyon, fine xii-inizio xiii secolo. Angkor Thom. 34. Veduta aerea del Bàyon, fine xii-inizio xiii secolo.

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35. Buddha in meditazione protetto da Mucilinda, grès, fine xii-inizio xiii secolo. Angkor Thom, Bàyon (torre centrale).

37. Guerra contro i Cam, fine xii-inizio xiii secolo. Angkor Thom, Bàyon (muro di cinta est).

36. Jayavarman vii, grès, fine xii-inizio xiii secolo. Phnom-Penh, Museo Nazionale (provenienza: Krol Romeas [Angkor Thom]).

38. Giochi acquatici, fine xii-inizio xiii secolo. Angkor Thom, Bàyon (ala est del lato sud, corridoio esterno).

ridoio esterno meridionale della terza cinta del Bàyon, che narrano la battaglia navale fra Khmer e Cam. Il re, di notevole altezza, seduto nel proprio palazzo, presiede ai preparativi della spedizione. Sul versante orientale altri rilievi illustrano battaglie rese più violente dalla presenza di elefanti da combattimento. Il sovrano è presente anche in queste scene. Logica vorrebbe che il monarca raffigurato su molti pannelli scolpiti del Bàyon sia da identificare con Jayavarman vii, essendo lui che ripristinò il potere khmer. Il suo aspetto fisico rassomiglia a quello delle tre statue e delle teste di cui si trattava

di Angkor« – protrudono lievemente. Le torri stesse, di profilo curvilineo, come dei vikhara della architettura indiana, hanno degli spigoli molto marcati che si oppongono a delle piattabande modellate. I volti non sono identici. Alcuni mostrano grande vigore, altri ostentano una espressione pensosa o lasciano trasparire un trattamento più meccanico, certamente a seconda della maggiore o minore abilità manuale dello scultore e della durata del cantiere. Queste torri enigmatiche hanno dato luogo a molte interpretazioni. Esse potrebbero rappresentare le molte facce di Avalokitevvara sotto

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il suo aspetto Ekadavamukha. Jean Boisselier preferiva riconoscere in ciascuna delle torri i quattro volti di Brahma, moltiplicati all’infinito. I bassorilievi del corridoio esterno [figg. 37-39] narrano come già detto la guerra fra Khmer e Cam. Queste scene, piene di episodi aneddotici in contrasto con il carattere più idealizzato dei rilievi di Angkor Vat, immediatamente precedenti (secondo quarto del secolo xii), vengono incorporati nella iconografia sacra: cambogiani e cam, assimilati rispettivamente a deva e ad asura, lottano in uno scontro di portata cosmica. I rilievi della cinta interna [fig. 40] raffigurano le varie offerte presentate dal sovrano ai numerosi luoghi di culto, di ogni appartenenza religiosa, dell’Impero. Nello spirito del monarca il buddhismo mahayana, difatti, aveva preminenza su tutti gli altri culti senza però annullarli. Movimento e stilizzazione caratterizzano numerosi rilievi decorativi [fig. 41].

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Contemporaneamente a questa evoluzione del buddhismo, che sfociò nel suo riconoscimento ufficiale verso il 1181 come prima religione dell’Impero, si inizia ad avvertire la presenza del Vajrayana, attestata dalla metà del secolo

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39. Accampamento reale nella foresta, fine xii-inizio xiii secolo. Angkor Thom, Bàyon (ala est del lato sud, corridoio esterno). 40. Costruzione di un santuario vaispava, fine xii-inizio xiii secolo. Angkor Thom, Bàyon (ala sud del lato ovest, corridoio interno). 41. Danzatrici celesti, fine xii-inizio xiii secolo. Angkor Thom, Bàyon (traversa del gopura sud, corridoio esterno). 42. Hevajra, bronzo, seconda metà xi secolo. Phnom-Penh, Museo Nazionale (provenienza: Banteay Kdei [Angkor]).

da alcune statuette in bronzo [figg. 42-43]. Il ciclo di Hevajra parrebbe radicato. La sua iconografia rigorosa non si differenzia che nel numero di teste – moltiplicato in Cambogia – dai contemporanei o immediatamente precedenti esemplari pala. I crani contenenti animali e divinità induiste sono più o meno bene esplicitati. Il dio danza, con il corpo sostenuto xi

La presenza del tantrismo

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43. Hevajra, bronzo, fine xii-inizio xiii secolo. Phnom-Penh, Museo Nazionale (provenienza: palazzo reale di Angkor Thom). 44. Santuario in miniatura di Hevajra, bronzo, fine xii-inizio xiii secolo. Phnom-Penh, Museo Nazionale (provenienza sconosciuta).

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dalla gamba destra e non viceversa come detto nei testi sanscriti, senza che questa particolarità sia stata spiegata. Una cappella miniaturizzata [fig. 44], elemento sicuramente mobile utilizzato nei rituali esoterici del dio, ospita Hevajra fra le yogini, assistenti della sua paredra, la dea Nairatma. La presenza khmer in Thailandia A dispetto della scarsità di fonti storiografiche, già prima del secolo x si nota una occupazione a più riprese, più o meno effimera, di una parte orientale dell’odierno territorio thai da parte khmer. Suryavarman i (1002-1050) annette per due secoli queste province orientali all’Impero. Una arte ricca e variegata, caratterizzata da una forte impronta estetica khmer, ma adattata al gusto locale, si irradiò soprattutto dalla città di Lop’buri. Questo stile specifico prosegue fino al secolo xv, molto dopo che la dominazione khmer propriamente detta fosse terminata. L’arte di Lop’buri sarà una delle componen-

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ti fondamentali dell’arte thai [figg. 45-46]. La maggioranza dei templi eretti in Thailandia durante l’occupazione khmer è induista. Solo alcuni santuari dell’epoca di Jayavarman vii hanno un orientamento buddhista. Molti, come Pràsàt Tà Mien Toch, erano modeste cappelle di ospedale, tipo di edificio di cui il sovrano costruì centodue esemplari in tutto il suo Impero. In tale contesto, Phimai costituisce una brillante eccezione [figg. 47-48]. Edificato senza dubbio fra 1106 e 1112 da Jayavarman vi (1080-1106) e suo figlio Dharanindravarman i (1107-1112), il tempio, dalle proporzioni eleganti e sculture di estrema delicatezza, prefigura l’arte classica di Angkor Vat (1122-1150

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circa). Virendradhipativarman, il monarca locale, vassallo dei Khmer, figura nella iscrizione dedicatoria del 1112. Il santuario è dedicato a Trailokyavijaya, divinità tantrica dall’aspetto irato che ha la missione di convertire al buddhismo il dio induista Viva. Questo orientamento dottrinale, originale per l’epoca, è prova del radicamento del buddhismo nell’altopiano di Khorat. Come nella Cambogia propriamente detta, niente nella planimetria differenzia Phimai da un tempio induista. Le varie sale sono ripartite simmetricamente all’interno delle cinte concentriche, scandite da porte monumetali di pianta cruciforme. Un elegante corridoio occupa la recinzione esterna. Uno dei santuari, nella parte ovest del cortile interno, chiamato Prang Brahmadat, ospitava la famosa statua di Jayavarman vii seduto, conservata presso il Museo Nazionale di Bangkok. Le traverse delle quattro porte del santuario principale trattano temi buddhisti: attacco di Mara a sud; Buddha in preghiere, vestito di un abito monastico ispirato alla statuaria mon dei secoli ix e x, a ovest; Trailokyavijaya a nord; un’altra divinità tantrica a est. Sui timpani appaiono temi induisti: danza di Viva ed episodi della leggenda di Krsna. Questo eclettismo dottrinario non è abituale nell’arte buddhista.

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49. «Buddha Commaille«, grès, xiii secolo. PhnomPenh, Museo Nazionale (provenienza: Angkor Vat). 50. Figura in preghiera, legno, xv (?)-xvi secolo. Phnom-Penh, Museo Nazionale (provenienza: Angkor Vat). 45. Traversa con sei buddha in piedi, grès, inizio xii secolo (provenienza: dintorni di Phimai). 46. Buddha agghindato protetto dal naga, grès, fine xii secolo. Ayuthaya, Museo Nazionale Chanthara Rhasem (provenienza: Wat Phra Ram, Ayuthaya).

51. Buddha in piedi agghindato, legno, xvii secolo. Angkor Vat.

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Dopo Jayavarman vii La morte di Jayavarman vii segna una inversione nel percorso della civiltà khmer. I successori non intrapresero lavori architettonici importanti. Durante il regno di Jayavarman viii (1243-1307), una violenta persecuzione contro il buddhismo provocò la mutilazione di numerose statue. Alla fine del secolo xiii e nel secolo xiv si assiste a una semplificazione della iconografia: sparizione dei temi tantrici e della maggior parte delle rappresentazioni del Grande Veicolo, abbandono per molti secoli del motivo del Buddha agghindato. È logico fare coincidere tale semplificazione iconografica con la supremazia del buddhismo theravada, destinata a diventare

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la religione ufficiale della Cambogia. Nel 1913 Jean Commaille, il primo a occuparsi dei monumenti di Angkor, scoprì fra le rovine del Bàyon un Buddha protetto dal naga, in uno stile in auge alla fine del secolo xiii e durante il xiv al quale darà il suo nome [fig. 49]. Il corpo, semplificato in ampi volumi, e il viso, quasi quadrato, dai tratti ben disegnati concorrono a produrre un effetto di calma e di maestà, ancora più avvertibile nelle raffigurazioni di Buddha in piedi. Il sorriso, un poco freddo e quasi forzato, continua una caratteristica dell’arte del Bàyon nella sua ultima fase. L’abbandono di Angkor come capitale nel 1431 segna una cesura nelle tradizioni artistiche. La lavorazione della pietra cade in disuso. L’arte cambogiana verrà da allora assai fortemente influenzata dall’arte thai. Alcune statue in legno, tuttavia, per la loro espressione pregna di spiritualità, possono essere considerate una lontana eco

47. Veduta di Phimai dall’angolo del cortile nordovest, inizio xii secolo.

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48. Pianta di Phimai, inizio xii secolo.

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IL REGNO DEL CAMPA

1. Divinità che ascolta le preghiere del Buddha, grès, 875. Museo di Danang (provenienza: vihara [monastero di Dong-du’o’ng]). 2. Carta.

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L’archeologia e molte vestigia archeologiche attestano la presenza di popolazioni indianizzate sulle coste dell’Annam, nella parte centrale dell’attuale Vietnam. Sulle iscrizioni, questa regione è solitamente chiamata Campa. Alcune città più o meno legate al commercio internazionale, rivali o alleate, costituivano un aggregato di principati, a più riprese unificate in modo effimero. Come nel vicino paese khmer, il buddhismo sembra aver giocato un ruolo secondario rispetto all’induismo, appoggiato dalla

corte e dai grandi. Solo un sovrano, personalmente fedele alla dottrina del Beato, conferì una posizione di rilievo al buddhismo. L’arte buddhista del Campa riguarda quindi una parte relativamente minima del patrimonio dell’antico Annam. Tuttavia, è in questa provincia, nell’importante sito di Dong-du’o’ng, che è stata scoperta una straordinaria statua in bronzo alta più di 1,20 metri [fig. 2, p. 109]. L’opera colpisce per la maestosità e la finezza del modellato. Viso dagli occhi incisi, acconciatura a ricci giustapposti, larghe spalle contrastanti con la strettezza della vita, anche pronunciate, abito monastico, che lascia scoperta la spalla destra, le cui pieghe, più o meno fitte, sottolineano le forme del corpo: tutte queste particolarità rimandano all’arte singalese di Badulla (vi secolo) e di Anuradhapura e, oltre, allo stile indiano di Amaravati (i secolo a.C.-iii secolo d.C.). Da notare l’urpa, rappresentata da una piccola Ruota della Legge. Vakyamuni accenna con la mano destra un gesto di argomentazione, legato all’esposizione della sua dottrina di liberazione. L’opera solleva due questioni: il suo luogo di realizzazione e la datazione. La maggior parte degli specialisti ha abbandonato l’idea di una esecuzione locale a favore di una importazione singalese. Una migliore conoscenza della produzione dello Vri Lanka spingerebbe verso una datazione relativamente bassa (vi-vii secolo), e non verso i primi secoli dell’era cristiana, come alcuni studiosi avevano inizialmente supposto. Dalla metà dell’viii alla metà del ix secolo, le province meridionali dominarono il Campa (758-859 circa). Alcuni piccoli bronzi risalgono a questo periodo chiamato Huanwang dai testi cinesi. La loro iconografia si ricollega alle scuole theravada e mahayana. Le prime, meno numerose, mostrano affinità con l’arte della Dvaravati del sud della Thailandia [fig. 3]; le altre riprendono i canoni iconografico-stilistici della scuola indo-giavanese e di Vrivijaya [fig. 4], dal corpo fortemente ancheggiante e adornato di

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il regno del campa

3. Buddha in piedi, bronzo, metà dell’viii-metà del ix secolo. Ho-chi minh City, Museo di Storia (provenienza: Dang-binh). 4. Avalokitevvara, bronzo, metà dell’viii-metà del ix secolo. Ho-chi minh City, Museo di Storia (provenienza: Dang-binh).

gioielli. A Dang-binh, uno stesso nascondiglio conteneva alcune statuette dei due tipi, forse fortuitamente riunite durante un sotterramento. Alcune immagini di Avalokitevvara mostrano una cintura annodata la cui estremità ricade «ad ancora« sul davanti. Anche in questo caso Giava sembra la principale fonte di ispirazione. Durante la seconda metà del ix secolo, i principati del nord ripresero il dominio del Campa. Indravarman ii, sovrano particolarmente energico, attestato dall’epigrafia dall’875 all’889, fondò la propria capitale vicino all’importante sito induista di Miso’n, a Indrapura, oggi Dongdu’o’ng. Indravarman ii, sovrano buddhista, vi fece erigere, nell’875, un monastero mahayana, uno dei siti archeologici più grandi del Campa. L’epigrafia prova tuttavia che l’induismo era ancora praticato da influenti dignitari. Il complesso, assai mal conservato, poiché edificato in laterizio e completato da elementi in arenaria, è stato riportato alla luce solo parzialmente nel 1902 [figg. 5-6]. In origine il convento, sotto la protezione di Avalokitevvara, portava il nome di Laksmindra-Lokevvara. Orientato da est a ovest, era preceduto a est da un grande bacino e da un viale rettilineo lungo 763 metri. Il perimetro esterno del monastero misurava 325 metri per 155. Una grande sala ipostila rappresenta ciò che rimane del vihara propriamente detto. Il cortile circostante è bordato da piccoli stupa, forse tombe contenenti le ceneri dei monaci deceduti. L’edificio ospitava una statua di buddha, seduto con le gambe pendenti, all’«europea«, con le mani posate sulle cosce secondo un mudra inusuale. Al centro del complesso, una lunga sala evoca alcuni allestimenti di Miso’n. A ovest, un ultimo perimetro contiene il santuario principale a pianta dentellata. Un imponente basamento, addossato al muro di fondo della cella, portava un tempo la statua, oggi ridotta a frammenti, di un buddha di grandi dimensioni seduto con le gambe incrociate e le piante dei piedi a vista (padmasana). Il personaggio eseguiva una variante della dharmacakra mudra. La sua identificazione con Vairocana è la più comunemente ammessa e fa riferimento a teorie religiose proprie del Campa. Intorno al santuario centrale si ergono varie celle secondarie. Gli accessi ai cortili erano sottolineati da imponenti pilastri (gopura) preceduti da torri modanate la cui linea ricorda alcuni stupa a forma di torre pagoda della Cina meridionale e del Vietnam. La scultura di Dong-du’o’ng (875-910 circa) possiede tratti distintivi molto accentuati. La

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decorazione architettonica presenta un lussureggiante accumulo di piccoli motivi vermicolari. Ad esempio, minuscoli vegetali dalle escrescenze leggermente arricciate occupano gli spazi più piccoli del piedistallo del vihara, compresi gli sfondi dietro i personaggi degli episodi istoriati. Non tutti questi ultimi sono riconoscibili. Come sul piedistallo del santuario principale, alcune scene tradizionali della vita di Vakyamuni, come il Bodhisattva adorato nel cielo dei Tusita prima della sua ultima reincarnazione, si alternano con episodi meno frequentemente rappresentati o trasposti secondo schemi iconografici locali. La statuaria privilegia un tipo etnico dai tratti fortemente marcati, caratterizzati da labbra carnose, folti baffi, un naso camuso e marcate arcate sopracciliari unite [fig. 1]. Delle «basette« si arricciano davanti alle orecchie. La testa sembra sproporzionata rispetto al corpo. I guardiani delle porte dei gopura costituiscono forse le opere più rappresentative di questo stile. Quelli del gopura n. 2, i più espressivi e i meglio conservati [fig. 8], possiedono, oltre alle caratteristiche abituali della statuaria di Dong-du’o’ng, un parossismo particolare nell’espressione del volto e un dinamismo nella posa sottolineato dalla stilizzazione delle forme. Nel 1978, è stata scoperta a Dong-du’o’ng una statua in bronzo alta più di 1,2 metri, la più grande dell’arte cam giunta fino a oggi. Essa rappresenta senza dubbio

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5. Ricostruzione del gopura i e del santuario centrale, 875. Dong-du’o’ng, monastero, secondo H. Parmentier, Inventaire descriptif des monuments chams de l’Annam, Paris, 1909.

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6. Pianta del monastero, 875. Dong-du’o’ng, secondo H. Parmentier, Inventaire descriptif..., tavola cxl ii. 7. Avalokitevvara, inizi del x secolo, pietra. Museo di Da-nang (provenienza: monastero di Mi-du’c).

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8. Dvarapala su un orso, grès, 875. Museo di Danang (provenienza: gopura ii [monastero di Dong-du’o’ng]).

Tara [fig. 9] e, per i tratti specifici del volto e la stilizzazione del corpo, rientra nello stile di Dong-du’o’ng. Il senso del movimento ha tuttavia lasciato il posto a una ieraticità rigorosa. Il petto, trattato con una certa sensualità, annuncia lo stile di Mi-so’n Al (x secolo). La stele di An-Thai, proveniente da Quangnam, ci informa sulle concezioni buddhiste all’epoca attuali nel paese cam. Avalokitevvara appariva come il Grande Compassionevole che permette di evitare di rinascere negli inferi e di intraprendere il cammino della salvezza. Vajrapapi libera da una cattiva reincarnazione. A Vakiamuni corrisponde il Vajradhatu, il mondo del diamante, detto «vuoto« (vunya), e il bodhisattva Vajradhara; ad Amitabha, il Padmadhatu, mondo del loto, chiamato «grande vuoto« (mahavunya), e il bodhisattva Avalokitevvara; infine, a Vairocana, il Cakradharu o Cakradhatu, mondo della ruota, detto «vuoto trascendente« (vunyatita) e il bodhisattva Vajrasattva.

Il monastero di Mi-Du’c risale alla fine dello stile di Dong-du’o’ng (inizio del x secolo). Anche una statua di Avalokitevvara, conservata al museo di Da-nang [fig. 7], dal corpo ieratico, estremamente stilizzato, si collega all’arte di Dong-du’o’ng. Lo stile di Dong-du’o’ng sopravvisse fino agli inizi del x secolo, prima della nascita dello stile di Mi-so’n Al, così chiamato dagli archeologi a causa del nome di uno dei templi del sito induista di Mi-so’n. L’arte induista avrebbe da allora dominato gli ultimi secoli dell’arte cam. Nel nord dell’Indocina, in Tonchino, il Dai-Coviet si dichiarò indipendente dalla Cina nel 939. A partire da questa provincia settentrionale i Vietnamiti intrapresero una lenta annessione della penisola. La produzione buddhista vietnamita, particolarmente attiva sotto le dinastie Ty e Tran (xi-xiv secolo) deve essere collegata all’arte del sud della Cina.

9. Tara, bronzo con tracce di incrostazioni, seconda metà del ix secolo. Museo di Da-nang.

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VRIVIJAYA

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1. Torso di Avalokitevvara, bronzo, viii-ix secolo. Bangkok, National Museum.

2. Pra Boromthat Chaiya. Chaiya.

L’estetica di Vrivijaya, difficile da circoscrivere per il suo carattere composito, riveste una grande importanza sia come ambasciatrice delle forme indiane verso l’est che nella formazione dell’arte della Thailandia. Questa influenza spiega perché molte opere includano questa scuola artistica nell’arte thailandese. Dal 684 circa fino alla fine del xiii secolo, esisteva una potenza marittima chiamata Vrivijaya. All’epoca della sua massima espansione, essa comprendeva il sud dell’attuale Thailandia, la penisola malese, Sumatra e controllava l’istmo di Malacca. Verso il 990, i suoi sovrani, la cui storia resta assai mal conosciuta, si opposero ai Vailendra di Giava per ragioni economiche e politiche, poiché entrambi i regni volevano controllare il commercio internazionale. Nel 1025, Vrivijaya resistette all’imponente flotta da guerra inviata da Rajendra i Coúa dall’India del sud. La collocazione della capitale del Vrivijaya è discussa. Essa viene talvolta situata vicino a Palembang, a sud di Sumatra, o a Chaiya, in Thailandia meridionale. Effettivamente le testimonianze archeologiche sono scarse. Per lo più, esse sono concentrate nella regione di Chaiya. La loro scarsità, dovuta al clima tropicale e alla rarità degli scavi in Malaysia, non è paragonabile alla fama di Vrivijaya. Tra i pezzi ritrovati, il gran numero di Avalokitevvara prova l’egemonia del buddhismo mahayana nella regione. Malgrado i numerosi frammenti, la piccola rappresentazione di Amitabha davanti al copricapo e talvolta la pelle di antilope sulla spalla sinistra non lasciano alcun dubbio quanto alla loro identificazione. Le rare architetture sopravvissute non permettono di delineare un panorama dell’arte edile in questa vasta regione. Malgrado molti restauri, in particolare alla fine del xviii secolo, nel 1901 e nel 1930, il Pra Boromthat Chaiya, a Chaiya, conserva un’eco del suo aspetto dell’viii secolo [fig. 2]. La sua linea evoca certi santuari della

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vrivijaya

Avalokitevvara di pietra della stessa epoca, scoperto presso il Wat Sala Tung di Chaiya [fig. 6]. Questo pezzo rappresenterebbe la più antica statua del bodhisattva in tutta l’Asia sudorientale. La tradizione gupta dell’India gangetica, qui preponderante, si può ritrovare nel bel viso circolare, dai tratti poco accentuati. Una lieve doppia flessione anima il corpo, dal modellato appena percettibile. La veste, aderente al corpo, alla maniera dei laboratori di Sarnath, sottolinea con discrezione le forme. I piccoli buddha di bronzo, invece, evocano sia l’arte pala del Bihar (viii-xii secolo) sia le loro copie realizzate in Insulindia [fig. 4]. A partire dall’viii secolo, la raffinata estetica della parte centrale di Giava prevalse nella regione. Lo splendido busto di Avalokitevvara, scoperto presso il Wat Pra Mahathat di Chaiya e conservato al National Museum di Bangkok, appartiene a questa fase classica (viii-ix secolo) [fig. 1]. Il viso paffuto, la piccola bocca che accenna un sorriso imbronciato e gli occhi semichiusi, dallo sguardo soffuso di compassione, si ritrovano nella statuaria del Borobudur. Come la maggior parte delle opere influenzate dall’arte dei Vailendra, è riccamente ornato. Il cordone brahmanico, costituito da un triplo filo di perle con un ricco fermaglio lavorato, i bracciali dagli esuberanti frastagli e le

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parte centrale di Giava, ma i materiali impiegati, grandi mattoni tenuti insieme da una resina vegetale e non da malta, ricordano alcuni edifici cam e khmer. Questo aspetto eclettico, facilmente spiegabile con la posizione geografica del Vrivijaya, si ritrova in scultura. Ciò rende talvolta difficile l’attribuzione di alcuni pezzi a questo centro di produzione. Come nella parte occidentale di Giava, i rapporti con il regno dei Pallava del Dekkan sembrano fondamentali nella formazione dell’estetica locale. Ne è prova uno splendido bronzo, ahimè frammentario, conservato al National Museum di Lop’buri [fig. 3], risalente probabilmente alla fine del vi secolo. L’allungamento del torso e le trecce dello chignon legate a ciuffo in cima al cranio, il relativo «naturalismo« dei tratti del viso trovano origine nell’arte del sud del subcontinente. Questa fonte non è tuttavia l’unica, come dimostra un

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3. Avalokitevvara, bronzo, fine del vi secolo. Lop’buri, National Museum Somdet Phrai Narai.

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4. Buddha ornato mentre insegna, bronzo, viii-ix secolo. Bangkok, National Museum.

5. Avalokitevvara, bronzo, secolo. Bangkok, National Museum (provenienza: provincia di Songkla).

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6. Avalokitevvara, pietra, fine del vi secolo. Bangkok, National Museum.

gocce a semicerchio ne rappresentano elementi caratteristici. Per le sue imponenti dimensioni e la pronunciata inclinazione delle spalle e della testa, l’opera doveva appartenere a un gruppo in cui due bodhisattva stavano in piedi su ciascun lato di un grande Buddha seduto. Una statuetta del museo di Bangkok, proveniente dalla provincia di Songkla, costituisce un buon esempio della piccola plastica del Vrivijaya nel x secolo [fig. 5]. La sovrabbondanza degli ornamenti e la loro tipologia collegano anche quest’opera all’arte giavanese. I due lembi di tessuto annodati ai lati della vita e che ricadono sui fianchi lungo le gambe, trovano la loro origine in India meridionale e sono segno delle diverse fonti di ispirazione. Nel ix secolo Vrivijaya era ancora un importante centro di studi buddhisti. Ativa, futuro missionario in Tibet centrale, vi avrebbe studiato tra il 1013 e il 1025. Agli inizi del xiii secolo, tuttavia, Vrivijaya non era più citata dalle fonti cinesi. Alla fine del secolo, la parte settentrionale dell’Impero venne annessa da Sukhothai.

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THAILANDIA

L’arte della Thailandia, dominata dal buddhismo, presenta un carattere composito. Alcune scuole regionali, dalle molteplici modulazioni stilistiche e dai prestiti reciproci, ne rendono lo studio particolarmente delicato. Per scrupolo di logica due di esse sono trattate al di fuori di questo capitolo: la scuola di Lop’buri è inclusa nel capitolo sull’impero khmer, quella di Vrivijaya costituisce una sezione a parte. Questi due focolai giocheranno tuttavia un importante ruolo nella genesi del bacino del Menam (Chao Phraya). La regione di Angkor, per molti secoli annessa al regno thai, costituirà una fonte di ispirazione continuamente rinnovata. Dvaravati

1. Testa di buddha, calcare con tracce di policromia, vii-viii secolo (particolare della fig. 7). Bangkok, National Museum (provenienza: Wat Na Phra Men [Ayuthaya]). 1

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2. Carta. 3. Wat Kukut,

Alla fine del vi secolo, dopo la scomparsa del Funan, potenza politica ed economica estesasi fino a sud del bacino del Menam, emerse Dvaravati, un nuovo regno. Sistematici scavi archeologici provano la sua vasta espansione sulla maggior parte della Thailandia. L’organizzazione politica rimane sconosciuta: confederazione di città mercantili per lo più popolate da Mon o regno relativamente centralizzato – effettivamente ci sono giunti molti nomi di sovrani citati in alcune iscrizioni in sanscrito. La cultura di Dvaravati copre un lungo periodo, dalla fine del vi fino all’xi secolo. Gli eserciti khmer di Suryavarman i (1002-1050) o di Jayavarman vii (1181-1218 circa) misero fine alla sua potenza. Il buddhismo theravada dominava la vita religiosa. Il Mahayana, rimasto di importanza secondaria, e l’induismo, poco diffuso, esercitarono una debole influenza sulle arti plastiche. Le sottostrutture di alcuni monasteri e di molti stupa presentano fondazioni composte in genere da due letti in laterizio. Veniva utilizzata anche la pietra, solitamente blocchi di laterite posti a giunto. Mattoni di cattiva qualità, di grandi dimensioni, sgrossati con la paglia di

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riso durante la cottura, lunghi fino a 40 centimetri di lato, venivano impiegati per la facciata esterna. Un conglomerato di terra e mattoni rotti rafforzava a volte l’interno dei muri. Un rivestimento di stucco o, più raramente, in terra modellata proteggeva il muro. Queste superfici offrivano un supporto ideale agli artisti che vi hanno moltiplicato i cicli narrativi, ahimè in gran parte rovinati. Gli scavi mostrano modificazioni a volte importanti, come presso il Wat Phra Men [fig. 4]. Gli stupa, spesso a pianta quadrata, dentellata, presentano molte nicchie che ospitano dei buddha. Questi livelli arretrati permettono, come presso il Wat Phra Paton, di edificare piccoli caitya circolari agli angoli della terrazza inferiore. Le piante circolari e ottagonali, sebbene attestate in molti posti, sembrano più rare. Nel nord del paese, Haripunjaya, un regno mon originale, fondato nell’viii secolo, sopravvisse fino al 1292. Nella capitale Lamphun, sopravvive il Wat Kukut, uno stupa di tipo Dvaravati [fig. 3]. Questa torre piena, alta cinque piani scanditi agli angoli da piccoli caitya circolari, presenta su ciascuna delle quattro facce tre nicchie che ospitano buddha in piedi in stucco di stile dvaravati. Nonostante la data relativamente tarda (inizio del xiii secolo), esso perpetua fedelmente gli «stupa torre« come quello del Wat Phra Paton. A Ceylon, il Satmahal Pasada di Polonnaruva (fine del xii secolo) ne rappresenta uno prototipo. Come in molti paesi dell’Asia sudorientale, alcune statue importate sono prova dei contatti con l’India e Ceylon. Altre, chiaramente realizzate localmente, adottano schemi stranieri. Le influenze di Ceylon e, oltre, di Amaravati, vi predominano. Nonostante un viso piuttosto pesante e le labbra carnose che annunciano i canoni dell’arte dvaravati, una statuetta scoperta a Nakhon Pathom e oggi in una collezione privata a Bangkok [fig. 6] conserva le caratteristiche del paese andhra – il sottile mantello pieghettato lascia nuda la spalla destra, la mano destra regge un’estremità dell’abito alla maniera dei buddha singalesi. Altre opere, come un Buddha trovato nella regione di Songkhla [fig. 5], dall’abito aderente a un corpo sublimato, simile a una serie di statue scoperte a Buddhapad (vi secolo) combinano estetiche gupta e pallava. Ben distinte da questi due gruppi, alcune rare opere sono plasticamente vicine a pezzi della fine dell’epoca gupta (iv-vi secolo). A partire dall’viii secolo, queste varie influenze, ravvivate da contatti con l’arte pala

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laterizio stuccato, xii-xiii secolo. Lamphun, Wat Chamadewi. 4. Pianta delle due più antiche disposizioni del Wat Phra Men. Nakhon Pathom.

5. Buddha in piedi, bronzo, vi secolo. Bangkok, collezione privata (provenienza: regione di Songkhla).

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6. Buddha in piedi, bronzo, v-vi secolo. Bangkok, collezione privata (provenienza: Nakhon Pathom).

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7. Buddha in piedi, calcare con tracce di policromia, vii-viii secolo. Bangkok, National Museum (provenienza: Wat Na Phra Men [Ayuthaya]).

(viii-xii secolo) del Bihar e la scuola di Vrivijaya della penisola malese, diedero vita a uno stile mon veramente nazionale. Alcune opere in pietra di elevata qualità mostrano il raro grado di perfezione raggiunto dagli artisti dvaravati. Ad esempio, delle tavolette in stiacciato, dalla composizione simmetrica di grande leggibilità, rappresentano episodi della vita del Buddha. Sulla più grande, trasferita al Wat Suthat di Bangkok, figura nella parte superiore la predica del Buddha nel cielo dei Trayastrika, seduto sul trono di Indra, il re ce-

leste. In basso, un pannello più complesso illustra il grande miracolo di Vrivijaya, iconografia rara negli altri paesi theravada. Un frammento che presenta la prima predicazione, scoperto a Nakhon Pathom, il sito più vasto dell’epoca, considerata da alcuni l’antica capitale del regno di Dvaravati, permette di apprezzare la qualità plastica di questi rilievi. La densità della loro composizione non ne pregiudica la leggibilità. I numerosi personaggi secondari presentano tutti lo stesso atteggiamento, ma ognuno è individualizzato da qualche variante o dettaglio. Il

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11. Episodio della storia di Surupa, stucco, 12. Avalokitevvara, terracotta, metà del vii secolo. U Thong, National viii secolo circa. Bangkok, National Museum (provenienza: Wat Chula Pathon Museum (provenienza: chedi n. 40 [Nakhon Pathom]).

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Buddha predicante è seduto su un trono, con le gambe penzoloni e un corpo fluido e stilizzato. Un celebre Buddha ugualmente seduto «all’europea« trovato a Nakhon Pathom e pesantemente restaurato, così come alcuni frammenti, attesta l’esistenza di opere colossali. Tutto ciò rende ancora più frustrante la limitatezza delle vestigia architettoniche conservatesi. Un certo tipo di buddha, caratteristico dell’arte Dvaravati, trova in parte origine nella tradizione gupta, pur totalmente reinterpretata dal genio mon. Una grande statua, un tempo trasferita al Wat Na Phra Men di Ayuthaya e conservata presso il National Museum di Bangkok [figg. 1, 7], può essere considerata l’apice di questa produzione. Le sopracciglia unite, assai marcate, sovrastano un naso deciso. La bocca, imbronciata, accenna un mezzo sorriso soffuso di interiorità. Gli occhi semichiusi rafforzano questa impressione di atteggiamento meditativo. La veste monastica aderente al corpo copre le spalle, sottolinea la punta dei pettorali e ricade su entrambi in fianchi con una serie di pieghe simmetriche. La veste inferiore, indicata a livello della vita da una semplice incisione, spunta a livello di polpacci. Le braccia alzate dovevano essere tese verso lo spettatore, con le mani atteggiate a un gesto di argomentazione, una particolarità iconografica locale di cui sono prova i numerosi bronzi, fedele ri-

8. Ruota della Legge, pietra, vii-viii secolo. Bangkok, National Museum (provenienza: Nakhon Pathom). 9. Buddha in piedi, bronzo, prima metà dell’viii secolo. Bangkok, National Museum (provenienza: Wat Choeng Tha (Nonthaburi]). 10. Buddha in piedi, bronzo, ix secolo. Ayuthaya, National Museum.

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flesso della grande statuaria [fig. 9]. Altre [fig. 10], dall’atteggiamento tradizionale, hanno la spalla destra scoperta, alla maniera dei buddha indiani. Lo stile di queste statue non è uniforme e presenta sapienti variazioni secondo tradizioni locali mal definite e una evoluzione cronologica fluttuante. Una delle grandi originalità dell’arte di Dvaravati è rappresentata da grandi ruote in pietra, che misurano fino a 1,9 metri di diametro – allusione alla messa in movimento della Ruota della Legge. Simboli del buddhismo per eccellenza, erette davanti allo stupa, forse un tempo rette da pilastri come i loro prototipi indiani in uso fino alla fine dell’epoca gupta, esse presentano talvolta alla base dei simboli di buon auspicio. Ad esempio Indra, il re degli dei, figura su una delle

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più elaborate, conservata al National Museum di Bangkok [fig. 8]. Molte, scoperte a Uthong, si trovavano su grandi blocchi sui quali, agli angoli, si inserivano quattro statuette di cervidi – qualunque fosse il punto di vista, il devoto poteva contemplare la ruota affiancata da due animali –, allusione al famoso parco delle Gazzelle, vicino a Varapasi, dove Vakyamuni tenne la sua prima orazione. I bassorilievi in stucco e più raramente in terracotta che ornavano il basamento delle architetture religiose presentano le stesse caratteristiche della grande statuaria. I loro frammenti, molto numerosi nei siti archeologici, permettono raramente di ricostruire le composizioni d’insieme. Fortunatamente esistono preziose eccezioni, come i monumenti n. 39 e n. 40 di Ku Bua e alcuni complessi a Nakhon Pathom e Kok Mai Den. Queste scene apologetiche, jataka, avadana o cortei di varie creature che popolano i cieli buddhisti, ostentano un carattere simmetrico e ripetitivo. Le più fini e complesse sembrano appartenere al periodo più antico (vii-inizio dell’viii secolo). Il Wat Chula Pathon a Nakhon Pathom ha ad esempio rivelato un interessante bassorilievo che rappresenta un episodio della storia di Surupa [fig. 11].

Questo re caritatevole fa dono del proprio figlio a un raksasa, demone bevitore di sangue, in realtà il dio Indra che, sotto temibili sembianze, voleva sondare il grado della sua compassione. Durante l’viii secolo, le scene divennero più stereotipate. I volti, realizzati con stampi, mostrano meno individualità, come dimostra un bassorilievo alla base dello stupa n. 10 di Ku Bua che raffigura alcuni musicisti. Attraverso la loro iconografia, alcune statue permettono di percepire una vita religiosa più diversificata di quella che inizialmente si potrebbe immaginare. Il chedi n. 10, a sud di Ku Bua, ha restituito due graziose figure di bodhisattva in piedi, con il corpo che ancheggia elegantemente. La pelle di antilope che ricade sulla spalla sinistra di uno di essi permette di riconoscere con certezza Avalokitevvara [fig. 12]. Queste statuette testimoniano la presenza, nell’viii secolo, in Thailandia centrale, di comunità mahayana minoritarie all’interno di un ambiente theravada predominante. Nell’xi secolo, l’influenza khmer si fece percepibile. Dopo la conquista, alcune caratteristiche mon, tra le quali una certa geometrizzazione del volto, persistettero nella produzione di Lop’buri. Tradizioni mon, talvolta unite a reminescenze «khmerizzanti« sopravvissero per più secoli, nel nord del paese, nel principato di Haripunjaya. I Thai Nell’xi secolo, i Thai, «uomini liberi«, originari del regno di Nanchao in Yunnan, cominciarono una lenta penetrazione delle alte valli del Menam del Mekong. Alcuni si arruolarono come mercenari nelle armate khmer. Nel xiii secolo, l’invasione della Cina da parte dei Mongoli comportò il loro esodo in massa e l’emergere di veri e propri principati thai nel nord del paese. Lan Na, il più antico, sembra attestato dall’inizio del xiii secolo. Si deve tuttavia attendere il 1292-1293 perché si impadronisca di Lamphun, capitale di Haripunjaya, mettendo così fine all’ultimo territorio mon indipendente. In circa un secolo, il potere thai divenne preponderante. Progressivamente convertiti al buddhismo theravada dai contatti con le popolazioni mon, i Thai svilupparono un’arte imperniata sulla persona del Buddha. Le innumerevoli rappresentazioni in bronzo e, in misura minore, in stucco privilegiano quattro temi fondamentali, ereditati dall’arte pala del Bihar: il miracolo di

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Vrivijaya – Vakyamuni è in questo caso seduto –, la discesa dal cielo dei Trayastrikva, la sottomissione di Nalagiri e il parinirvapa. A questa relativa semplicità dell’iconografia si oppone la varietà dei prestiti stilistici da paesi stranieri o dalle scuole più antiche, più o meno adattati al gusto del momento. Questa abbondanza plastica e questa perpetua riappropriazione delle forme rendono lo studio della scultura thailandese particolarmente arduo. Ad esempio, alcune rare statue potrebbero risalire ai primi decenni del regno di Lan Na (primo stile), ancora prima della fondazione della città di Chiang Saen nel 1327 [fig. 13]. Il viso rotondo, dalle sopracciglia arcuate e dal mento prominente, dall’acconciatura formata da grandi ricci uno accanto all’altro, sormontati da un bocciolo di loto, riprende fedelmente i canoni dell’arte pala noti agli artisti locali forse da Vrivijaya o più verosimilmente da Pagan in Birmania. Questo «stile indiano« sarà fedelmente ripreso all’epoca del re Tiloka di Chieng Mai (1442-1488). Le opere del xv secolo, di grande perfezione, rendono delicata una giusta valutazione di questa prima produzione thai. Il regno di Sukhothai Verso la metà del xiii secolo, due signori thai, vassalli dei Khmer, entrarono in dissidio. Uno di loro, Bang Klang Tao (Si Intratit), divenne governatore delle città di Sukhothai e di Sisatchanalai. Rama Kamheng il Grande (12791299 [o 1317]), suo secondo discendente, estese il regno su gran pare della Thailandia attuale, eccetto il regno di Lan Na, più a nord, e Lop’buri. Sotto il regno di Loe Thai (13181347), un monaco singalese, giunto dalla Birmania, introdusse l’ordine dei «monaci forestieri«. Sisatta, un altro religioso, riportò da un pellegrinaggio a Ceylon alcune reliquie del Beato. Forse alcuni artigiani lo accompagnarono al ritorno. Nel 1361, Li Thai (1347-1368), il successore di Loe Thai, invitò alla propria ordinazione Mandhankara un monaco singalese per stabilire un nuovo ordine riformato di Ceylon. Questi contatti lasciarono tracce durature: il clero di Sukhothai venne riorganizzato su modello di quello di Ceylon. Tutti i monumenti civili e i monasteri, costruiti in legno, sono scomparsi. La città di Sukhothai, vicina a Sisatchanalai (Sawankhalok), e i dintorni hanno tuttavia conservato molte vestigia del xiv e xv secolo, essenzialmente templi e stupa. Restaurati a più riprese, non permettono di

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stabilire una evoluzione dettagliata delle forme architettoniche. Come era ormai comune in Thailandia, essi presero in prestito il vocabolario da più fonti. Alcuni monumenti, come le torri del Wat Phra Luang di Sukhothai, hanno come origine antichi templi khmer eretti in occasione dell’occupazione cambogiana. Su alcuni edifici, in particolare presso il Wat Phra Si Ratana Mahathat Chalieng di Sisatchanalai si trovano torri di tipo prang e decorazioni ornamentali «khmerizzanti«. Alcuni ornamenti che scandiscono il muro di cinta riprendono le quattro facce delle torri del Bàyon di Angkor. Altri stupa, come quello di Wat Chang Lom [fig. 16], a est di Sukhothai, sono ispirati ai tumuli singalesi. Le basi di altri, per esem-

[Ku Bua]).

13. Testa di Buddha, bronzo, xiii-xiv secolo. Bangkok, National Museum.


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pio a Sisatchanalai, sono decorate da protomi di elefanti atlanti dalla datazione discussa o da cortei di monaci oranti. Il Wat Mahathat, centro religioso del regno, al centro dell’agglomerato, costituisce il complesso monumentale più importante [fig. 14]. Fondato nel xiii secolo, ma ricostruito nella prima metà del xiv secolo, il monastero, un tempo circondato da fossati, copre una superficie di quattro ettari. Conserva ancora molti edifici. Uno degli stupa [fig. 15], costruito a imitazione del Wat Kukut di Lamphun, continua, attraverso questo intermediario settentrionale, le tradizioni mon di Dvaravati. Allo stato attuale, lo stupa centrale sembra risalire al regno di Loe Thai. Caratteristico dello stile di Sukhothai, presenta tre basi sovrapposte. Il corpo centrale del chedi è ispirato a un prang khmer. Il pinnacolo, sormontato da una punta a forma di bocciolo di loto, deriva da un reliquiario portatile singalese. Otto stupa più piccoli circondano la struttura centrale: quattro a forma di prang khmer, costruiti in laterite, in direzione dei punti cardinali, altri quattro, ispirati ai chedi di Vrivijaya, in laterizio, in direzione dei punti intermedi. I buddha dello stile di Sukhothai sono incontestabilmente i più originali dell’arte thai, e la loro influenza perdura fino a oggi. Il processo di formazione di questa estetica particolare è oscuro. Essa raggiunse la perfezione solo durante il regno di Loe Thai. Molte opere compiute risalgono al xv secolo e sarebbero dunque un po’ più recenti dell’apogeo politico del regno di Sukhothai [fig. 17]. La loro anatomia stilizzata traduce le forme armoniose di un corpo totalmente spiritualizzato, che possiede tutti i segni del «Grande Uomo«, chiamato sin dalla sua miracolosa nascita alla buddhità. Un’acconciatura formata da piccoli ricci a punta sovrasta un ovale perfetto. Sopra l’uspiva molto sviluppato, emerge un’aura (rasmi), simbolo dell’irradiamento spirituale del Beato, ispirato alle immagini singalesi. Grandi arcate sopracciliari dalla curva perfetta sfociano in un naso arcuato a «becco di pappagallo«. Le braccia, «tonde e sode, come una proboscide di elefante«, prolungano le spalle sviluppate. I pettorali sporgono a punta. Le mani allungate a «bhumisparsa mudra« finiscono con dita dal movimento indipendente, come «petali di loto che cominciano a sbocciare«. I buddha seduti sono i più numerosi. A est della capitale, il mondop del Wat Traphang Thong Lang porta sulle facciate esterne monumentali pannelli di

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16. Chedi principale, xiv secolo, laterizio stuccato. Sukhothai, Wat Chang Lom. 17. Buddha, bronzo laccato e dorato, xiv secolo circa. Bangkok, National Museum.

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14. Veduta d’insieme del Wat Mahathat, Sukhothai. 15. Stupa, laterizio stuccato, xiv secolo (?). Sukhothai, Wat Mahathat.

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stucco un tempo policromi dedicati agli episodi più importanti della vita di Vakyamuni. Uno di essi rappresenta il Buddha che discende dal cielo dei Trayastrika [fig. 19]. Indra e Brahma lo accompagnano. Il tema, attestato su pitture murali singalesi, sarà all’origine dei Buddha in cammino, iconografia originale dell’arte di Sukhothai. Il Wat Benchamabopitr di Bangkok conserva una bella statua di questo tipo, alta più di due metri [fig. 18]. Alcune, come quest’ultima, accennano con la mano sinistra l’Abhaya mudra, con la mano destra che pende languidamente lungo il corpo. Alcune rappresentazioni presentano i gesti invertiti. La veste superiore aderente al corpo sottolinea l’aspetto idealizzato dell’anatomia dalle cosce larghe e dalle gambe lunghe, e accentua il movimento delle anche attraverso lievi svolazzi. Alcune placchette di terracotta, modellate come «sacre impronte«, o di pietra incisa riprendono l’iconografia del Buddha in cammino. Questi ex voto rendono popolare il tema che sarà ripreso da altre scuole thai. A nord-ovest dei fossati di Sukhothai, si erge il Wat Si Chum. La colossale statua di Buddha in laterizio stuccato, che ne occupa gran par-

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mente prezioso dei pezzi più meridionali. Molti buddha in pietre fini e preziose, tra cui il famoso Buddha di smeraldi, palladio del regno di Thailandia, appartengono a questo secondo stile di Lan Na.

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te, sarebbe stata realizzata su ordine di Rama Kamheng. Il mapdapa che lo circonda e che ne accentua l’aspetto grandioso presenta un muro doppio. Lo stretto passaggio così ottenuto permette di raggiungere la cima del monumento, un tempo coperto da legno e tegole. Alcune lastre di pietra incise, di fattura sobria ed espressiva, in parte riutilizzate, raffiguranti scene di jataka, formavano il soffitto. Il Bhojajaniya jataka narra la storia del cavallo del re di Benares, il quale, con il suo aiuto, vinse sette sovrani coalizzati ai quali accordò la grazia su richiesta dell’equide pieno di compassione e saggezza. Per l’eleganza, la purezza e l’originalità delle forme, la statuaria di Sukhothai sarebbe stata uno dei riferimenti ricorrenti dei bronzi thai fino al xx secolo. Chieng Sen Nel nord della Thailandia, il regno di Lan Na proseguì la propria evoluzione artistica. Questo Stato ebbe varie capitali, tra cui Chieng Mai nel 1296 e Chieng Sen nel 1327. I riferimenti

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all’arte pala, per intermediazione della vicina Birmania, rimangono attivi. Ad esempio, secondo la tradizione, il devoto re Tiloka eresse il Phra Chedi del Wat Chedi Chet Yot di Chieng Mai in occasione dei duemila anni dalla nascita del Buddha [fig. 20]. Costruito in laterite e stuccato, l’edificio è ispirato al tempio di Mahaboddhi di Bodhgaya in India, noto luogo di pellegrinaggio dove Tiloka inviò una delegazione. L’interno, con volta a botte costituita da conci, pare ispirato a un’altra celebre copia del tempio di Bodhgaya costruito a Pagan, in Birmania, nel xiii secolo. I muri esterni presentano alcune divinità, stuccate in altorilievo, sedute in adorazione e adornate secondo la moda di Sukhothai. L’influenza di Sukhothai modificò molto i canoni estetici di Lan Na. La Wat Pra Sing Luang di Chieng Mai conserva ancora un Buddha, risalente al 1492, che chiama la Terra a testimone [fig. 22]. Questa imponente scultura riprende i tratti principali dei buddha sukhothai. Si osserva tuttavia un volto più squadrato, dalle guance e dal collo più in carne. Il torso, ampio e rigido, è privo del modellato sottile e lieve-

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18. Buddha in cammino, bronzo, 1427. Wat Phaya Phu, Nam. 19. La Discesa dal cielo dei Trayastrika, stucco con tracce di policromia, xiv secolo. Sukhothai, Wat Trapang Thong Lang.

A partire dal xii secolo, un centro artistico particolare si sviluppò in Thailandia centrale, nel bacino del Menam, nella regione di U Thong. La sua produzione si concentra tra il xii e il xv secolo. La sua importanza non è paragonabile alla storia politica della regione, mal conosciuta e apparentemente senza grande influenza; il regno thai di Ayuthaya, a un centinaio di chilometri a est, occupava il centro della scena politica. Alcuni studiosi, d’altra parte, non esitano a ritenere gli stili di U Thong le fasi più antiche dello stile di Ayuthaya. Nessuna architettura importante e originale è stata scoperta a U Thong. Sopravvivono solo alcune belle immagini di buddha, seduto in virasana e mentre chiama la Terra a testimone. Di una severità maestosa, esse uniscono in lieve dosaggio gli stili di Dvaravati, khmer di Lop’­buri e di Sukhothai. Si usa suddividere questa produzione in tre gruppi. Queste distinzioni un po’ arbitrarie permettono di definire le caratteristiche di ciascun gruppo e corrispondono forse a fasi cronologiche ancora instabili. I pezzi del gruppo A (xii-xiii secolo?), ben esemplificati da un buddha del National Museum di Bangkok [fig. 23] si inseriscono, per le loro proporzioni, in un quadrato. I tratti del volto, fortemente geometrizzati continuano l’arte «khmerizzante« di Lop’buri. Un bocciolo di loto sovrasta l’uspisa. Lo stile B (xiii-xiv secolo?) presenta discreti prestiti dall’estetica di Sukhothai; le proporzioni del torso si allungano; una fiamma sovrasta l’uspisa. I pezzi del gruppo C (xiv-xv secolo?) sono i più numerosi [fig. 21]. Essi sono fortemente ispirati all’arte di Sukhothai ma con una certa rigidità. Alcune statue in pietra del gruppo C, ampiamente diffuse in tutta la Thailandia, sono giunte fino ad Angkor. Ayuthaya

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Verso il 1350, Rama Thibodi i (Ramadhipati), un principe thai, fondò la città di Ayuthaya nella parte meridionale del bacino del Menam, su un’isola artificiale alla confluenza di tre fiumi. La città divenne rapidamente la capitale di

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un potente stato. Nel 1378, Sukhothai dovette dichiararsi suo vassallo e, nel 1438, il potente regno del nord venne annesso a quello di Ayuthaya. Il nuovo regno avrebbe inglobato la maggior parte dei territori che costituiscono la Thailandia moderna, allora chiamata Siam. Nel 1431 le armate di Boromracha ii si impadronirono anche di Angkor. Erede degli Imperi precedenti, Ayuthaya sviluppò un’arte eclettica, di grande varietà e di grande vivacità, ma senza l’originalità né la forza delle scuole più antiche. La sua lunga storia artistica – dal 1350 al 1767 – non potrebbe essere trattata in un unico blocco. Dal 1350 al 1450, gli stili di U Thong B e C furono predominanti in scultura. L’architettura privilegiò un particolare tipo di cappella, il prang, ispirato al pràsàt khmer, ma collocato su un alto basamento [fig. 24]. Alcuni monumenti simili vennero costruiti nel nord, a Sisatchanalai e a Phitsanulok, che fu capitale dal 1463 al 1491. Alla fine degli anni Cinquanta del xx secolo, vennero scoperte le pitture delle camere reliquiarie del prang principale del Wat Rajapurana (1424). Queste composizioni dalle tonalità rosse, bianche e nere,

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eccezionalmente conservate, attestano al tempo stesso una stretta affinità con l’estetica di Sukhothai e la presenza di artigiani cinesi. Dal 1450 al 1650, vennero eretti numerosi stupa ispirati a forme singalesi. La necropoli dei sovrani, pianificata da Boroma Trailokanat (1448-1486) e Rama Thibodi ii (1491-1529) fornisce un buon esempio di questo stile architettonico [fig. 27]. I parasole sovrapposti, saldati l’uno all’altro, formano una spirale che conferisce una particolare snellezza al monumento.

20. Phra Chedi, laterite stuccata, xv secolo. Chieng Mai, Wat Chedi Chet Yot. 21. Testa di Buddha, bronzo con tracce di doratura, inizio del xv secolo. Bangkok, National Museum. 22. Buddha, bronzo dorato, 1492. Chieng Mai, Wat Pra Sing Luang. 25

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Resta difficile delineare un panorama della scultura dell’epoca, tanto numerosi erano i laboratori e variegati gli stili. L’iconografia, più ricca e più varia, evoca numerosi episodi della vita del Buddha o rappresenta il Beato adornato. I buddha incoronati restano così, fino al xx secolo, uno dei temi più frequenti della statuaria religiosa in Thailandia. Le statue di Buddha in piedi, che placa l’oceano, con le mani davanti al corpo che accennano l’abhaya mudra, sono particolarmente numerose. Lo stesso dicasi dei buddha coricati in parinirvapa. Le impronte dei piedi del Buddha ricordano una sacra impronta venerata in cima al monte Samantakuta in Vri Lanka [fig. 25]. A partire dalla metà del xv secolo, molte statue presentano tratti caratteristici della scuola di Ayuthaya. Le influenze di Sukhothai predominano, ma le opere sono prive dell’estrema stilizzazione che costituiva la grande originalità dei pezzi antichi. Una tendenza classica, che raggiungeva talvolta una certa freddezza, caratterizza le opere come il Buddha del Phra Mong­ kol Bophit di Ayuthaya, innalzato da Boroma Trailokanat. Queste statue possono raggiungere dimensioni colossali. La stessa monumentalità e le stesse variazioni a partire dallo stile di

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Sukhothai caratterizzano una celebre testa in bronzo dorato del National Museum di Ban­ g­kok [fig. 28]. Nonostante un’innegabile fedeltà ai modelli, la rotondità del volto tradisce la scuola di Ayuthaya. Questa eleganza, fatta di discrezione e di una discreta stilizzazione ma priva di interiorità, si ritrova in un insieme di buddha ornati di un diadema che ricade davanti alle orecchie come un elmo. Una testa, conservata presso il Rijksmuseum di Amsterdam, è caratteristica di questo gruppo [fig. 30]. Da notare la forma delle orecchie stilizzate a punta, particolarità di questo stile. Dopo il 1650, le tendenze decorative sempre più accentuate predominano su ogni altro carattere estetico. Una statua inginocchiata, in legno, di dimensioni quasi umane, con le mani tese, serviva a porgere le vesti monastiche a un monaco particolarmente riverito durante la cerimonia che seguiva i mesi di ritiro annuale del clero, alla fine della stagione delle piogge [fig. 29]. L’eleganza del gesto, la stilizzazione della posa, l’abbondanza delle decorazioni conferiscono all’opera una certa raffinatezza decorativa. Il regno di Ayuthaya raggiunse forse l’apogeo sotto il fastoso dominio di Chao Boromokot

(Mahadharmaraja ii [1733-1758]). Un decennio più tardi, nel 1767, i Birmani presero e incendiarono la città. Bangkok

23. Buddha, bronzo, xiii secolo (?). Bangkok, National Museum (collezione reale; provenienza: Sanburi).

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Dal 1767 al 1782 la corte soggiornò a Thonburi, sulla riva destra del Menam, a circa novanta chilometri a valle di Ayuthaya. Nel 1782, Rama i (1782-1809), capostipite della dinastia Chakri, trasferì la capitale a Bangkok, sull’altra riva del fiume. La scultura della scuola di Bangkok proseguì le tradizioni di Ayuthaya, con un carattere decorativo ancora più pronunciato e un certo gusto per l’aneddoto. Un celebre bronzo del Phra Pathom Chedi di Nakhon Pathom evoca questi due aspetti [fig. 32]. Esso rappresenta il pio monaco Phra Malai mentre visita gli Inferi. Di ritorno sulla terra, al ricordo dei dannati che lo supplicavano di intercedere per loro, il sant’uomo si fece testimone delle cattive condizioni di reincarnazione e si dedicò alle opere pie. La storia di Phra Malai, originario di Ceylon e precedentemente scritta in pali, conobbe un’ampia diffusione nella versione thai in versi. Il monaco stesso, con la spalla destra scoperta

come si addice a un membro della scuola mahanikaya, riprende le forme stilizzate e affinate dell’ultimo periodo di Ayuthaya. Il basamento nerastro brulica di esseri deformi e di preta scheletrici. L’architettura religiosa, contrariamente agli edifici civili e ai giardini, innovò poco e ripeté con insistenza le forme tradizionali. Il perfetto stato di conservazione dei monasteri di Bang­kok, costruiti imitando le architetture di Ayuthaya, permette di evocare lo splendore degli edifici in legno della capitale scomparsa. La loro vastità e la loro perfezione rimangono senza pari nel nord del paese, dove sopravvivono edifici più piccoli, pieni di fascino, ma di carattere provinciale. Il Wat Phra Keo, nella parte nordorientale del palazzo reale, rappresenta una delle più sontuose realizzazioni dell’epoca [fig. 31]. Parallelamente agli stupa a campana di tradizione singalese, i prang assumono la forma di gigantesche guglie. Come molti altri edifici, si ricoprono di ceramica e specchi. Questo carattere aneddotico e decorativo, legato all’aspetto aereo delle coperture delle sale d’assemblea, conferisce un aspetto irreale ai complessi monumentali. I santuari e i portici presentano delle decorazioni dipinte [figg. 33-34]. Immense

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composizioni, realizzate a tempera, narrano gli episodi della vita del Buddha e i dieci principali jataka. Accomandanti e artigiani accordavano un posto particolare al Vessantara jataka. Alcuni episodi del Ramakien, epopea della storia di Rama, avatara di Vispu – qui inserito in un contesto buddhista – completano la narrazione. Queste grandi composizioni, di stile «ratanakosin«, sono eredi della tradizione di Ayuthaya. Il loro apogeo durò dal 1782, data della fondazione di Bangkok, fino al 1851, anno della morte di Rama iii. La tradizione durò fino alla seconda metà del xix secolo, ma le decorazioni erano ormai segnate da un certo accademismo. Rigogliosi paesaggi panoramici, dai motivi scanditi da architetture viste dal basso all’alto, inglobano gli episodi del racconto [fig. 34]. Dopo il 1851, alcune influenze occidentali, sempre esteticamente integrate, divengono sempre più percepibili. La tavolozza, molto più scura che nello stile di Ayuthaya, privilegia i verdi tenaci e i rossi. Alcuni elementi in oro goffrato accentuano l’aspetto decorativo dell’insieme. Secondo

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una tradizione più autenticamente thai, i mobili e i pannelli laccati presentano molte affinità con la pittura. Gli sfondi, di un nero profondo e lucente, contrastano con i vari elementi del racconto realizzati in oro. Il Laos, ancora mal conosciuto, subì i contraccolpi degli Imperi vicini. Il sud del paese fece parte dell’Impero khmer fino alla metà del xiv secolo. Il buddhismo theravada caratterizzò il regno di Lan Xang, che intrattenne strette relazioni con la Thailandia fino agli inizi del xviii secolo. L’arte del Laos continuò quella di Ayuthaya. I monasteri, caratterizzati da architetture in legno di estrema eleganza, ricordano quelli di Lan Na. Gli stupa (that) possiedono a volte coronamenti originali a cupola o a bulbo. Le più antiche sculture di Luang Prabang, l’ex capitale, subirono la forte influenza delle scuole di Sukhothai e di Chieng Sen. Tuttavia sono caratterizzate da una particolare geometrizzazione. Dopo la presa di Vientiane, capitale dal 1564, da parte di Chao Phraya Chakri nel 1827, le influenze delle scuole di Thonburi e di Ban­­g­kok divennero preponderanti.

24. Prang, laterite stuccata, 1424. Ayuthaya, Wat Rachaburana. 25. Buddhapada, legno dorato, xv secolo circa. Suphanburi, Wat Phra Rup. 26. Phra Mongkol Bophit, Ayuthaya, in un’immagine del xix secolo.

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L’arte del Myanmar costituisce uno dei rari universi estetici asiatici di ispirazione quasi esclusivamente buddhista. Un numero insufficiente di scavi archeologici, una storia complessa studiata in modo frammentario rendono il suo studio particolarmente delicato.

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I Mon e i Pyu Alcune leggende religiose fanno risalire l’introduzione del buddhismo nel bacino dell’Irrawaddy a Tapussa e Bhalluka, due discepoli di Vakyamuni, di ritorno nel loro paese di origine con alcune sante reliquie. Ma bisogna attendere il v secolo perché la religione del Beato vi sia attestata con certezza. Nei secoli successivi, vari popoli si spartirono il Myanmar (un tempo chiamato Birmania). Nel sud-est vivevano alcuni Mon, si pensa in stretta relazione con quelli del sud della Thailandia. La tradizione colloca a Sudhammavati il loro centro più importante, nell’area del sito di Thaton, a est del golfo di Martaban. Nel ix secolo, anche la città di Pegu, a nord-est dell’attuale Rangoon, conobbe una grande prosperità. Nei testi il paese mon della Birmania era chiamato Suvappabhumi («terra dell’oro«). Come i loro omologhi thailandesi e cambogiani, questi porti, resi particolarmente prosperi dal commercio internazionale, furono certamente attivi centri di diffusione della cultura indiana. Tuttavia la loro arte religiosa resta assai mal conosciuta. Le poche vestigia buddhiste conservate sono affini all’arte di Dvaravati o proseguono le tradizioni indiane di epoca gupta, come il raro Buddha in piedi di Thaton [fig. 2], del vi-viii secolo, ispirato al canone dei laboratori di Sarnath. La mano destra ha le dita palmate, uno dei trentadue segni della predisposizione alla buddhità raramente rappresentati. Più a nord nel bacino dell’Irrawaddy, il regno dei Pyu – affini ai birmani – è noto solo grazie ai rarissimi scavi archeologici. Le rovine di

1. Thatbyinnyu, 1155 circa. Pagan. 2. Buddha in piedi, bronzo, vi-viii secolo. Yanaungtail, monastero di Saddhamma Jotika. 3. Carta. 1

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molti monasteri sono state scoperte a Beikthano, a sud di Pagan. Vriksetra (Thayekhettaya), la loro grande capitale, oggi in parte nel sito del villaggio di Hmawza, vicino a Prome, conta tre grandi stupa (v-ix secolo), testimoni dell’attività delle comunità buddhiste. Le basi circolari del Bawbaw-gyi, il più imponente dei tre [fig. 4], prive di ornamenti e l’apda in forma di torre cilindrica sono caratteristiche. L’edificio presenta nella sua imponente base cubica un piccolo santuario che attraverso un portico si apre verso est. Un tale dispositivo e l’esistenza di una volta a concio, come a Yahandagu, hanno permesso di accreditare l’ipotesi che alcune innovazioni dell’architettura di Pagan abbiano avuto origine dai monumenti Pyu. In effetti, sembra che Vriksetra abbia beneficiato di una particolare sollecitudine da parte dei sovrani di Pagan e che le fondazioni in questione siano dovute al loro zelo religioso. Alcune lastre d’oro trovate a Vriksetra, incise in pali e risalenti al 500 circa, costituiscono le più antiche testimonianze dell’epigrafia buddhista scoperte in Birmania. Appartengono forse alla scuola sarvastivada? L’esistenza di una stele con un bodhisattva e varie rappresentazioni del dio induista Vispu impediscono tuttavia qualsiasi generalizzazione affrettata. Le comunità theravada dovevano essere vicine a monasteri mahayana e templi induisti. Le cronache birmane fanno dei Pyu degli zelatori del buddhismo vajrayana, sebbene non ci siano vestigia debitamente repertoriate che corroborino questa tradizione. A Khin Ba, oggi Prome, vicino a Vriksetra, è stato scoperto un deposito di fondazione composto da numerose statuette in oro e in argento dorato. Il pezzo più importante è incontestabilmente un reliquiario circolare del vi secolo, conservato presso il National Museum di Yangon (Rangoon) [fig. 5]. Il coperchio presenta la base di un albero in miniatura spezzato. Quattro buddha decorano il contenitore. Tre – Kassapa (Kavyapa), Kakusandha e Konagamana – sono associati ai periodi passati. Gautama, il buddha dell’epoca cosmica presente, completa il gruppo. Ognuno è accompagnato da due discepoli, disposti secondo un ordine inusuale. Questo particolare proverebbe la relativa ignoranza delle fonti testuali indiane. Una iscrizione in pali e in pyu, risalente secondo l’epigrafe al vi secolo, menziona il nome dei donatori, Vri Prabhuvarman e Vri Prabhudevi, certamente un sovrano e la sua sposa. I buddha, per la forma del volto e l’ampiezza del torso, sono simili

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cheggiarono Halin, la capitale settentrionale dei Pyu. Parallelamente, i birmani, etnicamente affini ai Pyu, si allontanarono dal loro signore, il monarca del Nanchao. Si stabilirono nel medio bacino dell’Irrawaddy e, nell’849, fondarono la loro capitale, Pagan, mirabilmente collocata in un meandro del fiume. Abbandonando poco a poco le tradizioni animiste, i birmani aderirono al buddhismo. Secondo la tradizione Ngaung-U Sawrahan (Taungthugyi), trentottesimo sovrano di Pagan (931-964), inviò alcuni monaci a formarsi a Prome e a Thaton. Il buddhismo mahayana, presente tra i Pyu, ebbe la meglio in un primo tempo. La lingua sanscrita dominava gli studi religiosi. La scuola degli Ari, particolar-

all’estetica di Anuradhapura. Tra le rare sculture in pietra sopravvissute, una stele rappresenta il primo sermone di Vakyamuni a Sarnath (viii-ix secolo?). L’edicola, coronata da un vikhara che ospitava il Buddha, e la composizione, di una simmetria rigorosa, sono segno di contatti con l’India pala [fig. 6]. Si possono tuttavia accostare i loro volti etnicamente caratterizzati – larghi e squadrati, dalle sopracciglia «ad accento circonflesso« – ad alcune rappresentazioni mon di Dvaravati. Pagan Nell’832, le armate del Nanchao – regno situato nella parte occidentale dello Yunnan – sac-

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4. Bawbaw-gyi, v-ix secolo. Vriksetra. 5. Reliquiario, argento dorato, vi secolo. Rangoon, National Museum (provenienza: Khin Ba).

mente attiva, si sviluppò ai margini del Mahayana, accordando un culto particolare ai naga, adorati in quanto manifestazioni delle potenze ctonie. I nat, spiriti autoctoni, giocavano un ruolo specifico nella vita religiosa – che in parte conservano ancora oggi. La disciplina monastica non era applicata in tutto il suo rigore. Il re Anuradha (Anawrahta [1044-1077]) segnò una svolta nella storia della Birmania. Il sovrano era stato convertito al buddhismo theravada da Shin Arahan, un monaco mon, che divenne suo consigliere. Questa tradizione entra in contraddizione con l’epigrafia. Alcune targhette incise rinvenute fanno di questo sovrano un sostenitore del Mahayana. In effetti il monarca doveva fornire il proprio appoggio ai vari culti presenti nei suoi Stati. Tuttavia, a partire dal suo regno, le tradizioni mahayana e tantrica persero poco a poco la propria supremazia nei confronti del Theravada. Le cronache narrano come, in seguito a ripetuti rifiuti da parte del re mon di inviargli un canone in pali e alcune reliquie, Anuradha lanciò il proprio esercito contro Thaton che fu presa e rasa al suolo nel 1047. Poco dopo anche il regno pyu fu annesso. Le fonti letterarie descrivono lo splendore del bottino trasportato da trentatré elefanti. Il re mon di Thaton e la sua corte, artigiani e monaci, tutti portati nella capitale del vincitore, resero evidenti le tradizioni mon nell’architettura e nelle arti. Tipi monumentali

6. Primo sermone del Buddha, pietra, vi-vii secolo. Vriksetra, collina di Nyaungnibin. Hmawza (o Rangoon, National Museum?).

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Nella doppia pagina seguente: 7. Veduta generale di Pagan.

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Pochi monumenti possono essere fatti risalire con certezza al ix e x secolo. Un eccezionale zelo religioso caratterizzò i tre secoli successivi, corrispondenti alla gloria di Pagan, capitale di una Birmania unificata [figg. 7, 10]. Più di duemila edifici buddhisti furono edificati nella città e nelle vicinanze. Nonostante molti forti sismi, numerosi monumenti sono sopravvissuti. La loro cronologia tradizionale si basa sullo Hman-Nan Yazawin (La cronaca del palazzo di cristallo), testo del ix secolo, e raramente sull’epigrafia. La loro quasi totalità, costruita in laterizio e stuccata, presenta una grande varietà tematica a partire da alcuni elementi architettonici di base. A questo proposito, gli stupa (zedi) di Pagan sono caratteristici. Alcuni, come il Lokananda (Myinpagan [fig. 8]), sembrano derivare dagli stupa pyu. Un gioco di sagomature, a media altezza, stringe il loro corpo campaniforme. La cima, priva di harmika, si fonde direttamente con una spirale sagomata,

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stilizzazione di una serie di parasole. Alcune basi ottagonali a uno o più livelli, che comprendono a volte terrazze piuttosto ampie destinate al rito della circumambulazione, circondano il monumento. Più raramente, come presso lo Shwesandaw [fig. 9], alcune terrazze multiple a pianta quadrata, provviste di scale assiali, reggono il tumulo sacro. Una seconda grande tipologia, come il Seinnyetnyima (Myinpagan [fig. 12]) (xii secolo), circondato a metà altezza da sagomature assai accentuate, presenta una harmika i cui angoli smussati lo rendono simile a un ottagono o a un cerchio. I parasole stilizzati che compongono la spirale sono ben separati gli uni dagli altri. A causa della sua strettezza, la base, rotonda o ottagonale, non permette la circumambulazione. Un’altra forma di stupa, più semplice e di una ortodossia perfetta, sarebbe stata diffusa, alla fine del xii secolo, da monaci giunti da Ceylon, come reazione contro i caitya (cetiya monumentali), posti su piramidi. Con il corpo privo di sagomature, sono sormontati da una massiccia harmika di forma squadrata. La spirale di parasole lascia il posto a un semplice pinnacolo sagomato. Molti stupa, costruiti come ex voto, non erano legati ad alcun monastero. Altri, come vuole la tradizione, si inserivano nelle costruzioni monastiche. Molti conventi, costruiti in materiali deperibili come gli edifici civili, sono scomparsi. Alcuni tuttavia, costruiti in mattoni, permettono di ricostruire il quadro della vita monastica. Il Somingyi (Myinpagan), relativamente ben conservato, dispone di un atrio monumentale e di un cortile circondato da un deambulatorio [figg. 11, 13]. Attraverso una scala si raggiungeva il primo piano. Questo piano, abituale in India come testimoniano gli scavi di Malanda, è frequente anche in Nepal. I «templi« rappresentano la grande originalità di Pagan. Il termine «ku«, derivante dal pali «guha«, indica a livello locale questi santuari buddhisti monumentali. La parola «grotta« è una delle possibili traduzioni. Questi edifici, a volte immensi, sono stati paragonati a montagne bucate da caverne, come altrettanti luoghi sacri. La maggior parte di essi è costruita intorno a un «nucleo centrale«, vera e propria torre, che riveste, al centro dell’edificio, lo stesso ruolo religioso di uno stupa all’aria aperta. Secondo alcuni, l’origine di questa scelta architettonica sarebbe la trascrizione in materiali duraturi di allestimenti effimeri realizzati in occasione di feste, costituiti da tendoni che circondavano grandi stupa di tipo pyu [fig.

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8. Lokananda. Metà dell’xi secolo. Myinpagan. 9. Shwesandaw. Metà dell’xi secolo. Pagan.

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12. Seinnyetnyima. Metà dell’xi secolo. Myinpagan.

10. Pianta di Pagan. 11. Pianta del Somingyi. Epoca di Pagan (xi-xii secolo). Myinpagan.

13. Cella e deambulatorio. Epoca di Pagan (xi-xii secolo). Myinpagan, Somingyi. 14. Ipotetica evoluzione degli stupa birmani, con tendone (a sinistra) e tempio (a destra).

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14]. Altri, costruiti sulla pianta di un «quadrato vuoto«, custodiscono al centro una vera e propria cella che ospita una statua del Buddha. In realtà le cose sono più complesse. L’evoluzione tradizionalmente accettata dagli specialisti distingue una prima fase fortemente influenzata dall’arte mon, e una seconda, caratterizzata dall’edificazione di grandi templi di stile «birmano antico«. Il crinale tra i due periodi viene posto verso il 1120.

La Nanpaya, impressionante testimonianza della presenza mon, fu edificata per servire da tempio-prigione per Manuha, il re di Thaton, deportato a Pagan nel 1057. All’interno, quattro massicci pilastri presentano dei delicati bassorilievi, risalenti al 1060 circa, che mostrano Brahma, dio brahmanico assimilato dal buddhismo [fig. 15]. La geometrizzazione del volto, la stilizzazione delle foglie di loto che circondano la divinità e una ricca decorazione scolpita [fig. 16] evocano le più belle realizzazioni dell’arte pala. È possibile immaginare la sontuosità e la raffinatezza della cultura mon svelata in modo assai lacunoso dagli scavi archeologici nel sud del paese. L’Abeydana risalirebbe al regno di Kyanzittha (1084-1113), figlio cadetto di Anawrahta [fig. 18]. Sarebbe stato costruito dalla sposa del sovrano, fervente adepta del Mahayana. L’edificio presenta tutte le caratteristiche dei templi di Pagan influenzati dalla tradizione mon. Un atrio sporgente segna l’unico ingresso. Motivi ad arco a ogiva «clec«, sovrastati da alte fiamme, sormontano le piccole finestre. Le pareti divisorie traforate lasciano penetrare la luce all’interno del santuario in modo limitato. Gradini sovrapposti, alla maniera dei templi pala di tipo prasada, formano il tetto, poco sviluppato. La loro pendenza corrisponde alle volte del santuario. Effettivamente, i birmani coprivano i loro templi con volte a concio, con ogni arco spezzato, edificato di sbieco, poggiante su quello accanto. Questa tecnica originale, probabilmente ereditata dai Pyu, trova nell’Abeyadana una delle sue migliori applicazioni. Uno stupa monumentale sovrasta l’insieme. L’interno ha conservato la ricca decorazione dipinta [fig. 14

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17] di bodhisattva e divinità secondarie del buddhismo mahayana, strettamente suddivisi in registri fortemente architettati. La stilizzazione delle forme, e la tipologia dell’ornamento e dei gioielli collegano questo vasto insieme decorativo alla tradizione pittorica pala, scomparsa in gran parte nella stessa India. L’Ananda (1105 circa?), il più celebre monumento di questo periodo, sarebbe stato costruito da Kyanzittha secondo la descrizione da parte di monaci indiani del loro tempio scavato a Udayagiri in Orissa, anch’esso pianificato secondo il mitico tempio di Nandamula, sul monte Gandhamadana, da qualche parte sull’Himalaya [figg. 19-21]. L’edificio si chiamava in origine Ananta Panna, allusione all’infinita saggezza del Buddha. La tradizione popolare trasformò il termine in Ananda, nome del giovane cugino di Vakyamuni. L’edificio si presenta come un ampio quadrato di sessanta metri di lato. Quattro avancorpi particolarmente sviluppati sottolineano i quattro accessi e conferiscono al monumento una pianta a forma di croce che è stata talvolta paragonata al tempio di Paharpur in Bihar. Due deambulatori, illuminati da piccole finestre e sopraluce, servono a compiere il rito di circumambulazione intorno a un imponente massiccio in muratura al centro dell’edificio, forato da quattro nicchie colossali sugli assi degli ingressi, ognuna delle quali ospita un Buddha di dieci metri di altezza. L’insieme forma un gruppo comprendente il Buddha storico

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15. Brahma, pietra, 1060 circa. Myinpagan, Nanpaya. 16. Ornamento, pietra, 1060 circa (particolare della fig. 13). Myinpagan, Nanpaya. 17. Pitture murali, 10841113. Myinpagan, Abeyadana.

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18. Abeyadana, 10841113. Myinpagan.

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19. A destra: Ananda, 1105 circa; a sinistra: Thatbyinnyu, 1155 circa. Pagan. 18

20. Sezione e pianta dell’Ananda, 1105 circa (?). Pagan. 21. Ananda. 22. Sezione del Thatbyinnyu, 1155 circa. Pagan.

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e quelli degli ultimi tre periodi cosmici. Due di essi, caratteristici dei buddha dello stile di Pagan, risalirebbero ai primi anni del xii secolo [fig. 23]. Il corpo allungato, privo di muscolatura, e il bacino largo, contrastano con il volto dagli zigomi evidenti, terminante con un piccolo mento appuntito. L’acconciatura, formata da ricciolini a punta, ben separati gli uni dagli altri, sovrasta la fronte bassa. Le sopracciglia inarcate e la linea del naso delineano un angolo quasi retto. La veste superiore aderente al corpo si scosta lateralmente in due grandi corolle simmetriche bordate da pieghe sinuose. Come

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tva. Sei piccoli buddha meditanti evocano i luoghi nei quali Vakyamuni soggiornò durante le sei settimane successive al suo Risveglio. Alcuni bei bronzi rappresentano Vakyamuni seduto, ma più spesso in piedi. Si suddividono in due grandi gruppi, il più antico dei quali resta fedele ai canoni dell’arte pala. Durante un secondo periodo, i volti divennero più tondi e i colli più corti; le forme si appesantirono. Tra i rari oggetti di culto conservati, bisogna menzionare un loto di bronzo, che riprende un modello pala. Dischiuso, lascia vedere all’interno di ogni petalo un discepolo in adorazione e, al centro, un santuario sormontato da un vikhara in miniatura. Otto nicchie polilobate ospitano un Buddha, simbolo di uno degli otto grandi eventi della vita del Beato. Questo tipo di oggetti legati a rituali tantrici in India e in Tibet viene così trasferito in un contesto theravada.

23. Kassapa, legno dorato, 1105 circa (?). Pagan, Ananda.

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nei templi del Bihar e dell’Orissa, un grande vikhara sovrasta delle coperture a gradini di tipo mon, scandite da piccoli stupa. All’esterno, circa millecinquecento lastre di terracotta verniciate hanno per soggetto dei jataka identificati da iscrizioni in mon [fig. 25]. Il loro contenuto narrativo, dai molti dettagli aneddotici, contrasta con il carattere solenne delle statue monumentali all’interno dell’edificio. La costruzione del Thatbyinnyu, verso il 1155, segnò l’esito di nuove tendenze nate poco a poco a partire dal 1120 [figg. 1, 22]. Per la prima volta un solo e immenso edificio riuniva le funzioni di monastero e santuario. L’edificio presenta due piani ben delimitati. A causa della nuova importanza accordata alla superficie delle facciate, grandi aperture prive di crociera e sormontate da grandi motivi «clec« illuminano adeguatamente l’interno. Il basamento inferiore è dotato di lunghi corridoi che danno accesso alle celle dei monaci. Sulla terrazza, una grande stanza dotata di volta e che ospita una statua di Buddha sostituisce l’antico pilastro assiale. La torre che domina il monumento, sebbene si richiami a vikhara indiani, gioca lo stesso ruolo di un colossale stupa. Il Sulamani (1184) è indubbiamente il più perfetto tempio edificato in questo stile «birmano antico«. Nel xii e xiii

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secolo, furono costruiti degli stupa monumentali con basi a cinque lati, simbolo degli ultimi tre buddha del passato, del Buddha storico e di Maitreya (Metteya), come ad esempio il Dhammayazika (1196-1198). La decorazione monumentale e la statuaria Molti monumenti hanno conservato una parte del rivestimento in stucco scolpito: pilastri ornati e motivi «clec« su finestre e porte. Presso il monastero di Hsutaungpyi Pwasaw, della metà del xiii secolo, alcuni devata e motivi animali si mischiano al fogliame e ai motivi lavorati dagli orefici usuali in questo tipo di decorazione [fig. 26]. Gli interni dei templi hanno sofferto molto. Pochi hanno conservato i dipinti originali. Oltre l’Abeyadana, è bene citare le decorazioni, realizzate secondo lo stile pala del Bihar, del Kubyaukyi nel villaggio di Myinkaba (1113), del Kubyaukgyi a Wetkyi-in (inizio del xiii secolo) e del Sennyet Nyiama (xiii secolo). Con alcune cappelle tibetane, costituiscono le uniche testimonianze della pittura murale in India del nord in epoca medievale. Paradossalmente, la statuaria dell’epoca di Pagan sembra relativamente povera. L’impiego

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24. Scene della vita di Vakyamuni, steatite con tracce di doratura, xii-xiii secolo. New York, The Asia Society (Mr. and Mrs John D. Rockefeller iii Collection). 25. Vinilakajataka, terracotta dipinta, inizio del xii secolo. Pagan, Ananda. 26. Stucco metà del xiii secolo. Pwasaw, monastero di Hsutaungpyi. 27. La discesa dal cielo dei Trayastrikva, legno, xiii-xiv secolo (?). Museo di Pagan. 28. Mingun, 1790-1802. Regione di Mandalay. 28

Dopo Pagan 27

del laterizio stuccato e del legno non ha permesso la conservazione sistematica delle statue di culto all’interno dei santuari. L’uso di collocare intorno ai monumenti religiosi delle lastre verniciate raffiguranti i jataka sopravvisse per tutto il periodo, come testimoniano i cicli pieni di brio ancora in situ presso i due stupa Peitleik a Thiripyitsaya. Nella maggior parte delle collezioni si trovano piccole steli ex voto in steatite destinate ai pellegrini. Esse rappresentano il Buddha seduto, mentre prende la Terra a testimone, evocazione del suo Risveglio, circondato da altri sette episodi della sua vita [fig. 24]. In Birmania, questa iconografia ispirata all’arte pala include due assistenti supplementari, deva o bodhisat-

Economicamente indebolito dalle esenzioni dalle tasse dei domini, sempre maggiori, accordate al clero, il regno di Pagan non era preparato a resistere alle invasioni mongole. Una incursione devastatrice dell’esercito di Kublai Khan, nel 1297, mise fine all’egemonia di Pagan. Il crollo del regno di Pagan non mise tuttavia fine all’attività della città. Alla fine del xiii secolo e nel corso del xiv, un ricco artigianato di scultura su legno si sviluppò nella regione. Scene della vita del Buddha [fig. 27] e grandi buddha ornati in piedi perpetuano con efficacia i canoni artistici del secondo periodo dell’arte di Pagan. La scissione politica sprofondò il paese nell’anarchia. Si conosce male l’arte del regno degli Shan di Ratanapura, oggi Ava, e un po’ meglio quella dei potenti Mon di Haksavat, l’attuale Pegu. Dhammacheti (1462-1492), il loro sovrano più importante, impose una riforma religiosa riorganizzando la comunità sul modello della scuola singalese del Mahavihara. Nella capitale realizzò dei doppioni simbolici dei grandi siti di pellegrinaggio associati alla vita del Buddha (1479). È difficile ricostruire lo stato originale degli edifici, ampliamente modificati nel corso dei secoli. Il Toungoo, principato dell’Alta Birmania, mise fine alla potenza di Ava nel 1555. Nel xviii secolo, Alaungpaya, il suo sovrano (regnante 1752-1760), personaggio senza pari, unificò per la seconda volta la Birmania e fondò la dinastia Konbaung. Due monarchi le diedero maggior

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lustro. Bodawpaya (1782-1819) spostò la capitale da Ava ad Amarapura. Egli volle edificare il Mingun, tempio gigantesco, per ospitare un dente di Buddha acquisito in Cina nel 1790 [fig. 28]. Solo il basamento in laterizio, di dimensioni colossali, venne realizzato mentre il resto rimase incompiuto. Mindon (regnante 1853-1878) trasferì la capitale a Madalay. I monasteri di questo periodo, in laterizio stuccato, incorporano alcuni elementi ispirati al linguaggio architettonico o decorativo occidentale. Fervente buddhista, riunì il v concilio che revisionò il canone pali. Una delle grandi opere del regno fu, nel 1871, l’edificazione del complesso Kuthodaw [fig. 29]. Intorno a uno stupa costruito qualche anno prima (1857), vennero erette 729 steli in marmo, raffiguranti la versione ortodossa di questo Tipitaka, ognuna ospitata da un’edicola [fig. 30]. Durante il lungo periodo che seguì il crollo del regno di Pagan, la tradizione pittorica si trasformò profondamente. Rompendo con gli antichi schemi indiani della scuola pala, la pittura birmana si frammentò in vari stili regionali conosciuti in modo disomogeneo. Alcuni ambiziosi cicli pittorici, come testimoniano certi templi di Pagan, accordano maggiore spazio al racconto e all’aneddoto. Alcuni libri illustrati, a volte di grande qualità, narrano i jataka [fig. 31], illustrano le varie peripezie della vita del Buddha e ricordano i grandi eventi della storia della comunità.

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29. Veduta aerea del Kuthodaw. Mandalay. 30. Edicole, 1871. Mandalay, Kuthodaw. 31

31. Sarambha jataka, inchiostro e colori su cartoncino, metà del xix secolo. Londra, The British Library. 32. Buddha ornato, legno dorato incrostato, xix secolo. Londra, The British Museum. 33. Shwedagon, allo stato del 1871. Rangoon.

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La scultura su legno del xviii e del xix secolo, invece, perse spesso ogni interiorità diventando puramente decorativa [fig. 32]. Doratura e incrostazioni di conterie e di mica concorrono a conferire alle opere un aspetto piacevole e cangiante. Altri stili, scaturiti da scuole regionali come l’Arakan, vicino al confine indiano, conservano la loro specificità. La più bella creazione degli ultimi secoli dell’arte birmana è incontestabilmente lo Shwedagon di Rangoon. Questo gigantesco stupa, edificato su una collina vicino alla città, sarebbe stato costruito in data remota per contenere alcuni cavalli del Buddha. Si possono seguire con precisione i vari restauri e ampliamenti dalla metà

del xviii secolo. Il suo stato definitivo risale al 1759. Alaungpaya (1752-1760), il re fondatore di Rangoon [fig. 33], ordinò di dorare sistematicamente tutto lo stupa. Nel 1871, Mindon fece dono di un nuovo pinnacolo arricchito di pietre preziose. L’immenso stupa segna il punto finale dell’evoluzione dei tumuli reliquiari in Birmania. Nessuna rottura separa più i vari elementi dell’edificio. Una semplice serie di registri, scanditi da sottili modanature, porta impercettibilmente l’occhio dalla base alla cima del monumento. Nel 1885, i Britannici annessero l’intera Birmania. La fede nel buddhismo theravada divenne uno dei rari rifugi dell’identità nazionale.

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IL GANDHARA E L’ASIA CENTROCCIDENTALE

L’immensa regione montuosa che circonda la catena dell’Hindukush, suddivisa tra le repubbliche di Uzbekistan, Afghanistan e il nord del Pakistan, conobbe una storia movimentata. All’incrocio delle civiltà di Iran, India e del mondo nomade, per sedici secoli costituì una via di passaggio quasi obbligata per le carovane che collegavano l’Occidente alla Cina.

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Prima dell’introduzione del buddhismo In epoca antica, tre province principali occupavano quest’ampia area da nord-ovest a sud-est. A nord, la Battria, attraversata dall’Oxus (Amudaria), aveva per capitale la ricca città di Battra (Balkh). Al centro, la Kapiva, corrispondente all’Afghanistan orientale, era attraversata dalle


il gandhara e l’asia centroccidentale

principali piste carovaniere. Kapivi (Begram), la capitale, si trovava circa quarantacinque chilometri a nord dell’attuale Kabul. Infine, a sudest, il Gandhara designa per la maggior parte degli storici la regione di Peshawar, in senso lato. Conquistati nel 516 a.C. da Dario, questi territori erano suddivisi in satrapie. Dal 329 al 325, subirono il passaggio di Alessandro Magno. Uniti all’Impero seleucide fino verso il 250, Battria e Kapiva furono in seguito governate per più di un secolo da dinasti greco-battriani. Gli scavi di Ai-khanum, forse l’antica «Alessandria dell’Oxus«, citata da Tolomeo, hanno rivelato l’esistenza di una città greca particolarmente prospera sulle sponde dell’Amudaria. A sud-est, un accordo permise al giovane Impero maurya di controllare il Gandhara, una parte del Panjab e anche, più a nord, il sud dell’Afghanistan. Il futuro Avoka (271-235 a.C. circa) fu così nominato governatore di Taxila in giovane età. Più avanti, fece incidere due dei suoi famosi editti a Lampaka (Laghman) e Kandahar in Afghanistan. Il secondo, redatto in greco e in armeno, prova l’importanza dell’ellenizzazione delle popolazioni locali e il fascino esercitato dall’Impero iraniano sul loro capo. Ben al di là di questo confine nordoccidentale dell’India, numerosi Greci (Yavana) commerciavano in molte zone del subcontinente. Dopo un brillante rinnovamento della potenza greca che, al di là dell’Hindukush, permise la costituzione di un effimero ma potente regno nella prima parte del ii secolo a.C. I principati greco-battriani furono per lo più annientati verso il 130 a.C. da una prima invasione, forse quella degli Yuezhi, un popolo prototurco originario del Gansu. Alcuni decenni più tardi, gli Yuezhi si opposero ai Vaka, Sciti iranizzati originari, secondo alcuni, della Transoxiana. Il re vaka Maues regnò a Taxila verso l’80 a.C. Alcuni reucci greco-battriani riuscirono tuttavia a sopravvivere localmente in questo ambiente ostile fino alla seconda metà del i secolo a.C. La situazione politica si complicò a causa dell’intervento di un ramo cadetto dei Parti Arsacidi che ottennero un effimero principato nel sud dell’Hindukush e nella regione di Taxila. All’inizio del i secolo, una tribù Yuezhi dominava quasi tutti i rivali. Kujula Kadphises, il suo capo, fondò l’Impero kusapa, esteso fino alle rive dell’Indo da Vima Kadphises, suo figlio. Kaniska i, il terzo Grande kusapa, conferì la massima estensione all’Impero che si estendeva così dal mare di Aral al Bengala, inglobando

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la parte più occidentale dello Xinjiang. Le date relative a questo sovrano, autore di molte famose iscrizioni, restano discusse. Il suo avvento, che segna l’inizio di un nuovo calendario, è collocato da alcuni archeologi nel 78 e da altri nel 144. Il primo quarto del ii secolo (verso il 120) rappresenta forse l’ipotesi più plausibile. All’interno dell’Impero, i vari territori conservarono le proprie tradizioni culturali. I contatti tra l’arte del Gandhara e i laboratori di scultura della regione di Mathura in India del nord sono attestati, ma non costituirono un fattore di evoluzione per queste due scuole.

Nelle pagine precedenti: 1. Buddha di 53 metri, primo quarto del vii secolo (?). Falesia di Bamiyan.

Una iconografia innovativa

5. Reliquiario, oro incrostato di rubini, i secolo a.C. o più recente. Londra, The British Museum (provenienza: Stupa [Birmaran]).

Questi complessi dati storici spiegano il particolare contesto nel quale fiorì l’arte del Gandhara. Una base ellenistica, alimentata dal commercio dei prodotti di lusso esportati dal bacino mediterraneo, si mescolò a influenze parte e indiane a vantaggio di una iconografia buddhista innovativa. Sbalordisce la sua espansione in un ampio territorio dell’Asia centrale. La sua durata, si pensa dal i secolo a.C. fino alla conquista islamica – che sottomise interamente il Panjab solo verso l’885 –, sorprende. L’indeterminatezza cronologica nella quale è immersa la maggior parte dei complessi monumentali – a maggior ragione le numerose sculture allontanate dal loro ambiente originale – infastidisce. La prodigiosa quantità di opere realizzate ha per corollario flagranti disuguaglianze di qualità. Ad oggi, qualsiasi datazione resta ipotetica. Rimangono molte importanti zone d’ombra. Innanzitutto la data dell’introduzione del buddhismo in queste regioni. Sarebbe attestato dal ii secolo a.C. Menandro, uno dei sovrani indo-greci, che i testi indiani chiamano Milinda, si sarebbe convertito alla nuova religione verso il 150 a.C. Poi l’orientamento settario: le iscrizioni e le testimonianze incise non offrono alcun elemento che permetta di ricollegare i complessi monumentali a una scuola monastica precisa. Ancora non studiati, i vari modi di ornare il Buddha, spalla destra nuda o coperta, sono forse indicativi. Il concilio indetto da Kaniska in Kashmir, a Jalandhara secondo le fonti tibetane, dimostra la preminenza dei Sarvastivadin-Vaibhasika. Tuttavia, i Mahasakghika, tra i quali vennero elaborati i grandi temi del Mahayana, dovevano essere numerosi e potenti in tutte le province occidentali. Nel ii secolo, il Grande Veicolo sembrava già costituito poggiando sul fulcro es-

2. Carta. In questa doppia pagina: 3. La prima predicazione, scisto, ii secolo circa. Tokyo, National Museum. 4. Reliquiario, bronzo, ii secolo. Peshawar, Archaeological Museum (provenienza: stupa [Shah-ji-kiDheri]).

6. Moneta raffigurante Kaniska e il Buddha, oro, ii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: Ahin-Posh).

4, 5

Nella pagina seguente: 7. Base di stupa, pseudo «santuario dell’Aquila a due teste«, fine del i secolo a.C. Taxila, Sirkap (blocco F). 8. Pianta del tempio absidale, prima metà del i secolo. Taxila, Sirkap (blocco D). 9. Pianta del sito di Taxila, secondo Sir John Marshall. 10. Pianta del Dharmarajika stupa, secondo Sir John Marshall. Taxila.

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senziale del Prajnaparamita sutra. Nel vii secolo, Xuanzang diede preziose informazioni sulle comunità buddhiste incontrate: esclusivamente hinayana a Balkh, hinayana a Bamiyan, mahayana in Kapiva, hinayana e mahayana a Hadda e nel Gandhara. L’iconografia delle statue ritrovate sembra tuttavia più complessa e diversificata. Lo sviluppo delle decorazioni monumentali, senza precedenti all’epoca nel resto del mondo indianizzato, si spiega in parte con tradizioni apocrife che collocano in queste regioni episodi di alcuni jataka, come anche miracoli compiuti da buddha del passato e anche, contro ogni logica, da Vakyamuni nella sua ultima vita. Con l’avvento del Mahavana, questo fenomeno si accentuò attraverso la moltiplicazione di ex voto. La nuova credenza nel trasferimento di meriti (paripamana) a tutti gli esseri e alle persone decedute sviluppò numerose pratiche pietistiche e aumentò indirettamente il numero degli accomandanti. Le prime immagini del Buddha nacquero in questo contesto di mutazione filosofica, senza che si possa legare questa rivoluzione dell’iconografia a una corrente settaria particolare del Theravada o del Mahayana. Non si può nemmeno provare con certezza l’anteriorità

delle rappresentazioni del Buddha del Gandhara sulle più antiche sculture del Beato realizzate a Mathura, una capitale dei Grandi Kusapa. Bisogna tuttavia notare l’estrema rarità delle rappresentazioni aniconiche nel Gandhara. Ad esempio un piccolo rilievo del National Museum di Tokyo si inserisce in questa iconografia aniconica [fig. 3]. Esso rappresenta la prima predicazione, facilmente riconoscibile grazie a due piccoli cervidi inginocchiati, simbolo del parco delle Gazzelle in cui ebbe luogo l’avvenimento. I primi cinque discepoli, con le mani giunte, ascoltano le parole del maestro. Quest’ultimo è raffigurato da tre ruote, simbolo del triratna. Il grande Kaniska rimane associato a due celebri rappresentazioni del Buddha tra le più antiche. Il sovrano fece realizzare molte monetazioni che lo rappresentavano mentre rendeva omaggio al fuoco, compiendo così un rito essenziale dello Zoroastrismo ufficiale. Molte divinità ornavano l’altra faccia. Una delle coniature, ad esempio, mostra il Buddha indicato dall’iscrizione Boddo, in caratteri greci [fig. 6]. Il suo aspetto, già molto elaborato, corrisponde a quello dell’arte del Gandhara. Un secondo esempio è fornito da un reliquiario, scoperto a Shah-ji-ki-Dheri (l’antica Kaniska-pura), vicino a Peshawar, la

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cui iscrizione cita il nome di Kaniska [fig. 4]. Il coperchio porta una piccola scultura del Buddha, adorato da due aiutanti: Indra e Brahma. Due registri principali decorano il cofanetto. In alto due oche selvatiche in volo perpetuano un tema frequente nell’antica arte indiana. Una grossa ghirlanda, retta all’antica da putti, adorna il registro inferiore. Figure a mezzobusto compaiono nei drappeggi così formati: altri due buddha, Brahma e Indra; le divinità astrali Mao e Miiro, dio solare incoronato da fiori. Un principe in piedi, forse Kaniska stesso, è vestito alla kusapa con un caftano e pantaloni a sbuffo che ricadono sugli stivali. Un altro reliquiario, scoperto all’interno dello stupa di Birmaran, in Afghanistan, pone più problemi [fig. 5]. Alcune monete di rame del re vaka Azes ii (36 a.C.-1 d.C. circa) trovate accanto, spingono ovviamente a farla risalire al i secolo a.C. Delicati archi indiani ospitano otto personaggi. Tra di essi, il Buddha circondato da Brahma barbuto e Indra, vestito come un re, compaiono due volte. Il Buddha presenta la maggior parte delle caratteristiche che gli saranno proprie nelle rappresentazioni attraverso tutto il mondo buddhista tradizionale. Una simile immagine tanto riuscita non può che essere successiva a una fase di formazione della sua iconografia. Coperto da un grande mantello plissettato, esegue l’abhaya mudra con la mano destra. Le altre due figure, rappresentate di profilo, pettinate con uno chignon e nimbate come il Buddha, compiono il gesto d’omaggio (anjali mudra). Potrebbero essere identificate con dei bodhisattva. Al di là dei criteri stilistici, soggettivi e instabili, questa iconografia si richiama al Mahayana e si inserisce al meglio nel

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contesto del ii o addirittura del iii secolo. Quale che sia la sua datazione, il reliquiario presenta importanti differenze plastiche rispetto a quello di Shah-ji-ki-Dheri. Le due opere sono emblematiche di un’altra caratteristica dell’arte gandhariana: l’estrema varietà degli stili praticata da vari laboratori che rivaleggiavano in questa parte dell’Asia centrale. Il sito di Taxila (Taksavila), capitale del Gandhara, comprende diversi agglomerati urbani, giustapposti nel corso dei secoli [fig. 9]. Quello di Sirkap, edificato dai principi greco-battriani all’inizio del ii secolo a.C., fu interamente dis-

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9

Sirsukh

ra nola

Mohra-maliaran

Monastero

Monastero Jaulian

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Monastero Mohra-moradu

Porta Norf Tempio D Palazzo Monastero Kulana

Museo Bhir-mound

ola

Grande Stupa Dharmarajika Stupa

ra n

am

F. T

11. Tipi di apparecchiatura muraria: a) i secolo a.C. b) i secolo della nostra era c) fine del ii secolo d) iv e v secolo. Taxila, Dharmarajika stupa.

trutto da un terremoto e ricostruito all’inizio della nostra epoca. Sull’arteria principale, che conduce al palazzo, due monumenti buddhisti sono inclusi nel tessuto urbano, apparentemente separati da qualsiasi contesto monastico. Il tempio absidale del blocco D [fig. 8] presenta ad esempio un motivo attestato nell’architettura rupestre indiana dal iii secolo a.C. Nel blocco F, alcuni pilastri corinzi [fig. 7] scandiscono la base di uno stupa, che Sir John Marshall ha impropriamente chiamato «santuario dell’Aquila a due teste« durante lo scavo. Nelle campate così formate, dei frontoni triangolari greco-parti – archi indiani o torapa, alla maniera delle porte dello stupa di Sapci n. 1, a loro contemporanee – sormontano delle piccole nicchie. Alcuni stucchi scoperti nelle vicinanze del tempio absidale e le statue più antiche provenienti dagli scavi italiani di Butkara n. 1, nella valle dello Swat, presentano teste circolari, un po’ secondo lo stile di produzione

13. Manikyala stupa.

Jandial Tempio

Sirkap

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12. Stupa, pietra e stucco, dopo il ii secolo. Mohra Moradu, monastero (cella n. 9).

Muraglia esistente

F. Tam

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Monastero Kalawan

Monastero Giri

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della regione di Mathura del i e del ii secolo. Questa comparazione si basa tuttavia su un numero di opere troppo limitato per permettere una datazione. Molti importanti complessi monastici erano stati costruiti non lontano da Taxila. Il più antico e il più vasto, fondato da Avoka, era dominato dal gigantesco stupa di Dharmarajika (Chir Tope [fig. 10]), talvolta indicato con l’epiteto «Re della Legge« (Dharmaraja) e che ospitava forse una reliquia del Buddha. Nonostante i frequenti lavori di restauro e ingrandimento – che la varietà di apparecchiature di costruzione rende particolarmente espliciti [fig. 11] –, nonostante l’edificazione di numerose cappelle secondarie intorno al tumulo commemorativo, il monumento ha conservato la propria forma originale. Come nei più antichi tumuli indiani, un ridotto basamento regge una vasta collinetta semisferica. Lo stupa di Manikyala, nelle vicinanze di Taxila, è relativamente ben conservato [fig. 13]. Come sulla base dello stupa detto «santuario dell’Aquila a due teste« all’interno della città, una serie di pilastri di stile occidentale ritma al tempo stesso la terrazza che permetteva di compiere il rito di circumambulazione e il tamburo del tumulo. Alcuni stupa gandhariani raggiungevano dimensioni immense, come il celebre stupa di Shah-ji-kiDheri, vicino a Kaniskapura, eretto da Kaniska. I numerosi frammenti scolpiti scoperti nei monasteri che circondano Taxila sono di qualità disomogenea e particolarmente difficili da datare. Nel monastero di Mohra Moradu, edificato nel ii secolo, nella cella n. 9 è stato costruito un piccolo stupa, senza dubbio in omaggio al religioso riverito che la occupava [fig. 12]. Questo stupa, più tardo, presenta un profilo molto evoluto, caratteristico di numerosi tumuli del nord del Pakistan e dell’Afghanistan. La moltiplicazione degli zoccoli costituisce altrettante basi architettate decorate da pilastri e nicchie che ospitano piccoli buddha in meditazione. La parte semiemisferica sormonta l’insieme, ma non occupa più una posizione privilegiata. I parasole presentano uno sviluppo che sarebbe impossibile ottenere su grandi tumuli, come il Dharmarajika. Sono stati riportati alla luce anche dei cortili circondati dalle celle dei monaci, ben separati dagli stupa e dalle loro vicinanze. Sono caratterizzati da numerose cappelle e da stupa secondari, costruiti come ex voto. Le sale d’assemblea non obbediscono ad alcuna caratteristica architettonica specifica. Allo stesso modo, la

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maggior parte dei complessi non pare rispondere a un piano prestabilito. Come a Kalawan [fig. 15], i cortili si aggiungono di pari passo all’espansione delle comunità. A Bhamala, tuttavia, il monastero è stato costruito in basso rispetto allo stupa principale, quasi sullo stesso asse. La crescente importanza accordata al basamento degli stupa, a danno dell’apda, e la separazione dei monasteri in due parti ben distinte – cortili accessibili ai laici costituendo luoghi privilegiati di devozione, da una parte; perimetro dalla pianta più regolare, dall’altra – costituiscono due caratteristiche presenti nella maggior parte dei siti. Gul Dara, a una dozzina di chilometri a sud di Kabul rappresenta un buon esempio. Al centro di un primo cortile, uno stupa di grandi dimensioni [fig. 14] presenta un altrettanto grande doppio basamento. Il primo, a pianta quadrata e ampiamente debordante, permette di compiere il rito di cir­cum­ambulazione. Il secondo, circolare, riprende il ritmo dei pilastri del piano inferiore e serve da transizione verso le arcate della base del «tamburo«, decorate con una alternanza di archi indiani e spezzati. I muri costruiti con pietre irregolari disposte secondo una «apparecchiatura iridata«, erano talvolta stuccati. Ad esempio, tra gli archi del «tamburo«, alcuni noccioli costituivano l’anima di uccelli dalle ali spiegate, indubbiamente aquile, come a Shotorak, monastero della regione di Begram.

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Un secondo cortile, sull’asse del primo, serviva come residenza alla comunità. Il più riuscito monastero di questo tipo, Takhti-Bahi, vicino a Peshawar, si trova non lontano dalla supposta residenza di Vindapharpa (Gondopharnes), un sovrano parto (metà del i secolo), prima dell’assorbimento di questo effimero Stato da parte dell’Impero kusapa. I cortili di Takht-i-Bahi si distribuiscono armoniosamente sui fianchi di una montagna, in disparte rispetto alle zone abitate, secondo l’uso [figg. 16-17].

Una grande stanza, a ovest del perimetro, serviva forse come sala d’assemblea sebbene, come nei monasteri di Taxila, nulla nella sua pianta confermi questa ipotesi. Nonostante l’eccezionale stato di conservazione, Takht-i-Bahi, non rende una giusta idea del suo aspetto originale. I muri stuccati e dipinti dovevano offrire un aspetto variopinto. L’interno delle cappelle, sovraccariche di statuette scolpite e di vari ex voto, conferiva all’insieme un tocco «rococò«. L’arte del Gandhara è in effetti una estetica del

Taxila.

Camera

Stupa

decoro. Le statue e i bassorilievi, in tutte le parti degli edifici religiosi, offrivano per la prima volta nell’arte del mondo indiano una iconografia razionale, complessa e diversificata. Gli artigiani utilizzavano i più diversi materiali trovati in loco: scisti, abbondanti quasi ovunque, il cui colore va dal grigio azzurrognolo al nero, e più raramente un calcare biancastro. La pietra, generalmente tagliata in lastre, era fissata con un gioco di tenoni, mortase e scanalature. Essa copriva intere parti di edificio, fino alle alzate delle scale e ai piedritti delle nicchie, come dimostra uno stupa votivo rinvenuto a Loriyan Tangai, conservato presso l’Indian Museum di Calcutta [fig. 18]. Nella maggior parte dei casi, l’aspetto frammentario degli elementi conservati non permette alcuna ricostruzione della complessità dei cicli iconografici. Un’altra tecnica consisteva nel realizzare il corpo delle statue in terra modellata e seccata, ricoperta da un sottile strato di stucco riscaldato a fuoco. Le teste, interamente in stucco, sono generalmente meglio conservate. Questo secondo procedimento, più rapido e più economico della scultura in pietra, necessitava dell’uso di stampi

Cortile

Cortile A

Cortile Cortile e celle

15

Cortile e celle

Cortile e celle

14. Stupa, ii-iii secolo, o più recente. Gul Dara, monastero. 15. Pianta del monastero. Kalawan. 17

Stupa

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stereotipati ai quali lo scalpello dell’artigiano conferiva in corso di esecuzione una certa individualità. Esso permise la produzione in grande scala di ex voto ripetitivi. Con questo stesso materiale più duttile furono realizzate colossali statue di buddha, di cui rimangono solo vestigia irrisorie, collocate in cappelle particolarmente imponenti. Qualunque fosse il materiale utilizzato, una policromia più o meno delicata unificava l’insieme. Alcune parti erano addirittura dorate. Alcuni rari stucchi ancora colorati danno un’idea imperfetta dell’aspetto originale di queste decorazioni. In alcuni siti, come Taxila, si nota un maggiore impiego di stucco nelle fasi più tarde, senza che si possa generalizzare la constatazione all’intera area culturale considerata.

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ga del ventre. Anche i quattro gesti fondamentali (maha­mu­ dra) del Buddha si fissano in quest’epoca, dato che gli accomandanti non esitavano a programmare scene estremamente complesse. Un rilievo del Peshawar Museum, proveniente forse dal sito di Sahri-Bahlol, non lontano da Takht-i-Bahi, illustra un episodio del miracolo di Vravasti [fig. 22]. Il Buddha, seduto su un loto fiorito, accenna il dharmacakra mudra mentre sopra le sue spalle Brahma e Indra si chinano verso di lui. Due bodhisattva di grandi dimensioni occupano le estremità del rilievo. L’iconografia del Gandhara accorda molta importanza a questi esseri destinati al Risveglio, il

Iconografia e stile L’apogeo dell’arte del Gandhara risale al ii e iii secolo. La produzione non sembra aver subìto gravi contraccolpi in seguito alla conquista della Battria da parte di Ardeshir i (224-241), fondatore dell’Impero sassanide, e alle spedizioni di Shapur i (241-272), che, a metà del iii secolo, misero fine alla potenza dei Grandi Kusapa. I Kusapa, ormai divisi, si dichiararono vassalli dell’imperatore iraniano. Rispetto all’arte della penisola indiana, l’arte gandhariana potrebbe essere definita «naturalista«, sia per quanto riguarda la resa della fisicità dei personaggi sia per il movimento del drappeggio degli abiti [fig. 20]. La rappresentazione di Vakyamuni si ispira al tipo fisico dei giovani dei ellenistici e romani, come Apollo, Adone e Antinoo. I segni essenziali della buddhità sono ben visibili: l’urpa nella parte bassa della fronte, tra le sopracciglia, e l’uspisa, chignon da asceta legato con un cordoncino in cima al cranio, che poco a poco sarebbe stato considerato come una crescita sovrannaturale della fontanella, segno percepibile del Risveglio. I lobi delle orecchie, allungati dal peso dei preziosi orecchini abbandonati da Siddhartha quando rinunciò al mondo, ricadono sopra le spalle. Un’aureola, tema di origine iraniana, circonda la testa. I piedi poggiano su fiori di loto sbocciati. Gli abiti monastici sono ben differenziati: veste superiore che cade fino ai polpacci e mantello drappeggiato con eleganza intorno al corpo come una toga romana. Il ginocchio destro, leggermente in avanti, dona al corpo una reale plausibilità anatomica. Attraverso la stoffa possono indovinarsi il pettorale destro e la pie-

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cui culto è esaltato con insistenza dal Mahayana. I bodhisattva, rappresentati come principi indiani, portano una dhoti che ricade sulle caviglie e una lunga sciarpa drappeggiata in modo complesso intorno al torso. Sono adornati di molti gioielli, abbastanza simili a quelli restituiti dagli scavi archeologici nella regione.

16. Veduta del monastero. Takht-i-Bahi.. 17. Pianta del monastero. Takht-i-Bahi..

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18. Stupa votivo, scisto, iiiii secolo. Calcutta, Indian Museum (provenienza: Loriyan Tangai).

I baffi sottolineano il labbro superiore. Maitreya sarebbe stato il primo a essere dotato di tratti iconografici specifici che ne facilitassero l’identificazione [fig. 19]. Porta infatti un vaso di acqua lustrale, e uno stupa in miniatura ne orna talvolta l’acconciatura. Avalokitevvara è spesso chiamato Padmapapi («colui che porta il loto«). È così raffigurato in una delle sue più antiche rappresentazioni, un rilievo proveniente da Loriyan Tangai che si trova all’Indian Museum di Calcutta. Rilassatamente seduto su una sedia minuziosamente lavorata, tiene negligentemente il loto nella mano sinistra [fig. 23]. L’arte del Gandhara è nota soprattutto per le innumerevoli scene narrative. Ai jataka già rappresentati nell’arte antica dell’India, i pittori gandhariani aggiunsero nuovi episodi e crearono in ogni pezzo una iconografia particolarmente variegata della vita di Vakyamuni. Ad esempio, i bassorilievi, di provenienza confusa, del museo di Peshawar, propongono quasi settanta episodi diversi. Alcune scene, come la nascita di Siddhartha o il Mahaparinirvapa [fig. 21], obbediscono a schemi che, attraverso lo slancio dell’arte dello Xinjiang, si perpetueranno in Cina e in Giappone. L’arte di Mathura, nello stesso periodo, non offre una pari ricchezza. Nella pianura gangetica, bisognerà attendere l’epoca gupta perché si formi una iconografia coerente degli episodi della vita di Buddha, senza la complessità dei cicli gandhariani. La maggior parte delle scene attira l’attenzione sul

19. Maitreya, scisto, ii-iii secolo. Taxila, Taxila Museum (provenienza: Mohra Moradu). 20. Buddha con un asceta brahmanico, ii-iii secolo. Karachi, National Museum of Pakistan (provenienza: Kot, Charsadda).

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21. Mahaparinirvapa, scisto, ii-iii secolo. Londra, The Victoria and Albert Museum. 22. Buddha predicante tra due bodhisattva, scisto, ii-iii secolo. Peshawar, Peshawar Museum (provenienza: Shari-Bahlol?). 23. Avalokitevvara, scisto, iii secolo (?). Calcutta, Indian Museum (provenienza: Loriyan Tangai).

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personaggio principale, posto al centro del rilievo e dotato di una dimensione equivalente a quella degli altri protagonisti. Alcune composizioni, più elaborate, giocano sulla differenza di dimensioni dei personaggi o integrano con abilità elementi architettonici al fine di ottenere complessi effetti [fig. 24]. A eccezione degli archi indiani e di alcuni beccatelli, la quasi totalità del vocabolario architettonico è adottata dall’Occidente mediterraneo. Alcuni capitelli rivelano un vero e proprio adattamento alle tradizioni locali. Una immagine del Buddha o, più raramente, come qui, un busto femminile escono da acanti di origine ellenistica [fig. 25]. Numerose scene ubbidiscono a una concezione originale della prospettiva e permettono nuovi punti di vista per lo spettatore che, come il pellegrino, li scopriva girando intorno all’edificio sacro sul quale le lastre istoriate erano un tempo apposte [fig. 27]. Questa «prospettiva girevole« è più percepibile nelle opere provenienti dal Gandhara e dello Swat che in quelle, più settentrionali, originarie del Kapiva. Allo stato attuale delle ricerche, la varietà delle fatture e l’assenza di criteri cronologici affidabili impediscono di precisare l’identità dei vari laboratori e di tracciare l’evoluzione della produzione. Alcune grandi tendenze possono tuttavia essere messe in evidenza. Alcuni pezzi si ispirano fedelmente all’arte ellenistico-roma-

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e il 1979 rare decorazioni in stucco policromo che rinnovano completamente l’idea che si aveva del sito. Durante scavi condotti sul luogo tra il 1923 e il 1976, in particolare a Tapa-Kalan, gli stucchi ritrovati, stilisticamente vicini alle fasi tarde di Taxila, furono attribuiti dagli specialisti al iii e iv secolo. Il cortile di Tapa-e-shotor, occupato al centro da uno stupa di epoca diversa dalla decorazione stereotipata, è circondato da cappelle che ospitano vere e proprie scenografie religiose. Una di esse rappresenta fondali acquatici [fig. 32]. Un grande realismo caratterizza le onde modellate sui muri e i pesci in movimento. Il nagaraja che regna su questo universo riceve la visita del Buddha. Le statue in stucco e terra seccata, tra le più ingegnose trovate nell’Asia centrale ellenizzata, hanno in parte conservato l’originale policromia. Nella cappella n. V2, accanto a un Buddha di grandi dimensioni, Vajrapapi appare ad esempio sotto le sembianze di Eracle [fig. 28]. Nell’oratorio n. V3, un altro Vajrapapi presenta un’espressione patetica nella più pura tradizione ellenistica [fig. 29]. Gli occhi, infossati nelle orbite, continuano una caratteristica dell’opera di Sco-

pas (iv secolo a.C.). Il volto è stato paragonato ad alcuni busti di Alessandro Magno. Nessuna ipotesi permette di spiegarne con certezza la fedeltà agli archetipi mediterranei: anteriorità della decorazione di certe cappelle sul resto del monastero, venuta di artigiani occidentali particolarmente abili, in seguito a campagne di Shapur i nell’Oriente romano... Non si potrebbe restringere l’arte gandhariana a una fedeltà servile ai modelli dell’Antichità classica. Molte rappresentazioni si inseriscono in una estetica mediorientale che, a partire da una base ellenistica, elabora il proprio linguaggio plastico. L’arte parta e palmirena rappresentano gli esempi più noti. In questa prospettiva, il Gandhara e le scuole dipendenti costituiscono uno dei poli dell’arte orientale ellenizzata, fortemente adattata ai gusti locali. Un rilievo, trovato a Takht-i-Bahi, sul quale figurano Pancika, dio delle ricchezze, e Hariti, dea protettrice dei bambini, dimostra perfettamente la stilizzazione e le deformazioni degli schemi classici così come la loro nuova associazione [fig. 30]. Allo stesso modo, il tema di Giove che rapisce

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na [fig. 26]. È nota la prolissa attività dei laboratori greci e dell’Oriente romanizzato nel ii e iii secolo. Un tempo alla mensa delle guide di Hoti-Mardan, un Buddha dalla testa china e dalla vita ancheggiante, noto unicamente grazie a una fotografia, evoca il famoso Antinoo del Campidoglio. I capelli a ciocche e il volto leggermente appesantito sono topoi dell’arte greco-romana che si ritrovano nell’Apollo del Belvedere. Hadda A Hadda, nelle vicinanze di Jellalabad, il monastero di Tapa-e-shotor ha restituito tra il 1965

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24. Conversione di Nanda, scisto, ii-iii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: Hadda). 25. Capitello corinzio, scisto, ii-iii secolo. Swat Museum. 26. Buddha, scisto, ii secolo (?). Ubicazione attuale sconosciuta (provenienza: Sahri-Bahlol).

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Ganimede, adattato, diventa Garuda che rapisce la regina dei serpenti [fig. 31]. Alcune opere propongono un ammucchiamento di piccoli personaggi in forte rilievo, a volte colti in piena agitazione, un po’ come nei sarcofagi romani o nelle miniature della tarda Antichità. Alcune presentano una innegabile originalità, come la celebre ascesi di Siddhartha del Lahore Museum [fig. 33]. Il futuro Buddha si consegna a un giovane spaventoso prima di riconoscere la vacuità delle vie estreme per giungere al Risveglio. La statua, di un realismo esacerbato, rappresenta un asceta scheletrico in pieno esercizio yogico, con gli occhi in fondo alle orbite, le vene del torso gonfie e le viscere risalite nella cassa toracica.

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Lo Swat e il Kapiva Non si può ridurre a una certa originalità la varietà dei fattori dei laboratori gadhariani, a maggior ragione quelli delle regioni vicine. A nord di Gandhara, la valle dello Swat presenta una produzione originale, meglio nota da quando gli italiani vi hanno condotto scavi sistematici, in particolare nel sito di Butkara. Molti bassorilievi ostentano una certa libertà di ispirazione e talvolta un reale senso del movimento [fig. 35]. Altri, di fattura provinciale, sono caratterizzati da personaggi bassi e tarchiati. Nel Kapiva, gli stili sono più netti. Un numero limitato di opere si ispira all’ellenismo più

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27. Il Sonno delle Donne, scisto, ii-iii secolo. Karachi, National Museum of Pakistan (provenienza:

Jamrud).

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puro, contrastando con una produzione meno raffinata, dall’estetica un po’ pesante, ma non priva di una certa maestà. Shotorak, vicino a Begram, e Paitava, vicino a Charikar, rientrano nel campo di questo secondo stile [fig. 34]. L’architettura e le sculture in pietra e in stucco non costituiscono le uniche modalità di espressione dell’arte del Gandhara. Le statuette in bronzo, principalmente di buddha e di bodhisattva, dovevano essere numerose. Facilmente trasportabili, favorirono la diffusione delle forme gandhariane nel bacino del Tarim e in

Cina. Nessun esemplare conservato, sebbene rappresentativo dello stile, può ambire allo status di capolavoro. Bamiyan e Fondukistan L’equilibrio politico dell’Asia centroccidentale fu nuovamente sconvolto dal brutale emergere degli Unni bianchi, che si rifacevano a Eftal, loro fondatore. Questi Unni eftaliti si stabilirono in Battria verso il 380. Verso la metà del v secolo, invasero il Kapiva e la regione di

Bamiyan, nell’Afghanistan centrale. La loro cavalcata li portò fino al bacino del Gange e gli Indiani li chiamarono Hupa. Furono bloccati dall’imperatore Skandagupta (455-467 circa). Lasciarono nella storia un’immagine contrastata; nella regione di Balkh impressionavano i visitatori cinesi col fastoso tenore di vita del loro principe. Alcuni dei loro sovrani, come Toramapa (fine del v secolo?) favorivano varie religioni. Mihirakula, successore e forse figlio di Toramapa (502-530 circa o 540-570 circa), induista accanito, si rese celebre perseguitando

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il buddhismo e distruggendo i monasteri disperdendone le comunità. Il sito di Hadda, descritto da Faxia nel momento dello splendore, dopo il 400, era così completamente distrutto in occasione del passaggio di Xuanzang (602654) durante il suo viaggio in Occidente (629645). Mihirakula condusse il proprio esercito fino al cuore della pianura del Gange e distrusse Kauvambi. Una coalizione di principi indiani lo respinse in Kashmir, che trasformò in una fortezza impenetrabile. Alcune tribù unne rimasero tuttavia nella parte alta del Panjab almeno fino al vii secolo. Verso il 563, i Kidariti, principi turchi, lontani discendenti degli Yuezhi, si stabilirono in Battria e crearono un vasto Impero sulle rovine della potenza hupa. Fissarono la capitale a Kunduz, a nord-est dell’attuale Afghanistan. Protettori di tutte le religioni, incoraggiarono le ultime costruzioni dei monasteri in Asia centroccidentale. Tuttavia l’induismo si impiantò energicamente. Incapaci di restare unite, molte dinastie sahi, più o meno nell’orbita della nascente potenza kashmira, si spartirono l’Afghanistan e il Gandhara. Verso il 652, i musulmani conquistarono la Battria. Nasr ii ibn Ahmed (914-943), principe della casata dei Samanidi, originari di Saman, vicino a Balkh, spazzò via i piccoli regni afghani: Mahmud di Ghazni (998-1030), in una incursione distruttrice, annientò il Gandhara agli inizi dell’xi secolo. Solo il Kashmir sarebbe sfuggito per altri tre secoli all’inesorabile avanzata dell’islam. Due siti buddhisti di questo lungo periodo richiamano in particolare l’attenzione: Bamiyan e Fondukistan. Nel cuore dell’Hindukush, l’oasi di Bamiyan costituiva una tappa obbligata per le carovane che collegavano Battra a Taxila. Localmente, i bruschi cambiamenti che regolarmente scuotevano l’Afghanistan, sembravano non avere altre conseguenze se non un cambiamento di sovranità. I Kidariti, e poi i Turki vahi di Kabul dominarono così uno dopo l’altro i principi locali. Il più lungo periodo di stabilità politica e di prosperità economica andò dal primo quarto del vii secolo al secondo quarto dell’viii secolo. Durante il passaggio di Xuanzang, nel 632, la valle era all’apogeo. Quest’ultimo racconta che la comunità buddhista contava mille monaci, ripartiti in due monasteri, che si suddividevano in seguaci di un Hinayana tradizionale e in membri della scuole dei Lokottaravadin. Assistì alla Pancavarsika, rara cerimonia di offerte che risalirebbe ad Avoka, e che aveva

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28. Vajrapapi, terra seccata con tracce di policromia, iii-iv secolo. Hadda, Tapa-e-shotor (cappella V2 [cortile degli stupa]). 29. Vajrapapi, terra seccata con tracce di policromia, iii-iv secolo. Hadda, Tapa-e-shotor (cappella V3 [cortile degli stupa]).

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luogo ogni cinque anni alla presenza del re di Bamiyan. Nel 727, Huichao, altro pellegrino cinese, trovò l’oasi ancora florida. Prima degli atti vandalici perpetrati sul sito nel 2001, la falesia che a nord circonda la valle contava circa settecentoquaranta caverne scavate nella roccia e molte statue colossali [figg. 36, 38]. Contrariamente ai monasteri rupestri dell’India, queste grotte non ospitavano le comunità, che vivevano più in basso, in edifici di mattoni seccati e cotti al sole. Xuanzang parla di uno di essi. Questa particolarità era la regola nel bacino del Tarim e in Cina. Le caverne, di dimensioni molto variabili, sono per lo più difficilmente accessibili. Erano collegate da praticabili e scale in legno, da molto tempo scomparsi, edificati fuordopera, come anche da passaggi ricavati all’interno della roccia. Una accurata decorazione, intagliata nella roccia e completata da un sottile rivestimento di terra modellata e seccata, ne ornava alcune. Si ignora l’esatta destinazione di questi luoghi di culto.

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Alcune cappelle votive si trovavano probabilmente accanto a sale utilizzate per la liturgia, sale d’assemblea e celle per gli anacoreti. La pratica dei religiosi solitari, criticata da molte scuole del Theravada, era riconosciuta dai Lokottaravadin. Il complesso costituiva un luogo di pellegrinaggio. Il racconto di Xuanzang lascia supporre un senso abituale di visita, per ragioni apologetiche ispirate all’iconografia. Le caverne più elaborate, precedute da un vestibolo, sono solitamente a pianta centrale, quadrata o ottagonale. Esistono due tipi di soffitto. Molti imitano un particolare tipo di copertura, chiamata Laternendecke dagli archeologi tedeschi, formato dalla falsa sovrapposizione di lucernai a pianta quadrata disposti in quinconce [fig. 40]. Queste coperture, di origine iraniana, si diffusero assai lontano a est, fino al bacino del Tarim. La caverna n. 15 presenta un dispositivo di questo tipo, completato da un gioco di sottili colonnine ad angoli smussati o fascicolate. Una cupola, dal profilo a pan di zucchero, copre altre cappelle, come la caverna n. 11 [fig. 41]. Ordini di nicchie coperte da arcate polilobate o da archi indiani, e separate da pilastri, servivano da base a una decorazione a cassettoni esagonali calettati. Quest’ultimo tema, originario dell’Oriente romano, compariva in particolare nel tempio di Bacco a Baalbeck e nei mosaici di Antiochia. Il complesso ricevette una ricca decorazione modellata e un tempo certamente dipinta. Le parti ornamentali sono sopravvissute

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fino al xx secolo, invece, le rappresentazioni dei buddha e di eventuali assistenti hanno subito l’ira degli iconoclasti islamici. Il fogliame, flessuoso e a spirale, che circonda la nicchia del Buddha di 53 metri di altezza, è tipico degli alzati e delle piante abituali del sito [fig. 37]. Bamiyan era celebre per i suoi buddha colossali. In Asia centroccidentale, il principio delle statue di dimensione eroica, benché ispirato a concezioni puramente buddhiste, perpetua un’antica tradizione ellenistica e romana, presente nella regione dal iii secolo a.C. Un gigantesco piede in marmo, scoperto ad Ai-Khanum, sulla riva dell’Amudaria, lo testimonia. Il grande Buddha coricato in terra seccata, descritto da Xuanzang, è difficilmente individuabile tra le abitazioni del villaggio moderno. La falesia contava tre Buddha scavati nella roccia. Un grande Buddha seduto è assai mal conservato, ma due immensi Buddha in piedi costituivano uno degli apici dell’arte dell’Asia centrale. Un Buddha di 38 metri di altezza – 35, secondo certi studiosi – individuato a Vakyamuni da Xuanzang, occupa approssimativamente il centro della falesia [fig. 39]. È difficile restituire la posizione delle braccia. L’anima della statua, grossolanamente intagliata nella roccia, ha ricevuto uno strato di malta compatta modellata con cura, poi un rivestimento di stucco che ha conservato in alcuni punti vaghe tracce di policromia. Una larga testa, di cui sopravvive solo la parte inferiore, poggia piuttosto maldestramente su un collo stretto e corto. Un mantello monastico, dal drappeggio aderente particolarmente studiato, avvolge il torso pesante e tozzo. L’opera prosegue ingrandendolo il tipo tradizionale del buddha gandhariano, come dimostrano, in particolare, alcuni riccioli di capelli sopravvissuti. Nella parte occidentale della falesia, una nicchia trilobata ancora più imponente ospita un Buddha di 53 (o 55) metri di altezza [fig. 1]. Il corpo, realizzato con una tecnica identica a quella utilizzata per il Buddha precedente, ma meglio proporzionato, denota una maggiore maestria tecnica. Le pieghe del drappeggio sono state realizzate con l’aiuto di corde tese e stuccate, il cui movimento naturale conferisce fluidità all’abito. Sebbene derivi dalla stessa estetica del Buddha di 38 metri, il drappeggio perfettamente simmetrico che cade a «U« tra le gambe ricorda i Buddha di epoca gupta realizzati a Mathura. Gigantesche mortase servivano a sostenere le braccia. È possibile che la mano destra accennasse l’abhaya mudra

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mentre la sinistra reggeva un lembo del manto monastico. La parte alta del volto non è scolpita. Un solco verticale sopra il mento doveva reggere una maschera di legno, forse placcata di metallo. Questo particolare confermerebbe il racconto di Xuanzang, che riporta come le statue fossero in oro e ricoperte di gioielli. Egli segnala l’esistenza di un secondo Buddha, senza indicarlo. Una simile rappresentazione esalta in modo eccezionale la persona del Buddha, facendone un Mahapurusa che riassumerebbe in sé l’intero universo. Essa anticipa così lo status cosmico di Vairocana in alcune correnti del Mahayana. La datazione di queste immense sculture ha subìto numerose variazioni ed è sempre oggetto di discussione. Xuanzang segnala che il grande Buddha sarebbe stato realizzato all’epoca del monarca precedente a quello che regnava nella sua epoca a Bamiyan. Il Buddha di 38 metri, visibilmente più antico, risalirebbe al

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secolo. Esso avrebbe subito un’importante riparazione al braccio destro tra la fine del vi e l’inizio dell’vii secolo. Quello di 53 metri, invece, sarebbe stato realizzato, con maggiore certezza, nel primo quarto del vii secolo. Una ricca decorazione dipinta ornava le nicchie dei due buddha e di molte caverne. Questi insiemi, realizzati a secco su intonaci sempre più fini, fatti di terra, di paglia tritata e di calce, annoverano solo pigmenti minerali, particolarmente facili a trovarsi in Afghanistan. Ad esempio il lapislazzulo ridotto in polvere fornisce il blu. Essendo le superfici da coprire gigantesche – circa 300 metri quadrati per la nicchia del Buddha di 53 metri –, il numero degli artigiani doveva essere consistente. La volta di questa nicchia presenta alcuni gandharva volanti e alcuni devata dalle pose languide [fig. 42]. Giochi di sciarpe e gioielli, volti paffuti e drappeggi evocano la tradizione gupta. Le pitture presentano d’altra parte un leggero modellato di stile vi

30. Pancika e Hariti, scisto, ii-iii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: Takht-i-Bahi).

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31. Garuda che rapisce la regina dei serpenti, scisto, ii-iii secolo. Tokyo, National Museum (provenienza: regione di Peshawar). 32. Cappella del nagaraja, terra seccata e dipinta, ii secolo. Hadda, Tapa-e-shotor (cortile degli stupa). 33. L’ascesi di Siddhartha, scisto, ii-iii secolo. Lahore, Lahore Museum (provenienza: Sikri).

indiano. Questo insieme è forse stato realizzato dopo il grande Buddha. Sopra al Buddha di 38 metri figura Surya che, come un guerriero kusapa, indossa un lungo caftano [fig. 43]. Le sue guardie femminili, Usa (?), l’Aurora, dall’incarnato chiaro (a destra), e Sakdhya (?), il Crepuscolo, dalla pelle scura (a sinistra), lo accompagnano sul suo carro. Dotate di elmo e armate, portano della ali come alcune divinità iraniane. All’altezza della testa del dio, due personaggi tengono delle sciarpe gonfiate dal vento. Ai lati della volta compaiono i «re di Bamiyan«, dalle varie acconciature. Si tratta certamente di donatori che avevano contribuito alla realizzazione dell’immenso insieme di sculture e pitture. Lo stile di questo secondo insieme non possiede le finezze della nicchia del Buddha precedente. I colori, stesi in campiture piatte, senza ricerca del modellato, tradiscono un senso decorativo più marcato. Gli elementi iraniani abbondano. Si è tentati di

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far corrispondere questo rinnovamento delle influenze iraniane in Asia centrale con la caduta dell’Impero sassanide contro i musulmani nel 642. Una parte dell’aristocrazia – forse artigiani – si rifugiò allora verso est. Alcune caverne dalle piante diversificate si sovrappongono intorno alla nicchia del secondo Buddha e costituiscono unità architettoniche distinte. Il vestibolo del gruppo D presentava una decorazione di medaglioni perlati che contenevano una coppia di uccelli portatori di collane [fig. 46] o una testa di cinghiale, emblema di Verethragna, il dio iraniano della guerra. Questi motivi, frequenti nell’arte sassanide, conobbero un’ampia diffusione in Asia centrale attraverso tessuti e oggetti di argenteria. A circa cinque chilometri a sud-est del Bamiyan, la valle del Kakrak presenta alcune cav-

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erne buddhiste. Un Buddha di 7 metri di altezza possiede, nonostante alcune mutilazioni, una flessuosità nel modellato che evoca la tradizione gupta. La parte posteriore del santuario, a pianta ottagonale, era sormontata da una cupola dipinta (seconda metà del vii secolo?), smontata e spartita tra l’Archaeological Museum di Kabul e il Musée des Arts Asiatiques-Guimet a Parigi. Alcuni medaglioni contengono dei buddha di grandi dimensioni, circondati da cerchi più piccoli decorati con buddha in meditazione. I grandi buddha compiono vari gesti canonici [fig. 44]. Un bodhisattva, al centro della composizione – forse Maitreya –, regge un vaso con la mano sinistra. Il registro inferiore, scandito da colonne derivate dall’ordine ionico che reggono archi trapezoidali, ospita altri buddha e un principe.

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Quest’ultimo offre un arco a un buddha che fa il vitarka mudra [fig. 45]. Questo pannello, battezzato Il re cacciatore dagli archeologi francesi che scoprirono il sito, condiziona l’insieme di questa iconografia che non ha ancora ricevuto una identificazione soddisfacente. Agli angoli, piccoli stupa dalle scale assiali di grande rigore annunciano i tumuli-reliquiari del Tibet occidentale. I nastri svolazzanti, legati al pinnacolo dell’edificio, si ispirano a un tema iraniano. A eccezione della pelle, leggermente ombreggiata, le altre parti sono dipinte con campiture piatte. Nelle parti rimaste, l’iconografia delle caverne di Bamiyan e dei siti rupestri vicini, come Foladi e Kakrak, non comportano scene narrative e presentano pochi bodhisattva. Essa mette l’accento sulle rappresentazioni dei buddha, novità che annuncia alcune dottrine mahayaniche. Alcune potenze ostili accerchiarono sempre più la valle di Bamiyan. Nell’871, durante un’incursione, Ya‘qub, il Saffaride, portò gli «idoli« di Bamiyan a Bagdad. La presenza islamica crebbe nel corso dei secoli successivi. Nell’877, lo sher di Bamiyan si convertì all’islam sotto la pressione di Sabuktigin di Ghazni. Alcune comunità buddhiste sopravvissero tuttavia fino alla seconda metà del x secolo. Tra Kabul e Bamiyan, nel distretto Ghorband, il piccolo monastero di Fondukistan, risalente, secondo la numismatica, al vii secolo, riflette l’ultima fase dell’arte buddhista nell’Hindukush. Nel 1937, gli archeologi francesi scoprirono nuove cappelle intorno a una sala centrale voltata che ospitava uno stupa. Le statue in terra seccata sono state in parte cotte dall’incendio che distrusse il complesso, forse durante un’incursione islamica. Nella nicchia E una coppia principesca associa le due grandi influenze già presenti a Bamiyan [figg. 47, 49]. L’uomo, che indossa stivali e un caftano decorato da medaglioni perlati, dal grande collo ripiegato, rimanda a prototipi iraniani. La sua compagna, le cui forme generose sono appena dissimulate da un velo di garza, segue fedelmente le mode indiane. Su entrambi i lati della nicchia, i piedritti reggono le rappresentazioni di Vakyamuni e di Maitreya [fig. 48]. Quest’ultimo presenta un corpo ancheggiante «in tripla flessione« e il gesto affettato. Il suo volto, leggermente appesantito e sorridente, ricorda più le pitture del bacino del Tarim che le decorazioni di Ajapta, quasi contemporanee. Indossa gioielli indiani. Alcuni tratti neri del disegno originale sono sottolineati in rosso.

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salgono all’ultimo periodo del sito (vii secolo [fig. 51]). Ultime vestigia settentrionali Alcune vestigia buddhiste, a volte importanti, sono state scoperte nelle repubbliche islamiche dell’Asia centrale. Il buddhismo fu infatti una delle religioni praticate nell’Impero sogdiano dei Turchi occidentali (vii-viii secolo), spazzato via dall’islam dopo più di due secoli di esistenza. Nel 722, i musulmani crocifissero il sovrano di Pendjikent, in Tagikistan, una delle città più importanti della zona. Verso il 760 tutti i paesi caddero sotto gli attacchi delle armate del Profeta. L’immensa zona che si estende dal medio corso dell’Amudaria, a ovest, fino a Bichkek (Frunze), capitale della Kirghisia, a est, è coperta da rovine di monasteri. Le vesti-

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34. Il grande miracolo di Vravasti, scisto, ii-iii secolo. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: Paitava).

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Una strana ghirlanda stilizzata, che passa nella piega interna del gomito destro, sostituisce il cordone brahmanico. La stessa estetica un po’ manierata caratterizza il buddha, i discepoli e i bodhisattva in terra seccata e dipinta, raccolti nelle nicchie come scenografie. Un monaco, seduto in posizione di rilassamento [fig. 50], un tempo conservato presso l’Archaeological Museum di Kabul, è vestito con un mantello, dal drappeggio aderente particolarmente suggestivo, che lascia la spalla destra scoperta e modella

gia riportate alla luce si collegano più o meno all’arte eclettica del Gandhara. Si ispirano, al di là dei secoli, alla comune eredità kusapa e mischiano motivi iraniani e indiani a reminescenze antiche. Le rovine di Kara-Tepa, a Termez, a nord di Balkh, di Kuva, in Ferghana, e di Ak Beshim, a sud-est di Bichkek, lo testimoniano. Adjina Tapa, nella valle del Vakhsh, vicino a Kurgan Tyube, in Tagikistan, incontestabilmente il sito più importante, conobbe l’apogeo nella seconda metà del vii secolo fino alla metà dell’viii secolo. Alcune comunità theravada si trovavano vicino a monasteri mahayana. Un grande buddha coricato, lungo più di 12 metri, in terra seccata e dipinta [fig. 52], in un eccezionale stato di conservazione, traduce il gusto per il gigantismo che percorse il mondo buddhista a partire dal vii secolo. È dunque un mondo spirituale in piena fioritura quello che le invasioni islamiche annientarono nella loro irreversibile espansione verso oriente.

il corpo. Il sorriso insistente, gli occhi abbassati e i capelli a ciocche ricordano gli stucchi kashmiri di Uskur. È bene segnalare anche gli scavi di Tapa Sardar, a Ghazni. In un vasto complesso buddhista, che comprendeva intorno a un gigantesco stupa numerose cappelle, si trovava un grande Buddha coricato, in terra seccata policroma, lungo 17 metri. Una fila di stupa votivi, su fiori di loto sbocciati e dalle scale assiali di grande verticalità, come quelli di Kakrak, ri-

35. Suonatore di arpa e danzatore, scisto, ii-iii secolo. Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale (provenienza: Butkara). 36. Valle di Bamiyan. 37. Pianta delle cappelle ai piedi del Buddha di 53 m. 38. Pianta della valle di Bamiyan.

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IL BACINO DEL TARIM

1. Veduta generale di Bezeklik. Dopo l’860. 2. Il bacino del Tarim e le sue oasi.

Il bacino del Tarim, parte dello Xinjiang cinese dal xviii secolo, forma una conca desertica di circa 1.700 chilometri da est a ovest e di circa 600 chilometri da nord a sud. Percorso dal fiume Tarim che si perde nelle paludi del Lobnor, è circondato a nord dalla catena del Tianshan (monti Celesti) e a sud dal Kunlunshan (monti della Luna). Sul suo bordo esterno fioriscono alcune oasi che rappresentano luoghi di sosta per le carovane della Via della Seta. Dalla fine del ii secolo alla metà del vii secolo, furono sede di regni indipendenti, dalla cultura eclettica e brillante. A un livello inferiore rispetto al Kunlunshan, la pista meridionale, inizialmente la più utilizzata, fu poco a poco abbandonata per motivi climatici. A partire dal iv secolo, la pista settentrionale acquisì importanza sempre

maggiore. Tra le varie religioni praticate, il buddhismo occupava una posizione preponderante come testimoniano le numerose vestigia hinayana e mahayana conservate. Malgrado un sostrato autoctono più o meno sensibile, grandi correnti estetiche percorsero la zona, anche se le datazioni sono ancora puntualmente oggetto di discussione. Alla preponderanza delle influenze gandhariane e al loro adattamento locale seguì, a partire dalla metà del vii secolo circa, il primato dell’estetica cinese dei Tang, risultato della conquista delle oasi ordinata da Taizong (regnante 627-649). Le più antiche testimonianze: Miran e Khotan

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il bacino del tarim

A sud-est del bacino del Tarim, Miran, uno dei siti più straordinari, ha restituito due piccoli stupa di tipo arcaico dal basamento circolare poco sviluppato, alla maniera dei tumuli di Sanci e Taxila. Gli stupa erano ospitati da sale a cupola. Un corridoio permetteva di compiere il rito della circumambulazione. Due decorazioni dipinte miracolosamente conservate sono esposte presso il National Museum, a New Delhi [figg. 3-4]. Alcune scene narrative, difficilmente identificabili a causa dello stato frammentario, si riferiscono a racconti edificanti o all’ultima vita del Buddha. Ad esempio, un pannello di più di un metro di lunghezza, proveniente dal santuario n. M3, rappresenta il Buddha seguito da sei discepoli in mezzo a un parco o a una foresta. Vakyamuni fa l’abhaya mudra in modo insolito, con il pollice piegato all’interno del palmo. La fronte è priva di urpa. Il Beato fissa con insistenza lo spettatore. I suoi compagni, invece, lo guardano con attenzione. Le proporzioni del volto e degli occhi del Buddha, la forma dei baffi cadenti, il drappeggio e la composizione generale della scena ricordano da vicino i rilievi del Gandhara. Miran evoca la scomparsa pittura gandhariana. Possono essere proposti altri paragoni. La parte inferiore dei muri presenta dei putti e degli adolescenti con il capo coperto dal berretto frigio che portano pesanti ghirlande, tema decorativo di origine greco-romana, frequente nella scultura del Gandhara. Nei festoni così creati, delle teste [fig. 4] – a volte quelle di putti alati – ricordano con il loro stile le pitture del Vicino Oriente, ad esempio le grandi composizioni della sinagoga di Dura Europos. Una linea nera e spessa sottolinea le forme e contrasta con le campiture di colore uniforme e le lumeggiature bianche che danno un’impressione di rilievo, come se una luce puntiforme proveniente dall’alto, di sbieco, illuminasse i personaggi. L’insieme possiede una omogeneità stilistica che lascia intuire un’unica mano o un laboratorio limitato. Uno dei pannelli porta in brami la firma dell’artista: Tita. Molti studiosi collegano questo nome a «Titus«. Altre iscrizioni in karosti permetterebbero di datare queste opere tra il ii e iii secolo, anteriormente all’abbandono del sito e della vicina città di guarnigione cinese di Lulan, verso il 330. Collocare i dipinti di Miran nel iii secolo, ossia poco dopo l’introduzione del buddhismo nella regione (ii secolo circa), rappresenterebbe una ipotesi plausibile e spiegherebbe la pregnanza dei motivi occi-

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il bacino del tarim

A partire dal iv secolo, le oasi settentrionali del bacino del Tarim acquistarono importanza. Una estetica originale emerse poco a poco. Il sito di Tumchuq, a circa 300 chilometri a est di Kashgar, permette di seguire l’elaborazione di questo processo. Questo complesso buddhista, composto da tre centri distinti, fu occupato tra il iv e il vii secolo. Esso associa, senza un vero piano globale, monasteri, stupa e santuari, secondo schemi ereditati dal Gandhara. Scale e corridoi collegano le varie strutture. La pianta di Toqquz-Sarai, per esempio [fig. 7], comporta, attorno a uno stupa, una grande corte quadrata circondata da cappelle su due lati. I muri, fiancheggiati da davanzali in terra che reggono delle statue, caratterizzano l’architettura dello Xinjiang. Sull’asse di questo primo complesso, venne poi edificata una seconda corte che conduceva a un altro stupa. Si discute sull’orientamento settario delle comunità monastiche. Piut­tosto ben conservati, i rilievi del muro laterale sudoccidentale del grande tempio B, che rappresentano il sujati jataka, il vessantara jataka e il vakkhacarya avadana [fig. 6], derivano dall’iconografia dello Hinayana. Il sito di Tumchuq ha restituito numerose sculture in terra modellata e seccata su una armatura di paglia, eredi degli stucchi gandhariani. Queste vestigia, smottate nell’incendio che distrusse il monastero, forse nella prima metà del vii secolo, non costituiscono un insieme omogeneo. Alcuni pezzi, in particolare una testa di nume demoniaco, conservato presso il Musée des Arts Asiatiques-Guimet [fig. 8], possono appartenere al periodo di realizzazione più antico (iv-v secolo). Gli occhi affondati nelle

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dentali. Le stesse tradizioni gandhariane ispirano le decorazioni dipinte dei due piccoli santuari di Karadong (metà del iii secolo), nella valle del Keriya, nel sud del bacino del Tarim. La grande e ricca oasi di Khotan (Yutian o Hotan), nel sud-est del bacino del Tarim, pone un enigma agli archeologi. Le vestigia relativamente deludenti qui scoperte non sono rapportabili al fondamentale ruolo rivestito da questo importante regno nella storia politica, economica e religiosa dell’Asia centrale. Per il periodo più antico, le testimonianze sono particolarmente rare e frammentarie. Una testa di Buddha in bronzo, conservata al National Museum di Tokyo, rappresenta una fortunata eccezione [fig. 5]. Come i dipinti di Miran, essa rappresenta uno dei primi esempi di opera buddhista nel bacino del Tarim. La testa rotonda, dagli occhi a mandorla, adorna di folti baffi spioventi e sormontata da un’enorme uspisa, dipinta come uno chignon da asceta legato alla base, assomiglia a esempi gandhariani, come alcuni Buddha della valle dello Swat. Una serie di piccole cavità, certo un tempo incrostate e disposte come i petali di un fiore, costituisce una originale urpa, eccezionalmente collocata in cima alla fronte e non, come in questo antico periodo, appena sopra la linea delle sopracciglia. Tumchuq

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3. Vakyamuni e i suoi discepoli, colori su intonaco, iii secolo. New Delhi, National Museum (provenienza: Cappella n. 3 [Miran]). 4. Testa di donna in un festone, colori su intonaco, iii secolo. New Delhi, National Museum (provenienza: Cappella n. 3 [Miran]).

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5. Testa di Buddha, bronzo dorato, iii-iv secolo. Tokyo, National Museum (provenienza: regione di Khotan). 6. Veduta del basamento del grande tumulo B in corso di scavo, vi secolo. Tumchuq, Toqquz-Sarai. 7. Pianta del Monastero, Toqquz-Sarai. Tumchuq.

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11. Testa di brahmano, colori su intonaco, fine del v o inizio del vi secolo. Parigi, Musée des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: santuario di nord-est, Duldur-aqur [Kucha]).

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orbite secondo una antica tradizione ellenistica frequente negli stucchi gandhariani, la capigliatura simmetricamente ripartita in piccole ciocche, la pelle di felino utilizzata come copricapo, il volto modellato con finezza sono tutti temi occidentalizzanti. Un ghigno, sottolineato da zanne alle commessure labiali, conferisce al personaggio un aspetto inquietante. Questo demone poteva far parte di un rilievo rappresentante l’assalto delle armate di Mara, anche se l’ipotesi rimane congetturale. Il vicino monastero di Tumchuq-tagh ha restituito una piccola testa di Buddha in legno dorato [fig. 10] del v-vi secolo, conservata presso il Museum für Indische Kunst di Berlino. Essa denota, nella capigliatura e nella purezza del viso, rapporti indiretti ormai assimilati, ma innegabili, con l’India gupta. La grande testa di personaggio adornato – devata o bodhisattva [fig. 9] – proviene da un gruppo che, nel grande tempio B di Toqquz-Sarai, rappresentava un buddha, di taglia eroica, tra due assistenti grandi quasi come un uomo. Essa risale all’ultimo periodo del sito (vi-inizio del vii secolo) e riflette l’estetica propria del bacino del Tarim. Il volto appesantito, animato da un sorriso stereotipato, si inserisce in un ovale quasi perfetto. La fronte ampia sovrasta le sopracciglia semicircolari. La faccia, modellata, fu ritoccata a mano. Sul lato e nella parte

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superiore della fronte si notano ancora alcuni colpi di spatola. L’acconciatura dei capelli, ripartiti simmetricamente in grandi ciocche ondulate, divenne un topos della produzione dello Xinjiang. Come spesso accade nell’arte del bacino del Tarim, si nota la presenza di temi occidentalizzanti. La bellissima acconciatura sormontata da un ornamento circolare e forato, frequente nella scultura di Mathura in epoca kusapa, serve qui a piegare in avanti una ciocca di capelli. Questo stile, proprio del bacino del Tarim, si trova in altri siti con un grado più o meno alto di perfezione. L’impiego di stampi favorisce una produzione in serie piuttosto ripetitiva e di qualità irregolare. Kucha prima della conquista cinese L’oasi di Kucha (Qiuci), situata a metà delle piste carovaniere che circondano il nord del bacino del Tarim, dominò per più secoli la vita politica, economica e intellettuale di tutta l’area. Il buddhismo vi conobbe uno sviluppo eccezionale. Nel iv secolo, i testi cinesi citavano l’esistenza a Kucha di un «migliaio« di stupa e conventi, nonostante l’espressione, immaginosa, non corrisponda ad alcun reale conteggio. Nel 379, infatti, si potevano contare cinque monasteri riservati agli uomini, che ospitavano quattrocentoquaranta monaci, e cinque

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8. Testa di nume demoniaco, terracotta modellata e seccata, iv-v secolo. Parigi, Musée des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: Toqquz-Sarai [Tumchuq]). 9. Testa di devata, terracotta modellata e seccata, vi-vii secolo. Parigi, Musée des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: grande tempio B [Toqquz-Sarai]). 10. Testa di Buddha, legno dorato, v-vi secolo. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: Tumchuq-tagh [Tumchuq]). 12. Musicante celeste, legno, v-vi secolo. Parigi, Musée des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: Duldur-aqur [Kucha]).

conventi in cui vivevano duecentosessanta monache. Tale numero dovette aumentare molto durante il v e vi secolo, periodo di massima prosperità del regno. Le comunità monastiche, protette dalla corte, spesso contavano tra le loro fila un membro della famiglia reale entrato negli ordini. I superiori delle congregazioni sedevano al consiglio del re. La scuola dei Sarvastivadin, menzionata da Xuanzang, dominava la vita religiosa. Sembra tuttavia che il Mahayana, benché minoritario, fosse ugualmente presente. Secondo le fonti cinesi, a metà del v secolo vi veniva insegnata la dottrina del Dhyana. Essa avrebbe conosciuto un’immensa fortuna in Estremo Oriente. In effetti, maestri appartenenti alle tendenze filosofiche più diverse e originarie di paesi lontani, andavano a insegnare e a predicare a Kucha. Venivano organizzati certami oratori, a quanto pare particolarmente apprezzati. Kucha era noto come importante centro di traduzione di testi sanscriti. Il regno diede origine a eruditi e missionari illustri, come Kumarajiva (343-413 circa), figlio di una principessa locale e di un monaco sollevato dai suoi voti. Delle due successive capitali del principato non rimane nulla. Invece, molti siti buddhisti testimoniano la ricchezza e la raffinatezza della cultura locale. Vicino al fiume Muzart, le rovine di Daldur-aqur, forse il «monastero del Prodigio«

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citato da Xuanzang, presentano una serie di cortili e di edifici ingranditi secondo il bisogno. Lo stupa principale, con la base ornata da buddha seduti in nicchie, si ergeva al centro di uno stretto cortile preceduto da un primo cortile di circa cinquantacinque metri di lato, circondato da vari santuari e da sale d’assemblea. Dei cortili annessi mettevano in comunicazione le celle. Alcuni edifici dai muri particolarmente spessi potevano avere più piani. Il sito sembra essere stato occupato dal v all’viii secolo. Tra le varie e frammentate vestigia ritrovate in loco, bisogna menzionare piccole sculture e parti architettoniche in legno. Non si conosce l’esatta destinazione della musicante celeste conservata presso il Musée National des Arts Asiatiques-Guimet di Parigi [fig. 12], scoperta nella biblioteca del monastero, non lontano da un’altra statuetta raffigurante una danzatrice. Provenienti forse da una scena di «balletto-concerto«, tema frequente nell’arte del Gandhara e presente anche nell’iconografia dello Xinjiang, possono entrambe essere fatte risalire al v-vi secolo. L’aggraziato movimento delle gambe, sottolineato da un abito a balze lungo fino a terra, e il viso tondo dall’espressione gioiosa fanno della musicante una delle più piacevoli creazioni del patrimonio delle oasi. Quando venne scoperto, il santuario di nordest conteneva alcuni frammenti di pitture murali della fine del v secolo o dell’inizio del vi secolo. Tra di essi, una testa di brahmano [fig. 11] apparteneva a una scena che rappresentava il Buddha circondato da un gran numero di assistenti. Il disegno assai accurato, l’espressività del volto di tipo piuttosto indo-europeo, il caratteristico impiego del marrone, il modellato sottolineato da brevi tratti bianchi alla maniera dei dipinti all’encaustica della tarda Antichità si trovano su altri dipinti del primo stile (v-vi secolo) delle grotte di Qyzyl, il sito più importante dell’oasi. A meno di settanta chilometri a nord-ovest di Kucha, le falesie del Ming-oi di Qyzyl contano duecentocinquantatre caverne artificiali, la maggior parte delle quali, all’inizio del xx secolo, conservava le decorazioni dipinte. Gli archeologi tedeschi hanno designato ogni caverna in funzione di un dettaglio importante della sua iconografia o della sua architettura. Il loro studio stilistico permette di datarle in modo approssimativo. Qyzyl, complesso monastico immenso, si suddivide in tre distinte fondazioni. La più importante, la «Grande Gola«, ospitava le più antiche costruzioni [fig. 13]. A est, sul-

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la montagna, una «Piccola Gola« conta molte altre caverne [figg. 14, 17]. Essa dà accesso a una terza fondazione, molto isolata. Le grotte, di pianta variabile, rivestivano funzioni diverse: santuari, sale d’assemblea, celle. Alcune stanze possedevano un camino. Come a Bamiyan, corridoi e scale scavati nella roccia o gallerie esterne in legno rendevano la circolazione relativamente facile. La configurazione della caverne permette di distinguere i locali utilizzati da piccole comunità distinte e giustapposte. Le grotte del gruppo cosiddetto «del camino« offrono una pianta tipica di questi piccoli monasteri. Le piante dei santuari scavati, generalmente squadrati e preceduti da un vestibolo parzialmente costruito, riproducono quelle delle cappelle dei monasteri edificati. Nel corso delle ristrutturazioni, essi divennero più complessi e acquisirono una maggiore regolarità nel tracciato. Caratteristiche sono le caverne che comprendono una cappella squadrata nella quale la statua di culto, posta su un basamento e addossata a un blocco cubico o posizionata in una nicchia, si trova sull’asse d’entrata. Un deambulatorio circonda l’enorme pilastro di pietra, come nelle cappelle che racchiudono uno stupa [figg. 15-16]. Il santuario presenta soffitti a cupola, a Laternendecke o a botte. Sebbene di grande

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13. Veduta della Grande Gola. Falesie del Ming-oi, Kucha.

15. Caverna del Preta, prima metà del vii secolo. Qyzyl, falesie del Ming-oi, Kucha.

14, 17. Pianta della Grande Gola e della Piccola Gola. Qyzyl, falesie del Ming-oi, Kucha.

16. Pianta della caverna dei demoni e della caverna dei pittori. Qyzyl, falesie del Ming-oi, Kucha.

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Caverna della gola

Caverna di mezzo Caverna di Nagaraja

Caverna della tentazione

Nella pagina seguente: 18. Maitreya e i suoi assistenti, colori su intonaco, fine iii-iv secolo. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: Qyzyl, caverna di Maya [Kucha]). 19. Giovane asceta, colori su intonaco, 560 circa. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: Qyzyl, caverna del navigatore [Kucha]).

varietà tematica, la decorazione dipinta obbedisce a un preciso programma iconografico. Sul muro interno della facciata, Maitreya troneggia spesso al di sopra della porta d’ingresso. Le rappresentazioni dei donatori, di grandi dimensioni, ornano frequentemente questa parete. I muri laterali sono riservati alle predicazioni del Buddha o all’illustrazione delle sue vite precedenti e a racconti edificanti. Il Mahaparinirvapa, la cremazione e il destino delle reliquie occupano i muri del deambulatorio. Evidentemente, questo programma teorico variava in funzione degli accomandanti. Le pitture murali sono realizzate a secco su intonaci più o meno grossolani applicati con cura su pareti e soffitti. A lungo sono state suddivise in due grandi periodi. Oggi, alcuni studi al carbonio 14 del torchis (malta di argilla e paglia) e degli strati preparatori fanno risalire una parte delle decorazioni alla fine del iii secolo. I due stili sembrano dunque costituire più tradizioni di laboratorio. Il primo comprende i decori più antichi (v e inizio del vi secolo). Un frammento, proveniente dalla volta della «caverna del navigatore« (560 circa), caratterizza questo stile [fig. 19]. Attraverso una ricerca del rilievo, reso attraverso delicate linee di contorno in marrone e da qualche lumeggiatura in bianco che sottolinea le forme del viso, si ispira pienamente alla tradizione indiana. Anche l’espressione languida, gli occhi allungati e semichiusi, l’acconciatura dei capelli in lunghe ciocche ondulate e gli ornamenti della sciarpa trovano la propria origine nell’arte del subcontinente. Gli episodi narrativi sono improntati a un certo pittoresco [fig. 22]. La tavolozza cromatica utilizza bruni e verdi dalle tonalità scure. L’impiego del rosso è raro. Le pitture del secondo stile (prima metà del vii secolo) derivano da una diversa estetica. Le composizioni, spesso di grandi dimensioni, uniscono le pareti attraverso grandi scene con personaggi relativamente stereotipati posizionati simmetricamente, come Maitreya e i suoi assistenti nella «caverna di Maya« [fig. 18]. Una danzatrice e una musicante celesti, provenienti dalla «caverna del pavimento dipinto«, concentrano le particolarità di questo secondo stile [fig. 20]: monumentalità, senso del movimento, geometrizzazione delle forme, stilizzazione dei volti, applicazione dei colori in campiture piatte con una quasi totale assenza di modellato, trasformazione della tavolozza, che utilizza volentieri azzurri e verdi acidi. I pigmenti, meno diversificati, sembrano tutti

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22. Nuotatori, colore su intonaco, 560 circa. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: Qyzyl, caverna del navigatore [Kucha]).

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20. Danzatrice e musicante celesti, colori su intonaco, primo terzo del v secolo. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: Qyzyl, caverna del pavimento dipinto [Kucha]). 21. Volta con decoro di montagne con scene di jataka, colori su intonaco, v secolo. Qyzyl, caverna dei musicanti, Kucha..

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23. Oca selvatica portatrice di collana, colori su intonaco, vi-prima metà del vii secolo. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: Qyzyl, grande caverna [Kucha]).

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di origine locale. I gioielli sono semplificati. I fili di perle si riducono a una giustapposizione di macchie bianche. I temi iraniani sono più numerosi rispetto al primo stile. Ad esempio, nella «grande caverna«, un largo registro, formato da medaglioni eseguiti alla perfezione popolati da oche selvatiche portatrici di collane, decora un davanzale che regge alcune statue di Buddha e di bodhisattva [fig. 23]. Questo motivo, frequente nei tessili sassanidi, si trova più a occidente nelle pitture murali di Bamiyan. Questa ripartizione sistematica delle decorazioni di Qyzyl in due stili ben separati deve essere modulata. Alcuni pannelli presentano fasi di transizione. La varietà di fatture dovuta a diversi maestri, alcuni dei quali hanno lasciato la propria firma, o a laboratori rivali, non costituisce uno stile unico. A Qyzyl, qualsiasi forma abbiano, i soffitti presentano una decorazione dipinta complessa e diversificata: volta con decorazione di montagne polilobate, sia nel primo sia nel secondo stile, che delimitano altrettante «losanghe« animate da episodi narrativi – jataka o contenuti edificanti [fig. 21] –; volta a decorazione floreale stilizzata; cupola a costoloni, già presente a Bamiyan. I Laternendecke non si prestano a scene istoriate, ma a decorazioni puramente ornamentali. All’imposta dei soffitti, finte architetture, viste in prospettiva, ospitano per-

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sonaggi a mezzobusto. Questo tema, frequente nell’arte della pianura del Gange e ripreso nel Gandhara, fa parte dei numerosi motivi di origine indiana giunti in Asia centrale. A nord dell’oasi, su ciascun lato del Kuchadaria, la città monastica fortificata di Subachi corrisponderebbe al «tempio di Loriot« descritto da Huanzang [fig. 25]. Questo ampio complesso doveva raccogliere più comunità, alcune delle quali possedevano propri edifici. Verso l’ingresso, un grande quadrilatero, dall’aria di fortezza, provvisto di più piani, poteva ospitare il superiore del complesso e i locali amministrativi. Alcune caverne nella montagna completavano queste installazioni. Vicino al cortile principale, alcuni tumuli racchiudevano urne funerarie e urne cinerarie. La più decorata, e anche la più enigmatica (vi-inizio del vii secolo), si trova al National Museum di Tokyo [fig. 24]. Sul coperchio, grandi medaglioni perlati all’iraniana ospitano geni musicanti nudi e alati, dal cranio in parte rasato, come i putti del Miran. La loro evidente origine occidentale contrasta con la scena dipinta sull’urna. Alcuni danzatori mascherati, molti da lepre, si alternano ad altri vestiti come demoni o uccelli. Essi mettono in scena una animata sarabanda accompagnata da una piccola orchestra. Questa rappresentazione è stata identificata in diversi modi. Si tratta forse di una danza magico-religiosa, in occasione dei festeggiamenti per il Nuovo Anno, parzialmente paragonabile al Naurez dell’antico 25

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27. Tre dei del cielo dei Tusita, colori su intonaco, viii-ix secolo. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: Kumtura, caverna delle Apsaras [Kucha]).

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Iran e assimilato dal buddhismo? Karashahr Karashahr (Yanqi), la prima oasi importante a est di Kucha, comprendeva numerose fondazioni religiose. Le rovine di una vera e propria città monastica, distrutta da un incendio, furono scoperte vicino al villaggio di Chortchuk. Una dozzina di caverne, scavate in una collina e decorate, facevano parte dell’insediamento monastico allo stesso titolo degli edifici costruiti. Come negli altri complessi buddhisti del baci-

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26. Devata, terra modellata e seccata policroma, vii-viii secolo. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: caverna delle Naksatra [Chortchuk]).

24. Urna cineraria, tessuto dipinto applicato su legno, vi-inizi del vii secolo. Tokyo, National Museum (provenienza: Subachi, Kucha). 25. Veduta delle rovine di Subachi. Nord di Kucha.

28. Pianta dei santuari del complesso sud di Karashahr.

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no del Tarim, si trovano a Karashahr due tipi di santuario, scavati o costruiti: cella interna dotata di deambulatorio su tre lati o pilastro centrale, come le caverne di Kucha [fig. 28], circondata da un corridoio destinato alla circumambulazione. Tutte le grotte erano dotate di volta a botte e gli archeologi tedeschi che hanno parzialmente studiato il sito agli inizi del xx secolo non hanno segnalato la presenza di Laternendecke. All’interno del perimetro del monastero di Chortchuk, alcuni stupa cavi contenevano urne cinerarie. L’iconografia rivela la crescita lenta e regolare dei temi del Mahayana. La maggior parte dei santuari presentava un ricco decoro scolpito policromo. La tradizionale alleanza tra i sovrani di Karashahr e la Cina non ha causato i bruschi sconvolgimenti conosciuti da Kucha nella metà del vii secolo. Una più lenta evoluzione ha permesso al tempo stesso la permanenza delle tradizioni proprie al bacino del Tarim e l’emergere di novità cinesi o uigure. A Chortchuk, è difficile datare con precisione la «caverna delle Naksatra« [fig. 26] – vii-viii secolo (?). Le sue numerose statue in terra modellata e seccata sono tipiche della produzione del Karashahr. Molte hanno conservato la policromia. Il rosa e il verde, particolarmente usati, ne rafforzano l’aspetto decorativo. Ma l’uso di stampi conferisce unità all’insieme. La moltiplicazione degli ornamenti, attraverso incisioni e pastigliature, conferisce a queste opere un carattere piacevole e «rococò«. Tra i personaggi a mezzobusto, dalle sciarpe gonfiate dal vento, alla maniera delle Nereidi nell’iconografia ellenistica, una devata presenta il seno nudo, come in

uso in quelle regioni per le donne rispettabili. A metà del vii secolo ci furono profondi cambiamenti politici. Nel 642, la disfatta sassanide di Nehavend contro i musulmani provocò il crollo dell’Iran. Molti aristocratici sassanidi cercarono allora rifugio verso est, a Kucha e anche oltre, fino in Cina, dove furono ben accolti. L’arrivo di questi stranieri rafforzò forse le influenze iraniane già presenti. Lo stesso sarebbe accaduto con i Sogdiani mezzo secolo più tardi. Kucha dopo la conquista cinese Con lo stabilirsi di un potente Impero turco a nord di Tianshan, la giovane dinastia cinese dei Tang dovette dimostrare la propria forza e controllare il commercio carovaniero. Un conflitto tra il re di Kucha e il sovrano della vicina oasi di Karashahr, alleato della Cina, servì come pretesto per la conquista delle oasi. La presa di Kucha fu sanguinosa. Nel 658, pacificata la zona, un governatore generale dei paesi d’Occidente venne insediato a Kucha. Alcuni siti, in particolare Qyzyl, furono abbandonati. Altri rimasero in attività, come Kumtura, insediamento buddhista situato non lontano da Duldur-aqur, antico quanto Qyzyl, come testimoniano le pitture del primo e del secondo stile sopravvissute. Il monastero rimase occupato fino alla fine del ix secolo. La seconda fase del sito tradisce una forte presenza del Mahayana. Le decorazioni murali allora dipinte e scolpite, caratteristiche dell’ultimo periodo di attività artistica a Kucha, cambiarono radicalmente stile. Esse derivano dall’arte cinese di epoca Tang e riproducono spesso, con grande abilità, i luoghi

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29. Veduta del tempio a stupa, prima del 640. Yar, Turfan.

comuni iconografico-stilistici definiti nei grandi templi della capitale. Due grandi frammenti (viii secolo) della «caverna delle Apsaras« erano originariamente collocati alle estremità della lunetta al di sopra della porta d’ingresso. Essi presentano tre dei del cielo dei Tusita, certamente attenti alle prediche di Maitreya, qui assente ma che, a Kucha, figura abitualmente al centro della parete interna della facciata [fig. 27]. Il brusco cambiamento della gamma cromatica, che non utilizza tinte molto tenui, il modo di trattare i volti dai tratti delicati seppur paffuti, i gioielli e i drappeggi rimandano all’estetica cinese dell’viii secolo. Turfan L’oasi di Turfan (Turpan) occupa un posto a parte nel bacino del Tarim. Malgrado la posizione eccentrica a nord-est della conca, Turfan divenne poco a poco – per ragioni al tempo stesso climatiche e di evoluzione della situazione politica – una tappa essenziale del commercio carovaniero. L’aridità del clima in questa regione ha permesso una eccezionale conservazione dei complessi monumentali, costruiti, come nel resto dello Xinjiang, in terra cruda. La vicinanza geografica spiega la frequenza delle influenze dell’Impero cinese. Dal vi secolo, una dinastia locale, gli Qu, regnò su una base di popolazione indoeuropea, strettamente in rapporto con nomadi di ogni sorta. Yar (Jiaohe), la capitale fortificata situata su uno sperone roccioso, comprende numerosi edifici civili e religiosi. Nella parte nordoccidentale del perimetro, un grande tempio [fig. 30] presenta una pianta nello spirito di numerosi santuari buddhisti della regione di Kucha, qui realizzata con una simmetria perfetta. Sull’asse di un grande cortile d’ingresso, alla maniera delle cappelle scavate o costruite di Kucha, la cella presenta un pilastro centrale ornato di statue. Turfan costituisce una tappa importante nell’evoluzione dello stupa. La maggior parte possiede la forma di una torre e solo la sovrastruttura ricorda i precedenti indiani. Piccole nicchie che ospitano dei buddha, moltiplicando all’infinito l’immagine del Beato, ricoprono i muri del monumento. Talvolta vuote, ricevono una destinazione funeraria. Alcuni complessi raggiungono una complessità raramente uguagliata fino a quel momento. Al centro della città, si erge uno stupa-pilastro, costruito su un ampio basamento, circondato da quattro massicci piloni, alla maniera di certi stupa del

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30. Pianta del Grande Tempio, prima del 640. Yar, Turfan.

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Turfan.

31. Pianta del tempio n. 9, dopo il 640. Sengym-aghyz, Turfan. 32. Pianta del tempio a stupa, prima del 640. Yar, 32

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Gandhara, e da due stupa più piccoli. Questa esaltazione dei punti cardinali è tradotta in modo ancora più esplicito in un altro esempio situato a nord dell’agglomerato. Intorno a uno stupa-pilastro centrale, anch’esso circondato da quattro tumuli più piccoli, una grande terrazza reggeva quattro gruppi di venticinque stupa disposti a scacchiera [figg. 29, 32]. Nel 640, l’insediamento di un protettorato cinese comportò l’abbandono di Yar come capitale. Il governo si stabilì a Khoço (Gaochang), una grande città nuova edificata nella pianura. I monumenti religiosi, ancora in piedi, particolarmente impressionanti, perpetuano, con alcune varianti, generi già presenti a Yar [figg. 33-34]. Gli stupa sono di più tipi: semplici torri, stupa a gradini, a nicchie o multipli, poggianti su una base comune. Le rovine hanno restituito resti di statue buddhiste colossali, troppo frammentarie per tentare una qualsiasi restituzione. Questa abilità nel concepire complessi monumentali di grandi dimensioni, edificati secondo schemi relativamente semplici, è particolarmente percepibile a Sengym-aghyz, nel nordest di Karakhodja. Questa vera e propria città monastica scaglionava una serie di conventi lungo una valle. I santuari all’aria aperta erano vicini a installazioni rupestri. Il tempio n. 9 offre una visione della potenza e della sobrietà di queste realizzazioni, tipiche dell’architettura dell’Asia centrale [fig. 35]. La pianta presenta una complessa variante del tipo di cella con deambulatorio di Kucha [fig. 31]. L’apogeo del sito, in seguito abbandonato, venne raggiunto nella seconda metà del vii e durante l’viii secolo. I Cinesi non riuscirono a restare a Turfan oltre l’ultimo decennio dell’viii secolo. Verso il 790, le armate tibetane occuparono l’oasi e vi rimasero fino verso l’848. Verso l’860, i Turchi uiguri, cacciati dalla Mongolia, stabilirono a Turfan il loro secondo regno, dopo la distruzione della loro prima capitale Kharabalgasum nell’Arkhangai aimak, da parte dei Kirghisi. Si insediarono a Khoço, ormai chiamata Idikutsahri, la «città dei signori uiguri«. Questi aristocratici guerrieri già fortemente sinizzati, che praticavano varie religioni tra cui il buddhismo, si rivelarono fidati alleati dell’imperatore cinese. A nord-ovest di Sengym-aghyz, il sito di Bezeklik (Bozikeli), formato da caverne e da edifici costruiti, occupava una terrazza angolare, lungo una delle scoscese gole [figg. 1, 36]. Relativamente ben conservato, esso permette

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di scoprire alcuni aspetti della vita religiosa a Turfan. Il luogo, inizialmente in parte occupato da manichei, venne in seguito ceduto ai buddhisti. Sebbene la pianta dei santuari non presenti rotture con gli altri grandi complessi della zona, bisogna notare la dimensione inusitata dei numerosi vestiboli, a forma di lunga sala rettangolare con volta a botte. I muri laterali permettevano la realizzazione di grandi pitture murali su scala più ampia che a Qyzyl. Se le decorazioni più antiche derivano piuttosto dal Theravada, le pitture, a partire dall’viii secolo, presentano numerose iconografie del Mahayana. Come a Khoço, alcuni rari temi potrebbero derivare dal Vajrayana. Sebbene nell’area di Turfan sia difficile datare con esattezza le vestigia delle decorazioni più antiche, sembra che le fasi stilistiche già riscontrate a Kucha si trovino in questa parte orientale del bacino del Tarim. Un frammento del tempio n. 9 di Bezeklik, sul quale figura un giovane brahmano [fig. 37], risalirebbe ad esempio agli inizi del vii secolo. L’espressione patetica, il modellato fortemente accentuato da linee di contorno colorate all’indiana e da lumeggiature bianche devono essere paragonati a quelli della celebre testa di Duldur-aqur [fig. 11]. Una testa di Buddha del vii secolo, proveniente da Khoço [fig. 38], corrisponderebbe al secondo stile di Qyzyl di cui possiede l’estrema stilizzazione. La resa del volume tuttavia non è ancora stata abbandonata dagli artigiani, come testimoniano le lumeggiature bianche su una parte del volto. Dopo il 640, le antiche tradizioni pittoriche cedettero poco a poco il posto a un’estetica sinizzante sempre più forte. Le decorazioni conservatesi non rendono pienamente conto di questo processo. In alcune composizioni, come quelle

ritrovate in un piccolo tempio a nord della gola di Sengym, le due tendenze si fusero in un’audace sintesi. L’arrivo degli Uiguri mise termine a queste esperienze eclettiche. Uno stile fortemente sinizzante caratterizzò le decorazioni dell’epoca. Quelle della caverna n. 9 di Bezeklik sono state suddivise tra il Museum für Indische Kunst di Berlino e l’Archaelogical Survey of India, New Delhi. Quindici grandi pannelli ripetitivi (ix secolo), di composizione identica, occupano i muri della cella. Essi rappresentano scene di prapidhi [fig. 39]. Davanti a vari buddha delle ere cosmiche passate, di dimensioni eroiche, un essere umano inginocchiato fa voto di raggiungere la «buddhità« nella prossima esistenza. Vari astanti, con le mani giunte in segno di devozione, circondano il buddha: discepoli, divinità guardiane che brandiscono il vajra, e bodhisattva. L’estrema stilizzazione delle forme, le guance particolarmente piene dei personaggi, l’espressione quasi caricaturale del monaco inginocchiato, i drappeggi e il volare delle sciarpe, i motivi vegetali della bordatura, tutto rimanda alla pittura religiosa di epoca Tang, come ci viene presentata dalle caverne di Dunhuang nel Gansu. Si nota la predominanza di tonalità rosso-arancioni, molto frequenti a Bezeklik, che contrastano con alcune parti di un verde un po’ acido. Un grande frammento, al National Museum di Tokyo, proviene da una grande decorazione della caverna n. 20, dedicata – come le grotte n. 6 e n. 19 – al Mahaparinirvapa di Buddha. Sulla parete di fondo, i principi di vari regni giungono a presentare le condoglianze, a destra, ai piedi del maestro, i discepoli sono immersi nell’afflizione. A sinistra, alcuni eretici,

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33. Tempio P, dopo il 640. Khoço, Turfan. 34. Facciata sud del tempio W, dopo il 640. Khoço, Turfan. 35. Veduta del tempio n. 9, dopo il 640. Sengymaghyz, Turfan.

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dai tratti fortemente caricaturali, eseguono un concerto al capezzale del Beato [fig. 40]. L’eccesso delle espressioni, rafforzate da un naso particolarmente lungo e da occhi sporgenti, la resa esagerata di baffi e barbe corrispondono alle tradizionali rappresentazioni dei «barbari occidentali« in epoca Tang. Le rappresentazioni dei donatori e delle donatrici, vestiti secondo la moda cinese, si trovano in numero piuttosto elevato a Bezeklik. Fissati in un atteggiamento di devozione, tengono un fiore a mo’ di offerta. Brevi iscrizioni li identificano con precisione. Le spedizioni archeologiche hanno scoperto, in vari punti a Turfan, dipinti portatili e manoscritti miniati. Nei santuari venivano offerti vessilli come ex voto. Su alcuni sono rappresentati dei lokapala il cui culto, attestato in Asia centrale sin dal vi secolo, assume tutta la sua ampiezza sotto i Tang. Un raro esemplare, trovato a Khoço, conservato al Museum für Indische Kunst di Berlino, prova l’esistenza a Turfan di un rituale di pamana, che conferiva meriti post mortem a persone decedute [fig. 41]. Tale liturgia è attestata anche a Dunhuang. Una iscrizione in uiguro fa il nome del defunto: Tangrim Xan Totoq (?). I figli avrebbero rich-

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iesto la celebrazione di una cerimonia specifica, dopo la morte, per migliorarne il karman. Nella parte superiore del vessillo, un triangolo di sospensione presenta una piccola immagine del Buddha, seduto in meditazione. La parte centrale mostra l’aristocratico con un ramo fiorito. È vestito da un lungo abito d’ispirazione cinese, ornato di multicolori fiori sbocciati, il cui taglio, attillato al corpo, è tuttavia adattato alla moda barbara. Il fianco, con un lungo spacco, rivela alti stivali da cavaliere. I capelli 42

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36. Pianta di Bezeklik (Turfan). Dopo l’860. 37. Testa di giovane brahmano, colori su intonaco, inizi del vii secolo (?). Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: tempio n. 9 [Bezeklik Turfan]). 38. Testa di Buddha, colori su intonaco, vii secolo. Berlino, Museum für In-

dische Kunst (provenienza: Khoço, Turfan]. 39. Scena di prapidhi, colori su intonaco, ix secolo. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: caverna n. 9, Bezeklik, Turfan). 45

sciolti sulle spalle secondo la tradizione uigura e un copricapo complesso ne provano l’elevato rango sociale. Se i manoscritti manichei ritrovati a Turfan sono giustamente celebri, i rari testi buddhisti miniati rimangono meno noti. Tra di essi, bisogna citare un lungo frammento, una cui versione in uiguro è stata scoperta a Turfan (x-xi secolo), che tratta della storia del re Kancanasara [fig. 42]. Nell’angolo inferiore destro, il sovrano, il cui nome significa «Essenza d’oro«, inginocchiato davanti al brahmano Rudraksa, lo supplica di insegnargli un versetto buddhista. In cambio, fa voto che il brahmano possa torturarlo. Nell’angolo inferiore destro, Kancanasara subisce i morsi del braciere accesso da Rudraksa. Quest’ultimo, davanti all’atteggiamento impassibile del giovane re, decide di raggiungerlo nel fuoco. Compaiono allora Indra e Brahma che rendono omaggio a Kancanasara, dimostratosi degno di diventare buddha. Lo stile della miniatura non differisce in modo fondamentale dalle illustrazioni manichee: stesso rapporto tra immagine e pagina, stesso sfondo blu, stessa presenza di elementi rossi, stessi piccoli personaggi dalla testa rotonda, disegnati con una certa ingenuità bonacciona. Questo stile tipico di Turfan,

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attestato dall’viii secolo, non può render conto dell’intera produzione. Un’altra tradizione, forse più sofisticata, si ispira all’arte cinese di epoca Tang, sia nella tecnica sia nello stile. Alcuni frammenti di pittura su seta che rappresentano un bodhisattva (ix-x secolo) [fig. 43] e un lokapala (viii secolo) [fig. 45], così come un frammento di manoscritto che raffigura un demone (viii-ix secolo) [fig. 44] si inseriscono in questa tendenza. L’espressività esacerbata e, nel caso del demone, l’insistente nitidezza del disegno delle macchie che delimitano una forma grottesca, di cui si trovano i precedenti fino all’arte gandhariana, tradiscono un’origine locale. Khotan a partire dal vii secolo A sud-ovest del bacino del Tarim, il regno di Khotan, benché dichiaratosi vassallo dell’Impero cinese nel 615, non subì, in ambito artistico, la stessa sinizzazione stilistica delle oasi settentrionali. Nel vii e nell’viii secolo, al contrario, le influenze indiane si rafforzarono. La vicinanza del Kashmir, che sotto la dinastia Karkota (626 circa-prima metà del ix secolo) conobbe un fulgore senza precedenti, e delle

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il bacino del tarim

valli dello Swat e di Gilgit che svilupparono in modo originale le proprie tradizioni culturali, spiegano indubbiamente questo fenomeno. Oltre agli innegabili contatti con questi tre paesi limitrofi, le testimonianze archeologiche attestano contatti più lontani con la pianura del Gange. Oggetti religiosi facilmente trasportabili, come rotoli miniati e piccoli polittici in legno, alcuni realizzati nei grandi luoghi di pellegrinaggio, rivestirono forse il ruolo di vettore delle forme indiane. Nello stesso bacino del Tarim, gli scavi hanno restituito alcuni rari dittici e trittici in ottimo stato così come pannelli, dalla faccia interna scolpita, provenienti da simili dispositivi. Uno dei più eleganti, ma anche dei più grandi (0,36 metri), del vi-vii secolo, si trova al Metropolitan Museum of Art di New York [fig. 46]. Il Buddha, dal corpo particolarmente snello e allungato, vi figura aureolato e nimbato da una luce mistica che emana da tutto il suo corpo, seguendo alcune credenze del Mahayana. L’opera, sicuramente scoperta a Khoço, potrebbe essere stata eseguita sia localmente sia in un altro centro del bacino del Tarim. Alla maniera dello stile indianizzate di Khotan, essa riproduce il canone dei buddha di Mathura del vi secolo. Il volto, dai tratti delicati e dall’aspetto giovanile, è inusuale in contesto indiano così come nelle tradizioni dell’Asia centrale. Numerosi siti dell’oasi di Khotan hanno restituito decorazioni indianizzanti [figg. 47-48]. I temi iconografici trattati si rifanno per lo più al Mahayana, ma alcuni pannelli possono essere ricollegati al Vajrayana. Così il motivo dei mille buddha, tema mahayana per eccellenza, si generalizza. Esso costituisce una decorazione coprente con un raro effetto plastico. Le divinità compaiono sempre frontalmente, in una rigida frontalità. I volti, circolari e stereotipati, evocano la contemporanea statuaria del Kashmir o dello Swat. Gli astanti offrono più varietà. Queste pitture murali sono realizzate con più o meno abilità e la loro datazione rimane fluttuante, così come dimostrano due frammenti che sarebbero stati raccolti da alcuni pastori a Balawaste. Il più sottile rappresenta un personaggio in preghiera [fig. 47], forse Indra, con indosso una mitra reale, le spalle fiammate e un occhio disegnato su una mano. Il volto, dai tratti marcati, dalla bocca sensuale e dagli occhi semichiusi, il globo oculare che esce dalla curva della guancia, presentano le raffinatezze del modello all’indiana attraverso cerchi concentrici. Sapienti scolorimenti, alla

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40. Musicanti al capezzale del Buddha, colori su intonaco, ix secolo. Tokyo, National Museum (provenienza: caverna n. 20, Bezeklik, Turfan). 41. Principe uiguro, inchiostro e colori su ramia, ix secolo. Berlino, Museum für Indische Kunst (provenienza: Khoço, Turfan].

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maniera delle decorazioni di Ajapta contemporanee a questo frammento, scolpiscono le forme dall’interno. La luce emana dal soggetto stesso e non, come nella tradizione occidentale, da una fonte esterna puntuale. Un grande busto di buddha, ricoperto da numerosi piccoli motivi, è forse più recente di un secolo [fig. 48]. Il personaggio, seduto in meditazione, le mani in grembo, è identificabile con Vairocana, che riassume in sé le varie componenti dell’universo – «Tutto in uno, Uno in tutto«, secondo la formula dei testi del Mahayana. Tra i numerosi simboli, che includono forse delle componenti induiste, abbassati in questa prospettiva a culti inferiori e testimoni di una forma degradata del divino, si nota la

presenza del sole e della luna sulle spalle, del vajra e della colonna fiammata retti da un loto sugli avambracci e le braccia, del monte Meru sovrastato dal leone sul petto e più in alto, del vrivatsa, ciuffo di peli di forma curvilinea, trovato abitualmente sul torso di Krsna, avatara di Vispu. Gli archeologi hanno scoperto nell’oasi un certo numero di tavolette dipinte. Questi ex voto rappresentano divinità locali e leggende, più o meno collegate al buddhismo. L’attività dei siti della regione di Khotan si arrestò bruscamente nell’viii secolo. L’oasi cadde definitivamente sotto i colpi dei Turchi islamici di Kader Khan di Kashgar tra il 1013 e il 1032.

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1. Mapdala di Vasudhara, inchiostro e colore su tela, 1367. Stati Uniti, collezione privata. 2. Valle di Kathmandu e Nepal.

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La valle di Kathmandu, nel medio Himalaya, è la sede dell’unico regno indiano giunto fino all’epoca moderna senza importanti fratture storiche. Benché i re pratichino l’induismo, le comunità buddhiste costituiscono uno dei tratti culturali principali di una brillante civiltà urbana sviluppatasi in quasi duemila anni. La tradizione fa risalire ad Avoka l’introduzione del buddhismo nella valle. Gli stupa più antichi derivano dal più antico tipo di tumulo indiano. I più celebri sarebbero stati eretti intorno alla città di Patan. Sembrano di molti secoli precedenti alla fondazione della città ed erano senza dubbio associati ad anti-

chi monasteri scomparsi. Le cappelle dedicate agli jina, edificate sui loro fianchi in direzione dei punti cardinali, sono aggiunte tardive. Lo stesso dicasi per le loro sovrastrutture. Le più antiche statue ritrovate evocano, per la loro imponenza, la muscolatura evidente, il drappeggio degli abiti e i gioielli, lo stile mathuriano di epoca kusapa. Ne sono testimonianza un torso virile, forse appartenente a un bodhisattva [fig. 4], trovato a Harigaon, e una statua di dea madre, spesso identificata con Hariti, situata nel cortile posteriore dell’Haugal baha, a Patan. Per secoli, il buddhismo antico, spesso chiamato localmente la Via dei discepoli (Vravakayana), affiancò il Mahayana. Quest’ultimo divenne maggioritario a metà del vii secolo, se ci si affida all’iconografia delle statue sopravvissute. I sovrani licchavi (350-740 circa) intrattennero stretti rapporti con le corti indiane. Tuttavia, l’influenza dell’arte gupta non si fece sentire prima della seconda metà del v secolo, ossia abbastanza tardi. Benché il Buddha del Bangemura tole [fig. 5] e il bodhisattva del Gapa baha [fig. 7], entrambi a Kathmandu, conservino la linea tozza delle opere più antiche, la loro delicata muscolatura, segnata dagli abiti senza pieghe che seguono aderenti il corpo, le loro eventuali decorazioni e la forma delle steli dimostrano un forte influsso dei canoni dei laboratori di Sarnath. Un raro buddha in bronzo, del 591 [fig. 6], dono della monaca Vakya allo Yakgal vihara di Patan, è segno al tempo stesso del virtuosismo e della fedeltà agli archetipi indiani da parte degli artisti locali che lavoravano il bronzo. Paradossalmente rimangono poche vestigia buddhiste della grande arte del vii e viii secolo. Le più prestigiose realizzazioni di quest’epoca sono per lo più di influenza induista e sostenute dalla corte reale. L’elevato numero di caitya di epoca licchavi in tutta la valle testimonia tuttavia la densità dei monasteri e l’attività delle comunità. Molti, come i caitya di Cabahil [fig.

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3. Caitya, pietra, vi secolo. Deo-Patan, Cabahil.

3], traggono il loro motivo decorativo dal vocabolario architettonico. La loro ricca decorazione permette di evocare l’aspetto degli edifici contemporanei, tutti scomparsi, e la raffinatezza delle ornature in legno. Il caitya del Dhvaka baha, a Kathmandu, costituisce un hapax. Il suo basamento, particolarmente alto, presenta sulle quattro facce nicchie fiancheggiate da colonnine copiate dall’architettura in legno, che ospitano immagini in piedi di quattro importanti personaggi legati al mondo fenomenico: due buddha e due bodhisattva. I buddha tengono, in modo identico, la mano destra in varada mudra. Solo il mantello monastico, applicato sul corpo per uno, alla maniera dei laboratori di Sarnath, e pieghettato per l’altro, introduce una volontà di differenziazione iconografica. Così Vakyamuni e Maitreya stanno accanto ad Avalokitevvara Padmapapi e Vajrapapi. Quest’ultimo poggia sul suo attributo personificato sotto forma di un ragazzino, tratto frequente in India in epoca gupta, che tradisce un relativo arcaismo. Nell’iconografia indiana dell’epoca gli attributi sono rappresentati sotto la loro comune forma di strumenti. Un secondo basamento è fiancheggiato da quattro nicchie che proteggono dei buddha in meditazione. Certamente immagini di Vakyamuni, trascendente e radioso così come viene esaltato dalle speculazioni del Mahayana. La parte superiore dell’edicola, rifatta in epoca tarda, è di tipo svayambhu. L’elegante e maestosa estetica del vii e viii secolo continua nel ix secolo. Un imponente Avalokitevvara Padmapapi, ahimè deturpato, eretto nel cortile del Sighah baha (Kathevimbhu), a Kathmandu, rappresenta uno dei capolavori del periodo. Se ci si affida al corpus di pezzi datati da iscrizioni, la relativa goffaggine che segna le opere del x secolo è meno accentuata in ambito buddhista che nella statuaria induista. Il più antico manoscritto miniato conservato, l’Astasahasrika Prajnaparamita sutra della University Library di Cambridge, datato 1015, mostra ottantanove miniature che rappresentano per lo più divinità [fig. 8]. Queste vignette, dalla fitta composizione, propongono numerosi motivi paesaggistici, in particolare alberi, rari nelle miniature pala contemporanee. La gamma cromatica è più ricca che nei manoscritti indiani. L’impiego del rilievo di tradizione gupta, attraverso linee colorate concentriche, è più frequente. I laboratori nepalesi avevano sviluppato una sofisticata abilità manuale, contrariamente agli artigiani dell’India nordorientale, che, nello stesso

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periodo, privilegiavano l’espressività attraverso una spinta geometrizzazione delle forme. I volti tondi e giovanili del manoscritto di Cambridge caratterizzano l’estetica nepalese dell’xi secolo. La fioritura di un’arte veramente nazionale, che rinnova le forme considerate classiche del vii e viii secolo e le porta a un raro grado di perfezione, ebbe luogo alla fine dell’xi, nel xii e agli inizi del xiii secolo. Queste creazioni, risalenti alla fine del periodo intermedio (740-1200 circa) e all’inizio del Malla antico (1200-1482), servirono spesso a loro volta come modelli per gli artigiani. Mentre nell’India nordorientale solo il Prajnaparamita sutra e il Pancaraksa sutra presentano miniature, in Nepal il Karandavyuha sutra e il Gapdavyuha sutra hanno ispirato i pittori. Il piano interno delle copertine dei libri e le vignette miniate costituiscono uno degli apici dell’arte nepalese, come dimostrano alcune rare illustrazioni di un Prajnaparamita sutra del 1148, conservato presso la University Library di Cambridge [fig. 8], o le vignette di un Gapdavyuha sutra, una volta nella collezi-

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4. Torso di bodhisattva (?), pietra, ii secolo o più recente. Kathmandu, National Museum (provenienza: Harigaon). 5. Buddha, pietra, vi secolo. Kathmandu, Bangemura tole. 6. Buddha, bronzo, 591. Patan, Yakgal vihara. 4

7. Bodhisattva, pietra, 550 circa. Kathmandu, Gapa baha. 8. Inchiostro e colore su palma essiccata, Astasahasrika Prajnaparamita sutra, 1015. Cambridge, The University Library.

9. Vignetta, inchiostro e colori su palma essiccata, Gapdavyuha sutra, xii secolo. Cleveland, The Cleveland Museum of Art (acquisito dai fondi J. H. Wade).

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one Heeramaneck, sparso tra vari musei americani [fig. 9]. Queste opere presentano una stessa abilità di composizione. Quando richiesto dall’iconografia, gli elementi paesaggistici sono meno sproporzionati rispetto alla dimensione dei personaggi che nelle pitture dell’xi secolo e creano una certa plausibilità spaziale. Le figure, dalle pose ricercate, sono disegnate con grande finezza. Delicati semitoni modellano le forme con raffinatezza. I variegati motivi che decorano i tessuti possiedono una fattura curata. Una copertina, di eccezionale qualità, rappresenta il Vessantara jataka, uno dei jataka più rappresentati nel mondo buddhista [fig. 10]. Nella prima scena, Vessantara fa dono al Kalinga Brahmapa dell’elefante bianco, palladio del regno. Vessantara, accompagnato da Jali, suo figlio, da Madi, sua moglie, e da Kanha-jina, sua figlia, lascia la città su un carro. Poi, in un gesto di magnanimità, fa dono dei cavalli da tiro ai brahmani. Nell’ultimo episodio, gli dei, sotto forma di cervidi, trainano il carro. Questi quattro episodi leggendari, rappresentati da sinis-


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tra a destra, occupano uno spazio sempre più ridotto e rendono così più sensibile la perdita dei beni e delle persone, oggetto del racconto. La concatenazione delle scene produce un’impressione di dissolvenza quasi cinematografica, come si vede talvolta nell’arte indiana. Questa stessa estetica, elegante e raffinata, «neo-licchavi«, si ritrova in un certo numero di bronzi. In un angolo del cortile principale del monastero di Kwa baha, a Patan, un Avalokitevvara Padmapapi di grandi dimensioni, con un corpo animato da un discreto ancheggiamento, presenta proporzioni perfette [fig. 12]. Il ginocchio sinistro leggermente flesso e la fluidità delle masse muscolari gli conferiscono una grazia priva di ogni sdolcinatezza. Un sorriso benevolo, visibile nonostante la corrosione, anima il suo volto. L’introduzione del Vajrayana nella valle di Kathmandu costituisce un fenomeno di importanza capitale. Il sistema kalacakra (Aivvarika) fu predicato da Ativa (982-1054 circa), missionario indiano in viaggio verso il Tibet occidentale. Una tiara da officiante, datata 1145, conservata presso il Musée National des Arts Asiatiques-Guimet a Parigi, unisce placche di rame sbalzato e fioroni a cera persa [fig. 11]. I cinque jina, riconoscibili dai loro gesti canonici specifici, alternano ai loro simboli emblemi che raggruppano in «famiglie« le innumerevoli divinità del buddhismo indo-himalayano. Incrostazioni di pietre fini accentuano l’aspetto prezioso di questo capolavoro dell’oreficeria nepalese. Questa estetica «classica« continuò nel xiii secolo, poiché l’avvento della dinastia dei Malla, nel 1200, non indusse alcuna rottura stilistica. Alcune strutture architettoniche in legno, risparmiate dalle incursioni devastatrici dei guerrieri di Khasa, dei Tirhut del Mithila e dei mu-

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sulmani del Bengala nella prima metà del xiv secolo, sembrano risalire a questo periodo. Il timpano al di sopra della porta della cella del Yatkha baha, a Kathmandu, riprende le forme traforate delle arcatelle delle miniature del xiii secolo [fig. 13]. Alcuni rari puntelli (tupala), talvolta riutilizzati nel cortile del monastero di Woku baha a Patan [fig. 14], perpetuano una composizione tripartita, già in uso a Mathura, in epoca kusapa, sui pilastri della balaustrata sacra. Su un’ampia parte mediana, una yakvi regge l’estremità di un fascio di abbondante fogliame che occupa la parte superiore del puntello. La dea è posta su un atlante accovacciato su rocce cubiche. Nonostante queste incisioni rivelino differenze stilistiche non trascurabili, dovute al lavoro di più laboratori e a sequenze cronologiche ancora sconosciute, la linea particolarmente fluida dei corpi, sottolineata dal delicato movimento dei drappeggi, l’eleganza del gesto e l’arcaicità della gioielleria li ricollegano alla grande arte classica «neo-licchavi«. Dopo la conquista della pianura del Gange da parte dei musulmani, verso il 1200, il buddhismo nepalese, privato delle risorse indiane, ebbe un’evoluzione originale, giacché il tantrismo soppiantò tutte le altre scuole. Ritualismo e tendenza al sincretismo ne furono i tratti dominanti. Nel xiv secolo, i monaci (banra), sposati e dallo status monastico ereditario, ottennero il rango di brahmano nel nuovo sistema di caste definito da Jayasthitimalla (1382-1395). Si fanno abitualmente risalire i più antichi rotoli (paubha) al xiii secolo. Fino al xv secolo, si segue l’evoluzione di rappresentazioni divine dedicate a rituali apotropaici o propiziatori (vrata): rito di Uposadha (Astamivrata) in onore di Amoghapava, aspetto di Avalokotevvara [fig. 15]; rito di Bhimaratha nel corso del quale vengono offerti diecimila

10. Episodi del Vessantara jataka, inchiostro e colori su legno, xii secolo. New Delhi, The National Museum. 11. Tiara d’officiante, rame dorato incrostato, 1145. Parigi, Musée des Arts Asiatiques-Guimet. 12. Avalokitevvara Padmapapi, rame, xii secolo. Patan, Kwa-baha.

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13. Buddha predicante, legno, xiii secolo. Kathmandu, Yatkha baha (cella [timpano di porta]). 14. Puntelli decorati da yaksi, legno, xiii secolo. Patan, Woku baha. 14

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caitya (laksacaitya); culto reso a Vasudhara, dea della ricchezza, per ottenere beni materiali, ecc. La più antica pittura datata rappresenta per altro un mapdala di Vasudhara [fig. 1]. La divinità, di dimensioni eroiche, occupa la parte centrale della composizione. Tutto in-

torno possono figurare episodi della leggenda all’origine del rituale e che ne dimostrano l’efficacia. Un supplementare registro inferiore, proprio dell’arte nepalese, proporne la cerimonia di consacrazione dell’opera in presenza dei donatori. Alla ieraticità e all’aspetto talvolta affettato dell’immagine divina si oppone la vivacità degli episodi narrativi. Gli artigiani, per colmare anche il minimo vuoto, utilizzano un ricco vocabolario decorativo: colonnine vegetali uscite dal vaso dell’abbondanza, archi di foglie dai pennacchi frastagliati, decorazioni che tappezzano di fogliame e di riccioli di loto in chiaroscuro, ecc. La predominanza di blu e di rossi è tipica della pittura nepalese. Le statue contemporanee, architettate e di proporzioni più monumentali di quelle del xii secolo, tradiscono pari cura [fig. 17]. In occasione di certe feste, si adornavano le corti dei monasteri con lunghi rotoli orizzontali (vilampo), composti da più registri istoriati. Ne rimangono pochi. Tre di essi, dell’inizio del xvii secolo, conservati presso il Prince of Wales Museum di Bombay, rappresentano leggende relative ad Avalokitevvara. Due riportano iscrizioni che citano Vri Kasiraja Bharo, un donatore. Il loro stile, più libero rispetto alle rappresentazioni sacre strettamente legate

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15. Amoghapava, inchiostro e colore su tela, 1250 circa. Collezione privata. 16. Buddha predicante, inchiostro e colori su tela, 1649. Cleveland, The Cleveland Museum of Art (acquisito dai fondi J.H. Wade).

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17. Caturbhuja Manjuvri, rame dorato, xv secolo. Cleveland, The Cleveland Museum of Art (acquisito dai fondi J.H. Wade).

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al rituale, ostenta un aspetto narrativo più accentuato. Alcuni episodi della storia di Sikhala, inclusa nel Karapdavyuha sutra, che narra i miracoli compiuti da Avalokitevvara, sono tra le parti meglio conservate di questo insieme. Alcune orchesse assumono l’aspetto di giovani ragazze per sedurre dei marinai. Alcuni alberi, dalle foglie fortemente stilizzate, separano pannelli dai colori di fondo alternati. Del fogliame occupa il secondo piano. Espressioni appassionate animano i volti dei personaggi, leggermente sproporzionati rispetto ai corpi e dai tratti un po’ pesanti. Malgrado un largo contorno, il disegno espressivo attira l’attenzione sui gesti più significativi dei protagonisti. Pannelli animati si alternano a episodi più coloriti. La stilizzazione generale e l’impiego di colori uniformi introducono una nuova estetica, che mira a un effetto più immediato rispetto all’estetica classica e decorativa dei secoli precedenti. I legami politici e commerciali che intrattenevano Bhaktapur (Bhadgon), Kathmandu e Patan, i tre piccoli regni nepalesi, con la corte dei Gran Moghul e quella dei loro vassalli rajput, furono all’origine di nuove mode che trasformarono radicalmente lo stile pittorico diffuso nella valle. Il Buddha predicante, del 1649, del Cleveland Museum of Art, si colloca all’inizio di questa mutazione [fig. 16]. Se i registri superiori, inferiori e laterali obbediscono alle tradizioni ancestrali, il pannello principale offre molteplici innovazioni. La divinità non occupa più il centro della composizione, ma è relegata su un lato. I donatori si trovano davanti alla divinità e ne ascoltano attentamente le preghiere. Il realismo dei tratti, il taglio indiano degli abiti, gli alberi di specie diverse dimostrano una forte influenza dell’India moghul. L’arte buddhista della fine del xvii secolo e della prima metà del xviii secolo entrò in un lento declino. La conquista della valle da parte dei Gurkha, nel 1769, e la fondazione del Nepal moderno accentuarono questa sclerosi. I laboratori monastici, a Patan in particolare, produssero in massa, fino alla metà del xix secolo, delle statuette in rame dorato incrostate, fortemente stereotipate. I numerosi monumenti sopravvissuti permettono di ricostruire l’evoluzione architettonica degli ultimi secoli. L’adozione generalizzata del Vajrayana comportò un arricchimento dei concetti simbolici legati allo stupa. I tumuli-reliquiari furono dotati di aggiunte in muratura e di una decorazione specifica che permettevano di rendere sensibili queste speculazioni. Il

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colossale stupa di Svayambhunatha, edificato in cima a una collina a sud-est di Kathmandu, ne rappresenta l’esempio più riuscito [fig. 18]. Questo tumulo, fondato in epoca licchavi, è in relazione con il mito buddhista della formazione della valle di Kathmandu. In data sconosciuta, certo relativamente antica, nuove cappelle vennero edificate a lato: cinque per i Jina, quattro per le dee e i loro paredri. La harmika (cudamapi) presenta sulle quattro facce due colossali occhi dipinti e la sillaba «Om«, simboli dell’adibuddha. Al di sopra, una serie di parasole sovrapposti forma una spira enorme. Un parasole più grande con numerosi ornamenti corona il tutto. Quattro ampi frontoni nascondono in parte la base di questa cuspide. In un dipinto del 1565, il monumento possiede già l’aspetto che gli conosciamo. Le cappelle, sontuosamente ricoperte di placche di rame dorato martellato, sono ben riconoscibili. Oltre a numerosi restauri, in parte dovuti a diversi terremoti, gli accessi dello stupa furono ristrutturati dal re Pratapamalla di Kathmandu (1641-1674). Molti stupa di grandi dimensioni furono modellati sullo stesso tipo dello Svayambhunatha, per esempio a Kathmandu quelli del Kathevimbhu e del Te baha. Nel corso degli ultimi tre secoli, in Nepal, come in altri paesi asiatici, si moltiplicarono i piccoli caitya votivi, dalle forme intensive e diversificate. La derivazione di numerosi monasteri attuali da fondazioni di epoca licchavi non può essere provata dall’epigrafia, a eccezione di Cuka baha a Patan. La maggior parte non risale a prima del xv secolo e i loro edifici sono ancora più recenti. La pianificazione dei monasteri segue le prescrizioni indiane. Un atrio dà accesso a un cortile quadrato, circondato da costruzioni conventuali, dotate di un piano superiore. Una cappella occupa il fondo, sull’asse d’ingresso. Su questo schema, i Newar svilupparono tre tipi di edifici: i baha, i bahi e i baha-bahi [fig. 19]. I baha, i più numerosi, si trovano solo nella cinta delle città. Un atrio, ampiamente aperto sul cortile interno, serve da sala di ricevimento. Intorno al cortile, dei locali, separati da paratie fisse, ricevono destinazioni precise: camera da musica o da studio, sala d’assemblea. In fondo, al di sopra del santuario, una speciale cappella (agama), dedicata alla controparte femminile del dio, ospita i libri sacri e gli strumenti liturgici. I bahi sarebbero stati costruiti da congregazioni di monaci celibi o di brahmani convertiti. Le ali laterali, prive di paratie, ospitano al primo piano lunghi dormitori. Un deambula-

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18. Stupa. Sud-est di Kathmandu, Savayambhunatha.

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19. Piante e sezioni del Chusya-baha (Kathmandu), Duntu-bahi e Nauddha-baha (Patan). 20. Timpano, rame dorato sbalzato, 1654 (?). Sankhu, tempio di Vajrayogini (porta principale).

torio circonda il santuario e permette di compiere il rito di circumambulazione. I baha-bahi raccolgono le caratteristiche specifiche dei due tipi precedenti: pianterreno simile a quello dei baha, primo piano privo di paratie come i bahi. Queste diverse tipologie rimandano a esempi indiani. I dormitori senza separazione si trovano a Ellora n. 11 e n. 12. Le rovine di Nalanda presentano successivamente conventi il cui santuario è completato da un deambulatorio come nei bahi e altri privi di questo elemento. Sebbene le dimensioni degli edifici conventuali siano solitamente modeste, alcuni monasteri tra i più prestigiosi presentano sontuosi allestimenti: coperture ricoperte da placche di rame

dorato, lucernari elaborati e, più raramente, una cappella al centro del cortile [fig. 20]. Eccezionalmente, l’architettura buddhista ha preso in prestito dall’induismo locale un particolare tipo di santuario a pianta quadrata, con copertura a gradini, chiamato «dega«. Alcuni templi furono così dedicati a Matsyendranatha, dio della pioggia, aspetto ittiomorfo di Avalokitevvara, e a dee tantriche. Come il complesso delle architetture sacre della valle, questi templi presentano un ricco decoro di rame sbalzato. Uno dei più sontuosi orna la facciata maggiore del santuario della dea Vajarayogini, sopra la città di Sankhu. Dono di Pratapamalla, risale forse al 1654.

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TIBET E MONGOLIA

Il buddhismo marcò in modo tanto profondo la civiltà tibetana che ogni espressione artistica finì col confondersi con l’arte buddhista stessa. L’epoca monarchica 1. Musicisti Gandharva, Manjuvrivihara, colore su impasto di argilla e paglia, metà del xv secolo circa. rGyal-rtse, sKu-‘bum (tempio n. 1N). 2. Carta del Tibet.

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Durante il vii secolo, alcuni monarchi originari della valle dello Yar-klungs, nel Tibet centrale, realizzarono l’unità dell’altopiano tibetano. Nell’arco di due generazioni, l’Impero tibetano si impossessò del bacino del Tarim e di vari territori cinesi. Nel 641, Wencheng, una principessa cinese, promessa in matrimonio al re

Srong-brtsan sgam-po (regnante 618-649 circa), giunse a lHa-sa. La tradizione attribuisce a questo principe anche una prima sposa di origine nepalese, Bhrkuti. Le due regine, ferventi buddhiste, avrebbero convertito il re. Secondo la leggenda, ciascuna avrebbe portato a lHa-sa una statua di Vakyamuni. Per ospitare la statua nepalese venne costruito il tempio di Jo-khang. Alla morte di Bhrkuti, i due Buddha vennero sostituiti nella cella dal Jo-bo Rin-poche («prezioso signore«), giunto dalla Cina. Sebbene rimaneggiato e ingrandito numerose volte, il Jo-khang conserva nelle parti più arcai-


tibet e mongolia

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che alcuni elementi antichissimi. La pianta, di vaste proporzioni, si ispira a quella di un monastero di epoca gupta così come è riprodotto, per esempio, dai vihara di Ajapta [fig. 4]. Alcuni sostegni di trabeazione [fig. 3], ornati da grandharva, capitelli decorati da rigonfiamenti a coste, che evocano il mirobolano (amalaka), e alcuni vani di porte riprendono forme indiane. Alcuni architravi in situ ricordano opere nepalesi del vii-viii secolo. Il regno di Khri-srong lde-btsan (regnante 754797) segnò forse l’apogeo dell’Impero tibetano. Il buddhismo parve far aderire alla propria causa una consistente parte della corte. Tuttavia, il Tibet ancora non possedeva comunità monastiche capaci di formare novizi e di garantire ordinazioni. Per rispondere a questo bisogno, il sovrano, su consiglio di un religioso indiano, Vantaraksita, ordinò l’edificazione del monastero di bSam-yas, in una valle a nord del fiume gTsang-po (Brahmaputra), su modello di Odantapuri, in Bihar. Secondo la tradizione, alcune forze demoniache, ostili all’erezione del monumento e legate agli antichi culti autoctoni, sarebbero state vinte da Padmasambhava, religioso semileggendario dell’viii secolo, originario dello Swat, abile nelle pratiche magiche. Il tempio di bSam-yas, dalle imponenti proporzioni, circondato da un recinto circolare, forma un cosmogramma. È formato da deambulatori incastrati, coperti o all’aria aperta, e presenta un cortile circondato da un portico. Le celle dei monaci si trovano al primo piano. La

parte centrale adatta goffamente elementi tratti dall’architettura indiana del Bihar [fig. 5], forse conosciuta attraverso semplici descrizioni letterarie. L’edificio, profondamente modificato nel corso dei secoli, è stato in gran parte ricostruito dopo la rivoluzione culturale [fig. 8]. Attraverso tre vaste proiezioni, riprende la pianta cruciforme dei templi indiani di epoca medievale. Un’antica leggenda mette in rapporto ogni stadio del monumento con l’architettura di diversi paesi buddhisti. Un pilastro scolpito, sovrastato da una falsa copertura curvata di ispirazione cinese, riporta l’editto (779?) che proclama il buddhismo religione ufficiale [fig. 7]. Una campana in bronzo, conservata in situ, ricorda un modello cinese di epoca Tang. Nonostante il limitato numero delle vestigia conservate, l’arte buddhista di epoca monarchica sembra tanto eclettica quanto descritto dai testi antichi. Gli edifici, invece, per materiali e strutture, obbediscono a tradizioni architettoniche autoctone. Solo gli elementi decorativi testimoniano apporti stranieri.

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6. Pianta del monastero, fine del x secolo. Spiti, lTa-pho.

3. Sostegno di trabeazione, legno, vii secolo (?). lHa-sa, Jokhang.

Il Tibet occidentale In seguito all’assassinio del re Glang-dar-ma (regnante 838-842), l’Impero tibetano in pochi decenni crollò. Un principe di sangue reale conquistò il Tibet occidentale (mNga’-ris) e riunì intorno al principato di Gu-ge molti piccoli regni, in particolare il Mar-yul e lo sPu’rangs. I loro sovrani, buddhisti devoti, invitarono mae-

4. Pianta della parte interna, vii secolo. lHa-sa, Jokhang. 5. Pianta della parte centrale, 779 circa. bSam-yas.

7. Editto inciso, 779 (?). bSam-yas. 8. Veduta di bSam-yas, stato attuale.

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stri indiani, come Ativa (982?-1054) o inviarono giovani, come Rinchen bzang-po (958-1055) presso i monasteri del Kashmir affinché vi si formassero. A partire dal Tibet occidentale, alcuni missionari convertirono una seconda volta il Tibet meridionale e centrale. Tradizioni più rigorose e nuovi contatti con le università indiane caratterizzarono questa «seconda predicazione« (phyi-dar). Mentre le fondazioni di epoca monarchica ostentavano grandi edifici come il Jo-khang di lHa-sa e bSam-yas a pianta centrale e simmetrica tratti dal mondo indiano, i monasteri del Tibet occidentale giustapponevano, seguendo un allineamento più o meno rigoroso, piccole cappelle. A prima vista, nulla distingue la maggior parte di queste da semplici costruzioni rustiche, come a lTa-pho (fine del x secolo [fig. 6]). Tra i monasteri del mNga’-ris ancora esistenti, A-lci, nell’alta valle dell’Indo (Ladwags), è probabilmente il più emblematico. Fondato verso la metà dell’xi secolo da due discepoli di Rin-chen bzang-po, ha conservato gran parte delle decorazioni interne dipinte e scolpite secondo un programma iconografico particolarmente elaborato. Gli inevitabili restauri nel corso dei secoli hanno rispettato l’originale partito preso religioso e artistico. Come negli altri santuari contemporanei del Tibet occidentale, la sala d’assemblea dei monaci (‘Du-khang) è dedicata al ciclo di Vairocana sotto il suo aspetto Sarvavid. Alcune statue in terra modellata, seccata e dipinta, rappresentano Sarvavid Vairocana circondato dagli altri buddha d’Oriente e dai loro paredri. I

complessi mapdala che decorano i muri laterali riprendono lo stesso tema. Il tempio a tre piani (gSum-brtsegs), a pianta centrale, presenta tre cappelle cieche in fuordopera, occupate dalle colossali statue dei tre principali bodhisattva: Avalokitevvara a sinistra; Maitreya, sull’asse d’entrata; Manjuvri a destra. Su diversi pannelli figurano varie divinità benevole, come Tara. Un ballatoio all’altezza dei volti dei bodhisattva costituisce un secondo livello. Sui muri di questo piano, grandi mapdala, dall’iconografia meno complessa di quelli della sala d’assemblea, illustrano gli stessi cicli testuali [fig. 9]. Vairocana vi occupa una posizione privilegiata. Altri tre diagrammi rimangono nel lucernaio. L’iconografia del gSum-brtsegs sembra così descrivere un cammino spirituale che, a partire dai principali temi del Mahayana, porta alle più astratte speculazioni del Vajraya­na. Questi dipinti interni sono di fattura meno raffinata rispetto ai più antichi pannelli del deambulatorio del tempio principale di lTa-pho. La stilizzazione delle forme, il senso del dettaglio, la deformazione dei corpi a fini espressivi, contro ogni plausibilità anatomica, e il modellato all’indiana caratterizzano l’estetica e i primi decori di A-lci [fig. 10]. A A-lci, come nelle altre fondazioni del Tibet occidentale, le influenze dell’arte kashmira sono preponderanti. Il portico della facciata principale del gSum-brtsegs presenta anche componenti di origine occidentale, come i capitelli di stile pseudo-ionico o pseudo-composito, frontoni con angoli molto acuti, in uso in Kashmir in epoca medievale, e colonne scanalate.

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in basso, le dimore dei monaci; infine, gli edifici di servizio e secondari. Le rare decorazioni dipinte e scolpite conservate manifestano una grande eterogeneità stilistica. Alcune si ispirano simultaneamente alla Cina e, secondo dati epigrafici, all’Asia centrale. Si pensa che i modelli di quest’ultima corrente, che si trova a Yedmar e, in minor misura, a Kwa-chu trovano la propria origine durante Impero xixia (982-1227), nel nord-est del mondo tibetano. Altre si ricollegano alla tradizione indiana (pitture murali dello Jokhang di lHa-sa, risalenti, secondo certi autori, all’viii-ix secolo). Questa estetica avrà la meglio.

La «seconda predicazione« in Tibet centrale Dal 978, alcuni religiosi tibetani tornarono dal Tibet orientale al Tibet centrale. Questo movimento di riconversione si amplificò rapidamente. Maestri spirituali indiani e monaci tibetani formatisi nel subcontinente si attivarono nel Tibet centrale e meridionale. Nel corso dell’xi e xii secolo, realizzarono un immenso lavoro di traduzione e fondarono i grandi ordini monastici. Da quel momento avrebbero dominato la vita culturale e politica abbracciando in parte le diatribe tra le grandi famiglie aristocratiche. Gli rNying-ma-pa, gli «Antichi«, fanno risalire la loro tradizione alla seconda metà dell’viii secolo. Venerano, a livello di un bodhisattva, Padmasambhava, in particolare sotto otto forme principali. Conservano le traduzioni dei testi canonici realizzate in epoca monarchica e accordano grande importanza a «testi nascosti« (gter-ma), in vista di una scoperta ulteriore prevista dal loro dissimulatore. Considerano Samantabhadra la divinità suprema e praticano volentieri rituali di esorcismo e la cerimonia del Bardo, che dona al deceduto un orientamento nell’aldilà tra due reincarnazioni. Questo ordine poco strutturato, a margine di altre correnti religiose, ispira una iconografia originale ricca e abbondante. I Bon-po, invece, dichiarano a torto di essere i discendenti dell’antica religione autoctona di epoca monarchica. In realtà, questa setta si organizzò veramente solo nell’xi secolo. Considerato a volte come una religione a parte, a volte come una corrente deviante dal buddhismo vicino agli rNying-ma-pa, il Bon rimane marginale e la sua azione artistica trascurabile. ‘Brom-ston (1005-1064), un discepolo di Ativa fondò nel 1057 il monastero di Rva-sgreng e l’ordine dei bKa’-dgams-pa. Questa scuola imponeva ai propri sostenitori regole di vita particolarmente rigide e si opponeva alle forme più estreme di tantrismo. Agli inizi del xv secolo si fuse con quella dei dGe-lugs-pa. Nel 1073, ‘Khon dKon-mchog rgyal-po (10341102) creò il monastero di Sa-skya (Sajia [«terra grigia«]), che avrebbe dato il proprio nome a uno dei più potenti ordini religiosi tibetani. I sacerdoti successivi, appartenenti alla famiglia principesca dei ‘Khon, cercarono l’appoggio di potenti clan aristocratici, stabilendo rapporti personali privilegiati tra donatori e cappellani. Gli Sa-skya-pa patrocinarono un’arte al tempo stesso sontuosa e raffinata e favorirono lo svol-

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Lo stile «pala internazionale« A partire dalla fine dell’xi secolo, l’influenza dell’arte del Bihar e del Bengala, province governate dalla dinastia dei Pala, dominò la produzione artistica. Questo fenomeno si spiega con l’influenza delle grandi università dell’India nordorientale in cui si erano formati i principali cicli testuali e rituali del Vajrayana. Gli specialisti occidentali non sanno come indicare questo stile così caratteristico che si trova in Myanmar e in altri paesi dell’Asia (stile sharmthun-bris?). Il termine «pala internazionale«, da un punto di vista pratico, rappresenta una possibilità. Rimangono numerosi dipinti portatili «pala internazionale«. Essi si concentrano dalla fine

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gimento di splendide cerimonie in architetture grandiose. Sostenitori dei testi sacri tradotti o corretti durante la «seconda predicazione«, essi accordavano un posto privilegiato allo Hevajara tantra. Parallelamente, si svilupparono filiazioni da maestro a discepolo, le cui origini risalgono ad alcuni asceti indiani del vii secolo. In questa tradizione si inseriscono figure celebri come Mar-pa (1072-1097) o il poeta mistico Mi-laras-pa (1040-1123), il cui discepolo, sGampo-pa (1079-1153), fondò l’ordine degli bKa’brgyud-pa («quelli della trasmissione orale«). Nella seconda metà del xii secolo, la scuola si scisse in numerose correnti ciascuna con la propria casa madre e le proprie filiazioni spirituali specifiche. I santuari dell’epoca della «seconda predicazione« conservatisi sono di piccole dimensioni. Durante l’xi secolo, si verificò una nuova organizzazione spaziale dei grandi monasteri. Le costruzioni erano ormai raggruppate alla base di un costone soleggiato, alla maniera dei villaggi autoctoni. Queste vere e proprie «città monastiche«, il cui esempio più caratteristico è forse in questo antico periodo Sa-skya nord [fig. 11], gerarchizzavano senza sistematismo gli edifici in funzione della loro importanza. In cima all’agglomerato, si trovavano i templi principali e gli appartamenti dei sacerdoti; più

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9. Mapdala, pittura su impasto di argilla e paglia, metà dell’xi secolo. La-dwags, A-lci (gSum-brtsegs [secondo piano]). 10. Episodi della vita di Buddha, pittura su impasto di argilla e paglia, metà dell’xi secolo. La-dwags, A-lci (gSum-brtsegs). 11. Aksobhya, ottone, secolo. Londra, The British Museum (acquisito dai fondi Brooke Sewell).

xii-xiii

Nelle due pagine seguenti: 12. Tara, tempera su tela, xi-xii secolo. Collezione John Gilmore Ford. 13. Amoghasiddhi circondato da bodhisattva, colore su cotone, prima metà del xii secolo. New York, The Metropolitan Museum of Art (acquisito dai fondi filantropici Miriam e Ira D. Wallach).

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dell’xi al xiv secolo, non costituendo un insieme coerente. È ancora difficile distinguere la produzione di diversi laboratori e affinare le relative cronologie. Le opere più fedeli all’estetica pala così come rivelata dai miniatori dei manoscritti del Bihar sembrano le più antiche, come la monumentale Tara della collezione Ford [fig. 12]. La composizione, fortemente gerarchizzata e strutturata in pannelli giustapposti, è immediatamente leggibile. Fregi di motivi semicircolari, che imitano file di borchie di pietre preziose, separano i vari registri. Un energico disegno sottolinea le forme geometrizzate. La gioielleria, relativamente semplice, presenta numerose gemme triangolari dal profilo particolarmente acuto. Dominano i colori uniformi, ma alcuni dettagli, come le foglie di loto che reggono la dea o le rocce, presentano un modello «all’indiana«, attraverso linee delicatamente digradanti. «Prismi« allungati, talvolta animati da piccoli motivi vermicolari e dai toni alternati, rappresentano le montagne. Anche i vegetali, poco numerosi ma di dimensioni relativamente grandi, sono di ispirazione indiana. I personaggi, dalle membra allungate e dalle articolazioni angolari, sono talvolta immobilizzati nel corso di un gesto particolarmente ampio e dinamico. Gli occhi escono dalla curva del volto quando questo è ritratto di tre quarti. Il Buddha, gli jina e la loro corte di uditori e di bodhisattva [fig. 13], così come alcuni rari mapdala, sono i soggetti più spesso rappresentati. Questa estetica ispirata dall’arte pala domina anche la scultura, nonostante la produzione rimanga stilisticamente ancor meno coerente, forse a causa del carattere frammentato dei laboratori sull’immensa area culturale tibetana. Pezzi di grande espressività, dal provinciale vigore [fig. 11], si accompagnano a opere più sofisticate, fedelmente copiate da modelli del subcontinente. Lo stile «pala internazionale« è attestato nell’Impero xixia, nel Gansu e nell’interno della Mongolia. Uno stupa situato all’esterno del bastione della città di confine di Edzine (oggi Khara-Khoto) e vari edifici in rovina hanno restituito diverse centinaia di pitture e di documenti. Tra di essi, si osserva un importante lotto di pitture su tela e su legno eseguite con stile indiano da esperti del luogo, come attestano i cartigli che riportano iscrizioni e alcuni dettagli, come le rappresentazioni di arhat e di religiosi fortemente sinizzati [fig. 14]. L’insieme consta di opere di qualità varia, a volte molto sofisticate, ma la maggior parte presen-

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17. Jina, pittura su impasto di argilla e paglia, dopo il 1306. Zhwa-lu, gSer-khang (cappella dei Rigs-lnga).

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ta una fattura provinciale. Nonostante questo pronunciato carattere locale, bisogna segnalare un tessile dalle tinte delicate eseguito secondo la tecnica del Kesi e realizzato da artigiani cinesi che lavoravano in terra xixia o importato dalla Cina [fig. 15]. L’iconografia e lo stile della Vyamatara rappresentata, prossimi a quelli della Tara della collezione Ford [fig. 12], testimoniano l’influenza dell’estetica «pala internazionale« in un’epoca in cui il buddhismo lamaista non era ancora penetrato in Cina. La città di Edzine venne distrutta dalle orde mongole nel 1227, data da tempo considerata come terminus post quem della totalità dei pezzi ritrovati in loco. Questo punto di vista è oggi relativizzato. È in realtà probabile che il sito sia stato occupato nuovamente durante l’epoca degli Yuan. I grandi monumenti del xiv e del xv secolo L’ordine monastico degli Sa-skya-pa, già molto potente, dominò la vita politica e artistica del

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Tibet a partire dal 1249, data in cui il superiore del Sa-skya, Sa-skya Pandita (1182-1251), ricevette dal principe Godan l’autorità temporale sulle tredici miriarchie del Tibet centrale e meridionale. I suoi successori conservarono questa autorità fino alla seconda metà del xiv secolo (sistema «protettore laico e maestro spirituale«, Yon-mchod). Nel 1260, inoltre, Kublai Khan accordò a ‘Phags-pa, il nuovo successore di Sa-skya Pandita, il titolo di precettore imperiale. Il buddhismo tibetano ottenne su tutto il territorio dell’Impero lo status di religione ufficiale. Durante il periodo degli Yuan (1260-1368), i pontefici sa-skya-pa diressero l’ufficio imperiale incaricato degli affari religiosi. Malgrado un mecenatismo importante e attivo, in Tibet sopravvivono poche testimonianze di questo periodo particolarmente propizio per l’ordine Sa-skya-pa. Il Lha-khang chenpo, comunemente chiamato Sa-skya sud dagli storici dell’arte, con una dedica del 1268 ma ricostruito nel xvi secolo in seguito a un in-

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14. Avalokitevvara a undici teste e otto braccia, colore su lino. Prima del 1227, San Pietroburgo, museo dell’Ermitage (provenienza: Khara-Khoto). 15. Vyamatara, seta, prima del 1227. San Pietroburgo, museo dell’Ermitage (provenienza: Khara-Khoto).

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16. Lha-khang chen-po, 1268. Sa-skya sud. Nella pagina seguente: 19. Mapdala di Vajramrta, colore su cotone, inizio del xvi secolo. Parigi, Musée des Arts Asiatiques-Guimet (dono con riserva di usufrutto, di M. Lionel Fournier).

18. Scene di musica e danze, pittura su impasto di argilla e paglia, primo terzo del xiv secolo. Zhwa-lu, deambulatorio, gSer-khang.

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cendio, si presenta come una immensa fortezza monumentale e imponente, costruito secondo la tradizione dell’architettura militare dell’Asia centrale [fig. 16]. Solo il tempio centrale del monastero di Zhwalu, protetto dalla potente famiglia lLe’, evoca lo splendore degli allestimenti interni di questo periodo. Il gSer-khang di Zhwa-lu fu fondato verso il 1027. Sopravvivranno alcuni elementi di questa prima fase. L’edificio subì profondi rimaneggiamenti agli inizi del xiv secolo. Dopo il 1306, venne ricoperto con una copertura in ceramica verniciata, alla cinese, sostenuta come in Estremo Oriente da pilastri e giochi di mensole. Le pitture murali delle due cappelle a pianterreno rappresentano i cinque jina [fig. 17]. La loro fattura particolarmente raffinata, la profusione di dettagli decorativi, realizzati con meticolosità, la complessità e la varietà della gioielleria, l’eleganza degli atteggiamenti, l’horror vacui corrispondono ai topoi comuni della pittura dei Newar della valle di Kathmandu. Nel deambulatorio che circonda l’edificio, l’influenza nepalese (stile Bai-bris)

è ancora più forte. Alcuni degli ampi pannelli di carattere narrativo disposti su registri sovrapposti mostrano scene di musica e danza [fig. 18]. Il loro senso del movimento e i dettagli aneddotici hanno sicuramente come origine i registri inferiori di paubha, tradizionalmente riservati alla rappresentazione di rituali in presenza di donatori, di fattura più libera rispetto all’icona, soggetto principale della pittura. La dimensione di queste piacevoli vignette non ha paragone con le immense superfici murali dei santuari tibetani. Il cambiamento di scala muta così radicalmente la percezione dell’opera. Tuttavia non si potrebbe limitare l’arte di Zhwalu a semplici prestiti delle tradizioni pittoriche newar – anche se esaltati dalle loro dimensioni. Altri pannelli, certo non pochi, denotano una sensibilità diversa, aperta a reminescenze della pittura decorativa cinese. La prospettiva a zigzag, caratteristica della pittura tibetana delle epoche più tarde, è qui attestata per una delle prime volte. Dopo l’arrivo a Zhwa-lu, l’erudito Bu-ston rin-

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chen grub-pa (1290-1364) soprintese dal 1333 al 1335, si pensa, alle decorazioni delle quattro cappelle del secondo livello dedicate ai mapdala. Tale ripartizione iconografica si trova in molti santuari più recenti. Queste pitture murali derivano dalla stessa scuola nepalizzante della maggior parte delle cappelle del pianterreno. Sebbene in parte distrutte dalla Rivoluzione culturale, esse costituiscono rari esempi di mapdala monumentali antichi ancora in situ in un monastero Sa-skya-pa. La maggior parte in realtà è stata ricoperta nel xviii secolo e sostituita da iconografie identiche ma in uno stile aggiornato. Il giogo mongolo sul Tibet e la predominanza temporale dell’ordine Sa-skya-pa provocarono una opposizione larvata, rinforzatasi col tempo. La famiglia aristocratica dei Rlangs, principi di rTse-thang nel Tibet centrale e protettori del monastero di g-Dan-sa-mthil, fondato dall’illustre anacoreta Phag-mo-gru (1110-1170), si ribellò agli Sa-skya-pa. Verso il 1354, il loro capo ottenne dall’imperatore Shundi (1333-1368) degli Yuan il titolo di Tai situ («grande precettore«). I principi di rTse-thang dominarono la vita politica del Tibet dal 1354 al 1481, data in cui i prefetti di Rin-spungs, loro vassalli, strapparono loro questo posto. Alla fine del xv secolo, i principi di gTsang, protettori dell’ordine Karma-pa, ramo della scuola bKa’-brgyud-pa, rivestirono a propria volta un ruolo di primo piano. Il loro desiderio di egemonia trascinò

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il Tibet in un lungo periodo di instabilità. Nel 1642, le truppe mongole di Gu-shri, khan di Khoshot, unificarono il paese a vantaggio del v Dalai lama (1617-1682). Agli inizi, questo periodo fu forse il più fecondo per l’arte tibetana. Nel corso del xiv e del xv secolo, le influenze nepalesi predominarono in particolare nelle decorazioni, smantellate durante la Rivoluzione Culturale, degli stupa monumentali del monastero di gDan-sa-mthil. Questi immensi reliquiari in rame ornato, edificati in gallerie coperte, durarono dalla fine del xiii secolo, data della ricostruzione del monastero in seguito alla distruzione da parte dei Mongoli, fino agli inizi del xvii secolo. Sebbene i numerosi elementi giunti in Occidente possiedano uno stile apparentemente omogeneo, essi presentano notevoli differenze di fattura. I pezzi più belli risultano quelli più antichi (xiv e xv secolo). Fregi di devata musicanti e di nagaraja oranti, inseriti in grandi foglie di loto [fig. 22], costituiscono i temi principali. Sono caratterizzati dal senso del movimento, l’eleganza delle posture e la ricchezza delle incrostazioni. Alcune decorazioni di stile nepalese sono celebri, come quella del Lha-khang principale del monastero di Ngor (1429), filiale di Sa-skya, gestita dai sei fratelli Vanguli, praticanti newar. Soggetto delle pareti erano i quarantadue mapdala descritti nella Nispannayogavali, trattato iconografico indiano compilato nell’xi secolo, e tre mapdala supplementari ispirati al Kri-

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20. Filiazione di maestri Sa-skya-pa, colore su cotone, seconda metà del xv secolo. Los Angeles, The Los Angeles County Museum of Art (acquisito grazie alla fondazione Jane e Justin Dart). 21. Mahakala sotto l’aspetto di Gur-mgon-po, colore su cotone, 1400 circa. Los Angeles, The Los Angeles County Museum of Art (Nasli e Alice Heermaneck Collection).

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22. Nagaraja in adorazione, rame dorato, xiv-xv secolo. Collezione privata (provenienza: gDan-samthil). 23. Acala, rame dorato e incrostato, xiv-xv secolo. Zurigo, museo Rietberg, Fondazione d’arte tibetana Berti Aschmann. 24. Loto, rame dorato, secolo. Sa-skya.

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25. Mahakala sotto l’aspetto di Gur-mgon-po, colore su cotone, 1600 circa. Los Angeles, The Los Angeles County Museum of Art (Nasli e Alice Heermaneck Collection). 25

yasamuccaya di Darpapacarya. Questo insieme è stato riprodotto innumerevoli volte su rotoli [fig. 19]. I più antichi di essi costituiscono gli esempi più riusciti di stile nepalizzante in Tibet. Gli stessi laboratori prediligevano altri due temi iconografici: le filiazioni da maestro a discepolo [fig. 20] e le divinità guardiane della religione – tra loro, Mahakala sotto il suo aspetto Gur-mgon-po («protettore della tenda«), particolarmente riverito dagli Sa-skya-pa [fig. 21]. Quest’ultimo soggetto, molto frequente, permette di abbozzare una cronologia relativa dello stile nepalizzante [fig. 25]. In un primo tempo, la galleria che ritma il registro superiore non c’era. Le quattro divinità, assistenti principali di Gurm-gon-po, erano più strettamente integrate allo schema generale. Poi i registri scomparvero. Nella parte superiore del dipinto, delle nuvole reggono i religiosi ormai abitualmente integrati all’interno della composizione principale. Le divinità secondarie danzano davanti al dio. In questo nuovo contesto, solo il dio conserva il proprio aspetto nepalizzante (stile eclettico mKhyen-bris). Numerose statuette metalliche si collegano a questa estetica nepalizzante. Le tradizioni dei laboratori sono tuttavia più marcate. Questa consistente produzione offre un ampio ventaglio, da opere estremamente sofisticate [fig. 24], a pezzi che privilegiano solo un aspetto della tradizione nepalese, come il gusto per le incrostazioni, il «naturalismo relativo« delle

forme o il senso del movimento [fig. 23]. Parallelamente a questa estetica di origine straniera, si sviluppa un’arte più autenticamente tibetana, come testimoniano statuette di ottone di colore bruno, incrostate di rame rosso o di argento. Esse rappresentano frequentemente santi uomini, dai tratti espressivi e dalle forme geometrizzate. I petali di loto degli zoccoli presentano il più delle volte la forma di godron. Durante il periodo mongolo e quello dei principi di rTse-thang, nel Tibet meridionale vennero costruiti giganteschi stupa in parte vuoti, chiamati sku-‘bum («diecimila immagini«), dotati di cappelle accuratamente decorate, dotate di veri e propri pantheon di divinità classificate dal tantra. L’insieme forma una sorta di mapdala in tre dimensioni. Queste ampie costruzioni sono le eredi dei santuari a più piani del periodo della «seconda predicazione«, di cui il gSum-brtsegs di A-lci rimane l’esempio più noto. La maggior parte di questi edifici è stata più o meno smantellata durante la Rivoluzione culturale. Bisogna così citare Khro-phu, edificato agli inizi del xiii secolo; sNar-thang, verso il 1325; Jonang, del 1330; rGyang, verso il 1400; Ri-bo-che, verso il 1456; e Byams-paglung, verso il 1472. Quello meglio conservato si erge nell’area sacra di eGyal-rtse, un ampio complesso monastico edificato vicino alla città. Questa città fu la capitale di un potente principato indipendente dei Sa-skya-pa, sebbene i principi avessero in-

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26. Sita Acala, colore su intonaco, metà del xv secolo circa. rGyal-rtse, sKu-‘bum (cappella n. 1Nb).

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27. Il mahasiddha Damarupa, terra modellata, seccata e dipinta, 1425. rGyal-rtse, gTsug-lag-khang (Lam-‘bras lhakhang).

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tessuto legami matrimoniali con le famiglie dei lLe di Zhwa e dei ‘Khon di Sa-skya. I principi di rGyal-rtse si arrogarono il privilegio di trattare direttamente con gli imperatori Yuan e Ming. Solo l’area sacra di rGyal-rtse permette di evocare l’immensità della loro opera, in gran parte scomparsa. I due edifici principali – lo gTsug-lag-khang, edificato e decorato dal 1418 al 1425, lo sKu-‘bum [figg. 28-29], allestito dal 1427 al 1474 partecipando alla corrente nepalizzante, allora predominante in Tibet, possiedono nondimeno una reale originalità. Si devono perciò distinguere grandi pannelli che riproducono fedelmente i topoi della pittura nepalizzante [fig. 26], da quelli ispirati in modo piuttosto ostensibile all’arte cinese. Queste tendenze si spiegano in parte attraverso l’origine di alcune iconografie, come quella dei lokapala, giunti in Tibet dalla Cina, ma anche forse, attraverso i contatti politici diretti con la corte cinese. Così, al secondo piano del gTsung-lagkhang, il santuario del Sentiero e del Frutto (Lam-‘bras lha-khang), edificato nel 1425, mostra Vajradhara, il Buddha supremo, circondato dai Mahasiddha della tradizione Sa-skya-pa [fig. 27]. I personaggi, a grandezza naturale, in terra modellata, seccata e dipinta, ostentano un

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realismo esacerbato, come certe statue Yuan e Ming di periodo Yongle. Allo sKu-‘bum, alcune cappelle fondono abilmente i temi ispirati alle due tradizioni [fig. 1]. La dimensione monumentale delle decorazioni, la raffinatezza della loro esecuzione, i loro toni variegati ne fanno capolavori assoluti dell’arte tibetana. Sebbene la statuaria dello sKu-‘bum sia stata assai danneggiata durante la Rivoluzione culturale, si sottolinea in questo edificio la giustapposizione di statue lavorate in modo tradizionale in fango e altre in placche di rame battuto e dorato. Questa nuova tecnica avrebbe prevalso nel mondo tibetano a partire dal xvi secolo.

28. Veduta del gTsug-lag-khang e dello sKu-‘bum, xv secolo. rGyal-rtse. 29. Pianta dello sKu-‘bum e del gTsuglag-khang, xv secolo. rGyal-rtse. 30. Padmasambhava tra le sue due spose, colore su cotone, seconda metà del xvi secolo. Collezione Robert Ellsworth. 31. Il lama Karma bDud-rtsi, rame dorato, xvi secolo. Los Angeles, The Los Angeles County Museum of Art (donazione Christian Hu-

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La predominanza dei dGe-lugs-pa Fondato da Tsong-Kha-pa (1357-1419), riformatore originario del Khams, ma formatosi presso i più importanti maestri spirituali del tempo, l’ordine mise l’accento su una rigida disciplina monastica simboleggiata, durante la presa dei voti da parte del postulante, da una cuffia gialla. Questo ristabilimento della stretta osservanza incitò gli ultimi monaci bKa’-dgams-pa a fondersi con la nuova scuo-

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la. L’accento posto sugli studi scolastici e una reticenza nell’affrontare le più estreme pratiche tantriche, permise loro di presentare l’eclettico contenuto dei loro insegnamenti come un ritorno al buddhismo primitivo. Nel 1409, Tsong-Kha-pa elesse dGa’-ldan (Gudan), nel Tibet centrale, a monastero principale. Contrariamente alla maggior parte degli altri ordini, i pontefici dGe-lugs-pa venivano considerati emanazioni di figure del Sakbhogakaya immerso nel mondo fenomenico (nirmapakaya, sPrul-sku) con lo scopo, attraverso la loro presenza, di contribuire alla salvezza delle creature. Così, a partire dal 1578, i Dalai lama, «Immensità di saggezza«, divennero le incarnazioni del bodhisattva Avalokitevvara; e a partire dalla metà del xvii secolo, i Panchen lama, dello jina dell’ovest, Amitabha. L’emergere, inizialmente lento e laborioso, poi irreversibile dei dGe-lugs-pa esacerbò l’opposizione tra i dGe-lugs-pa, sostenuti dall’aristocrazia del Tibet centrale, e i Karma-pa, alleati dei principi di gTsang e dei loro vassalli. Allo stato attuale delle conoscenze è impossibile delineare un panorama della produzione artistica in pittura tra il 1550 e il 1640, poiché questo periodo ha lasciato solo poche testimonianze e nessuna decorazione dalla datazione incontestabile. A partire da un insieme di documenti sparsi e mal datati, si intuisce in parte il primato delle influenze cinesi [fig. 30] e, in scultura, lo sviluppo dei ritratti realizzati come «sepolcro del corpo« dei pontefici più importanti [fig. 31]. La teocrazia lamaica instaurata nel 1642 sul Tibet riunificato dal v Dalai lama coincise con l’ultimo grande periodo dell’arte tibetana. Gli imponenti monumenti della regione di lHa-sa assunsero il loro aspetto definitivo nella seconda metà del xvii secolo, nonostante alcune importanti riparazioni all’epoca del xiii Dalai lama (1876-1934) spesso non permettano una cronologia puntuale dei decori interni. Bisogna citare gli ampliamenti del Jo-khang e l’edificazione del palazzo-monastero del Potala. Presso il Jo-khang, il santuario di epoca monarchica è incluso in un immenso complesso che comporta un deambulatorio all’aria aperta, un vasto cortile, molteplici edifici amministrativi e addirittura un palazzo in cui il Dalai lama risiedeva in occasione delle feste del Nuovo Anno. Le vecchie coperture in ceramica dipinta e in rame furono demolite e sostituite da un insieme coerente, disposto simmetricamente [fig. 34]. Le nuove coperture costituite da placche di rame dorato e sbalzato, sostenute da una travatura,

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nord; 13. Cappella funeraria del v Dalai lama; 14. Cappella funeraria del vii Dalai lama; 15. Cappella funeraria dell’viii Dalai lama; 16. Cappella funeraria del ix Dalai lama; 17. Palazzo Bianco; 18. Cortile es-

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mann).

non rivestono alcun ruolo architettonico, ma poggiano su volumi di scarico, edificati al di sopra della terrazza. Gli spigoli curvi e la forma delle balaustre ricordano la Cina, giacché gli artigiani, senza dubbio nepalesi, si piegavano all’estetica del tempo e al gusto degli accomandanti. Queste coperture sono caratteristiche dell’arte poco inventiva dell’epoca del v Dalai lama che fonde, tuttavia, in una sintesi armoniosa, numerosi elementi più antichi, e li porta al loro massimo grado di perfezione. Si parla, a questo proposito, di «classicismo eclettico«. Edificato in cima a una collina a ovest della capitale, al posto di un antico fortino di epoca monarchica, il Potala si ispira al contempo al forte di gZhis-ka-rtse (xvi secolo) e alle fortezze-monastero (dzong) bhutanesi contemporanee [fig. 33]. La parte orientale, la più antica, costituita dal vasto cortile orientale del Palazzo Bianco, fu costruita dal 1645 al 1648. Dal 1690 al 1694, il reggente Sangs-rgyas rgya-mtsho fece edificare il grande Palazzo Rosso, grandioso omaggio al v Dalai lama, di cui nascondeva la morte mentre in segreto cercava e allevava il vi Dalai lama. In questo secondo edificio, enormi gallerie, una delle quali ospita il cenotafio del v Dalai lama, circondano una immensa sala d’assemblea. I due edifici non formano un tutto coerente e si legano con difficoltà. La

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larghezza del villaggio amministrativo di Zhol, a un livello inferiore rispetto al complesso, tradisce l’iniziale intenzione di costruire sull’intera collina, e non solo sulla parte orientale. La relativa strettezza della cresta costruita si oppone alla maestà senza eguali della facciata sud che dispiega, su più di trecento metri di lunghezza, in una armoniosa asimmetria, costruzioni dalle facciate rosse e bianche, colossali scalinate, bastioni circolari, parapetti e muri di cinta merlati. Il complesso necessitò di artigiani senza pari e di una forte organizzazione amministrativa capace di pianificare lo stoccaggio dei materiali e la ripartizione delle corvée. Nonostante l’aspetto massiccio, le sottostrutture della facciata sud [fig. 32], in particolare le scalinate, sono erette a piombo della roccia, sostenute da una vigorosa travatura e da elementi di scarico invisibili al visitatore. Presso il Potala, le gallerie coperte, i portici che circondano il cortile centrale del Palazzo Rosso, al di sopra della sala d’assemblea occidentale, le cappelle e i «santuari-biblioteche« dei Dalai lama successivi, così come le varie parti del Jo-khang presentano molte pitture murali. È noto attraverso i testi l’interesse personale che il v Dalai lama accordava ai vari stili di pittura in uso ai suoi tempi. Questi complessi, in gran parte ridipinti almeno due volte e non

32. Facciata sud, xvii secolo. lHa-sa, Potala. 33. Pianta del Potala, xvii secolo. lHa-sa. 1. Pianerottolo inferiore; 2. Edificio dei thangka; 3. Residenza dei monaci; 4. Torre «rotonda« occidentale (mezzaluna); 5. Edificio funebre del xiii Dalai lama; 6. Cortile esterno del Palazzo Rosso; 7. Portico del Palazzo Rosso; 8. Entrata ovest; 9. Palazzo Rosso; 10. Cappella di Kalacakra; 11. Bastione del sentiero nord; 12. Edificio dello sperone

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integralmente pubblicati, non costituiscono un corpus di riferimento in grado di permettere la datazione dei numerosi rotoli portatili degli ultimi tre secoli. L’antico Tibet orientale, costituito dalle province tradizionali dell’A-mdo e del Khams, entrò nell’orbita tibetana nell’viii secolo. Sebbene abbiano giocato un ruolo attivo nella storia del paese delle nevi, esse conobbero uno sviluppo senza precedenti solo a partire dal xviii secolo. Relativamente più ricche del Tibet centrale e meridionale, si ricoprirono di monasteri che, per molto tempo ebbero una grandezza raramente riscontrabile nel resto del paese. Queste architetture sono ora fedelmente copiate da modelli delle province storiche, ora uniscono elementi tibetani a forme e tecnologie prese in prestito dalla Cina, tanto vicina. Il monastero di sKu-‘bum (Taer si) in A-mdo, luogo della miracolosa nascita di Tsong-kha-pa, offre un esempio di questa architettura sincretica [fig. 35]. Così sia in A-mdo che nell’interno della Mongolia, si incontrano frequentemente costruzioni di forma tibetana ma costruite in mattoni. La cornice dell’attico, trasformata in semplice fregio decorativo, non riveste più alcun ruolo architettonico. Numerose sono le coperture propriamente alla cinese, sorrette da colonne e mensole.

La pittura portatile degli ultimi tre secoli L’abbondante produzione pittorica degli ultimi tre secoli attesta la straordinaria inventiva degli artigiani tibetani che, malgrado i canoni coercitivi di una iconografia particolarmente rigida, seppero creare e sviluppare numerose correnti stilistiche ancora assai mal conosciute. Alla classificazione di qualche scarno trattato si oppone la realtà complessa della prassi dei laboratori. Nonostante significativi progressi negli ultimi anni, ogni conclusione in questo ambito rimane ipotetica. La tradizione tibetana situa nel xv secolo le origini dei nuovi stili che, attraverso il prestito di motivi cinesi fortemente assimilati, hanno totalmente modificato un universo pittorico tanto murale quanto portatile, fino allora dominato dalle influenze del mondo indiano. Al di là della biografia agiografica del loro fondatore, la genesi di queste correnti resta sconosciuta. Sulle più antiche testimonianze di questa nuova estetica figurano spesso degli arhat. Il Tibet orientale, terra di contatti, dovette giocare un ruolo non trascurabile nella gestazione di questa nuova arte. Il termine «sMan-bris« coincide con molti stili diversi. Fu creato nel xv secolo da sMan-bla don-grub rgya-mtsho, un artista nato a sMan-

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thang, nel sud della provincia di lHo-brag, nel momento in cui non lontano da là venne scoperta una cava di cinabro. Questa pietra, triturata, permette di ottenere il vermiglio, colore particolarmente fasto. Anni più tardi, tormentato dal desiderio di dipingere, sMan-bla don-grub rgya-mtsho, abbandonata la moglie, sarebbe partito alla ricerca di un maestro. Ricordatosi di aver realizzato un grande arazzo in seta (Kesi) secondo lo stile cinese durante la sua vita precedente, si sarebbe ispirato a questa reminescenza nella sua opera. Questo racconto indica chiaramente il ruolo del tessile cinese, abbondantemente importato in Tibet, nella formazione delle correnti pittoriche nel xv secolo. Come luogo d’origine dello stile, bisogna forse aggiungere a lHo-brag, la regione più meridionale del Tibet centrale vicina alla frontiera del Bhutan, il Tibet orientale, direttamente in contatto con la Cina. Alcuni thang-ka, che rappresentano arhat ed episodi dei jataka, attribuiti solitamente a laboratori del Khams e dell’A-mdo, adattano abilmente topoi cinesi al gusto tibetano. Alcune caratteristiche possono definire lo stile sMan-bris. La composizione in registri, che fino ad allora aveva regolato l’organizzazione delle pitture religiose, venne completamente abbandonata. Una forte differenza di scala separa il personaggio principale da quelli secondari o dalle scene narrative. Queste, particolarmente dense, si situano in secondo piano, in un apparente disordine. Le loro scene fitte ricoprono l’intera composizione e lasciano poco o nessuno spazio al cielo. Alcuni elementi paesaggistici isolano i vari episodi del racconto. Essi comportano giustapposizioni di blu e verde, secondo un procedimento risalente all’epoca dei Tang, periodicamente rimesso in voga da artisti cinesi arcaicizzanti. Le architetture e le rocce prendono a prestito le loro forme dalla Cina. Queste ultime possono essere striate qua e là, secondo un procedimento liberamente ispirato ai «colpi d’ascia« della pittura delle lettere. Alcuni contorni e vari motivi, spesso realizzati con oro goffrato, contrastano col loro riverbero con la tonalità generale del thang-ka, sempre relativamente scura. Lo sMan-bris rimase molto apprezzato fino al xix secolo in Tibet orientale, dove sembra aver dato luogo a molte tradizioni parallele. Un rotolo, un tempo appartenente alle collezioni dell’imperatore Wanli (regnante 15731620) e con il suo sigillo, ne fornisce un buon esempio [fig. 36]. Contrariamente alla pittura

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nepalizzante, in cui si impongono i colori vivaci a dominante rossa e blu, sono i toni smorzati ad avere la meglio: bruno e beige, blu scuro e verde scuro. Il trattamento delle rocce, delle nuvole, delle architetture e delle piante rimanda a prototipi cinesi. I motivi paesaggistici separano i vari episodi del racconto, apparentemente suddivisi senza ordine, anche se scorci o il gesto di un personaggio spesso introducono la scena seguente. Una grande differenza di scala esiste tra il personaggio principale e gli altri elementi della composizione. I tratti in oro, frequenti nelle pitture di questo stile [fig. 30], sono assenti. Queste innovazioni ebbero ripercussioni sui laboratori più tradizionali. Il mKhyen-bris sarebbe così stato creato da ‘Jam-dbyangs mkhyen-brtse’i dbang-phyug, nato nel 1524.

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terno del Palazzo Bianco; 19. Scuola per i funzionari religiosi; 20. Bastione sud; 21. e 22. Rampa d’accesso; 23. Fortino orientale; 24. Torre rotonda orientale; 25. Rampa e gradini esterni.

34. Coperture, rame sbalzato e dorato, xvii secolo. lHa-sa, Jo-khang. 35. Monastero di sKu‘bum (Taersi), A-mdo.

Le divinità sarebbero rappresentate conformemente al canone della tradizione nepalizzante, ma si staglierebbero su un fondo di elementi paesaggistici sinizzati ispirati allo sMan-bris. Tra il 1640 e il 1660, Chos-dbyings rgya-mtsho, un artista originario del gTsang, attivo tra il 1640 e il 1665 circa, lanciò lo sMan-bris gsarma («nuovo stile sMan-bris«), favorito dal v Dalai lama. Sebbene la maggior parte dei decori dei grandi monumenti dGe-lugs-pa del Tibet centrale sia stata fortemente restaurata sotto il regno del xiii Dalai lama e in epoca moderna, è possibile rievocare le raffinatezze dello sManbris gsar-ma grazie a thang-ka della fine del xvii secolo. Alle specificità dello stile sManbris tradizionale, quello nuovo unisce una meticolosità particolare nel tratto che fa pensare all’arte della miniatura. Come nell’antico stile sMan-bris, le pitture sono su sfondo scuro, blu o verde, più raramente bruno. Il loro disegno è di una finezza estrema. Alcuni contorni, le architetture, le nuvole, la luce che emana dai personaggi, i motivi variati degli abiti, l’ombreggiatura a tratteggio che conferisce rilievo alle rocce, sono ripresi in oro. Lievi sfumature di colore ombreggiano spesso le forme, secondo un procedimento indirettamente ereditato dall’India classica. Le divinità dall’aspetto corrucciato, realizzate secondo questo stile, sono particolarmente espressive. Le famose pitture su fondo nero (nag-thang) si ricollegano per lo più allo sMan-bris gsar-ma, di cui perpetuano, fino in epoca moderna, il grado evocativo, la potenza plastica e la raffinatezza. Lo stesso dicasi per le pitture in oro (gser-thang). Dal 1720 al 1750, tre regimi civili cinesi non riuscirono a costituire un sistema politico valido. Il vii Dalai lama venne relegato a un semplice ruolo religioso. Alcune serie di xilografie su tela, dipinte a mano, pubblicate per alcuni a sNar-thang nel Tibet meridionale, nascondono dietro l’apparenza di filiazioni spirituali la preoccupazione di rafforzare la contestata ascendenza dell’ordine dge-lugs-pa e la legittimità dei suoi pontefici sugli affari temporali del Tibet. Tra le numerose generazioni di legni incisi, più o meno modificate o indebolite dal tempo, alcune serie possiedono tuttavia la stessa stabilità dei più bei rotoli dello sMan-bris gsar-ma. Allo sMan-bris e allo sMan-bris gsar-ma, si oppose il Karma sgar-bris, l’unico stile tibetano collegabile in modo certo a un ordine religioso, in questo caso, come indica il nome, alla scuola karma-pa, ramo dei bKa’-brgyud-pa. Il Karma sgar-bris fu creato da Nam-mkha’bkra-

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shis, lama incarnato (sPrul-sku), nato nel 1500 nello Yar-klungs. Studiò in un primo tempo lo sMan-bris con il lama dKhon-chog phan-bde, considerato l’incarnazione della principessa Wen-cheng; seguì poi gli insegnamenti di vari principi illustri. Fu influenzato da tre opere: un rotolo [fig. 38] offerto da Yongle a bZhin gshegs-pa (1384-1415), v Karma-pa; delle maschere disegnate in seguito ad apparizioni del iii Karma-pa, Rang’byung rdo-rje (12841339) sul disco della luna di fronte all’imperatore mongolo; infine, una pittura cinese rappresentante degli arhat. Il termine «sGar-bris« è oggetto di discussione. La traduzione correntemente accettata, «stile del campo del Karma-pa«, si rifarebbe all’ipotesi di un laboratorio itinerante legato all’entourage di questo pontefice. Questo stile, particolarmente diffuso nel Khams, imita il disegno a inchiostro cinese dalle tonalità chiare e dalle sfumature delicate, pur conservando la tradizionale tecnica tibetana della tempera. Alcune parti dello sfondo, lasciate allo stato grezzo, formano così effetti di materia. Le composizioni, di grande leggibilità, presentano i personaggi in un ambiente paesaggistico quasi alla loro scala. Le scene narrative, ben separate le une dalle altre, conferiscono alla composizione una grande leggibilità. Questo stile durò diversi secoli, rendendo la datazione di alcune opere particolarmente delicata. Ne derivano un gran numero di serie, complete o incomplete, che trattano degli ottantaquattro Mahasiddha della tradizione tantrica [fig. 37]. Nel 1750, il vii Dalai lama, sotto controllo cinese, ristabilì la teocrazia. Paradossalmente, questa data segnò l’inizio dell’irreversibile declino dell’arte tibetana. Una estetica «pan-lamaica« ricoprì a poco a poco in modo relativa-

mente omogeneo la totalità della vasta area di espansione del buddhismo tibetano della regione del lago Baikal fino al Bhutan, dalla Manciuria al bacino del Volga. Se la scultura appare sempre più stereotipata, la pittura portatile offre qualche sorpresa. Sono ampiamente diffuse iconografie varie, di carattere pedagogico, come la Ruota della Vita (Bhavacakra), che presenta, secondo uno schema circolare, al centro, i tre peccati capitali del buddhismo: la passione (un gallo rosso), l’odio (un serpente verde), la cupidigia (un maiale nero). Sul lato destro, alcuni uomini si avviano verso un’esistenza migliore, mentre a sinistra, altri esseri, vittime del loro cattivo karman, regrediscono nella scala delle reincarnazioni. Tutto intorno sono raffigurate le cinque grandi condizioni di esistenza, e, nel cerchio esterno, i dodici tipi di azione che perpetuano il ciclo della concatenazione causale. Gli strumenti rituali e gli oggetti liturgici costituiscono una parte importante del patrimonio artistico tibetano. I più belli sono attribuiti ai laboratori di sDedge, nel Tibet orientale, nell’antica provincia del Khams.

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Bhutan e Mongolia Deve essere accordato al Bhutan un posto a parte nel mondo tibetano. Questo piccolo regno, a sud del grande Himalaya, assunse il proprio aspetto moderno solo dopo l’arrivo, nel 1616, di Zhabs-drung ngag-dbang (15941651), un giovane incarnato d’obbedienza bKa’brgyud-pa contestato nello stesso Tibet. Questo religioso senza pari divenne il capo spirituale del Bhutan e riformò profondamente il paese. Il Bhutan fu così diviso a scacchiera e destinato a eDzong, residenze dei governatori

37. Mahasiddha, colore su cotone, xviii secolo. Boston, Museum of Fine Arts.

36. Buddha e scene di jataka, colore su cotone, 1573-1620. Londra, The British Museum (provenienza: Tibet orientale?).

38. v Karma-pa bZhin gshegs-pa (1384-1415), colore su cotone, 1700. Ubicazione attuale sconosciuta.

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di provincia e veri centri amministrativi. Alcuni seguono le forme del terreno, come sPuna-kha (1636-1637) e ‘Brug-rgyal (1649). Altri, come Srin-mo rtog-kha (1627), il più antico, e sPag-ro (1645) possiedono forme geometriche. L’abbondanza di legname nelle valli del medio Himalaya permise la costruzione di ampi tetti debordanti, che formano ampie tettoie al di sopra della terrazza tradizionale. Le facciate sul cortile degli edifici conventuali presentano gallerie e bovindi più numerosi, più elaborati e più decorati rispetto al Tibet. In questo paese di valli dai numerosi corsi d’acqua, i ponti, spesso coperti, ottennero un’attenzione particolare. La tradizione ne attribuisce un buon numero al famoso Thang-stong rgyal-po (1385?-1481?). Un grande terremoto, particolarmente distruttivo, avvenuto nel 1897, e lo zelo religioso che spingeva a rifare incessantemente i decori secondo il gusto contemporaneo impediscono di precisare le grandi date dell’evoluzione della pittura e della scultura del Bhutan.

Anche in Cina il buddhismo tibetano, religione ufficiale dal 1260 al 1911, ha lasciato complessi monumentali immensi e testimonianze plastiche tanto numerose che è difficile analizzarli al di fuori del contesto propriamente cinese. La Mongolia costituisce l’altra grande area di espansione del lamaismo. La reintroduzione di quest’ultimo in questi lontani territori nel xvi secolo seguì una nuova ripartizione dei vari popoli mongoli nell’Alta Asia: Mongoli occidentali nel nord dello Xinjiang, Mongoli orientali suddivisi in Khalkha, nel nord, e Chakhar, nel sud. Se nulla rimane delle sontuose realizzazioni dei Mongoli occidentali, annientati tra il 1755 e il 1757 da Qianlong (regnante 17361795), alcune vestigia sopravvivono nell’est. La conversione al buddhismo tibetano dei principali capi mongoli conferì loro un prestigio che facilitò le loro mire unificatrici delle varie tribù. Si deve così menzionare la conversione di Altan Khan (regnante 1507?-1582) nel 1578, capo dei Tumet della Mongolia meridionale e, verso il 1585, quella di Abdai Khan (regnante 15541588), il più importante capo della Mongolia settentrionale. Sin dal regno di Altan Khan e la fondazione, nel 1575, di Kokekhota, la capitale (oggi Hohhot), i numerosi artigiani cinesi impiegati nei suoi Stati elaborarono un’arte sincretica sino-tibetana, come quella in formazione nel Tibet orientale. La sala degli arhat, in fondo al terzo cortile dello Dazhao di Hohhot, ne è un esempio. La Mongolia meridionale, nell’orbita manciù dal 1636, divenne la «Mongolia interna« sin dall’avvento della dinastia dei Qing nel 1644. L’arte e l’architettura, in parte dovute al mecenatismo imperiale, attestano un vero sincretismo tra le tradizioni tibetane e cinesi, innovatore

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nella pianta dei santuari e nella ricchezza della loro decorazione interna. Nella Mongolia settentrionale, oggi Repubblica di Mongolia, il patrimonio monumentale è stato ampiamente distrutto durante l’epoca staliniana. Alcuni edifici permettono tuttavia di rievocare una produzione originale e abbondante. Dopo la sua conversione, Abdai Khan fondò, nel 1586, il monastero di Erdene-zu, non lontano dalle rovine dell’antica Karakorum, capitale dell’epoca gengiskhanide [fig. 40]. Tre piccoli templi, in una recinzione in mattoni, segnano la rinascita, timida, dell’architettura costruita in queste regioni. Siccome gli artigiani e parte dei materiali venivano dalla Cina, l’operazione in piena steppa equivaleva a un tour de force. Zanabazar, più noto in Mongolia col nome di Ondur-Gegen (1635-1723), pronipote di Abdai Khan, divenne il capo spirituale della giovane chiesa mongola. Suo fratello maggiore

assunse il potere temporale. La sua opera come scultore è famosa fino in Occidente. Benché la Chiesa mongola, definitivamente annessa all’ordine dGe-lugs-pa verso il 1639, avesse offerto poche innovazioni dottrinali o iconografiche, Zanabazar seppe realizzare opere particolarmente importanti, di dimensioni relativamente grandi, in stili arcaicizzanti, mescolando elementi della tradizione «pala internazionale« ad altri, in particolare d’ispirazione nepalese [figg. 42-43]. Tra la fine del xviii e il xix secolo, gli edifici religiosi di carattere eclettico si moltiplicarono. Si deve ricordare la realizzazione di grandi applicazioni rappresentanti le principali divinità del buddhismo lamaista [fig. 44] di qualità artistica senza pari, realizzate giu­stapponendo numerosi frammenti tessili precedentemente ritagliati.

39. Bruciaprofumi, ferro dorato incrostato, xvii secolo (?). Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (acquisito grazie ai fondi Murakoshi; provenienza: Bhutan).

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CINA

La Cina, a causa dell’antichità e della forza della propria civiltà e per l’omnipervasività della filosofia confuciana, non costituiva un paese naturalmente disposto ad accettare la dottrina buddhista. Quest’ultima vi ha ciò nonostante conosciuto sviluppi considerevoli. Il buddhismo cinese avrebbe a sua volta conquistato tutto l’Estremo Oriente. Gli esordi dell’arte buddhista in Cina

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1. Buddha, grès, dopo il 460. Yungang, Shanxi, grotta n. 18 (parte est).

Introdotto probabilmente da mercanti giunti dall’Asia centrale nel i secolo, il Mahayana, propugnato fra i primi da Lokaksema, di etnia yuezhi, ebbe all’inizio scarso successo, rimanendo confinato a piccole comunità di stranieri rinvigorite da alcuni missionari di provenienza indiana o nordasiatica. La presenza di una di tali comunità è documentata dal 65 nel regno di Chu. La diffusione della nuova fede trova un ostacolo nel delicato problema della traduzione dei testi religiosi. I primi adattamenti comprendono numerosi termini taoisti, prendendo spunto da superficiali somiglianze fra le due religioni, oppure sfruttando in prospettiva apologetica alcune leggende, come quella del viaggio in Occidente di Laozi. Le due religioni hanno in comune la tecnica degli esercizi respiratori, l’astinenza alimentare e l’assenza di sacrifici. In un primo momento il buddhismo sembrò dunque una sorta di variante straniera del taoismo. La lenta disgregazione del potere imperiale a partire dal ii secolo indebolì i dogmi del confucianesimo ufficiale e permise l’emergere di teorie meno accademiche. L’interesse suscitato dalla nuova dottrina in una parte della Corte va inquadrato in tale contesto. È così che nell’anno 166 l’imperatore Huangdi (147-167) celebra una cerimonia congiunta di omaggio a Laozi e al Buddha. Nel 148 un missionario di origine parta, An Shigao, «Shigao l’Arsacide«, fonda a Luoyang, presso il monastero del Cavallo bianco (Baima-

si), considerato il più antico monastero buddhista in Cina, la prima scuola di traduzione sistematica e rigorosa di testi di origine indiana. Fino al primo decennio del iii secolo questo attivo centro intellettuale raccoglie maestri parti, indo-sciti, sogdiani e anche tre indiani. Di pari passo, alla fine del ii secolo, sempre grazie al tramite dei rapporti commerciali con l’estero, il buddhismo mette piede a Guangzhou e nel Vietnam settentrionale. I gravi disordini che segnano il declino della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) favoriscono l’espandersi della nuova religione. L’indebolimento dei valori tradizionali e l’emergere dell’individualismo fanno sorgere in alcuni preoccupazioni spirituali e il desiderio di salvezza personale. A partire dal 265 numerosi contatti con i grossi centri carovanieri nordasiatici apportano ripetutamente elementi nuovi alla ancora fragile fede buddhista. È in tale contesto che avviene, intorno al 260, il primo viaggio in Occidente di un pellegrino cinese, Zhu Shixing, che raggiunge Khotan, nella parte occidentale dello Xinjiang. Dopo il periodo dei Tre Regni (220-280) i sovrani dell’effimera dinastia dei Jin dell’ovest (265-316) mostrano interesse per la dottrina buddhista. Dalla Cina settentrionale la nuova religione guadagna il bacino del basso Yangzi. Verso il 300 la pratica del buddhismo, fino allora limitata ai mercanti urbani, conquista le classi agiate. Il fragile Impero Jin cede sotto i colpi delle popolazioni barbare, insediate talora da molti secoli all’interno del limes. Luoyang cade nel 311, Chang’an (Xi’an) nel 316. Le élite politiche si rifugiano a Jiankang (Nanjing), e lì si succedono, fino al 589, Cinque Dinastie cinesi in mezzo a rivoluzioni di Palazzo. I regni barbarici si dividono per più di due secoli e mezzo la Cina settentrionale in una successione storica complessa, che però agli occhi dell’annalistica cinese si riduce a una sola dinastia. Così la tradizione denomina il periodo che si estende dal 316 al 589 come epoca delle Sei Dinastie.

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cina

Le distruzioni e i massacri causati dall’anarchia amministrativa e dall’emergere di potentati di origine straniera, la precarietà di più di un milione di cinesi rifugiatisi nel sud, la violenza dei costumi politici, l’insicurezza generalizzata, l’annientamento della dignità umana, la decadenza e la corruzione delle élite generano una ricerca di assoluto in ampi strati della popolazione. I problemi di traduzione dominano le attività degli eruditi durante il lungo periodo di smembramento della Cina (316-681). Emergono due

cina

grandi centri: Jiankang, capitale delle dinastie del sud, e Luoyang nel nord. Molti traduttori, alla pari di An Shigao, sono missionari stranieri quali Zhi Qian «l’indo-scita«, attivo dal 222 al 253, Kang Senghui, «Senghui il sogdiano«, attivo dal 247 al 289, e Dharmaraksa, attivo dal 265 al 313. Questa situazione continuerà a lungo come testimonia la figura di Paramartha, in Cina chiamato Zhendi, originario dell’Asia centrale, il quale giunge a Guangdong nel 546, è ricevuto a Nanchino dall’imperatore Wu (regnante 502-549) dei Liang e muore a Guandong

2. Maitreya, bronzo dorato, iv-v secolo. Kyoto, Museo Fujii Yurikan. 3. Carta della Cina. 4. Buddha, bronzo dorato, 338. San Francisco, The Asian Museum of Art (Avery Brundage Collection). 2

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nel 546. Buddhismo e taoismo sono oggetto di numerose controversie, illustrate fra gli altri dal monaco Zhi Dun (o Zhi Daolin) (314-366). Nel sud queste polemiche, rinfocolate da religiosi di estrazione aristocratica, sono particolarmente vivaci e legate agli ambienti più intellettuali e raffinati del tempo. Nel nord il buddhismo, meno a contatto con i letterati tradizionali – presenta l’aspetto ufficiale di una religione di Stato, strettamente controllata dal potere politico. Spiccano alcune personalità: Tudeng, morto nel 349, godé di grande influenza presso la

corte di Luoyang in virtù della organizzazione di rituali volti a provocare la pioggia; Dao’an (318-385) gettò le basi della vita monastica. La complessa figura di Kumarajiva (344?-413?) domina il periodo. Sengzhao (374-414), uno dei suoi discepoli, fonderà la scuola dei tre trattati (Sanlun), equivalente cinese di quella indiana dei Madhyamika. Un altro, Zhu Daosheng (365-434), in un celebre commentario del Mahaparinirvapa sutra, spiega l’universalità della natura di Buddha, posseduta in stato latente da ogni creatura. Tale teoria avrebbe costituito il fondamento di molte importanti scuole del buddhismo in Estremo Oriente. Lo Asian Museum of Art di San Francisco serba testimonianza degli esordi dell’arte buddhista in Cina: un bronzo dorato alto 39 centimetri che raffigura il Buddha con le mani incrociate sul petto, senza dubbio una interpretazione locale del dhyana mudra [fig. 4]. La parte anteriore della base, piatta e forata in più punti, era forse adornata da protomi di leoni, animali d’abitudine raffigurati sul trono del Beato. Sul retro una iscrizione conservatasi parzialmente consente di datare il pezzo al 338. L’opera imita fedelmente un modello del gandharico. La curvatura del viso, il naso dritto, il naturalismo della capigliatura e le pieghe regolari, ampie e simmetriche del mantello sono tutti elementi di origine occidentale. Lo stesso discorso vale per alcune statuette di bodhisattva [fig. 2], copie fedeli di prototipi dell’India nordoccidentale, ad esempio per quanto riguarda il complesso drappeggio pieghettato a cannoncini e il rotolo di capelli. A cominciare dal iv secolo nella Cina meridionale i monasteri si moltiplicano. Il buddhismo riceve sostegno dalla corte. Intorno al 380 Xiaowudi (regnante 373-396), imperatore dei Jin dell’est, è il primo sovrano cinese ad adottare ufficialmente le prescrizioni del nuovo clero per i laici che vogliono seguire i dettami religiosi senza entrare a far parte degli ordini. Il personaggio più famoso di questo buddhismo meridionale e certamente Faxian (317-420), il quale nel 399 intraprese un viaggio lungo le piste carovaniere alla ricerca di testi antichi e, giunto in India, vi soggiornò sei anni prima di ritornare in Cina via mare. I Wei del nord

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Nel nord i re barbari, in massima parte Tuoba Tabgatch, gruppo etnico imparentato con i turco-mongoli più o meno sinizzati, faranno

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del buddhismo la religione ufficiale dei propri Stati. Dal 398 i Wei del nord (386-534) scelgono come capitale Pingcheng, oggi Datong, nel nord-est della provincia dello Shanxi. Monaci buddhisti assicurano alla corte prosperità e vittorie militari tramite vari riti scaramantici e liturgie. Essi fungevano anche da consiglieri facendo da contraltare all’influenza dei letterati cinesi di estrazione confuciana. I maestri buddhisti riconoscono nei sovrani Tuoba delle incarnazioni del Buddha, facendo così del clero buddhista una sorta di Chiesa ufficiale legata allo Stato. I testi cinesi menzionano l’arrivo da occidente di statue particolarmente venerate che daranno vita a veri e propri modelli iconografici. Una delle più celebri, intagliata in legno di sandalo, sarebbe stata portata da Kucha, sua città natale, a Chang’an nel 401 dal noto traduttore Kumarajiva. Secondo la leggenda, la statua sarebbe stata prodotta su ordine del re Udayana di Vatsa in occasione della visita di Vakyamuni al cielo dei Tusita per predicare alla propria madre. Si possono seguire le tracce della statua in Cina fino al 986. Una copia fatta senza dubbio nel x secolo è conservata presso il Seiroji di Kyoto, dove è venerata come se si trattasse dell’originale. Le principali componenti stilistiche – drappeggi, di ispirazione gandharica, che ricadono simmetricamente rispetto all’asse del corpo – si ritrovano sulla maggior parte delle statuette in bronzo dorato del v secolo. Un affascinante buddha [fig. 5], datato 444 e conservato a Roma presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale, è caratteristico di questo assieme di raffigurazioni sacre destinate a cappelle private oppure, più spesso, aventi funzione di ex voto. Si era presa l’abitudine, da almeno un secolo, di scavare santuari rupestri come nel mondo indianizzato. La grotta più antica del Qianfodong di Dunhuang nel Gansu risalirebbe ad esempio al 366. Le prime realizzazioni risultano molto sommarie. A Binglingsi, sempre nel Gansu, figure dipinte e scolpite sono poste una accanto all’altra su pareti rozzamente squadrate. Nella grotta n. 169 un dipinto di stile brillante, datato al 422, presenta un buddha con indosso una veste con pieghe di ispirazione gandharica [fig. 6]. Alcuni bodhisattva gli rendono omaggio. Le aureole multicolori riprendono una tradizione dell’Asia settentrionale. Completano la scena alcuni donatori, fra cui un monaco con stivali ai piedi. A Dunhuang, importante oasi sulla Via della

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Seta, vi è il maggiore sito rupestre della Cina intera. L’assieme delle decorazioni dipinte e scolpite si estende su di un arco di otto secoli. Queste preziose testimonianze della iconografia e dell’arte buddhista costituiscono un complesso a parte che trasmette in maniera imperfetta l’estetica della capitale. A seconda delle epoche, vi si riflettono le influenze occidentali, oppure le tradizioni locali conservatrici vi adottano in ritardo le nuove tendenze. Le prime decorazioni rimaste risalgono alla metà del v secolo. Studi recenti suggeriscono che, in tale gruppo, la grotta n. 275 (Pelliot, n. 118) costituisca l’insieme più antico. Una grossa statua di Maitreya, seduto a gambe incrociate e vestito da un abito a larghe pieghe come vuole la tradizione dei laboratori artistici di Mathura in India settentrionale, si erge in asse con l’ingresso [fig. 7]. I leoni, ritratti con intento naturalista, sembra che stiano fermi in agguato. I muri laterali, divisi in gruppi di composizioni, presentano a mezza altezza scene narrative tratte dalle esistenze precedenti o dalla vita storica del Buddha [fig. 9]. Un pannello, ad esempio, è dedicato alle quattro sortite fuori dal palazzo, determinanti per la vocazione religiosa del principe Siddhar-

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5. Buddha, bronzo dorato, 444. Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale. 6. Buddha, bodhisattva e donatori, colori su imprimitura, 422. Binglingsi, Gansu, grotta n. 169. 7. Maitreya, terra lavorata, seccata e dipinta, metà del v secolo. Dunhuang, Gansu, grotta n. 275. 8. Musici celesti, colori su imprimitura, metà del v secolo. Dunhuang, Gansu, grotta n. 272. 9. Sortite di Vakyamuni, colori su imprimitura, metà del v secolo. Dunhuang, Gansu, grotta n. 275.

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tha. I personaggi, sommariamente ritratti, spiccano sul fondo bruno. Lumeggiature bianche donano una certa intensità agli sguardi. Le architetture, in puro stile cinese, sono ammassate sulla sinistra della composizione. Queste figure abbozzate, riassunte in ampi tratteggi espressivi, si ritrovano nella grotta n. 272 (Pelliot, n. 118 j) [fig. 8]. Le silhouette del soffitto somigliano alle decorazioni di Qyzyl, l’oasi nei pressi di Kucha nello Xinjiang. Parallelepipedi dai colori vivaci ricordano le rocce cubiche della tradizione gupta. Questi rapporti con l’estetica delle oasi dello Xinjiang sono ancora più evidenti nelle decorazioni della grotta n. 254 (Pelliot, n. 105). Come accade spesso nelle pitture più antiche di Dunhuang, un fregio narrativo mostra vari episodi della vita di Vakyamuni e dei jataka celebri. Un pannello è dedicato allo Vivi jataka [fig. 10]. Per salvare un uccello da un terribile rapace, un re propone di amputare il proprio corpo per una porzione equivalente alla preda. Il sovrano,

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dal corpo molto tornito, seduto alla indiana, in una posizione di rilassamento, è circondato dalla propria corte. La composizione della scena, incentrata sul protagonista, le acconciature e gli abiti, i gesti espressivi degli astanti hanno i loro corrispettivi nell’arte dell’oasi di Kucha. La posizione privilegiata di cui gode il clero buddhista presso la corte dei Wei del nord non riesce a impedire che il buddhismo subisca, dal 444 al 449, una violenta persecuzione voluta dal sovrano Taiwudi (regnante 424-462) su istigazione del funzionario letterato Cui Hao (381450) e del taoista Kou Qianzhi (morto nel 448). La gigantesca messa in cantiere delle grotte scolpite di Yungang, nei pressi di Datong, fu in un primo tempo concepita come una sorta di espiazione per questo atto sacrilego [fig. 11]. I lavori, ordinati dal sovrano Wenchengdi (regnante 452-465) sotto la guida del monaco Tanyao, ebbero inizio nel 460 con lo scavo di cinque grotte (nn. 16-20) nella parte occidentale della parete rocciosa. Semplice nicchia di forma ovale smisuratamente ingrandita, ciascuna grotta è concepita per ospitare un buddha gigantesco – 13,5 metri di altezza nella grotta n. 16; 15,6 metri nella n. 18; 17 metri nella navata centrale della grotta n. 19 –, raffigurazione sublimata di uno dei cinque predecessori di Wenchengdi. Mentre le grotte più antiche di Dunhuang contenevano statue in stucco, a Yungang si è direttamente proceduto a scavare la parete di arenaria, come in India o in Afghanistan. Il grande buddha seduto in grès, della grotta n. 20, è incontestabilmente la statua più impressionante di questi primi insediamenti [fig. 12]. Il vestito ricco di pieghe ricorda gli aderenti drappeggi del Gandhara o della scuola di Mathura. Il viso quasi cubico dal grosso naso appuntito testimonia tuttavia un adattamento locale. Sulle pareti, a lato delle colossali statue, molteplici piccoli rilievi ex voto formano un tappeto decorativo [fig. 1]. Si può avvicinare il grande bronzo dorato conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York [fig. 13] a certi buddha giganti di questo primo periodo, per esempio quello della grotta n. 18. Il buddha, in piedi con le braccia aperte in una posa ieratica, ha indosso come sempre a quell’epoca un mantello il cui caratteristico drappeggio simmetrico ci porta alla mente la tradizione gandharica. Una iscrizione apocrifa data il pezzo al 447 e lo identifica con un Maitreya. Nulla in realtà consente, dal punto di vista iconografico, di essere certi della identità. È impossibile confonderlo, per la grande padronanza stilisti-

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10. Vivi jataka (particolare), colori su imprimitura, seconda metà del v secolo. Dunhuang, Gansu, grotta n. 254. 11. Veduta generale delle grotte di Yungang, Shanxi. 12. Buddha, grès, dopo il 460. Yungang, Shanxi, grotta n. 20. 13. Buddha, bronzo dorato, metà del v secolo. New York, The Metropolitan Museum of Art (acquisizione fondo John Stewart Kennedy).

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ca, con gli ex voto più comuni; esso rappresenta bene la produzione della metà del v secolo. Le grotte scolpite più recenti a Yungang offrono planimetrie elaborate: vestibolo, sala a pianta poligonale, grosso pilastro centrale al posto dello stupa circondato da corridoio per la circumambulazione [fig. 15]. Alcuni di questi pilastri sono completamente ricoperti da sculture. Altri, più rari, come nella grotta n. 2, presentano numerosi elementi architettonici che evocano delle pagode [fig. 16], l’equivalente cinese degli stupa. Queste torri a più piani, eredi delle torri di guardia e di divertimento delle residenze aristocratiche di epoca Han, prendono il posto degli stupa in muratura di origine indiana. A Yungang esse sono raffigurate spesso e con molta accuratezza in bassorilievo, nelle grotte n. 2, n. 5, n. 6 e n. 11, ad esempio. Benché di dimensioni colossali, i santuari

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14. Viva, grès, terzo quarto del v secolo. Yungang, Shanxi, grotta n. 8 (vano ovest della porta).

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di questo secondo periodo sono assai vicini ai modelli originari delle oasi dello Xinjiang. Muri e soffitti sono coperti da una moltitudine di sculture [fig. 17]. Pannelli, in genere quadrati, di dimensione variabile, si articolano in gruppi compositivi giustapposti sull’intera parete. L’iconografia, molto diversificata, è tipica del buddhismo del Grande Veicolo: frequente presenza di Maitreya, numerosi assistenti bodhisattva, Vakyamuni in conversazione mistica con Prabhutaratna, il buddha del passato – tema tratto dal Saddharmapupdarika sutra –, innumerevoli divinità volanti, musicanti, episodi della vita del Buddha, jataka, e così via. Sui muri dei vani della porta di ingresso della grotta n. 8 sono raffigurate due divinità induiste, Viva e Vispu, qui in funzione di guardiani divini. La loro iconografia tradizionale è male compresa. Così Viva, riconoscibile dalle sue teste ascetiche talora irate, cavalca un uccello favoloso [fig. 14]. Di fronte, Vispu cavalca un toro. Si è ricostruita, grazie a uno studio minuzioso, la cronologia dello scavo delle grotte: n. 7 e n. 8, poi n. 9, n. 10 e una parte della n. 12, infine n. 5, n. 6, nn. da 11 a 13. Le sculture presentano numerosi tratti originari del Gandhara nonché dell’India: pieghe delle vesti, armi, leoni ed elefanti, girali e foglie di acanto, palmette, frontoni talvolta spezzati [fig. 19]. I visi, meno angolosi rispetto al primo periodo, possiedono sempre il loro caratteristico naso dritto. Sono imbevuti di una espressione giovanile e sorridente, molto impersonale. Le scene narrative, piene di verve e di spontaneità, raffigurano una moltitudine di personaggi dai gesti espressivi e con il corpo distorto dal movimento, a dispetto di qualsivoglia verosimiglianza anatomica. L’odierna policromia delle grotte n. 9 e n. 13 risale alla fine della dinastia Qing (1644-1911). È difficile farsi una idea del loro aspetto originario. Intorno al 480 fa la sua comparsa uno stile nuovo, forse grazie all’impulso di una regina madre di origine cinese, reggente mentre Xiaowendi (regnante 471-499) era minorenne. Ella com-

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missionò in effetti la grotta n. 6, la meglio riuscita di tutte quelle caratterizzate dalla nuova estetica [fig. 18]. Questo mutamento plastico trarrebbe origine dall’arrivo dal sud di una colossale statua in bronzo del Buddha, che, installata nei pressi della capitale, avrebbe compiuto ripetuti miracoli. L’abito si sinizza, seguendo una moda forse giunta dalla corte di Nanjing. I drappeggi aderenti al corpo si stilizzano. Pieghe simmetriche terminanti a punta conferiscono alla figura una grazia particolare.

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15. Pianta di Yungang, Shanxi. 16. Pilastro centrale a forma di pagoda, terzo quarto del v secolo. Yungang, Shanxi, grotta n. 2. 17. Vestibolo, grès policromo, terzo quarto del v secolo, Yungang, Shanxi, grotta n. 12. 18. Corridoio, grès policromo, 480 circa. Yungang Shanxi, grotta n. 6. 19. Bodhisattva, grès, 470 circa. Yungang, Shanxi, grotta n. 15. Parigi, Musée Cernuschi.

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I dipinti murali della grotta n. 257 (Pelliot, n. 110) di Dunhuang sono giustamente celebri. Un gruppo compositivo illustra il jataka del cervo Ruru, dalle corna d’oro, cacciato dal re di Benares [fig. 20]. La leggenda, attestata già a Bharhut, in India centrale, nel ii secolo a.C., fu assai presto tradotta in cinese. A Dunhuang grandi diagonali delimitano larghe bande colorate e isolano i vari episodi del racconto. Il disegno molto curato ed espressivo rende con padronanza assoluta il movimento degli animali come pure la loro accorta immobilità, negli agguati, ad esempio. La gamma cromatica e la concezione generale dei dipinti della grotta n. 257 li raccorda alle più antiche decorazioni di Dunhuang, ma la forma incisiva delle tuniche evoca il secondo stile di Yungang. La grotta, da alcuni autori datata intorno al 450, è più verosimilmente della fine del v secolo.

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Nel 493 Xiaowendi (471-499), giudicando Datong troppo distante dalla parte più popolosa dei propri territori, decide di trasferire la capitale a Luoyang, al centro di una ricca regione agricola attraversata dal fiume Giallo. I decenni seguenti sono segnati da una sinizzazione più spinta delle istituzioni e dei costumi. La corte abbandona ad esempio il tradizionale abbigliamento tuoba in favore di vestiti cinesi. Nel 495 il cinese diventa la lingua ufficiale. I matrimoni fra aristocrazia tuoba e famiglie cinesi vengono incoraggiati e diventano più frequenti. Per esempio, i sei fratelli del sovrano dovranno fidanzarsi con una ragazza cinese. Malgrado lo spostamento della corte, le attività a Yungang continuano almeno fino al 525, data della ultima iscrizione Wei. Il sovrano ordina nel 494 di approntare dei santuari rupestri a Longmen, vicino Luoyang, scavando pareti di arenaria grigia che fanno da bordo alla gola del fiume Yin. Le grotte in questione si presentano come cappelle in cui la statua principale è posta nell’asse dell’entrata. Alcune tradizioni presenti a Yungang e a Dunhuang, originarie dell’Asia centrale, come i pilastri centrali simboleggianti uno stupa e i corridoi per la circumambulazione, sono abbandonate. Nel corso degli anni le grotte maggiori hanno ricevuto dei nomi, creando un sistema più comodo rispetto a quello della numerazi-

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one di norma adoperato. Le prime opere, lo Vakyamuni della grotta Binyang («che riceve il sole«) centro, ad esempio, sono nella scia dello stile più evoluto di Yungang [fig. 21]. La parte principale della decorazione sarebbe stata eseguita fra 500 e 523 circa. L’insieme è impressionante: undici grosse statue di buddha attorniate da assistenti. I drappeggi morbidi, ampi e simmetrici non fanno più riferimento diretto a modelli occidentali. Nelle fiamme stilizzate delle aureole sono enfatizzati gli elementi grafici. Cortei di donatori quasi a grandezza naturale erano scolpiti in bassorilievo. In seguito a gravi atti di vandalismo commessi a partire dal

20. Ruru jataka, colori su imprimitura, seconda metà del v secolo. Dunhuang, Gansu, grotta n. 257. 21. Vakyamuni fra due discepoli e due bodhisattva, grès, inizio del vi secolo. Longmen, Henan, grotta Binyang centrale.

22. Corteo di donatori, grès, inizio del vi secolo. New York, The Metropolitan Museum of Art (acquisizione fondo Fletcher; provenienza: grotta Binyang centrale [Longmen] Henan). 23. Dvarapala, grès, primo quarto del vi secolo, Longmen, Henan, grotta Binyang nord. 24. Muro sud, primo quarto del vi secolo. Longmen, Henan, grotta Guyang.

1933, molti frammenti di questi pannelli fecero capolino nel mercato dell’arte a Beijing. Acquisizioni sistematiche hanno permesso di ricostituire in grossa parte due cortei presso il Metropolitan Museum of Art di New York [fig. 22] e presso la William Rockhill Nelson Gallery of Art di Kansas City. Una testa dello stesso complesso è conservata presso il Museo Rietberg di Zurigo. Due personaggi affiancano il donatore principale, forse il sovrano in persona o un importante principe, ritratto in dimensioni leggermente maggiori. Nella parte superiore, parasole e flabelli si alternano alle teste di assistenti meno importanti situati in secondo piano.

Dei berretti quadrati con paraorecchie rendono i volti, già di per sé squadrati, ancora più geometrici. Ampi vestiti dai pesanti drappeggi nascondono i corpi. Lo stile, radicalmente diverso da quello delle statue religiose, rivela che a Longmen durante il primo terzo del vi secolo si sviluppa una estetica nuova. Contrariamente ai loro omologhi di Yungang, i guardiani della porta (dvarapala) della grotta Binyang nord non rievocano alcun modello occidentale, ma costituiscono opere autenticamente cinesi [fig. 23]. La sinizzazione delle forme, che si avverte in tutta l’arte di Longmen, ha analogie in moltissimi aspetti della cultura dei Wei del primo terzo del vi secolo. Il viso espressivo ha tratti assai geometrici, di disegno incisivo. Tutta l’attenzione è richiamata sulla minacciosa mano destra. L’abito, pieghettato a cannoncini, dà vita a scampoli svasati all’altezza delle gambe. I lavori nella grotta Guyang ebbero inizio nel 495 e durarono almeno ottanta anni. Come nelle altre grotte dell’epoca dei Wei del nord i muri sono stati tappezzati di nicchie e di statue in misura delle donazioni [fig. 24]. Lo schema generale prevede un alternarsi di piccoli rilievi e di steli di dimensioni maggiori, una sull’altra. Ai primi due livelli l’arcata è spesso enfatizzata da festoni di lambrecchini trattenuti da maschere di taotie – in tale

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contesto, trasposizione locale dei kirtimukha indiani. L’iconografia testimonia il successo del Saddharmapupdarika sutra ai primi del vi secolo. Numerose dediche rendono omaggio ai buddha Vakyamuni e Maitreya. Benché Maitreya sia più spesso raffigurato con le gambe sospese, è impossibile identificare in tutti i personaggi il Buddha dei tempi a venire. Egli occupa tuttavia tutte le nicchie del secondo livello. Come a Yungang, alcuni pannelli mostrano Vakyamuni in conversazione con Prabhutaratna. Le iscrizioni sottolineano l’aiuto dato da Avalokitevvara e Samantabhadra (Guanyin e Puxian in cinese). Lo stile è tipico dell’arte dei Wei del nord al suo apogeo. I corpi allungati perdono ogni fisicità e indossano vesti dai drappeggi pieghettati a cannoncini che ricadono in grossi smerli oppure in punte simmetriche che si arricciano ad ala. I visi stilizzati ed emaciati, spogli di qualsiasi tratto aneddotico, si animano di una intensa vita interiore, testimonianza di profondo misticismo. Alcuni bodhisattva assumono pose sofisticate, il corpo distorto in una elegante sinuosità [fig. 26]. Dei rilievi in stiacciato si riagganciano alla grande tradizione plastica della scultura di epoca Han. La grotta Lianhuadong («del fiore di loto«) ha un soffitto decorato con una corolla sbocciata. In eteree apsaras le curve dei corpi si mescolano al panneggio delle loro vesti e tuniche mosse dal vento. Il tratto nervoso, che accentua gli elementi grafici, contrasta con quello di Yungang, dove questi motivi erano ancora debitori rispetto alle figure volanti del mondo occidentale. Alcune scene di jataka contengono rari elementi paesaggistici, ad esempio un albero dal fogliame ben stagliato e persone ridotte a semplici silhouette ma dai gesti espressivi [fig. 25]. Questo stile incisivo si diffonderà immediatamente nelle province, come testimoniano numerose decorazioni a Dunhuang, fra le quali un pannello della grotta n. 249 (Pelliot, n. 101) su cui figura un Buddha in predicazione [fig. 29]. Il tratto angolare e le pieghe ad ali dei vestiti, tipici della nuova estetica, contrastano con la rapidità esecutiva, l’espressività gestuale e gli ampi lumeggiamenti bruni in uso precedentemente. Il soffitto della grotta n. 249, come quello di numerose grotte di Dunhuang, è diviso in quattro trapezi che delimitano un quadrato centrale suddiviso tramite un gioco alternato di losanghe in Laternendecke, alla maniera delle grotte dell’Asia centrale [fig. 27]. Su ogni trapezio i dipinti, di rimarchevole virtuosismo, mettono assieme figure in volo e temi vari in

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25. Scena di jataka, grès, 525 circa. Longmen, Henan, grotta Lianhuadong.

26. Bodhisattva in meditazione, grès, primo quarto del vi secolo. The Boston Museum of Fine Arts (probabile provenienza: Longmen, Henan).

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apparente disordine attorno a un elemento di maggiori dimensioni. Si notano temi buddhisti originali, ad esempio un grosso asura che brandendo il sole e la luna sovrasta il mondo umano e raggiunge la cima del monte Sumeru su cui si erge un palazzo, il cielo dei Trentatré dei. Altri pannelli fanno riferimento diretto alla tradizione taoista, segnatamente a quella che ha per protagonista la dea Xiwangmu e lo sposo, il duca Dong Wanggong. Tuniche e cintole ondeggiano al vento rafforzando l’aspetto aereo dei geni volanti e delle apsaras, ritratti in vivaci colori su fondo bianco. Le tonalità brune e blu, lumeggiate di bianco, dominano queste compo-

27. Soffitto, colori su imprimitura, inizio del vi secolo. Dunhuang, Gansu, grotta n. 249. 28. Grotta n. 285, inizio del vi secolo. Dunhuang, Gansu.

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29. Buddha in predicazione, colori su imprimitura, inizio del vi secolo. Dunhuang, Gansu, grotta n 249 (muro nord).

sizioni delimitate da strisce carminio decorate con motivi floreali stilizzati. Alcune grotte sono fra le migliori creazioni artistiche dei Wei del nord, in particolare la n. 285 (Pelliot, n. 120 [fig. 28]). La pianta, originale per Dunhuang, si ispira a grotte indiane e centroasiatiche: otto celle si aprono sui muri laterali della sala centrale [fig. 31]. Questi minuscoli appartamenti erano forse adoperati dai monaci in occasione delle sedute di meditazione. La decorazione sovrabbondante testimonia una varietà di fonti stilistiche. Il soffitto con delicate apsaras è tipico dell’arte dei Wei. Le divinità che ornano il muro in fondo alla grotta

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30. Leggenda dei cinquecento banditi divenuri arhat, colori su imprimitura, inizio del vi secolo. Dunhuang, Gansu, grotta n. 285 (muro sud).

31. Pianta e sezione della grotta n. 285, inizio del vi secolo. Dunhuang, Gansu.

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sono esteticamente vicine ai dipinti di Qyzyl. Il grosso Buddha scolpito, con il suo pesante drappeggio di ispirazione indiana, è meno stilizzato dello Vakyamuni della grotta Binyang centro di Longmen, che risale agli stessi anni. La parte alta dei muri laterali è decorata con un ampio fregio narrativo che contiene la Leggenda dei cinquecento banditi divenuti arhat [fig. 30]. La porta del palazzo del re Prasenajit di Vravasti separa due episodi del racconto. I protagonisti, talora pentiti in un luogo desolato, talaltra sparsi ai piedi del Buddha, sono trattati con vivacità. Montagne variopinte delimitano lo spazio e rafforzano con i propri colori l’aspetto decorativo della composizione. Fra gli altri siti rupestri creati nella Cina del nord all’epoca dei Wei del nord bisogna menzionare Gongxian nello Henan [fig. 34]. I rilievi di Gongxian risalgono, come molte decorazioni di Longmen, ai primi decenni del vi secolo, ma sono speciali sotto parecchi aspetti. I gruppi compositivi di donatori, particolarmente numerosi nella grotta n. 4, mostrano cortigiani in

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bande ordinate di fregi secondo un ritmo costante che impedisce ogni trattamento sofisticato dello spazio. Le forme sono invece modellate con maggiore vigore. È il caso ad esempio del fregio che forma un plinto su cui appaiono i dieci devaraja, divinità minori del buddhismo, e due strani mostri che potrebbero essere dei garuda o degli asura [fig. 32]. Questo stile grafico ed esacerbato dei Wei al tempo del loro massimo splendore si ritrova su alcune steli e alcune statuette in bronzo dorato. Le steli in pietra incisa, già presenti nella tradizione cinese come monumenti commemorativi, furono erette da devoti buddhisti come se si trattasse di ex voto. Il loro stile riflette con lampante evidenza l’estetica nervosa e spiritualizzata dei Wei del nord. Una di esse, trovata ai confini fra Shanxi e Shaanxi, conservata a Toronto presso il Royal Ontario Museum, porta una dedica del 523 ed è emblematica di questa produzione [fig. 33]. Un padiglione fa da riparo al Buddha che troneggia fra due bodhisattva. La parte superiore, la più originale, raffigura

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32. Donatori e geni alati, primo terzo del vi secolo. Gongxian, Henan, grotta n. 4 (muro sud [parte sinistra]). 33. Stele, grès, 523. Toronto, Ontario Museum (provenienza: confini fra Shanxi e Shaanxi). 34. Pianta di Gongxian, Henan.

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la Grande Partenza. Siddhartha, il cui cavallo è condotto da geni in volo, si trova al centro della città di Kapilavastu, simbolizzata dal suo bastione e dalle sue porte fortificate. Alcune statue in pietra non hanno fatto parte di un complesso rupestre, ma erano senza dubbio conservate presso istituzioni monastiche di natura edile. È il caso di un grosso bodhisattva del Museum of Fine Arts di Boston, alto più di 2 metri [fig. 35]. Questa imponente opera risalente al 530 venne riportata alla luce in uno dei cortili del monastero del

Grotta 3 Grotta 4 Grotta 5

Cavallo Bianco di Luoyang. Il monumentale personaggio è tipico dell’arte dei Wei del nord al suo apogeo: espressività del gesto ottenuta grazie a una sproporzione della mano destra, abito cinese dall’ampio drappeggio, aspetto etereo del corpo, viso allungato dai tratti interiorizzati. Qualche statuetta in bronzo che decorava gli altari è sopravissuta. Ad esempio un Maitreya, oggi conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York [fig. 36], datato al 524, proviene dalla provincia dello Hebei nella Cina nordorientale. Il buddha del futuro, adorato come un salvatore del quale si attende la prossima incarnazione, è inserito in un complesso montaggio che comprende fiori di loto, leoni protettori, guardiani e bodhisattva in preghiera. Una mandorla è adornata con delicate figure in volo sostenute da brandelli di nembi. L’aspetto grafico dell’opera è accentuato da numerosi trafori. Il Buddha indossa una veste pieghettata a cannoncini che si svasa in un caratteristico drappeggio ad ali sovrapposte.

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È arduo ricostruire l’aspetto di molti monasteri edificati in un numero che verosimilmente oscillava, alla metà del vi secolo, fra i 30.000 e i 40.000. La maggior parte di essi era abitata da piccole comunità, da venti a cinquanta monaci. Un dipinto nella grotta n. 130 di Dunhuang ci dà un’idea di una di tali costruzioni. Due cortili circoscritti da alti muri e con porte monumentali sui fianchi contengono più edifici disposti senza simmetria e senza tenere in alcun conto l’asse mediano che attraversa il complesso dalla porta di ingresso. Le pagode (ta) furono in un primo momento costruite in legno, come testimoniano i rilievi di Yungang o i dipinti di Dunhuang. A cominciare dal vi secolo si prese gradualmente l’abitudine, forse grazie a influenze provenienti direttamente dall’India, di costruirle in pietra o in mattone, materiali meno deperibili. Le più antiche vestigia di architettura buddhista in Cina sono costituite da una pagoda eretta presso il Songyuesi su uno dei terrazzamenti del monte Songshan, a Dangfeng nello Henan, consacrata nel 523 [fig. 39]. L’edificio è ottagonale [fig.

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37]. I muri del secondo piano, i cui angoli sono scanditi da agili pilastri legati, hanno nicchie contenute in eleganti padiglioni fittizi o enfatizzate da archi a sesto pieno, possibile lontana eco degli archi indiani. Le quindici finte tettoie sovrapposte disegnano un cono. Questo tipo di pagode, a piani fittizi e di dimensioni decrescenti, è stato talora considerato, in ragione del profilo, una remota evocazione degli vikhara del subcontinente. Esse non sono in Cina gli unici equivalenti degli stupa indiani. A partire da quest’epoca si nota una grande varietà tipologica nei rari esempi di monumenti commemorativi conservatisi. La Simenta dello Shendongsi a Nanshan, nel distretto di Licheng, nella provincia dello Shandong, datata 544, adotta uno schema abituale in Asia centrale, presente ad esempio a Miran, Dandan Oiliq e, più tardi, nelle grotte di Qyzyl [fig. 40]. Una edicola ospita il pilastro centrale, oggetto di devozione, intorno al quale vi è spazio per la circumambulazione. La cappella squadrata, ogni facciata provvista di una porta centinata, ha al centro un pilastro quadrato, scolpito

35. Bodhisattva, grès, 530. Boston, The Museum of Fine Arts (provenienza: Baimasi [Luoyang, Henan]). 36. Maitreya, bronzo dorato, 524. New Yok, The Metropolitan Museum of Art (acquisizione fondo Rogers; provenienza: distretto di Zhengding, Hebei).

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politico, stabiliscono a Chang’an, antica città imperiale, la propria capitale. Gli succederanno i potenti Zhou del nord (556-581). Questi monarchi daranno unità a una grossa parte della Cina, ponendo le basi della unificazione dei Sui. Nel corso del periodo emerge poco a poco una nuova dottrina che segnerà profondamente il buddhismo in Estremo Oriente. Dopo Huiyuan (344-416), il patriarca Tanluan (476-542) avrebbe conosciuto da monaci venuti dall’India un culto salvifico in onore di Amitabha, il buddha occidentale, che permetterebbe ai devoti, grazie alla semplice fede nella divinità, di rinascere per una ultima esistenza nella Terra pura di Sukhavati (la «Felice«), incantevole luogo, prima di estinguersi definitivamente e di sfuggire quindi al ciclo della causalità universale. La dottrina trarrebbe origine dalla predicazione del mona-

Nelle due pagine precedenti: 37. Pianta della pagoda dello Sonyuesi, 523. Monte Songshan, Henan. 38. I buddha Vakyamuni Prabhutaratna,bronzo dorato, 518. Musée National des Arts Asiatiques-Guimet.

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39. Pagoda, 523. Songyuesi, monte Songshan, Henan. 40. Simenta, 544. Licheng, Shengdongsi, Shandong. 41. Maitreya, bronzo dorato, 536. Philadelphia, The University of Pennsylvania Museum (provenienza: Hebei). Nella pagina seguente: 42. Vakyamuni, grès, 536. Zurigo, Museo Rietberg (provenienza: Henan). 43. Fregi laterali, grès, 536 (particolare della fig. 42). Zurigo, Museo Rietberg (provenienza: Henan).

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44. Evoluzione dei buddha e dei bodhisattva nell’arte cinese fra 460 e 750 secondo Seiichi Mizuno, Chinese Stone Sculpture, Tokyo, 1950.

su ogni faccia con una immagine del Buddha. Questo pilastro serve da base a uno stupa che in cima alle tettoie a più piani a sbalzo forma una sorta di spina del tetto. Questo edificio costituisce il più antico esempio conosciuto di pagoda del tipo «ting«. I Wei dell’est, i Wei dell’ovest, i Qi del nord e i Zhou del nord La sinizzazione spinta delle élite tuoba e l’integrazione delle famiglie di notabili cinesi favorita dai sovrani wei del nord ha contraccolpi politici in seno alla classe guerriera di origine barbara. Una parte della aristocrazia militare tuoba, disseminata nelle province o assegnata alle frontiere, non trae vantaggio dalla sinizzazione. Essa si considera guardiana delle tradizioni nazionali e si oppone alla corte, giudicata dispendiosa e decadente. Una rivolta scoppiata nel 523 porta nel 534 alla scissione dei territori dei Wei del nord in due regni rivali. I Wei dell’est (534-557) stabiliscono la propria capitale a Ye, l’odierna Linzhang, nello Hebei meridionale, sforzandosi di conservare il retaggio sociale e culturale dei Tuoba. Lo Stato è dominato da militari di origine nomade. I Qi del nord (557-577) succedono loro a Ye. I Wei dell’ovest (535-556), continuatori dei Wei del nord e del loro sincretismo

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co Dharmakara, che per portare a buon fine la propria missione avrebbe respinto l’ingresso nel nirvapa. Gli sconvolgimenti politici ebbero ripercussioni anche in campo artistico. Lo stile etereo dei Wei del nord cede gradualmente posto a una nuova estetica che trionferà nel secolo successivo. Le prime opere quasi non lasciano presagire tale mutazione. È opportuno pertanto comparare il Maitreya del Metropolitan Museum of Art di New York [fig. 36] con un bronzo analogo e della medesima provenienza conservato presso lo University Museum di Philadelphia, datato al 536 [fig. 41]. A prima vista nessuna differenza fra le due raffigurazioni salta agli occhi. Ma in realtà il pezzo di Philadelphia presenta un viso lievemente più tondo e un collo più naturalista, meno lungo e scarno. Si tratta di dettagli anticipatori di una reazione, ancora limitata, alla eterea mistica di Longmen. L’abito in stile cinese mostra, al contrario, un meraviglioso dispiegarsi di drappi che si svasano lateralmente in ali sovrapposte. Lo stesso discorso vale per una stele, anch’essa risalente al 536, che porta la dedica di centocinque donatori, conservata presso il Museo Rietberg di Zurigo. Corpi eterei e drappeggi proseguono stilisticamente nella scia tracciata dalle ultime opere dei Wei del nord. Come per il bronzo di Philadelphia, il viso non presenta più l’aspetto emaciato caratteristico dei buddha intorno al 520. Vakyamuni ha attorno due guardiani di temibile aspetto, due bodhisattva in preghiera e due discepoli, Kavyapa, scavato in volto, e Ananda, di aspetto giovanile [fig. 42]. Sul lato destro la tenda, trattenuta da un pomello di passamaneria, mostra il bel disegno di un drago. I fregi riccamente decorati con motivi floreali si riagganciano direttamente ad alcuni pannelli di Longmen, ad esempio quelli della grotta Lianhuadong, «fiore di loto«, già n. 15 [fig. 43]. Queste nuove esigenze estetiche si traducono nell’abbandono della stilizzazione spinta del periodo precedente e in una tensione plastica più vigorosa [fig. 44]. Due opere molto diverse sono rappresentative di questa ricerca di nuove forme espressive. Il pannello superiore, mutilo, di una stele del Metropolitan Museum of Art di New York, che raffigura una scena di predicazione, venne eseguito fra 533 e 543 [fig. 45]. Se il frammentario drappeggio del mantello monastico del Buddha prosegue una antica tradizione, una cura particolare sembra rivolta alla corpulenza della maggioranza degli astanti.

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Su di un’altra stele, di poco posteriore (intorno al 550?), conservata presso l’Asian Museum of Art di San Francisco, compare un bodhisattva fra due assistenti [fig. 46]. La sua tunica si svasa ai lati in ali simmetriche, seguendo un motivo 43

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45. Scena di predicazione e gruppo compositivo istoriato, grès, fra 533 e 543, Henan. New York, The Metropolitan Museum of Art (acquisizione fondo Rogers). 46. Bodhisattva e assistenti, pietra, 550 circa, Cina settentrionale. San Francisco, The Asian Museum of Art (Avery Brundage Collection). 47. Bodhisattva in meditazione, marmo bianco, 560 circa, Hebei (?). Washington, The Freer Gallery of Art (provenienza: Dingxian).

convenzionale in ampio uso presso gli scultori della generazione precedente. Il corpo ritrova un certo volume segnato da una pronunciata sporgenza rispetto agli assistenti e all’aureola. Il viso più rotondo ha tratti molto netti, privi della espressione mistica prima in voga. Il disegno delle fiamme che incorniciano la stele è più ampio e meno spezzettato rispetto a quello adoperato per motivi dello stesso tipo nell’arte dei Wei del nord. Nelle collezioni ci sono numerose steli in marmo bianco. Facilmente riconoscibili, esse mostrano personaggi di corte talora trattati in maniera maldestra e separati da trafori. Questa produzione viene ascritta al laboratorio provinciale di Dingxian nello Hebei, particolarmente attivo intorno al 560. Un Bodhisattva in meditazione conservato presso la Freer Gallery of Art di Washington si può fare rientrare in essa [fig. 47]. Le forme paffute e il viso carnoso, come anche l’aureola con il delicato motivo di loto, riflettono le nuove tendenze estetiche. Il sontuoso drappeggio dell’abito continua indirettamente la grande arte di Longmen. Le tendenze innovatrici si diffondono nelle decorazioni scolpite delle grotte di Tianlong-

shan nello Shanxi. Il sito comprende una ventina di grotte [fig. 51]. Le più antiche, principalmente le grotte n. 2 e n. 3, riflettono con fedeltà l’arte di Longmen e di Gongxian. Il secondo periodo, il più interessante, dura dal 551 al 561 e comprende fra l’altro lo scavo delle grotte n. 10 e n. 16. Tianlongshan, scoperto ai primi del xx secolo, fu saccheggiato verso il 1923. Difficile farsi un’idea degli insediamenti rupestri dell’epoca dei Qi del nord senza ricorrere a rare fotografie oppure a frammenti. Come testimoniano i bodhisattva della grotta n. 16 [figg. 49, 50], le statue raggiungono una maggiore verosimiglianza anatomica e risaltano con forza dal muro. La forma delle spalle traspare sotto una veste larga il cui drappeggio semplice e vellutato cade con una certa naturalezza. Il viso ha sembianze più umane rispetto alle facce emaciate degli assistenti di Longmen. Come di abitudine, ai fianchi dell’ingresso della grotta n. 16 vi erano dvarapala. Uno di essi si trova presso la Academy of Arts di Honolulu [fig. 48]. Al confronto con quelli delle grotte di Longmen [fig. 23] esso ha un’aria più naturale malgrado l’aspetto irato. Il suo corpo è trattato con maggiore realismo, a cominciare dai volumi. La gamba

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48. Dvarapala, pietra, fra 551 e 561. Honolulu, Academy of Arts (provenienza: grotta n. 16, Tianlongshan, Shanxi).

49. Testa di bodhisattva, pietra, fra 551 e 561 (muro nord [nicchia]), Tianlongshan, Shanxi. Già parte della collezione

50. Bodhisattva, pietra, fra 551 e 561. Tianlong shan, Shanxi, grotta n. 16 (muro est).

Yamanaka.

51. Pianta di Tianlongshan, Shanxi.

52. Stele, grès. 554. Boston, The Museum of Fine Arts (provenienza: Cina settentrionale).

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destra, leggermente in avanti e flessa, enfatizza la rotondità del ginocchio. L’abbandono dello stile grafico dei Wei del nord può dare conto di una evoluzione propria alla statuaria cinese. Ma in questo caso il riferimento alla estetica indiana di epoca Gupta è troppo esplicito per non essere prova di contatti, forse indiretti ma fedeli. Questa pienezza delle forme e questa umanità caratterizzano una parte della statuaria dei Qi del nord. Due steli sono in tal senso rappresentative dell’epoca. La prima, conservata al Museum of Fine Arts di Boston, è datata al 554 [fig. 52]. Più di un dettaglio denota un certo arcaismo: pannello in stiacciato in cui compaiono i donatori, leone e chimera stilizzati, apsaras con lunghe e sinuose tuniche, scena superiore raffigurante Vakyamuni e Prabhutaratna in conversazione. Il Buddha e gli assistenti sono trattati, diversamente dal resto, con un senso del volume risolutamente innovatore. Una stele dedicata nel 557 dalla famiglia Yan e conservata al Museo Rietberg di Zurigo testimonia un’altra fase della evoluzione [fig. 54]. Vi si ritrovano i vari temi iconografici propri di questo tipo di opere: bruciaprofumo, qui sostenuto da uno

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yaksa, leoni protettori, guardiani, Buddha in predicazione attorniato dai discepoli Ananda e Kavyapa e da bodhisattva in preghiera. Alla sommità Vakyamuni figura in posizione di rilassamento sotto un albero. Sotto, il bodhisattva Manjuvri fa visita al saggio Vimalakirti. Più in basso la grande scena di predicazione potrebbe essere la esposizione del Saddharmapupdarika sutra. Sul retro Vakyamuni e Prabhutaratna illustrano in mistica conversazione un celebre tema del capitolo xi del medesimo testo. I gruppi compositivi perdono la rigidità geometrica e si adattano agli argomenti trattati, assegnando al Buddha centrale il massimo della importanza. Tutti i personaggi partecipano di una corporeità plasticamente vigorosa, fortemente in risalto, adornata da vesti dai drappeggi naturalisti. Nella parte bassa della stele i leoni, ritratti in diverse pose, testimoniano un certo gusto per l’aneddoto. Sopra lo Vakyamuni centrale alcuni discepoli presentano le spalle in un modo prospetticamente plausibile. Non lontano da Ye, i sovrani Qi del nord, in particolare Wengong (regnante 565-577) creano il sontuoso sito rupestre di Xiangtangshan, ai confini fra Hebei e Henan. Le grotte scavate

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in un’arenaria nera si dividono in due gruppi separati da una valle larga una quindicina di chilometri. Questo complesso, che costituiva uno dei massimi capisaldi dell’arte dei Qi del nord, negli anni trenta ha subìto profonde ferite. Un grosso rilievo, conservato presso la Freer Gallery of Art di Washington, mostra una delle più antiche raffigurazioni del paradiso di Amitabha [fig. 53]. Il buddha dell’occidente è al riparo di un elegante padiglione dai delicati pendagli. Ai lati, seduti su fiori di loto, vi sono Avalokitevvara e Mahasthamaprapta. Eccezion fatta per un secondo padiglione con il tetto curvo alla cinese sulla sinistra della composizione, la scena nel suo complesso sembra ispirata a un modello indiano come testimoniano la lussureggiante decorazione e le pose contrapposte e alternate di assistenti dal viso pieno. Anche una testa di Buddha di aspetto giovanile conservata presso il Museo Rietberg di Zurigo proviene da Xiangtangshan [fig. 55]. I riferimenti ad esempi indiani si avvertono nel trattamento delle masse del viso e della capigliatura in piccoli boccoli giustapposti. Gli occhi testimoniano tuttavia un completo adattamento ai tratti somatici cinesi. Altri frammenti, provenienti da Xiangtangshan, sono veramente originali. Ad esempio una teoria di mostri atlanti, dispersi fra Freer Gallery of Art di Washington [fig. 57], e i musei di Zurigo, Buffalo e Cleveland, che decorava basi di pilastri. La loro faccia con i denti in mostra, orrorifica e cornuta

ricorda le antiche maschere di taotie, ghiottoni apotropaici raffigurati dai tempi più remoti. Il corpo in parte umano è reso con cura e molto tornito. Le pieghe nella parte alta dell’addome aggiungono una nota realista a queste figure chimeriche che ravvivano e adattano a un contesto buddhista vecchi motivi convenzionali cinesi. Alcuni dvarapala, dal torso nudo e la muscolatura particolarmente prestante offrono una anticipazione diretta dell’arte dei secoli vii-x. Altri sono raffigurati con indosso una corazza [fig. 56], come lo saranno i lokapala, re-guardiani dei quattro continenti, dell’epoca dei Sui. Il loro leggero ghigno è tanto più inquietante considerato il loro aspetto di primo acchito umano. La delicatezza di sottili dettagli della modanatura attesta la maestria degli scultori. Dal punto di vista stilistico conviene avvicinare alla statuaria a volumi pieni di Xiangtangshan un Amitabha in marmo del 577, conservato a Toronto presso il Royal Ontario Museum [fig. 58]. Il corpo di cui si indovinano le lievi curve sotto il vestito, la testa in un perfetto tuttotondo, le pieghe di un delicato drappeggio sembrano una sintesi delle ricerche estetiche del tempo. Una lieve stilizzazione geometrica delle masse annuncia le più belle creazioni dell’epoca dei Sui. Benché misuri appena circa un metro di altezza questo buddha possiede una notevole forza monumentale. Gli scultori dell’epoca dei Qi del nord elaborano anche un tipo particolare di bodhisattva caratterizzato da forme geomet-

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riche, dall’espressione piena di interiorità e da un agghindamento sontuoso [fig. 61]. Questo canone resterà in voga fino al principio del vii secolo. Non pochi bodhisattva, a detta di alcuni specialisti, sono databili tanto all’epoca dei Qi del nord quanto all’epoca dei Sui. È il caso di un impressionante bodhisattva in parte policromo conservato presso il Cleveland Museum of Art [fig. 60]. I suoi gioielli, estremamente vari per forma, sono scolpiti in forte risalto. La proliferazione di collane e pendagli preziosi agganciati alla vita è di ispirazione indiana. L’abito, come quello del buddha di Toronto [fig. 58], dal drappeggio semplificato e stilizzato, dà forza alla ieraticità che emana dalla sua persona. Nel 1996 vennero portate alla luce a Qingzhou nello Shandong più di quattrocento sculture spezzate o gravemente danneggiate forse a seguito di terremoti. Esse sarebbero state sepolte nel 1004 da monaci viaggiatori che le avrebbero scoperte profanate nel tempio di Longxing. Queste opere offrono un panorama continuo della statuaria cinese dalla dinastia dei Wei del nord fino al principio della dinastia dei Song del nord. Un grande numero risale alla seconda metà del vi secolo, le meglio riuscite all’epoca dei Qi del nord [fig. 62]. Alcune hanno conservato la policromia [fig. 63]. La loro lieve stilizzazione ne rafforza l’interiorità mistica. I Zhou del nord (556-581) svilupparono un canone originale, brevilineo ma imponente, caratterizzato dalla prominenza del ventre e dalla

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53. Amitabha in predicazione, grès, 570 circa. Washington, The Freer Gallery of Art (provenienza: Xiangtangshan, grotta n. 2, Hebei).

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curvatura estrema.

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I Sui e i primi decenni (618-843) dei Tang

54. Stele, grès, 557. Zurigo, Museo Rietberg (provenienza: Nanyansha, Henan).

Dopo più di tre secoli di divisione si assiste, a partire dal 553, a una concentrazione del potere politico che sfocia nel 589 nella riunificazione completa della Cina da parte della dinastia Sui (581-618). Questo periodo relativamente breve può essere però difficilmente separato dall’epoca dei Tang (618-907). Il buddhismo continua a godere della protezione imperiale. Wendi (regnante 581-600), il primo sovrano dei Sui, si proclama cakravartin, il monarca ideale delle concezioni buddhiste. Sul piano artistico l’epoca dei Sui appare interlocutoria: l’estetica geometrizzante fino all’astrazione propria dei Qi del nord prosegue, ma in certe opere si annuncia l’arte maestosa e decorativa dei Tang. È tipica di questo mutamento una grossa statua di Avalokitevvara, alta quasi 2,50 metri di altezza, conservata presso il Museum of Fine Arts di Boston, creata intorno al 580, ossia negli anni dell’avvento della dinastia [fig. 64]. Fu scoperta nel 1909 non lontano da Xi’an, nella cinta muraria del tempio di Gushifosi. Si è ipotizzato che questo monastero sorgesse sull’insediamento di un celebre santuario antico, il Qinglongsi, fondato nel 582 poco più a ovest. Il corpo allungato, la prominenza del ventre secondo la moda estetica in auge presso i Zhou del nord, la naturalezza della posizione delle braccia e dei gesti delle mani, la ricchezza e la varietà della gioielleria, la morbidezza dei drappeggi e la stilizzazione del viso fanno di questo pezzo uno dei grandi capolavori della statuaria cinese. Da notare il piedistallo cubico, ornato agli angoli da piccoli leoni, che sostiene un ampio fiore di loto con due fila di petali sottostante i piedi del bodhisattva. La medesima eleganza caratterizza i piccoli bronzi [fig. 65], come pure le statue in terra secca e le decorazioni murali eseguite nello stesso periodo a Dunhuang. La più parte delle immagini di buddha continua l’arte epurata dei Qi del nord con monumentalità e stilizzazione ancora maggiori. La colossale statua di Amitabha, datata al 585, conservata a Londra presso il British Museum, ne costituisce un esempio. Realizzata in marmo micaceo, misura più di 5,50 metri di altezza [fig. 67]. Due bodhisattva, alti oltre 3 metri, oggi presso il National Museum di Tokyo, facevano in orig-

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ine da cornice al buddha dell’occidente. L’inguang, nel sieme proviene dal tempio Chong­ villaggio di Hancui nella provincia dello Hebei, celebre per le cave di marmo bianco. Le mani, scomparse, erano fissate con tenoni in legno. È verosimile che la mano destra eseguisse il gesto della assenza di timore e la sinistra quello del dono. In Cina la combinazione di questi due

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gesti (yin) è chiamata laiyin (benvenuto), e sostituisce spesso il gesto dell’insegnamento nella iconografia buddhista dell’Estremo Oriente. Una notissima statua acefala in marmo, conservata presso la Freer Gallery of Art di Washington, partecipa dello stesso gusto estetico, geometrico, che in questo caso riduce il corpo a un semplice monolite [fig. 66]. Il mantello monastico, che copre interamente il corpo, possiede una raffinata decorazione in lieve stiacciato, particolarmente complesso, ripartita in nove gruppi compositivi. C’è chi ha paragonato l’originale ornamento ai ricami che potevano decorare abiti liturgici. L’assieme evoca i vari strati del mondo e consente di riconoscere nella divinità Varocana, il buddha supremo di carattere cosmico, di cui la statua è una delle raffigurazioni più antiche in Cina. Sulle spalle e sul petto appare il paradiso dei Tusita. Maitreya, in aspetto di bodhisattva, troneggia nel padiglione principale. Il monte Sumeru, con intorno due serpenti giganti affiancati da due immensi asura, forma un asse centrale. A metà del corpo si nota una città, varie architetture e un cavallo, immagine forse delle passioni. Al di sotto, devata e monaci rendono omaggio a uno stupa di tipo indiano. Completano la scena due divinità induiste: Viva su un bufalo e Karttikeya su un pavone. All’altezza delle ginocchia gli elementi raffigurati con aspetto antropomorfo sono seduti sotto alberi. Più in basso si dispiega una scena di giudizio negli inferi. Le spedizioni militari dell’imperatore Yangdi (605-617) e il lusso sfrenato della corte rendono necessario aumentare la pressione fiscale, e per compiere alcune grandi opere si ricorre all’istituto della coscrizione. Ciò a partire dal 615 innesca una serie di rivolte in vari luoghi dell’Impero. Nel 617 rivoltosi sotto la guida di Li Yuan, un aristocratico originario dello Shanxi, conquistano la capitale Chang’an. Nel 618 Li Yuan fonda la propria dinastia, i Tang, riprendendo il nome di una antica famiglia regnante. Per durata, importanza culturale e forza civilizzatrice il regno dei Tang costituisce uno dei periodi classici della civiltà cinese. Questo lungo periodo si può suddividere in tre: gli inizi, corrispondenti al massimo splendore della dinastia (618-755); quello centrale, caratterizzato da mutamenti di mentalità (763-843); gli ultimi decenni (843-907). Il primo periodo è di gran lunga il più brillante. Il potere imperiale si poggia al contempo su un’aristocrazia, in parte di origine nomade ma assai diffusamente sinizzata, e su un esercito di funzionari reclu-

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55. Testa di buddha, grès 570 circa. Zurigo, Museo Rietberg (provenienza probabile: Xiangtangshan, Hebei). 56. Testa di dvarapala, grès, 570 circa. Kansas City, William Rockhill Nelson Gallery of Art (provenienza: Xiangtangshan, Hebei). 57. Mostro atlante, grès, 570 circa. Washington, The Freer Gallery of Art (provenienza: Xiangtangshan, Hebei).

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tato attraverso concorsi, che fa girare gli ingranaggi di una amministrazione complessa, in particolare a partire dal regno della imperatrice Wu Zetian (681-704). Chang’­an, al tempo una delle città più importanti al mondo, conta più di un milione di abitanti. Il suo splendore riflette una solida prosperità economica che permette il raddoppiamento della popolazione in un secolo. In politica estera un sapiente gioco di alleanze contiene la spinta dei barbari del nord. Alcune spedizioni militari assicurano la conquista dell’Ordos, della Mongolia meridionale, e, sotto il comando dell’imperatore Taizong (regnante 627-649), del bacino del Tarim. Esse pongono le piste carovaniere della Via della Seta sotto controllo cinese. La pacificazione dei confini occidentali e l’introduzione di una nuova moneta in argento innescano uno sviluppo senza precedenti del commercio internazionale e delle città mercantili. La classe dirigente consuma numerosi prodotti esotici. Importanti comunità straniere, sogdiani, iraniani, e uiguri in special modo, abitano interi quartieri delle grosse città, prime fra tutte Chang’an, la capitale. Luoghi di culto specifici fanno sì che essi possano praticare la loro religione: cristianesimo nestoriano, mazdeismo, manicheismo, giudaismo e islamismo.

58. Amitabha, marmo bianco, 577. Toronto, Royal Ontario Museum, collezione Georger Crofts (provenienza: Cina settentrionale). 59. Stele, grès, 551. Philadelphia, The University of Pennsylvania Museum. 60. Avalokitevvara, grès con tracce di policromia, 575-600 circa. Cleveland, The Cleveland Museum of Art (provenienza: Cina settentrionale). 61. Testa di bodhisattva, marmo nero, seconda metà del vi secolo, New York, The Metropolitan Museum of Art (provenienza: Cina settentrionale). 62. Testa di Buddha, grès, 570 circa. Museo di Qingzhou, Shandong. 63. Bodhisattva, grès con tracce di policromia, 570 circa. Museo di Qingzhou, Shandong.

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64. Avalokitevvara, pietra, 580 circa. Boston, The Museum of Fine Arts (acquisizione fondo Francis Bartlett; provenienza: Gushifosi, dintorni di Xi’an, Shanxi).

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Il primo periodo della dinastia segna l’apogeo del buddhismo in Cina. Si tratta di un periodo dominato dalla personalità del celebre religioso Xuanzang (602-664) il quale, rinnovando le imprese di antichi pellegrini come Faxian, si reca in India per visitare i principali luoghi sacri del buddhismo. Nel 629 lascia in segreto la Cina, contravvenendo a un ordine imperiale. Evitando Dunhuang si unisce alle carovane che costeggiano il limite settentrionale del bacino del Tarim. Questo interminabile viaggio verso le terre ad occidente, intramezzato da soste più o meno lunghe presso le varie corti principesche o presso monasteri rinomati per le attività intellettuali, dura sedici anni. Xuanzang ritorna in Cina seguendo la rotta meridionale che passa ai piedi del Kunlunshan. Nel 645 è accolto da trionfatore. Nel 649 l’imperatore Taizong lo nomina superiore del Daci’ensi («tempio della Grande Benevolenza«). Xuanzang consacra allora l’ultima parte della propria vita a presiedere un progetto di traduzione di numerosi testi sacri raccolti in occasione del suo peregrinare, anche grazie alla sua comprensione del sanscrito, conoscenza eccezionale per un cinese del tempo. L’immenso progetto porta alla messa a punto di settantaquattro testi per un totale di milletrecentotrentotto capitoli. Si trattò di un sistematico lavoro di traduzione rimasto insuperato in Cina per qualità e quantità. Ban Qi, discepolo di Xuanzang, redasse inoltre un lungo resoconto del viaggio del maestro, il Datangxiyu ji, Relazione sui paesi ad occidente all’epoca dei grandi Tang, prezioso documento storico e geografico. Nel xvi secolo questo testo venne parodiato in un celebre romanzo comico diventato un classico della letteratura cinese. Oltre al pellegrino cinese più famoso vanno altresì menzionati Xuanzhao, che viaggiò dal 658 al 665 circa; Xuantai (seconda metà del vii secolo); Buddhadharma (670 circa), che attraversò l’altopiano tibetano; il famoso Yijing (635-713), che, partito via terra attraverso l’Asia centrale nel 671, riguadagnò la Cina via mare nel 695; e Huichao, che tornò in Cina nel 721. Inoltre Zhihong raggiunse Sumatra verso il 740 e Wukong compì un lungo periplo dal 751 al 790. Altri pellegrini sono restati senza nome. Per contro è documentata la presenza a Chang’an di eruditi indiani. Molti di loro dispensarono insegnamenti presso il tempio Daxingshan durante la prima metà dell’viii secolo. Nel buddhismo cinese del tempo convivono a stretto contatto scuole le cui teorie filosofiche sono molto di-

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65. Amitabha in predicazione fra due assistenti, bronzo dorato, 593. Boston, The Museum of Fine Arts. 66. Vairocana, marmo, epoca dei Sui. Washington, The Freer Gallery of Art. 68

versificate. Alcune si riagganciano direttamente a correnti indiane. Così quella creata da Xuangzang e da un discepolo, la scuola Faxiang («della particolarità delle cose«), equivalente cinese della scuola degli Yogacara, caratterizzata da un estremo «idealismo«. Del Daci’ensi, fondato nel 647 da Taizong in memoria di sua madre, l’imperatrice Wende, sopravvive un solo edificio di epoca Tang: la pagoda della Grande Oca, Dayanta, nome popo-

lare della pagoda dei Sutra, oggi Jingta, che risale al 652, costruita per ospitare i testi portati dall’occidente da parte di Xuanzang [fig. 68]. Dal 701 al 705 fu sottoposta a riparazioni e i piani della torre furono elevati a dieci. Da quando nel x secolo incorse in un incendio, la torre non supera i sette livelli al di sopra della base. L’interno vuoto facilita la disposizione di scale e mobilio per la conservazione di libri. L’esterno, molto sobrio, si presenta come sovrapposizione di uno stesso modulo riprodotto in scala progressivamente ridotta separata da un semplice gioco di modanature. Pilastri scandiscono i muri, aria e luce entrano nell’edificio da aperture a metà dei lati. Questo tipo di pagoda doveva essere diffuso nella Cina settentrionale nei secoli vii e viii, come testimonia la Xiaoyanta («pagoda della Piccola Oca«), datata al 703, unica delle vestigia del monastero di Daxianfu, fondato dalla imperatrice Wu Zetian alla morte dell’imperatore Gaozong nel 684. Da ricordare anche le pagode dello Baitasi e dello Xingjiaosi. La corte destinò pesanti investimenti alla costruzione di istituzioni monastiche sontuose, valorizzate da prestigiose opere d’arte e da pitture murali eseguite da artisti famosi, quali Wu Daozi (690-760 circa). È tuttavia difficile disegnare un panorama dell’architettura monastica durante le epoche delle Sei Dinastie, dei Sui e dei Tang, in quanto le costruzioni sono scomparse tutte eccetto una. Si sa però che con il passare del tempo gli edifici si ripartiscono secondo un asse sud-nord, seguendo una simmetria sempre più rigorosa che nell’viii secolo sarà la regola assoluta e che sotto varie forme continuerà fino ai nostri giorni. I regni di Taizong, di Gaozong (regnante 650683), di Zhongzong (regnante 684-710) e di Ruizong (regnante 710-712) sono caratterizzati da un attivo mecenatismo religioso. Prolifici laboratori artistici eseguono abbondanti raffigurazioni sacre e oggetti liturgici prodotti con le tecniche più varie. È grazie alla statuaria, meglio conservata, che si può abbozzare un panorama virtualmente completo della estetica del tempo. Il Fengxiansi di Longmen costituisce una realizzazione particolarmente ambiziosa [fig. 69]. Commissionato da Gaozong e portato a una parziale edificazione fra 672 e 673, il santuario fu finalmente consacrato nel 676 in presenza della corte al completo e in particolare della imperatrice Wu Zetian, la cui generosità aveva permesso di condurre a termine l’ultima fase dei lavori. Un immenso gruppo scolpito nella parete rocciosa raffigura Vairocana, alto più di

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15 metri, attorniato da due arhat, due bodhisattva, due lokapala e due guardiani. L’assieme era un tempo protetto da una grossa sala ipostila, di cui sono ancora bene visibili i buchi atti a fissare l’intelaiatura nella roccia. Il sistema di illuminazione antico, assicurato certamente da imposte situate nel tetto chiuse da divisori traforati e dalle fiaccole portate dai fedeli, doveva produrre un effetto pieno di religiosità e mistero ben diverso da quello della odierna luce del giorno diretta. La monumentalità delle statue, magnificata dalle dimensioni volontariamente ridotte dell’edificio, e l’affinamento delle loro forme, dovuta alla penombra volta a esaltare la sacralità del luogo sono effetti estetici andati parimenti persi per sempre. Dal punto di vista stilistico il Fengxiansi presenta i principali caratteri della statuaria Tang nella sua maturità. Il buddha, particolarmente maestoso, è seduto su di un trono a blocchi assemblati dalle ampie proiezioni. Malgrado le mutilazioni ancora si intravedono le pieghe del mantello monastico, i cui larghi smerli ne mascherano la parte superiore. Solo lo sguardo imbevuto di una condiscendenza quasi imperiale anima il viso

impassibile. I corti ciuffi della capigliatura, ripartiti simmetricamente alla maniera delle statue centrasiatiche, e il mantello a pieghe larghe e piatte, indirettamente derivate dall’arte di Mathura, sono elementi ugualmente di origine straniera, ma del tutto assimilati. Lo stesso discorso vale per i bodhisattva, raffigurati proseguendo il canone e la ricerca artistica dei Qi del nord, dei Zhou del nord e dei Sui. Come i loro predecessori essi continuano a essere agghindati da catenelle e gioie varie miste a fusciacche. Il torso nudo e i pettorali ben disegnati esaltano la corporeità. Un ancheggiare molto lieve li ricollega tramite intermediazioni varie all’arte indiana. La testa, relativamente grossa rispetto al corpo, occhi pieni e mento leggermente pesante, collo segnato da parecchie pieghe di bellezza costituiscono delle caratteristiche del tempo che diventeranno motivo convenzionale, persino abusato. I lokapala e i guardiani aquisiscono due altre particolarità: un senso del movimento realistico e un naturalismo espressivo reso tramite una muscolatura ipertrofica del torso e l’aspetto irato di alcuni volti. La direzione effettiva degli affari (681), la reg-

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67. Amitabha, marmo bianco, 585. Londra, The British Museum (proveneienza: Chongguang, Hancui, Hebei).

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genza di fatto (684) e poi il governo personale di Wu Zetian (regnante 690-704) segnano uno degli apogei del buddhismo in Cina. L’imperatrice, con l’appoggio del clero buddhista e dei letterati selezionati dai concorsi, entra in conflitto con la vecchia aristocrazia sinoturca. L’annalistica ha documentato che ella fece perseguitare i membri della famiglia imperiale dimenticando gli aspetti positivi del suo regno. La reazione fu così estremistica che non resta molto di un mecenatismo di inimmaginabili dimensioni, caratterizzato in particolare da colossali statue in metallo. È opportuno dunque affidarsi alla grotta del Kanjingsi, scavata nel pendio della gola a Longmen, sulla sponda orientale del fiume Yi, di fronte al sito rupestre principale. Un soffitto che raffigura un grosso loto fiorito e apsaras occupa uno spazio alto all’incirca dieci metri. Un ampio gruppo compositivo si dispiega nella parte bassa della parete. Esso raffigura una coorte di ventinove arhat [fig. 70]. Le pose e le espressioni più o meno violente conferiscono a ciascuno di loro una marcata individualità. Il tema degli arhat, che diventerà uno dei temi convenzionali dell’arte

cinese, è qui trattato una delle prime volte, ma in maniera monumentale e molto espressiva. Il marcato senso estetico dell’epoca dei Tang, elaborato già nei primi anni della dinastia e magistralmente illustrato a Longmen, durerà tre secoli, costituendo poi un repertorio iconografico e stilistico ricorrente fino al xix secolo. Altri complessi architettonici, che hanno conservato l’originaria policromia, rendono meglio giustizia a questa arte sontuosa. È il caso di numerose grotte di Dunhuang o di Maijishan (Gansu). Le statue realizzate in terra seccata e dipinte secondo le tradizioni centroasiatiche conferiscono alle divinità buddhiste un aspetto quasi realista [figg. 71-72]. I bodhisattva, in pose affettate, hanno corpi di una grazia effeminata. Lo stesso vale per molti bronzi [fig. 73]. I lokapala indossano armature ispirate alle corazze davvero in uso. Esse nelle epoche seguenti saranno imitate senza tenere conto della evoluzione degli armamenti. I personaggi, raggruppati in nicchie, formano vere e proprie scenografie, un poco alla maniera indiana [fig. 72]. Dopo essere stato abbandonato per circa un secolo il sito rupestre di Tianlongshan conosce

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con i Tang una intensa ripresa delle attività. La statuaria testimonia rinnovati contatti con l’India settentrionale, in particolare per quanto riguarda la resa dei corpi, animati da impercettibili palpitazioni delle fluide muscolature, e nel delicato sorriso, eco lontana dell’estetica gupta [fig. 74]. Le grotte, saccheggiate nel 1923, non forniscono che una pallida idea del passato splendore. Alcune vecchie fotografie tuttavia permettono di evocare la loro integrità di un tempo. Un bodhisattva fotografato da Osvald Sirèn nella grotta n. 14 sembra spuntare dal muro. Il corpo agile in tripla flessione poggia sulla gamba sinistra leggermente piegata. Una lunga fascia gonfiata dal vento ricade con eleganza. La grotta n. 17, risalente al 750 circa, presenta un gruppo di bodhisattva seduti in posizione di rilassamento, attenti al sermone del Buddha. I troni, ricoperti di un drappo delicatamente traforato, li isolano e danno loro una maestosità maggiore. I visi tondi ma non paffuti hanno la grazia giovanile dei loro corrispettivi indiani, da eterni adolescenti. Una produzione particolarmente abbondante e molto diversificata iconograficamente segna l’viii secolo. Gli insegnamenti delle scuole monastiche sottendono il complesso dell’arte sacra senza che si possa sempre riagganciare a una precisa corrente le raffigurazioni. Abbiamo già ricordato i legami fra la scuola Faxiang e la corte al tempo di Zhongzong. Fazang (642-712), un discepolo dissidente di Xuanzang, fonda la scuola Huayan («dell’ornamento fiorito«) che riconosce come testo fondamentale lo Avaksaka sutra. Egli non riesce però a convincere l’imperatrice Wu Zetian della bontà della propria predicazione. La scuola Jingtu («della Terra pura«), fondata dal monaco Huiyan alla fine del iv secolo, costituirà il movimento religioso più attivo sotto i Tang. La credenza nella Terra pura di Sukhavati si fonda su tre testi: le versioni breve e lunga del Sukhavativyuha sutra (Sutra della Terra pura di Sukhavati) e l’Amitayurdhyana sutra (Sutra della contemplazione di Amitayus). I maestri Daochuo (562-654) e Shandao (613681) sviluppano le pratiche devozionali legate al culto di Amitabha. Dunhuang offre un panorama completo dell’arte buddhista dei Tang. I grossi ornamenti murali, benché di fattura provinciale, e una parte dei rotoli trovati nel nascondiglio adiacente la grotta n. 17 (Pelliot, n. 163b) rievocano per noi moderni le grandiose realizzazioni dei templi della capitale, scomparse per sempre.

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La Terra pura Sukhavati è un tema ricorrente. Le composizioni obbediscono a codificazioni iconografiche omogenee eppure presentano una sorprendente varietà di maniera. Una delle più significative è conservata nella grotta n. 172 (Pelliot, n. 33 [fig. 76]). Amitabha in predicazione troneggia al centro innanzi al proprio palazzo, circondato dai due assistenti, Avalokitevvara e Mahasthamaprapta, e da ventisei bodhisattva e accoliti di secondo ordine. Avanti a loro si estende lo stagno dei sette gioielli dove i credenti sinceri rinascono sotto l’aspetto di neonati dal cuore di loto d’oro. Su di una terrazza un’orchestra e danzatori accolgono un nuovo arrivato, motivo ricorrente di questo genere di iconografia. Amitabha, Avalokitevvara e Mahasthamaprapta sono raffigurati più volte, segnatamente su ciascuna delle terrazze laterali in primo piano, in quanto Amitabha è presente in ogni punto del suo paradiso come i riflessi delle facce di una pietra preziosa. Il fiore che ospita coloro che rinascono si aprirà più o meno rapidamente in funzione delle virtù praticate nella vita precedente, e il loro soggiorno a Sukhavati sarà più o meno lungo, potendo durare anche parecchi kalpa ma conducendo tutti alla liberazione dal ciclo causale. Ai lati, gruppi compositivi verticali contengono la storia del re Bimbisara e del figlio ribelle Ajatavatru. La regina Vaidehi, madre del principe, desiderosa di rinascere in un luogo in cui il dolore sia sconosciuto, ebbe sedici visioni che descrivono i mezzi per avere accesso alla Terra pura di Sukhavati. Secondo la tradizione queste visioni sono all’origine del culto. La grossa composizione della grotta n. 172, come quelle di altre grotte risalenti all’viii secolo (la n. 148, ad esempio) accosta i toni verdi e blu seguendo una precisa armonia ideata da due celebri pittori, Li Sixun (651-716) e il figlio Li Zhaodao. In questi vasti panorami, Amitabha è tanto maestoso quanto il grosso Vairocana di Longmen, e i bodhisattva posseggono la grazia un poco affettata in quest’epoca abituale. Altri culti di Terre pure si sviluppano sul modello di Sukhavati. Il più celebre glorifica Abhirati, «Piacere supremo«, anche chiamata Vai­du­ryanirabhasa, in cinese Jing liuli, la Terra pura di Bhaisajyaguru, il buddha della medicina. La sua popolarità è dovuta al monaco Yijing (635-713). Nella grotta n. 148 (Pelliot n. 10) una immensa composizione raffigurante Abhirati riprende, adattandoli, la maggior parte dei temi di Sukhavati [fig. 75]. I bodhisattva Suryaprabha e Candraprabha assistono il bud-

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68. Dayanta, 652. Xi’an, Shanxi. 69. Fengxiangsi (particolare), 672-876. Longmen, Henan.

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dha principale alla maniera di Avalokitevvara e Mahasthamaprapta con Amitabha. Numerosi piccoli bronzi ex voto o componenti di cappelle domestiche si ispirano allo stesso genere iconografico [fig. 78]. Molti dipinti ritrovati nel nascondiglio della grotta n. 17, analogamente, raffigurano un bodhisattva che conduce una persona deceduta verso una Terra pura. Uno di questi dipinti [fig. 77], conservato a Londra presso il British Museum, porta l’iscrizione Yinla pu («bodhisattva guida di anime«). Benché il nome della divinità non sia preciso in proposito, malgrado l’assenza del buddha dell’Occidente nella capigliatura, è plausibile, per via del loto tenuto nella mano destra, che si tratti di Avalokitevvara. Un’altra scuola ebbe enorme successo, specie presso la corte. Un monaco indiano originario di Orissa, Vubhakarasikba (637-735), giunse in Cina nel 716. Su incarico dell’imperatore Xuanzong (regnante 712-756) egli tradusse dal

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sanscrito, fra altri libri, il Mahavairocana sutra, testo fondamentale del buddhismo tantrico. Altri due missionari, l’indiano Vajrabhodi (671-741), giunto in Cina nel 719, e il singalese Amoghavajra (705-774) impiantarono nella capitale questa forma di buddhismo, dai cinesi chiamata Zhenyan. La sontuosità dei due templi principali di Chang’an, il Daxingshansi e il Qinglongsi, e la bellezza delle cerimonie che vi si celebravano attirarono rapidamente le protezioni degli aristocratici. Il ricorso agli esorcismi, in particolare per ottenere successi militari o la pioggia, erano particolarmente apprezzati da una parte delle élite e valsero allo Zhenyan l’attivo sostegno di molti imperatori. L’insegnamento di questa scuola si incentra su due raffigurazioni simboliche complementari che raccolgono intorno a Mahavairocana, considerato come suprema divinità, un alto numero di dei esoterici iconograficamente complessi. Solo la filiazione giapponese della scuola, lo Shingon, ha conservato alcuni antichi esemplari di questi mapdala, andati perduti in Cina. Scavi eseguiti fra 1952 e 1959 dove sorgeva lo Anguosi di Chang’an, antica residenza del futuro imperatore Ruizong convertita in tempio, hanno però

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drappeggi modellano con delicatezza il corpo dalle forme stereotipe. Un torso più vigoroso, conservato presso il Cleveland Museum of Art, presenta una iconografia maggiormente esplicita. La gioielleria complessa e variata sottolinea la maestà del personaggio. L’ultima scuola importante, il Chan, per il suo rifiuto delle teorie legate all’ottenimento e al trasferimento dei meriti, non giocò alcun ruolo nell’arte dei Tang. Essa impregnerà invece fortemente una zona di estremo interesse della creazione artistica nel periodo che va dalle Cinque Dinastie ai Song.

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portato alla luce alcune statue in marmo bianco provenienti da una raffigurazione simbolica tridimensionale che, nelle sue condizioni originarie, doveva essere particolarmente impressionante. Un vidyaraja, forse un aspetto semplificato di Trailokyavijaya, scolpito verso il 760, presenta ancora tracce di doratura [fig. 79]. La violenza gestuale, l’espressione irata del volto e la bella muscolatura del torso fanno di questa rimarchevole opera uno dei rari capolavori della scuola Zhenyan giunti fino a noi. La scuola era attiva principalmente nella capitale con scarsa diffusione in provincia. A Dunhuang essa non ispira alcuna decorazione monumentale dell’epoca dei Tang e la sua presenza resta secondaria nelle documentazioni grafiche conservatesi. Una delle sue particolarità, come nelle scuole tantriche degli altri paesi asiatici, è l’utilizzo di specifici oggetti rituali. Campana (ghapta) e «fulmine-diamante« (vajra) costituiscono i due strumenti essenziali del culto [fig. 81]. La scuola dei segreti (Mizong) costituisce una creazione originale dell’Estremo Oriente. Benché la nascita preceda l’epoca dei Tang, è nei secoli vii e viii che conosce uno sviluppo

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70. Arhat, 690-704. Longmen, Henan, grotta del Kanjingsi. 71. Arhat, bodhisattva e guardiano, terra seccata policroma, viii secolo. Dunhuang. Gansu, grotta n. 45. 72. Buddha, arhat e bodhisattva, terra seccata policroma, epoca dei Tang. Dunhuang, Gansu, grotta n. 328. 73. Avalokitevvara, bronzo dorato, fine vii secolo. San Francisco, The Asian Museum of Art.

senza precedenti. Il suo testo fondamentale è il Saddharmapupdarika sutra, tradotto da Kumarajiva nel 406. Huisi (515-577) e Zhiyi (538-597) sviluppano una dottrina che postula l’esistenza negli insegnamenti buddhisti di una gerarchia in cinque gradi più o meno complessi, ciascuno dei quali corrisponde ai sermoni tenuti dal buddha Vakyamuni durante un decennio. Venivano così indirettamente giustificate in un medesimo sistema logico le varie scuole buddhiste, compresa la loro fase esoterica. Zhiyi si ritirò nella provincia dello Zhejiang sul monte Tiantai («della Terrazza celeste«), nome che pronunciato alla giapponese, Tendai, servì a designare la scuola in Giappone. La Mizong assegna grande importanza al culto dei bodhisattva. Il ventiquattresimo capitolo del Saddharmapupdarika sutra descrive Avalokitevvara sotto il suo aspetto Samantamukha («che fa fronte ovunque«), epiteto riferito senza dubbio agli Avalokitevvara a undici teste (Ekadavamukha), frequenti sotto la dinastia Tang. Una stele in pie­tra proveniente forse dal tempio Guang­zhai di Chang’an databile al primo quarto dell’viii secolo raffigura appunto Avalokitevvara Ekadavamukha [fig. 80]. Fini


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Numerose forme iconografiche erano parte comune del patrimonio culturale buddhista al di là dei vari orientamenti dottrinari. Conviene citare in primo luogo le raffigurazioni del Buddha. Alcuni rotoli provenienti dalla grotta n. 17 di Dunhuang in genere concepiti in coppie illustrano episodi delle vite anteriori di Vakyamuni o della sua ultima esistenza terrena [fig. 84]. Il loro formato verticale evoca i gruppi compositivi laterali delle vaste raffigurazioni murali. Lo stile, meno formale di quello dei grandi dipinti religiosi, li avvicina ad alcuni dipinti profani. Opere più ambiziose trattano i sermoni di Vakyamuni. È ad esempio il caso di un altro dipinto, scoperto nella grotta n. 17 e conservato a Londra presso il British Museum [fig. 82]. Al riparo di un baldacchino eretto sotto un albero avoka il Buddha elargisce i propri insegnamenti attorniato da sei discepoli e quattro bodhisattva. Si nota la piccola donatrice nell’angolo inferiore sinistro. Il sermone raffigurato è difficile da indovinare. Invece in un ampio ricamo, della stessa provenienza e oggi anch’esso al British Museum [fig. 83], la pila di piccole rocce dietro il Beato consente di situare la scena sul monte Grdhrakuta, il celebre picco dell’Avvoltoio vicino a Rajagrha. Fra i testi che Vakyamuni avrebbe lì rivelato il più celebre è senz’altro il

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77. Yinlupu, il bodhisattva che guida le «anime«, inchiostro e colori su seta, fine ix secolo. Londra, The British Museum (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu). 78. Bhaisajyaguru, bronzo dorato, fine vii secolo-inizio viii. Art Museum of San Francisco, The Avery Brundage Collection. 74. Testa di bodhisattva, grès, 700 circa. New York, The Metropolitan Museum (provenienza: Tianlongshan, Shanxi). 75. Abhirati, pigmenti su imprimitura, viii secolo. Grotta n. 148, Dunhuang, Gansu. 76. Sukhavati, pigmenti su imprimitura, viii secolo. Grotta n. 172, Dunhuang Gansu.

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Saddharmapupdarika sutra. Due arhat, Ananada e Kavyapa forse, lo attorniano. Altre divinità sono oggetto di una particolare devozione. L’iconografia raffigura spesso l’incontro fra Manjuvri e Vimalakirti, raccontato fra altre fonti nel Vimalakirti nirdevasutra (Sutra dell’Insegnamento di Vimalakirti), tradotto dal famoso Kumarajiva. Tra le numerose raffigurazioni del tema quella della grotta n. 103 di Dunhuang (Pelliot, n. 54) costituisce senza dubbio la migliore [figg. 85, 86]. Vimalakirti, un laico di Vaivali molto addentro la dottrina buddhista dotato di una grande eloquenza, si ammala ed è costretto a letto. Vakyamuni chiede che si vada a informarsi della sua salute. Dopo il rifiuto da

parte di Variputra e di Maitreya che temono di finire maltrattati dal temibile retore, è Manjuvri a fare visita al saggio. Durante un fecondo dialogo i due interlocutori rinunciano a definire il concetto di «vacuità« (vunyata). A proposito dell’assoluto Vimalakirti tace dimostrando in tale modo l’impossibilità di definire il supremo fondamento del buddhismo. L’iconografia tradizionale contrappone il bodhisattva seduto su un trono riccamente ornato a Vimalakirti steso sul proprio giaciglio al riparo di una tettoia. Samantabhadra, il bodhisattva spesso raffigurato insieme con Manjuvri, e Vaivravapa, il lokapala del continente del nord, sono oggetto di un fervido culto, e tuttavia il loro ciclo testuale e rituale assume importanza solo nel x secolo. Benché l’epoca dei Tang sia stata uno dei periodi migliori della oreficeria cinese restano poche testimonianze delle sontuose commesse fatte dal clero buddhista. Solamente qualche deposito nelle fondamenta consente di evocare la ricchezza e la varietà dell’abbondante mobilio cultuale dei monasteri. Le fondamenta del tempio Qingshansi, nel distretto di Lintong (Shaanxi), hanno ad esempio rivelato nel 1985 l’esistenza, fra altro, di un piccolo reliquiario a forma di bara, contenuto in un più grosso sarcofago, riccamente incrostato di pietre semipreziose

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[fig. 87]. Nella Cina antica si incontrano due tipi di reliquiario: delle cassette cubiche che si inscatolano le une nelle altre, oppure, come in questo caso, dei sarcofaghi miniaturizzati influenzati forse dai reliquiari a forma di bara attestati in Asia centrale. Le grandi persecuzioni (843-845) e le loro conseguenze La ribellione di An Lushan (755-763), sotto altri aspetti tanto disastrosa, non sembrerebbe avere minacciato il clero buddhista, i suoi beni o il suo dinamismo intellettuale. Nella seconda metà dell’viii secolo si assiste tuttavia al montare di una radicale opposizione al potere del clero, espressa in modo vieppiù vivace. Va detto che i monasteri si erano costantemente arricchiti. Esenti dalle imposte, essi possiedono proprietà immense incessantemente accresciute da donazioni, da lasciti e, nel caso dei più importanti fra loro, elargizioni statali. Godevano inoltre di una abbondante dote di mano d’opera. Alcune pratiche, quali la costruzione di «chiostri meritori«, artificialmente create dai grossi proprietari per eludere l’imposta fondiaria, oppure l’acquisto di terra nonostante il divieto proclamato per editto imperiale all’inizio della dinastia, rafforzano ulteriormente il potere economico del clero. L’istituzione di «tesori inestinguibili«, sorta di capitale inalienabile in seno ai monasteri, fa sì che emergano delle vere e proprie attività bancarie. La compassione verso i poveri esposti alle pratiche usuraie induce gradualmente il clero a lanciare prestiti a tassi di interesse moderati. Alcuni monasteri assicurano anche vari servizi artigianali e commerciali, fungendo ad esempio da mulini. La grossa quantità di bronzo e di metalli preziosi accumulati sotto forma di statue e di oggetti cultuali diventa bersaglio di critiche. Nel 715 una grossa parte di queste opere viene confiscata, fusa e trasformata in moneta. Spariscono così numerose colossali statue in metallo fra cui quelle commissionate dalla imperatrice Wu Zetian, senza le quali è oggi arduo farsi un’idea precisa dell’arte buddhista cinese. Questo primo attacco ai beni del clero non ha paragoni con le persecuzioni perpetrate nel ix secolo. Poco a poco emerge una corrente intellettuale fautrice del ritorno alle fondamenta della tradizione classica quale unica fonte del pensiero. Si tratta di un movimento, chiamato «stile antico« (guwen) dal nome di una forma di scrittura arcaica messa in voga da Liu Zong­yuan

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79. Trailokyavijaya (?), marmo bianco, 760 circa. Xi’an, Museo della provincia dello Shaanxi (provenienza: Anguosi, Chang’an).

(773-819), che preannuncia il neoconfucianesimo dell’epoca dei Song. Alcuni polemisti, quali Han Yu (768-824), sistematizzano in nome di una certa ortodossia filosofica numerose critiche già formulate in maniera diffusa. Per loro il buddhismo, religione straniera, è antinazionale in ragione dell’impossibilità da parte dei monaci di portare le armi e della esenzione fiscale concessa ai monasteri. I religiosi inoltre, votati al celibato, non possono procreare. Le enormi somme consacrate alla costruzione dei luoghi di culto e il peso economico di un clero parassitario fanno del buddhismo un fardello rovinoso per la società. La dottrina buddhista è giudicata poco consona ai canoni della virilità. L’ampiezza del movimento antibuddhista porta alla proscrizione nell’843 da parte dell’imperatore Wuzong (regnante 841-846) dei culti stranieri. Il buddhismo, in un primo momento

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80. Avalokitevvara Ekadavamukha, grès, primo quarto dell’viii secolo. Washington, The Freer Gallery of Art (provenienza: Guangzhai, Shanxi). 81. Campanella, bronzo, viii secolo. Nara, Museo Nazionale.

risparmiato, viene colpito con una arbitrarietà sempre più accentuata (843-845). Si varano misure drastiche: destituzione dei monaci la cui religiosità sia da considerare falsa; confisca dei beni privati dei bonzi, giudicati illeciti in quanto contrari al voto di povertà; eliminazione dei culti buddhisti dalle cerimonie ufficiali. Seguiranno decisioni ancora più severe: laicizzazione in massa del clero, inventariamento dei beni sacri dei monasteri, confische delle terre, dei servi, delle monete e dei metalli preziosi. In meno di tre anni saranno demolite o abbandonate 40.000 cappelle, distrutti o trasformati 4.600 monasteri, secolarizzati 260.000 religiosi (su una popolazione totale che superava i 30 milioni) e 150.000 dipendenti dei monasteri verranno sottoposti alle coscrizioni di Stato e al fisco. Solo alcuni templi imperiali, serviti da un piccolo numero di ministri del culto,

sfuggiranno alla distruzione. Queste misure estreme costituirono una vera epurazione della vita spirituale. Esse miravano in verità al potere economico dei monasteri, non alla pratica religiosa. Per quanto un secondo imperatore chiamato Xuanzong (regnante 847-860) riveda la maggior parte delle ingiunzioni emesse dal suo predecessore, la Chiesa buddhista cinese non si riprenderà mai più da questi anni bui. Le classi colte cercheranno da allora il proprio avanzamento spirituale nel confucianesimo e nel taoismo. Tuttavia l’edificazione del più antico santuario cinese giunto fino a noi, il grande padiglione orientale del Foguansi, risale all’anno 857. Si trova presso il Wutaishan («monte dalle cinque cime«), dimora mitica di Manjuvri [fig. 88], e consta di sette navate, con un complesso gioco di mensole e leve a sostegno del tetto in cima [fig. 89]. L’oasi di Dunhuang, fino all’848 sotto controllo tibetano, si salvò dalle distruzioni. Le decorazioni e i dipinti portatili testimoniano un rinnovamento devozionale. Il Foshuo shiwangjing (Sutra dei dieci re), un testo apocrifo dei primissimi anni del x secolo, descrive i tribunali dell’aldilà e i supplizi subìti nell’altro mondo dai peccatori. La possibilità di trasferire meriti alle persone decedute e la ricerca di un intermediario, il bodhisattva Ksitigarbha, nei confronti di Yama, sovrano degli inferi, dà luogo a nuove raffigurazioni. Un grande rotolo risalente al 923, proveniente dalla grotta n. 17 e conservato a Parigi presso il Musée des Arts Asiatiques-Guimet, mostra così Ksitigarbha vestito da monaco, con il «sistro che libera i morti dai soggiorni oscuri« e la «gemma che esaudisce tutti i desideri« [fig. 90]. I giudici dei dieci tribunali, tutti incorniciati dal «bambino del Bene« e dal «bambino del Male« che tengono il registro delle buone e delle cattive azioni del defunto, occupano i lati del rotolo. I vari percorsi di reincarnazione figurano nella parte superiore della composizione. In basso il bodhisattva «che mostra il cammino« (Yinlu) precede una dama riccamente agghindata, senz’altro la persona deceduta per la quale si tiene una cerimonia di espiazione. Analogamente prende sempre più piede il culto del re-guardiano del nord, Vaivravapa. Questo dio guerriero, originario di Khotan, fu assimilato dal buddhismo, che fece di lui uno yaksa, ipostasi irata del dio della ricchezza. In Cina almeno dal vi secolo, Vaivravapa fu posto alla testa di altri tre lokapala di aspetto in principio indistinguibili, poi dotati di varietà iconografi-

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ca. A Vaivravapa si rivolgevano preghiere – lo fece ad esempio l’imperatore Xuanzong i (regnante 712-756) – affinché in battaglia desse l’aiuto delle sue legioni celesti. Prese gradatamente piede un ciclo testuale, rituale e figurativo ancora poco noto. Le immagini più complesse sono posteriori alle grosse persecuzioni. Così un rotolo proveniente dalla grotta n. 17, conservato a Londra presso il British Museum, raffigura il dio mentre attraversa l’oceano [fig. 91] accompagnato dalla sorella-sposa Mahavri Devi, dall’asceta Vasu e dai suoi più fidi generali. L’origine occidentale del dio è resa talvolta con una forma particolare del viso colorato in ampi aloni che evocano le tradizioni della pittura indiana. Accade così nella grotta n. 12 di Dunhuang (Pelliot, n. 116), ma anche in raffigurazioni di Vajrapapi irato che risalgono alla fine dei Tang. I regni di Xuanzong ii (regnante 874-860) e dei suoi successori furono segnati da una politica di restauro dei luoghi di culto. Nell’873 venne ad esempio ricostruita la pagoda del monastero Famen nel distretto di Fufeng nello Shaanxi occidentale. Il deposito delle fondamenta portato alla luce nel 1987 comprende centoventuno pezzi di oreficeria in oro e argento di varia forma. Tre serie di cassette estraibili dovevano servire a stornare l’attenzione di eventuali saccheggiatori. Una quarta serie nascosta in una nicchia conteneva la reliquia più sacra del tempio, una falange del dito del Buddha [fig. 92]. La scatola esterna era in legno di sandalo. I reliquiari interni, in metallo prezioso, sono incisi o incrostati con pietre semipreziose. Benché parte di una donazione imperiale e malgrado la sontuosità dei materiali, questi piccoli forzieri, come una statuina di bodhisattva trovata nel nascondiglio, sono meno curati di oggetti simili risalenti all’apogeo della dinastia. Lo stesso discorso vale per i pezzi di gioielleria profana, prodotti forse nella Cina meridionale, messi nel deposito di consacrazione. Sono comunque notevoli rari e delicati fiori in argento destinati ad abbellire un altare. L’apogeo della dinastia dei Tang corrisponde all’apogeo del buddhismo in Cina. Le persecuzioni del periodo 842-845 ne fiaccarono lo slancio intellettuale e in misura minore resero la sua arte sterile. Le grandi edizioni dei testi sacri, delle quali la più celebre resta la xilografia del canone buddhista del 972, non hanno una vera influenza sulla lenta formazione di un buddhismo popolare caratterizzato da pratiche fideiste volte a ottenere vantaggi immediati e

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dall’assorbimento di divinità taoiste. Il brusco arresto subìto dal buddhismo intellettuale sarà accentuato a partire dal xii secolo dall’emergere del neoconfucianesimo, vero e proprio sistema di pensiero ufficiale al quale aderirà la maggioranza delle élite. L’assenza di rinnovamento è particolarmente chiara nel campo artistico. La rapida successione di stili che caratterizza l’arte cinese dei secoli dal v all’viii volge al termine. Le forme «classiche« dei Tang serviranno d’ora innanzi come modello per la maggior parte delle raffigurazioni sacre. I loro schemi iconografici verranno però interpretati in funzione delle mode del tempo. In prospettiva i periodi delle Cinque Dinastie (907-960) e dei Song (960-1279) coincidono con lo sviluppo di tre grandi tendenze estetiche: la continuazione fedele dei canoni dei Tang, principalmente nei regni barbari sinizzati dei Liao (916-1125) e dei Jin (1125-1234), che occupano al tempo la Cina settentrionale; l’emergere di uno stile realista e finanche aneddotico nel meridione; infine l’esordio di un uni-

82. Buddha in predicazione, inchiostro e colori su seta, inizi viii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu).

17, Dunhuang, Gansu). 84. Episodi della vita di Vakyamuni, dall’alto in basso: Separazione del principe Siddhartha dallo scudiero Chandaka e dal cavallo Kapthaka; Partenza di Chandaka; Cinque messageri inviati da Vuddhodana alla ricerca del figlio, inchiostro e colori su seta, viii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu).

83. Buddha in predicazione sul picco dell’Avvoltoio, seta e tela, viii secolo. Londra, The British Museum (provenienza: grotta n.

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verso estetico specifico al buddhismo del Chan. Le corti barbare dei Liao e dei Jin protessero attivamente il buddhismo. Alcune sontuose opere d’arte frutto di tale mecenatismo sopravvivono. Nella provincia dello Hebei una grotta nelle colline a ovest di Yixian ospitava un gruppo di arhat in ceramica policroma alto più di un metro. Non sappiamo di quanti elementi constasse in origine questo assieme oggi disperso, in quanto più personaggi sono stati spezzati, a quel che se ne dice, in occasione del trasloco fuori della grotta. Si ignora anche la loro prima destinazione. È possibile infatti che gli arhat, concepiti in origine per un tempio di natura edile, siano stati collocati nel santuario rupestre di Yixian in un secondo momento. Sarebbe azzardato pure volere identificare tutti i personaggi. Uno dei più espressivi [fig. 93], conservato presso il Metropolitan Museum di New York, rappresenta assai bene questo intrigante gruppo. La tecnica della ceramica a vetrine piombifere di «tre colori« (sancai) è erede di un procedimento di epoca Tang. La

monumentalità delle dimensioni, la maestà delle pose e l’individualità dei tratti somatici sono altrettante caratteristiche derivanti dalla estetica dell’viii secolo. L’arte dei Liao spinge talora fino al parossismo le tendenze realiste dei secoli anteriori come testimoniano molte teste di arhat in lacca conservate presso i musei americani, segnatamente quella della William Rockhill Nelson Gallery of Art a Kansas City [fig. 94]. Numerosi bodhisattva in legno, talvolta di dimensioni maggiori di un essere umano, fabbricati in grosse quantità all’epoca dei Jin, perpetuano in maniera edulcorata certe tendenze dell’arte dei Tang. I pezzi che reggono il confronto, provenienti con certezza dalla Cina meridionale, sono rari. Si ignora se questo fenomeno sia il risultato del caso o il sintomo di uno stato reale della produzione. Il tipo meglio riuscito e largamente diffuso raffigura Avalokitevvara seduto in posizione di rilassamento in cima a Potalaka, l’isola che gli serve da dimora, da qualche parte nell’oceano meridionale [fig. 95]. Sembra di potere affermare che questa

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iconografia si ispiri al Gapdavyuha sutra, un testo tradotto tre volte in cinese fra il v e l’viii secolo. Queste statue, valorizzate da una vivace policromia e spesso da doratura, diventeranno uno dei modelli convenzionali dell’arte cinese per più di cinque secoli, ma non formano un insieme omogeneo. Si conoscono numerose varianti nelle proporzioni, nella forma del viso e nel modo di raffigurare i drappeggi a seconda dei periodi e verosimilmente anche a seconda delle tradizioni peculiari a ciascun laboratorio artigianale. Troviamo citati tale o talaltro aspetto dell’estetica dei Tang: maestosità e grandezza, o al contrario femminizzazione del corpo maschile ed eleganza quasi manierata. Alcuni rari santuari quale lo Huayansi (1038) a Datong presentano gruppi di statue in terra secca modellate e dipinte che continuano le scenografie di epoca Tang. A partire dal x secolo in Cina meridionale vengono prodotti piccoli bronzi particolarmente raffinati che raffigurano Avaloki­ tevvara seduto in posizione di rilassamento regale. Il più antico è stato scoperto nella pagoda del Wanfosi a Jinhua (Zhejiang). A queste due tendenze, realismo talora esacerbato e vero senso decorativo, il sud della Cina aggiunge un gusto originale per l’aneddotica,

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particolarmente avvertibile nei siti rupestri non lontani dalla città di Dazu (Sichuan), principalmente Beishan e Baodingshan. Quest’ultimo sito è organizzato attorno a un colossale buddha disteso della lunghezza di 31 metri (nicchia n. 11). Altorilievi compositivamente accorti moltiplicano i personaggi secondari e offrono scenografie più complesse rispetto ai loro modelli dell’epoca dei Tang. La nicchia n. 8 ospita una statua di Avalokitevvara sotto il suo aspetto Sahasrabhujasahasranetra («dalle mille mani e dai mille occhi«) che compassionevole rivolge alle creature lo sguardo dei mille occhi presenti sui palmi delle molteplici mani [fig. 96]. Questa originale iconografia, anello di congiunzione fra Mahayana e Vajrayana, venne introdotta dall’India in Cina all’inizio dell’epoca Tang. L’imperatore Taizong (regnante 763-779) darà riconoscimento ufficiale a questo culto. A una rigorosa ripartizione simmetrica degli arti in epoca Tang, come negli esemplari scoperti nel nascondiglio della grotta n. 17 di Dunhuang, si sostituisce qui una composizione di grande originalità nella quale le mani sono disposte in tutte le direzioni. Certi rilievi, fra gli altri quelli delle nicchie n. 15 e n. 17, trattano il tema dell’amore genitoriale e della pietà filiale, temi

85-86. Manjuvri e Vimalakirti, pigmenti su imprimitura, viii secolo. Dunhuang, Gansu, grotta n. 103. 87. Reliquiari, oro e argento incrosati, epoca dei Tang. Lanzhou, Museo provinciale del Gansu (provenienza: Jingchuan, Gansu). 98 97

88. Grande padiglione est, 857, Wutaishan, Shanxi, Foguangsi. 89. Sezione, particolare della fig. 88.

confuciani per eccellenza, mostrando il nuovo impulso della filosofia puramente cinese in un contesto buddhista. Un insolito senso aneddotico caratterizza queste scene, e lo stesso discorso vale per le visioni infernali (nicchia n. 21) e per i temi di vita pastorale (nicchia n. 30 [fig. 97]). Le persone e gli animali, disposti in maniera asimmetrica, sono colti nell’attimo spontaneo di gesti ed espressioni che contrastano con il carattere solenne delle raffigurazioni canoniche.

All’epoca dei Song del sud (1127-1279), la scuola del Chan conosce uno sviluppo senza precedenti. La corrente di pensiero ha una origine molto più antica e la tradizione la fa risalire allo stesso Vakyamuni. Essa sarebbe stata introdotta in Cina verso il 520 da Bodhidharma, un monaco indiano semileggendario. Ma soltanto nel vii secolo la nuova scuola assume visibilità. Il termine cinese Chan sarebbe derivato dal nome sanscrito dhyana («meditazione«). La scuola accorda il primato alla meditazione, che permette di ottenere in modo più o meno subitaneo il Risveglio. Essa rifiuta numerose teorie frequenti presso le altre scuole del Mahayana, ad esempio le speculazioni intellettuali, la lenta acquisizione dei meriti e il loro trasferimento alle persone morte, la scolastica che comporta lo studio dei testi canonici, il culto delle Terre pure, l’opulenza liturgica e il ritualismo. Il Chan esige un ritorno agli ideali di semplicità e povertà. Afferma che ciascuno possiede in se stesso la potenzialità di diventare «buddha«. Il rigetto di ogni ragionamento discorsivo, il confronto con temi di meditazione sconcertanti che provocano perplessità oppure il paradosso e i modi bruschi del maestro spirituale nei riguardi dei discepoli avrebbero innescato in questi ultimi un processo di intuizione spontanea della loro natura profonda. La scuola si divise in cinque correnti che conobbero una diffusione notevole sotto i Tang. Nell’xi secolo la corrente Linji ricrea una certa unitarietà. Sotto i Song, il Chan è diviso in due sole tendenze di pensiero: la Linji e la Caodong. I ritratti dei maestri spirituali ebbero un ruolo nella scuola del Chan ancora maggiore di quanto non avessero fatto nelle altre tradizioni. Alcuni di essi, portati in Giappone da zelanti discepoli, saranno conservati fino ai nostri giorni presso monasteri dell’arcipelago, come nel caso del ritratto del maestro Bukong (xiii secolo) ancora presso il Kozanji di Kyoto [fig. 98], oppure di quello di Wuzhun Shifan donato nel 1237 a Ennin, il fondatore del Tofukuji di Kyoto. Bukong è seduto su un seggio, dallo schienale alto, coperto da un drappeggio di broccato, le calzature avanti a lui su di un piccolo ripiano. Le mani in grembo nella posizione di meditazione sostengono una ruota. Su altri ritratti questi maestri cinesi hanno in mano altri strumenti liturgici: il lungo bastone destinato a colpire i discepoli assonnati, scacciamosche, etc. Opere del genere verranno imitate e adattate in Giappone a partire dal xiv secolo. Le pratiche intuitive che avevano luogo all’interno

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90. Ksitigarbha e i dieci giudici degli inferi, inchiostro e colori su seta, 983. Parigi, Musée National des Arts Asiatiques-Guimet (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu).

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delle comunità del Chan trovano corrispondenza nelle tecniche della pittura monocroma, che necessita concentrazione e rapidità di esecuzione. Shiko (x secolo), benché non sia provato che egli appartenesse al Chan, fu uno dei primi artisti a lavorare in questa nuova maniera. I temi che tratta possono essere considerati tanto appartenenti al Chan quanto buddhisti in senso tradizionale o taoisti. I suoi Due patriarchi che mettono in armonia il proprio spirito del National Mu­seum di Tokyo si ricollegano però all’estetica del Chan [fig. 100]. L’utilizzo di un pennello ruvido al fine di ottenere ampie striature e l’aspetto quasi caricaturale del viso del saggio e del muso dell’animale danno il senso di una esecuzione immediata, sotto l’impulso di una ispirazione improvvisa. All’epoca dei Song del sud una corrente del Chan di pittura monocroma «senza restrizione« (Yinpin) si sviluppa in maniera significativa nei monasteri che circondano la capitale Hang­ zhou, in particolare il Liutongsi. Fra le rare opere rimasteci, le più emblematiche sono conservate in Giappone. La vita dei «monaci-artisti«

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è poco conosciuta. Mu Qi, il più celebre, attivo intorno al 1269, fu il superiore del Liutongsi. Il Daitokuji di Kyoto conserva un suo trittico che raffigura Avalokitevvara in abito bianco fra una gru e dei gibboni [fig. 99]. Concepiti separatamente oppure in forma di un assieme fin dall’inizio, i tre pannelli a un primo sguardo incoerenti alla stregua di un aforisma del Chan, sono molto curati, il che non fa parte dello stile brillante della tecnica yipin. Il bodhisattva, sotto il suo aspetto femminilizzato, avvolto in un ampio mantello bianco è immerso in una serena meditazione. Egli contrasta con la gru, simbolo della longevità, dal collo ritto e il becco aperto, in moto, in piena attività e con la scimmia e il suo piccolo, simbolo nella iconografia cinese tradizionale della demenza umana. I due gibboni, stretti uno contro l’altro, guardano fissi lo spettatore, come sopraffatti da una sensazione d’angoscia. Liang Kai (1140-1210 circa), membro dell’Accademia imperiale e pittore famoso per avere ricevuto la agognata onorificenza della Cintura d’oro, si ritirò presso il Liutongsi, dove conob-

be Mu Qi. Le sue rare opere seguono stili vari. Il celebre Vakyamuni scende dai monti del National Museum di Tokyo, destinato alla corte, si inserisce nella pittura tradizionale dei Song senza però assecondare le convenzioni accademiche [fig. 101]. Lo stesso protagonista deriva da archetipi di epoca Tang. Il paesaggio con lo strapiombo di roccia e gli alberi che sulla sinistra si prolungano fuori del quadro mostra con forza preoccupazioni contemporanee. Il tema si riaggancia al buddhismo del Chan. Il futuro buddha scarnificato e irsuto, vestito con l’abito rosso degli eremiti, mette fine agli eccessi dei sacrifici ascetici e ha già in sé il germe del Risveglio. Il Sacerdote del Chan del Museo Nazionale del Palazzo di Taipei [fig. 102], eseguito probabilmente in occasione del soggiorno di Liang Kai presso il Liutongsi, è tipico della sua «maniera abbreviata«, sorprendentemente vivace e dotato di una forza di suggestione e una tendenza caricaturale ottenute con un semplice gioco di pennellate più o meno ricche di inchiostro. Come per le epoche precedenti scarse sono le

testimonianze del patrimonio edificato. Nel nord, nello Hebei, solo il monastero di Long­ xingsi (971) a Zhengding conserva fedelmente la pianta originale [fig. 105]. L’organizzazione simmetrica degli edifici, costruiti secondo un asse sud-nord costituito dalla fila di cortili che si era gradualmente fatta largo sotto i Tang, viene qui sistematizzata con grande rigore. Anche nella Cina nordorientale esistono parecchi edifici dell’epoca dei Liao, ad esempio lo Shanhuasi a Datong (Shanxi). La maggior parte di questi monumenti mescola innovazioni venute da sud, come i tetti fortemente ricurvi, a caratteristiche architettoniche puramente liao o jin, come le mensole che sostengono le tettoie, allo stesso tempo «beccatelli« e «bracci a ventaglio«. Le pagode che ci sono pervenute sono molto più numerose. Se ne conoscono una sessantina, che obbediscono a una tipologia variabile. Le forme in uso sotto le dinastie precedenti continuano, fra l’altro, nelle edicole a quattro porte che ospitano uno stupa o un pilastro (ting), nelle torri a piani sovrapposti (ta), di pianta quadrata o ottagonale, in legno e in

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fabbricano per la corte del locale regno di Dali delle statuette che raffigurano Avalokitevvara che compie i gesti della argomentazione e del dono [fig. 106]. Alcune di queste immagini protettrici, veri e propri talismani per la famiglia reale, sono conservate presso numerosi musei occidentali. Una di esse, presso la Freer Gallery of Art di Washington, figura su di un celebre rotolo prodotto per la corte dei Li posteriori nell’ultimo quarto del xii secolo. Su di essa è menzionato Zhenshen Guanshiyin («Guanshiyin dal vero corpo«), è accompagnata da un’aureola a forma di luna e si erge su di un loto che galleggia sull’acqua. Si tratta di una raffigurazione che corrisponde alla iconografia di Shuiyue Guanyin («Avalokitevvara con la luna nell’acqua«), attestata a Dunhuang all’epoca dei Tang. Lo stile di queste statuette non deve tuttavia alcunché all’arte cinese bensì alla estetica di Vrivijaya nella penisola malese. L’alta crocchia che ricade in grosse trecce, la doppia cintura, le pieghe laterali di una «fusciacca« annodata ai fianchi sono altrettanti tratti che richiamano alla mente l’arte dei Pallava dell’India meridionale. 106 103

mattone, con ogni piano fornito di un corridoio esterno per la circumambulazione – pagoda del tempio Beisi a Sizhou, costruita fra il 1131 e il 1162 [fig. 103] –, nelle costruzioni in pietra o mattone a piani multipli che imitano delle tettoie in legno e in tegole – pagoda del tempio Yunyan sulla collina Huqiu a Suzhou, risalente al 961. I Liao privilegiano l’uso del mattone. La pagoda del Tianningsi di Beijing non ha né scala né piani esterni, ma costituisce una sorta di monumento decorativo dotato di sculture particolarmente curate ai livelli inferiori. Si nota l’esistenza di torri costruite secondo tecniche architettoniche miste. Un nucleo in pietra è avvolto da parti esterne in legno, e l’insieme giustappone due momenti successivi di lavori ben distinti. La pagoda Feiying a Huzhou presenta ad esempio, intorno a un nucleo di epoca Tang, fasi realizzate sotto i Song del nord fra il 968 e il 975. Le pagode gemelle (Shuangta) del Lushanyuan a Suzhou, risalenti al 982 (?), sono le più antiche del genere che la Cina conservi [fig. 104]. Risultato di un raddoppiamento della pagoda coerente con l’evoluzione di ogni monastero buddhista esse si ergono a est e a ovest dell’asse mediano del tempio.

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Si assiste anche a innovazioni decorative sia nei materiali impiegati sia nella forma dei tetti. Da citare la pagoda del Youguosi di Kaifeng (Henan), l’antica capitale dei Song del nord (960-1127) interamente ricoperta di ceramica smaltata riccamente ornata di girali e di bodhisattva [fig. 107], oppure la pagoda di Ferro di Chong­juesi a Jining (Shandong), il cui corpo ottagonale è composto di metallo che riveste un’anima di muratura in mattone. Le tettoie fortemente ricurve agli angoli, una delle particolarità della architettura dei Song, sono ancora più accentuate sulle pagode della Cina meridionale. Lo Yunnan, a causa della posizione periferica rispetto alla cultura cinese e dei suoi rapporti privilegiati con l’Asia sudorientale, ha caratteristiche culturali originali. Nell’xi e xii secolo si

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91. Vaivravapa passa l’oceano, inchiostro e colori su seta, metà del x secolo. Londra, The British Museum (provenienza: grotta n. 17, Dunhuang, Gansu). 92. Reliquiario, oro e argento incrostati. Fufeng, Shanxi, Museo del Famensi (prima dell’873).

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eretto nel 1271 su disegno del nepalese Anige (1243-1306) è un esempio di questa nuova forma di stupa, lievemente rastremato nella sua parte inferiore e con un ampio parasole in rame sbalzato dorato [fig. 108]. Alcuni influssi nepalesi segneranno la fattura di numerosi bronzi delle dinastie Ming (1368-1644) e Qing (16441911). Altre correnti più autenticamente cinesi resistono. Alcune estese pitture murali ad esempio mostrano sottili modulazioni stilistiche dei canoni di epoca Tang. Parecchi provengono dallo Xinghuasi («monastero della Conversione gioiosa«) vicino Jishan (Shanxi meridionale). Esse sono state eseguite da Zhu Haogu e dal suo allievo Zheng Boyuan verso il 1298. L’iscrizione designa il maestro con l’espressione «Taizhao«, un titolo di solito riservato ai pittori della accademia Hanlin. Queste composizioni, come quella conservata a Toronto presso il Royal Ontario Museum [fig. 109], raffigurano sontuosamente assemblee divine presiedute da un buddha centrale, nel caso Maitreya che siede nella sua Terra pura, che occupa un posto predominante in tali decorazioni. Si ritrovano

Le ultime dinastie: Yuan, Ming e Qing La conquista della Cina da parte dei Mongoli (1211-1279) porta distruzioni enormi sia nel regno dei Jin, che cade nel 1234, sia in quello dei Song del sud (Hangzhou presa nel 1277). Kublai Khan (regnante 1260-1294), divenuto imperatore della Cina e noto sotto il nome cinese di Shizu, fonda la dinastia degli Yuan (1260-1368). Si converte, come i propri successori, al buddhismo. Le istituzioni religiose si moltiplicano. È il buddhismo tibetano, branca del Vajrayana, a essere favorito a corte. I pontefici tibetani che dirigono gli affari religiosi dell’Impero – ‘Phags-pa dal 1260 al 1280; Senge dal 1280 al 1291; e, al sud, Yang Lianzhenjia, dopo il 1277 – saranno detestati dagli altri dignitari religiosi. Benché i canoni generali dell’arte buddhista cinesi si ispirino sempre all’arte dei Tang in continuità con lo stile dei Liao e dei Jin, la posizione privilegiata dei lama tibetani dell’ordine sa-skya-pa presso l’entourage dell’imperatore e l’arrivo di artigiani stranieri, fra gli altri nepalesi, conferiscono una certa originalità all’arte sacra del tempo. Viene così introdotto in Cina settentrionale un nuovo tipo di dagoba dal Tibet meridionale. Il dagoba bianco del Miaoyingsi, nella parte nordoccidentale di Beijing,

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anche lunghe processioni di dignitari, identificati come le costellazioni della cosmogonia taoista. L’aspetto maestoso e decorativo di questi dipinti è caratteristico di un laboratorio di artigiani itineranti che furono all’opera senza dubbio nella vallata del Fen. Il loro lavoro era generalmente ereditario come dimostra la storia del tempio di Guangsheng, nei pressi di Linfen. Gli stessi incarichi sono rimasti appannaggio della medesima famiglia durante centocinquanta anni. È opportuno ricordare l’emergere di un nuovo tema iconografico. Più statue in bronzo e in lacca raffigurano Vakyamuni in meditazione, seduto, le mani incrociate sul ginocchio sinistro, tirato su, che fa da appoggio al mento. Il Beato è talvolta raffigurato sotto i tratti del principe Siddhartha, talaltra sotto l’aspetto di un asceta scheletrico, prima del Risveglio a Gaya. Il Cleveland Museum of Art possiede una scultura di questo tipo, verosimilmente del xiv secolo, dell’ultima parte dell’epoca degli Yuan [fig. 110]. Il viso espressivo ci riporta alla tradizione iconografica di certi arhat. Le pieghe del vestito che ricade in maniera naturalista sono tipici dei canoni in auge in epoca Liao che si perpetueranno fino al xix secolo.

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L’arte buddhista durante le dinastie Ming e Qing si innova poco. Questa situazione può sembrare paradossale se si considera che la maggioranza degli edifici e i loro arredi dipinti e scolpiti appartengono a questi periodi. Potrebbe darsi che il giudizio sia falsato dallo studio disomogeneo di questo patrimonio immenso, in parte distrutto in occasione di gravi disordini quali la rivolta dei taiping (18501864), la guerra sino-giapponese (1931-1945) e la Rivoluzione culturale (1966-1069). In questo lungo periodo continua la tradizione dei pellegrinaggi, in particolare quelli aventi per meta i santuari delle quattro montagne consacrate ciascuna a un bodhisattva particolarmente venerato: Wutaishan (Shanxi) a Manjuvri, Emeishan (Sichuan) a Samantabhadra, Jiuhuashan (Anhui) a Ksitigarbha e l’isola di Putuo, al largo dello Zhejiang, ad Avalokitevvara. L’arte dell’epoca dei Tang serve come punto di riferimento principale a numerosi laboratori artistici. Oggi si distinguono meglio le sottili modulazioni interpretative di questi modelli. Un lokapala, conservato presso il Seattle Art Museum [fig. 111], ritrova così nel xv secolo il vigore dell’estetica dell’viii secolo, accentuandolo fino a dare all’armatura una forma par-

93. Arhat anziano, ceramica invetriata al piombo a tre colori (sancai), x secolo. New York, The Metropolitan Museum of Arts, fondi Frederich C. Hewitt, 1921 (provenienza: ovest di Yixian, Hebei). 94. Testa di arhat, lacca secca, x-xi secolo. Kansas City, William Rockhill Nelson Gallery of Art.

95. Avalokitevvara, legno policromo, xi secolo-inizio xii (epoca dei Liao). Kansas City, William Rockhill Nelson Gallery of Art. 96. Avalokitevvara Sahasrabhujasahasranetra, pietra, fra 1179 e 1249. Dazu, Sichuan, grotta di Baodingshan (nicchia n. 8).

ticolare, sconosciuta alle divinità guerriere dei Tang. Lo sviluppo dell’arte sinotibetana, legato all’innesto del buddhismo lamaista in Cina, costituisce una seconda particolarità. Il ritmo delle fondazioni segue quello della protezione imperiale. Il mecenatismo dinastico, molto attivo sotto i regni di Yongle (regnante 1403-1424) e di Xuande (regnante 1426-1435), si affievolisce nel xvi secolo e riprende tutta la sua forza grazie agli imperatori mancesi Kangxi (regnante 1662-1722) e Qianlong (regnante 1736-1795). Yongle in particolare favorì la produzione numericamente rilevante di statuette in bronzo dorato destinate ai templi imperiali e alle regalie per i pontefici lamaisti. Le divinità, quali Mapjuvri sotto l’aspetto Caturbhuja (Londra, The British Museum), si iscrivono nel complesso canone iconografico del buddhismo tibetano [fig. 112]. Il viso giovanile, il senso di movimento e la forma degli abbellimenti si ispirano all’arte dei newar della vallata di Kathmandu, la cui ricca produzione riforniva numerosissimi monasteri tibetani. I bronzi risalenti ai regni di Yongle e di Xuande, di una perfezione tecnica ineguagliabile, sono ciò nonostante impregnati di una certa freddezza alla quale invece sfuggo-

no le opere nepalesi e tibetane, dotate di maggiore interiorità. Contrariamente alle statue di culto di fattura stereotipata, la pittura offre una gamma di varianti basate sui motivi convenzionali di epoca Tang, realizzate con maggiore o minore abilità. Le composizioni murali mostrano talvolta dei motivi in lieve rilievo di intonaco che una volta dorati danno l’illusione del gauffrage. I toni smorzati, largamente utilizzati, influenzeranno lo stile sMan-bris della pittura tibetana. Un ciclo pittorico fortemente ispirato dal buddhismo esoterico fu restaurato nel 1443 nella grande sala del Fahaisi, a ovest di Beijing. Il suo stile decorativo ed eclettico si ritrova su un complesso di rotoli proveniente dalla biblioteca imperiale e in rapporto con il rituale Shuilu, «acqua e terra«. Questo rituale, pure attestato dall’inizio del vi secolo, assume maggiore importanza. La liturgia in questione prevede che sia possibile liberare gli spiriti dei defunti quali che siano le loro future condizioni di esistenza. I dipinti esposti durante la cerimonia incorporano varie entità di ascendenza taoista considerate in tale contesto come divinità minori. A nord-ovest di Beijing l’imperatore Chenghua (regnante 1465-1487) fece erigere in uno

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sto carattere decorativo. Ad esempio lo stupa in marmo bianco della pagoda Pujita del Longquansi («tempio del Drago primaverile«), nei pressi del Wutaishan [fig. 116]. La struttura, che, come il suo canone architettonico richiede, ha la forma di uno stupa rastremato di tipo lamaista, accoglie un tetto di tipo cinese. I suoi rilievi qualitativamente apprezzabili testimoniano l’evoluzione del buddhismo popolare, impregnato di superstizioni. La gente comune prega le divinità buddhiste, insignite degli stessi titoli di quelle taoiste, per ottenere vantaggi immediati nella vita quotidiana. Queste pratiche devozionali, eredi di tutto un complesso appartenente al Mahayana ma criticate dai letterati nazionalisti, non sono più una parte della ricca vita intellettuale che era stata l’orgoglio del buddhismo cinese per numerosi secoli. Lo stupa del Longquansi possiede quattro nicchie, in direzione dei punti cardinali, che contengono piccoli rilievi di Maitreya raffigurato sotto forma di un buddha obeso. Questa iconografia imbastardita, attestata comunque già a partire dall’epoca dei Song, nacque da una confusione fra Maitreya e Budai Hva-sang, uno dei servitori degli arhat. La divinità ibrida è considerata protettrice dei neonati. Sue immagini sono poste all’ingresso di grossa parte dei santuari. 113

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dei cortili del monastero Zhenjuesi («tempio del Vero Risveglio«) un edificio a cinque torri (Wutasi), oggi scomparso, a imitazione del tempio di Bodhgaya conosciuto in Cina tramite una miniatura portata a corte una cinquantina di anni prima da un monaco indiano di nome Papdita. L’edificio si ricollega ad altre repliche simboliche del santuario di Bodhgaya in tutta l’Asia [fig. 113], e ispirerà esso stesso altre copie cinesi, la più celebre delle quali venne eretta nel 1748 da Qianlong dietro il Biyunsi fra le Colline profumate a nord-ovest della capitale. Sotto le due ultime dinastie il culto di Avalokitevvara (Guanyin) onorato nei suoi vari aspetti si sviluppa parallelamente all’emergere del Chan, che con la caduta della dinastia Ming nel 1644 acquista un’aura quasi nazionale. I grandiosi templi nello Jehol, eretti da Kangxi e soprattutto da Qianlong a Rere, oggi Cheng­ de, a est e a sud-est del parco del palazzo di Bishu Shanzhuang, si ispirano a varie costruzioni famose dell’Impero e degli Stati tributari. Parecchi prendono a modello illustri edifici tibetani

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quali il Putuozongchengmiao («tempio della scuola Putuo«), costruito fra 1767 e 1771 per commemorare la solenne visita dei khalkha, i mongoli del Kokonor, e degli eleuti a Qianlong in occasione del suo sessantesimo compleanno (1770). Il monumento fu consacrato solo nel 1771, quando l’imperatrice vedova Xiaosheng (1693-1777) compì ottanta anni. Esso si ispira al Potala di Lhasa. L’edificio conserva la giustapposizione di facciate bianche e rosse del modello originario [fig. 114]. La pianta rivela tuttavia una diversa volumetria [fig. 115]. Dei portici attorniano un ampio cortile al centro del quale si erge un padiglione ipostilo, dal tetto riccamente decorato, il Wanfagui. L’interno ospitava un tempo un ricco mobilio cultuale. I dintorni del tempio sono sistemati in modo pittoresco alla maniera di un giardino roccioso. Le costruzioni secondarie, semplici appendici decorative prive di tetti e di allestimenti di sorta, si riducono a muri esterni scanditi da finte finestre. I dagoba delle ultime dinastie condividono que­

97. Scena di vita pastorale, fra 1179 e 1249. Dazu, Sichuan, grotta di Baodingshan (nicchia n. 21). 98. Ritratto del maestro Bukong, inchiostro e colori su seta, xiii secolo. Kyoto, Kozanji.

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1. Buddha in piedi, bronzo dorato, 539 (regno di Koguryŏ). Seul, Museo Nazionale di Corea. 2

2. Carta.

A causa delle vicissitudini storiche, ci sono giunti solo frammenti del patrimonio buddhista coreano. Grazie a queste rare vestigia, si coglie una considerevole produzione di grande raffinatezza. A partire da prototipi cinesi, gli artigiani crearono un’estetica originale e fine che a propria volta avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella formazione dell’estetica buddhista giapponese. Periodo dei Tre Regni (57 a.C.-668 d.C.)

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Quando il buddhismo raggiunse la Corea nel iv secolo, tre regni si spartivano la penisola: il Koguryŏ (37 a.C.-668 d.C.) a nord, il Paekche (18 a.C.-663 d.C.) a sud-ovest e il Silla (57 a.C.668 d.C.) a sud-est. A causa delle strette relazioni diplomatiche che i sovrani di Koguryŏ, fortemente sinizzati, intrattenevano con gli alleati Tuoba che regnavano nella Cina settentrionale con il nome di Wei del nord (386-534), il buddhismo fu dichiarato religione di Stato nel 372. La nuova religione, munita dell’immenso prestigio delle civiltà continentali particolarmente brillanti, era portatrice di molte componenti culturali (tra cui la scrittura cinese) innovatrici nei piccoli Stati della penisola allora un po’ ai margini, con una organizzazione ancora tribale. Non è rimasto nulla dell’architettura monastica del Koguryŏ. Alcune tegole decorate con fiori di loto sbocciati, dal disegno semplice, rigido ed equilibrato, riprendono fedelmente alcuni modelli cinesi. Le poche statuette in bronzo sopravvissute denotano una forte influenza dell’arte dei Wei del nord. La più preziosa [fig. 1], ritrovata a Ǔiryŏng sul territorio di Silla, a sud-est della penisola, porta una iscrizione che ne conferma la realizzazione a Phyongyang nel Koguryŏ. Essa porta inciso il numero 29 di una serie di mille statuette raffiguranti Vakyamuni. La data, stabilita secondo il ciclo sessantennale mudra

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come è frequente in Estremo Oriente, sembra corrispondere al 539. Le falde dell’abito si distribuiscono simmetricamente in una serie di pieghe dagli angoli acuti, proseguendo così, ben dopo la sua scomparsa, lo stile grafico in uso durante l’ultima fase di realizzazione delle caverne di Yungang e lo scavo delle grotte di Longmen. La testa, col mento dalla bella linea ovoide, si distingue tuttavia dai modelli cinesi. La grande aureola incisa (ilgwang-samjonbul) con una fine rete di linee traforate, presenta il grafismo del secondo stile dei Wei del nord ma mostra un adattamento al reale poiché nessun pezzo cinese seguirebbe una tale asimmetria nel disegno. A sud-ovest della penisola, il Paekche, relativamente ricco, intratteneva un duraturo rapporto con la corte cinese di Nanjing, capitale

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della Cina meridionale, rifugio delle élite cinesi durante il periodo delle Sei Dinastie. Alcuni missionari giunti da questa parte del continente convertirono il sovrano nel 384. Alcune tegole e tavolette stampate che si possono certo ricollegare a edifici buddhisti del Paekche presentano una tipologia più variegata e una fattura più fine di quelle del Koguryŏ. Nonostante tutti gli edifici conventuali in legno siano scomparsi, rimangono ancora due pagode. Esse si ergono nell’area di monasteri che seguono una pianta ben precisa. Questa prevede, in un perimetro orientato sull’asse sud-nord, un portico di ingresso talvolta sdoppiato (chung­ mun), una pagoda (t’ab), la sala di culto principale (kŭmdang, la «sala d’oro«) e un padiglione per le assemblee e le preghiere (kangdang). Ad esempio, nell’area del tempio di Mirŏksa

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3. Pagoda (regno di Paekche). Iksan, tempio di Mirŏksa. 4. Pagoda (regno di Paekche). Chŏngnim-sa.

5. Rilievo rupestre, fine del vii secolo (regno di Paekche). Sŏsan.

(Maitreya), a Iksan, nella provincia del Chŏlla settentrionale si erge ancora l’angolo orientale di un’imponente pagoda [fig. 3]. Le lastre e i pilastri in pietra si incastrano come in un edificio in legno. Un semplice gioco di modanature, alla base dei tetti, conferisce un aspetto aereo alle lastre di pietra sporgenti, dagli angoli leggermente ricurvi, che sottolineano i piani. L’edificio doveva avere in origine nove tetti sovrapposti. Un’altra pagoda, a cinque piani, interamente conservata [fig. 4], si erge nell’area del tempio della città di Chŏngnim-sa. Sebbene costruita secondo gli stessi principi della pagoda di Iksan, essa sembra leggermente più recente, con una tecnica meno letteralmente copiata dalla carpenteria. Più slanciata, presenta proporzioni più eleganti. In origine si innalzava davanti alla sala d’oro di un tempio buddhista.

Il santuario fu definitivamente distrutto dalle armate cinesi del generale Su Dingfang all’epoca dei Tang. Il generale fece incidere un lungo resoconto della sua vittoria al primo piano del monumento. Sebbene i più antichi bronzi del Paekche, come nel Koguryŏ, seguano l’estetica geometrizzata dei Wei del nord, essi non tardarono ad allontanarsene per ispirarsi all’estetica meno disincarnata in voga nella Cina meridionale. Nel 541, un gruppo di scultori ricevette l’autorizzazione da parte della corte di Nanjing di recarsi a Puyŏ, capitale del Paekche. È a questa nuova corrente che appartengono i rilievi rupestri di Sŏsan, nella provincia del Ch’ungch’ŏng meridionale [fig. 5]. Al centro, il Buddha vestito con una veste, alla maniera dei monaci dell’Estremo Oriente, e con un pesante mantello, è esaltato da una grande aureola ornata da un fiore di loto sbocciato e da un ordine di fiamme stilizzate. Un secondo loto fiorisce sotto i suoi piedi. La mano destra accenna un gesto inusuale ma che si ritrova in altre statue del Paekche: mentre ricade alla maniera del varada mudra, l’anulare e il mignolo sono ripiegati. Due bodhisattva circondano il Buddha. Quello a destra, in piedi, tiene un gioiello tra le mani, come Avalokitevvara salvatore (Kuze Kannon in Giappone) e quello a sinistra, meditativo, seduto in posizione di rilassamento, può essere identificato con Maitreya, secondo una iconografia frequente in Estremo Oriente. Questa forte influenza dei Qi del nord è percepibile in uno dei grandi capolavori del patrimonio coreano: il Maitreya meditativo in bronzo dorato conservato al Museo Nazionale di Seul [fig. 8]. L’iconografia, frequente in questo periodo, è segno di un culto particolarmente vivo nei confronti del buddha dei tempi futuri. L’opera, la più importante raffigurante Maitreya nella Corea dell’epoca, possiede una rara finezza formale che unisce eleganza e spiritualità. Dovrebbe risalire agli inizi del vii secolo. Il modello avrebbe ispirato il celebre Maitreya meditativo del Koryuji di Kyoto. La statua del Museo Nazionale di Seul, tradizionalmente legata al regno di Silla, si inserisce meglio nella produzione del Paekche che in quella del regno vicino, dalla fattura spesso geometrizzata e arcaicizzante. A sud-est della Corea, isolato da una catena di montagne e lontano dalle vie commerciali, il regno di Silla conobbe una evoluzione più lenta. Fu solo nel 528 che il monaco Ado, originario di Koguryŏ, convertì al buddhismo Munmu,

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6. Pagoda, inizio del vii secolo (regno di Silla). Kyŏngju, Punhwangsa.

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il monarca locale (regnante 661-681). L’arte del Koguryŏ, che proseguiva l’estetica dei Wei del nord, venne naturalmente adottata dalle nuove autorità religiose del Silla. L’unico edificio del periodo parzialmente conservato è la copia fedele di una pagoda cinese [fig. 6]. La torre del Punhwangsa che si erge a Kyŏngju presenta solo tre livelli di tetti. Secondo i testi antichi, doveva contarne nove, ma l’edificio fu in parte distrutto durante le campagne militari di Hideyoshi in Corea (1592 e 1597). Costruita in piccoli blocchi di andesite delle dimensioni dei mattoni cinesi, la pagoda era custodita agli angoli da leoni di pietra dalla muscolatura vigorosa. A partire dall’estetica arcaicizzante del Koguryŏ, i bronzi di Silla elaborarono un’arte originale. Le forme, in parte geometrizzate, sono avvolte da stoffe che ricadono a festoni digradati e piatti, alla maniera dell’arte dei Wei del nord. Il modellato rigido del volto, dalle ampie masse stilizzate, le incisioni nervose del diadema che richiama motivi floreali, la flessuosità delle mani e la quasi astrattezza del drappeggio caratterizzano un Maitreya meditativo ritrovato a Yusan-ri (Yangsan, nella provincia del Kyŏngsang meridionale) e oggi conservata presso il Museo Nazionale di Seul [fig. 7]. La testa leggermente sproporzionata rispetto al corpo è una caratteristica piuttosto frequente durante il periodo dei Tre Regni. Essa è tuttavia più accentuata nel Silla che negli altri due principati. Questo particolare si ritrova in alcune statue giapponesi, tra le più antiche ispirate all’arte coreana.

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Nella doppia pagina seguente: 9. Amitabha (?) tra due bodhisattva, bronzo un tempo dorato, fine del vii-inizio dell’viii secolo (Grande Silla). Kyŏngju, Museo Nazionale (provenienza: Anapchi).

Il Grande Silla (668-935) Il potente regno di Koguryŏ e i suoi tradizionali alleati prototurchi della Mongolia settentrionale rappresentavano un grave pericolo per la Cina. Nel 598 e nel 612, alcune spedizioni rovinose e prive di successo contribuirono al crollo della dinastia dei Sui. Dopo il 618 l’amministrazione dei Tang giocò con maggiore acutezza. Nel 660, la Cina, alleata del regno di Silla, aiutò quest’ultimo ad annientare il Paekche e, nel 668, attraverso la frontiera meridionale, meno protetta, invase il Koguryŏ. I sovrani di Silla, ormai padroni dell’intera penisola coreana, riuscirono a rendersi indipendenti dai Tang pur dichiarandosi loro vassalli. Il periodo che va dal 668 al 935 si suddivide in due epoche. All’apogeo della dinastia seguì, nel ix secolo, una crisi sociale che portò alle rivolte del 918. Il buddhismo dominò la civiltà del Grande

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7. Maitreya meditativo, 8. Maitreya meditativo, bronzo bronzo, fine del vi secolo dorato, vii secolo (periodo dei Tre (regno di Silla). Seul, MuRegni). Seul, Museo Nazionale seo Nazionale di Corea. di Corea.

10. Lokapala, terracotta un tempo vetrinata di verde, 679 (Grande Silla), Seul. Museo Nazionale di Corea. 11. Reliquiario varira, bronzo con tracce di doratura e cristallo di rocca, 682 circa (Grande Silla). Seul, Museo Nazionale di Corea (provenienza: pagoda ovest del Kamŭnsa, Wolsong).

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12. Cofanetto del precedente, bronzo con tracce di doratura. Seul, Museo Nazionale di Corea.

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Silla. I legami con il potere temporale rimasero stretti. La Corea non conobbe le grandi persecuzioni della Cina del ix secolo. Le comunità coreane erano unite al continente da relazioni regolari. Ad esempio, molti monaci coreani, come Wŏn’gwang, Chajang e Ǔisang si recarono in Cina. Uno di loro, Hyecho (704787), arrivò addirittura in India lasciando un interessante resoconto del suo pellegrinaggio, il Wang’o ch’ŏnch’uk kukjŏn. Le varie scuole del buddhismo cinese ebbero seguito in Corea, dove convissero con grande intelligenza. I primi tempi videro ad esempio lo sviluppo senza precedenti del culto di Amitabha e della speranza di rinascere nella Terra pura di Sukhavati, come testimoniano alcuni hyang-ga («canti della terra«) impregnati di amidismo e numerose statue del buddha dell’Ovest. L’amidismo ispirò il particolare stile di vita degli hoa-rang («fiori adolescenti«), giovani appartenenti alla classe aristocratica che ricevevano un’educazione particolarmente severa basata sulla disciplina militare e sulla morale buddhista. Alla fine dell’viii secolo si diffuse il culto del Bhaisajyaguru, il buddha della medicina. Le statue e le statuette riflettono l’estetica cinese del vii e dell’viii secolo. Per la ricchezza della decorazione, una lastra in bronzo raffigurante Amitabha (?) tra due bodhisattva, un tempo dorata, rappresenta forse uno degli apici di questa produzione [fig. 9]. Essa è stata scoperta a Kyŏngju, nell’area della «sala del Mare« e di un lago artificiale chiamato Anapchi, scavato tra il 674 e il 679, che formavano un annesso dell’antica residenza reale del monarca di Silla, il «palazzo della Mezzaluna«. L’epoca del Grande Silla vide anche la realizzazione di rari oggetti di culto e di reliquiari in metalli preziosi che facevano parte del deposito di fondazione murato nei livelli delle pagode, come quelli scoperti nella pagoda del Wanggung-ni, a Iksan, o in quella del Kamŭn-sa a Wolsong, nella provincia del Kyŏngsang settentrionale. Il re Munmu cominciò l’edificazione di quest’ultimo santuario al fine di proteggere il paese dalle incursioni dei pirati giapponesi. Il complesso fu inaugurato nel 682 da suo figlio, il re Sinmun (regnante 681-692), il che permette di datare con sufficiente precisione il reliquiario della Pagoda del Kamŭn-sa. Il «repositorio« destinato a contenere una reliquia corporea (varira) è costituito da due parti. Il cofanetto esterno è decorato da quattro lokapala realizzati su lastre fissate sui lati [fig. 12]. Lo stesso reliquiario possedeva originariamente

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due livelli di tetti retti da quattro colonnine [fig. 11]. Oggi rimane solo la parte inferiore. Una piattaforma, retta da una base elaborata e incavata che ospita otto musicanti, è cinta da una sottile balaustra. Al centro, una bottiglia di cristallo di rocca a forma di gioiello contiene le preziose reliquie. L’insieme è sovrastato da un fiore di loto sbocciato. Agli angoli della terrazza, quattro musicanti suonano rispettivamente il flauto, il liuto – con il manico terminante in una testa di fenice –, dei cimbali e un tamburo. L’influenza dell’arte dei Tang è predominante. La realizzazione dei re-guardiani della scatola esterna, in particolare, può essere strettamente paragonata ad alcuni altorilievi cinesi contemporanei. Il culto di Vaivravapa e degli altri tre lokapala, legato alla protezione del paese contro gli eserciti nemici, è attestato in Corea all’epoca del Grande Silla. Ad esempio, nel 679, il monaco Myongnang fondò un tempio in onore dei lokapala, oggi distrutto, nel sito di Sach’ŏnwangsa, a Kyŏngju. Grandi frammenti di terracotta [fig. 10], un tempo vetrinati di verde, di fattura estremamente fine, provengono da basamenti identici a quelli delle pagode in legno. Sebbene pressoché contemporanei al reliquiario del Kamŭn-sa, i lokapala derivano da un’altra tradizione, più «realista«, con scorci che conferiscono un effetto di rilievo inaspettato in questo genere di rappresentazione. I due monumenti buddhisti più importanti conservati furono voluti da Kim Taesŏng (700774), ministro del re Kyŏndŏk (regnante 742764) e si trovano nei dintorni di Kyŏngju. Il tempio di Pulguk-sa, ai piedi del monte T’oham nella provincia del Kyŏngsang settentrionale, sebbene fondato nel 535, poco tempo dopo la conversione del Silla, fu interamente ristrutturato per suo volere nel 751. Gli stessi edifici, bruciati dai Giapponesi nel 1592 e ricostruiti in seguito, si elevano sulle fondamenta dell’viii secolo. Massicci pilastri sostengono blocchi di grandi dimensioni, come tavoloni. L’insieme possiede una grande imponenza. Scale in fuordopera, scavate in passaggi con volte a botte, conferiscono al complesso una grazia aerea accentuata dalle coperture dei padiglioni, dal profilo curvo e dagli spigoli ampiamente debordanti. Un tempo, alcune vasche situate ai piedi della terrazza accentuavano questa impressione di leggerezza, paradossale per una struttura così massiccia. Due pagode in pietra affiancano il padiglione principale, come nei templi cinesi di epoca Tang. Quella di destra, chiamata

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Sokka-thap («stupa di Vakyamuni«), doveva contenere alcune reliquie del Beato. Concepita sul modello delle antiche pagode a piani cubici dell’epoca dei Tre Regni, presenta proporzioni molto eleganti. Quella a sinistra, chiamata Tabo-thap («stupa di Prabhutaratna«), edificata dal re Kyŏndok per il riposo dei suoi antenati deceduti, è caratterizzata da una forma molto elaborata [fig. 13]. Quattro scale conducono al primo piano costituito da cinque pesanti pilastri monolitici che reggono una terrazza, a sua volta sormontata da una sovrastruttura a sezione ottagonale. Sotto la copertura, costituita da un’unica lastra ottagonale, rafforzata agli angoli per imitare le curvature delle estremità del tetto, un loto sbocciato capovolto rappresenta una decorazione originale. A pochi chilometri dal tempio di Pulguk-sa, sul monte di Yokkulam (Yokkuram), si trova un tempio-caverna, monumento di grande originalità. È evidente il riferimento ai santuari rupestri cinesi, ma gli artigiani coreani seppero adattare questa soluzione alle tecniche locali. Il tempio, costituito da una cella circolare a volta preceduta da un corridoio e da un vestibolo, fu costruito in pietra da taglio e poi sepolto sotto un poggio artificiale per ottenere un effetto simile a una grotta [fig. 14]. L’aspetto originale del vestibolo, restaurato in modo arbitrario nel primo terzo del xx secolo, è oggetto di discussione. Alcuni grandi Vajrapapi in altorilievo, equivalenti a Jingang e Lizhi nella tradizione cinese, custodivano l’ingresso del corridoio, decorato dai quattro lokapala. Fini bassorilievi rappresentano quattro bodhisattva e dodici arhat ornano i muri della cella. Il realismo espressivo dei visi dei discepoli di Vakyamuni contrasta con l’estrema eleganza delle pose e degli ornamenti dei bodhisattva. Un buddha in granito levigato [fig. 15], alto tre metri, occupa il centro. Le sue forme al tempo stesso ampie ed eleganti derivano da prototipi cinesi di epoca Tang. La testa tuttavia presenta un’espressione meditabonda soffusa di una notevole interiorità, rara nelle opere cinesi dell’epoca. Yokkulam costituisce l’apogeo della statuaria coreana. Un passaggio intorno alla statua centrale permette di compiere il rito di circumambulazione. Come in Cina, monumentali campane in bronzo, destinate a padiglioni specifici, fanno parte dell’allestimento dei monasteri. La più grande, alta 3,35 metri, si trovava in origine nell’antico tempio di Pongdoksa e fu inaugurata nel 771 [fig. 16]. La sua forma quasi ovoide è carat-

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teristica delle campane coreane, ben diverse da quelle cinesi o giapponesi, in quel periodo decorate con motivi a forma di corda. Le campane coreane sono decorate in alto e in basso con festoni elaborati. Quella di cui stiamo parlando porta sulla spalla quattro motivi quadrati ciascuno ornato con nove medaglioni in leggero rilievo. Alcuni geni volanti, di una grazia infinita, e dei fiori di loto sbocciati ne decorano i fianchi. Una commovente leggenda si collega a questa campana soprannominata «emille«

14. Spaccato del tempio-caverna, viii secolo (Grande Silla). Yokkulam.

13. Tabo-thap, viii secolo (Grande Silla). Tempio di Pulkuksa, dintorni di Kyŏngju.

15. Buddha, granito, viii secolo (Grande Silla). Yokkulam, tempio-caverna. 16. Campana, bronzo, 771 (Grande Silla). Kyŏngju, Museo Nazionale.

(«mamma«): «emille« sarebbe l’ultima parola urlata da una bambina gettata nel metallo liquido durante la fusione. È difficile parlare della pittura all’epoca del Grande Silla, dato che tutti i cicli murali e i rotoli portatili sono andati perduti. I mattoni decorati con rosoni, ispirati ai tessuti cinesi di epoca Tang, alcune tegole raffiguranti motivi di petali di loto e foglie di caprifoglio, le decorazioni in sottile rilievo delle campane monumentali dei templi testimoniano la sicurezza del tratto

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e l’eleganza delle composizioni. Rimane un unico documento di questo lungo periodo: la copertina e il frontespizio dipinto sulla faccia interna di un Avataksaka sutra (Hwaŏm-gyŏng) conservato presso il Museo d’Arte Hoam a Yongin [fig. 17]. Un disegno realizzato in oro e argento su un foglio di carta (oggi molto frammentario) a base di foglie di gelso e tinto di porpora rappresenta Vairocana sotto le sembianze di un bodhisattva seduto su un trono decorato con leoni mentre predica davanti a un’assemblea di bodhisattva. A destra, si può riconoscere Samantabhadra, seduto su un trono simile. A sinistra, quattro bodhisattva ascoltano con attenzione il sacro colloquio. Dietro, un palazzo a due piani funge da sfondo. Il Koryŏ (918-1392) Alla fine dell’viii secolo, in particolare durante il regno della regina Chinsong (regnante 887897), la produzione artistica si indebolì. I laboratori, come molti ambiti culturali ed economici del Grande Silla, attraversarono una grave crisi. Una rivolta contadina portò, nel 918, alla fondazione di un nuovo Stato, il Koryŏ (Corea). Il regno del Grande Silla crollò nel 935. Kaesŏng, la nuova capitale, situata più a nord di Kyŏngju, raccoglieva il mecenatismo reale. Una classe di funzionari letterati sostituì l’antica aristocrazia del Grande Silla. Il buddhismo continuò a giocare un ruolo culturale e politico predominante, sebbene alcune cerchie intellettuali avessero sviluppato teorie confuciane. In politica, i pontefici più influenti conservarono un posto di prim’ordine. Nella capitale, settanta templi buddhisti attestano il fervore del sovrano e dei grandi. Erano la cornice di fastose cerimonie che raccoglievano tutta la popolazione. Il buddhismo Chan si sviluppò parallelamente a queste correnti ufficiali. Il periodo che va dal 918 al 1031 fu in parte segnato nel nord dalle incursioni dei Liao (9161125). L’epoca successiva, la più brillante della dinastia, fu tuttavia oscurata dalla lotta contro i Jin lungo il confine settentrionale (1185-1217). I Mongoli inflissero colpi molto più duri al Koryŏ, invasero la penisola e costrinsero il re a trasferire la capitale nell’isola di Kanghwa nel 1232. Nel 1270, di ritorno sul continente, dovette riconoscere la sovranità degli Yuan. Fino al 1368, alcuni «commissari residenti« nominati dai Mongoli sorvegliarono da vicino il potere locale. Nel 1388, il sovrano di Koryŏ, legato per via matrimoniale agli Yuan, si op-

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pose all’avanzamento della dinastia puramente cinese dei Ming. Nel 1392, la Cina accordò la propria preferenza alla nuova dinastia degli Yi. Mentre molte tecniche, come la ceramica, sono fortemente influenzate dalla raffinata arte dei Song (960-1279), la maggior parte dell’arte buddhista sembra la prosecuzione, con adattamenti alla sensibilità del periodo, di prototipi definiti all’epoca del Grande Silla. Alcuni ambiti conobbero tuttavia sviluppi originali. Le pagode in pietra, in particolare, furono oggetto di una grande diversificazione tipologica, già delineata all’epoca del Grande Silla. Ad esempio, un’edicola è caratteristica di questa invenzione formale ispirata a un complesso simbolismo [fig. 18]. Eretta originariamente nel 1017 nella provincia del Ch’ungch’ŏng settentrionale per ospitare le ceneri del bonzo Hong-bop e montata nuovamente nel parco del palazzo Kyŏngbok a Seul, è costituita da una base ottagonale e da uno zoccolo ornato da due file di petali di loto invertiti, divisi da un tamburo ornato da bassorilievi. Una gemma colossale, sormontata da un tetto a coste e curvo, si trova in cima all’insieme. Nel 1348, alla fine del periodo, la celebre pagoda di Kyŏngchonsa [fig. 20], anch’essa ricostruita nel parco del palazzo Kyŏngbok a Seul, rappresenta un hapax nel contesto coreano. Costruita da artigiani cinesi, è costituita da dieci finti piani sottolineati da balaustre e piccole coperture ricurve rette da mensole. I livelli inferiori, cruciformi e dentellati, con vari tipi di copertura, contrastano con i livelli superiori, dalle forme ripetitive, che costituiscono una sorta di spirale con in cima uno stupa a campana. Alcuni pilastri, agli angoli, sembrano reggere le coperture e delimitano pannelli scolpiti con vari buddha, bodhisattva e apsaras. Alcuni edifici religiosi, sfuggiti alle distruzioni causate dalle invasioni giapponesi del 1592 e del 1598, permettono di evocare l’architettura di Koryŏ. È possibile osservare l’abbandono delle piante simmetriche racchiuse in perimetri rettilinei, in vigore nelle epoche precedenti. I nuovi monasteri, edificati sulle montagne e magnificamente integrati in siti naturali, sovrappongono gli edifici in modo irregolare e pittoresco su più livelli. La loro ubicazione e la loro destinazione obbediscono a complesse regole di geomanzia praticate, tra l’altro, dal re Taejo (regnante 918-943) durante la costruzione di Kaesŏng. Gli edifici di piccole dimensioni, dalla struttura semplice e funzionale, sono di grande sobrietà. Vengono suddivisi in

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19. Muryangsu-chŏn, 1376. Kyongsang settentrionale, monastero di Pusŏk-sa. 20. Pagoda di Kyŏngchonsa, 1348. Seul, parco del palazzo Kyŏngbok.

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21. Interno del Taeung-chŏn, xv secolo. Kyongsang settentrionale, monastero di Pongjongsa.

17. Frontespizio di un Avataksaka sutra, oro e argento su carta porpora, 754-755 (Grande Silla). Yongingun, Museo d’Arte Hoam. 18. Pagoda funeraria del bonzo Hong-bop, pietra, 1017. Seul, giardino del palazzo Kyŏngbok. 18

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due gruppi la cui evoluzione sarebbe proseguita in epoca Yi. La maggior parte appartiene al cosiddetto stile «chusimp’o«. Le mensole che sostengono le travi della sporgenza del tetto partono dalla cima delle colonne. Questo stile si avvicina a quello giapponese tenjikuyo. È possibile, ma non certa, una influenza dell’architettura cinese dei Song. Il Muryangsu-chŏn del monastero di Pusŏk-sa rappresenta un buon esempio di questo primo stile [fig. 19]. L’edificio, risalente al 1376, riprodurrebbe

lo stato originale del xiii secolo. Un secondo stile, meno diffuso, detto «tap’o«, moltiplica le mensole. Una trave (p’yŏngbang) unisce le cime dei pilastri. Le mensole vi si appoggiano all’appiombo delle colonne ma anche negli spazi intermedi (kan). Il loro numero varia a seconda della larghezza delle arcate. I tetti ad arcareccio costituiscono un’altra particolarità. All’interno dell’edificio, contrariamente allo stile chusimp’o, un soffitto in legno nasconde la struttura e il tetto. Nel Taeung-chŏn del monastero di Pongjŏn-sa, caratteristico dello stile tap’o – sebbene più tardo e di epoca Yi –, le mensole, numerose e di forme complesse, costituiscono un vero e proprio motivo decorativo [fig. 21]. L’importanza accordata ai libri sacri e alla pittura religiosa è un’altra caratteristica del periodo. Sebbene i Coreani avessero sviluppato l’uso dei caratteri metallici mobili sin dalla fine del xii secolo, continuavano a stampare libri attraverso lastre incise. Questo procedimento,

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conosciuto in Estremo Oriente dal ix secolo, è attestato in Corea all’epoca del Grande Silla. All’inizio dell’xi secolo, la devozione della corte permise la realizzazione di migliaia di lastre incise con il testo del Tripitaka («triplice canestro«). Questo primo insieme fu distrutto dai Mongoli. Il re Kojong (regnante 12131259), rifugiatosi con la corte di Koryŏ sull’isola di Kanghwa, ordinò una nuova serie di lastre incise. Il taglio degli 81.137 blocchi necessari per questa immensa opera editoriale, chiamata Koryŏ taejang-gyŏng, fu realizzato tra il 1237 e il 1251. Dal 1398 il complesso è conservato presso il monastero di Hae’in-sa vicino al monte Kaya. Uno speciale magazzino, il Taejanggyong-gak, fu edificato nel 1488 per ospitarlo [figg. 22-23]. Questa produzione stampata non doveva tuttavia sostituirsi a edizioni di gran lusso, scritte in bella calligrafia in oro o argento, alcuni esemplari delle quali venivano esportati in Cina. L’ultimo capitolo di un Avataksaka sutra conservato nella collezione Cho Myongki a Seul si ricollega a questa produzione particolarmente raffinata [fig. 24]. L’illustrazione in cima al testo mostra, a sinistra, il principe Sudhana inginocchiato in adorazione davanti al bodhisattva Samantabhadra. A destra, assiso su un trono ottagonale, appare il buddha Vakyamuni. Una corte celeste circonda i protagonisti. L’altare e la balaustra approfondiscono lo spazio in modo inusuale. L’insieme, di un virtuosismo estremo, alterna i personaggi, ciascuno isolato da un’aureola, a parti ornamentali molto cariche. Si noterà il trattamento a spirale dei drappeggi sulle ginocchia dei personaggi. Poco numerosi e risalenti alla fine della dinastia, i rotoli dipinti di epoca Koryŏ fanno parte

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di questa estetica raffinata. Essi furono realizzati in occasione di numerosi riti menzionati nella storia della dinastia, il Koryŏ-sa. I più importanti furono eccezionali assemblee religiose e cerimonie cicliche in onore delle regine e dei re deceduti. Un celebre rotolo, conservato presso il Museo d’Arte Hoam a Yongin, rappresenta la discesa di Amitabha [fig. 25]. Per la finezza del disegno e l’eleganza delle applicazioni in oro, è caratteristico della pittura di epoca Koryŏ. Amitabha appare al moribondo accompagnato da due bodhisattva, tra cui Ksitigarbha. Il secondo bodhisattva non è, come solitamente accade, Mahasthamaprapta, ma Avalokitevvara, che si china con compassione verso il futuro rinascente. Un altro rotolo, all’Asakura-dera a Tokyo, raffigurante un Avalokitevvara presso il ramo di salice, mostra un adattamento simile agli schemi buddhisti tradizionali [fig. 26]. Le rocce, i bambù e l’acquamanile solitamente associati a questa forma iconografica sono qui omessi dal pittore Hyehŏ. Benché i baffi sottolineino la vera identità del bodhisattva, gli abiti plissettati e i numerosi ornamenti evocano una dea. L’estrema precisione nei dettagli rimane eccezionale nella pittura buddhista coreana. Dinastia Yi o Chosŏn (1392-1910) Nel 1392, Yi Sŏng-gye, un capo militare, fondò una nuova dinastia rapidamente riconosciuta dalla corte cinese dei Ming. Il regno di Koryŏ crollò. Nel 1396, Yi Sŏng-gye insediò la propria capitale dove oggi sorge Seul. Il xv e il xvi secolo, di una prosperità straordinaria, segnarono l’apogeo della Corea. Le invasioni di Hideyoshi nel 1592 e nel 1597 distrussero il paese. La

22. Taejang-gyong-gak, 1488. Kyongsang meridionale, monastero di Hae’in’sa.

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23. Interno del Taejanggyong-gak, 1488. Kyongsang meridionale, monastero di Hae’in’sa. 24. Mungyong, colophon e miniatura, Avataksaka sutra, oro su carta blu, 1350. Seul, collezione Cho Myong-ki. 25. Discesa di Amitabha, colori su seta, xiv secolo. Yongin, Museo d’Arte Hoam. 26. Hyehŏ, Avalokitevvara presso il ramo di salice, colori su seta, 1300 circa. Tokyo, Asakura-dera.

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maggior parte del patrimonio coreano scomparve negli incendi e nei saccheggi. Nel 1627 e nel 1638, la penisola dovette affrontare, a nord, le spedizioni del giovane e dinamico potere manciù che non aveva ancora conquistato la Cina. Dopo aver conosciuto un xviii secolo piuttosto brillante e una grave crisi nel xix secolo, venne annessa dal Giappone dal 1910 al 1945. Questo periodo contrastato fu segnato dal regolare sviluppo del confucianesimo e dal relativo regresso del buddhismo che non raccolse più l’intera popolazione attorno a una dottrina capace, attraverso la propria trascendenza, di ispirare gli artisti. I templi nelle città caddero in disuso. Le comunità in provincia resistettero meglio, poggiando sulle considerevoli risorse fornite dai loro consistenti possedimenti agrari. L’architettura proseguiva le caratteristiche dell’epoca Koryŏ: insediamento ricercato nei siti naturali, asimmetria dei perimetri e delle terrazze, moltiplicazione dei padiglioni di pic-

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cole dimensioni che costituivano altrettante cappelle. Le mensole a sostegno delle coperture si fecero più complesse e furono dipinte in maniera più complessa che in epoca Koryŏ. È bene citare il padiglione Mirŭk-chŏn del monastero di Kumsan-sa, vicino a Ch’ŏngju [fig. 27]. Questo grande edificio a tre livelli di coperture costituisce di fatto un immenso atrio ipostilo che ospita una statua in pietra di Maitreya alta 13 metri. Si noteranno nella parte alta le colonne agli angoli della costruzione, che conferiscono una base migliore per le eleganti coperture ricurve. La maggior parte dei santuari è stata ricostruita dopo le invasioni giapponesi della fine del xvi secolo. La maggioranza risale al xviii secolo. Le grandi pitture murali che li decorano presentano un disegno piuttosto rigido e colori puri. Iconograficamente interessanti, possiedono talvolta il fascino delle tradizioni popolari. Fanno parte di questa arte decorativa un po’ asciutta degli ultimi

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secoli anche alcuni rotoli portatili, come Amitabha predicante, attribuito al monaco Ǔigyun e proveniente dal monastero di Tong­h­wa-sa, oggi conservato presso il Museo Nazionale di Corea a Seul [fig. 28]. È bene tuttavia citare l’interessante rotolo realizzato da Kim Myŏng-

guk (1600-dopo 1662), un pittore letterato che partecipò alle ambasciate coreane in Giappone nel 1636-1637 e nel 1643 [fig. 29]. L’artista si ispirò a rappresentazioni di Bodhidharma giapponesi ma realizzò il proprio grazie alla particolare tecnica del «colpo di pennello unico« che molto impressionò i pittori giapponesi.

27. Miruk-chŏn, inizi del xvii secolo. Dintorni di Ch’ŏngju, monastero di Kumsan-sa. 28. Ŭigyun, Amitabha predicante, 1703, inchiostro e colori su seta. Seul, Museo Nazionale di Corea. 29. Kim Myŏng-guk, Bodhidharma, 1636-1637 o 1643, inchiostro su carta. Seul, Museo Nazionale di Corea.

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GIAPPONE

Epoche Asuka (552-645) e Hakuho (645-710)

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1. Tori, triade di Shaka, bronzo, 623. Nara Horyuji (kondo). 1

2. Carta del Giappone.

Il Giappone è il paese situato più a oriente fra quelli che accolsero il messaggio del Buddha. Il buddhismo giapponese, privo di legami diretti con l’India, elaborerà lentamente a partire da modelli continentali un’arte originale, fra le migliori dell’Asia.

Alcune immagini buddhiste furono portate in Giappone a partire dal 522. La tradizione fa però risalire a qualche decennio dopo l’introduzione ufficiale della legge del Beato nell’arcipelago. Il Nihon Shoki, uno dei principali annali antichi, compilato nel 720, riporta che il sovrano del regno coreano di Paekche invia una ambasceria al sovrano giapponese Kinmei Tenno del quale cercava l’alleanza. Fra i doni presentati per l’occasione vi erano una statua del Buddha in bronzo dorato e dei sutra. L’episodio sarebbe da collocare nel 552. Al cospetto della nuova fede la corte si divide. Due famiglie influenti, i Nakatomi e i Mononobe, partigiane di uno Stato tradizionale poco centralizzato, sono ostili all’introduzione di una religione straniera. I Soga invece, in rapporto con la Corea e fautori di una rapida evoluzione del Giappone sul modello dei potenti Stati del continente, appoggiano il nuovo culto. In un primo momento essi si conquistano l’adesione dinastica. Ma una epidemia di peste attribuita alla vendetta degli dei autoctoni (kami) innesca una violenta reazione ostile. Sostenuto dal clan dei Soga il buddhismo finirà con l’imporsi a corte. Il potere dinastico, desideroso di contrastare la potenza di alcuni clan e di introdurre un sistema di governo più evoluto, più centralizzato e più efficiente improntato al modello cinese, riconosce nell’universalità del buddhismo un sostegno per la propria politica, in quanto la conversione al buddhismo va di pari passo con l’introduzione di numerosi fattori culturali provenienti dal continente. Il partito buddhista e sinofilo incentrato sui Soga trionfa definitivamente durante la reggenza del principe Shotoku (regnante 593-622) che resse per trent’anni gli affari in nome di sua zia la regina Suiko. Quest’ultima difatti si fece monaca buddhista poco dopo l’accesso al trono nel 592.

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modificata nel 990. Il cortile venne ingrandito; le due biblioteche furono servite da prolungamenti del corridoio e venne edificato un nuovo kodo di ampie dimensioni al posto del precedente, raso al suolo. La pagoda a cinque piani è copiata da modelli continentali. I tetti dai colmi molto curvi hanno una particolare grazia. Il kondo stupisce per sobrietà di linee e Altre celle

Refettorio

semplicità di spazi interni. Al centro della sala una piattaforma fa da altare a immagini sacre. Un soffitto dai bordi incurvati ingrandisce lo spazio sacro. Le arcate esterne, adoperate come passeggiatoio, sono coperte da semplici divisori traforati. Il secondo livello ha solo una funzione decorativa; non venne mai utilizzato. Lo Horyuji conserva alcune statue antiche scampate all’incendio del 670. La più celebre è senza dubbio una triade in bronzo alta più di due metri che rappresenta Shaka (Vakyamuni) fra due bodhisattva. Sul tergo dell’aureola una iscrizione attribuisce l’opera allo scultore Tori e fornisce la data della consacrazione: 623 [fig. 1]. Tori apparteneva a una famiglia di artigiani provenienti dalla Corea, giunti nell’arcipelago nel 522. I volti allungati segnati da un impercettibile sorriso e i drappeggi lineari e piatti che cadono in sporgenze appuntite apparentano l’opera alle immagini rupestri cinesi del principio del vi secolo, ad esempio a quelle di Yung­ang e di Longmen. Questa estetica caratteristica dei Wei settentrionali, nella prima metà del vii secolo oramai arcaicizzante, giunse in Giappone tramite la Corea meridionale. L’imponente Yumedono Kannon, parimenti conservata presso lo Horyuji, condivide la medesima sensibilità artistica. Come numerose opere di epoca Asuka essa è scolpita nel legno di canforo, materiale riservato allora solo al campo religioso [fig. 12]. Essa testimonia l’importanza del culto

3. Pianta dello Shitennoji, dopo il 588. Naniwa. 4. Pianta dello Asukadera (Hokoji), prima del 596. Asuka. 5. Nara e i suoi templi.

Altre celle

6 Auditorium

Stanze dei monaci

Stanze dei monaci

Campanile

Dormitorio settentrionale

Archivio dei sutra

Campanile

Archivio dei sutra

Porticato Auditorium

Porticato

Pagoda

Porticato

Kondo

Kondo centrale Kondo occidentale

Porticato

Auditorium

Porticato

Un editto di diciassette articoli promulgato nel 604, il Kempo jushichi jo, costituisce un vero e proprio memento religioso e politico per gli alti funzionari. Impregnato di concezioni buddhiste e confuciane esso sottolinea il primato dell’autorità centrale. Dal 607 all’894 vennero regolarmente inviate ambascerie alla corte dei Sui (581-618) prima e poi dei Tang (618-907). Parallelamente a queste relazioni ufficiali, emigranti cinesi e coreani, artigiani, commercianti e tecnici si insediano in Giappone. Viaggiatori giapponesi visitano il continente. Fra loro monaci che vanno a studiare nei monasteri cinesi. Durante la reggenza Shotoku vennero costruiti molti templi. Nel 624, poco dopo la morte del principe, si contano quarantasei templi che ospitano ottocentosedici monaci e cinquecento monache. Reperti archeologici permettono di ricostruire la pianta di due grosse istituzioni della fine del vi secolo, lo Shitennoji di Naniwa (dopo il 558 [fig. 3]) e lo Asukadera (Hokoji) di Asuka (prima del 596 [fig. 4]). In entrambi i casi un corridoio chiuso all’esterno e formante un chiostro delimita un cortile rettangolare. Una porta monumentale (chumon) dà accesso al complesso da sud. Per più di due secoli gli architetti giapponesi cercheranno di posizionare i principali edifici culturali – pagoda (to) e sala di culto ospitante le statue sacre (kondo [«sala d’oro«] – secondo un piano simmetrico e razionale. Nello Shitennoji pagoda e kondo sono pertanto disposti nel medesimo asse. Il monastero dello Horyuji (607), di più modeste dimensioni, era costruito nei pressi della residenza di Shotoku. Il tempio venne in grossa parte ricostruito dopo un incendio nel 670 [figg. 7-8]. I lavori sarebbero stati conclusi prima del 693. Il complesso parrebbe tuttavia fedele all’estetica del principio del vii secolo. Pagoda e kondo sono situati simmetricamente su ciascun lato di un viale centrale che un tempo conduceva a una sala per i sermoni (kodo) in asse con l’ingresso [fig. 5]. Per rendere l’assieme maggiormente armonioso il corridoio orientale, laterale rispetto al kondo, più largo della pagoda ha una arcata supplementare invisibile all’occhio del visitatore. Anche le colonne del chiostro sono ingrossate nella loro parte centrale assecondando una moda cinese. Alcuni specialisti vi scorgevano un tempo una lontana eco di un procedimento abituale nella architettura greco-romana. Due biblioteche e un dormitorio completavano a nord l’insediamento principale, ma all’esterno del cortile. Questa parte settentrionale del complesso fu

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Pagoda

Porta interna

Kondo orientale

Porta interna

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Porta meridionale

Porta meridionale

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6. Pagoda e kondo, dopo il 670. Nara, Horyuji. 7. Pianta dello Horyuji, dopo il 670. Nara. 8. Pianta dello Horyuji, dopo il 990. Nara. 9. Tamushi no zushi, legno laccato e dipinto, metà del vii secolo. Nara, Horyuji (kondo). 10. Jataka della tigre affamata (Tamamushi no zushi), legno laccato e dipinto, metà del vii secolo. Nara, Horyuji (kondo).

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di Avalokitevvara, venerato sotto la sua forma femminilizzata (Kannon). Il Tamamushi no zushi («tabernacolo dalle elitre di coleotteri«) è una straordinaria testimonianza della pittura di metà vii secolo. Le porte e i pannelli di questo santuario in miniatura presentano, su un fondo di lacca nera, un delicato ornamento dipinto a olio in mitsuda-so [fig. 9]. Su uno dei lati viene raffigurato il Jataka della tigre affamata [fig. 10]. Tre momenti della vita anteriore del Beato vengono giustapposti. Il giovane uomo si disfa di parte delle proprie vesti. Egli salta nel vuoto e offre così in pasto il proprio corpo. L’estrema stilizzazione del paesaggio ricorda alcune composizioni delle grotte di Dunhuang databili al 550 circa. Altre opere forse più tarde e maggiormente fedeli alla estetica coreana del tempo hanno caratteri meno arcaici e meno debitori nei confronti degli antichi canoni cinesi. La Kudara Kannon dello Horyuji, ad esempio, scolpita in un unico blocco di canforo, fa sfoggio di un viso dall’ovale perfetto e di un corpo agile e slanciato [fig. 11]. Il ventre in lieve prominenza e gli eleganti risvolti della tunica che ricade sui lati del piedistallo le conferiscono una certa animazione, percettibile solo da una osservazione laterale o da tre quarti. Una immagine di bodhisattva in meditazione, Miroku (Maitreya), Siddhartha oppure Avalokitevvara,

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11. Kudara Kannon, legno con tracce di policromia seconda metà del vii secolo. Nara, Horyuji. 12. Yumedono Kannon, legno, prima metà del vii secolo. Nara, Horyuji (padiglione Yumedono).

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13. Miroku Bosatsu seduto in rilassamento, prima metà del vii secolo. Kyoto, Chuguji.

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14. Triade di Yakushi Nyorai, bronzo, inizio viii secolo. Nara, Yakushiji.

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15. Terra pura di Amida, dipinto su terra secca, fine vii secolo. Nara, Horyuji (kondo).

è conservata a Kyoto presso il tempio Chuguji [fig. 13]. Essa abbina la sontuosità decorativa dei drappeggi di Tori alla plasticità stilizzata della Kudara Kannon. I suoi occhi socchiusi e il lieve sorriso impregnano di interiorità il volto. Alla fine dell’epoca Hakuho (645-710) si sviluppa una nuova estetica influenzata direttamente dall’arte cinese dei Sui e soprattutto da quella dell’inizio dei Tang. I muri interni del kondo dello Horyuji, ad esempio, verranno decorati in stile continentale del tempo con dipinti oggi scomparsi, in gran parte in un incendio nel 1949, ma immortalati da copie e da fotografie. Quattro grossi pannelli raffigurano le quattro Terre pure: i paradisi di Shaka a oriente, di Amida (Amitabha) a occidente, di Miroku al sud e di Yakushi Nyorai (Bhaisajyaguru) al nord [fig. 15]. Si tratta di composizioni eseguite a secco su di una imprimitura di terra bianca. Buddha in predicazione e bodhisattva assistenti sono delineati con un tratteggio modellato nero o rosso. I pigmenti minerali, in numero ridotto, sono adoperati con grande abilità. Le forme armoniose dei personaggi, gli ampi drappeggi, i baldacchini che proteggono i buddha, la ricca

gioielleria sono tutti motivi presi da modelli cinesi di inizio epoca Tang, ovvero dalla lontana India a questi ultimi collegati tramite la Via della Seta. Tale rifiuto di uno stile arcaico e la volontà di introdurre le forme cinesi del tempo caratterizzano le grandi statue in bronzo dello Yakushiji. Yakushi Nyorai, il buddha della medicina troneggia fra due bodhisattva, uno solare (Nikko Bosatsu, Suryaprabha), l’altro lunare (Gakko Bosatsu, Candraprabha). Se la stilizzazione dei volti dei personaggi evoca l’arte dei Sui, la monumentalità, il naturalismo del-

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la muscolatura e l’ampiezza dei drappeggi sono debitori dell’arte dei Tang [fig. 14]. Epoca Tempyo (710-794)

Stanze dei monaci

Stanze dei monaci

Sala dorata

Pagoda

Corridoio

Corridoio

Sala di lettura

Pagoda Porta interna

Porta meridionale

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Corridoio settentrionale Ala nord

18. Kondo, 759 circa. Nara, Toshodaiji.

Porta settentrionale Sala di lettura Campanile

19. Interno del kondo, 759 circa. Nara, Toshodaiji. 20. Mensole che sostengono il soffitto del kondo, 759 circa. Nara, Toshodaiji. 16. Pagoda est, 730. Nara, Yakushiji.

21. Pianta del Todaiji, 749, Nara.

17. Pianta dello Yakushiji, 718. Nara.

22. Particolare della pianta del Todaiji, 749, Nara.

Porta occidentale

Porta settentrionale

Sala dorata Sala del grande Buddha

Archivio dei sutra

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Porta orientale

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Sala dorata Sala del grande Buddha

Porticato occidentale

Porticato orientale

Recinzione pagoda orientale

Recinzione pagoda occidentale Porta meridionale

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torni orientali di Nara, ebbero avvio nel 745; la consacrazione avvenne nel 749. L’amministrazione dinastica ebbe il compito di raccogliere i materiali necessari alla grandiosa realizzazione. Parallelamente, a partire dal 743(?), ogni circoscrizione provinciale viene dotata di un tempio (kokubunji) sul modello della capitale. Il mantenimento dell’unità nazionale e della pace interna è oramai legato al culto buddhista, più in particolare a una liturgia ripetuta in una data fissa in onore degli shitenno (lokapala). Gli architetti del Todaiji sviluppano con maggiore complessità la pianta assiale, caratterizzata dalla doppia pagoda, dello Yakushiji [figg. 21-22]. Le pagode sono però situate all’esterno del cortile. Il santuario principale (daibutsuden), in asse rispetto all’ingresso, era di dimensioni stupefacenti. In epoca di Kamakura venne ricostruito in scala ridotta del 60% rispetto

Porta meridionale

22 Corridoio meridionale

Corridoio orientale

Refettorio

secondo e al terzo livello un balcone permette di compiere il giro dell’edificio. Il kondo del Toshodaiji, eretto senza dubbio dopo il 770, è l’edificio più esteso rimasto dell’epoca di Nara [figg. 18-19]. Riproduce apparentemente formule architettoniche in voga nella Cina dello stesso periodo. Di pianta bislunga esso possiede sette campate in facciata e quattro in profondità. La prima campata forma un portico; quella di fondo è chiusa da pesanti porte. Le mensole, strutturalmente molto complesse, sono copia fedele di prototipi Tang [fig. 20]. Nel 737 il paese venne devastato da una epidemia di vaiolo e da calamità varie. Il sovrano Shomu (regnante 724-749) fece voto nella circostanza di edificare un immenso tempio centro della Chiesa buddhista statalizzata. I lavori del vasto complesso del Todaiji, eretto nei din-

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Sala di passaggio Stanze dei monaci

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La tradizione voleva che alla morte di ogni sovrano si creasse una nuova capitale. Lo sviluppo della burocrazia e il desiderio di competere con altri Stati spinsero in favore della costruzione di una capitale fissa. Nel 710 la regina Genmei sposta la corte in una nuova località, Heijokyo, oggi Nara, vasta città edificata sul modello di Chang’an, la capitale cinese. Nel corso dell’era Tempyo, il principale periodo dell’epoca di Nara, il buddhismo, al suo apogeo, è religione di Stato. Il clero, sostenuto dalla corte e dai nobili, ha il compito di pregare per la pace e la prosperità del paese e della famiglia dinastica. L’ordinazione dei monaci e l’istituzione dei monasteri sono severamente regolamentati dal potere civile. Sei scuole (Nanto Rokushu) provenienti dalla Cina si spartiscono la comunità. La scuola Sanron, introdotta nel 625, si fonda sui tre trattati principali dei Madhyamika indiani e insiste sulla nozione di vacuità. Parallelamente la scuola Jojitsu, benché di obbedienza mahayanica, sviluppa una logica analitica derivante dal Theravada. La scuola Hosso, attestata nel 660, deriva dalla scuola indiana degli Yogacarya e accorda un favore particolare all’analisi della coscienza e all’assenza di differenziazione fra il soggetto e l’oggetto. La scuola Kusha (seconda metà del v secolo) studia più in particolare lo Abhidharmakova e l’opera di Vasubandhu. La scuola Kegon, presente nel 736, dà priorità allo Avatamsaka sutra, che considera il buddha Vairocana come fondamento di tutto. Infine la scuola Ritsu privilegia la disciplina monastica (vinaya). Essa fu introdotta in Giappone nel 754 dal monaco cinese Jianzhen (Ganjin in giapponese [688-763]) e prevede una liturgia complessa in occasione della ordinazione dei monaci. Nara si dota di grandiosi monasteri le cui tracce sono rimaste conservate in maniera molto disomogenea. Parecchi santuari eretti in un periodo precedente vengono spostati nella nuova capitale, lo Yakushiji, ad esempio, nel 718 [fig. 17]. In occasione della ricostruzione si ideò una planimetria totalmente simmetrica doppiando la pagoda e mettendo il kondo nell’asse della porta sud. La pagoda orientale (730) è giunta fino ai nostri giorni [fig. 16]. Ha una concezione originale, consta di tre piani sdoppiati e di due livelli di tettoie più o meno debordanti. Al


23. Kichijo Ten, guazzo su canapa, viii secolo. Nara, Yakushiji.

all’originale, ma costituisce tuttora il più grosso edificio in legno al mondo. Il Todaiji dipendeva dalla scuola Kegon. Il Daibutsuden ospita una statua colossale di Birushana (Vairocana) alta 25 metri. Per realizzarla fu necessario un milione di libbre di bronzo. Una miniera d’oro miracolosamente scoperta nella provincia fornì i duecentocinquanta chilogrammi di metallo del prezioso rivestimento. Gli occhi del buddha vennero solennemente «aperti« nel 752 in concomitanza con una cerimonia grandiosa. Nel corso dei secoli il complesso monumentale ha subìto numerose distruzioni e ricostruzioni. Alcuni petali della base del grande Birushana risalgono all’epoca di Nara. Così pure una lanterna in bronzo apparecchiata nel cortile principale [fig. 24]. Le sue ante traforate presentano un sontuoso disegno di bodhisattva, molto influenzato dalla estetica dei Tang, come i grandi bronzi della fine dell’epoca Hakuho. Forme piene, vesti ampie dai pesanti drappeggi e sciarpe svolazzanti caratterizzano una delle rare pitture che ci provengono da questa epoca: la celebre Kichijo Ten (Mahavri Devi), sposa del lokapala Vaivravapa, conservata presso lo Yakushiji [fig. 23]. Questa antica dea induista della fecondità, incorporata nel pantheon buddhista, ha in mano un gioiello, suo peculiare attributo. L’aggiunta di sfoglie d’oro rafforza

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l’impressione di sontuosa delicatezza di una estetica ispirata decisamente a modelli cinesi del tempo. Il laboratorio artistico della corte (Zobussho) e quello dei grandi monasteri sviluppano tecniche di scultura molto diversificate, alcune delle quali sono attestate in Cina; ma gli artisti giapponesi sapranno portare a una perfezione mai raggiunta i procedimenti tecnici. Si nota la presenza di sculture in argilla cruda e seccata (sozo), lontana eco di tradizioni centroasiatiche. Sopra un’anima in legno la terra mescolata in misura gradualmente meno grezza a fibre di tessuto e carta è modellata in strati successivi. L’epidermide è costituita di argilla molto fine (kokuso) mescolata a carta e a canapa e in parte colorata [fig. 25]. La maggioranza dei pezzi realizzati seguendo questo procedimento è scomparsa a causa della sua fragilità. All’interno della pagoda dello Horyuji si trovano vere e proprie scenografie, datate al 711, eseguite con

24. Daibutsuden, anta di lanterna, bronzo, 752 circa. Nara, Todaiji. 25. Arhat addolorato, elemento di un Parinirvapa, argilla cruda, 711. Nara, Horyuji (pagoda, primo livello, lato nord). 26. Ashura, lacca secca, 734 circa (particolare). Nara, Kofukuji. 27. (Bazarataisho) Generale di Yakushi Nyorai, argilla cruda, viii secolo. Nara, Shin Yakushiji. 28. Ritratto del monaco Ganjin, lacca secca, 763 circa. Nara, Toshodaiji.

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lo stesso metodo in argilla cruda. Le opere in lacca secca si dividono in due gruppi principali. Alcune sono cave, sostenute da una armatura in legno coperta da strati di argilla e di canapa – una tecnica chiamata lacca secca cava (dakkanshitsu) [fig. 29]. Altre possiedono un’anima tutta in legno sulla quale sono applicate argilla, canapa e infine lacca – una tecnica chiamata lacca secca piena (mokushin kanshitsu). Quale che sia la tecnica adoperata l’insieme è spesso dorato e dipinto. Dal punto di vista stilistico, più di una corrente anima la statuaria dell’viii secolo. L’espressività tipica delle statuette in argilla cruda della pagoda dello Horyuji si ritrova nel corso di tutto il periodo. I visi corrucciati delle divinità guardiane si prestano a molteplici variazioni come testimoniano ad esempio i dodici generali di Yakushi Nyorai conservati presso lo Shin Yakushiji in origine concepiti per un altro santuario, lo Iwabushidera, tempio del villaggio vicino a Byakugojimura [fig. 27]. Le dimensioni in scala naturale, i gesti sospesi e gli sguardi conferiscono loro una presenza impressionante. La loro iconografia e le loro armature sono eredi dirette dell’arte dei Tang. Certi monaci importanti sono ritratti con estremo realismo. La più celebre opera del genere è il ritratto in lacca secca del monaco Ganjin, fondatore del monastero del Toshodaiji [fig. 28]. Il personaggio, raffigurato a grandezza naturale, possiede una monumentalità e una sobrietà accentuate dal viso impassibile immerso in una profonda meditazione. Il ritratto fu realizzato poco tempo prima o dopo la morte del maestro. Gli occhi gonfi sono resi con particolare cura: Ganjin era cieco quando nel 753 giunse in Giappone. Le tecniche della lacca secca impongono una certa rigidità alla posizione e tutta l’espressività è concentrata sul volto. Il Kofukuji (710), fondato e protetto dal potente clan dei Fujiwara, è il tempio più antico della capitale. Benché in grossa parte distrutto esso conserva numerose sculture che risalgono al tempo del suo massimo splendore. Fra esse due gruppi saltano agli occhi. Uno raffigura i dieci discepoli di Vakyamuni, l’altro gli otto guardiani sovrannaturali (Hachibushu) del Buddha (734 circa). Uno dei personaggi, Ashura (Asura), ha tre teste e sei braccia [fig. 26]. Ogni viso possiede una espressione diversa il cui realismo contrasta con la purezza spinta delle forme e la longilineità degli arti. Senza rinnegare i loro precedenti cinesi, le opere della seconda metà dell’viii secolo

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dai tratti semplificati. La loro espressione è tuttavia pregna di una estrema interiorità come nel caso della Juichimen Kannon conservata presso lo Shorinji di Sakurai shi [fig. 32]. I laboratori del Toshodaiji svilupparono una nuova tecnica. Alcune sculture, quali ad esempio un grosso Yakushi Nyorai, sono intagliate in un solo tronco d’albero – nel caso un cipresso del Giappone (hinoki) [fig. 30]. Tale tecnica diverrà di uso comune in epoca Heian. Petto possente, con masse muscolari ben disegnate e chiare, e spalle larghe contrastano con una testa tonda e relativamente piccola. Il vestito aderente al corpo, animato da pieghe larghe e simmetriche, si ispira a modelli di epoca Tang. È impossibile parlare dell’arte buddhista dell’epoca di Nara senza ricordare le circa duecento maschere in legno conservate nel deposito dinastico delle Shosoin (756), presso lo Horyuji e presso il Todaiji. Esse venivano indossate nel corso di danze particolari (gigaku), di origine senza dubbio cinese, la cui tradizione è andata perduta. Si tratta di maschere particolarmente espressive che raffigurano varie divinità minori del pantheon buddhista, talune dotate di tratti animaleschi [fig. 31]. Epoca di Heian (794-1185) Per sottrarre il governo alla influenza vieppiù invadente dei grandi monasteri, il sovrano Kanmu (regnante 781-806) abbandona Nara nel 784 in favore di Nagaoka, a un centinaio di chilometri più a nord. Nel 794 decide di costruire

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mostrano con maggiore evidenza una metabolizzazione dei modelli continentali. Il pezzo di maggiori dimensioni conservatosi, in lacca secca, è la Senju Kannon del kondo del Toshodaiji [fig. 29]. L’opera costituisce il primo esempio giapponese di questa variante a mille braccia di Avalokitevvara. Anche se vi erano artigiani cinesi al lavoro presso il Toshodaiji, la estrema stilizzazione delle forme e la ieraticità del profilo accentuato dalle dimensioni maestose dell’opera si staccano dalla estetica cinese dell’epoca. Alcune sculture sono muscolarmente possenti ma stilizzate e hanno un viso

30. Yakushi Nyorai, legno, seconda metà dell’viii secolo. Nara, Toshodaiji. 31. Maschera da gigaku, legno, 752 circa. Nara, Todaiji. 29. Senju Kannon, lacca secca, seconda metà dell’viii secolo. Nara, Toshodaiji (kondo).

32. Juichimen Kannon, lacca secca, seconda metà dell’viii secolo. Sakurai, Shorinji (kondo).

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la nuova capitale, che prende il nome di Heiankyo la «città della pace e della tranquillità«, l’odierna Kyoto. In occasione della costruzione del nuovo centro amministrativo vennero edificati solo due templi ufficiali, situati a sud della città: il tempio orientale, Toji, e quello occidentale, Saiji. Le sei scuole di Nara lontano dalla corte perdono gradualmente di importanza. I dinasti favoriscono due scuole nuove, la Tendai e la Shingon. Il buddhismo Tendai deriva dal Tiantai cinese. Viene introdotto in Giappone nell’805 dal monaco Saicho (767-822), meglio noto con il titolo postumo di Dengyo Daishi («grande maestro della trasmissione della dottrina«). Egli ancora giovane si ritira sul monte Hiei, nei pressi della futura capitale, e studia con zelo l’opera del maestro cinese Zhiyi (538597), eminente religioso che aveva fondato un proprio monastero nel 575 sul monte Piantai nella provincia dello Zhenjiang. Il tempio, costruito nel luogo del suo ritiro sul monte Hiei, è dichiarato nel 794 «luogo di pratica consacrato alla protezione dello Stato«, titolo fino allora esclusivamente riservato ai sei grandi templi di Nara. Al ritorno ottiene il privilegio di ordinare dei novizi e, nell’822, grazie alla costruzione sul monte Hiei di una base per ordinazioni a sé stante, la sua scuola diventa del tutto indipendente dalle sei scuole tradizionali. L’eclettismo dottrinario di Zhiyi, i cui insegnamenti si fondavano sul Sutra del Loto, viene ulteriormente accentuato da Saicho, che accorda una certa importanza alla meditazione come pure a parte degli insegnamenti esoterici della scuola della «vera parola« (Zhenyan in cinese, Shingon in giapponese). Al formalismo delle scuole di Nara fa seguito una religione basata sulla fede e più attenta a una salvezza individuale teoricamente accessibile a tutti. Nel corso dell’xi secolo, sotto l’influenza dei monaci Ennin (794-864) ed Enchin (814-891), il Tendai fa propri sempre più numerosi elementi esoterici derivati dallo Shingon. Lo Shingon, che giocherà un ruolo primario in epoca Heian, venne fondato dal monaco Kukai (774-835), meglio noto con il titolo postumo di Kobo Daishi («grande maestro della propagazione della Legge«). Kukai a Nara studia, in occasione del tirocinio monastico, il Dainichikyo (Mahavairocana sutra). Soggiorna in Cina dal­l’804 all’806 e lì diventa discepolo del maestro Huiguo (Keika in giapponese, 746-805), il settimo patriarca della scuola Zhenyan; dopo la morte di quest’ultimo ne sarà considerato il

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successore. Di ritorno in Giappone raggiunge Nara e diventa abate del Todaiji ma crea un suo collegio fra le montagne circostanti la nuova capitale e, nell’816, il Kongobuji, tempio principale della nuova scuola, sul monte Koya. La sua straordinaria personalità e il prestigio di cui godono i rituali magici gli guadagnano i favori della corte. Nell’823 il sovrano gli affida il Toji, che prende allora il nome di Kyoogokokuji («tempio per la protezione del paese«). La magnificenza delle cerimonie esoteriche seducono una aristocrazia raffinata, sensibile alla loro qualità estetica. Il presunto influsso dei rituali magici sulle più diverse componenti del mondo fenomenico, a protezione tanto dello Stato quanto delle famiglie feudali dai flagelli vari, assicurano alla scuola il favore dei governanti, desiderosi di una efficacia immediata della religione. Così lo Shingonin, un santuario all’interno stesso del Palazzo, è dedicato esclusivamente ai riti esoterici, segnatamente a una sontuosa cerimonia che segna l’inizio dell’anno lunare, celebrata per la prima volta nell’834 [fig. 33]. Nell’835 Kukai entra in meditazione. Secondo la tradizione egli attende totalmente immobile nella sua tomba del Koyasan l’avvento di Miroku, il buddha del futuro. Eredi indiretti degli Yogacarya, Kukai e i suoi discepoli non fanno differenza fra mondo fenomenico

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33. Shingonin del palazzo reale di Nara (dipinto 4, rotolo 6 del Nenjugyoji emaki), inchiostro e colori su carta, copia dell’originale, 1160 circa. Collezione privata.

34. Pagoda, stile wayo, 1223. Wakayama, Kokubunji. Kongobujinmaiin. 35. Pianta del kodo, epoca Heian. Nara, Myorakuiji. 36. Pianta del Kamidaigoen del Junteido, epoca Heian. Shingon Daigoji.

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e coscienza. L’intero universo è impersonato dalla figura simbolica di Dainichi Nyorai, il buddha supremo (Mahavairocana). Ciascuno può realizzare quella parte di buddhità latente che porta in sé. Insegnamenti esoterici predicati dallo stesso Vakyamuni a discepoli cinesi, mantra (shingon in giapponese), mudra (in in giapponese) e variegati pantheon sono tutti elementi che trasformeranno l’arte buddhista dell’arcipelago. I secoli viii e ix vedranno anche lo sviluppo di culti sincretisti buddhisti e shinto (Honji suijaku), nei quali ogni divinità buddhista verrà abbinata a una della religione autoctona. La ricerca di luoghi isolati, spesso in montagna, per la costruzione di monasteri, sul modello degli eremitaggi cinesi o indiani, ebbe come conseguenza l’abbandono delle planimetrie

regolari e simmetriche in voga nelle epoche precedenti. I vari edifici vengono ormai dislocati in maniera irregolare in funzione della configurazione del terreno. Ne è un buon esempio il convento Muroji di Nara, eretto, al principio del ix secolo sui luoghi in cui intorno al 700 si era ritirato l’eremita Shokaku Gyoja, su principi architettonici in linea con quelli adottati nel Kofukuji di Nara. Le nuove fondazioni tendai e shingon sviluppano tale tendenza architettonica. Nei monasteri shingon il kodo è diviso in due, il raido e il naijin o sala posteriore. Quest’ultimo essendo riservato a rituali esoterici, come ad esempio nel kodo del Myorakuiji, fu ingrandito nel 972 [fig. 35]. Lo stesso discorso vale per i kondo. Le strutture sono talora sdoppiate, con un portico che collega il raido, la sala delle preghiere, che nel caso costituisce un primo padiglione del santuario propriamente detto [fig. 36]. Edifici analoghi fanno parte della tradizione cinese. Parallelamente alle torri a più piani la scuola Shingon sviluppa un nuovo tipo di pagoda chiamata tahoto («pagoda dei molti tesori«), simile ai prototipi indiani conosciuti senza dubbio grazie ai reliquiari portatili di origine continentale. Un primo tetto è coronato in parte da una finta cupola esso stesso sormontato da un corridoio circolare perimetrato da una balaustrata e da un secondo livello di tettoia. Gli edifici più antichi di questo tipo conservatisi risalgono però all’epoca di Kamakura: Ishiya madera, 1194; Kongosammai’in, sul Koyasan, 1223 [fig. 34]. Le complesse cerimonie delle scuole Tendai e Shingon necessitano di padiglioni destinati ai rituali di purificazione o di cappelle dedicate a una o più divinità esoteriche. Al Toji una sala per le iniziazioni (kaidanin) si abbinava così nell’angolo sudoccidentale della recinzione alla pagoda ricostruita nel 1644 nell’angolo sudorientale. Il kodo, consacrato nell’839, appena tre anni dopo la morte di Kukai, ha conservato la maggior parte delle statue. Esse, benché restaurate, hanno ancora l’aspetto che avevano nel ix secolo, e sono disposte su di una grossa piattaforma intorno a Dainichi alla stregua di un mapdala. La loro iconografia, talora complessa, è di origine indiana, anche se gli esemplari conosciuti da Kukai provenivano dalla Cina [fig. 37]. Alcune sono tecnicamente elaborate. Solo le vesti sono laccate e contrastano con le carnagioni in legno dipinto. L’arredamento del kodo del Toji rappresenta però una eccezione. Per i complessi rituali del

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37. Bonten, legno,839 circa. Kyoto, Toji (kodo).

39. Mapdala della Matrice della Grande Compassione, guazzo su seta. Antica copia di un originale della fine dell’xi secolo,

38. Mapdala dei due Mondi, dipinto su legno, 951. Kyoto, Daigoji (pagoda, pilastro centrale).

buddhismo shingon, in particolare per le cerimonie di consacrazione esoterica (abhiseka) venivano più spesso adoperate grandi raffigurazioni pittoriche (mapdala, mandara in giapponese) disposte alle due estremità della sala. Il Kanshinji di Osaka, benché arredato nel 1375, presenta una disposizione del genere, erede del periodo precedente. Le due raffigurazioni, chiamate Ryokai mandara (Mapdala dei due Mondi), sintetizzano le dottrine fondamentali della scuola esoterica, raggruppando intorno a Dainichi Nyorai numerose divinità secondo una rigida gerarchia. Una di esse, il Mapdala della matrice (Garbhadhatu mapdala, Taizokai mandara in giapponese), organizzato in cerchi concentrici, raffigura l’universo come una manifestazione della compassione di Dainichi Nyorai [fig. 39]. L’altra, il Mapdala del Mondo Adamantino (Vajradhatu mapdala, Kongokai mandara in giapponese), raffigura l’universo, a scacchiera, come una manifestazione della saggezza perfetta del buddha supremo [fig. 40]. Kukai aveva ricevuto dal suo maestro cinese numerosi dipinti di argomento esoterico, fra cui due mapdala di questo tipo. Essi vennero copiati. Così a Kyoto il Jingoji conserva due grossi mapdala disegnati in oro su fondo di damasco violetto, prodotti fra l’829 e l’833. Le divinità dello Shingon ornano il pilastro centrale del Daigoji a Kyoto (951) facendo dell’intero edificio una sorta di raffigurazione simbolica tridimensionale [fig. 38]. I due grossi mapdala del Toji, più volte fedelmente copiati dagli originali dipinti alla fine del ix secolo, sono particolarmente celebri. I personaggi dai visi infantili e dai corpi modellati con delicati lumeggiamenti continuano canoni in uso alla fine dell’epoca dei Tang [figg. 39-40]. La stessa estetica caratterizza un insieme di dipinti che raffigurano i dodici deva, protettori dalle epidemie e dai disastri naturali, prodotti nel 1127 per essere esposti nello Shingonin in occasione della cerimonia per il Nuovo Anno. Da notare i delicati motivi floreali del vestito lumeggiati di oro (kirikane) e di bianco nello stile tipico di numerosi dipinti del tempo [fig. 41]. Le divinità dall’aspetto irato sono una delle caratteristiche della iconografia del buddhismo esoterico. Uno dei dipinti più impressionanti di questo tipo risale all’epoca Heian e raffigura Fudo Myoo (Acala). Esso è conservato presso lo Shorenin di Kyoto e data alla metà dell’xi secolo. Fudo è uno dei cinque myoo-bu (vidyaraja). Aspetto irato di Dainichi Nyorai, è

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Kyoto, Kyoogokokuji.

40. Mapdala del Mondo Adamantino, guazzo su seta. Antica copia di un originale della fine dell’xi secolo, Kyoto, Kyoo-

gokokuji.

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famoso per esaudire tutte le richieste e liberare da tutti i pericoli. Lo si evoca in occasione di un rituale destinato alla protezione dello Stato. Questo dio, la cui personalità virile è sottolineata dalla spada e dalla corda che ha nelle mani, reso ancora più inquietante dal suo pronunciato strabismo, non limiterà la propria carriera all’ambito dello Shingon. Il suo culto verrà reso popolare dal monaco Enchin (814-891), meglio noto sotto il nome di Chisho Daishi, discepolo della scuola Tendai al quale sarebbe apparso. Il dio dalla pelle blu, come vuole la tradizione, troneggia su di un cumulo di rocce e spuntando in maniera impressionante da un turbinio di fiamme [fig. 42]. Lo accompagnano due servitori: Kongara Doji (Kikkara), che tiene il loto, e Seitaka Doji (Cetaka), rosso di carnagione. Contemporaneamente alla diffusione delle iconografie esoteriche si assiste allo sviluppo di correnti più tradizionali, eredi in parte dell’epoca di Nara. Il periodo Jogan (859-877) darà il proprio nome a una tecnica particolare di scultura su legno, jogan-chokoku, in uso dai primi dell’epoca Heian fino al x secolo. Le opere so-

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no intagliate in un unico tronco d’albero (ichibokuzukuri) spesso svuotato della parte interna [fig. 44]. Il drappeggio dell’abito cade in larghe pieghe a mo’ di «onde« (honpashiki). La testa spesso di piccole dimensioni continua lo stile del laboratorio artigianale del Toshodaiji della fine dell’epoca di Nara. Nel complesso l’ispirazione proviene dall’arte della fine del periodo Tang, che gli artisti conoscevano grazie al tramite costituito dai reliquiari portatili in legno di sandalo grezzo. Le opere in legno di cipresso sono adornate con una delicata policromia, ma quelle in legni pregiati sono lasciate allo stato naturale. La potenza crescente dei grandi feudatari erode lentamente il potere dinastico. Il clan dei Fujiwara, influente già in epoca Nara, si impadronisce così di numerosi incarichi ufficiali. Nell’858 Fujiwara no Yoshifusa (804872) occupa il posto di reggente (sessho) che si trasmetterà ereditariamente per due secoli all’interno della sua famiglia. Parallelamente regolari rapporti ufficiali con la Cina si svolgono nel corso del ix secolo. Dall’894 cesseranno, ma mercanti cinesi continueranno a intrattenere sporadici contatti con l’isola del Kyushu. Lo sviluppo di moltissimi aspetti originali della

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civiltà giapponese si spiega in parte con questo relativo isolamento. L’arte buddhista venne influenzata con ritardo da questo lento emergere di caratteristiche autoctone. Numerose testimonianze consentono di farsi una idea della pittura religiosa dell’epoca, una delle più brillanti della storia giapponese. In contrasto con le complesse iconografie sviluppate dalla scuola Shingon, la scuola Tendai propone raffigurazioni più tradizionali. Uno dei capolavori pittorici del periodo è conservato presso il Kongobuji, a Wakagama fra le alture del Koyasan. Esso raffigura Vakyamuni al termine della sua esistenza terrena, in occasione del nehanzu (parinirvapa). L’opera si rifà senza dubbio a un modello cinese. Intorno al maestro impassibile e sereno dei discepoli, divinità secondarie e un leone, simbolizzante gli appetiti animali degli uomini, si lamentano esprimendo con varie espressioni il proprio dolore [fig. 43]. Il corpo disteso del buddha, drappeggiato di bianco, e la carnagione dipinta in oro conferiscono unità al quadro. Gli alberi hanno una grazia tipicamente giapponese. L’opera è datata

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41. Sui Ten, guazzo e oro su seta, 1127, Kyoto, Toji.

42. Fudo Myoo, colori su seta, metà dell’xi secolo. Kyoto, Shorenin.

1086. Lo stesso senso del paesaggio caratterizza il rakan Nakura, uno dei pezzi che compongono una celebre suite di sedici rakan (arhat), proveniente dal Raigoji di Shiga [fig. 45]. Gli alberi e la balaustrata sono tratti da composizioni profane che si andavano decisamente emancipando dalle tradizioni cinesi (scuola yamatoe). Il protagonista sembra invece preso da archetipi creati sul continente. Bisogna notare la presenza dei due servitori e del bambino demoniaco, ritratti in una maniera caricaturale non priva di umorismo. Un insieme di rotoli un tempo appartenuti allo Ishijoji di Hyogo (Nara, Museo Nazionale), raffigura i dieci patriarchi della scuola Tendai. Maestri indiani, santi cinesi e pontefici giapponesi si succedono dotati tutti di caratteristiche personalizzate come fossero dei ritratti. Deng­ yo Daishi ad esempio è immerso in profonda meditazione [fig. 46]. La stilizzazione delle forme contrasta con i delicati motivi delle vesti. Datare con precisione l’assieme non è semplice. La rotondità quasi perfetta dei volti farebbe pensare alla fine dell’xi secolo o al xii.

Durante il periodo in questione i culti fideisti hanno un notevole sviluppo. Ad esempio la devozione verso Miroku, che verrà a liberare l’umanità, oppure quella verso il bodhisattva Jizo (Ksitigarbha), che aiuta i fedeli viventi e poi intercede per loro presso il tribunale degli inferi e la cui venerazione metterà profonde radici nella religiosità giapponese. Nessuna di tali correnti sarà in grado di rivaleggiare con la dottrina salvifica amidista. A questa scuola importata dalla Cina nel vii secolo venne assegnato il nome di Jodokyo («dottrina della Terra pura«). Essa prese piede in Giappone durante il x secolo soprattutto grazie al monaco itinerante Kuya (903-992). La recitazione intenzionale della formula «Namu Amida butsu« («Omaggio al buddha Amida«) farebbe rinascere nel meraviglioso paradiso della divinità. La dottrina venne propagata anche dal monaco tendai Genshin (942-1017), noto con il soprannome di Eshin-Sozu, il quale nel 965 redasse lo Ojo-yoshu (L’Essenziale per la rinascita), una opera composta da brani di sutra e commentari relativi ad Amida. Il monaco Ryonin (1072-

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1132) giocò un ruolo significativo nello sviluppo dell’amidismo poiché diede fondamento filosofico alla possibilità di liberazione tramite l’invocazione sacra del nome di Amida. Il «padiglione della Fenice« (Hoodo) del Byodoin di Uji, non lontano da Kyoto, costituisce una straordinaria testimonianza del raffinato mecenatismo dei Fujiwara e della devozione ad Amida durante il periodo Heian. L’edificio faceva parte di un complesso templare privato, ricavato a partire da una residenza estiva da Fujiwara no Yorimichi (992-1074), ultimo reggente del clan Fujiwara. Il santuario principale, che è scomparso, era dedicato a Dainichi Nyorai come tantissime costruzioni del tempo. Il nome «padiglione della Fenice« fa riferimento sia agli uccelli fantastici che torreggiano sul tetto sia alla forma della pianta dell’edificio. Esso è concepito come raffigurazione tridimensionale del palazzo di Amida nella Terra pura dell’Occidente [figg. 48-49]. Si riflette in un laghetto. La presenza dell’elemento acquatico e la simmetria dell’edificio si ricollegano a schemi usuali all’epoca dei Tang, testimoniati in dipinti di Dunhuang (Gansu). I corridoi laterali si ispirano alla architettura

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civile dell’epoca Heian. Disposizioni simili erano al tempo frequenti presso le residenze della aristocrazia (shindenzukuri). Nel Byodoin un primo piano in trompe-l’oeil conferisce una particolare grazia ed eleganza all’edificio. Lo Hoodo non era un monumento isolato. Nella stessa epoca sono attestati altri santuari, dalle forme ispirate ai palazzi signorili, dotati di un padiglione centrale di norma quadrato che si specchia in uno stagno: Konjikido del Chusonji, Fukiji e Hokaiji. Il più antico potrebbe essere stato lo Hojoji, dedicato a Dainichi Nyo-

43. Mahaparinirvana, colori su seta, 1086, Wakayama, Koyasan, Kongobuji. 44. Yakushi Nyorai, legno, ix secolo. Nara, Gangoji.

45. Nakura, colori su seta, fine ix secolo. Kyoto, Museo Nazionale (provenienza: Raigoji, Shiga). 46. Dengyo Daishi, colori su seta, xi-xii secolo. Nara, Museo Nazionale (provenienza: Ichijoji, Hyogo).

rai, eretto dal padre di Yorimichi, Michinaga (966-1027) e consacrato nel 1020 e nel 1022. Queste varie soluzioni architettoniche traggono ispirazione dai parchi dei nobili il cui paesaggio cambia aspetto mentre si procede (kaiyushiki teien, «giardino in trasfomazione«). Il percorso poteva essere compiuto in battello sullo specchio d’acqua. La loro trasposizione in campo religioso portò alla creazione di un nuovo genere di giardino, il jodoshiki («giardino di tipo paradisiaco«), che evoca le Terre pure dei buddha. Il santuario del Byodoin ospita una statua di Amida alta 2,80 metri, in legno dorato, che porta una dedica del 1053 [fig. 47]. L’opera si deve a Jocho (morto nel 1057), il quale abbandona le costrizioni tecniche del jogan-chokoku in favore di un procedimento più complesso caratterizzato dall’assemblaggio di più pezzi (yosegizukuri) che permette una maggiore morbidezza compositiva. Si tratta di una tecnica, inventata forse da suo padre Kosho (9901020 [o dopo]), che rinnoverà completamente la scultura buddhista giapponese. Il canone particolare delle sculture del ix secolo, con la testa spesso sproporzionata rispetto al resto del

corpo, alla muscolatura e alle pieghe dell’abito sottolineate con forza, viene qui abbandonata in favore di una certa stilizzazione delle forme e di una ricerca di interiorità nella espressione del viso quasi perfettamente tondo. I muri e i battenti delle porte del santuario sono decorati di dipinti che raffigurano le «nove tappe della esistenza« (kuhon ojo). Visioni idealizzate della Terra pura dell’Occidente vi si alternano a paesaggi influenzati dai rotoli profani dell’epoca (yamatoe). La discesa di Amida (raigo) occupa un posto importante. Alla fine dell’epoca Heian e in epoca Kamakura questo tema diverrà uno dei soggetti privilegiati della pittura buddhista. Una coorte di bodhisattva e di personaggi divini appare al defunto oltre le montagne dell’Occidente e lo attira affinché egli rinasca nella Terra pura di Amida. Un trittico conservato presso lo Yushi Hachimanko Juhakkain, sul Koyasan, benché più tardo di un secolo, partecipa della stessa sensibilità estetica [fig. 50]. Il corteo passa al di là di un lago. Una montagna occupa un angolo del rotolo di sinistra. Certi autori hanno creduto di potervi riconoscere il lago Biwa e il monte Hiei, luogo in cui l’opera venne eseguita prima che venisse portata al Koyosan nel 1571. I

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trentacinque assistenti del buddha hanno fisionomie simili a quelle dei bodhisattva raffigurati nello Hoodo, ma contorni di un rosso sostenuto e colori più vivaci. La veste del buddha è ornata da foglie d’oro (kirikane). Nel 1068 il sovrano Go-Sanjo (regnante 10341073), attorniato da consiglieri provenienti dalla piccola nobiltà, ristabilisce il principio del governo personale e favorisce il clan dei Minamoto. Egli inaugura una pratica politica originale. Nel 1072 abdica, e abbandonati i pesanti obblighi cultuali della propria carica può interamente dedicarsi agli affari in veste di Joko, «dinasta in ritiro«, in clausura in una residenza di Uji trasformata in monastero. Questa particolare forma di governo (sistema «insei«) continuerà fino al termine dell’epoca Heian. I sovrani in clausura moltiplicheranno le istituzioni religiose, fra altre di scuola shingon, dotate di un ricco mobilio cultuale. Nel xii secolo l’arte buddhista presenta una situazione ambivalente. La corte dinastica, proseguendo il mecenatismo dei Fujiwara, commissiona opere estremamente raffinate. Il Fugen Bosatsu (Samantabhadra) del National Museum di Tokyo è tipico di questa sofisticata produzione [fig. 52]. Il bodhisattva vi appare troneggiante su di un elefante bianco in cerca di devoti del Sutra del Loto della Buona Legge per condurli al paradiso dell’Oriente. I suoi tratti quasi femminei, pieni di dolcezza e compassione, rammentano a chi osserva l’aiuto che egli offre ai dannati per la loro liberazione spirituale. L’opulenza degli agghindamenti e l’aureola delicatamente suggerita da tratti dorati, come pure la pioggia di fiori danno forza all’essenza artistica dell’opera. Questa eleganza al limite del manierismo si ritrova nelle più belle sculture della fine del periodo. Figli e allievi di Jocho proseguiranno sulle orme del maestro accentuandone il gusto per le forme gracili e gli ornamenti delicati. Tre sono i laboratori (bushi) che si spartiscono le commissioni ufficiali. Due hanno sede a Kyoto: la scuola In e la scuola En. La famosa Kichijo Ten dello Joruriji riflette questa estetica sofisticata [fig. 51]. L’opera, in più pezzi di legno assemblati e dipinti, è perfezionata con delicati elementi in metallo secondo un procedimento che diventerà molto frequente durante l’epoca di Kamakura. Il terzo laboratorio, la scuola Kei, fondata da Raijo, il cui maestro era anch’egli un allievo di Jocho, aveva sede a Nara. Il suo stile è più espressivo e si distingue dalla estetica raffinata dei Fujiwara.

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Nella provincia il relativo indebolimento del potere centrale favorisce l’emergere di scuole regionali, in particolare nella parte nordorientale dello Honshu. Esse riprendono i canoni in voga nella capitale amalgamandovi una rusticità più o meno pronunciata. Non si può fare a meno di completare un panorama dell’arte buddhista di epoca Heian senza menzionare l’esistenza di qualche isolata realizzazione di scultura rupestre a Usuki nel Kyushu e a Kasugayama nei pressi di Nara. Epoca di Kamakura (1185-1333) Dal 1068 i sovrani, con l’intento di contrastare gli intrighi della aristocrazia civile, si avvalgono del sostegno di signori provinciali che, alla testa di armate personali, diventeranno sempre più difficili da controllare per il potere centrale. Ben presto due clan entrano in guerra per il possesso della capitale, i Taira e i Minamoto. Un primo conflitto (1156-1160) porta un Taira alla più alta carica dello Stato. Poi la guerra

47. Jocho, statua di Amida, legno dorato, 1053. Uji, Byodoin. 48. Hoodo, 1053. Uji, Byodoin. 49. Pianta dello Hoodo, 1053. Uji, Byodoin.

Gempei (1180-1185), particolarmente cruenta e devastante, annienta il clan dei Taira e porta alla vittoria, nel 1185, dei Minamoto. Minamoto no Yoritomo (1147-1199) abbandona Heiankyo e insedia il proprio governo militare (bakufu) a Kamakura, in ragione della vicinanza di questa città ai suoi possedimenti. Egli ha il proprio sostegno in una classe di guerrieri organizzata secondo un sistema feudale gerarchico. La sua lealtà tutta formale nei confronti del nuovo sovrano, relegato a un ruolo cerimoniale e religioso nella vecchia capitale, gli assicura l’appoggio di numerosi funzionari della piccola nobiltà, troppo modesti per tentare una carriera a corte. Nel 1192 il sovrano lo nomina «generalissimo« (shogun). Nel 1199 la sua successione tocca ai suoi parenti acquisiti, gli Hojo, che governano di fatto il Giappone dal 1200 al 1333 con il titolo di reggenti (shikken) di Kamakura. Alla estrema raffinatezza e al lusso dell’arte di corte dell’epoca precedente fa seguito l’estetica sobria, spoglia e vigorosa propria dei militari di origine provinciale. Il rinnovato commercio con la Cina mette il Giappone a confronto con la ricca cultura dei Song (960-1279) e inaugura nuove tendenze. Il buddhismo venne profondamente influenzato dai mutamenti. Nuove scuole abbandonano l’intellettualismo e il ritualismo che avevano caratterizzato il Tendai e lo Shingon. La fede nella possibilità di salvezza per tutti, laici e monaci, in una unica vita si diffonde fra la popolazione facendo emergere un buddhismo molto individualista e interiorizzato. Due grandi correnti spirituali segnano profondamente la produzione artistica: lo sviluppo incessante del culto delle Terre pure e lo slancio del buddhismo Zen. Alla prima fu in principio dato lustro dal monaco Genku (Honen Shonin, 1133-1212), che preconizza come mezzo di salvezza la recitazione esclusiva della invocazione al buddha Amida (Senju-nembutsu). Shinran Shonin (1173-1262), discepolo di questi, fonda la «vera scuola della Terra pura« (Jodo Shinshu), che diverrà la corrente più importante del buddhismo nipponico. Altri monaci, in particolare Ippen Shonin (1239-1289), creano una vera e propria mistica intorno alla formula sacra. A partire dal vii secolo erano giunte in Giappone concezioni specifiche riguardanti la meditazione (dhyana, chan in cinese e zen in giapponese). Nel ix secolo esse furono incorporate nella dottrina del tendai. Il monaco tendai Eisai (Yosai [1141-1215]) nel corso di due viaggi in Cina – nel 1168 e dal 1187 al

1191 – studia la pratica e la teoria del Chan che risaliva a Linqi (Rinzai in giapponese), morto nell’867. Di ritorno in Giappone egli fonda nel 1191 la scuola Rinzai e rintuzza gli attacchi che gli vengono avanzati conquistandosi l’appoggio del governo militare di Kamakura. La Rinzai enfatizza l’azione e la presa di coscienza intuitiva tramite paradossi che sfidano la logica corrente e servono da tema di meditazione (gong’an in cinese, koan in giapponese). Dogen (1200-1253), un altro monaco tendai, a seguito di un viaggio in Cina dal 1223 al 1227 introduce a sua volta in Giappone una diversa forma di Chan, la Caodong (soto in giapponese). Nel 1244 fonda il monastero Eiheiji, dalla inflessibile disciplina, in cui si pratica lo zazen, la meditazione seduti. I maestri dello Zen giocano un ruolo importante nella introduzione in Giappone delle più varie forme della cultura cinese. Eisai, per esempio, importa l’uso del the; Dogen fa arrivare ceramisti e carpentieri. La setta creata da Nichiren (1222-1282), particolarmente celebre per il ruolo salvifico assegnato alla invocazione del titolo del Sutra del Loto (Namu Myoho Rengekyo in giapponese) e la sua opposizione alla Terra pura, ebbe scarsa influenza in campo artistico. Parallelamente alcune scuole antiche conobbero un qualche rinnovamento. Il monaco Eizon (1201-1290) e l’allievo Ninsho (1217-1303), appartenenti alla scuola Ritsu, sviluppano ad esempio l’assistenza ai poveri e ai lebbrosi. Jokei (1155-1213), della scuola Hosso, si fa fautore di un rinnovamento della disciplina monastica per contrastare le pratiche fideiste dei seguaci della Terra pura. In occasione delle guerre civili i due maggiori templi di Nara, il Todaiji e il Kofukuji, favorevoli ai Minamoto, vengono dati alle fiamme dai Taira. Minamoto no Yoritomo decide di ricostruirli. Egli rinnova un passato prestigioso con una certa fedeltà. Eretti sulle stesse fondamenta e le stesse basi di colonne, i nuovi edifici hanno quasi sempre le medesime dimensioni di quelli originari, benché taluni dettagli seguano i gusti del tempo. Le maggiori energie vengono concentrate sul restauro del Todaiji. L’immenso santuario non venne tuttavia ricostruito che in una proporzione pari ai due terzi dell’originale, e la colossale statua di Birushana fu rifatta interamente salvo rari frammenti antichi che erano scampati alla distruzione. I lavori vennero affidati al monaco Chogen (1121-1206), il superiore del Todaiji dal 1181 e uno degli ultimi grandi pellegrini giapponesi in Cina [fig. 61]. Questo religioso mise in opera uno stile

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architettonico che si può ammirare solo al Todaiji e in alcuni altri templi a lui legati: lo «stile indiano« (tenjikuyo). Si tratta di uno stile sicuramente originario della Cina sudorientale, ma nella visione giapponese rievocava miticamente le lontane terre occidentali. La grossa porta sud del Todaiji (Nandaimon), consacrata nel 1199, è fra i monumenti rimastici quello che più reca l’impronta di questa concezione architettonica [figg. 53-54]. Le mensole, incastrate nelle colonne, si ripartiscono sovrapposte su di uno stesso piano perpendicolare al muro. La mensola superiore, parallela al corpo dell’edificio, sostiene la tettoia. Questa tendenza architettonica originale diede luogo a una evidenziazione e a una certa standardizzazione delle strutture portanti. Il secondo stile tipico del periodo, lo «stile cinese« (karayo), trae ispirazione dalla architettura dei Song. Esso venne introdotto in

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Giappone dal monaco Eisai e venne impiegato soprattutto per costruire dei templi zen, a Kamakura e a Kyoto, i cui piccoli edifici non dissimili da quelli della edilizia civile sono disposti senza una rigorosa simmetria, seguendo le caratteristiche del suolo o delle mura di cinta. Es-

50. Discesa di Amida, colori su seta, fine xii secolo. Wakayama. Koyasan, Yushi Hachimanko, Juhakkain.

51. Kichijo Ten, legno dipinto, fine epoca Heian. Dintorni di Nara, Joruriji. 52. Fugen Bosatsu, colori su seta, prima metà del xii secolo. Tokyo, National Museum.

si hanno subìto nel corso del tempo numerose ricostruzioni e modificazioni. Una dozzina di edifici permettono di farsi un’idea del loro aspetto originario. Citiamo il più celebre: La cappella delle reliquie (Shariden) dello Engakuji di Kamakura, consacrata nel 1282 ma spostata nella posizione odierna dopo il 1563 [fig. 56]. L’architetto al quale si deve la sua costruzione avrebbe soggiornato a Hangzhou, capitale dei Song meridionali, nel 1279. I tetti hanno pendenze più ripide e i bordi sono molto rialzati. Le travi di sostegno delle tettoie sono ben visibili particolarmente agli angoli. Un sistema di mensole multiple forma una specie di cornice ornamentale. Si nota la presenza di finestra ad arco polilobato. Il tetto superiore in paglia, più tardo, sembra sproporzionato rispetto alla co-

pertura originaria [fig. 55]. Benché più recente, il Kaisando dello Eihoji nella provincia di Gifu, presenta le stesse caratteristiche [figg. 57a-b]. La sua pianta evidenzia una prima sala in lunghezza (raido) destinata alle cerimonie commemorative e unita tramite un breve corridoio (ainoma) al santuario di minori dimensioni (shido). I templi tendai e shingon continuano le forme in voga in epoca Heian, al tempo considerate uno «stile giapponese« (wayo). Il restauro dei grandi templi di Nara e la costruzione di numerose istituzioni provocano uno sviluppo senza precedenti della scultura. Gli artigiani portano alla perfezione la tecnica dello yosegizukuri, in uso dall’xi secolo. Spesso le forme sono enfatizzate da una ricca policromia. Questo rinnovamento è un frutto del laboratorio Kei di Nara, che ottiene il privilegio di lavorare nei principali cantieri della capitale, fino allora monopolio dei bushi della città, loro rivali. La presenza di personalità eccezionali permette ad esso di imprimere una svolta originale alla maggior parte della produzione del periodo. I grandi esempi dell’epoca di Nara ispirano gli artisti alla ricerca di un rinnovamento della antica estetica. A tradizioni propriamente giapponesi si amalgamano influenze contemporanee provenienti dal continente, più realiste ed espressive. Certi pezzi vanno però ascritti ad assiemi antichi conservatisi parzialmente. Fra i nuovi artisti Kokei è il primo al quale si possano con certezza attribuire delle opere. Esse adornano la sala ottagonale sud (Nanendo) del Kofukuji. Zocho Ten (Virudhaka), uno dei lokapala, evoca per postura, volto con i denti in mostra, occhi globulari e armatura tradizionale cinese, i generali celesti dell’viii secolo. Ben lungi dal costituire un plagio, l’opera possiede una vera e propria originalità: l’espressione violenta del viso arriva fino a una distorsione dei tratti, l’ampiezza decorativa della figura è resa più maestosa dalle pieghe del pantalone trattenuto da cordoli e la cintura ornamentale che ondeggia al vento. Unkei, figlio di Kokei, porta all’apogeo questa arte espressionista. Dopo un soggiorno nel Giappone orientale egli ritorna a Nara prima della morte del padre intorno al 1196. Nel 1197 e nel 1198 lavora al restauro delle famose statue del mapdala del Toji. Nel 1203 gli viene commissionata, assieme a Kaikei, la realizzazione di due guardiani colossali della grossa porta sud del Todaiji [figg. 58-59]. Eseguite a tempo di record, in due soli mesi, queste statue alte più di 8 metri adattano allo spirito

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giapponese il canone tradizionale dei guardiani molto muscolosi che trae origine nell’arte cinese dei Tang. I volti estremamente espressivi e dai tratti individuali conferiscono una forte presenza a queste divinità. L’ondeggiare al vento di parti dell’abito accentua la sensazione di movimento. Nel 1208 inizia la ricostruzione della sala ottagonale nord (Hokuendo) del Kofukuji: I lavori di scultura durano fino al 1212. Sono affidati a dieci laboratori artigianali sotto la supervisione di Unkei. Di questo insieme sopravvivono due grandi immagini di maestri indiani, Muchaku e Seshin, che rappresentano l’arte di Unkei nella sua maturità [fig. 60]. Le imponenti dimensioni (2 metri circa di altezza) sono accentuate dall’ampiezza dei drappeggi dalle marcate scanalature. I volti, veri e propri finti ritratti, sono trattati in modo realistico, e gli occhi incrostati di cristallo di rocca conferiscono loro una interiorità che provoca un certo turbamento. Il laboratorio Kei resta attivo dopo la morte

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di Unkei nel 1223, e Kosho, il quarto figlio, produsse l’opera forse più realista di tutto il periodo Kamakura, il presunto ritratto del monaco Kuya. Questo religioso itinerante fu uno dei primi a predicare il principio della salvezza da ottenere per mezzo della recitazione senza fine del nome di Amida. Sei piccole figure del buddha dell’Occidente vengono fuori dalla sua bocca. Il monaco è raffigurato in cammino, sorpreso nell’immediatezza dell’istante [fig. 63]. La verosimiglianza è spinta fino a rendere le vene delle braccia. Lo stesso realismo si nota nei ritratti del tempo. Il Todaiji conserva ad esempio una statua di Chogen che sgrana un rosario [fig. 61]. Questo oggetto amovibile accentua l’illusionismo dell’opera. L’aggiunta di oggetti reali alle statue diviene un espediente comune in epoca di Kamakura. L’autore di questa statua è sconosciuto ma si ricollega verosimilmente al laboratorio Kei. Alcuni allievi di Unkei, Jokei i ad esempio, lasciano il suo laboratorio per dare vita a un proprio bushi. Jokei i ci ha lasciato un’opera originale e contrastata

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[fig. 62]. Al realismo espressivo ereditato da Unkei si aggiunge un aspetto decorativo, una eleganza nel movimento e una fluidità delle masse muscolari che fanno pensare ad alcune creazioni della Cina dei Song. Quest’arte vigorosa non esaurisce tutta la produzione statuaria dell’epoca Kamakura e neanche del solo laboratorio Kei. Scultori come Unkei e Insho, appartenenti al bushi In, oppure Seien del bushi En, ci hanno lasciato opere piene di sensibilità. Il loro nome e quello di Tankei (1173?-1256), il figlio maggiore di Unkei, restano legati alla ricostruzione della Sanjusangendo, la sala a trentatré arcate del Myohoin di Kyoto, un corridoio coperto, con 1001 statue di Kannon, costruito una prima volta nel 1164 e distrutto da un incendio nel 1249. Alcune statue in legno dorato del bodhisattva poterono essere salvate, ma la maggior parte delle 1.031 sculture ospitate nel nuovo edificio fu realizzata fra il 1251 e il 1266 [fig. 64]. A dispetto di una apparente somiglianza le numerose Kannon, alte 1,70 metri, mostrano sottili differenze stilistiche. È allo stesso Tankei che toccò scolpire la figura del bodhisattva principale, immenso Kannon seduto munito di mille braccia [fig. 65]. Se le dimensioni monumentali e la solidità dei drappeggi appartengono al laboratorio Kei, il viso idealizzato dalle curve quasi circolari prosegue la raffinata estetica dei Fujiwara. Questo ritorno alle forme sofisticate dell’epoca Heian caratterizza la produzione di un contemporaneo di Unkei, Kaikei. Formatosi presso l’illustre maestro con il quale aveva lavorato alle statue dei colossali guardiani della porta meridionale del Todaiji, egli si emancipa ben presto. A partire dalla fine del xii secolo realizza opere raffinate la cui sottigliezza unisce alla estetica propria dei Fujiwara l’eleganza della statuaria Song [fig. 67]. La tendenza realista della scuola Kei raggiunge prima della fine del periodo il rinnovamento dei laboratori tradizionali. Da menzionare la presenza, nella città di Kamakura, del celebre Amida in bronzo del Kotokuin. La colossale opera alta quasi 13 metri venne realizzata da Ono Goroemon dal 1252 al 1255 [fig. 66]. Concepita a imitazione delle statue in pezzi di legno assemblati in otto strati sovrapposti, essa un tempo era ospitata in una immensa sala ipostila, alla maniera del Birushana del Todaiji. La statua, creata per la penombra di un santuario, esposta come è oggi alla luce naturale presenta una certa secchezza dovuta alle sue forme geometriche. La pittura religiosa si divide in due grandi ge-

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53. Alzato della grande porta sud (Nandaimon), 1199. Nara, Todaiji. 54. Grande porta sud (Nandaimon), 1199. Nara, Todaiji. 55. Sezione della cappella delle reliquie (Shariden), 1282. Destra: ricostruzione dello stato originale del 1282; sinistra: stato al principio del xv secolo. Kamakura, Engakuji. 56. Cappella delle reliquie (Shariden), 1282. Kamakura, Engakuji.

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57a-57b. Facciata e sezione del Kaisando, xiv secolo, Dintorni di Nagoya, Eihoji.

neri: raffigurazioni di divinità e ritratti di ecclesiastici. L’epoca di Kamakura ha lasciato numerose raffigurazioni di Amida. Il buddha dell’Occidente possiede una iconografia diversificata talché ciascuno dei suoi dieci mudra corrisponde a un intervento davanti a uno dei dieci tribunali degli inferi. Queste immagini erano molto spesso poste al capezzale dei moribondi per materializzare ai loro occhi il carattere salvifico del buddha. A partire da tre temi tradizionali – l’apparizione di Amida al di sopra delle montagne dell’Occidente, la discesa di Amida accompagnato dal proprio corteo divino e la veduta della Terra pura dell’Occidente – i pittori di Kamakura varieranno gli schemi compositivi. Tutti si caratterizzano per una grande leggibilità. I personaggi religiosi sono perfettamente integrati in paesaggio di fattura perfettamente giapponese, nella evoluzione di una tecnica in uso già a metà del ix secolo. Lo Zenrinji di Kyoto conserva ad esempio un grosso rotolo che raffigura l’apparizione di Amida (Yamagoshi Amida) prima della sua discesa [fig. 68]. Il buddha appare a mezzobusto facendo il gesto della salvezza suprema (jobon josho). La sua carnagione dorata ne sottolinea il carattere sovrannaturale. I due bodhisattva assistenti, Kannon e Seishi (Avalokitesvara e Mahasthama­prapta), lo precedono e hanno già superato i monti dell’Occidente. Gli avvallamenti e le creste sovrapposte delle montagne guidano l’occhio fino ad Amida che domina questa composizione assolutamente simmetrica. Fra i numerosi rotoli che raffigurano la discesa stessa, uno dei più belli è forse quello conservato presso il Chionin di Kyoto [fig. 70]. Amida e il suo corteo di bodhisattva musicanti su nubi sovrannaturali occupano una lunga diagonale che sovrasta un delicato paesaggio primaverile. Gli alberi in fiore, le figure divine dorate, i raggi emanati da Amida concorrono a elegantire l’incantevole vista. Le raffigurazioni della Terra pura dell’Occidente (Sukhavati) si rifanno fedelmente alla tradizione Tang. Altri paradisi testimoniano la varietà dei culti salvifici. Uno di essi ad esempio riguarda il monte Kasuga, a est di Nara, abbinato nella immaginazione popolare a una Terra pura [fig. 69]. La vicinanza del Kofukuji spiega la presenza in questo ciclo delle divinità protettrici del clan dei Fujiwara. Sul dipinto le cinque divinità venerate presso il Kofukuji sono pertanto sotto dei padiglioni, disposte come le usuali raffigurazioni di Sukhavati. Vakyamuni presiede l’assemblea divina fra Maitreya e

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Enichibo Jonin, suo allievo preferito [fig. 74]. Il personaggio è seduto in meditazione in un boschetto di pini dai rami torti situato sui pendii della collina Ryoga, dietro al convento. La composizione ricorda certe rappresentazioni tradizionali cinesi di arhat. Tuttavia l’assieme di pini e la loro resa naturalista benché solo abbozzata sono di carattere tipicamente giapponese. Per stile questo paesaggio si avvicina a un celebre rotolo miniato (emaki) del tempo, che raffigura i viaggi del monaco poeta Saigyo (1118-1190), conservato a Osaka presso il Manno Hiroaki. Le tendenze realiste che dominano l’arte dell’epoca di Kamakura toccano il culmine nelle raffigurazioni di monaci della scuola dello Zen. I maestri zen erano soliti donare il proprio ritratto (chinso) al discepolo dopo che egli aveva preso consapevolezza della «buddhità« (satori), come testimonianza del legame spirituale che li univa. Secondo una tradizione cinese queste composizioni dovevano mostrare il maestro a mezzobusto. Questo genere si sviluppò considerevolmente in epoca Muromachi fino a influenzare i ritratti laici. Gli studi preparatori conservatisi sono rari. Quello di Hakuun Egyo è tanto più prezioso [fig. 73]. Questo erudito trascorse quindici anni in Cina prima di diventare il superiore del monastero del To71

Bhaisajyaguru. Più in alto Kannon, con undici teste, fa da contraltare ad Amida. In basso al di sopra del monte Kasuga il bodhisattva Jizo fa da guida a un defunto fino al soggiorno celeste. La grande sensibilità estetica espressa nel dettaglio paesaggistico e l’estrema precisione della fattura che contrasta con le tinte d’oro goffrato sono forse le caratteristiche principali di una produzione pittorica propria ai santuari buddhisti e shinto del monte Kasuga. Queste varie composizioni sviluppano degli schemi iconografici e stilistici che risalgono per la maggior parte all’epoca Heian. Altri rotoli mostrano influenze cinesi contemporanee che si spiegano con la ripresa degli scambi commerciali. Il Monju del Daigoji per esempio possiede un disegno morbido ed elegante, e un tracciato striato delle nuvole direttamente preso dall’estetica dei Song [fig. 72]. Secondo la tradizione iconografica giapponese, Manjuvri è accompagnato da un vecchio, il famoso Vimalakirti, un monaco e un elefante. Il leone cui siede in

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Nella doppia pagina seguente: 58. Unkei, Nio, legno, 1203. Nara, Todaiji (Grande porta sud, Nandaimon). 59. Kaikei Nio, legno, 1203. Nara, Todaiji (Grande porta sud, Nandaimon). 60. Unkei, Mujaku, legno, 1208-1212. Nara, Kofukuji (Hokuendo). 61. Shunjibo Chogen, legno, inizio del xiii secolo. Nara, Todaiji. 70

62. Jokei i, Nio, legno, inizio del xiii secolo. Nara,

groppa è guidato dal re di Uddiyana, mitico regno indiano. Nel corso dell’epoca di Kamakura l’arte del ritratto si evolve. La tradizionale raffigurazione dei grandi maestri del passato o quella postuma dei monaci eminenti trova sbocco naturale nella esecuzione di veri e propri ritratti di ecclesiastici famosi ancora viventi e di uomini politici. Endo Morito, membro della guardia reale, decise di espiare l’assassinio di sua moglie prendendo i voti. Sotto il nome di Mongaku Shonin, questo energico monaco aiutò Minamoto no Yoritomo a fondare il governo militare di Kamakura. Il suo viso dai tratti molto personali e dallo sguardo penetrante sovrasta un abito reso ancora più ampio da larghe pieghe [fig. 71]. La stessa intensità psicologica caratterizza anche il ritratto del monaco Myoe Shonin, rinnovatore della scuola Kegon. L’opera, conservata ancora presso il monastero Kozanji, fondato a Kyoto da Myoe Shonin, venne forse realizzata da

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fokuji. L’opera, di grande acutezza psicologica, è da avvicinare alla produzione del monaco pittore Kichizan Mincho (1352-1431), celebre per le sue raffigurazioni di arhat. È dall’epoca Heian che esistevano rotoli emaki di argomento profano. Il genere diventerà una delle peculiarità del periodo Kamakura. Alla fine del xii secolo i monaci eseguono in questo modo tematiche edificanti, compositivamente creative, totalmente libere rispetto ai canoni tradizionali della iconografia buddhista. Sono giunti fino a noi rotoli degli Inferi (Jigokuzoshi), dei Dannati famelici (Gakizoshi) o dei Malati (Yamainososhi) [fig. 76]. L’espressionismo spinto fino alla caricatura con cui sono trattati i personaggi è destinato a suscitare nell’osservatore un salutare timore. La crudezza delle scene si abbina all’utilizzo di tonalità sorde che sottolineano l’atmosfera drammatica. Altri emaki si riagganciano alla tradizione buddhista solo per l’argomento trattato: racconto leggendario della fondazione di tale o tale altro monastero oppure biografia di religiosi illustri (engie, letteralmente «dipinti di storie e di leggende«). Nulla nello stile li distingue dai rotoli profani. Questa abbondante produzione la si può esemplificare ricorrendo a una delle realizzazioni più famose, eseguita sotto la direzione del pittore En-i e risalente al 1299. Dodici religiosi raffigurano la biografia del monaco mendicante Ippen Shonin. Seguace dell’amidismo, costui popolarizzò una danza (odori nembutsu) il cui ritmo accompagna la salmodia della formula sacra. I rotoli attestano la particolare cura del paesaggio nella maggior parte delle scene, divise in tre piani sovrapposti sovrastati da nubi [fig. 77]. Nello stesso spirito i rotoli verticali (kakemono) commemorano la fondazione di santuari particolari, spesso meta di pellegrinaggio [fig. 75]. Uno dei più antichi rimasti risale al xiii secolo. Raffigura i templi Kotobiki e Kannonji. I due santuari, shinto e buddhista, vennero fondati nell’viii secolo su di un’isola della costa occidentale dello Shikoku. Il tempio in onore di Kannon fu consacrato dal celebre Kukai. Gli edifici si ergono su una collina che sembra galleggiare in modo irreale sopra l’oceano. La vegetazione aggiunge i caratteri propri alle differenti stagioni. In epoca Muromachi questo genere artistico si moltiplicherà. Pochi però manterranno la stessa atmosfera poetica e il loro stile perderà forza. Epoca Muromachi

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Kofukuji. 63. Kosho, ritratto del monaco Kuya, legno, xiii secolo. Kyoto, Rokuhara Mitsuji.

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Nel 1274 e nel 1281, per ben due volte, gli shogun Hojo respingono i tentativi di invasione delle armate mongole. Un tifone al quale si attribuisce origine miracolosa rende più eclatante la loro vittoria. La corte shogunale si abitua a una vita lussuosa e dispendiosa come quella della aristocrazia civile. Ciò la isola dai suoi rudi vassalli provinciali. Mosso dal desiderio di una rivincita politica il sovrano Go-Daigo appoggia nel 1333 la rivolta del potente Ashikaga Takauji (1305-1358). Il generale ribelle mette fine al governo militare di Kamakura, entra a Kyoto nel 1335, tiene il potere per sé solo, esilia il dinasta (1336) e fa di un principe collaterale un monarca a lui fedele. Ne deriva uno scisma dinastico, con due corti rivali, dette «del nord« e «del sud«, che complica la situazione politica (periodo Nambokucho, 1336-1392). Nel 1338 Takauji assume il titolo di shogun e insedia il proprio governo a Kyoto nel quartiere Muromachi. L’epoca Muromachi (1335-1573) è ricca di contrasti. Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408) e Ashikaga Yoshimasa (1436-1490), i due shogun più importanti, hanno lasciato tracce del loro raffinato mecenatismo. Il lusso della loro corte si scontra con una diffusa miseria. I grandi feudatari giorno per giorno si indeboliscono

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a vantaggio del potere centrale. Nel mentre il commercio con la Cina provoca lo sviluppo dei porti e della classe mercantile. Nel 1543 i primi portoghesi sbarcano sull’isola di Tanegashima a sud del Kyushu. In alcune province lo sviluppo degli scambi commerciali va a beneficio di contadini il cui livello di vita sale e provoca la messa a coltura di nuove terre. Questi isolotti di ricchezza confinano con intere province devastate dalle guerre civili – quali il lungo conflitto che oppose il clan degli Hosokawa a quello degli Yamana (disordini di Onin, 1467-1477) – particolarmente distruttrici a Kyoto. Numerose ribellioni caratterizzano il periodo delle «lotte fra le province« (1467-1573). Contadini e mercanti appartenenti a organizzazioni locali della Ikkoshu, la «setta della direzione unica«, la cui dottrina si incentra sulla sola fede nel buddha Amida, si oppongono ferocemente ad alcuni feudatari. L’epoca in effetti è segnata dallo sviluppo di associazioni religiose intente a propagare oralmente culti fideisti, principalmente attenti alla recitazione (nembutsu) in onore di Amida. I monaci predicatori sono ovunque. Alcuni, come Ikkyu (1394-1481), sono personalità eminenti. Nel contempo le scuole zen giocano un ruolo culturale di primo piano. Le comunità Rinzai in particolare godono dei beni accumulati in epoca Kamakura grazie alle donazioni degli shogun Hojo e della loro cerchia. Una parte del commercio con la Cina è nelle mani dei monaci che introducono dal continente nuove idee e variegate tradizioni. La scuola Rinzai in contatto con la civiltà dei Song sviluppa tratti culturali originali: la letteratura, la calligrafia, la pittura, la stampa e il giardinaggio, in particolare nei suoi cinque monasteri principali di Kyoto (la cultura delle Cinque montagne). A partire dall’epoca di Kamakura lo Zen influenza numerosi campi della vita giapponese, e in periodo Muromachi il fenomeno assume dimensioni senza precedenti. Le tecniche e le arti più varie, praticate fuori del contesto liturgico o monastico, si possono considerare prolungamenti secolari della spiritualità buddhista. È il caso delle do (vie) che costituiscono la cerimonia del the, la disposizione dei fiori, il tiro con l’arco e certi sport di combattimento. Nel momento in cui la società giapponese intera è impregnata da ideali buddhisti l’arte religiosa subisce una sorta di mutazione. I modi di espressione tradizionali perdono vitalità e sono sempre meno dotati di ispirazione. L’epoca disastrata mal si presta alla realizzazione di

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grossi complessi monumentali. Statue e dipinti di culto ripetono motivi convenzionali di periodi precedenti, benché alcune opere non siano prive di fascino ed eleganza. Il relativo rifiuto da parte dei monaci zen delle tradizioni liturgiche sottrae centralità funzionale agli edifici strettamente cultuali dei monasteri. Un posto privilegiato viene concesso alla residenza dell’abate che non si distingue in nulla della struttura architettonica o della pianta da una dimora laica. Questa particolarità spiega la facilità con cui vecchie ville signorili vennero trasformate in templi dopo la morte del proprietario. Il più celebre esempio è il monastero Rokuonji, più noto sotto il soprannome Kinkakuji («tempio del padiglione d’Oro«). Questo antico padiglione approntato dal 1394 al 1408 per il ritiro dalla vita politica dello shogun Ashikaga Yoshimitsu, alla sua morte divenne un luogo di culto. Muso Soseki (1275-1361) incarna il nuovo spirito. Rampollo dell’aristocrazia e seguace in un primo momento del buddhismo esoterico, egli si converte allo Zen e fonda molti monasteri a Kyoto, fra cui il Tenryuji. In buoni rapporti tanto con il dinasta Go-Daigo che con lo shogun Ashikaga Takauji, egli riceve il titolo postumo di Muso Kokushi («educatore della nazione«). Ne conosciamo il volto. Nel ritratto opera del suo discepolo Muto Shui si riscontrano ancora la sobrietà e l’intensità psicologia caratteristiche dell’epoca Kamakura [fig. 78]. L’inquadratura a mezzo busto segue la moda del tempo. La fermezza del tratto evoca certe composizioni naturaliste dell’accademia dei Song settentrionali (968-1127). Muso Soseki è celebre anche come giardiniere-paesaggista, per quanto sia difficile giudicare la sistemazione dei suoi giardini, tutti rifatti quando non scomparsi. La sua opera più famosa resta il parco del Saihoji di Kyoto, più noto come Kokedera («tempio dei muschi«), piantato a partire dal 1339. Il giardino è diviso in due. Ampi allestimenti circondano uno «stagno d’oro« e mescolano tradizioni risalenti ai giardini paradisiaci di epoca Heian a elementi tratti dalla Cina meridionale (karayo). Una porta e una scala conducono a un giardino secco (karesansui), totalmente minerale, particolarmente originale per l’epoca. Una tradizione lega la peculiare disposizione delle pietre alle sedute di meditazione (zazen) tenute da Muso Soseki in questo giardino. L’arte di Muso Soseki influenzò in maniera durevole l’estetica dei giardini sia laici che religiosi [figg. 79, 81]. La villa di piacere di Ashikaga Yoshimasa, messa in piedi a partire dal 1482 e

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mata «paesaggio imitato« (shakkei). I monaci zen durante il xv secolo finiscono con l’elaborare, tramite un lento denudamento, uno stile originale di giardini secchi (karesansui) ottenuti adoperando quasi esclusivamente rocce, aree passate al rastrello e qualche muschio, tutti elementi volti a evocare la totalità di un paesaggio nello spazio più ridotto possibile. L’estetica dei lavis cinesi di epoca Song, importati in Giappone numerosi al tempo, ha avuto certamente un ruolo in tale concezione, ma è difficile seguire le tappe della evoluzione attraverso i giardini sopravvissuti. Essi, sempre più spogli tentano di esprimere in maniera visibile e soggettiva le concezioni zen della natura che va afferrata sbarazzandola di tutto ciò che è accessorio o fortuito e costituiscono vere e proprie trasposizioni di immagini mentali. Molti capolavori risalgono alla fine dell’epoca. Si tratta di giardini di piccole dimensioni concepiti non per essere percorsi passeggiando bensì visti da appartamenti. Fanno parte di una nuova tipologia di disposizione paesaggistica che fa la sua apparizione nell’epoca Muromachi in relazione all’emergere di uno stile architettonico chiamato «shoin«. Questi giardini si possono afferrare con un unico sguardo, talora attraverso una apertura nel corridoio coperto. Nei monasteri dello Zen la moltiplicazione delle cappelle sec79

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trasformata in monastero alla morte dello shogun nel 1490, benché abbia subito importanti rifacimenti resta forse il monumento più raffinato dell’epoca. Si tratta del tempio che ha nome Jishoji ma è meglio conosciuto come Gikakuji («tempio del padiglione d’Argento«. Difficile valutare quanto i restauri del 1615 abbiano cambiato il luogo. Nei pressi dell’edificio una parte di giardino priva di vegetazione è arredata con una semplice combinazione di rocce e sabbia trattata con il rastrello. I due grossi cumuli di sabbia furono eretti in epoca Edo (16031868) in luogo di un piccolo santuario distrutto dal fuoco durante le guerre civili del xvi secolo. Questa citazione dell’estetica zen non è isolata dal resto del giardino, la cui complessità supera i limiti di questa trattazione. Le piante e gli arbusti del parco fanno sì che l’occhio si posi senza avvertirlo sugli alberi che popolano i fianchi delle colline esterne secondo una tecnica chia-

64. Le mille Kannon, legno dorato, 1251-1266, Kyoto, Myohoin (Sanjusangendo). 65. Tankei, Senju Kannon, legno dorato, 1251-1266. Kyoto, Myohoin (Sanjusangendo). 66. Ono Goroemon, Amida, bronzo, 1252-1255. Kamakura, Kotokuin. 67. Kaikei, Shaka Nyorai, legno, 1194-1199 circa. Nara, Todaiji. Nella pagina seguente: 68. Yamagoshi Amida, dipinto su seta, prima metà del xiii secolo. Kyoto, Zenrinji. 80

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ondarie (tatchu), costruite a partire da celle individuali, favorisce la creazione di istallazioni paesaggistiche, talora in spazi estremamente ridotti. L’ordine dei giardini zen ha implicazioni letterarie o filosofiche, e il loro essere spogli e astratti ha per la maggior parte rapporto con la meditazione. Il giardino del Ryoanji a Kyoto ne costituisce l’esempio migliore. Distrutto nel 1473 al tempo dei disordini di Onin esso è stato probabilmente allestito di nuovo nel 1499 in occasione della ricostruzione di questo monastero di scuola Rinzai [figg. 82-83]. Su di una superficie di 337 metri quadri quindici pietre di varie forme e colore sono disposte su una distesa di sabbia arata con il rastrello secondo un ritmo, frequente nei giardini zen, di sette, cinque e tre. Alcuni muschi intorno alle pietre sostituiscono il solo elemento vegetale. Sul fondo un muro di argilla dal colore vivace, giallo, bruno e rosso, porta lo sguardo fino alle fronde del retro, il cui verde contrasta con l’immaterialità pietrificata del giardino stesso. Il giardino del Daisenin (1509-1513) presso il Daitokuji di Kyoto appartiene alla medesima categoria di giardini secchi [figg. 84-86]. Alcuni elementi vegetali si mescolano alle pietre, di tessitura e colore vario, scelte e disposte con cura. Lo spazio è separato da uno stretto corridoio al cui bordo vi è un muro forato da una apertura che consente una raffinata inquadratura. La parte più piccola è arredata con pietre coricate. Una di esse evoca la forma di un battello, la «Nave dei tesori« (takarabune). Sull’altro lato del corridoio uno spazio più ampio restituisce un complesso paesaggio di montagne miniaturizzato segnato dall’ergersi di una pietra particolarmente significativa, la jinko ishi. Una cascata e un fiume finti, fatti di pietre e ghiaie bianche sono giustamente celebri. Lo stesso procedimento viene messo in atto in altri giardini del tempo, ad esempio quello del Myoshinji di Kyoto (metà xvi secolo). I numerosi giardini zen che si susseguono nel corso del xvi secolo mostrano una varietà di forme assai maggiore di quanto non lasci immaginare la scarsezza degli elementi adoperati. Lo Zuihoin (1546) è forse assieme al Daitokuji uno dei più originali. Commissionato da Sorin Otomo (1530-1589), monaco dello Zen tornato alla vita laica e convertitosi al cristianesimo, venne restaurato nel 1961 da Mirei Shigemori (1896-1975). Pietre di differenti dimensioni sono disposte in due linee perpendicolari che evocano una croce cristiana. A partire dall’epoca Kamakura arrivano in

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Giappone numerosissimi dipinti cinesi. L’inventario dei tesori custoditi presso il mausoleo dello shogun Hojo Tokimune (1251-1284) enumera trentotto rotoli dei più famosi artisti. Il fenomeno si accentua durante il periodo Muromachi. I monaci zen sull’esempio dei letterati del continente praticano l’arte del lavis (suibokuga). Certi religiosi, come Mokuan Reien dal 1326, oppure Kao, vanno in Cina ad apprendere particolari tecniche di questa arte. Ben presto ci si libera da modelli cinesi troppo stringenti. I monaci pittori creano più correnti di uno stile originale, autenticamente giapponese. Come altre espressioni dell’arte del periodo Muromachi è difficile distinguere immediatamente fra opere in rapporto generico con il buddhismo da quelle ispirate dallo Zen.

Assieme all’arte del paesaggio, magistralmente praticata da Tensho Shubun o Sesson (15041589 circa), che esula dalla nostra trattazione, la nuova scuola produce frequentemente raffigurazioni di santi e di divinità. Anche la tecnica del lavis verrà adoperata dai monaci specializzati nella produzione di ex voto dai vivaci colori. Ryosen, religioso appartenuto al Tofukuji di Kyoto, ci ha ad esempio lasciato numerose Kannon. Quella riprodotta in queste pagine [fig. 87] si rifà fedelmente a un prototipo Song: corporatura, veste e abbellimenti risalgono all’epoca dei Tang ma posseggono una dolcezza, una soavità e un aspetto decorativo che in Cina caratterizzano questo tema raffigurativo dal x secolo al xiii. Secondo una tipologia ideata in Cina in epoca Tang, Kannon è seduta sul-

69. Terra pura di Kasuga, colori e oro su seta, xiii secolo, Nara, Nomanin (Hasodera). 70. Discesa di Amida, dipinto su seta, xiii secolo. Kyoto, Chionin.

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one fortemente realistica contrasta con l’ampio abito bianco delimitato da semplicissime linee grigie. Questo desiderio di rendere la minima sfumatura psicologica trova massima espressione nel ritratto. Uno dei più espressivi è opera di Bokusai Shoto. Raffigura Ikkyu Sojun (1394-1481), al quale il pittore doveva succedere come abate del piccolo monastero zen Shuon’an a Tanabe, villaggio fra Kyoto e Nara. Ikkyu Sojun, celebre per il suo carattere estroso, il suo senso critico e i suoi acri commenti, vi è ritratto un anno prima della morte, il volto emaciato, solcato da rughe numerose, lo sguardo fisso e intenso [fig. 89]. Lo spirito zen in reazione alla bigotteria di talune scuole rifiuta le forme esteriori di devozione. Certe opere trattano le divinità in maniera familiare quando non insolente. Questo atteggiamento è bene illustrato da una affascinante composizione di Kenko Shokei (attivo fra il 1478 e il 1506 circa), un monaco di Kamakura recatosi a Kyoto per studiare pittura dal 1470 al 1481. Il tema può a prima vista sembrare irriverente: Kannon solleva il mantello per bagnarsi i piedi sotto una cascata [fig. 91]. Shokei dipinse una serie di Kannon, forse una allusione umoristica alle trentatré manifestazioni della divinità descritte nel Saddharmapupdarika sutra.

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Le epoche Momoyama ed Edo la «preziosa pietra di diamante« e guarda la luna che si specchia nell’acqua (Shuiyue Guanyin in cinese). Lievi lumeggiamenti in oro donano un aspetto prezioso al lavis. Kichizan Mincho (1350-1431) è il monaco pittore più prolifico del laboratorio del Tofukuji. Il suo ritratto di Daido Osho (1292-1370), suo superiore e maestro spirituale, mostra una maestria notevole nella tecnica del lavis per varietà di pennelli e spazzole adoperati come per la manualità atta a rendere tale o talaltro effetto [fig. 90]. L’opera non si potrebbe confondere con un rotolo cinese. Acutezza del tratto e nervosismo del tocco sono tipici del suiboku giapponese. Sesshu Toyo (1420-1506) raggiunge il culmine di questa tecnica. Monaco dello Shokokuji sarà in Cina dal 1467 al 1469, dove approfondisce le conoscenze pittoriche e viene influenzato dalla scuola Zhe – nello Zhejiang, la regione di Hang­ zhou – continuatrice sotto i Ming (1368-1644) dello stile dei Song meridionali. Di ritorno in Giappone conduce una vita itinerante contribuendo a diffondere in tutto il paese l’arte del lavis. Le sue opere posseggono un vigore

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molto originale. Benché i paesaggi costituiscano la maggioranza delle sue composizioni, ci ha lasciato anche dipinti di argomento religioso. Un finto ritratto di Daruma (Bodhidharma), conservato presso una collezione privata di Tokyo, è tracciato a pennellate più o meno lunghe. Gli occhi lasciati in bianco, possiedono una notevole intensità psicologica. Raffigurare questo maestro indiano del vi secolo, fondatore semileggendario del Chan, diventa un tema classico della pittura zen. Il personaggio, a mezzo busto, ha spesso un aspetto caricaturale e non, come in questo caso, allucinato. Una forza pittorica e una intensità psicologica comparabili si ritrovano in un celebre rotolo conservato presso lo Sainenji (provincia di Aichi) [fig. 88]. Huike voleva diventare discepolo di Bodhidharma, e poiché nulla riusciva a distrarre il maestro dalla meditazione l’aspirante allievo si taglia un braccio per dimostrare la propria determinazione a diventare un seguace della scuola chan. La scena si svolge in una grotta, resa in grossi massi con inchiostro punteggiato. Il viso di Bodhidharma dall’espressi-

71. Ritratto di Mongaku Shonin, dipinto su seta, xiii secolo. Kyoto, Jingoji. 72. Monju traversa l’oceano, dipinto su seta, xiii secolo. Kyoto, Daigoji (Kodain). Nella pagina seguente: 73. Studio preparatorio per il ritratto di Hakuun Egyo, inchiostro su carta, xiii secolo. Kyoto, Rikkyokuan. 74. Ritratto di Myoe Shonin attribuito a Enichibo Jonin, dipinto su seta, inizi xiii secolo. Kyoto, Kozanji.

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Durante l’epoca Momoyama (1573-1603) i tentativi di riunificare il Giappone compiuti da due grandi militari, Oda Nobunaga (15341582) e Toyotomi Hideyoshi (1536-1598), finirono con il trionfo, al termine di guerre feudali, di Tokugawa Ieyasu (1543-1616). Questi si insediò con il titolo di shogun nella nuova capitale di Edo, l’odierna Tokyo, nel 1603. L’arte giapponese conobbe durante i tre secoli in questione uno sviluppo notevole, ma il buddhismo non fu più fonte privilegiata di ispirazione. L’epoca Edo (1603-1868) produce molte realizzazioni buddhiste, in uno stile che però segue formule già collaudate in precedenti periodi. È la tradizione dello Zen a conservare la vivacità maggiore. La maggioranza dei giardini dei monasteri di Kyoto fu realizzata nel xvii secolo. Conosciamo la carriera di alcuni giardinieri paesaggisti famosi, quali Kobori Enshu (1579-1647), funzionario militare e artista. Dal 1606 si occupa dei giardini dinastici. Il suo gusto per l’architettura è visibile nel rigore estremo delle composizioni monumentali. Nel giardino del Konchi’in del Nanzenji (1629-1632) e in

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quello dello Shisendo (1641) [fig. 93], composizioni di arbusti potati dominano delle pietre separate da una zona in sabbia. Ci sono giunte numerose calligrafie di ascendenze zen [fig. 95]. Si tratta di schizzi spontanei nati da colpi di ispirazione e con la funzione di liberarsi da qualsiasi ragionamento logico. La maggioranza delle istituzioni appartiene invece ad altre correnti del buddhismo giapponese. Grosse distruzioni dovute a più di un secolo di guerre civili, come anche la mancata manutenzione dei santuari fanno sentire l’esigenza, una volta ritornata la pace, di procedere a importanti ricostruzioni e restauri. A Nara vengono ricostruiti ad esempio nel 1700 il Daibutsuden del Todaiji ripristinando lo stato in cui si trovava a partire dall’epoca Kamakura,

75. Rotolo delle leggende del santuario di Kotobiki, inchiostro e colori su seta, xiii secolo. Kannonji, provincia di Kagawa. 76. Jigokuzoshi, colori su seta, fine del xii secolo. (particolare). Tokyo, Commissione per la salvaguardia dei beni culturali. 77. En-i, rotolo della vita di Ippen Shonin (particolare), dipinto e calligrafia su seta, 1299. Kyoto, Kangikoji.

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più piccolo cioè rispetto all’originale dell’viii secolo. A Kyoto fra numerosi monumenti va menzionata la pagoda Toji (1641-1644), e anche l’interessante Kiyomizudera (1633), tempio in parte sostenuto da un enorme ponteggio di giganteschi pilastri in legno. In molte nuove costruzioni viene dato uno spazio privilegiato alle decorazioni dipinte o scolpite come testimonia l’ampia sala (goeido) del Nishi Honganji a Kyoto, ricostruita nel 1636 dopo un incendio e modificata nel 1760. Fastose liturgie in onore di Amida si svolgono in un contesto sontuoso e raffinato che accoglie il costante afflusso di pellegrini e fedeli. Si tratta di un gusto decorativo talora eccessivo. I templi di Nikko (xvii-xviii secolo) sono ad esempio coperti di sculture. Rimarchevole la presenza di un grosso arco ribassato al di sopra di una porta [fig. 94]. Questo elemento, già utilizzato in epoca Kamakura (altari dello Shoryoin presso lo Horyuji), troverà applicazione sistematica nelle epoche Momoyama ed

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BIBLIOGRAFIA DI ORIENTAMENTO L’ordine delle sezioni di questa bibliografia di orientamento segue quello dei capitoli dell’opera. Abbiamo segnalato nella misura del possibile i nomi degli autori e le case editrici. Facciamo appello all’indulgenza del lettore per tutte le imperfezioni che questa bibliografia potrà presentare.

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A-lci, 259s., 267 A-mdo, 271s. Abdai Khan, 275s. Abeyadana, 197s., 200 Abhanga, 39 Abhaya, 45 – Abhaya mudra, 36, 38, 50, 75, 147, 181, 186, 208, 220, 228 Abhayagirivasin, 112 Abhayagirivihara, 112s., 116s., 120 Abhidharma, 10, 12 Abhidharmakova, 354 Abhijna, 11 Abhirati, 16, 312 Abhiseka, 361 Acala, 36, 267s., 362 Acarya, 43 Adibuddha, 18, 23, 132, 254 Adityavarman, 143 Adjina Tapa, 224s. Ado, 335 Adone, 212 Afghanistan, 12, 34, 74, 98, 205s., 208s., 217s., 221, 284 Agama, 254 Aggabodhi ii, 114 Ahicchattra, 76 Ai-Khanum, 206, 220 Aichi, 384 Ainoma, 371 Aivvarika vedi: Kalacakra Ajanulambita bahu, 42 Ajapta, 29, 31s., 83, 85s., 88-92, 104, 223, 244, 258 Ajatavatru, 43, 48, 50, 52, 312 Ajivika, 34 Akavagarbha, 53, 136 Ak Beshim, 225 Akhnur, 94s. Aksobhya, 16, 260 Akuvala, 10 Akuvalamula, 10 Alaungpaya, 201, 203 Alessandria, 23 Alessandria dell’Oxus, 206 Alessandro Magno, 107, 206, 215 Ällaväva, 117, 120 Altan Khan, 275 Amalaka (mirobolano), 84, 92, 258 Amarapura, 202 Amaravati, 28, 41, 43, 46, 48s., 51, 70, 72ss., 113, 116s., 146, 165, 174 Amida vedi: Amitabha Amidismo, 25, 338, 365, 378 Amitabha, 17, 57, 80, 132, 154s., 167, 169, 269, 297, 301s., 305ss., 312s., 336, 338, 344, 346, 353 – Amida, 25, 57, 353, 365ss., 369, 372, 374s., 379, 387 – Amitayus, 16, 312 – Yamagoshi Amida, 375 Amitayur dhyana sutra vedi: Sutra della contemplazione di Amitayus Amitayus vedi: Amitabha Amoghapava vedi: Avalokitevvara Amoghasiddhi, 132, 261 Amoghavajra, 22, 314 Amrapali, 50

Amudaria (Oxus, Vakhsh), 205s., 220, 225 An-thai, 167 Ananda, 50, 57, 122, 198s., 201, 298, 300 Ananta Panna, 198 Anapchi, lago, 338 Anathapipdada, 11, 48s. Anavatapta, lago, 155 Anawrahta, 193, 197 Andhra Pradesh, 28, 46-49, 51, 66 Anga, 101 Angkor, 41, 150s., 154ss., 158s., 161, 163, 173, 178, 183s. Angkor Borei, 146 Angkor Thom, 145, 154ss., 158s., 161 Angkor Vat, 41, 149ss., 154, 160, 162s. Anguosi, 314 Anhui, 30, 328 Anige, 327 Anjali mudra, 36, 208 An Lushan, 318 Annam, 150, 165, 167 Anoma, fiume, 47 An Shigao, 279s. Antaravasaka, 11, 41 Antichak, 99s. Antinoo, 212, 214 Antiochia, 219 Antonino Pio, 145 Anuradha, 193 Anuradhapura, 33, 111-114, 116s., 120, 124s., 146, 165, 192 Apadana, 40 Apda, 28, 79, 111, 192, 210 Apgula, 36 Apollo, 212, 214 Apsaras, 52, 85, 151, 155, 237s., 290s., 300, 311, 342 Arakan, 203 Aral, mare, 206 Ardeshir i, 212 Ardhaparyanka, 36, 39 Arhat (meritevole), 10, 12s., 57s., 261, 271s., 274s., 292, 310s., 317, 321, 328, 331, 340, 356, 364, 377 Ari, 193 Arkhangai aimak, 239 Arupadhatu, 132 Aryasatya, 9 Asana, 39 Asanga, 16s. Ashikaga Takauji, 378, 380 Ashikaga Yoshimasa, 378, 380 Ashikaga Yoshimitsu, 378, 380 Ashura, 356, 358 Asita, 45 Astamahapratiharya, 43, 51 Astamivrata, 250 Astasahasrika, 17, 59, 61 Astasahasrika Prajnaparamita sutra, 103s., 248 Asuka, 349ss. Asukadera, 350 Asura, 156, 160, 290, 292, 306, 358 Atangamarga, 9 Ativa, 171, 250, 259s. Atman, 9 Atti del Buddha o Buddhacarita, 43

Aúahana Parivepa, 120ss. Augurante, 15 Aurangabad, 90s., 93 Ava (Ratanapura), 201s. Avadana, 40, 131s., 177, 229 Avadapajataka, 41, 43 Avadapa kalpalata, 43 Avadapavataka, 41, 43 Avalokitevvara, 14s., 52, 80, 90ss., 101, 103s., 106, 117, 120, 132, 136, 140, 147, 155s., 159, 166s., 169ss., 177, 213, 251, 253, 255, 259, 264, 269, 301, 305, 310, 312-315, 321s., 324s., 327s., 344, 352, 358 – Amoghapava, 250, 253 – Balaha, 156 – Guanyin, 290, 327, 330, 383 – Kannon, 352, 359, 374s., 378, 383ss. – Kudara Kannon, 352s. – Kuze Kannon, 335 – Jatamukuta Lokevvara, 100 – Laksmindra-Lokevvara, 166 – Lokevvara, 136, 150s., 154ss., 158 – Padmapapi, 82s., 85s., 103, 213, 248, 250s. – Senju Kannon, 358, 375 – Senju-nembutsu, 369 – Shuiyue Guanyin, 327, 383 – Yumedono Kannon, 351s. Avatamsaka sutra, 354 Avatara, 188, 245 Avoka, 12s., 23, 27, 34, 45, 63ss., 68, 70s., 93, 107, 111, 206, 209, 218, 247, 316 Avvaghosa, 43 Avyaktamurti, 39 Ayuthaya, 162, 173, 175s., 183s., 186ss. Azes ii, 208 Baalbeck, 219 Bacco, 219 Badulla, 111, 117, 120, 165 Bagdad, 223 Bagh, 90 Baha, 247s., 250s., 254s. Baha-bahi, 254s. Bahi, 210ss., 215, 254s. Bai-bris, 265 Baimasi, 279, 294 Baitasi, 309 Bakufu, 369 Bala, 74s. Baladityagupta, 78 Balaha vedi: Avalokitevvara Balawaste, 244s. Balin, 56 Balitung, 140 Balkh (Battra), 205, 207, 217s., 225 Bamiyan, 34, 206s., 217-224, 232, 235 Bangemura tole, 247s. Banghe, 25 Bang Klang Tao, 178 Bangkok, 147ss., 162, 169ss., 173-177, 180-183, 186ss. Bangladesh, 100 Ban Qi, 307 Banra o Bare, Banbra, 250 Ban Tanot, 147s. Banteay Chmar, 151 Banteay Kdei, 150s., 156, 161 Baodingshan, 322s. Bàphuon, 149 Barabar, 34 Baramula, 94 Bardo, cerimonia del, 260 Bàt Chum, 149 Battria, 205s., 212, 217s. Bawbaw-gyi, 192 Bàyon, 145, 150, 156-159, 161, 163, 178 Beato vedi: Vakyamuni Bedsa, 66, 68 Begram (Kapivi), 74, 206, 210, 216 Beijing (Pechino), 61, 289, 326-330 Beikthano, 192 Beishan, 322 Beisi, 326 Benares (Varapasi), 9, 48, 182, 287 Benevolente, 14

Bengala, 23s., 31, 101, 103s., 206, 250, 261 Beng Mealea, 149 Besnagar, 64 Bezeklik (Bozikeli), 227, 239s., 242 Bhadgon (Bhaktapur), 253 Bhadracari, 132 Bhadrakalpa, 52 Bhadravargiya, 47 Bhagalpur, 82, 99, 101s. Bhairava, 103 Bhaisajyaguru, 16, 312, 314, 338, 353, 375 – Yakushi Nyorai, 353, 356, 358s., 364 Bhaisajyaraja, 95 Bhaja, 66ss. Bhaktapur (Bhadgon), 253 Bhakti, 14 Bhallika, 48 Bhalluka, 191 Bhamala, 210 Bharhut, 40s., 43, 48, 64s., 70, 72, 287 Bhava, 35s. Bhavacakra, 274 Bhiksu, 75 Bhimaratha, 250 Bhojajaniya jataka, 182 Bhrkuti, 91, 106, 257 Bhumi, 14 Bhumisambharabhudhara, 128 Bhumisparva mudra, 36, 38, 48 Bhutan, 272, 274s. Bhutevvara, 76 Bichkek (Frunze), 225 Bihar, 10, 17, 23s., 31ss., 64, 77, 80, 82s., 99, 101, 103, 106, 143, 170, 175, 177, 198, 200, 258, 261 Bihar Sharif, 99 Bija, 18, 21, 57, 149 Bimbisara, 11, 49s., 312 Binglingsi, 282s. Binyang, 58, 288s., 292 Birmania vedi: Myanmar Birushana, 356, 369, 374 Bishu Shanzhuang, 330 Biwa, lago, 367 Biyunsi, 33, 330 Bodawpaya, 202 Bodhgaya, 31, 33, 51, 76, 99, 101, 182, 330 Bodhi, 28, 111, 113, 122 Bodhicitta, 18 Bodhidharma, 25, 323, 346s., 384 Bodhighara, 113 Bodhimapda, 47 Bodhisattva, 12-16, 19, 22, 36, 38s., 44, 47s., 52s., 57, 59, 74ss., 79s., 85s., 90-93, 99, 104, 111, 113, 120, 128, 131ss., 136s., 149, 155, 166s., 170s., 177, 192, 198, 201, 208, 212s., 216, 222ss., 230, 235, 240, 243, 247s., 259ss., 281ss., 286ss., 290, 292ss., 297-302, 305s., 310-317, 319ss., 324, 326, 328, 335s., 338, 340, 342, 344, 351ss., 356, 365, 367s., 374s. Bodhyagri mudra, 36, 38 Bokusai Shoto, 384 Bombay (Mumbai), 90, 251 Bon-po, 260 Borobudur, 43s., 127ss., 131, 133, 136s., 170 Boroma Trailokanat, 184, 186 Boromracha ii, 184 Bosco del principe Jeta vedi: Jetavana Bozikeli (Bezeklik), 239 Brahma, 45, 49, 104, 160, 181, 197s., 208, 212, 243 Brahman, 9 Brahmanico, 9, 39, 44, 52, 101, 170, 197, 212, 223 Brahmano, 47, 107, 231, 240, 243, 250 Brahmano Dropa o Dhumrasa-gotra, 27 Brahmano Rudraksa, 243 Brahmaputra, 258 Brahmarsideva, 49 Brhatsakhita, 36 ‘Brom-ston, 260 ‘Brug-rgyal, 275 Bu-ston rin-chen grub-pa, 266 Budai Hva-sang, 331 Buddhabhadra, 94 Buddhacarita vedi: Atti del Buddha Buddhadharma, 307

Buddhapad, Buddhapada, 40s., 174, 184 Buddhasima Pasada, 120s. Buddhavaksa, 42 Buddhavataksaka sutra vedi: Ghirlanda dei Buddha Buddhismo esoterico, 15s., 18, 20ss., 130, 329, 362, 380 Buddhismo lamaista, 264, 276 Buddhismo tantrico, 17, 142, 314 Buddhismo theravada, 10, 12, 111, 127, 163, 173, 177, 188, 193, 203 Budhagupta, 78 Bukong, 323 Bushi, 368, 371s., 374 Bushi In, 374 Butkara, 209, 216, 219 Byakugojimura, 358 Byams-pa glung, 267 Byodoin, 366s. Cabahil, 247s. Caitya, 28, 31s., 66, 80, 83, 88ss., 92, 174, 196, 247s., 250, 254 Caityagrha, 31s., 66ss., 74, 86, 90 Cakra, 45, 64, 75 Cakradhatu, 167 Cakravartin, 44, 64, 72, 102, 150, 305 Cam, 150, 159s., 166s., 170 Cambogia, 12, 41, 145, 147, 155, 160, 162s. Campa, 150, 165s. Candra, 23 Candragupta, 63s. Candragupta i, 77 Candragupta ii, 77 Candraprabha, 312, 353 – Gakko, 353 – Bosatsu, 352s., 368 Canestro dei modi di agire o Cariyapitaka, 40 Cankupa, 95 Caodong, 323, 369 Capdi, 32, 133, 136-139, 142s. Cariyapitaka vedi: Canestro dei modi di agire Caturbhuja, 253, 329 Celebes, 108 Cetaka vedi: Seitaka Doji Cetana, 10 Cetiya vedi: Caitya Ceylon, vedi: Vri Lanka Ch’ŏngju, 346 Ch’ungch’ŏng, 335, 342 Chaiya, 169s. Chajang, 338 Chakhar, 275 Chakri, 187 Chandaka, 46s., 316 Chang’an (Xi’an), 24, 279, 282, 297, 306s., 314s., 354 Chan o Channa, 25, 27, 315, 321, 323ss., 330, 342, 369, 384 Chao Boromokot, 186 Chao Phraya, 173 Chao Phraya Chakri, 188 Charikar, 216 Charsadda, 33, 212 Chattra, 28 Chedi, 177, 180, 182, 186s. Chengde (Rere), 330 Chenghua, 329 Chiang Saen, 178 Chieng Mai, 178, 182 Chieng Sen, 182, 188 Chinso, 377 Chinsong, regina, 342 Chionin, 375 Chir Tope, 209 Chisho Daishi, 362 Chogen, 369, 371s. Chŏlla settentrionale, 335 Chongguang, 305, 307 Chongjuesi, 326 Chŏngnim-sa, 30, 334s. Chortchuk (Sorcuq), 236s. Chos-dbyings rgya-mtsho, 273 Chosŏn, 344 Chu, 261, 279 Chuguji, 352s.

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Chumon, 350 Chunar, 75, 80 Chungmun, 334 Chusimp’o, stile, 343 Chusonji, 27, 366 Cielo dei Trentatré dei (Trayastriksa), 38, 45, 76, 104, 125, 290 Cina, 9, 11s., 14ss., 19-25, 29s., 32ss., 36-39, 45ss., 52s., 56s., 59ss., 94, 107s., 127, 145, 166s., 177, 202, 205, 213, 216, 218, 237, 257, 261, 264, 268, 270ss., 275s., 333-336, 338, 340, 342, 344, 346, 354s., 357, 360s., 364s., 369, 372, 377-380, 382ss. Cinque Dinastie, 279, 315, 320 Citta mapdala, 21 Cocincina, 145 Cola, 120, 122, 124 Confucianesimo, 279, 319, 346 Corea, 30, 33, 52, 59s., 108, 349, 351 Cosmogramma, 61, 258 Cristianesimo nestoriano, 306 Cudamapi, 254 Cui Hao, 284 Cuka baha, 254 Cunda, 50, 106, 136s. Daci’ensi, 307, 309 Daci’ensi sanzangfashi zhuan, 24 Dagäba vedi: stupa Dagoba vedi: stupa Dai-Co-viet, 167 Daibutsuden, 355s., 387 Daido Osho, 384 Daigoji, 361s., 376s., 386 Dainichikyo, 360 Dainichi Nyorai, 360, 362, 366 Daisenin, 382 Daitokuji, 324s., 382 Dakbulla, 125 Dakkanshitsu, 358 Dal, lago, 94 Dalai lama, 61, 266, 269ss., 273s. Dali, 327s. gDan-sa-mthil, 266s. Dandan Oiliq, 294 Dang-binh, 166 Dangfeng, 294 Dao’an, 281 Daochuo, 312 Dario, 206 Darpapacarya, 267 Daruma, 384 Darvana, 10 Datang xiyu ji, 24 Datang xiyu qiufa gaoseng zhuan, 24 Datong, 282, 284, 288, 322, 325 Daúada Maúuva, 114, 117, 122, 124 Davabhumika sutra vedi: Sutra delle dieci Terre Davabodhisattvabhumi, 133 Davaratha, 34 Daxianfu, 309 Daxingshan, tempio, 307 Daxingshansi, 314 Dayanta, 309 Dazhao, 275 Dazu, 322s. sDe-dge, 274 Dega, 255 Dekkan, 12, 17, 23, 33, 66, 70, 72s., 77, 85, 170 Dengyo Daishi (Saicho), 360, 365 Deva, 41, 73, 154, 156, 160, 201, 362 Devadatta, 38, 50 Devanakpiyatissa, 111 Devapala, 99, 101, 106 Devaraja, 292 Devata, 19, 57s., 92, 125, 151, 186, 200, 221, 230, 237, 266, 306 Devavri, principessa, 98 Devnimori, 80 Dhamekh stupa, 78s. Dhamma-yazika, 200 Dhammacheti, 201 Dhammarucika, 112, 121 Dhanakataka, 73 Dharanindravarman i, 162

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Dharanindravarman ii, 154 Dharapi, 16, 18, 33, 57 Dharma, 10s., 52, 66 Dharmabhiksu, 94 Dharmacakra mudra, 36, 38, 84, 132, 166, 212 Dharmacakrapravartana mudra, 38, 49 Dharmakara, 297 Dharmakaya, 16, 132 Dharmapala, 23, 99, 103 Dharmaraja, 209 Dharmarajika, 206, 209 Dharmaraksa, 24, 280 Dhatusena, 113 Dhirapa, 50 Dhoti, 76, 213 Dhumrasa-gotra vedi: Brahmano Dropa Dhvaka baha, 248 Dhyana, 10, 25, 231, 323, 369 Dhyana mudra, 36, 38, 281 Dingxian, 299 Dinnaga, 17 Dipankara, 52 Disa, 117 Dizang, 15 Do, 379 Dogen, 369 Dong-du’o’ng, 108, 165ss. Dong Wanggong, 290 Driadi, 45, 66, 76 Dropaditya, 106 ‘Du-khang, 259 Duldur-aqur, 230s., 237, 240 Dunhuang, 14, 20, 24, 34, 37, 39, 45ss., 53, 58, 60s., 240, 242, 282-285, 287s., 290ss., 294, 305, 307, 310ss., 314, 316s., 319s., 322, 327, 352, 366 Dura Europos, sinagoga di, 228 Durlabhavardhana, 95 Dutthagamapi, 111s. Dvarapala, 56, 67, 71s., 151, 167, 289, 299-302 Dvaravati, 128, 147s., 165, 173-176, 180, 183, 191s. Dvibhanga, 39 eDzong, 275 Dzong, 61, 270 Edo, 380, 385, 387 Edzine, 261, 264 Eftal, 217 Eiheiji, 369 Eihoji, 370s. Eisai, 369s. Eizon, 369 Ekadavamukha, 90s., 159, 314s. Eleuti, 330 Ellora, 33, 92s., 255 Emaki, 360, 377s. Emeishan, monti, 328 En, scuola artistica, 368, 374 En-i, 378 Enchin, 360, 362 Endo Morito, 377 Engakuji, 370 Engie, 378 Enichibo Jonin, 377 Ennin, 360 Ennin fondatore del Tofukuji, 323 Epoca – gengiskhanide, 276 – kusapa, 13, 31, 43, 76s., 79, 94, 230, 247, 250 – licchavi, 247, 254 Eracle, 215 Erdene-zu, 275s. Eshin-Sozu, 365 Essere destinato al Risveglio vedi: bodhisattva Estinzione del soffio (parinirvapa), 10 Eúara, 111 Eutimo l’Agiorita, santo, 23 Fahaisi, 329 Famensi, 320 Faxian, 24, 112, 127, 281, 307 Faxiang, 309, 312 Fayong, 24 Fazang, 312 Feiying, pagoda, 326 Fen, 328 Fengxiansi, 309s.

Ferghana, 225 Fico sacro, 47 Ficus religiosa, 47, 76 Fiume Giallo, 288 Foguangsi, 318 Foguoji vedi: Memorie sui regni buddhisti Foladi, 223 Fondukistan, 98, 217s., 223s. Foshuo shiwangjing vedi: Sutra dei dieci re Frunze vedi: Bichkek Fudo Myoo, 362s. Fufeng, 320 Fugen vedi: Samantabhadra Fujiwara, 358, 364, 366, 368, 374s. Fujiwara no Yorimichi, 366 Fujiwara no Yoshifusa, 364 Fukiji, 366 Funan (Fou-nan), 145, 173 dGa’-ldan (Gudan), 269 Gakizoshi vedi: Rotoli dei Dannati famelici Gakko vedi: Candraprabha Gal Vihara, 122 sGam-po-pa, 260 Gandhamadana, monte, 198 Gandhara, 15s., 27-33, 36, 40-43, 45, 48s., 52s., 59, 74ss., 80, 94s., 108, 145, 205-208, 211-216, 218, 225, 228s., 231, 236, 239, 284, 286 Gandharva, 52, 76, 80, 85, 221, 257 Gange (Gapga), 12, 17, 24, 49, 65, 68, 74, 76s., 94, 217s., 236, 244, 250 Ganimede, 215 Ganjin (Jianzhen), 354, 356, 358 Gansu, 14, 20, 24, 34, 37, 39, 45ss., 53, 57, 61, 206, 240, 261, 282s., 285, 288, 291s., 310ss., 314, 316s., 319s., 366 Gaochang (Khoço), 239 Gaozong, 30, 309 Gapa, 71, 77 Gapa baha, 247s. Gapdavyuha sutra, 15, 132, 249, 322 sGar-bris, 273s. Garbhadhatu mapdala, 362 Garuda, 215, 217, 292 Gautama, 44, 192 Gaya, 33, 47s., 101, 328 dGe-lugs-pa, 260, 268s., 273, 276 Gempei, guerra del, 368 Genku, 369 Genmei, 354 Genshin, 365 Gesta divine o Divyavodana, 43 Ghapta, 61, 314 Ghaptavala, 28 Ghat, 90 Ghazni, 218, 223s. Ghirlanda dei Buddha o Buddhavataksaka sutra, 15 Ghorband, 223 Giappone, 15, 18, 27, 30, 33s., 43, 57, 59, 61, 102, 108, 213, 315, 323s., 335, 346s. Giava, 44, 101, 147, 166, 169s. Gifu, prefettura, 371 Gigaku, 359 Gilgit, 12, 95, 98, 243 Ginkakuji, 380 Giovanni Damasceno, santo, 23 Giove, 215 Giudaismo, 39, 306 Glang-dar-ma, 258 Go-Daigo, 378, 380 Go-Sanjo, 368 Godan, 264 Godavari, 72 Goeido, 387 Goma, 18 Gondopharnes (Vindapharpa), 210 Gong’an (Koan), 25, 369 Gongxian, 292s., 299 Gopa, 46 Gopaladeva iii, 104 Gopala i, 99 Gopura, 161, 166s. Gotama vedi: Gautama Govindapala, 104 Grande sutra della Saggezza perfetta o Mahaprajna-

paramita sutra, 17 Grande Veicolo vedi: Mahayana Grandi Kusapa, 206s., 212 Grande Lago vedi: Tonle Sap Gran Moghul, 253 Grdhrakuta, monte, 316 Gu-ge, 258 Gu-shri, 266 Guangdong, 280 Guangsheng, 328 Guangzhai, tempio, 314s. Guangzhou, 24s., 279 Guanyin vedi: Avalokitevvara Guardstone, 114 Gudan (dGa’-ldan), 269 Guha vedi: Ku Gujarat, 66, 77 Gul Dara, 210 Guntupalli, 34, 66 Gunxiu, 57 Gupavarman, 127 Gupta, 29, 33, 36, 41, 44, 51, 77s., 80, 82s., 86, 89, 91, 94s., 99ss., 103, 106s., 117, 128, 133, 146s., 170, 174, 176, 191, 213, 220ss., 230, 247s., 258, 283, 300, 312 Gur-mgon-po, 266s. Gurkha, 253 Gushifosi, 305 Guwen, 318 Guyang, 289 rGyal-rtse, 36, 61, 257, 268s. rGyang, 267 lHa-sa (Lhasa), 257ss., 261, 269ss., 330 Hachibushu, 358 Hadda, 207, 214-217 Hae’in-sa, 60, 344 Haksa, 94, 117, 124 Haksavat (Pegu), 201 Hakuho, 349, 353, 356 Hakuun Egyo, 377 Han, 29, 107, 279, 285, 290 Hancui, 305, 307 Hangzhou, 324, 327, 371, 384 Hanlin, 327 Han Yu, 318 Harigaon, 247s. Haripupjaya, 174, 177 Harisepa, 84 Harisvamini, 80 Hariti, 215, 217, 247 Harmika, 28, 89, 112, 193, 196, 254 Harsavardhana di Kanauj, 78, 99 Harwan, 94 Haugal baha, 247 Hayasya, 141 Hebei, 33, 293s., 297, 299-302, 305, 307, 321, 325, 328, 330 Heian, 359-362, 366ss., 371, 374, 376s., 380 Heiankyo, 359, 368 Heijokyo, 354 Henan, 25, 58, 288ss., 292ss., 297, 299ss., 309s., 326, 328 Hengshan, monte, 33 Hevajara tantra, 260 Hevajra, 20s., 102, 160s. Hideyoshi vedi: Toyotomi Hideyoshi Hiei, monte, 360, 367 Himalaya, 52, 94, 102, 198, 247, 274s. Hinayana, 13, 207, 218, 227, 229 Hindukush, 205s., 218, 223 Hinoki, 359 Hman-Nan Yazawin, 193 Hmawza, 192s. lHo-brag, 272 Ho-chi minh City (Saigon), 108, 147, 166 Hoa-rang, 338 Hohhot (Köke-Khota), 275 Hojo, shogun, 369, 378s. Hojoji, 366 Hojo Tokimune, shogun, 382 Hokaiji, 366 Hokoji, 350 Hokuendo, 371s. Honen Shonin, 369

Hong-bop, 342 Honji suijaku, 361 Honpashiki, 362 Honshu, isola, 368 Hoodo, 366s. Horyuji, 349-353, 356-359, 387 Hosokawa, 379 Hosso, scuola, setta, 59, 354, 369 Hotan vedi: Khotan Hoti-Mardan, 214 Hsutaungpyi Pwasaw, 200s. Huangdi, 279 Huanwang, 165 Huayan, scuola, 312 Huayansi, 322 Huichao, 24, 218, 307 Huiguo (Keika), 360 Huike, 384 Huineng, 25 Huisi, 315 Huiyan, 312 Huiyuan, 297 Hupa (Huns), 94, 217s. Huqiu, collina, 326 Huviskapura (Uskur), 94 Huzhou, 326 Hyang-ga, 338 Hyecho, 338 Hyehŏ, 344 Hyogo, 365 Ichibokuzukuri, 362 Ichijoji, 365 Idikutsahri, 239 Ikkoshu, 379 Ikkyu Sojun, 379, 384s. Iksan, 334s., 338 Iksvaku, 74 Ilgwang-samjon-bul, 334 Illuminazione (vedi anche: Risveglio), 12, 17 Impero sassanide, 212, 221 Impero seleucide, 206 Impero sogdiano, 225 In, mudra, 36, 38, 48, 102, 122, 132, 212, 228, 248, 281, 361 In, scuola artistica, 368, 374 India, 9-13, 15ss., 20, 22-25, 28-36, 39, 41-44, 4649, 51, 53, 59, 61, 106ss., 113, 117, 120, 125, 127s., 133, 139, 146s., 149, 169ss., 174, 182, 192, 196, 198, 200s., 205s., 213, 218, 228, 230, 240, 245, 248s., 253, 261, 273, 281s., 284, 286s., 294, 297, 307, 312, 322, 327, 338, 349, 353 Indo, 206, 259 Indocina, 167 Indonesia, 12, 44 Indra, 45, 47, 49, 66, 104, 156s., 175ss., 181, 208, 212, 243ss. Indradevi, 159 Indrapura, 166 Indravarman ii, 166 Indryadri, 83 Inferi, 15, 167, 186s., 306, 319, 365, 375, 378 Insei, 368 Insho, 374 Insulindia, 170 Io, 9s., 25 Ippen Shonin, 369, 378 Iran, 205, 236s. Irrawaddy, 191, 193 Iryapatha, 36 Ishiya madera, 361 Islam, 39, 104, 143, 218, 223, 225 Ista devata, 19, 57s. Ivanavarman, 146 Iwabushidera, 358 Jaggayapeta, 72 Jainismo, 9s., 34, 64 Jalandhara, 206 Jali, 249 ‘Jam-dbyangs mkhyen-brtse’i dbang-phyug, 273 Jamalgarhi, 33 Jamalpur, buddha di, 79 Jambhala, 101 Jambupati, 52 Jataka, 28, 40s., 52, 64, 66, 77, 85, 125, 131, 133,

177, 182, 188, 200-203, 207, 213, 229, 234s., 249, 251, 272, 283, 285-288, 290, 351s. Jatamukuta Lokevvara: vedi Avalokitevvara Jatila, 49 Jayarajadevi, 155, 159 Jayasthitimalla, 250 Jayavarman ii, 149s. Jayavarman vi, 162 Jayavarman vii, 150, 154ss., 158s., 162s., 173 Jayavarman viii, 163 Jehol, 330 Jellalabad, 214 Jepara (Manyargading), 128 Jetavana, 11, 43, 48s., 56 Jetavanarama, 112, 120, 125 Jetavana Thupa, 111ss. Jhelum (Vitasta), fiume, 93 Jiangsu, 30, 326 Jiankang (Nanjing), 280 Jianzhen (Ganjin), 354 Jiaohe (Yar), 238 Jigokuzoshi vedi: Rotoli degli Inferi Jin, 279, 281, 320s., 325, 327 Jina, 19s., 22, 28, 38, 52, 57, 100, 102, 132, 139s., 143, 247, 250, 254, 261, 265, 269 Jingang, 53, 56, 340 Jing liuli, 312 Jingoji, 362, 377 Jingta, 309 Jingtu, 312 Jinhua, 322 Jining, 326 Jinko ishi, 382 Jishan, 327s. Jishoji, 380 Jiuding, pagoda, 30 Jiuhuashan, 328 Jizo vedi: Ksitigarbha Jo-bo Rin-po-che, 257 Jo-khang, 257ss., 261, 269ss. Jo-nang, 267 Jobon josho, 375 Jocho, 366ss. Jodokyo, 365 Jodoshiki, 367 Jodo Shinshu, 369 Jogan, 362 Jogan-chokoku, 362, 367 Jojitsu, setta, 354 Jokei i, 371s. Joko, 368 Joruriji, 368 Juan, 60 Juichimen Kannon, 359 Junteido, 361 bKa’-brgyud-pa, 260, 266, 274 bKa’-dgams-pa, 260, 268 Kabul, 24, 206, 210, 218, 222ss. Kader Khan di Kashgar, 245 Kadphises vedi: Kujula Kadphises; Vima Kadphises o Kadphises ii Kaesŏng, 342 Kaidanin, 361 Kaifeng, 326, 328 Kaikei, 371, 374s. Kailasanatha, tempio, 92 Kaisando vedi: Eihoji Kaiyushiki teien, 367 Kakemono, 378 Kakrak, 98, 222ss. Kakusandha, 192 Kala, 131, 139, 142 Kalacakra, 142, 250, 270 Kalacakrayana, 23 Kalasan, 138s., 141 Kalawan, 210 Kalhapa, 93 Kalimantan, isola, 128 Kalinga (Orissa), 63, 112 Kalinga Brahmapa, 249 Kalpa, 14, 312 Kamadhatu, 130 Kamakura, 355, 361, 367-370, 372, 374-380, 382, 385, 387

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Kami, 349 Kamŭn-sa, 336, 338s. Kan, 343 Kanakamuni, 132 Kancanasara, 243 Kancipuram, 99 Kandahar, 206 Kandala, 10 Kandy, 125 Kangdang, 334 Kanghwa, isola, 342, 344 Kang Senghui, 280 Kangxi, 329s. Kanhajina, 249 Kanheri, 15, 90 Kaniska i il Grande, 13, 43, 74s., 77, 94, 206-209 Kaniskapura, 209 Kanjingsi, 310s. Kanmu, 359 Kannonji, 378 Kannon vedi: Avalokitevvara Kanshinji, 362 Kanva, 70 Kao, 382 Kapala, 61 Kapilavastu, 44s., 64, 293 Kapiva, 74, 205ss., 214, 216s. Kapivi vedi: Begram Kapthaka, 47, 316 Kara-Tepa, 225 Karadong, 228 Karakhodja, 239 Karakorum, 276 Karapdavyuha sutra, 156, 253 Karashahr (Karasahr), 236s. Karayo, 370, 380 Karesansui, 380 Karkota, 95, 98, 243 Karli, 67s. Karma-pa, 266, 269, 273s. Karma bDud-rtsi, 269 Karman, 117, 131, 242, 274 Karma sgar-bris, 273s. Karmavataka, 43 Karnavacana, 11 Karosti, 228 Kartrika, 61 Karttikeya, 306 Karupa, 14 Kashgar, 229, 245 Kashmir, 12s., 17, 24, 36, 74, 93ss., 98s., 108, 206, 218, 243s., 259 Kassapa i, 113 Kassapa vedi: Kavyapa Kasuga, monte, 375s. Kasugayama, 368 Kathevimbhu, 248, 254 Kathmandu, 28, 44, 247s., 250s., 253ss., 265, 329 Katisutra, 52 Katra, 75, 79 Kaupdinya-Jayavarman, 145 Kauvambi, 49, 218 Kavaya, 47 Kavindrarimathana, 149 Kavyapa, 48s., 132, 298, 300, 317 – Kassapa, 113, 192, 201 – Mahakavyapa, 49, 57 Kav yapavila, 36 Kaya, monte, 344 Kaya mapdala, 21 Kediri, 142 Kegon, 354, 356, 377 Kei, scuola artistica, 368, 371s., 374 Keika vedi: Huiguo Kempo jushichijo, 350 Kenko Shokei, 384s. Keriya, 228 Kesi, 264, 272 Khalkha, 275, 330 Khams, 268, 271s., 274 Khara-Khoto, 57, 261, 264 Kharabalgasum, 239 Kharosthi, 94 Khasa, 250

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Khin Ba, 192 Khmer, 165, 170, 173, 177s., 180, 183s., 188 Khoço (Gaochang), 238ss., 242-245 ‘Khon, 260, 268 dKhon-chong phan-bde, 274 ‘Khon dKon-mchog rgyal-po, 260 Khorat, 162 Khoshot, 266 Khotan, 24, 53, 228s., 243ss., 279, 319 Khri-srong lde-btsan, 258 Khro-phu, 267 mKhyen-bris, 267, 272 Kichijo Ten, 356, 368 Kichizan Mincho, 377, 383s. Kidariti, 218 Kikkara, 362 Kim Myŏng-guk, 346s. Kim Taesŏng, 339 Kin, 342 Kinkakuji, 380 Kinmei Tenno, 349 Kirghisi, 239 Kirghisia, 225 Kirikane, 362, 367 Kirtimukha, 290 Kiyomizudera, 387 Koan (Gong’an), 369 Kobo Daishi (Kukai), 360 Kobori Enshu, 385 Kodo, 350, 361s. Kofukuji, 356, 358, 361, 369, 371s., 375 Koguryŏ, 333-336 Kojong, 344 Kokedera o Parco del Saihoji, 380 Kokei, 371 Kokekhota vedi: Hohhot Kok Mai Den, 177 Kokonor, 330 Kokubunji, 355, 361 Kompong Cham, 148s. Kompong Spu’, 146 Konagamana / Konakagamana, 27, 192 Konbaung, 201 Konchi’in, 385 Kondivte, 28, 67 Kondo, 349ss., 353ss., 358s., 361 Kongara Doji, 362 Kongobuji, 57, 360, 364 Kongokai mandara, 362 Kongosammai’in, 361 Kong Pisei, 146 Konjikido, 27, 366 Kopdane, 67 Koryŏ, 342, 344, 346 Koryŏ-sa, 344 Koryŏ taejang-gyŏng, 344 Koryuji, 335 Kosho, 367, 371s. Kota Bangun, 128 Kotobiki, 378 Kotokuin, 374s. Kou Qianzhi, 284 Kovala, 49 Koya, monte, 360 Koyasan, 57, 360s., 364, 367 Kozanji, 323, 377 Kriyasamuccaya, 267 Krsna, 162, 245 Krspa, fiume, 72 Krtanagara, 142 Ksatriya, 35 Ksemencadra, 43 Ksitigarbha, 15, 319, 328, 344, 365 – Jizo, 365, 375 Ku (Guha), 196 sKu-‘bum (Taersi), 271 sKu-‘bum vedi: Stupa Kubera (Jambhala), 56 Kublai Khan, 201, 264, 327 Ku Bua, 177 Kubyaukyi, 200 Kucha (Qiuci), 24, 34, 52, 230s., 233-240, 243, 282ss. Kuchadaria, 236

Kudara Kannon vedi: Avalokitevvara Kuhon ojo, 367 Kujula, clan, 74 Kujula Kadphises, 206 Kukai (Kobo Daishi), 57, 360ss., 378 Kula, 19 Kumaradeva, 106 Kumaragupta, 78 Kumarajiva, 94, 231, 281s., 315, 317 Kŭmdang, 334 Kumrahar, 31, 33 Kŭmsan-sa, 346 Kumtura (Qumtura), 237 Kunduz, 218 Kunlunshan, Monti della Luna, 227, 307 Kupdika, 76 Kurgan Tyube, 225 Kurkihar, 100-104 Kusapa, 13, 23, 31, 43, 74-77, 79, 93s., 107, 206ss., 210, 212, 221, 225, 230, 247, 250 Kusha, setta, 354 Kuta Blater, 127 Kutagara, 20 Kuthodaw, 202s. Kuva, 225 Kuva, erbe, 47 Kuvala, 10 Kuvinagara, 27, 50s. Kuya, 365, 371s. Kuze Kannon vedi: Avalokitevvara Kwa-chu, 261 Kwa baha, monastero, 250s. Kyanzittha, 197s. Kyŏndŏk, 339s. Kyŏngbok, palazzo, 342s. Kyŏngchonsa, 342s. Kyŏngju, 336, 338-342 Kyŏngsang, 336, 338s. Kyoogokokuji, 360, 363 Kyoto, 43, 52s., 56, 281s., 323ss., 335, 352s., 360, 362s., 365s., 368, 370s., 374s., 377-380, 382s., 385ss. Kyushu, isola, 364, 368, 378 La-dwags (Ladakh), 260 Laghman, 206 Laiyin, 305 Laksacaitya, 250 Laksapa, 41 Laksmi, 40 Laksmindra-Lokevvara vedi: Avalokitevvara Lalitaditya Muktapida, 95 Lalitavistara, 42s., 76, 132 Lam-‘bras lha-khang, 268 Lama (bLa-ma), 18, 269, 274, 327 Lampaka, 206 Lamphun, 174, 177, 180 Lanka, isola, vedi: Vri lanka Lankatilaka, 120 Lan Na, 177s., 182s., 188 Laos, 12, 188 Laozi, 279 Laternendecke, 219, 232, 235, 237, 290 Laukika, 12, 136 Lavapiya-yoganam, 35 lLe’ (Leh), 265, 268 Lha-khang, 36, 266, 268 Lha-khang chen-po, 264s. Lhasa vedi: lHa-sa Liang, 280 Liang Kai, 324s. Lianhuadong, 290, 298 Liao, 33, 320ss., 325-328, 342 Licchavi, 49, 247, 250, 254 Licheng, 30, 294, 297 Li Longmian, 58 Limes, 279 Linfen, 328 Linga, 61 Linji, 323 Linqi, 369 Lintong, 317 Linzhang (Ye), 297 Li Sixun, 312 Li Thai, 178

Liutongsi, 324s. Liu Zongyuan, 318 Li yuan, 306 Li Zhaodao, 312 Lizhi, 56, 340 Lob-nor, 227 Loe Thai, 178, 180 Lohapasada, 112 Lohara, 95 Lokaksema, 279 Lokananda, 193, 196 Lokapala, 56, 242s., 268, 301, 310s., 317, 319, 328s., 336, 338ss., 355s., 371 – Shitenno, 355 Lokevvara vedi: Avalokitevvara Lokottara, 12, 16 Lokottaravadin, 12, 218s. Longmen, 58, 288ss., 292, 298s., 309-312, 334, 351 Longquansi, 330s. Longxingsi, 325s. Lop’buri, 161, 170, 173, 177s., 183 Loriyan Tangai, 211, 213 Loto padma, 91, 154 Lu-i-pa o Luhipada, 23 Luang Prabang, 188 Lulan, 228 Lumbini, 27, 45, 51, 136 Luohan vedi: Arhat Luoyang, 24, 279ss., 288, 293s. Lushanyuan, 326 Madhu, 50 Madhyamika, 16s., 281, 354 Madhya Pradesh, 28, 43, 48, 65s., 99, 106 Madi, 188, 249 Mädirigirya, 114, 124 Madras, 12, 49 Maestro vedi: Vakyamuni Magadha, 12, 49, 70, 77, 101 Mahabhiniskramapa, 47 Mahaboddhi, tempio di, 31, 33, 182 Mahadeva, 12 Mahadharmaraja ii, 187 Maha Illuppalama, 111, 113 Mahakala, 98, 102s., 143, 266s. Mahakarmavibhangga, 131 Mahakavyapa vedi: Kavyapa Mahamudra, 212 Mahanikaya, 187 Mahapala i, 104 Mahaparinibhana sutta vedi: Testo della Grande Estinzione Totale Mahaparinirvapa, 49, 51, 213, 233, 240 – Nehanzu, 364 – Parinirvapa (estinzione del soffio), 10, 40, 51, 76, 89s., 102, 178, 186, 356, 364 Mahaparinirvapa sutra, 281 Mahaprajapati Gautami, 45 Mahaprajnaparamita sutra vedi: Grande sutra della Saggezza perfetta Mahapurusa, 41, 45, 220 Maharajalilasana, 36, 39 Maharastra, 15, 34, 66ss., 83, 90, 92 Mahasakghika, 12s., 16, 206 Mahasena, 112 Mahasiddha, 58, 268, 273s. Mahasthamaprapta, 15, 301, 312s., 344, 375 Mahasukha, 18 Mahathupa (Ruvanväli dagäba), 111 Mahavagga, 42 Mahavairocana, 19, 132s., 314, 361 Mahavairocana sutra vedi: Sutra del Grande Risplendente Mahavajrabhairava, 38 Mahavastu, 42, 52 Mahavibhasa, 94 Mahavihara, 111s., 114, 116s., 121, 201 Mahaviharavasin, 112 Mahavri Devi, 320, 356 Mahavunya, 167 Mahayana, 12-19, 23, 25, 27ss., 31, 33, 36, 39, 42, 52, 57s., 61, 74ss., 85, 90, 92, 95, 98, 112, 127, 132, 136, 147, 160, 165s., 169, 173, 177, 192s., 197s., 206ss., 212, 220, 225, 227, 231, 237, 240, 244s., 247s., 259, 279, 322s., 331

Mahinda, 111 Mahinda iii, 116 Mahiyite (Puja), 27 Mahmud di Ghazni, 218 Maijishan, 34, 53, 311 Mainamati, 100 Maitreya, 12, 14, 16, 36, 38, 44, 52, 76, 88, 90, 132, 136, 147ss., 212s., 222ss., 233, 238, 248, 259, 281-284, 286, 290, 293s., 297s., 306, 317, 326ss., 331, 334ss., 346, 375 – Metteya, 42, 200 – Miroku, 352s., 360, 365 Makara, 65, 116 Malacca, istmo di, 169 Malaysia, 169 Malla, 27, 249s. Malwa, 77 sMan-bla don-grub rgyamtsho, 272 sMan-bris, 57, 271-274, 329 sMan-bris gsar-ma, 273 sMan-thang, 272 Manasara, 36 Manciuria (Liaoning), 274 Mandalay, 201, 203 Mandara vedi: Mapdal Mandhankara, 178 Manicheismo, 306 Manikyala, 30, 33, 209 Manjughova vedi: Manjuvri Manjuvajra vedi: Manjuvri Manju vedi: Manjuvri Manjuvri, 14, 136, 253, 259, 300, 317, 319, 328s., 376 – Manjughova, 14 – Manjuvajra, 92 – Monju, 376s. Manjuvrivihara, 257 Mantra, 18, 57, 361 Mantrayana, 17 Manuha, 197 Manusi buddha, 11, 41, 52, 92, 102 Manyargading (Jepara), 128 Mao, 208 Maometto vedi: Profeta Mapdala (Mandara), 20ss., 92, 101s., 130, 139ss., 247, 251, 259ss., 265ss., 314, 361ss., 371 Mapdaleva, 21 Mapdapa, 74, 125, 151, 182 Mar-pa, 260 Mar-yul, 258 Mara, 38, 47s., 162, 230 Maravijaya, 48, 51 Markata-Hrada, 50 Marshall, Sir John, 206, 209 Martaban, golfo di, 191 Mathura, 12, 74-77, 79s., 82, 94, 113, 206s., 209, 213, 220, 230, 244, 250, 282, 284, 310 Matsyapurapam, 36 Matsyendranatha, 255 Maudgalyayana, 50 Maues, 206 Maulgalyayana, 49 Maurya, 12, 63s., 93, 206 Maya, regina, 43ss., 76, 131, 136, 233 Mazdeismo, 306 Mediterraneo, 23 Megha, 52 Mekong, 145, 150, 177 Memorie sui regni buddhisti o Foguoji, 24 Menam, 147, 173, 177, 183, 187 Menandro, 206 Mendut, 133, 136s. Meritevole (Arhat), 10, 13 Meru, monte, 16, 245 Metteya vedi: Maitreya Mi-Du’c, 167 Mi-la-ras-pa, 260 Mi-so’n, 166s. Miaoyingsi, 327 Michinaga, 366 Mihintaúe, 111, 114 Mihirakula, 94s., 217s. Miiro, 208 Mijjina, 65

Milinda, 206 Minamoto, 368s. Minamoto no Yoritomo, 368s., 377 Mindon, 202s. Ming, 33, 60, 268, 327s., 330, 342, 344, 384 Ming-oi, 231, 233 Mingun, 201s. Miran, 228, 236, 294 Mirei Shigemori, 382 Mirisavätiya, 111 Mirŏksa, tempio di, 334 Miroku vedi: Maitreya Mirpur Khas, 80 Mirŭk-chŏn, 346 Mithila, 250 Mithuna, 74, 77 Mitsuda-so, 352 Mizong, setta, 314s. Mohra Moradu, 209, 212 Mojopahit, 142s. Mokuan Reien, 382 Mokushin kanshitsu, 358 Momoyama, 385, 387 Mon, 128, 162, 173-177, 180, 191ss., 197, 200s. Mondop, 180 Mongaku Shonin, 377 Mongolia, 36, 38, 239, 306, 336 Monju vedi: Manjuvri Mononobe, 349 Monti Celesti vedi: Tianshan Monti della Luna vedi: Kunlunshan Moon stone, 114, 117 Mrgadava o Parco delle Gazzelle, 9, 48, 177, 207 Mucalinda, 149 Muchaku, 372 Mucilinda, 102, 149, 158 Mudra, 36ss., 48, 50, 52, 75, 84, 95, 102, 122, 132, 147, 166, 180s., 186, 208, 212, 220, 222, 228, 248, 281, 333, 335, 361, 374 Mulasarvastivadin, 12, 43, 95 Mumbai (Bombay), 90 Muni, 47 Munmu, 335, 338 Mu Qi, 324s. Mura gala, 114, 116 Muroji, 18, 361 Muromachi, 377ss., 381s. Muryangsu-chŏn, 343 Muso Kokushi, 380 Muso Soseki, 380 Muto Shui, 380 Muzart, fiume, 231 Myanmar (Birmania), 12, 29s., 49, 51, 53, 59, 82, 178, 182, 261 Myinkaba, 200 Myinpagan, 193, 196ss. Myoe Shonin, 377 Myohoin, 374s. Myongnang, 339 Myoo bu vedi: Vidyaraja Myorakuiji, 361 Myoshinji, 382 Myrobolano (amalaka), 258 Nag-thang, 273 Naga, 48s., 66, 148ss., 162s., 193 Nagaoka, 359 Nagapattinam, 99 Nagaraja, 53, 86, 89, 98, 106, 114, 116, 215, 217, 266s. Nagarjuna, 16, 22 Nagarjunakopda, 31, 74, 117 Nagasena, 145 Naijin, 361 Nairanjana, 47, 136 Nairatma, 161 Nakatomi, 349 Nakhon Pathom, 174-177, 186s. Nakka, 43 Nalagiri, 38, 49ss., 73, 178 Nalanda, 17, 22ss., 29, 78, 80, 82s., 99-104, 133, 196, 255 Nam-mkha’bkra-shis, 274 Nambokucho, 378 Namu Myoho Rengekyo vedi: Sutra del Loto

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Nanchao, 177, 192s. Nandaimon, 370s. Nandamula, 198 Nandivikramaditya Nandideva, 95 Nanendo, 371 Nanhai jigui neifa zhuan, 24 Naniwa, 350 Nanjing (Jiankang), 94, 279s., 286, 334s. Nanpaya, 197s. Nanzenji, 385 Napda, 76, 91, 98 sNar-thang, 267, 273 Nara, 18, 43, 57, 59, 314, 349-356, 358-362, 364s., 368-371, 375, 384s., 387 Narmada, fiume, 90 Nasik, 68 Nasr ii ibn Ahmed, 218 Nat, 53, 193 Naurez, 236 Neak Pean, 155s. Nehanzu vedi: Mahaparinirvapa Nehavend, 237 Nembutsu, 379 Nemea, leone di, 52 Nepal, 12, 25, 44, 82, 99, 101, 107, 196 Newar, 254, 265s., 329 mNga’-ris, 258s. Ngaung-U Sawrahan, 193 Ngor, 266 Nichiren, 369 Nihon Shoki, 349 Nikaya, collezioni, 10 Nikaya, setta, 12 Nikko, 386s. Nikko Bosatsu vedi: Suryaprabha Ninsho, 369 Nipata, 40 Nirmapakaya (sPrul-sku), 16, 20, 22, 53, 57s., 132, 269 Nirvapa, 10s., 13s., 72, 117, 298 Nishi Honganji, 387 Nispannayogavali, 36, 266 Nivvakkamalla, 124s. Nivvakkamalla mapdapa (Nivvakka Latamapdapa), 125 Nui Sam, 145 rNying-ma-pa, 260 Oc-èo, 145 Oda Nobunaga, 385 Odantapuri, Odantapura mahavihara (Bihar-Shariff), 258 Odori nembutsu, 378 Ojo-yoshu, 365 Ondur-Gegen, 276 Onin, 379, 382 Ono Goroemon, 374s. Ordos, 306 Orissa, 22, 63, 99, 112, 198, 200, 313 Osaka, 362, 377 Oukong, 95 Oxus, 205s. P’yŏngbang, 343 sPa-gro, 275 Padmadhatu, 167 Padmapapi vedi: Avalokitevvara Padmaparyanka, 39, 75 Padmasambhava, 39, 258, 260, 269 Padmasana, 166 Paekche, 333-336, 349 Pagan, 30, 82, 178, 182, 191ss., 196-202 Pagoda, 29s., 33, 166, 287, 294, 297, 309, 320, 322, 326, 328, 330, 334ss., 338, 342s., 350s., 354-358, 361s., 387 Paharpur, 99s., 198 Paitava, 216, 219 Pakistan, 23, 27, 30s., 36, 41s., 45, 48s., 52, 205, 209, 212, 215 Pala, 23, 30, 32s., 43s., 51s., 83, 98-104, 106, 128, 133, 140, 143, 160, 170, 174, 177s., 182, 192, 197s., 200ss., 248, 261, 264, 276 Palembang, 169 Pali, 9s., 13, 25, 27, 31, 36, 39-42, 58, 117, 187, 192s., 196, 202 Pallava, 12, 77, 113s., 128, 170, 174, 327

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Palmus borassus, 104 Pancaraksa, 16 Pancaraksa sutra, 103, 249 Pancavarsika, 218 Pancayatana, 31, 80 Panchen lama, 269 Pancika, 100s., 215, 217 Panjab, 24, 74, 94, 206, 218 Papdita, 330 Parakramabahu i o il Grande, 12, 121s., 124 Parakramabahu Kalikavata, 121 Paramartha, 280 Paramita, 14, 40 Parco dei Bambù, 11 Parco del Boschetto di Bambù vedi: vepuvana Parco del Saihoji vedi: Kokedera Parco Jotivana, 112 Parco o bosco delle Gazzelle vedi: Mrgadava Parco regale di Lumbini vedi: Lumbini Paribhogakidhatu, 27 Parihasapura, 95 Parinirvapa (estinzione del soffio) vedi: Mahaparinirvapa Paripamana, 58, 207 Parti Arsacidi, 206 Pataligrama, 50 Pataliputra (Patna), 12s., 50, 64, 77s. Patan, 247s., 250s., 253ss. Patharghata, 101ss. Patimaghara, 31, 113 Patimokkha, 74 Patna, 31, 33, 64, 100s., 103 Pattika, 22 Paubha, 250, 265 Pawon, 133, 136 Pegu (Hamsavat), 191, 201 Peitleik, stupa, 201 Pendjikent, 225 Pensiero di Risveglio, 18 Peshawar, 33, 74, 206s., 210, 212s., 217 Phag-mo-gru, 266 ‘Phags-pa, 264, 327 Phimai, 162 Phimeanakas, 159 Phitsanulok, 184 Phnom-Penh, 146-150, 155, 158, 161, 163 Phnom Bathe, 145 Phnom Dà, 146s. Phnom Kulen, 149s. Phra Chedi, 182 Phra Malai, 186s. Phra Mongkol Bophit, 184, 186 Phra Pathom Chedi, 186s. Phum Thmei, 146 Phyi-dar, 259 Phyongyang, 333 Picco del Centro, 25 Picco dell’Avvoltoio (Grdhrakuta), 13, 98, 316 Picco di Adamo vedi: Sumanakuta Picco di Sumana vedi: Sumanakuta Piccolo Veicolo vedi: Hinayana Pingcheng, 282 Pir Panjal, 94 Pithalkora, 67 Piúimage, 31ss., 114, 121s., 125 Plaosan, 138s. Polonnaruva, 113s., 117, 120, 122, 124s., 174 Pongdoksa, tempio di, 340 Pongjŏn-sa, 343 Porsàt, 149 Potala, 269s., 330 Potalaka, 321 Prabhutaratna, 98, 286, 290, 297, 300, 340 Pra Boromthat Chaiya, 169 Pradaksipa patha, 65 Prajna, 11, 18, 91, 140 Prajnaparamita, 16, 59, 61, 149, 151, 155 Prajnaparamita sutra, 16, 103s., 207, 248s. Prakon Chai, 148 Pralambapadasana, 90, 136 Pramapa, 35s. Prambanam, 133, 138, 141 Pranapratistha, 35 Prang, 178, 180, 184, 187

Prang Brahmadat, 162 Prapanca, 143 Prapidhana, 52 Prasada, 104, 197 Prasangika, 17 Pràsàt, 184 Pràsàt Chràp, 149 Pràsàt Sasar Sdam, 149 Pràsàt Tà Mien Toch, 162 Prasenajit, 49s., 292 Pratapamalla, 254s. Pratimalaksapa, 36 Pratimanalaksapam, 36 Pratimoksa, 11 Pratityasamutpada, 9, 48 Pravarapa, 12 Pravrajya, 11 Preah Khan, 151, 154ss., 158 Prei Khmeng, 148 Preta, 41, 187, 233 Priti, 48 Profeta, 225 Prome, 192s. sPrul-sku (Nirmapakaya), 269, 274 sPu-’rangs, 98, 258 sPu-na-kha, 275 Puja (Mahiyite), 27 Pujita, pagoda, 330 Pulguk-sa, 339s. Puliyankulam, 113, 116s. Purpaghata, 114 Punhwangsa, torre del, 336 Purusapura, 74 Pusŏk-sa, 343 Pusyamitra, 64 Putuo, isola, 328 Putuozongchengmiao, 330 Puxian vedi: Samantabhadra Puyŏ, 335 Pyu, 191ss., 196s. Qi del Nord, 297, 299-302, 305, 310, 335 Qianfodong, 282 Qianlong, 275, 329s. Qing, 60, 275, 286, 327s. Qinglongsi, 305, 314 Qingshansi, 317 Qingzhou, 302, 305 Qiuci vedi: Kucha Qu, 238 Quang-nam, 167 Qumtura vedi: Kumtura Qyzyl o Qizyl, 9, 29, 34, 52, 58, 60, 231, 233ss., 237, 240, 283, 292, 294 Rahu, 47 Rahula, 47, 49 Raido, 361, 371 Raigo, 367 Raigoji, 364s. Raijo, 368 Rajadhiraja, 52 Rajagrha, 10s., 13, 38, 47, 49ss., 102, 316 Rajasthan, 66 Rajatarangini, 93ss. Rajendra i Coúa, 169 Rajendravarman, 149 Rajghat, 76 Rajgir, 10 Rakan Nakura, 364 Rakan vedi: Arhat Raksacakra, 22 Raksasa, 177 Raktayamari, 57 Rama, 188 Ramadhipati vedi: Rama Thibodi i Rama i, 187 Rama iii, 188 Rama Kamheng il Grande, 178, 181 Ramakien, 188 Ramapala, 104 Rama Thibodi i, 183 Rama Thibodi ii, 184 Rang’byung rdo-rje, 274 Rangoon (Yangoon), 191ss., 203 Rasa, 36, 193

Rasmi, 180 Rastrakuta, 92 Ratanakosin, 188 Ratanapasada, 116 Ratanapura (Ava), 201 Rati, 48 Ratnasambhava, 132 Rawalpindi, 33 Re del mondo, 16 Re di scienza vedi: Vidyaraja Rere (Chengde), 330 Ri-bo-che, 267 Rin-chen bzang-po, 259 Rin-spungs, 266 Rinzai, 369, 379, 382 Risvegliato, 9, 44s. Risveglio, 9-15, 17s., 20, 23, 25, 31, 36, 38ss., 42, 44, 47s., 72, 75s., 102, 122, 149, 201, 212, 216, 323, 325, 328s. Ritsu, 354, 369 Rlangs, 266 Rokuonji, 380 Rotoli degli Inferi o Jigokuzoshi, 378 Rotoli dei Dannati famelici o Gakizoshi, 378 Rudraksa vedi: Brahmano Rudraksa Rudrayapa, 132 Ruizong, 309, 314 Rupabheda, 35 Rupadhatu, 131 Ruru jataka, 288 Ruvanväli dagäba (Mahathupa), 111 Ruvanvälisaya, 113 Rva-sgreng, 260 Ryoanji, giardino del, 382 Ryoga, collina, 377 Ryokai mandara, 362 Ryonin, monaco, 365 Ryosen, 383s. Sa-skya, 260, 264-268 Sa-skya-pa, 260, 264, 266ss., 327 Sa-skya Pandita, 264 Sabuktigin di Ghazni, 223 Sach’ŏnwangsa, 339 Vadarhadvana, 94 Saddharmapupdarika sutra vedi: Sutra del Loto della Buona Legge Saddhatissa, 112 Sadrvyam, 35 Saffaride, 223 Sagaliya, 112 Saggio del clan degli Vakya vedi: Vakyamuni Sahaja, 23 Sahajayana, 23 Sahasrabhujasahasranetra, 322 Sahi, 218 Sahri-Bahlol, 212, 215 Saicho (Dengyo Daishi), 360 Saigon (Ho-chi minh City), 147 Saigyo, 377 Saihoji, 380 Saiji, 360 Sainenji, 384 Sajia, 260 Sakbhogakaya, 16, 20, 22s., 35, 52, 132, 269 Sakdhya, 221 Sakghabhadra, 94 Sakghamitta, 111 Sakgharama, 32 Sakkavya, 38, 49, 51, 102, 104 Saksara, 22, 117 Sakvara, 57, 98, 102s. bSam-yas, 258s. Samabhanga, 39 Samadhi, 10 Saman, 218 Samanidi, 218 Samantabhadra, 15, 132, 136, 260, 317, 328, 342, 344 – Fugen, 368 – Puxian, 290 Samantakuta (Vripada), 186 Samantamukha, 315 Samapatti, 10 Sambodhi, 11

Sambor Prei Kuk, 146 Samudragupta, 77 Samyaksambodhi, 48 Sancai, 321 Sanci, 27s., 31, 40, 63-66, 70ss., 77s., 80, 99, 104, 106, 228 Sanda-kada-pahapa, 114 Sangha, 10, 66 Sangha Nikaya, 121 Sangharaksa, 43 Sangs-rgyas rgya-mtsho, 270 Sanjusangendo, 374s. Sankhu, 255 Sanlun, 281 Sanron, setta, 354 Sanscrito, 13, 20, 23, 25, 27s., 35, 40, 58, 94, 132, 173, 307, 314, 323 Sapghati, 11 Sapjaya, 128, 140 Saptaratnamaya, 95 Saraha, 23 Sari, 139 Sarnath, 9, 38, 42, 48, 51, 63, 74ss., 78ss., 85, 89s., 117, 147, 191s., 248 Sarnath, Buddha di, 9, 64, 80, 85 Sarvanivarapaviskambhim, 15, 136 Sarvastivada, 192 Sarvastivadin, 12s., 17, 42, 127, 231 Sarvastivadin-Vaibhasika, 206 Sarvavid Vairocana, 102, 259 Satakapi i, 71 Satavahana, 70ss., 83, 89 Satmahal Pasada, 174 Satori, 377 Sattvaparyanka, 36, 39 Sawankhalok, 178 Sciti vedi: Vaka Scopas, 215 Sei Dinastie, 279, 309, 334 Seien, 374 Seinnyetnyima, 196s. Seishi, 375 Seitaka Doji, 362 Sena, 23, 99 Senge, 327 Sengym-aghyz, 238s. Sengzhao, 281 Senju-nembutsu vedi: Avalokitevvara Senju Kannon vedi: Avalokitevvara Sennyet Nyiama, 200 gSer-khang, 265 gSer-thang, 273 Seshin, 372 Sessho, 364 Sesshu Toyo, 384 Sesson, 382 Seul, 30, 333, 335s., 342ss., 346s. Sewu, 32, 138s. Shaanxi, 292s., 314, 317, 320, 328 Shah-ji-ki-Dheri, 206-209 Shakkei, 380 Shalimar, giardini di, 94 Shan, 201, 300 Shandao, 312 Shandong, 30, 294, 297, 302, 305, 326 Shanhuasi, 325 Shanxi, 29, 33s., 279, 282, 285, 287, 292s., 299s., 305s., 309, 312, 314, 318, 320, 325, 327s., 330 Shaolin, 25 Shapur i, 212, 215 Shar-mthun-bris, 261 Shariden, 370 Shebo, 127 Shendongsi, 294 Sher, 223 Shetuopanni, 94 Shido, 371 Shiga, 364s. Shikken, 369 Shi Ko, 325 Shikoku, isola, 378 Shin Arahan, 193 Shindenzukuri, 366 Shingon, mantra, 361

Shingon, setta, 20, 57, 314, 360ss., 364, 368s. Shingonin, 360, 362 Shinran Shonin, 369, 371 Shinto, 361, 376, 378 Shin Yakushiji vedi: Yakushiji Shitennoji, 350 Shitenno vedi: Lokapala Shogun, 369, 378ss., 382, 385 Shoin, 381 Shokaku Gyoja, 361 Shokei vedi: Kenko Shokei Shokokuji, 384 Shomu, 355 Shorea robusta roxb., 50 Shorenin, 362s. Shorinji, 359 Shoryoin, 387 Shosoin, 359 Shotoku, 349s. Shotorak, 210, 216 Shuangta, 326 Shuilu, 329 Shuiyue Guanyin vedi: Avalokitevvara Shundi, 266 Shuon’an, 385 Shwedagon, 203 Shwesandaw, 196 Siam, 184 Sichuan, 60, 322s., 328 Siddha, 23 Siddhartha, 44ss., 133, 212s., 216s., 282, 293, 316, 328, 352 Sighah baha, 248 Sigiriya, 113 Si Intratit, 178 Sikhahanu, 46 Sikhala, 156, 253 Sikri, 75, 217 Silla, 30, 59, 333, 335s., 338-342, 344 Silvani (Yaksa), 45, 49, 53, 56, 66, 71, 75, 101, 154, 156, 300, 319 Simenta, 294, 297 Simuka Satavahana, 70 Sinmun, 338 Sindok, 142 Singhasari, capdi, 142 Singhasari, re, 142 Sirimeghavappa, 112 Sirkap, 206, 208 Sirpur, 106 Sisatchanalai, 178, 184 Sisatta, 178 Sisophon, 149s. Siwalik, 94 Skandha, 9 Skandagupta, 78, 217 Soga, 349 Sokka-thap, 339 Somapura, 100 Somingyi, 196s. Song, 31, 33, 60, 302, 315, 318, 320, 323-327, 331, 342s., 369-372, 374, 376, 379ss., 383s. Songkhla, 174 Songshan o Picco del Centro, monte, 25, 294, 297 Songyuesi, 294, 297 Song Yun, 24 Sorin Otomo, 382 Sŏsan, 335 Soto, 369 Sovrano del mapdala, 21 Sozo, 357 Srah Srang, 150 Srin-mo rtog-kha, 275 Srong-brtsan sgam-po, 257 Stagno dei sette gioielli, 312 Stambha, 64s. Sthanaka, 36, 39 Sthavira, 12 Stupa, 20, 27-32, 35, 40s., 51, 63-67, 70-74, 76, 78ss., 82, 89s., 92, 94s., 98s., 101s., 113, 128, 130-133, 136, 138s., 145, 149, 166, 173s., 176180, 184, 186ss., 192s., 196s., 200-203, 206, 208-211, 213, 215ss., 223s., 228-232, 237ss., 247, 253ss., 261, 266, 285, 288, 294, 297, 306,

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325, 327, 330s., 339s., 342 – Dagäba, 111s., 114, 124 – Dagoba, 66, 93, 120, 327s., 330 – sKu-‘bum, 257, 267ss. – Thupa, 111ss. Subachi (Subasi), 236 Suci, 65 Sudhammavati vedi: Thaton Sudhana, 15, 132, 344 Sudhanakumara avadana, 132 Su Dingfang, 335 Sui, 297, 301s., 305s., 309s., 336, 350, 353 Suiboku, 384 Suibokuga, 382 Suiko, 349 Sujata, 47, 73 Sujati jataka, 229 Sukhavati, 16s., 297, 312, 338, 375 Sukhavativyuha sutra vedi: Sutra della Terra pura Sukhothaï, 171, 178-184, 186, 188 Sulamani, 200 Sultanganj, 82 gSum-brtsegs, 259s., 267 Sumanakuta, 40 Sumatra, 99, 143, 169, 307 Sumeru, monte, 290, 306 Sungai Langsat, 143 Surocolo, 141 Surupa, 177 Surya, 66, 221 Suryaprabha, 312, 353 – Nikko Bosatsu, 353 Suryavarman i, 161, 173 Suryavarman ii, 150 Sutra, 10s., 13-17, 19, 22, 34, 43, 60s., 90, 95, 98, 103s., 155s., 207, 248s., 253, 281, 286, 290, 300, 309, 312, 314s., 317, 322, 326, 342, 344, 349, 354, 360, 365, 385 Sutra dei dieci re o Foshuo shiwangjing, 319 Sutra del Grande Risplendente o Mahavairocana sutra, 19 Sutra della contemplazione di Amitayus o Amitayuridhyana sutra, 312 Sutra della fronte adamantina o Vajrosnisa sutra, 19 Sutra della Terra pura o Sukhavativyuha sutra, 312 Sutra delle dieci Terre o Davabhumika sutra, 14 Sutra del Loto della Buona Legge o Saddharma­pup­ da­ri ka sutra, 14ss., 17, 34, 90, 95, 98, 286, 290, 300, 315, 317, 368, 385 Sutra del loto o Namu Myo ho Rengekyo, 360, 369 Sutta Nipata, 39 Suvappabhumi, 191 Suzhou, 326 Svastica, 40 Svatantrika, 17 Svayambhu, 248 Svayambhunatha, 253s. Swat, 23, 27, 95, 209, 214ss., 228, 243s., 258 Vailendra, 169s. Vaka (Scita), 66, 74, 206, 208 Vakya, 9, 44, 45, 47, 50, 64, 75 Vakkhacarya avadana, 229 Vakyamuni, 9s., 13s., 16ss., 23, 25, 27, 31, 36, 3843, 47-53, 56s., 63, 66, 71-76, 78, 80, 84ss., 8992, 95, 102, 104, 108, 122, 131s., 136s., 145, 147, 149, 165s., 177, 181, 191s., 198, 201, 207, 212s., 220, 223, 228, 248, 257, 282s., 286, 288, 290, 292, 297s., 300, 315ss., 323, 325, 328s., 333, 339s., 344, 351, 358, 361, 364, 375 Vala, 42, 50 Vantaraksita, 258 Vapkarasena, 98 Varapagamana, 10 Variputra, 36, 49s., 78, 317 Varira, 336, 338 Varirikadhatu, 27, 58 Vastra, 13, 24, 36 Vavapka, 31 Vikhara, 31, 78, 133, 159, 192, 200s., 294 Vila, 10 Vilpavastra, 36 Vilpin, 35 Viva, 10, 103, 162, 286s., 306 Viva-Buddha, 143

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Viva-Mahadeva, 132 Vivaita / Vivaismo, 31, 78, 107, 141s., 149s. Vivi jataka, 283, 285 Vloka, 17 Vmavana, 22 Vravaka, 10, 13 Vravakayana, 247 Vravasti, 16, 49, 51, 86, 90s., 102, 212, 219, 292 Vri Kasiraja Bharo, 251 Vriksetra, 192s. Vri Lanka (Ceylon), 12, 22, 24, 28, 32s., 40, 59, 74, 108, 146s., 165, 174, 178, 186s., 196 Vrimahabodhi, albero, 117 Vri Prabhudevi, 192 Vri Prabhuvarman, 192 Vri Satakarpi, 71 Vrivatsa, 245 Vrivijaya, 24, 165, 173, 175, 177s., 180, 327 Vubhakarasikba, 313 Vuddhodana, 44s., 316 Vunga, 51, 64, 70, 72, 77 Vunya, 167 Vunyata, 16, 317 Vunyatita, 167 Vvetahupa, 78 Vvëtakëtu, 44 Vyamatara vedi: Tara Yokkulam o Yokkuram, monte, 340s. T’ab, 334 T’oham, monte, 339 Ta, 29, 294, 325 lTa-pho, 259 Tabgatch, Tuoba T., 281 Tabo-thap, 340 Taegu, 60 Taejang-gyong-gak, 344 Taejo, 342 Taeung-chŏn, 343 Tagikistan, 225 Tahoto, 361 Taipei, 61, 325 Taiping, 328 Taira, 368s. Taisho, 61 Tai situ, 266 Taiwudi, 284 Taizhao, 327 Taizokai mandara, 362 Taizong, 227, 306s., 309, 322 Takarabune, 382 Takauji vedi: Ashikaga Takauji Takht-i-Bahi, 210ss., 215, 217 Taksavila, 208 Tala, albero, 50 Talamana, 36 Tala o tala, unità di misura, 36 Tamamushi no zushi, 351s. Tamil, 113, 120s. Tanabe, 385 Tanegashima, isola, 378 Tang, 15, 24, 30, 33, 53, 56, 60, 227, 237, 240, 242s., 258, 272, 305ss., 309-312, 314s., 317, 320-323, 325-329, 335s., 339ss., 350, 353-356, 358s., 362, 364, 366, 371, 375, 383 Tangrim Xan Totoq, 242 Tanjore (Tanjavur), 106 Tankei, 374s. Tanluan, 297 Tantra, 17, 260, 267 Tantrismo, 20, 22s., 31, 57, 98, 100, 160, 250, 260 Tanyao, 284 Taoismo, 25, 279s., 319 Taotie, 289, 301 Tap’o, 343 Tapa-e-shotor, 214-217 Tapa-Kalan, 215 Tapa Sardar, 224 Tà Prohm, 151, 154ss., 158 Tapussa, 191 Tara, 15, 82s., 91ss., 98, 106, 120, 155, 167, 259, 261, 264 – Vyamatara, 264 Taranatha, 43 Tarim, 24, 57, 108, 216, 218s., 223, 257, 306s.

Tatchu, 381 Tathagata, 16 Tathagata garbha, 16 Taungthugyi, 193 Taxila, 31, 94, 206, 208s., 211s., 215, 218, 228 Te baha, 254 Tekaran (Wonogini), 140 Tempyo, 354 Tendai, scuola, setta, 315, 362, 364s. Tenjikuyo, 343, 369 Tenryuji, 380 Tensho Shubun, 382 gTer-ma, 260 Terai, 44, 64 Termez, 225 Terra pura, 16s., 25, 297, 312s., 327, 338, 353, 365ss., 369, 375 Testo della Grande Estinzione Totale o Mahaparinibhana sutta, 42 Thailandia, 12, 29, 43, 60, 122, 128, 147, 161, 165, 169, 191 Thang-ka, 270, 272s. Thang-stong rgyal-po, 275 That, 188 Thatbyinnyu, 191, 198ss. Thaton (Sudhammavati), 191, 193, 197 Thayekhettaya, 192 Theravada, 10, 12, 27, 31s., 40, 49, 52, 61, 64, 106, 111, 127, 163, 165, 173, 175, 177, 188, 192s., 201, 203, 207, 219, 225, 240, 354 Theravadin, 13 Thiripyitsaya, 201 Thonburi, 187s. Thotla Kupda, 74 Thuparama, 111, 113s. Thuparama dagäba, 111, 114 Thupa vedi: Stupa Tianlongshan, 299s., 311s. Tianningsi, 326 Tianshan o Monti Celesti, 227, 237 Tiantai, 315, 360 Tibet, 12, 18s., 21, 23, 28, 36, 39, 43, 53, 56s., 59, 61, 98, 171, 201, 223, 250, 327 Tilaurakot, 44 Tiloka, 178, 182 Ting, 29, 297, 325, 330 Tin thal, 33, 92 Tipitaka, 202 Tiraulakot, 64 Tirhut, 250 Tirthya, 49 Tivanka, 125 To, 350 Todaiji, 355s., 359s., 369-372, 374s., 387 Tofukuji, 323, 383s. Toji, 53, 56, 360-363, 371, 387 Tokimune vedi: Hojo Tokimune Tokugawa Ieyasu, 385s. Tokyo, 53, 206s., 217, 228s., 236, 240, 242, 297, 305, 324s., 344, 368, 378, 384s. Tolomeo, 206 Tolomeo ii Filadelfo d’Egitto, 23 Tonchino, 167 Tonghwa-sa, 347 Tonle Sap (Grande Lago), 150 Toqquz-Sarai, 229s. Toramapa, 94, 217 Torapa, 28, 40, 63, 65, 70s., 209 Tori, 349, 351, 353 Toshodaiji, 355s., 358s., 364 Toungoo, 201 Toyotomi Hideyoshi, 385 Traiano, 107 Traikutaka, 90 Trailokyavijaya, 102s., 162, 314 Tran, 167 Transoxiana, 206 Trapusa, 48 Trattato sulle Terre dei maestri dello yoga o Yogacaryabhumi vastra, 24 Trayastrikva (Cielo dei Trentatré dei), 38, 45, 51, 76, 125, 178, 201, 290 Tre Regni, 279, 333, 336, 340 Tribhanga, 36, 39

Trikaya, 16, 22 Trimala, 112 Tripitaka, 10, 12, 60, 344 Triplice gioiello vedi: triratna Triratna, 10, 66, 207 bTsan-po’khor-re, 98 gTsang, 266, 269, 273 gTsang-po, fiume, 258 rTse-thang, 266s. Tsong-Kha-pa, 268s., 271 gTsug-lag-khang, 36, 268s. Tudeng, 281 Tumchuq, 229s. Tumet, 275 Tupala, 250 Turchi, 218, 225, 239, 245 Turfan, 238ss., 242s., 245 Turki vahi, 218 Turpan vedi: Turfan Tusita, 14, 16, 44s., 166, 237s., 282, 306 Tuyok, 243 Ty, 167 Udayagiri, 198 Udayana, 49 Udayana di Vatsa, 282 Uddesikadhatu, 27 Uddiyana, 23, 376 Uiguro, 242s. Ǔigyun, 346 Ǔiryŏng, 333 Ǔisang, 338 Uji, 366, 368 Ujjain, 77 Ujvani, 95 Unkei, 371s., 374 Upala, 95 Upalavarpa, 49 Upanapda, 76, 91, 98 Upanisad, 9 Upasika, 14 Upatthanasala, 74 Upaya, 18 Upayakauvalya, 16 Uposadha, 250 Uposatha, 11 Uposathaghara, 113 Urpa, 41, 74s., 113, 147, 165, 212, 228 Uruvilva, 49 Uskur (Huviskapura), 94s., 224 Uspisa, 41, 74s., 183, 212, 228 Usuki, 368 U Thong, 177, 183s. Utpala, 95 Uttararama, 122 Uttarasapga, 11, 75, 128, 146 Uttar Pradesh, 42, 76 Uzbekistan, 205 Vada, 12 Vahalkada, 28, 111ss. Vaidehi, 312 Vaiduryanirabhasa, 312 Vairocana, 19, 22, 38, 102, 132, 139, 166s., 220, 245, 259, 306, 309, 312, 342, 354, 356 Vaispava, 107, 150, 161 Vaivakha, 48 Vaivali, 10ss., 49ss., 102, 317 Vaivravapa, 53, 56, 317, 319s., 339, 356 Vajra, strumento rituale, 15, 18, 56, 61, 80, 139s., 240, 245, 314 Vajrabodhi, 22 Vajracchedika sutra, 60s. Vajradhara, 139, 167, 268 Vajradhatu, 139, 167 Vajradhatu mapdala, 362 Vajrantya, 141 Vajra o Jingang, 15, 18, 56, 61, 80, 139s., 240, 245, 314 Vajrapapi, 14, 52s., 80, 85, 92, 104, 136, 149, 167, 215s., 248, 320, 340 Vajrapapibalin, 56 Vajraparyanka, 36, 39

Vajrasattva, 167 Vajrayana, 17-20, 22s., 25, 27s., 36, 38s., 52s., 56ss., 61, 100, 102s., 127s., 132s., 136, 160, 192, 240, 244, 248, 250, 253, 259, 261, 322, 327 Vajrayogini, 255 Vajrosnisa sutra vedi: Sutra della fronte adamantina Vakataka, 77, 83, 90 Vakhsh (Amudaria), 225 Vanguli, 266 Van mapdala, 21 Varada mudra o Vara mudra, 36, 38, 248, 335 Varahadeva, 84 Varapasi (Bénarès), 48, 177 Varpika-bhanga, 35 Vasipthiputra Pusumavi, 73 Vasu, 320 Vasubandhu, 17, 354 Vasudhara, 247, 250s. Vatadage, 114, 117, 124 Vat Romlok, 146s. Vattagamani, 112 Vedanta, 23 Vedica / Vedico, 9, 35 Vedika (Vidika), 28, 65 Vepugrama (Venugrama), 50 Vepuvana o Parco dei Bambù, 49 Verethragna, 222 Vessantara, 188, 249 Vessantara jataka, 40, 188, 229, 249, 251 Via della Seta, 34, 94, 107, 227, 282, 306, 353 Vidarbha, 83 Vidiva (Besnagar), 64s., 70 Vidudabha, 65 Vidyadhara, 136 Vidyaraja (Re di scienza, Myoo bu), 20, 57, 314, 362 Vientiane, 188 Vietnam, 165s., 279 Vigrahapala iii, 102 Vihara, 32, 66, 82-86, 90-93, 111, 113, 122, 127, 165s., 247s., 258 Vijayabahu i, 120 Vijayapura, 74 Vijnanavadin, 17 Vikhaka, 101 Vikramavila, 23, 99, 104 Vilampo, 251 Villaggio dei Bambù (Vepugrama), 50 Vima Kadphises o Kadphises ii, 74, 206 Vimalakirti, 300, 317, 376 Vimalaksa, 94 Vinaya, 10s., 32, 354 Vindapharpa (Gondopharnes), 210 Vinilakajataka, 201 Virasana, 183 Virendradhipativarman, 162 Virudhaka, 50 – Zocho Ten, 371 Viryabhadra, 43 Vispu, 78, 188, 192, 245, 286 Vita dei santi Barlaam e Joasaph, 23 Vitarka mudra, 36, 38, 222 Vitasta (Jhelum), 93s. Vivakha (Vikhaksa), 101 Vivvakarman, 49, 92s. Vrata, 250 Vyakhapa mudra vedi: Vitarka mudra Waghora, fiume, 83 Wanfagui, 330 Wanfosi, pagoda, 322 Wang’o ch’ŏnch’uk kukjŏn, 338 Wanggung-ni, 338 Wanli, 272 Wat Benchamabopitr, 181 Wat Chamadewi, 174 Wat Chang Lom, 178, 180 Wat Chedi Chet Yot, 182 Wat Chula Pathon, 177 Wat Kukut, 174, 180 Wat Mahathat, 179s. Wat Na Phra Men, 173, 175s.

Wat Phra Keo, 186s. Wat Phra Luang, 178 Wat Phra Men, 174 Wat Phra Paton, 174 Wat Phra Si Ratana Mahathat Chalieng, 178 Wat Pra Mahathat, 170 Wat Pra Sing Luang, 182 Wat Rajapurana, 184 Wat Sala Tung, 170 Wat Si Chum, 181 Wat Suthat, 175, 188 Wat Traphang Thong Lang, 180 Wayo, 361, 371 Wei, 24, 281s., 284, 288-293, 297-300, 302, 333336, 351 Wencheng, principessa, 257, 274 Wenchengdi, 284 Wende, 309 Wendi, 305 Wengong, 300 Wetkyi-in, 200 Woku baha, 250s. Wolsong, 336, 338 Wŏn’gwang, 338 Wonogini (Tekaran), 140 Wu, 280 Wu Daozi, 309 Wukong, 24, 307 Wutaishan, 14, 33, 318s., 328, 330s. Wutasi, 329s. Wu Zetian, 24, 306, 309, 311s., 318 Wuzong, 318 Xi’an (Chang’an), 279, 305, 309, 314 Xiangtangshan, 300ss. Xiaosheng, 330 Xiaowendi, 286, 288 Xiaowudi, 281 Xiaoyanta, 309 Xihuangsi, 61 Xinghuasi, 327s. Xingjiaosi, 309 Xinjiang, 9, 52, 56s., 60, 206, 213, 227, 229ss., 238, 275, 279, 283, 286 Xiwangmu, 290 Xixia, 261, 264 Xuande, 329 Xuangongsi, 33 Xuantai, 307 Xuanzang, 24, 95, 207, 218ss., 231, 307, 309, 312 Xuanzhao, 307 Xuanzong, 22, 313, 319s. Ya‘qub, 223 Yahanda-gu, 192 Yajpopavita, 52 Yakgal vihara, 247s. Yaksa (silvano), 45, 49, 53, 56, 66, 71, 75, 101, 154, 156, 300, 319 Yaksa Guhyaka, 56 Yaksi, 45, 66, 251 Yaksipi, 66, 77 Yakushiji, 59, 353-356, 358 Yakushi Nyorai vedi: Bhaisajyaguru Yama, 319 Yamagoshi Amida vedi: Amitabha Yamainososhi, 378 Yamana, 379 Yamatoe, scuola artistica, 365, 367 Yangdi, 306 Yang Lianzhenjia, 327 Yangsan, 336 Yangzi, 279 Yanqi, 236 Yar (Jiahoe), 238s., 243, 257, 274 Yar-klungs, 257, 274 Yasti, 28 Yatkha baha, 250s. Yavana, Ionio, Greco, 206 Yavodhara, 46 Ye (Linzhang), 297, 300 gYe-dmar, 261 Ye-shes-’od’s, 98

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Crediti fotografici Yebodi, 127 Yi, dinastia, 342, 344 Yi, fiume, 311 Yijing, 24, 127, 146, 307, 312 Yin, fiume, 288 Yin, gesto, 305 Yinlu, 319 Yipin, 324 Yi Sŏng-gye, 344 Yixian, 321 Yoga, 9s., 17s., 23s., 47, 94 Yogacara vedi: Yogacarya Yogacarya, 16s., 309, 354, 360 Yogacaryabhumi vastra vedi: Trattato delle Terre dei maestri dello yoga Yogini, 161 Yongin, 342, 344 Yongle, 268, 274, 329 Yosai, 369 Yosegizukuri, 367, 371 Youguosi, 326 Yuan, 25, 264, 266, 268, 306, 327s., 342 Yuezhi, 206, 218, 279 Yumedono Kannon vedi: Avalokitevvara Yungang, tempio, 29, 34, 279, 284s., 287-290, 294, 334, 351 Yunnan, 177, 192, 326, 328 Yuntai, collina, 30 Yupa, 112 Yusan-ri, 336 Yushi Hachimanko Juhakkain, 367 Yutian vedi: Khotan Zanabazar, 38, 276 Zazen, 369, 380 Zedi, 193 Zen (Chan), 25, 369s., 377, 379-382, 384s. Zenrinji, 375 Zhabs-drung ngag-dbang, 274 Zhe, 384 Zhejiang, 315, 322, 328, 384 Zhendi, 280 Zheng Boyuan, 327s. Zhengding, 294, 325s. Zhenjuesi, 329 Zhenla (Chenla), 146 Zhenyan, 314, 360 Zhi, 60 Zhi Dun (Zhi Daolin), 281 Zhihong, 307 Zhimeng, 24 bZhin gshegs-pa, 273s. Zhi Qian, 280 gZhis-ka-rtse, 270 Zhiyi, 315, 360 Zhol, 270 Zhongzong, 309, 312 Zhou, 297, 302, 305, 310 Zhu Daosheng, 281 Zhu Fahu, 24

Zhu Haogu, 327s. Zhu Shixing, 24, 279 Zhwa-lu, 265s. Zobussho, 357 Zocho Ten vedi: Virudhaka Zoroastrismo, 207 Zuihoin, 382


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