RAPHAEL'S LOGGIAS

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MONUMENTA VATICANA SELECTA


LE SCENE DELL’ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO

MONUMENTA VATICANA SELECTA

NICOLE DACOS

Forse nessun luogo al mondo, in un ambito territoriale così limitato, evidenzia un Patrimonio Artistico tanto differenziato ed alto nei suoi raggiungimenti espressivi. Il sito, dai suoi livelli archeologici precristiani e cristiani del primo S. Pietro al S. Pietro attuale con la piazza, i palazzi e i giardini, è stato luogo di impressionanti risultati in architettura, affresco, scultura e arti decorative; ma il Vaticano è parimenti il contenitore di raccolte archeologiche, artistiche e librarie che coprono migliaia di anni di storia dell’umanità, dagli Egizi all’arte dei nostri giorni. Dei volumi che affrontino il Patrimonio Artistico del Vaticano dovranno di volta in volta darsi dei limiti precisi e congrui. Non la scelta antologica di capolavori, ma l’affondo su importanti episodi artistico-culturali anche con diverse chiavi di lettura, con l’intento di costituire un ponte tra il contesto e i suoi raggiungimenti artistici. Patrimonio Artistico Vaticano perciò come lettura del manufatto, della fabbrica e dell’opera d’arte, contestualizzati o, se vogliamo, in reciproco scambio con la cultura, la teologia, la fede, le riforme, ma anche la politica e le ragioni di stato o, infine, la curiosità per altre culture del presente o del passato.

LE LOGGE DI RAFFAELLO L’ANTICO, LA BIBBIA, LA BOTTEGA, LA FORTUNA

La presente iniziativa coinvolge le direzioni editoriali di Jaca Book e di Libreria Editrice Vaticana, e la direzione dei Musei Vaticani. La curatela è affidata a Francesco Buranelli e Roberto Cassanelli.

VOLUMI PUBBLICATI Heinrich W. Pfeiffer, S.J. LA SISTINA SVELATA ICONOGRAFIA DI UN CAPOLAVORO Nicole Dacos LE LOGGE DI RAFFAELLO L’ANTICO, LA BIBBIA, LA BOTTEGA, LA FORTUNA MUSEI VATICANI

LIBRERIA EDITRICE VATICANA


Copyright © 2008 by Editoriale Jaca Book SpA, Milano Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano Musei Vaticani, Città del Vaticano All rights reserved

INDICE

LE SCENE DELL’ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO

International Copyright handled by Editoriale Jaca Book SpA, Milano Per tutte le immagini a colori delle Logge di Raffaello © Musei Vaticani Foto Archivio Fotografico Musei Vaticani, A. Bracchetti – P. Zigrossi Prima edizione italiana ottobre 2008 Traduzione dal francese di Chiara Formis Revisione di Roberto Cassanelli In copertina Giovanni da Udine, Logge, Lunetta VII, dettaglio

INTRODUZIONE pag. 7

Retro: Perin del Vaga (?), Vittoria. Piedritto a destra del pilastro XII.A.

Capitolo primo L’ANTICO pag. 13

Copertina e grafica Ufficio grafico Jaca Book

Capitolo secondo LA BIBBIA pag. 137 Capitolo terzo LA BOTTEGA pag. 211 Capitolo quarto LA FORTUNA pag. 305 NOTE pag. 330

ISBN

978-88-16-60401-8

Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book, Servizio Lettori Via Frua 11, 20146 Milano Tel. 02/48561520/29 – Fax 02/48193361 e-mail: serviziolettori@jacabook.it internet: www.jacabook.it

BIBLIOGRAFIA pag. 341 INDICE DEI NOMI DI LUOGO E DI PERSONA pag. 349


INTRODUZIONE

A Giovanni, a Evelina, amici di una vita

Questo libro nasce da una precedente opera, sempre sulle Logge di Raffaello. Ero partita dalle mie ricerche sulla scoperta della Domus Aurea e la formazione delle grottesche, che Sir Ernst Gombrich aveva fatto pubblicare dal Warburg Institute, e mi ero proposta di studiare in che modo Raffaello avesse interpretato le decorazioni neroniane e quale fosse il suo apporto con la decorazione. A tal fine organizzai nelle Logge una grande campagna fotografica, la prima che ne documentasse tutti gli elementi, e ne iniziai l’analisi sistematica. Questa ricerca portò a conclusioni sconcertanti: prima di intraprendere la decorazione delle Logge, Raffaello aveva fatto rivivere la pittura romana, ispirandosene anche più direttamente, nella Loggetta e nella Stufetta, i due ambienti superstiti dell’appartamento occupato in Vaticano dal cardinal Bibbiena. Avevo avuto il privilegio di poterlo esaminare con comodo grazie all’estrema cortesia dell’allora direttore dei Musei Vaticani, Deoclecio Redig de Campos. Potei così dedurre che le Logge ne costituivano l’immediata prosecuzione, pur essendo molto più ricche e grandiose. Ben presto però, divenute Loggetta e Stufetta inaccessibili, le Logge di Raffaello rimasero il prototipo delle grottesche moderne. Esse costituiscono in realtà un’unica galleria, situata al secondo piano della facciata monumentale concepita da

Bramante davanti all’antico palazzo pontificio, con tre ordini di gallerie sovrapposte. Alla morte dell’architetto, Raffaello ne ha proseguito la costruzione fino al piano superiore e diretto la decorazione della galleria centrale, tanto che l’insieme dell’opera ha finito per designarne la parte principale: così che quella detta nel XVI secolo «la loggia», o talvolta «la loggia bella», è divenuta «le Logge di Raffaello». Sono pervenuta inoltre a una seconda conclusione. Nella galleria Raffaello non si è ispirato solo alle decorazioni della Domus Aurea, ma è ricorso a un gran numero di altre fonti antiche, tra cui molti rilievi e sculture a tuttotondo. Per individuare questi modelli senza confonderli con opere non conosciute al tempo di Leone X, occorreva andare a Londra, al Warburg Institute, dove si stava elaborando, sulle orme di Aby Warburg e sotto la direzione di Phyllis Bober, il progetto del census, il censimento cioè delle sculture antiche conosciute nel Rinascimento. Il clima che regnava al Warburg Institute era ancora quello del tempo degli studiosi che l’avevano fondato, dove, nella più grande cordialità, le informazioni raccolte da ciascuno venivano trasmesse agli altri, divenendo patrimonio comune. Quando ho intrapreso lo studio delle Logge poche fonti erano state individuate, dopo le pagine pionieristiche loro consacrate nel 1911 nel volume su Raf-

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faello architetto curato da Theobald Hofmann, Fritz Weege per la pittura e Walther Amelung per la scultura. Ora, la messe raccolta superò ogni aspettativa e contribuì ad arricchire il census. Nel campo della scultura si sono dovuti aggiungere anche oggetti di piccole dimensioni, tra cui monete e gemme, che attiravano meno l’attenzione, ma delle quali mi ero già occupata lavorando, agli inizi degli anni Settanta, alla mostra sulle pietre incise di Lorenzo il Magnifico. Nelle Logge una gran quantità di opere antiche si trova anche nelle scene bibliche, dove Raffaello ha sfruttato, in aggiunta, dipinti e mosaici paleocristiani e medievali, alcuni dei quali erano stati segnalati già nel 1916 da Joseph Wilpert. Tale ulteriore aspetto della loro cultura richiedeva di essere approfondito: l’interesse che Raffaello ha avuto verso queste opere non rispondeva solo alla tendenza generale di rinascenza dell’antichità che caratterizza il regno di Leone X, ma si giustificava innanzitutto col desiderio di ritornare a una Bibbia di lettura semplice, come era stata illustrata nei primi secoli dell’era cristiana. Si imponeva dunque una riflessione sulla messa a punto del programma e sul ruolo che vi avevano svolto gli umanisti della corte pontificia. Fino al XIX secolo, quando non erano state ancora chiuse da vetrate, le Logge avevano sofferto a causa delle intemperie, al punto da assumere un aspetto da rovina romana, con la scomparsa di alcuni elementi della decorazione: occorreva perciò tentare di ricostruirli grazie alle copie rimaste del monumento. Le più celebri di tutte sono quelle commissionate da Caterina II a San Pietroburgo, dove hanno trovato posto in una galleria costruita espressamente per ospitarle. Questa galleria non era mai stata riprodotta. Un soggiorno a San Pietroburgo mi ha consentito di studiarle, e le fotografie mi sono state gentilmente fornite dall’allora direttore dell’Ermitage, Vladimir Loevinson-Lessing. Il risultato fu la constatazione che, secondo il costume del XVIII secolo, le Logge della zarina non erano fedeli, e non potevano essere per nulla d’aiuto per ricostruire quelle di Raffaello, di cui offrono, in compenso, un’interpretazione molto significativa della loro epoca. La Bibbia delle Logge desta ugualmente l’attenzione per la molteplicità di accenti coi quali vi sono stati tradotti i progetti di Raffaello. Il problema è ben noto, e ha fatto scorrere molto inchiostro. Nelle Logge il maestro ha fornito i disegni delle storie, mentre per la loro esecuzione si è affidato agli aiuti: Vasari cita otto artisti che vi hanno preso parte, e aggiunge «con molti altri pittori». Per in-

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traprendere lo studio di questa squadra sono di nuovo partita da Londra. Nel 1962 Philip Pouncey, allora conservatore dei disegni italiani del British Museum, aveva pubblicato, in collaborazione col collega John Gere, il catalogo della ricca collezione possieduta dal museo di disegni di Raffaello e della sua cerchia. Vi compaiono, tra l’altro, progetti per la Bibbia delle Logge, quadrettati per la preparazione dei cartoni e poi degli affreschi. Fino al XIX secolo questi fogli recavano il nome di Raffaello, poi gli specialisti si sono resi conto che non erano autografi e li hanno relegati a opere di bottega. Il catalogo di Pouncey e Gere è frutto di lunghe ricerche che hanno consentito grandi progressi nella conoscenza di Raffaello e dei suoi principali allievi: per quanto riguarda le Logge, oltre a Giovanni da Udine, responsabile degli ornati, Giulio Romano, che ha diretto all’inizio l’esecuzione della Bibbia, poi Perin del Vaga, che è intervenuto in seguito con Polidoro da Caravaggio. Pouncey e Gere avevano notato che, pur riproducendo fedelmente le invenzioni del maestro, i disegni preparatori della Bibbia non rivelano lo stile di nessuno di questi allievi. Avevano allora proposto di attribuirli a quello che, nella cerchia più ristretta del maestro, aveva sino allora resistito ad ogni tentativo di identificazione: Giovanfrancesco Penni, di cui Vasari precisa che svolgeva per Raffaello funzioni comparabili a quelle di un segretario. Sempre nel 1962, all’Albertina di Vienna, Konrad Oberhuber aveva pubblicato un articolo nel quale accoglieva la tesi di Pouncey e Gere, ad eccezione di due o tre fogli, che riattribuiva al maestro. Aveva poi sviluppato ciò nel testo per il grande volume consacrato nel 1972 ai disegni di Raffaello e della bottega per la serie di opere in Vaticano. La bibliografia sugli affreschi della Bibbia delle Logge è sterminata. Le 52 storie che la compongono sono state più e più volte suddivise tra gli allievi citati da Vasari e qualche altro pittore. Si trattava di riprendere lo studio partendo dalle conoscenze acquisite nel frattempo su ciascuno degli artisti in questione, ma bisognava anche fare lo spoglio di tutta la bibliografia che li concerne: tutto ciò compare, scena per scena, nella mia pubblicazione precedente. Al British Museum Pouncey e Gere non hanno affrontato il problema dei dipinti e, per quanto riguarda i disegni, a parte un foglio in relazione con gli arazzi, si sono limitati a esaminare i cinque allievi divenuti famosi, senza prendere in considerazione gli altri tre nominati da Vasari della squadra delle Logge, e meno ancora i «molti altri pittori» che menziona. Oberhuber si situa

sulla stessa linea. Ora, per chiarire i punti rimasti oscuri, non era il caso di affrontare il problema abbordandolo dalla parte opposta? Gli artisti meno dotati, quelli provenienti da un ambiente molto diverso o che si sono uniti tardi al maestro, devono avere subito l’influenza di Raffaello in misura minore: nelle grandi composizioni affidate alla bottega, la loro personalità doveva alla fine affiorare. Il primo tra questi che, applicando questo principio, ho riconosciuto nelle Logge è Vincenzo Tamagni, il più modesto degli otto artisti della squadra ricordata da Vasari. Un’altra via è stata aperta nel 1953 da Roberto Longhi. Su Paragone, la rivista da lui fondata, il grande maestro della storia dell’arte aveva pubblicato un illuminante saggio sull’attività in Italia di due pittori spagnoli, Alonso Berruguete e Pedro Machuca, che, di ritorno in Spagna nel 1518, sarebbero diventati due protagonisti del loro secolo, uno come scultore, l’altro come architetto: nel corso del loro viaggio di apprendistato, avevano frequentato gli italiani allora all’avanguardia, e tra questi Raffaello, assimilando in particolare la cultura delle Logge. In un secondo articolo Longhi suggerì la presenza anche di Machuca nella squadra della Bibbia; e, seguendo questa ipotesi, l’ho potuto riconoscere. Ne parlai allora a Giuliano Briganti, che aveva scritto il bellissimo volume La Maniera italiana; Briganti mi pregò di portargli le 52 foto delle storie e mi invitò a disporle per gruppi sul tappeto del salone di casa: le attribuzioni a Tamagni e Machuca lo convinsero; Giulio Romano, Perin del Vaga e Polidoro si lasciavano individuare; occorreva trovare gli altri. Al termine di questa fase ulteriore dell’ indagine, non tutti gli affreschi avevano rivelato il loro segreto, ma poco a poco sono risorti gli otto pittori citati da Vasari, mentre di quelli di cui non viene dato il nome, è ricomparso, accanto a Machuca, il francese Guglielmo di Marcillat. Preparando la seconda edizione del mio libro ho potuto aggiungere alla squadra il bel Berruguete. Un altro amico al quale avevo comunicato questa scoperta, Giovanni Previtali, si è dimostrato interessato in particolare al ruolo degli spagnoli. Che il loro ricordo si fosse perduto dopo che avevano lasciato l’Italia era del resto facile da comprendere. L’individuazione di questi nuovi artisti nella bottega di Raffaello ha avuto un’ulteriore conseguenza per le Logge: i disegni preparatori della Bibbia confluiti nel catalogo di Penni non costituivano un gruppo coerente – Pouncey e Gere, da parte loro, ne avevano già scartati alcuni, non eseguiti con la stessa tecnica. Per ottenere nuovi risultati

bisognava abbattere le barriere tra le diverse specialità, unire in un’unica ricerca disegni e affreschi, artisti italiani e stranieri. Il volume era pronto nel 1972; per ragioni accademiche ne fu ritardata la pubblicazione. Nel 1977 Federico Zeri, che aveva a sua volta condiviso il mio interesse per la bottega di Raffaello, l’ha fatto pubblicare a Roma, dall’Istituto Poligrafico dello Stato. Una seconda edizione, aumentata, è uscita nel 1986. Mi ero orientata verso altri campi di ricerca quando è giunto l’invito, da parte di Sante Bagnoli, presidente della casa editrice Jaca Book, a dedicare alle Logge un nuovo libro e a dirigere una nuova campagna fotografica, questa volta a colori. Non era il caso di proporre una terza edizione del mio libro – al quale è sempre possibile fare riferimento. Bisognava tener conto degli articoli che avevo scritto, e degli interventi – scarsi, in verità – sulle Logge da parte di altri autori; soprattutto era necessario ripartire dalle riflessioni che avevo fatto nel corso degli anni. Un monumento dell’importanza delle Logge di Raffaello non si lascia avvicinare impunemente. Una volta concluso lo studio e ordinati i dossier, questo ritorna alla mente, e suggerisce correzioni o aggiunte, suscita accostamenti inediti, o anche modifiche più profonde. Ma le vie che avevo percorso restavano valide; dalla precedente monografia doveva nascere un saggio nel quale le conclusioni sarebbero state spinte più in là. La prima parte di questo libro esamina la creazione nelle Logge dello stile all’antica. Nel 1986 Phyllis Bober, con l’aiuto di Ruth Rubinstein, ha tratto dal progetto del census il volume Renaissance artists and antique sculpture, che fornisce a studenti e ricercatori un vademecum divenuto insostituibile sulle principali sculture antiche conosciute nel Rinascimento. I contributi in questo campo si sono in seguito moltiplicati, tanto da divenire quasi un settore specialistico, con i limiti che il termine implica. Tali contributi si limitano infatti, troppo spesso, all’identificazione delle fonti, evitando deliberatamente il problema dell’interpretazione: obiettivo che, nonostante il presunto rigore, rivela l’ingenuità di chi non ha imparato a maneggiare il metodo storico. Il fenomeno al quale si assiste nella bottega di Raffaello è ben più significativo: le più diverse opere di età romana si trovano fuse in un ideale ritorno all’arte ellenistica e classica. Il problema non era stato più ripreso, e richiedeva di essere affrontato in tutta la sua complessità. Il ciclo biblico, il cui studio è qui affrontato nella seconda

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parte, si è arricchito di qualche nuova fonte che ho scoperto nel frattempo. Ma le questioni essenziali che pone sono altre. Insieme al problema del ritorno ai grandi cicli paleocristiani e medievali, esse concernono la scelta degli episodi e la composizione di ciascuna storia, l’accento che ha loro impresso Raffaello e la straordinaria unità al quale è giunto tra decorazione pagana e storie religiose. Queste ultime si apparentano infatti a un racconto mitologico grazie alle «vesti» all’antica con cui sono abbigliate e per la nitidezza che le caratterizza, ma l’immensa cultura che le sostanzia vi è come distillata, il che, per una sorta di paradosso, conferisce loro un tono quasi popolare: si tratta di penetrarne il segreto. In questi ultimi decenni le ricerche che hanno visto il maggiore sviluppo si sono concentrate sulla bottega di Raffaello, e sono oggetto della terza parte del libro. Se, nel suo volume del 1972, Oberhuber si è limitato a restituire al maestro due o tre disegni preparatori per le Logge, ed è rimasto fedele a questa soluzione nel libro dell’Albertina al quale ha collaborato nel 1983, in seguito ha continuato ad aumentare il numero di fogli giudicati autografi, al punto di attribuire a Raffaello una quantità di opere dovute alla bottega, spingendosi a restituirgli, tra l’altro, tutti i disegni preparatori della Bibbia. Per parte mia, ho approfondito la conoscenza degli allievi, giungendo a conclusioni diverse: nelle Logge, Raffaello ha fornito solo i primi progetti, schizzi di cui non si è conservato nulla. Nella prima parte della galleria la realizzazione dei disegni venne affidata a Penni. Quando Giulio Romano lasciò il cantiere e vi subentrò Perin del Vaga, fu quest’ultimo a eseguirli insieme a Polidoro da Caravaggio e altri allievi, tanto che la funzione di Penni venne meno. Nel frattempo si poteva precisare la parte svolta dai diversi collaboratori, intravedendo nuovi artisti di cui si era persa memoria. I casi più sorprendenti si sono presentati in modo casuale. Ogni volta che a Roma mi recavo al Gabinetto dei disegni, al primo piano della Farnesina, avevo l’occasione di rivedere la Loggia di Psiche, decorata in concomitanza – o quasi – alle Logge di Raffaello. Ero incuriosita soprattutto dagli affreschi della volta, dove non ritrovavo né il maestro né Giulio Romano. Nel Convito, in particolare, i due putti in primo piano rivelavano una mano che mi era familiare nelle Logge, ma che non ero riuscita a togliere dall’anonimato. In seguito l’ho riconosciuta a Genova, a palazzo Doria. L’identità dell’artista mi è apparsa più tardi in Francia: si tratta di Luca Penni, fratello minore di Giovanfrancesco, che si era formato a Roma con Raffael-

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lo, seguendo poi a Genova Perin del Vaga (del quale era divenuto cognato), prima di proseguire la carriera a Fontainebleau e a Parigi. A questo punto non era più impossibile rintracciare i suoi inizi a Roma dove, curiosamente, si era omesso di cercarlo. Avevo osservato d’altra parte che la bella loggia in stucco bianco di villa Lante, al Gianicolo, era opera di un artista che conosceva il repertorio di stucchi delle Logge, dove aveva forse affiancato Giovanni da Udine, ma che restava un mistero. L’ho potuto risolvere solo più tardi quando sono state condotte a Siena le ricerche, sotto la direzione di Fiorella Sricchia Santoro, che hanno portato alla grande mostra sul Beccafumi del 1990 – fu allora che appresi che la sua presenza nelle Logge era stata segnalata già nel XVII secolo. La mostra su Beccafumi ha consentito di risolvere un secondo problema. Nel 1997 sono stati presentati alla loggia Stati-Mills, sul Palatino, gli affreschi a grottesche che ne facevano parte in origine, ed erano stati poi staccati, e infine acquistati dal Metropoitan Museum of Art di New York, che ne concedeva il prestito a Roma per consentire la ricostituzione della decorazione. Il loro autore era sconosciuto. Ciononostante non vi sono difficoltà nel riconoscervi un altro senese, caduto nell’oblio, che si può già precedentemente individuare nelle Logge. A Roma Raffaello non era circondato solo dai cinque allievi più famosi. Ne aveva accolti molti altri, riuscendo nell’operazione quasi impossibile di delegare loro la propria arte. Un fenomeno di una tale ampiezza doveva essere riconsiderato: lo studio di tutti gli artisti che hanno lavorato alle Logge consente di aprire sulla maggior parte di loro nuove piste che si tratterà di approfondire, sino a risalire al loro ingresso nella squadra, talvolta molti anni prima, già nella Stanza della Segnatura. Un tale ampliamento della bottega conduce naturalmente all’ultima parte del libro, dedicata alla fortuna del monumento. Una fortuna immensa già alla morte di Raffaello, e poi, dopo il Sacco di Roma, con la «diaspora» degli allievi che ne è seguita. Con la loro leggerezza, e anche con la loro chiarità, le Logge hanno affascinato ben più delle Stanze o dei cartoni per gli arazzi. Il loro successo ha raggiunto l’apice nell’ultimo quarto del XVIII secolo, grazie alle preziose incisioni di Ottaviani e Volpato, che ne hanno diffuso il gusto in tutte le corti d’Europa. Queste incisioni sono state oggetto nel 2007 di una bella mostra al Musée des Beaux-Arts di Tours, nella quale ho avuto l’occasione di tornare su una moda che avevo seguito sino a San Pietroburgo e nei corridoi del Campido-

glio di Washington. Ma il tema è inesauribile, e nuovi aspetti continuano ad emergere. Le Logge di Raffaello sono uno dei monumenti romani più amati, copiati, visitati da artisti, conoscitori, viaggiatori: l’insieme decorativo che ha segnato più profondamente l’arte dell’Occidente. Molte biblioteche romane nel corso di questi ultimi anni sono divenute inaccessibili a causa di lavori di rinnovamento. Non posso però passare sotto silenzio gli sforzi fatti dalla Biblioteca Hertziana per garantire la consultazione delle proprie opere, né l’accoglienza che mi hanno riservato altre biblioteche, quella dell’American Academy in Rome, di Villa Medici, della Fondazione Emilio Besso e dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte di palazzo Venezia, un tempo tanto ricca, ma la cui “sala romana” resta tra le più preziose. Non mi è possibile ricordare qui tutti i colleghi e amici coi quali ho avuto nel corso degli anni conversazioni

fruttuose sulle Logge di Raffaello. Per le discussioni suscitate dalla preparazione di questo libro sono riconoscente a Carlo Gasparri, per il quale le fonti antiche del Rinascimento non hanno segreti, come a Christoph L. Frommel, che condivide con me un lontano passato di studi raffaelleschi e conosce magnificamente l’opera del maestro come architetto. Alla direzione dei Musei Vaticani i miei ringraziamenti vanno a Francesco Buranelli e Antonio Paolucci per la loro calorosa accoglienza e, al Gabinetto fotografico, a Rosanna Di Pinto, che ha fatto di tutto per agevolare le riprese. La mia gratitudine va anche ai collaboratori della casa editrice Jaca Book, contagiati dall’entusiasmo che le Logge continuano a suscitare, a Roberto Cassanelli, che è stato il primo a suggerire che questo libro si poteva fare e ne ha seguito attentamente i progressi, infine a Sante Bagnoli che, volendone la realizzazione, mi ha offerto il raro privilegio di poter tornare a vivere accanto a Raffaello e ai suoi.

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PRIMO CAPITOLO

L’ANTICO

I

II

1 4

2 2

3

4

4

6

BA 9

12

V

1 2

4

3

BA 3

IV

1

1

3

A

III

1 3

4

2

BA

VI 1 3

4

2

BA

VII 1 2

4

3

BA

VIII 1 2

4

3

BA

24

IX 1 2

4

3

BA

X 1 2

4

3

BA

XI 1 2

3

3

BA

XII 1 2

2

2 3

BA

BA

48 metri

B

N

B

1 4

2 3

C C

12

4

3

A

Gli elementi ornamentali e figurati delle Logge di Raffaello – volte, scene bibliche, pennacchi, pilastri, piedritti – sono numerati da I a XIV nella sequenza da sud a nord delle tredici campate. All’interno di ciascuna di queste le scene bibliche vanno da 1 a 4 seguendo l’ordine degli episodi rappresentati. I pilastri che fronteggiano quelli del muro interno sono indicati come il pilastro opposto dal lato che gli corrisponde verso il cortile di San Damaso, e pilastro esterno A e pilastro esterno B quelli che si fronteggiano all’interno di ogni campata.

XIV

1

4

4

BA

XIII

B

A

Gli stucchi dei pennacchi sono numerati A, B e C, o A, B, C e E da sinistra a destra a partire dal muro interno, così come quelli dei sottarchi tra ciascuna campata e tra i pilastri verso il cortile di San Damaso. I quattro medaglioni di stucco che ornano la parte superiore dei pilastri recano, rispettivamente le lettere A, B, C e D, dall’alto in basso; anche quelli che ornano i piedritti seguono lo stesso ordine. Gli schemi sono tratti dai rilievi di Paul Letarouilly (1882), che presentano il vantaggio di essere realizzati in scala.


L’ANTICO

Tav. 1. I tre piani di Logge del Palazzo Apostolico. Città del Vaticano.

Fig. 1. Il vecchio San Pietro e i tre piani di logge del Palazzo Vaticano, disegno di Marten van Heemskerck (1535-36 ca.). Vienna, Albertina.

«Hor si è fornita una loggia dipinta: e lavorata de stucchi alla anticha: opra di Raphaello: bella al possibile: e forsi più che cosa che si vegga hoggi dì de moderni»1. Così, il 16 giugno 1519, Baldassar Castiglione annuncia a Isabella d’Este la conclusione del cantiere delle Logge di Raffaello. Le tredici campate che le compongono costituivano il piano centrale, di ordine ionico, del triplice porticato ideato da Bramante per mascherare il vecchio palazzo pontificio e raccordarlo al Belvedere. Il 27 dicembre 1519 Marcantonio Michiel comunica il completamento delle Logge del piano inferiore e aggiunge: «…in la sop.a posta immediate per esser tenuta chiusa et al piacere solum del Papa che fu fornita poco avanti, vi erano pitture di gran precio et di gran gratia, el disegno delle quali viene da Raffaello d’Urbino et oltra di questo il Papa vi pose molte statue, chel teniva secrete nella salva roba sua parte et parte già avanti comprate per papa Iulio, forsi a questo effetto, et erano poste in nichii incavati tra le finestre alternamente del parete opposito alle colonne over pilastri, et contiguo alle camere…»2. In origine le Logge di Raffaello erano dunque una galleria di cose antiche, disposte sul lato interno entro finestre che, ogni due, fungevano da nicchie. Delle sculture che vi si trovavano solo due sono ricordate dalle fonti: un Mercurio, e un pezzo indicato talvolta come un’Iside, talaltra come “un’idea della natura”, cioè una Diana Efesia3. La galleria è definita privata, ma non era propriamente tale:

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Pagine seguenti: Tavv. 2, 3. Logge di Raffaello, veduta d’insieme dal lato sud (tav. 2) e dal lato nord (tav. 3) (cfr. fig. 2).

si vedrà infatti come il papa la utilizzasse per le udienze. Non poteva mancare un tema religioso, che Raffaello ha collocato nelle volte, ciascuna delle quali comprende, attorno agli emblemi del papa o alle sue armi, fra ornati all’antica o prospettive architettoniche, quattro storie dedicate ciascuna a un protagonista della Bibbia, per un totale di 52 scene passate alla posterità come Bibbia di Raffaello. Un quinto episodio fu aggiunto sul muro interno, a imitazione in trompe-l’œil di un rilievo in bronzo, all’altezza del basamento. Prima che le Logge nel XIX secolo venissero chiuse con vetrate4, questa parte ebbe molto a soffrire per le intemperie, e oggi è ormai scomparsa. Per le porte, non conservate, Raffaello si rivolse a Giovanni Barile5, mentre il pavimento, in maioliche smaltate, l’aveva commissionato, probabilmente sulla base di propri disegni, a Luca della Robbia il Giovane, ed è ora sostituito da lastre di marmo grigio6. L’insieme delle costruzioni che si presentano oggi a chi, da piazza San Pietro, si volge verso le Logge di Raffaello, è molto diverso rispetto a quanto si poteva vedere al momento della loro conclusione. Dal colonnato del Bernini si scorge un complesso di gallerie vetrate che, formando una U, chiudono il cortile di San Damaso. Del tutto diverso era il colpo d’occhio quando, al di sopra del piano terreno, vennero innalzati i tre ordini di logge che coprivano il palazzo di Nicolò III, dominando la vecchia basilica mentre si costruiva la nuova. Un disegno di Marten

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L’ANTICO

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Tavv. 4, 5. Logge di Raffaello, veduta d’insieme delle volte, dalle Storie della Creazione (tav. 4) e dalle Storie del Nuovo Testamento (tav. 5).

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Fig. 2. Tabularium, veduta dell’interno (cfr. tavv. 2-3). Roma.

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van Heemskerck, eseguito nell’inverno 1535-36, consente di conoscere il loro aspetto originario7. La facciata, prima che venissero messe in opera le vetrate, dava meno l’impressione di essere pressoché piatta: la luce vi penetrava, giocando sui pilastri e sulle balaustre, e sottolineava il rilievo di ciascun elemento. Il triplice porticato non si affacciava su un cortile lastricato, ma su un giardino chiuso da muri, il «giardino segreto», i cui alberi di alto fusto svettano nel disegno oltre la recinzione. Passeggiando nei loggiati ci si doveva trovare a contatto con la natura e, più oltre, si poteva abbracciare con lo sguardo Roma e la campagna circostante. Le Logge misurano circa 65 m di lunghezza per 4 di larghezza8, e il panorama che si scopriva dalle balaustre doveva mozzare il fiato. Era ancora così quando Turner le visitò nel 1819 9: più che a Raffaello, il dipinto che ne ricavò è un inno a Roma e alla sua luce. Il palazzo del XIII secolo presentava già, sullo stesso lato est, loggiati sovrapposti al di sopra di un criptoportico, ma il loro aspetto era piuttosto modesto. L’insieme degli edifici sarebbe cambiato radicalmente solo coi grandi lavori intrapresi da Giulio II per dare unità a quanto i suoi predecessori avevano di volta in volta fatto costruire, quando Bramante demolì parzialmente l’antico edificio per innalzare la monumentale facciata. Come attestano i pagamenti per «i lavori del giardino segreto», sembra che le opere di fondazione siano cominciate nel 1509 10. Alla sua morte, nel 1514, il piano terreno era completato e già forse avviato il primo. Sul letto di morte, Bramante raccomandò a Leone X, che nel frattempo era asceso al soglio pontificio, di chiamare a succedergli Raffaello, e così i lavori poterono riprendere. Con ogni probabilità si doveva iniziare il secondo piano, che ha conservato il nome di Logge di Raffaello. Il maestro, riferisce Vasari, continuò i lavori «col nuovo disegno et architettura, che ne fece un modello di legname con maggior ordine et ornamento che non avea fatto Bramante»11. Il papa ne rimase talmente soddisfatto che nominò Raffaello architetto dei palazzi pontifici. Sembra tuttavia che, per il livello delle arcate ioniche, Raffaello abbia seguito a grandi linee le direttive del suo predecessore. Ciò che gli spetta completamente è il progetto del terzo piano, di ordine corinzio, che Bramante aveva probabilmente concepito in modo più simile a quelli inferiori, mentre Raffaello lo ha reso ancora più arioso12. Dal punto di vista architettonico, le Logge dette di Raffaello si basano all’esterno sul progetto di Bramante che, nel quadro della politica imperiale inaugurata da Giulio

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vi ha moltiplicato i riferimenti all’antico, ispirandosi principalmente al Colosseo e al Settizonio per la successione degli ordini e il principio dei pilastri addossati a lesene, riducendo però l’aggetto dei diversi elementi per dare maggior rigore al disegno d’insieme. Per le volte e l’articolazione generale delle arcate e dei pilastri, che tendono a suddividere la galleria in una successione di piccoli ambienti, ha preso spunto anche dal Tabularium, ricorrendo a una formula che, nell’edificio romano destinato ad archivio, aveva una funzione precisa, mentre diviene più ornamentale in quello del Rinascimento. Egli rinnovava così nelle Logge, di fronte alla Roma contemporanea, la veduta spettacolare che dal Tabularium si apriva sulle vestigia del Campo Vaccino e del mondo antico da esse evocate. Raffaello interviene sulla struttura: proietta sul muro interno le arcate, e ve le incastra, inserendovi edicole di marmo con finte finestre, mentre, perpendicolarmente,

Tav. 6. J.W. Turner, Roma vista dalle Logge di Raffaello, con il maestro al lavoro e la Fornarina, olio su tela (1820). Londra, Tate Gallery. Tav. 7. Roma vista oggi dalle Logge di Raffaello.

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Tav. 8. Arazzi con grottesche e prime Storie di Mosè (cfr. fig. 4). Volta VIII. Pagine seguenti: Tav. 9. Cassettoni popolati d’angeli e cherubini e Storie della Creazione. Volta I. Tav. 10. Portico animato da ninfe e Storie di Giuseppe. Volta VII. Tav. 11. Grottesche e Storie di Giosuè (cfr. fig. 4). Volta X. Tav. 12. Architetture a trompel’œil e Storie di Davide (cfr. fig. 4). Volta XI.

concepisce altre arcate di uguali dimensioni per ripartire la galleria in campate. Secondo un principio che aveva già consentito a Peruzzi di dispiegare, nella Loggia di Psiche alla Farnesina, un grande affresco sulla superficie piana centrale, modifica le volte antiche troncandole, ad eccezione della settima, a calotta, al centro della galleria. Attorno alla parte centrale dispone, lungo i bordi, quattro riquadri a trompe-l’œil raffiguranti scene bibliche, per i quali si ispira forse al criptoportico decorato a riquadri ricordato più volte da Vitruvio, e soprattutto alla galleria di pitture descritta da Filostrato13. I riquadri sono posti all’interno di una decorazione che ricorda ora cassettoni simili a quelli del Pantheon, in ciascuno dei quali vola un angelo o un cherubino che regge uno stendardo con la croce, ora arazzi a grottesche appesi all’architettura, ora infine un ulteriore piano dell’edificio, in marmi preziosi, che la sfonda per innalzarsi verso il cielo. Ognuna di queste soluzioni si ripete simmetricamente da una parte e dall’altra rispetto al centro della galleria, così che la decorazione della volta I corrisponde a quella della volta XIII, quella della II a quella della XII e così via, creando un ritmo che a volte ritorna nella disposizione delle grottesche sui pilastri.

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Tav. 13. Parte del muro interno con i pilastri X e XI e la falsa finestra X. Pagine seguenti: Tav. 14. Lunetta VII con i festoni e gli stucchi che la contornano.

All’interno di ogni campata si introduce dunque un gioco di rimandi: come in uno specchio, il pilastro che regge l’arco, ed è ornato da grottesche su fondo bianco che scandiscono in alto quattro medaglioni in stucco, si riflette su quello del muro esterno le cui facce laterali ospitano altre grottesche che seguono il medesimo schema. Sul lato interno le edicole sono inquadrate innanzitutto da pilastri affiancati (in aggetto su due lesene, anch’esse ornate a grottesche), e poi dal piedritto, nel quale si alternano motivi dipinti e scomparti geometrici in stucco, così da creare un ritmo supplementare. I sottarchi di ogni campata sono animati da scomparti in stucco bianco. Gli arconi che delimitano le lunette sono a loro volta decorati di stucchi, come i pennacchi sui quattro lati della campata. Le lunette al di sopra delle edicole sono decorate a trompe-l’œil con festoni di fiori, frutti e verzura ricadenti ai lati dei piedritti, che spiccano sull’azzurro del cielo: le Logge erano aperte e si affacciavano sulla natura, che vi penetrava con tutto il suo rigoglio. Per creare questa decorazione Raffaello trasse ispirazione dall’immenso repertorio antico che aveva costituito: un repertorio di ampiezza senza pari, che arricchì di composizioni moderne e scene dal vivo, in un insieme nel quale nulla veniva tralasciato pur di far rivivere i fasti dell’impero romano. Raffaello si era dedicato allo studio dell’antico sin dal suo arrivo a Roma nel 1508, soprattutto della scultura. Nelle Logge lo integra con quello della pittura, conosciuta principalmente attraverso le rovine della Domus Aurea di Nerone, allora confusa con il palazzo di Tito. Essendo le rovine sotterranee, nell’ accedervi si aveva l’impressione di scendere in grotte, al punto che i dipinti che le ricoprivano vennero detti grottesche. Accessibili solo dalla fine del XV secolo, il primo che ne riprese lo stile fu Pinturicchio. Divennero di gran moda intorno al 1500, come riferisce un celebre poema anonimo: «…D’ogni stagion son piene di pintori | più la state par chel verno infresche !… Andiam per terra con nostre ventresche, | con pane con presutto, poma e vino, | per esser più bizarri alle grottesche… parendo in ver ciascun spaza camino; [...]| Et facci traveder botte, ranochi, | civette e barbaianni e nottoline, | rompendoci la schiena co’ ginocchi»14. La visita non era priva di rischi; un altro testo ammonisce: «se avessi tempo fatevi menare alle grottesche sotto terra et vedrete la grandezza degli antichi, et non v’andate sanza buona compagnia»15. Secondo Vasari fu Giovanni da Udine a condurvi Raffaello16.

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Fig. 3. Stufetta del cardinal Bibbiena (1516), veduta d’insieme. Città del Vaticano, Palazzo Apostolico. Fig. 4. “Volta dorata” della Domus Aurea, acquarello di Francisco de Hollanda (1539-40 ca)(cfr. fig. 5 e tavv. 8, 11-12, 71 e 83-84). Escurial, Biblioteca. Fig. 5. Volta della Stanza di Eliodoro (1514)(cfr. fig. 4). Città del Vaticano, Palazzo Apostolico.

Lo schema compositivo di una delle volte della Domus Aurea allora tra le più copiate, la “Volta dorata”, venne utilizzato da Raffaello nel 1514 per quella della Stanza di Eliodoro17, riprendendo l’idea di collocare le quattro storie che la decorano su arazzi a trompe-l’œil che si stagliano contro il cielo. In seguito impiegò la stessa soluzione nella Loggia di Psiche alla Farnesina. L’occasione di giocare sulle grottesche gli si presentò solo quando venne incaricato di costruire e decorare l’appartamento del cardinale Bernardo Dovizi, il Bibbiena, messo a sua disposizione dal papa nel cuore dei palazzi pontifici, un piano sopra le Logge di Raffaello. Ne rimangono due ambienti: la Stufetta che, più che una vera stanza da bagno, è la riproduzione di un calidarium romano18, e una piccola loggia, che si è convenuto di chiamare “Loggetta” per distinguerla dalle Logge di Raffaello19. In una lettera inviata al cardinale il 19 aprile 1516, Pietro Bembo gli comunica il desiderio di Raffaello di conoscere il seguito del programma da illustrare nella Stufetta: «Hora hora avendo scritto io sin qui, m’è sopraggiunto Raphaelo, credo io, come indovino che io di lui scrivessi, et dicemi che io aggiunga questo poco: cioè che gli mandiate le altre historie, che s’hanno a dipignere nella Vostra stufetta, cioè la scrittura delle historie; perciocché quelle che gli mandaste saranno fornite di dipignere questa settimana»20. Doveva trattarsi delle storie di Venere, nel registro centrale delle pareti, o di quelle immediatamente sottostanti, con un Amorino su una biga trainata da una cop-

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pia di animali in ogni scomparto. Il tema, ispirato a Virgilio e Servio, era «Omnia vincit Amor». Con l’aiuto della bottega, i lavori procedettero rapidamente, tanto che Bembo, in un’altra lettera al cardinale datata 20 giugno, ne annuncia la fine21.

Fig. 6. Firma di Giovanni da Udine sulla volta del criptoportico. Roma, Domus Aurea.

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Fig. 7. Loggetta del cardinal Bibbiena (1516), veduta d’insieme. Città del Vaticano, Palazzo Apostolico.

La stanza, di dimensioni molto piccole – 2,50 m di lato per 3,20 di altezza –, è concepita interamente all’antica, con una pittura brillante, dominata dal rosso, nero e oro – non proprio, a dire il vero, ad affresco –, che intendeva probabilmente imitare l’encausto degli antichi. La volta è suddivisa in piccole scene disposte secondo una composizione geometrica, nuovamente ispirata alla “Volta dorata”; le lunette sono ricoperte da grottesche tratte da altre sale del palazzo neroniano, non costituite più, come alla fine del XV secolo, da semplici pilastri sui quali, secondo la formula adottata da Pinturicchio, ogni sorta di oggetti e creature umane, animali o mostruose si dispongono ai lati di una candelabra: per la prima volta ricompaiono, stagliate su un fondo rosso, le edicole con le esili colonne della Domus Aurea, che qui ospitano vegliardi distesi nella posa dei Fiumi antichi ai quali, forse per alludere ironicamente alla destinazione della stanza, alcuni giovani servitori lavano i capelli. Raffaello deve essersi limitato a fornire in parte i primi schizzi di questa decorazione. Per i disegni delle storie di Venere si è forse parzialmente affidato a Giulio Romano; per il resto ha fatto ricorso a Giovanni da Udine, del quale si ha un foglio superstite, forse in rapporto con gli Amorini sulle bighe22. Giovanni, come racconta Vasari23, era tornato alla Domus Aurea per studiare le grottesche – e nel lungo criptoportico non lontano dalla “Volta dorata”, fra racemi e delfini, si legge ancora la firma: ZUAN DA UDENE FIRLANO24.

Improntata ancor più alla Domus Aurea, la Loggetta25 costituisce l’antecedente immediato delle Logge, fatto generalmente trascurato dagli studi in quanto l’appartamento venne molto presto abbandonato e cadde nell’oblio: Bibbiena morì nel 1520 senza avere avuto il tempo di goderselo; già Vasari l’ignora; la Stufetta fu riscoperta solo nel XIX secolo, la Loggetta nel XX. In questa piccola galleria26 Raffaello ideò insieme architettura e decorazione. La volta è ricoperta da un pergolato il cui schema riprende quello del criptoportico della Domus Aurea, suddiviso in scomparti quadrati in ciascuno dei quali è un animale, reale o immaginario. Sulle pareti laterali si elevano tempietti con colonne di verzura, simili a quelli ideati per la Stufetta, ma disposti su due livelli: quelli del registro inferiore, che ospitano statue a monocromo all’interno di nicchie a trompe-l’œil, hanno come tetto la base del secondo, nel quale prendono posto, in mezzo a una folla di esseri viventi, gli dèi della mitologia. Ad un primo sguardo, la Loggetta manifesta una grande fedeltà ai monumenti romani, con molti motivi tratti dalla Domus Aurea: sullo sfondo bianco, molto arioso, oltre al pergolato e ai tempietti, racemi, ghirlande e drappi sui quali sono Amori, animali e mostri, satiri seduti sotto un trofeo di armi, con le mani legate dietro alla schiena come prigionieri, e il fregio nel quale creature fitomorfe danno da bere a dei grifi che terminano a loro volta con foglie di acanto. Da un colombario oggi scomparso derivano alcune piccole scene con Apollo e Marsia, dipinte su fondo

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Fig. 8. Volta del criptoportico, particolare (cfr. fig. 9). Roma, Domus Aurea.

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Fig. 9. Volta della Loggetta del cardinal Bibbiena, particolare (cfr. fig. 8). Città del Vaticano, Palazzo Apostolico.

nero27. Accanto a questi elementi emergono però anche molti motivi estranei all’archeologia: una clessidra, dei libri, una frusta, dei guanti, un astrolabio, un compasso… Alle citazioni dell’antico che, nonostante la loro bizzarria, rischiavano di rasentare l’erudizione, è subentrata una totale reinvenzione degli ornamenti romani, modernizzati strizzando l’occhio allo spettatore. A Raffaello era di certo familiare il passo nel quale Vitruvio, prendendosela con le decorazioni pittoriche del tempo di Augusto, afferma in particolare «… al giorno d’oggi si dipingono cose senza senso anziché raffigurazioni normali di oggetti precisi: al posto delle colonne, si mettono delle canne scanalate, a mo’ di frontoni, un intreccio di racemi e volute, come pure delle candelabre a sostegno di tempietti […]. Come […] è possibile che una canna regga realmente un tetto, una candelabra le decorazioni di un frontone e uno stelo esile e flessibile una figurina seduta…?»28. Se si mette questo passo a confronto con le decorazioni del tempo di Nerone – in realtà di qualche decennio posteriori a quelle prese di mira da Vitruvio – il rapporto che le unisce è innegabile, ma solo indiretto: è probabile che Raffaello sia partito dal testo, ispirandosi poi alla Domus Aurea con l’intenzione di prendere scherzosamente in contropiede l’architetto romano. Era dar forma con umorismo a quanto Vitruvio condannava, rappresentando cose ancora più contrarie alla realtà. Da parte di Raffaello doveva trattarsi anche di un modo di rispondere alla verve e al gusto per i giochi di parole del padrone di casa, ormai a tutti noti dopo il successo ottenuto da La Calandria in occasione della sua rappresentazione a Urbino e poi a Roma29. Attorno ai tempietti e alle storie di Apollo e Marsia si sviluppano grottesche che non poggiano su alcuna base e, sfidando il peso, sono come sospese nel vuoto. Raffaello osa anche scherzare sul soggetto, immaginando ad esempio vecchi panciuti che avanzano ardimentosi su steli leggerissimi, mentre uno degli Amori che li accompagnano è costretto ad usare un bilanciere per non perdere l’equilibrio. Del resto, in una lettera in latino indirizzata al Bibbiena il 13 luglio 1517, Leone X scrive che la sua casa sarà indicata soprattutto «per la gioia e l’allegrezza»30: le grottesche sono pezzi improvvisati, nei quali, accanto alle divinità antiche, si celano fra i racemi le facezie più inattese. Nella Loggetta Raffaello ha lasciato per la prima volta carta bianca a Giovanni, che ha lavorato direttamente sul muro, senza preparazione dell’intonaco, a volte senza

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spolvero né cartone, realizzando con gli aiuti brani di pittura in punta di pennello che hanno la freschezza dello schizzo e sono eseguiti con una tecnica rapida, vicina a quella antica, “compendiaria”, per riprendere il termine di Vitruvio – che sarebbe preferibile tradurre, piuttosto che “impressionista”, come si fa di solito, “abbreviata”, giacché gli artigiani romani non volevano creare uno stile, ma solo fare più in fretta. Nell’appartamento del cardinal Bibbiena Giovanni era già circondato da molti collaboratori, ma, grazie ai suoi primi interventi nella bottega di Raffaello e ai suoi disegni, è possibile riconoscerne, come si vedrà, la mano. Il friulano si distingue dai modelli neroniani, non limitandosi a qualche tocco di colore. Nella sua pittura tutto viene reso con maggiore attenzione alla materia, tutto si fonde e diventa morbido, come se oggetti, foglie e animali fossero accarezzati dalla luce: una novità che gli deriva dalla conoscenza della pittura tonale, acquisita in gioventù con Giorgione.

Figg. 10, 11. Paesaggio e grottesca con maschera, esempi di pittura romana «compendiaria». Roma, Domus Aurea, sala 78.

Nato nel 1487 – più giovane quindi di Raffaello di soli quattro anni –, Giovanni ricevette la prima formazione a Udine dal 1502 al 1506 presso il pittore Giovanni Martini31. In seguito il padre lo condusse a Venezia da Giorgione, «…col quale dimorando il giovane, racconta Vasari, sentì tanto lodare le cose di Michelagnolo e Raffaello, che si risolvé d’andare a Roma in ogni modo. E così, avuto lettere di favore da Domenico Grimano, amicissimo di suo padre, a Baldassari Castiglioni, segretario del duca di Mantoa et amicissimo di Raffaello da Urbino, se n’andò là, dove da esso Castiglioni essendo accomodato nella scuola de’ giovani di Raffaello, apprese ottimamente i principii di quell’arte»32. Nel 1508 Giorgione lavorava al Fondaco dei Tedeschi: anche se Giovanni vi rimase per poco, il soggiorno deve aver avuto su di lui un impatto decisivo. Sempre Vasari riferisce che a Udine aveva imparato a disegnare gli animali, soprattutto gli uccelli, accompagnando il padre a caccia. Giunto a Roma, divenne il primo in disegno e pittura di «…tutte le cose naturali, d’animali, di drappi, d’instrumenti, vasi, paesi, casamenti e verdure, intantoché niun de’ giovani di quella scuola il superava. Ma soprattutto si dilettò sommamente di fare uccelli di tutte le sorti, di maniera che in poco tempo ne condusse un libro tanto vario e bello, che egli era lo spasso et il trastullo di Raffaello». Fra gli acquarelli di animali dipinti da Giovanni che si sono conservati, un gruppo formato essenzialmente da uccelli potrebbe aver fatto parte di questo libro33.

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Questi disegni rivelano una cultura nordica che si potrebbe in qualche modo accostare a quella di Dürer. Vasari la mette in relazione con l’incontro che Giovanni fece frequentando Raffaello, «appresso il quale dimorando un fiamingo chiamato Giovanni, il quale era maestro eccellente di far vagamente frutti, foglie e fiori similissimi al naturale, se bene di maniera un poco secca e stentata, da lui imparò Giovanni da Udine a fargli belli come il maestro, e, che è più, con una certa maniera morbida e pastosa, la quale il fece in alcune cose, come si dirà, riuscire eccellentissimo»34. Questo artista è stato identificato con Jan Ruysch, monaco benedettino secolare originario di Utrecht, che dal 1492 fu miniatore nel monastero di San Martino Maggiore a Colonia35. Nel 1508 si trova a Roma con la duplice qualifica di pittore e cartografo: è l’autore di un’incisione con il mappamondo dove compare per la prima volta a stampa una parte del Nuovo Mondo, mentre, il 14 ottobre, è pagato per la decorazione di un ambiente oggi scomparso, un piano sopra le Stanze di Raffaello, dove lavorarono anche, tra gli altri, Peruzzi, Sodoma e Lorenzo Lotto36. Un graduale datato 1500, che Jan Ruysch miniò a Colonia, presenta miniature ancora molto vicine a quelle della fine del XV secolo, con, nei margini, fiori recisi che si apparentano alla lontana con lo stile detto ganto-bruggese, ma che non consentono di comprendere in cosa l’artista abbia potuto influenzare la maniera ben più moderna di Giovanni da Udine. Tuttavia non è impossibile che Jan Ruysch abbia attirato l’attenzione del friulano sul procedimento del trompe-l’œil e che Giovanni se ne sia ricordato nella Stufetta del cardinale Bibbiena, dove piccoli pesci e farfalle si dispongono in tal modo lungo i bordi delle scene con gli Amori sulle bighe37. Jan Ruysch proseguì la sua attività di miniatore alla corte portoghese, dove sembra aver collaborato con António de Hollanda, padre di Francisco38; negli ultimi anni di vita tornò nel suo monastero di Colonia per morirvi39. Le miniature che è stato possibile attribuirgli in Portogallo presentano nei bordi gli stessi elementi botanici e zoologici di Colonia, ma lo stile è molto più moderno e mostra una resa più sapiente dei volumi e delle ombre portate: probabilmente la situazione si era ribaltata, e l’artista nordico era passato sotto l’influenza di quello italiano. Raffaello seppe sfruttare il talento di Giovanni non appena questi si stabilì a Roma. Sempre secondo Vasari, intorno al 1515 gli fece dipingere gli strumenti musicali

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Fig. 12. Giovanni da Udine, particolare degli strumenti musicali nella Santa Cecilia di Raffaello, olio su tavola trasferito su tela. Bologna, Pinacoteca Nazionale.

della sua Santa Cecilia. Nello stesso periodo il maestro aveva iniziato i cartoni per gli arazzi, incaricandolo di un simile intervento nella Pesca miracolosa, dove gli affidò l’esecuzione dei pesci e degli uccelli. Così come un disegno preparatorio per la Santa Cecilia mostra solo qualche vaga indicazione degli strumenti musicali, consentendo di comprendere il margine di libertà lasciato al friulano sin dal progetto, un altro foglio, per il cartone dell’arazzo40, presenta le figure con le barche ancora vuote, senza che siano state ancora disposte sulla riva le gru e le canocchie: è stato Giovanni a completare la scena coi pesci che si dibattono appena tolti dalle reti, le scaglie lucide sotto le lumeggiature bianche, più lontano gli altri animali e, ancora più in là, l’acqua perlacea solcata dai cigni. Giovanni lavorò anche alla Sala dei Palafrenieri dove, secondo Vasari, dipinse «… molti pappagalli di diversi colori, i quali aveva allora Sua Santità, e così anco babuini, gattimamoni, zibetti et altri bizarri animali»41. Dopo qualche tempo Raffaello gli avrebbe affidato, nella volta e nelle lunette della Loggia di Psiche alla Farnesina, il grande pergolato che divide le scene del racconto come pure, nelle lunette e nei peducci, gli animali vicini agli Amori, un capolavoro lungamente lodato da Vasari42. La Loggia fu “scoperta” il primo gennaio 1519 43. Tutti gli elementi per la decorazione delle Logge vi si trovano già riuniti. I documenti e le testimonianze relativi alle Logge sono scarsi. L’architettura doveva essere conclusa dall’estate del 151644. Il 16 agosto Agostino Gonzaga scrive a Francesco Gonzaga a Mantova che il papa aveva pas-

Fig. 13. Giovanni da Udine, particolare dei pesci e delle gru nel cartone della Pesca miracolosa di Raffaello. Londra, Victoria and Albert Museum. Riprodotto per gentile concessione di S.M. la Regina Elisabetta II.

seggiato la sera «…sopra una loggia, fatta novamente per S.S., per bonissimo spaçio di tempo, dove concorse grandissimo numero di brigate e lì stete publicamente a dar’ audientia». Il 15 gennaio dell’anno successivo, Beltrando Costabili riferisce al cardinale Ippolito d’Este di essersi trovato «sul corritore novo» con il papa, che era accompagnato da Monsignor de’ Medici – il futuro Clemente VII –, dal cardinal Bibbiena e dal cardinale Armellini. Il 23 marzo riferisce al suo corrispondente che il papa vi si è intrattenuto piuttosto a lungo con uno spagnolo mentre altri erano in attesa per l’udienza. Il 25 aprile aggiunge: «… Sua Santità era già ritornata al corritore e passeggiatali domesticamente cum pocha gente, et accostandoseli Mons. de’ Medici la se apogiò col dicto a li balaustri voltando la facia a la piaçia, e stetili uno gran peçio, e legete mie letere. Poi tornò a passeggiare…». Il 16 luglio Tommaso Cattaneo scrive al doge di Venezia che a fine giornata il papa s’intratteneva «per il corridor novo» quando, avendolo visto attraverso la grata, lo fece chiamare. Prima ancora che fossero decorate, il papa aveva già preso gusto alle Logge e vi riceveva. L’ultimo testo consente anche di dedurre che nel luglio 1517 la decorazione non fosse ancora iniziata, ma tutto doveva essere pronto. Prima di aprire il cantiere, Raffaello aveva atteso di concludere i lavori nell’appartamento del cardinal Bibbiena e di portare a termine i cartoni per gli arazzi; poi, sempre nel 1517, di finire la Stanza dell’Incendio del Borgo e la Sala dei Palafrenieri. È il periodo in cui riceve l’incarico per la Trasfigurazione, deve intraprendere di lì a poco la decorazione della Loggia di Psi-

Pagine seguenti: Tav. 15. Pilastro I e decorazioni che lo contornano, con la lesena rimasta intatta, particolare. Tav. 16. Pilastro IV e decorazioni che lo contornano.

che alla Farnesina e si impegna a consegnare ad Alfonso d’Este un Trionfo indiano di Bacco che non è mai stato realizzato, oltre agli incarichi per la conservazione dei monumenti antichi e la preparazione della pianta di Roma antica, i tanti quadri da cavalletto che doveva dipingere e l’intensa attività come architetto. Luca della Robbia il Giovane ricevette un primo, modesto pagamento per il pavimento nel marzo 1518, seguito da tre altri nell’estate – probabilmente per la consegna e non per la posa in opera45. Il 4 maggio 1519 Marcantonio Michiel riferisce che Raffaello ha completato le quattro stanze e «una loggia longissima», che deve indicare le Logge46; il 7 maggio l’artista riceve 400 ducati per lavori non precisati alla corte pontificia, che forse vi si riferiscono47; il 10 giugno Giovanni Barile è pagato per le porte48; l’11 giugno i garzoni della bottega ricevono per le Logge una gratifica di 25 ducati49; il 16 giugno – come si è visto – Baldassar Castiglione annuncia ad Isabella d’Este la fine dei lavori. Confinate nello spazio lungo e stretto dei pilastri e dei semi-pilastri, le grottesche delle Logge rivelano una concezione più tradizionale di quelle dell’appartamento del cardinal Bibbiena. Raffaello si è qui ricordato delle grottesche della loggia del Belvedere, dove Pinturicchio aveva riservato loro una collocazione simile, privilegiando la struttura architettonica rispetto alla decorazione e facendo ogni volta comparire, fra due pilastri, dietro un festone di frutti sospeso a nastri rossi, un paesaggio nel cui cielo azzurro volano uccelli50. Raffaello si rifà anche alle meno esili grottesche che aveva ideato per i vani delle finestre della Stanza di Eliodoro e poi per i bordi degli arazzi. Ma nelle Logge, a dispetto dell’evidente ritorno all’ordine che rivelano, le grottesche sono più complesse, e la rivoluzione compiutasi nell’appartamento del cardinal Bibbiena non è per nulla dimenticata. Le edicole dalle sottili colonne, i minuscoli paesaggi e gli oggetti che compongono quasi delle nature morte si mescolano al repertorio della Domus Aurea, con tutte le sue creature che scorrazzano tra le foglie, gli ombrelli, i medaglioni e le greche: putti alati, grifoni, civette appollaiate su ghirlande, satiri incatenati, cavalli alati, mascheroni animati. È così anche sui semi-pilastri, che costituiscono tante varianti in sordina del pilastro che inquadrano. Questi motivi si accumulano su una base che a volte ricor-

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Figg. 14-17. Pilastri esterni V.B (fig. 14), VI.B (fig. 15), VII.B (fig. 16) e VIII.B (fig. 17) dalle incisioni di Giovanni Volpato. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. A fronte: Tav. 17. Vaso e capinere (cfr. fig. 11). Lesena IX, particolare.

da quella della candelabra, come uno zoccolo o un vaso, e può anche accadere che l’asse centrale si tramuti in pianta, in albero popolato di uccelli o in sostegno a cui appendere pesci e altre creature marine. Obbedendo alla logica della gravità, alcune creature possono anche appoggiarsi, all’interno della struttura, agli elementi che la compongono o ai bordi dei medaglioni di stucco, oppure non poggiare su alcuna base, mentre qua e là ricompaiono allusioni alla violazione delle leggi dell’equilibrio, come la coppia di satiri che si dondolano su un tronco d’albero alla base di un pilastro51. In altri casi questa struttura tende a scomparire, l’asse centrale non è più raffigurato e i diversi motivi si giustappongono nel campo delle grottesche, il cui insieme diviene più astratto, fino a costituire una semplice com-

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Pagine seguenti:

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Tav. 18. Scene con giochi di bambini e lesene che le contornano. Pilastro VIII, particolare. Tav. 19. Tralcio d’acanto popolato da animali e lesene che lo contornano (cfr. fig. 18). Pilastro IX, particolare.

partimentazione di motivi. La stessa tendenza si delinea nell’uso dei racemi, che si sviluppano parallelamente in due volute52 o si limitano ad un unico stelo che occupa l’intero pilastro53. Un’altra soluzione ancora è quella del trofeo, destinato nell’antichità alla rappresentazione di armi, e formato qui da strumenti musicali54. Per alcune di queste soluzioni, come quelle di pesci e strumenti musicali, la fonte deve ancora essere antica. Si sono conservati frammenti di pittura romana dove pesci e uccelli sono appesi a fili come trofei di pesca, raggruppati a volte due a due come nelle Logge; e si conosce da una descrizione la decorazione, oggi scomparsa, di una sala della Domus Aurea dove «l’alto della nicchia era scannellato e per le scannellature c’erano dei trofei musi-

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Fig. 18. Rilievo romano con tralcio d’acanto popolato da animali (cfr. tav. 19). Firenze, Galleria degli Uffizi. Fig. 19. Rilievo romano con tralcio d’acanto e figura (cfr. fig. 14). Città del Vaticano, Grotte Vaticane. Fig. 20. Diana Efesia, replica romana di un originale ellenistico (cfr. tav. 20). Roma, Palazzo dei Conservatori.

cali»55. Molte grottesche s’ispirano a sculture o rilievi. Una di esse comprende una monumentale Diana Efesia che potrebbe derivare da una statua nota al tempo di Leone X, combinata forse, per gli animali che la fiancheggiano, con la rappresentazione che compare su monete, gemme o lucerne antiche56. Un’altra composizione è tratta da un rilievo che faceva parte della collezione della Valle, dove la foglia di acanto, le stesse volute e i germogli lungo gli steli si trasformano in serpentelli57. Sul lato esterno due pilastri riprendono, leggermente modificato, un rilievo che era conservato, con altri simili, sulla facciata interna di San Pietro, nella cappella di Giovanni VIII 58: l’acanto si divide qui in due rami che si sviluppano simmetricamente accogliendo piccole divinità. A questo repertorio si aggiungono ancora altre fonti, come le statue di Pan della collezione della Valle59 e i “putti pisciatori”, frequenti sui sarcofagi bacchici, che si liberano del vino che hanno bevuto. Nel ricorso a questi elementi archeologici rimane comunque essenziale il ritorno alla natura. Fra le foglie d’acanto, di estrema flessuosità, brulica una folla di roditori e di rettili presi dal vero; tassi e scoiattoli sgranocchiano bacche o affrontano serpentelli; altrove si muovono conigli, cervi, ghepardi, leoni. I cervi ai lati della Diana Efesia e, non lontano, la cerva che allatta il suo cerbiatto derivano, certo, da prototipi romani, ma l’artista li

Tav. 20. Grottesche con Diana Efesia (cfr. fig. 20). Pilastro VI, particolare.

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Tav. 21. Grottesche con l’uccellatore (cfr. tav. 186). Pilastro VII, particolare.

ha ricreati partendo dalle proprie osservazioni. Quanto alle farfalle rappresentate immobili, si tratta forse, dopo quelli della Stufetta, di un ulteriore ricordo delle miniature di Ruysch. Gli uccelli sono il soggetto di due pilastri. Nel primo un contadino si è nascosto ai piedi di una quercia per fare la posta a quelli che stanno appollaiati sui rami; nel secondo, al quale fa da base un porcospino, i volatili sono disposti due a due e sorpresi come in istantanee. Una pernice sonnecchia, mentre un’altra si sveglia e si pavoneggia; uno dei piccioni ha il collo affondato tra le piume; un passero si è rotto un’ala e precipita cercando di frenare la caduta; un altro batte le ali durante l’accoppiamento; un picchio si drizza su un tronco a modo suo, aiutandosi col becco e la coda. C’è anche un colibrì. Ad eccezione di alcune specie africane, del resto diverse, si sa che questi uccelli provengono dall’America; è probabile che Giovanni abbia avuto occasione di vederne alcuni, impagliati, in occasione dell’ambasceria inviata a Leone X nel 1514 dal re Manuele del Portogallo – e si avrà occasione di tornarci su60. La curiosità scientifica del friulano è evidente anche nelle due grottesche dedicate alla fauna marina. Si riconoscono senza fatica triglie, calamari, rombi, spigole, muggini, granchi, gamberetti… tutte specie mediterranee che dovevano essergli familiari: l’insieme costituisce quasi una prefigurazione delle tavole che illustreranno i trattati di zoologia della fine del

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Tav. 22. Calamaro. Pilastro esterno XI.B, particolare. A fronte: Tav. 23. Luca Penni (?), Vaso con uccelli. Lesena I, rimasta intatta, particolare.

secolo. Lo stesso rigore si nota nell’attenzione con la quale sono riprodotti gli strumenti musicali, altro campo nel quale Giovanni era diventato maestro. Se si esaminano i motivi di ciascun pilastro, a parte questi pochi elementi, si rivela impossibile trovare un filo conduttore che li unisca – niente in comune con i bordi degli arazzi, dove sono raffigurate le Quattro Stagioni, le Tre Parche, le Ore del giorno e della notte, le Tre Virtù teologali e il Globo celeste con le ore61. Come nella Loggetta tutto qui è riunito a caso. Prima che la galleria fosse chiusa da vetrate, le grottesche hanno molto sofferto per le intemperie e i guasti causati dall’uomo – in alcuni punti il muro è anche ricoperto di graffiti –, sebbene la patina abbia dato loro un aspetto di rovine romane. È rimasto intatto solo il semipilastro all’estremità meridionale, scoperto nel 1952 sotto un pannello che faceva parte delle modifiche apportate sotto Paolo III 62: i soggetti spiccano su un fondo bianco luminoso inquadrato da modanature dorate, in una gamma di colori frequente in questi motivi della galleria, dominata dal morellone, dal verde e dal giallo per evocare l’inizio dell’autunno. Per farsi un’idea della policromia dell’insieme occorre aggiungere, oltre alle onnipresenti modanature dorate, l’azzurro del cielo nelle volte e dietro i festoni e il bianco dello stucco nei sottarchi. L’interesse per la natura non caratterizza tuttavia le pitture sui piedritti né quelle della decorazione delle volte, dove l’interpretazione della pittura romana s’inquadra piuttosto nella cultura toscana delle prime grottesche della fine del XV secolo63. XVI

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Tav. 24. Giovanni da Udine, Festoni e merlo. Lunetta V, particolare.

Tav. 27. Giovanni da Udine, Festoni a sinistra del pilastro III, particolare.

Pagine seguenti:

Tav. 28. Giovanni da Udine, Festoni a sinistra del pilastro IV, particolare.

Tav. 25. Giovanni da Udine, Festoni e tordo. Lunetta VI, particolare. Tav. 26. Giovanni da Udine, Festoni e pettirosso. Lunetta V, particolare.

Più ancora che sui pilastri, il naturalismo trionfa nei festoni che Raffaello ha disposto intorno alle edicole, sempre a partire dall’antico. Questi motivi sono infatti fondamentali nella decorazione delle are funerarie. In scala monumentale l’artista se ne è ricordato anche nella Loggia di Psiche alla Farnesina, ma in questo caso il pergolato che ha ideato è composto da fasci compatti e continui, mentre quelli delle Logge sono frammentati, offrendo a Giovanni l’occasione per moltiplicare le composizioni di fiori, frutti e verzura in un numero sorprendente di sempre nuove combinazioni. Anche qui sarebbe vano cercare un qualsiasi programma: Giovanni si è ingegnato a variare le composizioni per puro piacere, aggiungendo gli uccelli che si posano o volano tutt’intorno. È già un avvicinarsi a ciò che sarà la natura morta, senza giungere però allo stadio finale che porterà alla creazione del genere. Sospese a nastri rosso vivo che con la loro vivacità le mettono in risalto, le composizioni restano legate al proprio contesto ornamentale. Appaiono come inondate di sole contro il cielo azzurro, nel momento in cui la natura offre i suoi frutti più belli, nel pieno della loro maturazione, in ciò che hanno di più caloroso. Alla riscoperta della pittura romana si lega, nelle Logge, l’impiego dello stucco, di cui Giovanni da Udine aveva appena ritrovato la formula. Racconta Vasari: «…facendosi allora in S. Pietro gli archi e la tribuna di dietro… di calcina e pozzolana, gettando ne’ cavi di terra tutti gli intagli de’ fogliami, degli ovuli e altre membra, cominciò Giovanni, dal considerare quel modo di fare con calcina e pozzolana, a provare se gli riusciva di far figure di basso

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Tav. 29. Giovanni da Udine, Festoni a destra del pilastro VIII, particolare. Tav. 30. Giovanni da Udine, Festoni a destra del pilastro III, particolare.

rilievo; e così provandosi, gli vennero fatte a suo modo in tutte le parti, eccetto che la pelle ultima non veniva con quella gentilezza e finezza che mostravano l’antiche, né anco, così bianca. Per lo che andò pensando dovere essere necessario mescolare con la calcina di travertino bianca, in cambio di pozzolana, alcuna cosa che fusso di color bianco; per che, dopo aver provato alcun’altre cose, fatto pestare scaglie di travertino, trovò che facevano assai bene; ma tuttavia era il lavoro livido e non bianco, e ruvido e granelloso. Ma finalmente fatto pestare scaglie del più bianco marmo che si trovasse, ridottolo in povere sottile e setacciatolo, lo mescolò con calcina di travertino bianco, e trovò che così veniva fatto senza dubbio niuno il vero stucco antico con tutte quelle parti che in quello aveva desiderato»64. Raffaello adotta subito questa tecnica per impreziosire l’architettura interna della galleria. Ricopre dunque di stucchi i sottarchi e i pennacchi, che anima con piccole scene figurate ispirate ai grandi corridoi del Colosseo che gli artisti andavano a studiare insieme a quelli della Domus Aurea65. In cima a ogni pilastro inserisce quattro medaglioni in stucco, rispettivamente uno scudo da amazzone, un cerchio, un rettangolo e una mandorla, che si ripetono nello stesso ordine prima all’interno di ogni campata, sulle tre facce del pilastro esterno, e poi lungo tutta la galleria. Il cerchio, la mandorla e il rettangolo derivano dalla “Volta nera” della Domus Aurea, dove simili medaglioni davano l’impressione, ancora nel XVIII secolo, di grandi braccialetti di cammei multicolori66; lo scudo da amazzone è tratto invece dalla “Volta delle civette”67. Da questa stretta dipendenza dall’antico sfuggono gli scom-

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Fig. 21. Scudo d’amazzone, particolare della Volta degli stucchi (cfr. tav. 31). Roma, Domus Aurea. Fig. 22. “Volta nera” della Domus Aurea, disegno dal Codex Escurialensis, fol. 14 v., particolare (cfr. tav. 31). Escurial, Biblioteca. A fronte: Tav. 31. Gruppo di quattro medaglioni in stucco (cfr. fig. 21, 22). Pilastro opposto II.

parti in stucco che scandiscono i piedritti. Un’ulteriore composizione in stucco compare inoltre nella volta centrale. Le scene che animano tutti questi elementi non derivano però dai motivi della Domus Aurea o del Colosseo, dove le sagome sono quasi sempre filiformi. Qui sono state utilizzate solo quelle di un ipogeo oggi scomparso – noto attraverso alcuni disegni – sulla volta del quale era raffigurata la storia di Ercole e Admeto, probabilmente in un rilievo meno basso68. Per animare tutti gli scomparti che doveva decorare in stucco, Giovanni, al quale Raffaello lascia ancora una volta piena libertà, si ispira in primo luogo a rilievi e sarcofagi, allora presenti ovunque a Roma dove costituivano, dal XV secolo, le antichità più studiate. La maggior parte esiste ancora ed è nota anche attraverso numerosi disegni che dimostrano come il friulano s’iscriva in una lunga tradizione, da Ghiberti, Gentile da Fabriano e Pisanello a Giuliano da Sangallo, da Battista da Sangallo, Ripanda e Aspertini a Leonardo, da Peruzzi e Sodoma, Raffaello e i suoi a Michelangelo e altri ancora.

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Tav. 32. Giorgio di Giovanni, Pennacchi con Vittorie (cfr. fig. 23). Volta X.

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Fig. 23. Decorazione in stucco del passaggio centrale nord del Colosseo, incisione di Crozat da un disegno della scuola di Perin del Vaga (cfr. tav. 32). Parigi, Museo del Louvre, DĂŠpartement des arts graphiques.


Fig. 24. Soffitto in stucco con la storia di Ercole e Admeto di un colombario scomparso, da un disegno del Codex Pighianus, fol. 333, particolare (cfr. tav. 33, rovesciata). Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinet. Fig. 25. Trionfo di Bacco e Arianna, sarcofago romano (cfr. tav. 34-37 e 122, rovesciata). Londra, British Museum. A fronte: Tav. 33. Giovanni da Udine, Uomo e donna (cfr. fig. 24, rovesciata). Sottarco XI.B.

Questi modelli rivelano un gusto preciso, con una predilezione per i soggetti bacchici. Numerose figure nei sottarchi si ispirano a due sarcofagi con il Trionfo indiano di Bacco69 e ad un altro col Trionfo di Bacco e Arianna, che faceva accorrere gli artisti a Santa Maria Maggiore70 – un secondo, di uguale soggetto, è utilizzato in uno dei monocromi del basamento71. Un sarcofago, che presenta ancora questo repertorio e di cui resta solo un frammento, ha fornito il punto di partenza per una figura, combinata con un gruppo di cavalieri72. Molti altri motivi derivano da un esemplare, allora nel palazzo di San Marco, che rappresenta le orge durante le feste di Pan73 e da una sontuosa coppa neoattica, già in S. Francesco a Ripa e poi acquistata dal cardinale Cesi, che interessava soprattutto per la raffigurazione di una ninfa dormiente scoperta da alcuni fauni74. Il rilievo con la Visita di Bacco ad un poeta drammatico, che faceva parte della collezione Maffei, era uno dei più ammirati per l’imponente figura panneggiata del dio barbato che si appoggia ad un piccolo fauno, e per le figurine svelte dei fauni danzanti del suo seguito75. In tutte queste opere gli artisti ammiravano i corpi, drappeggiati o nudi, spesso lanciati in movimenti che ne esaltavano l’anatomia, a volte sotto l’effetto di abbondanti libagioni. Lo stesso Raffaello doveva averne tratto ispirazione per il suo Trionfo indiano di Bacco, i cui schizzi dovevano circolare nella bottega76.

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Pagine seguenti: Tav. 34. Giovanni da Udine, Centauro che suona la lira e satiro danzante (cfr. fig. 25). Sottarco esterno II.A. Tav. 35. Giovanni da Udine, Due centauri (cfr. fig. 25). Sottarco III.C. Tav. 36. Giovanni da Udine, Centauro danzante (cfr. fig. 25). Sottarco IV.B. Tav. 37. Giovanni da Udine, Donna distesa trattenuta da una compagna (cfr. fig. 25). Sottarco esterno III.C.


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Fig. 26. Scoperta di Ermafrodito, particolare di una coppa romana con un rilievo neoattico (cfr. tav. 38). Roma, Museo Torlonia. Fig. 27. Visita di Bacco a un poeta drammatico, copia romana di un rilievo neoattico (cfr. tavv. 39-40, 103, 107, 122 e 191). Londra, British Museum.

Molto apprezzate erano anche le scene di battaglia e le cavalcate, con figure talvolta più numerose e composizioni più complesse77. Ci si rifaceva alla storia dei Niobidi, scolpita su un sarcofago murato in una casa ai piedi del Campidoglio78, alle centauromachie79 e alle amazzonomachie – un esemplare si trovava in palazzo della Valle, un altro entrò poco più tardi nella collezione di Bindo Altoviti, un terzo era visibile in San Gregorio80. Gli stucchi dei sottarchi riprendono anche l’illustrazione dei grandi miti greci, come quello di Medea, che veniva copiato da un sarcofago nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano al Foro Romano81, l’Orestiade, che si poteva vedere su un altro sarcofago in Santo Stefano del Cacco82, gli amori di Venere e Marte83 o il Giudizio di Paride, che decorava un altro sarcofago appartenen-

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te alla collezione della Valle84. Si trova l’eco delle figure – Venere e Vulcano, o Amore e Psiche – del rilievo detto allora il “letto di Policleto”, già appartenuto a Ghiberti, che Raffaello tentò invano di acquistare dagli eredi per conto di Alfonso d’Este85. Molte immagini derivano dalle ninfe del rilievo che ha conservato il nome di Danzatrici Borghese86, ed ha ispirato anche la danza della volta centrale87. Si riconosce anche un rilievo col sacrificio di Mitra che si trovava in una grotta del Campidoglio88. Solo poche scene derivano da sculture a tuttotondo, come l’Apollo del Belvedere, la Venus Felix e le Tre Grazie89. Per spiegare il rilievo molto basso e sensibile messo a punto nei sottarchi, occorre tener conto di un altro repertorio, che comprende tutta la produzione di piccolo

Tav. 38. Giovanni da Udine, Donna addormentata scoperta da due amorini (cfr. fig. 26). Sottarco X.C. Pagine seguenti: Tav. 39. Giovanni da Udine, Fauno danzante (cfr. fig. 27). Sottarco IV.A. Tav. 40. Giovanni da Udine, Fauno danzante (cfr. fig. 27). Sottarco XI.A.

Tav. 41. Giovanni da Udine, Donna e uomo. Sottarco I.C. Tav. 42. Giovanni da Udine, Scene di sacrificio. Sottarco esterno I.C. Tav. 43. Giorgio di Giovanni, Scena di sacrificio. Pennacchio IV.2, a sinistra. Tav. 44. Scene di battaglia. Piedritto a destra del pilastro IV.C.

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Fig. 28. Storia di Medea, sarcofago romano (cfr. tavv. 45-48). Ancona, Museo Archeologico Nazionale. Fig. 29. Orestiade, sarcofago romano (cfr. tavv. 49-52). Roma, Palazzo Giustiniani.

A fronte:

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Tav. 45. Lorenzetto (?), Donna con due bambini sun un carro tirato da serpenti alati (cfr. fig. 28). Sottarco esterno I.B.

Fig. 30. Danzatrici Borghese, rilievo romano (cfr. tavv. 10, 53, 184-185 e fig. 142). Parigi, Museo del Louvre. Fig. 31. Replica del «letto di Policleto», rilievo romano con figure di stile ellenistico (cfr. tavv. 54-55). Già Stati Uniti, collezione privata.

formato come monete, gemme, vasi di terra sigillata, lastre Campana90, che devono aver attratto in modo particolare Giovanni da Udine. Questi pezzi erano stati raccolti soprattutto a Padova, dove deve essersi recato venendo da Venezia e ha dovuto conoscere i bronzetti di Andrea Riccio e le placchette che ne erano state tratte. Queste ultime, molto diffuse, erano in origine riproduzioni di gemme tratte da calchi in cera che costituivano le forme per la fusione. Del resto, Giovanni si è ricorda-

to di un’opera del Riccio nel suo primo dipinto conosciuto, una piccola Venere con Amore in un paesaggio fiorito, risalente al periodo in cui era presso Giorgione. Questi oggetti – questi “ninnoli” – erano molto apprezzati dagli antiquari, soprattutto da quando a Roma ne aveva costituito una ricca collezione il cardinale Pietro Barbo, salito al soglio pontificio nel 1464 col nome di Paolo II, ma che aveva cominciato ad interessarsene quando risiedeva ancora a Venezia. Si tratta di oggetti

Pagine seguenti: Tav. 46. Giovanni da Udine, Donna che corre (cfr. fig. 28). Sottarco esterno IV.A. Tav. 47. Giovanni da Udine, Donna seduta (cfr. fig. 28, rovesciata). Sottarco esterno X.C. Tav. 48. Giovanni da Udine, Donna seduta (cfr. fig. 28, rovesciata). Sottarco esterno V.C. Tav. 49. Giovanni da Udine, Donna addormentata (cfr. fig. 29). Sottarco esterno VI.A. Tav. 50. Giorgio di Giovanni (?), Uomo caduto all’indietro dietro un altro in piedi (cfr. fig. 29). Sottarco III.A.

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Tav. 51. Giorgio di Giovanni (?), Uomo inginocchiato che tiene un libro (cfr. fig. 29). Sottarco esterno VIII.A. Tav. 52. Giovanni da Udine, Donna seduta con grappolo d’uva (?) (cfr. fig. 29). Sottarco VIII.C. Tav. 53. Giovanni da Udine, Ninfa danzante (cfr. fig. 30). Sottarco VI.A. Tav. 54. Giovanni da Udine (?), Amorino e donna seduta (cfr. fig. 31). Pennacchio II.2, a sinistra. Tav. 55. Giovanni da Udine (?), Uomo addormentato e Amorino (cfr. fig. 31). Pennacchio II.4, destro.

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considerati più indicati per le gioie segrete dello studiolo rispetto a quelli di grande formato, ma a volte hanno suscitato l’interesse di artisti le cui opere non avevano nulla delle loro dimensioni ridotte, come quelle di Giulio Romano92. Sul muro interno delle Logge si notano, tra gli stucchi dei piedritti, Venere, una Vittoria, la Fortuna, Giunone, la Speranza, un’altra Vittoria, Giove, la Pace, la Libertà, Marte, la dea Roma e la dea Annona, soggetti derivati per la maggior parte da monete romane93. In un sottarco una moneta ha suggerito il tema della Concordia94. Durante il pontificato di Leone X si formarono a Roma molte collezioni di monete, ad opera, tra gli altri, del cardinale Domenico Grimani, del cardinale Andrea della Valle, dell’umanista Angelo Colocci e di Pietro Bembo. E quando Andrea Fulvio, che collaborava con Raffaello alla pianta di Roma antica, aveva pubblicato nel 1517 il primo repertorio iconografico dei Romani illustri, si era a sua volta basato su una ricca collezione di monete95.

Fig. 32 Mitra tauroctono, rilievo romano (cfr. figg. 59, 60, tavv. 56, 140 e 155). Parigi, Museo del Louvre.

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Le gemme erano ancor più ricercate. Una parte degli oltre 800 esemplari appartenuti a Pietro Barbo fu acquistata dal padre di Leone X, Lorenzo de’ Medici, il cui nonno, Cosimo, aveva a sua volta costituito una collezione. Su quelle che considerava le più importanti, Lorenzo aveva fatto apporre l’iscrizione LAU. R. MED., separando dal suo nome la lettera R, così da suggerire la lettura LAU[RENTIUS]R[EX]. Alle gemme si dava un valore enorme, non solo come testimonianze dell’antichità, ma anche per le proprietà magiche che si continuava ad attribuirgli. Inoltre, considerato il loro formato, erano facili da trasportare – e quindi da usare come investimento. Gli artisti, infine, da Ghiberti a Botticelli, da Donatello a Raffaello e Michelangelo, se ne sono spesso ispirati96. Nelle Logge spiccano, fra gli stucchi dei piedritti, due dei pezzi più celebri della collezione di Lorenzo: il cammeo, oggi perduto, di Cerere e Trittolemo, già nella collezione di Pietro Barbo, e l’intaglio in cornalina di Apollo, Marsia e Olympos, detto il “sigillo di Nerone”, probabilmente il capolavoro di Dioscoride, l’incisore

Tav. 56. Lorenzetto (?), Mitra tauroctono (cfr. fig. 32). Sottarco esterno II.B.

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Pagine seguenti: Tav. 57. Lorenzetto, Fortuna (cfr. fig. 33, rovesciata). Piedritto a destra del pilastro I.C. Tav. 58. Lorenzetto, Pace (cfr. fig. 34). Piedritto a destra del pilastro II.B. Tav. 59. Lorenzetto, Vittoria (cfr. fig. 35). Piedritto a sinistra del pilastro II.C.

Figg. 33-39. Monete romane. Fortuna (fig. 33)(cfr. tav. 57, rovesciata), Pace (fig. 34)(cfr. tavv. 58 e 82), Vittoria (fig. 35)(cfr. tav. 59), Giunone (fig.36)(cfr. tavv. 60-61), Annona (fig. 37)(cfr. tav. 61), Minerva (fig. 38)(cfr. tav. 62), Roma (fig. 39)(cfr. tav. 63). Londra, British Museum.

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Tav. 60. Lorenzetto, Giunone (cfr. fig. 36). Piedritto a destra del pilastro II.C. Tav. 61. Lorenzetto, Annona (cfr. fig. 37). Piedritto a sinistra del pilastro III.C. Tav. 62. Lorenzetto, Roma (cfr. figg. 38-39). Piedritto a sinistra del pilastro III.B. Tav. 63. Lorenzetto, Marte (cfr. fig. 39). Piedritto a sinistra del pilastro III.A.

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Fig. 40. Ermafrodito e Amorini, cammeo in pasta vitrea da un originale attribuito a Sostratos, già appartenuto a Lorenzo de’ Medici (cfr. tav. 64). Napoli, Museo Nazionale. Fig. 41. Cerere e Trittolemo, placchetta in bronzo da una pietra incisa perduta, già appartenuta a Lorenzo de’ Medici (cfr. tav. 65). Washington, National Gallery of Art, Kress Collection. Fig. 42. Apollo, Olimpo e Marsia, calco dall’intaglio in cornalina attribuito a Dioscoride, già appartenuto a Lorenzo de’ Medici (cfr. tav. 66). Roma, Deutsches Archäologisches Institut, Collezione Cades.

dell’imperatore Augusto. Lo stucco è però lavorato a rilievo, non inciso come la pietra antica; è dunque probabile che derivi da una delle tante placchette che lo riproducevano97. Nei pennacchi è riconoscibile, trasformato in Mercurio, il Diomede del Ratto del Palladio, il famoso calcedonio opera dello stesso artista98. Nei sottarchi compare un Ermafrodito con tre Amorini dal quale il Riccio aveva tratto una placchetta99, mentre molte ninfe dei sottarchi sembrano derivate da una delle più famose pietre incise dell’antichità, che aveva fatto bella mostra di sé nella collezione di Lorenzo de’ Medici, la “tazza Farnese”, il cui soggetto, secondo l’interpretazione più diffusa, era un’allegoria della fertilità del Nilo100. È probabile che nelle Logge siano state utilizzate molte altre gemme che non è più possibile individuare con certezza101. Anche i vasi aretini in terra sigillata, che erano largamente diffusi, hanno fornito modelli di rilievi molto sottili. In una lettera al duca di Mantova l’Aretino, sen-

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Fig. 43. Ratto del Palladio, calco dall’intaglio, perduto, in calcedonio, copia romana di un modello ellenistico, già appartenuto a Lorenzo de’ Medici (cfr. tav. 67). Roma, Deutsches Archäologisches Institut, collezione Cades. A fronte : Tav. 64. Giovanni da Udine, Giovane addormentato e Amorini (cfr. fig. 40). Sottarco X.D. Pagine seguenti: Tav. 65. Cerere e Trittolemo (cfr. fig. 41). Piedritto a destra del pilastro X.B. Tav. 66. Apollo e Marsia (cfr. fig. 42). Piedritto a sinistra del pilastro XI.B.

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za lasciarsi sfuggire l’occasione di giocare sul nome che egli aveva in comune con questi oggetti, cita in proposito proprio Giovanni da Udine102. Le decorazioni di questi vasi erano a stampo, ma rifinite a mano con una finezza che li avvicina agli stucchi delle Logge. Una scena di banchetto ed una coppia, in un pennacchio e in alcuni sottarchi, derivano da pezzi firmati dal più grande artista distintosi in questo campo al tempo di Augusto, Marcus Perennius103. Bisogna infine tener conto delle lastre Campana, anch’esse in terracotta, di cui un esemplare è ricordato nell’inventario della piccola collezione di antichità messa insieme dal Sodoma: «…Una tegola di terra antiqua dentrovi uno Hercole con uno toro et una donna con polli in uno bastone»104. L’eco di questa composizione è evidente in un sottarco e in un piedritto105. Nelle Logge i modelli antichi non sono scelti né interpretati nello stesso modo in tutti i tipi di stucchi. Le citazioni più numerose nei rilievi, sia di grande sia di picco-

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Fig. 44. Scena di banchetto, frammento di terra sigillata firmato da Marcus Perennius (cfr. tav. 68, rovesciata). Boston, Museum of Fine Arts.

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Fig. 45. Amanti, frammento di terra sigillata firmata da Marcus Perennius (cfr. tav. 69). Oxford, Ashmolean Museum. A fronte : Tav. 67. Giorgio di Giovanni (?), Mercurio (cfr. fig. 43). Pennacchio XII.4, a sinistra.

lo formato, si notano nei sottarchi, dove le figure, straordinariamente leggere, sono assemblate alla rinfusa, senza la minima logica, all’interno di un arco o di una campata. Le scelte non cambiano di molto nei pennacchi, dove tutto è però più preciso e rigido. Le citazioni da monete si concentrano sui piedritti, dove lo stile è freddo, tranne che alla fine della galleria dove le figure sono, a volte, di rara morbidezza. I temi dei medaglioni sui pilastri, in scala decisamente più piccola, sono spesso ripresi pari pari dai loro modelli e affidati ad artisti più modesti. Giovanni si ricorda anche delle ninfe che, nella “Volta dorata” della Domus aurea, cavalcano “all’amazzone” degli animali alati. Un posto particolare spetta alle ninfe della volta centrale, rese con una sicurezza e un senso del volume eccezionali. Alcuni stucchi non derivano da modelli antichi. È il caso di certi episodi di storia romana fra cui quello di Muzio Scevola, tratto probabilmente da placchette106.

Un medaglione circolare rappresenta, pare, Teodote che mostra a Cesare la testa di Pompeo107. Alcuni gruppi di animali potrebbero illustrare delle favole. Tre composizioni si riferiscono al mondo della magia. In una, un uomo, seduto all’interno del cerchio magico che i diavoli non possono oltrepassare, ha davanti a sé un libro e, con la bacchetta, si rivolge a un demonio che gli vola dinnanzi109. Altrove appare ancora un mago seduto nel suo cerchio, circondato da demoni. Nella terza un uomo con una corona, accanto ad un altare sul quale bruciano delle ossa e un cranio, solleva la bacchetta verso alcuni uccelli che volteggiano. Sull’altare si legge ARA ZER/OASTRY REX DA[RIUS] (“altare di Zoroastro, il re Dario”), allusione a re Dario, figlio di Vistaspa, che fu un fervente seguace di Zoroastro – e che, dunque, non ha niente a che vedere col sovrano achemenide. Il cranio sull’altare allude forse a un passo di Plinio il Vecchio nel quale si parla, a proposito

Pagine seguenti: Tav. 68. Giorgio di Giovanni (?), Donna e uomo (cfr. fig. 44, rovesciata). Pennacchio XIII.2, a sinistra. Tav. 69. Giovanni da Udine, Amanti (cfr. fig. 45). Sottarco esterno III.A. Tav. 70. Donna al bagno. Piedritto a sinistra del pilastro IV.B. Tav. 71. Ninfa su un ariete (cfr. fig. 4). Pilastro esterno VIII.B, particolare.

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A fronte : Tav. 72. Muzio Scevola. Piedritto a destra del pilastro IV.B. Pagine seguenti: Tav. 73. Due scene di magia. Pilastro opposto V, particolare. Tav. 74. Re Dario davanti all’altare di Zoroastro. Piedritto a destra del pilastro X.C.

della magia nera di Ostanes, dell’uso delle ossa nelle operazioni terapeutiche110: la scena sarebbe dunque da mettere in rapporto con l’interpretazione da parte degli auguri del volo degli uccelli. Sono frequenti anche le citazioni da opere di Michelangelo111 e Raffaello, comprese alcune figure della sua Bibbia112, e sembra perfino che si possa individuare il San Giorgio di Donatello113. In un sottarco è raffigurata Ino Leucotea che tende la propria cintura ad Ulisse per impedirgli di affogare; un tema raro, tratto probabilmente da un disegno di Raffaello o della bottega114. Altre scene riproducono progetti non ancora realizzati, forse delle cavalcate per la Sala di Costantino, certamente il profeta Giona per la cappella di Agostino Chigi in Santa Maria del Popolo, dove di lì a poco Lorenzetto avrebbe scolpito questa figura proprio a partire da un disegno di Raffaello115. Alle diverse centinaia di motivi che si possono individuare nelle grottesche, nei festoni e negli stucchi, vanno aggiunti i tanti elementi ornamentali che li animano e li incorniciano, ripresi dalle stanze più lussuose della Domus Aurea quando ancora scintillavano di tutto il loro oro, e da altri monumenti, come quelli del Foro Romano, con varianti moltiplicate a dismisura. Un repertorio supplementare fatto di ovoli, rombi, mensole, palmette, intrecci, rosette, perle e astragali, ovoli e fuseruole, fregi di onde e di meandri… senza dimenticare i finti marmi che, a detta di Vasari, Giovanni aveva già provato a riprodurre a trompe-l’œil nella Sala dei Palafrenieri. Le Logge di Raffaello sprigionano un senso di dovizia e di tripudio non privo, a volte, di una certa frenesia dionisiaca, nel quale regnano tuttavia calma e serenità. Tale sensazione doveva essere ancora più forte quando la galleria conservava intatta la sua policromia ed era animata dalle antichità di Leone X: un insieme di una ricchezza inesauribile, che ha dovuto richiedere un numero infini-

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to di disegni per raccogliere la documentazione di quanto vi si squaderna e metterne a punto i motivi – certamente più di un migliaio116. Ne rimangono solo pochi fogli, fra cui alcuni derivati dalla Domus Aurea117 e da monete118, ma a Roma, agli inizi dell’Ottocento, doveva ancora circolarne un gruppo importante, relativo agli stucchi119. Si è già visto che non vi va cercato un programma preciso, anche se vi si avverte un simbolismo diffuso. Le Logge introducono in un mondo di sogno, quello dell’antichità ritrovata in seno a una natura feconda, di cui sono elementi-chiave la Diana di Efeso e Annona. La prima, immagine per eccellenza della fertilità, oltre che sul sesto pilastro, ritorna sul decimo, in un’edicola, e compariva anche – come si è visto – tra le antichità di Leone X. La seconda, dea dei raccolti, appare in uno stucco del muro interno e, ripresa dalla stessa moneta, ritorna in un’edicola del quarto pilastro. Tutti i motivi della decorazione sono altrettanti inni a Leone X e al suo buon governo. I due pilastri dedicati agli uccelli alludono a quei piaceri della caccia ai quali, secondo Baldassar Castiglione, il cortigiano doveva dedicarsi120. I pesci appesi evocano la pesca, se non la buona tavola – del resto i pesci del Mediterraneo furono oggetto di uno scritto di Paolo Giovio, lo storico di Leone X 121 – ed è noto come la caccia fosse il passatempo preferito del papa. In una lettera in latino al responsabile dei terreni a ciò destinati, Leone X annuncia che ha deciso di lasciare le fatiche dell’amministrazione della Repubblica cristiana per concedersi «il conforto che danno la caccia e l’uccellagione»122, giustificando il tempo che era solito dedicarvi – almeno buona parte dell’autunno – coi vantaggi che ne traeva la sua salute. Per questo il papa si recava spesso nella sua villa della Magliana e al lago di Bolsena dove si poteva pescare, e dedicarsi non solo a cacciare i cervi, ma anche i leopardi, anch’essi rappresentati sui pilastri123. Tale passione era ben nota a tutti, tanto che di lui si diceva che fosse


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A fronte : Tav. 75. Teodote porta la testa di Pompeo a Cesare (?). Piedritto a sinistra del pilastro XI.C.

Pagine seguenti: Tav. 77. Giovanni da Udine, Donna distesa. Sottarco esterno V.A. Tav. 78. Giovanni da Udine, Uomo che legge. Sottarco IX.C.

Tav. 76. Giovanni da Udine, Uomo seduto. Sottarco esterno III.B.

Tav. 79. Giorgio di Giovanni, Uomo che indossa i calzari. Pennacchio I.1, a sinistra. Tav. 80. Giovanni da Udine, Ino Leucotea dona la cintura a Ulisse. Sottarco XIII.C.

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Fig. 46. L’elefante Annone, copia di un disegno perduto di Raffaello (cfr. tav. 81). Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinet. A fronte: Tav. 81. L’elefante Annone (cfr. fig. 46) Sottarco esterno IV.B.

più devoto a Diana che a Minerva. Infatti, nell’edicola del primo pilastro compare proprio Diana cacciatrice. In Vaticano alcuni animali, fra cui un orso proveniente dall’Ungheria e un leone con la leonessa e i loro leoncini, erano custoditi in gabbie lungo il passetto: nel terzo pilastro delle Logge un orso balla tra due Amorini124 mentre un po’ oltre, sul bordo di un medaglione in stucco e anche in un altro, si ritrova la famiglia di leoni al completo125. Ma l’animale preferito del papa era l’elefante inviatogli dal re Manuele del Portogallo in occasione di un’ambasceria guidata dall’esploratore Tristan da Cunha126. Le cronache offrono ampie descrizioni del sontuoso corteo che partì da Porta del Popolo il 12 marzo 1514. Dietro i cavalleggeri pontifici, i palafrenieri dei cardinali, i camerieri, musici, maggiordomi e gentiluomini degli ambasciatori – a quanto pare una sessantina di persone – veniva un nero in costume orientale su di un cavallo bianco con una pantera dritta sulla groppa. Dietro di lui avanzava il grande elefante che, con il cornac di fianco e un moro accoccolato sulla testa, portava doni preziosi in un grande cofano ricoperto di broccato e sormontato da una torre d’argento. Davanti al papa che assisteva allo spettacolo da Castel Sant’Angelo, l’animale s’inginocchiò, poi, dopo aver bevuto, in-

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naffiò la folla con la proboscide127. L’elefante fece sensazione a Roma, dove se ne era perso il ricordo dall’antichità. Fu chiamato col nome cartaginese di Annone ed ebbe diritto ad un posto d’onore nel giardino zoologico che il papa si era fatto fare al Belvedere. Il buffone di corte, Baraballo, si fece issare sulla groppa per andare a farsi incoronare in Campidoglio come Petrarca, ma all’altezza di Castel Sant’Angelo Annone, spaventato dalle acclamazioni, dal suono dei pifferi e dei tamburi, non volle saperne di proseguire e disarcionò il povero Baraballo, mettendo così penosamente fine ai festeggiamenti. Giovanni Barile l’ha ritratto con Baraballo in una delle porte della Stanza della Segnatura, e Giovanni da Udine ne ha fatto una fontana in stile rustico a Villa Madama. Ma la vita dell’elefante fu breve: tra la disperazione del papa e di tutta la città, morì di angina nel 1516, fu sepolto nei Giardini Vaticani e Raffaello ne ideò la tomba. Da questo progetto, di cui rimangono alcune copie, deriva l’immagine che si vede in uno dei sottarchi128. Gli strumenti musicali che ornano un pilastro alludono a un altro passatempo del papa. Nella lettera in cui annuncia a Isabella d’Este il completamento delle Logge, Baldassar Castiglione esordisce comunicandole che «… nostro S.re sta sulla Musica più che mai…». Sempre in onore di Leone x sono raffigurate le pietre incise di Cerere e Trittolemo e di Apollo, Marsia e Olympos, pezzi forti della collezione di famiglia. Con l’educazione ricevuta nell’ambiente intellettuale di Firenze, il papa era anche, naturalmente, un grande amatore di antichità. Da cardinale aveva persino assistito ad alcuni scavi che avevano riportato alla luce modeste terrecotte sigillate129. Le citazioni dall’antico che si trovano a profusione nelle Logge non potevano non piacere agli umanisti della sua corte. Qualche anno dopo Baldassar Castiglione scriverà: «… el nostro cortegiano conviensi ancor della pittura avere notizia, essendo onesta ed utile ed apprezzata in quei tempi che gli omini erano di molto maggior valore, che ora non sono; e quando mai altra utilità o piacer non se ne traesse, oltre che giovi a saper giudicare la eccellenzia delle statue antiche e moderne, di vasi, d’edifici, di medaglie, di camei, d’entagli e tai cose…»130.

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A fronte: Tav. 82. Giovanni da Udine, Amorino con l’anello di diamante mediceo, rosone e Pace (cfr. fig. 35). Sottarco X.A.

Pagine seguenti: Tav. 83. Vittoria o angelo col giogo mediceo e Storie di Mosè. Volta IX. Tav. 84. Vittoria o angelo con l’anello di diamante mediceo e le tre piume rappresentanti le Virtù teologali e Storie di Salomone. Volta XII.

Fra le figure tratte da monete che si trovano nei piedritti, vicino a divinità antiche, le allegorie della Speranza, della Libertà e della Pace, quest’ultima ripetuta anche in un sottarco, si riferiscono ancora a Leone x per sottolineare un aspetto essenziale della sua politica, contrapposta a quella Giulio II. Ispirandosi alla stessa moneta, Pietro Serbaldi della Pescia ha inciso per il papa un famoso intaglio in porfido131. Emblemi e motti di tre generazioni di Medici, ripresi da Leone X, sono onnipresenti nelle Logge132. Il giogo, che spesso accompagna il motto di origine biblica SUAVE EST, era stato scelto da Cosimo per ricordare la dolcezza del governo dei Medici; suo figlio Piero aveva scelto un falcone con un diamante tra gli artigli per indicare il coraggio indomito contro il fuoco e il martello, al quale in seguito si aggiunse un’allusione alla congiura di Luca Pitti perché non aveva toccato Lorenzo. Quest’ultimo aveva simboleggiato le virtù teologali con tre piume, color verde (la Speranza), bianco (la Fede) e rosso (la Carità) e col motto SEMPER per affermare che bisogna fare tutto per amore di Dio. Il tema degli emblemi ricompariva sul pavimento, del quale si ha un disegno del XVIII secolo, in cui si vede un tappeto con un gioco d’intrecci a forma di croce e degli arabeschi al centro. Il bordo presenta, in alto e in basso, un largo fregio nel quale si ritrova un anello in cui sono incastonati tre diamanti, e il giogo con l’iscrizione SUAVE EST. Lateralmente correva un fregio più sottile formato da tronchetti di rovere a ricordo di Giulio II che aveva avviato la costruzione della galleria133. In cima ad un semipilastro, un putto regge l’anello monumentale con le tre piume134; più in basso si vede la tiara e, ancora più giù, i simboli della sede vacante, probabilmente per ricordare, dopo la morte di Giulio II, l’ascesa di Leone x. L’anello con un diamante si ripete a formare dei fregi che conferiscono al motivo una nobiltà di sapore antico135. Si riferiscono a Leone X i Trionfi della Fede e del Giogo nei sottarchi, come pure la data MDXIII, altra allusione alla sua ascesa136 e, nei medaglioni sui pilastri, il falcone sopra l’anello col diamante, le palle dei Medici sullo scudo del San Giorgio di Donatello e, più distante, ancora un anello enorme con un piccolo personaggio137. Al centro di ogni volta, ad eccezione della settima, una Vittoria in stucco regge alternativamente il giogo e le tre piume passate attraverso un anello col diamante. E forse la Fama con due trombe, seduta su una sfera alla base del pi-

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lastro138, si appresta a cantare a sua volta la gloria del papa regnante. All’interno di una mandorla è chiaramente riconoscibile il profilo all’antica di Leone X 139 e gli omaggi alla sua persona si moltiplicano anche attraverso il suo stemma parlante, il leone (Leo). In cima al primo semipilastro un leone è accovacciato su una ghirlanda di fiori, come si potrebbe vedere in un circo sopra uno sgabello; ricompare su uno scudo da amazzone140, poi, più maestoso, reggendo il globo e col dorso coperto da un drappo, di fianco ad un pilastro141. Lo si ritrova sopra una lunetta, dritto con una fiaccola, oppure nell’atto di attaccare un cinghiale, una sirena e un’aquila142. Nella volta, una testa di leone anima il fregio attorno alla Vittoria143. L’animale ricompare, alato, nella lunetta successiva e – come si vedrà – anche nella Bibbia i leoni sono bene in vista. Quanto agli orsi alati alzati sui piedritti, essi sono forse un’allusione alla madre di Leone X, Clarice Orsini, di cui l’orso era lo stemma parlante144. È forse Leone X che, in un altro medaglione, benedice, all’interno delle stesse Logge, un prelato – che per via della barba, allora poco di moda nel suo ambiente, va forse identificato col cardinale Pucci145. Quanto all’altare di Zoroastro, potrebbe alludere all’umanista Tommaso Masini che era così soprannominato. Figlio naturale di Bernardo Rucellai, egli era ben noto per le sue stravaganze, appassionato di magia e di alchimia e grande amico del celebre ambasciatore del re del Portogallo, Miguel da Silva146. Nella mandorla che corrisponde a quella dove il papa appare di profilo, su un’altra faccia del pilastro, ritratto dallo stesso angolo, si vede un uomo barbuto, con la testa coperta da un fazzoletto e da un grande cappello: è Giovanni da Udine, come Vasari lo ha ritratto nella Vita a lui dedicata. Del resto, nella campata precedente compaiono molti membri della bottega. Nello scudo da amazzone, un giovane pittore disegna seduto per terra; nel cerchio, un garzone macina i colori; nel rettangolo, da destra a sinistra, si attivano un aiuto seduto ad un tavolo pieghevole, davanti ad un foglio di carta, intento a disegnare o a bucare un cartone, un altro, barbuto e molto piccolo, che porta le ciotole di colore su un vassoio, un terzo che applica un cartone sul muro mentre, dietro di lui, un aiuto stende l’intonaco sulla parete (lo si ritrova un po’ più in là in una mandorla intento alla stessa operazione); infine un quinto, che si fa notare per l’ele-

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Tav. 85. Giorgio di Giovanni (?), Vittoria seduta su un basamento con la data 1513. Pennacchio XII.1, a sinistra.

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Tav. 86. Giovanni da Udine, Triomfo del giogo mediceo. Sottarco X.A, lato esterno.

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Fig. 47. Pavimentazione di una campata, disegno di Francisco La Vega. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A fronte: Tav. 87. Grottesca con leone che tiene il globo. Pilastro esterno IV.B, particolare. Pagine seguenti: Tav. 88. Luca Penni (?), Leone. Lesena I, rimasta intatta, particolare.

ganza del suo abbigliamento, sta dipingendo sul muro. Non è possibile dar loro dei nomi, ma si può scommettere che la Fortuna, in piedi sulla sfera nella mandorla dello stesso pilastro, celebrasse anche loro al suono della tromba. Per la decorazione del «corritore novo» del papa, dove amava passeggiare coi dignitari che riceveva, non c’era bisogno di un programma149. Grottesche, festoni e stucchi si offrivano al visitatore nel suo girovagare, facendogli scoprire, dietro l’ordine rigoroso, i mille capricci che nascondono, con bizzarre invenzioni che erompono da

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Tav. 89. Ritratto di Leone X. Pilastro esterno III.B, particolare. Tav. 90. Scena di benedizione nelle Logge. Pilastro esterno V.A, particolare. Tav. 91. Guerriero con scudo con le palle medicee e scena di caccia. Pilastro opposto III, particolare. Tav. 92. Ragazzo al lavoro e la Fama. Pilastro esterno II.A, particolare. Tav. 93. Ragazzo che mescola i colori. Pilastro esterno II.A, particolare.

ogni parte. Come nell’appartamento del cardinal Bibbiena, gli ornamenti sono tanti «pezzi leggeri e improvvisati… che sono detti grottesche»: degli improvvisi appunto150. Anche se Baldassar Castiglione definisce le Logge “all’antica”, va tuttavia detto che la loro decorazione non è una semplice derivazione dai palazzi romani: gli elementi che la compongono riflettono una nuova visione, le Logge di Raffaello sono moderne. Non solo: le storie che si svolgono sulle volte, pur presentandosi come un ciclo mitologico, raccontano la Bibbia, un racconto che va ora spiegato.

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Tav. 94. Ragazzo che disegna. Pilastro esterno II.A, particolare.

Tav. 95. Ragazzo al lavoro. Pilastro esterno II.A, particolare.

Pagine seguenti: Tav. 96. Ragazzo che applica lo stucco al muro. Pilastro esterno II.B, particolare. Tav. 97 Ritratto di Giovanni da Udine. Pilastro opposto III, particolare.

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A fronte: Tav. 98. Giulio Romano, Mosè salvato dalle acque (VIII.1), particolare.

Pagine seguenti: Tav. 99. Giulio Romano, Separazione della luce e delle tenebre (I.1)(cfr. fig. 88). Tav. 100. Giovanfrancesco Penni, Separazione delle acque e della terra e Creazione delle piante (I.2)(cfr. fig. 89). Tav. 101. Guglielmo di Marcillat, Creazione del sole e della luna (I.3). Tav. 102. Pellegrino da Modena e Giovanni da Udine, Creazione degli animali (I.4).

Il racconto della Bibbia che Raffaello ha offerto nelle Logge non assomiglia a nessun altro. Nelle prime dodici volte sono evocate le grandi figure dell’Antico Testamento – quelle a tutti note – alle quali si aggiunge, nella tredicesima, Cristo. Ciascuna vita è illustrata da quattro riquadri, a eccezione di Mosè, la cui storia occupa due volte, e conta dunque otto riquadri. Ne consegue che i protagonisti sono numerosi, in un programma che implica scelte, ma anche esclusioni che occorre spiegare per cogliere lo spirito estremamente coerente che le pervade. La prima volta illustra la Creazione del mondo, iniziando dalla Separazione della luce dalle tenebre (I.1: Gen., 1, 15), opera del primo giorno, in cui Dio dice «Sia la luce». Tralasciando la Separazione del cielo dalle acque (Gen., 1, 6-8), opera del secondo giorno, il racconto prosegue con l’opera del terzo, la Separazione della terra dalle acque e la Creazione delle piante, che ne è conseguenza (I.2: Gen., 1, 9-13). Seguono, il quarto giorno, la Creazione del sole e della luna (I.3: Gen., 1, 14-19), poi la Creazione degli animali (I.4: Gen., 1, 20-23), più aneddotica, il quinto, dove l’occhio può indulgere a osservare le diverse specie che appaiono a popolare la terra, tra cui, bene in vista, sempre per alludere a Leone X, il leone. Dedicata a Adamo ed Eva, la seconda volta non mostra la

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Creazione di Adamo, che Dio modella con del limo (Gen., 1, 26-30) il sesto giorno infondendogli la vita (Gen., 2, 7). La storia prende avvio con la Creazione di Eva (II.1: Gen., 2, 18-24) che ha luogo dopo la Benedizione del settimo giorno (Gen., 2, 1-4)1. Ai piedi di Adamo, su di una roccia, è una lepre, o più probabilmente un coniglio, che allude alla fecondità2. Forse per esigenze di concisione, è ignorato il momento in cui Dio pone la coppia nel Paradiso terrestre (Gen., 2, 8-15) e quello in cui la unisce, istituendo il matrimonio (Gen., 2, 24). Il racconto si snoda col Peccato originale (II.2: Gen., 3, 1-8)3 e la Cacciata dal Paradiso terrestre (II.3: Gen., 3, 22-24), ad opera di un serafino e non, come nel testo, di Dio in persona, e si chiude, in un’atmosfera campestre, con Adamo ed Eva al lavoro (II.4: Gen., 3, 16-22): Adamo semina, mentre di solito zappa, dedicandosi ad un lavoro che evoca soprattutto la speranza, ed Eva, sorridente, fila accanto ai piccoli Abele e Caino, che teneramente le si aggrappano sotto la protezione silenziosa del cane che sonnecchia ai loro piedi. Senza soffermarsi sulla progenie di Adamo e dei suoi figli, il racconto riprende con la storia di Noè, loro lontano discendente, di cui è mostrata innanzitutto la Costruzione dell’Arca (III.1: Gen., 6, 14-22), realizzata sotto la sua direzione dai figli, fattisi per l’occasione carpentieri. Dio

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Tav. 103. Tommaso Vincidor, Creazione di Eva (II.1) (cfr. figg. 27, 73-74 e 85).

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Tav. 104. Pellegrino da Modena e Tommaso Vincidor, Peccato originale (II.2)(cfr. figg. 75-76).

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Tav. 105. Tommaso Vincidor, Cacciata dal Paradiso (II.3) (cfr. fig. 87).

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Tav. 106. Tommaso Vincidor (?), Adamo ed Eva al lavoro (II.4)(cfr. figg. 61 e 87).

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A fronte: Tav. 107. Giulio Romano e Giovanfrancesco Penni, Costruzione dell’Arca (III.1)(cfr. fig. 27).

aveva informato Noè dell’intenzione di cancellare dal mondo un’umanità corrotta per mezzo del Diluvio (III.2: Gen., 7, 10-24), illustrato nella seconda scena: gli elementi si scatenano e gli uomini destinati a perire si dibattono invano, mentre all’orizzonte galleggia sulle acque l’Arca, nella quale si sono rifugiati Noè e la famiglia con una coppia di ogni tipo di animale per poterne perpetuare la specie. Quando la tempesta si placa, Noè, la moglie e i tre figli assistono all’Uscita dall’Arca (III.3: Gen., 8, 15): gli animali escono in fila, col leone ancora in primo piano. La storia si conclude col Sacrificio di Noè (III.4: Gen., 9, 117), che questi offre a Dio come ringraziamento, insieme ai tre figli e ad altri uomini dei quali nella Bibbia non si fa menzione. Della storia è dunque raccontato solo un episodio, senza l’Ebbrezza o la Derisione da parte del figlio Cam, né la maledizione che egli lancia quando apprende dell’oltraggio subito (Gen., 8, 21). La quarta volta inizia con l’Incontro di Abramo e Melchisedech (IV.1: Gen., 14, 18-24): il patriarca, che aveva liberato il nipote Lot da coloro che lo avevano portato via per impadronirsi del suo gregge, incontra lungo la strada Melchisedech, re e gran sacerdote di Salem, al quale offre la decima del suo bottino, mentre l’altro gli offre pane e vino. A 85 anni Abramo non aveva ancora avuto figli e se n’era confidato con Dio. Si ha ora l’Apparizione di Dio ad Abramo (IV.2: Gen., 15, 2-6), al quale il Signore comunica che avrà una discendenza numerosa quanto le stelle del firmamento. Abramo riceve poi la Visita dei tre angeli (IV.3: Gen., 18, 1-16), che vengono ad annunciargli la nascita di un figlio. Secondo le leggi dell’ospitalità egli si prosterna ai loro piedi, invitandoli poi a tavola. La scena

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Pagine seguenti: Tav. 108. Bartolomeo di David, Diluvio universale (III.2). Tav. 109. Giovanni da Udine, Uscita dall’Arca (III.3).

si svolge, come la precedente, davanti all’abitazione di Abramo – in realtà una tenda, e occorrerà riparlarne –, ma questa volta Sara, sua moglie, si è infilata in uno spiraglio della porta e assiste non vista al colloquio. L’ultimo riquadro è tratto dalla vita di Lot che, mentre il patriarca rimane nel paese di Canaan, si trasferisce con la famiglia a Sodoma (Gen., 13). Ciononostante Dio intende distruggere la città nella quale si praticavano vizi contro natura e, per proteggere Lot come aveva fatto con Noè, invia degli angeli ad avvertirlo di abbandonarla, insieme alla moglie e alle due figlie, senza voltarsi. Il riquadro rappresenta la Fuga di Lot e delle figlie (IV.4.: Gen., 19, 1227) nel momento in cui la moglie disobbedisce all’ordine ricevuto e viene trasformata in una statua di sale. Le figlie di Lot si rifugeranno con lui in una grotta, lo faranno ubriacare e si uniranno a lui per scongiurare il pericolo di restare senza discendenza (Gen., 19, 30-38), ma di ciò nelle Logge nulla si percepisce. Malgrado la promessa divina, Abramo ha solo due figli, Ismaele dalla schiava Agar, che Sara gli aveva presentato come seconda moglie quando temeva di essere sterile (Gen., 16), e Isacco, da Sara. La storia del primo è tralasciata: temendo che Ismaele possa ereditare, Sara pretende che sia bandito e sua madre venga ripudiata. Nel deserto, dove sono cacciati, solo un angelo, indicandole una sorgente, la salverà insieme al figlio (Gen., 21, 8-21). La storia di Isacco, il secondo grande patriarca, è l’oggetto della quinta volta, con l’esclusione di due episodi fondamentali: il dramma del suo sacrificio, imposto da Dio e per poco evitato, che costituisce il momento cruciale (Gen., 22), e il racconto delle nozze con Rebecca, che il

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Tav. 110. Giulio Romano e Bartolomeo di David, Sacrificio di Noè (III.4)(cfr. fig. 90).

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Tav. 111. Giulio Romano, Incontro di Abramo e di Melchisedech (IV.1) (cfr. fig. 76).

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Tav. 112. Apparizione di Dio ad Abramo (IV.2).

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Tav. 113. Giovanfrancesco Penni, Visita dei tre angeli (IV.3) (cfr. figg. 65-66 e 75, e tav. 156).

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Fig. 48. Giacobbe chiede Rachele in sposa (VI.3), incisione di Nicolas Chapron dall’affresco delle Logge (cfr. tav. 121). Roma, Istituto Nazionale per la Grafica.

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Tav. 114. Luca Penni, Fuga di Lot e delle sue figlie (IV.4)(cfr. fig. 91).

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soprastante Eliezer sceglie per lui dopo averla incontrata al pozzo – la scena avrebbe costituito un doppione rispetto a quella del matrimonio di Giacobbe, avvenuto dopo una vicenda simile e rappresentato nella volta successiva. Il racconto prende avvio con l’episodio poco frequente della Promessa di Dio a Isacco (V.1: Gen. 25, 21): Dio, al quale s’era rivolto dubitando che Rebecca potesse dargli dei figli, gli annuncia che avrà una discendenza. La scena seguente, altrettanto rara, mostra Isacco e Rebecca spiati da Abimelech (V.2: Gen., 26, 8): a seguito di una carestia Isacco si rifugia presso Abimelech, re dei Filistei, con Rebecca, che fa passare per sua sorella temendo di venire ucciso a causa della sua bellezza (Gen., 26, 1-11) – incidente già occorso ad Abramo e Sara (Gen., 20, 2-4). Mentre il re si appresta a far entrare Rebecca nel proprio harem, sorprende gli sposi teneramente abbracciati e rinuncia alle sue mire. La vita di Isacco è meno ricca di peripezie rispetto a quella del padre e dei figli, perciò i due ultimi riquadri che lo riguardano si riferiscono all’inizio della storia dei gemelli Esaù e Giacobbe, nati da Rebecca. Giacobbe aveva acquistato il diritto di primogenitura dal fratello, con la complicità della madre. Siccome Esaù era “villoso come un mantello di peli”, ed era solito rientrare con della selvaggina, Giacobbe si fa passare per lui davanti al vecchio padre cieco indossando una pelle di capra ed offrendogli una pietanza preparata da Rebecca con del capretto; ecco perciò Isacco benedice Giacobbe (V.3: Gen., 27, 18-29). Ma quando il figlio maggiore si presenta a sua volta, Isacco rifiuta la benedizione a Esaù (V. 4: Gen., 26, 30-40). Per sfuggire alla vendetta del fratello, Giacobbe fugge in Egitto e si addormenta nel deserto, col capo appoggiato su una pietra che poi cosparge di olio: è il Sogno di Giacobbe (VI.1: Gen., 28, 10-15), che vede una scala poggiata a terra la cui cima raggiunge il cielo; su di essa salgono e scendono angeli, mentre Dio gli annuncia una numerosa progenie. Giunto presso lo zio Labano, ne vede al pozzo la figlia minore Rachele che vi conduce il gregge e se ne innamora: è l’Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2: Gen., 29, 2-12), in cui Raffaello anticipa il seguito del racconto, presentando Rachele con Lia, la sorella maggiore4, e inserendo capre col pelo bianco e nero tra il bestiame che si abbevera5. Probabilmente per errore dell’allievo che ha dipinto l’affresco, il protagonista ha la barba, che manca nel disegno preparatorio e nell’affresco successivo. In questo, Giacobbe chiede in sposa Rachele

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(VI.3: Gen., 29, 18-19) rivolgendosi a Labano che, alla presenza della moglie, acconsente a condizione che prima Giacobbe lo serva per sette anni. Il contratto non lascia dubbi: Labano mostra sette dita – il particolare non è più visibile nell’affresco, molto rovinato, ma è chiaro nelle stampe del XVII secolo che lo riproducono – e Giacobbe gli risponde con le braccia distese a suggellare l’accordo6. Passato il tempo, Labano, per rispettare la tradizione e maritare per prima la figlia maggiore, sostituisce Lia a Rachele. Al mattino, quando Giacobbe se ne accorge, se ne lamenta con Labano, che s’impegna ad accordargli Rachele come seconda sposa alla fine della settimana nuziale, purché lo serva per altri sette anni. Quando, trascorso anche questo periodo, Giacobbe si appresta a tornare nel proprio paese, chiede a Labano il salario e gli propone di portar via la parte di bestiame formata dalle pecore nere e dai capretti maculati (Gen., 30, 31-33). Tuttavia, per arricchirsi, ricorre ad un’astuzia cui Raffaello accenna solo nella scena del pozzo. Affinché le pecore partoriscano agnelli col vello macchiato, mette rami scortecciati negli abbeveratoi e indirizza i montoni verso tutto ciò che è nero (Gen., 30, 37-42). Il risultato degli anni di lavoro compare nella scena finale, Giacobbe sulla via di Canaan (VI.4: Gen., 31, 17-21): preceduto dal gregge che sfila a perdita d’occhio – senza che questa volta se ne distingua il pelame scuro – il patriarca parte sulla sua mula, accompagnato dalle due mogli e dai figli avuti da loro, e seguito dalle serve coi figli che queste gli avevano dato quando le mogli temevano di non poterne avere. Il viaggio è in realtà una

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Tav. 115. Giovanfrancesco Penni, Promessa di Dio ad Isacco (V.1) (cfr. tav. 157).

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Tav. 116. Giulio Romano, Isacco e Rebecca spiati da Abimelech (V.2).

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Tav. 117. Pedro Machuca, Isacco benedice Giacobbe (V.3) (cfr. figg. 62 e 92).

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Tav. 118. Guglielmo di Marcillat, Isacco rifiuta la benedizione a EsaĂš (V.4)(cfr. fig. 92).

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Tav. 119. Alonso Berruguete, Sogno di Giacobbe (VI.1)(cfr. fig. 93).

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Tav. 120. Tommaso Vincidor, Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2)(cfr. figg. 72, 82-84 e tav. 158).

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Tav. 121. Raffaellino del Colle, Giacobbe chiede in sposa Rachele (VI.3)(cfr. figg. 48, 63, 75 e 86).

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Tav. 122. Tommaso Vincidor, Giacobbe sulla via di Canaan (VI.4)(cfr. fig. 25, rovesciata, e 27).

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fuga per sottrarsi alla gelosia di Labano e dei suoi figli, ma nulla lo lascia supporre, né anticipa il seguito della storia: Giacobbe ha portato via i terafîm familiari sottratti da Rachele. Quando Labano lo raggiunge e fruga la tenda, non trova nulla; Rachele li ha nascosti sotto il basto di un cammello e vi si è seduta sopra, affermando che non può alzarsi perché ha «ciò che capita regolarmente alle donne»(Gen., 31, 35). La vita del casto Giuseppe non difettava certo di episodi coi quali illustrare la settima volta, al centro della galleria. In primo luogo Giuseppe racconta i suoi sogni ai fratelli (VII.1: Gen., 37, 5-10): ancora giovinetto ha visto in sogno il covone che stava legando nei campi rimanere in piedi mentre quelli dei suoi fratelli s’inchinavano; poi prosternarsi davanti a lui il sole, la luna e dodici stelle. I fratelli, rendendosi conto di come stesse per soppiantarli, decidono di ucciderlo. Lo gettano in una cisterna asciutta, poi si ravvedono e lo vendono come schiavo a una carovana di mercanti: è la scena di Giuseppe venduto dai fratelli (VII.2: Gen., 37, 28). Il seguito della storia non è raccontato: i fratelli prenderanno la sua tunica, la imbratteranno di sangue e la mostreranno al vecchio Giacobbe, che si strapperà i capelli e si straccerà le vesti per il dolore (Gen., 37, 31-36). Il racconto riprende con Giuseppe e la moglie di Putifarre (VII.3: Gen., 39, 7-12): venduto a questo funzionario del Faraone, Giuseppe è concupito dalla moglie, ma le sfugge e scappa, mentre lei gli strappa il mantello, accusandolo poi di aver tentato di sedurla (Gen., 39, 13-19). Gettato in prigione, Giuseppe vi raggiunge il panettiere e il coppiere del re, annunciando a ciascuno di loro il destino che lo attende (Gen., 40, 1-23); dopo che le sue predizioni si sono avverate, è raccomandato al Faraone. Nell’ultima scena, Giuseppe spiega i sogni del Faraone (VII.4: Gen., 41, 15-34): la visione che questo ha avuto delle sette vacche grasse e delle sette vacche magre e quella delle sette spighe piene e delle sette spighe vuote significa che a sette anni di abbondanza ne

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seguiranno sette di carestia7. Offrendogli la possibilità di accumulare le riserve necessarie, Giuseppe ne ottiene la fiducia e finisce per diventare primo ministro. Quando, a causa di una carestia, i suoi fratelli scendono in Egitto, si fa riconoscere da loro, non senza averli messi alla prova, e tutti poi vi si stabiliscono dopo essere andati a prendere il vecchio padre (Gen., 46, 6-7). Alla morte di quest’ultimo, per mantenere la promessa che gli aveva fatto (Gen., 50), Giuseppe va a seppellirlo nella terra di Canaan. Una sola volta non poteva bastare per raccontare le gesta di Mosè, che inaugurano il secondo periodo del popolo d’Israele. Questo si apre con l’ordine, impartito dal Faraone preoccupato per l’importanza che il popolo ebreo stava assumendo in Egitto, di annegarne tutti i figli maschi (Es., 2, 3-5). Accade che sua figlia trovi, sulle rive del Nilo, in una cesta di papiro, colui che la madre non aveva avuto il coraggio di sacrificare, e lo adotta: il primo affresco ci mostra Mosè salvato dalle acque (VIII.1: Es., 2, 5-10). Tralasciando i fatti della sua infanzia, l’assassinio che commette di un Egiziano, la fuga nel paese di Madian e il matrimonio con Sefora – nelle Logge Mosè appare sempre solo, come guida del popolo – la storia riprende con il Roveto ardente (VIII.2: Es., 3, 1-14): mentre fa la guardia al gregge del suocero, Mosè vede innanzi a sé un cespuglio bruciare senza consumarsi; l’Eterno, che gli appare sotto questa forma, gli ordina di avvicinarsi dopo essersi tolto i sandali – un particolare che non è illustrato in modo esplicito, ma Mosè è già a piedi nudi – e gli ingiunge di tornare in Egitto per radunare gli Ebrei e riportarli nella terra di Canaan. Sono omessi il viaggio di Mosè e del fratello Aronne che vanno dal Faraone chiedendogli di liberare il popolo d’Israele, il miracolo delle verghe trasformate in serpenti (Es., 7, 9-12) e le dieci piaghe d’Egitto, che Dio manda per spezzare la resistenza del Faraone (Es., 7, 14-12, 34). Il racconto riprende con la fuga degli Ebrei, presto raggiunti dall’esercito del Faraone, e si conclude col Passaggio del Mar Rosso (VIII.3: Es., 14, 21-26):

Tav. 123. Luca Penni, Giuseppe racconta i suoi sogni ai fratelli (VII.1)(cfr. figg. 75 e 94).

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Tav. 124. Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio, Giuseppe venduto dai fratelli (VII.2).

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Tav. 125. Giulio Romano, Giuseppe e la moglie di Putifarre (VII.3)(cfr. fig. 68).

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Tav. 126. Luca Penni, Giuseppe spiega i sogni del Faraone (VII.4) (cfr. fig. 75).

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Tav. 127. Giulio Romano, Mosè salvato dalle acque (VIII.1)(cfr. fig. 95).

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Tav. 128. Guglielmo di Marcillat, Roveto ardente (VIII.2)(cfr. tav. 159).

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Tav. 129. Bartolomeo di David e Luca Penni, Passaggio del Mar Rosso (VIII.3)(cfr. tav. 160).

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Tav. 130. Pellegrino da Modena e Tommaso Vincidor, Mosè percuote la roccia (VIII.4)(cfr. fig. 69 e tav. 161).

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il mare si apre per lasciar passare gli Ebrei, guidati da una colonna di nubi e da una di fuoco, e si richiude sugli Egiziani inghiottendo il Faraone con l’esercito. Mosè a questo punto inizia la sua lunga marcia nel deserto, che porta a buon fine grazie ai numerosi miracoli operati da Dio per aiutarlo. Qui è rappresentato quello in cui fa sgorgare l’acqua dopo che gli Ebrei si sono lamentati per la sete: Mosè percuote la roccia (VIII.4: Es., 17, 1-7). Nella nona volta, giunto in cima al Monte Sinai, dove Dio l’aveva fatto salire, Mosè riceve le Tavole della Legge (IX.1: Es., 19, 16-25). Ma le spezza per la collera quando, scendendo col giovane Giosuè, assiste all’Adorazione del vello d’oro (IX.2: Es., 32, 15-20): durante la sua assenza gli Ebrei hanno pregato Aronne di fondere, usando gli orecchini delle donne, questo idolo che avevano visto venerare in Egitto. Per entrare in rapporto con Dio, che gli appare per placarlo e dargli il segnale della partenza, Mosè pianta fuori dal campo la Tenda del Convegno, mentre discende la Colonna di nube (IX.3: Es., 33, 7-17) e il popolo si prosterna, con ciascuno all’ingresso della propria tenda. Ricevuto infine l’ordine di intagliare due nuove tavole di pietra, Mosè mostra le Tavole della Legge (IX.4: Es., 34, 29-34) ai figli d’Israele, col volto raggiante di luce8. A loro prescriverà di costruire un santuario per custodirle, quella che sarà l’Arca dell’Alleanza. Delle tappe della conquista della Terra promessa, ad opera di Giosuè, sono illustrati l’Attraversamento del Giordano (X.1: Gios., 3, 14-17), che l’eroe passa a piedi asciutti con l’Arca dell’Alleanza, e la Caduta di Gerico (X.2: Gios., 6, 1-25), di cui col suono delle trombe fa crollare le mura. Poi Giosuè ferma il sole e la luna (X.3: Gios., 10, 12-14), ottenendo da Dio questo favore per poter annientare gli Amorrei ritardando il tramonto. Alla Conquista di Ai (Gios. 8, 1-29), uno dei suoi grandi successi militari, si è però preferito un evento meno celebre, la Divisione della Terra Promessa (X:4: Gios., 13-19), che segna la conclusione delle sue campagne: prima di morire, Giosuè, alla presenza del gran sacerdote Eleazaro, fa tirare a sorte da ciascuna delle dodici tribù un lotto di terra del paese di Canaan. Senza evocare l’epoca dei Giudici, la storia riprende con quella dei Re, quando Israele raggiunge l’apogeo. Ignorando Saul, il primo di loro, essa inizia con l’Unzione di Davide (XI.1: I. Sam., 16, 1-13), suo successore, da parte di Samuele: la cerimonia, accompagnata dal sacrificio di una giovenca – divenuta nell’affresco un ariete – si svolge a Betlemme, quando Davide è solo un giovane pastore, alla presenza di Jesse, suo padre, e dei suoi sette fratelli.

Segue il duello fra Davide e Golia (XI.2: I. Sam., 17, 3152), vittoria clamorosa sul gigante filisteo, al quale taglia la testa con la sua stessa spada dopo averlo colpito con la fionda. Nessun accenno alla gelosia che il trionfo suscita in Saul, né ai complotti da quest’ultimo orditi per uccidere il giovane. La scena seguente mostra Davide e Betsabea (XI.3: II. Sam., 11, 2-3): divenuto re, dalla terrazza del suo palazzo Davide vede Betsabea al bagno e se ne innamora. Nell’affresco i protagonisti sono separati dall’esercito che sfila: accenno discreto al crimine di Davide che, per sbarazzarsi di Uria, il marito di Betsabea, lo manda proditoriamente a morire in battaglia (II. Sam., 11, 6-17). Il racconto si conclude con una scena piuttosto rara, il Trionfo di Davide (XI.4: II. Sam., 13, 30-31) che, dopo aver sconfitto gli Ammoniti, torna a Gerusalemme al termine delle numerose campagne dalle quali è uscito vincitore9. In piedi sul carro, tenendo la cetra al cui suono recitava i salmi, più che un guerriero Davide appare un musico. Dei drammi che insanguinano la sua discendenza tutto è omesso: la morte del figlio Amnon, che aveva oltraggiato la sorella Tamar, e quella del figlio Assalonne, che gli si era rivoltato contro, i maneggi per farsi nominare re di Adonia, un altro figlio, che lo porteranno ugualmente a morte. La dodicesima volta riguarda Salomone, il re pacifico dopo il re guerriero, la cui potenza e magnificenza erano pari solo alla sua saggezza. Non era che il decimo figlio di Davide, che tuttavia lo scelse come successore cedendo alle insistenze della madre Betsabea. Il ciclo si apre con l’Ascesa al trono di Salomone (XII.1: I. Re, 1, 39), consacrato re col corno dell’unzione dal sacerdote Zadok alla presenza del profeta Natan e di Benaia, capo della guardia reale. Seguono il Giudizio di Salomone (XII.2: I. Re, 3, 16-28), esempio di giustizia inseparabile dal suo nome, la Costruzione del tempio di Gerusalemme (XIII.3: I. Re, 5-6), dove si esalta il costruttore, e l’Incontro con la regina di Saba (XIII.4: I. Re,10, 1-3) che si era messa in viaggio per venire a rendergli omaggio quando le era giunta l’eco della sua fama. Tralasciate le storie dei profeti, l’ultima volta, dedicata a Gesù, presenta l’Adorazione dei pastori (XIII.1), l’Adorazione dei Magi (XIII.2), il Battesimo di Cristo (XIII.3) e l’Ultima Cena (XIII.4). Particolare curioso, nell’Adorazione dei Magi Giuseppe si volta per alzare il coperchio di uno scrigno offerto da uno dei re e valutarne il contenuto10. La Bibbia di Raffaello comprende dunque sia la storia del mondo ante legem, col racconto della Creazione e del Peccato originale e la storia dei patriarchi, sia quella del mondo sub lege dall’Esodo dall’Egitto fino ai re, sia quel-

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Tav. 131. Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio, Mosè riceve le Tavole della Legge (IX.1)(cfr. tav. 154).

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Tav. 132. Giulio Romano e Bartolomeo di David, Adorazione del vello d’oro (IX.2)(cfr. tav. 162).

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Tav. 133. Bartolomeo di David (?), Colonna di nube (IX.3).

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Tav. 134. Giulio Romano, Mosè mostra le Tavole della Legge (IX.4) (cfr. fig. 96).

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Tav. 135. Polidoro da Caravaggio, Attraversamento del Giordano (X.1)(cfr. fig. 97).

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Tav. 136. Perin del Vaga, Caduta di Gerico (X.2)(cfr. fig. 78, rovesciata).

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Tav. 137. Perin del Vaga, Giosuè ferma il sole e la luna (X.3) (cfr. figg. 64 e 77).

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Tav. 138. Perin del Vaga, Divisione della Terra Promessa (X.4) (cfr. figg. 75, 79 e 98).

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Tav. 139. Guglielmo di Marcillat, Unzione di Davide (XI.1).

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Tav. 140. Perin del Vaga, Davide e Golia (XI.2) (cfr. figg. 32, 59 e 60 e tav. 155).

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Tav. 141. Perin del Vaga, Davide e Betsabea (XI.3)(cfr. figg. 80 e 99).

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Tav. 142. Perin del Vaga, Trionfo di Davide (XI.4)(cfr. fig. 81 e 100).

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Tav. 143. Vincenzo Tamagni, Ascesa al trono di Salomone (XII.1).

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Tav. 144. Pellegrino da Modena, Giudizio di Salomone (XII.2) (cfr. fig. 101).

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Pagine seguenti: Tav. 147. Bartolomeo di David, Adorazione dei pastori (XIII.1). Tav. 148. Giovanni da Spoleto (?), Adorazione dei Magi (XIII.2) (cfr. fig. 102).

Tav. 145. Polidoro da Caravaggio (?), Costruzione del tempio di Gerusalemme (XII.3).

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Tav. 146. Pellegrino da Modena e Tommaso Vincidor, Incontro con la regina di Saba (XII.4).

Tav. 149. Raffaellino del Colle, Battesimo di Cristo (XIII.3) (cfr. fig. 103). Tav. 150. Giovanni da Spoleto (?), Ultima Cena (XIII.4).

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Composizioni del basamento:

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Fig. 49. Raffaellino del Colle, Benedizione del settimo giorno (I), copia di un disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 130 x 399 mm. Haarlem, Teylers Stichting, inv. A 73. Fig. 50. Offerta delle primizie e Uccisione di Abele (II)(cfr. fig. 70), copia dall’affresco, miniatura. Vienna, Nationalbibliothek, Cod. Min. 33, fol 10. Fig. 51. Perin del Vaga, Apparizione dell’arcobaleno (III), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, rialzi in bianco, 135 x 325 mm, quadrettato a matita nera. Francoforte, Städelsches Kunstinstitut, inv. 375. Fig. 52. Sacrificio di Isacco (IV), copia di un disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 121 x 410 mm. Windsor Castle, Royal Library, inv. 12730. Riprodotto per gentile concessione di S.M. la Regina Elisabetta II. Fig. 53. Isacco benedice Giacobbe (V), incisione di Piero Sante Bartoli, rovesciata. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. Fig. 54. Lotta di Giacobbe con l’angelo (VI), copia di un disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, rialzi in bianco, 144 x 404 mm. Oxford, Ashmolean Museum, inv. II 660.

la del mondo sub gratia, con la redenzione ad opera di Cristo del popolo d’Israele e di tutta l’umanità11. I gruppi di quattro scene – salvo le otto per Mosè – formano sempre una storia chiara, articolata secondo un ritmo sempre uguale, all’inizio lento, in crescendo nelle due scene centrali, dove si svolge la parte essenziale dell’azione, che si conclude con un sereno, trionfale sostenuto. L’ultimo riquadro appare più di una volta come un rimando al primo su un tono più sostenuto. È il caso, in particolare, delle storie di Giuseppe che racconta e spiega i sogni (VII.1, VII.4) e di quelle di Mosè che riceve le Tavole della Legge e poi le presenta al popolo (IX.1, IX.4). In ogni volta, salvo due eccezioni dovute forse ad errori12, il ciclo inizia dal lato del muro interno e si svolge in senso antiorario. In tal modo – cosa che non è stata ancora rilevata – lo spettatore che lo osserva dall’inizio del racconto ha di fronte una serie di scene drammatiche, mentre quello che, giunto all’estremità opposta, si volta indietro, conserva la visione delle scene finali composte come tanti happy end. La costruzione delle storie segue dunque uno schema narrativo nel quale non mancano intrighi, sviluppi imprevisti, o storie d’amore. Tutti gli argomenti violenti o licenziosi sono banditi, e i cattivi sentimenti ridotti a una semplice allusione: ogni eroe appare paludato nelle sue qualità senza che nulla si percepisca delle sue stranezze o delle sue debolezze. Dio interviene spesso per salvare il suo popolo, non per minacciarlo o vendicarsi. Come ha salvato Noè, preserva Lot, assicura una discendenza ad Abramo e a Isacco, protegge Giacobbe e Giuseppe, sostiene Mosè per tutto il tempo dell’esodo, poi Giosuè nel paese di Canaan. Spesso si assiste a teofanie, anche quando la tradizione iconografica non è diffusa, come nel caso di Abramo e Isacco. Il tema dell’Apparizione di Dio compare già nella volta della Stanza di Eliodoro, dove si manifesta in successione a Noè, Isacco, Giacobbe e Mosè: forse si può cogliere qui l’origine dell’idea-guida della Bibbia di Raffaello, che mette l’accento sul sostegno che Dio non si stanca di offrire al suo popolo e, dal punto di vista religioso, sull’annuncio della salvezza. La Bibbia di Raffaello non mostra drammi: è serena e rassicura. Che differenza rispetto alla visione che dell’Antico Testamento dà Michelangelo nella volta della cappella Sistina: tre scene della Creazione del mondo, ma senza gli elementi cronachistici dell’Uscita dall’Arca; la storia di Adamo ed Eva, interrotta al culmine del dramma con la Cacciata dal Paradiso, e non con l’immagine serena della giovane famiglia; quella di Noè con

l’Ebbrezza e la Derisione. E che differenza anche nei quattro pennacchi, dove l’unico elemento comune ai due cicli è il duello di Davide e Golia. In quello raffaellesco non avrebbero mai trovato spazio il Miracolo del serpente di bronzo, la storia al tempo stesso scabrosa e cruenta di Giuditta né quella di Ester, che si conclude con l’Impiccagione di Aman. La Bibbia di Raffaello è purgata, ad usum Delphini. Nelle Logge ognuna delle storie quadripartite della Bibbia si completa con un quinto riquadro, sullo zoccolo, dipinto a grisaille ad imitazione del bronzo, secondo la formula già collaudata nella Stanza dell’Incendio di Borgo. Questa parte della galleria ha così sofferto per le intemperie che non si distinguono altro che ombre. L’insieme può però essere ricostruito grazie ai disegni preparatori che ne rimangono e alle copie di questi ultimi o degli affreschi13. Una constatazione a questo punto si impone: oltre a non rafforzare la costruzione unitaria di ciascuna storia narrata nelle volte, il quinto riquadro non è neppure sempre al suo posto nella cronologia dei fatti, e ripete talvolta una scena già illustrata, al punto di stravolgere lo spirito del racconto. All’inizio è rappresentata la Benedizione del settimo giorno (I: Gen., 2, 2-4)14, ad interrompere la storia della Creazione che prosegue nella seconda volta con la Creazione di Eva (II.1). Nella seconda campata sono riunite in un’unica scena l’Offerta delle primizie e l’Uccisione di Abele (II: Gen., 4, 3-8), perpetrata da Caino accortosi che Dio non gradisce la sua offerta: una scena in totale contrasto con quelle della volta. Per Noè era illustrata l’Apparizione dell’arcobaleno (III: Gen., 9, 12-13), che Dio manda come segno dell’alleanza conclusa col suo popolo: una ripetizione rispetto al Sacrificio di Noè che avviene nello stesso momento (III.4). La quarta campata comprende il Sacrificio di Isacco (IV: Gen., 22, 1-14): ancora un riquadro tragico, escluso dalla volta, dove avrebbe dovuto far seguito alla Visita dei tre angeli (IV.3), e dunque in posizione errata dopo la Fuga di Lot e delle sue figlie (IV.4)15. Nella quinta campata compare di nuovo, in mancanza di altre storie, quella in cui Isacco benedice Giacobbe (V: Gen., 27, 18-29)16. Si assiste poi alla Lotta di Giacobbe e l’angelo (VI: Gen., 32, 23-30) che ha luogo effettivamente dopo Giacobbe sulla via di Canaan (VI.4), e si trova dunque al punto giusto della narrazione, ma ne rovina la conclusione. Il racconto prosegue regolarmente con la scena in cui Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli (VII: Gen., 45, 1-8), uno dei tan-

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Fig. 55. Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli (VII)(cfr. fig. 71 e tav. 152), copia dall’affresco, miniatura. Vienna, Nationalbibliothek, Cod. Min. 33, fol. 50. Fig. 56. Castigo di Core, Datan e Abiram (IX), copia dall’affresco, miniatura. Vienna, Nationalbibliothek, Cod. Min. 33, fol. 66. A fronte: Tav. 151. Luca Penni, Miracolo della manna (VIII), disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 122 x 359 mm, quadrettato a matita nera. Haarlem, Teylers Stichting, inv. AX 26.

ti fatti che lo riguardano dopo che ha conquistato la fiducia del Faraone17. Per quanto riguarda Mosè, è raffigurato nel Miracolo della manna (VIII: Es., 16,15), che precede il momento in cui Mosè percuote la roccia (VIII.4), turbando dunque ancora, anche se di poco, l’ordine del testo. L’affresco successivo è stato parzialmente demolito già nella prima metà del XVI secolo, quando in corrispondenza venne aperta una porta, e non ne se ne ha una copia completa18. Vasari riferisce che vi si vedeva «il fuoco che scendendo dal cielo abbrucia i figliuoli di Levi»19. Doveva dunque trattarsi della punizione inflitta al Levita Core per aver cospirato con Datan e Abiram contro l’autorità sacerdotale di Aronne, il Castigo di Core, Datan e Abiram (IX: Num., 16, 31) che Botticelli aveva dipinto nel ciclo di Sisto IV nella Cappella Sistina, ma che non poteva trovare posto in una Bibbia in cui si evitavano le pene inflitte da Dio, e che inoltre veniva ad oscurare il racconto dopo la scena in cui Mosè presenta le Tavole della Legge (IX.4). Per Giosuè è raffigurata l’Assemblea del popolo a Sichem (X: Gios., 24), convocata dall’eroe poco prima della morte per esortare gli Ebrei ad osservare la legge di Dio: un riquadro posto, è vero, subito dopo la Divisione della Terra Promessa (X.4), ma che non vi aggiunge niente d’importante. Nell’undicesima campata era rappresentato forse il mo-

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Tav. 152. Luca Penni (?), Assemblea del popolo a Sichem (X)(cfr. fig. 71), disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, rialzi in bianco, 122 x 359 mm, quadrettato a matita nera. Haarlem, Teylers Stichting, inv. AX 27. Tav. 153. Raffaellino del Colle, Betsabea intercede presso David in favore di Salomone (XI), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 145 x 385 mm, quadrettato a matita nera. Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 140 S.

mento in cui Betsabea intercede presso Davide a favore di Salomone (XI: I. Re, 39): ormai vecchio, disteso sul giaciglio, Davide, presso cui è Abishag la Sunamita, la giovane vergine che doveva riscaldarlo nel suo letto, promette a Betsabea di nominare re il figlio Salomone. Il testo precisa tuttavia che l’Ascesa al trono di Salomone (XII.1) avviene in presenza di Zadok, Natan e Benaia, mentre nell’affresco i personaggi sono quattro. L’episodio non fa che anticipare la storia di Salomone. Il soggetto è ancor più problematico nella campata dedicata a quest’ultimo: davanti a un’affollata assemblea, un re, assiso in trono, ascolta la richiesta di un viandante – con in mano un bastone – in ginocchio davanti a lui. Si è proposto di riconoscervi il figlio di Salomone che provocò per la sua durezza la rivolta di dieci tribù e fu costretto a rifugiarsi a Gerusalemme: si tratterebbe di Roboamo che si rifiuta di alleggerire il giogo (XII: I. Re, 12, 1-4), con il racconto che si conclude negativamente con lo smembramento del regno, gettando così un’ombra sull’apparato festoso dell’Incontro con la regina di Saba (XII.4) nella volta. Nell’ultima campata si vede la Risurrezione (XIII): Cristo si erge con la croce uscendo dal sepolcro al quale è ancora appoggiata la pietra tombale, mentre da una parte si sono ammassate le guardie atterrite, e dall’altra si avvicinano le pie donne. Non occorre insistere oltre sull’infelice aggiunta delle gri-

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Fig. 57. Luca Penni (?), Roboamo si rifiuta di alleggerire il giogo (?) (XII), disegno preparatorio, matita nera, tracce di penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco dilavati, 145 x 421 mm. Oxford, Ashmolean Museum, inv. II 650.

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Fig. 58. Luca Penni, Risurrezione (XIII), disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 147 x 415 mm, quadrettato a matita nera. Chatsworth, Trustees of the Chatsworth Settlement, inv. 150.

saille in ciascun blocco, del quale spesso smontano la costruzione e alterano il tono: tutto porta a credere che siano state concepite alla fine del cantiere, senza un grande controllo da parte di Raffaello, e forse con un altro consulente, quando la parte essenziale del programma era definita e bisognava accontentarsi di quanto il testo poteva ancora offrire. È d’altra parte noto che vi sono state esitazioni sul modo di completare la decorazione della galleria. Nella vita di Giovanni da Udine Vasari racconta: «E chi non sa, come cosa notissima, che avendo Giovanni in testa di questa loggia, dove anco non si era risoluto il Papa che fare vi si dovesse di muraglia, dipinto, per accompagnare i veri della loggia, alcuni balaustri, e sopra quelli un tappeto, chi non sa, dico, bisognandone un giorno uno in fretta per il papa che andava in Belvedere, che un palafreniero, il quale non sapeva il fatto, corse da lontano per levare uno dei detti tapeti dipinti, e rimase ingannato»21. Giovanni avrebbe dunque proposto un trompe-l’œil, ma alla fine si sarebbe optato per scene bibliche che non solo male si integrano nella decorazione, ma che hanno di fronte, sul lato esterno, a fianco delle balaustre, ornati di uguali dimensioni che nulla hanno di religioso – uccelli, mostri marini, sirene e tritoni. Occorre aggiungere che le grisaille non

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sembrano dover molto a Raffaello: già la composizione sembra essere stata affidata agli aiuti, dei quali Vasari menziona solo Perin del Vaga22. Nella sua concezione unitaria, la Bibbia di Raffaello si limita alle 52 scene delle volte. La Bibbia è stata certamente voluta da Leone X in persona – il passo di Vasari appena citato è sufficientemente eloquente sul ruolo da lui svolto –, ma deve essere stata concepita con l’aiuto di un teologo o di un umanista della corte pontificia, che ha operato una selezione precisa allo scopo di evitare qualsiasi problema delicato ed esercitando anche delle censure. D’altra parte l’importanza data a Mosè non può essere frutto del caso: il papa ha voluto mettere in evidenza non il guerriero, che avrebbe ricordato Giulio II, ma il patriarca campione della fede, al quale egli stesso veniva paragonato, «colui che per la sua grande mitezza superava tutti gli uomini della terra»23. Alla fine del ciclo lo spazio attribuito a Salomone e il fatto di illustrare nell’ultima volta scene del Nuovo Testamento sono elementi altrettanto insoliti, che appaiono a loro volta in diretto rapporto con la personalità di Leone X, che vantava fra i propri attributi quello di “Re della pace”, titolo attribuito a Salomone e a Cristo24. Come accade spesso nel Rinascimento, gli eroi evocano il padrone di

casa, e il costruttore del nuovo San Pietro richiama quello del tempio di Salomone. La Bibbia di Raffaello si presenta come un poema epico di estrema nitidezza, costellato di elogi di Leone X celati sotto forma di metafore. D’altra parte, il rifiuto sistematico di storie imbarazzanti, legate alla tradizione, come l’Ebbrezza di Noè o Lot e le sue figlie, mira a presentare gli eroi biblici come modelli di virtù e a conferire al racconto un tono edificante: un obiettivo opposto ad un umanesimo confinato nell’erudizione, nel quale appare un primo aspetto di fenomeni che poco a poco emergeranno nel corso del XVI secolo e finiranno per sfociare nel Concilio di Trento. Durante il pontificato di Leone X, che segna tradizionalmente l’apogeo del Rinascimento, concepito innanzitutto come un ritorno all’Antichità greco-romana, si evidenzia, specialmente nel corso degli ultimi anni, un interesse crescente per i testi biblici e le origini del cristianesimo. Le due culture, invece di escludersi, si completano e sono simultaneamente oggetto di ricerca di dotti e artisti. Per il pontificato di Giovanni de’ Medici – i nove anni (15131521) la cui risonanza fu tale da farli definire il “secolo di Leone X” – gli storici dell’arte si sono concentrati a tal punto sul rinnovamento classico che hanno spesso passato sotto silenzio i tutt’altro che trascurabili fermenti religiosi. Alla fine di questo pontificato splendido per le arti esploderà in Germania, con tutte le sue conseguenze, la rivolta di Lutero. Da qui il severo giudizio sul papa Medici da parte di molti storici della Chiesa, che ne hanno denunciato la ristrettezza di vedute e, in ultima analisi, il disinteresse per le questioni politiche e religiose25. Le due posizioni peccano per eccesso. Leone X si preoccupò indiscutibilmente di riunire attorno a sé la più brillante corte di poeti, umanisti e artisti che chiamava da tutta Italia. Accanto ai letterati che facevano rivivere i poemi di Virgilio o del Petrarca, ai dotti che insegnavano all’Accademia romana, agli artisti che resuscitavano il mondo antico, c’erano a Roma teologi e poeti che traevano la loro ispirazione dalla religione; è tra loro che prende forma un movimento di reazione contro gli abusi della Chiesa e del clero, un movimento di ritorno alle tradizioni cristiane primitive comparabile, in una certa misura, a quanto stava accadendo ovunque in Europa, in Spagna, Inghilterra, Francia, nei Paesi Bassi, in Germania26. In altri termini, la Controriforma non comincia col Concilio di Trento; dalla fine del XV secolo compaiono infatti segni premonitori che si sviluppano sotto il pontificato di Leone X.

Tra le personalità che prendono posizione nei confronti della situazione critica della Chiesa, è possibile isolare quelle che hanno potuto ispirare Raffaello, suggerendogli quel ritorno alla semplicità cristiana che caratterizza la sua Bibbia? Il teologo che svolse un ruolo politico determinante è senza alcun dubbio Tommaso de Vio, detto Caietano, generale dell’ordine dei Domenicani, che nel 1518 fu incaricato della delicata missione di trattare con Lutero. Leone X non aveva colto la portata dell’azione del monaco tedesco che, dal canto suo, sosteneva che Vio, erudito esponente della curia romana, non aveva compreso nulla della sua dottrina. Caietano era peraltro stimato per la sua grande saggezza, e gli sforzi sinceri che aveva fatto per capire Lutero gli avevano attirato dei nemici. Gli si rimproverava la sua larghezza di vedute e la tolleranza. Un uomo così avrebbe potuto essere in contatto con Raffaello? Negli anni cruciali per la storia della Chiesa nei quali il maestro preparava i progetti per le Logge, non aveva certo tempo di fornirgli neppure suggerimenti. Assorbito com’era dai problemi politici, non doveva avere neppure interesse per gli abbellimenti della dimora pontificia. Caietano d’altra parte si sarebbe ritirato di lì a poco dalla vita attiva per dedicarsi agli studi di ermeneutica che lo avevano già in precedenza interessato. Vi sono opinioni discordi sul valore del suo lungo commento alla Summa Theologiae, che gli valse l’appellativo di “secondo Tommaso”; in ogni caso egli vi appare ancora legato alla Scolastica. Teologo in senso stretto, appartiene a un mondo che aveva poco in comune con quello degli artisti27. Ugualmente estraneo a questi problemi doveva essere Prierias, il domenicano Silvestro Mazzolini, originario di Prierio, che entrò in seguito in aperta polemica con Lutero e si distinse per un’intransigenza opposta all’elasticità di Vio28. Quanto a Pietro Galatino, dell’Ordine dei frati minori, che attese in particolare a un lungo lavoro di commento alla Genesi, è altrettanto improbabile che abbia potuto avere un qualche contatto con Raffaello. La sua opera di esegeta, improntata a una profonda erudizione, non ha nulla in comune con la deliberata semplicità della Bibbia delle Logge29. Dei due umanisti che ricoprivano presso il papa l’incarico di fiducia di breviator, se Pietro Bembo si è reso famoso per la conoscenza del mondo antico e per il grande apporto alla letteratura profana, Jacopo Sadoleto non si è limitato alla teologia30. All’interno dell’Accademia romana egli si ricollega al gruppo dei ciceroniani, avvicinandosi ben presto ai membri dell’Oratorio del Divino Amore, che si riunivano per predicare al popolo nella chiesa dei

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santi Silvestro e Dorotea, e che stavano per dare origine all’ordine dei Teatini31. Sadoleto deve aver riflettuto profondamente sui problemi della Chiesa. È lui ad essere incaricato qualche tempo dopo di scrivere a Lutero le lettere firmate da Leone X. Gli scritti che ha lasciato in seguito, quando si ritira nella sua diocesi di Carpentras prima di essere richiamato a Roma da Paolo III, consentono di conoscere le sue idee sul ritorno della Chiesa all’austerità primitiva e sul ruolo dell’educazione religiosa, da impartire ai bambini dalla più tenera età. Anche in questo caso non vi sono elementi che consentano di supporre relazioni con i pittori. Divisi tra le missioni politiche e le ricerche erudite, i teologi rendevano partecipe delle loro meditazioni l’élite di cui facevano parte, senza avere rapporti con gli artisti. Con la fine del XV secolo il malessere si era generalizzato nel mondo religioso, diffondendosi nell’intera Europa. Si faceva probabilmente sentire meno nel cuore della cristianità, roccaforte dello spirito tradizionalista e conservatore. Le riforme auspicate dai collaboratori del papa rimanevano astratte e non rispondevano alle esigenze delle masse. Nel 1512 Giulio II convocò il concilio Lateranense che, dopo aver adottato una linea rigida, si chiuse cinque anni più tardi senza giungere alle riforme sperate. Leone X ne aveva peraltro avvertito l’importanza. Mentre al momento della sua elezione i numerosi poeti di cui si era circondato guadagnavano il suo favore componendo opere alla maniera di Virgilio o di Ovidio, nel giro di qualche anno la situazione si modifica fortemente. La corte rinuncia alle aspirazioni alla cultura antica – le casse dell’Accademia romana erano d’altra parte vuote – per orientarsi sempre più verso la religione. A Marco Girolamo Vida, affermatosi con un poema sul gioco degli scacchi e un altro sul baco da seta, Leone X in persona suggerisce, alla fine del suo pontificato, di dedicarsi a una composizione di ampio respiro sulla vita di Cristo, e gli offre addirittura un priorato vicino Frascati per consentirgli di dedicarvisi. Si tratta della Cristiade – che il papa non potrà vedere conclusa e che sarà dedicata a Clemente VII –, epopea nella quale la profusione dei ricordi classici limita tuttavia l’ispirazione32. In una lettera indirizzata all’amico Botta, Vida si dichiara d’altra parte cosciente delle difficoltà con cui si sarebbe scontrata un’opera tanto ambiziosa, ma anche persuaso che, portandola a buon fine, avrebbe contribuito alla gloria della Chiesa. Solo più tardi, partecipando al concilio di Trento e collaborando con Carlo Borromeo, si sarebbe orientato definitivamente verso i problemi religiosi33.

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Negli stessi anni un altro poeta della corte, Giano Vitale, cambiava registro scegliendo la Trinità come tema dei propri inni. Allo scopo, peraltro confessato, di ottenere qualche favore dal papa, gli si rivolgeva in questi termini: «Ecco infine giunto, Leone, col tuo regno il tempo nel quale la poesia sacra, finora nota solo ai devoti e inaccessibile ai profani, rialza il capo dai capelli d’oro al di sopra delle nubi e dispensa le sue celesti ricchezze a tutto il mondo. Le menzogne degli antichi, vane e prive di cultura, hanno perso forza, l’insignificante Giove è impallidito, come il culto temerario dell’insensata Minerva. Non solo: il Parnaso se la ride del folle Bacco e di Apollo Timbreo...». E l’autore si attarda a lungo sulla lista degli dèi detronizzati34. Nel comporre opere comunque sature di cultura classica, si credeva fermamente di lavorare per ringiovanire la Chiesa. Il poeta più rappresentativo di questa tendenza è senza dubbio Battista Spagnoli, generale dei Carmelitani35. Le dieci egloghe, riunite col titolo di Parthenicae, nelle quali canta la vita della Vergine e quella di alcune grandi martiri, costituiscono l’inizio dell’agiografia moderna. Anche qui, nonostante il ricorso ai testi religiosi, soprattutto ai vangeli apocrifi, la forma è calcata su quella di Virgilio, ad un punto tale di assimilazione che il religioso, originario della medesima città del suo illustre predecessore, venne soprannominato il Mantovano. Mentre la rivolta di Lutero, ben lungi dal ridursi a una semplice faccenda da frate, come Leone X l’aveva all’inizio considerata, risuona minacciosa e, dopo la condanna del 1519, la sua ampiezza sorprende tutti a Roma, il papa pensa ancora di poter rispondere alle accuse lanciate dai tedeschi promuovendo poemi di contenuto cristiano, che rimangono radicati nel mondo antico e non hanno di sacro che l’argomento. L’esempio più celebre è quello del De partu Virginis di Sannazaro, nel quale il poeta nutre, pure lui, l’illusione di rinunciare all’umanesimo erudito per adottare un tono umile, mentre si accontenta di far cantare i versi di Virgilio dai pastori accorsi a vedere il presepe36. Il papa stesso, convinto dell’efficacia della sua azione, gli scrive in termini entusiastici: «... Soprattutto in questo momento in cui alcuni, per apparire più sapienti, attaccano la Chiesa con la loro penna malevola, occorre che vi sia chi la esalti attraverso la grande chiarezza del proprio sapere [...]. Siamo convinti che è grazie alla divina Provvidenza se la Sposa divina, assediata da tanti aggressori che la dilaniano, si è vista concedere un campione di tale valore e di tal livello, un autentico campione, mentre essi abusano di un’eloquenza empia per prender-

sela con ciò che è sacro [...]. Per questo ci congratuliamo con te: tu solo, più di quanto nessuno abbia fatto prima, gratifichi la Chiesa che altri maltrattano e dilaniano, e l’innalzi al cielo, tu gratifichi il nostro secolo che, grazie alla tua poesia, acquisterà celebrità, infine gratifichi noi, minacciati da un lato da Golia in armi, dall’altro da Saul in preda alla follia, dopo il quale è venuto il pio Davide che, con la fionda, respinge la tracotanza del primo e, grazie alla lira, ferma la follia del secondo»37. In questo elogio magniloquente sono evidenti le allusioni ai luterani. Il breve di Leone – scritto da Bembo – riflette bene il punto di vista della Curia romana, accecata dalla speranza di fronteggiare il malcontento dei tedeschi affrettandosi semplicemente a modificare una cultura ormani sorpassata. In un passo del suo Ciceronianus, Erasmo non mancherà di prendersela con poeti cristiani come Sannazaro e il Mantovano per aver osato affrontare la religione come se si trattasse della mitologia classica. L’umanista di Rotterdam aveva letto le loro opere e sapeva dell’accoglienza calorosa che aveva riservato loro Leone X e poi il cugino Clemente VII. La perspicuità con la quale oppone i propri argomenti mostra la chiaroveggenza del suo giudizio: «Non è senza motivo, esclama, se il De partu Virginis è piaciuto tanto [...]. Ma avrebbe, a mio parere, meritato maggiori elogi se l’autore avesse trattato il tema sacro in maniera un po’ più sacra; lo stesso errore è stato commesso, in minor misura, da Battista Mantovano [...]. Sulla nascita di Gesù preferisco di gran lunga l’inno di Prudenzio ai tre libri di Actius Syncerus [Sannazaro], tanto è vero che questo poema non basta per atterrare con la fionda Golia che continua a minacciare la Chiesa, né a calmare con la cetra i furori di Saul. Non so se si debba biasimare di più il cristiano che tratta un argomento profano in maniera profana, dissimulando il suo essere cristiano, o colui che affronta i temi cristiani in modo profano»38. Occorre considerare però anche un altro personaggio. Egidio da Viterbo, fino al 1518 priore generale degli Agostiniani, è il solo tra i teologi che abbia mostrato un qualche interesse per le arti figurative. Dal punto di vista della dottrina è forse, insieme a Vio, quello che esercita l’azione più profonda nella corte di Leone X. È lui d’altra parte che incontra il giovane Lutero quando viene a Roma nell’inverno 1510-1139. Nel suo grande trattato Historia XX Saeculorum esprime la convinzione ottimistica che l’epoca in cui vive, dopo aver conosciuto nel corso dei secoli nove serie successive di vicissitudini, stia per assistere finalmente ad un rinnovamento cristiano. Per l’avvento di questa

nuova età dell’oro, che fa coincidere con la nascita di Carlo V, ripone tutte le sue speranze nel papa regnante e preconizza il ritorno allo studio delle Sacre Scritture. Fortemente impregnato degli scritti di sant’Agostino, aspira all’ideale di una Chiesa semplice e povera e, per i monaci, a quello di una vita eremitica, predicando la pace e desiderando che la religione abbia il suo centro a Roma – benchè come Lutero paragoni la città a una nuova Babilonia, dove la vita degli ecclesiastici non è edificante. In più, pressochè in contraddizione con l’ideale di austerità e di umiltà che proponeva, il cardinale non condanna né le arti né le scienze. Imbevuto di cultura italiana, si augura che vengano edificati e decorati molti monumenti, purché destinati a glorificare della Chiesa. Nella lettera che indirizza a Leone X in occasione della sua ascesa al soglio pontificio, ricorda al nuovo eletto che uno dei compiti principali del papa è quello di promuovere le arti e restaurare le chiese, dilungandosi soprattutto sulla costruzione del nuovo San Pietro che paragona al Tempio di Salomone40. Nell’opera di Egidio da Viterbo s’incontrano i nomi di Giotto, Gentile da Fabriano, Bramante e Sansovino41. In assenza di documenti, la Bibbia di Raffaello pare rispondere per lo meno alle aspirazioni di un tale uomo. Per illustrare il racconto affidatogli, Raffaello ha dovuto condurre una ricerca su vari fronti. Anche se non emerge una derivazione diretta, i rimandi alla Sistina di Michelangelo impregnano le storie comuni ai due cicli, quelle della Creazione del mondo, di Adamo ed Eva e di Noè, le teofanie, in particolare quelle che concernono Abramo (IV.2) e Isacco (V.1), come pure la scena di Davide e Golia (XI.2), per la quale una xilografia di Ugo da Carpi, forse derivata da un progetto iniziale di Raffaello, rivela come questi sia partito da Michelangelo per poi allontanarsene42. Ugualmente era impossibile sottrarsi per l’Ultima Cena all’influenza di Leonardo, il cui ricordo affiora in qualche apostolo, anche se Raffaello non li ha disposti come lui tutti da un lato della mensa; la sua originalità consiste, al contrario, nell’averli distribuiti sui tre lati, trovando così il modo di mostrare tutti i volti. Il problema si pone in modo diverso per la Cacciata dal Paradiso (II.3), dove Michelangelo ha reso omaggio a Masaccio, modificando le reazioni dei personaggi, che espande nello spazio. Raffaello non ha adottato nulla di questa visione, risalendo anch’egli al precedente della cappella Brancacci, al quale rimane più fedele, nascondendo a sua volta il viso di Adamo fra le mani, ma senza mostrare il dolore di Eva, alla quale conferisce un’espres-

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Fig. 59. Michelangelo, Davide e Golia, affresco (cfr. figg. 32, 60, tavv. 140 e 155). Città del Vaticano, Cappella Sistina. Fig. 60. Ugo da Carpi, da Raffaello, Davide e Golia (cfr. figg. 32, 59, tav. 137, 140 e 155), xilografia. Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe.

sione meno drammatica di pentimento. Fedele al tono più umile prescelto, attenua in seguito il carattere soprannaturale della scena, facendo discendere il serafino incaricato dell’espulsione sui gradini dell’ingresso del Paradiso, dove respinge Adamo senza violenza43. Nella Bibbia Raffaello si ispira largamente all’antico. Ma prima di esaminare tali riprese, occorre segnalare altre fonti. Alcune scene tradiscono la conoscenza dei grandi cicli paleocristiani che decorano le basiliche di Roma44, come i mosaici di Santa Maria Maggiore, che corrono su due registri sovrapposti nella parte alta delle pareti laterali della navata maggiore, e le pitture che un tempo ornavano San Paolo fuori le mura. Nei due mosaici di Santa

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Fig. 61. Masaccio, Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso, affresco (cfr. tav. 105 e fig. 87). Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci.

Fig. 62. Isacco benedice Giacobbe e Isacco rifiuta la benedizione a Esaù (cfr. tavv. 117-118), mosaico, IV secolo d.C. Roma, Santa Maria Maggiore.

Fig. 64. Giosuè ferma il sole e la luna (cfr. tav. 137), mosaico, IV secolo d.C. Roma, Santa Maria Maggiore.

Fig. 63. Giacobbe chiede in sposa Rachele (cfr. tav. 121 e fig. 86), mosaico, IV secolo d.C. Roma, Santa Maria Maggiore.

Maria Maggiore che rappresentano, come nelle Logge, Isacco che benedice Giacobbe (V.3) e Isacco che rifiuta la benedizione ad Esaù (V.4), si ritrova il patriarca disteso sul giaciglio, davanti ad una tavola rotonda con zampe leonine, che Raffaello riproduce fedelmente45. L’analogia riguarda soprattutto la seconda scena, nella quale Rebecca compare con Giacobbe sotto un arco, mentre in primo piano è Esaù, vestito con la pelle di capra che gli lascia scoperta una spalla. Più lontano, il mosaico con Giacobbe che chiede a Labano la mano di Rachele sembra essere all’origine di due affreschi, l’Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2)46 e Giacobbe chiede in sposa Rachele (VI.3)47. Il ricordo della composizione paleocristiana è

evidente anche nella scena in cui, trionfante sul suo destriero, al di sopra della mischia, Giosuè ferma il sole e la luna (X.3)48. In San Paolo fuori le mura gli affreschi paleocristiani che correvano lungo la parte superiore della navata maggiore vennero rifatti da Cavallini in pendant con le storie di san Paolo che aveva dipinto sul lato sinistro. Le storie sono andate perdute nell’incendio che distrusse la basilica nel 1823, ma le copie del XVII secolo che sussistono consentono di rendersi conto degli stretti rapporti che le legano alla Bibbia di Raffaello, in particolare, per il ciclo di Abramo, alla Visita dei tre angeli (IV.3)49, poi, per quello di Giuseppe, alle due scene relative ai Sogni (VI.1, VI.4), ma anche a quella in cui Giuseppe è venduto dai fratelli (VI.2), dove Raffaello rovescia il modello, e a quella con i contrasti fra l’eroe e la moglie di Putifarre (VI.3)50. L’interesse mostrato da Raffaello per questi cicli paleocristiani induce a riconsiderare da un punto di vista generale il problema delle sue scelte. Potrebbe apparire a prima vista sorprendente che il maestro abbia interrogato monumenti che non rispondevano al suo ideale. Nella lettera a Leone X è – come è noto – categorico nel condannare le arti figurative a partire da Costantino51, e non può essersi sbagliato di molto sulla cronologia delle opere in questione. Occorre precisare anzitutto che il ritorno all’arte dei primi secoli dell’era cristiana non significa solo che egli si documentasse su quanto era stato fatto in precedenza. Nella Bibbia non si rivela alcuna derivazione dai cicli di Sisto IV nella Cappella Sistina, che dovevano apparirgli superati. La grande opera del passato alla quale si ricollega è quella di Masaccio, quella cioè di un maestro che aveva rotto con la tradizione medievale, aspirando a costruire una prospettiva e un’anatomia impeccabili col ritorno all’antico. Raffaello non deve aver considerato i cicli delle grandi basiliche dal punto di vista strettamente stilistico: erano per lui illustrazioni che attiravano la sua attenzione soprattutto dal punto di vista storico, ma delle quali apprezzava probabilmente la chiarezza, che risale del resto all’antico. Le derivazioni da Santa Maria Maggiore e da San Paolo fuori le mura che si vedono nelle Logge non esauriscono però la questione. Appaiono evidenti anche rapporti con la Bibbia di Niccolò Malermi, la prima versione delle sacre scritture pubblicata in italiano, che uscì a Venezia nel 1471 ottenendo un successo immediato. Le edizioni si succedettero rapidamente, arricchendosi, a partire dal 1490, di ampie serie di xilografie – in poco tempo quasi duecento scene, e in seguito ancora di più. La Bibbia Ma-

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Fig. 65. Visita dei tre angeli (cfr. tavv. 113 e 156), copia di Antonio Eclissi dal dipinto di Pietro Cavallini in San Paolo fuori le mura, acquarello (1635 ca.). Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 4406, fol. 36.

Fig. 67. Entrata nell’Arca di Noè (cfr. tav. 109), xilografia della Bibbia Malermi. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Fig. 66. Visita dei tre angeli (cfr. tav. 113 e 156), xilografia della Bibbia di Lubecca. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Fig. 68. Giuseppe e la moglie di Putifarre (cfr. p. 125), copia di Antonio Eclissi dal dipinto di Pietro Cavallini in San Paolo fuori le mura, acquarello (1635 ca.). Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 4406, fol. 46.

lermi forniva agli artisti la sola occasione di contatto immediato col testo, offrendo inoltre una traduzione in termini visivi delle storie. Per quanto rozze52, tanto Raffaello53 quanto Michelangelo54 sembrano avervi fatto ricorso. Una delle analogie più sorprendenti riguarda nelle Logge l’Uscita dall’Arca (III.3), dove si riconoscono la grande sagoma dell’imbarcazione e la passerella con gli animali. La Bibbia Malermi potrebbe essere ugualmente all’origine del Mosè che percuote la roccia (VIII.4), del Mosè che riceve le tavole della Legge (IX.1) e dell’Unzione di Davide (XI.1), poi, sullo zoccolo, dell’Offerta delle primizie e dell’Uccisione di Abele (II) e più oltre della scena in cui Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli (VII). Suggestioni ulteriori potrebbero provenire dalle xilografie di una Bibbia tedesca pubblicata a Lubecca nel 149455. Così, nella Visita dei tre angeli (IV.3) la sagoma di Sara non appare all’ingresso della tenda, come dice il testo biblico, ma nel vano della porta socchiusa di una casa di legno, come nell’incisione in questione. Nelle due scene con Giuseppe che spiega i sogni (VII.1, VII.4), un ricordo della medesima raccolta può forse giustificare la presenza di cerchi per illustrarne

il contenuto: un artificio medievale, comparabile ai fumetti delle strisce di oggi, che fa parte di una tradizione iconografica – una parte del ‘disco’ si vedeva del resto anche a San Paolo. Se Raffaello non ha tratto questi elementi dalle incisioni della Bibbia Malermi o di quella di Lubecca, li ha dovuti forse ricavare da un altro monumento oggi sconosciuto, legato alla medesima tradizione. Del resto non vi sono dubbi che sia ricorso a fonti estranee alla tradizione italiana. Nel caso dell’Adorazione dei Magi (XIII.2), il particolare di Giuseppe che si accerta del contenuto del cofanetto offerto al Bambino si trova esclusivamente al Nord56. Raffaello ha probabilmente visto anche delle miniature57. È un fatto certo che, per i disegni relativi alla storia di Enea da cui Marcantonio Raimondi ha tratto la tavola del Quos ego, ha tenuto conto delle miniature del celebre Vergilius Vaticanus, del 400 circa, allora di proprietà Pietro Bembo. D’altra parte si sa che Raffaello le ha fatte copiare da uno dei suoi allievi, che si può identificare nel giovane Perin del Vaga58. Occorre aggiungere che, quando Raffaello riutilizza un modello, è spesso solo per riprenderne

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la composizione da adattare ad un’altra scena. È possibile che quella dell’Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.1) sia stata ispirata dalla miniatura con l’Ultimo incontro di Enea e Didone, accompagnata dalla sua ancella, o dal disegno che ne ha tratto Perin del Vaga. Raffaello se ne sarebbe ricordato nel gruppo formato dal patriarca col bastone da pastore e la mano tesa, e dalle due giovani donne, divenute Rachele e Lia. Ma quando definisce le singole scene della Bibbia, trasforma quanto ripreso dei periodi di “decadenza” per rimodellarlo secondo i canoni dell’antico, vero lievito della sua cultura. Nell’intero ciclo le derivazioni dalla scultura antica, soprattutto dalla statuaria, sono innumerevoli. Per indicare le scelte che queste presuppongono da parte di Raffaello, e precisare ciò che egli ne ha tratto, è necessario in primo luogo esaminare le fonti in questione. Nella Creazione di Eva (II.1) le tre figure si rifanno ad antichità allora celebri. Adamo è ripreso dal fauno di un rilievo bacchico59, ma si appoggia a una roccia in una posa instabile e porta le mani al petto, nel punto da cui Dio gli ha estratto la costola, forse perché Raffaello non si è allontanato abbastanza dal

modello, nel quale il satiro suona il doppio flauto. Eva è costruita a partire dal torso di una Venere di origine prassitelica appartenente alla collezione Santacroce60. La figura più imponente, pretesto per un solenne gioco di panneggi, è quella di Dio, tratta dalla Visita di Bacco a un poeta drammatico, rilievo di stile neoattico che gli artisti potevano vedere in Santa Maria Maggiore e che, come si è detto, ha costituito una miniera per gli stucchi delle Logge. Nella Bibbia ne deriva anche il Noè della Costruzione dell’Arca (III.1), e forse il sileno barbuto che nello stesso rilievo danza seguendo il dio ha servito da punto di partenza per Giacobbe sulla via di Canaan (IV.4). Due modelli antichi sono anche all’origine del Peccato originale (II.1). Eva dipende da una derivazione dal Doriforo bronzeo di Policleto, forse l’esemplare che, come è noto, venne restaurato nel 1581 con una testa di Antinoo già nella collezione di Pietro Bembo61. A giudicare dai diversi punti di vista sotto i quali Raffaello ha evocato la statua – senza contare che un pittore non aveva difficoltà a invertire un modello – di poteva probabilmente osservare il movimento da tutte le angolazioni. Due varianti, l’una

Mosè percuote la roccia (cfr. tav. 130), xilografia della Bibbia Malermi. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Fig. 70. Uccisione di Abele (cfr. fig. 50), xilografia della Bibbia Malermi. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Fig. 71. Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli (cfr. fig. 55 e tav. 152), xilografia della Bibbia Malermi. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Fig. 72. Ultimo incontro di Enea e Didone (cfr. tav. 120), disegno di Perin del Vaga dalla miniatura del Vergilius Vaticanus. Princeon, University Library. Fig. 73. Scena bacchica (cfr. tav. 103), rilievo greco-romano, particolare di un fauno. Roma, Galleria Borghese.

accanto all’altra, se ne ripropongono negli angeli che fanno visita ad Abramo (IV.3), una delle composizioni più classiche del ciclo; altre due compaiono nella figura di Giuseppe che racconta i suoi sogni (VII.1) e poi spiega quelli del Faraone (VII.4); la posizione della testa ha determinato quella di Giacobbe nell’incontro con Rachele (VI.2) e poi nella richiesta di matrimonio (VI.3); infine si ritrova la statua di spalle nel ragazzo che sorteggia i lotti della Terra Promessa (X.4). A Roma, nel settembre 1514, si intrapresero scavi a palazzo Medici (oggi Madama, sede del Senato). Da una lettera di Filippo Strozzi ad un amico fiorentino si apprende che Alfonsina Orsini, cognata del papa, che vi abitava, aveva acquistato cinque statue “di morti e feriti”, che vengono descritte nell’inverno 1514-15 dall’erudito lionese Claude Bellièvre. Vi si sono riconosciute repliche di diversi pezzi del piccolo ex-voto di Pergamo, dedicato da Attalo I sull’Acropoli di Atene per commemorare la vittoria sui Galati, cioè sui Galli. La scoperta, uno dei grandi eventi dell’anno, dovette impressionare Raffaello, che sfruttò subito uno dei guerrieri feriti per farne l’Anania di uno dei cartoni per gli arazzi62. Un secondo Gallo del medesimo gruppo ispira l’Adamo del Peccato originale (II.1), il quale però, invece di alzarsi per prendere il frutto che Eva gli tende, è bloccato in una posizione mal definita, come se fosse sul punto d’inciampare – e non è senza motivo se spesso è stato giudicato accademico: il maestro infatti non è riuscito a trasformare in un movimento ascendente quello del guerriero che si accascia, colpito e disar-

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mato. La statua è stata sfruttata al meglio per la figura del servitore con un cesto di pani, che si vede di spalle in primo piano nell’Incontro di Abramo e Melchidesech (IV.1). Un’altra opera certamente apparentata, raffigurante un Persiano, acquistata a Roma da Domenico Grimani, ha offerto il punto di partenza per il soldato che si copre con lo scudo nel Giosuè che ferma il sole e la luna (X.3)63. Nel modello antico così come lo si vede oggi, le membra meno flesse e la posa disarticolata sono effetto dei restauri a cui alla fine del XIX secolo sono state sottoposte braccia e gambe; Raffaello, al contrario, ha saputo conservare il ritmo del modello, che ha reso punto focale della composizione inscrivendolo in un’obliqua che i guerrieri disposti in secondo piano sottolineano. Nella scena convulsa del Diluvio (III.2) i tre gruppi in primo piano riecheggiano opere antiche: il cavaliere che si aggrappa al collo del cavallo e quello che cerca di issare una donna sulla terraferma, dove poggia il piede, sono tratti da due scene della Colonna Traiana64; l’uomo che, al centro dell’affresco, sorregge un altro corpo deriva dal torso del Belvedere65 combinato col “Pasquino”, la più celebre delle statue parlanti di Roma, frammento di un gruppo di origine ellenistica rappresentante Menelao col corpo di Patroclo66. La prima scena dalla Colonna Traiana sarà utilizzata di nuovo, del tutto modificata, nel Passaggio del Mar Rosso (VIII.3)67, e ancora una volta un prestito dalla colonna permetterà di rappresentare i soldati che assediano Gerico (X.3)68. Come in Michelangelo nella Cappella Sistina, il Sacrificio

Fig. 74. Venere pudica (cfr. tav. 103), replica romana di un originale di Prassitele. Monaco, Glyptothek.

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Fig. 75. Copia romana del Doriforo bronzeo di Prassitele (cfr. tavv. 104, 113, 121, 123, 126 e 138) con testa di Antinoo (cfr. fig. 141). Napoli, Museo Nazionale.

di Noè (III.4) è concepito come una cerimonia romana, e l’uomo in primo piano che sgozza l’ariete è colto nella posizione del Boia scita, ispirato ad un altro gruppo di scuola pergamena, dove era associato alla statua di Marsia, appeso per essere scorticato69. Nella Promessa di Dio ad Isacco (V.1) Rebecca, con un atteggiamento che spira tristezza, deriva da una donna che piange un defunto in un rilievo greco-romano risalente a un modello ellenistico spesso sfruttato nella bottega di Raffaello: nella Stanza di Eliodoro per la guardia addormentata della Liberazione di Pietro, e in un disegno che si riferisce a una delle composizioni della volta, ed ancora sul bordo di un arazzo della serie degli Atti degli Apostoli, così come in incisioni70. La scena nella quale Isacco rifiuta la benedizione a Esaù (V.4) conserva, come si è visto, il ricordo dei mosaici di Santa Maria Maggiore; Raffaello ha però lasciato scoperto il busto del vecchio, evocando così una divinità fluviale, soggetto molto frequente nella scultura, al quale aveva già fatto ricorso nei bordi degli arazzi degli Atti degli Apostoli71, nella Stufetta72 e nella Loggetta del cardinal Bibbiena73. La formula si prestava alla rappresentazione di un uomo disteso, ed è ripetuta in uno dei fratelli che ascoltano Giuseppe mentre racconta i suoi sogni, allungato in primo piano (VII.1) – il cappello scivolato all’indietro non può non evocare il vaso da cui scendeva l’acqua quando, nell’antichità, questo tipo di statua serviva da fontana. Due ulteriori riprese del soggetto compaiono nell’Attraversamento del Giordano (X.1) e nell’Ascesa al

trono di Salomone (XII.1), dove il fiume conserva però il proprio valore allegorico, coasa che conferisce alle citazioni una nota erudita, estranea al tono generale della Bibbia. Il ritmo flessuoso del corpo di Giacobbe addormentato (VI.1) – tradotto con intelligenza maggiore nell’affresco che nel modello74 – non è un prestito diretto dall’antico. Sembra derivare da una ninfa, anch’essa proveniente da una fontana, allora nella collezione Galli75, combinata col celeberrimo rilievo di origine ellenistica rappresentante Amore e Psiche, detto “il letto di Policleto”, molte volte sfruttato, come si è visto, negli stucchi76. Forse per la sua grazia disinvolta, la mano appoggiata sul fianco, la figura di Rachele al pozzo (VI.3) è una delle più ammirate della Bibbia di Raffaello. Il gesto deriva anche qui da una ninfa di origine greca77, ma il maestro ne ha modificato l’atteggiamento unendola teneramente alla sorella Lia. Quando Raffaello ricompone la scena di Giuseppe e la moglie di Putifarre (VII.3), per la quale si ricorda dell’affresco in San Paolo, ha forse in mente un mito antico: il movimento di Giuseppe, con le braccia alzate, illogico nel momento della fuga, evoca le membra di Dafne che si trasformano in foglie mentre sfugge all’abbraccio di Apollo. Il maestro avrebbe associato due racconti di un inseguimento amoroso, nella Bibbia e nell’antichità, ricordandosi poi di uno dei figli di Laocoonte78 per conferire all’eroe un’espressione angosciata. Nelle Logge, la “Tazza Farnese” non è servita da fonte d’ispirazione solo per qualche ninfa nei pennacchi. La figura del fiume, seduto di profilo, nel celebre cammeo che ha ispirato Botticelli per la Primavera79 e Raffaello per la Stanza di Eliodoro80, sembra essere all’origine di quella di Giosuè che assiste all’estrazione a sorte della terra fra le tribù (X.4). Per Davide che assesta il colpo mortale a Golia (XI.2), dopo essersi ricordato di Michelangelo, Raffaello è ripartito dal gruppo di Mitra col toro, utilizzato anche in stucco in un sottarco81. Quanto a Betsabea (XI.3), posta sul balcone come una statua antica sulla base, costituisce la citazione di un’altra opera molto amata, la Venere accovacciata, copia romana di un bronzo ellenistico, sfruttata anche nella Stufetta del cardinal Bibbiena82 e in una stampa di Marcantonio Raimondi83. Il Trionfo di Davide (XI.4), infine, deriva da quello di Tito, all’interno dell’arco che l’imperatore si era fatto innalzare nel foro84.

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Fig. 76. Galata ferito (cfr. tavv. 104 e 111), copia romana di una statua ellenistica della Scuola di Pergamo. Parigi, Museo del Louvre. Fig. 77. Galata morente (cfr. tav. 137), copia romana di una statua ellenistica della Scuola di Pergamo. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Molto meno frequente è il ricorso all’antico nei monocromi dello zoccolo. Se nel Miracolo della manna (VIII) le figure che si chinano sono tratte dalla Pesca miracolosa, e la giovane donna inginocchiata dalla Trasfigurazione, la sua vicina all’estrema sinistra, con le mani giunte levate al cielo, è ripresa dalla baccante su un sarcofago col Trionfo di Bacco e Arianna85. Gli imprestiti dall’antico individuabili nella Bibbia provengono dai materiali più svariati, dalle derivazioni da opere del V e IV secolo a.C. sino alle creazioni imperiali romane, e assumono le forme più diverse, dalla citazione alla libera interpretazione al semplice ricordo. Nell’immenso ventaglio di modelli che gli erano offerti, Raffaello ha spesso escluso le opere che gli archeologi considerano oggi le creazioni più autentiche dell’arte romana, come la Colonna Traiana, per orientarsi verso opere tratte da modelli greci che, attraverso un processo di depurazione, gli consentivano di risalire ai canoni ellenistici, anzi a quelli classici. Non bisogna neppure perdere di vista lo sviluppo estremamente rapido di Raffaello, che ha sempre tratto profitto dalle esperienze che gli si offrivano, e che ha avuto una evoluzione anche nel modo di accostarsi all’antico, giungendo nelle Logge al termine del suo percorso. Mentre assimila innanzitutto Michelangelo, gli si avvicina anche nella scelta delle fonti più feconde, giungendo ad includervi figure dai movimenti violenti tipiche delle scuole di

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Pergamo e di Rodi, ben lontane dall’arte classica dalla quale era partito. Tutte le immagini che Raffaello ha osservato, disegnato, studiato, finiscono per aggiungersi all’immenso repertorio di forme confluito nelle sue opere. Il serafino che scaccia Adamo ed Eva (II.3) ricorda l’angelo della Madonna del pesce; l’Eva che fila (II.4) ricorda la Madonna del Prato; Dio che appare a Isacco (V.1) differisce di poco da quello della Visione di Ezechiele; il sacerdote che unge Davide assomiglia al san Paolo della Predicazione ad Atene, dal quale è tratto anche uno degli spettatori presenti alla cerimonia, mentre quello che si vede di spalle nell’Incontro con la regina di Saba (II.4) è ripreso da un personaggio che incorona Apollo sulla volta della Stanza della Segnatura, desunto a sua volta dall’antico86. Può anche succedere che lo stesso motivo ricompaia in dipinti diversi. Come in due sequenze successive di un unico spettacolo, la decorazione è appena modificata nell’Apparizione di Dio ad Abramo (IV.2) e nella Visita dei tre angeli (IV.3), o nelle due scene relative alla Benedizione di Giacobbe (V.3, V.4); una delle figure che partecipano al sorteggio del paese di Canaan (X.4) diventa uno spettatore nell’Unzione di Davide (XI.1); l’uomo col martello alzato nella Costruzione del tempio di Gerusalemme (XII.3) non è che uno dei figli di Noè che costruiscono l’Arca (III.1); la madre che supplica di salvare suo figlio nel Giudizio di Salomone (XII.2), è nello stesso atteggiamento del servitore

Fig. 78. Scena di battaglia (cfr. tav. 136). Roma, Colonna Traiana.

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Fig. 79. Tazza Farnese (cfr. tavv. 138 e 200), cammeo ellenistico dalla collezione di Lorenzo de’ Medici. Napoli, Museo Nazionale.

che si avvicina all’ariete nel Sacrificio di Noè (III.4); il guerriero visto di spalle nel fregio che orna il balcone di Betsabea (XI.3) riprende quello che minaccia con la lancia uno degli Amorrei quando Giosuè ferma il sole e la luna (X.3). Questa umanità si esprime a volte con la mobilità dei volti, ma soprattutto con i movimenti del corpo. Sovente, in un dialogo, un personaggio punta il dito e i protagonisti hanno le braccia aperte, con varianti che permettono di meglio penetrare le diverse psicologie: meraviglia e stupore della figlia del Faraone e delle sue ancelle (VIII.1); delusione e smarrimento di Esaù (V.4); stupore e disappunto di Abimelech (V.2); sorpresa, dubbio e riflessione del Faraone che, con un dito sulla bocca, segue parola per parola il discorso di Giuseppe (VII.4). L’Incontro di Abramo e Melchisedech (IV.1) è ritmato da uno dei figuranti, pronto a battere le mani con furore bacchico. Spesso i personaggi si muovono con passo cadenzato, e gli episodi si succedono come altrettante azioni sceniche, nelle quali i sentimenti dei solisti si ripercuotono su chi li ascolta, i cui gruppi sono orchestrati come in un coro. I fratelli di Giuseppe, che gli si affollano intorno, sono attenti al suo discorso e lo commentano sottovoce; il popolo di Mosè, ricevendo le Tavole della Legge, esalta la missione del patriarca.

Questa impressione di spettacolo non è probabilmente casuale. All’inizio del XVI secolo conoscono grande successo nelle corti italiane i balli mascherati. Già Lorenzo de’ Medici aveva unito le Sacre rappresentazioni ai trionfi pagani. Se Peruzzi appare come lo specialista indiscusso delle messinscena, il mondo del teatro non è estraneo a Raffaello che, in occasione del carnevale del 1519, allestisce in Castel Sant’Angelo i Suppositi di Ariosto. Nei cartoni per gli arazzi in particolare aveva presentato gli apostoli come se si trovassero su un palcoscenico: la stessa cosa accade nelle Logge, anche se con un tono più familiare. A un tale effetto contribuiscono i costumi. L’umanità della Bibbia è abbigliata all’antica, tuttavia senza la minima pretesa archeologica, e i mantelli in cui sono avvolti i personaggi si mescolano ad abbigliamenti più modesti, con maniche o semplici cappucci, sempre però fuori dal tempo. Quando una figura si distingue per il copricapo che richiama un petaso, o quando porta delle brache alla moda dei barbari, non vi è nulla di realistico. Alcune notazion, è vero, sono in contrasto con questa tendenza. Se Rebecca, quando prende le parti di Isacco (V.3), ha un grande cappello, una sorta di “mazzocchio” derivato, pa-

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Fig. 80. Venere accovacciata (cfr. tav. 141), copia romana di un bronzo ellenistico. Londra, British Museum (in prestito dalla Royal Collection). Fig. 81. Trionfo di Tito (cfr. tav. 142), bassorilievo. Roma, Arco di Tito.

re, dalla Battaglia di Anghiari, subito dopo, quando sopraggiunge Esaù, ha sul capo un semplice fazzoletto e sul petto uno scialle da contadina (V.4) che contrasta con l’abbigliamento della scena precedente; nel Roveto ardente (VIII.2) Dio indossa una modesta camicia con le maniche leggermente rimboccate, assolutamente estranea al suo abbigliamento consueto: semplici anomalie dovute agli esecutori degli affreschi sfuggite al controllo della bottega87. Il mutamento di tono che caratterizza la Bibbia di Raffaello è favorito anche dalle spettacolari messinscena: Dio appare ad Abramo in una tempesta di nubi minacciose (IV.2); Isacco e Rebecca si abbandonano alla tenerezza al chiaro di luna, in un cortile rinfrescato dai delfini di una fontana mentre, per aumentare la tensione, dall’alto li sorprende Abimelech (V.2); quando Giuseppe è inseguito dalla moglie di Putifarre, la scena si svolge presso un’alcova dai pesanti tendaggi rossi (VII.3). Non si risparmia nulla pur di impressionare. Cosa di più parlante della discussione tra Isacco e Labano (VI.3), cosa di più grandioso del Passaggio del Mar Rosso (VIII.3), dove la diagonale delle onde spumeggianti sigilla la disfatta degli Egiziani e la salvezza del popolo eletto, cosa di più visionario della solitudine di Mosè sulla cima del Sinai, di fronte a Dio e agli angeli (IX.1)? In ognuna delle tredici volte delle Logge i quattro riquadri attirano tanto più l’attenzione in quanto sono immersi nella natura, di più: in una natura familiare. Raffaello non ha mai trascurato il paesaggio, nelle sue opere circola

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sempre l’aria. Uno dei precedenti degli sfondi della Bibbia è forse il brano dossesco della Madonna di Foligno, che sembra già tradire l’attenzione alla tecnica “compendiaria”. Nella Stanza di Eliodoro, forse attraverso Sebastiano del Piombo, forse anche attraverso Giovanni da Udine, o Agostino Veneziano, l’influenza veneziana prevale nella prima evocazione puramente romana che il maestro ha lasciato, il cielo infuocato dell’Attila e Leone Magno dove il Colosseo, la Meta Romuli, l’acquedotto e la basilica che spiccano in lontananza non sono semplici citazioni topografiche, ma tradiscono l’emozione di chi ha passeggiato fra le vestigia antiche senza essere indifferente alla natura. Occorre tener conto anche dei primi dipinti degli allievi. Sullo sfondo della Madonna del diadema piccole sagome passeggiano chiacchierando tra rovine in tutto e per tutto romane88. L’evocazione più straordinaria è quella della riva su cui si arena Mosè salvato dalle acque (VIII.1). Il Nilo dove il bambino viene raccolto, come il fiume che scorre dietro ad Abramo e Melchisedech (IV.1), non è altro che il Tevere a monte di Roma, con le capanne abbarbicate alle colline, come si potrebbero ancora vedere. Un’altra visione si ha nell’Apparizione di Dio a Isacco (V.1), dove i cespugli invadono vecchie mura. Nel vano di una porta di una città illuminata dagli ultimi bagliori del tramonto, si staglia una sagoma immobile, che evoca una divinità antica. Altri paesaggi più lievi, nelle ultime campate della galleria, derivano soprattutto dalla pittura romana. È vero che una diversa natura si dispiega nell’Incontro di Rachele e Gia-

Figg. 82-84. Albert Dürer, San Girolamo (fig. 82), L’Invidia (fig. 83), Mostro marino (fig. 84)(cfr. tav. 120). Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinet.

cobbe al pozzo (VI.2) e nel Mosè che percuote la roccia (VIII.4), dove le rupi scoscese, ricoperte di abeti, fanno pensare alle Alpi, e non possono essere state dipinte dal vivo: la prima scena deriva da tre stampe di Dürer poste in sequenza, l’Invidia, il San Gerolamo e il Mostro marino; la seconda dal Sant’Eustachio, ma si tratta di casi eccezionali. Gli eroi della Bibbia sembrano quasi sempre aggirarsi a Roma o nei dintorni. Tali impressioni, è vero, non si debbono più a Raffaello in persona. I disegni delle storie, derivati dalle idee del maestro, presentano pochi accenni di paesaggio89: le aperture sulla natura sono state improvvisate nella stesura pittorica, e rivelano l’intervento degli aiuti. Ciò non impedisce che, per il visitatore della galleria, l’unità del racconto abbia la meglio, e i campi o i bo-

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schi nei quali le figure si muovono siano quelli della campagna romana: ben prima di Claude Lorrain e di Poussin compare nella Bibbia di Raffaello il paesaggio en plein air. Racconto sfrondato, sereno e limpido, linguaggio all’antica e attenzione alle fonti cristiane più antiche, addirittura paleocristiane, gestualità teatrale, semplicità dei costumi, effetti spettacolari, immersione nella natura: tutti elementi basati su una ricchezza d’informazione infinita. Paradossalmente questa saturazione di cultura è stata decantata fino ad offrire un racconto in apparenza umile e popolare, quasi una Biblia pauperum. Molto più che da Mantovano, Sannazaro o Vida, il ritorno alla Chiesa primitiva è stato avviato da Raffaello, e per secoli è stata la sua Bibbia ad imporsi.

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CAPITOLO TERZO

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Fig. 85. Ugo da Carpi (?), Creazione di Eva (II.1)(cfr. tav. 103 e fig. 74), copia di un disegno preparatorio, tracce di matita nera, penna, inchiostro bruno, 224 x 184 mm. New York, Metropolitan Museum of Art, inv. 11.66.11.

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Fig. 86. Giacobbe chiede in sposa Rachele (VI.3)(cfr. tav. 121 e fig. 75), copia di un disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, 163 x 276 mm. Monaco, Staatliche Graphische Sammlung, inv. 2465.

Nelle Logge, che mantengono il suo nome, Raffaello ha progettato tutto: dall’architettura interna alla decorazione alle storie bibliche. Lui solo era dotato di un tale equilibrio e di una tale ricchezza d’invenzione; lui solo era in grado di sostenere, con tanta chiarezza, e al tempo stesso varietà, il tono del racconto. Ma nelle Logge Raffaello non ha dipinto. Per comprendere come abbia diretto il cantiere occorre innanzitutto tornare a Vasari, che scrive: «Raffaello fece i disegni degli ornamenti e delle storie che vi dipinsero, e similmente de’ partimenti; e quanto allo stucco et alle grottesche fece capo di quella opera Giovanni da Udine, e sopra le figure Giulio Romano, ancora che poco vi lavorasse, così Giovanni Francesco, il Bologna, Perino del Vaga, Pellegrino da Modena, Vincenzio da San Gimignano e Polidoro da Caravaggio, con molti altri pittori che feciono storie e figure et altre cose che accadevano per tutto quel lavoro»1. Il gruppo non era però per nulla limitato a Giovanfrancesco Penni, Giulio Romano, Giovanni da Udine, Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio, i cinque allievi celebri. Per conoscerne la composizione e comprenderne il funzionamento occorrerà identificare gli altri collaboratori: non solo quelli menzionati da Vasari, ma anche i «molti altri pittori» di cui non fornisce il nome, risalendo talvolta ai primi anni romani di Raffaello, quando il maestro aveva cominciato a reclutare questi dimenticati della bottega. I disegni per le Logge dovettero essere moltissimi. Tenendo conto delle copie di progetti perduti, se ne con-

servano meno di una quarantina: nessuno per l’architettura e la disposizione generale, pochissimi per l’ornamentazione – benché resti il ricordo di un gruppo importante, su cui occorrerà tornare –, molti per la Bibbia, nella quale Raffaello è intervenuto più da vicino, altri per le grisaille del basamento2. Probabilmente il maestro aveva fissato le composizioni della Bibbia per mezzo di piccoli schizzi a penna, oggi perduti3, sviluppati poi con l’aiuto degli allievi. A tale stadio appartengono le copie del progetto per la Creazione di Eva (II.1) e Giacobbe che chiede in sposa Rachele (VI.3), ed anche un disegno, talvolta ritenuto un originale, per il combattimento tra Davide e Golia (XI.2). L’impiego di un materiale tenero come la matita nera può costituire un ostacolo nel decidere dell’autografia di un foglio. Quando, d’altra parte, le copie sono dovute a un allievo che interviene nell’esecuzione dei dipinti, e sono preparatorie a questo ulteriore stadio, perdono d’inerzia e acquistano in creatività. Il disegno per il Davide e Golia (XI.1) consente di osservare, senza affrontare per il momento il problema dell’autografia, come Raffaello procedesse, definendo innanzitutto il gruppo principale, in questo caso a partire da Michelangelo, con numerosi pentimenti: Davide teneva la testa più bassa, di profilo sotto le braccia alzate, e Golia giaceva sotto lo scudo, come poi ritorna nell’affresco. In primo piano, una figura fugge volgendo la testa: studiata in abbigliamento contemporaneo, dal vivo – probabilmente un garzone di bottega –, si trasformerà in un soldato con l’armatura.

Tav. 154. Perin del Vaga, Mosè riceve le Tavole della Legge (IX.1)(cfr. tav. 131), disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, rialzi in lavis e bianco, 255 x 279 mm, quadrettato a matita nera. Parigi, Museo del Louvre, Département des arts graphiques, inv. 3849.

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A sinistra s’intravede un’altra sagoma che s’allontana a grandi passi, poi soppressa. In una xilografia di Ugo da Carpi, tratta probabilmente da un ulteriore progetto di Raffaello, Golia non ha ancora perso del tutto le forze, mentre più lontano, per rendere l’idea della battaglia, altri soldati sono stati aggiunti davanti alle tende. È però difficile stabilire se queste modifiche siano da riferire al maestro oppure siano dovute a un allievo. Cambiamenti conclusivi saranno introdotti al momento del trasferimento in pittura, quando il gruppo verrà invertito, forse per evitare una ripetizione rispetto al Giosuè che ferma il sole e la luna (X.3), dove si presenta nello stesso senso che nella Cappella Sistina. Se il foglio per il Davide e Golia (XI.2) è l’unico del suo genere che rimanga per le Logge, è probabilmente perché nelle grandi collezioni di disegni, formatesi nel XVII e XVIII secolo, gli schizzi erano meno apprezzati dei disegni finiti, quadrettati per essere ingranditi e servire alla preparazione dei cartoni. Di questi disegni finiti, che si è convenuto di chiamare “modelli” – da non confondere con i prototipi utilizzati per mettere a punto la composizione –, si sono conservati, a patto di includervi alcune copie, più di una ventina di pezzi per la Bibbia di Raffaello e circa una dozzina per le grisaille del basamento. Sono eseguiti nella maggior parte a matita nera e a penna, con acquarellature e rialzi a biacca, ad eccezione di alcuni solo a penna. Questi disegni erano in passa-

Tav. 155. Perin del Vaga, David e Golia (XI.2) (cfr. figg. 32, 59 e 60 e tav. 140), disegno preparatorio, matita nera, 243 x 321 mm. Vienna, Albertina, inv. 178.

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to considerati opera di Raffaello, ma già Cavalcaselle, Dollmayr e Fischel, tra gli altri, li hanno riconosciuti come prodotti della bottega4. Il loro studio è stato intrapreso più volte, in particolare da Philip Pouncey e John Gere nell’esemplare catalogo, pubblicato nel 1962, dei disegni di Raffaello e della sua cerchia conservati al British Museum5. I due studiosi vi accostano altri fogli, eseguiti nella stessa tecnica, preparatori tra l’altro per le grisaille della Stanza della Segnatura, per i cartoni degli arazzi, per la Stanza dell’Incendio di Borgo, la Sala dei Palafrenieri e quella di Costantino. Nel modello per la Pesca miracolosa è significativo che il progetto non comprenda i pesci nella barca e quelli nell’acqua: Raffaello e Penni li hanno lasciati all’iniziativa di Giovanni. Lo stesso accade per gli strumenti musicali nel modello per la Santa Cecilia. Messa da parte l’autografia di Raffaello, i disegni sono stati attribuiti a Giulio Romano, Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio, ipotesi abbandonate man mano che progrediva la conoscenza di questi artisti. Considerato che l’autore dei fogli doveva essere stato a stretto contatto di Raffaello, Pouncey e Gere hanno proposto di restituirli all’allievo che, tra i collaboratori del maestro, resta il meno conosciuto, Giovanfrancesco Penni. Poiché serviva a Raffaello da uomo di fiducia, quasi da segretario, era soprannominato “il Fattore”, cioè l’esecutore, il factotum. Vasari, nella Vita di Raffaello, lo ricorda tra coloro che lavorarono alle Logge, ag-

Fig. 87. Giovanfrancesco Penni, Cacciata dal Paradiso (II.3) (cfr. tav. 105 e fig. 61), disegno preparatorio, matita nera, tracce di penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco dilavati, 243 x 278 mm, quadrettato a matita nera. Windsor Castle, Royal Library, inv. 12729. Riprodotto per gentile concessione di S.M. la Regina Elisabetta II.

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Fig. 88. Giovanfrancesco Penni, Separazione della luce e delle tenebre (I.1)(cfr. tav. 99), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 188 x 203 mm, quadrettato a matita nera. Londra, British Museum, inv. 1900-8-24-109.

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giungendo poi, in quella a lui dedicata: «Giovanfrancesco [...] imitò nei suoi disegni la maniera di Raffaello e quella osservò del continuo, come ne possono far fede alcuni suoi disegni che sono nel nostro libro. E non è gran fatto che molti se ne veggiano, e tutti con diligenza finiti, perché si dilettò molto più di disegnare che di colorire»6. Molti di questi fogli formano effettivamente un gruppo omogeneo, compatibile con i rari dipinti che si sono potuti attribuire a Penni. Konrad Oberhuber ha ripreso in seguito la questione, a Vienna, in un articolo; poi nel 1972 nel corpus dei disegni di Raffaello, i cui primi otto tomi sono stati curati da Oskar Fischel. L’intenzione di Oberhuber era di portare a termine l’opera con le quattro parti mancanti, ma è stato pubblicato solo il tomo IX, dedicato ai fogli del maestro e della bottega per il Vaticano, gli affreschi e i cartoni per gli arazzi7. Egli seguiva la linea di Pouncey e Gere, mostrandosi già però un po’ più generoso nei confronti di Raffaello, al quale restituiva tra l’altro il modello per il Mosè che riceve le Tavole della Legge (IX.1), disegno di innegabile qualità sul quale occorrerà tornare. Si soffermava anche sull’attribuzione a Penni del modello di Windsor Castle per la Cacciata dal Paradiso (II.3), riprendendo la tesi a suo tempo proposta da Ruland, bibliotecario del principe Alberto, marito della regina Vittoria, che era giunto a una conclusione sconcertante. Secondo Ruland il disegno a penna, con acquarellature e rialzi a biacca, era stato aggiunto dalla bottega, mentre il tracciato preparatorio a matita nera, che si intravedeva al disotto, era di Raffaello. Una tale conclusione aveva portato il novello Viollet-le-Duc a cancellare dal foglio quanto riteneva non appartenere al maestro – operazione definita da Pouncey e Gere un disastro. Oberhuber attribuisce di nuovo a Raffaello il progetto per il Davide e Golia (XI.2), poi diviene ancora più ottimista. Se nel volume collettivo sui disegni di Raffaello, pubblicato dall’Albertina nel 1983 in occasione dei cinquecento anni della nascita del maestro, al quale ha collaborato, si limita ancora a restituirgli i tre disegni menzionati, cambia in seguito opinione, insinua nel 1987 un dubbio in John Gere e lo convince che molti modelli potrebbero essere di Raffaello; impone il punto di vista nel suo ambiente, poi lo esprime a sua volta, dando il via a un movimento sempre più generale di ritorno al nome del maestro, per finire col restituirgli, nel 1999, un’infinità di modelli per la Bibbia e le grisaille del basamento,

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gonfiando sempre più il suo corpus fino a inserirvi opere di Giulio Romano e Perin del Vaga, oltre a numerose copie8. Il tratto a matita nera del disegno di Windsor non è però autografo, e a ragione Pouncey e Gere non vi scorgevano nulla che lo differenziasse dagli altri modelli. Oberhuber stesso ha esitato a lungo. Se nel catalogo del suo volume del 1972 classifica il foglio sotto il nome di Raffaello, nel saggio introduttivo, quando descrive lo stile di Penni, che definisce «il maestro dal bel tratto», lo restituisce a questo artista, precisando: «Benché l’autore sia stato a lungo del parere che il disegno a matita nera fosse di Raffaello, ora tende a sostenere l’opinione appena avanzata. A favore del maestro dei fogli di Vienna giocano molti particolari della stesura, qualcosa nella forma della testa di Eva e nella sua espressione, la sua mano sinistra, le cui dita sono prive della minima forza, i capelli dell’angelo, circondati da una serie continua di semicerchi a forma di ghirlanda, come lo stesso ductus della sua veste». E conclude: «Tutto ciò corrisponde alla maniera fluida del maestro dal bel tratto discusso più sopra, e non a Raffaello, il cui disegno è più aspro, ma più preciso. Nel modo di sottolineare le forme, i ghirigori sono qui puramente superficiali e non aggiungono nulla alla descrizione del movimento né al carattere dei bordi del tessuto»9. Questa lettura non ha perso nulla della sua finezza né della sua aderenza alla realtà. Il gruppo costituito da Pouncey e Gere resta valido per buona parte dei dipinti delle Logge, e l’attribuzione a Penni, che spetta loro, rimane la soluzione migliore, avendo permesso di fare molti progressi nella conoscenza della bottega di Raffaello. Un ritorno a questo nome, dopo Oberhuber, si è avuto nel 1999 con Martin Clayton a Windsor Castle10. Nella prima volta i modelli per i primi affreschi – la Separazione della luce dalle tenebre (I.1), la Separazione della Terra dalle acque e la Creazione delle piante (I.2) – presentano in effetti le caratteristiche più significative di Penni: il gioco elegante, benché poco definito, delle pieghe; i corpi quasi inesistenti sotto i panneggi; il disegno corretto, ma privo di vita. Identiche considerazioni si impongono per i modelli delle scene successive, il Sacrificio di Noè (III.4), l’Abramo e gli angeli (IV.3), la Fuga di Lot e delle sue figlie (IV.4), la Promessa di Dio ad Isacco (V.1), l’Isacco che rifiuta la benedizione ad Esaù (V.4), la Scala di Giacobbe (VI.1), l’Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2) e il Mosè salvato dalle acque (VIII.1). Penni doveva essere preziosis-

Fig. 89. Giovanfrancesco Penni, Separazione delle acque e della terra e Creazione delle piante (I.2)(cfr. tav. 100), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 234 x 201 mm, quadrettato a matita nera. Parigi, Museo del Louvre, Département des arts graphiques, inv. 3893.

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simo per Raffaello nello sviluppare fedelmente i progetti che il maestro gli affidava, e deve aver svolto questo ruolo in più della metà della galleria. Ma non era un creatore. Se ci si pone all’inizio delle Logge volgendosi indietro verso le volte, i riquadri che si offrono allo sguardo si impongono per il loro colorito vivo, i volumi francamente definiti e l’intensità drammatica del racconto, a conferma della notizia data da Vasari che per la loro esecuzione Raffaello si era servito di Giulio Romano. All’inizio ha dunque affidato le storie bibliche ai suoi due primi discepoli. Penni nasce a Firenze nel 1496, e Vasari riferisce che entra ancora bambino nella bottega di Raffaello11. Quanto a Giulio Romano – il cui vero nome era Giulio Pippi –, si sa solo che è nato a Roma tra il 1492 e il 1499, probabilmente molto prima di questa data-limite – e non si è persa l’occasione di sottolineare che è l’unico artista del Rinascimento ad esservi nato. Vasari, che lo ha conosciuto a fondo a Mantova, inizia il racconto della sua vita attribuendogli ogni virtù. Anche lui deve essere entrato molto giovane nella bottega, al tempo della Stanza della Segnatura (1508-11). Sempre Vasari racconta che Raffaello fece ricorso a lui soprattutto nella terza stanza, quella dell’Incendio di Borgo (1514-17), e nella Loggia di Psiche alla Farnesina (1518), per la quale dovette intervenire già nei disegni. Giulio collaborò anche a molti quadri di Raffaello; si affermò inoltre come architetto e, a detta di Vasari, il maestro, anch’egli architetto, gli insegnò a «tirare in prospettiva, misurare gl’edifizi e levar piante»12. Nei loro studi su Raffaello e la sua bottega sia Pouncey e Gere sia Oberhuber sono partiti dai disegni e non dagli affreschi, di cui si sono occupati meno. Ora, se si vuole procedere oltre con la ricerca è proprio a questi ultimi che occorre tornare, confrontandoli, quando possibile, col modello e analizzandoli non solo singolarmente, ma anche nell’ambito di ciascuna volta e nell’insieme della galleria. Quando, esaminando gli affreschi, si crede di poterne riunire diversi per formare gruppi dovuti alla stessa mano, e si è poi costretti a fare marcia indietro perché alcuni elementi contraddicono l’ipotesi, ciò significa che vi hanno lavorato due artisti. E non necessariamente secondo i criteri della specializzazione, come si è a volte ipotizzato, attribuendo ad esempio a uno le figure e a un altro il paesaggio, ma solo perché un secondo pittore ha preso il posto del primo.

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Fig. 90. Giovanfrancesco Penni, Sacrificio di Noé (III.4)(cfr. tav. 110), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 206 x 229 mm, quadrettato a matita nera. Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinet, inv. KdZ 16354. Fig. 91. Giovanfrancesco Penni, Fuga di Lot e delle figlie (IV.4)(cfr. tav. 114), disegno preparatorio, matita nera, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco ossidati, 175 x 225 mm, quadrettato a matita nera. Muncie (Indiana), Ball State Teacher’s College, Art Gallery. Fig. 92. Giovanfrancesco Penni, Isacco rifiuta la benedizione a Esaù (V.4) (cfr. tav. 118), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 254 x 283 mm, quadrettato a matita nera. Oxford, Ashmolean Museum, inv. II 574.

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A fronte: Tav. 156. Giovanfrancesco Penni, Visita dei tre angeli (IV.3) (cfr. tav. 113), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 187 x 236 mm, quadrettato a matita nera. Vienna, Albertina, inv. 171. Tav. 157. Giovanfrancesco Penni, Promessa di Dio a Isacco (V.1)(cfr. tav. 115), disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco parzialmente ossidati, 176 x 232 mm, quadrettato a matita nera. Stoccarda, Staatsgalerie, Graphische Sammlung, inv. C 96/4478.

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Tav. 158. Giovanfrancesco Penni, Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2)(cfr. tav. 120), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 208 x 243 mm, tracce di quadrettatura a matita nera. Vienna, Albertina, inv. 173.

Tav. 159. Guglielmo di Marcillat, Roveto ardente (VIII.2)(cfr. tav. 128), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 219 x 330 mm, quadrettato due volte a matita nera. Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 1222 E.

Fig. 93. Giovanfrancesco Penni, Sogno di Giacobbe (VI.1)(cfr. tav. 119), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 199 x 263 mm, riquadrato con matita nera. Londra, British Museum, inv. 1860-6-16-82.

Fig. 94. Giuseppe racconta i suoi sogni ai fratelli (VII.1)(cfr. tav. 123), copia di un disegno preparatorio di Giovanfrancesco Penni (?), penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 228 x 322 mm. Vienna, Albertina, inv. 175.

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Fig. 95. Giovanfrancesco Penni, Mosè salvato dalle acque (VIII.1)(cfr. tav. 127), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 235 x 300 mm, quadrettato a matita nera. Londra, Victoria and Albert Museum, Dyce Collection, inv. 185. Fig. 96. Mosè mostra le Tavole della Legge (IX.4)(cfr. tav. 134), copia di un disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 247 x 302 mm. Parigi, Museo del Louvre, Département des arts graphiques, inv. 3913. Fig. 97. Polidoro da Caravaggio, Attraversamento del Giordano (X.1)(cfr. tav. 135), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, forse ripassati da Michel II Corneille, 187 x 256 mm. Parigi, Museo del Louvre, Département des arts graphiques, inv. 9315. Fig. 98. Perin del Vaga, Divisione della Terra Promessa (X.4)(cfr. tav. 138), disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, 203 x 297 mm, quadrettato a matita nera. Windsor Castle, Royal Library, inv. 12728. Riprodotto in gentile concessione di S.M. la Regina Elisabetta II. Fig. 99. Perin del Vaga, Trionfo di Davide (XI.4)(cfr. tav. 142), disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, 262 x 398 mm, quadrettato a matita nera. Budapest, Szépmıvészeti Múzeum, inv. 2194.

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Pagine seguenti:

Tav. 160. Bartolomeo di David, Passaggio del Mar Rosso (VIII.3)(cfr. tav. 129), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 200 x 286 mm, quadrettato a matita nera. Parigi, Museo del Louvre, Département des arts graphiques, inv. 3850.

Tav. 161. Tommaso Vincidor, Mosè percuote la roccia (VIII.4)(cfr. tav. 130), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 219 x 330 mm, quadrettato due volte a matita nera. Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 509 E. Tav. 162. Bartolomeo di David (?), Adorazione del vello d’oro (IX.2)(cfr. tav. 132), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco parzialmentre ossidati, 245 x 380 mm, tracce di doppia quadrettatura a matita nera. Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 510 E.

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Fig. 100. Perin del Vaga, Davide e Betsabea (XI.3)(cfr. tav. 141), disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 215 x 267 mm, quadrettato a matita nera. Londra, British Museum, inv. 1900-6-11-2. Fig. 101. Pellegrino da Modena, Giudizio di Salomone (XII.2)(cfr. tav. 144) , disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 202 x 279 mm, tracce di quadrettatura a matita nera. Parigi, Museo del Louvre, DĂŠpartement des arts graphiques, inv. 3921. Fig. 102. Anonimo, Adorazione dei Magi (XIII.2)(cfr. tav. 148), copia di un disegno preparatorio, matita nera, penna, inchiostro bruno, lavis e rialzi in bianco, 203 x 316 mm. Oxford, Ashmolean Museum, inv. II 656. Fig. 103. Raffaellino del Colle, Battesimo di Cristo (XIII.3)(cfr. tav. 149), copia di un disegno preparatorio, penna, inchiostro bruno, 198 x 385 mm. Londra, British Museum, inv. 1861-6-8-150.

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Fig. 104. Giovanfrancesco Penni, Incoronazione della Vergine detta di Monteluce, olio su tavola, particolare della metà inferiore. Città del Vaticano, Pinacoteca. A fronte: Tav. 163. Giovanfrancesco Penni, Visita dei tre angeli (IV.3), particolare.

Il primo affresco, con la Separazione della luce dalle tenebre (I.1), irradia una potenza che manca al modello. Dio è grave; il suo vigore si percepisce fin nelle onde della capigliatura, il gesto è risoluto, la gamba preme contro il drappeggio che è molto teso e lascia spuntare il ginocchio: è Giulio qui che dà il tono. Al contrario, nella Separazione della terra dalle acque e nella Creazione delle piante (I.2), la mancanza di vita corrisponde a quella del modello: l’autore del disegno, Penni, è lo stesso dell’affresco. Vasari d’altra parte afferma che Penni fece proprio nelle Logge il suo debutto come pittore. Per ritrovare nelle storie della Bibbia la mano di Giulio e quella di Penni occorre innanzitutto decidere a quali opere appoggiarsi tra quelle eseguite dai due allievi subito dopo la morte di Raffaello. La prima da considerare è l’Incoronazione della Vergine di Monteluce, nella quale Giulio è autore della metà superiore e Penni di quella inferiore13. Quest’ultima rivela tutte le caratteristiche più sopra definite di Penni e consente di giudicare le sue qualità di paesaggista, già riconosciute da Vasari14. Lo squarcio nel quale domina all’orizzonte, nella zona inferiore, il tempio della Sibilla a Tivoli, si distende in colline dolcemente digradanti, ai cui piedi edifici luminosi sono resi con una pittura leggera, “compendiaria”, al di là di

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una vasta distesa d’acqua i cui riflessi scintillano nella cascata. La parte inferiore dell’Incoronazione di Monteluce autorizza a restituire a Penni la graziosissima Madonna del diadema del Louvre, opera in cui le figure sono tutte un po’ leziose, ma il cui paesaggio, con l’evocazione lirica delle rovine argentee animate da silhouettes filiformi, deve aver costituito una novità per la bottega15. I medesimi caratteri stilistici si ritrovano tra l’altro nella Sacra famiglia con san Giovanni di Cava de’ Tirreni. Dopo la morte di Raffaello, Penni non ha fatto, a differenza dei suoi compagni, una carriera brillante; la sua produzione autonoma resta scarsa e controversa. Raggiunse in un primo momento Giulio a Mantova, poi si recò a Napoli, dove si spense, sembra, nel 1528. Si può tentare di identificare la sua parte negli affreschi della Bibbia di Raffaello fondandosi sulle tre opere appena menzionate. Dopo l’intervento nella prima volta, la sua mano si riconosce nella Costruzione dell’Arca (III.2), ma solo per i figli di Noè e per gli arbusti del paesaggio, che sottolinea tutti nello stesso modo, l’uno dopo l’altro, come nell’Incoronazione di Monteluce. L’ossatura dell’Arca, possente struttura che domina la composizione, e la maestosa figura del patriarca rivelano invece la mano di Giulio. Penni deve avere poi dipinto l’Abramo e gli ange-

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Fig. 105. Giulio Romano, Incoronazione della Vergine detta di Monteluce, olio su tavola, particolare della metà superiore. Città del Vaticano, Pinacoteca. Fig. 106. Giulio Romano, Progetto per il monumento funebre di Francesco Gonzaga, disegno. Collezione privata.

li (IV.3), nel suo quieto classicismo di gran lunga la sua opera più bella, e la Promessa di Dio a Isacco (V.1), dove la natura punteggiata di edifici antichi evoca quella della Madonna del diadema. Nella Vita che dedica a Giulio Romano, Vasari accenna a cinque storie che avrebbe dipinto nelle Logge: la Creazione degli animali (I.4), la Creazione di Eva (II.1), la Costruzione dell’Arca (III.1), il Sacrificio di Noè (III.4) e il Mosè salvato dalle acque (VIII.1)16. Queste tradiscono però diverse mani, fatto che non consente di seguirlo nelle attribuzioni. D’altra parte nella Vita di Raffaello Vasari stesso afferma che nelle Logge Giulio ha dipinto poco17. Più dei primissimi interventi a fianco del maestro, e anche di quanto realizzato ancora a Roma poco dopo la sua morte in collaborazione con Penni o altri allievi, come la Sala di Costantino, bastano a definire la sua mano le opere di cui Giulio è unico autore eseguite prima del-

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A fronte: Tav. 164. Giulio Romano, Adorazione del vello d’oro (IX.2), particolare.

la partenza per la corte di Federico Gonzaga a Mantova, nell’ottobre 1524. Oltre alla parte superiore dell’Incoronazione di Monteluce, la Sacra Conversazione Fugger in Santa Maria dell’Anima rivela bene la maestria alla quale è rapidamente giunto, ma anche il suo gusto per le prospettive architettoniche e, nel primo piano, l’interesse per gli oggetti più umili. La sua foga esplode nella Lapidazione di santo Stefano, capolavoro che preannuncia la grandiosità delle composizioni mantovane. Per quanto riguarda gli affreschi si potrebbe partire dal gigantesco Polifemo dipinto a villa Madama. Quanto ai disegni, l’opera che meglio rivela la forza vibrante con la quale definiva le forme è il progetto realizzato nel 1519, sulla base di un’idea di Raffaello, per il monumento funebre in onore di Francesco Gonzaga, padre di Federico18. Nelle Logge, dopo l’affresco iniziale, Giulio è dovuto intervenire, come si è visto, accanto a Penni nella Costruzione dell’Arca (III.1), poi ha dipinto il paesaggio


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Fig. 107. Perin del Vaga, Fondazione del tempio di Giove Capitolino, affresco proveniente da Palazzo Baldassini, particolare. Firenze, Galleria degli Uffizi. A fronte: Tav. 165. Perin del Vaga, Trionfo di Davide (XI.4), particolare.

del Sacrificio di Noè (III.4), ma senza metter mano alle figure. Con le boscaglie dipinte a pennellate veloci, ben diverse dai cespugli accuratamente allineati di Penni, questo paesaggio è identico a quello dell’Incontro di Abramo e Melchisedech (IV.1), nel quale traspare da tutto l’affresco il temperamento appassionato di Giulio. L’Apparizione di Dio ad Abramo (IV.3) è in uno stato troppo misero perché ci si possa pronunciare sull’autore. Spettano però sicuramente a Giulio l’Isacco e Rebecca spiati da Abimelech (V.3), il Giuseppe e la moglie di Putifarre (VII.3) e il Mosè salvato dalle acque (VIII.1), tre delle scene più impressionanti del ciclo. L’ultima, lontanissima dal più banale modello di Penni, è il suo capolavoro, nel quale tutto l’interesse si concentra sul fiume, evocato nella frescura azzurrognola del primo mattino. Si ritrova la mano di Giulio nell’Adorazione del vitello d’oro (IX.2) e nel Mosè che presenta le Tavole della Legge (IX.4). Nell’Adorazione del vitello d’oro (IX.2) non tutto è però opera sua. Il paesaggio e le figure nervose di Mosè e Giosuè sullo sfondo, davanti alle rocce, tradiscono

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la sua sigla, come il gruppo centrale, di forma piramidale, costituito dal vegliardo in abito giallo oro, la madre inginocchiata col bambino e, più in alto, la giovane donna tra due personaggi che indica il vitello d’oro. Il raccordo tra le giornate, che è possibile seguire agevolmente, consente di separare queste figure da quelle, più scialbe, che chiudono la composizione. Se il vecchio si protende con tutte le forze per vedere meglio, quanti stanno dietro di lui e intorno alla statua non reagiscono con lo stesso fervore, mentre il vitello d’oro è instabile sul suo largo piedistallo. Occorrerà precisare l’artista che ne è l’autore. Nelle ultime volte la policromia brillante e fredda di Giulio lascia il posto a tonalità slavate, talvolta traslucide come l’acquarello, calde e dorate, mentre le figure, spesso più numerose, hanno perduto la loro imponenza e sono prese da un ritmo danzante, come se prendessero parte a un balletto: è arrivato Perin del Vaga19. Vasari, che gli era legato da profonda amicizia, si dilunga sui suoi primi anni, piuttosto sfortunati. Perino nasce a Firenze nel 1501. Ancora bambino è messo come garzone tuttofare presso un pittore di livello artigianale, Andrea de’ Ceri; poi a dodici anni entra nella bottega di Ridolfo del Ghirlandaio, figlio di Domenico. Era il periodo in cui i giovani artisti si esercitavano sul cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo: Perino emerge tra questi attirando l’attenzione di un pittore – oggi dimenticato – detto Vaga, allora attivo, sembra, a Tuscania, che si fa cedere il garzone, facendogli balenare la promessa di portarlo a Roma20. A forza d’insistere, questi riesce a farcisi portare e, raccomandato a tutti dal suo maestro, vi diviene Perin del Vaga. Si mette allora a disegnare dall’antico e da Michelangelo alla Sistina, poi, continua Vasari, «fece adunque proponimento di dividere il tempo, la metà della settimana lavorando a giornate, et il restante attendendo al disegno: aggiungendo a questo ultimo tutti i giorni festivi, insieme con una gran parte delle notti, e rubando al tempo il tempo, per divenire famoso e fuggir dalle mani d’altrui più che gli fusse possibile [...] così continuando alle cose antiche di marmo, e sotto terra a le grotte per la novità delle grottesche, imparò i modi del lavorare di stucco e, mendicando il pane con ogni stento, sopportò ogni miseria per venir eccellente in questa professione...». Sentitone parlare, Giulio e Penni lo presentano a Raffaello che, dopo aver visto alcuni suoi disegni, lo prende nella sua squadra alle Logge. E Vasari aggiunge: «in questa compagnia

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fu consegnato Perino a Giovanni da Udine da Raffaello, per dovere con gli altri lavorare e grottesche e storie, con dirgli che secondo egli si porterebbe, sarebbe da Giovanni adoperato»21. Del ciclo biblico Vasari attribuisce a Perino sei storie: le prime tre della vita di Giosuè (X.1, X.2, X.3) e, nell’ultima volta, l’Adorazione dei pastori (XIII.1), il Battesimo di Cristo (XIII.3) e l’Ultima Cena (XIII.4). Il gruppo non è però più coerente di quello che il pittorescrittore attribuisce a Giulio Romano. Quando, dopo aver citato la Caduta di Gerico (X.2), aggiunge «e le altre che seguono dopo», deve citare a memoria. Vasari ricorda come opera di Perino alcune scene a grisaille, scomparse, per il basamento, precisamente quelle relative ad Abramo (IV), Giacobbe (VI), Giuseppe (VII) e Mosè (XII)22. Ma anche qui appare approssimativo, perché termina affermando «e molte altre che non fa mestiero, per la moltitudine loro, nominarle, che si conoscono infra le altre». Per chiarire quanto spetti al giovane fiorentino occorre ancora partire dalla sua produzione successiva alle Logge,

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Fig. 108. Perin del Vaga, Vocazione di Pietro e Andrea, disegno della lunetta perduta di Masaccio nella cappella Brancacci. Monaco, Staatliche Graphische Sammlung.

quando conosce un successo folgorante. Innanzitutto decora con Giovanni da Udine, alla fine dell’appartamento Borgia, la volta della Sala detta dei Pontefici, lasciando intravedere come avrebbe sviluppato l’ornamentazione, quando, a seguito del Sacco di Roma, accetta l’invito di Andrea Doria a recarsi presso di lui a Genova23. Dev’essere stato infatti Perino a fornire la composizione della volta, dove è rappresentata, sembra, la configurazione degli astri al momento della nascita di Leone X, annuncio del destino glorioso che lo attendeva. In seguito, secondo Vasari, Perino avrebbe realizzato una decorazione, perduta, con satiri e baccanti attorno al giardino della casa del vescovo di Nicosia, Livio Podocatari (oggi palazzo Corsetti). Riceve in seguito il prestigioso incarico degli affreschi di palazzo Baldassini24, dipinge ancora ad affresco una cappella in San Marcello e una Deposizione in Santo Stefano del Cacco, e realizza per Santa Maria sopra Minerva la celebre Deposizione dalla croce. Si stava accingendo a lavorare per il cardinale Serra in San Giacomo degli Spagnoli25 e per Gaspare Roist in Santa Maria della Pietà al Camposanto teutonico26, a ciascuno dei quali aveva forni-

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to un progetto, quando nel 1522 parte per Firenze, mentre a Roma nell’agosto scoppia la peste. Poco dopo il suo ritorno, l’anno seguente, Giulio Romano, affermato ormai come pittore e architetto, lascia Roma per Mantova: nulla si oppone più all’ascesa irresistibile del giovane fiorentino. Quanto rimane di questi primi anni di attività autonoma, disegni e dipinti, aiuta a riconoscere l’artista nella bottega di Raffaello, in realtà già prima del cantiere delle Logge, e consente addirittura di riscoprirlo anche in precedenza. Un foglio con la Vocazione di Pietro e Andrea, da una lunetta perduta della Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze, lo mostra mentre si esercita sugli affreschi di Masaccio27. Il foglio non tradisce alcuna eco di Raffaello, e deve precedere l’arrivo di Perino a Roma; non può dunque essere posteriore al 1515, quando aveva tutt’al più quattordici anni. A Firenze non si forma unicamente sul cartone di Michelangelo, e come quest’ultimo studia anche il grande maestro del primo Rinascimento. Con un segno timido e un tratteggio uniforme delinea appena i contorni delle figure, davanti a una barca costruita alla bell’e meglio, in uno spazio senza profondità. Profili e mani restano poco definiti, ma il segno corre già, con scioltezza, e il volto di Cristo ne lascia intuire tutta la finezza. Quando Perino è presentato a Raffaello a Roma, il primo modesto incarico assegnatogli, a prosecuzione dei suoi studi sull’antico, sembra essere stata la copia delle miniature, risalenti alla tarda antichità, del Vergilius Vaticanus, allora nella collezione di Pietro Bembo28. L’obiettivo del ragazzo è certamente di darne delle riproduzioni fedeli, ma davanti a queste opere da cui sono bandite tutte le regole nelle quali si è formato, dalla prospettiva all’anatomia, e dove altre convenzioni, che preannunciano quelle del medioevo, si impongono, le difficoltà saltano agli occhi e il risultato non può che essere ibrido. La sua formazione fiorentina appare altrettanto evidente. “Correggendo” la tendenza alla frontalità dei modelli, articola le figure, le anima e presta loro quell’aria sbarazzina, dal nasino a punta, che le caratterizza. Giovanni da Udine deve averlo arruolato per la decorazione della Loggetta del cardinal Bibbiena: è certo Perino che, sulla parete interna, dipinge con la sua caratteristica nervosità le donne che dipanano e filano la lana, le figure che preparano sacrifici e i vegliardi barbuti che si cimentano sulla corda tesa in compagnia di Amorini29.

Nelle Logge il giovane fiorentino interviene più precocemente di quanto Vasari abbia pensato. Nel Giuseppe venduto dai fratelli (VIII.2) il paesaggio sembra rivelare la sua mano: i cespugli quasi trasparenti, animati da figurette esili, sono identici a quelli delle storie che dipinge più oltre nella galleria e poi a palazzo Baldassini. È in ogni caso Perino che realizza, salvo che per il paesaggio, il Mosè che riceve le Tavole della Legge (IX.1) nella volta successiva. Ora, se si torna al modello dell’affresco, talvolta come si è visto ancora attribuito a Raffaello, si può notare come il maestro non abbia mai disegnato profili simili né mani così quadrate, e come non abbia mai definito con tanta precisione figurette in lontananza. Queste fisionomie, appena caratterizzate dalla linea del naso, sono già quelle della Vocazione di Pietro e Andrea, così come i minuscoli personaggi dello sfondo sono una legione nelle copie del Vergilius Vaticanus. I pentimenti nella posizione delle Tavole della Legge sono poi rivelatori dell’autonomia che Raffaello dovette concedere molto presto all’allievo – e la soluzione adottata, con Dio che le consegna a Mosè, unisce felicemente i due protagonisti. Ciò che il foglio ha di delicato, persino di fragile, potrebbe indicare le ultime esitazioni del nuovo arrivato nel tentativo di avvicinarsi al maestro30. La mano del fiorentino si riconosce anche nella Caduta di Gerico (X.2), nel Giosuè che ferma il sole e la luna (X.3) e nella Divisione della Terra Promessa (X.4), poi in Davide e Golia (XI.2), Davide e Betsabea (XI.3) e nel Trionfo di Davide (XI.4)31: un gruppo improntato a grazia e rigore, sino al sorprendente particolare della figuretta sfumata sul carro di Davide. Tra i modelli di queste storie conservati quelli per la Divisione della Terra Promessa (X.4) e il Trionfo di Davide (XI.4) rompono con la tecnica di Penni. È impiegata solo la penna, senza preparazione a matita nera, né acquarellature né rialzi a biacca. Tutto è rinnovato, in accordo perfetto con l’affresco: deve esserne l’autore sempre Perino. Passando alla pittura, il fiorentino dev’essere partito dai propri disegni. Nel modello per il Davide e Betsabea (XI.3) si mantiene la tecnica tradizionale, ma è sempre lui che deve averlo preparato. Probabilmente gli è stato affidato il disegno finito di tutti gli affreschi delle volte IX, X e XI che ha poi dipinto. Tra modello e affresco non esiste più frontiera, e sempre più frequentemente ne è responsabile un unico artista. Sembra infine che Perino abbia eseguito il disegno per il Davide e Golia (XI.2): la relativa timidezza del tratto si può ancora una volta spiegare con l’atten-

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zione dell’allievo che si sforza di imitare il più esattamente possibile il maestro. Il problema si pone in modo diverso per le storie della volta XIII, resa di difficile lettura dalle cattive condizioni. Nelle composizioni è tuttavia innegabile il ruolo di Perino32. È sempre lui che deve aver ideato nell’Adorazione dei pastori il volo ondeggiante degli angeli, un vero pezzo di bravura che prelude a quanto realizzerà nella Sala dei Pontefici. Per quel che riguarda le grisaille del basamento, molte di quelle note da copie sembrano derivare da sue invenzioni, e il bel modello per la storia di Noè (III) è certamente di sua mano. Insomma, sul finire del cantiere è Perino a dare il tono. Al giovane fiorentino è strettamente legato Polidoro da Caravaggio. Vasari racconta che «... venuto a Roma nel tempo che per Leone si fabbricavano le Logge del palazzo del Papa con ordine di Raffaello da Urbino, portò lo schifo, o vogliam dir vassoio pieno di calce, ai maestri che muravano, insino a che fu di età di diciotto anni». Come molti lombardi, Polidoro è dunque sceso a Roma come apprendista muratore, relegato alle mansioni più umili, ma vedendo i pittori all’opera ha imparato il mestiere, e lo ha assimilato così rapidamente da poter già prendere parte al cantiere. Continua Vasari: «Ma cominciando Giovanni da Udine a dipingerle, e murandosi e dipingendosi, la volontà e l’inclinazione di Polidoro, molto vòlta alla pittura, non restò di far sì ch’egli prese dimestichezza con tutti quei giovani che erano valenti per veder i tratti et i modi dell’arte e mettersi a disegnare [...]. Per la qual cosa, seguitandosi le logge, egli sì gagliardamente si esercitò con quei giovani pittori, che erano pratichi e dotti nella pittura, e sì divinamente apprese quell’arte, che egli non si partì di su quel lavoro senza portarsene la vera gloria del più bello e nobile ingegno, che fra tanti si ritrovasse»33. Si chiamava Polidoro Caldara e divenne Polidoro da Caravaggio dal nome del luogo di nascita – da cui più tardi avrebbe avuto origine Michelangelo Merisi, detto poi semplicemente Caravaggio. Alle Logge era un principiante e il suo bagaglio doveva essere ancora modesto. Non poteva però non conoscere i dipinti che ornavano le chiese del suo paese, e doveva già distinguersi per quell’accento lombardo che non avrebbe mai perduto. Sarebbe nato nel 1500, anche se questa data non poggia su alcun documento, e non è impossibile che avesse uno o due anni in più34. Comunque sia, a diciotto anni è ormai tardi

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Fig. 109. Polidoro da Caravaggio, Studi di figure, alcuni dei quali da progetti per la Bibbia di Raffaello (cfr. tavv. 142-143 e 150), sanguigna, 210 x 125 mm. Washington, Collezione D. Rust.

per imparare la pittura; ma in questo caso i risultati superarono ogni aspettativa. Il primo ciclo che dipinge da solo è, pare, l’affresco con storie di sapienti antichi in palazzo Baldassini, la cui decorazione era stata affidata a Perino35. Al tempo del pontificato di Adriano VI viene incaricato da Gaspar Roist, comandante della guardia svizzera, di dipingere le storie della Passione in Santa Maria in Camposanto teutonico, il cui progetto d’insieme era, come si è visto, di Perino. Quando Polidoro prende il suo posto deve reinventare le scene, restando fedele alle proprie radici lombarde. La Crocifissione, concepita da Perino nello stile dei cartoni per gli arazzi e delle Logge, è profondamente modificata.

Fig. 110. Polidoro da Caravaggio, Figure drappeggiate (cfr. fig. 57), disegno preparatorio per Roboamo che rifiuta d’alleggerire il giogo (?) (XII), sanguigna, 110 x 160 mm. Londra, Wallace Collection, inv. P 775.

La folla dei personaggi forma una massa compatta, e la forza cupa che sprigiona prelude a quella delle opere successive. Il soldato che brutalmente tira per i capelli un Cristo curvo, brandendolo come un trofeo per trascinarlo davanti a Pilato, è preda di un furore degno di Butinone o di Zenale – il grande polittico di questi due artisti si trova ancora a Treviglio, molto vicino a Caravaggio. Nel salone della villa costruita da Giulio Romano per Baldassarre Turini, datario di Leone X, oggi detta Lante dal nome del successivo proprietario, l’Incontro di Giano e Saturno suggella già la reazione di Polidoro al linguaggio classico di Raffaello. Nella prima metà degli anni Venti Polidoro si lega al fiorentino Maturino, proveniente dalla cerchia di Peruzzi. Riprendendo le esperienze fatte da quest’ultimo con i graffiti, ne ricoprono le facciate dei palazzi romani, e raggiungono così la fama. Quasi nulla è rimasto di queste composizioni, che hanno fatto da modello per generazioni di artisti. Verso il 1525-26 Polidoro decora in San Silvestro al Quirinale la cappella del buffone fra Mariano Fetti dove, sotto l’influsso dell’olandese Jan van Scorel, rivoluziona l’arte del paesaggio, limitando i racconti agiografici a scene con minuscole figure tra boschetti ed edifici all’antica36. Dopo il Sacco di Roma e la morte di Maturino, Polidoro darà la misura del proprio talento a Napoli e infine a Messina, dove si stabilisce e muore, pare, nel 154337. Questo rapido esame della sua produzione anteriore al Sacco – molto più vasta in realtà – contribuisce a definire i suoi inizi con Raffaello. Come Perino, deve aver cominciato con Giovanni da Udine nell’appartamento del cardinal Bibbiena, specie nella Loggetta, dove la sua mano si rivela in sottordine nelle grottesche38. Quanto alle Logge, sembra intervenire prima nel Giuseppe venduto dai fratelli (VII.2): la sua maniera si riconosce nelle figure tarchiate che occupano la scena, poste tutte allo stesso livello, in gruppo serrato, a dispetto dell’armonia, ed eseguite a larghe pennellate. Ma il paesaggio rivela, come si è visto, la mano di Perino. Nel Mosé che riceve le Tavole della Legge (IX.1) è Polidoro invece che esegue accanto a Perino il paesaggio. Quando questi passa a dirigere il cantiere e inizia le storie di Giosuè, si nota che non appartiene alle scene da lui dipinte il Passaggio del Giordano (X.1): i soldati tozzi e rigidi, dipinti a grosse macchie di colore, rivelano ancora Polidoro, e anche il modello, realizzato con la tecnica di Penni, sembra spettare a lui – malgrado sia molto logoro e pertanto difficile da giudicare. Forse Polidoro è anche l’autore della Costruzione del tempio di Ge-

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rusalemme (XII.4), ma le condizioni disastrose dell’affresco impediscono anche in questo caso di esprimere un giudizio. Per quanto riguarda il disegno Polidoro continua tuttavia a basarsi su Perino. Una bella sanguigna di sua mano riunisce diverse figure della Bibbia di Raffaello, isolate dal contesto, con alcune varianti rispetto ai dipinti, cosa che fa pensare a una derivazione da disegni preparatori. Nella parte inferiore è riconoscibile il prigioniero che incede del Trionfo di Davide (XI.4), a destra, il sacerdote Zadok dell’Ascesa al trono di Salomone (XII.1), nell’angolo superiore destro, uno degli apostoli dell’Ultima Cena (XIII.4): tre affreschi realizzati quando Perino dirigeva il cantiere; il primo una delle sue opere più belle, gli altri due eseguiti certamente in base a sue indicazioni. Tutto lascia credere che il lombardo si sia esercitato su disegni nei quali Perino sviluppava gli schemi dati da Raffaello. Nel secondo registro si può identificare solo la figura centrale, tratta da uno degli astanti dell’Incontro di Abramo e Melchisedech (VI.2): potrebbe riprendere un disegno di Giulio Romano o uno studio di Perino da Giulio. Polidoro raggiunge il suo stile personale lavorando con Perino alle scene del basamento. Lo schizzo che ha lasciato per tre figure della vita di Salomone è vigoroso ed essenziale. I due più giovani del cantiere, malgrado la differenza di temperamento che li separa, lavorano fianco a fianco, ma ben presto le loro strade si sarebbero divise. Mentre Perino sarebbe diventato l’erede naturale di Raffaello, tutto eleganza39, Polidoro, con la sua veemenza e la sua forza rude, lo avrebbe rinnegato.

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Fig. 111. Polidoro da Caravaggio, Incontro di Giano e Saturno, affresco da villa Lante, particolare. Roma, Palazzo Zuccari (Bibliotheca Hertziana). A fronte: Tav. 166. Polidoro da Caravaggio, Attraversamento del Giordano (X.1), particolare.

Tornando alla prima volta, la scena della Creazione del sole e della luna (I.3) appare nettamente distinta da quelle vicine, presentando le medesime caratteristiche di tre storie più distanti nella galleria, l’Isacco che nega la benedizione a Esaù (V.4), il Roveto ardente (VIII.2) e l’Unzione di Davide (XI.1). L’autore di queste scene presenta una pennellata densa, una gamma di colori contrastanti, senza concessioni al chiaroscuro; dipinge capelli e barbe come una criniera folta, evoca tessuti pesanti con pieghe arrotondate, tubolari, che assomigliano a sai, taglia i profili con la scure, costruisce figure dalle spalle larghe, saldamente piantate a terra. Quando dipinge un paesaggio, schizza per masse sommarie i villaggi abbarbicati sulle colline. A volte rivela un realismo inatteso, in particolare nell’abbigliamento rustico di Rebecca che assiste al colloquio tra Isacco ed Esaù (V.4), e nei mattoni descritti uno per uno dietro a Davide (XI.1) – anche se, in questo caso, è possibile che l’effetto sia stato accentuato dal restauro.

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La distanza che separa questo artista dagli altri componenti del gruppo si spiega facilmente con la tecnica nella quale si era formato, la sua origine straniera e la generazione cui appartiene: si tratta del pittore su vetro Guglielmo di Marcillat, nato a La Châtre, nel Berry, intorno al 1467-70 – e quindi più anziano di Raffaello di oltre dieci anni40. Secondo Vasari, che lo ha frequentato ad Arezzo, era stato coinvolto in un assassinio, e aveva preso poi i voti per sfuggire alla giustizia. Bramante lo aveva chiamato a Roma per impiegarlo come maestro vetraio nei palazzi apostolici insieme a un altro francese di nome Claudio, del quale non resta nulla e che probabilmente morì poco dopo. Il nome di Marcillat compare negli archivi romani nel 1509, quando lascia l’abito domenicano per quello dei canonici regolari di sant’Agostino. Qualche mese dopo gli viene assegnato il priorato di Saint-Thiébaut, non lontano da Verdun, che gli varrà il soprannome di “priore francese” o “priorino”. Viene allora indicato nei documenti come «continuo familiare del papa»41; è probabile che fosse arrivato a Roma da un certo tempo. Le vetrate realizzate per le Stanze di Raffaello sono scomparse, ma quelle con la Vita della Vergine e con la Vita di Cristo, eseguite per Santa Maria del Popolo nel 1508-09, sono ancora al loro posto: anche se deturpate da un restauro radicale nel XIX secolo, rivelano un artista maturo, con una forte intonazione lombarda, dovuta probabilmente all’influenza di Bramantino, che ha forse incontrato a Milano, insieme a ricordi del Ghirlandaio, che devono risalire al suo passaggio da Firenze. Si ritrovano le sue tracce a Cortona nel 1515, quando Silvio Passerini gli commissiona dei graffiti per il suo palazzo, dei quali però non rimane traccia. Altre opere dello stesso periodo, tra cui due vetrate per la cattedrale, rivelano tuttavia a quale arte equilibrata fosse giunto dopo l’incontro con Raffaello. Vasari afferma che Marcillat realizzò anche dipinti a olio, il primo dei quali fu «in San Francesco d’Arezzo, alla cappella della Concezzione [...] una tavola, nella quale sono alcune vestimenta molto ben condotte, e molte teste vivissime e tanto belle, che egli ne restò onorato per sempre»42. Questa grande tela, di più di tre metri di larghezza, che reca tracce di una data – probabilmente il 1518 – e rappresenta la Disputa dei padri della Chiesa sull’Immacolata Concezione43, appare di fatto notevole per le figure vigorosamente caratterizzate e molto francesi, tra cui l’autoritratto utilizzato da Vasari per la biografia dell’artista. Proprio queste teste permettono di restituire al ‘priorino’


Fig. 112. Guglielmo di Marcillat, Giustiniano riceve le pandette da Triboniano, particolare. Città del Vaticano, Stanza della Segnatura. Fig. 113. Guglielmo di Marcillat, Disputa dei padri della Chiesa sull’Immacolata Concezione, particolare con l’autoritratto di Marcillat. Berlino, Staatliche Museen zu Berlin.

A fronte: Tav. 167. Guglielmo di Marcillat, Unzione di David (XI.1), particolare.

Fig. 114. Guglielmo di Marcillat, Creazione d’Eva, particolare. Arezzo, cattedrale, volta centrale.

la scena della Stanza della Segnatura in cui Giustiniano riceve le pandette da Triboniano, affresco che, accanto alla Scuola di Atene, è sempre stato considerato una stonatura per via del suo accento non italiano e per le manchevolezze della tecnica. I dignitari dietro al gruppo dell’imperatore e del giurista, molto fedele al disegno di Raffaello, hanno già i visi larghi propri di Marcillat, di un realismo quasi brutale, evidentemente dei ritratti44. Il francese ricompare nella Stanza dell’Incendio di Borgo – cosa non ancora osservata – nella Giustificazione di Leone III: gli svizzeri nella parte inferiore, pur essendo più vicini a Raffaello, hanno le stesse caratteristiche. Certamente il ‘priorino’ aveva mantenuto rapporti con Roma dove, a partire dall’estate 1517, torna spesso per brevi periodi e dove, nel novembre 1518, affitta in Borgo due stanze che manterrà fino al 152545. Le storie che ha dipinto nelle Logge consentono di seguire le varie tappe della sua conversione a Raffaello. Se, nella prima volta, la conoscenza dell’affresco rimane incerta e, nella quinta, evita ancora di rappresentare il profilo di Esaù, malgrado fosse indicato chiaramente nel

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Fig. 115. Giovanni da Udine, Gatto, disegno sulla copertina del «Libro dei conti» dell’artista, pergamena. Udine, Biblioteca Comunale. A fronte: Tav. 168. Giovanni da Udine, Creazione degli animali (I.4), particolare.

modello, nel Roveto ardente (VIII.4) si mostra più sicuro. Ora, per la prima volta nella galleria, il modello è realizzato a penna, con un tratto spesso e tratteggio largo, elementi estranei entrambi alla maniera di Penni. La perfetta consonanza con i pochi disegni conservati del ‘priorino’ non lascia dubbi: è proprio lui l’autore46. Marcillat si afferma ancor di più nell’Unzione di Davide (XI.1), una composizione più matura. In seguito ricompare alla Farnesina, nella Sala di Alessandro, la camera da letto di Agostino Chigi che doveva essere conclusa in tutta fretta per le nozze del padrone di casa, il 28 agosto 1519: Marcillat vi ha dipinto, accanto ai grandi affreschi del Sodoma, Alessandro e Bucefalo, dove si apre al gigantismo di Michelangelo47. Pur continuando a spostarsi, il ‘priorino’ si stabilisce nel 1519 ad Arezzo48, dove inizia le vetrate della cattedrale, che concluderà nel 152449. Qui molte figure hanno abbandonato i loro paludamenti per abiti contemporanei: tocchi di velluto, camicie con maniche a sbuffo, sciarpe di stoffa o abiti da contadini come quelli dell’Adultera, che richiamano l’abbigliamento di Rebecca nelle Logge. L’artista raggiunge qui una felice sintesi tra la formazione iniziale e la lezione appresa in Italia, risalendo fino a Piero della Francesca, e realizzando il proprio capolavoro. Due anni dopo inizia un grande ciclo di affreschi della Genesi nelle volte della navata maggiore e nei pennacchi della cattedrale. Intendeva proseguirlo nelle volte delle navate laterali, ma ebbe appena il tempo di mettervi mano quando si spense, nel 1529. Si tratta di una delle opere più bizzarre che abbia lasciato un romanista, in cui si sforza di innestare sul Raffaello delle Logge un Michelangelo al limite dell’irrazionale, e ciò senza rinnegare le proprie origini: bene in vista, infatti, firma in latino «GUILLERMUS PETRI DE MARCILLAT PRESBITER GALLUS»50.

gure, si nota che solo quelle dell’Uscita dall’Arca (III.3) sono realizzate con la rapidità che gli è propria – occorrerà tornarci a proposito dei suoi stucchi. Il Dio della Creazione degli animali (I.4) rivela invece una durezza che non è di Giovanni: alla squadra si è aggiunto Pellegrino da Modena. La prima opera nota di questo artista, chiamato anche Pellegrino Aretusi, o Munari, è una Madonna col Bambino fra due santi da lui dipinta a Modena nel 150952. Deve essere dunque nato poco dopo il 1490 – se allora era agli inizi, alle Logge doveva essere sulla trentina. La Madonna col Bambino del 1509 si pone tra Costa e il Francia, con qualche reminiscenza di Bianchi Ferrari53: avrebbe dovuto fare ancora molta strada prima di assimilare Raffaello. Nel 1513 Pellegrino è a Roma, impegnato in modesti lavori per l’incoronazione di Leone X54. Una Madonna col Bambino e santi, dipinta nello stesso anno per Alberico Malaspina Regolo, marito di Lucrezia di Sigismondo d’Este, signore di Carrara, tradisce un primo tentativo di assimilare le novità della Stanza della Segnatura55. Nel 1515 decora un carro per le feste dell’Agone (attuale piaz-

Nelle Logge la Creazione degli animali (I.4) e l’Uscita dall’Arca (III.3) sono attribuite, in tutto o in parte, per il gran numero di animali che comprendono, a Giovanni da Udine. Gli uccelli che fendono l’aria ad ali spiegate, il leone immobile, l’elefante che tasta il terreno con la proboscide – ricordo di Annone –, tutti mostrano tanto la sua competenza in zoologia quanto il suo estro. Le teste dei felini che emergono dal suolo sono vere come quella del gatto sulla copertina del suo libro dei conti51; il liocorno scalpitante e la sirena che emerge dall’acqua rispondono al suo gusto per le favole e per l’antico. Ma se nei due affreschi si osservano le fi-

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Fig. 116. Pellegrino da Modena, Dormizione della Vergine, affresco, particolare. Trevignano, Santa Maria Assunta. A fronte: Tav. 169. Pellegrino da Modena, Giudizio di Salomone (XII.2), particolare.

za Navona)56 ed entra in rapporto con Peruzzi per la costruzione di una cappella in San Rocco57. Nello stesso periodo dipinge ad affresco nella chiesa di Santa Maria Assunta a Trevignano un’altra Madonna col Bambino e santi ispirandosi alla Madonna del pesce di Raffaello, ma senza andare molto oltre la sua prima formazione. Nel 1517 realizza, sempre ad affresco, nell’abside della stessa chiesa la sua opera più ambiziosa: l’Incoronazione e la Dormizione della Vergine, un insieme grandioso che risente sia della composizione di Filippo Lippi per la cattedrale di Spoleto, sia delle scenografie di Peruzzi e delle più recenti creazioni di Raffaello, sino alla Sala dei Palafrenieri58. La Dormizione della Vergine è drammatizzata con la ripresa del tema antico, tramandato dalla Legenda Aurea, dell’ebreo sacrilego che tenta di rovesciare la bara, alla quale restano attaccate le mani, tranciate da un colpo di spada di san Michele arcangelo, e poi risaldate a seguito della sua conversione. Nella pompa dei loro panneggi le figure sono in pose enfatiche e tutto è declamato più che sentito, mentre il dipinto, eseguito con franchezza, è privo di sostanza. Negli anni seguenti Pellegrino riscuote però molto successo a Roma. A detta di Vasari esegue dei graffiti con Polidoro e Maturino59 e dipinge alcuni affreschi in Sant’Eustachio, Sant’Antonio dei Portoghesi e San Giacomo degli Spagnoli, nella cappella del cardinale Serra – l’unico dei suoi cicli ancora visibile, almeno in parte60. Qui l’artista cita alcuni progetti di Raffaello per la Battaglia di Costantino61. A questo punto, però, era passato sotto Perin del Vaga che – come si è visto – è l’autore dell’unico disegno conservato per la cappella62. Sempre al suo fianco dipinge L’eterno Padre benedicente fra due angeli nella villa di Leone X alla Magliana63. Si ritira poi a Modena dove, privo di nuovi modelli, si attiene a un raffaellismo sempre più arcaico. Si tratta comunque di una fase di breve durata. Come riferisce Vasari muore assassinato, mentre le cronache locali precisano che accade nel 1523. La sua arte non ebbe futuro. Il percorso di Pellegrino consente di riconoscere la sua presenza presso Raffaello fin dai cartoni per gli arazzi, dove alcune teste di apostoli in secondo piano rivelano il suo modo caratteristico di definire i volti con pochi tratti duri64. Nel 1516 lavora alle grottesche della Loggetta del cardinal Bibbiena e, nella Stufetta, disegna e dipinge almeno la scena in cui Venere si lamenta delle ferite che le procura Amore65. Può darsi che abbia anche preso parte al cantiere della Stanza dell’Incendio di Borgo. Nelle Logge, dopo il Dio della Creazione degli

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animali (I.4), avviluppato nei panneggi come gli apostoli di Trevignano, lo si riconosce nel Peccato originale (II.2), nel Mosè che percuote la roccia (VIII.4), nel Giudizio di Salomone (XII.2) e nella Visita della regina di Saba (XII.3), dove l’affresco, a parte qualche aggiunta, è così simile al modello da far pensare che anche questo sia opera sua. Non tutto in queste scene è però omogeneo. Nel Peccato originale (II.2) lo scorcio dietro Adamo è molto più cangiante del paesaggio dietro Eva, e simile a quelli della Creazione di Eva (II.1) e della Cacciata dal Paradiso (II.3): Pellegrino è stato sostituito per una giornata da chi dipingeva la scena vicina. Lo stesso compagno si ritrova nel Mosè che percuote la roccia (VIII.4) e nella Visita della regina di Saba (XII.3): sul lato destro dei due affreschi le figure non hanno nulla della magniloquenza di Pellegrino e risultano ben altrimenti caratterizzate. Questo artista che lavora a fianco di Pellegrino si segnala per la qualità del disegno, vicino a Giulio, e per le tonalità cangianti della tavolozza, in particolare nell’evo-

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Fig. 117. Tommaso Vincidor, Circoncisione, particolare. Parigi, Museo del Louvre. Fig. 118. Tommaso Vincidor, Testa femminile, frammento di cartone per l’arazzo della Scuola nuova con la Presentazione al Tempio. Oxford, Christ Church.

cazione della natura. Esegue da solo la Creazione di Eva (II.1), la Cacciata dal Paradiso (II.3), e forse l’Adamo ed Eva al lavoro (II.4) – le condizioni dell’affresco non consentono però di esprimere un giudizio –, poi l’Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2) e Giacobbe sulla via di Canaan (VI.4). Questi due ultimi affreschi, i suoi capolavori, mostrano la predilezione per i panneggi che ricadono in curve sinuose, la sensibilità nella resa dei volti e delle mani su cui la luce indugia, l’attenzione al pelame ruvido degli animali66. Il modello del Mosè che percuote la roccia (VIII.4), che presenta gli stessi caratteri della parte destra dell’affresco, lascia intendere che ne sia anche l’esecutore. Attraverso il confronto con le opere successive, questo pittore può essere identificato con Tommaso Vincidor, il “Bologna” di Vasari, che probabilmente lo indica col nome della città d’origine67. La collaborazione dei due artisti si spiega forse con la comune origine emiliana. Nulla si sa dei suoi esordi. Nel 1520 si reca a Bruxelles, con una lettera di raccomandazione del papa, scritta da Bembo e datata 21 maggio. L’incarico assegnatogli risulta da un’altra missiva che invia l’anno successivo da Bruxel-

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A fronte: Tav. 170. Tommaso Vincidor, Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2), particolare.

les a Leone X: aveva realizzato una serie di disegni con «certi putti che scherzano intorno varii festoni adorni dell’imprese di papa Leone, e di diversi animali ritratti dal naturale». Si tratta dei Giochi di putti, ideati da Giovanni da Udine sulla base di un progetto di Raffaello, per una serie di arazzi perduta, formata da venti pezzi, da collocare nella parte inferiore della Sala di Costantino. Se ne conoscono le composizioni grazie a diversi progetti, copie, e alcuni arazzi più tardi68. Nella lettera a Leone X Vincidor riferisce anche di aver cominciato il disegno per un altro arazzo, un’Adorazione dei pastori per il “letto” di Leone X (cioè il letto d’apparato, che serviva per vestirlo in occasione delle cerimonie): per poterlo completare chiede di ricevere i ritratti del papa e dei cardinali Medici e Cybo. Il disegno di questa Adorazione, con l’aggiunta dei tre ritratti, si è conservato: insieme ai progetti autografi per i Giochi di putti offre un punto di partenza per la ricostruzione dell’opera di Vincidor, al quale si possono aggiungere tre pezzi della stessa mano, un dipinto con la Circoncisione col relativo disegno preparatorio, e il disegno per un’allegoria del Coraggio, incisa da Marco da Ravenna. Il gruppo rivela qualche eco


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dello stile tardo del Francia, forse il suo primo maestro a Bologna69. Vincidor deve aver ricevuto incarichi per altri cartoni, che non si facevano più venire già fatti da Roma. In effetti nuovi arazzi per i palazzi apostolici vennero tessuti a Bruxelles sulla base di disegni raffaelleschi. La serie più importante è quella detta della Scuola nuova, destinata alla Sala del Concistoro, che illustra in dodici pezzi dieci episodi della vita di Gesù70. Dei cartoni che la componevano restano, a parte un pezzo ridipinto, solo frammenti. Almeno quelli relativi alla Presentazione al tempio e alla Strage degl’innocenti rivelano la mano di Vincidor, che ha dunque preso parte alla loro esecuzione. Il bolognese era fermamente intenzionato a tornare a Roma. Nella lettera a Leone X prega il papa di riservargli un piccolo incarico, aggiungendo un post-scriptum che la dice lunga sulla nostalgia che provava: «Io o gran patientia con barbari strani lontani»71. Forse a causa del Sacco di Roma il destino decise però diversamente: Vincidor rimase in Brabante, dove fornì i disegni per altri arazzi. I disegni rimasti per quelli della Storia di Mosé e delle Cinque età della vita rivelano una regressione dell’artista, che non seppe sviluppare né conservare la propria cultura romana72. Nel 1531 lasciò Bruxelles per la corte di Enrico di Nassau a Breda dove, tra l’altro, diede il progetto per la facciata all’italiana del castello. Si spense nel 153673. Quanto si è potuto riunire della sua produzione non solo consente di restituirgli il gruppo qui ricostruito nella Bibbia di Raffaello, ma autorizza anche a ritrovarlo con anticipo nella bottega: è Vincidor che dipinge le piccole scene a grisaille degli sguanci delle finestre nella Stanza della Segnatura, sotto il Parnaso, e nella Stanza di Eliodoro sotto la Liberazione di san Pietro e sotto la Messa di Bolsena: tutte opere che risalgono alla fine del secondo cantiere, nel 1514, in cui sono manifesti i rapporti con alcuni dei Giochi di putti74. Il bolognese si riconosce anche nei cartoni degli Atti degli Apostoli, in particolare in alcuni gruppi di teste in secondo piano, dove ricompaiono le fisionomie che lo caratterizzano. È così anche nella Stanza dell’Incendio di Borgo, nell’Incoronazione di Carlomagno75. Ora, nell’unico documento in cui è menzionato a Roma, il 10 gennaio 1517, Vincidor compare come testimone di un’obbligazione contratta da Raffaello76: in quel momento doveva già essere intimo del maestro. Poco dopo il suo arrivo a Bruxelles, nell’estate 1520, Vincidor si reca in settembre ad Anversa per incontrare

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Dürer e portargli dei doni. Nel corso dei mesi successivi i due si rivedono ancora quattro volte e si ritraggono a vicenda77. Raffaello apprezzava Dürer, al quale aveva già inviato un disegno di sua invenzione, ma l’interesse di Vincidor per il maestro tedesco ha forse un’origine diversa. Se si torna agli affreschi realizzati nelle Logge, nell’Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2) il paesaggio è costituito, come si è visto, da spunti tratti da tre incisioni di Dürer: il San Gerolamo, l’Ercole e il Mostro marino78, abilmente uniti dalla distesa d’acqua che luccica ai piedi delle rocce. È ancora da Dürer che derivano, dietro Giacobbe, i ceppi da cui nascono frasche ondeggianti, tipiche dell’artista bolognese. Anche le montagne scoscese, dominate da una torre gotica, del Mosè che percuote la roccia (VIII.4) sono riprese dal Sant’Eustachio di Dürer, e le cime che s’intravedono nello sfondo dell’allegoria del Coraggio, dalla sua Visitazione. Infine le grisaille dipinte nella parte alta degli sguinci delle finestre della Stanza di Eliodoro, sotto la Liberazione di san Pietro, rappresentano due scene dell’Apocalisse, tratte ancora da sue incisioni79. Forse Vincidor è stato iniziato all’opera di Dürer dal suo concittadino Marcantonio Raimondi, che le aveva copiate in gioventù. Non c’è da stupirsi dunque che non abbia voluto perdere l’occasione di fare la sua conoscenza. Tra le storie della Bibbia che, al di là dell’invenzione raffaellesca, hanno resistito a ogni tentativo di attribuzione, il Diluvio (III.2) manifesta il ricordo di Giulio nella struttura dell’Arca e nei tre gruppi scultorei in primo piano, distinguendosene per un disegno meno sicuro e una stesura pittorica molto “compendiaria”, con violenti contrasti di luce. La medesima maniera si ritrova nelle figure del Sacrificio di Noè (III.4), dove i volumi sono come smussati dallo spessore del tocco e lasciano trasparire un certo accento senese. La si riconosce anche nel Passaggio del Mar Rosso (VIII.3), con l’eccezione, però – se ne tratterà in seguito – del gruppo di figure più nervose che hanno raggiunto la terra ferma, a partire dal giovane con un fagotto sulla testa. L’autore di queste storie ha portato a termine anche l’Adorazione del vello d’oro (IX.2) intorno alle figure di Giulio Romano, e forse ha dipinto la Colonna di nube (IX.3) – l’affresco è troppo deteriorato per consentire un giudizio, ma le figure vicine alle tende e soprattutto le imbarcazioni sul filo della corrente sono molto simili a quelle inghiottite dal Mar Rosso. Sempre lo stesso deve aver fornito il modello del Passaggio del Mar Rosso (VIII.3), dove alla chiarezza del-

la composizione raffaellesca, costruita sulla verticale della colonna e la diagonale del mare che si ritira con la sua scia di schiuma, si oppone l’esecuzione franca, caratteristica, dei corpi in lotta con i flutti, in lontananza semplici segni, quasi dei punti. Il medesimo artista, infine, deve aver eseguito sull’altra parte dell’affresco, solo con tocchi di bianco, il modello per l’Adorazione del vello d’oro (IX.2), le cui figure sono prive della tensione propria di Giulio Romano. È lui, infine, che ha dipinto l’Adorazione dei pastori (XIII.1). Si tratta del senese Bartolomeo di David. Questa personalità, nuova nella storia dell’arte, era nota solo attraverso poche carte d’archivio della sua città natale, quando un documento ha permesso di identificarla con l’autore, nel 1532, di quattro tondi che andavano tradizionalmente sotto il nome di Beccafumi, avviando così la ricostruzione della sua opera80. Bartolomeo di David è stato battezzato a Siena il 5 giugno 1482. Aveva dunque un anno più di Raffaello e, se si eccettua il caso di Marcillat, tra i garzoni della bottega era uno dei meno giovani. Nel 1513-14 lavora, in condizioni di parità con Beccafumi, alla decorazione della cappella del Manto, dove le sue grottesche a grisaille risentono già della maniera rapida, in punta di pennello, del compagno. Poco dopo vanno collocati gli affreschi, oggi staccati, della cappella di villa Francesconi a Castellina in Chianti, dove resta legato allo stile di Beccafumi, ricorrendo a una gamma di toni rosa, bruno e oro. Dopo qualche anno di assenza, Bartolomeo ricompare nella sua città natale nel 1529, quando viene pagato per un “festone” dipinto sull’organo della chiesa dell’ospedale di Santa Maria della Scala. Negli anni Venti partecipa con Girolamo del Pacchia e il Sodoma alla decorazione dell’ex-compagnia di Santa Croce, dove la sua mano si riconosce nella grande parete di fondo. È a Siena nel 1522, poi con maggiore frequenza dal 1528 al 1545, e deve essere morto poco dopo. Le opere degli anni Venti che gli sono state restituite rivelano le influenze congiunte di Peruzzi e Raffaello, e suggeriscono un suo probabile soggiorno romano81. La sua presenza è stata del resto individuata già alla Farnesina: nelle storie di Alessandro commissionate da Agostino Chigi in occasione del suo matrimonio, il 28 agosto 1519, è lui che dipinge la Battaglia di Isso, mentre Marcillat vi esegue la scena con Bucefalo. Come il ‘priorino’, Bartolomeo aveva forse appena lasciato il cantiere delle Logge; si ricorda dei compagni, come Machuca, e riutilizza il gruppo, derivato da quello del Pasquino, che aveva dipinto nel Diluvio (III.2)82.

A partire dalla cappella del Manto, la tecnica deve aver portato il senese a orientarsi verso la pittura antica. Gli sfondi del Diluvio (III.2) e del Passaggio del Mar Rosso (VIII.3) risentono della resa “liquida” dei paesaggi della Domus Aurea, specie nel criptoportico, e non è certo un caso che abbia chiamato Polidoro suo figlio83: forse è sceso nelle grotte in compagnia del lombardo. Si vedrà che nelle Logge ha partecipato anche all’ornamentazione. A Roma è del resto proprio nelle grottesche che Bartolomeo si è rivelato, cosa finora sfuggita agli studiosi. Alla sommità del Palatino, Cristoforo Stati possedeva una piccola villa, che aveva fatto trasformare da Peruzzi. Nella loggia che ne rimane, detta oggi Mattei o Mills, dal nome di due successivi proprietari84, Bartolomeo ha offerto una delle più brillanti interpretazioni della pittura neroniana, in accordo con le vestigia antiche tra le quali sorge l’edificio. La volta, la cui decorazione deve essere stata progettata da Peruzzi a partire dalla Loggetta del cardinal Bibbiena, è ricoperta da grottesche su fondo bianco, con scenette mitologiche su fondo nero, e tutt’intorno i segni dello zodiaco alternati a tempietti ospitanti le Muse, Mnemosyne, la loro madre, Apollo e Atena. Sono questi i dipinti che si prestano meglio al confronto con le storie eseguite da Bartolomeo nelle Logge: basta accostare, ad esempio, il segno dei Gemelli a uno dei figli di Noè, o confrontare, nella scena del Sacrificio (III.4), il viso di Apollo con quelli dei personaggi da lui aggiunti nell’Adorazione del vello d’oro (IX.2)85. La decorazione della loggia Mattei-Mills deve risalire ai primi anni Venti. Poco dopo Bartolomeo lascia Roma, messo in fuga forse, come tanti altri, dal Sacco. Tornato nella città natale, sempre nel 1527 dipinge in palazzo Francesconi una decorazione a grottesche più personale e quotidiana, dove le creature sorridenti delle Logge e i satiri della Domus Aurea coesistono con racemi e mostri arcaici, derivati forse da miniature, mentre putti e Amorini giocano con animali domestici che avrebbero benissimo potuto far parte dello zoo di un Sodoma86. Nei tondi del 1532 i suoi ricordi romani sono però svaniti, e rientra nell’orbita di Beccafumi. L’artista che, al fianco di Bartolomeo, ha dipinto nel Passaggio del Mar Rosso (VIII.3) il gruppo di figure che hanno raggiunto la terra ferma, è l’autore, da solo, di diverse storie del ciclo biblico caratterizzate da elementi comuni a Penni e Giulio, ma che non è stato possibile attribuire a nessuno dei due. È il caso della Fuga di

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Fig. 119. Bartolomeo di David, Gemelli, frammento di affresco proveniente da villa Mattei-Mills, in prestito dal Metropolitan Museum of Art, New York. Roma, Villa Mattei-Mills. A fronte: Tav. 171. Bartolomeo di David, Sacrificio di Noè (III.4), particolare.

Lot e delle sue figlie (IV.4), di Giuseppe che spiega i suoi sogni ai fratelli (VII. 1) e di Giuseppe che spiega i sogni del Faraone (VII.4). L’anatomia più curata dei personaggi, la naturalezza della loro andatura, la finezza della resa ricordano Penni, ma la loro foga evoca Giulio, al quale si oppone però un qualcosa di più lineare e rude. Le figure, immerse in ampie distese piuttosto indistinte, hanno il portamento altero, il profilo diritto, la linea del naso spesso sottolineata da una lumeggiatura chiara. Questi elementi caratterizzano anche alcuni modelli per le grisaille del basamento, almeno quelli per il Miracolo della manna (VIII) e la Risurrezione (XIII), forse anche quelli per l’Assemblea di Sichem (X) e Roboamo si rifiuta di alleggerire il giogo (XII), dove sono tuttavia meno evidenti. L’oscillazione fra il nome di Penni e quello di Giulio riguarda anche altre opere della bottega di Raffaello: tra l’altro – ma ve ne sono ancora – i tre disegni con Evangelisti per la Sala dei Palafrenieri, con i corrispondenti brani di affresco, assegnati generalmente a Penni, benché siano più nervosi; i progetti per la Donazione di Costantino, attribuiti talvolta a Penni, talaltra a Giulio, o ad en-

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trambi, come la Sacra famiglia Spinola, assegnata concordemente a Giulio finché il quadro non è stato messo in relazione con un disegno restituito a Penni, e si è proposto di vedervi un ulteriore caso di collaborazione tra i due artisti87. La stessa personalità si ritrova a Genova nel palazzo di Andrea Doria, per rispuntare poi in Francia con il nome di Luca Penni, fratello minore di Giovanfrancesco (un altro fratello, pure pittore, Bartolomeo, farà carriera alla corte di Enrico VIII, senza lasciarvi apparentemente tracce). Luca nasce probabilmente a Firenze, in una data che abitualmente si colloca tra il 1500 e il 1504, e si forma con Raffaello a Roma, dove, curiosamente, gli storici dell’arte lo hanno cercato pochissimo, mentre doveva essere fiero di questa origine prestigiosa, tanto che in Francia si fece sempre chiamare “il Romano”. Secondo Orlandi88 dopo il Sacco di Roma seguì Perino a Genova in palazzo Doria. I due artisti erano imparentati. Vasari riferisce nella Vita di Perino che questi aveva sposato a Roma, nel 1525, Caterina, sorella di Giovanfrancesco e dunque anche di Luca. A partire dal 1531 Luca è menzionato alla corte di Francia89; negli anni 1537-40 compare nel castello di Fon-

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Fig. 120. Luca Penni, Donazione di Costantino, disegno preparatorio, particolare. Amsterdam, Rijksmuseum. Fig. 121. Luca Penni, Scena di sacrificio, particolare. Genova, Palazzo Doria, Sala dei Sacrifici. Fig. 122. Luca Penni, Scena di caccia, disegno, particolare. Parigi, Museo del Louvre, Département des arts graphiques.

tainebleau con Rosso e poi con Primaticcio, ma nulla rimane di questa sua attività. Nel 1540 è a Parigi, dove dipinge alcuni quadri e realizza soprattutto molti disegni per incisioni, entrando in rapporto con Léon Davent. Morirà nel 155790. Quest’ultima fase delle produzione di Luca, la sola finora conosciuta, consente di individuare la sua attività a Genova, anche se molto tempo è trascorso, in ciò che rimane nell’appartamento privato di Andrea Doria delle quattordici lunette della Sala dei Sacrifici, così detta perché vi sono rappresentate offerte a divinità pagane, forse per alludere alla pietas del padrone di casa91. Dipinte sul modello della Bibbia di Raffaello, di cui serbano la chiarezza, le scene si limitano a poche figure in un piccolo paesaggio, nel quale le analogie con le opere parigine di Luca sono sorprendenti. Così, uno dei sacerdo-

A fronte: Tav. 172. Luca Penni, Giuseppe spiega i sogni del Faraone (VII.4), particolare.

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ti genovesi è quasi identico al Vulcano di un’incisione per la quale ha dato il disegno92, e i bambini che lo accompagnano hanno gli stessi lineamenti di Cupido e dell’Amorino dell’incisione. Tra gli artisti che hanno lavorato in palazzo Doria, Luca è di sicuro il più fedele alla lezione appresa a Roma, pur affermando nettamente la sua personale maniera e risentendo dell’azione di Perino, il responsabile del cantiere. Le figure, che sottolineano l’appoggio sull’anca, hanno un aspetto fiero, lo sguardo truce e i tratti incisivi, talvolta col mento ricurvo. I bambini ostentano un’aria imbronciata, lo sguardo vivace, le gote rotonde e la bocca semiaperta sotto l’alta fronte, circondata da una massa di capelli biondi, come di stoppa. Gli appartamenti privati di Andrea Doria e di sua moglie sono troppo deteriorati perché la ricerca possa estendersi

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Fig. 123. Alonso Berruguete, Angeli, aggiunta all’Incoronazione della Vergine di Filippino Lippi, particolare.

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ad altre stanze, ma alle lunette della Sala dei Sacrifici si possono accostare alcuni disegni la cui attribuzione non è mai stata definita con certezza93. Quanto all’incantevole Sacra Famiglia Spinola, essa prende nome dal palazzo Spinola di Genova, dove venne acquistata nel 1828, cosa che rafforza l’attribuzione a Luca. Proseguendo l’indagine a ritroso, è possibile risalire agli anni romani dell’artista, che ha dovuto esordire nella Stufetta del cardinal Bibbiena, dove è riconoscibile nella scena con Vulcano e Minerva. Deve aver poi lavorato nella Sala dei Palafrenieri e nella Loggia di Psiche alla Farnesina, dove è intervenuto almeno nella volta, sul lato sinistro nel Consiglio, sul lato destro nel Convito: se le figure degli dèi sono qui ancora molto vicine a Giulio, non ne presentano però la monumentalità, e appartengono proprio a Luca i due bambini paffuti in primo piano, in particolare quello che sembra di malumore mentre si fa versare una coppa di nettare94. Nelle Logge il suo stile, già maturo, prelude a quanto farà in Francia: i fratelli di Giuseppe hanno già le fisionomie ben riconoscibili in molti dei suoi disegni e il Faraone che lo ascolta mentre spiega i sogni ha la stessa forza di Vulcano nell’incisione di Davent95. Riprendendo l’ordine delle storie bibliche, prima di affrontare l’Isacco che rifiuta la benedizione ad Esaù (V.4), occorre fermarsi sulla Scala di Giacobbe (VI.1), una delle più coinvolgenti del racconto, con la figura distesa, abbandonata al sonno, e l’evocazione visionaria del sogno. È opera di Alonso Berruguete, figlio di Pedro, il pittore che era stato a Urbino alla corte di Federico da Montefeltro96. Vasari racconta che, poco dopo la scoperta del Laocoonte, nel gennaio 1506, Berruguete partecipa a Roma al concorso per la riproduzione del gruppo in cera97. Il 2 luglio 1508 Michelangelo scrive al fratello a Firenze per presentargli «uno giovine spagnuolo, il quale viene chostà per imparare a dipigniere» e dargli il permesso di accedere al suo cartone della Battaglia di Cascina98. Il testo deve riferirsi a Berruguete, che l’interesse per il Laocoonte e per il cartone di Michelangelo pone subito all’avanguardia. L’estate seguente Berruguete è a Firenze, dove divide l’abitazione col giovane pittore lombardo Gian Francesco Bembo99. Vasari riferisce ancora che lo spagnolo è intervenuto nell’Incoronazione della Vergine e quattro santi che

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iniziata da Filippino Lippi per la chiesa di San Gerolamo alla Costa San Giorgio, e lasciata incompiuta alla sua morte, era stata terminata da un terzo artista100. Roberto Longhi ha precisato la parte spettante alle diverse mani: Filippino aveva eseguito solo l’Incoronazione, con Dio Padre e la Vergine; gli angeli che li circondano sono opera di Berruguete, mentre un terzo artista ha dipinto i santi del registro inferiore. Attorno a questi angeli, illuminati da un sorriso degno di Rosso, Longhi ha riunito la Sacra Conversazione della Galleria Borghese, la Madonna col Bambino e san Giovanni di Palazzo Vecchio e la Salomè degli Uffizi, tre opere di livello eccezionale, appartenenti all’ambito di Andrea del Sarto, ma molto vicine a Rosso, al punto di anticiparlo101. Si è così potuto dare il via alla riscoperta dello spagnolo in Italia. La Sacra Conversazione e la Madonna col Bambino e san Giovanni restano essenzialmente fiorentine e sono meno influenzate da Raffaello. La Salomè ne risente di più, e implica il ritorno dell’artista a Roma. Si ritrova in effetti Berruguete nella Stanza di Eliodoro. La volta della stanza, come è noto, non è stata realizzata nella forma attuale all’inizio del cantiere, nel 1511, secondo l’uso di iniziare i lavori dall’alto, ma è stata rifatta alla fine, nel 1514, dopo l’elezione di Leone X, del quale reca gli emblemi102. Da molto tempo si è notato che non è stata dipinta da Raffaello. L’articolazione dei corpi e la gamma cromatica sono in netto contrasto con le sue opere precedenti: il fondo neutro della quattro storie che la compongono non ha niente in comune con i cieli chiari, striati di nubi, della Stanza della Segnatura; le figure ricordano ancora Andrea del Sarto e soprattutto Michelangelo, ma con una asprezza che tradisce l’origine straniera. Il loro plasticismo, la loro stessa durezza, i sapienti viluppi dei panneggi, tutto è in accordo con i dipinti italiani di Berruguete103. Va da sé che una tale attribuzione non porta evidentemente a mettere in dubbio il ruolo svolto da Raffaello, il solo che poteva immaginare la disposizione delle tele a trompe-l’œil ispirate alla Domus Aurea e dare anche lo schema iniziale degli affreschi. L’esecuzione spetta però a Berruguete, che interviene in seguito nelle grottesche del muro esterno della Loggetta del cardinal Bibbiena, e nella Stufetta, nell’affresco pieno di movimento con Venere e Amore che attraversano il mare su mostri marini104. Quando lo spagnolo dipinge nelle Logge la Scala di Giacobbe, il progetto di Raffaello che trascrive deriva diretta-

mente dalla scena con lo stesso soggetto nella volta della Stanza di Eliodoro, rinnovato, tuttavia, dalla scala monumentale che sfonda lo spazio105. Egli infonde la vita nel modello di Penni, sottolinea il volume del corpo con una linea sinuosa, accentua il viso dell’eroe, e memore forse della Liberazione di San Pietro nella Stanza di Eliodoro, dipinge la scena al chiaro di luna106. Subito dopo esegue gli stucchi della volta centrale – e bisognerà tornarci. Quando gli giunge notizia della presenza in Spagna di re Carlo, fa i bagagli e lascia Roma. Ricompare a Saragozza il 20 dicembre 1518, quando firma il contratto per la tomba del gran cancelliere Joan Çalvaje (Jean Sauvage), oggi distrutta, aggiungendo al proprio nome il titolo, appena ricevuto, di «pittore del re nostro sovrano»107. Desiderando affermarsi alla corte di Carlo, ottiene la commissione di dipinti per la Cappella Reale di Granada, ma in mancanza di un accordo sul prezzo, rinuncia, torna nel suo paese natale e, nel 1526, si stabilisce a Valladolid. Si imporrà come il primo scultore di Spagna con le sue monumentali pale d’altare, innestando sulla tradizione locale la sua profonda cultura italiana, da Donatello a Michelangelo e dall’antico a Raffaello.

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rapporti con questa città posta al centro del Vicereame, la cui pittura testimonia l’azione da lui esercitata. Nel dipinto abbondano gli elementi italiani: oltre a Rosso e Raffaello, il Leonardo della Battaglia d’Anghiari – Palazzo Vecchio a Firenze ne conserva una copia che sembra di sua mano –, il Sebastiano del Piombo della Discesa al Limbo, il Michelangelo della Battaglia di Cascina e quello della Sistina. Il toledano deve essere stato, anche lui, a Firenze, sulle tracce di Berruguete. La presenza di Machuca sembra rivelarsi anche nei cartoni con gli Atti degli Apostoli e, nella Stanza dell’Incendio di Borgo, nella Battaglia di Ostia. In seguito l’artista prende parte alla decorazione dell’appartamento del cardinal Bibbiena, dove raggiunge Berruguete113. Nella Loggetta dipinge, in fondo alla galleria, la lunetta in cui

La scena in cui Isacco rifiuta la benedizione ad Esaù (V.4) sconcerta per il tono come febbrile dei protagonisti. La si deve ad un altro spagnolo venuto in Italia ad imparare, forse quello che, al suo arrivo a Roma, andò a chiedere notizie di Berruguete a Michelangelo il quale, in una lettera al padre a Firenze, scrive nel 1512: «Anchora vi prego mi facciate un servitio; e questo è, che gli è costà un garzone spagnolo che à-nnome Alonso, che è pictore, el quale comprendo che sia amalato; e perché un suo o parente o amicho spagnolo, che è qua, vorrebe sapere come gli sta, m’à pregato che io deba scriver costà a qualche mio amico e far d’intenderlo e avisarlo...»108. Si è potuto identificare questo parente o amico con Pedro Machuca109, forse il “Pietro espanolo” che ha scritto il suo nome nella Domus Aurea110 e che partecipa, tra l’altro con Pellegrino da Modena, alla decorazione dei carri in occasione della festa dell’Agone nel 1515111. La sua opera più antica conosciuta è una Madonna del suffragio che allatta le anime del Purgatorio, recante sul verso, con la data 1517, il nome dell’autore con l’indicazione in latino «ISPANUS TOLEDANUS»112. Il tema della Madonna del suffragio era molto diffuso a Napoli: Machuca deve aver intrattenuto

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A fronte: Tav. 173. Alonso Berruguete, Sogno di Giacobbe (VI.1), particolare.

Vulcano forgia le frecce per gli Amorini. Molti dipinti da lui realizzati sul tema della Madonna col Bambino rivelano la sua profonda devozione a Raffaello, insieme a ricordi del Rosso114. Come Berruguete, Machuca dovette affrettarsi a raggiungere la corte di re Carlo a Granada, facendo forse il viaggio insieme al pittore fiorentino Jacopo Torni, detto l’Indaco, che in Spagna divenne scultore, prima di morire prematuramente nel 1526. Anche Machuca sperava di lavorare alla Cappella Reale di Granada, ma con l’Indaco vi ha realizzato solo dei piccoli pannelli per trasformare, con l’aggiunta di una predella, il trittico della Deposizione dalla croce di Dieric Bouts in un retablo alla spagnola. In Andalusia continuò la propria attività di pittore di retabli con l’aiuto di una grande bottega, ma la Deposizione dalla croce oggi al Prado e la Pentecoste del Museo de Arte di Ponce a Portorico, che dovettero essere realizzate poco dopo il ritorno dall’Italia, sono interamente autografe. Si tratta di vertici appartenenti ad un mondo non più governato dall’armonia, ma popolato da creature rudi e frementi, come è già la storia che ha lasciato nelle Logge (V.3).

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Fig. 124. Alonso Berruguete, Salomé. Firenze, Galleria degli Uffizi. Fig. 125. Alonso Berruguete, Angelo, particolare dell’Annunciazione del retablo de La Mejorada. Valladolid, Museo N acional de Escultura.

Machuca non si sarebbe realizzato però solo in pittura. Alcuni suoi disegni italiani lasciano presagire la via che stava per seguire: divenne architetto e progettò il palazzo di Carlo V nell’Alhambra di Granada, introducendo nel suo paese, in totale contrasto con la tradizione, una nuova corrente, imbevuta della cultura italiana assorbita a fianco di Giulio Romano. Due storie della Bibbia di Raffaello, Giacobbe chiede in sposa Rachele (VI.3) e il Battesimo di Cristo (XIII.3), una molto sbiadita, l’altra rovinata da ridipinture, si caratterizzano per figure diritte e compassate, celate sotto drappeggi rigidi, con volti dalle mascelle larghe e dai tratti decisi. Il loro autore ha eseguito per le grisaille del basamento il modello per Benedizione del settimo giorno (I) e quello per la storia di Salomone (XII). Si tratta di Raffaellino del Colle, nato a Sansepolcro verso il 149497, attratto fin da bambino da Piero della Francesca, del quale serberà una certa impassibilità, e formatosi a Roma accanto a Giulio Romano di cui fu aiuto, tra l’altro, nella Visione di Costantino115. Da qui l’idea lanciata a volte, non senza fondamento, che abbia preso parte a

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Fig. 126. Pedro Machuca, Pentecoste, particolare. Ponce, Puerto Rico, Museo de Arte. A fronte: Tav. 174. Pedro Machuca, Isacco benedice Giacobbe (V.3), particolare.

qualche precedente cantiere di Raffaello: nella Stanza dell’Incendio di Borgo, nella Loggia di Psiche alla Farnesina, dove si può riconoscerlo nei pennacchi116, infine nelle Logge, dove la sua presenza è suggerita da Celio fin dal 1638117. Raffaellino del Colle ha diviso la sua attività tra una produzione locale e la collaborazione con altri artisti: con Giulio Romano a Palazzo Té, Girolamo Genga a villa Imperiale a Pesaro, dove ha dipinto tra l’altro l’allegoria della Verità e la scena della Calunnia, a più riprese con il Rosso e Vasari e poi Bronzino. Morì nel 1566. È un artista eclettico, facile da riconoscere, che ha sfruttato molto il repertorio raffaellesco e la cui arte nel corso del tempo si è sempre più irrigidita. Non ha avuto l’onore di una biografia di Vasari, che non l’ha forse considerato sufficientemente interessante. È possibile individuare la sua presenza nelle Logge grazie alle opere che di lui sussistono tra Toscana, Umbria e Marche. La maestosa Annunciazione di Città di Castello118, opera giovanile ancora fortemente impregnata di solennità romana, offre tutti gli elementi per sostenere l’attribuzione all’artista del Battesimo (XIII.3) nella Bib-

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bia di Raffaello. Non è certo un caso che la Missione di san Placido, eseguita nel 1540 per San Pietro a Gubbio119, riprenda, immutata nell’atteggiamento e nel segno, la figura di Labano nella scena in cui Giacobbe chiede in sposa Rachele (VI.3). Il disegno preparatorio per il Dio padre circondato da angeli, realizzato verso il 1527 nella chiesa di San Lorenzo a Sansepolcro120, nella lunetta al disopra del Compianto di Rosso, permette di restituirgli il modello per la grisaille della Benedizione del settimo giorno (I). Degli artisti ricordati da Vasari nelle Logge rimane da esaminare Vincenzo Tamagni, nato nel 1492 a San Gimignano, presente dal 1505 a Monteoliveto con Sodoma, e ancora sotto la sua influenza nel 1510-12, quando dipinge gli affreschi per l’ospedale di Santa Maria della Croce a Montalcino, dove però è già ritardatario. Le sue tracce si perdono tra il 1512 e il 1522, quando deve essere stato a Roma. Nel 1516 firma con Giovanni da Spoleto, nell’abside della chiesa di Santa Maria ad Arrone (presso Terni), gli affreschi con l’Incoronazione della Vergine, la Dormizione e


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l’Adorazione dei pastori, un insieme paragonabile per ampiezza e soggetto a quello dipinto a Trevignano da Pellegrino da Modena. Pur citando, anch’egli, il vecchio ciclo di Filippo Lippi, rivela un primo contatto con le Stanze di Raffaello e con i cartoni degli Atti degli Apostoli, senza raggiungere però la loro altezza. Tamagni guarda piuttosto a Peruzzi, come in particolare rivela lo sfondo architettonico della Dormizione della Vergine, concepito come una scenografia teatrale, con allegorie a grisaille che evocano statue antiche. A Roma ha ottenuto peraltro alcune commissioni importanti. Vasari cita infatti i graffiti, oggi scomparsi, da lui realizzati per diversi palazzi. E se, come afferma, Tamagni ha avuto da Raffaello disegni per palazzo Battiferro, ciò significa che il maestro doveva certo apprezzarlo. Dal 1522 è di ritorno a San Gimignano, quando firma una Madonna col Bambino e santi per la chiesa di San Girolamo e, l’anno dopo, una Natività in Sant’Agostino. Nel 1525 dipinge una Madonna e santi per la chiesa di Pomarance121. In seguito deve essere tornato a Roma. Questa produzione rivolta al passato consente di riconoscerlo facilmente all’interno della bottega di Raffaello. È Tamagni l’autore, nella Loggetta del cardinal Bib-

Fig. 127. Raffaellino del Colle, Annunciazione, particolare. Città di Castello, Pinacoteca Comunale.

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A fronte: Tav. 175. Raffaellino del Colle, Battesimo di Cristo (XIII.3), particolare.

biena, della lunetta che sovrasta l’entrata, dove alcuni amorini stanno in posa senza convinzione su corolle di fiori e le ninfe si lanciano in un movimento così fermo da sembrare sospeso nel tempo122. È ancora Tamagni l’autore, nella volta della Loggia di Psiche alla Farnesina, dei volti di bambola delle figure nella parte sinistra del Convito – cosa finora non notata123. Solo l’Ascesa al trono di Salomone (XII.1) rivela nella Bibbia di Raffaello la stessa goffaggine. Dietro al re, figure dallo sguardo improntato ad una facile devozione agitano la mano come fantocci, su uno sfondo di colline nel quale nulla sussiste dell’ariosità di Giulio né di Penni. Occorrerà riparlare delle scene all’antica che ha dipinto nella stessa volta. Ciononostante, Tamagni persevera nel suo apprendistato presso Raffaello, realizzando copie di sue opere e collaborando negli anni Venti con Giovanni da Udine a villa Madama. A villa Lante gli si debbono tre soffitti a grottesche scandite da medaglioni, con ritratti derivati direttamente dal repertorio raffaellesco124. Quando, ancora nel 1526, dipinge lo Sposalizio della Vergine oggi nella Galleria di palazzo Barberini, le figure, nella loro affettazione, nascondono a fatica il loro tono rétro. Vasari, pur non lesi-


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nando le lodi, non passa sotto silenzio i suoi limiti quando afferma: «E l’esperienza fa conoscere che molte volte uno stesso uomo non ha la medesima maniera, né fa le cose della medesima bontà in tutti i luoghi, ma migliori e peggiori secondo la qualità del luogo»125. Il Sacco di Roma dovette mettere fine alle aspirazioni romane dell’artista, che morì poco dopo. Per mancanza di documenti è rimasto a lungo ignorato Giovanni da Spoleto, che ha firmato con Tamagni le storie della Vergine di Arrone126. Il ciclo rivela peraltro con chiarezza la partecipazione di un secondo artista, ben diverso dal pittore di San Gimignano, con un tono ribelle. Lo si può apprezzare intorno all’Incoronazione della Vergine, nei cherubini dall’espressione imbronciata, sul bordo della nicchia, nei profeti e nelle sibille dagli sguardi scuri sotto le acconciature stravaganti, a sinistra dell’altare, infine, negli apostoli dall’aspetto patibolare della Dormizione. Anche questo, come Tamagni, sembra aver studiato gli Atti degli Apostoli e tradisce una certa dipendenza da Peruzzi. Nelle Logge l’Adorazione dei magi (XIII.2) e l’Ultima Cena (XIII.4), che Vasari attribuisce a Perin del Vaga, mostrano una tendenza, tipica del fiorentino, a introdurre nella stessa scena molte varianti di una figura, o a rappresentare figure che si rispondono, dando loro un ritmo coreo-

Fig. 128. Vincenzo Tamagni, Sposalizio della Vergine, particolare. Roma, Galleria di Palazzo Barberini.

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A fronte: Tav. 176. Vincenzo Tamagni, Ascesa al trono di Salomone (XII.1), particolare.

grafico caratteristico: nella composizione deve essere in effetti intervenuto Perino; ma ciò che, aldilà delle ridipinture, si intravede ancora della stesura originaria, è sufficiente per affermare che non ne è l’autore. I visi corrucciati dei personaggi, incorniciati da zazzere irsute e barbe arruffate, come i loro atteggiamenti, ricordano da vicino gli apostoli della Dormizione della Vergine di Arrone: è possibile che il vecchio collaboratore di Tamagni sia intervenuto poco dopo di lui nella Bibbia di Raffaello, proprio alla fine del ciclo. Giovanni da Spoleto ricompare in seguito nella scia di Peruzzi. Alla Farnesina interviene nel fregio di soggetto mitologico della sala delle Prospettive127, dove s’impone addirittura come personalità dominante, attingendo abbondantemente alla Bibbia di Raffaello, citata con umorismo. Le figure di Apollo e del Tempo sono ancora molto vicine agli apostoli dell’Ultima Cena delle Logge. Le Ore che precedono il carro di Apollo derivano dalla grisaille della Benedizione del settimo giorno (I); ma quella che squadra lo spettatore, lo schernisce con un’insolenza che non ha eguale se non nelle sibille di Arrone. La storia di Endimione, che si svolge al chiaro di luna ed è una delle più belle della sala, ne rivela la vena poetica. Negli anni Venti l’artista si ritira a Spoleto. A palazzo Racani realizza graffiti nello stile di Peruzzi, Polidoro e Ma-


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Fig. 129. Giovanni da Spoleto, Dormizione della Vergine, affresco firmato da Vincenzo Tamagni e Giovanni da Spoleto, particolare. Arrone, Santa Maria. Tav. 177. Giovanni da Spoleto (?), Ultima Cena (XIII.4), particolare.

turino, e inizia la decorazione della cappella Eroli nella cattedrale, ispirandosi sempre al repertorio raffaellesco, in particolare a quello della Bibbia128. Se vi si può ancora scoprire qualche bella figura, le storiette che le accompagnano denunciano un’involuzione, lasciando intendere che l’artista non ha saputo mantenere il proprio livello culturale. Il cantiere deve essersi interrotto all’improvviso, poiché venne ripreso più tardi da Jacopo Siculo, artista di levatura molto inferiore. Di fronte ad un arresto così inopinato sorge un dubbio: forse Giovanni da Spoleto non è altro che l’aiuto di Tamagni di cui Vasari conosce solo il soprannome, Schizzone, e a proposito del quale scrive: «... il quale fece in Borgo cose molto lodate, e così in Camposanto di Roma e in Santo Stefano degl’Indiani: e poi dalla poca discrezione de’ soldati fu fatto deviare dall’arte, et indi a poco perdere la vita»129. Una gran quantità di artisti si è dunque affollata per partecipare alla Bibbia di Raffaello, non fosse che per dipingere un solo affresco, ricomparendo talvolta più oltre nella galleria, dividendosi di tanto in tanto la stessa storia, in un cantiere nel quale l’organizzazione da cui dipendevano, sotto la guida di Giulio e poi di Perino, sembra essere stata molto elastica. Parecchie decisioni devono essere state prese all’ultimo momento, quasi all’improvviso. Al momento della messa a punto dei modelli

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non era stata ancora fissata la forma da dare alle storie e, dunque, alle volte nelle quali esse dovevano inserirsi. Le due parti che rimangono delle scene della Creazione (I) non vennero previste nella forma esagonale in cui sono state poi dipinte, né quelle di Abramo (IV), di forma arcuata. Tutto andò a posto quando vennero stabiliti i diversi sistemi decorativi delle volte e si decise di adottare un’unica soluzione da una parte e dall’altra della volta centrale, simmetricamente, così da ridurre i sistemi a sette. Rimanevano comunque esitazioni. Il modello del Roveto ardente (VIII.2) è stato concepito in forma rettangolare, poi è stata aggiunta una linea curva, che però non viene ripresa nell’affresco, eseguito infine entro un rettangolo. Il Mosè che percuote la roccia (VIII.4) è stato fin dall’inizio arcuato, e qualcosa ne rimane nell’affresco dove la linea del massiccio roccioso asseconda la curva iniziale. In seguito si è scelto il rettangolo, che ha comportato aggiunte nel dipinto, sul lato sinistro l’apparizione di Dio padre, su quello destro un boschetto, da attribuire forse ai due artisti che hanno eseguito l’affresco. A giudicare dalla doppia quadrettatura del foglio – un procedimento del tutto insolito, unico anzi nel ciclo – deve essere sorto un problema, di cui non è chiaro il motivo, a proposito delle dimensioni del dipinto. La copia superstite del progetto per l’Adorazione dei magi (XIII.2) mostra che la forma delle storie non è più stata messa in discussione nella tredicesima volta.

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Tav. 178. Bartolomeo di David (?), Angeli e cherubini. Volta I, particolare.

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A fronte: Tav. 179. Bartolomeo di David (?), Scena all’antica. Volta IV, particolare.

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Tav. 180. Luca Penni, Arazzo con grottesche. Volta VIII,

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Tav. 181. Prospettiva architettonica con civetta. Volta IX, particolare.

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Tav. 182. Vincenzo Tamagni (?), Grottesche. Volta XII, particolare. A fronte : Tav. 183. Luca Penni, Grottesche. Volta X, particolare.

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Fig. 130. Alonso Berruguete, San Matteo e l’angelo, particolare del retablo di San Benito. Valladolid, Museo Nacional de Escultura.

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Per quanto riguarda i modelli, non tutti gli elementi erano definiti sin dall’inizio. Un’organizzazione precisa è stata rispettata solo nelle prime campate, per quelli che si è potuto attribuire a Penni. È ancora parzialmente vero per quello del Roveto ardente (VIII.2), il cui tratto, benché privo di preparazione a matita nera, è lento, e induce a pensare che il suo autore si sia appoggiato a un modello preciso, forse di mano di Raffaello. Il progetto doveva però limitarsi al gruppo principale, senza i particolari della decorazione. Ciò spiega forse perché sia stato realizzato e poi trasposto in pittura in un formato troppo grande rispetto alle altre scene della volta. Analogamente, il modello per il Mosè salvato dalle acque (VIII.1), che presenta i tratti caratteristici di Penni, potrebbe lasciare intendere che il “Fattore” abbia qui seguito meno Raffaello: con le sue figure più allungate e più rigide, si avvicina maggiormente ad alcuni suoi disegni più tardi, e forse di propria iniziativa l’artista ha arricchito la composizione di alberi, secondo una soluzione a dire il vero infelice, che Giulio non ha seguito nell’eseguire l’affresco, ripartendo probabilmente dal progetto del maestro. Per il Passaggio del Mar Rosso (VIII.3) e il Mosè che riceve le Tavole della Legge (IX.1) i modelli sono più precisi, ma in uno stile diverso da quello di Penni, e niente prova che i vari elementi siano stati messi a punto da Raffaello. Il secondo di questi fogli – uno dei più belli del ciclo – è qui proposto col nome di Perin del Vaga, che avrebbe sviluppato un progetto di Raffaello, provando tre posizioni diverse per le Tavole della Legge e aggiungendo lo sfondo, rispettando le proporzioni classiche del maestro, seguite con minore fedeltà nell’affresco. A questo punto l’esecuzione dei modelli da parte di altri artisti, qui identificati con Bartolomeo di David e Vincidor, sembra indicare un momento di sbandamento della bottega, subito dopo che Giulio e Penni l’hanno abbandonata. Si spiegherebbe così anche il ricorso a tecniche diverse, tra cui quella di Penni per il Davide e Betsabea (XI.3), adottata un’ultima volta per il Giudizio di Salomone (XII.2) da un altro artista ancora, probabilmente Pellegrino da Modena. Niente obbliga del resto a pensare che i disegni siano stati preparati seguendo rigorosamente l’ordine delle storie. Ulteriori discordanze si manifestano tra modelli e affreschi. Giacobbe – come si è visto – ha la barba nell’affre-

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sco dove incontra Rachele al pozzo (VI.2), mentre è glabro nel disegno e anche nel successivo affresco. Il bambino che ha appena attraversato il Mar Rosso (VIII.3) e si dirige verso la madre, nel modello calpesta il corpo di un’altra donna, mentre nell’affresco si apre più accortamente un varco dietro di lei – e ci si chiede se non sia stata questa imperizia del disegnatore a provocare l’intervento di un secondo pittore nel gruppo degli scampati. Ancora, nel Mosè che percuote la roccia (VIII.4) nel modello s’intravede a sinistra, davanti alle rocce, una sagoma di cui non si è tenuto conto nell’affresco. Nell’Adorazione del vitello d’oro (IX.2) mentre il modello, probabilmente di Bartolomeo di David, presenta personaggi che rimangono indifferenti alla scena, Giulio nell’affresco ne dipinge alcuni che subito si animano, forse per dare l’esempio a chi gli lavorava a fianco. Nonostante il numero, gli allievi sembrano aver avuto fretta. Prima di tornare sulla composizione della bottega, conviene esaminare le decorazioni, cominciando da quelle intorno alle storie della Bibbia. Deve esserci un’idea di Raffaello all’origine della Vittoria in stucco che, al centro di ogni volta, ad eccezione della settima, regge gli emblemi di Leone X, ed è ancora al maestro che bisogna imputare la ripartizione degli ornamenti intorno ai riquadri della Bibbia. Per la loro esecuzione devono essere stati chiamati allievi che già lavoravano al ciclo religioso. Le prospettive architettoniche a trompel’œil delle volte III e V, che si ripetono, rispettivamente nelle volte XI e IX, sono probabilmente opera di Giulio, al quale Vasari attribuisce questa specialità130, mentre gli uccelli che vi saltellano devono essere stati concepiti, se non dipinti, da Giovanni da Udine. Nelle altre composizioni il friulano non è però intervenuto. Le figure di angeli e cherubini che animano i compartimenti delle volte I e XIII, benché tutte diverse l’una dall’altra131, sembrano appartenere ad un unico artista, in cui si riconosce Bartolomeo di David, per come è noto dalle grottesche della cappella del Manto, e non è impossibile che il senese sia entrato nella bottega proprio per realizzare questi ornamenti. Bartolomeo ha forse dipinto anche le decorazioni all’antica della volta II, il cui stato di conservazione impedisce di esprimere un giudizio. Lo stesso artista ricompare nelle piccole scene della volta IV, le più vivaci fra quelle

che accompagnano il racconto biblico, con i loro atlanti dal volto contratto e le ninfe alle prese con mostri marini – forse ricordo delle incisioni di Mantegna. Ma gli elementi più complessi della volta X, nella quale ricompaiono motivi simili su uno sfondo che imita il mosaico132, così come le grottesche e i festoni della volta VIII, tradiscono il tratto forte e meno morbido di Luca Penni. Quando gli schemi della volta II vengono ripresi nella XII, perdono mordente e valgono solo per la ripresa assai fedele delle figurine della Domus Aurea. Come dimostra il confronto con le grottesche dei piccoli ambienti di villa Lante, queste composizioni devono essere opera di Tamagni, che ha probabilmente dato il cambio a Bartolomeo quando è intervenuto nelle storie bibliche133. Il capolavoro si dispiega però negli stucchi bianchi e oro della volta centrale (VII). La struttura imponente del portico che la decora, l’energia contenuta delle danzatrici che vi si esibiscono, la selvatichezza delle maschere tra le grottesche, tutto trasuda la veemenza dei retabli di Valladolid: è Berruguete che deve esserne l’autore. A Firenze lo spagnolo aveva già realizzato una Madonna in legno, ancora visibile in Santo Spirito134. Subito dopo aver dipinto la Scala di Giacobbe (VI.1), ha cercato attraverso lo stucco un nuovo approccio alla scultura.

Pagine seguenti: Tav. 184. Alonso Berruguete, Grottesche e ninfe danzanti in un portico (cfr. fig. 30). Volta VII, particolare. Tav. 185. Alonso Berruguete, Ninfe danzanti in un portico (cfr. fig. 30). Volta VII, particolare.

coli aperti a stella, mostra con quale poesia abbia saputo passare, a volte, ispirandosi forse all’antico, dal naturalismo alla stilizzazione. Verso la fine della galleria lavorano occasionalmente alle grottesche Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio. Del primo si riconosce un brano di rara finezza: al disopra di un’edicola ospitante una piccola divinità fiancheggiata da fauni di estrema eleganza, si apre un paesaggio all’antica animato da figurine simili a quelle da lui dipinte nella Bibbia e in seguito a palazzo Baldassini, sormontato da un cesto attraversato obliquamente da una freccia che ne anima la composizione. Un po’ più lontano, una testa di satiro, ravvivata da generosi rialzi di bianco, ricorda uno degli autoritratti disegnati da Polidoro da Caravaggio, come pure le fisionomie degli ebrei nel Passaggio del Giordano (X.1) di cui è autore. Chiamati forse alle Logge da Giovanni, i due più

A questo punto occorre passare in rassegna la decorazione realizzata nella galleria sotto la direzione di Giovanni da Udine, cominciando dai pilastri, la parte che più ha sofferto per le intemperie quando la galleria non era ancora protetta da vetri, tanto che oggi si presenta quasi come una rovina romana. A parte la gran quantità di copie disegnate, derivate da progetti di Giovanni da Udine o dei suoi aiuti135, rimane un solo modello: un acquarello per il pilastro dell’uccellatore (VII), dove la figura accovacciata è stata lasciata in bianco per essere affidata ad un altro artista136. Il foglio reca la tradizionale attribuzione a Giovanni da Udine, ma gli uccelli non hanno qui la vivacità dei suoi migliori studi di animali e di piante, e non è del tutto da escludere l’intervento di un collaboratore137. Sarebbe un azzardo tentare di riconoscere la mano del friulano in quanto si può ancora intravedere dei pilastri, anche in quanto rimane di uccelli, pesci, altri animali e strumenti musicali, altrettante sue specialità, per i quali si è forse limitato a fornire i disegni. Il calamaro, con i tenta-

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Tav. 186. Giovanni da Udine, Pilastro dell’uccellatore (VII)(cfr. tav. 21), disegno preparatorio, tracce di disegno preparatorio a matita nera, inchiostro bruno con lavis e rialzi in acquarello rosso, giallo e verde su carta bianca ingiallita, 380 x 70 mm. Dresda, Kupferstichkabinett, inv. C 197.

giovani della bottega devono aver continuato a dipingere a rapide pennellate le decorazioni al suo fianco, come nella Loggetta. Per precisare la parte svolta da Giovanni nell’esecuzione degli ornamenti, occorre partire da un disegno la cui attribuzione poggia sull’antica scritta “Recamator”, nome di famiglia, poco usato, dell’artista138. Con tratto sicuro sono buttate giù delle idee alla rinfusa, come un putto su una biga, mentre sul verso Orfeo ammansisce gli animali feroci col suono della lira. Il disegno consente di riconoscere l’artista nella Loggetta, in una delle storie di Apollo e Marsia e nei più eleganti racemi e animali ritratti dal vivo, come pure nella Stufetta, negli ornamenti e nei più vivaci degli Amorini, sul carretto trainato da lumache: tutti motivi che si accordano perfettamente con gli strumenti musicali della Santa Cecilia, e i pesci della Pesca miracolosa affidati a Giovanni da Raffaello. Il gruppo così costituito porta a riconoscere Giovanni nei festoni del muro interno delle Logge attorno alle edicole. Solo i più vibranti degli innumerevoli mazzi che li compongono rivelano però la sua mano139. Alle zucche sinuose si accompagnano cetrioli le cui asperità sembrano morse dal sole. I cavoli brillano di un pallido splendore latteo, i grappoli d’uva s’impregnano di luce, le radici bianche dei navoni si prolungano in insolite ramificazioni, melagrane troppo mature lasciano scorrere via i loro grani, mentre meloni si schiudono, lasciando intravedere la polpa rosa, gialla e ruggine. Mescolando fiori e frutti con spighe, ghiande, pigne o cavoli, l’artista a volte sconcerta, non senza una punta di umorismo. In una lunetta rose lilla sono accanto a teste d’aglio e a cipolle. Affascinato dalla crescita delle piante, Giovanni ne descrive la fasi, dal fiore in boccio a quello i cui petali appassiscono e cadono. Nelle lunette una cinciallegra sta per afferrare una libellula, un pettirosso si posa per un istante sul ramo di un pesco, una ghiandaia si alliscia le piume. Quando i festoni sono più pesanti e inerti, denunciano l’intervento di un collaboratore, ed è così anche per l’unico disegno che riproduce i progetti di alcuni mazzi: si tratta solo di una modesta copia degli acquarelli di Giovanni, del quale non ha la sicurezza140. Per gli stucchi non rimane alcun disegno preparatorio né modello, anche se doveva circolarne ancora nel XIX secolo un numero cospicuo, sotto forma di copie o di originali, riprodotti da artisti francesi141. Il disegno con l’iscrizione “Recamator” permette tuttavia di rico-

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A fronte: Tav. 187. Perin del Vaga, Grottesca con paesaggio e scena all’antica. Pilastro esterno XIII.A, particolare.


A fronte: Tav. 188. Polidoro da Caravaggio, Grottesca con maschera di satiro. Lesena IX, particolare.

noscere Giovanni negli stucchi dei sottarchi, che rivelano la stessa impalpabile leggerezza. Quando trae qualche figura dal repertorio dei rilievi antichi, ne declina gli atteggiamenti in più varianti, senza esitare nell’allontanarsi dai prototipi, mostrando ad esempio un centauro lanciato in una cavalcata sfrenata, che regge una vela gonfiata dal vento. Di tanto in tanto aggiunge un ramo per evocare la natura, o schizza una roccia, in un rilievo sempre più sottile, che a volte conserva la traccia del suo pollice. Quando prende la figura del dio dalla Visita di Bacco a un poeta drammatico, gli mette per gioco sotto il mantello il faunetto che lo sorregge. Giovanni, come si è visto, aveva una predilezione per i piccoli oggetti, pietre incise, monete, placchette, terrecotte..., dalle quali cercava di trarre effetti pittorici. Qualche anno dopo, a proposito dell’impiego dello stucco, affermerà in una lettera a Michelangelo: «La mia profexione non è de sculto-

Fig. 131. Polidoro da Caravaggio, Autoritratto con un ragazzo. Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe.

re»142. Attraverso i sarcofagi e i rilievi romani ai quali si ispira si osserva, come in Raffaello, un ritorno ideale ai loro prototipi ellenistici, le cui forme si affinano, ma senza adottare le composizioni violente delle sculture a tutto tondo delle scuole di Pergamo e Rodi talvolta utilizzate dal maestro. Al pilastro della Diana Efesia (VI) può essere accostato un disegno il cui stile, senza raggiungere la qualità di Giovanni, ricorda il foglio con la scritta “Recamator”. Insieme alla parte inferiore della composizione vi sono riprodotti alcune edicole e un piccolo trofeo di armi; sul verso compaiono progetti per altri pilastri, sempre con varianti rispetto agli affreschi, cosa che consente di escludere che questi ultimi ne siano stati modelli143. Alcuni elementi del recto si ritrovano, d’altra parte, esattamente nello stesso ordine, in un disegno degli Uffizi144, a conferma che i due fogli devono derivare da uno stesso progetto, oggi perduto, di Giovanni. L’autore del disegno per la Diana Efesia deve aver lavorato a partire dai suoi disegni. Vi si riconosce la maniera lineare di Luca Penni. I disegni di epoca parigina di questo artista permettono di rendergli pure diversi studi, rimasti anonimi, tratti da monete romane, che sono stati utilizzati alle Logge negli stucchi dei piedritti. La mano di Luca si ritrova, inoltre, nel semipilastro rimasto intatto all’inizio delle Logge. Negli stucchi dei pennacchi domina un artista che si situa all’opposto dello stile spontaneo di Giovanni. Le figure che realizza con contorni netti, isolandole spesso su uno sfondo neutro, hanno il corpo agile e longilineo, o sono drappeggiate in manti che ricadono in pieghe parallele. La decorazione è stata aggiunta in pittura, come se lo stucco non fosse ancora ben familiare all’autore e non potesse realizzarla con questa tecnica. Nella dodicesima campata si rivela quello che è diventato il suo marchio: alcune figure col torso allungato e il volto all’antica, il naso piccolo e gli occhi a mandorla, di un gusto classicheggiante più vicino a Peruzzi che a Raffaello. Lo stesso artista ricompare un po’ più tardi a villa Lante – il che non è stato ancora notato – nella loggia dalla parte della collina, dove un’iscrizione, ispirata a Marziale, annuncia in latino che da lì si può ammirare tutta Roma: «HINC TOTAM LICET AESTIMARE ROMAM»145. Come le Logge di Raffaello, la galleria è panoramica. La volta a botte è decorata da un pergolato in stucco su fondo bianco animato, in una rigorosa suddivisione geometrica, da divinità

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Fig. 132. Giovanni da Udine, Amorino su una biga, disegno, penna e inchiostro bruno su carta bianca ingiallita, 180 x 262 mm. Monaco, Staatliche Graphische Sammlung, inv. 2520 recto.

Tav. 189. Giovanni da Udine, Trionfo della Fede. Sottarco esterno X, estremità.

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Fig. 133. Giovanni da Udine, Amorino su una biga, affresco. Città del Vaticano, Stufetta del cardinal Bibbiena.

e creature pagane. I ricordi delle Logge vi abbondano, con tutto il loro arsenale di rilievi antichi, sarcofagi e monete. Questa decorazione è legata a quella del castello di Belcaro, presso Siena, la cui architettura fu rinnovata da Peruzzi, come pure a quella di tre piccole volte del palazzo senese già Mandoli e oggi Chigi Saracini. Ora, queste ultime sono opera di un artista citato all’inizio del XVII secolo da Mancini. Si tratta di Giorgio di Giovanni, detto Giorgio da Siena, pittore e ingegnere militare, a proposito del quale aggiunge: «essendo stato a Roma con Giovanni da Udine alle Logge Vaticane prese il modo di operare di quei frutti, herbaggi et animali come dimostrò in Siena nel portico di casa Mandoli»146. Benché le volte abbiano subito restauri infelici, una delle tre rimane parzialmente leggibile. Una struttura lineare vi racchiude grottesche raffaellesche, tratte da quelle del primo piano delle Logge vaticane, che Giovanni da Udine dipinse subito dopo quelle di Raffaello. L’attività di Giorgio di Giovanni a Siena, ricordata nei documenti dal 1538 fino alla sua morte, avvenuta nel gennaio 1559, comprende anche dipinti e alcuni disegni nei quali domina l’impronta di Peruzzi, il che fa pensare ad un rapporto iniziale con lui147. Come lasciano intendere le informazioni di Mancini, deve aver lavorato anche ai festoni, probabilmente quelli meno precisi dal punto di vi-

sta scientifico e con una resa meno naturalistica. Giorgio di Giovanni ha dovuto continuare a collaborare col friulano dopo la morte di Raffaello. Infatti è ancora al suo fianco nelle grottesche e nei pergolati più lineari delle Logge del primo piano in Vaticano – quelle di cui si ricorda di più a Siena. A Roma si è affermato solo nella loggia di villa Lante. Negli stucchi dei piedritti compare un altro aiuto di Giovani da Udine, nel quale si può riconoscere lo scultore e architetto Lorenzo Lotti, detto Lorenzetto, nato a Firenze nel 1490148. Era stato incaricato nel 1514 del completamento a Pistoia del monumento del cardinale Forteguerri, iniziato da Verrocchio. In seguito si recò a Roma, dove Raffaello gli affidò i rilievi in marmo con i grandi mascheroni nella Stufetta del cardinal Bibbiena, poi quelli della tomba di Agostino Chigi, nella cappella che aveva progettato per il senese in Santa Maria del Popolo, terminata solo dopo la sua morte. Oltre alla tomba e a quella del fratello Sigismondo, che la fronteggia, lo scultore avrebbe dovuto realizzare quattro statue in bronzo: portò a termine solo quella di Giona, sulla base di un progetto di Raffaello149 e iniziò quella di Elia, completata da Raffaello da Montelupo. Ora, il gruppo di Giona e la balena figura già presente nelle Logge, purtroppo danneggiato, in uno degli stucchi dei piedritti, dove dunque compa-

Pagine seguenti: Tav. 190. Giovanni da Udine, Uomo e Amorino bendato. Sottarco esterno XIII.B. Tav. 191. Giovanni da Udine, Bacco e fauno (cfr. fig. 27). Sottarco VII.C.

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A fronte : Tav. 192. Giovanni da Udine, Festoni. Lunetta VI, particolare. Fig. 134. Giovanni da Udine, Studio di nocciole, disegno, matita nera e aquarello su carta bianca, 268 x 180 mm. Brno, Moravské Galerie, inv. B 2870. Pagine seguenti: Tav. 193. Giovanni da Udine, Festoni con meloni e cavoli. Lunetta V, particolare.

re in anteprima. Per la recinzione d’altare della cappella Lorenzetto realizzò anche un bassorilievo in bronzo con Cristo e l’adultera. Continua a dipendere servilmente dai modelli; le danzatrici Borghese non sono mai state così impacciate. Anche se il livello raggiunto non fu dei più alti, Lorenzetto non riuscì a mantenerlo dopo la morte di Raffaello. Diede forse il meglio di sé quando venne incaricato di sistemare le antichità del cardinale Andrea della Valle nel giardino pensile del suo palazzo. Morì nel 1541. Verso la fine della galleria alcuni stucchi dei piedritti presentano giovani donne che danzano, con drappeggi che ne sottolineano salti e piroette; sono probabilmente opera di Perin del Vaga, cui sono particolarmente vicini alcuni disegni, in uno stile che ricorda i cammei150: sembra che alle Logge Perino abbia debuttato anche come stuccatore.

Tav. 194. Giovanni da Udine, Festone con zucche. A destra del pilastro II, particolare. Tav. 195. Giovanni da Udine, Festone con melone maturo. A sinistra del pilastro X, particolare. Tav. 196. Giovanni da Udine, Festoni. Lunetta VII, particolare. Tav. 197. Festoni e uccello che cattura una libellula. Lunetta II, particolare. Tav. 198. Festoni con cipolle e rose. Lunetta VII, particolare.

Altri collaboratori, rimasti anonimi, devono aver partecipato al cantiere, tra l’altro per le serie dei quattro stucchi dei pilastri. Anche Giovanni da Udine aveva formato una grande bottega. Come racconta Vasari: «e perché egli aveva scelto per Roma e fatto venir di fuori molti maestri, aveva raccolto una compagnia di persone valenti ciascuno nel lavorare, chi stucchi, chi grottesche, altri fogliami, altri festoni e storie, et altri altre cose; e così, secondo che eglino miglioravano, erano tirati innanzi e fatto loro maggior’salarî: laonde gareggiando in quell’opera, si condussono a perfezione molti giovani, che furon poi tenuti eccellenti nelle opere loro»151. Dei numerosi allievi che Raffaello aveva radunato attorno a sé, molti gli furono vicini sin dal suo arrivo a Roma. Nella volta della Stanza della Segnatura le grottesche che incorniciano la struttura geometrica e le scenette che le animano sono opera del Sodoma, che del resto Raffaello rappresenta accanto a sé nella Scuola di Atene, mentre al centro il girotondo di angeli, che ovviamente non gli spetta, è stato attribuito persino a Bramantino. Di più, il maestro ha affidato a Marcillat l’affresco in cui Giustiniano riceve le pandette da Triboniano e ad un altro artista, rimasto anonimo, quello in cui Gregorio IX approva le decretali che gli consegna Raimond de Peñafort. Vasari riferisce inoltre che nel 1508 Raffaello aveva accolto presso di sé il miniaturista olandese Jan Ruysch, che era allora passato all’affresco e che avrebbe avuto notevole influenza su Giovanni da Udine prima di lasciare Roma alla volta del Portogallo153. Nella Stanza di Eliodoro il maestro poteva contare ormai su Penni e su Giulio; ma gli sguinci delle finestre sono stati dipinti da Vincidor, giunto allora da Bologna, mentre nella volta, alla fine del cantiere, le quattro storie della Bibbia sono state affidate a Berruguete, che doveva aver lasciato Firenze da poco; la parte inferiore è stata dipinta da altri aiuti, tra cui Giovanni da Udine, allora sceso da Venezia, col quale subito dopo Raffaello ha instaurato un rapporto di collaborazione più stretto, riservandogli brani ben definiti nella Santa Cecilia e nella Pesca miracolosa, quando iniziò a lavorare ai cartoni degli Atti degli Apostoli. In questo nuovo cantiere, che non è mai stato oggetto di uno studio delle diverse mani, in verità difficile da realizzare, la squadra si allarga notevolmente. Penni, Giulio e Giovanni non sono i soli a farne parte; accanto a loro si riconoscono senza difficoltà Vincidor, Machuca e Pellegrino da Modena. Occorre però distinguere, da parte degli aiuti che af-

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Fig. 135. Luca Penni, Studi dal progetto per il pilastro con Diana Efesia (cfr. tav. 20), particolare. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage, Gabinetto dei disegni. Fig. 136. Luca Penni, Venere vincitrice (cfr. tav. 205), disegno, particolare. Parigi, Museo del Louvre, Département des arts graphiques.

fluivano presso Raffaello, due tipi di comportamento, corrispondenti forse alle diverse posizioni raggiunte all’interno della bottega. Il primo è quello stabile di Penni, Giulio e Giovanni, ai quali si aggiunge Vincidor e, un po’ più tardi, devono essersi aggregati Tamagni, Luca Penni e Raffaellino del Colle con Perino e Polidoro; altri invece vanno e vengono, senza essere legati al maestro. Tra gli interventi nella Stanza della Segnatura e in quello nell’Incendio di Borgo, Marcillat prosegue la propria attività di maestro-vetraio e di pittore. Nel 1517 Pellegrino termina l’abside di Trevignano e Machuca dipinge la Madonna del suffragio, mentre probabilmente Berruguete riconquista anch’egli la propria autonomia. Questo costante ricorso da parte di Raffaello a forze sempre nuove è ben espresso da Vasari all’inizio della descrizione della Stanza dell’Incendio di Borgo (151417) quando spiega: «...del continuo teneva delle genti che con i disegni suoi medesimi gli tiravano innanzi l’opera: et egli, continuamente rivedendo ogni cosa, suppliva con tutti quegli aiuti migliori che egli più pote-

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Fig. 137. Luca Penni, Vittoria (cfr. tav. 206), disegno, particolare. Parigi, Museo del Louvre, Département des arts graphiques. A fronte: Tav. 199. Luca Penni, Grottesca con maschera. Lesena I, rimasta intatta, particolare.

va ad un peso così fatto»153. In questa sala, senza prendere in considerazione la volta, lasciata come l’aveva impostata il Perugino, gli affreschi delle pareti rivelano ben poco la mano di Raffaello, e non c’è bisogno di uno studio approfondito per riconoscervi, oltre i suoi collaboratori della prima ora, Vincidor, Machuca, Tamagni e Marcillat. Nella Sala dei Palafrenieri (1517) Vasari specifica la parte avuta da Giovanni da Udine nella decorazione. Tuttavia, per quanto è ancora leggibile delle figure e già nei disegni preparatori, si nota la presenza di Luca Penni, che deve aver raggiunto il fratello a Roma. Si possono identificare altri aiuti nella Loggia di Psiche alla Farnesina (1518), dove Giovanni diventa protagonista. Ma Giulio non compare nei grandi affreschi della volta – dove ci si aspetterebbe di trovarlo –, sostituito da Tamagni e Luca Penni, mentre nelle unghie interviene Raffaellino del Colle, che questo aveva forse inserito nel gruppo. Il continuo arrivo di reclute spiega forse lo spietato giudizio espresso da Leonardo del Sellaio quando, dopo aver visto la Loggia il primo genna-


LA BOTTEGA

A fronte: Tav. 200. Giorgio di Giovanni, Due donne pensose (cfr. fig. 79). Pennacchio XIII.1, a destra.

io 1519, scrive a Michelangelo: «È scoperta la volta d’Agostino Chisi: chosa vituperosa a un gran maestro; pegio che l’ultima stanza di palazo, asai [...]»154. Venendo dalla fazione di Michelangelo, il giudizio non poteva essere benevolo; tuttavia rivela le perplessità che doveva suscitare un’opera nella quale, al di là dell’ideazione – un vero colpo di genio –, le mancanze sono incontestabili155. Eppure nel 1516 Raffaello aveva realizzato un gioiello nell’appartamento del cardinal Bibbiena. In assenza di Penni e di Giulio, Giovanni aveva assunto la guida di un cantiere dove lavoravano Vincidor, Pellegrino, Luca Penni, Tamagni, Lorenzetto e i due spagnoli con Perino e Polidoro. I motivi di questa riuscita sono molteplici: le piccole dimensioni delle figure e la crescente importanza degli ornati, come pure la loro disposizione su superfici molto ariose, permettevano di nascondere meglio i passaggi da un allievo all’altro e la diversità di accenti. Per di più Raffaello aveva scoperto le possibilità offerte dalla pittura “compendiaria”: nella rinuncia alla propria tecnica tradizionale per dipingere

più in fretta, gli aiuti trovavano un ulteriore elemento di coesione. Le stesse condizioni spiegano il successo delle Logge dove, a distanza, tutto può apparire di formato ridotto, ma è solo un’impressione dovuta alla vastità della galleria. All’apertura del cantiere Raffaello, probabilmente, si limita a dare degli schizzi affidandosi a Giulio per la pittura e impiegando Penni per i modelli. Ecco allora ricomparire Marcillat, Giovanni da Udine, Pellegrino, Vincidor e Luca Penni; entra in scena Bartolomeo di David e, per un breve periodo, Machuca e Berruguete, poi torna Raffaellino del Colle. Tra i primi progetti e la loro esecuzione sta dunque il filtro dei modelli, che peraltro non vengono seguiti fedelmente. I pittori, che a volte lavorano in due ad una stessa storia, li modificano ancora e creano i propri paesaggi. Verso la metà della galleria, il tandem Penni-Giulio si scioglie, ed entrambi scompaiono senza che il primo venga sostituito. Il modello è sempre più spesso affidato al pittore incaricato dell’affresco. Quando Perin del Vaga assume la direzione del cantiere e collabora stretta-

Fig. 138. Giorgio di Giovanni, Volta in stucco, particolare. Roma, villa Lante, loggia. Fig. 139. Giorgio di Giovanni, Scena di sacrificio. Roma, villa Lante, loggia. Pagine seguenti: Tav. 201. Giorgio di Giovanni, Ercole e il leone Nemeo (?), e Vincenzo Tamagni (?), Amorini vegetalizzati con l’anello di diamante mediceo. Pennacchio XI.4, a sinistra. Tav. 202. Giorgio di Giovanni, Uomo disteso con una palma. Pennacchio II.2, a destra.

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LA BOTTEGA

Fig. 140. Giorgio di Giovanni, Diana e Endimione, affresco, particolare. Belcaro (Siena), Castello, loggia. A fronte: Tav. 203. Giorgio di Giovanni, Coppia con bambino. Pennacchio XII.3, destro.

mente con Polidoro, intervengono di nuovo Marcillat, Pellegrino, Bartolomeo, Raffaellino del Colle, poi Tamagni e, sembra, Giovanni da Spoleto. Le grottesche delle volte sono affidate a Bartolomeo di David e Tamagni, gli stucchi a Berruguete. Un gran numero di artisti lavorano anche agli ornati sotto la direzione di Giovanni da Udine: oltre a Perino e Polidoro, Lorenzetto e Giorgio di Giovanni, insieme a molti ignoti. Verso la fine del cantiere, a quanto pare senza che Raffaello vi presti molta attenzione, Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio, con l’aiuto almeno di Luca Penni e Raffaellino del Colle, aggiungono le grisaille sul basamento.

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Raffaello ha progettato tutto, ma ai suoi occhi l’autografia non riveste l’importanza che ha per Michelangelo, né quella che assume in epoca romantica; per lui l’idea è più importante dell’esecuzione. Ma l’unità che riesce a dare alla decorazione ha del miracoloso. Benché oberato di lavori, il maestro è presente e passa le consegne agli allievi senza far mai mancare loro la sua fiducia. Il suo ruolo è quello di un direttore d’orchestra che dirige la sinfonia che egli stesso ha scritto. Quanti aspirano a lavorare insieme a lui accorrono da tutta l’Italia, e non solo. Mentre Milano vede ridursi il proprio ruolo e Firenze perde il monopolio nei confronti degli artisti, Roma li attira sempre più: vengono


Fig. 141. Lorenzetto, Giona (cfr. tav. 204). Roma, Santa Maria del Popolo, Cappella Chigi. Fig. 142. Perin del Vaga, Apollo e Giacinto, disegno. Parigi, Museo del Louvre, Département des arts graphiques. Fig. 143. Lorenzetto, Cristo e l’adultera (cfr. tav. 30), bronzo, particolare. Roma, Santa Maria del Popolo, Cappella Chigi.

A fronte: Tav. 204. Lorenzeto, Giona (cfr. fig. 141). Piedritto a sinistra del pilastro V.C. Pagine seguenti: Tav. 205. Lorenzetto, Venere vincitrice (cfr. fig. 136). Piedritto a destra del pilastro I.A. Tav. 206. Lorenzetto, Vittoria (cfr. fig. 137). Piedritto a destra del pilastro I.B. Tav. 207. Perin del Vaga (?), Vittoria. Piedritto a destra del pilastro XII.A. Tav. 208. Perin del Vaga (?), Vittoria. Piedritto a destra del pilastro XIII.B.

a cercarvi l’antico, Raffaello e Michelangelo, ma solo Raffaello li accoglie. Vasari descrive bene la situazione quando racconta: «Erano allora in Roma infiniti giovani che attendevano alla pittura, et emulando fra loro cercavano l’uno l’altro avanzare nel disegno per venire in grazia di Raffaello e guadagnarsi nome fra i popoli»156. L’ultima ragione del trionfo dell’impresa delle Logge egli la dà alla fine della vita del maestro: «... lavorando ne l’opere in compagnia di Raffaello stavano

uniti e di concordia tale che tutti i malumori nel veder lui si amorzavano, et ogni vile e basso pensiero cadeva loro di mente: la quale unione non fu più in altro tempo che nel suo». E per concludere, dopo aver ricordato la sua natura generosa: «...sempre tenne infiniti in opera, aiutandoli et insegnandoli con quello amore che non ad artifici, ma a figliuoli proprii si conveniva...»157. Le Logge di Raffaello sono nate in questo clima dove, accanto all’emulazione, regnava una perfetta armonia.




CAPITOLO QUARTO

LA FORTUNA

Tav. 209. Giorgio di Giovanni (?), Atlante. Figura d’angolo tra due pennacchi. Volta III.

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LA FORTUNA

Tav. 210. Pirro Ligorio e bottega, Casina di Pio IV. Città del Vaticano, Giardini.

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Alla morte di Raffaello, il 6 aprile 1520, nel “triplo portico” comparvero alcune crepe. Si diffuse la voce che l’evento avesse del miracoloso; Tebaldeo ne trasse un poema1; Marcantonio Michiel commenta: «Sono di quelli che dicono che non il peso delli portici sopraposti è stato di questo cagione, ma per fare prodigio che ’l suo ornatore havea a manchare»2. Le Logge erano unite a Raffaello da un legame primordiale; da quando vennero terminate, suscitarono unanime ammirazione. «Insomma si può dire, esclama Vasari, che, per opera così fatta, questa sia la più bella, la più rara e più eccellente pittura che mai sia stata veduta da occhio mortale. Et ardirò oltre ciò d’affermare questa esser stata cagione che non pure Roma, ma ancora tutte l’altre parti del mondo si sieno ripiene di questa sorte di pitture»3. Le Logge di Raffaello sono rimaste il primo complesso ornamentale dell’arte dell’Occidente. Goethe ha notato con molto acume come Raffaello abbia sempre realizzato ciò che ci si attendeva da lui. In effetti le Logge hanno offerto una risposta ideale alle aspirazioni dei contemporanei. La soluzione ideata da Raffaello, che faceva rivivere i motivi riscoperti nel palazzo di Nerone, era perfetta sotto tutti i punti di vista. Nelle grotte, con gli stucchi e le grottesche uscivano dal loro lungo torpore le più seducenti creature del mondo pagano – ninfe, satiri, fauni, centauri, sfingi, sirene, putti, maschere –, che volteggiavano in una natura lussureggiante senza alcuna pretesa di erudizione. Spesso le grottesche delle Logge sono costituite da elementi vegetali tra i quali si muove una folla di animali, mentre i festoni di frutti, fiori e ortaggi che pendono dall’alto e si stagliano in trompe-l’œil sullo sfondo azzurro del cielo, sono un preludio al giardino, che si apriva aldilà delle arcate, e un invito ad entrare nel mondo dell’immaginario. Accostando a queste immagini quelle del patrimonio del mondo cristiano, il ciclo biblico che si dispiega sulle volte potrebbe a prima vista apparire in contraddizione con tanta leggerezza ed esultanza; ma le storie che lo compongono, a differenza di quelle delle Stanze o degli arazzi degli Atti degli Apostoli, appaiono così chiare e limpide che gli eroi acquistano una dimensione remota e divengono eterni. Tuttavia, durante le epoche successive, che, senza esclusione, sino al XIX secolo inoltrato si nutriranno della cultura delle Logge, i due poli saranno spesso disgiunti, compromettendone l’iniziale coerenza. La novità di quest’opera si diffonde dapprima nei cantieri rimasti incompiuti alla morte del maestro e ripresi dagli allievi: la Sala dei Pontefici, nell’appartamento Borgia,

continuata da Perin del Vaga e Giovanni da Udine – dove già il primo ha la meglio –, poi la grande loggia di villa Madama, portata a termine da Giulio Romano e Giovanni da Udine. In questo ciclo, dipingendo un Polifemo gigantesco senza curarsi delle dimensioni degli ornati, Giulio proclama il proprio disaccordo rispetto al friulano, e l’armonia di Raffaello si spezza. È noto che il cardinale Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII), messo al corrente della lite, ordinò che venissero prese misure per evitare che fosse interrotto il lavoro di quelli che, in una lettera del 1520 al suo segretario, chiama «quei duo pazzi»4. A questo punto la complessità della decorazione delle Logge si fraziona in elementi distinti, che ogni allievo avrebbe svolto secondo la propria inclinazione. Quando, sempre a Roma, Giulio, divenuto architetto, costruisce villa Lante sul Gianicolo, la loggia rivestita di stucco bianco che apre sul fianco dell’edificio è panoramica, come le Logge di Raffaello, e la decorazione si ispira ai loro stucchi. In seguito ai contrasti con Giovanni da Udine, Giulio la affida all’anziano collaboratore senese del friulano, Giorgio di Giovanni, che non ne adotta il naturalismo. Le grottesche attiravano poco Giulio Romano, che vi ha fatto ricorso solo occasionalmente, in particolare a palazzo Te. Al contrario, Giovanni da Udine le ha riprese più volte, ma senza mai apportarvi modifiche sostanziali. È toccato a Perin del Vaga sviluppare l’ornamentazione all’antica, prima a Genova, in palazzo Doria, poi, tornato a Roma, nell’appartamento di Paolo III in Castel S. Angelo. Degli aiuti del maestro, Polidoro da Caravaggio, per via delle sue origini lombarde, era l’allievo di Raffaello più lontano dallo spirito delle Logge: si ricordò anzitutto delle grisaille del basamento e ne derivò alcuni graffiti che, con Maturino, diffuse sulle facciate dei palazzi romani. Altri artisti che avevano lavorato al cantiere delle Logge ne rimasero invece profondamente segnati. Nelle volte della cattedrale di Arezzo, Marcillat tentò un’utopica unione tra la Genesi di Raffaello e quella di Michelangelo; a Siena, in palazzo Francesconi, Bartolomeo di David propose una versione più dimessa delle grottesche, mentre a palazzo Mandoli e a Belcaro Giorgio di Giovanni ne diede un’interpretazione quasi neoclassica nel suo purismo. Quando Raffaello inviò nei Paesi Bassi Tommaso Vincidor, l’essenziale del suo bagaglio era formato dalle Legge; ed egli si ricorda degli episodi della Bibbia non solo nei progetti per una serie di arazzi con la storia di Mosè, ma anche, più in generale, nella semplificazione narrativa

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Fig. 144. Veduta del salone del Municipio di Norimberga progettata da Albert Dürer, acquarello di Lorenz Hess. Norimberga, Museen der Stadt Nürnberg, Gemälde und Skulpturen. Fig. 145. Julio de Aquiles, Peinador de la Reina, lato verso la valle del Darro. Granada, Alhambra.

delle invenzioni; inoltre, su questa cultura si innestarono in seguito i pittori fiamminghi venuti in Italia a completare la propria formazione5. È possibile che Vincidor abbia anche fatto conoscere nel Nord le grottesche, soggetto di un altro arazzo alla cui realizzazione deve aver preso parte. Le decorazioni delle Logge non devono tuttavia aver colpito molto la sua attenzione, e il loro spirito non fu molto capito, allora, nei Paesi Bassi; fu assai più forte l’eco dei festoni, che ricomparvero a Bruxelles nelle bordure di molti arazzi che qui furono tessuti. Ma l’introduzione di questo elemento spetta forse di più all’aiuto che aveva accompagnato Vincidor da Roma, e che in seguito si sarebbe stabilito a Barcellona, dove divenne Pedro Seraphín, o Pere Serafí6. In seguito, questi festoni dai Paesi Bassi tornarono in Italia, nelle bordure di arazzi realizzati dai fiamminghi che vi si stabilirono, in primo luogo i fratelli Nicola e Giovanni Karcher, attivi a Ferrara a partire dal 1536, poi Luca d’Olanda7. La cultura delle Logge ebbe ampia diffusione in Spagna, dapprima grazie a quanti avevano lavorato al cantiere: Berruguete e Machuca, i due artisti che, con Diego de Siloé e Bartolomé Ordóñez, Francisco de Hollanda chiama le «aquile» della penisola iberica. Le Logge sono, certamente, una componente importante dell’arte di Berruguete, sia nei dipinti dei suoi primi retabli, sia nelle sue sculture castigliane. Machuca se ne ricordò, a sua volta, innestandole sulla Stufetta del cardinal Bibbiena quando, come architetto, sistemò per Carlo V due stanze di una torre del palazzo nasride dell’Alhambra di Granada – le quali del resto, prima di prendere il nome di “Peinador de la Reina”, erano chiamate “estufa”, stanza da bagno. Quando, alla fine degli anni Trenta del XVI se-

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A fronte: Tav. 211. Stefano Veltroni, composizione con gli emblemi di Paolo III. Falsa finestra della campata V.

colo, esse furono decorate da un allievo di Giovanni da Udine, Giulio Aquili, nipote di Antoniazzo Romano, che lavorò in collaborazione con un pittore venuto probabilmente dal Nord, Alejandro Mayner, l’italiano unì reminiscenze della Stufetta del cardinal Bibbiena e delle Logge a quanto aveva appreso, passando da Genova, da Perin del Vaga8. La cultura delle Logge fu portata in Francia da Luca Penni, il fratello di Giovanfrancesco che aveva lavorato alla loro decorazione. Ma Rosso, che durante il suo soggiorno a Roma, all’inizio degli anni Venti, era stato colpito dalla loro disposizione architettonica, se ne ricordò già quando ideò la galleria di Francesco I a Fontainebleau. Sembra che alcuni pannelli con grottesche ispirati a quelli delle Logge abbiano decorato anche il castello Non Such di Enrico VIII in Inghilterra. Il loro autore è sconosciuto: forse si tratta di Toto del Nunziata o di Bartolomeo Penni (il terzo fratello della famiglia), dei quali si sa che andarono a cercar fortuna alla corte di Enrico VIII9. In ogni caso i pannelli in questione sono legati alle incisioni di Agostino Veneziano, le quali sono, a loro volta, in stretto rapporto con i pilastri delle Logge10. Effettivamente, queste incisioni si diffusero come una cometa in Italia e ben oltre, arrivando fino ad arricchire anche il repertorio dello stile plateresco in Spagna11. Infine, in Germania le Logge di Raffaello furono probabilmente alla base della decorazione del salone d’onore del municipio di Norimberga – cosa che non è stata ancora notata. La decorazione, progettata da Albrecht Dürer al suo ritorno dai Paesi Bassi, è scomparsa, ma è possibile farsene un’idea da una veduta a colori del XVII secolo12. La serie dei vani delle finestre era scandita da grottesche e


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Tav. 212. Stefano Veltroni, composizione con gli emblemi di Paolo III. Lunetta all’ingresso sud delle Logge.

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A fronte: Tav. 213. Paesaggio eseguito sotto Giulio III. Falsa finestra della campata XIII. Tav. 214. Armi di Pio IV circondate da angeli. Lunetta all’ingresso nord delle Logge.

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festoni annodati con nastri rossi, la cui fonte d’ispirazione appare certa: il maestro deve esserne venuto a conoscenza a Bruxelles attraverso Vincidor; del resto i putti sormontati da ghirlande che sono dipinti tra le finestre sono evidentemente un ricordo dei cartoni dei Giochi di putti di cui l’italiano stava preparando i progetti13. Già quando Raffaello era in vita, gli artisti che facevano il viaggio a Roma andavano ad ammirare le Logge così come studiavano l’antico o visitavano la Cappella Sistina. Correggio se ne è ricordato nella Camera di San Paolo, Beccafumi a palazzo Bindi Sergardi, Parmigianino a Fontanellato, Salviati nelle decorazioni monumentali, Stefano Veltroni a villa Giulia, nella squadra di Prospero Fontana e Taddeo Zuccari, Bronzino nella cappella di Eleonora di Toledo, Pellegrino Tibaldi a Bologna, Veronese e molti altri nel Veneto... Ogni volta che, in un palazzo o in una villa, si doveva decorare una loggia o un qualsiasi ambiente ad essa assimilato, ricompariva qualche elemento delle Logge di Raffaello, in particolare le grottesche e i festoni14. Le reminiscenze sono chiare anche a Città di Castello, in palazzo Vitelli a porta Sant’Egidio, nel palazzo di Caprarola, più tardi a Roma, in palazzo Ruspoli-Rucellai. Nella seconda metà del secolo il salone del castello di Ambras e quello della Residenz,

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Fig. 146. Anonimo napoletano degli inizi del XVII secolo, Vaso con cedro, dipinto recante la firma falsa di Giovanni da Udine. Ubicazione sconosciuta.

a Monaco, sarebbero inconcepibili senza le Logge di Raffaello. Contemporaneamente, le Logge portarono alla nascita di un fenomeno di copie. I musei rigurgitano di fogli che riproducono i motivi dei pilastri. Questi ultimi si trovano citati per la prima volta in modo preciso nelle miniature di Giulio Clovio, dove potevano facilmente sostituire i racemi nelle bordure: compaiono su fondo dorato nel Libro d’ore Stuart de Rothesay, su fondo bianco nella Lettera di san Paolo ai Romani e ancora nel Libro d’ore Farnese15. Furono commissionate anche copie dell’insieme della decorazione. Armenini riferisce di aver partecipato a una di queste imprese, organizzata ad Anversa per conto di un Fugger dall’antiquario Jacopo Strada, che era a Roma nel 1554, aggiungendo che, di lì a poco, una seconda serie venne spedita alla corte di Filippo II16. L’esemplare spagnolo è perduto; quello dei Fugger è conservato alla Nationalbibliothek di Vienna17. È costituito da 104 disegni a penna e lavis, colorati ad acquerello e a guazzo, che dovevano rappresentare in modo sistematico tutte le parti delle Logge: volte, sottarchi, lunette, pilastri, basamento, ma non sono stati finiti. Questi fogli rivelano la presenza di molte mani, certo non di grande livello, ma sono una preziosa testimonianza dello stato della galleria negli anni Cinquanta del XVI secolo. Già Paolo III aveva modificato il sistema delle porte di accesso, ordinato dei restauri ai dipinti e fatto apporre gli emblemi propri e della sua famiglia in una delle finestre (la quinta) e sulle pareti nord e sud, con la lunetta che li sovrasta. Al liocorno e al giglio Farnese aveva aggiunto il proprio segno zodiacale ascendente, l’Acquario, come pure i “gigli blu” circondati dall’arcobaleno, due elementi che hanno lo stesso nome, “iris”18. In seguito Giulio III fece dipingere nelle altre finestre alcuni paesaggi, tre dei quali si sono conservati, con animali, soprattutto uccelli19. Gli artisti che venivano a vedere la galleria o a copiarne la decorazione non si sono però lasciati ingannare e hanno ignorato queste aggiunte. La formula delle Logge ha avuto particolare fortuna in Vaticano, dando luogo ad un susseguirsi di riprese di straordinaria continuità. Subito dopo quelle di Raffaello, partendo da un’idea del maestro, Giovanni da Udine – come si è visto – aveva decorato il primo piano del “triplo portico”, esattamente sotto le Logge di Raffaello, con pergolati che ricoprivano l’intera superficie delle volte, senza lasciare spazio a scene figurate. Più tardi, sotto il pontificato di Pio IV, il friulano venne incaricato di decorare il

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terzo piano della galleria – proprio sopra le Logge –, riproponendo, questa volta, gruppi di quattro storie sulle volte20. Ma, privato della presenza di Raffaello, aveva ormai perso la vena inventiva. Roma viveva allora i giorni più bui della Controriforma: mentre Daniele da Volterra era incaricato di vestire le figure del Giudizio universale della Sistina, cosa che gli valse l’appellativo di “braghettone”, Giovanni si apprestava a coprire le figurette nude che aveva dipinto nelle grottesche delle Logge di Raffaello21. Questi ritocchi a secco non hanno però resistito al tempo e ne restano a mala pena visibili poche tracce nella zona inferiore dei pilastri. Pio IV fece anche cancellare la decorazione voluta da Paolo III nella lunetta della parete settentrionale per raffigurarvi le proprie armi, le palle dei Medici, fiancheggiate da putti22. Quanto al muro meridionale, gli elementi che vi erano stati dipinti su un supporto ligneo sono stati smontati nel 1952, quando si ritrovò il semipilastro all’inizio della galleria, così che rimane solo l’affresco della lunetta23. I lavori delle terze Logge furono interrotti, poi ripresi sotto il pontificato di Gregorio XIII, quando venne decorato il secondo braccio del piano, facendo sempre ricorso al medesimo schema: un fenomeno di sottomissione ripetuta al modello raffaellesco che riemergerà nel XIX secolo, quando la decorazione del terzo braccio delle Logge, costruito nel frattempo, sarà affidata a Nicola Consoni, Alessandro Mantovani e Pietro Galli. Naturalmente bisogna tener conto anche della Bibbia di Raffaello, della quale nel XVI secolo erano state incise solo alcune scene, partendo probabilmente da disegni sparsi che ne circolavano24 e che erano a loro volta riprodotti e servivano agli usi più svariati, persino per le maioliche25. Le storie religiose delle Logge offrivano una nuova iconografia, che si era imposta. Su un piano più generale, esse fornirono anche un modo più semplice di costruire il racconto e una tecnica pittorica più rapida, ispirata alla maniera “compendiaria” degli Antichi. Agli albori del XVII secolo, mentre in Italia le grottesche cadevano in disuso, i festoni continuavano ad attirare l’attenzione degli artisti. Nel 1952 Charles Sterling ha pubblicato, nel suo bel volume sulla natura morta, un dipinto con un cedro in un vaso di terracotta26. Da un vaso panciuto si erge un fusto dal quale pendono frutti pesanti, in mezzo a foglie che si accartocciano, e alcuni fiori della stessa pianta isolati o a mazzi. Il recipiente è ravvivato da

un mascherone che accenna un sorriso, ornato da una conchiglia, da nastri e altri fiori bianchi. Colpita da un’illuminazione violenta, in contrasto con lo sfondo scuro, la composizione poggia su un tavolo sul quale scivola una lucertolina. A destra si legge distintamente G Da Udine in Casa Spilimberga 1538. Sterling ricordava la descrizione di un secondo dipinto, legato al precedente, e metteva queste opere in relazione coi festoni delle Logge di Raffaello. Ma il vaso col cedro gli appariva troppo caravaggesco per il Rinascimento: ipotizzò dunque che si trattasse di una copia, realizzata a partire da un originale perduto di Giovanni da Udine, il quale, come è noto, nel 1555 lavorava nel castello di Spilimbergo in Friuli. L’eminente studioso avanzava l’ipotesi che egli ci fosse stato in precedenza, e individuava in Giovanni da Udine il creatore della natura morta autonoma. Le decorazioni dipinte da Giovanni a Spilimbergo non lasciano tuttavia trasparire nulla di una iniziativa di tale raggio: bisogna dunque ammettere che i due dipinti sono dei pastiches il cui autore, rimasto anonimo, aveva intuito come i festoni fossero il preludio alla creazione della natura morta. La serie, che si è arricchita di altri pezzi, è da collocare agli inizi del XVII secolo, a Napoli, nell’ambito di Giuseppe Recco27. In questo periodo gli artisti erano attratti soprattutto dalla Bibbia delle Logge. Le 52 scene che la compongono furono riprodotte per la prima volta nel 1607 da Giovanni Lanfranco e Sisto Badalocchio28, che dedicarono la raccolta ad Annibale Carracci. Se si considera che Annibale era al centro del movimento classico che caldeggiava il ritorno a Raffaello, la scelta non appare certo casuale. Del resto gli echi della Bibbia delle Logge sono numerosi nella sua opera, come in quella di Domenichino o di Albani. Come Lanfranco e Badalocchio spiegano nel frontespizio della raccolta, fu loro concesso di lavorare in Vaticano, il che li mise in condizione di partire dagli affreschi per riprodurne le composizioni. Il risultato fu però tutt’altro che fedele; le scene inoltre furono rovesciate. La pubblicazione rispondeva tuttavia a una attesa reale, e fu accolta con calore. Se ne fecero diverse edizioni; una copia fu realizzata da Aloisi Galanini, che invertì di nuovo le scene, ristabilendone il senso originario, e vi aggiunse alcuni versetti della Bibblia in latino29. Nel 1615 fu pubblicata una nuova serie da Orazio Borgianni30, e una terza fu iniziata dall’incisore di traduzione Francesco Villamena, che progettò di aggiungervi le scene del basamento, ma venne interrotta dalla morte dell’autore, nel 1624, e solo le prime venti tavole furono stampate due anni dopo31.

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La serie più bella è quella di Nicolas Chapron, che uscì nel 164932. L’iniziativa partiva probabilmente da Poussin, che desiderava presentare la Bibbia di Raffaello in Francia per farla conoscere, tra l’altro, ai pittori che non avevano avuto l’occasione di recarsi in Italia, ed ebbe una vastissima diffusione. Altre serie furono pubblicate fino al XIX secolo33, ma benché i perfezionamenti della tecnica rendano talvolta impressionante la fedeltà ai modelli, non fu mai eguagliata la bellezza di quella di Chapron, di cui già Mariette lodava la qualità e la morbidezza. Una menzione particolare meritano anche le 43 tavole pubblicate da Pietro Sante Bartoli, i cui rapporti con Poussin e Bellori sono noti34. È l’unica raccolta che comprenda, oltre a numerosi stucchi, le storie del basamento, tanto che è rimasta il riferimento obbligato per questa parte della decorazione, oggi scomparsa. Il confronto di uno stesso soggetto biblico trattato da diversi artisti mette in luce il mondo che li separa. Se si prende, ad esempio, la Scala di Giacobbe (VI.1) e si esamina per prima cosa ciò che ne fa Lanfranco, oltre allo sconcerto provocato dall’inversione della scena, si nota come il rapporto che unisce la figura alla natura, uno degli elementi più importanti per Raffaello, sia falsato: è evidente che il paesaggio non ha colpito l’attenzione del pittore di Parma, che non ha neppure notato che la scena si svolgeva al chiaro di luna. La fama raggiunta dalla serie da lui realizzata assieme a Badalocchio deriva soprattutto dal fatto che è stata la prima in ordine di tempo. La versione di Borgianni è più significativa, anche se, di primo acchito, può sorprendere l’interesse per Raffaello da parte di un artista legato ai caravaggeschi e ai naturalisti. Borgianni si è dedicato a quest’opera alla fine della vita, e se le tavole sono state qualche volta troppo morse dall’acquaforte, tuttavia ne sono nati interessanti contrasti di luci e ombre, che conferiscono loro un’innegabile originalità. Chapron è l’unico ad aver colto lo spirito di Raffaello e al tempo stesso gli accenti particolari di ogni scena, in questo caso quelli che le ha impresso Alonso Berruguete – il movimento vorticoso, morbido e cadenzato a un tempo, della figura vinta dal sonno, il volto dai tratti marcati inondato di luce, la massa tempestosa delle nubi tra le quali si ergono i gradini apparsi dal cielo, infine la natura, evocata con pochi tocchi scuri all’orizzonte, sotto la falce di luna. Le diverse serie di incisioni che riproducono la Bibbia di Raffaello hanno fatto sì che se ne possano scoprire echi anche in artisti che non hanno fatto il viaggio a Roma, come Philippe de Champaigne o Rembrandt, e hanno favo-

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Figg. 147-149. Giovanni Lanfranco (fig. 147), Orazio Borgianni (fig. 148), Nicolas Chapron (fig. 149), Sogno di Giacobbe, incisioni dalla Bibbia di Raffaello (VI.1). Roma, Istituto Nazionale per la Grafica.

Fig. 150. François de La Guertière, Frontespizio della raccolta di grottesche dalle Logge di Raffaello, incisione (1670). Roma, Istituto Nazionale per la Grafica.

rito anche l’introduzione dei loro temi fin nelle arti applicate35. Il caso più sorprendente è forse quello di Sir James Thornhill, un inglese che non ha mai conosciuto l’Italia, noto quadraturista, autore delle volte della cattedrale di St Paul a Londra e della Painted Hall dell’Ospedale di Greenwich, che dedicò gli anni della sua vecchiaia a copiare i cartoni degli Atti degli Apostoli, allora esposti nel palazzo di Hampton Court36. Nell’All Souls College di Oxford due dipinti usciti dalla sua bottega rappresentano, derivati dalla Bibbia delle Logge attraverso incisioni – probabilmente quelle di Chapron –, Giuseppe e la moglie di Putifarre (VII.3) e Giuseppe che spiega i sogni del Faraone (VII.4)37. Ma nella seconda scena Giuseppe è divenuto un uomo anziano, con fluente capigliatura e lunga parrucca bianche: sotto i tratti dell’eroe si riconosce, sembra, uno dei tanti autoritratti di Thornhill. La Bibbia di Raffaello è entrata nel repertorio classico, tanto che, quando il maestro tratta un tema, la forma che gli conferisce si impone. Così, ad esempio, la prima edizione della Creazione di Haydn ha sul frontespizio la riproduzione della Separazione della luce dalle tenebre (I.1)38.

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come, trovandosi nella galleria, ne ammirasse «le antiche meraviglie di Raffaello da Urbino, già dimenticate per gli anni e i danni dovuti all’esposizione all’aria», quando gli venne l’idea di riprodurle per sottrarle alle «ingiurie del tempo» e mostrare «come Raffaello, dipingendole, sembrasse essersi abbandonato ad un gioco» («lusisse videretur»). Mentre in tutta Europa le serie di incisioni consentivano ad artisti e amatori di assimilare la Bibbia di Raffaello, a Roma gli ammiratori del maestro si accalcavano nella più celebre delle sue gallerie. Il 18 gennaio 1645 John Evelyn riferisce che, durante la sua visita al palazzo pontificio, fu condotto «a certe terrazze all’aperto con arcate, dove sono dipinte da Raffaello le storie della Bibbia che sono tenute in così grande stima che artisti vengono da ogni parte d’Europa per studiarne le composizioni; è poco ma sicuro che nel mondo intero non si trova un’arte così stra-

Nel XVII secolo le grottesche continuano a suscitare scarso interesse, con l’eccezione tuttavia di qualche decorazione in Francia. Qui la più importante è quella che Vouet dipinge, verso la fine della vita, nel salottino e nel bagno di Anna d’Austria nel Palais Royal. I dipinti sono scomparsi, ma è possibile farsene un’idea grazie alle quindici incisioni che ne ha tratto Michel Dorigny nel 164739. Nella decorazione dominano i ricordi delle Logge, che risalgono probabilmente al soggiorno dell’artista a Roma, al tempo della sua giovinezza. Ciascuno dei pannelli, ai due lati di un asse centrale, comprende medaglioni derivati da quelli dei pilastri, tra cui uno scudo da amazzone. Ma Vouet rappresenta solo pochi elementi in altezza, cosa che rende le composizioni massicce, tanto più che i racemi sono molto carnosi. Probabilmente sotto l’influenza di questa decorazione, nel 1670 il pittore François de la Guertière pubblicò sedici tavole, derivate dai pilastri delle Logge, che dedicò a Jabach – e da cui derivò il suo maggior titolo di gloria40. Alla maniera di molti copisti di cui rimangono i disegni, ha operato raggruppando su ogni pagina due, tre o quattro composizioni formate da motivi desunti dai pilastri, di cui di solito viene presentata una buona metà. Nell’elegante testo in latino sul frontespizio, abbellito ancora una volta da un grande scudo da amazzone, l’autore racconta

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ordinaria; i fogliami e le grottesche che fiancheggiano alcuni compartimenti sono mirabili»41. Con i loro trompel’œil, i loro colori e armonie, le Logge suscitavano ammirazione universale per la visione che davano della natura. Montesquieu lo ha ben detto quando, nel 1729, suggerisce di andare a vedere «primo, le Logge di Raffaello, opera divina e mirabile. Che perfezione di disegno! Che bellezza! Che naturalezza! Non è pittura, è la natura stessa. Questi non sono colori artificiali, presi dalla tavolozza..., sono proprio i colori della natura. Quando si guardano i paesaggi di Raffaello, il cielo che ha dipinto, e ci si volta a guardare la natura, sembra che sia la stessa cosa. Insomma, sembra che Dio per creare si serva della mano di Raffaello»42. Il cardinale Valenti Gonzaga, segretario di Stato di Benedetto XIV, ordinò una copia disegnata della galleria al pittore e ingegnere spagnolo Francisco La Vega, il quale realizzò una sorta di album-ricordo, paragonabile alle miniature eseguite un tempo per i Fugger, composto da 57 fogli a penna, datati dal 1742 al 1745, che riproducono volte, archi, lunette e pilastri sino al pavimento43. Non mancano però le infedeltà, e alcune lumeggiature ad acquarello falsano completamente la policromia dell’insieme. Un altro artista, rimasto anonimo, copiò a guazzo su pergamena i 14 pilastri, trasponendoli di nuovo in miniatura, questa volta con grande finezza, poi li fece incorniciare in ciliegio riprendendo le modanature in stucco dorato dell’originale44. Le Logge di Raffaello raggiunsero l’apice della loro gloria quando si unirono per riprodurle tre artisti: il pittore Gaetano Savorelli, l’architetto Pietro Camporesi e l’incisore Giovanni Ottaviani, che ne richiesero il privilegio a Clemente XIII (1758-69) – come si può vedere nelle tavole della prima dispensa. Savorelli e Camporesi erano al lavoro nella galleria nel 1768, quando li incontrò l’architetto di Dresda Weinlig, che in seguito, rientrato nella città natale, se ne sarebbe ispirato largamente45. Le Logge erano sempre affollate. Nel dicembre 1771 venne a disegnarvi ciò che considerava il meglio dei pilastri un membro dell’Accademia di Francia, Pierre-Adrien Pâris, del quale si conservano alcuni disegni dai colori tanto vivaci quanto inesatti46. Infine, negli anni 1770-71, lasciò Venezia per raggiungere il terzetto a Roma l’incisore, allora già celebre, Giovanni Volpato, il cui nome sarebbe rimasto legato all’impresa a scapito di chi lo aveva preceduto47. Il suo nome non compare ancora nella seconda dispensa – le stampe uscirono a puntate –, che reca il privilegio di Cle-

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Tav. 215. Giovanni Volpato, Veduta generale delle Logge, incisione acquarellata fungente da frontespizio della raccolta. Parigi, École nationale supérieure des beaux-arts.

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mente XIV (1770-74). Nella terza egli sostituirà l’équipe iniziale col pittore Ludovico Teseo, prima di completare l’opera nei due frontespizi del 1776 e 177748. Le 46 tavole che compongono la raccolta non si rifanno a nessuna di quelle che l’hanno preceduta. La prima dispensa riproduce in modo sistematico, e generalmente fedele, la decorazione del muro interno, dal pilastro ai festoni, secondo una visione d’insieme che costituiva una novità nelle incisioni del monumento. Mancano solo le scene del basamento, che dovevano essere già in cattive condizioni. La seconda dispensa, che dà la sezione di un quarto di ciascuna volta con la lunetta e i pennacchi corrispondenti, è ugualmente affidabile, malgrado la scena biblica prescelta per ciascuna campata non sia sempre quella raffigurata nel lato in questione49. La Bibbia di Raffaello è dunque rappresentata solo per un quarto. La terza dispensa presenta una combinazione artificiosa dei pilastri esterni, con delle aggiunte, che si ispira alla ripartizione degli stucchi sui piedritti a destra del sesto pilastro e a sinistra del settimo.

Tav. 216. Giovanni Volpato, Pilastro con fauna marina (esterno XI.B), incorniciato da stucchi vari. Parigi, École nationale supérieure des beaux-arts.

Tav. 217. Giovanni Ottaviani, Pilastro con uccellatore (VII), con lesena, piedritto e festoni (cfr. tav. 21). Parigi, École nationale supérieure des beaux-arts.

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Una parte degli esemplari venne colorata a mano, e i più preziosi furono inviati alle principali corti europee50. Le tonalità tenui spesso adottate, nelle quali dominano l’azzurro e l’oro, non serbavano nulla della ricchezza iniziale e facevano assomigliare gli stucchi a dei Wedgwood, mentre la gamma più sostenuta di altri esemplari ne era altrettanto lontana, specialmente per i colori di fondo dei medaglioni di stucco. Tuttavia, la bellezza delle tavole e il loro valore documentario unico ne decretarono un successo strepitoso in tutta Europa, e la loro influenza si fece sentire persino nelle arti decorative51. Nella riproduzione dei pilastri esterni Volpato si è però preso molte libertà. Per non mostrarne solo le superfici in tutta la loro altezza, le ha messe tra bande verticali formate da motivi presi qua e là nelle Logge, nella maggior parte dei casi dagli stucchi, ma anche dagli ornati delle volte, senza farsi scrupolo di modificare la forma delle cornici e talvolta persino il soggetto. Per di più, per rimediare alla mancanza di alcuni pilastri esterni, ha tranquillamente attinto alle bordure degli arazzi con gli Atti degli Apostoli. Questo pot-pourri, nel quale il modello è tradito, è certamente la parte più originale della serie, ma spesso induce in errore chi si fida delle incisioni, reputandole fedeli all’originale52. A Pietro Verri, che si era informato sul prezzo delle tavole e desiderava usarle a Milano per decorare una stanza della sua casa, il fratello Alessandro rispondeva da Roma nel 177653: «Quelle capricciose spirali del gran Raffaello, quella sua ubbriachezza sublime formeranno una volta leggiadra e varia a segno che mai cesserà di farti piacere. Dopo che si sono stampate a Roma le loggie del Vaticano, tutto ha cambiato di gusto. Le carrozze, i muri, gl’intagli, le argenterie hanno preso gli ornati a questa fonte perenne di ogni varietà...».

Tav. 218. Giovanni Volpato, Pilastro con strumenti musicali (esterno VII.B), incorniciato da stucchi vari. Parigi, École nationale supérieure des beaux-arts. Tav. 219. Cristoforo Unterperger e collaboratori. Logge di Caterina II. San Pietroburgo, Ermitage.

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La reazione più straordinaria venne da Caterina II a San Pietroburgo. Il 1 settembre 1778 l’imperatrice scrive al suo segretario, il barone Grimm: «morirò, morirò di sicuro: c’è un gran vento di mare, il peggio per l’immaginazione: questa mattina sono stata al bagno, cosa che mi ha fatto montare il sangue alla testa, e oggi pomeriggio mi sono capitati tra le mani i soffitti delle Logge. Solo la speranza mi sostiene; vi prego di salvarmi: scrivete subito a Reiffenstein, ve ne prego, che faccia copiare queste volte a grandezza naturale, e anche i muri, e io faccio voto a san Raffaello di far costruire le sue logge, costi quel che costi, e di mettervi le copie, perché bisogna assolutamente che le veda come sono»54.


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A Roma si riunì a tamburo battente una squadra di pittori. Guattani e Meusel riferiscono che fu diretta da Cristoforo Unterperger, l’allievo di Mengs che allora dominava la scena e aveva lavorato molto in Vaticano, in particolare alla decorazione delle nuove sale del Museo Pio-Clementino. Il gruppo, aggiungono, era affiancato da Giovan Battista Dell’Era, Felice Giani, Andrea Nesserthaler, Angeloni e, per i paesaggi, Giovanni Campovecchio, ai quali si unirono, per gli animali nelle grottesche, Wenzel Peter, e per le grisaille imitanti gli stucchi un certo «Signor Ferrari Romano»55. Ma le cose non procedevano abbastanza spedite per l’imperatrice che, nel febbraio dell’anno seguente, scrive ancora: «... La minima indigestione del Santo Padre mi angoscia perché un conclave ritarderebbe furiosamente quest’opera»56. I pannelli, una volta disegnati da Unterperger, venivano dipinti su tela e poi via via spediti in Russia. L’impresa fece accorrere tutta Roma: il papa si recò due volte nello studio di Unterperger per vederli; nel 1783 il principe Carlo Teodoro di Baviera riuscì ad ammirarne alcuni57; nel settembre 1787 Goethe dovette accontentarsi degli ultimi pezzi e diede un giudizio dei più positivi sull’impresa58. Alla fine dell’anno i dipinti erano quasi tutti montati nella galleria che l’architetto Quarenghi aveva appena costruito nelle dimensioni delle Logge di Raffaello, che si può ancora ammirare inserita nel nuovo Ermitage. In chi, conoscendo l’originale romano, entra nella galleria russa, il primo sguardo, pur provocando un certo disagio, toglie il fiato. Salvo per quanto riguarda il basamento che, come si è visto, già allora stava scomparendo, ed è stato ricostruito con un colore brunastro sulla base delle incisioni di Pietro Sante Bartoli59, è evidente che gli artisti hanno lavorato sull’originale. Dopo l’ultimo restauro la galleria ha ritrovato tutto il suo splendore e le dorature scintillano, ma le Logge di Caterina non riescono a ingannare. Bisognerebbe prescindere dalla levigatezza dei muri, dovuta al tentativo di riprodurre la tecnica dell’encausto degli Antichi – molti avevano provato invano e la questione era allora assai dibattuta –, tuttavia il risultato ottenuto da Unterperger utilizzando, in realtà, la tempera fu considerato un successo60. Bisognerebbe anche non tener conto della mancanza degli stucchi, sostituiti da imitazioni a trompel’œil, e dimenticare gli specchi collocati sul lato interno, al posto delle finte finestre, che fanno tanto “galerie des glaces”. Per di più il ciclo religioso è stato invertito, cosi che le storie della Bibbia cominciano dalla fine. Ad un esame più attento, salta anche agli occhi l’ordine a volte fantasioso dei pilastri e delle storie, con qualche libertà persino nei

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motivi, a parte la presenza delle armi dell’imperatrice di Tutte le Russie61. Bisognerebbe infine poter fare astrazione dal contesto dell’edificio, che sorge lungo un canale di stile olandese, attraversato da un ponte ispirato a quello dei Sospiri, in un accumulo di copie il cui gusto avvicina Caterina all’imperatore Adriano. Ma la zarina aveva realizzato il suo sogno, e passeggiando nelle sue Logge aveva l’illusione di essere a Roma, che non aveva mai visitato. È in questo luogo privilegiato che nel 1795 ricevette un ospite di rango venuto dalla Persia, Mourtaza Kouli Khan, sul quale l’ambiente produsse l’effetto che l’imperatrice doveva aver auspicato. Come fece sapere a Grimm: «esaminava tutto da vero amatore... si mise a parlare della Bibbia e, davanti a Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso, disse: ‘stando qui, possiamo pensare che questo fatto sia una favola e che qui siamo in Paradiso’»62. Il desiderio di ritrovare la tecnica della pittura romana ad encausto permette probabilmente di spiegare d’altra parte la genesi dei pannelli a mosaico conservati a villa Albani, dove sono catalogati come antichi63. Dato che la loro iconografia corrisponde esattamente a quella dei pilastri delle Logge, è probabile che siano siano opera di un falsario, il quale, ignorando che nell’antichità i mosaici parietali sono rari e non compaiono mai in questa forma, pensava forse di farli passare come fonti romane di Raffaello. Anche Winkelmann, che probabilmente li acquistò, dovette cadere nella trappola. Le grottesche di Raffaello erano ritenute così simili ai loro prototipi neroniani che dal XVI secolo si era cercato di spiegare queste somiglianze a spese degli artisti, facendo correre la voce che il maestro li avesse distrutti dopo averli copiati. La diceria è già riportata da Serlio64, che però non fa nomi, e circolava ancora nel XVIII secolo, quando molti autori si levarono contro l’accusa allora fatta al maestro in persona65. La polemica rivela la fiducia illimitata di cui godeva Raffaello a proposito della sua interpretazione dei modelli romani66: evidentemente la decorazione delle Logge era considerata l’equivalente dell’antico. Questo status eccezionale è probabilmente anche alla base dell’ammirazione senza limiti che portò alle Logge un uomo innamorato dell’antichità come Jacques-Louis David. Insignito del Prix de Rome nel 1774, soggiornò nella Città eterna dal 1775 al 1782: durante questi anni cruciali per la moda delle Logge di Raffaello, dovette studiare i disegni degli stucchi che ne circolavano67 e che furono copiati anche da altri artisti francesi, per la maggior parte anonimi, fino all’inizio del XIX secolo68.

Mentre si costruivano le Logge di Caterina, in Francia Béranger dirigeva il cantiere del castello di Bagattelle, per la cui decorazione si ispirava, anch’egli, alle grottesche di Raffaello, che venivano chiamate “arabeschi” ed erano molto apprezzate da Maria Antonietta, che ne avrebbe fatto decorare il portagioie69. A Parigi se ne ornavano i più bei palazzi del Marais e il café du Grand Véfour70. In Svezia, il francese Masreliez le riprendeva nell’anticamera del padiglione azzurro che re Gustavo III si era fatto costruire nel parco di Haga71. A Dresda i principi Max e Johann Georg facevano decorare i loro castelli da Weinlig sullo stesso modello72. Anche in Polonia i castelli si rivestivano di “arabeschi” alla maniera di Raffaello, mentre in Spagna il padiglione di caccia del futuro Carlo IV all’Escorial aveva le pareti ornate da una serie di incisioni di Ottaviani e Volpato e le volte dipinte in uno stile ad esse ispirato73. Ovunque faceva furore la moda abilmente lanciata da Volpato. Quando in Francia si diffuse la voga della carta da parati, ricomparvero gli arabeschi delle Logge, tappezzando i castelli che non ci si prendeva più la briga di decorare ad affresco. I pannelli più sontuosi che se ne conservano derivano evidentemente dalle celebri incisioni74, ma, come per le Logge di Caterina, queste non sono state l’unica fonte d’ispirazione per i loro creatori. Le dimensioni maggiori, la gamma cromatica diversa, a volte molto più vicina a quella di Raffaello, la loro stessa pittura sarebbero inconcepibili senza la conoscenza diretta degli originali. Anche se era per trasporle nello stile Luigi XVI o Direttorio, per conoscerle bisognava più che mai recarsi sul posto, a Roma. Le Logge di Raffaello ebbero una breve eclissi nel 179899, durante la Repubblica romana, quando la città fu occupata dai francesi, che si misero a banchettare in Vaticano, negli appartamenti del papa, trasferito in un convento a Siena75. La situazione non migliorò quando i napoletani, accorsi in suo aiuto, invasero Roma occupando perfino, a quanto pare, le Logge76, né quando i francesi tornarono e s’impadronirono dei tesori dei palazzi apostolici. Il gusto per gli arabeschi di Raffaello rimase vivo durante l’Impero, ma fu ben presto soppiantato dalla moda delle pitture romane. Il successo ottenuto dalle incisioni di Ottaviani e di Volpato non era stato estraneo alla scoperta, a partire dal 1739, dei dipinti di Ercolano e di Pompei, che sarebbero rimasti a lungo inediti, alimentando la curiosità. Raffaello appariva sempre come colui che meglio di ogni altro era stato capace di far rivivere l’arte antica, di cui le Logge davano l’interpretazione ideale moderna. Ma

Tav. 220. Pannello con penne di pavone, tempera su carta. Rixheim, Musée du papier peint.

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il vento cambiò a partire dal 1776, quando apparvero le incisioni di Mirri della Domus Aurea di Nerone, che si continuava a chiamare ‘bagni di Tito’, poi, dieci anni dopo, quando furono pubblicate quelle di Ponce con gli stessi soggetti77. Caterina, ancora una volta, fu la prima ad esserne sedotta e la prima ad imporle, dopo quelle di Ottaviani e Volpato, nel suo palazzo di Tsarkoje Selo. Poi Napoleone le volle per la sua residenza romana al Quirinale. Le Logge non avevano tuttavia perduto il loro fascino e rimanevano agli occhi di alcuni un rifugio per lo spirito. Intorno al 1780, in occasione del suo primo viaggio in Italia, Tischbein ha ben descritto il sentimento che provava quando vi passeggiava, un sentimento ancora vicino a quello del Rinascimento, anche se già venato di fantasticherie romantiche. «A volte, racconta, quando ero stanco del lavoro, andavo alle Logge, dove Raffaello ha dipinto la storia della Bibbia, per vedere i cosiddetti arabeschi. Bisogna osservarli quando si è annoiati e, al tempo stesso, un po’ assonnati, quando si è abbandonato il lavoro serio, e ci si vuole far cullare da bei sogni. Ci si trova allora trasportati nel vasto regno dell’immaginario e dell’illusione, e il meraviglioso e l’instabile ci fanno associare le idee a caso, quando vi si sente portato»78. Cominciarono però a farsi sentire alcune voci contrarie a quanto vi si vedeva di irrazionale. Già nel 1781 Milizia le condannava con violenza, in nome della vecchia critica, d’origine vitruviana, all’irrealismo delle grottesche79. «Raffaello – esclamava – (anche Raffaello dormì), ne insalsicciò le Logge Vaticane [...]. Non si è scoperto muraglia antica senza bisbeticherie di rabeschi; ma i peggiori, i vaticani, sono i più applauditi perché raffaelleschi». Così si preferiranno ornati più stilizzati, secondo uno stile più vicino all’antico. Poco dopo, un altro difensore del neoclassicismo, tuttavia meno categorico, come Quatremère de Quincy, seppe apprezzarne di nuovo la fantasia, aggiungendo che essa s’inseriva in una struttura ordinata e che vi si poteva «vedere la ragione sotto la maschera trasparente della fantasia»80. Gli “arabeschi” delle Logge erano al centro delle discussioni. In Germania dedicarono loro alcune pagine Riem81, Goethe82, Stieglitz83, e Fiorillo84. In Francia il tema fu trattato da Watelet85 e, più tardi, da Hittorff86. La Bibbia di Raffaello manteneva ciononostante il suo prestigio. I giovani artisti dovevano esercitarsi sulle sue storie, come sugli altri capolavori dell’arte antica e del Rinascimento. Nel 1768, a palazzo Mancini, allora sede dell’Accademia di Francia a Roma, il direttore Natoire aveva

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fatto abbattere un grande muro al secondo piano per ricavare un’ampia galleria – a dire il vero molto diversa dal modello – nella quale far riprodurre dai pensionanti le 52 storie. Più tardi la volta a botte venne divisa arbitrariamente in scomparti di diversi formati entro cui collocare le storie: si trovò il modo d’inserirvene 47 e collocare la 48a come sovrapporta; mancavano all’appello solo le scene del Nuovo Testamento87. Nacquero altri progetti, che non andarono a buon fine. L’incisore di Bruges Jean-Charles de Meulemeester dedicò la vita alla riproduzione minuziosa della Bibbia di Raffaello, sperando così di sottrarla alla distruzione dovuta alle intemperie – la galleria non era stata ancora chiusa da vetri88. Partì per Roma nel dicembre del 1806, in compagnia del suo compatriota Joseph-François Ducq, che lo ha ritratto al lavoro sul posto89. De Meulemeester rimase nella Città eterna dodici anni per preparare i disegni necessari, poi proseguì il lavoro ad Anversa, dove divenne professore d’incisione. Alla sua morte però solo alcune tavole erano pronte e furono pubblicate. Maggior successo ebbe l’iniziativa intrapresa nel 1835 da Ingres, che rispondeva all’idea lanciata da Thiers di creare a Parigi un museo di copie. È noto che Ingres nutriva un vero culto per Raffaello, appena comparabile all’ammirazione che ne aveva avuto Poussin, ma si sa che nessuno dei due ha copiato servilmente il maestro. Nominato direttore dell’Accademia di Francia a Roma, Ingres organizzò l’équipe incaricata di riprodurre le 52 storie destinate alla cappella dei Petits-Augustins all’École des Beaux-Arts di Parigi. La loro esecuzione su tela venne affidata essenzialmente ai fratelli Balze, suoi fedeli allievi, che ne realizzarono 44. Anche se a costo di mille difficoltà per reperire i fondi e riuscire a montare le impalcature in Vaticano, nel 1840 l’insieme era finito. Sette anni dopo venne esposto a Parigi, al Panthéon, dove ebbe un’accoglienza quanto mai favorevole, fra l’altro da parte di Théophile Gautier e di Eugène Delacroix. Lo stesso Ingres era più che soddisfatto. La purezza del disegno, la levigatezza della materia, la gamma limitata dei colori rispondevano ai suoi insegnamenti. Alla fine le tele furono sistemate nella nuova galleria dell’École, costruita da Duban, dove le grottesche vennero dipinte da Chauvin e i festoni da Gastine. Ma le proporzioni della galleria sono molto più massicce e i dipinti suddivisi su due bracci, tanto che una parte è illuminata contro senso, il che ne compromette l’unità90.

Raymond Balze ha descritto l’incontro che ebbe all’inizio del 1837, quando lavorava alle Logge: «Mentre facevo la mia copia, un francese mi chiese il permesso di lavorare qualche giorno sulla mia impalcatura, nella parte più alta. Gli feci notare che ci saremmo intralciati molto l’un l’altro perché tremava tutto. Tuttavia, gli dissi, bisogna aiutarsi. Salite e mettetevi a vostro agio! Al primo colpo di matita indovinai che era Viollet-le-Duc [...] Parlava poco, e io a mia volta lavoravo senza sosta»91. Il futuro architetto, che aveva appena compiuto ventidue anni, era entusiasta di Raffaello, tanto che lo scrisse a suo padre: «Le logge di Raffaello, per esempio, per quanto fossi preparato a vederle, l’impressione che ne ho ricevuto è stata ancora molto più forte di quanto mi fossi immaginato; dopo questo le pitture di Pompei non reggono il confronto, a mio parere, almeno; i colori sono disposti con tale armo-

nia, le composizioni sono così varie e sublimi, che non ci si può stancare di guardare questi mirabili affreschi malgrado l’orribile torcicollo che vi procurano». Il disegno monumentale dell’insieme della terza campata che Viollet-le-Duc ha datato due anni dopo, è di una precisione e di una freschezza strabilianti, ma, come in Volpato, l’affresco prescelto non è quello del lato interno, e il leggero movimento ascensionale che ha impresso alla composizione tradisce chiaramente la sua epoca. A differenza di tutte le copie precedenti, l’acquarello e il guazzo rispettano i colori dell’originale. È noto come i precetti di Ingres, seguiti alla lettera dai fratelli Balze, non raccogliessero l’unanimità dei consensi. Viollet-le Duc riferisce quello che ne diceva un giovane artista incontrato sulla scalinata di Trinità dei Monti: «Avete visto le copie delle Logge di Raffaello che stanno facendo gli allievi di questa

Fig. 152. Jean-François Ducq, L’incisore Joseph Charles de Meulemeester al lavoro nelle Logge di Raffaello. Collezione privata. Fig. 153. Joseph Charles de Meulemeester, Giacobbe sul cammino di Canaan, disegno preparatorio per l’incisione dalla Bibbia di Raffaello. Bruxelles, Musées Royaux des BeauxArts, Gabinetto delle stampe.

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Fig. 154. Peter Cornelius, Giuseppe spiega i sogni del Faraone, pittura ispirata alla Bibbia di Raffaello (VI.4). Berlino, Alte Nationalgalerie.

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scuola? Che esagerazione nel disegno, che colori! Non c’è un rosso rosso né un blu blu, tutto è smorto, grigio, pesante, il modellato non assomiglia affatto a quello ardito e a pennellate rapide delle Logge, è rotondo, grosso, rosso, mattone, noioso, orribile!». Viollet-le-Duc era stato accolto da Ingres e, anche se non ne seguiva i consigli, almeno li ascoltava. Non ha fatto commenti92. Raffaello restava il grande, ineguagliabile maestro. Poco a poco, tuttavia, la sua immagine si allontanava, e non era più il modello da seguire sempre. L’anno dopo il suo primo viaggio in Italia nel 1819, Turner rappresentò il maestro in compagnia della Fornarina, in Logge immaginarie inondate dalla luce del tramonto che ne indorava le campate. Ma l’inglese ha notato appena i motivi infiniti della decorazione. Aprendo nella galleria un’enorme arcata, l’ha spalancata sull’immensità azzurra dell’atmosfera, dominando a perdita d’occhio Roma e i suoi monumenti. Di fronte a tale spettacolo, Raffaello era circondato da alcuni suoi capolavori. Ma in primo piano spiccava un grande paesaggio di Claude Lorrain: per Turner era ormai lui il divino93.

Tav. 221. Raymond Balze, Colonna di nube, copia dalla scena della Bibbia (IX.3), olio su tela. Parigi, École nationale supérieure des beaux-arts.

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Tav. 222. Eugène Viollet-le-Duc, Campata V delle Logge con i pilastri IV e VIII e la Storia di Lot e delle figlie (IV.4). Parigi, Médiathèque de l’Architecture e du Patrimoine.

All’inizio del XIX secolo lavoravano a Roma anche i pittori tedeschi della Confraternita di San Luca, che avrebbero preso il nome di Nazareni. Si sa che il loro obiettivo era di liberarsi dalla formazione accademica. Già nel 1805 Gottlieb Schick, già allievo di David a Parigi, aveva ottenuto un gran successo esponendo al Panthéon un dipinto col Sacrificio di Noè ispirato tra l’altro a quello delle Logge. In una lettera a Goethe, Schlegel si rallegrava del fatto che, in quest’opera «emerge subito, per il refrigerio dell’anima, il senso di devozione che è stato del tutto assente nella pittura contemporanea»94. Nel 1817 il console generale di Prussia Bartholdy decise di far decorare ad affresco – era tornato di moda – un piccolo ambiente di palazzo Zuccari, dove abitava. Per i quattro giovani tedeschi incaricati del lavoro, Overbeck e Cornelius, ai quali si unirono Wilhelm Schadow e Philipp Veit, era giunto il momento di affermare le loro idee davanti ad un pubblico più vasto. Convinsero Bartholdy a modificare il suo programma: le ghirlande e gli arabeschi che aveva richiesto non erano degni della sua dimora, ci voleva un tema edificante, profondamente cristiano. Forse per suggerimento di Overbeck la scelta cadde sulla storia di Giuseppe. Gli affreschi, oggi staccati e conservati nella Alte Nationalgalerie di Berlino, rivelano rimandi continui alla Bibbia di Raffaello, uno dei fondamenti della cultura dei Nazareni95.

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Molti di loro, tra cui Overbeck, accarezzavano il progetto di fare delle illustrazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento: un sogno realizzato da Schnorr von Carolsfeld, che vi dedicò tutta la vita. Tra il 1820 e il 1860 l’artista eseguì oltre 240 composizioni, delle quali rimangono spesso diversi disegni preparatori, e ne fece fare incisioni su legno, tecnica particolarmente rispondente alla vocazione popolare della pubblicazione. Malgrado la discontinuità del livello, Schnorr non manca di forza creatrice e non rivela mai motivi presi a prestito; tuttavia nelle poche figure, immerse nella natura, che compongono le storie, affiora ovunque la Bibbia di Raffaello96. Con i Nazareni finisce la fortuna delle Logge di Raffaello, che cominciano invece a risvegliare un interesse scientifico. Passavant, l’autore della prima grande monografia sul maestro, che aveva esordito come pittore, era amico intimo di Overbeck. Ma non tutti erano al suo livello. Osservando i dipinti sotto il profilo storico, o almeno con l’occhio dello studioso, gli eruditi elaboravano teorie e critiche che, a volte, rischiavano di finire in discorsi da salotto. Il pittore di porcellane Abraham Costantin, grande ammiratore di Raffaello, e d’altra parte amico di Stendhal, col quale per due volte aveva condiviso un alloggio a Roma negli anni Trenta, riferisce che in occasione di una delle sue visite alle Logge fu «distratto da certi giovanotti eruditi che riempivano Roma delle loro ridicolaggini. Forti sulle date dei quadri e della nascita e morte di ciascun pittore o mecenate, se si parla loro di una cosa

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Tav. 223. Costantino Brumidi, Decorazione di un corridoio del Campidoglio di Washington (1856-59).

che deve essere sentita dall’anima, vi rispondono con una data [...]. Questi signori, purtroppo francesi, deridevano con espressione seria e compativano in coro il panneggio a O (sono le loro parole) attorno al busto dell’Eterno Padre nel secondo riquadro della prima cupola, opera di Giulio Romano. E poi, l’Eterno dice al mare: Non andrai più lontano, e col dito indica la riva. Che genere Pompadour, esclamavano questi francesi, che rococò!»97. Questo tipo di critica si era già fatto in realtà sentire in precedenza in Inghilterra con Daniel Webb, in Francia con Falconet98. Il Raffaello romano non piaceva più ai romantici. Va da sé che un uomo di formazione presbiteriana come Ruskin, che vituperava il papato e, in occasione del suo primo viaggio in Italia all’inizio dell’inverno 1840, aveva decretato che la Trasfigurazione di Raffaello era un brutto quadro99, non poteva apprezzare neppure le Logge, pur dovendo ammettere, suo malgrado, che la loro decorazione non era priva di qualità100. Di lì a poco Raffaello avrebbe attirato solo i pittori ritardatari, che invero non mancavano, all’interno di quel baluardo della tradizione che Roma stava divenendo sotto il pontificato di Pio IX. Quando il papa decise di far decorare il terzo braccio delle Logge, costruito sotto Sisto V, gli

LA FORTUNA

artisti chiamati a questo compito appartenevano a coloro che avevano raccolto sia l’eredità neoclassica sia quella dei Nazareni. Se lo stuccatore Galli aveva lavorato a lungo nello studio di Thorvaldsen, Consoni, al quale vennero affidate le storie, e Mantovani, che realizzò l’ornamentazione, si erano formati con Tommaso Minardi, purista in stretto rapporto con i tedeschi. Il ricorso al modello di Raffaello non era altro che l’ultimo riflesso di una corrente che sopravviveva a sé stessa101. Oltre Atlantico le Logge ebbero ancora un’eco grazie ad un altro allievo di Minardi, Costantino Brumidi, che in gioventù aveva lavorato alla Logge del terzo piano. Costretto, dopo la Repubblica romana, ad emigrare a causa delle sue idee politiche, visse a lungo a Washington dove gli imponenti affreschi che ha lasciato, in particolare l’Apoteosi di George Washington, gli valsero l’appellativo di “Michelangelo del Campidoglio”102. Ma dal 1857 al 1859 ha decorato anche i corridoi dell’edificio, che dalle volte ai basamenti sono coperti da arabeschi alla maniera delle Logge, resi però con una policromia accesa, nella quale domina il giallo oro, e stilizzati secondo la moda del tempo: lontano, ultimo omaggio reso a Raffaello.

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NOTE

a cura di Claudia Gottuso e Valerija Macan CAPITOLO PRIMO

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Cfr. oltre, p. 274 e fig. 132, p. 276. Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 448 (Vita di Giovanni da Udine). 24 Dacos 1969a, p. 148 e fig. 28, tav. XVII. 25 Fu terminata qualche giorno prima, come Bembo comunica a Bibbiena il 6 maggio. Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 45; Shearman 2003, I, 1516/11, pp. 245-246. 26 Lunghezza 15,74 m., larghezza 3,12 m. e altezza 4,64 m. 27 Redig de Campos 1946, pp. 52-54, ha potuto identificare la fonte grazie ai disegni conservati nel Codex Pighianus. 28 Vitruvio, De arch. VII, 5. Raffaello si era fatto tradurre Vitruvio da Fabio Calvo. Cfr. Fontana-Morachiello 1975. 29 Cfr. Ruffini 1986. 30 «… est enim maxime apta ad laetitiam et exhilarationem, propter mirificam porticum speculasque, quas habet multas atque bellissimas»: citato da Redig de Campos 1983, p. 224. 31 Su Giovanni da Udine (Udine 1487 – Roma 1561) cfr. Dacos-Furlan 1987. Per il suo apprendistato cfr. Furlan, ibid., Documenti, I, p. 261. 32 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 448 (Vita di Giovanni da Udine). 33 Proviene dalla collezione Crozat. Cfr. Dacos in Dacos-Furlan 1987, Traccia per un catalogo dei disegni, pp. 237-257, passim. 34 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 449 (Vita di Giovanni da Udine). 35 Hoogewerff 1945-46. 36 Brugnoli 1973; Agosti-Farinella 1990, pp. 587-589. 37 Ill. in Dacos in Dacos-Furlan 1987, p. 41. 38 Per la ricostruzione dell’attività portoghese di Jan Ruysch cfr. Deswarte 2005, che dal canto suo pensa che l’influsso del monaco su Giovanni da Udine riguardi la competenza botanica, ma non lo stile. 39 La data comunemente accettata è il 1533, ma secondo Deswarte 2005 potrebbe essere posteriore di qualche anno. 40 Della stessa mano; cfr. cap. III. Cfr. Dacos in DacosFurlan 1987, pp. 18-22 (dove le foto sono state rovesciate per errore). 41 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, p. 450 (Vita di Giovanni da Udine). 42 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, pp. 452-453 (Vita di Giovanni da Udine). 43 Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 65; Shearman 2003, I, 1519/1, pp. 385-386. 44 Cfr. Shearman 2003, I, 1516/26, pp. 266-267, che, partendo da Luzio 1907, p. 76, cita i diversi testi dei documenti d’archivio. Cattaneo probabilmente aspettava nella sala degli Svizzeri o in quella dei Palafrenieri. 45 1518, marzo: «Pagati a Raffael d’Urbino, per l’opera della Loggia, ducati 32». Cfr. Golzio [1936] 1971, pp. 68-69; Shearman 2003, I, p. 331. 1518, 14 luglio: «La S[anti]ta di N[ostr]o S[igno]re de dar[e] duc. quaranta doro di cam[e]ra pagati per resto di magior som[m]a a u[n]o mastro ch[e] porto li quadri da far pavimenti – Duc. 40»: Marquand 1928, n. 47, pp. 8388. 1518, 5 agosto: «Et piu a M[aestr]o luca de la robia ch[e] fa el pavimento de la gra[n] logia per parte di pagamento». 1518, 10 settembre: «a di X di septe[m]br[e] MDXVIII La S[anti]ta di N[ostr]o S[igno] re de dar[e]… Et più al frate de la Robia per el Pavime[n]to duc-ve[n]ti ci[n]qu[e] – Duc. 25». Ibid. pp. 87-88. 46 Golzio [1936] 1971, p. 98; Shearman 2003, I, 1519/30, pp. 449-451. 47 1519, 7 maggio: «A di 7 Magio MDXIX. La S[anti]tà di N[ostr]o S[igno]re de dar[e] duc. quattrocento d’o[ro] di cam[er]a dati a Raphaello da Urbino p[er] ordine di S[u]a B[eatitudi]ne insieme con una cedula di credito de altri seicento». Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 99; Shearman 2003, I, 1519/31, pp. 451-452. 48 1519, 10 giugno: «A di 10 d[i]c[t]o… E piu a Giovanni falegniam[e] [ducati] cinquanta a bon conto p[er] factura de la logia et cam[er]a di N[ostr]o 23

1 Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 100; Shearman 2003, I, 1519/41, pp. 459-460. 2 1519, 27 dicembre. Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 104. 3 La statua di Mercurio è ricordata da Paolo Giovio come ancora nelle Logge. Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 194; Shearman 2003, I, 1534-35/1, pp. 884-886, che ne propone l’identificazione con una statua, ora al Belvedere, detta anche Antinoo (Bober-Rubinstein 1986, n. 10). Nel 1520 Marcantonio Michiel riconobbe su un carro di carnevale per la festa dell’Agone la copia di quella che descrive come «una idea della Natura quale è la statua della loggia, con duoi cani appresso». Cfr. Fletcher 1981, p. 456, copia altrimenti ricordata come la dea Iside in una lettera a Isabella d’Este del 19 febbraio 1520, e ancora da Pirro Ligorio, in entrambi i casi come simile a quella che si trovava nelle Logge. Cfr. Shearman 2003, I, 1519/41, pp. 450-460. 4 Il progetto risale a Murat. Il suo ministro, G. Zurlo, colpito dallo stato di abbandono delle Logge, soprattutto dopo il bivacco delle truppe francesi tra 1799 e 1800, ne informò Canova, che riuscì a far chiudere la galleria grazie ai suoi rapporti col governo napoletano. Cfr. Pastor 1908, p. 488. 5 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, p. 198 (Vita di Raffaello), che non menziona le Logge. 6 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, p. 198 (Vita di Raffaello). Le maioliche, molto danneggiate, vennero rimosse sotto Pio IX nel 1869, e sostituite dall’attuale pavimento in marmo grigio, così rimasto nonostante i lavori di una commissione istituita nel 1890 sotto Leone XIII, nel tentativo di ricostituire il pavimento originale. Le proposte alle quali giunse G. Tesorone non erano in effetti convincenti. 7 Vienna, Albertina, inv. 31681. Cfr. Hülsen-Egger 1913-16, II, pp. 68-73, tav. 130. 8 Per conoscere le dimensioni dei vari elementi che compongono le Logge si può far riferimento a Letarouilly 1882, III, dove sono riprodotte al tratto, in scala, alle tavv. 3 e 5-44, oltre ad una veduta d’insieme, porte, pilastri, semipilastri e piedritti, lunette e quarti di volta, così che mancano solo i sottarchi. 9 Cfr. cap. IV. 10 Frommel 1981, Frommel 1984b, pp. 363-368. 11 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, p. 197 (Vita di Raffaello). 12 Nel 1519 la costruzione era a buon punto. Marcantonio Michiel, nel passo citato del suo diario, menziona «tre [logge] poste una sopra l’altra». Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 104; Shearman 2001, I, 1519/66, pp. 491-493; lo stemma di Leone x compare sul soffitto dell’ultimo piano. Alla morte del papa nel 1521 i lavori non erano tuttavia ancora finiti. Dopo un’interruzione sotto Adriano VI, che non si curava affatto degli abbellimenti della sua dimora, Clemente VII incaricò Antonio da Sangallo il Giovane delle ultime rifiniture. 13 Questo problema è stato oggetto della tesi di Daley 1962. 14 Agosti-Isella 2004, vv. 379-387. 15 Fantozzi 1994, rr. 256-258, p. 27. 16 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 448 (Vita di Giovanni da Udine). 17 La volta, nella quale sono dipinti alcuni emblemi di Leone X, venne rifatta nel 1514, alla fine del cantiere. 18 Sulla Stufetta cfr. Redig de Campos 1983, con bibliografia precedente; per lo studio stilistico e quello delle mani, cfr. Dacos in Dacos-Furlan 1987, pp. 3542. 19 Il saggio di partenza per la Loggetta rimane Redig de Campos 1946. Per lo studio stilistico e quello delle mani, cfr. Dacos 1986 e Dacos in Dacos-Furlan 1987, pp. 44-60. 20 Cfr. Golzio [1936] 1971, pp. 43-44; Shearman 2003, I, 1516/8, pp. 240-243. 21 «Bastami darui contezza […] che la loggia, la stufetta, le camere, i paramenti del cuoio di V.S. sono forniti, et ogni cosa l’aspetta…». Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 48; Shearman 2003, I, 1516/16, p. 252.

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S[igno] re – Duc. 40». Cfr. Dacos [1977] 1986, p. 140; Shearman 2003, I, 1519/37, pp. 455-456. 49 1519, 11 giugno: «A di 11 Giugno 1519. A li Garzoni hanno dipinta la logia duc. venticinq[u]e – Duc 25». Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 99; Shearman 2003, I, 1519/39, p. 457. 50 Per le grottesche della loggia del Belvedere, cfr. Scarpellini 2003, pp. 138-141, e fig. 6, p. 137. 51 Alla base del pilastro VIII.B esterno, cfr. Dacos [1977] 1986, tav. XCVIc. 52 Sul pilastro V. B esterno, ibid. tav. XCVc. 53 Sui pilastri V e IX, ibid., tavv. XCa e XCIIa. 54 Sul pilastro VI. B esterno, ibid., tav. XCVIb. 55 Per le fonti antiche dei pesci appesi (nei pilastri III.B – IV.A esterno e XI.B – XII.A esterno), cfr. Dacos [1977] 1986, pp. 249-250; per quelle degli strumenti musicali (nei pilastri VII.B e VIII.A esterno), ibid., pp. 215-216. 56 Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 48. Per le fonti vedi anche Dacos [1977] 1986, pp. 252-254. 57 Firenze, Museo degli Uffizi. Cfr. Talamo 1983; Gasparri 1989. 58 Città del Vaticano, Museo Petriano. Cfr. ToynbeeWard Perkins 1950, tav. XVIII; Himmelmann 1985, pp. 240-242. 59 Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 75. 60 L’identificazione in base a stampe di Ottaviani e Volpato (cfr. cap. IV, pp. 318-320) di molti animali esotici delle Logge è stata avanzata da Dacos 1969b in base a osservazioni di F. Baschieri Salvatori e G. Mangili. Gli scienziati non sono però tutti d’accordo, salvo per quanto riguarda i colibrì: descritti per la prima volta dal francese Jean de Léry, che li vide nella zona di Rio de Janeiro verso il 1556, essi sono stati raffigurati ben prima. È vero che erano troppo delicati per arrivare vivi in Europa, ma per disegnarli non ce n’era bisogno, visto che era normale spedire uccelli impagliati, come testimonia in particolare Boissard 1597, p. 5 (informazione gentilmente fornita da A. Fantozzi). 61 Ill. in Shearman 1972, passim. 62 Cfr. Redig de Campos 1952. Probabilmente è stato il contrasto, molto forte negli anni Sessanta, tra questo semipilastro e il vicino pilastro I, a indurre Redig de Campos, allora direttore dei Musei Vaticani, a tentare il restauro delle Logge all’inizio degli anni Settanta. Per i restauri antichi fr. cap. IV, pp. 314-315. 63 Cfr. cap. III, tav. 179, 180 e 182, 183 e p. 271. 64 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, pp. 448-449 (Vita di Giovanni da Udine). 65 Dacos 1962; Dacos 1969a, pp. 43-48 e figg. 63-69, tavv. XXXVII-XXXVIII. 66 Ibid., pp. 40-41 e figg. 60-62, tavv. XXXV-XXXVI. 67 Ibid., pp. 34-36 e figg. 41 e 44, tavv. XXIV e XXVI. 68 Partendo dai disegni che ne rimangono nel Codex Pighianus, è possibile ritrovarne il ricordo nelle Logge in qualche scena dei sottarchi. Cfr. Dacos [1977] 1986, p. 238. 69 Roma, palazzo Rospigliosi. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 77. Bedfordshire, Woburn Abbey. Ibid., n. 78. 70 Londra, British Museum. Ibid., n. 83. 71 Bedfordshire, Woburn Abbey, Ibid., n. 82. Cfr. cap.II, tav. 151, p. 195. 72 Città del Vaticano, Belvedere. Cfr. Matz 1968-75, III, 1969, n. 163, pp. 308-310, e tav. 185. 73 Napoli, Museo Nazionale. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 70. 74 Roma, Museo Torlonia. Ibid., n. 92. 75 Londra, British Museum, Ibid., n. 90. 76 In particolare il disegno di Vienna, Albertina, inv. 444 SR 533, cfr. Mantova 1999, n. 82, con un’attribuzione inaccettabile a Raffaello (K. Oberhuber-A. Gnann). Per un’altra proposta, cfr. cap. III, pp. 248252. 77 La proposta avanzata da Farinella, in Agosti-Farinella 1984, nota 27, pp. 383 e 386, e ill. p. 385, di limitare lo studio dell’assimilazione dei rilievi antichi da parte degli artisti del Rinascimento ai casi in cui è possibile sovrapporre, con l’aiuto di un disegno al tratto, la forma del modello e quella della derivazione, è un’illusione neopositivista che può indurre in errore,

cominciando dall’esempio che l’autore ha tratto proprio dalle Logge. Il motivo del cavaliere rovesciato sul suo cavallo che appare sul piedritto IV.C (ill. in Dacos [1977] 1986, tav. CXXVIIIc), non è tratto dal corpo di Egisto abbattuto, sul sarcofago dell’Orestiade Giustiniani (Bober-Rubinstein 1986, n.106). Sarebbe bastato guardare le opere in questione per rendersi conto che la linea curva del corpo, che segue quella della groppa del cavallo, è tutt’altra cosa da quella del corpo che, sul sarcofago, cade a terra. Questo modo di trattare i corpi non ha riscontri nell’antichità e deve perciò risalire alla bottega di Raffaello, forse con riferimento ai progetti per la Battaglia di Costantino. 78 Wiltshire, Wilton House. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 107. 79 In particolare quelle di un sarcofago perduto, già nella collezione della Valle. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 146. 80 Rispettivamente Roma, Palazzo dei Conservatori, cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 140, San Simeon (California), Hearst San Simeon State Historical Monument, cfr. Robert 1890, II, fig. 112, Berlino, Staatliche Museen (in condizioni frammentarie), cfr. Robert 1890, II, pp. 90-91, e, per i disegni e le incisioni che ne sono stati tratti, Dacos [1977] 1986, p. 220. 81 Ancona, Museo Archeologico Nazionale. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 110. 82 Roma, Palazzo Giustiniani. Ibid., n. 106. 83 Perduto. Cfr. Robert 1890, III, 2, 1904, pp. 240-241, tav. LXII A; Dacos [1977] 1986, p. 209. 84 Roma, Villa Medici. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 119. 85 Luogo di conservazione sconosciuto. Ibid., n. 94; Corsi 2005. 86 Parigi, Museo del Louvre. Ibid., n. 59. 87 Cfr. tav. 10, p. 25, e tavv. 184, 185, pp. 272-273. 88 Parigi, Museo del Louvre, Ibid., n. 46. 89 Rispettivamente Città del Vaticano, cfr. Bober-Rubinstein 1986, nn. 28 e 16; e Siena, cattedrale, Biblioteca Piccolomini, ibid., n. 60. 90 Del resto quando Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, I, 1962, p. 103, parla della tecnica dei rilievi «bassi e stiacciati», precisa: «di questa sorte se n’è visto ne’ vasi antichi aretini assai figure, maschere et altre storie antiche, e similmente ne’ cammei antichi e ne’ conii da stampare le medaglie e similmente nelle monete». 91 Washington, National Gallery of Art. Cfr. Dacos in Dacos-Furlan 1987. pp. 97-99. 92 Cfr. Yuen 1979. 93 Cfr. rispettivamente Bernhart 1926, tav. 39, 5, e Mattingly, IV, 1940, tav. 23, 1-5 (Venus victrix); Mattingly, II, 1930, tav. 19, 12 (Victoria); Bernhart 1926, tav. 63, 7, e Mattingly, II, 1930, tav. 60, 4 (Fortuna); Bernhart 1926, tav. 12, e tav. 36, 3-5, Mattingly, V, 1950, tav. 27, 18-20 (Iuno); Köhler 1963, tav. 443, fig. 544 (Spes); Mattingly, I, 1923, tav. 14, 18-19 e tav. 52, 22-24 (Victoria); Bernhart, 1926, tav. 35, 1 (Iuppiter); Mattingly, II, 1930, tav. 21, 4 (Pax); Mattingly, I, 1923, tav. 56, 2, e Bernhart 1926, tav. 65, 12 (Libertas); Bernhart, 1926, tav. 38 (Mars); Bernhart 1926, tav. 47, 8, e Mattingly, II, 1930, tav. 21, 7 (Roma); Mattingly, IV, 1940, tav. 68, 5, e tav. 32, 1 (Annona). 94 Cfr., ad esempio, Bernhart 1926, tav. 14 (Concordia Augustorum), Mattingly, I, 1923, tav. 62, 17 (Pax Augusti), e ibid., II, 1930, tav. 49, 3. 95 Fulvio [1517] 1967. 96 Per le gemme si può iniziare da Pannuti, Firenze 1973, pp. 3-15; per la loro importanza durante il Rinascimento, cfr. Dacos, ibid., pp. 133-156. Per Lorenzo de’ Medici collezionista, cfr. lo studio di Fusco-Corti 2006, che si basa su lettere inedite. 97 Firenze 1973, n. 25 (A. Giuliano). Per le origini e le derivazioni della gemma cfr. da ultimo Caglioti-Gasparotto 1997, cui bisogna aggiungere Dacos 1995b, p. 16. 98 Firenze 1973, n. 26, pp. 57-59 (A. Giuliano). 99 Ibid., n. 12 (A. Giuliano). Per la placchetta del Riccio cfr. Pope-Hennessy 1965, n. 219, p. 67, fig. 89. 100 Cfr. Firenze 1973, n. 43, pp. 69-72 (U. Pannuti) e n. 13, p. 161 (N. Dacos). 101 Cfr. Dacos [1977] 1986, passim. 102 Citato da Furlan in Dacos-Furlan 1987, p. 153, e ibidem, XV, p. 275. 103 Una nel pennacchio XIII.2, sinistro, cfr. Dacos [1977] 1986, tav. LXIIb, e nel sottarco XIII.C esterno, ibid., tav. LXXXVIa; l’altra nel sottarco III.A esterno,

ibid., tav. LXVIIb, e nel sottarco XII.C esterno, ibid., tav. Per le fonti, ibid., fig. 34, tav. CLIII, cfr. Chase 1916, tav. XIV, 37 e fig. 46, tav. CLV;Brown 1968, tav. II. 104 Milanesi 1854-56, III, 1856, p. 111, che trascrive erroneamente “Mercole” per “Hercole”. 105 Nel sottarco I.C esterno, cfr. Dacos [1977] 1986, tav. LXXXVb, e nel piedritto VI.A, ibid., tav. CXXXIXb. Sulle lastre Campana cfr. Rohden-Winnefeldt 1911. 106 Nel piedritto IV.B, cfr. Dacos [1977] 1986, tav. 128b. Per la placchetta di Melioli, nella quale tuttavia l’iconografia è leggermente diversa, cfr. Bange 1922, p. 87, n. 633 e tav. 56. 107 Nel piedritto XI.C, cfr. Dacos [1977] 1986, tav. CXXXIId. La scena, derivata da una placchetta, è stata identificata come Annibale che riceve la testa di Asdrubale, ma i costumi sono romani e chi riceve la testa è seduto su una sella curule. Un disegno anonimo tratto dal dipinto delle Logge e ora a Parigi (Louvre, inv. 21791 bis; Cordelier-Py 1992, n. 809, p. 467, LebbéBicart-Sée 1987), è indicato come Teodote che presenta a Cesare la testa di Pompeo. 108 Ad esempio, la favola di Esopo dell’aquila e la tartaruga sullo scudo da amazzone del pilastro VI.B esterno, cfr. Dacos [1977] 1986, tav. CIXa. 109 La scena potrebbe essere accostata a una xilografia che mostra un esorcismo praticato da un mago all’interno del suo cerchio, come in quella che si vede in Das Glückluch, traduzione del trattato del Petraraca De remediis utriusque fortunae (Augsburg, 1532). Cfr. Payer von Thurn 1917, p. 15. Si potrebbe pensare anche alle illustrazioni di qualche libro che forse si rifaceva a incisioni popolari collegate alla storia di Faust, ibid., tavv. 18 e 20. 110 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXVIII, 5. Cfr. Bidez-Cumont 1938, I, p. 189, e II, p. 293, nota 126. 111 Una delle figure della Battaglia di Cascina in un pennacchio, le grandi storie bibliche della Sistina, alcune Sibille, Profeti e ignudi. Cfr. Dacos [1977] 1986, passim. 112 Il Supplizio di Marsia e il Giudizio di Salomone nella volta della Stanza della Segnatura, un tritone del Trionfo di Galatea alla Farnesina, un soldato della Via Crucis, delle storie della Stufetta del cardinal Bibbiena. Dalla Bibbia derivano l’Adamo della Creazione di Eva (II.1), La Cacciata dal Paradiso (II.3) e il Sogno di Giacobbe (VI.1), rispettivamente sui pilastri II.B esterno, III.A esterno, e VI.B esterno, cfr. Dacos [1977] 1986, tavv. CIIIa, CIb, CIXa. Da un disegno di Raffaello e della sua bottega, noto da un’incisione di Marcantonio Raimondi (Oberhuber 1978, n. 313, p. 314) deriva anche, in un medaglione circolare del pilastro XIII.B esterno, la Venere accovacciata il cui prototipo era attribuito allo scultore ellenistico Doidalsas, cfr. Dacos [1977] 1986, tav. CXXIIIa. 113 Nel medaglione del pilastro III, opposto. Cfr. Dacos [1977] 1986, tav. CIIb. 114 Nel sottarco XIII.C, ibid., tav. LXXXVb. 115 Cfr. cap. III, p. 283, fig. 141, p. 298 e tav. 204, p. 299. 116 Se si intendono calcolare gli ultimi disegni realizzati, quelli cioè eseguiti in preparazione di pitture e stucchi, per le grottesche, basta pensare alle quattro composizioni, delle quali solo due si ripetono in ciascuna delle tredici campate, alle quali vanno aggiunte le due composizioni del pilastro XIV, per un totale di 27 disegni, di cui ognuno ha richiesto molti fogli per tutti i motivi che si giustappongono. A questi bisogna aggiungere i semipilastri, che presentano a loro volta un’infinità di motivi. Per i medaglioni di stucco che scandiscono i pilastri, in ragione di quattro volte quattro medaglioni per campata, si arriva a 204, ai quali si aggiungono gli otto medaglioni del pilastro XIV e di quello che gli sta di fronte, che fanno 212. Gli stucchi dei piedritti ammontano a 68 composizioni considerando solo le scene figurate e trascurando gli ornamenti. I piccoli scomparti di stucco sopra le lunette contano circa 30 composizioni. Quelli dei sottarchi sono sei, otto o dieci nelle prime tredici campate, più le tre composizioni finali, per un totale che sfiora il centinaio. Le scene figurate dei pennacchi, in sei campate e sempre senza contare gli ornamenti, sono 48. Ancora maggiore la quantità dei mazzi dei festoni. Considerando che siano otto, nove o dieci nelle lunette e circa il doppio nelle cascate attorno ad ogni finestra, si passano largamente le 300 unità. Quando Giovanni da Udine lavorava alla Loggia di Psiche alla FarLXXXIVc.

nesina, i disegni preparatori per il pergolato dovevano già essere centinaia. Cfr. Caneva 1992. 117 Tra cui uno studio particolareggiato della “Volta dorata” con le misure, attribuito a torto a Giovanni da Udine, mentre deve essere opera di uno dei suoi collaboratori. Cfr. cap. III. 118 Cfr. cap. III, figg. 136-137, p. 290. 119 Cfr. cap. IV, p. 323. 120 Cfr. Rodocanachi 1931, pp. 175-179, con indicazione delle fonti. 121 Giovio 1524. 122 Citato da Rodocanachi 1931, p. 175. 123 Sui pilastri III (cervi) e XIV (leopardi), cfr. Dacos [1977] 1986, tavv. LXXXIXa, e XCIVb. 124 Sul pilastro III, ibid., tav. LXXXIXa. 125 Sul pilastro VI esterno, cfr. Dacos [1977] 1986, tav. XCVIa, e nel medaglione rettangolare del pilastro XI opposto, ibid, tav. CXVIIIb. 126 Ma il cavallo che oggi appare bianco sul pilastro II, non è la giumenta del papa, come creduto in Dacos [1977] 1986, p. 248. Nel corso dei restauri degli anni Settanta ci si è accorti che il cavallo era bruno e che il colore (in un materiale che non era quello dell’affresco) è caduto. 127 Cfr. De Ciutiis 1889, con indicazione delle fonti. 128 Cfr. Winner 1963-65. 129 Fabroni 1841, pp. 16-17; Viviani 1921, pp. 7-10. 130 Castiglione [1528] 1998, LII, p. 110. 131 Kris 1929, n. 96, tav. 25. 132 Giovio 1556, pp. 30-33. 133 Nel cod. Vat. Lat. 13751, fo. 58, di Francisco La Vega. Cfr. Marquand 1928, pp. 84-87, ill. di quanto resta in Città del Vaticano 1984, p. 209 (Nesselrath-Morello). I tre colori verde, oro e morellone su fondo bianco corrisponderebbero alle dominanti nell’insieme dei pilastri. 134 Sul semipilastro VII, dunque verso il centro della galleria. Cfr. Dacos [1977] 1986, tav. XCIa. 135 Nella parte inferiore dei semipilastri IV e XI, dunque in posizione simmetrica rispetto al centro della galleria, come pure sulla volta II, ibid., tavv. LXXXIXb, XCIIIa e III. 136 Nel pennacchio XII.1, sinistro. Cfr. Dacos [1977] 1986, tav. LIXc. Davidson 1985, nota 206, p. 90, pensa che questa data potrebbe essere frutto di un restauro più tardo perché non compare in una miniatura della serie viennese che copia lo stucco. È vero che la Vittoria sembra stilisticamente un po’ diversa e che potrebbe essere stata rifatta, ma non si vede perché si dovesse aggiungere la data se essa non fosse stata presente sullo stucco fin dall’origine, tanto più che nei due gruppi di miniature di Vienna i motivi incompleti sono molti (cfr. cap. III). 137 Sul pilastro IV opposto, cfr. Dacos [1977] 1986, tav. CIVb. 138 Sul pilastro IV, ibid., tav. LXXXIXb. 139 Sul pilastro IV.A esterno, ibid., tav. CIIIa. 140 Sul pilastro III, ibid., tav. CIIa. 141 Nel motivo del piedritto a fianco del pilastro VI, ibid., tav. XCb. 142 Fra i motivi dipinti, che si alternano con altri in stucco, sopra la lunetta V. 143 Nella volta V, ibid., tav. VI. 144 A destra del pilastro V, ibid., tav. XCa. 145 Sul pilastro V.A esterno, ibid., tav. CVb. Cfr. Fischel 1938, pp. 361-363; Fischel 1948, p. 159. 146 Ne ha tracciato il ritratto Deswarte 1989, pp. 17-25. 147 Potrebbe trattarsi di Polidoro da Caravaggio che, secondo Vasari, ebbe come primo incarico nelle Logge quello di portare lo schifo dei muratori. Cfr. cap. III, p. 234. 148 Cfr. Fischel 1948, p. 159. 149 È accaduto (di rado) che alcuni autori, a dispetto dei testi peraltro chiari di Serlio e Vasari (citati in Dacos 1969, p. 126), non abbiano voluto ammettere che le grottesche e gli stucchi delle Logge siano semplicemente un insieme di motivi ornamentali, e abbiano voluto vederci a tutti i costi un programma da “decifrare”, in senso moralizzante, come se si trattasse di emblemi. È il caso di Canedy 1981 che, nella recensione a Dacos 1977, ha dato come esempio della ricerca da condurre quello della famiglia di leoni rappresentata sopra il medaglione rettangolare nei pilastri VI.B-VII.A esterni (ill. in Dacos [1977] 1986, tav. XCVIa): si tratterebbe, come nei bestiari medievali e in un medaglione della Cappella degli Scrovegni, di un simbolo della

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Resurrezione. Davidson in Città del Vaticano 1984-85 e 1985, che accetta la proposta, va oltre e pensa che i “pagani” rappresentati nelle grottesche e negli stucchi siano strettamente collegati al ciclo biblico, dunque imperniati anch’essi sul tema della salvezza. A suo dire alcuni di questi “pagani” non sarebbero senza speranza perché hanno avuto la premonizione del Messia: sarebbe il caso in particolare di Orfeo (che però non compare nella galleria) e di Zoroastro (altrettanto assente, e al quale si fa semplicemente allusione), mentre la maggior parte degli esseri rappresentati nelle grottesche correrebbe un rischio mortale a causa di una vita dedita al piacere. Sarebbe il caso, da un lato, di animali come il toro, il maiale e i cavalli focosi, dall’altro, degli uomini protagonisti delle scene di battaglia come pure di Medea, Venere e Dioniso. Allo stesso modo le numerose scene di sacrificio presenti negli ornati preannuncerebbero, come quelle che compaiono nella Bibbia, il sacrificio di Cristo. Isolando dunque poco più di una decina dei quasi cinquecento stucchi della galleria, l’autrice cerca di dimostrare che la loro collocazione sarebbe tutt’altro che casuale, e predisposta in accordo con il programma della Bibbia. Così, nella prima campata, Medea sarebbe in rapporto con la Creazione del Sole perché ne era la figlia, un’asserzione per di più antistorica, giacchè all’epoca di Raffaello il soggetto del sarcofago non era stato identificato (cfr. Bober-Rubinstein 1986, p. 141). Allo stesso modo, la rappresentazione degli artisti al lavoro (nello scomparto rettangolare del pilastro II.A esterno) e quella, non lontana, della Gloria, significherebbero che la loro azione terrena e la fama che ne traggono non sono nulla in confronto alla potenza creatrice di Dio nelle scene della Creazione. E così via… 150 «Leviores et extemporaneae picturae…quas grotteschas vulgo vocant». Per queste grottesche cfr. Dacos 2001. CAPITOLO SECONDO 1

Davidson 1985, p. 50, seguita da Andrus-Walck 1986, p. 193, nega che il tema rappresentato sia la Creazione di Eva e pensa piuttosto alla Presentazione di Eva ad Adamo. Ma non si accorge che, come nell’affresco di Michelangelo nella Sistina, i piedi di Eva non sono ancora formati. 2 Il fatto è stato notato da Cahier 1867, I, p. 46, che preferisce ricordare che questi animali erano anche simbolo di timidezza. Va da sé che Raffaello si è basato sulla tradizione. In un quadro di Giovanni di Paolo, in particolare, dei conigli corrono per il prato dove avviene la Cacciata dal Paradiso. 3 Come nella volta della Cappella Sistina di Michelangelo, l’Albero della Conoscenza è un fico, secondo la versione dei Settanta, e non un melo, che appare solo con la versione latina. Cfr. Réau 1956-57, II/1, p.85. 4 Secondo Andrus-Walck 1986, p. 175, la giovane donna con la mano poggiata sull’anca non sarebbe Rachele, ma Lia, che appare come la donna sicura di sé, identificata con la Chiesa. Senza tener conto del fatto che la protagonista dell’episodio non è Lia, ma Rachele, e che Giacobbe si volge verso di lei, l’autore offre come argomento supplementare il fatto che dietro Lia si ergerebbe un albero in pieno vigore, mentre quello dietro Rachele sarebbe morto. Ciò significa non considerare che nella Bibbia di Raffaello i paesaggi sono sempre opera di chi ha realizzato il dipinto – peraltro nel disegno preparatorio della scena, che traduce il progetto di Raffaello, non v’è traccia di alberi. Si dà il caso inoltre che i due alberi facciano parte di uno stesso gruppo, ispirato all’incisione di Dürer che rappresenta l’Invidia. 5 Il particolare non compare ancora nel modello, dove sono rappresentati solo pecore e arieti, ma non capre. 6 Cfr. Bernini Pezzini-Massari-Prosperi Valenti Rodinò 1985, in particolare p. 390 (Badalocchio), 398 (Galanini), 406 (Borgianni) e 420 (Chapron). 7 Dalla posizione dell’altra mano e delle dita, si vede che il re conta e valuta, con l’interprete, gli anni di abbondanza e di carestia, in rapporto con quello che ha visto in sogno, afferma Quatremère de Quincy [1824] 1835, p. 244. Ma in questo caso non è certo che le due dita alzate di Giuseppe si aggiungano alle cinque della mano abbassata per fare sette. 8 Non corna, come farà ancora Michelangelo, seguen-

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do la tradizione medievale. Come ha osservato Tommaso d’Aquino, la Vulgata dice: «videbant faciem Moysi esse cornuta», nel senso di raggiante. Cfr. Réau 1956-57, II, 1, p. 177. 9 La scena non appartiene all’iconografia tradizionale di Davide e in generale è stata interpretata erroneamente (ancora in Dacos [1977] 1986, pp. 196-197 e tav. XLIV) come il Trionfo di Davide dopo la vittoria su Golia. Ma non c’è dubbio che qui si tratta di un uomo maturo, con la barba grigia. Il riferimento esatto è fornito da Davidson 1985, p. 82. 10 V. più oltre p. 203. 11 Cfr. Réau 1956-57, II/1, p. VIII. 12 Nella volta II il ciclo comincia una scena indietro, tra le due volte, dal lato sud. Nella volta V le scene 2 e 3 sono invertite. 13 Fra le copie dei disegni preparatori c’è un foglio di Vasari da un disegno che rappresenta il Castigo di Core, Datan e Abiram. Cfr. Cordellier-Py 1992, n. 764, p. 448 e fig. 449. A Vienna si conserva un volume di miniature che riproducono buona parte degli affreschi al tempo di papa Giulio III. In seguito Pietro Sante Bartoli ha pubblicato una serie di incisioni con scene dello zoccolo invertite. 14 Davidson (1979 e 1985, pp. 46-47) ha notato che fin dall’origine nel muro interno doveva aprirsi una porta che collegava le Logge alla scala del Bramante e che, di conseguenza, la grisaille doveva essere a suo avviso sul muro di fondo, all’ingresso delle Logge dal lato sud – del resto la porta in questione appare in questo punto nel codice di Vienna (fol. 2, cfr. Davidson 1985, fig. 12). 15 Abramo e Isacco sono tra due angeli, uno che ferma il braccio di Abramo, l’altro che porta l’ariete dal cielo, mentre nella Bibbia si parla di un solo angelo e l’ariete è in un cespuglio. Su questa base Canedy 1981, pp. 155-156, e nota 2, p. 155, osserva che la rappresentazione dei due angeli non appartiene alla tradizione cristiana bensì a quella ebraica. Ma i due angeli compaiono già nella volta della Stanza di Eliodoro. Andrus-Walck 1986, p. 242, li segnala anche in una Bibbia napoletana del XV secolo. 16 Secondo Davidson 1979, pp. 393-394, e 1985, p. 70, questa scena non sarebbe stata dipinta al tempo di Raffaello, e deve essere «a late sixteenth-century pastiche», perché il codice di Vienna, fo. 34 (Davidson 1985, fig. 50) ne lascia il posto in bianco: in questo punto ci sarebbe stata una porta, eliminata poi da Paolo III. Ma è noto che le miniature in questione sono in più punti incomplete – e del resto la stessa Davidson (1979, nota 32, p. 394) aggiunge come proprio una parte degli stucchi della quinta campata non sia stata completata. Contestando la teoria della Davidson, Andrus-Walck 1986, in part. p. 12, precisa che la scena rappresentata deve essere la seconda Benedizione di Giacobbe, che riceve dal padre poco prima di partire per recarsi da Labano (Gen., 28, 1). Anche se fosse così, il problema rimarrebbe, perché il tema si tradurrebbe negli stessi termini visivi. 17 Un disegno quadrettato con il Ritrovamento della coppa di Giuseppe nella bisaccia di Beniamino (Parigi, Louvre, Département des arts graphiques, inv. 3851; Dacos [1977] 1986, p. 297 e tav. CXLI; Cordellier-Py 1992, n. 68, pp. 76-78, con le diverse ipotesi possibili) è stato a volte considerato un modello scartato per la scena del settimo basamento, nonostante il formato (mm 130x180) molto diverso. 18 Oltre alla copia nel codice di Vienna, fol. 66, realizzata dopo l’apertura della porta (Davidson 1985, fig. 80), uno schizzo di Girolamo da Carpi, attualmente a Filadelfia, riproduce parte delle figure, ma in modo confuso (ibid. fig. 81; Canedy 1976, R133, p. 67 e tav. 18). La scena ricompare nelle incisioni di Bartoli. 19 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 114 (Vita di Perin del Vaga). 20 Davidson 1985, pp. 84-85. 21 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 450 (Vita di Giovanni da Udine). 22 Per le attribuzioni dei disegni preparatori, cfr. cap. III, pp. 233-234. 23 «Erat enim Moses vir mitissimus… super omnes homines qui morabantur in terra» (Num., 12, 3). 24 Cfr. anche Shearman 1972, pp. 15-20, passim. 25 La “mitizzazione” di Leone X ha raggiunto il culmine con la voluminosa monografia di Roscoe 1805-06, tr. it. con aggiunte, 1815-17, e si è protratta per tutto il

XIX secolo. Gnoli 1897-98 giunge tuttavia a contestare l’importanza del papa dal punto di vista dell’umanesimo e delle arti. Neppure Pastor 1906, tr. it. 1908, ha risparmiato critiche a Leone X. Secondo Gnoli, Giovanni de’ Medici sarebbe riuscito a dare alla sua corte la vivacità che l’ha resa celebre solo per aver ereditato tanto la tradizione di famiglia quanto quella dei papi – in particolare quella del predecessore Giulio II –, ma non sarebbe stato capace di continuare autonomamente una tale tradizione, e non sarebbe riuscito a chiamare i più grandi umanisti, che rimanevano tutti a Padova o a Venezia e risiedevano anche nei Paesi Bassi. Soprattutto alla fine del suo regno le casse erano vuote e molti tendevano a lasciare Roma. Questa tesi è stata ripresa da Gnoli 1938 (senza bibliografia) che però si è rifatto al volume di Rodocanachi 1931 (che rimane un testo da consultare, e che cita le fonti). Lo smacco del papa dal punto di vista religioso è già rilevato da Paolo Sarpi. Cfr. anche Jedin 1951, p. 106. 26 Per una visione d’insieme dei movimenti di riforma in Europa dalla fine del XV secolo, cfr. tra l’altro D’Amico 1983 e Olin 1990 (con bibliografia). 27 Su Vio cfr. in particolare Wicks 1983. 28 Tacchi Venturi [1921] 1930, pp. 111-113. 29 Cfr. Kleinhans 1926; Colombero 1982. 30 Cfr. Douglas 1959. 31 Kunkel 1941, pp. 12-14. 32 Cicchitelli 1904, p. 47, in particolare per la data dell’invito da parte di Leone X a scrivere la Cristiade, che probabilmente precede di un anno o due il mese di gennaio 1519. 33 Ibid., p. 291. La lettera, datata 1540, è stata pubblicata nell’introduzione all’edizione pavese della Cristiade (1569): «Ego certe opus tam arduum atque adeo periculosum non spe immortalitatis, aut gloriae adortus sum; non oblitus me scribere res illius, qui pro humani generis salute, humilis et abjectus ac plane inglorius animi certo iudicio esse voluit». 34 «Nam tandem venit tempus, quo sacra poësis | Non nisi nota piis, nulli concessa profano, | Attolit caput auricomum super aethera summum | Te regnante Leo, et toto ditissima mundo | Cælestes expandit opes. Mendacia vana | Sordent longa inculta patrum, iam sordet inanis Iupiter, et fatuae temeraria sacra Minervæ. | Quinetiam insanum ridet Parnassus Iacum, Thymbræumque…»; Vitale, In Divinam Trinitatem Hymni, in Oporinus 1542 ca., p. 339. 35 Cfr. Bouscharain 2003. 36 Sannazaro 1988. 37 «… hac praecipue tempestate erunt longe gratiora, qua quidam, quo doctiores videantur, Ecclesiam stilo iniquo petant, qui exactissima eruditione commendent, non desiderentur. […] quod persuasi simus, divina factum providentia, ut divina sponsa tot impiis oppugnatoribus laceratoribusque lacessita, talem tantumque nacta sit propugnatorem; et cum illi impia facundia abusi, frangant in rem sacram genuinum […] Gratulamur itaque tibi, quod tantum unus praestes quantum antea nemo Ecclesiae, quod cum vexetur lancineturque ab aliis a te uno in coelum efferatur; nostro saeculo, quod fiet tui carminis luce celeberrimum; nobis denique ipsis, quibus, imminente hinc Goliade armato, hinc Saule a furiis agitato, affuerit pius David illum funda a temeritate, hunc lyra a furore compescens»; Sannazaro 1988, pp. 109-110. 38 «Testantur hoc abunde Leonis et Clementis breuia, sic enim hodie uocant, tum Aegidii Cardinalis addita praefatio, ne caeteros commemorem, nec sine causa tantopere, placuit […]. Hoc nomine praeferendus est Pontano, quod rem sacram tractare non piguit […] sed meo quidam suffragio, plus laudis erat laturus, si materiam sacram tractasset aliquanto sacratius: qua quidem in re leuius peccauit Baptista Mantuanus […]. Nunc quorsum attinebat hic toties inuocare Musas et Phoebum? Quid quod Uirginem fingit intentam praecipue sibyllinis uersibus […] si ut carmen a uiro serio scriptum ad pietatem, longe praeferam unicum hymnum Prudentianum de natali Jesu tribus libellis Actii Synceri, tantum abest ut hoc carmen sufficiat et ad prosternendum funda Goliam Ecclesiae minitantem et ad placandum cythara Saulem furentem quam laudem illi tribuunt praefationes. Atque haud scio, utrum sit magis reprehendum, si christianus prophana tractet prophane, christianum se esse dissimulans, an si materias christianas tractet paganice»; Erasmo, ed. Gambaro 1965, pp. 278-279.

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Cfr. O’ Malley 1968, p. 5. Ibid., in part. pp. 136-137. 41 Pfeiffer 1975 ha proposto di vedere in lui l’autore del programma della Disputa del SS. Sacramento per la Stanza della Segnatura. 42 Per la fonte antica alla quale Raffaello si è ispirato, v. oltre, p. 206 e fig. 32, p. 86. 43 Il serafino sembra un ricordo dell’arcangelo Raffaele della Madonna del pesce del Prado, come mostra, più chiaramente del dipinto, realizzato dalla bottega, il modello, probabilmente opera di Penni, più vicino a Raffaello (ill. in Joannides 1983, n. 352; Knab-MitschOberhuber 1983, n. 459). 44 I rapporti della Bibbia di Raffaello con l’arte paleocristiana sono stati oggetto, negli Stati Uniti, di una tesi (Andrus-Walck 1986). Il metodo di ricerca dell’autore consiste nel partire dall’Index for Christian Art di Princeton, confrontare le diverse iconografie note delle scene prese in considerazione e cercare di identificarne la fonte, scegliendo quelle che, spesso senza tener conto del contesto storico, appaiono più vicine al tema in questione. Sembra dunque all’autore che Raffaello non si sia ispirato solo ai cicli romani di Santa Maria Maggiore e di San Paolo fuori le mura, ma che, nel desiderio di risalire all’iconografia dei primi secoli della Chiesa, abbia studiato anche alcune miniature bizantine e medievali, in particolare dei volumi greci di salteri e ottateuchi, che avrebbe potuto consultare nella biblioteca papale. Così qualche somiglianza con la Genesi di Vienna, del VI secolo, lo spinge, pp. 135136, a dedurne che il volume in questione si trovasse a Roma nel XVI secolo. Ma Raffaello avrebbe subito l’influenza anche di altri modelli, come, p. 193, i mosaici di San Marco a Venezia e, p. 38, forse addirittura quelli di Monreale. Non basta: convinto che le scene della Bibbia di Raffaello siano altrettante allusioni a Leone X, sia in quanto papa, sia in quanto capofamiglia della casa medicea, cerca di “decrittarle”. Il rapporto sarebbe particolarmente evidente per quanto riguarda le scene della vita di Giuseppe, nella settima volta, al centro della galleria. Così Giuseppe racconta i suoi sogni ai fratelli (VII.1) alluderebbe alla giovane età in cui Leone X è diventato cardinale, Giuseppe venduto dai fratelli (VII.2) si riferirebbe all’esilio dei Medici da Firenze nel 1494, Giuseppe e la moglie di Putifarre (VII.3), immagine della castità, sarebbe da riferire alla presa dei voti da parte di Leone X e Giuseppe spiega i sogni del Faraone (VII.4) alluderebbe al ruolo che, prima di diventare papa, il giovane cardinale Giovanni de’ Medici avrebbe avuto presso Giulio II, appoggiandone la politica. Quanto alla scena sul basamento, non si tratterebbe di Giuseppe che si fa riconoscere dai fratelli, ma di Giuseppe che chiede di proteggere Beniamino quando la coppa viene trovata nel suo sacco e Giuda si offre di assumersi la responsabilità del furto. Si tratterebbe dunque di un’allusione ad un fatto non illustrato e per di più in contrasto con lo spirito del racconto di Raffaello. Il modo con cui i fatti vengono forzati per arrivare a questa interpretazione non ha bisogno di commenti. Basterà un altro esempio per rendersi conto del metodo seguito: L’Incontro con la Regina di Saba (XII.4), p.145, alluderebbe all’arrivo delle principesse francesi venute ad assistere al matrimonio di Giuliano de’ Medici, fratello di Leone X, con Filiberta di Savoia, e a rafforzare l’ipotesi ci sarebbe addirittura il fatto che “regina di Saba” significa “regina del Sud” e che la Savoia è una provincia meridionale della Francia. 45 Cfr. Wilpert 1917, III, tav. 11.1; Wätzoldt 1964, fig. 240, dalla copia del Cod. Barb. Lat. 4405, fo. 5. 46 Cfr. Wilpert 1917, III, tav. 12.2. L’importanza assunta dagli animali potrebbe essere un ricordo dell’altro mosaico, nel quale Giacobbe divide le greggi con Labano (Wilpert 1917, III, tav. 13.2). 47 Cfr. Wilpert 1917, III, tav. 11.2. L’insolito abbigliamento di Rachele, la palla, specie di mantello romano che copre la testa, potrebbe derivare dai mosaici con Giacobbe che si reca da Labano e L’abbraccio fra Labano e Giacobbe (Wilpert 1917, III, tav. 11.2). 48 Cfr. Wilpert 1917, III, tav. 28.1. 49 Questi affreschi correvano lungo la parte superiore della parete destra della navata maggiore. Una copia ad acquarello di tutto il ciclo, realizzata nel 1634 per il cardinale Francesco Barberini, si trova alla Biblioteca Vaticana (cod. Barb. Lat. 4406). Cfr. White 1956; Wätzoldt 1964, nn. 589-627, pp. 56-58 e figg. 33740

365. Per Abramo e gli angeli cfr. Wilpert 1917, II, p. 604, fig. 250 (fol. 36), che per primo ha fatto l’accostamento con le Logge di Raffaello, seguito da Stridbeck 1963, pp. 73-74. Cfr. anche Wätzoldt 1964, fig. 341. 50 Per Giuseppe racconta i suoi sogni ai fratelli (VII.1), cfr. Wilpert 1917, II, fig. 258, p. 609; Wätzoldt 1964, fig. 347 (Wilpert, ibid., p. 613, aggiunge che la composizione di Santa Maria Antiqua potrebbe aver ispirato anche Raffaello). Per Giuseppe venduto dai fratelli (VII.2), cfr. Wilpert 1917, II, fig. 261, p. 611; Wätzoldt 1964, fig. 350. Per Giuseppe e la moglie di Putifarre (VII. 3), cfr. Wilpert 1917, II, fig. 262, p. 612; Wätzoldt 1964, fig. 351. Per Giuseppe che spiega i sogni del Faraone (VII. 4), cfr. Wilpert 1917, II, fig. 265, p. 615; Wätzoldt 1964, fig. 354. 51 Per la lettera a Leone X cfr. Di Teodoro [1994] 2003 (meglio di Shearman 2003, I, 1519/70, pp. 500-545, che non considera le differenti versioni dal punto di vista filologico). 52 Per le diverse edizioni, cfr. Gesamtkatalog 1925-38, coll. 184-188, nn. 4317-4320. La prima edizione illustrata, con 175 xilografie, è uscita nel 1490. Fra il 1471 e il 1487 si sono susseguite sei edizioni senza xilografie. Nelle edizioni simili del 1492 e 1494, ricompaiono le xilografie, che però diventano 188 e sono impaginate diversamente. Un’altra serie di xilografie, che segue più o meno la stessa iconografia, ma di diverso disegno, compare nell’edizione del 1493, che comprende 214 incisioni, alcune delle quali ripetute. 53 Se ne nota una traccia evidente già nella volta della Stanza della Segnatura per il Giudizio di Salomone, che Raffaello avrebbe ripreso, modificandolo, nelle Logge. 54 Sull’uso fatto da Michelangelo della Bibbia Malermi, in particolare per illustrare i temi dei Maccabei in tre medaglioni della Sistina, cfr. Redig de Campos, Biagetti 1944, p. 39, nota 2; Redig de Campos 1964, p. 48, nota 5; Wind 1960, che dà alcune notizie sulle diverse edizioni. 55 Cfr. Friedländer 1923. 56 Cfr. Réau, 1956-57, II, 2, p. 247, che cita un precedente e definisce san Giuseppe «il cassiere della Sacra Famiglia». 57 Sembra che esista un rapporto anche fra il Mosè salvato dalle acque e la miniatura con lo stesso soggetto della Bibbia di Federico da Montefeltro (Garzelli 1977, fig. 3, p. 52), ma, ancora una volta, senza riscontri dal punto di vista stilistico. È stupefacente la somiglianza fra le anse del fiume, l’idea dell’artista di animare con alberi il paesaggio (che non ha nulla di raffaellesco) e la disposizione generale di una parte delle figure nel disegno preparatorio di Penni, ma non nell’affresco di Giulio Romano. 58 Cfr. Ruysschaert 1993, pp. 26-27, con bibliografia precedente. Le copie di Perin del Vaga si conservano nella biblioteca dell’Università di Princeton, con la segnatura Med. and Ren. ms. 104. A osservare che queste copie sono opera di un aiuto di Raffaello è stato lo specialista di legature A. Hobson, il quale ha notato che il manoscritto in questione conserva la rilegatura originale, realizzata dal romano Paolo di Bernardino Bancheli, attivo fra il 1503 e il 1523. 59 Roma, Galleria Borghese. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 85, II. 60 Monaco, Glyptotek. Ibid., n. 14. 61 Napoli, Museo Nazionale. Ibid., n. 128; Prisco in Gasparri 2007, p. 57. La testa è servita da modello per il profeta Giona, che Lorenzetto trarrà da un progetto di Raffaello in Santa Maria del Popolo. Cfr. cap. III, fig. 141, p. 298. 62 Ibid., nn. 150-151; Palma 1981. La figura di Anania deriva dal Galata morente ora al Museo Nazionale di Napoli (ibid., n. 151), mentre, nello stesso cartone, la figura del giovane caduto in ginocchio, che assiste impotente alla sua morte, è probabilmente un’ulteriore derivazione dalla statua del Louvre. 63 Venezia, Museo Archeologico Nazionale. Ibid., n. 149. 64 Colonna Traiana, scena XXXI (Lehmann-Hartleben 1926, tav. 17) e scena XV (Lehmann-Hartleben 1926, tav. 11). 65 Città del Vaticano, Atrio del Torso. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 132. 66 Roma, piazza Pasquino. Ibid., n. 155. 67 Il soldato derivato dalla Colonna Traiana nel Passaggio del Mar Rosso era stato ripreso in precedenza nel-

l’affresco di Cosimo Rosselli con la stessa scena nella Sistina, ma non si vede perché mai la citazione nelle Logge ne dovrebbe dipendere (Farinella in Agosti-Farinella 1984, p. 412). L’asserzione indica un caso tipico di tranello in cui cade il cacciatore di fonti antiche quando non si sofferma ad osservare: la figura spoglia delle Logge non ha nulla in comune col guerriero rigido, impigliato nei suoi abiti, del mediocre affresco di Rosselli, col quale Raffaello e i suoi non avevano nulla a che fare. 68 Colonna Traiana, ad esempio scena LXXI (LehmannHartleben 1926, tav. 33) e, per il guerriero barbato, a capo scoperto, scene XL-XLI (ibid., tav. 22). 69 Firenze, Uffizi, Tribuna. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 33. 70 Roma, palazzo Altemps. Ibid., n. 198. De Angelis d’Ossat 2002, p. 140. 71 Per illustrare L’ingresso del cardinale Giovanni de’ Medici a Firenze (ill. della copia del disegno preparatorio in Shearman 1972, fig. 54). 72 Per i vegliardi che si fanno lavare la testa, ill. Dacos in Dacos-Furlan 1987, p. 38. 73 Nella storia di Olimpo che intercede presso Apollo in favore di Marsia (ill. ibid., p. 55). 74 Per l’autore del modello e per quello dell’affresco, cfr. cap. III, fig. 93, p. 220, e tav. 173, p. 254. 75 Probabilmente perduta. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 62. 76 Roma, Museo Torlonia, ibid., n. 94. 77 In seguito chiamata Amimone, che si poteva ammirare ai Santi Apostoli o accanto, in palazzo Colonna. Roma, Villa Borghese. Ibid., n. 63. 78 Città del Vaticano, Cortile del Belvedere. Ibid., n. 122. 79 Cfr. cap. I, p. 96. 80 Apparentemente, questa fonte non è stata sino ad oggi segnalata, anche se nel disegno preparatorio è ancor più evidente (Oxford, Ashmolean Museum, inv. II 462, ill. in Oberhuber 1972, n. 410, pp. 96-98, e tav. 14). 81 Cfr. cap. I, fig. 32, p. 86. 82 Ill. in Dacos in Dacos-Furlan 1987, p. 42. 83 Londra, British Museum. Cfr. Bober-Rubinstein 1986, n. 18, compresa la bibliografia con l’attribuzione a Doidalsas, al quale la statua è stata a lungo data. 84 Roma, foro. Ibid., n. 178b. 85 Woburn Abbey (Bedfordshire). Ibid., n. 82a. La figura si era già trasformata nella Fede nei bordi degli arazzi (ill. in Shearman 1972, fig. 17), da dove è anche possibile che sia stata tratta. 86 Venezia, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 17. Il torso, che apparteneva a Domenico Grimani, era a Roma prima del 1523. Cfr. Perry 1978, n. 16, p. 240 e tav. 24e. 87 Per gli autori delle scene con Isacco che benedice Giacobbe (V.3), Isacco che rifiuta la benedizione a Esaù (V.4) e Il roveto ardente (vIII.2) cfr. cap. III, pp. 236240. 88 Per l’autore del dipinto, cfr. cap. III, pp. 226-228. 89 Questi elementi non dovevano essere ulteriormente sviluppati nei cartoni, poiché sugli affreschi non v’è traccia di spolvero che per le figure e, tutt’al più, per qualche linea dell’orizzonte. CAPITOLO TERZO 1

Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, pp. 197-198 (Vita di Raffaello). Cfr., con bibliografia precedente, Oberhuber 1972, nn. 455-473b, pp. 161-182, Dacos 1977 [1986], pp. 150-206, p. 245 e pp. 294-302, Ravelli 1978, n. 34, pp. 110-111, Cordellier-Py 1992, pp. 396-477, Oberhuber e Gnann in Mantova 1999, nn. 95-100, pp. 156-163, e nn. 111-115, pp. 174-179, Clayton in Londra, Washington, Toronto, Los Angeles 1999, n. 32, pp. 124-128, e per altri disegni in rapporto con le Logge, n. 33, pp. 129-131, Leone de Castris 2001, D 284, fig. 22, p. 39 e p. 492. 3 Un esempio tipico di schizzi di questo genere, è quello per le figure di Mercurio e di un amorino della Loggia di Psiche alla Farnesina: Colonia, Wallraf-Richartz Museum, inv. Z 1984 (ill. in Knab, Mitsch-Oberhuber 1983, n. 543; Johannides 1983, n. 416). 4 Crowe-Cavalcaselle 1884-91, III, pp. 150-151. L’auto2

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grafia è stata messa in dubbio anche da Dollmayr 1895, pp. 290 e 292-294, poi da Fischel 1898, n. 229. 5 Pouncey-Gere 1962, dove sono trattati solo Giovanfrancesco Penni, Giulio Romano, Giovanni da Udine, Tommaso Vincidor (per i Giochi di putti), Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio, ai quali si aggiungono Baldassarre Peruzzi, Timoteo Viti e Girolamo Genga, come pure alcune opere anonime direttamente collegate a loro. 6 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1984, p. 331 (Vita di Giovanfrancesco Penni). Più avanti Vasari aggiunge che Penni aiutò Raffaello anche nella realizzazione dei cartoni per gli arazzi della Sistina. 7 Oberhuber 1972, nn. 455-473 b, pp. 147-182 e tavv. 55-71, preceduto da Oberhuber 1962 (a proposito della Stanza dell’Incendio di Borgo). I primi otto tomi uscirono dal 1913 al 1941 (l’ottavo è postumo). 8 Per limitarsi agli interventi più significativi, cfr. Oberhuber 1983, nn. 582-584, p. 638; Gere in New York 1987, nn. 43-47, pp. 163-173; Oberhuber, citato da Ferino-Pagden 1989-90, p. 70; Oberhuber 1992, p. 24; Oberhuber e Gnann in Mantova 1999, nn. 95-96, 98-100, 105, 111-112, pp. 156-176, passim. Il risultato fu che, quando riapparve il modello per l’Apparizione di Dio ad Isacco (di cui si erano perse le tracce e che è stato acquistato dalla Graphische Sammlung della Staatsgalerie di Stoccarda), si accettò di nuovo l’attribuzione al maestro: cfr. Höper 1997. 9 Oberhuber 1972, p. 45: «Obwohl der Autor lang die Meinung vertreten hat, die Kohlezeichnung sei von Raphael, neigt er jetzt zu der eben vorgetragenen Ansicht. Für den Meister der Wiener Blätter, sprechen doch viele Details der Handschrift, etwa die Gestaltung des Kopfes der Eva und ihr Ausdruck, ihre linke Hand, bei der die Finger nicht die geringste Kraft haben, die Haare des Engels, die mit einer Reihe von girlandenartig folgenden Halbkreisen umschrieben sind, und die gleiche Strichführung unten bei seinem Gewand. Das entspricht der flüssigen, schönlinigen Zeichenweise des Meisters, die wir oben besprachen, nicht aber Raphael, dessen Zeichnung herber, aber präziser ist. Die Schnörkel hier sind rein äußerlich in ihrer Umschreibung der Formen, tragen aber in nichts zu einer Schilderung der Bewegung oder des Charakters der umschriebenen Stoffe bei». Cfr. nel catalogo dello stesso volume, n. 45, pp. 162-163, e tav. 57. 10 Clayton in Londra, Washington, Toronto, Los Angeles 1999, n. 32, pp. 124-128 e, per altri disegni in rapporto con le Logge, n. 33, pp. 129-131 e passim. 11 Non c’è una monografia su Giovanfrancesco Penni, il meno studiato tra i principali allievi di Raffaello. Basandosi su tre fogli dell’Albertina a Vienna (SR 278, 279, 280, inv. 230, 231, 232; Oberhuber 1972, pp. 3841) che fanno parte dello stesso gruppo di modelli noti dell’artista, in particolare per le Logge, e la cui destinazione è ignota, Pouncey-Gere 1962, pp. 51-52, hanno messo in dubbio l’affermazione di Vasari per la data della sua morte, affermando che questi disegni rivelano una cultura più avanzata. Tuttavia, nulla impedisce di collocare tali fogli verso la fine della sua vita, poco dopo il Sacco di Roma. Cfr. lo stato della questione in Gnann, in Mantova 1999, nn. 242-244, pp. 332-335. A proposito del gruppo di disegni che Oberhuber 1972, pp. 38-50, ha presentato con l’attribuzione a Penni per chiarire la personalità dell’artista, quando ne ha diminuito il numero riproponendo l’attribuzione a Raffaello di molti fogli (cfr. Mantova 1999, passim), lo studioso non ha risolto il problema della mancanza di unità nell’opera di Penni, che nasce dal fatto che vi sono inclusi pezzi di altri artisti, tra cui Luca Penni e Vincidor. Per i dipinti, cfr. Gnann in Mantova 1999, in particolare n. 170, p. 243 e n. 184, p. 260. 12 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 57 (Vita di Giulio Romano). Giulio Romano è il primo allievo di Raffaello ad aver avuto l’onore di una monografia (Hartt 1958) e poi di una grande mostra a Mantova nel 1989. Vasari riferisce che alla sua morte, avvenuta a Mantova nel 1546, Giulio aveva 54 anni, cosa che porrebbe la sua nascita nel 1492 – ma l’imprecisione per le date del pittore-scrittore è ben nota. Un documento dell’ospedale della Sanità a Mantova riporta che Giulio vi si spense il 1 novembre 1546 all’età di quarantasette anni, e spesso si tende a fidarsi di più di questa versione, ponendo la sua nascita nel 1499, mal-

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grado non ci siano prove dell’affidabilità del documento in questione – e malgrado il fatto che, ad essere precisi, in questo caso bisognerebbe fissare la sua data di nascita fra il 1 novembre 1498 e il 31 ottobre 1499. Dopo Hartt, lo studio dei suoi dipinti da cavalletto è stato ripreso da Johannides 1985 e da Ferino Pagden in Mantova 1989, ma senza chiarimenti sulla situazione e includendo nel corpus di Giulio alcuni pezzi che gli sono completamente estranei. Per la Circoncisione del Louvre, cfr. più oltre, a proposito di Tommaso Vincidor. Quanto alla Flagellazione di Santa Prassede a Roma, è stata restituita a Peter de Kempeneer, uno dei primi romanisti la cui opera in Italia è stata spesso considerata di un italiano, da Dacos 1993, pp. 153156. 13 Vasari, ed Bettarini-Barocchi, IV, 1976, p. 333 (Vita di Giovanfranceso Penni), e V, 1984, p. 61 (Vita di Giulio Romano). Sul dipinto, formato probabilmente da due diverse opere successivamente riunite, cfr. Mancinelli in Città del Vaticano 1984-85, nn. 108-114, pp. 286-302, dove è confermata l’attribuzione della parte inferiore a Penni, mentre, in base all’analisi della tecnica, per la parte superiore si avanza l’ipotesi che, accanto all’intervento di Giulio Romano, ci sia anche quello di Raffaello per l’angelo e la Vergine sulla sinistra. Per gli esiti del restauro, cfr. ancora Mancinelli 1987, pp. 481-483 e tavv. 246-248, come pure quanto comunicato dallo stesso autore nei congressi “raffaelleschi” di Princeton e Washington. 14 Vasari, ed Bettarini-Barocchi, IV, 1976, p. 332 (Vita di Giovanfrancesco Penni). 15 Il dipinto è stato presentato come Penni in Parigi 1983-84b, n. 17, pp. 111-114, dove si precisa che Oberhuber e Cuzin si sono tuttavia espressi a favore dell’attribuzione a Raffaello. 16 Vasari, ed. Bettarini- Barocchi V, 1984, p. 56 (Vita di Giulio Romano). 17 Vasari, ed. Bettraini-Barocchi, IV, 1976, p. 197 (Vita di Giulio Romano). 18 Burns e Oberhuber in Roma 1984, pp. 410-412, e in Frommel-Ray-Tafuri 1984, pp. 419-423, hanno sostenuto l’attribuzione a Raffaello del disegno per il monumento conservato al Louvre, inv. 1420 (499x269 mm) catalogato fino a quel momento come opera di bottega. In Roma 1992, pp. 23-24, e n. 113, pp. 268269, Oberhuber ha riaffermato questa idea, sottolineando che un disegno di collezione privata più o meno delle stesse dimensioni (505 x 310 mm, matita nera con tocchi di biacca), presente nell’esposizione, ma al quale aveva prestato scarsa attenzione (n. 114, p. 270) era opera di bottega, aggiungendo erroneamente che il disegno in questione era stato riconosciuto da Dacos come tale, mentre la studiosa aveva fatto subito il nome di Giulio. Per la storia del foglio del Louvre, cfr. anche Cordellier-Py 1992, pp. 483-485, dove il disegno è catalogato come Raffaello con un punto interrogativo, e Gnann in Mantova 1999, n. 146, pp. 214215, con la bibliografia completa, dove il foglio è restituito a Raffaello. Realizzato con la stessa tecnica dei modelli di Penni per le Logge, è un prodotto tipico di questo artista, del quale ha tutta la banalità. Come risulta da una lettera di Castiglione a Paolo Giovio del 20 settembre 1521, Raffaello non ha avuto il tempo di consegnare il progetto per il monumento: cfr. Belluzzi in Mantova 1989, p. 559. È dunque logico che sia stato sostituito da Giulio. Il foglio di collezione privata è uno degli esempi più tipici del disegno di Giulio giovane, prima che si trasferisse a Mantova. Cfr. Dacos 1992. 19 Per Perin del Vaga occorre partire dalla monografia di Parma Armani 1986 e dal catalogo della mostra di Mantova 2001, curata dalla stessa studiosa. 20 Per qualche precisazione sul racconto di Vasari, cfr. Cecchi 2001a e Cecchi 2001b. 21 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, pp. 111-113 (Vita di Perin del Vaga). 22 «…come si può vedere in una parte di quelle storie nel mezzo della detta loggia nelle volte, dove sono figurati gli Ebrei quando passano il Giordano con l’Arca santa e quando, girando le mura di Gerico, quelle rovinano; e le altre che seguono dopo, come quando combattendo Iosuè con quelli Amorrei fa fermar il sole […]. Fece ancora nel principio, dove si entra nella loggia, del Testamento Nuovo, la Natività e Battesimo di Cristo e la Cena degli Apostoli con Cristo, che sono bellissime; senzaché sotto le finestre sono, come si è

detto, le migliori storie colorite di bronzo che siano in tutta quell’opera». Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 114 (Vita di Perin del Vaga). 23 Cfr. Parma Armani 1986, pp. 25-30 e 252-254. È probabile che il tondo centrale della volta, con angeli visti di scorcio, secondo una nuova concezione, sia stato realizzato dall’artista più tardi, dopo il suo ritorno da Firenze nel 1524, come già suggerito da Brugnoli 1961, p. 343. I due artisti devono essere stati aiutati da diversi allievi uno dei quali, proveniente certamente dalla bottega di Giovanni da Udine, che realizzò gli stucchi delle grottesche su fondo nero con le armi di Leone X e ne diede anche un disegno preparatorio (Amsterdam, Rijksprentenkabinet, inv. 1948, ill. in Parma Armani 1986, fig. 16, p. 27). Attribuito a Perino in Davidson 1963, I, p. 10, e di nuovo in Oberhuber e Gnann in Mantova 1999, n. 191, p. 271, il foglio è improntato a una durezza incompatibile con la sua maniera. 24 Parma Armani 1986, pp. 34-40 e 254-257. Per i documenti relativi alla costruzione cfr. Redig de Campos 1956 e Frommel 1973, II, pp. 25 e 28-29. Per le attribuzioni a Polidoro da Caravaggio, Maturino e Bartolomeo di David, v. oltre. La decorazione della sala a pianterreno attribuita a Giovanni da Udine perché derivante dalla Loggetta, da Montini 1957, pp. 25-26, quando gli studi sull’artista erano ancora agli inizi, appartiene evidentemente alla cerchia di Perin del Vaga. Ci si può chiedere se non si tratti del giovane Luzio Romano, alle opere del quale corrispondono le proporzioni allungate delle figure e l’intreccio più astratto delle grottesche. 25 Su questa cappella, poi realizzata da Pellegrino da Modena, v. oltre, quanto detto a proposito di questo artista. 26 Dove la decorazione fu realizzata da Polidoro da Caravaggio, a proposito del quale vedi oltre. Su questi artisti, cfr. Parma Armani 1986, pp. 43-50 e 257-262. 27 Monaco, Staatliche Graphische Sammlung, inv. 34860. Cfr. Monaco 1977, n. 104, pp. 149-150, e fig. 8, e poi Gnann in Mantova 1999, n. 120, p. 183. 28 Princeton, University Library, Med. and Ren. ms. 104. La rilegatura del volume ha consentito ad A. Hobson di stabilirne la provenienza e di datarlo al secondo decennio del XVI secolo. Cfr. Ruysschaert 1993, p. 27. Quando, seguendo le indicazioni di A. Hobson, John Shearman cercò di individuarne l’autore fra i discepoli di Raffaello, il carattere ibrido dei disegni di Princeton gli fece dire che, se fosse stato al posto del maestro, l’avrebbe licenziato (“fired”), come ha riferito alla scrivente la bibliotecaria di Princeton nel 1982. Le analogie, tra l’altro, con le piccole figure che si scorgono in fondo al progetto per la cappella della Passione in Santa Maria in Camposanto teutonico o in quello del San Giacomo condotto al martirio per la cappella Serra in San Giacomo degli Spagnoli, sono impressionanti. Per il ricordo di una delle miniature della Bibbia di Raffaello, cfr. cap. II, p. 203 e fig. 72, p. 204. Alla stessa fase iniziale di Perino a Roma appartiene probabilmente un disegno, forse dall’antico, conservato al British Museum (inv. 1895-9-15-582, pubblicato come Giovanfrancesco Penni da GerePouncey 1983, n. 362, pp. 224-225, e tav. 353). 29 Dacos 1986a, p. 230, figg. 7 e 8, tav. LXXXV. 30 Il modo di disegnare le mani così rigide è tipico del giovane Perino e ricompare, tra l’altro, nel suo modello per il Trionfo di Davide (XI.4). Altrettanto estraneo a Raffaello e caratteristico di Perino è il modo di schizzare le sagome in lontananza, davanti alle tende, con un ovale per la testa, un altro per il tronco o l’insieme del corpo e un semplice tratto per ciascuna delle membra, come nel caso del progetto per l’affresco del San Giacomo condotto al martirio. Bisogna notare d’altra parte che il disegno per il Mosè che riceve le Tavole della Legge (IX.1) è più vicino all’affresco del progetto che deve averne dato il maestro e che, come quello per il Roveto ardente (VIII.2), opera di Marcillat, rivela maggior equilibrio nella composizione, dove la figura di Dio è posta più in alto fra le nubi. Un disegno a penna di Frans Floris da un’idea precedente per il Mosè che riceve le Tavole della Legge (New York, coll. M. Warshaw, 255 x 220 mm), conserva probabilmente il ricordo di un originale di Raffaello il quale, se la copia è completa, non vi avrebbe ancora abbozzato il paesaggio con le tende sul lato destro. Questo foglio è stato pubblicato da Van de Velde 2005, p. 155, e fig. 2, p.

152, come derivato dall’affresco più che da un disegno. Ma gli angeli attorno a Dio e i due israeliti in basso, sulla sinistra, si ritrovano quasi identici nel modello, mentre nell’affresco sono stati completamente modificati. 31 Le figure sottili e nervose, col piccolo naso a punta ad angolo retto e le ciocche al vento, le ramaglie e i ramoscelli morti, raggrinziti e accartocciati a tratti brevi, i giochi di lance che s’incrociano e s’intrecciano come festuche di paglia, i pennacchi che ricadono in curve eleganti, o le pieghe dei drappeggi, trattati come collari pieghettati, tutto rivela l’estrema abilità grafica di Perino, che costruisce le sue figure col rigore fiorentino, ma il cui pennello insegue la fantasia. 32 L’Ultima Cena (XIII.4) tradisce, in particolare nell’apostolo di profilo, sulla destra, nell’atto di alzarsi, la conoscenza del progetto che Raffaello deve aver dato per l’incisione con lo stesso tema della quale esiste un disegno al castello di Windsor e che tradizionalmente è stato considerato una copia da Raffaello (ma che è stato restituito al maestro da Clayton in Londra, Washington, Toronto, Los Angeles 1999, n. 29, pp. 114117) e che la filigrana consente di datare intorno al 1514. Il fatto che il movimento di questo apostolo sia ripetuto, modificato, sul lato destro, corrisponde a un modo di procedere tipico di Perin del Vaga, che potrebbe essere intervenuto in questo modo nel progetto iniziale della storia delle Logge. 33 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, pp. 455-456 (Vite di Polidoro da Caravaggio e Maturino fiorentino). 34 Di tutti gli allievi di Raffaello è stato Polidoro a ricevere più studi monografici. Dopo Marabottini 1969, al quale si può sempre fare riferimento, in particolare per la fortuna critica, cfr. Ciardi Dupré-Chelazzi-Dini 1976, e poi Ravelli 1978, fondamentale per il preziosissimo materiale formato dalle copie dei disegni, soprattutto per i graffiti, a cui bisogna aggiungere Ravelli 1987, Ravelli 1988, Gnann 1997 e, alla fine di molti lavori che nel corso degli anni hanno permesso all’autore di giungere a nuove scoperte, in particolare Leone de Castris 1983, Napoli 1985, Napoli 1988, Leone de Castris 1997, 2001 e Parigi 2007. Leone de Castris 2001 è una monografia completa, indispensabile per la quantità di materiale che vi è raccolta e per l’interesse del discorso critico, ma da consultare con prudenza a causa della tendenza dell’autore a considerare di Polidoro opere di altri maestri, spesso stranieri, che ne hanno subito l’influenza, come Berruguete, Roviale, Peter de Kempeneer-Pedro de Campaña, Lambert Sustris etc. L’accento lombardo di Polidoro è stato messo in evidenza da Borea 1961, nell’articolo pionieristico dedicato all’artista. Per quanto riguarda la sua data di nascita, cfr. Leone de Castris 2001, p. 9, con bibliografia precedente. 35 Cfr. Ravelli 1988; Leone de Castris 2001, pp. 70-78. Nulla si può ricavare dalla proposta di Gnann 1997, pp. 6-30, accettata da Oberhuber in Mantova 1999, p. 22, che considera gli affreschi dipinti da Polidoro a palazzo Baldassini come la sua prima opera romana, precedente alle Logge. L’evidente influenza che esse rivelano di un Rosso già maturo è impensabile a una data tanto precoce. 36 Per i rapporti Scorel-Polidoro, cfr. Dacos [1995] 2001, 2004, p. 56 e pp. 193-195. 37 Polidoro esprime tutta la sua forza espressiva già nelle piccole scene mitologiche dipinte, sembra, a Napoli, poco dopo il Sacco di Roma, per il palazzo del poeta Bernardino Rota. Procedendo a macchie, con una tecnica ispirata a quella delle grotte, ma più “compendiaria” di quella di Giovanni da Udine, evoca un mondo di satiri e ninfe, ancora più legato alla terra. 38 Si tratta, in particolare, sul muro interno, del pezzo della parete dove appare una testa irta di spilli (ill. in Dacos, in Dacos-Furlan 1987, p. 51). 39 Oberhuber 2002 è arrivato a sostenere, contro ogni evidenza, che Perin del Vaga non può essere considerato un vero allievo di Raffaello, col quale avrebbe lavorato solo nelle Logge, e che sarebbe arrivato da Firenze completamente formato da Ridolfo del Ghirlandaio. Il che vuol dire non tener conto, per gli affreschi, della sua collaborazione all’appartamento del cardinal Bibbiena. È vero che Perino ha sempre conservato il proprio accento fiorentino, ma Ridolfo del Ghirlandaio può aver esercitato su di lui solo un’azione secondaria.

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L’unica monografia su Guglielmo di Marcillat è quella di Mancini 1909, basata sui documenti contenuti nei suoi libri di conti, e non sulle sue opere. 41 Cfr. Mancini 1909, pp. 16-17. 42 Cfr. Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, pp. 227-228 (Vita di Guglielmo da Marcillat). 43 Identificata nei depositi dei Musei di Berlino (allora Est) e pubblicata come tale da Dacos 1987, pp. 137139, e figg. 4-6, p. 146. 44 Il cattivo stato di conservazione dell’affresco è stato spiegato da Crowe-Cavalcaselle 1884-91, II, 1890, nota 2, pp. 104-105, con la preparazione difettosa dell’imprimitura, cosa più che comprensibile trattandosi di un artista abituato ad un’altra tecnica, ed ha anche indotto talvolta a considerare il dipinto non finito (Redig de Campos). Stranamente, non è rimasta traccia dell’attribuzione a Marcillat, avanzata a questo proposito da Venturi 1926, nota 1, p. 236, seguito da Donati 1959-51, pp. 267-276 (e ricordato anche da Camesasca [1956] 1962, p. 42), forse perché Venturi la collegava alla volta della Stanza di Eliodoro, chiaramente opera di un altro artista, anch’egli straniero (v. oltre, a proposito di Alonso Berruguete). L’attribuzione dell’affresco della Stanza della Segnatura è ora rafforzata soprattutto dal dipinto di Berlino con la Disputa dei padri della Chiesa sull’Immacolata Concezione, che rivela le stesse caratteristiche. Nel 2000 Nesselrath ha attribuito l’affresco in modo non convincente a Lorenzo Lotto, un artista la cui cultura è completamente diversa. Cfr. Nesselrath 2000. 45 Firenze, Archivio di Stato, Camaldolesi, 571, fol. 18v. Questi elementi, uniti ai quattro interventi di Marcillat nelle Logge, aprono una pista interessante, che varrebbe la pena di esplorare, per stabilire la cronologia del cantiere in modo più preciso. Cfr. Dacos [1977] 1986, pp. XX-XXI, nell’edizione del 1986. 46 Per i confronti con altri disegni, cfr. Dacos 1987, fig. 4, p. 145 e fig. 7, p. 147. 47 Identificato da Dacos in Siena 1990, p. 58. 48 Nel 1519 Marcillat viene pagato per la messa in opera dei vetri nei palazzi apostolici e riceve la commissione di una vetrata, oggi scomparsa, per il rosone di Santa Maria dell’Anima. Cfr. Firenze, Archivio di Stato, Camaldolesi, 571, fol. 18v-19r e fol. 19r-20r (Mancini 1909, pp. 80-81). 49 Alcune riproduzioni a colori in Marchini 1956, figg. 76-80, altre, più numerose, in Tafi [1988]. 50 «Guglielmo da Marcillat, figlio di Pietro, prete francese». L’interesse del ciclo è stato sottolineato da G. Previtali in Vasari, ed. 1963, pp. 115-116. Alcune riproduzioni in Sinibaldi 1926 e 1937. 51 Ill. in Dacos, in Dacos-Furlan 1987, n. 23, p. 253. 52 Per la confraternita dei Battuti, e ora nella Pinacoteca di Ferrara. Cfr. Tiraboschi 1786, pp. 277-281, ill. in Sricchia Santoro 1983-84, fig. 1, p. 166. 53 Longhi [1934] 1968, pp. 72-73 e fig. 233. 54 Bertolotti 1885, p. 35. 55 Roma, Pinacoteca Capitolina. Restituita a Pellegrino da Sricchia Santoro 1983-84, pp. 167-168. 56 Janitschek 1879, pp. 416-417. Nell’elenco dei pittori che hanno lavorato alle decorazioni ne sono ricordati due col nome di Pellegrino da Modena, uno “negro”, l’altro “rosso”. Sembra dunque che allora si trovassero a Roma due pittori con lo stesso nome, cosa che consentirebbe di distinguere l’allievo di Raffaello da un omonimo, probabilmente più anziano. Infatti si è pensato di identificare l’allievo di Raffaello con Pellegrino, «zoveno bello e degno in la pittura», che un poeta cita a Modena nel 1483 (Parente 1483, p. 8v; cfr. Sricchia Santoro 1983-84, p. 166 e note 1-2, p. 173, per la bibliografia): un’ipotesi che farebbe di questo artista un collaboratore più vecchio di Raffaello di quasi una generazione e vedrebbe nella squadra un uomo più anziano di Marcillat, ben oltre la cinquantina, il che è poco verosimile. 57 Frommel 1962, p. 179. 58 L’attribuzione è di Brugnoli 1962, pp. 335-336. L’artista non esita a rappresentare il personaggio, riverso all’indietro in un violento scorcio, con le mani attaccate alla bara e i moncherini ben visibili in primo piano. Per l’affresco dopo il restauro, cfr. Trevignano 1986. 59 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, p. 457 (Vita di Polidoro e Maturino). 60 Ibid., IV, 1976, pp. 335-338 (Vita di Pellegrino da Modena). 61 Ill. in Davidson 1970 e Sricchia Santoro 1983-84.

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Firenze, Uffizi, inv. 494 S. Attribuito a Pellegrino da Modena da Davidson 1970, p. 82, fig. 14, per la sola ragione che è preparatorio alla scena col San Giacomo condotto al martirio, il disegno è stato restituito a Perin del Vaga da Sricchia Santoro 1983-84, p. 170, e fig. 11, p. 173. Il foglio mostra in effetti una soluzione diversa da quella dell’affresco e, cosa più importante, non ha nulla della durezza di Pellegrino, mentre corrisponde perfettamente all’elegante grafismo di Perin del Vaga. 63 L’affresco, oggi al Louvre, proviene dall’abside della cappella. L’attribuzione è di Sricchia Santoro 1983-84, p. 170, e fig. 10, p. 173. Da notare che gli angeli sono del tutto simili a quelli dell’abside di Trevignano. 64 In particolare nella Morte di Anania (Shearman 1972, tav. 25). Uno studio delle diverse mani nei cartoni è stato avviato da Shearman 1972, pp. 112-116, sulla base di fotografie ai raggi X che mostrano la pittura sottostante. La scrivente le ha esaminate con John Shearman, che aveva intenzione di farne una pubblicazione a parte, ma che poi si è limitato a pubblicarne alcune nella monografia citata. In questa occasione, dopo un confronto con gli affreschi della cappella Serra, entrambi gli studiosi si trovarono d’accordo sulla partecipazione di Pellegrino da Modena (cfr. Shearman 1982, nota 80, p. 113). In realtà i contatti sono più evidenti con gli affreschi di Trevignano, più vicini sia come cronologia sia come stile. 65 Cfr. Dacos 1986, p. 230, e figg. 8-10, tav. LXXXVI. I tre disegni a sanguigna per la Stufetta che si conservano, sono stati attribuiti a Giulio Romano da Oberhuber 1972, nn. 454, 454a e 454b, pp. 145-147, e tav. 54. Ma non ne hanno né la forza, né la finezza, e i primi due potrebbero essere di Pellegrino. In Londra, Washington, Toronto, Los Angeles 1999, n. 30, pp. 118120, Clayton mette in dubbio l’attribuzione a Giulio del disegno per Venere che si lamenta per le ferite procuratele da Amore, ipotizzando che possa trattarsi di un disegno sviluppato dalla bottega. In questo foglio la resa superficiale e la durezza dei volti suggeriscono il nome di Pellegrino che, partito probabilmente da uno schizzo di Raffaello, se ne è allontanato ancora di più nell’affresco, dove la sua mano si riconosce più chiaramente. 66 L’Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2) era il capolavoro delle Logge agli occhi di Abraham Constantin, il pittore di porcellane, grande conoscitore di Raffaello, che identifica erroneamente i personaggi con Eleazar e Rebecca (Constantin [1841] 1931, p. 87). Da notare che l’uomo con un vaso nella Visita della regina di Saba (XII.4) è identico a Giacobbe nell’Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2). 67 E non Bartolomeo Bagnacavallo, secondo l’identificazione di Piacenza 1770, p. 361, accolta ancora da Milanesi in Vasari, ed. Milanesi, IV, 1879, p. 363. Per Tommaso Vincidor si può partire ancora da Dacos 1980, con appendice documentaria. 68 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 451 (Vita di Giovanni da Udine), che ne attribuisce i disegni a Giovanni da Udine, mentre Vincidor, nella lettera del 1521, menziona i cartoni che ha realizzato per queste composizioni. Cfr. Quednau 1979, oltre a Dacos 1980. Per gli arazzi più tardi derivati dall’editio princeps, cfr. Campbell in New York 2002, pp. 230-233, e n. 27, pp. 235-256. Parte dei progetti è opera di un artista che si è trovato nei Paesi Bassi insieme a Vincidor e che è stato possibile identificare con l’italiano attivo più tardi a Barcellona col nome di Pedro Seraphín o, in catalano, Pere Serafí. Cfr. Dacos 2004. Nella lettera del 1521, del resto, Vincidor sottolinea, a proposito dei progetti dei Giochi di putti, che non possono essere tutti di sua mano. 69 I tratti fondamentali del disegno di Vincidor per l’Adorazione dei pastori (Parigi, Louvre, Département des arts graphiques, inv. 4269, identificato da Fischel 1934) si ritrovano in particolare nell’Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo (VI.2) e in Giacobbe sulla via di Canaan (VI.4). Inoltre, le fisionomie sono identiche a quelle della Creazione di Eva (II.1) e della Cacciata dal Paradiso (II.3). Sembra che il quadro della Circoncisione (Parigi, Louvre, inv. 518) avesse, un tempo, sul cavalletto, la scritta Julius Romanus pinxit. Se ciò corrisponde al vero, questa cosa insolita era probabilmente un’aggiunta del XVII secolo, quando il quadro fu sottoposto a un restauro radicale prima di essere presentato a Luigi XIV. Comunque, è quanto pensava

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già Mariette il quale, rifiutando l’attribuzione a Giulio Romano, ha colto il tono emiliano del quadro, che ha proposto di restituire al Bagnacavallo (cfr. Dacos 1980, pp. 70-73). Per la storia del dipinto cfr. anche Parigi 1983-84a, P 8, pp.131-133, dove S. Béguin accoglie l’attribuzione a Vincidor. Ma non tutti sono d’accordo. Nel movimento suscitato da Oberhuber di rifiuto dei nomi poco noti, l’opera è stata restituita a Giulio Romano da Joannides 1985, pp. 23-26, Ferino Pagden in Mantova 1989, pp. 41-45, poi da Oberhuber e Gnann in Mantova 1999, p. 292. Il disegno preparatorio della Circoncisione (Chatsworth, Trustees of the Chatsworth Settlement, inv. 84) è stato attribuito a Giovanfrancesco Penni da Oberhuber 1972, p. 47, fig. 49, e di nuovo da Oberhuber e Gnann in Mantova 1999, ill. (s. n.), n. 208, pp. 293-294. Dal canto suo Joannides 1985, p. 23, adducendo che il foglio è «almost universally accepted as by Giulio», lo ha restituito all’artista. In questo caso la forza delle teorie precedenti è stata tale che ha indotto a non considerare l’identità di mano fra disegno e dipinto: l’artista è stato più fedele alle proprie origini nel progetto, mentre nel dipinto si è sforzato di avvicinarsi maggiormente a Giulio Romano. Bisogna notare infine che in questo processo di riattribuzione, le opere di Vincidor realizzate a Bruxelles non sono state mai prese in considerazione, mentre forniscono la prova dell’unità del gruppo. Il disegno della Circoncisione mostra infatti alcune figure femminili la cui espressione ricompare nel disegno della Raccolta della manna conservato al Museo di Uppsala (inv. UUB st f 22). Anche il disegno dell’allegoria del Coraggio (Haarlem, Teylers Museum, inv. A X 78, pubblicato da van Regteren Altena in Stoccolma 1966, fig. 26, e pp. 55-56) era inserito nel catalogo di Giulio Romano. Gli angeli dell’Adorazione dei pastori derivano direttamente da quelli che incoronano la Vergine nel quadro del Francia nella chiesa dei Santi Vitale e Agricola a Bologna. La fase estrema della produzione di questo artista, nella quale egli appare orientato verso una stilizzazione un po’ secca mentre disponeva di molti collaboratori, potrebbe essere all’origine della formazione di Vincidor. 70 L’intervento di Vincidor in ciò che resta del cartone della Presentazione al Tempio, sottolineata ancora da Dacos in Bruxelles-Roma 1995, pp. 388-392 (ed. it. pp. 306-309), è stato negato, senza fornire argomentazioni né proporre altri nomi, da Oberhuber e Gnann in Mantova 1999, p. 291. La seconda mano che si nota in questi frammenti, e la cui presenza è stata contestata nella stessa pubblicazione, è stata identificata nel frattempo con quella di Pedro Seraphín ed è stata oggetto di uno studio più approfondito in Dacos 2004, pp. 177-180. Sull’intervento di Vincidor, chiaramente riconoscibile anche nella Strage degli innocenti, cfr. Dacos 1980, pp. 79-86, e più recentemente Dacos 2002 (inedito). 71 Cfr. Dacos 1980, p. 95. 72 Per i disegni relativi al Mosé, cfr. Robels 1983, nn. 56-58, pp. 57-58. I modelli delle Cinque età della vita si conservano al Louvre, Département des arts graphiques, inv. 20.710-20.715, ill. in Lugt 1968, nn. 214218, pp. 63-64, e tavv. 101-102. 73 Dacos 1980, pp. 90-92, e, per la documentazione, pp. 95-96. 74 Di questi affreschi, Oberhuber 1972, pp. 83-84, ha attribuito a Raffaello in persona quelli della Stanza della Segnatura e alla bottega quelli della Stanza di Eliodoro, precisamente le grottesche a Giovanni da Udine, per la sola ragione che si tratta di ornamenti di questo genere, mentre non hanno nulla della leggerezza del friulano e si collegano perfettamente ai disegni dei Giochi di putti. Del resto le figure nude, nella parte superiore delle grottesche di due degli sguinci, hanno dei profili in tutto simili a quello dell’allegoria del Coraggio, mentre le storie a grisaille delle finestre sono in stretto rapporto con il disegno preparatorio per la Circoncisione. 75 Per i particolari dei cartoni, ill. in Shearman 1972, tavv. 32-33, che corrispondono al gruppo che lo studioso proponeva di restituire a Penni. 76 Golzio 1936 [1971], p. 52; Shearman 2003, I, 1517/1, pp. 279-280. 77 Rupprich 1956, pp. 158, 169, 177, 186 e 202; Dacos 1980, pp. 77-79, e figg. 13-15, per le copie del ritratto di Dürer realizzato da Vincidor. In proposito cfr. anche Roma 2007, VII.45, pp. 378-379.

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78 Dacos 1980, figg. 9-12; Roma 2007, n. VI.12 (scheda di G. Mariani). 79 Ill. in Oberhuber 1972, fig. 74, p. 82. 80 Destinati, secondo un’usanza comune a Siena, alla decorazione di bare. Cfr. Bisogni 1984. Per la cappella del Manto cfr. Sricchia Santoro 1982 e Bagnoli 1990, pp. 312-329. Per gli affreschi della villa Francesconi, ibid., n. 63, pp. 318-321. 81 Il suo Corteo di soldati della Galleria Colonna a Roma comprende anche una citazione precisa da Attila e Leone Magno nella Stanza di Eliodoro (Sricchia Santoro 1982, fig. 6, p. 33, e p. 36). 82 Cfr. cap. II, p. 205. 83 Bagnoli 1990, p. 317, che cita Milanesi 1854-56, III, pp. 160-161: nel 1546 Polidoro di David si associa a Michelangelo di Antonio, detto lo Scalabrino. 84 Gli affreschi sono stati staccati nel XIX secolo e oggi appartengono al Metropolitan Museum of Art di New York, che li ha prestati a lungo termine alla città di Roma per permettere di ricostruire la decorazione. Mancano all’appello solo le storie di Venere, che erano sulle pareti, oggi all’Ermitage di San Pietroburgo. Anche se pesantemente ridipinte ed eseguite con una tecnica più tradizionale, le scene (ill. in Baroni-Paparatti 1997, tavv. LVII-LXII, pp. 69-73), riprese fedelmente da quelle della Stufetta del cardinal Bibbiena, potrebbero essere opera dello stesso artista. In base alla lettura di alcune lettere che sembrano formare un monogramma, è stata fatta l’ipotesi che l’autore delle decorazioni oggi riunite a Roma possa essere un collaboratore poco noto di Peruzzi, Pietro d’Andrea, ma non c’è nessuna prova. Cfr. Forcellino 1984 e 1987. 85 Gli affreschi di villa Mills permettono di restituire a Bartolomeo di David un disegno derivato dalla volta astrologica di Peruzzi alla Farnesina, pubblicato erroneamente da Faietti-Oberhuber 1988, n. 97, pp. 318319, come preparatorio all’affresco, mentre non ha niente in comune con lo stile di questo artista: Peruzzi non avrebbe mai disegnato, in particolare, una mano artigliata e storta come quella di Europa. Ma una mano così si ritrova, identica, nel dipinto coi Gemelli a villa Mills. 86 Bagnoli 1990, p. 315. 87 Per i disegni e gli affreschi della sala dei Palafrenieri, cfr. Oberhuber 1972, pp. 182-184, nn. 474-476 e tavv. 72-74. Per i progetti della Donazione di Costantino, uno schizzo diviso fra Parigi, Louvre, Département des arts graphiques, inv. 3874, e Stoccolma, Nationalmuseum, inv. 329-330, e un disegno in uno stadio più avanzato ad Amsterdam, Rijksmuseum, inv. 5096, cfr. Oberhuber 1972, p. 28, figg. 232-234, pp. 205-206, con attribuzione a Giulio Romano. Per la Sacra famiglia Spinola, cfr. Russell 1982, Joannides 1982, Ferino Pagden in Mantova 1989, pp. 70-71, e nota 47, p. 93, e Gnann in Mantova 1999, n. 181, pp. 256-257, dove il quadro è presentato come di Giulio Romano, ma alle pp.16-17 è attribuito a Raffaello, con l’ingrandimento di un particolare che mette bene in evidenza lo stile asciutto di Luca Penni. 88 Orlandi 1704, p. 298. 89 Cecchi 2001b, p. 328. 90 Su Luca Penni, dopo Golson 1957, Vanaise 1966, Béguin 1987, Grodecki 1987 e Béguin 1991, cfr. Béguin 2004, dove sono indicati i quadri che è stato possibile restituire a questo artista partendo dai suoi disegni. 91 Parma Armani 1986, pp. 276-277, e fig. 155, p. 134, mostra la volta, ma senza le lunette, che non sono della stessa mano. 92 Zerner 1969, L.D. 67; Albricci 1982, n. 24, fig. 9, p. 101. 93 Come il Trionfo indiano di Bacco, derivato dal celebre progetto di Raffaello per Alfonso d’Este (Vienna, Albertina, inv. 444), attribuito a volte a Perin del Vaga, altre a Penni, altre alla bottega di Raffaello, poi restituito a Raffaello da Oberhuber e Gnann in Mantova 1999, n. 82, pp. 142-143, un Festino degli dèi (Parigi, École nationale supérieure des Beaux-Arts, inv. 405, cfr. Oberhuber 1972, pp. 42-43, fig. 44), Venere, Amore e Vulcano (Parigi, Louvre, Département des arts graphiques, inv. 618), come pure uno schizzo preparatorio per il quadro Spinola, identificato da Joannides 1982, sul verso del progetto per il Giona che Raffaello fece realizzare da Lorenzetto nella cappella di Agostino Chigi in Santa Maria del Popolo (Windsor Castle, Royal Library, inv. 0804, ill. in Oberhuber 1972, fig.

46, p. 459. Quest’ultimo disegno rivela anch’esso il segno deciso di Luca. 94 Per il Consiglio, ill. in Varoli-Piazza 2002 passim, in particolare pp. 280-281. Per il Banchetto, ill. in VaroliPiazza 2002, passim, in particolare fig. 17, p. 65, fig. 20, p.287, e fig. 1, p. 360. 95 In particolare in alcune figure che preparano un cadavere: Parigi, Louvre, Département des arts graphiques, inv. 1404 (cliché MIC 1404). 96 Su Alonso Berruguete, dopo Gómez-Moreno [1941] 1983, cfr. Redondo Cantera 2004, sulla fortuna di Berruguete nella storia dell’arte spagnola, con la bibliografia sull’artista. 97 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, VI, 1987, p. 178 (Vita di Jacopo Sansovino). 98 Cfr. Michelangelo 1965-73, I, XLIX, p. 70. 99 Waldman 2002, p. 29. 100 Cfr. Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, III, 567 (Vita di Filippino Lippi). 101 Longhi 1953. Dal gruppo va forse escluso il ritratto del Museo di Belle Arti di Budapest (inv. 242) che Longhi, pp. 98-100, e fig. 5, proponeva di aggiungervi. 102 In particolare l’anello col diamante nelle mani di un putto. 103 Venturi 1926, nota 1, p. 236, ha negato l’autografia degli affreschi della volta e ha proposto il nome di Guglielmo di Marcillat. Quando la questione è stata ripresa, lo è stata solo per affermare, contro ogni evidenza, l’autografia di Raffaello. L’attribuzione a Berruguete è stata anticipata da Dacos 1986, p.94. 104 Dacos 1986, p. 231, e fig. 13, tav. LXXXVII. 105 La presenza di Berruguete nelle Logge è stata già suggerita, verrebbe da dire inconsciamente, da Oberhuber 1972, n. 457a, p. 164, e fig. 163, p. 163, che ha messo in relazione col Diluvio (III.2) un disegno tipico di Berruguete, ma senza alcun rapporto con le Logge, da lui considerato come una copia da Raffaello (Oxford, Ashmolean Museum, inv. II 577). 106 L’attribuzione è di Dacos 1985. Cfr. anche Dacos [1977] 1986, pp. XXIV-XXVI dell’edizione del 1986, dove si precisa la presenza, ancora insospettata nell’edizione del 1977, di Berruguete nelle Logge. 107 «Pintor del rey nuestro senior». Il documento del 1525 nel quale Gaspar de Valladolid afferma di conoscere Berruguete da otto anni (Martí y Monsó 18981901, p. 135) deve essere inteso in maniera elastica, senza dedurne che il pittore fosse tornato in Spagna fin dal 1517, come si è fatto qualche volta. Il ritorno dell’artista è stato determinato dall’arrivo di re Carlo, alla corte del quale egli voleva affermarsi. 108 Citato da Longhi 1953, p. 4; cfr. Michelangelo 1965-73, I, XCII, p. 125. 109 Su Pedro Machuca, dopo Gómez-Moreno [1941] 1983, pp. 99-119, cfr. Bologna 1988-89. Per la sua attività di architetto, in particolare all’Alhambra, cfr. Rosenthal 1961, trad. sp. 1966, coi numerosi commenti che il libro ha suscitato. 110 Dacos 1969, p. 145. 111 Cfr. Janitschek 1879, pp. 416-417; Dacos [1977] 1986, p. 113. 112 «Spagnolo di Toledo». Cfr. Longhi 1953, p. 11. 113 Per l’intervento di Machuca nei cartoni, cfr. Dacos 1984, pp. 332 e 334, e fig. 329, p. 339. Il brano è attribuito a Giulio Romano da Oberhuber 1962, fig. 46, p. 50. Nella Battaglia di Ostia sembra di poter riconoscere la mano dello spagnolo in particolare nella fisionomia, molto caratteristica, del prigioniero che scende dalla barca (figura attribuita anch’essa a Giulio Romano da Oberhuber 1962, fig. 47, p. 50). Machuca è individuabile nella Stufetta almeno nel putto che guida una biga trainata da serpenti. Per Vulcano che forgia delle frecce per gli Amorini, che ha dipinto nella lunetta in fondo alla Loggetta, cfr. Dacos 1984, pp. 334337, e fig. 328, p. 338, Dacos 1986, p. 232, e figg. 15 e 17, tav. LXXXVIII. 114 Una delle più incantevoli, nella Sacra Famiglia della Galleria Borghese (ill. in Dacos 1984, fig. 326, p. 335), deriva dalla Madonna della seggiola e ci mostra una giovane madre dall’aria impaurita; anche quella che ha dipinto nel 1520 per la cattedrale di Jaén ha lo sguardo velato dalla stessa inquietudine. 115 Su Raffaellino del Colle cfr. Droghini 2001, con bibliografia. 116 Hartt 1958, passim, in particolare pp. 49-50, ha cercato gli esordi di Raffaellino del Colle a scapito di Giulio Romano. Per un tentativo più equilibrato in

questa direzione, cfr. Freedberg 1961, pp. 369-370. La critica non ha ancora notato che nella Loggia di Psiche alla Farnesina alcuni Amorini degli angoli sono assolutamente caratteristici di Raffaellino del Colle: per lo meno quello di fianco all’arpia, tra Venere e Psiche e Amore e Giove, e quello di fianco al coccodrillo, fra Amore e Giove e tra Mercurio e Psiche. L’angelo di profilo del primo gruppo, col naso a punta e lo sguardo vivace, può essere accostato a quello sul cui dorso la Sibilla di Samo ha appoggiato il leggìo nell’oratorio del Corpus Domini ad Urbania (Sapori 1974/751975/76, fig. 7). Quello col viso largo, visto di fronte, è simile in particolare a quello che plana fra le nubi, ai piedi della Vergine, sul lato destro, nell’Assunzione di Santa Maria di Valdabisso a Piobbico (ibid. fig. 16), e l’arpia ha lo stesso profilo dei due giovani apostoli, a destra nella stessa opera. Nel secondo gruppo, l’Amore che brandisce il martello ha la stessa fronte alta e gli stessi occhi globulosi, tipici dell’artista, che vediamo, per esempio, nell’angelo dell’Adorazione del Bambino nell’oratorio del Corpus Domini a Urbania (ibid. fig. 8). Infine, nessuno ha osservato che Raffaellino del Colle è l’autore, a villa Madama, del fregio coi Giochi di putti di cui Giovanni da Udine aveva dato i disegni a Vincidor. 117 Per le opere ascrivibili a questo artista nelle Logge, cfr. Dacos [1977] 1986, pp. 85-87, e passim. 118 Droghini 2001, n. 8, pp. 59-60. 119 Sapori 1974/75-1975/76, pp. 179-180 e fig. 11. 120 New York, The Pierpont Morgan Library, inv. I, 19: Cfr. Wolk-Simon 1992, che fa il punto su quanto si conosce sui disegni di Raffaellino del Colle. 121 Non esiste alcune monografia su Vincenzo Tamagni. La Madonna del Rosario della chiesa di San Biagio a Finalborgo (Liguria) è stata aggiunta al suo catalogo da Ventura 1994, che non parla del secondo soggiorno romano dell’artista. 122 Dacos 1986, 230-231, e fig. 11, tav. LXXXVII. 123 Ill. in Varoli-Piazza 2002, pp. 288-289. 124 La copia della Deposizione Borghese (Torino, Galleria Sabauda, inv. 745, cat. 148) e quella della Trasfigurazione (Madrid, Museo del Prado, inv. 315) portano il nome “passe-partout” di Penni, il quale non avrebbe mai semplificato a tal punto il paesaggio, né avrebbe mai eliminato la vegetazione in primo piano. A villa Madama Tamagni è l’autore almeno dei medaglioni di una delle volte della Loggia, attribuiti a Peruzzi da Frommel 1967-68, cat. 58, pp. 101-104, e tavv. XLVII-XLVIII. Sugli affreschi dell’artista a villa Lante, cfr. Dacos 1976b. Questi ultimi erano probabilmente finiti quando Clemente VII si recò alla villa nel gennaio del 1525 (cfr. Frommel 1973, I, p. 114, richiamato da Lilius 1981, I, pp. 39 e 41). Per l’iconografia, sulla scorta della scoperta di piccole scene nelle grottesche durante il restauro del 1974-75, cfr. Lilius 1981, I, pp. 266-298, e II, pp. 80-94. 125 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, pp. 164165 (Vite di Vincenzo da San Gimignano e Timoteo da Urbino). 126 Su Giovanni da Spoleto, dopo Sapori 1980 e Sapori 1987, cfr. Sricchia Santoro 1988-89. 127 L’attribuzione è di Sricchia Santoro 1988-89. Per l’illustrazione del fregio cfr. Frommel 1967-68, n. 51, pp. 87-91, e tavv. XXIVb- XXXVIa. 128 Cfr. Sapori 1980. 129 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, p. 265 (Vite di Vincenzo da San Gimignano e di Timoteo da Urbino). 130 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 57 (Vita di Giulio Romano). 131 Questi brani della prima volta sono gli unici nei quali Fischel 1948, p. 156, e tav. 172 B, pensava di individuare la mano di Raffaello. 132 Le figure dei centauri e quelle alate e fitomorfe che lottano con animali sono state attribuite a Polidoro da Caravaggio, senza portare alcuna prova, da Gnann 1997, pp. 41-42, e figg. 20-22. 133 La mano di Tamagni è riconoscibile negli Amorini fitomorfi degli angoli della volta XI, attorno ai medaglioni di stucco e in ciò che resta del pilastro XII, dove figure e racemi corrispondono a quelli delle grottesche dipinte dall’artista nella Loggetta del cardinal Bibbiena e, in seguito, a villa Lante. 134 Ciardi Dupré 1968, fig. 22, p. 130, e pp. 131-132. Oltre a questa felice attribuzione, l’autrice propone, nello stesso articolo, di riconoscere la presenza dello

spagnolo in altri casi che sono meno convincenti, come già notato da Griseri 1969. 135 Canedy 1981, fig. 1, p. 154, ha pubblicato come modello del basamento del pilastro IV un disegno a penna, molto consunto, con tracce di quadrettatura (Kunstmuseum der Stadt Düsseldorf, Kupferstichkabinett, inv. 32/274), nel quale appare una figura della Fama con due trombe, in piedi sul mondo, quasi come compare nell’affresco. Le linee contrastanti e i tratteggi che lo caratterizzano non hanno niente in comune con Giovanni da Udine né con i suoi collaboratori, e si tratta probabilmente di una copia. Nesselrath ha pubblicato come originali due disegni già catalogati giustamente come copie, uno da Andrews 1968, p. 57 e fig. 406, conservato a Edimburgo, National Gallery of Scotland (inv. D 644), l’altro da Pouncey-Gere 1962, n. 154, I, p. 87, e II, tav. 119, conservato a Londra, British Museum (inv. 1910-2-12-28). 136 Dresda, Kupferstichkabinett, inv. C 197. Cfr. Oberhuber 1971, n. 473, p. 181 e fig. 197, Dacos [1977] 1986, p. 255, e tav. LXXXVIIb, Dacos, in Dacos-Furlan 1987, n. 2, p. 240. 137 Va restituito a un aiuto il modello di una parte del pilastro coi due uccelli appollaiati su rami da una parte e dall’altra della mandorla del pilastro IV (New York, Metropolitan Museum of Art, inv. 80.3.302). Il disegno è stato attribuito a Giovanni da Udine da D. Cordellier e pubblicato da Wolk-Simon in New York 1994, n. 57, pp. 62-63, mentre la sua rigidezza e la durezza del tratto portano ad escludere l’attribuzione al friulano. 138 Monaco, Staatliche Graphische Sammlung, inv. 2520, penna, inchiostro bruno, 180 x 162 mm, cfr. Dacos 1980, pp. 67-68, e fig. 3, e Dacos in Dacos-Furlan 1987, n. 10, p. 244. Quando l’autrice lo ha esaminato, riconoscendolo come originale di Giovanni da Udine, il foglio era classificato come Giulio Romano. Avendo allora messo a parte delle sue osservazioni il conservatore, Richard Harprath, quest’ultimo l’ha invitata a pubblicare il disegno, aggiungendo che la stessa attribuzione era stata proposta da John Shearman, il quale però si era basato sulla scritta “Recamator”, non sullo stile del foglio, e non pensava di pubblicarlo. L’attribuzione è stata ripresa da Nesselrath 1989, il quale afferma (p. 89, nota 38) di essere stato il primo a proporla in occasione di una conferenza di cui non precisa né titolo né luogo né data, sostenendo che Dacos l’avrebbe presa da lui senza citarlo. Va detto che Nesselrath aveva tentato d’inserirsi con un proprio articolo nella monografia Dacos-Furlan 1987, rivolgendosi direttamente alla segretaria dell’editore, senza prendere contatto con le due autrici. È probabile che questo articolo sia diventato Nesserlath 1989, dove compare l’assurda affermazione in questione (ripetuta da Gnann in Mantova 1999, n. 192, pp. 272-273). Tale affermazione è tanto più inaspettata in quanto, quando Nesselrath 1984b ha attribuito a Giovanni da Udine un disegno derivato dalla “Volta dorata” della Domus Aurea (a proposito del quale v. oltre, a proposito di Giorgio di Giovanni), ha aggiunto che, a suo avviso, si trattava del primo foglio che si poteva restituire con certezza all’artista: perché non ha ricordato allora quello di Monaco, che gli avrebbe attribuito in precedenza? 139 Giovanni da Udine non compare nei festoni della prima lunetta né in quelli della lunetta X. Quelli della XI sono del tutto estranei alla sua maniera. 140 Vienna, Albertina, inv. 1518. Riconosciuto come copia da Dacos [1977] 1986, tav. LXXXVIIa, nell’edizione del 1986, attraverso il confronto con gli acquarelli di Giovanni da Udine (Dacos in Dacos-Furlan 1987, nn. 1, 2 [?], 7, 9, 14 e 18-22, pp. 239-252, passim). Il foglio si caratterizza per la pesantezza del tratto e i tocchi di bianco che Giovanni non usa negli acquarelli. È ancora presentato come originale da Oberhuber e Gnann in Mantova 1999, n. 115, p. 179. 141 I fogli del Louvre pubblicati da Cordellier-Py 1992, nn. 791-852, pp. 462-477, non sono, come pensano gli autori, copie con varianti derivate dagli stucchi, bensì copie da disegni preparatori per gli stucchi, o copie di questi disegni. Anche se gli artisti avessero potuto disporre di impalcature, non avrebbero potuto riprodurre le composizioni che sono nei sottarchi e nei pennacchi senza deformazioni e senza tener conto del loro contesto ornamentale, come avviene nella maggior parte dei casi. Fanno eccezione solo alcune scene dei

pennacchi, dove da un lato è disegnata la linea curva dell’arco, che doveva far parte dei modelli copiati. Ma l’argomento decisivo per dimostrare che questi disegni non sono stati realizzati direttamente nella galleria, lo fornisce uno di essi che non riproduce uno stucco delle Logge, ma deriva dalla coppa bacchica detta Vaso Torlonia (Bober-Rubinstein 1986, n. 92): si tratta evidentemente di un progetto che non è stato utilizzato nelle Logge, dove era quindi impossibile trovarlo, ma che è stato riprodotto con tutto il gruppo. 142 Cfr. Michelangelo 1965-73, III, DCCCXLII, pp. 362363 (25 dicembre 1531). 143 San Pietroburgo, Ermitage, Gabinetto dei disegni, inv. 28221. Sul verso si vedono quattro idee riferibili ai pilastri X, XII e XIII. 144 Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 78 Orn. v. 145 Cfr. «…hinc septem dominos videre montis | et totam licet aestimare Romam» (Marziale, IV, 64, 11-12). La Loggia porta una data, MDXXXI, aggiunta in seguito, forse da un modello precedente, che non sembra riferirsi alla fine dei lavori della Loggia stessa, come si sarebbe potuto credere. Probabilmente la realizzazione degli stucchi, come quella delle altre stanze, deve precedere il sacco di Roma, quando tutto s’interruppe. La costruzione non era ancora finita nel 1539, come precisa un documento. 146 Cfr. Mancini [1617-21] 1956-57, p. 198 e, per un altro passo, p. 114. Il collegamento è stato fatto da Sricchia Santoro 1988, pp. 116-130. 147 Per i dipinti cfr. Sricchia Santoro 1990, pp. 344365. Per i disegni, dopo Dacos 1989a, e per un acquerello, Dacos in New York 2001, n. 6, cfr. Maccherini 2003, che pubblica in particolare un disegno preparatorio per una delle volte di palazzo già Mandoli e ora Chigi Saracini, e cita altre attribuzioni all’artista chiedendosi – ed è comprensibile – se i disegni pubblicati da Dacos 1989a, vista la loro durezza, non siano delle copie. Il dubbio avrebbe potuto essere sciolto se lo studioso avesse conosciuto il disegno pubblicato da Dacos in New York 2001, dove ad un acquerello di Giorgio di Giovanni corrisponde, sull’altra faccia del foglio, un disegno altrettanto rigido. Si potrebbe ipotizzare l’attribuzione a Giorgio di Giovanni del disegno di Windsor derivato dalla “Volta dorata” della Domus Aurea che Nesselrath 1984b ha restituito a Giovanni da Udine, adducendo a riprova che le annotazioni rivelano la stessa scrittura del diario del friulano e della sua lettera a Michelangelo. Ma si sa quanto tutte le grafie del XVI secolo si assomiglino e quanto possa rivelarsi fallace questo criterio, in apparenza scientifico. Si dà il caso che non ci sia nulla che consenta di attribuire a Giovanni da Udine un disegno simile, fatto con la riga e il compasso, e che la testa di guerriero romano che compare sul verso sia incompatibile col suo stile. In compenso, può essere accostato a Giorgio di Giovanni nella durezza del segno e nell’esecuzione del tratteggio (cfr. ad esempio Dacos 1989a, fig. 1, p. 136, e fig. 2, p. 137). Va del resto notato che il rigore del disegno si addice maggiormente ad un artista che era anche ingegnere militare. 148 Su Lorenzetto si può ancora far riferimento a PopeHennessy 1955-63, III, pp. 43-45. Cfr. anche WeilGarris Posner 1970. L’artista è stato oggetto di una tesi, Nobis 1979. 149 Per un progetto inutilizzato di Raffaello, noto da un disegno della bottega e qui restituito a Luca Penni, cfr. più sopra, quanto detto a proposito di questo artista. 150 Cfr., ad esempio, Parigi, Louvre, Département des arts graphiques, inv. 10383 e 10383 bis, che rappresentano, rispettivamente, Due amanti e Apollo e Giacinto, cfr. Firenze 1966, nn. 13-14, p. 22. 151 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 113 (Vita di Perin del Vaga). 152 Cfr. cap. I, p. 36. 153 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, p. 193 (Vita di Raffaello). 154 Cfr. Golzio [1936] 1971, p. 65; Shearman 2003, I, 1518/1, pp. 385-386. 155 Già Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, IV, 1976, p. 193 (Vita di Raffaello), avanza riserve sull’affresco dell’Incendio di Borgo e sulla volta della Loggia di Psiche, spiegando che, se le figure sono «buone, ma non eccellenti», è dovuto al fatto che Raffaello si limitò a darne il disegno affidandone l’esecuzione agli aiuti.

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Vasari, ed. Bettarini-Barocchi IV, 1976, p. 336 (Vita di Pellegrino da Modena). 157 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi IV, 1976, pp. 211-212 (Vita di Raffaello). CAPITOLO QUARTO 1 Golzio [1936] 1971, p. 335; Shearman 2003, I, 1520/84, verso il 1520, pp. 660-661. 2 Golzio [1936] 1971, p. 114; Shearman 2003, I, 1520/22, 11 aprile 1520, pp. 581-583. 3 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 450 (Vita di Giovanni da Udine). 4 Cfr. Venturi 1889, p. 157. 5 È il caso, tra l’altro, di Frans Floris, del quale si conserva in collezione privata un disegno copiato dal Mosè che riceve le Tavole della Legge (IX.1), pubblicato da Van de Velde 2005. Cfr. cap. III, nota 30. 6 Su questo artista cfr. Dacos 2004. 7 Cfr., in particolare, Forti Grazzini 1982, p. 61 segg. 8 Cfr. Dacos 2000; Dacos 2007b. 9 Conservati a Loseley Park. Cfr. Croft Murray, I, 1962, figg. 17-19. 10 Oberhuber 1978, II, pp. 240-269. Cfr. Bernini Pezzini-Massari-Prosperi Valenti Rodinò 1986, pp. 72-77, e riprod. alle pp. 374-385. 11 Cfr., tra l’altro, Dacos 1996, p. 317. 12 Mende in Roma 2007, fig. 5, p. 28. Per il programma della decorazione, cfr. Mende 1979. 13 Cfr. cap. III, p. 244. 14 Cfr. Dacos 1989, pp. 67-68. 15 Cfr. Giunoni-Visani-Gamulin 1980, pp. 30-33 (Londra, British Library), pp. 34-35 (Londra, Soane Museum) e pp. 43-59 (New York, Pierpont Morgan Library). I primi due furono realizzati probabilmente a Perugia nel 1534-1537/38, il terzo a Roma nel 153746. 16 Armenini 1988, p. 81 e pp. 205-206. 17 Vienna, Nationalbibliothek, cod. min. 33. Questa copia è stata utilizzata per lo studio, condotto da Davidson nel 1983, dei paesaggi aggiunti nelle Logge sotto papa Paolo III, ma la studiosa non ne ha identificato gli autori che, senza fornire il motivo, ha messo in rapporto col cantiere attivo in quegli anni a palazzo Sacchetti. Per le riproduzioni a colori di alcuni disegni, cfr. Gorreri in Armenini 1988, tavv. I-V. 18 Cfr. Davidson 1979. 19 Cfr. Davidson 1983, che collega questi paesaggi a un pagamento di 12 scudi e 10 a «Mro Daniele pittore per tante giornate fatte à dipingere due finestre sulla loggia di mezzo del Palazzo» (A. S. V., Tesoreria Segreta 1295 A, fol. 14) e identifica l’artista con Daniele da Volterra. Ma le finestre da dipingere dovevano essere più di due e la maniera minuziosa dei tre paesaggi superstiti non ha niente a che fare con quella di Daniele da Volterra. L’autrice propone, d’altro canto, di vedere un significato simbolico in ciascuno degli uccelli rappresentati, ma una simile teoria è inaccettabile: questi paesaggi, che sembrano tradire un’influenza fiamminga, proseguono la fantasia della decorazione concepita da Raffaello. 20 Furlan in Dacos-Furlan 1987, pp. 212-223. 21 Vasari, ed. Bettarini-Barocchi, V, 1984, p. 455 (Vita di Giovanni da Udine). 22 Cfr. Davidson 1984. 23 Cfr. Redig de Campos 1952. 24 Bernini Pezzini-Massari-Prosperi Valenti Rodinò 1985, pp. 72-77, e ill. alle pp. 374-384. 25 Sulla copia di Frans Floris di un disegno perduto per il Mosè che riceve le Tavole della Legge (IX.1), probabilmente opera di Perin del Vaga, cfr. cap. II, p. 233. Su una copia di Gerrit Pietersz dell’Assemblea del popolo a Sichem (X), cfr. Dacos 2007. Per l’influenza della Bibbia delle Logge sulla maiolica, cfr. Jestaz 1973. 26 Sterling 1952, pp. 35-37. Le conseguenze che ne traeva per la storia della natura morta non sono senza importanza: il quadro di fiori non sarebbe stato creato nelle Fiandre, ma molto prima in Italia, quando il friulano avrebbe frammentato i suoi festoni ed avrebbe aggiunto col mascherone una combinazione zoomorfa secondo il gusto delle grottesche. 27 Cfr. Bergamo 1968, p. 120. 28 Bernini Pezzini-Massari-Prosperi Valenti Rodinò 1985, pp. 77-80, e riprod. pp. 386-395. 29 Ibid., pp. 80-81, e riprod. pp. 396-401.

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Ibid., pp. 82-84, e riprod. pp. 402-411. Ibid., pp. 84-86, e riprod. pp. 412-415. 32 Ibid., pp. 86-89, e riprod. pp. 416-425. Cfr. anche Parigi 1983-84c, n. 261, pp. 195-196, dove si affronta anche il problema dei disegni dell’artista dalla Bibbia di Raffaello. Su Chapron, oggi più noto come pittore, cfr. Nîmes 1999, in particolare pp. 159-173, per quanto riguarda le incisioni delle Logge. 33 Bernini Pezzini-Massari-Prosperi Valenti Rodinò 1985, pp. 89-102, e ill. alle pp. 426-463. Per l’insieme delle incisioni tratte dalle Logge, si può consultare anche Höper, in Stoccarda 2001, pp. 425-480, dove il catalogo non è ordinato cronologicamente, ma in base alle diverse composizioni della Bibbia e dell’ornamentazione. 34 Ibid., pp. 108-112, e ill. alle pp. 502-513. 35 Per esempio su alcuni armadi del Languedoc nel XVII secolo. Cfr. Parigi 1983-84c, n. 356, p. 238. 36 Cfr. Meyer 1996. 37 Londra 1958, nn. 3 e 7. 38 Segnalato da Fischel 1948, p. 157. 39 Cfr. Mérot 1992, che ricorda come antecedenti la galleria di Ulisse a Fontainebleau e le incisioni di Androuet du Cerceau, mentre non cita le Logge. 40 Bernini Pezzini-Massari-Prosperi Valenti Rodinò 1985, pp. 102-104, e riprod. alle pp. 464-467; Parigi 1983-84c, n. 301, p. 210. 41 «…into divers tarraces arched sub dio, painted with the historys of the Bible by Raphel, which are so esteemed, that Workmen come from all parts of Europe to make their studys from these designes; and certainely the whole World dos not shew so much art; the foliage and Grotesque is admirable about some of the Compartiments»; Evelyn 1955, p. 295. 42 Montesquieu, Voyages, ed. Bordeaux 1894, p. 239, che torna sui dipinti delle Logge (p. 259) descrivendone con entusiasmo diverse scene bibliche. Cfr. anche Montesquieu, ed. 1949, p. 692 e 705. 43 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vat. Lat. 13751. Gli stucchi sono spesso sostituiti con motivi di fantasia e la disposizione dei pilastri non è rispettata. Cfr. Nesselrath in Città del Vaticano 1984-85, n. 85, pp. 214-215. 44 Ghidiglia 1927. 45 Weinlig 1782-87, I, pp. 97-98. 46 Besançon, Bibliothèque Municipale. Ill. in Jordan 1995, p. 101, e testo a p. 103, dalla citazione di un testo inedito. Cfr. ora Pinon in Tours 2007, p. 202-203 (con bibliografia), che data i disegni di Besançon al 1773. 47 Su Volpato cfr. Bassano del Grappa – Roma 1988. 48 Per la serie, cfr. ora Tours 2007. Si può consultare anche Bernini Pezzini-Massari-Prosperi Valenti Rodinò 1986, pp. 104-107, e ill. alle pp. 468-489. 49 Mentre, nella prima volta, è proprio il famoso affresco in cui Dio separa la Luce dalle Tenebre (I.1) che appare dalla parte interna, come si vede nell’incisione, per le volte II, IV, IX, X, XI, XII e XIII è stato scelto un altro affresco. 50 Per un primo tentativo d’inventario delle serie esistenti, cfr. Tours 2007, pp. 252-254. La mostra di Tours è stata l’occasione per uno studio approfondito delle incisioni, come pure di alcuni aspetti dell’influenza che queste hanno avuto. 51 Così, ad esempio, i cammei inseriti nelle boiseries del «Grand cabinet de la Reine» a Fontainebleau derivano da medaglioni di stucco della raccolta di Ottaviani e Volpato (cfr. Samoyault-Verlet 1977, pp. 168169), come pure i medaglioni inseriti in un reticolo di foglie in alcune tele di Jouy di epoca Direttorio (fra cui un pezzo del Cleveland Museum of Art, inv. CMA 27.413). 52 Il primo a lasciarsi ingannare fu, sembra, Ramdohr 1787, pp. 120-140, che crede che le Parche delle bordure degli arazzi facciano parte dei pilastri delle Logge. Quatremère de Quincy [1824] 1835, pp. 119-122, cadrà nello stesso errore e considererà le grottesche delle bordure degli arazzi come le più belle della galleria perché hanno un valore simbolico. Cfr. infra nota 80. 53 Verri-Verri, ed. 1923-42, pp. 171-172. 54 «Je mourrai, je mourrai pour sûr: il fait un très grand vent de la mer, le pire de tout pour l’imagination: j’ai été ce matin au bain, cela m’a fait monter le sang à la tête, et cet après-midi les plafonds des Loges me sont tombés entre les mains. Il n’y a absolument 31

que l’espérance qui me soutient; je vous prie de me sauver: écrivez tout de suite à Reiffenstein, je vous en prie, de faire copier ces voûtes en grandeur naturelle, de même que les murs, et je fais vœu à saint Raphaël de faire construire ses loges coûte que coûte et d’y placer les copies, car il faut absolument que je les voie comme elles sont»; Grot 1878, p. 101. Citato, con gli altri passaggi di Caterina a proposito delle Logge, da Troubnikov 1913. Per le serie di incisioni possedute dall’imperatrice e le prime influenze che esse esercitarono, cfr. Ozerkov 2007. 55 Guattani 1788, pp. 151-152; Meusel 1788, p. 84. Ad eccezione dei paesaggi, opera di Campovecchio, è tuttavia difficile distinguere le diverse mani. Per Unterperger, cfr. Guerrieri Borsoi 1998-99, pp. 77-82, per Giani, Ottani Cavina 1999, II, pp. 620-625. Cfr. anche Nikulin 2000. 56 «… la moindre indigestion du saint-père me cause des transes, car un conclave retarderait furieusement cet ouvrage»; Grot 1878, p. 126. 57 Monaco, Staatsbibliothek, Cod. Germ. 1881, p. 104, citato da Clark 1961, p. 2 (ripubblicato in Clark 1981). 58 Goethe, ed. 1983, pp. 453-454. 59 Cfr. più sopra nota 34. 60 Guattani 1786, pp. 257-258; Meusel 1788, p. 94. 61 Per qualche foto della galleria cfr. Dacos [1977] 1986, figg. 94-101, tavv. CLXIV- CLXV. 62 «il examinait tout en véritable amateur… il se mit à parler de la Bible et devant Adam et Ève chassés du Paradis il dit : ‘Nous trouvant ici, nous pouvons penser que cet événement est une fable et qu’ici nous nous trouvons dans le Paradis’»; Grot 1878, p. 663. 63 Morcelli, Fea, Visconti 1869, p. 148. I pilastri sono probabilmente da collegare con i mosaicisti del gruppo di Cesare Aguatti, che nello stesso periodo lavorò alla Galleria Borghese (Della Pergola 1962, figg. 80 e 85). 64 Serlio 1540, p. LXX. 65 Comolli 1790, pp. 62-63. È la posizione anche di Stendhal [1829] 1938, III, p. 201. 66 Lo stesso equivoco compare nell’opera Collezione di pitture antiche, pubblicata a Roma nel 1781, nella quale alcuni stucchi delle Logge sono presentati come dipinti murali delle Terme di Adriano. 67 Parigi, Louvre, Département des arts graphiques, inv. 26150. Cfr. Parigi 1983-84c, n. 59, p. 96. Per lo stucco, derivato da un rilievo neo-attico, cfr. Dacos [1977] 1986, p. 213, e tav. LVIIb; Cordellier-Py 1992, n. 846, pp. 475-476. 68 Parigi, Louvre, Département des arts graphiques. Cfr. Cordellier-Py 1992, nn. 791-852, pp. 462-477. Cfr. cap. III, nota 141. 69 Versailles, reggia. Cfr. Les serre-bijoux 1957, pp. 8387. 70 Sull’influenza dei pilastri delle Logge di Raffaello sulla decorazione d’interni a Parigi, cfr. Lebeurre 2001 e Lebeurre 2007. 71 Cfr. Bedoire 2006. 72 Cfr. Klopfer 1906. 73 Cfr. Jordán de Urríes y de la Colina 2006. 74 Cfr. Jacqué 1995, passim. 75 Cfr. Verri 1858 e Verri 1862, p. 362 (si tratta dello stesso brano, alla stessa pagina). 76 Tivaroni 1889, p. 75. 77 Mirri-Carletti 1776; Ponce 1786. 78 «Zuweilen, wenn ich vom Arbeiten müde war, ging ich hinaus auf die Logen, wo Raffael die biblische Geschichte gemalt hat, zu den sogenannten Arabesken. Die muß man bei Langeweile und gleichsam in halbem Schlafe besehen, wenn man, von ernsthaften Arbeit abgespannt, sich in angenehme Träume wiegen will. Da ergeht man sich denn im weiten Felde einer gaukelnden Phantasie, und eben das Wunderbare, Unfeste gewährt freie Spielraum, die Ideen nach Gefallen anzuknüpfen, je nachdem man aufgelegt ist»; Tischbein [1861] 1956, p. 154. 79 Milizia [1781] 1944, p. 119. 80 Cfr. Quatremère de Quincy 1788, p. 81. Quatremère de Quincy 1835, p. 119. L’autore, ibid., pp. 119121, passa comunque dal punto di vista stilistico a quello del contenuto quando aggiunge che Raffaello vi ha inserito delle idee morali con la rappresentazione delle stagioni, delle età della vita ed altre ancora: ovviamente è partito dall’esame delle incisioni di Otta-

viani e Volpato, senza rendersi conto del fatto che esse illustravano le bordure dei cartoni degli arazzi. 81 Riem 1787. 82 Goethe [1789] 1961, pp. 74-78. 83 Stieglitz 1790. 84 Fiorillo 1791. 85 Watelet 1792. 86 Hittorff 1844-45. 87 Il problema è trattato nella corrispondenza di Natoire col marchese di Marigny. Cfr. Schiavo 1969, pp. 207-211, e, per la Bibbia, tavv. a colori 72-119. 88 La biografia dell’artista è stata ricostruita da Coekelberghs 1976, pp. 408-411. Per la bibliografia più recente, cfr. Miarelli Mariani in Roma 2003, n. II.10, p. 309. 89 Cfr. Tours 2007, n. 69, pp. 232-233, con riprod. 90 Cfr. Boyer d’Agen 1909, pp. 209-280. Cfr. anche J.P. Cuzin in Parigi 1983-84c, n. 6, p. 73. 91 «Pendant que je faisais ma copie, un Français me demanda la permission de travailler quelques jours sur mon échafaudage au sommet le plus élevé. Je lui fis observer que nous nous gênions beaucoup l’un l’autre car il était tout tremblotant. Mais cependant lui dis-je, il faut s’entraider. Montez et casez-vous à votre aise ! Au premier coup de crayon je devinais que c’était Viollet-le-Duc […]. Il était peu communicatif, et moi je travaillais de mon côté sans arrêt». Cfr. Parigi 1980, n. 176, p. 178. 92 «Les loges de Raphaël par exemple, tel préparé que je fusse à voir cela, l’impression produite a été encore bien au-dessus de ce que je m’étais figuré; après cela les peintures de Pompéi ont tort, à mon avis du moins; les couleurs sont si harmonieusement disposées, les

compositions si variées et si sublimes, que l’on ne peut se lasser de regarder ces admirables fresques malgré l’affreux torticolis qu’elles vous causent» [...]. «Avezvous vu les copies des Loges de Raphaël que font maintenant les élèves de cette école? Quel dessin exagéré, quels coloris! Il n’y a pas un rouge rouge pas un bleu bleu, tout est terne, gris, lourd, le modelé ne ressemble en rien au modelé hardi et par touches des Loges, c’est rond, gros, rouge, brique, ennuyeux, affreux!». Parigi, Centre de Recherches sur les Monuments Historiques (s. n.). Cfr. Parigi 1980, n. 176, pp. 178-179; Parigi 1983-84c, n. 227, p. 179. 93 Cfr. Ziff 1965, pp. 51-64. Cfr. anche C. Stefani in Roma 2003, n. I.1, p. 79. 94 «Hier kommt auf einmal zur Erquickung des Gemüts die aus unseren heutigen Gemälden gänzlich verschwundene Andacht wieder zum Vorschein»; cfr. Simon 1914, p. 68, citato da Andrews 1964, p. 96. 95 Ibid., pp. 33-37. 96 Ibid., p. 64-66. Cfr. anche Schahl 1936. 97 «[il fut] distrait par certains jeunes savants qui remplissent Rome de leurs ridicules. Forts sur les dates des tableaux et sur celles de la naissance et de la mort de chaque peintre ou de chaque Mécène, leur parle-ton d’une chose qui doit être sentie par l’âme, ils répondent par une date… Ces Messieurs par malheur français, riaient avec des yeux sérieux et blâmaient en chœur la draperie en O (ce sont là leurs termes) qui entoure le buste du Père Éternel dans le second tableau de la première coupole, œuvre de Jules Romain. Le Père Éternel dit à la mer: Tu n’iras pas plus loin, et du doigt il marque le rivage. Quel genre Pompadour,

s’écriaient ces Français, quel rococo!»; Constantin [1841] 1931, pp. 90-91. 98 Webb, ed. 1979, p. 173, deplora che Raffaello abbia rappresentato la Creazione del sole e della luna (I.3) mostrando Dio sospeso nello spazio e che nella Creazione degli animali (I.4) lo abbia presentato come se fosse il mago Merlino, cioè con l’aspetto di un vegliardo. Falconet [1781] 1808, p. 231, cita Webb col quale concorda a proposito della critica alla Creazione del Sole e della Luna. 99 «An ugly one»; Ruskin [1885-89] 1949, p. 247. 100 Ruskin 1887, p. 87. 101 Su questo gruppo, cfr. Callari 1909, p. 14 (Galli) e pp. 192-193 (Consoni e Mantovani). Per i loro lavori in Vaticano, cfr. Massi [1882] 1887, pp. 176-179. I pilastri delle Logge di Raffaello sono stati copiati ancora una volta in Vaticano sotto il pontificato di Gregorio XVI, nella Sala delle Dame. Cfr. Pietrangeli in Città del Vaticano 1984-85, n. 88, pp. 217-220. 102 Per Costantino Brumidi (Roma 1805-Washington 1880), sulla sua attività in Italia, cfr. Campitelli-Steindl 1992 e Campitelli 1997, che ha ritrovato gli affreschi dell’artista a villa Torlonia. Sull’attività di Brumidi al Campidoglio a Washington, cfr. Wolanin 1998, in particolare pp. 73-85 per gli affreschi dei corridoi. Il rapporto vi è stabilito con le Logge di Raffaello, ma la fig. 6-16, p. 73, che vorrebbe darne una riproduzione (secondo una foto del XIX secolo, con l’intento di presentarle in uno stato di conservazione migliore) mostra in realtà la galleria che sotto Pio IX fu decorata sul modello delle Logge di Raffaello, il che è testimoniato dall’iscrizione ben visibile nella decorazione con il nome del papa.

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LONDRA 1983 Drawings by Raphael from the Royal Library, the Ashmolean, the British Museum, Chatsworth and other English collections, catalogo della mostra (Londra, The British Museum, 1983), a cura di J.A. Gere, N. Turner, London 1983. LONDRA, WASHINGTON D.C., TORONTO, LOS ANGELES 1999 Raphael and his Circle. Drawings from Windsor Castle, catalogo della mostra (Londra, The Queen’s Gallery, 21 maggio–10 ottobre 1999; Washington D.C., The National Gallery of Art, 14 maggio–23 luglio 2000; Toronto, The Art Gallery of Ontario, 6 agosto 2000–15 settembre 2000; Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, 31 ottobre 2000–9 gennaio 2001), a cura di M. Clayton, London1999. MANTOVA 1989 Giulio Romano, catalogo della mostra (Mantova, Palazzo Te, Palazzo Ducale, 1 settembre–12 novembre 1999), Milano 1999. MANTOVA 1999 Roma e lo stile classico di Raffaello, catalogo della mostra (Mantova, Palazzo Te, 1999), a cura di K. Oberhuber, catalogo di A. Gnann, Milano 1999. MANTOVA 2001 Perino del Vaga tra Raffaello e Michelangelo, catalogo della mostra (Mantova, Palazzo Te, 2001), a cura di E. Parma, Milano 2001. MONACO 1977 Italienische Zeichnungen des 16. Jahrhunderts aus eigenem Besitz, catalogo della mostra (Monaco, Staatliche Graphische Sammlung, 1 luglio–28 agosto 1977), a cura di R. Harprath, München 1977. NAPOLI 1985 I dipinti di Polidoro da Caravaggio per la chiesa della Pescheria a Napoli, catalogo della mostra (Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte), a cura di P. Leone de Castris, Napoli 1985. NAPOLI 1988-89 Polidoro da Caravaggio fra Napoli e Messina, catalogo della mostra (Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte, 11 novembre 1988–15 febbraio 1989), a cura di P. Leone de Castris, Milano–Roma 1988. NEW YORK 1987-88 Drawings by Raphael and His Circle. From British and North American collections, catalogo della mostra (New York, Pierpont Morgan Library, 1987-1988), a cura di J.A. Gere, New York, 1987. NEW YORK 1994 Sixteenth-Century Italian Drawings in New York Collections, catalogo della mostra (New York, The Metropolitan Museum of Art, 1994), a cura di W.M. Griswold, L. Wolk-Simon, New York 1994. NEW YORK 2001 Pandora Old Masters, catalogo della mostra (New York, 2001), a cura di L. Carissimi, C. Lapeyre, New York, 2001. NEW YORK 2002 Tapestry in the Renaissance. Art and Magnificence, catalogo della mostra (New York, The Metropolitan Museum of Art, 2002), a cura di T.P. Campbell, New York-New Haven-London 2002. NÎMES 1999 Nicolas Chaperon. 1612-1654/1655. Du graveur au peintre retrouvé, catalogo della mostra (Nîmes 1999), a cura di S. Laveyssière, D. Jacquot, G. Kazerouni, Nîmes 1999. PARIGI 1980 Le voyage d’Italie d’Eugène Viollet-le-Duc 18361837, catalogo della mostra (Parigi, Ecole nationale supérieure des Beaux-Arts, 1980), a cura di G. Viollet-le-Duc, J.J. Aillagon, Paris 1980. PARIGI 1983-84a Autour de Raphaël. Dessins et peintures du Musée du Louvre, catalogo della mostra (Parigi, Musée du Louvre, 24 novembre 1983–13 febbraio 1984), a cura di R. Bacou, S. Béguin, con la coll. di A. Méo e A. Skliar, Paris 1983.

PARIGI 1983-84b Hommage à Raphaël. Raphaël dans les collections françaises, catalogo della mostra (Parigi, Galeries nationales du Grand Palais, 15 novembre 1983–13 febbraio 1984), a cura di S. Béguin, P. Jean-Richard, C. Monbeig-Goguel, F. Viatte, Paris 1983. PARIGI 1983-84c Hommage à Raphaël. Raphaël et l’art français, catalogo della mostra (Parigi, Galeries nationales du Grand Palais, 15 novembre 1983–13 febbraio 1984), a cura di J.-P. Cuzin, Paris 1983. PARIGI 2007 Polidoro da Caravaggio, catalogo della mostra (Parigi, Musée du Louvre, Cabinet des dessins, 2007), a cura di D. Cordellier, Paris 2007. ROMA 1984a Raffaello architetto, catalogo della mostra (Roma, Palazzo dei Conservatori, 1984), a cura di C.L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Milano 1984. ROMA 1984b Oltre Raffaello, catalogo della mostra (Roma, Villa Giulia, Chiesa di S. Rita: il restauro della Trasfigurazione, Chiesa di S. Maria dell’Assunta in Trevignano, Chiesa di S. Pietro in Montorio, Chiesa di S. Marcello al Corso, Oratorio del Gonfalone, Palazzo di Firenze, 1984), a cura di L. Cassanelli, S. Rossi, Roma 1984. ROMA 1992 Raffaello e i suoi. Disegni di Raffaello e della sua cerchia, catalogo della mostra (Roma, Villa Medici, 1992), a cura di D. Cordellier, B. Py, Roma 1992. ROMA 2003 Maestà di Roma da Napoleone all’unità d’Italia, Universale ed Eterna, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 2003), Roma 2003. ROMA 2007 Dürer e l’Italia, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 10 marzo–10 giugno 2007), a cura di K. Herrmann Fiore, Milano 2007. SIENA 1988 Da Sodoma a Marco Pino. Pittori a Siena nella prima metà del Cinquecento, catalogo della mostra (Siena, Palazzo Chigi Saracini, 1988), a cura di F. Sricchia Santoro, Siena 1988. SIENA 1990 Domenico Beccafumi e il suo tempo, catalogo della mostra (Siena, 1990), Milano 1990. STOCCARDA 2001 Raffael und die Folgen. Das Kunstwerk im Zeitaltern seiner graphischen Reproduzierarbeit, catalogo della mostra (Stoccarda Graphische Sammlung, 2001), a cura di C. Höper, in coll. con W. Brückle, U. Felbinger, Stuttgart, 2001. STOCCOLMA 1966 Les dessins italiens de la reine Christine de Suède, catalogo della mostra (Stoccolma, Nationalmuseum 1966), a cura di J.Q. van Regteren Altena, Stockholm 1966 (Analecta reginensia, II; Nationalmusei Skriftserie, 13). TOURS 2007 Giovanni Volpato. Les Loges de Raphaël et la Galerie du Palais Farnèse, catalogo della mostra (Tours, Musée des Beaux-Arts, 2007), a cura di A. Gilet, Milano–Tours 2007. TREVIGLIO 2000 Giovan Battista Dell’Era (1765-1799). Un artista lombardo nella Roma neoclassica, catalogo della mostra (Treviglio, 2000), a cura di E. Calbi, Milano 2000. TREVIGNANO 1986 Trevignano. L’affresco absidale di Santa Maria Assunta, catalogo della mostra a cura di L. Indrio, F. Fedeli Bernardini, P. Zampa, C. De Gregorio, Roma 1986. URBINO 1980-81 Opere d’arte restaurate a Urbino 1979/80, catalogo della mostra (Urbino, Palazzo Ducale, 1980-1981), Urbino 1980. VIENNA 1989-90 Fürstenhofe der Renaissance: Giulio Romano und die klassische Tradition, catalogo della mostra (Vienna, 1989-1990), a cura di S. Ferino-Padgen, K. Oberhuber, Wien 1989.

INDICE DEI NOMI DI LUOGO E DI PERSONA A Adriano VI (Adriano di Utrecht), papa 234 Agostino de’ Musi, detto Veneziano 208, 308 Agostino di Ippona, santo 199 Albani, Francesco 315 Alberto, principe consorte di Gran Bretagna e Irlanda 216 Allegri, Antonio v. Correggio Altoviti, Bindo 66 Andrea del Sarto 252, 253 Angeloni, Luca Antonio 322 Anna d’Austria 317 Antoniazzo Romano 308 António de Hollanda 36 Aquili, Giulio (Julio de Aquiles) 308; fig. 145 Aretino, Pietro 101 Aretusi, Pellegrino v. Pellegrino da Modena Arezzo, basilica di S. Francesco 238 Armellini, Francesco cardinale 37 Armenini, Giovanni Battista 314 Arrone, chiesa di S. Maria 258 Aspertini, Amico 60 Attalo I 204 Augusto, imperatore 34, 96, 101 B Badalocchio, Sisto 315, 316 Bagatelle, castello di 323 Balze, fratelli Raymond e Paul tavv. 221, 325326 Baraballo 116 Barile, Giovanni 15, 37, 116 Bartholdy, Jacob Salomon 327 Bartoli, Pietro Sante 316, 322; fig. 53 Bartolomeo di David 247, 248, 270, 271, 296; fig. 119; tavv. 108, 110, 129, 132, 133, 147, 160, 162, 171, 178-179, 307 Battista da Sangallo v. Sangallo, Battista da Baviera, pricipe Carlo-Teodoro di 322 Bazzi Giovanni Antonio v. Sodoma Beccafumi, Domenico 314 Belcaro, castello 278 Bellièvre, Claude 204 Bellori, Giovanni Pietro 316 Bembo, Gian Francesco 252 Bembo, Pietro 32, 33, 86, 198, 199, 203, 204, 233, 244 Bélanger, François Alexandre 323 Benedetto XIV (Prospero Lambertini), papa 318 Berlino 327 Bernini, Gian Lorenzo 15 Berruguete, Alonso 252, 253, 271, 290, 296, 308, 316; figg. 123, 124, 125, 130; tavv. 119, 173, 184, 185 Berruguete, pedro 252 Bianchi Ferrari, Francesco 242 Bibbiena, cardinale v. Dovizi, Bernardo Bonaccorsi, Perino v. Perin del Vaga Borgianni, Orazio 315, 316; Fig. 148 Borromeo, Carlo santo 198 Botta, Bartolomeo 198 Botticelli, Sandro Filipepi detto 96, 194 Bouts, Dieric 255 Bramante, Donato 15, 20, 199, 236 Bramantino, Bartolomeo Suardi detto il 236, 283 Bronzino, Agnolo 256, 314 Brumidi, Costantino 329 ; Tav. 223 Buonarroti, Michelangelo v. Michelangelo Butinone, Bernardino 235

C Caietano, Tommaso di Vio detto 197 Caldara, Polidoro v. Polidoro da Caravaggio Camporesi, Pietro 318 Campovecchio, Giovanni 322 Caravaggio, Michelangelo Merisi detto il 234 Carlo V, imperatore 199, 253, 255, 256, 308 Carracci, Annibale 315 Castellina in Chianti, villa Francesconi, cappella 247 Castiglione, Baldassar 15, 35, 37, 116, 118, 124 Caterina II, imperatrice 320, 322, 324; tav. 219 Cattaneo, Tommaso 37 Cavalcaselle, Giovan Battista 215 Cavallini, Pietro 201; fig. 65, 68 Celio, Gaspare 256 Ceri, Andrea de’ 230 Cesi Paolo, cardinale 66 Champaigne, Philippe de 317 Chapron, Nicolas 316, 317; figg. 48, 149 Chauvin, Pierre-Athanase 325 Chigi, Agostino 106, 240, 247, 283, 292 Chigi, Sigismondo 283 Città di Castello, palazzo Vitelli 314 Città del Vaticano v. Vaticano, città del Claude Lorrain 209, 326 Clayton, Martin 216 Clemente VII (Giulio de Medici), papa 37, 198, 199, 307 Clemente XIII (Carlo Rezzonico), papa 318 Clemente XIV (Giovanni Lorenzo Ganganelli), papa 318 Clovio, Giulio 314 Colocci, Angelo 86 Colonia, basilica di Gross Sankt-Martin (S. Martino Maggiore) 36 Consoni, Nicola 315, 329 Constantin, Abraham 327 Costantino, imperatore 201, 248, 256; fig. 120 Cornelius, Peter 327; fig. 154 Correggio, Antonio Allegri detto il 314 Costa, Lorenzo 242 Costabili, Beltrando 37 Crozat, Pierre fig.23 Cybo, Innocenzo cardinale 246 Çalvaje, Joan v. Sauvage, Jean D Daniele da Volterra 315 Dario, re 106; tav. 74 Davent, Léon 250, 252 David, Jacques-Louis 323, 327 Delacroix, Eugène 325 Della Robbia, Luca il Giovane 15, 37 Dell’Era, Giovan Battista 322 Della Valle Andrea 86, 283 Dente, Marco da Ravenna v. Marco da Ravenna Diego de Siloé 308 Dollmayr, Hermann 215 Domenichino, Domenico Zampieri detto il 315 Donatello, Donato di Betto detto 96, 106, 118, 253 Doria, Andrea 232, 250, 252 Dorigny, Michel 317 Dovizi, Bernardo cardinale 32, 33, 35, 36, 37, 124, 205, 206, 233, 235, 242, 247, 252, 253, 255, 260, 283, 292, 308; fig. 3, 7, 9 Duban, Félix 325 Ducq, Joseph-François 324; fig. 152 Dürer, Albert 36, 209, 246, 308; fig. 82, 83, 84, 144

E Eclissi, Antonio figg. 65, 68 Egidio da Viterbo 199 Emanuele I, re del Portogallo 46, 116 Enrico VIII Tudor 308 Enrico di Nassau 246 Erasmo da Rotterdam 199 Este, Alfonso d’ 37, 74 Este, Ippolito d’, cardinale 37 Este, Isabella d’ 15, 37 116 Este, Lucrezia di Sigismondo d’ 242 Evelyn, John 317 F Falconet, Étienne-Maurice 329 Fetti, Mariano 235 Filippo II, re di Spagna 314 Filostrato 22 Fiorillo, Johann D. 324 Fischel, Oskar 215, 216 Firenze Palazzo Vecchio, cappella di Eleonora 314 S. Gerolamo alla Costa san Giorgio 252 S. Maria del Carmine, cappella Brancacci 200, 233 Fontainebleau castello 250 Galleria di Francesco I 308 Fontana, Prospero 314 Fontanellato, castello 314 Forteguerri, Niccolò, cardinale 283 Francia, Francesco Raibolini detto il 242 Francisco de Hollanda 36, 308; fig. 4 Fugger, banchieri 314, 318 Fulvio, Andrea 86 G Galanini, Aloisi 315 Galli, Pietro 315, 329 Gastine, Camille Auguste 325 Gautier, Théophile 325 Genova palazzo di Andrea Doria 250, 252, 307 palazzo Spinola 252 Genga, Girolamo 256 Gentile da Fabriano 60, 199 Gere, John 215, 216, 217 Ghiberti, Lorenzo 60, 74, 96 Ghirlandaio, Domenico del 230, 236 Ghirlandaio, Ridolfo del 230 Giani, Felice 322 Giorgio da Siena v. Giorgio di Giovanni Giorgio di Giovanni 278, 283, 296, 307; figg. 138-140; tavv. 32, 43, 50-51, 54-56, 67-68, 79, 85, 200-203, 209 Giorgione, Giorgio da Castelfranco detto 35, 86 Giotto 199 Giovanni da Spoleto 258, 260, 262, 296; fig. 129; Tav. 148, 150, 177 Giovanni da Udine 29, 33, 35, 36, 46, 48, 50, 74, 96, 106, 116, 118, 196, 208, 213, 215, 232, 233, 234, 235, 240, 244, 258, 271, 274, 277, 278, 283, 292, 296, 307, 308, 314, 315; figg. 6, 12-13, 115, 132-134, 146; tavv. 24-30, 33-42, 46-49, 52-53, 64, 69, 76-78, 80, 82, 86, 97, 102, 109, 168, 186, 189, 190-196, 290 Giovio, Paolo 116 Girolamo del Pacchia 247 Giuliano da Sangallo v. Sangallo, Giuliano da Giulio Romano, Giulio Pippi detto 33, 86, 213,

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215, 216, 217, 226, 228, 230, 232, 233, 235, 246, 247, 248, 252, 256, 260, 262, 270, 271, 290, 292, 296, 307,329; figg. 105-106; tavv. 98-99, 107, 111, 116, 125, 127, 132, 134, 164 Goethe, Johann Wolfgang 307, 322, 324, 327 Gonzaga, Agostino 37 Gonzaga, Francesco 37, 230; fig. 106 Gonzaga, Federico 228, 230 Granada Alhambra 256, 308 cappella Reale 253, 255 Gregorio IX (Ugo di Segni), papa 283 Gregorio XIII (Ugo Boncompagni), papa 315 Grimani, Domenico 35, 86, 205 Grimm, Friedrich Melchior von 320 Guattani, Giuseppe Antonio 322 Gubbio, chiesa di S. Pietro 258 Guertière, François de La 317; fig. 151 Guglielmo di Marcillat v. Marcillat, Guglielmo di Gustavo III 323 H-I-J-K Hampton Court, palazzo 317 Haydn, Franz Joseph 317 Heemskerck, Marten van 20; fig. 1 Hess, Lorenz fig. 144 Hittorff, Jacques Ignace 324 Ingres, Jean Auguste Dominique 324, 325, 326 Jabach, Everhard 317 Jacopo Siculo 262 Johann Georg di Sassonia, principe 323 Giulio II (Giuliano della Rovere), papa 15, 20, 118, 196, 198 Giulio III (Giovanni M. del Monte), papa 314; tav. 213 Karcher, Giovanni 308 Karcher, Nicola 308 L La Vega, Francisco 318; fig. 47 Lanfranco, Giovanni 315, 316; fig. 147 Leone X (Giovanni de Medici), papa 20, 35, 44, 46, 96, 106, 116, 118, 139, 196, 197, 198, 199, 201, 232, 234, 235, 242, 244, 246, 252, 270; tav. 89 Leonardo da Vinci 60, 200, 255 Leonardo del Sellaio 292 Ligorio, Pirro tav. 210 Lippi, Filippino 252; fig. 123 Lippi, Filippo 242, 258 Londra, cattedrale di St-Paul 317 Longhi, Roberto 252 Lorenzetto, Lorenzo Lotti detto il 106, 283, 296; figg. 141-142; tavv. 45, 57-63, 204-206 Lorrain, Claude v. Claude Lorrain Lotto, Lorenzo 36 Lutero, Martin 197, 198, 199 M Machuca, Pedro 247, 253, 256, 290, 292, 296, 308; fig.126; tav. 174 Madrid, Museo del Prado 255 Malaspina, Regolo Alberico 242 Malermi, Niccolò 202, 203; figg. 70-71 Mantegna, Andrea 271 Mantova, palazzo Te 307 Mantovani, Alessandro 315, 329 Mantovano, Battista Spagnoli detto il 198-199, 209 Marcantonio Raimondi v. Raimondi, Marcantonio Marco da Ravenna (Marco Dente) 246 Marcillat, Guglielmo di 236, 238, 240, 247, 283,

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290, 296, 307; figg. 112-114; tavv. 101, 118, 128, 139, 159, 167 Marcus Perennius 101; figg. 44-45 Maria Antonietta, regina di Francia 323 Martini, Giovanni 35 Masaccio 200, 202, 233; fig. 61, 108 Masini, Tommaso detto Zoroastro 118 Masreliez, Louis 323 Maturino da Firenze 235, 242, 262, 307 Mayner, Alejandro 308 Max di Sassonia, principe 323 Mazzolini, Silvestro 197 Medici, Cosimo de’ 96, 118 Medici, Giovanni de 197, 246 Medici, Lorenzo de’ 96, 207 ; Fig. 40, 43, 79 Medici, Piero de’ 118 Mengs, Anton Raphael 322 Meulemeester, Joseph-Charles de 324; fig. 153 Meusel, Johann Georg 322 Michelangelo 35, 60, 96, 106, 193, 199, 200, 202, 205, 206, 213, 230, 233, 240, 252, 253, 255, 277, 292, 296, 298, 307; fig. 59 Michiel, Marcantonio 15, 37, 307 Milizia, Francesco 324 Minardi, Tommaso 329 Mirri, Ludovico 324 Montalcino Santa Maria della Croce 258 Montefeltre Federico da 252 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, baron de 318 Mourtaza Kouli Khan 322 N Napoleone Bonaparte 324 Nassau, Enrico di 246 Natoire, Charles-Joseph 324 Nesserthaler, Andrea 322 Nicolò III (Giovanni Orsini), papa 20 Norimberga, palazzo municipale 308, 309; fig. 144 O Oberhuber, Konrad 216, 217 Ordóñez, Bartolomé 308 Orlandi, Pellegrino Antonio 250 Orsini, Alfonsina 204 Orsini, Clarice 118 Ottaviani, Giovanni 318, 323, 324; figg.14, 15, 16, 17 Overbeck, Friedrich 327 Ovidio 198 P-Q Paolo II (Pietro Barbo), papa 86, 96 Paolo III (Alessandro Farnese), papa 48, 198, 307, 314, 315; tavv. 211-212 Parigi Grand Véfour 323 École des Beaux-Arts 325 Museo del Louvre 226 Panthéon 325, 327 Pâris, Pierre-Adrien 318 Parmigianino, Francesco Mazzola detto il 314 Passavant, Johann Dominicus 327 Pellegrino da Modena 213, 240, 242, 253, 258, 270, 290, 292, 296; figg. 101, 116; tavv. 102, 104, 120, 144, 146, 169 Penni, Bartolomeo 308 Penni, Caterina 250 Penni, Giovanfrancesco 213, 215, 216, 217, 226, 228, 230, 232, 233, 235, 240, 248, 250, 253, 260, 270, 308; figg. 87-95, 104; tavv. 100, 107, 113, 115, 156-158, 163 Penni, Luca 250, 252, 271, 277, 290, 292, 296, 308; figg. 57-58, 120-122, 135-137; tavv. 23,

88, 114, 123, 126, 129, 151-152, 172, 180, 183, 199 Peñafort, Raimond de 283 Pere Serafí v. Serafín, Pedro Perin del Vaga 196, 203, 213, 215, 216, 230, 232, 233, 234, 235, 236, 242, 250, 252, 260, 262, 270, 274, 283, 290, 292, 296, 307, 308; figg. 23, 51, 72, 98-100, 107-108, 143; tavv. 124, 131, 136-138, 140-142, 154-155, 165, 187, 207-208 Peruzzi, Baldassarre 22, 36, 60, 235, 242, 247, 258, 260, 262, 278 Pesaro, villa Imperiale 256 Petrarca, Francesco 116, 197 Pio IV (Giovanni Luigi Angelo de’ Medici), papa 315; tav. 214 Pio IX (Giovanni M. Mastai Ferretti), papa 329 Piero della Francesca 240, 256 Pietro Galatino 197 Pinturicchio, Bernardino di Betto detto il 29, 33, 37 Pisanello, Antonio Pisano detto 60 Pitti, Luca 118 Plinio il Vecchio 35, 106 Podocatari, Livio 232 Polidoro da Caravaggio 213, 215, 234, 235, 236, 242, 247, 260, 271, 290, 292, 296, 307; figg. 97, 109-111, 131; tavv. 124, 135, 145, 166, 188, Policleto 205 Ponce, Nicolas 324 Ponce, Puerto Rico, Museo de Arte 255 Pouncey, Philip 215, 216, 217 Poussin, Nicolas 209, 316, 325 Primaticcio, Francesco 250 Pucci Lorenzo, cardinale 118 Quarenghi, Giacomo 322 Quatremère de Quincy, Antoine Chrysostome 324 R Raffaello da Montelupo 283 Raffaellino del Colle 256, 290, 292, 296; figg. 49, 103, 127; tavv. 121, 149, 153, 175 Raimondi, Marcantonio 203, 206, 246 Recco, Giuseppe 315 Rembrandt 317 Riccio, Andrea 86, 96 Riem, Andreas 324 Ripanda, Jacopo 60 Roist, Gaspar 233, 234 Roma Campidoglio 66, 74 castel S. Angelo 116, 208, 307, Colosseo 20, 56, 60, 208, Fig.23 Domus Aurea 29, 32, 33, 34, 37, 44, 56, 60, 101, 106, 247, 248, 253, 271, 324; figg. 4, 6, 8, 10-11, 21, 22 Galleria Barberini 260 Galleria Borghese 252 Palatino 247 Pantheon 22 Settizonio 20 chiese S. Antonio dei Portoghesi 242 SS. Cosma e Damiano 74 S. Eustachio 242 S. Francesco a Ripa 66 S. Giacomo degli Spagnoli 233, 242 S. Gregorio 66 S. Maria del Popolo 106, 236, 283 S. Maria della Pietà 233 S. Maria in Camposanto 234 S. Maria Maggiore 60, 201, 202, 204, 205 S. Maria sopra Minerva 233

S. Paolo fuori le mura 201, 202, 203, 205; fig. 65 SS. Silvestro e Dorotea 198 S. Silvestro al Quirinale 235 S. Stefano degli Indiani 262 S. Stefano del Cacco 74, 233 palazzi palazzo Baldassini 232, 233, 234, 271 palazzo Corsetti 232 palazzo di Tito 29 palazzo della Valle 66 palazzo Mancini 324 palazzo Medici 204 palazzo Ruspoli Rucellai 314 palazzo di S. Marco (oggi Venezia) 66 palazzo Zuccari 327 Quirinale 324 ville Villa Albani 322 Villa Farnesina 22, 32, 36, 37, 48, 217, 247, 252, 256, 260, 262, 292 Villa Giulia 314 Villa Lante 260, 271, 278, 307 Villa Madama 228, 260, 307 Villa Mattei-Mills, loggia 247 Rosso Fiorentino 250, 256, 258, 308 Rucellai, Bernardo 118 Ruland, Charles 216 Ruskin, John 329 Ruysch, Jan 36, 44, 283 S Sadoleto, Jacopo 198 San Pietroburgo, Logge di Caterina II 320 Salviati, Francesco 314 Sangallo, Battista da 60 Sangallo, Giuliano da 60 San Gimignano chiesa di S. Gerolamo 258 chiesa di S. Agostino 258 Sannazaro, Jacopo 199, 209 Sansepolcro, chiesa di S. Lorenzo 258 Sansovino, Andrea 199 Sauvage Jean (Joan Çalvaje) 253 Savorelli, Gaetano 318 Schadow, Wilhelm 327 Schick, Gottlieb 327 Schlegel, August Wilhelm 327 Schnorr von Carolsfeld, Julius 327 Scorel, Jan van 235 Sebastiano del Piombo 208, 255 Serafín, Pedro 308 Serbaldi della Pescia, Pietro 118 Serlio, Sebastiano 322

Serra, Francesco cardinale 233, 242 Servio 33 Siena cappella del Manto 247, 271 palazzo Francesconi 249, 307 palazzo Mandoli poi Chigi Saracini 278, 307 palazzo Bindi Sergardi 314 S. Maria della Scala 247 Silva, Miguel da 118 Sisto IV (Francesco della Rovere), papa 202 Sisto V (Felice Peretti), papa 329 Sodoma, Giovannantonio Bazzi detto il 36, 60, 101, 240, 247, 248, 258, 283 Spagnoli, Battista v. Mantovano Spilimbergo 315 Spoleto cattedrale, cappella Eroli 262 palazzo Rancani 262 Stati, Cristoforo 247 Stendhal, Henri Beyle detto 329 Sterling, Charles 315 Stieglitz, Christian Ludwig 324 Strada, Jacopo 314 Strozzi, Filippo 204 Suardi Bartolomeo v. Bramantino T Tamagni Vincenzo 213, 256, 258, 260, 262, 271, 292, 296; figg. 128, 129; tavv. 143, 176, 182, 201 Tebaldeo, Antonio 307 Terni, palazzo Battiferro 258 Teseo, Ludovico 318 Thiers, Adolphe 324 Thornhill, James 317 Thorvaldsen, Bertel 329 Tibaldi, Pellegrino 314 Tischbein, Johann Heinrich Wilhelm 324 Toto del Nunziata 308 Trevignano, chiesa di S. Maria Assunta 242 Tristan da Cunha 116 Tsarskoje Selo, residenza 324 Turini, Baldassarre 235 Turner, William J.M. 20, 326; tav. 6 U-V-W-Z Ugo da Carpi 200, 215; Fig. 60, 85 Unterperger, Cristoforo 322 Vaga, Perin del v. Perin del Vaga Valenti, Gonzaga Silvio, cardinale 318 Vasari, Giorgio 20, 32, 33, 35, 36, 37, 106, 124, 194, 196,213, 216, 217, 226, 228, 232, 233, 234, 236, 238, 242, 244, 250, 252, 256, 258, 260, 271, 283, 290, 298, 307

Vaticano, Città del Casina di Pio IV tav. 210 S. Pietro 44, 48, 197, 199; fig. 1 Logge del primo piano 15, 278, 314; tav. 1; fig. 1 Logge di Gregorio XIII 315 Loggetta del cardinal Bibbiena 33, 34, 35, 233, 235, 242, 253, 255, 260, 274, 283; figg. 7, 9 Loggia del Belvedere 37 Sala dei Palafrenieri 36, 37, 248, 292 Stanza della Segnatura 116, 217, 238, 246, 283, 290; fig. 112 Stanza dell’Incendio di Borgo 242, 246, 255, 256, 290 Stanza di Eliodoro 32, 205, 252, 253, 290, 346; fig. 5 Stufetta del cardinal Bibbiena 32, 33, 242, 252, 274; figg. 3, 133 Veit, Philip 327 Veltroni, Stefano 314; tavv. 211-212 Veneziano, Agostino de’ Musi detto v. Agostino de’ Musi Venezia Fondaco de’ Tedeschi 35 Veronese, Paolo Caliari detto il 314 Verri, Alessandro 320 Verri, Pietro 320 Verrocchio, Andrea del 283 Vida, Marco Girolamo 198, 209 Villamena, Francesco 316 Vincenzo da San Gimignano v. Tamagni Vincenzo Vincidor, Tommaso 244, 246, 290, 292, 296, 307, 308, 314; figg. 117, 118; tavv. 103-106, 120, 122, 130, 146, 162, 170 Viollet-le-Duc, Eugène 325, 326; tav. 222 Virgilio 32, 197, 198, 199 Vistaspa 106 Vitale, Giano 198 Vitruvio 22, 34 Vittoria, regina 216 Volpato, Giovanni 318, 320, 323, 324, 326; tavv. 215, 217-218 Vouet, Simon 317 Washington, George 329 Watelet, Claude-Henri 324 Webb, Daniel 329 Weinlig, Christian 318, 323 Wenzel, Peter 322 Winckelmann, Johann Joachim 322 Zenale, Bernardino 235 Zoroastro v. Masini, Tommaso Zuccari, Taddeo 314

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