D.S. Licha/ëv, G.K. Vagner G.I. Vzdornov, R.G. Skrynnikov
L’ARTE RUSSA Storia ed espressione artistica dalla Rus’ di Kiev al grande Impero
© 1994 Editoriale Jaca Book Spa, Milano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana ottobre 1994 Seconda edizione italiana marzo 2018
Quest’opera ha ricevuto la benedizione di sua santità il patriarca di Mosca e di tutte le Russie Alessio ii
Curatela editoriale Aleksandar V. Stefanovi0 Traduzione dal russo di Daria Rescaldani (Tomo Primo e Tomo Secondo) Bianca Maria Balestra (Tomo Terzo)
Copertina e impaginazione Paola Forini/Jaca Book Fotolito Target Color, Milano
Stampa e legatura Centro Stampa Digitalprint Srl, Viserba (Rn) marzo 2018
ISBN 978-88-16-60559-6
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
L’ARTE RUSSA
Sommario
Tomo Primo LA RUS’ DI KIEV Parte Prima D.S. Lichačëv La letteratura russa dall’xi secolo all’inizio del xiii pag. 11 Parte Seconda G.K. Vagner L’arte antica russa pag. 61 I. L’arte della Rus’ di Kiev unita nei secoli x-xi pag. 63 II. L’arte nel periodo di frazionamento feudale dal xii secolo alla prima metà del xiii pag. 135
Tomo Secondo G.I. Vzdornov LA CULTURA RUSSA DALLA SECONDA METÀ DEL XIII AL XV SECOLO Introduzione pag. 207 Referenze fotografiche Tutte le immagini contenute all’interno del volume sono di proprietà di © Archivio Jaca Book, Milano, e di © Iskusstvo, Mosca, ad eccezione di: Immagini in b/n: © Shutterstock: 82 (Djinn); 92 in alto (FotograFFF); 154 (Inna Kamparin); 162 (KseniaSS); 348 (Alex Ship); 349 (Walencienne); 350 (Elena Koromyslova); 351 in alto (Popova Valeriya); 352 a sinistra (vvoe); 353 (Evdoha_spb); 355 (Anna_Sol); 356 (Sobolev_Igor); 419 (yuliagubina); 476 (OlegDoroshin). Wikimedia Commons: 86 (Misinto); 478 (Matthias Kabel). Tavole a colori: © Alamy Stock Photo: 438 (Claudine Klodien); 458 (Ivan Vdovin). © Shutterstock: 74 (Kiev.Victor); 75 (Mikhail Markovisky); 76 (Gelia); 77 (lindasky76); 80 (Elya); 97 (Preto Perola); 98-99 (Kirill Volkov); 145 (Rostislav Ageev); 146 (Yulia_B); 147 (iava777); 148, 462 (Gorshkov Igor); 149 (Grinchenkova Anzhela); 150 (Fanfo); 151 (Pyma); 152 (Pavel Suhov); 169 (Maria Sidelnikova); 170-171 (Offscreen); 235 (Igor Simanovskiy); 330 (Popova Valeriya); 331 (Eric Valenne geostory); 332 (Ekaterina Bykova); 333 (eans); 362, 364 (Yuri Taranik); 363 (Sailorr); 402 (Natalia Sidorova); 425 (Ruslan Mikhaylovich); 426, 428 (Ovchinnikova Irina); 427 (kukuruxa); 430 (Anton Martynov); 431 (Alizada Studios); 432-33 (Irina Afonskaya); 434-35 (Boris Stroujko); 436-67 (Alexander Kazarin); 439 (Arthur Lookyanov); 440 (svand); 457 (katuka); 460 in alto (Pukhov K); 460-61 in basso (volkova natalia); 461 in alto (Yury Dmitrienko); 463 (nikvasil6). Tutti i diritti sono riservati. È vietata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, dei contenuti inseriti nel presente volume, ivi inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, diffusione o distribuzione dei contenuti stessi mediante qualunque mezzo di diffusione, senza previa autorizzazione scritta.
Architettura pag. 212 Istruzione e letteratura pag. 222 L’arte figurativa pag. 227 Arti decorative e applicate pag. 308 Conclusione pag. 313 Bibliografia essenziale pag. 315
Tomo Terzo DALLA RUS’ DI MOSCA ALL’IMPERO RUSSO R.G. Skrynnikov
Tomo Primo LA RUS’ DI KIEV
Introduzione pag. 319
D.S. Licha/ëv G.K. Vagner
I. Le origini dell’Impero moscovita pag. 320 II. L’epoca di Ivan il Terribile pag. 358 III. Il periodo dei Torbidi in Russia pag. 398 IV. La Russia sotto i primi Romanov pag. 421
Indice analitico pag. 485
1
2
Parte Prima LA LETTERATURA RUSSA DALL’XI SECOLO ALL’INIZIO DEL XIII D.S. Licha/ëv
3
4
la loro unità. Nelle circostanze dell’epoca, l’espressione stessa «lingua» acquista il significato di «popolo», di «nazione». Il ruolo della letteratura diviene quindi particolarmente importante: essa serve alla causa dell’unificazione, esprime l’autocoscienza popolare dell’unità. È depositaria della storia, della tradizione, e queste ultime fungevano da mezzi di conquista dello spazio e celebravano la santità ed il valore di questo o di quel luogo: di un confine, un colle, un villaggio e così via. Le leggende trasmettevano al paese anche la profondità storica, costituivano quella «quarta dimensione» nel cui ambito veniva percepita e diventava «visibile» tutta la vasta terra russa, con la sua storia, nella propria determinatezza nazionale. Questo fu il ruolo delle cronache e delle Vite di santi, delle narrazioni storiche e dei racconti sulla fondazione dei monasteri. Tutta la letteratura russa antica, fino al xvii secolo, è caratterizzata da un profondo storicismo. Essa affonda le proprie radici nella terra che la popolazione russa aveva occupato e reso propria nei secoli. La letteratura e la terra russa, come la letteratura e la storia russa, erano legate assai intimamente. La letteratura era uno dei mezzi che l’uomo aveva a disposizione per assimilare il mondo circostante. Non per nulla l’autore della Lode ai libri e a Jaroslav il Saggio scrisse negli annali: «Questi infatti sono i fiumi che irrigano il mondo intero…», paragonò il principe Vladimir i ad un agricoltore che ara la terra e Jaroslav ad un seminatore che «semina» la terra con «sofismi letterari». La scrittura dei libri è come la coltivazione della terra. Sin dai tempi più remoti la trascrizione dei libri, come il lavoro dell’agricoltore, fu per la Rus’ un’opera «santa». E proprio perché la copiatura dei libri era un’opera santa, questi libri potevano trattare solo i temi più importanti; tutti rappresentavano, in qualche misura, un «insegnamento letterario». La letteratura non aveva carattere ricreativo, era una scuola, e le sue singole opere erano sempre degli insegnamenti. La storia russa e la sua stessa terra riunivano in un tutto unitario la produzione letteraria russa. Effettivamente, tutti i monumenti della letteratura russa, in virtù dei loro temi storici, appaiono collegati assai più strettamente di quanto possa avvenire in epoche più
Lo stile storico-monumentale
5
6
7
8
9
10
Dalla Cronaca di Radziwiłł: 1. Traduzione di Metodio e copiatura dei libri dal greco allo slavo (898), fol. 14. 2. Scriptorium presso La cattedrale della Sofia a Kiev al tempo di Jaroslav il Saggio; ai sacerdoti vengono distribuiti i libri per insegnare agli analfabeti (1037), fol. 88. 3. Uccisione del principe Boris Vladimirovič per incarico di suo fratello Svjatopolk (1015), fol. 75v. 4. Spedizione del principe Oleg contro Costantinopoli (907), fol. 14v. 5. Morte di Oleg a causa del suo cavallo (912), fol. 19v. 6. Uccisione del principe Igor’ durante la raccolta dei tributi nella terra dei Drevljani (945), fol. 27v. 7. Ol’ga a colloquio con l’imperatore bizantino Costantino Porfirogenito; battesimo di Ol’ga a Costantinopoli per mano dell’imperatore e del patriarca (955), fol. 31v. 8. Ol’ga convince suo figlio Svjatoslav ad abbracciare il cristianesimo; preghiere di Ol’ga per il benessere del figlio e dei sudditi (955), fol. 33v. 9. L’eroe cuoiaio vince il duello col guerriero pecenego e i Peceneghi fuggono (993), fol. 69. 10. Gli ambasciatori russi assistono alla Divina Liturgia in una chiesa di Costantinopoli. «Ed essi erano stupefatti, e si sbalordirono, e lodavano la loro liturgia» (987), fol. 59v.
10
Andiamo col pensiero ai primi secoli della storia russa, all’epoca dell’unità delle tribù slavo-orientali, tra l’xi ed il xiii secolo. Il territorio russo è immenso, i villaggi rari. L’uomo si sente sperduto tra foreste impenetrabili o tra le sconfinate distese della steppa troppo facilmente percorribili dai suoi nemici: «la terra sconosciuta», «i campi remoti», così la chiamavano i nostri avi. Per attraversarla tutta, a cavallo o in barca, occorrevano molti giorni. La mancanza di strade praticabili in primavera e nel tardo autunno paralizzava per mesi i difficili rapporti tra queste genti. Nelle distese sconfinate, l’uomo con straordinaria forza cercava di stringere dei rapporti, si sforzava di lasciare un segno della propria esistenza. Le chiese sulle colline o sulle rive scoscese dei corsi d’acqua, alte e chiare, segnano i luoghi degli insediamenti. Queste chiese si distinguono per la loro architettura straordinariamente essenziale: sono state concepite per essere visibili da diversi punti di osservazione, per fungere da fari sulle strade. Come modellate da mano volonterosa, conservano nell’irregolarità delle mura il calore e l’amorevolezza delle dita umane. Data la bassa densità di popolazione, l’ospitalità diviene una delle principali virtù umane. Lo stesso principe di Kiev, Vladimir Monomach, nel suo Insegnamento esorta ad «accogliere festosamente» gli ospiti. I frequenti spostamenti da un posto all’altro sono indice di notevole virtù ma, in alcuni casi, ci si sposta anche per amore di vagabondaggio. Nelle canzoni e nelle danze popolari si esprime l’aspirazione alla conquista dello spazio. Nel Canto della schiera di Igor’ vi sono belle descrizioni delle lunghe canzoni russe: «…le fanciulle cantano sul Dunaj – si librano le loro voci, dal mare fino a Kiev». Nacque nella Rus’ anche il termine «audacia» per designare quel particolare aspetto del coraggio connesso allo spazio, al movimento, alle «lontananze». Nelle sconfinate distese la gente percepiva e stimava con singolare acutezza la propria unità, e in particolar modo l’unità della lingua in cui si esprimeva, cantava, raccontava leggende antichissime, proprio quelle che testimoniavano 11
2
recenti. Li potremmo elencare in ordine cronologico per costituire, nell’insieme, un’unica storia: russa e, al contempo, universale. Lo stretto legame delle diverse opere era dovuto anche alla mancanza, nella letteratura russa antica, di un forte principio della paternità letteraria. La letteratura aveva un carattere tradizionale, il nuovo sorgeva come continuazione di ciò che già esisteva e secondo i medesimi canoni estetici. Le opere venivano copiate e modificate. Il gusto dei lettori e le loro aspettative vi esercitavano un’influenza maggiore che non nella produzione letteraria più recente. I letterati ed i loro lettori erano più vicini di quanto lo siano attualmente, mentre più fortemente veniva evidenziato il principio collettivo. La letteratura più antica, per il carattere stesso della sua esistenza e della sua creazione, era più vicina al folclore che alle moderne opere individuali. L’opera, creata dall’autore, veniva poi modificata dai copisti nelle innumerevoli trascrizioni, acquisiva sfumature ideologiche diverse a seconda dell’ambiente in cui veniva rimaneggiata, veniva completata, arricchita di nuovi episodi e così via…: ecco perché quasi ogni opera che sia giunta fino a noi in diverse copie manoscritte ci è nota in differenti redazioni e forme. Lo stesso autore antico russo, nei suoi Insegnamenti o Discorsi, si batte personalmente per la verità; ciò crea negli annali, nei racconti storici, nelle opere agiografiche e nei racconti di attualità, personaggi di combattenti per la giustizia, per l’indipendenza della propria patria, per la realizzazione degli ideali sulla terra. Non sempre i suoi ideali erano eguali; essi si formavano con le concezioni religiose dell’epoca o, talvolta, scostandosi da tali concezioni, ci mostrano principi e guerre che difendono dai nemici la terra russa, che hanno il sopravvento o che vengono sconfitti, ma sempre fedeli al proprio dovere nell’impari lotta contro avversari più forti. Ci dipingono «bojari radunati in consiglio» e «uomini valorosi». Strettamente legato a questi ideali, rigorosamente conforme all’indirizzo della letteratura russa antica, con il suo storicismo, si manifestava anche quel particolare stile artistico che la caratterizzò. Lo stile dello storicismo monumentale si rivelò pienamente degno della missione storica svolta dalla letteratura russa antica.
consapevolezza dell’impotenza umana di fronte alle forze naturali. Il cristianesimo, con la sua concezione teologica dell’universo, pose l’uomo al centro della natura, dove quest’ultima veniva percepita al suo servizio, e scoprì nella natura la «saggezza» nell’organizzazione del mondo e il disegno divino. Sebbene non liberasse completamente l’uomo dal terrore di fronte alle forze della natura, questa concezione ne cambiò, tuttavia, radicalmente l’atteggiamento, lo indusse a riflettere sul senso dell’organizzazione dell’universo, sul senso della storia umana, gli schiuse gli orizzonti di un progetto eterno e morale. Le prime opere russe traboccano di meraviglia per la saggezza dell’universo, una saggezza che non è fine a se stessa, ma al servizio dell’uomo. La letteratura religiosa e profana fino al periodo mongolico è densa di esortazioni a «stupirsi» o «credere» nel mondo che circonda l’uomo. In questo cammino verso una concezione antropocentrica del mondo, si modificò anche il rapporto tra l’artista e la sua opera, tra lo spettatore e l’oggetto dell’arte. L’uomo riconosce la propria destinazione ed il proprio valore nel mondo che lo circonda. Dio viene glorificato dalle azioni umane. «E chi non si meraviglia, miei cari, poiché Dio è glorificato dalle nostre azioni?» scrive Feodosij del Monastero delle Grotte nel Sermone sulla Tolleranza e sull’Amore. Ma anche Dio, a sua volta, glorifica l’uomo con le chiese, le icone e il servizio liturgico. Quindi, se da un lato si assiste ad un’attenuazione del principio personale nella creazione, poiché nell’opera dell’uomo si manifestano innanzitutto non un principio personale, bensì l’ispirazione e la creazione divina, dall’altro, tuttavia, la grandezza e la monumentalità delle opere dell’arte e della letteratura esaltano il carattere dell’uomo. Il volgersi dell’arte verso il proprio creatore e verso tutte le genti divenne la dominante della formazione stilistica di tutta l’arte monumentale e di tutta la letteratura del periodo premongolico. Ne consegue l’imponenza, la solennità, la cerimonialità di tutte le forme d’arte e letteratura di questo periodo. Potremmo definire lo stile letterario dell’epoca premongolica come lo stile dello storicismo monumentale. Gli uomini di quel tempo cercavano di vedere in ogni cosa ciò che era importante per contenuto e possente nelle forme. Lo stile dello storicismo monumentale è caratterizzato dalla tendenza a considerare il contenuto su un piano enormemente distante, distante dal punto di vista spaziale, temporale (storico), gerarchico e sociale. È lo stile entro i cui confini tutto, e soprattutto il bello, appare grande, monumentale, maestoso. Matura una particolare «angolazione panoramica»; il cronista osserva la terra russa come da una grande altezza. Egli cerca di includere nella narrazione tutta la terra russa simultaneamente, e passa con facilità e leggerezza dagli eventi di un principato a quelli di un altro, situato all’estremità opposta del territorio russo. Il racconto viene trasferito continuamente da Novgorod a Kiev, da Smolensk a Vladimir e via dicendo. Questo non è dovuto esclusivamente al fatto che egli ha riunito nella sua narrazione fonti di diversa origine geografica, ma anche perché una tale «ampiezza» della narrazione rispondeva ai canoni estetici del suo tempo. È significativo il fatto che gli scrittori dei secoli xi e xii considerino la vittoria sul nemico in termini di «acquisizione di spazio», e la sconfitta come un «restringimento»;
*** La storia della cultura umana conosce periodi in cui l’uomo scopre aspetti del mondo mai notati prima. Nasce, di solito, da questi periodi, un nuovo sguardo sul mondo, una nuova concezione del mondo ed un nuovo grande stile artistico e letterario. Ogni stile che nasce rappresenta, a suo modo, un nuovo sguardo sul mondo. Non si tratta semplicemente di una generalizzazione estetica nelle opere, bensì di una nuova percezione estetica della realtà. L’uomo scopre nell’universo che lo circonda un certo sistema stilistico, scientifico, religioso, artistico, che non aveva notato prima. Alla luce di questo sistema, egli comprende tutto ciò che lo circonda, e questo schiude un periodo di gioioso stupore nei confronti del mondo. Il senso di rapimento nei confronti dell’universo diviene il tratto distintivo della concezione del mondo, e dà inizio alla fase di una nuova «formazione stilistica». Così avvenne anche nel periodo più antico della cultura anticorussa. Il cristianesimo si sostituì al paganesimo, tipico delle società tribali dell’antica Rus’, nel quale albergava il terrore nei confronti delle forze della natura, la 12
mondo visibile e quello invisibile, ciò che è creato dall’uomo e l’intero cosmo. Essa cerca con le proprie opere di colmare lo spazio, rafforzare la presenza dell’uomo nel mondo, comprendere questo mondo. L’arte è una conquista pacifica ed un rito cerimoniale del mondo circostante. Ciò è caratteristico sia dell’arte figurativa e dell’architettura che della letteratura. Le opere letterarie del primo periodo non erano chiuse in se stesse, né tantomeno isolate. Ciascuna di esse tende verso quella vicina, preesistente, nonostante la diversità dei generi. Ogni nuova opera rappresenta innanzitutto il completamento di ciò che già esiste, non da un punto di vista formale, bensì del tema, del soggetto. Essa è chiamata come a completare alcuni punti nello spazio e nella storia dell’uomo rimasti ancora oscuri, non illuminati da questi «fari». Tutto ciò era possibile perché l’immaginazione nella letteratura russa antica era estremamente limitata, la letteratura aderiva alla realtà e le dava forma. L’unità letteraria era determinata dall’unità della stessa realtà da cui questi temi venivano attinti. La letteratura aspirava ad occuparsi esclusivamente di ciò che esisteva o era esistito. Gli eroi fittizi non comparivano nella letteratura antica. Se nella produzione letteraria venivano narrati miracoli ed eventi soprannaturali, gli autori si premuravano di ascriverli alla realtà, ed il lettore era, in un certo qual modo, obbligato a prestarvi fede. Un soggetto di fantasia, in linea di principio, è chiuso in se stesso, ma quando la letteratura aspira a narrare solo la realtà, a comunicare solo fatti storicamente avvenuti e a parlare solo di eroi realmente esistiti, allora non può avere un soggetto isolato. Questa letteratura è l’unico fattore unitario della storia umana. Questo fatto costituisce di per sé il reale fondamento per la struttura d’insieme delle opere letterarie di questo periodo. Gli annali potevano riunire opere dei più svariati generi, purché tutte legate dall’unità del loro tema storico, che si collocavano, una dopo l’altra, in una successione storica. Il racconto, basato sulle tradizioni militari della campagna contro i Greci, è completato da un documento, il testo dell’accordo con i Greci. Il racconto della lotta di Jaroslav il Saggio per il trono è completato da materiali sulla vita dei suoi fratelli, e così via. Una simile costruzione non è appannaggio esclusivo della cronachistica. La percezione di tutte le opere letterarie come di un enorme insieme letterario, un insieme che si estende a tutto il mondo e all’intera sua storia, nel quale le singole opere concordano non tanto per il genere quanto per il loro tema, costituisce un tratto caratterizzante la letteratura monumentale dell’antica Rus’. La letteratura, nel suo insieme, è simile ad enormi blocchi di pietra grossolanamente sbozzati. L’estetica delle distanze, cui abbiamo accennato, obbliga anche noi ad osservare tutto il grandioso insieme della letteratura russa antica da una certa distanza, per potervi scorgere una grande unità artistica, come se si trattasse di un’unica opera di moltissimi autori e copisti. Il monumentale insieme della letteratura antica è creato «in onore dell’uomo», per glorificare il mondo, la bellezza e l’armonia dell’universo. La letteratura aveva lo scopo di circondare l’uomo di forme cerimoniali, di agghindare ed abbellire il mondo e la storia; essa risultava perciò colma di fastosità e di pomposità, era festosa ed ottimista, nonostante tutti i crimini e le disgrazie di cui è teatro il mondo e che essa si occupa di descrivere. Né la morte,
la disgrazia viene percepita come «angustia». Il cammino della vita, pieno di povertà ed afflizione, è innanzitutto un «cammino angusto». Gli innumerevoli accenni a differenti luoghi geografici, presenti nelle opere dell’epoca, sono tutt’altro che fortui ti. Lo scrittore dell’antica Rus’ cerca, in un certo senso, di riportare il maggior numero di luoghi diversi, teatro di avvenimenti storici. La terra per lui è santa, consacrata da questi avvenimenti storici. Noi siamo abituati ad associare idealmente il monumentalismo ad una sorta di immobilità, di inerzia, ma il monumentalismo dei secoli xi-xiii era un monumentalismo di movimento, un monumentalismo dinamico. Vladimir Monomach sottolinea costantemente la molteplicità e la rapidità delle sue campagne. Nella Cronaca degli anni passati il cronista parla innanzitutto delle campagne, dei movimenti delle masse degli eserciti. La rapidità degli spostamenti costituiva un simbolo del potere sullo spazio. Il monumentalismo dei secoli xi-xiii era innanzitutto una forza, e la forza era rappresentata da una massa in movimento. Caratteristica dello stile dinamico è una descrizione dinamica dei fenomeni della natura, dei fenomeni fisici fuori dal comune: i temporali (le tempeste invernali, la tempesta durante lo svolgersi di una battaglia), le invasioni di cavallette, le siccità, le inondazioni, i riflussi delle acque del Volchov, i terremoti. Ma il movimento nello spazio è anche movimento nel tempo. Da qui deriva il particolare storicismo delle concezioni estetiche dell’antica Rus’. Gli avvenimenti contemporanei vengono valutati ed assumono una particolare portata sullo sfondo degli eventi del passato. Ed ecco l’enorme interesse che gli autori manifestano per tale passato, il loro interesse per la storia. Essa costituisce il tema dominante della letteratura del periodo premongolico e della letteratura russa antica in generale. Il presente viene percepito come continuazione del passato. Il passato vive nel presente e ne fornisce la chiave interpretativa. La cerimonialità è un altro tratto distintivo dello stile dello storicismo monumentale. La letteratura della Rus’ premongolica non si limitava a dare una rappresentazione degli avvenimenti, ma li rendeva in forma cerimoniale. La Vita del santo era una rassegna solenne della sua vita, un tributo d’onore da parte dello scrittore. Come in tutte le cerimonie, la «ritualizzazione del mondo» operata dalla letteratura avviene secondo forme tradizionali e storiche. I solenni paramenti da cerimonia sono sempre tradizionali, risalgono sempre al passato. I metodi tradizionali con cui questo o quell’evento viene comunicato non rappresentano semplicemente un tributo di rispetto nei confronti del passato, ma formano anche un particolare stile; lo scrittore, facendosi quasi maestro di cerimonia, si preoccupa che ogni cosa venga esposta con le espressioni confacenti al caso, affinché lo spirito degli avvenimenti venga compreso all’interno della tradizione. Comprendere significa per lo scrittore vedere nell’oggetto della propria narrazione delle significative analogie con il passato. Lo scrittore si preoccupava altresì che il proprio eroe si comportasse in modo conveniente, che pronunciasse le parole necessarie. Un altro tratto della formazione estetica dello storicismo monumentale è il suo carattere di insieme. L’arte medioevale è un’arte sistematica e unica. Essa abbraccia il 13
se era una morte onorevole, né la sconfitta, se in essa non veniva meno il coraggio, né qualsiasi disgrazia, se veniva sopportata senza lagnarsi, erano considerate umilianti, e non venivano percepite come una caduta. La solennità della letteratura dell’antica Rus’ non era assolutamente solo un fatto esteriore. Essa rispecchiava una coscienza profonda della propria importanza, comune a tutto il popolo. Nel primo secolo della sua esistenza, la letteratura era ottimisticamente rivolta al futuro, e tale profondo ottimismo era simbolico. Lo stile dello storicismo monumentale continuò a prevalere anche dopo l’invasione mongolica; non scomparve repentinamente sostituito da un altro stile. Vi si sovrapponevano continuamente i tratti del nuovo, e tale dinamismo si estese gradualmente.
sul paganesimo russo? Naturalmente no! Il cristianesimo bizantino non si limitò ad influire sulla vita religiosa dei Russi, ma venne trasferito nella Rus’. Non si limitò a modificare, a riorganizzare il paganesimo, ma lo sostituì. Potremmo allora affermare che la letteratura bizantina «influì» sulla letteratura russa nel primo stadio della sua formazione? La questione era sicuramente più complessa. La letteratura bizantina non poté influenzare quella russa per il semplice motivo che non ne restò traccia. Rimase il folclore, rimase un’elevata cultura del discorso oratorio, ma le opere scritte in epoca antecedente la comparsa delle traduzioni sono assenti. L’influenza ebbe inizio in epoca più tarda, quando il trasferimento era già avvenuto. L’inadeguatezza del termine «influenza» si può verificare anche in varie altre sfere dell’influsso bizantino. In molti casi, perciò, è più corretto parlare non di «influenza» di singoli aspetti culturali di Bisanzio, bensì di trasferimento di tali aspetti. Anche questo trasferimento fu, tuttavia, assai singolare. Non avvenne in modo meccanico, e non pose fine alla vita dei fenomeni. Sul nuovo territorio i fenomeni trasferiti continuarono a vivere, a progredire, assumendo i tratti locali. Il trasferimento della produzione letteraria in epoca medioevale fu legato al proseguimento della sua storia letteraria, alla comparsa di nuove redazioni, talvolta al suo adattamento alle circostanze locali e nazionali. Le opere bizantine risultarono quindi, in certa misura, produzione della letteratura locale, nazionale. Naturalmente, non tutte le opere tradotte si modificarono in eguale misura. Rimasero sostanzialmente invariate o mutarono in maniera relativamente insignificante le composizioni canonico-religiose, le formule rituali della vita ecclesiastica, rigorosamente fissate. Ai traduttori ed ai trascrittori si richiedeva una particolare precisione (’ακρίβεια) per ciò che concerneva i monumenti della letteratura patristica, liturgica ed ecclesiastico-canonica. Il testo di queste opere cambiò relativamente poco. Le opere a carattere narrativo e storico si modificarono in misura assai maggiore; inoltre vi erano opere tradotte il cui legame con l’originale bizantino era sempre riconoscibile ed il testo si modificava quindi, in terra slava, non solo sotto l’influsso delle condizioni locali, ma anche in seguito a un nuovo ricorso dei copisti all’originale bizantino. Quanto detto consente di evidenziare la portata dell’influsso culturale bizantino, che non deve essere considerato semplicemente l’espressione di una «influenza», bensì un trapianto della cultura bizantina in territorio slavo. I fenomeni si trasferiscono, si trapiantano su di un terreno nuovo e là proseguono, indipendentemente, la loro vita nelle nuove circostanze, assumendo talvolta forme nuove. Non furono solo singole opere, ma interi strati culturali a trasferirsi sul territorio russo e ad iniziarvi un nuovo ciclo di sviluppo nelle condizioni di una nuova realtà storica: mutavano, si adattavano, assumevano i tratti locali, si impregnavano di nuovi contenuti e sviluppavano forme nuove. La loro esistenza poco si discostava da quella delle opere locali, tranne che per la loro maggiore complessità di legami con gli influssi secondari degli originali greci. Il fenomeno del trapianto fu possibile perché la maggior parte dei fenomeni culturali e delle opere del medioevo russo non aveva un aspetto definitivo. Il monumento letterario viveva in ogni epoca, assumendo nuove forme e colmandosi di nuovi contenuti, come un vegetale, che si tramuta sotto l’influsso delle nuove condizioni climatiche ed ambientali.
*** Come sorse la letteratura russa antica? Dove attinse le sue forze creative? La comparsa della letteratura russa, tra la fine del x e l’inizio dell’xi secolo, fu «simile a un prodigio». Ci troviamo davanti, quasi all’improvviso, opere di una letteratura matura e completa, complessa e profonda nel contenuto, che testimoniano lo sviluppo di un’autocoscienza storica e nazionale. Come avvenne il miracolo della nascita di una letteratura così matura in una Rus’ che, fino a poco prima, mancava della lingua scritta? Possiamo dire che vi fu obbligata da un concorso di circostanze eccezionalmente felici. La Rus’ adottò il cristianesimo da Bisanzio, e la Chiesa cristiana orientale permise che la predicazione cristiana ed i servizi liturgici si svolgessero nella lingua nazionale. Ecco perché nella storia della letteratura della Rus’ non si riscontra un periodo latino né uno greco. Fin dal principio, a differenza di molti paesi occidentali, la Rus’ ebbe una produzione letteraria in lingua letteraria, comprensibile al popolo, di derivazione bulgara. Un’altra circostanza molto significativa è il fatto che, nel secolo precedente la conversione della Rus’, il cristianesimo fosse già diffuso in Bulgaria, linguisticamente affine. La Bulgaria aveva già visto il secolo d’oro della propria letteratura: il secolo dello zar Simeon. La ricca letteratura bulgara, di traduzione e originale, passò nella Rus’ e divenne parte organica della letteratura russa. Non solo vennero trascritte le opere anticobulgare, ma vennero anche semplicemente divulgati i manoscritti bulgari. La lingua anticobulgara poco differiva da quella anticorussa, e si integrò nella letteratura della Rus’ come un suo strato secondario, più elevato. Le fornì, ad esempio, molti vocaboli dal significato astratto. L’unione della lingua anticobulgara a quella quotidiana dell’antica Rus’ conferì alla lingua letteraria russa un ampio bagaglio di sinonimi e ricche sfumature di significato. Nonostante l’abbondanza di opere letterarie giunte dalla Bulgaria, e in parte dalla Moravia, durante il regno di Jaroslav il Saggio si costituì nella Rus’ una scuola locale di traduzione. La cronaca così ci parla di Jaroslav: «raccolse molti scritti e tradusse dal greco nelle lettere slave». Non tutti gli influssi bizantini giunti nella Rus’ possono essere definiti delle vere e proprie «influenze». Potremmo forse dire che la religione bizantina «influì» su quella russa, che l’ortodossia bizantina esercitò «un’influenza» 14
L’indice dei tempi nuovi è la comparsa di diverse tendenze nella vita delle opere antiche. Ora l’opera antica si difende dai mutamenti: si conserva, talvolta «si restaura» se ha già subito qualche cambiamento. Il lavoro dei filologi rinascimentali, che si sforzavano di ricostruire l’aspetto originario dei monumenti letterari, è indice dell’avvento di una nuova coscienza storica. In Russia ciò corrisponde, in certa misura, al fenomeno della «correzione dei libri» del xvi e xvii secolo. Il desiderio di conservare la cultura nelle forme antiche, o addirittura di ripristinarle, di ricostruirle, è un fenomeno dei tempi nuovi, di una nuova coscienza storica. Al contrario, il perpetuarsi della vita della cultura antica nelle nuove forme, il trapianto della cultura è un fenomeno tipicamente medioevale. Il trapianto consente ai germogli della cultura antica di crescere autonomamente e creativamente sul nuovo terreno. Esso porta alla comparsa di tratti e di varianti locali nella cultura trapiantata. Questo fenomeno, di estrema importanza per la costituzione e per la formazione delle nuove culture, è segno della loro «giovinezza» e vitalità. L’influenza culturale di Bisanzio sulle regioni slave fu un caso particolare di questo trapianto della cultura bizantina e dei suoi singoli fenomeni e monumenti letterari. L’influsso è un fenomeno, come abbiamo già sottolineato, in generale più tardo, e rappresenta un’influenza che porta al cambiamento di forme e contenuti già esistenti. L’influenza è preceduta, e poi accompagnata, dal trapianto. Ne consegue che non è possibile dividere meccanicamente la letteratura russa antica (e con essa le altre letterature slave antiche) in «originale» e «tradotta». Tale divisione potrebbe risultare valida per le letterature moderne, con i loro testi chiaramente distinti. Nelle letterature slave antiche le cose sono più complesse. La cosiddetta «letteratura tradotta» costituiva una parte organica delle letterature nazionali; non aveva confini precisi che la separassero dalla letteratura «originale». I traduttori ed i copisti erano in gran parte coautori e coredattori dei testi. Il testo delle opere tradotte risultava vivo come quello degli originali. Inoltre esso era difficilmente comparabile all’originale dal quale veniva eseguita la traduzione. Il monumento letterario tradotto entrava a far parte della generale evoluzione della letteratura che lo ospitava, reagendo ai mutamenti ideologici e dei gusti letterari del nuovo ambiente. L’assenza di confini precisi tra letterature originali e «tradotte» (mettiamo questo termine tra virgolette per sottolinearne la convenzionalità) si spiegava anche con la «struttura d’insieme» della maggior parte della produzione letteraria, in cui potevano combinarsi parti originali e parti «tradotte». A questo fenomeno di trapianto dei monumenti della letteratura se ne affiancò un altro, al quale dobbiamo prestare attenzione nell’esaminare le forme comuni dell’influenza bizantina: la formazione di un mediatore letterario comune a tutti i paesi della Slavia meridionale e orientale. Il termine «letteratura di mediazione» non è nuovo nella storia della letteratura e viene solitamente impiegato per indicare la letteratura nazionale che trasmette ad un’altra letteratura nazionale, nelle sue traduzioni ed elaborazioni, dei monumenti di una terza letteratura nazionale. Proporrei di estendere tale definizione anche a quelle letterature nazionali che esistevano all’interno delle lingue sacredotte del medioevo: latino, slavo ecclesiastico, arabo, sanscrito e così via. Queste letterature sorsero simultane-
amente in molti paesi, costituirono un patrimonio comune di questi paesi, ne favorirono gli scambi letterari. Nonostante questo, la loro mediazione letteraria non ebbe una funzione secondaria, bensì fondamentale. Le opere, scritte nell’una o nell’altra delle lingue sacre o dotte, rientravano nell’unico patrimonio letterario dei monumenti letterari dei paesi unificati da queste lingue, e parteciparono alla creazione della letteratura nelle lingue nazionali. Erano le letterature comuni a una serie di paesi, con un significato internazionale straordinariamente importante. Questa letteratura di mediazione comune e sovranazionale sussisteva anche presso gli Slavi meridionali ed orientali. Essa possedeva la propria lingua sovranazionale slava ecclesiastica, comune al patrimonio letterario della Slavia meridionale ed orientale, lo stesso destino letterario ed il medesimo sviluppo. Il patrimonio letterario comune a tutti gli Slavi meridionali ed orientali spiccava per la sua originalità: non si trattava in alcun modo di una ripetizione riduttiva della letteratura bizantina. Si traducevano innanzitutto le opere canoniche ed ecclesiastiche più autorevoli, senza le quali non poteva sussistere una vita ecclesiastica. Ad esse si aggiungevano componimenti a carattere più generalmente filosofico, sulla storia mondiale e sulla storia naturale: le cronache di Giorgio Amartolos e Giovanni Malalas, la Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste, l’Esamerone, numerosi apocrifi, i Paterikì, le raccolte di detti e così via. Sulla base della letteratura bizantina si svilupparono componimenti a carattere compilativo, indispensabili per la nuova cultura cristiana degli Slavi. Non si può, con ciò, affermare che tutta la letteratura sviluppatasi nelle regioni slave fosse completamente estranea alla letteratura bizantina del suo tempo. Osserviamo, ad esempio, che i componimenti di Clemente da Ocrida spiccavano per le complesse particolarità dello stile oratorio tardo-bizantino. Nel suo insieme, la letteratura di mediazione composta da opere tradotte, compilative e originali, si distingueva per la sua straordinaria integrità e, in certa misura, per la sua compiutezza. Considerando questa letteratura di mediazione come un’unità, occorre notare la sua prossimità alla cultura bizantina, malgrado la diversità di scelte e la presenza di uno strato locale distintamente espresso. Non si trattava di una filiazione della letteratura bizantina; la letteratura di mediazione apparteneva alla cultura spirituale di Bisanzio. Possiamo, perciò, affermare che essa fu, per così dire, una parte della redazione o della recensione della cultura bizantina. La scelta non avvenne a Bisanzio, bensì nelle stesse regioni slave, ed era determinata non tanto dalla struttura della letteratura bizantina contemporanea, quanto dalle esigenze delle regioni slave. Si trattava di un processo di assimilazione-lotta, nel quale agivano forze di attrazione e di repulsione. Alla creazione della letteratura di mediazione non concorsero solo i capolavori greci, ma anche le traduzioni dall’ebraico antico1, dal latino2 e dal siriaco3. Malgrado la mancanza di una mediazione greca nella traduzione dei capolavori di queste lingue, essi sono comunque da considerare come una parte della recensione slava della cultura bizantina, poiché tutti provenivano dalla poliglotta Bisanzio, e rispondevano allo spirito di questa cultura. Non vennero semplicemente trapiantate delle opere isolate, ma la cultura nella sua globalità, con le concezioni religiose, estetiche, filosofiche e giuridiche che le sono proprie. Nelle regioni slave, sulla base dei capolavori trapiantati e dei propri, si compì il processo 15
Tavole a colori I
1 2
4
3
5
1. Vangelo di San Giorgio (1120-1128), frontespizio. Il libro fu scritto a Kiev su commissione del monastero di San Giorgio di Novgorod. L’ornamento in cinabro anticipa la legatura teratologica del xiv secolo. 2. Vangelo di Ostromir (1056-1057), fol. 290v.; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica. Il libro fu compilato dal diacono Grigorij a Kiev per il governatore Ostromir di Novgorod, fiduciario del Gran principe Izjaslav. È il più antico monumento dell’arte libraria russa, strettamente legato alla tradizione bizantina. 3. Vangelo di Ostromir, fol. 60v.
6. Izbornik di Svjatoslav del 1073, frontespizio; Mosca, Museo storico. L’Izbornik (Raccolta) è un esempio di assimilazione nella Rus’ della cultura dotta bizantina attraverso una letteratura di mediazione. L’operà riproduce una raccolta tradotta tra la fine del ix e l’inizio del x secolo dal greco in bulgaro per lo zar bulgaro Simeon. Le vignette ornamentali, le iniziali e le illustrazioni del libro sono caratterizzate da una crescente stilizzazione. 7. L’evangelista Luca, dal Vangelo di Ostromir; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica. 8. L’evangelista Marco, dal Vangelo di Ostromir; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica.
4. Madre di Dio in trono, dal Salterio di Egbert, Cividale, Museo archeologico. Questo manoscritto è una incomparabile testimonianza artistica dei legami internazionali della Rus’ di Kiev. Esso fu redatto alla fine del x secolo per incarico dell’arcivescovo Egbert di Treviri, e più tardi appartenne a Gertrude, moglie del principe Izjaslav Jaroslavič. Durante il suo regno a Vladimir-Suzdal’ il principe mantenne vivaci contatti con la Germania e con papa Gregorio vii. A quel tempo (tra il 1078 e il 1087) al Salterio furono aggiunte cinque miniature che presentavano una singolare fusione di tratti bizantini, romanici e russi. La Madre di Dio del tipo «delle Grotte» è dipinta in maniera ampia ed energica. Non è escluso che questa immagine, particolarmente venerata a Kiev, sia da attribuire ad un artista russo. La miniatura che rappresenta l’investitura di Jaropolk, figlio ed erede di Izjaslav, si distingue per la maniera calligrafica e l’accostamento della tradizione pittorica orientale ed occidentale con prevalenza di quest’ultima. 5. Cristo in gloria che incorona il principe Jaropolk e la principessa Irina, dal Salterio di Egbert, Cividale, Museo archeologico.
9. Služebnik (libro di preghiere) di Varlaam Chutyn’ (fine xii-inizio xiii secolo), frontespizio. Il manoscritto appartiene alla scuola di PolockSmolensk. 10. Vangelo di Mstislav (1103-1117), frontespizio; Mosca, Museo storico. Il manoscritto è stato eseguito a Novgorod da Aleksij, figlio del pope Lazar’, per il principe Mstislav di Novgorod. Le sue miniature imitano il Vangelo di Ostromir, recando tuttavia anche tratti della scuola locale: contrasto marcato, rozza espressività, tensione. Queste raffigurazioni vengono spesso paragonate alle energiche immagini della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione sulla Neredica.
16
6
7
8
9 10
di formazione di una particolare letteratura, comune a tutti gli Slavi meridionali ed orientali e, inizialmente, anche occidentali. Nel processo di formazione di questa letteratura di mediazione si verificò una scelta di capolavori di diversi paesi, e tali capolavori divennero patrimonio non di un singolo paese, ma di tutte le regioni slave meridionali ed orientali. Ciò avvenne tanto più facilmente perché la stessa cultura bizantina si distingueva anche in patria per il suo carattere internazionale, inoltre gli Slavi ebbero un ruolo determinante anche nella sua formazione. Nella creazione della letteratura di mediazione slava, i Bulgari ebbero un’importanza fondamentale, ma non furono i soli: il patrimonio della letteratura di tutti gli Slavi si integrò con traduzioni ed opere di origine russa, serba e così via. Sulla base dei componimenti bizantini si formarono dei componimenti slavi propri, a carattere compilativo (ad esempio il Prologo). Entrarono a far parte del patrimonio comune della letteratura slava alcune Vite di santi slavi noti in tutte le regioni ortodosse, e i migliori sermoni (come quelli di Kirill di Turov). È impensabile che nel corpo comune della letteratura slava fossero inclusi solo componimenti legati, in un modo o nell’altro, alla Chiesa. I traduttori slavi avevano tradotto opere a carattere storico e narrativo, che erano divenute patrimonio della letteratura slava meridionale ed orientale. Tale letteratura slava unitaria possedeva, come abbiamo già ricordato, anche una lingua unitaria. Riguardo alla letteratura di mediazione, bisogna considerare che essa non aveva un’esistenza propria, ma era un aspetto della cultura di mediazione. I singoli contatti diretti tra paesi (in particolare i contatti diretti tra i vari paesi slavi e Bisanzio) devono essere considerati nel contesto della cultura di mediazione e di tutti i sistemi di relazioni tra paesi ove tale cultura di mediazione esista. La cultura di mediazione della Slavia meridionale ed orientale rappresentava anche una sorta di «recensione» (redazione) della cultura bizantina. Qualunque occasione privata di contatto (il passaggio di uno scrittore o di un pittore, il trasporto o il trasferimento di un’icona) si compiva secondo le necessità e sullo sfondo dell’esistenza di una cultura di mediazione comune. Nell’organico della recensione slava della cultura bizantina non entravano soltanto i valori spirituali. Esisteva un’organizzazione ecclesiastica comune, dei centri comuni nelle relazioni sociali tra gli Slavi: i monasteri di Gerusalemme, del Sinai, di Costantinopoli, Salonicco, e in seguito della Bulgaria e via dicendo, e comune era la composizione del clero che serviva, nei primi tempi, diverse regioni slave e che, talvolta, compiva frequenti spostamenti da un paese all’altro. Oltre ad una parte del clero, viaggiavano maestri, traduttori, uomini di lettere. Il carattere mobile, quasi «nomade» dell’intelligencija feudale si conservò molto a lungo, anche nel xiv e xv secolo. Era tipico del medioevo, tuttavia non fu l’unico tratto a determinare gli scambi culturali. Gli Slavi non avevano rapporti diretti con i Bizantini, ma tutto avveniva attraverso la cultura di mediazione comune, nella cui formazione avevano avuto un ruolo di primaria importanza i Bulgari, 1, ed in primo luogo Cirillo e Metodio, creatori di una scrit11 tura comune a tutta la Slavia e propagatori di una lingua letteraria comune a tutti gli Slavi ortodossi: l’anticobulgaro nelle sue basi essenziali. I Russi integrarono le loro traduzioni con ciò che non avevano trovato in Bulgaria e viceversa: le traduzioni rus-
11. Cirillo e Metodio creano l’alfabeto slavo; traduzione in lingua slava dell’Apostolo e del Vangelo (898), dalla Cronaca di Radziwiłł, fol. 13.
se entrarono a far parte del patrimonio della letteratura slava meridionale. Alcuni capolavori vennero tradotti e sorsero in modo collegiale; così avvenne, ad esempio, per il Prologo. In questo lavoro letterario comune, fin dal principio ebbero un ruolo fondamentale i maggiori centri di scambio degli Slavi. La Bulgaria fornì alla Rus’ non solo l’insieme relativamente completo dei testi liturgici e di quelli legati alla concezione cristiana del mondo, ma anche la lingua letteraria nella quale questi testi erano redatti, e in parte anche i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica. La cultura di mediazione agì da tramite tra Bisanzio e la Slavia meridionale ed orientale e mediò le relazioni culturali interne degli Slavi stessi. Fu una cultura slava, che è possibile, però, considerare come una redazione (o «recensione») slava della cultura bizantina. Tale cultura bizantina, oltre i confini di Bisanzio, venne ricostruita su nuove basi e secondo nuove forme a tutti i livelli del pensiero e della creazione. La recensione slava della cultura bizantina sorse perciò, come abbiamo osservato, non solo sulla base delle opere provenienti da Bisanzio, ma fu determinata anche dalle proprie esigenze interne. Il trapianto della cultura bizantina, come tutte le operazioni di questo tipo, non fu affatto un suo trasferimento meccanico in nuove condizioni. Esso fu legato ad un mutamento della cultura, talvolta decisamente sostanziale. Non è possibile considerare uguali la cultura bizantina in patria e la cultura bizantina che venne trapiantata nelle terre slave. Gli elementi della cultura bizantina, trapiantati nella Slavia, modificarono sensibilmente tale cultura bizantina così come si presentava in patria. La cultura bizantina entro i confini della Slavia traeva origine dalla cultura di Bisanzio, si sviluppò sulla sua base, ma non era identica ad essa. La recensione slava della cultura bizantina ebbe, perciò, un volto proprio, che fu quello di una nuova unità di religione, di visione del mondo e della società, di letteratura, di pittura e di architettura. La mediazione di questa particolare cultura risulta particolarmente chiara laddove essa era legata alla lingua, e meno lampante dove il linguaggio internazionale dell’arte (pittura, architettura, arti applicate) permetteva di stabilire dei legami diretti con Bisanzio anche a prescindere da questa mediazione. Per questo il più elevato indice della cultura di mediazione è la letteratura che di essa fa parte. Il ruolo di mediazione della letteratura emerge con particolare evidenza nelle recensioni slave della cultura bizantina. Con il suo aiuto si realizzarono i rapporti all’interno delle letterature slave. I Paterikì, il Prologo, i \et’i minei, i singoli testi raccolti in un unico corpo (Libro del trionfo, Crisostomo), le Vite dei santi slavi, i vari Canti slavi, i 25
sermoni e le orazioni (ad esempio di Kirill di Turov), composti in terra slava, accanto alle opere di pura traduzione, svilupparono in ambiente slavo la ricchezza della cultura religiosa bizantina e furono utili al rapporto tra le letterature slave, allo scambio dei soggetti, dei temi, dei motivi e dei metodi letterari, dei procedimenti di generalizzazione artistica. La letteratura bulgara originale era rappresentata nella Rus’ dai componimenti di Cirillo e Metodio, Clemente da Ocrida, Konstantin di Preslav, Ioann esarca della Bulgaria, del prete Kozma, del monaco Chrabr ed altri. Ma tutto ciò era letteratura «di recensione slava della cultura bizantina», letteratura di mediazione, priva di una solida base nazionale, capace di rispondere alle esigenze degli altri paesi slavi. Le scuole locali (di architettura, pittura, artigianato, letteratura e via dicendo) non vanno considerate come scuole locali dell’arte bizantina. Le scuole locali di pittura e di artigianato vanno considerate come scuole locali della cultura slava di mediazione che abbiamo esaminato. Esse erano parte di un tutto, ed i loro rapporti con le corrispondenti forme della cultura bizantina non erano indipendenti gli uni dagli altri. Non si realizzavano separatamente, «singolarmente». Anche quando fosse possibile prendere in esame l’influenza diretta della comparsa della cultura bizantina sull’una o l’altra regione della Slavia, sorvolando sulla cultura di mediazione, nondimeno questa influenza si manifesterebbe e si organizzerebbe, alla fine, con il proprio carattere, le proprie esigenze e necessità. I singoli fenomeni hanno luogo in seno alla collettività, hanno un terreno comune, un certo «ambiente». Nella forma russa dell’artigianato, della pittura, dell’architettura, della letteratura si esprimevano in modo significativo le caratteristiche nazionali comuni a tutte le forme di cultura. Così come unitariamente si presentavano anche le caratteristiche locali di tutte le forme di arte e di letteratura serba e bulgara. La spiegazione della rapida comparsa nella Rus’ di una letteratura matura, non risiede solo nei legami della regione con letterature forti ed antiche, non solo nel trasferimento di intere opere e manoscritti dalla Bulgaria. Il fatto essenziale era che la stessa terra russa era ben preparata a creare l’arte della parola. I «doni dei Magi» di una terra lontana furono il preludio ai «doni dei propri pastori», rappresentanti dell’innata saggezza popolare. Al tempo della comparsa nella Rus’ delle opere letterarie bizantine e bulgare, nell’immenso territorio russo l’arte oratoria aveva già raggiunto un buon grado di sviluppo. Nella Cronaca primitiva russa si riflettevano le tradizioni orali, le leggende toponomiche, le canzoni storiche, i canti di gloria ai principi, proverbi e detti. Oltre a questi ultimi (proverbi e detti), le opere di folclore portarono nella cronaca solo i loro soggetti, ma anche questo contribuì a testimoniare la ricchezza della lingua artistica orale. Nella Cronaca si riflettevano la precisione delle singole formule e l’alto livello di autocoscienza storica. Ricordia5 mo, ad esempio, il racconto della morte di Oleg a causa del suo cavallo, la narrazione della vendetta di Ol’ga sui Drevljani, delle campagne di Svjatoslav e molte altre. Ma non si tratta solo di folclore. Nella Cronaca si riflettevano le diverse forme della lingua parlata. I discorsi brevi con i quali i principi si rivolgevano alla propria družina prima di una battaglia non testimoniano solo un senso dell’onore e del dovere militare altamente svilup-
pati, bensì anche la capacità di esprimere in poche parole l’incoraggiamento e l’entusiasmo per la guerra. «Già per noi è tempo di morire; comportiamoci coraggiosamente, fratelli e družina!», o «Già da qualche parte questi figli, volontariamente o involontariamente ci sono divenuti nemici; possiamo non umiliare la terra russa ma giacciano le nostre ossa, poiché i morti non hanno vergogna. Se correremo, saremo nella vergogna. Non dobbiamo fuggire ma resistere saldamente, e io camminerò davanti a voi: se la mia testa giacerà, allora badate a voi stessi». Questo il significativo discorso di Svjatoslav. Non meno espressivi i discorsi proferiti dai principi al veče, o quelli dei rappresentanti del popolo, rivolti al principe. Ecco come si espresse Vladimir Monomach di Kiev nel 1097: «Vi preghiamo, te o principe, e i tuoi fratelli, non portate alla rovina la terra russa. Se combatterete tra di voi i pagani si rallegreranno, e prenderanno la nostra terra che fu conquistata dai vostri padri e dai vostri avi con grande fatica e coraggio, battendosi sulla terra russa e scoprendo altre terre, e voi volete rovinare la terra russa». Inviando i messi, i principi ordinavano loro di pronunciare questo o quel discorso. Naturalmente, questi discorsi dovevano essere brevi, imprimersi nella mente ed essere ricchi di contenuto. Infine, le forme della procedura giudiziaria, delle istituzioni legislative della Legge russa dovevano anch’esse essere brevi, chiare, univoche ed esplicite. In una parola, le forme molteplici e ricche della vita sociale e dei discorsi pubblici inducevano a valutare la precisione delle parole, insegnavano a servirsene con cura e parsimonia, insegnavano l’alta regola di un senso sociale evoluto in tutti gli aspetti della vita pubblica. Non a tutto il popolo toccava in sorte una tale capacità di elevarsi al di sopra della limitatezza del nazionalismo con un alto senso patriottico. Ciò era dovuto alle particolari forme di esistenza dello stato russo. Nell’unione della Rus’ entravano con pari diritti anche le tribù della Slavia orientale e i popoli ugro-finnici: Meri, Vesi e \udi. A Kiev esisteva la corte \udin, a Novgorod un intero quartiere \udin. Nella compagine dell’esercito russo che marciò su Costantinopoli, Varjaghi e \udi combatterono fianco a fianco con gli Slavi. Grazie al proprio carattere socievole, gli antichi abitanti della Rus’ occuparono interi insediamenti a Costantinopoli, nel Chersoneso greco in Crimea, nella penisola Tichan’ sul lago Balaton, in Pannonia e in molti altri luoghi. Le genti nomadi di origine turca si stabilirono liberamente sul territorio dell’antica Rus’, dove si convertirono al cristianesimo. La Rus’ non era separata dalla muraglia cinese né dai vicini meridionali, né da quelli occidentali, orientali o settentrionali. Era una potenza mondiale e pacifica, che non temeva di venire assimilata dalle culture contigue. La formazione di un contenuto ideologico della letteratura russa fu agevolata anche dalle opere della letteratura bulgara, che erano state trasferite nella Rus’ nei secoli x e xi. I creatori del sistema di scrittura bulgaro e della letteratura bulgara, i dotti fratelli Cirillo e Metodio ed i loro discepoli, non si sentivano solo bulgari, ma rappresentanti di tutti gli Slavi. La loro predicazione era rivolta a tutte le popolazioni slave. Questa ampia coscienza di essere «un popolo tra gli altri popoli» fu propria anche di tutta la produzione della letteratura russa antica: la Cronaca degli anni passati, le Vite dei primi santi russi, i Paterikì del Mo26
La composizione tripartita del Discorso, evidenziata nel titolo, consente uno sviluppo organico del tema principale: la glorificazione della terra russa, del suo kagan (condottiero) e battezzatore Vladimir, nonché di suo figlio, il principe Jaroslav. Ciascuna parte scaturisce agilmente dalla precedente, limitando gradualmente il tema, logicamente, secondo le regole tipiche del pensiero medio evale, passando dal generale al particolare, dalle domande generali sull’universo alle sue particolari manifestazioni, dall’universale al nazionale, al destino del popolo russo. Il principale pathos del Discorso risiede nella sistemazione degli avvenimenti della storia universale in una catena gerarchica, nello spirito della schematizzazione medioevale. La prima parte dell’opera tocca il problema fondamentale della concezione storica del medioevo, quello cioè della correlazione dei due Testamenti, l’Antico «la Legge» ed il Nuovo «la Grazia». Ilarion considera questo rapporto reciproco secondo lo schema simbolico abituale della teologia cristiana, secondo il coerente sviluppo di un parallelismo simbolico. Gli schemi simbolici di questa prima parte sono di tipo tradizionale; la successione delle immagini è presa a prestito dalla letteratura teologica bizantina. In particolare, ripetutamente si richiamava al Sermone di Efrem il Siro Della Trasfigurazione4. Tuttavia l’originalità dell’opera sta proprio nella scelta di queste contrapposizioni simboliche tradizionali. Ilarion crea una propria concezione patriottica della storia universale, che è di per sé singolare, e gli offre la possibilità di comprendere la missione storica della terra russa. Egli non perde mai di vista il proprio intento: passare successivamente alla glorificazione della terra russa e del suo «illuminatore» Vladimir. Ilarion presenta insistentemente il carattere universale del cristianesimo del Nuovo Testamento («la grazia») paragonato alla limitatezza nazionale dell’Antico Testamento («la legge»). La sottomissione alla legge nell’Antico Testamento era legata alla schiavitù, mentre «la grazia» (il Nuovo Testamento) alla libertà. La legge viene paragonata all’ombra, alla luce della luna, al freddo notturno; la grazia allo splendore del sole, al tepore. Anticamente, in epoca veterotestamentaria, il rapporto degli uomini con Dio si era instaurato secondo il principio della schiavitù, come un assoggettamento coatto «alla legge», mentre l’epoca del Nuovo Testamento risponde al principio della libertà, «della grazia». L’epoca dell’Antico Testamento è simboleggiata dalla figura della schiava Agar, quella del Nuovo Testamento dalla libera Sara. In questa contrapposizione tra Antico e Nuovo Testamento, Ilarion attribuisce un particolare significato all’elemento nazionale. L’Antico Testamento aveva un significato provvisorio e limitato. Il Nuovo, invece, introduce tutti gli uomini nell’eternità. L’Antico Testamento era riservato al popolo ebraico, mentre il Nuovo possiede una portata universale. Ilarion sostiene che il periodo in cui la religione era riservata ad una sola popolazione sia terminato; è giunto ora il tempo della libera iniziazione al cristianesimo di tutte le genti, senza eccezioni: tutti i popoli sono uguali nel proprio rapporto con Dio. Il cristianesimo, come l’acqua del mare, ha coperto tutta la terra, e nessun popolo può vantarsi della propria superiorità in fatto di religione. Ilarion presenta la storia universale come una graduale espansione del cristianesimo tra tutte le genti del globo, comprese le popolazioni russe. Nell’esposizione di tale teoria, egli fa ricorso a innumerevoli parallelismi tratti dalla Bibbia, e sottolinea ostinatamente che per la nuova fede
nastero delle Grotte di Kiev, il Pellegrinaggio dell’igumeno di \ernigov, Daniil, in terra santa e molti altri. Lo straordinario senso di unità del popolo russo nei confronti di tutta l’umanità, pur assumendo forme diverse, fu la peculiarità essenziale della letteratura russa per tutta la durata della sua esistenza. *** Soffermiamoci ora su alcune opere della letteratura russa antica nei primi secoli della sua esistenza. Il Discorso sulla Legge e la Grazia di Ilarion Già nel x secolo fecero la loro comparsa delle opere russe originali, sia pure su base cristiana. L’adozione ufficiale della religione cristiana da parte dello stato russo, avvenuta nel 988, richiese non solo la traduzione di molti libri ecclesiastici e per la formazione religiosa, ma anche la redazione di opere propriamente russe, che soddisfacessero le necessità della Chiesa locale. Una tra le prime di tali composizioni fu redatta palesemente sulla base dell’opera tradotta Il discorso del filosofo, e inserita in seguito nel corpo della più antica cronaca russa. Il discorso del filosofo è un’esposizione della storia universale dal punto di vista cristiano. Redatta in forma discorsiva, si rivolge al principe Vladimir Svjatoslavi/ per convincerlo ad abbracciare il cristianesimo. Gli annali affermano che, proprio sotto l’influsso di questa orazione, Vladimir abbracciasse la fede cristiana. Questo fatto conferiva allo scritto una particolare autorità agli occhi di tutti i sudditi russi di Vladimir. Il discorso del filosofo è un’opera di alto valore letterario. La storia del mondo vi viene esposta in modo succinto e preciso. Vi si parla solo dei temi essenziali dell’Antico e del Nuovo Testamento. L’esposizione della storia universale del Discorso del filosofo colpisce ancora oggi per il suo «carattere pedagogico», tuttavia il Discorso non comprendeva il significato della conversione al cristianesimo del popolo russo. Sotto questo aspetto è particolarmente significativo il Discorso sulla Legge e la Grazia del metropolita Ilarion. L’opera si rivolge tematicamente alla Rus’ del futuro, che anticipa in perfezione formale. Il tema del Discorso è quello dell’eguaglianza delle genti, che si contrapponeva nettamente alla teoria medioevale dell’elezione divina di un solo popolo, alla teoria dell’impero o della Chiesa universale. Ilarion testimonia che con il Vangelo ed il battesimo Dio «ha salvato tutte le genti», glorifica il popolo russo tra i popoli di tutto il mondo e polemizza aspramente con la dottrina del diritto esclusivo all’elezione divina da parte di un solo popolo. Nel Discorso queste idee vengono espresse con chiarezza plastica ed una singolare integrità costruttiva. La precisione e la chiarezza del disegno apparivano distintamente dal titolo stesso del Discorso: Della Legge data per mezzo di Mosè, nonché della Grazia e della Verità che sono venute per mezzo di Gesù Cristo. Vi si dice altresì che la legge è passata, ma la grazia e la verità hanno colmato tutta la terra, e la fede si è diffusa tra tutte le nazioni, fino alla nostra nazione russa. Vi è poi la lode al principe nostro Vladimir, dal quale siamo stati battezzati, e la preghiera a Dio da parte di tutta la terra nostra. 27
sono necessari uomini nuovi. «Ed era cosa degna che la grazia e la verità risplendessero sugli uomini nuovi, infatti, come ha detto il Signore: Né si mette vino nuovo, ossia la dottrina della grazia, in otri vecchi… per un nuovo insegnamento sono necessari otri nuovi, un nuovo popolo». Secondo lo studioso del Discorso I.N. Ždanov, il metropolita Ilarion utilizza le immagini del giudaismo, dell’Antico Testamento, solo per «palesare con l’aiuto di queste immagini il proprio pensiero fondamentale sulla vocazione dei pagani: per il vino nuovo erano necessari otri nuovi, per la nuova dottrina servivano nuove genti, nel cui numero erano comprese anche le popolazioni russe»5. Dopo aver paragonato il carattere universale del cristianesimo a quello strettamente nazionale del giudaismo e sottolineato il significato dei nuovi popoli nella storia della dottrina cristiana, Ilarion passa, liberamente e logicamente, alla seconda parte del Discorso, restringendo il tema alla descrizione della diffusione del cristianesimo nella terra russa: «la fede apportatrice di grazia si è diffusa su tutta la terra ed è giunta fino al nostro popolo russo… Anche noi, dunque, con tutti i cristiani glorifichiamo la santa Trinità». La Rus’, al pari delle altre nazioni, non ha bisogno della tutela di nessuno: «Il Dio buono ha mostrato misericordia verso tutti i popoli e non ci ha disprezzati; per sua volontà ci ha salvati e ci ha condotti alla conoscenza della verità». Il futuro appartiene al popolo russo, che è destinato ad una grande missione storica: «Su di noi si è adempiuto quanto era stato detto dei popoli: il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio» (Is 52,10). Il pathos patriottico e polemico del Discorso aumenta con la descrizione dei successi del cristianesimo tra le popolazioni russe. Con le parole delle Scritture, Ilarion invita tutte le genti, tutti i popoli a lodare Dio. Che tutte le genti onorino Dio e si rallegrino tutte le nazioni, genti tutte acclamate a Dio. Da Oriente a Occidente si lodi il nome del Signore; su tutti i popoli si innalza il Signore. L’entusiasmo patriottico di Ilarion raggiunge i più alti gradi di tensione nella terza parte del Discorso, dedicata all’esaltazione di Vladimir i Svjatoslavi/. Se la prima parte del Discorso trattava del carattere universale del cristianesimo, e la seconda del cristianesimo russo, nella terza si innalza l’elogio del principe Vladimir. Il passaggio organico dalla seconda alla terza parte è funzionale all’esposizione della concezione teologica medio evale, secondo cui ad ogni paese del mondo corrispondeva, come guida, la figura di un apostolo. Anche nella Rus’ vi è qualcuno da glorificare, da riconoscere come propria guida: «Anche noi, dunque, per quanto ne siamo capaci, renderemo una lode, ancorché piccola, al nostro maestro e precettore, che compì gesta grandi e magnifiche, il grande principe della terra nostra Vladimir». La terra russa anche prima di Vladimir era gloriosa tra le nazioni, anche prima di Vladimir vi erano stati principi insigni; Vladimir era «nipote di Igor’ il vecchio, figlio del valoroso Svjatoslav». Entrambi i principi, «regnando al tempo loro, furono famosi per coraggio e valore in molte terre, e sono ancor oggi ricordati e glorificati per le loro vittorie e la loro forza». Ilarion eleva l’autorità della terra russa tra le nazioni del mondo. I principi russi che avevano preceduto Vladimir non avevano regnato su di una terra ostile e sconosciuta, ma sulla terra russa, rinomata e conosciuta fino agli estremi confini del mondo. Vladimir era sempli-
cemente «uomo glorioso, progenie di uomini gloriosi», «nobile nato da nobili». Ilarion passa poi a descriverne i meriti militari; Vladimir «divenne sovrano della terra sua e sottomise i popoli circostanti, alcuni in modo pacifico e altri, che recalcitravano, con la spada». La forza e la potenza dei principi russi, gloria della terra russa, il «potere assoluto» di Vladimir ed i suoi successi militari sono descritti da Ilarion con uno scopo ben preciso: mostrare che l’adozione della fede cristiana da parte del potente Vladimir non fu costrizione ma il risultato di una libera scelta. Dopo aver descritto i tratti salienti del battesimo libero e spontaneo di Vladimir, e dopo aver considerato ogni possibile congettura sul ruolo educatore dei Greci, Ilarion passa a trattare del battesimo della Rus’, attribuendone la realizzazione esclusivamente al merito di Vladimir, ed escludendo la partecipazione dei Greci. Sottolineando che il battesimo della Rus’ fu opera esclusivamente del principe Vladimir, nel quale «la vera fede si univa all’autorità», Ilarion polemizza apertamente con il punto di vista dei Greci, che si ascrivevano il merito della conversione di un popolo «barbaro». Ilarion passa quindi alla descrizione delle principali qualità e dei meriti di Vladimir, con l’evidente intento di dimostrare la necessità della sua canonizzazione. Ilarion porta vari argomenti a favore della santità di Vladimir: credeva in Cristo pur non avendolo visto, elargiva sempre elemosine, lavando così i suoi peccati passati; battezzò la Rus’, popolo glorioso e forte, ed in questo fu pari a Costantino, che aveva convertito i Greci. Il confronto dell’opera di Vladimir in favore della Rus’, con quella di Costantino per i Greci-romei, è rivolto contro le obiezioni greche alla canonizzazione di Vladimir: un’uguale opera esige pari ammirazione. Il paragone tra Vladimir e Costantino viene sviluppato in modo particolarmente ampio da Ilarion, che indica poi il prosecutore dell’opera di Vladimir nel figlio Jaroslav, enumerandone i meriti e le opere. Il pathos patriottico di questa terza parte, che esalta Vladimir, supera ampiamente quello della seconda, e raggiunge il più alto grado di tensione quando, dopo aver ampiamente descritto l’opera educatrice di Vladimir, la nuova Rus’ e la «gloriosa città» di Kiev, Ilarion si rivolge a Vladimir con l’esortazione, quasi una supplica, ad alzarsi dalla tomba e guardare i frutti della sua azione gloriosa: «Sorgi dalla tomba, degno sovrano, sorgi, scuoti via il sonno! Non sei morto, ma dormi fino alla resurrezione di tutti. Sorgi! Tu non sei morto. Non è da te morire, poiché hai creduto in Cristo, vita del mondo. Scuoti via il sonno, alza gli occhi e guarda: il Signore, dopo averti reso degno di onore nei cieli, nel tuo figlio non ti ha lasciato privo di memoria sulla terra». Alla terza ed ultima parte del Discorso segue, in alcuni manoscritti, la preghiera a Vladimir, pervasa di entusiasmo e di idee patriottiche e composta dallo stesso Ilarion: «E fino a che il mondo si reggerà, non abbattere su di noi assalti e tentazioni, e non consegnarci nelle mani di gente straniera, affinché la tua città (cioè Kiev) non sia chiamata città prigioniera, e il tuo gregge non sia detto forestiero in una terra non sua». Se questa preghiera conclusiva costituisse una parte organica del Discorso, o se venne invece composta separatamente, non è ancora del tutto chiaro, ma in ogni caso l’unità ideale con il Discorso è evidente. Dunque il vero fine del Discorso non sta nella comparazione dogmatico-teologica tra Antico e Nuovo Testamento, come ritenevano alcuni studiosi di quest’opera6. 28
Il tradizionale confronto dei due Testamenti è solo la base su cui è costruita la sua definizione della missione storica della Rus’. Secondo l’espressione di V.M. Istrin, si tratta di un «trattato accademico in difesa di Vladimir»7. Ilarion glorifica la Rus’ ed il suo «illuminatore» Vladimir. Seguendo i grandi educatori bulgari, Cirillo e Metodio, Ilarion esprime la teoria della parità di tutti i popoli, e la sua concezione della storia universale come graduale e identica iniziazione di tutte le genti alla cultura cristiana. Un ampio universalismo caratterizza l’opera di Ilarion. La storia della Rus’ e del suo battesimo viene descritta come lo sviluppo logico e consequenziale degli avvenimenti mondiali. Quanto più Ilarion restringe il proprio tema, passando gradualmente dal generale al particolare, tanto più aumenta la sua ispirazione patriottica. Così, tutto il Discorso di Ilarion rappresenta dall’inizio alla fine lo sviluppo armonioso ed organico di un’unica concezione patriottica. Va notato che tale concezione non presenta alcuna restrizione di tipo nazionalistico. Ilarion sottolinea continuamente come la popolazione russa non sia che una parte dell’umanità. L’unione del pensiero teologico e della concezione politica conferisce al Discorso una originalità tipologica e ne fa un’opera unica nel suo genere.
rion, che già era sacerdote della chiesa di corte di Jaroslav il Saggio a Berestovo, ma che evidentemente prendeva già parte alle celebrazioni liturgiche della Sofia. Se il Discorso fu realmente proferito nella Sofia, allora possiamo comprenderne i giudizi entusiastici sull’attività edilizia di Jaroslav e sulla Sofia stessa. Ilarion la definisce «fonte di stupore e di lode… e non si trova nulla di simile ad essa in tutto il paese di mezzanotte, dall’Oriente all’Occidente». Si potrebbe precisare maggiormente il luogo che vide Ilarion proferire il proprio sermone. «È noto che a Bisanzio, l’imperatore e l’imperatrice seguivano i servizi liturgici nel coro delle loro chiese di corte, l’imperatore a destra e l’imperatrice nel lato sinistro»14. Si può ritenere certo che nella Rus’ ciò avvenisse a partire dalla metà del xii secolo. Nel coro, i principi ricevevano l’eucaristia, qui venivano organizzati i ricevimenti solenni, si conservavano i libri ed il tesoro. Ecco perché, fintanto che nella Rus’ si mantenne questa usanza, i cori delle chiese principesche si distinguevano per l’ampiezza delle loro dimensioni, erano splendidamente illuminati e decorati con affreschi di soggetto adeguato. Evidentemente proprio qui, nel coro, venne proferito il Discorso di Ilarion, al cospetto di Jaroslav, di Irina e degli amanuensi che vi lavoravano. Gli affreschi della Sofia e, in modo particolare dei suoi cori, rappresentano un curioso commentario al Discorso di Ilarion. Verso i secoli x e xi gli affreschi delle chiese formavano un complesso sistema di raffigurazione del mondo, della storia universale e della «Chiesa invisibile». Tutto il tempio si presentava come una sorta di microcosmo, che riuniva in sé i tratti fondamentali della struttura del mondo simbolica della teologia cristiana. Questo vale, in generale, anche per la chiesa della Sofia di Kiev. Gli affreschi ed i mosaici incarnavano l’intero disegno divino del mondo, tutta la storia universale del genere umano. Alla metà del secolo questa storia veniva solitamente rappresentata come la storia dell’Antico e del Nuovo Testamento. La loro comparazione è il tema principale dei dipinti della Sofia, nonché il tema iniziale del Discorso di Ilarion. Di conseguenza, proferendo il proprio sermone, Ilarion prese direttamente lo spunto dal tema delle raffigurazioni che lo circondavano. Gli affreschi ed i mosaici della Sofia di Kiev potevano illustrare chiaramente la predica di Ilarion. Gli affreschi dei cori erano, da questo punto di vista, particolarmente adatti. Proprio qui, nei cori, erano raffigurate quelle scene dell’Antico Testamento i cui personaggi
*** A.A. Šachmatov chiarì il nesso esistente tra l’inizio della cronachistica russa e la costruzione della chiesa della Sofia a Kiev8. Un legame analogo può essere stabilito tra il Discorso di Ilarion e la Sofia. L’architettura dell’epoca di Jaroslav è un anello essenziale nella catena delle correlazioni ideologiche dei fenomeni culturali all’inizio dell’xi secolo. Il Discorso di Ilarion venne composto tra il 1037 ed il 1050. M.D. Priselkov restringe il periodo agli anni 10371043, poiché ritiene, probabilmente a ragione, che il carattere ottimistico del Discorso testimonierebbe una composizione antecedente la sfortunata campagna di Vladimir Jaroslavi/ contro Costantinopoli del 10439. È difficile supporre che il Discorso di Ilarion, il cui significato equivaleva a quello di un autentico atto di stato, a una dichiarazione statale, non venisse proferito nel nuovo centro appena fatto erigere da Jaroslav nella metropolia russa indipendente della Sofia. Il Discorso era certamente destinato ad essere pronunciato nella chiesa appena costruita, la cui fastosità strabiliava i contemporanei. Contro la proclamazione del Discorso nella chiesa della Decima, come già era stato sottolineato dagli studiosi, depone il passo del Discorso in cui Ilarion, parlando di Vladimir, menziona la chiesa della Decima come estranea: «La migliore testimone10 della tua vera fede, o beato (Vladimir), è la santa chiesa della Santissima Madre di Dio Maria… nella quale ora giace il tuo corpo valoroso»11. La presenza di Jaroslav e della moglie Irina al sermone di Ilarion, menzionata nel Discorso, è la conferma diretta della Sofia come il luogo in cui esso fu proferito. La Sofia era infatti la chiesa di corte, collegata da una scalinata al palazzo di Jaroslav12. Proprio qui Ilarion poteva trovare quella società «colta» impregnata di «dolcezza letteraria»13 alla quale, come egli stesso afferma nel Discorso, la sua predica è destinata. E proprio della Sofia Jaroslav fece il centro della cultura letteraria russa, raccogliendovi «molti manoscritti» e «molti libri». Nel 1051 qui fu nominato metropolita Ila-
12. Jaroslav il Saggio insedia nella cattedrale della Sofia a Kiev il primo metropolita russo, Ilarion (1051), dalla Cronaca di Radziwiłł, fol. 90.
29
fornivano il massimo spunto alle riflessioni di Ilarion: «l’incontro di Abramo con i tre pellegrini» e «l’ospitalità di Abramo». Pronunciando le parole, «Come uomo si recò alle nozze a Cana di Galilea, e come Dio mutò l’acqua in vino» Ilarion poté mostrare direttamente due raffigurazioni opposte l’una all’altra, che spiegavano simbolicamente il miracolo delle nozze, la trasformazione dell’acqua in vino e, accanto, la cena di Cristo con i discepoli. Era tipico dell’omiletica medioevale prendere spunto da simili interpretazioni simboliche della struttura della Chiesa, dalla sua dedicazione a qualche evento, divinità o santo, dall’interpretazione simbolica delle sue immagini. Nella predica di Ilarion troviamo l’interpretazione simbolica della fondazione della chiesa dell’Annunciazione sulle Porte d’oro di Kiev, in diretto riferimento al destino futuro della città. La denominazione della chiesa dell’Annunciazione sulle Porte d’oro aveva, secondo Ilarion, un significato simbolico. Come l’arcangelo Gabriele diede un bacio ad una fanciulla, la Vergine Maria, «vi sarà anche la discendenza della città» (Kiev). L’arcangelo si rivolse alla Vergine Maria con le parole: «rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te»; tramite questa chiesa sembra che l’arcangelo Gabriele si rivolga anche alla città di Kiev con le parole: «rallegrati, o città benedetta, il Signore è con te». Così, Ilarion fornisce un’interpretazione simbolica e patriottica della dedicazione della chiesa dell’Annunciazione; allo stesso modo egli interpreta in chiave simbolica anche i dipinti della Sofia, il cui tema diviene il momento originario fondamentale del suo Discorso. Grazie a ciò, tutta la predica di Ilarion diviene ancor più dimostrativa del punto di vista medioevale.
La storia del genere umano, dal punto di vista di Nestor, è la storia della lotta tra il bene ed il male: il diavolo, da sempre nemico del bene, tentò Adamo ed Eva, che vennero così scacciati dal paradiso. Per istigazione del diavolo, i loro discendenti si abbandonarono al paganesimo, e iniziarono ad adorare gli idoli. Dio inviò i profeti, ma gli uomini «non li ascoltarono, e indispettiti li percossero»15. Allora, il Dio misericordioso mandò il proprio figlio per la salvezza dell’umanità, e gli apostoli diffusero il suo insegnamento in tutte le regioni del mondo. La terra russa, però, rimase priva del messaggio degli apostoli: Dio serbò la terra russa per l’ultima ora. In quest’ultima ora Egli chiamò la terra russa. Il principe Vladimir illuminò il popolo russo con l’insegnamento di Cristo, dopo essersi battezzato senza resistenza e malcontento. La popolazione russa aveva una grande missione dinanzi a sé: come ultimi tra i chiamati sarebbero dovuti diventare i primi nel processo storico. Ma il diavolo decise di colpire la terra russa proprio al cuore, cioè alla «radice» di colui che li aveva battezzati, Vladimir. Suscitò la discordia nella famiglia del principe Vladimir, battezzatore della Rus’, nella quale tra i suoi molti figli brillavano «come due stelle luminose» Boris e Gleb. Su istigazione del maligno, il fratello Svjatopolk li uccise. Tuttavia, la rassegnazione nella morte di Boris e Gleb, che si abbandonarono sicuri e docili al fratello maggiore, l’assassino Svjatopolk, rovinò i progetti del diavolo. Con la propria morte, Boris e Gleb diedero a tutti i principi russi un esempio di amore fraterno e di rassegnazione. Le loro labbra proclamarono il principio della primogenitura: «Non me ne andrò, non fuggirò da questo luogo, non mi opporrò ancora a mio fratello, il vero primogenito», dice Boris; «non più oserò oppormi al fratello primogenito», ripete nuovamente. Così, al culto di Boris e Gleb viene attribuito da Nestor un significato storico più ampio: esso viene legato al trionfo della terra russa sulle insidie del diavolo, che tentava di seminare la discordia tra i principi. I dissidi tra i principi, tra i principi-fratelli (i principi russi erano tutti discendenti di un unico capostipite, Rjurik), costituivano l’ultima speranza del maligno di impedire il trionfo del bene nel mondo. Invece, Boris e Gleb difesero, con la propria morte, la terra russa dalle tentazioni del diavolo, fornirono un esempio salutare a tutti i principi russi e, anche dopo la morte, continuano a proteggere la terra russa. Così, l’idea dell’amore fraterno tra i principi ed il loro «assoggettamento» al primogenito fu evidenziata da Nestor come l’anello centrale degli eventi storici degli ultimi anni. Le idee pubblicistiche delle prime cronache del monastero delle Grotte, furono unite, nella Lettura di Nestor, alla concezione storico-universale delle prime opere ufficiali dell’epoca di Jaroslav il Saggio. La stessa fusione dello schema storico-filosofico, secondo il quale alla terra russa veniva assegnato il primo posto, con le sue tendenze pubblicistiche e la scottante attualità, è caratteristica anche della più importante delle opere di Nestor: la Cronaca degli anni passati. Nestor collegò la storia russa a quella universale, e le conferì un ruolo centrale nella storia dei paesi europei. Lo scopo, eminente per la sua epoca, che l’autore della Cronaca si prefisse, fu quello di mostrare la terra russa al fianco delle altre potenze mondiali, dimostrare che il popolo russo non era di oscure origini, ma possedeva una propria storia della quale poteva essere orgoglioso. La Cronaca avrebbe dovuto ricordare ai principi la gloria e la gran-
La Cronaca degli anni passati e Nestor L’inizio del xii secolo vide la compilazione del capolavoro più significativo della cronachistica russa: la Cronaca degli anni passati, pervaso dall’unica idea della terra russa, della sua difesa, della necessità dell’unione di fronte ad un pericolo esterno. Il compilatore dell’opera storica, comparsa intorno al 1113 fu, verosimilmente, il monaco Nestor del monastero delle Grotte di Kiev. Il suo lavoro non ci è giunto nella redazione iniziale, ma si è conservato soltanto nelle rielaborazioni e nella stesura finale delle cronache successive. Due opere precedenti di Nestor, a carattere biografico (la Lettura sui principi Boris e Gleb e la Vita di Feodosij del monastero delle Grotte), lo caratterizzano come scrittore incline alle grandi generalizzazioni storiche e ad accurate verifiche del materiale storico. Egli cita nelle sue opere i personaggi con le cui parole descrive gli avvenimenti, o tramite i quali si potevano verificare le notizie da lui riportate. Nella Vita di Feodosij cita a testimoni non solo i monaci del monastero delle Grotte, contemporanei di Feodosij, ma anche figure estranee: l’igumeno Paolo di \ernigov, l’igumeno Sofronij di Vydubicy, il bojaro Geguevi/ Zdeslav e altri. Per un’interpretazione delle concezioni storiche di Nestor è di particolare interesse la sua Lettura sui principi Boris e Gleb. La Vita di Boris e Gleb viene inserita da Nestor nel contesto storico generale. Egli vi sviluppa una teoria vicina alla concezione di Ilarion, ma complicata da aspirazioni pubblicistiche a persuadere il principe a metter fine alle guerre tanto dannose per il popolo russo. 30
mentre la Dvina nasce dal medesimo bosco, ma scorre verso mezzanotte (a Nord) e si getta nel mar dei Varjaghi (Baltico); dallo stesso bosco nasce anche il Volga a Oriente e sfocia con 17 rivi nel mar Chvalis’kij (Caspio). Perciò dalla Russia si può andare (lungo il Volga) tra i Bulgari ed i Chvalisy, e a Oriente fin dalle parti dei Semiti e lungo la Dvina tra i Varjaghi, e dai Varjaghi fino a Roma, da Roma (addirittura) fino alle tribù dei Camiti. E il Dnepr si getta nel mare Ponet’skij (Mar Nero) con una foce, dando al mare il nome di Russo…». Dopo la descrizione geografica della Rus’, Nestor racconta la leggenda dei tre fratelli fondatori di Kiev: Kij, Š/ek e Choriv, che già veniva tramandata tra i suoi predecessori. Nestor passa quindi a descrivere il graduale isolamento politico delle tribù russe: Poljani, Drevljani, Dragovi/i, Slavi e Polo/i, ed elenca anche le nazionalità russe vicine: i Vesi sul lago Bianco, i Meri sul lago di Rostov e sul Kleš/in, i Muromi alla foce del fiume Oka. La citazione delle altre etnie costringe Nestor a fornire un elenco preciso delle popolazioni slave che si erano stabilite nella Rus’, ed anche di quelle non slave che versavano tributi ai Russi e facevano parte dell’alleanza politica della Rus’. Tra queste ultime Nestor ricorda i \udi, i Meri, i Vesi, i Muromi, i \eremisi, i Mordvi, i Permi, i Pe/ori, gli Jami, i Litvi, gli Zimigoli, i Korsi, i Narovi, i Libi. Tutte queste popolazioni parlavano le lingue «della tribù di Iafet». L’elenco dei popoli che versavano tributi alla Rus’ evoca in Nestor il ricordo dei tempi in cui gli stessi Slavi erano assoggettati ad altre genti. Egli parla delle popolazioni che temporaneamente avevano oppresso gli Slavi: i Bulgari che avevano soggiogato i Bulgari del Dunaj, gli Ugri bianchi che avevano invaso la terra slava, gli Obri (Avari), i Peceneghi e, infine, gli Ugri neri, che erano giunti in prossimità di Kiev ai tempi di Oleg il Saggio. L’intenzione di tale elenco è chiara: tutte le popolazioni che avevano oppresso gli Slavi erano scomparse o se ne erano andate, mentre gli Slavi erano rimasti ed avevano imposto essi stessi tributi agli altri popoli. Proprio per questo il cronista tramanda il racconto popolare sugli Avari, che avevano sottomesso la tribù slava dei Dulebi. Gli Avari erano di corporatura massiccia e di animo fiero, si aggiogavano al carro le donne dulebe e ci viaggiavano come su delle bestie, ma Dio li sterminò completamente, tanto che ancora oggi esiste in Russia il detto «sparire come un Avaro». Dopo aver citato ancora qualche tribù slava, che non rientrava negli elenchi precedenti – Radimi/i, Vjat/i, Ugli/i, Tiverci – Nestor passa alla descrizione dei costumi delle tribù slave che si erano stabilite sul suolo russo. Tale descrizione dei loro usi soggiace ad un’unica idea: ogni etnia ed ogni tribù possiede la propria «legge» ed i propri «usi» ereditati dai padri. A sostegno di questa sua teoria il cronista cita, al termine della propria descrizione, lo storico bizantino Giorgio Amartolos, riportandone alcune descrizioni delle usanze delle popolazioni orientali ed europee. Nella sua descrizione il cronista contrappone lo stile di vita «mite e tranquillo» dei Poljani alle usanze dei Drevljani, dei Radimi/i, dei Vjat/i e dei Severjani, che vivevano «come belve feroci». In questa differenziazione dei Poljani si ravvisa il patriottismo locale di un kieviano. Nestor conclude la sua osservazione dello stile di vita delle diverse tribù e popolazioni con una breve descrizione dei costumi dei principali nemici della Rus’, i Cumani, e rileva la superiorità delle usanze cristiane della Rus’. Qui,
dezza della patria, la saggia politica dei loro predecessori e l’originaria unità della terra russa. Il cronista assolse tale compito con un tatto ed un gusto artistico non comuni; l’ampiezza del progetto infondeva pace e tranquillità al suo racconto, armonia e forza ai suoi giudizi, unità artistica e monumentalità a tutta l’opera in generale. L’inizio della Cronaca è dedicato agli avvenimenti della storia universale secondo la concezione medioevale. Il cronista inserisce la storia russa in quella mondiale, comunicando notizie della più svariata natura: geografiche, etnografiche, storico-culturali. Senza fretta narra le circostanze storiche nelle quali lo stato russo vide la luce. La Cronaca degli anni passati si apre con un’introduzione storico-etnografica. Nestor sviluppa il proprio racconto partendo dal «diluvio universale» e dalla suddivisione della terra tra i figli di Noè. Enumera i paesi che divennero possesso di Sem, poi le terre di Cam e si sofferma, infine, in modo particolarmente dettagliato su quelle terre «di mezzanotte» (nordiche) e occidentali, che toccarono a Iafet. Nestor sottolinea, a questo proposito, che dopo aver diviso a sorte tutta la terra in tre parti, i fratelli promisero «che nessuno avrebbe violato la proprietà dei fratelli, e ciascuno avrebbe vissuto nella propria parte». Nestor racconta quindi della formazione dei popoli e delle lingue. Tramanda l’episodio biblico della torre di Babele, quando le genti si divisero in popoli e incominciarono a parlare lingue differenti, e annota la formazione degli Slavi dalla tribù di Iafet. Inizialmente, sostiene Nestor, gli Slavi vivevano sul Dunaj, dove ora sono le terre ungariche («ugre») e bulgare. Da qui si verificò la divisione degli Slavi, che portò in seguito alla formazione delle diverse tribù e nazionalità slave. Queste tribù presero il nome dai luoghi in cui si stabilirono inizialmente: «dalle terre che abitavano, gli Slavi ricevettero il nome, ciascuna tribù dal proprio luogo di insediamento». Il cronista indica come Slavi occidentali i Moravi e i Cechi, e come Slavi meridionali Croati bianchi, Serbi e Sloveni. La divisione degli Slavi del Dunaj fu provocata dall’invasione dei Volochi (Valacchi), nei quali gli studiosi ritengono di ravvisare i Franchi occidentali: i popoli del regno di Carlo Magno. Una parte degli Slavi fuggì dai Valacchi sulla Vistola e venne denominata Ljachi (Polacchi). I Ljachi, a loro volta si divisero in Poljani, Luti/i, Mazovci e Pomoriani. Alcuni degli Slavi del Dunaj si trasferirono sul Dnepr e presero il nome di Poljani, altri si chiamarono Drevljani perché «si stabilirono nei boschi», altri ancora si insediarono tra il Pripjat’ e la Dvina, ed assunsero il nome di Dragovi/i, altri si stabilirono su fiume Polot e vennero chiamati Polo/iani. Infine, la parte di «Slavi» che si insediò sulle rive del lago Il’men’, si chiamò «con il suo nome» (cioè Slavi) e costruì una città chiamata Novgorod. Nestor esamina quindi i luoghi di insediamento delle tribù settentrionali, e conclude con la frase: «in questo modo si è diffusa la lingua slava», comunicando che con il nome di «slavo» venne chiamata anche la scrittura slava. Da queste dettagliate notizie sulla divisione delle tribù, 13 il cronista passa alle notizie di carattere geografico sulla terra russa. Fornisce in modo semplice e chiaro una descrizione geografica della Rus’, delle strade che la collegano agli altri paesi, iniziando con notevole coerenza la propria descrizione dallo spartiacque del fiume Dnepr, dalla Dvina occidentale e dal Volga. «Il Dnepr, infatti, nasce dal bosco Okov’skij, e scorre verso mezzogiorno (a Sud), 31
S. Romasov, aprile 1992
13. Carta della Rus’ all’epoca della Cronaca degli anni passati (fine xi secolo).
32
come in altri passi della Cronaca, Nestor riconosce il popolo della Rus’ come una popolazione civilizzata e colta. Restringendo gradatamente e logicamente il proprio tema, egli giunge quindi a trattare delle antiche sorti dei Poljani. Nestor narra la conquista dei Poljani ad opera dei Chazari, sui quali aveva attinto notizie dal corpo degli annali precedenti. Tale assoggettamento fu accompagnato dalla profezia «dei vecchi Chazari», secondo cui i Poljani, poiché avevano imposto come tributo la spada a doppio taglio, avrebbero dovuto essi stessi, un giorno, raccogliere tributi per i Chazari; cosa che avvenne, aggiunge il cronista. Anche qui si ripete, quindi, insistentemente l’idea che la Rus’, un tempo sfruttata e obbligata a versare tributi alle altre popolazioni, ora a sua volta decide le sorti dei popoli vicini. Così si conclude la parte introduttiva della Cronaca degli anni passati, cui fa seguito una parte a carattere sostanzialmente storico, che il cronista si sforza di ordinare in una rigorosa successione cronologica di paragrafi annuali. Nestor eseguì un enorme lavoro di puntualizzazione della successione cronologica degli annali. Evidentemente le date dei primi principati russi fino a Nestor non erano determinate secondo il conto degli anni «dalla creazione del mondo» in uso nel medioevo. È possibile che i primi cronisti del monastero delle Grotte, che avevano preceduto Nestor, sapessero solo che Igor’ aveva regnato 23 anni, Svjatoslav 28, Jaropolk 8 anni e così via. Solo Nestor tentò di calcolare esattamente i dati cronologici dei principati russi sulla base di varie fonti. Tra esse le testimonianze delle cronache bizantine, nelle quali mancavano le date, ma che potevano, tuttavia, aiutarlo nella sua ricerca dei particolari, poi i dati della Storia di Cirillo e Metodio e dei trattati con i Greci, dei quali parleremo più avanti. La tappa cronologica più antica della Cronaca degli anni passati è l’anno 852. A questa prima data della storia russa Nestor accosta una grande tabella cronologica dei principali avvenimenti della storia russa ed universale. «Da qui iniziamo e mettiamo le date», dice Nestor. Effettivamente, un rigoroso principio cronologico viene posto da Nestor come base di ogni ulteriore esposizione successiva. Dopo la tabella cronologica riportata nell’anno 852, Nestor riporta una serie di anni, molti dei quali privi di annotazioni, evidentemente per l’impossibilità di reperire qualunque materiale storico. Inserendo nella narrazione questi anni vuoti, Nestor sottolineava il principio stesso, la forma stessa della cronaca e, forse, trasmise ai suoi successori un compito da studiare. Gli avvenimenti russi successivi sono registrati nelle cronache negli anni 859 e 862: si tratta della storia della chiamata dei Varjaghi nella Rus’. Abbiamo visto in precedenza come Nestor cercasse tenacemente di spiegare, per queste od altre vie, l’origine delle denominazioni delle tribù e delle etnie. Naturalmente il suo compito più importante doveva essere la spiegazione del termine «Rus’». Egli non l’aveva fornita a suo tempo, quando aveva spiegato i nomi delle etnie slave, ma l’aveva rimandata all’esposizione della leggenda sulla chiamata dei Varjaghi. Nestor fornisce la seguente spiegazione del termine Rus’: Rus’ è una tribù varjaga, la stessa da cui discendevano i fratelli Rjurik, Sineus e Truvor. La denominazione della tribù varjaga Rus’ passò alle tribù slave che avevano chiamato presso di sé i rappresentanti della Rus’. Ecco perché, per evitare contraddizioni, Nestor inserisce il nome della Rus’ nell’elenco delle tribù e dei popoli in-
sediati nell’Europa del Nord, compilato dal cronista che lo aveva preceduto: «Variazi, Svei, Urmani, (Goti), Rusi, Agnjani, Gali/ani, Volchvi» e così via. Ma come sottrarsi all’obiezione che allora (all’epoca del cronista) il Nord scandinavo non conosce la tribù dei Rusi? Nestor trova una via d’uscita da questa difficoltà affermando che i tre fratelli giunsero nella Rus’ con tutta la loro tribù: «portandosi dietro tutta la Rus’». Così tutta la Rus’ si trasferì interamente al Sud; ecco perché anche ora non vi sono tra le tribù scandinave tribù chiamate Rusi. Così Nestor risultò il primo normannista della storia russa. Egli sosteneva l’origine normanna della stirpe principesca e dello stesso nome Rus’. Come si spiega che il cronista, che tanto coerentemente si era sforzato di affermare l’importanza del popolo russo nel processo storico mondiale, tendesse a far derivare sia il nome della Rus’ che la stirpe principesca da oltre il mare, dai Varjaghi? Abbiamo visto che la leggenda dell’invito ai fratelli varjaghi si era formata gradualmente e in modo artificioso. Essa serviva la causa della lotta contro le ostilità tra i principi, affermando in sé l’idea dell’unità della stirpe principesca, che equivaleva, a quei tempi, all’idea dell’unità dello stato russo. Nestor interpretò la leggenda della chiamata dei Varjaghi, contenuta nelle precedenti cronache del monastero delle Grotte, come la più importante per la storia russa, e vi legò, naturalmente, anche la propria spiegazione della denominazione della Rus’. La leggenda della chiamata dei Varjaghi nei secoli xi e xii era una delle principali argomentazioni a favore dell’autonomia e dell’indipendenza dello stato russo dall’ingerenza esterna di Bisanzio. Sia nell’xi che nel xii secolo, infatti, i «Varjaghi» non rappresentavano una reale forza politi-
14. Ambasceria degli Slavi presso i Varjaghi; visita dei principi varjaghi con il loro seguito in terra slava (858), dalla Cronaca di Radziwiłł, fol. 8v.
33
La notizia della cometa, nel 911, è desunta evidentemente dal continuatore di Amartolos. Nello stesso anno è riportato, inoltre, il nuovo testo dell’accordo di Oleg con i Greci e vi si narra la leggenda, molto nota nella letteratura del xix e del xx secolo, della morte di Oleg il Saggio, causata dal suo stesso cavallo. A conferma del fatto che i maghi possono talvolta predire il futuro, e forse anche per discolparsi da eventuali accuse di simpatia nei loro confronti, Nestor riferisce una serie di aneddoti che trattano del potere magico di Apollonij Tianskij. Segue quindi il racconto dell’ascesa al trono di Igor’, dei suoi primi scontri con i Drevljani e, nuovamente, una serie di notizie bizantine desunte dal prosecutore di Amartolos. A poco a poco le notizie russe divengono sempre più frequenti; Nestor incomincia sempre più a seguire l’esposizione degli annali precedenti. In essi trova un appoggio già più valido per la sua narrazione, ed ha meno bisogno di reperire altrove i dati storici. Per la storia russa, una conquista fondamentale di Nestor furono i testi dei trattati dei Russi con i Greci, da lui estratti per la prima volta dagli archivi principeschi. L’impiego di tali accordi nella stesura degli annali divenne possibile grazie ai rapporti amichevoli che si erano stabiliti tra il monastero kieviano delle Grotte e Svjatopolk. Quest’ultimo, evidentemente, andando incontro alle esigenze del monastero, aprì i propri archivi ai cronisti. Nestor comprese chiaramente il valore storico di tali documenti e, oltre ad inserirne il testo nella propria esposizione, utilizzò la loro testimonianza per la verifica dei dati cronologici e per precisare la genealogia principesca. Cos’erano i documenti degli accordi usati da Nestor? Solitamente gli atti contrattuali venivano redatti a Bisanzio in due esemplari. Uno degli esemplari veniva compilato a nome dell’imperatore, mentre l’altro a nome del governatore del paese con cui venivano condotte le trattative. Evidentemente, il primo era considerato il testo principale, mentre il secondo ne era solo una variante. Da quest’ultimo esemplare veniva eseguita la traduzione nella lingua della nazione con la quale si stipulava l’accordo, e la copia di questa traduzione veniva conservata dal governatore di quel paese. Ed evidentemente proprio questi secondi esemplari degli accordi dei Russi con i Greci furono consegnati a Nestor dal tesoro principesco. Oltre all’accordo stipulato da Oleg con i Greci nel 911, e a quello di Igor’ del 945, Nestor riportò nella Cronaca altri due accordi: quello di Oleg del 907 e quello di Svjatoslav del 972. Gli accordi del 911, 945 e 972 non si limitavano a precisare le date delle campagne russe contro Costantinopoli: l’esistenza stessa di accordi separati di Oleg il Saggio con i Greci convinse Nestor del fatto che Oleg non fosse un semplice voivoda, bensì un principe. Ecco perché Nestor rifiutò la versione della Cronaca primitiva che attestava lo status di voivoda di Oleg (v. sopra) e supponeva che egli fosse un parente di Igor’ che regnò in sua vece finché questi non raggiunse la maggiore età. Questa conferma coincideva con la tradizione popolare che conosceva Oleg come principe. Nestor si era servito più di una volta della tradizione popolare, seguendo l’esempio dei suoi predecessori, i cronisti delle Grotte. Sulla base delle tradizioni popolari, Nestor inserì nella Cronaca degli anni passati il racconto della fine della città di Iskorosten’, incendiata da Ol’ga con l’aiuto degli uccelli, ai quali era stata legata l’esca per il fuoco; e la storia del kissel (gelatina) di Belgorod, che gli
ca. Lo stato russo non correva più pericolo da parte del Nord normanno. Diversi erano i nostri rapporti con il Sud bizantino. Secondo la concezione bizantina del potere imperiale, tutti i popoli cristiani dovevano dipendere anche politicamente dall’Impero. Sia nel secolo xi che nel xii e nei secoli successivi, Bisanzio aveva ottenuto la stretta dipendenza del regime statale russo dall’impero bizantino, e cercava di sostenere questo principio nella Rus’ con la distribuzione di gradi di corte bizantini tra i principi russi16. Dal punto di vista dei Greci, lo stato russo doveva le proprie origini a Bisanzio. Il potere legittimo apparve nella Rus’ soltanto dopo il suo battesimo, ed era strettamente legato alla Chiesa. E proprio contro questo punto di vista greco lottavano i cronisti delle Grotte. Esso rappresentava un reale pericolo, poiché il suo promotore era il metropolita greco di Kiev. I monaci delle Grotte, nella loro politica nazionale russa ed antigreca, erano i logici avversari del metropolita di Kiev, della sua politica e delle sue teorie. La «teoria normanna» dei monaci delle Grotte era innanzitutto antigreca e, per quei tempi, anche panrussa. Essa affermava un punto di vista direttamente opposto sull’origine dello stato russo: non dal Sud bizantino, bensì dal Nord scandinavo. Lo stato russo risultava così formato già prima della conversione al cristianesimo e quindi era indipendente dalla Chiesa, ove indipendenza dalla Chiesa significava innanzitutto indipendenza dal metropolita greco, a cui aspirava insistentemente anche lo stesso monastero kieviano delle Grotte. Era tradizione della storiografia medioevale di far risalire l’origine della dinastia al potere ad uno stato straniero17. Dopo l’esposizione della leggenda della chiamata dei tre fratelli, cioè dei Varjaghi, il racconto di Nestor incomincia a basarsi principalmente sulla cronaca greca di Giorgio Amartolos e del suo continuatore. In sostanza, le notizie russe in essa contenute non sono molte: l’insediamento di Oleg a Kiev, le nozze di Igor’, la campagna di Oleg contro Car’grad (Costantinopoli), la seconda cam6 pagna di Oleg e la morte di Igor’. È significativo notare come, raccogliendo testimonianze sulla storia russa del ix e dell’inizio del x secolo, Nestor abbia superato con maestria enormi difficoltà. In alcuni casi si comportava come un vero ricercatore, creando con materiale particolarmente scarso un quadro completo dello sviluppo storico. Nel prosecutore di Amartolos, Nestor trovò notizia della campagna dei Russi contro Costantinopoli (nell’866) e vi inserì i nomi di Askol’d e Dir, principi russi, capi della spedizione, confrontando evidentemente il racconto di Amartolos con qualche leggenda popolare russa sulla campagna di Askol’d e Dir. Nell’anno 882 Nestor segnalò l’ascesa al principato di Oleg, e negli anni successivi narrò dell’assoggettamento di Drevljani, Severjani e Radimi/i. Nell’anno 887, nella Cronaca degli anni passati si leggono le notizie desunte dal continuatore di Amartolos, cui segue una serie di annate non compilate. Nell’anno 898 Nestor narra il passaggio degli Ugri (Ungari) nei pressi di Kiev e vi inserisce la vicenda leggendaria dell’adozione della grafia slava grazie a Cirillo e Metodio, e della loro missione in Moravia. Nel 902 si trovano nuovamente notizie di storia bizantina, desunte dal continuatore di Amartolos. Nel 903 viene riportato il matrimonio di Igor’, mentre 4 nell’anno 907 si legge il lungo racconto della campagna di Oleg contro Costantinopoli, in cui è inserito il testo dell’accordo di Oleg con i Greci. 34
5
19
abitanti della città versarono in un pozzo, dietro consiglio di un vecchio, per convincere i Peceneghi che li assediavano di essere nutriti dalla terra stessa. Sempre a Nestor sembra potersi attribuire l’esposizione della leggenda orale sul duello del giovane cuoiaio con 9 l’eroe pecenego sul fiume Trubež, «sulla riva dove ora sorge Perejaslavl’». Seguendo la propria abituale tendenza a spiegare l’origine dei toponimi, Nestor approfitta di questa leggenda per interpretare la parola Perejaslavl’. Egli adduce la motivazione che nel luogo dove sarebbe sorta la città il giovane cuoiaio «eguagliò la gloria» dell’eroe pecenego. La leggenda narra come i Russi sfidati a singolar tenzone invano cercassero un duellante in grado di contrastare il guerriero pecenego, come poi Vladimir di Kiev incominciasse «a rattristarsi», e mandasse a chiamare tutti i guerrieri e come, infine, apparisse un certo «uomo anziano» che raccontò a Vladimir del suo figlio minore, cuoiaio, rimasto a casa, che avrebbe potuto battersi con il Pecenego. Condotto al cospetto del principe, il giovane dall’aspetto poco appariscente, prega di essere prima messo alla prova, strappa il fianco con la pelle ad un toro infuriato, «per quanto penetra la sua mano» e poi sconfigge in duello il più anziano e valoroso dei guerrieri peceneghi. Vladimir, colmo di gioia, fondò sul luogo del duello una città, che chiamò Perejaslavl’, e del modesto cuoiaio fece un «grande uomo». Nell’ultima parte dei suoi annali, che giunge al 1110, Nestor scrisse in gran parte sulla base di testimonianze raccolte personalmente. Di questo suo lavoro abbiamo solo una vaga idea, poiché proprio la parte finale della Cronaca degli anni passati fu rielaborata radicalmente diversi anni dopo. È da notare il fatto che questa parte della Cronaca è caratterizzata dall’esposizione in prima persona, così tipica di Nestor: una sorta di egocentrismo della sua narrazione. Appartengono sicuramente a Nestor tre racconti: la traslazione delle reliquie di Feodosij nel 1091, l’incursione dei Cumani al monastero delle Grotte nel 1096 e la sfortunata spedizione di Svjatopolk nel 1107. Il racconto di Nestor del ritrovamento delle reliquie di Feodosij è, nel suo genere, notevole. Contrariamente alla generalizzazione e alla schematicità della narrazione, tipiche della letteratura medioevale, Nestor descrive dettagliatamente come egli stesso con un monaco aiutante, di notte, disseppellì in segreto la bara di Feodosij nella grotta, come inizialmente i suoi sforzi risultassero vani, come, stanco di scavare, passò la vanga all’altro «fratello», come poi la prese nuovamente e ricominciò egli stesso a scavare mentre il «fratello», stanco, si stese a dormire davanti alla grotta, e come poi nel monastero suonassero il gong. Il fratello, che giaceva addormentato all’ingresso della grotta lo disse a Nestor, che proprio in quel momento aveva portato alla luce la bara. Nestor racconta come a questa vista lo assalisse il terrore e come iniziò ad implorare, «Signore, pietà». Un carattere analogamente pittoresco contraddistingue anche la narrazione dell’incursione dei Cumani nel monastero delle Grotte. Nestor racconta come i Cumani «giunsero al monastero delle Grotte quando noi riposavamo nelle celle dopo il mattutino. E gridavano vicino al monastero, e piantarono due bandiere davanti alle porte, mentre noi rientravamo di corsa nel retro del monastero, e altri si precipitavano sul coro». L’ultimo dei racconti attribuiti indiscutibilmente a Nestor è quello della vittoria sui Cumani nel 1107, che sotto-
linea il ruolo del monastero delle Grotte nelle fortune militari di Svjatopolk. Svjatopolk aveva l’abitudine di recarsi al monastero prima di partire per una spedizione militare e a pregare sulla tomba di Feodosij. Di ritorno dalla vittoria sui Cumani, Svjatopolk si diresse direttamente al monastero, dove baciò i fratelli e «con grande gioia» proferì dinanzi a loro un breve discorso, registrato negli annali. La creazione della Cronaca degli anni passati dà prova della vasta erudizione letteraria di Nestor. Già nella Vita di Feodosij, Nestor stesso cita i propri modelli bizantini: la voluminosa Vita di Antonio il Grande (92 capitoli), composta nel iv secolo da Atanasio di Alessandria, e la Vita di Savva il Santificato, scritta nel vi secolo da Cirillo di Scitopoli. Ma cospicue tracce dell’erudizione letteraria di Nestor sono presenti anche per ciò che riguarda le altre opere della letteratura bizantina. L’erudizione letteraria mostrata da Nestor nella compilazione della Cronaca degli anni passati è eccezionale. Tuttavia egli non segue la maniera letteraria delle sue fonti o, se mai, solo in alcuni casi. Nestor utilizza le opere bizantine non come modelli letterari ma come fonti storiche. Egli si avvale ampiamente della cronaca bizantina di Giorgio Amartolos e del suo continuatore, di cui esisteva, ai suoi tempi, una traduzione slava. Giorgio Amartolos aveva fornito un’esposizione della storia universale fino all’anno 842, il suo continuatore fino al 948. Nestor si valse, inoltre, del Cronista, raccolto dal patriarca Niceforo di Costantinopoli (che fa arrivare la narrazione all’829, anno della propria morte), della Vita di Basilio il Nuovo, e in particolare di quella parte che descrive la campagna di Igor’ contro Costantinopoli, di un Cronografo dalla compilazione particolare nella quale rientravano frammenti della famosa Cronaca di Ioann Malalas, della Cronaca Pasquale, della cronaca di Giorgio Sincello e di quella di Amartolos. Nestor utilizzò, poi, la Storia della traduzione dei libri in lingua slava, la Rivelazione di Metodio di Patar, l’articolo di Epifanio di Cipro sulle dodici gemme della pianeta del sommo sacerdote di Gerusalemme, e così via. È degno di nota il fatto che, nell’utilizzare le notizie desunte dalle proprie fonti, Nestor ne ricostruisce liberamente il testo, che abbrevia e semplifica stilisticamente. Talvolta nella rielaborazione stilistica delle fonti si sente la mano patriottica. Nestor non si limita a modificarne lo stile ma, in parte, con molta precauzione, rielabora anche l’interpretazione stessa degli avvenimenti. Così, ad esempio, nella Vita di Basilio il Nuovo si parla del combattimento dell’esercito di Igor’ contro i Greci: «ed essendovi tra di loro la battaglia, i russi fuggivano, mentre i greci li battevano». Nestor espone il medesimo episodio come segue: «ed essendovi tra di loro una feroce battaglia, a malapena i greci riuscirono a prendere il sopravvento». In un altro punto della stessa descrizione nella Vita di Basilio il Nuovo si legge: «e rapidamente si vide un terribile prodigio come se fossero terrorizzati da fiamme di fuoco». Nestor omette il termine «terrorizzati», oltraggioso per i Russi, e lo sostituisce con «videro»: «i russi videro delle fiamme». Nestor attinse ampiamente dai libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, allo scopo di effettuare pure rielaborazioni letterarie. Nella Cronaca degli anni passati troviamo estratti dal libro del Genesi, dell’Esodo, dal Levitico, dai Libri dei Re, dai Proverbi, dal libro della Sapienza, dall’Ecclesiaste, dal libro di Giobbe, dei profeti Daniele, 35
Isaia, Ezechiele, Michea e Amos, dai Salmi, dal Vangelo, dagli Atti degli Apostoli, dalle Epistole e molti altri. L’alta erudizione letteraria di Nestor, la sua straordinaria conoscenza delle fonti, la capacità di cogliervi l’essenziale, di confrontare le discordanze e così via, fecero della Cronaca degli anni passati non una semplice raccolta di eventi della storia russa e non un semplice componimento storico-pubblicistico, legato ai problemi vitali ma contingenti della realtà russa, ma una storia della Rus’ completa, espressa in forma letteraria. Mai prima d’ora, né in seguito, fino al xvi secolo, il pensiero storico russo raggiunse un tale livello di dotto spirito indagatore e di abilità letteraria. La capacità di innalzarsi ad un punto di vista panrusso sugli avvenimenti e di illuminare ampiamente tutta la storia russa, ha fatto della Cronaca degli anni passati un’opera su cui per molti secoli i Russi hanno studiato la propria storia, hanno imparato a capire gli interessi dello stato russo ed hanno educato il proprio sentimento nazionale. Ecco perché la Cronaca degli anni passati si collocò poi all’origine della maggior parte degli annali russi, servendo loro come una sorta di introduzione politica e come modello letterario.
tera al principe Oleg Svjatoslavi/. La preghiera, attribuita a Monomach, che conclude l’opera, non è opera sua18. Il motivo per cui è stato scritto l’Insegnamento viene menzionato dallo stesso Monomach: giunsero presso di lui gli inviati dei suoi fratelli, recando la proposta di marciare contro il principe Rostislavi/ e cacciarlo dalle sue terre. Vladimir Monomach si rattristò di questo tentativo di turbare il nuovo ordine, aprì il libro dei Salmi, trovò in esso consolazione e compose quindi il suo Insegnamento ai figli e «a quanti lo udranno». «Quanti» era chiaramente riferito a tutti i principi russi. E proprio ai principi sono rivolti l’Insegnamento e le «trascrizioni» che vi si affiancano. Ai principi egli insegna anche l’arte del governo della terra, li esorta a mettere da parte le offese, a non violare il giuramento sulla croce, a contentarsi del proprio patrimonio, a diffidare dei tiun (giudici) e dei voivodi, e così via. Monomach si rivolge ampiamente all’autorità ecclesiastica, si serve dei principi morali comuni a tutti i cristiani, dei metodi didattici tradizionali, ma con un unico fine principale: invitare i principi alla rigorosa attuazione di un nuovo principio politico. L’Insegnamento si apre con le parole del Libro dei Salmi che l’autore aveva trovato in risposta ai suoi pensieri: «Non irritarti per chi ha successo, per l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti, faresti del male, poiché i malvagi saranno sterminati, ma chi spera nel Signore possederà la terra» (Sal 37(36),7-9). Monomach sviluppa dettagliatamente questo concetto, riferendosi evidentemente ai principi contemporanei. Li esorta ad accontentarsi di poco: il poco del giusto è preferibile alle molte ricchezze degli empi, gli empi sfoderano la spada e tendono l’arco per abbattere il misero e l’indigente, per trafiggere coloro che camminano sulla retta via: la loro spada raggiungerà il loro cuore e il loro arco si spezzerà (libera riduzione del Salmo 37). L’applicazione pratica di tutti questi concetti del Salmo nella prassi feudale-principesca del xii secolo significava una cosa sola: ciascun principe doveva accontentarsi del proprio feudo di famiglia, benché piccolo, per quanto gli apparissero legittimi i suoi diritti sulla terra del vicino. La suddivisione della terra russa tra i principi nella seconda metà dell’xi secolo e all’inizio del xii non fu una spartizione inter pares. Tra i principi intercorrevano rapporti di vassallaggio: vi erano tra loro anziani e giovani. Monomach insegna a mantenere tali relazioni, utilizzando nuovamente la letteratura religiosa: i più giovani rispettino gli anziani, gli anziani proteggano i giovani. Al cospetto degli anziani bisogna tacere, ascoltare chi è molto saggio, sottomettersi ai più anziani, provare amore per i pari e per gli inferiori e moderare «chi è attratto dal potere». Questa espressione: «non esimersi dall’insegnare a chi è attratto dal potere», e l’idea stessa che il potere «attrae» sono degne di nota. Rivolgendosi ai suoi lettori, Monomach dice: «Rinunciamo alla vendetta, ama coloro che ti odiano, sopporta i persecutori, fa’ morire il peccato, preservatevi dalle offese, giudicate giustamente gli orfani (i diseredati, i contadini), prendetevi cura delle vedove». Le ultime parole di questa arringa, che esortano a liberare gli oppressi, a dare un tribunale all’orfano (con il termine «orfani» si intendevano generalmente i contadini)19, e a proteggere le vedove, potevano di nuovo essere indirizzate solo ai principi «attratti dal potere» dello sfruttamento eccessivo e che perciò ne distruggevano il sistema. Monomach non era affatto un’anima eletta «amante della plebaglia». La sua
Le opere del principe Vladimir Monomach La letteratura russa dei secoli xi-xii ha un carattere peculiare. Quasi ogni capolavoro della letteratura di quest’epoca stupisce, in un modo o nell’altro, per la propria originalità. Le opere del sommo principe di Kiev, Vladimir Monomach, conosciute come Insegnamento, furono scritte tra la fine dell’xi secolo e l’inizio del xii. L’Insegnamento ci è giunto in modo del tutto casuale, in un’unica copia manoscritta, nel corpo della Cronaca Laurenziana, che rischiò di bruciare insieme alla copia del Canto della schiera di Igor’ nell’incendio di Mosca del 1812, con la raccolta di manoscritti di Musin-Puškin, e si salvò solo perché era stata prelevata dalla biblioteca da N.M. Karamzin. Possiamo essere del tutto certi che, se la Cronaca Laurenziana fosse bruciata, l’Insegnamento di Vladimir Monomach sarebbe stato dichiarato falso, e difenderne l’autenticità sarebbe stato molto più difficile di quanto non sia ora difendere l’autenticità del Canto della schiera di Igor’. L’Insegnamento non esercitò alcuna influenza sulla letteratura russa successiva, non viene mai ricordato; il suo testo interrompe quello omogeneo ed unitario della Cronaca Laurenziana al racconto degli eventi del 1096, il che sembrava una «chiara» interpolazione; una lettera privata e l’autobiografia di Monomach, contenuti nell’Insegnamento, sono insoliti per la letteratura dei secoli xi-xii. Spiegare perché alla fine del xviii secolo si sarebbe sentito il bisogno di scrivere l’Insegnamento di Monomach, potrebbe essere semplice: Monomach è il capostipite dello stato moscovita, la sua corona è il simbolo del potere monarchico, ed il suo Insegnamento giustificava tale potere. Si potrebbero addurre molte altre argomentazioni a sostegno della teoria della non autenticità dell’Insegnamento. Per fortuna il manoscritto delle opere di Monomach si è conservato e non dà adito ad alcun sospetto. Così, quello che chiamiamo l’Insegnamento di Monomach è in sostanza una sorta di raccolta delle sue opere, e precisamente l’Insegnamento, la sua autobiografia e la let36
politica sociale era quella della regolarizzazione del nuovo ordine, della repressione dei singoli feudatari che avevano oltrepassato i limiti violando, in nome di interessi personali, gli interessi della classe feudale nel suo complesso. Con l’autorità della morale cristiana Monomach si rivolge nell’Insegnamento a quell’esempio edificante presentato all’umanità dall’organizzazione dell’universo, ed introduce, a questo punto, lo stesso concetto della necessità che ciascuno si accontenti della propria sorte: tra tutti gli esseri umani non ne esistono due identici, gli uccelli del cielo, dopo essersi separati dallo stormo in primavera, volano per tutta la terra, e ciascuno trova il proprio posto, «e non restano in un unico luogo, ma il forte ed il debole vanno per tutta la terra secondo il volere divino». Qui, naturalmente, gli uccelli forniscono un esempio morale al comportamento dei principi. Gli uccelli si accontentano del proprio stato, ciascuno di essi trova il proprio posto, sebbene tra loro vi siano i forti ed i «deboli»20. Il nuovo ordinamento politico, con la terra nelle mani di molti principi-proprietari terrieri, poteva limitare la libertà di spostamento e la libertà di commercio; Monomach insiste, perciò, in modo particolare sulla necessità di non danneggiare i viaggiatori: dove andate e dove vi accampate «date da bere e da mangiare» al misero e al viandante, «e onorate maggiormente l’ospite, da qualsia si parte giunga», sia esso un uomo semplice, colto o un ambasciatore, «e non passate accanto a una persona senza averla salutata – donategli una buona parola». L’autobiografia di Monomach è animata dal medesimo desiderio di pace. Nelle cronache delle sue campagne, Vladimir Monomach cita questo eloquente esempio di amor di pace del principe. Giunse da Monomach in una campagna militare Oleg dalla terra dei Cumani. Monomach si rinserrò a \ernigov, e la sua družina combatté otto giorni da dietro il fossato, senza riuscire a scacciare gli avversari. Monomach avrebbe potuto difendersi ancora ma, mosso a compassione «dalle anime dei cristiani e dai villaggi in lutto e dal monastero», disse: «non vantatevi come i pagani», restituì \ernigov a Oleg, ed egli si recò a Perejaslavl’. Monomach agì così non solo allo scopo di ristabilire la pace, ma anche per salvaguardare il principio secondo il quale «ciascuno governa la propria patria»: infatti la «patria» di Oleg era \ernigov, mentre quella di Monomach era appunto Perejaslavl’. Ecco perché Monomach annotò: «io stesso mi reco nel luogo del padre mio, Perejaslavl’». Egli conferì alla propria partenza da \ernigov una sfumatura patetica, dipingendola a tinte forti e collegandola, non a caso, al ricordo di Boris e Gleb, il cui culto, come già abbiamo visto, era strettamente legato alle nuove concezioni: «e mi recai dal santo Boris a un giorno da \ernigov, attraversando i reggimenti polovesiani (cumani) con meno di 100 družinniki, e con donne e bambini, e i Cumani si leccavano le labbra guardandoci, come lupi, e dal valico e dalle montagne, Dio e il santo Boris non permisero loro di fare di noi bottino». La lettera a Oleg, di cui abbiamo parlato all’inizio in quanto modello di un alto ideale morale, è dedicata, quindi, al medesimo tema: con l’aiuto della morale cristiana stabilire nuovi rapporti politici tra i principi-«fratelli»: rapporti basati sulla reciproca arrendevolezza. Nella sua lettera a Oleg, Vladimir Monomach diede un esempio di perdono nei confronti del nemico, responsabile perfino della morte del proprio figlio: poiché la morte è irre-
cuperabile, bisogna preoccuparsi solo dei vivi. Ecco perché la lettera a Oleg è strettamente contigua all’Insegnamento, per il contenuto e per l’andamento dell’esposizione. Essa, in un certo qual modo, è un seguito delle parole conclusive dell’Insegnamento, laddove Monomach afferma: «poiché la morte viene da Dio, né padre, né madre, né fratelli possono allontanarla». Non poté sottrarre il proprio figlio alla morte nemmeno lo stesso Vladimir Monomach. Non è escluso che Monomach stesso abbia aggiunto la propria lettera coraggiosa ed energica all’Insegnamento, come esempio pratico della nuova concezione. Come l’Insegnamento, essa si rivolge, quindi, a tutti i principi russi. D’altra parte, Vladimir Monomach comprese che non tutti i principi avrebbero potuto seguire l’esempio che egli aveva esposto nella lettera a Oleg. Forse proprio per questo scrisse all’inizio dell’Insegnamento: «poiché non amate le ultime cose, accettate quelle precedenti». «Le ultime cose» nell’Insegnamento, cioè le campagne e le «cacce» principesche, non potevano certo essere invise a un principe, mentre l’ultimo dei «discorsi» – delle opere di Monomach –, la sua lettera a Oleg, poteva realmente apparire troppo esigente nei confronti della morale dei principi, e perciò inadempibile. L’enorme tema politico, rafforzare la disciplina morale del nuovo ordinamento politico, era stato risolto nell’Insegnamento con straordinario tatto artistico. Il tono dell’Insegnamento è sempre sincero, quasi lirico, talvolta un po’ vecchio, austero e triste, e corrisponde rigorosamente alla premessa fatta dallo stesso Monomach, quando descrive, all’inizio dell’opera, come dopo aver congedato i messi dei suoi fratelli, venuti con l’empia proposta di intervenire contro Rostislavi/, «pieno di tristezza» prese il Libro dei Salmi e vi trovò «le amate parole, le mise in fila e le trascrisse». Il versetto del Salterio capitato sotto gli occhi a Monomach: «Perché ti rattristi, anima mia?», «essendo rivolto a chi vi cercava un responso, è come se con ciò attribuisse al proprio stato d’animo tale cura; ma questo termine nella lingua dell’epoca aveva un significato assai più ampio della sua accezione attuale»21. A questa attendibile osservazione di V.L. Komarovi/, studioso dell’Insegnamento, aggiungerò di mio che il termine «cura» aveva nella Rus’ antica proprio quella sfumatura politica, che sottende tutto l’Insegnamento. «Cura» denotava, infatti, la difesa dei più giovani e degli offesi da parte dei più anziani. Come moralista, Monomach non si indigna con coloro che disobbediscono, non si mostra patetico né retorico, e non ritiene di costituire un esempio per tutti. Egli è addolorato, medita tristemente, conversa con i lettori e, mirabilmente, se ne accattiva la benevolenza. Naturalmente, l’ideale morale di Monomach ed i pregi artistici della sua opera non potevano nascere da soli, unicamente sulla base di esigenze sociali; le vaste tradizioni letterarie della Rus’ di Kiev ebbero un ruolo molto importante. Nel suo Insegnamento, Vladimir Monomach dimostra una grande conoscenza della letteratura religiosa dotta. Si potrebbero citare decine di esempi in cui l’Insegnamento di Monomach risulta affine alle diverse esortazioni «ai figli», a questo o quel passo delle opere dei padri della Chiesa (soprattutto di Basilio il Grande), a diversi insegnamenti del Prologo, a singole opere della letteratura bizantina, latino-medioevale e perfino anglosassone. Vengono utilizzati dapprima dei passi dei Salmi penitenziali che venivano letti in chiesa alla vigilia e durante le 37
non potevano esserci così tante forme, ma un comando ha disposto che ci fossero…». Lo stupore di fronte alla varietà dei volti umani era il riconoscimento del valore della personalità umana in quanto tale. In bocca al capo dello stato, questo stupore per la varietà delle persone umane significava il riconoscimento del diritto dell’uomo all’individualità, del diritto di essere se stesso, del diritto, così spesso negato da «coloro che sono attratti dal potere». E non a caso, Monomach scrisse nel suo Insegnamento ai principi: «Non lasciate che il forte uccida un uomo», «conducete l’ammalato, accompagnate il defunto, poiché tutti noi siamo mortali», «Non lasciate entrare qualcuno senza averlo salutato, e ditegli una buona parola», «Non evitate di insegnare a coloro che si lasciano attrarre dal potere a non riservare ad alcuna cosa il rispetto assoluto». Nell’Esamerone di Giovanni Esarca si ritrova anche il pensiero politico fondamentale dell’Insegnamento: ciascuno deve accontentarsi del proprio patrimonio, non provare invidia nei confronti degli altri e non attentare ai possedimenti del vicino. Nell’Insegnamento questo concetto viene sviluppato attraverso l’esempio del comportamento degli uccelli, mentre nell’Esamerone si traduce nell’analogo esempio tratto dalla vita dei pesci. Parlando della varietà dei pesci, tra i quali vi sono «i forti» ed «i deboli», Giovanni Esarca osserva che «ci sono animali grandi e piccoli» creati per volontà di Dio «e per questa unica volontà divina tutto è stato generato, piccolo e grande». I pesci vivono in posti diversi e con abitudini diverse, ogni pesce ha il suo posto: «tra questi pesci alcuni nuotano al largo, altri a riva, altri sul fondo e altri sotto le rocce. Alcuni vivono in branchi, altri isolati. E le balene sono enormemente grandi, mentre altri pesciolini sono piccoli. Tutto ciò è stato generato dalla stessa volontà: gli animali grandi e i piccoli». Vladimir Monomach si limitò a sostituire l’esempio edificante dei pesci marini con gli uccelli, che in primavera si spargono per tutta la terra ed ognuno di essi trova il proprio posto. La sostituzione venne operata da Monomach perché questo esempio sarebbe risultato più comprensibile al lettore russo, che non conosceva i pesci del mare ed il loro comportamento. La Rus’ era, infatti, lontana dal mare. Giovanni Esarca nell’Esamerone mostra, come fece successivamente Vladimir Monomach nell’Insegnamento, che ogni uomo deve accontentarsi della propria condizione, come avviene tra gli animali, e non deve avanzare pretese sul territorio del vicino: «… conviene anche imitarli, come se foste della razza dei pesci: ognuno come spartendosi il posto, non staccandosi l’uno dall’altro, ognuno vive entro i propri confini. Nessun geometra ha suddiviso i loro territori, né sono state innalzate pareti, ma ognuno si è sistemato secondo il proprio bisogno… ma noi non siamo così, noi che violiamo leggi eterne, e ci annettiamo la terra che hanno stabilito i nostri padri, ci accaparriamo casa su casa e villaggio su villaggio, sottraendolo anche al nostro vicino». Trova analogia con l’Esamerone anche un altro concetto dell’Insegnamento: «la pigrizia è la madre di tutti i vizi». Rivolgendosi al lettore, Giovanni scrive: «e tu che parli con pigrizia, così anche vivi; il pigro infatti è incline alle azioni cattive». Nell’Insegnamento possiamo trovare chiara traccia della conoscenza che Vladimir Monomach aveva dell’Esamerone di Giovanni Esarca. Evidentemente, Vladimir
prime settimane di quaresima, quindi brani dell’Insegnamento di Basilio il Grande, da un ammonimento inserito nei Prologhi russi dei secoli xii-xiii, dalle profezie di Isaia e dalle orazioni che si leggono nel Triod. L’Insegnamento di Monomach è particolarmente aderente ai Salmi di Davide, che vengono ampiamente citati. Monomach e Davide erano legati dalla comune posizione di poeti regali, e da un sentimento comune: entrambi sentivano la gravità della propria responsabilità, si sforzavano di fondare il proprio orientamento su principi morali, di agire secondo coscienza. Inoltre, l’Insegnamento è molto vicino anche all’Esamerone di Giovanni Esarca. Citando i passi del Salterio che dipingono la grandiosità della costruzione divina, Monomach scrive, rivolgendosi a Dio: «… Infatti chi non loderà, non glorificherà la tua forza e i tuoi grandi prodigi e la tua grazia che hai profuso su questa terra: come hai fatto il cielo, il sole, la luna, le stelle e le tenebre e la luce, e la terra sorge sulle acque, o Signore, tutto è opera tua! Di bestie di ogni specie, e uccelli, e pesci si adorna la tua creazione, o Signore! E ci meravigliamo di questo prodigio, di come dalla polvere hai creato l’uomo, formando una molteplicità di volti diversi, creando tutto il mondo a coppie, non tutte di una forma, ma ognuna con la propria!». La fonte più verosimile delle citazioni contenute nell’Insegnamento di Vladimir Monomach si ritrova, tuttavia, nell’Esamerone, nella traduzione e nella rielaborazione di Giovanni Esarca di Bulgaria, assai popolare nella letteratura russa antica. Si tratta di una delle opere più poetiche della letteratura universale. Lo studio dell’influenza dell’Esamerone sulla letteratura russa dall’xi al xiii secolo rivestirà successivamente un grande interesse storico-letterario. Consideriamo che l’influenza dell’Esamerone di Giovanni Esarca sull’Insegnamento di Vladimir Monomach non si limita al significato generale delle riflessioni sulla saggezza della creazione divina, ma riguarda la stessa maniera stilistica di ammirazione di fronte alla varietà dell’universo: un ammasso di domande retoriche e di esclamazioni, il trasferimento e la collocazione dei verbi al termine delle proposizioni: «E come si può non rallegrarsi vedendo sorgere tutto ciò, e comprendendo chi è l’autore di quest’opera, il cielo è abbellito dal sole e dalle stelle; grazie a chi la terra è divenuta un giardino, ed è popolata di alberi e di fiori e coronata dalle montagne; per opera di chi il mare e i fiumi e tutte le acque sono colme di pesci; grazie a chi è stato preparato questo stesso regno, anche se comprendessimo che non si deve a nessuno, ma coloro che non sapranno rallegrarsi e gioire rendendo gloria a chi è dovuto, anch’essi dovranno pensare che essi stessi sono fatti ad immagine della creazione…». Particolarmente lampante è la coincidenza dell’Esamerone con l’Insegnamento nella disquisizione sulla varietà dei volti umani: «Se non capisci nemmeno – scrive Giovanni – da dove provengono le forme e questi prodigi della divina creazione, quanto esse sono numerose, tu in tante bellezze sconosciute, tu sei fatto a somiglianza di uno solo; anche se andassi a cercarlo fino ai confini della terra non lo raggiungerai; e se anche lo raggiungerai, non sarà del tutto somigliante, o per il naso, o per gli occhi, o per qualche altro tratto, molte volte, infatti, si è manifestato miracolosamente e questi beni sono stati generati da un solo ventre – e nemmeno sarete somiglianti a voi stessi, e 38
saggio ordinamento del mondo, nel quale tutti i principi avrebbero trovato il proprio posto, detenendo le rispettive terre paterne e, alleandosi in Consigli dei principi per un’azione comune contro i nemici esterni, avrebbero salvaguardato i servi della gleba e si sarebbero trattenuti, secondo le norme morali, dall’attentare alle reciproche terre e alla «vita» (alle ricchezze) dei servi della gleba. Nel suo ideale politico Monomach non era solo: era l’ideale politico dei feudatari al tempo del frazionamento della Rus’, fortemente contrastante con la vita, che si faceva sempre ricordare con le violazioni dei giuramenti sulla croce, le congiure dei principi, le scorrerie dei Cumani, contro i quali era sempre più difficile raccogliere un esercito alleato dei principi.
Monomach conosceva bene l’Esamerone e si basò su di esso non solo per le descrizioni della natura o per le sue riflessioni sulla bellezza e la saggezza della creazione, ma anche per le sue opinioni sociali, che propagandavano il nuovo ordinamento politico per il possesso della terra da parte di più principi-proprietari, proclamato dal Consiglio di Ljube/’ del 1097. Tuttavia fino al xii secolo non vi è alcuna opera in cui l’insegnamento fosse a tal punto fuso con momenti autobiografici, pervaso di sentimenti personali così forti, tanto solidamente connesso con la vita quotidiana e con la propria epoca. Ciò avvenne perché l’Insegnamento fu molto sofferto da Monomach, era legato molto strettamente alla sua politica personale, al rafforzamento del nuovo principio politico della divisione della Rus’ in una serie di principati-votčine. Immerso nel vortice delle discordie intestine dei principi, Monomach scrisse il suo Insegnamento con tutta la passionalità di un combattente politico, studiò degli esempi personali per difendere il nuovo ordine politico dai tentativi di violazione da parte dei singoli principi. Se ricordiamo con quale appassionata tolleranza, tolleranza dietro cui si percepisce una tormentosa lotta con se stesso, Monomach decise di andare a riconciliarsi con l’uccisore di suo figlio, per difendere il nuovo principio politico di spartizione della Rus’, comprenderemo il tono stesso del suo Insegnamento, pervaso di sentimento espresso con forza, tanto inconsueto per le opere letterarie dell’epoca. L’appassionata finalità politica dell’Insegnamento di Vladimir Monomach, il suo stretto legame con gli avvenimenti politici del tempo, la costruzione logica di un’unica teoria politica, camuffata talvolta in forma religiosa, lo rende una delle opere pubblicistiche più significative della Rus’. Nell’Insegnamento vi è una sfumatura di tragicità che conferisce all’opera un tono un po’ triste, derivante dall’irraggiungibilità di quello stesso ideale politico cui Monomach tendeva anche nella sua condotta personale: Monomach, malgrado i propri ammonimenti, fu coinvolto nelle congiure dei principi, violò giuramenti e impegni, agendo talvolta sotto la spinta di una reale necessità. Naturalmente l’attività politica dello stesso Vladimir Monomach non sempre era irreprensibile sotto il profilo morale. Nella sua attività vi furono anche casi di slealtà, di violazione dei giuramenti e di crudeltà nei confronti degli abitanti delle città espugnate… Proprio così! E con tutto ciò Monomach seppe rinunciare al bottino illecito, seppe riconoscere i propri errori e seppe, come avvenne con Oleg, rinunciare ai risultati di una vittoria, scusarsi con il mortale nemico senza timore di perdere il prestigio della forza per acquisire quello morale. Monomach introdusse nella propria azione politica un alto e forte principio etico. Scriveva componimenti, esaminava apertamente le proprie azioni da un punto di vista etico, riconosceva apertamente, davanti a tutti, i propri errori, senza esservi spinto da niente e da nessuno, solo in nome della verità. Predicava il proprio sistema politico ed etico ai Consigli dei principi, si sforzava di agire secondo gli accordi. E riuscì a fare molto. Il suo esempio è sorprendente. L’ideale dell’ordinamento politico della Rus’ era per lui lo smembramento politico del territorio tra i principi, ma senza discordie e senza disgregazione: «i forti» e «i deboli» sulla base di una solida ottemperanza agli impegni del vassallaggio e della sovranità feudale. Si immaginava un
La Vita di Feodosij del monastero delle Grotte Un altro capolavoro, assai caratteristico per la fase iniziale della letteratura anticorussa è la Vita di Feodosij del monastero delle Grotte. Essa rappresenta un tipo di narrazione del tutto particolare e già completamente compiuta. E ciò è sorprendente, poiché è opera di quello stesso Nestor che diede una forma definitiva e completamente diversa alla Cronaca primitiva russa, redatta sulla base della precedente Cronaca degli anni passati. La capacità di uniformarsi ai dettami del genere è indice della maturità letteraria raggiunta nel medioevo. La Vita di Feodosij, pur essendo in sostanza la prima agiografia russa, portò alla perfezione il genere biografico. Il racconto sull’uomo in quest’opera si svolge isolandone solo alcuni momenti della vita: quelli, cioè, in cui egli raggiunge il vertice della propria espressione di sé. Dalla Vita di Feodosij veniamo a conoscere buona parte di ciò che lo circonda e il complesso della gente immersa in questa vita quotidiana. Vi troviamo anche le usanze della ricca casa di provincia a Vasil’ev, gestita dalla sua autoritaria madre. Possiamo apprendere qualcosa anche sulla condizione dei servi in questa casa. La fuga di Feo dosij a Kiev ci descrive un convoglio mercantile con i carri sovraccarichi di merci. I suoi rapporti con Izjaslav permettono di gettare uno sguardo nel palazzo del principe durante un banchetto. Ci facciamo un’idea anche delle bande di briganti che si aggiravano nei pressi di Kiev, del tribunale e dei giudici, della scrittura dei libri nel monastero da parte del grande Nikon e dell’aiuto prestatogli da Feodosij per la loro rilegatura. L’agiografo ci introduce nella cucina monastica e principesca, nella stalla contadina, nel forno, nelle celle dei monaci. Ma la descrizione della quotidianità è condotta con molta discrezione, solo nella misura in cui essa è necessaria allo svolgimento del tema, che sempre si eleva al di sopra della pochezza e della vanità della vita «che scorre accanto». Nella condizione di provvisorietà si ravvisa l’eterno, nella casualità l’importante. Grazie a questo, la quotidianità risulta ordinata secondo le forme cerimoniali delle più alte virtù ecclesiastiche. Come quelle vetuste e povere reliquie, che giacciono in preziosi recipienti e davanti alle quali si inchinano i pellegrini giunti al monastero. La povertà della vita monastica, dipinta nella Vita di Feodosij, è più preziosa di tutte le ricchezze terrene, e per questo viene messa in risalto. Nel complesso, la Vita di Feodosij trovò un’espressione ideale allo stile monumentale nella descrizione «particolare» della vita di un singolo uomo. Nello sviluppo successivo della letteratura russa, la narrazione della vita di un uomo 39
sottoposero. Sorgono nuovi importanti centri di gravità: Vladimir-Zalesskij nella terra di Vladimir-Suzdal’, \ernigov, Vladimir-Volynskij e Gali/ nella Rus’ sudoccidentale, Novgorod e Smolensk a Nord e Nord-Ovest. Appare la tendenza ad un frazionamento ancora maggiore. L’unità politica e militare della Rus’ cessa di fatto di esistere. Tuttavia non viene meno la coscienza dell’unità storica, linguistica e culturale di tutto il popolo russo nell’enorme distesa dell’Europa nordorientale. Si sviluppa una tragica contraddizione tra la coscienza unitaria di sé ed il reale stato delle cose. In queste condizioni fu la letteratura a giocare un ruolo decisivo.
era composta sempre da singoli episodi, che presentavano questa vita come importante e predeterminata dall’alto. Ho portato solo qualche esempio della produzione letteraria russa dell’xi secolo e dell’inizio del xii, ma la letteratura russa di questo periodo è estremamente ricca e varia. In ognuna di queste opere possiamo trovare i tratti caratteristici dell’epoca, i tratti individuali dei suoi autori, la varietà dei generi. Accennerò ancora ad alcune opere dell’xi secolo: i Sermoni di Feodosij del monastero delle Grotte, nel quale egli espone delle opinioni del tutto originali, i Sermoni di Luka Židjata di Novgorod (contrazione del nome Židislav), destinati ad un pubblico estremamente semplice e per questo nettamente diversi dalle opere di Ilarion e di Feodosij, le raccolte di massime, del genere dei Cento detti di Gennadij, le epistole ecclesiastiche, le preghiere e così via. L’inizio della letteratura russa antica ne determinò il carattere anche nel periodo successivo. È significativo il fatto che l’influenza della Cronaca degli anni passati rimase attiva per mezzo millennio. In forma piena o abbreviata essa venne trascritta all’inizio di molte cronache regionali e dei principati. Ad essa si ispirarono i cronisti dei periodi successivi. Per la glorificazione politica servì da modello per molti secoli il Discorso sulla Legge e la Grazia del metropolita Ilarion, per la letteratura agiografica del genere del «martirologio» (narrazioni di martirii), la Vita di Boris e Gleb, per le biografie agiografiche la Vita di Feodosij del monastero delle Grotte, per l’omiletica i Sermoni dello stesso Feodosij e così via. In seguito la letteratura russa si arricchisce di nuovi generi, si complica nei contenuti; le sue funzioni sociali acquistano forme sempre più ramificate e svariate applicazioni, la letteratura diviene sempre più pubblicistica, ma non perde per questo la propria monumentalità e il proprio storicismo medioevali.
*** La letteratura del popolo non è la semplice totalità delle opere letterarie. Di per sé le singole opere non costituiscono ancora la letteratura come un tutto unitario. Le opere formano la letteratura quando sono legate tra loro da una certa unità organica, si influenzano vicendevolmente, interagiscono, entrano in un unico processo di sviluppo e svolgono insieme una funzione sociale più o meno significativa. Già nell’xi secolo aveva avuto inizio un «reciproco arricchimento delle opere letterarie» che, nelle condizioni dell’antica Rus’ si limitava principalmente al prestito di interi passi o di singole frasi da un’opera all’altra, all’unione di un’opera con un’altra e alla loro reciproca integrazione, alla compilazione di nuove redazioni e di nuovi capolavori sulla base degli antichi. Tutta la letteratura del xii-inizio xiii secolo rappresenta un’unità reale, in cui le opere si raggruppano, si uniscono tra loro, si continuano reciprocamente, si formano sulla base della corrispondenza di alcuni scrittori che vivevano agli estremi opposti della terra russa. Inoltre essa diviene una letteratura con un unico tema, quello della storia russa, con un’unica idea, quella della necessità dell’unità. Tutta la letteratura russa del xii secolo-inizio xiii è in sostanza un’unica opera che potremmo definire una specie di predicazione dell’unità della terra russa, predica redatta in diversi angoli della Rus’ e nel medesimo stile dello storicismo monumentale che, sorto nell’xi secolo, proprio nel xii e nei primi anni del xiii secolo raggiunge una fioritura particolarmente attiva e valida. L’accademico M.N. Speranskij parlava dell’esistenza di «diversi tipi di letteratura» nel periodo di frazionamento della Rus’. «E questi tipi, – aggiungeva – si basano, tra l’altro, sulle diversità tribali, come su quelle regionali (statali). Sicuramente, grazie alle diverse culture delle singole tribù, anche la letteratura cristiana si diffuse certo in modo non uniforme; in altri termini, siamo dinanzi al principio etnografico di sviluppo di una nuova visione del mondo». Le teorie secondo le quali la letteratura doveva essere «frazionata», come era frazionato in singoli principati feudali tutto l’ordinamento statale dell’antica Rus’, sono diventate un luogo comune di tutte le storie della letteratura. Tuttavia, a differenza di M.N. Speranskij, tutti gli studiosi successivi diedero importanza principalmente non al «principio etnografico» bensì a quello politico, e la divisione della letteratura russa del xii-inizio xiii secolo avvenne anzitutto per principati e non per tribù. Intanto la letteratura russa di questo periodo non solo si sviluppa come entità unitaria, ma non manifesta alcun segno di aspirazione ad una crescita indipendente ed isolata
Il dodicesimo secolo nella letteratura russa L’epoca del frazionamento feudale della Rus’, tra il xii e l’inizio del xiii secolo, è un periodo fondamentalmente contraddittorio e tragico. Da un lato è caratterizzato da un elevato sviluppo delle arti: pittura, architettura, arti applicate, letteratura; dall’altro è segnato da uno sfaldamento quasi totale dello stato russo in principati indipendenti, caratterizzato dalle lotte intestine dei principi che erano la rovina del paese e causa di un generale indebolimento della Rus’ nel suo insieme sotto il profilo militare. Nella propria epoca, la fine dell’xi secolo ed il primo quarto del xii, Vladimir Monomach introdusse un forte principio frenante nel processo di smembramento della terra russa. Con spedizioni che si addentravano nella steppa riuscì a ridurre al silenzio i Cumani. Con la morte di Vladimir Monomach, nel 1125, l’ostilità tra i singoli principi russi si accentuò e nel giro di poco tempo ripresero anche le scorribande dei Cumani. Fino al momento dell’invasione tataro-mongolica le discordie intestine dei singoli rami della stirpe principesca divennero sempre più frequenti. La lotta si svolgeva principalmente tra i discendenti di Vladimir Monomach, i monomachovi/, e i discendenti del fermo oppositore di Monomach, Oleg Svjatoslavi/, gli ol’govi/. Ma all’interno di ciascuno di questi rami nascono contrasti di interessi personali. Si indebolisce l’importanza di Kiev come centro unificante della Rus’, soprattutto dopo i saccheggi cui gli stessi principi russi la 40
Nonostante questa singolare peculiarità della cronachistica russa, essa conservava la tendenza ad abbracciare tutti gli eventi russi, tutta la terra russa. Negli annali di Kiev, a partire dalla seconda metà del xii secolo, troviamo la cronaca di \ernigov e la cronaca di Perejaslavl’-Južnyj, tratte dalla cronachistica nordorientale. Nelle cronache di Perejaslavl’-Južnyj si riflette la cronaca di Kiev. Nella cronachistica di Novgorod, che si apriva con il corpo della Cronaca primitiva kieviana dell’xi secolo, all’inizio del xiii secolo si riflette la cronachistica di Rjazan’ ed appaiono tentativi di uscire dai confini degli avvenimenti riguardanti esclusivamente Novgorod. Nella cronachistica di Vladimir-Zalesskij si uniscono entrambe le cronache di Perejaslavl’-Južnyj, quella episcopale e quella principesca e, per loro tramite, anche quella di Kiev. Anche la cronaca di Vladimir-Volynskij oltrepassò i confini degli eventi locali. I cronisti parevano quasi cercarsi reciprocamente, le loro cronache vengono continuamente trascritte e trasmesse da un principato all’altro. Si manifestano così le tendenze unificatrici dei cronisti, la loro singolare aspirazione al «superamento dello spazio». Nella diversità di modi in cui sono redatti gli annali giunti fino a noi (tra cui i manoscritti principali: l’Ipaziano del xv secolo, il Laurenziano del xiv secolo e il manoscritto Sinodale delle prime cronache di Novgorod del xiii secolo), appaiono non tanto i tratti locali, il cosiddetto «principio regionale», quanto la varietà di generi delle opere che li compongono, la varietà dell’appartenenza sociale dei cronisti e la varietà delle influenze letterarie e «pratiche» da essi subite. Nel Corpo Kieviano del 1200 (che oggi si legge nella raccolta della Cronaca Ipaziana) entrarono non solo le cronache di altri centri annalistici della Rus’, ma anche il genere particolare delle cronache familiari dei principi rostislavi/i (discendenti di Rostislav Mstislavi/), Svjatoslav Ol’govi/ e suo figlio Igor’ Svjatoslavi/ (l’eroe del Canto della schiera di Igor’), entrarono le narrazioni dei crimini dei principi: Storia dell’uccisione di Igor’ Ol’govič e del crimine di Vladimirko di Galič. Il corpo si chiudeva con il solenne discorso dell’igumeno Mosè del monastero Vydubcy in occasione della costruzione delle mura del monastero sul Dnepr. Da questa dovizia e varietà di generi delle fonti era caratterizzata in misura considerevole la ricchezza letteraria della Cronaca Ipaziana del xii secolo giunta fino a noi. La cronaca di Vladimir-Zalesskij (conservata nel corpo Laurenziano) fu redatta presso la chiesa della Dormizione della Madre di Dio e rispecchiava quindi la tendenza degli uomini di Chiesa che la compilarono a vedere in ogni evento significativo l’intercessione della Madre di Dio e la sua particolare protezione sulla città di Vladimir e sul suo principe. Nella cronaca di Vladimir-Zalesskij appare principalmente l’influenza della letteratura ecclesiastica: il Parimijnik (raccolta di passi veterotestamentari), la Vita di Boris e Gleb, il Sermone di Feodosij del monastero delle Grotte «sulla giustizia divina», il Discorso sulla Legge e la Grazia e così via. La cronaca di Novgorod rispecchiava un numero nettamente inferiore di fonti letterarie. La sua lingua era molto vicina alla prosa «d’affari», alla lingua della scrittura sulla corteccia di betulla e della Legge russa. E tuttavia è significativo il fatto che le fonti letterarie degli annali testimonino anche la loro diffusione in tutto il territorio russo. Così, ad esempio, il Discorso sulla Leg-
nelle singole regioni e nei singoli principati. Nessuna delle opere predica la spartizione della Rus’, la separazione di questo o quel principato in uno stato indipendente, nessuna rispecchia l’aspirazione ad un isolamento culturale. Al contrario, gli scrittori di questo periodo sembrano protesi l’uno verso l’altro attraverso le enormi distanze, cercano di stabilire tra loro dei legami, entrano in contatto epistolare, difendono la propria unità e rifuggono l’isolamento artistico. L’aspirazione al superamento delle distanze determina tutto il carattere della letteratura di questo periodo. Ciascun principato ha a cuore la propria comunanza storica con gli altri principati. Lo stile storico-monumentale determina il contenuto, la forma e gli stessi metodi di svolgimento della cronachistica, di redazione delle opere letterarie, i rapporti degli scrittori con il mondo circostante ed il carattere della tradizione letteraria. Le cronache del xii secolo Iniziamo con la cronachistica che, in virtù della propria origine locale, dovrebbe più di ogni altra cosa rispecchiare il carattere locale della letteratura, se effettivamente tale carattere era presente. Intanto, proprio alla cronachistica spettò il ruolo principale nel reciproco arricchimento della letteratura nei secoli xi-xiii. La Cronaca degli anni passati, redatta nei primi anni del xii secolo, tracciò un singolare bilancio dello sviluppo letterario delle epoche precedenti. Essa fu una sorta di «antologia letteraria» delle opere russe e di quelle tradotte. Oltre ai corpi cronachistici precedenti e alle cronache bizantine, nella Cronaca degli anni passati si riflettevano idee e singole espressioni del Discorso sulla Legge e la Grazia del metropolita Ilarion, dell’Insegnamento sulla giustizia divina di Feodosij delle Grotte, delle Vite dei primi santi russi e dei racconti sui primi abitanti del monastero delle Grotte di Kiev, del racconto dell’accecamento di Vasil’ko di Terebovlja e molto altro. Nel xii secolo si verifica un’ulteriore crescita dell’importanza unificatrice della Cronaca degli anni passati. Essa si colloca all’origine di molti annali locali. Evidentemente, la Cronaca degli anni passati dà inizio alla cronaca di \ernigov dei principi Olgovi/i (discendenti di Oleg Svjatoslavi/). Essa nasce a Perejaslavl’-Južnyj (meridionale), a Vladimir-Volynskij e a Vladimir-Zalesskij. In quest’ultimo principato, in una delle copie manoscritte della Cronaca degli anni passati è contenuta la raccolta delle opere di Vladimir Monomach, il suo Insegnamento, la sua autobiografia e la sua lettera a Oleg Svjatoslavi/. Questa inclusione delle opere di Vladimir Monomach diviene un’importantissima azione simbolica, che segna l’adozione degli insegnamenti politici e morali di Monomach nel principato di Vladimir-Suzdal’. La circolazione della Cronaca degli anni passati in tutta la terra russa non fu semplicemente un avvenimento storico-letterario. Fu un fattore di autocoscienza politica. Nel corso del xii secolo nascono in diverse città e monasteri della Rus’ molti annali che sono la continuazione della cronachistica russa. Le cronache si tengono non solo a Kiev, ma anche a \ernigov, a Perejaslavl’-Južnyj (la cronaca principesca e la cronaca episcopale), a Novgorod (sia presso il palazzo del vescovo nella Santa Sofia, sia nella piccola chiesa rionale di San Giacobbe, situata nel quartiere Nerevskij di Novgorod), a Vladimir-Zalesskij, a Rostov, a Vladimir-Volynskij, a Smolensk e, probabilmente, in molte altre città della Rus’. 41
ge e la Grazia, di Kiev, esercita un’influenza sulla cronaca sia nella Rus’ nord-orientale, a Vladimir-Zalesskij, sia in quella sud-occidentale, a Vladimir-Volynskij. Singolare è anche il fatto che il racconto più dettagliato dell’ucci22 sione di Andrej Bogoljubskij non si trovasse nella cronaca di Vladimir-Zalesskij, teatro degli avvenimenti, bensì in quella di Kiev (oggi questo racconto circostanziato si legge nella Cronaca Ipaziana e, più concisamente, in quella Laurenziana). Possiamo ravvisare una certa limitazione locale solo in alcune parti della cronachistica di Novgorod, ma ciò si spiega col fatto che una delle cronache di Novgorod veniva redatta in una piccola chiesa rionale situata nella via Jakovlevaja nel quartiere Nerevskij di Novgorod, dal suo pope German Vojata. I preti delle chiese parrocchiali di Novgorod venivano scelti dagli abitanti del quartiere e questo spiega, evidentemente, il fatto che German Vojata (Vojata è la contrazione del nome pagano Voislav) fosse portatore di concezioni semipagane. Le annotazioni di questo prete dal duplice nome, cristiano e pagano, hanno un carattere in parte personale. Così, ad esempio, nell’anno 1138 German Vojata annota che il 9 marzo «ci fu un grande tuono, che abbiamo udito nettamente sedendo in casa». Nello stesso anno, il 23 aprile: «la gente si spaventò sentendo che Svjatopolk era presso la città con gli pskoviani, e tutta la città uscì sulle fortificazioni, ma non c’era nulla». Dal punto di vista stilistico è assai interessante una nota del 1143, che in alcune parti trasmette anche il ritmo incalzante del linguaggio parlato: «… tutto l’autunno fu piovoso, dal giorno della Dormizione fino all’inizio dell’Avvento (Koročjuna), caldo, pioggia». In questa annotazione va osservata anche la sostituzione del termine cristiano che indica il tempo dell’avvento con la festività pagana detta Koročjuna. L’ordinamento sociale di Novgorod si rifletteva anche sugli altri annali della città che facevano parte del corpo cronachistico di Novgorod, redatto presso la cattedra vescovile della Sofia. La lingua delle cronache di Novgorod è semplice, con una bassa percentuale di espressioni slavoecclesiastiche. In essa, più fortemente che altrove, si possono rilevare espressioni dialettali. Elementi della parlata di Novgorod compaiono nei manoscritti locali abbastanza precocemente (si trovano già ad esempio, nei Minei nel 1096-1097), ma anche questi dialettismi non sono ancora indice di un principio «etnografico regionale» nello sviluppo della letteratura. Essi testimoniano semplicemente una diversità linguistica, e non la comparsa di un’autocoscienza regionale. Dal punto di vista ideale, le singole cronache, come pure i singoli racconti dei crimini dei principi, potevano prendere le parti del proprio principe, dei propri principi locali, esprimere differenti convinzioni politiche (la cronaca era tutt’altro che fredda ed indifferente nei confronti del bene e del male), ma nessun cronista si espresse mai apertamente per il distacco del proprio principato in uno stato autonomo, per un principio separatista nella vita del paese. Al contrario, la discussione verteva solo su chi fra i principi, quale delle linee dinastiche meglio di tutte servisse la causa dell’unità della terra russa.
dell’inizio del xii secolo: il Paterik del monastero delle Grotte di Kiev. Quest’opera si veniva a creare a poco a poco ai diversi estremi della terra russa, sulla base di vari monumenti letterari preesistenti, ed era compenetrata dall’idea del significato panrusso del monastero delle Grotte di Kiev. Il Paterik nacque ai due estremi confini della terra russa, dalla corrispondenza tra il monaco Polikarp del monastero delle Grotte e il vescovo Simon di Vladimir-Suzdal’. In una sua lettera inviata da Kiev a Vladimir, Polikarp si lagnava con Simon di essere escluso dalle cariche ecclesiastiche. Simon rispose a Polikarp con una lettera edificante a proposito del grande onore di lavorare nel territorio del monastero delle Grotte di Kiev, ed allegò alla lettera alcuni brevi racconti sulla vita dei monaci delle Grotte. Evidentemente la lettera sortì il suo effetto su Polikarp, ed egli completò i racconti di Simon con altri suoi nella lettera che scrisse ad Akindin, igumeno del monastero delle Grotte. Le lettere di Simon e Polikarp furono raccolte nel xiii secolo con la narrazione di Nestor sui primi monaci delle Grotte, che a suo tempo fu inclusa nel corpo della Cronaca degli anni passati, con le testimonianze della Vita di Antonij delle Grotte – che non ci è stata tramandata –, ed anche con la Vita di Feodosij delle Grotte ed alcuni altri materiali letterari. Nacque così un’opera composita, non del tutto simile per forma e caratteristiche tipologiche ai paterikì bizantini, ma che tuttavia nei suoi manoscritti di epoca più tarda veniva chiamata proprio paterik, per ricondurla in qualche modo al consueto genere letterario ecclesiastico. Il Paterik del monastero delle Grotte di Kiev risente di svariati influssi: l’influsso della pratica epistolare del suo tempo, l’influenza degli stessi paterikì greci; emergevano la forma espositiva di tipo cronachistico, lo stile della letteratura agiografica, delle composizioni omiletiche e infine il contenuto dei racconti orali, delle tradizioni e di altri generi di folclore slavo orientale. Nella storia letteraria del Paterik di Kiev si può cogliere il sorprendente processo di formazione di un grande monumento letterario dalle caratteristiche originali, sulla base di influssi molteplici, svariati e talvolta inattesi. Tuttavia il Paterik di Kiev appare non meno originale anche dal punto di vista delle idee. Le concezioni cristiane si unirono nel suo contenuto ideale con l’antico culto della Terra22, che influenzò anche in una certa misura l’aspetto contenutistico della struttura stilistica storico-monumentale. Nel Paterik si sottolinea che la chiesa della Dormizione del monastero delle Grotte è stata eretta «da Nord» e «da Sud»: dai Varjaghi, che fornirono i mezzi materiali, e dai Greci, inviati miracolosamente dal monastero costantinopolitano delle Blacherne per costruire la chiesa del monastero ed affrescarla. Il luogo su cui è costruita la chiesa è considerato santo. Esso fu indicato da miracoli. E fu un miracolo ad indicare anche le proporzioni della chiesa. Secondo queste proporzioni sono state costruite anche le chiese della Dormizione della Madre di Dio a Rostov e Suzdal’. Dal monastero delle Grotte provengono i vescovi, e i suoi monaci costruiscono monasteri in tutta la Rus’, fino alla lontana Tmutarakan’ sul Mar Nero. Il monastero diffonde segni di santità per tutta la terra russa. È un santuario russo e universale. Qualsiasi luogo viene consacrato dalla costruzione di un monastero o di una chiesa, da memorie storiche o
Il Paterik del monastero delle Grotte di Kiev La stessa costante integrazione panrussa pervade anche il principale monumento della letteratura storico-religiosa 42
storico-religiose. Su questo si fonda in sostanza anche il concetto della «Santa Rus’»: ogni sua località è confermata nel suo valore assoluto grazie a questi «segni», la consacrazione delle loro memorie e dei monumenti. È indicativo che il vescovo Simon di Vladimir nella sua lettera inviata a Kiev a Polikarp parli del «mondo russo» e del ruolo che svolge in esso il monastero delle Grotte di Kiev. Proprio da qui, dal monastero delle Grotte, uscivano gli esponenti della gerarchia ecclesiastica russa, di Kiev, Perejaslavl’, Rostov, Novgorod, Vladimir, Jur’ev, Polock, Tmutarakan’, \ernigov, Turov, Belgorod, Suzdal’. «E se vuoi sapere tutto, leggi la cronaca dell’antica Rostov». In questa cronaca Simon annota trenta nomi di gerarchi ecclesiastici russi usciti dal monastero delle Grotte di Kiev, ma in tutto, contando anche quelli di epoche successive, «e fino a noi, peccatori», erano circa cinquanta. A questo riguardo c’è da notare un fatto: la lettura, e specialmente la lettura delle cronache, secondo quanto dice Simon, fa nascere l’idea dell’importanza del monastero delle Grotte per tutto il «mondo russo». Questa funzione della lettura si svolge anche nella predicazione della pace, del silenzio e della tranquillità, dell’amore fraterno tra i principi. Il «mondo russo» e «la pace nella terra russa» erano temi sostanzialmente comuni. Questa idea della funzione della lettura è a suo modo straordinaria e molto efficace. Non uno degli scrittori del xii-inizio xiii secolo si abbassò mai ad affermazioni in favore della divisione della terra russa. Gli annalisti e i singoli letterati potevano sbagliarsi, e ritenere che proprio il loro principe fosse dalla parte del giusto nei conflitti che scoppiavano, ritenendolo il primo tra i principi russi e quello più degno di detenere il comando in questo o quel principato della terra russa; ma in tutta la letteratura russa, fino all’invasione di Batyj, si predicava solo una cosa: la necessità di «salvaguardare la terra russa». Il Paterik di Kiev non solo serviva l’ideale dell’unità della Rus’, ma affermava anche l’autonomia di questa Rus’, favoriva la formazione dell’ideale religioso di vita, le abitudini religiose russe, l’«etichetta» monastica. Così, per esempio, nel Paterik si racconta come nacque l’abitudine russa di porre nella mano del defunto una preghiera scritta che chiedeva la remissione dei suoi peccati. Gli autori del Paterik riconoscevano che questa consuetudine non esisteva in altre terre. Gli autori del Paterik cercavano di creare l’ideale di uno stile di vita che seguisse una regola non solo all’interno del monastero, ma anche fuori delle sue mura. Nel Paterik si narra, per esempio, sulla base della Vita di Feodosij, come il principe Izjaslav di Kiev, recatosi a visitare Feodosij, gli chiedesse perché il cibo del monastero era così gustoso, mentre ai suoi banchetti, dove il cibo era vario e pregiato, esso «non era così dolce come qui». Feodosij spiegò al principe il motivo: il cibo veniva cucinato nel monastero con devozione e secondo i rituali – e descrisse questi rituali –, mentre dal principe il cibo era preparato dai servi, che lavorano «litigando e schernendosi e insultandosi a vicenda, e spesso vengono battuti dal guardiano, e così tutto il loro servizio si compie nel peccato». Il Paterik si riferisce al tempo in cui si formò il sistema di vita feudale, si stabilì un modello, uno stile di comportamento, militare, principesco, monastico. A quel tempo ogni ceto sociale appare nella letteratura come nel suo simbolo araldico, che lo raffigura all’atto di svolgere il proprio supremo dovere sociale: il principe esce in bat-
taglia davanti all’esercito, e spezza per primo la sua lancia; gli aiutanti del principe procedono ai fianchi del loro capo; i giovani compaiono davanti al principe; i bojari siedono in consiglio («i bojari nella duma»); i contadini pascolano il bestiame e così via. È caratteristica l’immagine del monaco al lavoro presentata dal Paterik di Kiev: «Spesso il grande Nikon sedeva e scriveva libri, e il beato (Feodosij) seduto accanto a lui filava la lana da intrecciare. Tale era l’umiltà e la semplicità di quell’uomo». Confrontate nel Paterik un’altra scena idilliaca con lo stesso Feodosij: Ilarion «era infatti abile nello scrivere i libri, e costui giorno e notte scriveva libri nella cella del beato padre nostro Feodosij, mentre costui recitava il Salterio a bassa voce e filava la lana o faceva qualcosa d’altro…». La «fabbricazione» dei libri (copiatura, rilegatura, ecc.) era una delle principali occupazioni dei monaci. Ma ce n’erano anche altre. Il Paterik è importante perché descrive anche queste occupazioni dei monaci, accanto alla preghiera e alle celebrazioni: il giardinaggio, la cucina, e talvolta la direzione di opere edili. In quest’ultimo caso il Paterik descrive i conflitti che nascevano tra gli operai salariati, da una parte, e il monastero dall’altra. Persino i monaci non sempre si comportano in maniera ideale. In essi emergono i tratti negativi del carattere, e varie debolezze. Ma i conflitti vengono alla fine sedati, e si ripristina l’idilliaco clima monastico. Il Paterik ci mostra da un lato la formazione di un nuovo genere letterario nella Rus’, e dall’altro, parallelamente a questo, la formazione nella Rus’ del sistema di vita feudale e degli ideali feudali di comportamento. Lodando o condannando, in entrambi i casi gli autori del Paterik propagandavano i rapporti ideali che, secondo loro, dovevano vigere all’interno del monastero e con la società circostante, col principe in primo luogo. Il Pellegrinaggio dell’igumeno Daniil Un’ampia visione della terra russa, come una panoramica, che da un lato coglieva la Rus’ da diverse estremità contemporaneamente e spingeva ad interpretare in un’ampia prospettiva storica gli eventi che vi accadevano (caratteristiche fondamentali dello stile storicomonumentale), e dall’altro spingeva gli scrittori e i lettori delle opere anticorusse del xii-inizio xiii secolo ad interessarsi dei paesi circostanti alla Rus’. Questo interesse caratterizza in modo particolare la cronachistica di Gali/Volynija, entrata a far parte del corpo della Cronaca Ipaziana, giunta fino a noi. In quest’ultima troviamo continuamente testimonianze dei rapporti con l’Ungheria, la Polonia, la Lituania, Bisanzio e i Cumani. La terra russa non è concepita solamente in tutta la sua ampiezza, ma anche come una parte dell’universo, o comunque come una parte del mondo cristiano. A questo riconoscimento della Rus’ come parte dell’universo diede impulso il genere dei Pellegrinaggi in Terra Santa o a Costantinopoli. Essi erano due centri della storia universale, e l’avvicinarsi a questi centri era considerato come l’avvicinarsi all’unità universale. I pellegrini e i semplici viaggiatori trovavano conferma dai loro viaggi che il mondo esiste come entità unitaria, ed esiste anche una storia «sacra» del mondo. Il primo dei Pellegrinaggi fu il Pellegrinaggio dell’igumeno Daniil in Terra Santa. I viaggi in Palestina, sull’Athos e a Costantinopoli continuarono fino al xii secolo. 43
piano ecclesiastico, ma anche, più ampiamente, su quello culturale. Di come il mondo sia stato creato con saggezza parlava dettagliatamente l’Esamerone di Giovanni esarca di Bulgaria. Quest’opera esercitò una forte influenza su tutta la letteratura russa e in parte anche sull’arte figurativa fino al xviii secolo. Era l’opera prediletta dai lettori russi, a cui interessava non solo il senso delle cose transitorie, ma anche di tutto ciò che era stato costituito «per l’eternità». L’Esamerone narrava della creazione del mondo in sei giorni (da cui il suo titolo) e della opportunità di tutto ciò che esiste in esso, dell’autoregolazione di ogni elemento naturale e dell’autopurificazione del mondo, del ciclo delle acque, dell’opportunità di ogni essere vivente, della bellezza del mare e delle onde che si frangevano sulle sue rive sabbiose, della saggezza di aver stabilito nel mondo pesci e uccelli e di molte altre cose. In quest’opera l’uomo era presentato come il centro dell’universo, grazie al quale ogni cosa in natura vive e si compie, e il quale perciò risponde moralmente di tutto ciò che lo circonda e a lui sostanzialmente appartiene ed è sottomesso. Tutte le opere tradotte o giunte a noi dalla Bulgaria corrispondevano perfettamente allo stile dello storicismo monumentale, all’interno del quale si concepiva il mondo nell’antica Rus’ dei secoli xii-xiii. La maggior parte degli apocrifi, dei paterikì del Sinai o degli Abbecedari, delle raccolte di detti trasmettevano al lettore anticorusso la stessa ampia visuale, la capacità di cogliere dietro ad avvenimenti casuali e transitori qualcosa di importante ed «eterno». Strettamente legate alle opere giunteci dalla Bulgaria e Bisanzio erano le opere russe originali che si collocavano all’interno dei rigidi generi tradizionali. La letteratura russa tra il xii e l’inizio del xiii secolo, come abbiamo già visto, cercava continuamente di creare e sviluppare dei generi propri, capaci di rispondere nel migliore dei modi alle esigenze della realtà russa. Persino molti generi tradizionali subirono notevoli cambiamenti, come per esempio le Vite dei santi, l’omiletica, gli insegnamenti, in cui si insinuavano sempre di più motivi politici. Tuttavia il genere dell’omelia solenne si conservò quasi immutato, e in esso gli scrittori anticorussi raggiunsero un alto livello artistico. Tali furono per esempio gli Slovo (Sermoni) di Kirill vescovo di Turov, che si trascrivevano nei manoscritti anticorussi e slavi meridionali assieme alle opere dei migliori oratori cristiani antichi e bizantini: primo fra tutti Giovanni Crisostomo, il padre della Chiesa più stimato nell’antica Rus’. I sermoni di Kirill di Turov, dedicati alle varie feste religiose, sono scritti secondo i migliori canoni dell’oratoria bizantina, si distinguono per la mirabile eleganza della lingua, che teneva prudentemente conto dell’esposizione orale in una chiesa con una grande affluenza di fedeli. A suo modo è anch’essa un’opera dello stile e del pensiero storico-monumentale. In ognuno dei suoi sermoni, Kirill ricorda agli ascoltatori il «significato eterno» di ciò che accade, «il particolare ciclo sacro che corrisponde al ciclo delle feste liturgiche». Egli invitava i propri ascoltatori ad innalzarsi con la mente e col cuore, a guardare alla festa che si celebrava come ad una sorta di azione eterna, esistente «ora e sempre». Ci è giunto assai poco degli scritti di Kliment Smoljati/, metropolita russo, insediato a Kiev, come pure a suo tempo Ilarion, senza la sanzione del patriarca di Costantinopoli. Si è conservata solo la sua lettera a un certo
Sull’Athos andò, per esempio, anche Antonij, fondatore del monastero delle Grotte di Kiev, e vi si recò anche l’igumeno Varlaam, ma soltanto l’igumeno Daniil lasciò degli appunti dettagliati e famosi di questo suo viaggio in Palestina. I suoi scritti sono rivolti, a tutti i Russi che intendano compiere dopo di lui un pellegrinaggio in quei luoghi. È una sorta di guida, dettagliata e istruttiva. Essa testimonia la coscienza di un legame inscindibile tra tutta la terra russa e il centro religioso del mondo di allora, e non è un caso che a Gerusalemme l’igumeno Daniil accenda il turibolo dell’incenso presso il sepolcro del Signore «a nome di tutta la terra russa», e non solo del suo monastero o principato. Daniil si recò in Palestina quando essa si trovava nelle mani dei crociati. Fu ricevuto dal re Baldovino con grandi onori, come rappresentante della terra russa. Daniil parla di sé come di un «igumeno russo» e non di un singolo monastero. Nel Pellegrinaggio di Daniil colpisce la sua preparazione a questo viaggio. Egli conosce la storia dei luoghi dove si deve recare, e perciò sceglie da solo l’itinerario da seguire. Daniil presuppone una simile competenza anche nei suoi lettori. Nella sua opera verifica le proprie conoscenze con ciò che ha visto di persona e completa le informazioni già note sullo stato di conservazione dei monumenti, le loro dimensioni, le distanze tra i luoghi storici e la venerazione tributata loro dalla popolazione locale e dai pellegrini. Molti indizi ci fanno ritenere che Daniil provenisse da uno dei principati del Sud, tuttavia ciò non ha alcuna rilevanza dal punto di vista «ideologico». Alla fine del xii secolo si recò in Terra Santa e a Costantinopoli il novgorodiano Dobrynja Jadrejkovi/, e anch’egli lasciò una descrizione del suo viaggio, una sorta di guida per i futuri viaggiatori russi. Quando nel 1204 i crociati conquistarono e saccheggiarono Costantinopoli, la Rus’ fu profondamente scossa da questo avvenimento. Uno dei Russi che si trovavano allora a Costantinopoli scrisse un racconto particolareggiato della presa di Costantinopoli ad opera dei crociati, una delle descrizioni più dettagliate e circostanziate di quell’evento. L’autore russo del racconto mostrò la sua profonda conoscenza delle questioni bizantine, descrisse i motivi di questa o quell’azione da entrambe le parti e sentì acutamente la tragicità di quanto era accaduto. Il racconto è fatto con cognizione di causa e nello stesso tempo è semplice. L’autore non solo aveva visto con i propri occhi alcuni degli avvenimenti, ma ne aveva anche sentito parlare da altri: dai Greci. Perciò il racconto venne incluso non soltanto in un’opera di storia universale (la Cronaca ellenica e romana), ma anche nella cronaca di Novgorod: Novgorod, che aspirava all’autonomia ecclesiastica da Kiev, aveva legami particolarmente stretti con Costantinopoli, nonostante la sua estrema lontananza, e i novgorodiani erano profondamente interessati a tutto quanto accadeva in quella città. L’interesse per la storia universale incideva anche sulla diffusione di opere di traduzione e compilative sulla storia universale, specialmente sulla storia biblica e bizantina, a partire dalla storia della Grecia e di Roma. Una particolare importanza ebbe a quel tempo la Cronaca ellenica e romana. Con «Cronaca ellenica» si intendeva la descrizione della parte pagana della storia universale; con «romana» si intendeva la storia degli stati cristiani: la prima Roma, quella occidentale, e la seconda Roma, orientale, a cui la Rus’ si sentiva legata non soltanto sul 44
prete Foma. È una parte del loro carteggio (e la corrispondenza epistolare, come abbiamo già detto, era assai caratteristica di quel tempo), svoltosi tra il metropolita kieviano Kliment Smoljati/ (che era anche vescovo di Smolensk), il principe Rostislav Mstislavi/ e il suo sacerdote Foma. Ma già da questa parte si capisce che la corrispondenza nel suo complesso trattava di questioni di carattere universale e riguardava i principi letterari. Foma accusa Kliment di lasciarsi attrarre dalla filosofia pagana, e in particolare dal pensiero di Omero, Aristotele e Platone. Ma ciò non vuol dire che Kliment li conoscesse bene. Evidentemente egli citava i filosofi greci dalle raccolte di detti ampiamente diffuse a quel tempo, ma tuttavia il fatto che le cronache menzionino Kliment come «letterato» o «filosofo» è una prova della grande cultura di questo scrittore, le cui opere per la maggior parte, purtroppo, non ci sono pervenute, benché il cronista lo ricordi come autore di «molte» opere.
camente incoerente, col suo passare dai fatti di viva attualità al ricordo delle gesta di un antico passato, ora adirato, ora triste ed afflitto, ma sempre pieno di fede nella patria, pieno di orgoglio per essa e di certezza nel suo futuro. Il Canto inizia con le riflessioni dell’autore su quale stile scegliere per la propria narrazione. Egli rifiuta la vecchia maniera di Bojan e decide di seguire direttamente le byline del suo tempo, attenendosi ai fatti reali. Questa introduzione lirica, in cui possiamo riconoscere il consueto inizio di molte opere anticorusse (dai sermoni alle Vite di santi), crea un’impressione di immediatezza, di spontaneità del racconto; il lettore ha l’impressione di trovarsi davanti a un’improvvisazione, a un discorso libero dalle pastoie delle tradizioni letterarie, tra cui anche tradizioni forti come quella di Bojan. Ed effettivamente anche in seguito tutto è così immediato, così strettamente legato alla viva lingua parlata, alla poesia popolare, suona così sincero e appassionato che, nonostante un certo tradizionalismo dell’inizio del Canto, siamo portati a credergli. Nel Canto non ci sono tracce di imitazione di uno schema tradizionale dato a priori. Nel Canto si percepisce infatti con chiarezza il respiro ampio e libero della lingua parlata. Come vedremo più avanti, ciò emerge sia dalla scelta delle immagini artistiche, prive di qualsiasi ricercatezza letteraria, sia dallo stesso ritmo della lingua, come fatto apposta per essere declamato. L’autore del Canto si rivolge continuamente ai suoi lettori, come se li vedesse davanti a sé. Li chiama tutti assieme «fratelli» e si rivolge ora all’uno ora all’altro chiamandolo per nome. Nella cerchia dei propri lettori immaginari egli introduce sia uomini del suo tempo che figure del passato. Si rivolge a Bojan: «O Bojan, usignolo del tempo andato! Se celebrassi col trillo l’impresa di Igor’». Si rivolge all’eroe Vsevolod: «O Vsevolod, buj-tur (eroe)! Stai ben saldo al tuo posto di battaglia: lancia frecce contro i nemici, fai rintronare sugli elmi le spade di acciaio brunito!». Si rivolge a Igor’, a Vsevolod di Suzdal’, a Rjurik e Davyd Rostislavi/ e così via. Rivolge liriche domande anche a se stesso: «Quale rumore io sento, che cosa mi risuona lontano, al mattino, prima dell’al-
Il Canto della schiera di Igor’ Il culmine di tutte le caratteristiche ideali-stilistiche della letteratura del xii secolo è segnato dal geniale monu16 mento del Canto della schiera di Igor’. Per le sue idee, il Canto della schiera di Igor’ non era un monumento unico. In sostanza, tutta la letteratura russa del xii secolo è permeata dall’idea della necessità dell’unificazione, e specialmente dell’unificazione dei principi, dell’unione militare e della cessazione delle guerre intestine. La letteratura si oppone alla triste realtà. Essa la respinge, incita a correggerla. In ciò consiste la peculiare dialettica dei rapporti tra letteratura e realtà. Da una parte essa è generata dalla realtà e non può dire nulla che non esista in questa realtà o nella tradizione letteraria di allora (la «realtà secondaria» del suo tempo); dall’altra parte la letteratura precede il proprio tempo. Ciò è particolarmente caratteristico per la letteratura russa che si è sempre adoperata per correggere i difetti sociali. Su questo carattere progressista della letteratura si è edificata tutta l’autorevolezza sociale della letteratura russa. Ed essa ha incominciato a conquistarsi questa autorevolezza sociale fin da principio, ma specialmente nel xii secolo, epoca in cui la letteratura costituiva una grande forza sociale, l’epoca del Canto della schiera di Igor’. Il Canto della schiera di Igor’ è dedicato alla campagna del 1185 contro i Cumani, condotta dal principe Igor’ Svjatoslavi/ di Novgorod-Severskij, ed è scritto evidentemente sotto l’impressione ancora fresca della sua sconfitta. Ma in sostanza il vero eroe di quest’opera è tutta la terra russa, presa nei suoi più ampi confini geografici e storici. E in questa grande estensione della terra russa è racchiusa anche la concretezza dell’appello dell’autore all’unità di tutti i principati russi: l’autore riconosce la loro unità reale ed artistica, la loro comunanza storica e, di conseguenza, la tragedia della divisione nella triste realtà della Rus’, dilaniata dalle discordie tra i principi, e la grandezza ideale e potenziale della sua storia, della sua natura, con cui il popolo russo viveva una cordiale unità. Il Canto non racconta con ordine gli avvenimenti della campagna di Igor’, ma li valuta e li soppesa dal punto di vista storico. Nel Canto gli avvenimenti vengono narrati come se fossero fatti ben noti ai lettori. L’opera è rivolta ai contemporanei del principe Igor’. È il focoso discorso di un patriota, un discorso appassionato e commosso, poeti-
15. L’apparizione della città di Vladimir e dell’icona della Madre di Dio Vladimirskaja al principe Vsevolod Jur’evič durante una campagna (1177), dalla Cronaca di Radziwiłł (Königsberg), fol. 222, xv sec.; San Pietroburgo, Biblioteca dell’Accademia delle Scienze.
45
risuona lontano, al mattino, prima dell’alba?», «Non può risorgere l’ardita schiera di Igor’!». L’autore del Canto segue mentalmente l’esercito di Igor’ e sempre mentalmente lo piange, interrompendo la narrazione con digressioni liriche molto vicine ai pianti. «Dorme nel campo l’ardito nido di Oleg, è volato lontano! Ma non era nato per subire l’offesa: né del falco, né del nibbio, né di te, nero corvo cumano!». Il legame dei pianti con il canto lirico è particolarmente forte nel cosiddetto pianto di Jaroslavna dal Canto della schiera di Igor’. È come se l’autore del Canto citasse il pianto di Jaroslavna, lo riporta in frammenti più o meno lunghi o lo compone per Jaroslavna, ma in forme che potrebbero essere veramente attribuite a lei. I canti di gloria entrano a far parte del Canto non meno attivamente del pianto. Il Canto inizia e si conclude con la glorificazione di Igor’, Vsevolod, Vladimir e della sua družina. Cantano gloria a Svjatoslav Tedeschi e Veneziani, Greci e Moravi. La gloria risuona a Kiev, la cantano le fanciulle sul Dunaj. Soffia attraverso il mare, copre la distanza dal Dunaj a Kiev. Singoli frammenti dei canti di gloria risuonano di quando in quando nel Canto: sia dove il suo autore parla di Bojan, sia dove compone un canto esemplare in onore della campagna di Igor’, sia alla fine del Canto, dove augura salute al principe e alla družina. Canti di gloria si sentono qua e là rivolti ai principi russi, nel dialogo tra Igor’ e Donec («O principe Igor’! Non piccola è la tua grandezza…», «O Donec! Non piccola è la tua grandezza…»). Infine vengono riportati direttamente nella parte conclusiva: «Splende il sole nel cielo, Igor’ il principe è tornato. Igor’ è in terra di Rus’». I canti di gloria, al contrario dei pianti, erano legati molto strettamente alle consuetudini principesche, e questo legame si può osservare sempre nel Canto. Bojan canta gloria ai principi al suono di uno strumento a corda; le fanciulle e i forestieri cantano gloria ai principi. I canti di gloria erano probabilmente eseguiti in modi diversi, ma erano sempre cantati ai principi in determinate circostanze (un banchetto conviviale, il ritorno del principe nella propria città natale e così via). E così il Canto è molto vicino ai pianti e ai canti di gloria. E i pianti e i canti di gloria vengono ricordati molto spesso nelle cronache dei secoli xii-xiii. Il Canto si avvicina loro sia per la forma che per il contenuto, ma nel suo complesso non è certamente né un pianto né un canto di gloria. La poesia popolare non ammette confusione di generi. Il Canto è un’opera letteraria, ma vicina a questi generi della poesia popolare; è apparentemente un genere particolare di poesia letteraria, forse ancora non del tutto formata.
ba?». Si interrompe da solo con esclamazioni di dolore: «O terra di Rus’, sei ormai troppo lontana!», «Questo accadeva in quelle guerre, e in quelle imprese, ma di una simile impresa mai si è sentito parlare!». Tutto ciò crea l’impressione di una immediata vicinanza dell’autore del Canto con colui al quale si rivolge. Questa vicinanza oltrepassa i confini della vicinanza dello scrittore al suo lettore, è piuttosto la vicinanza dell’oratore ai suoi ascoltatori. L’autore si sente come se stesse parlando e non scrivendo. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare di trovarci davanti a una tipica opera di oratoria, supporre che al Canto della schiera di Igor’ siano associati i tratti di un sermone oratorio. Non è esclusa la possibilità che il Canto sia stato pensato dall’autore proprio per essere cantato. In ogni caso nel Canto si trova un’atmosfera lirica, una immediata comunicazione dei sentimenti e degli stati d’animo più di quanto ci si sarebbe potuti aspettare da un’opera oratoria. Straordinariamente forte nel Canto è anche la sua ritmicità. Bisogna infine notare che l’autore del Canto, sebbene definisca la propria opera in modo molto vago, ora «discorso», ora «canto», ora «racconto», tuttavia scegliendo il proprio stile poetico considera come suo predecessore non uno dei famosi oratori dei secoli xi-xii, ma Bojan, il cantore e poeta che eseguiva le proprie composizioni con l’accompagnamento di uno strumento a corda, probabilmente i gusli. L’autore del Canto contrappone fino a un certo punto il proprio stile poetico allo stile di Bojan (egli promette di cominciare il proprio «canto» «secondo i fatti del nostro tempo, non secondo la fantasia di Bojan»), tuttavia questa contrapposizione è possibile anche perché egli considera Bojan come il suo predecessore in quel genere di poesia in cui crea egli stesso. Possiamo trovare procedimenti oratori in qualsiasi opera della letteratura anticorussa: in misura maggiore o minore, ma sono presenti dappertutto. Ecco perché riflettendo sulla natura tipologica del Canto è importante rivolgersi alla poesia popolare. Il Canto non è un’opera di poesia popolare, ma la poesia popolare, come vedremo in seguito, ha comunque una relazione diretta con la questione del suo genere letterario. Il legame del Canto con le opere della poesia popolare orale si percepisce con maggiore chiarezza all’interno dei due generi più spesso ricordati nel Canto: il pianto e l’esaltazione, la gloria, sebbene non si riduca assolutamente ad essi. L’autore del Canto riporta letteralmente nella sua opera i pianti e le glorificazioni, e li segue più di tutto nella propria esposizione. Il loro contrasto emotivo gli dona quell’ampia gamma di sentimenti e di mutevoli umori che è così caratteristica nel Canto, e che già di per sé lo distanzia dalle opere del folclore popolare di tradizione orale, dove ogni opera rientra fondamentalmente in un unico genere e in un unico stato d’animo. I pianti sono ricordati non meno di cinque volte dall’autore del Canto: il pianto di Jaroslavna, il pianto delle mogli dei guerrieri russi caduti nella campagna di Igor’, il pianto della madre di Rostislav. L’autore del Canto ha in mente i pianti anche quando parla dei lamenti di Kiev e \ernigov e di tutta la terra russa dopo la campagna di Igor’. Due volte l’autore del Canto riporta anche i pianti stessi: il pianto di Jaroslavna e il pianto delle donne russe. Si distoglie spesso dalla narrazione, ricorrendo ad esclamazioni liriche, tanto caratteristiche dei pianti: «O terra di Rus’, sei ormai troppo lontana!», «Questo accadeva in quelle guerre, e in quelle imprese, ma di una simile impresa mai si è sentito parlare!», «Quale rumore io sento, che cosa mi
*** Ci chiediamo allora se il Canto fu la prima opera di questo particolare genere poetico in cui è scritto, oppure se aveva già alle spalle un’antica tradizione. Forse il tempo non ci ha tramandato i suoi predecessori, oppure essi non sono mai esistiti? Purtroppo non è giunta fino a noi nessuna opera dell’epoca precedente al Canto che lo ricordi almeno in parte nel suo carattere. Possiamo trovare singole analogie al Canto nei dettagli, nei singoli metodi del linguaggio oratorio o poetico, ma non nel loro complesso. Soltanto dopo il Canto, nel xii secolo, troviamo nella letteratura russa antica alcune opere in cui incontriamo lo stesso accostamento 46
La condanna di Igor’ si sente chiaramente anche in un altro passo del Canto della schiera di Igor’, ad un altro proposito. Paragonando la battaglia dell’esercito di Igor’ e dei Cumani con un banchetto, l’autore del Canto dice: «È mancato il vino di sangue, han posto fine alla festa i bravi guerrieri russi: han dato da bere ai compari, e sono caduti per la terra di Rus’». L’autore del Canto è solitamente preciso nella scelta delle espressioni. Non a caso egli usa il termine «compari» riferendosi ai Cumani. Il khan Kon/ak, condottiero delle forze polovesiane (cumane), era effettivamente «consuocero» di Igor’. Prima di questi fatti il figlio di Igor’ era già fidanzato con la figlia di Kon/ak. Le nozze furono celebrate in prigione. Vladimir tornò dalla prigionia «con un figlio» e celebrò il matrimonio religioso al ritorno dalla prigionia. Tuttavia i Cumani erano «compari» dei principi russi non solo in un caso. Oleg «figlio di amara gloria» era sposato con la figlia del khan Asalup. Svjatopolk Izjaslavi/ di Kiev era sposato con la figlia di Tugorchan. Jurij Dolgorukij era sposato con la figlia del khan Aepa, nipote del khan Osen’. Il figlio di Monomach, Andrej il Buono, era sposato con la nipote di Tugorchan; Rjurik Rostislavi/ con la figlia del khan Begljuk. La nipote del khan Kon/ak fu data in sposa a Jaroslav Vsevolodovi/. Come vediamo, rivolgendo il suo appello ai principi russi, indirizzando loro in primo luogo la sua esortazione a levarsi in difesa della Rus’, l’autore del Canto della schiera di Igor’ aveva tutto il diritto di chiamare con amarezza «compari» i Cumani, nemici della Rus’. E così lungo tutto il Canto della schiera di Igor’ l’autore dimostra per Igor’ una costante simpatia. Ma, pur provando simpatia per Igor’, condanna i suoi atti, e questa condanna, come abbiamo visto, viene messa direttamente sulle labbra di Svjatoslav di Kiev, ed è sottolineata da tutti i paralleli storici portati nel Canto. La sua posizione, in ogni caso, non è quella di un cortigiano di Igor’ Svjatoslavi/, né tantomeno di Svjatoslav Vsevolodovi/. L’autore è indipendente nei suoi giudizi. Nella figura di Igor’ Svjatoslavi/ appare chiaramente come gli eventi storici siano più forti del suo carattere. I suoi atti sono più condizionati dagli errori della sua epoca che non dai suoi tratti personali. In sé Igor’ Svjatoslavi/ non è né cattivo né buono: semmai piuttosto buono che cattivo, ma le sue azioni sono cattive, e questo perché su di lui dominano i pregiudizi e gli errori dell’epoca. Per questo nel Canto passa in primo piano l’aspetto sociale e storico rispetto a quello individuale e transitorio. Igor’ Svjatoslavi/ è figlio della sua epoca. È un principe «medio» del suo tempo; ardito, coraggioso, con un certo amor di patria, ma avventato e poco lungimirante, preoccupato più del proprio onore che dell’onore della patria. Nel Canto gli avvenimenti della campagna di Igor’ sono presentati su di un ampio fondale storico. L’autore del Canto ricorre ad un continuo confronto tra presente e passato. E queste divagazioni liriche dell’autore non sono affatto casuali. Non ci troviamo di fronte solo ad un «disordine poetico», ma ad ampie generalizzazioni storiche basate su confronti storici. L’autore del Canto della schiera di Igor’ ricorre alla storia russa come al mezzo per penetrare il senso degli avvenimenti contemporanei, come metodo di generalizzazione artistica. Questa utilizzazione del passato per comprendere il presente trovò la sua massima espressione nelle figure dei
di pianto e canto di gloria, lo stesso spirito corporativo, lo stesso patriottismo militare che permettono di riunirle in un unico genere assieme al Canto, e persino di collegare questo genere con l’ambiente profano, principesco-corporativo, l’unico dove esso poteva nascere e svilupparsi. Ci riferiamo alle seguenti tre opere: la Lode di Roman Mstislavič di Galizia, che si legge nella Cronaca Ipaziana nell’anno 1201, il Canto sulla rovina della terra russa e la Lode della stirpe dei principi di Rjazan’, giunta fino a noi nel corpo dei Racconti su Nicola di Zarajsk. Tutte e tre queste opere sono rivolte al passato, e ciò costituisce la base dell’accostamento tra pianto e canto di gloria. Ognuna di esse combina il principio letterario con lo spirito della poesia popolare dei pianti e dei canti di gloria, e tutte sono strettamente legate all’ambiente della družina e allo spirito di corpo dell’onore militare. *** Il richiamo all’unità di fronte ai pericoli esterni anima tutto il Canto dall’inizio alla fine. L’autore del Canto della schiera di Igor’ dimostra la necessità di questa unità con l’esempio della sfortunata campagna di Igor’, portando numerosi paragoni storici, descrivendo le conseguenze delle lotte tra i principi, tracciando un ampio quadro della terra russa, piena di città, di fiumi e di numerosi abitanti, raffigurando la natura russa, gli spazi sconfinati della patria. Sull’esempio della campagna di Igor’ e del suo insuccesso l’autore mostra le tristi conseguenze della mancanza di unità. Igor’ subisce una sconfitta solo perché ha intrapreso la campagna da solo. Egli agisce secondo la formula feudale: «ognuno per sé». Le parole di Svjatoslav di Kiev rivolte ad Igor’ Svjatoslavi/ caratterizzano in una certa misura anche l’atteggiamento dell’autore del Canto nei suoi confronti. Svjatoslav dice, rivolgendosi a Igor’ e Vsevolod: «O miei nipoti, Igor’ e Vsevolod! Troppo presto incominciaste a straziare con le spade la terra dei Cumani, in cerca di gloria: ma in disonore vi siete battuti, in disonore versaste il sangue pagano. I vostri cuori intrepidi sono forgiati in duro acciaio brunito, e temprati in furore. Perché avete fatto questo alla mia canizie d’argento? (…) Ma voi diceste: combattiamo da soli, da soli la gloria futura dividiamo e superiamo la gloria passata! Ma non sarebbe strano, fratelli, per un vecchio ringiovanire? Quando un falco si trova in muta, caccia alto gli uccelli, né abbandona il suo nido all’offesa. Perché questo è male: l’inimicizia dei principi verso di me. E il tempo si è volto in sciagura». Sostanzialmente nel Canto tutto il racconto della campagna di Igor’ si attiene a questi tratti enunciati da Svjatoslav: l’avventato Igor’ intraprende la campagna, benché essa sia destinata all’insuccesso fin da principio. Egli scende in guerra nonostante tutti i «presagi» sfavorevoli. L’unica forza che lo muove in questa azione è l’aspirazione ad una gloria personale. Igor’ dice: «Fratelli e družina! Meglio essere calpestati che fatti prigionieri. Montiamo, fratelli, sui nostri veloci destrieri, per guadare l’acqua dell’azzurro Don», e ancora: «Voglio – disse – con voi, o Russi, spezzare la mia lancia sul confine del campo dei Cumani; voglio scommettere la testa o bere con l’elmo l’acqua del fiume Don!» (cfr. la lode di Igor’ e Vsevolod nel racconto della Cronaca Laurenziana sulla campagna di Igor’: «Non siamo principi, forse? Andiamo e così ci conquisteremo la gloria»). Il desiderio della gloria personale «diviene per lui un presagio». Nessuno può fermare Igor’ nel suo fatale cammino. 47
S. Romasov, aprile 1992
16. Carta della Rus’ all’epoca del Canto della schiera di Igor’ (fine xii secolo).
48
due iniziatori delle rivolte feudali, due capostipiti delle famiglie principesche più inquiete: Oleg «figlio di amara gloria» e Vseslav di Polock. Lo stesso richiamo all’unità è ribadito dall’immagine centrale del Canto, l’immagine della terra russa. L’autore del Canto la presenta nell’unità degli estremi punti geografici: Novgorod a Nord e Tmutarakan’ a Sud, il Dunaj e il Volga, la Dvina occidentale e il Don. Anche solo l’elenco delle città russe ricordate nel Canto darebbe un’idea abbastanza precisa dei vasti confini della terra russa: Kiev, \ernigov, Polock, Novgorod Velikij e Novgorod-Severskij, Tmutarakan’, Kursk, Perejaslavl’-Južnyj, Belgorod, Gali/, Putivl’, Rimov; sono ricordati anche i principi Vladimir di Zales’e e Vladimir di Volynija, Smolensk e Rylsk. Parlando della terra russa e della Rus’ nel xii secolo, all’epoca del frazionamento feudale, si intendeva molto spesso solamente il territorio di Kiev e i suoi vicini più prossimi. «Andare nella Rus’» nel xii secolo significava spesso dirigersi a Kiev. Perejaslavl’-Južnyj, a differenza di Perejaslavl’-Zalesskij, si chiamava Perejaslavl’ «Russa». A Novgorod la strada per Kiev si chiamava «la via russa». Questa accezione del concetto di Rus’ limitata al principato di Kiev era la tipica conseguenza del frazionamento feudale, quando solamente Kiev poteva ancora pretendere di rappresentare tutta la Rus’ nel suo complesso. Contrariamente a ciò, per l’autore del Canto della schiera di Igor’ il concetto di terra russa non è limitato entro i confini del principato di Kiev. L’autore del Canto vi comprende il principato di Vladimir-Suzdal’ e Vladimir in Volynija, Novgorod Velikij e Tmutarakan’. Quest’ultima cosa è particolarmente interessante: l’autore del Canto include nel novero delle terre russe anche quelle la cui autonomia politica era andata perduta nella seconda metà del xii secolo. Così, per esempio, il fiume Don, su cui sorgeva l’accampamento dei Cumani, ma dove si trovavano anche numerosi insediamenti russi, è considerato dall’autore del Canto un fiume russo. Il Don chiama il principe Igor’ «alla vittoria». Il Donec aiuta Igor’ durante la sua fuga. Le fanciulle «sul Dunaj», dove esistevano effettivamente insediamenti russi, cantano la gloria di Igor’ Svjatoslavi/ dopo il suo ritorno a Kiev. Qui si ode anche il pianto di Jaroslavna. Persino il principato di Polock, che nel xii secolo si contrapponeva costantemente al resto della terra russa, è considerato nel numero dei principati russi. L’autore del Canto rivolge ai principi di Polock l’appello a difendere la terra russa assieme a tutti i principi russi; li invita a interrompere i loro «contrasti» con gli Jaroslavi/ e così via. Dunque per l’autore del Canto la terra di Polock è terra russa. La stessa concezione della terra russa come un’unica grande entità emerge anche quando l’autore parla della difesa dei suoi confini. I nemici meridionali della Rus’, i Cumani, sono per lui i nemici principali, ma non gli unici. Egli considera la difesa dei confini russi come una realtà unitaria: parla delle vittorie di Vsevolod di Suzdal’ sul Volga, cioè contro i Bulgari del Volga, della guerra dei principi di Polock contro i Lituani, delle «porte» della terra di Galizia sul Dunaj, contro le terre del Dunaj sottomesse a Bisanzio. Anche l’intera natura russa appare all’autore come un tutto unitario. Il vento, il sole, le nuvole temporalesche in cui balenano lampi azzurri, i crepuscoli e le albe, il mare, i dirupi, i fiumi, costituiscono quel fondale straordinariamente ampio sul quale si svolge l’azione del Canto, danno
la sensazione delle ampie distese della patria. Il paesaggio del Canto è visto come da una enorme altezza. L’«orizzonte» di questo paesaggio abbraccia paesi interi; i confini del paesaggio sono ampi e lasciano vedere non una porzione della natura, ma un paese, una regione. Questo vasto paesaggio emerge con particolare evidenza nel canto di Jaroslavna. Jaroslavna si rivolge al vento che soffia sotto le nubi accarezzando le navi sul mare azzurro, al Dnepr, che si è aperto un varco nelle montagne rocciose attraverso la terra di Polock portando su di sé le barche di Svjatoslav fino al campo di Kobjak, al sole, che è caldo e bello per tutti, ma nella steppa arida ha mandato i suoi raggi cocenti contro i guerrieri russi, ha legato i loro archi con la sete e chiuso le loro faretre col languore. Inoltre la natura non è esclusa dagli eventi storici. Il paesaggio del Canto è strettamente legato all’uomo. La natura russa partecipa alle gioie e ai dolori del popolo russo. Quanto più ampiamente l’autore concepisce la terra russa, tanto più concreta e vitale si fa la sua immagine, nella quale prendono vita i fiumi, che dialogano con Igor’, mentre alle fiere ed agli uccelli viene assegnata un’intelligenza umana. La sensazione dello spazio e della vastità presente nel Canto è rafforzata dalle numerose scene di caccia col falco, dalla partecipazione alla vita dei volatili (oche, anatre, corvi, cornacchie, usignoli, cuculi, cigni, nibbi) che compiono grandi voli («Non la tempesta ha portato i falchi attraverso le ampie distese: stormi di cornacchie fuggono verso il grande Don», ecc.). Questa unificazione di tutta la terra russa in un’immagine unica, concreta, viva ed impressionante, le ampie descrizioni della natura russa sono uno degli elementi più importanti nell’appello dell’autore all’unità. Qui il contenuto ideale del Canto è inscindibile dalla sua espressione formale. L’appello all’unità sgorga con libertà e naturalezza da questa immagine centrale del Canto, l’immagine di un’unica Patria, bellissima e sofferente. Questa immagine desta compassione per la terra russa, suscita amore per la sua natura, orgoglio per il suo passato storico e la coscienza delle energie invincibili riposte in essa. *** Nell’antica Rus’ le opere storiche erano solitamente scritte poco dopo lo svolgersi dei fatti, da testimoni oculari o autori contemporanei. Successivamente queste opere potevano essere modificate: completate, fuse con altri componimenti, rielaborate dal punto di vista stilistico e ideologico. Così per esempio il cronista aggiungeva nuove annotazioni alle antiche cronache. Spesso il cronista accorciava le antiche annotazioni delle cronache, le completava con componimenti affini sul medesimo tema, creava grandi compilazioni storiche, ma scriveva righe totalmente nuove solo su argomenti che conosceva come contemporanei ad essi. Nell’antica Rus’ non si scrivevano opere nuove ed originali sugli avvenimenti della grande antichità. Si esprimeva così il rispetto dei letterati dell’antica Rus’ per la verità storica; le opere storiche erano considerate come una sorta di testimonianza dell’uomo contemporaneo. Il Canto della schiera di Igor’ non costituisce un’eccezione a questo proposito. Non è nello stile di una compilazione, di un «corpo» che raccoglie materiale di epoca precedente, al contrario è molto unitario per stile e contenuto, e si può pensare perciò che sia stato scritto da un contemporaneo. La sua competenza è la competenza 49
tipica del contemporaneo, e non di un letterato erudito che riproduce gli avvenimenti secondo «fonti storiche» di vario genere. Egli non solo sa di più del cronista, ma vede e sente gli avvenimenti in tutta la luminosità delle impressioni vive. Egli sa, per esempio, che durante la battaglia di Igor’ con i Cumani il vento soffiava dalla parte dei Cumani, e ne fa menzione per due volte (nella descrizione dell’inizio della battaglia e nel pianto di Jaroslavna). In effetti i venti del Sud sono caratteristici di questa parte pianeggiante dell’Europa orientale nella stagione primaverile ed estiva. L’autore conosce e percepisce vivamente la natura della steppa del xii secolo: il fischio delle arvicole e il rumore dei picchi sui fiumi paludosi della steppa, le abitudini delle folaghe, il latrato delle volpi contro gli scudi di cui non sopportavano il colore scarlatto, e così via. Conosce anche la collocazione del palazzo del principe di Gali/, «alto» su un monte; sa che Igor’ si era recato a Kiev da \ernigov per via fluviale ed era salito «nella città alta» di Kiev dall’imbarcadero per la salita di Bori/ev; sa dell’esistenza di insediamenti russi sul Dunaj; sa anche che Nezatina Niva, dove scoppiò la battaglia nel 1076, si trovava presso il fiumiciattolo Kanina di \ernigov, e molte altre cose. Essendo un contemporaneo, l’autore del Canto conosce bene la situazione politica dei singoli principati russi. Con straordinaria precisione l’autore valuta la situazione politica del principato di Vladimir-Suzdal’, delle terre di Gali/, di Polock e così via. Solo da poco tempo siamo in grado di apprezzare l’esattezza di molte indicazioni storiche dell’autore del Canto, che prima sembravano erronee (per esempio la sepoltura di Izjaslav «presso la Santa Sofia» a Kiev; gli studiosi supponevano che Izjaslav fosse stato sepolto nella chiesa della Decima). Infine, la lingua del Canto è indubbiamente la lingua della seconda metà del xii secolo. L’autore usa una terminologia politica che incominciò ad entrare nell’uso soltanto negli anni ’70 del xii secolo (il termine «signore» riferito al principe). Egli usa correttamente la complessa terminologia feudale e militare del xii secolo: «salire a cavallo», «bere l’acqua con l’elmo» dal Don o dal Volga, «offesa», «ammainare la bandiera», «scalpitare», «spezzare la lancia», «questo è mio e questo è tuo» (nel Canto quest’ultima espressione è riadattata ironicamente: «questo è mio e questo è ancora mio»), «padre», «figlio» (per indicare i rapporti feudali di potere e subordinazione) e così via. Molti di questi termini sono completamente scomparsi nella lingua dell’epoca postmongolica. Come hanno dimostrato gli studi più recenti, l’autore del Canto usa vocaboli turchi nella loro forma tipica del xii secolo. Sono archeologicamente precise anche tutte le armi citate nel Canto. Le spade, poi cadute in disuso, nel xii secolo erano ancora usate accanto alle sciabole che incominciavano ad entrare nell’uso militare. Gli scudi dei Russi erano effettivamente dipinti di un colore scarlatto. L’utilizzo massiccio delle frecce all’inizio del combattimento per disperdere le file del nemico era effettivamente una consuetudine diffusa nel xii secolo. Archeologicamente precise anche le indicazioni sui dettagli dell’abbigliamento. Sono state etnograficamente confermate anche le credenze popolari dell’antica Rus’ che si riflettono nel sogno di Svjatoslav di Kiev.
Le «sete» e i «preziosi broccati» che i guerrieri di Igor’ presero dalle tende dei Cumani, sono le stesse merci che i Cumani venivano a vendere nella Rus’, comprandole dai Greci nelle città sul Mar Nero. Gli elmi «spaccati» dei Cumani potevano essere effettivamente spaccati, poiché erano fatti in legno e solo ricoperti da un rinforzo di acciaio. I cavalli ungheresi godevano veramente di grande fama nella Rus’ e l’Ungheria li esportava davvero in altri paesi. I prigionieri venivano effettivamente rinchiusi nelle «gridnicy», grandi sale da ricevimento («E cadde Kobjak nella città di Kiev, nella grande sala di Svjatoslav»). Anche un dettaglio come l’accenno nel Canto alle «belle» fanciulle polovesiane trova conferma in Nizami, nel suo poema Iskandarnameh (Libro di Alessandro) dove se ne decanta la bellezza. Si potrebbero aggiungere molte altre considerazioni a riprova del fatto che il Canto è stato composto da un contemporaneo agli avvenimenti, ma la prova più importante e convincente è l’indiscutibile freschezza dell’impressione. Il Canto della schiera di Igor’ non è la narrazione storica di un lontano passato: è l’eco agli avvenimenti del suo tempo, pieno di un dolore che ancora non si è affievolito. Nella sua opera l’autore del Canto si rivolge ai contemporanei degli avvenimenti, che ne erano bene al corrente. Perciò il Canto è intessuto di allusioni, ricordi, sordi accenni a qualcosa che era ancora davanti agli occhi di tutti i suoi lettori contemporanei. *** La conoscenza del Canto emerge distintamente in tutto lo sviluppo successivo della letteratura russa antica. Così, per esempio, nell’Apostolo (un testo liturgico) di Pskov del 1307, custodito nel Museo storico statale di Mosca, si legge la seguente aggiunta, fatta dal copista sull’ultimo foglio del manoscritto: «In quell’anno ci fu guerra nella terra di Rus’, di Michail e di Jurij, per il principato di Novgorod. Nel tempo di questi principi… si seminavano e crescevano le discordie, periva la nostra vita, nelle contese dei principi, e le vite degli uomini si accorciavano». La seconda parte di questa annotazione è una rielaborazione del seguente passo del Canto: «Allora, al tempo di Oleg, Figlio di amara gloria, si seminavano e crescevano le discordie, e periva la vita (ricchezza) del nipote di Daždbog, e nelle lotte dei principi si accorciava la vita alla gente». Proprio all’inizio del xv secolo il Canto servì come modello letterario per la creazione della Zadonščina. La Zadonščina è un breve componimento poetico dedicato all’esaltazione della vittoria di Dmitrij Donskoj sul campo di Kulikovo, «za Donom», oltre il Don. La Zadonščina utilizza per il suo scopo alcune immagini del Canto della schiera di Igor’, contrapponendo il triste passato alla gioia della vittoria. In realtà l’autore della Zadonščina non sempre comprese il Canto, ed alterò e indebolì molte delle sue immagini artistiche. Così, per esempio, nel Canto della schiera di Igor’ il Dnepr attraversa le «montagne rocciose», cioè le rapide; nella Zadonščina questa immagine è riferita al Don, anche del Don si dice che attraversa montagne rocciose; ma il Don non incontra mai lungo il suo corso né rapide, né montagne. Attraverso la Zadonščina, e in un caso anche direttamente, il Canto esercitò la sua influenza anche su un’altra opera dedicata alla battaglia del Don, la comunemente 50
nota Narrazione sulla strage di Mamaj (nella sua cosiddetta variante «a stampa»). Nel xvi secolo il Canto fu indubbiamente trascritto a Pskov o a Novgorod (il manoscritto del Canto bruciato nell’incendio del 1812 proveniva proprio da qui). Così il Canto della schiera di Igor’ di quando in quando dava notizia di sé in diverse zone della Rus’. Veniva letto e copiato, vi si cercava ispirazione per le proprie opere. Nato al Sud della Rus’, il Canto «non si smarrì – come dice A.S. Orlov – sul limitare di un campo selvaggio, ma occupò l’intero orizzonte del territorio russo compiendone ripetutamente il diametro»23. Uno dei manoscritti del Canto, trascritto evidentemente nel xvi secolo, fu ritrovato all’inizio degli anni ’90 del xviii secolo dal noto amatore e collezionista di antichità russe A.I. Musin-Puškin. Il testo del Canto era contenuto in una raccolta di opere anticorusse di contenuto profano. Stando a quanto dice lo stesso Musin-Puškin, fu un suo incaricato ad acquistarlo assieme ad altri manoscritti da Ioil Bykovskij, ex archimandrita del monastero del Salvatore di Jaroslavl’, che all’epoca era ormai chiuso. Oltre al Canto, questa raccolta comprendeva anche il Cronografo, una cronaca che si chiamava Temporanea, poiché contiene la cronaca dei principi russi e della terra di Rus’, la Narrazione sul regno indiano, la Povest’ (storia) di Akir il Sapiente e le Gesta di Devgenij. Esistono tuttavia anche altri dati sul ritrovamento di questa raccolta col testo del Canto ad opera di Musin-Puškin. Musin-Puškin potrebbe averlo ottenuto in modo illecito in uno dei monasteri di Pskov, avvalendosi della sua posizione di capo procuratore del Santo Sinodo. La prima, brevissima comunicazione sul Canto è di un famoso poeta del tempo, M.M. Cheraskov, ed appare nel 1797 nella seconda edizione del suo poema Vladimir. Troviamo poi delle informazioni un po’ più dettagliate in un articolo di N.M. Karamzin nel fascicolo di ottobre del 1797 della rivista «Spectateur du Nord», pubblicata ad Amburgo dagli emigranti francesi. Del manoscritto del Canto furono fatte due copie: una di esse, destinata a Caterina ii, è giunta fino a noi. Oltre al testo trascritto del Canto, il manoscritto del Canto fatto per Caterina conteneva anche la traduzione, note e alcune brevi informazioni sull’opera. Nel xviii secolo furono fatte altre due traduzioni del Canto, che perfezionarono la prima. Nel 1800 il Canto fu pubblicato da A.I. Musin-Puškin in collaborazione con i suoi amici studiosi: A.F. Malinovskij, I.I. BantyšKamenskij e lo storico N.M. Karamzin, i tre migliori conoscitori dei manoscritti anticorussi di quel tempo. Nel 1812 la raccolta contenente il Canto bruciò nell’incendio di Mosca assieme a tutta l’inestimabile collezione di manoscritti anticorussi nella casa di Musin-Puškin in piazza Razguljaj24. Nella collezione di A.I. Musin-Puškin bruciarono anche altri manoscritti di primaria importanza, come per esempio la famosa Cronaca della Trinità dei primi anni del xv secolo, largamente utilizzata da N.M. Karamzin nella sua Storia dello stato russo. Bruciò anche gran parte degli esemplari della prima edizione del Canto. Non c’è dunque da meravigliarsi che del Canto si sia conservato un solo manoscritto. In quell’unico manoscritto ci è pervenuto non solo il Canto della schiera di Igor’, ma anche molte altre opere, tra cui alcune di prim’ordine, come l’Insegnamento di Vladimir Monomach, il Canto sulla rovina della terra russa (il cui secondo manoscritto è stato pubblicato
solo negli anni ’40 del xx secolo), la Storia di Dolore e Malasorte, la Storia di Suchan, la traduzione dal greco della Cronaca di Giorgio Sincello e molte altre. L’unico manoscritto della Cronaca della Trinità è bruciato come il manoscritto del Canto. Sia i primi commentari che le prime traduzioni del Canto mostrano chiaramente che molti passi del Canto inizialmente risultavano incomprensibili. La nostra attuale interpretazione del Canto è il risultato di un lungo studio dell’opera, che abbraccia la sua epoca, i monumenti letterari anticorussi, la storia della lingua russa, la poesia popolare russa, l’antica cultura russa nel suo complesso e così via. Molte cose nel Canto sono state confermate dalle più recenti scoperte di diversi monumenti della letteratura anticorussa: la Zadonščina, la famosa annotazione nell’Apostolo di Pskov del 1307, il Canto sulla rovina della terra russa e così via. Solamente i passi irrimediabilmente rovinati, come del resto capita spesso anche in altri monumenti della letteratura russa antica, specialmente quelli che, come il Canto, ci sono pervenuti in un esemplare unico, rimangono tuttora privi di una spiegazione soddisfacente. Non esiste filologo russo che non abbia scritto qualcosa del Canto. Nella letteratura scientifica si conta ben più di un migliaio di opere sul Canto25. Negli studi sul Canto, la prima metà del xix secolo è caratterizzata da un atteggiamento critico riguardo all’autenticità del Canto stesso da parte di una serie di studiosi dell’epoca. Questo scetticismo nacque dalla cosiddetta scuola scettica della storiografia russa. Lo scetticismo nei confronti del Canto era solo un caso particolare di uno scetticismo generale che si manifestava nei confronti di tutti i principali monumenti dell’antica letteratura russa. Gli scettici dubitavano dell’autenticità delle opere dei secoli xi-xii che contraddicevano le loro idee imprecise sul livello della cultura russa antica, e cioè la Cronaca più antica, che essi attribuivano al xiv secolo, la Legge russa, gli accordi di Oleg e Igor’ con i Greci, l’Insegnamento di Vladimir Monomach, le opere di Kirill di Turov e naturalmente il Canto della schiera di Igor’. Essi non tenevano conto nemmeno dei fatti, confermati da molteplici testimonianze, e dubitavano di qualcosa che era sostanzialmente evidente. Lo scetticismo della prima metà del xix secolo nei confronti del Canto venne meno per due motivi. In primo luogo era invecchiata ed aveva cessato di esistere la stessa scuola scettica a cui erano legate le opinioni scettiche sul Canto. In secondo luogo lo scetticismo verso il Canto scomparve con l’emergere di fatti nuovi che confermavano l’autenticità del Canto, man mano che se ne spiegavano i singoli «punti oscuri», vi si cercavano dei paralleli in altre opere anticorusse, ne veniva chiarita e studiata la lingua, si interpretava il suo lato ideologico, venivano spiegate le circostanze storiche menzionate nel Canto, emergevano i suoi legami col folclore, si creavano concezioni veritiere sulla cultura dell’antica Rus’. Di particolare importanza per confutare le opinioni degli scettici sul Canto fu la scoperta della Zadonščina nel 1852. Questa scoperta mise gli scettici in una posizione estremamente difficile. Non si poteva dubitare che la Zadonščina fosse una palese imitazione del Canto della schiera di Igor’. Ecco perché quando più tardi, già ai giorni nostri, in Occidente il noto slavista francese prof. A. Mazon tentò di recuperare l’atteggiamento scettico verso 51
il Canto, fu costretto prima di tutto a cercare di «riabilitare» la Zadonščina, cercando di dimostrare contro ogni evidenza testuale che non era stato il Canto ad influenzare la Zadonščina, ma viceversa. La teoria di Mazon era in stridente contrasto con i fatti. L’autore assicurava ai suoi lettori: 1) che la Zadonščina è un’opera di grande valore artistico, mentre il Canto è un’opera secondaria26; 2) che la Zadonščina non fu scoperta nel 1852, bensì alla fine del xviii secolo, ma il suo manoscritto sarebbe stato nascosto e appositamente distrutto; 3) che l’occultamento e la distruzione dell’opera sulla più grande vittoria della Russia, che le ottenne la liberazione dal giogo tataro-mongolo, erano stati compiuti per scopi sciovinistici: per creare sulla base di quest’opera autentica sulla vittoria dei Russi una versione contraffatta su una loro sconfitta, e per di più a vantaggio dell’«imperialismo» di Caterina ii, per adulare i sentimenti di colei che aveva conquistato le regioni del Sud ed esteso i confini della Russia verso Occidente e così via; 4) che i primi editori del Canto non ne capirono il testo apposta per creare un’apparenza di autenticità, e così via.
stile in cui era scritta la Supplica fosse ben noto a tutti coloro che in un modo o nell’altro si «immischiavano» nel lavoro dell’autore di quest’opera. Il valore della Supplica stava anche nel suo orientamento ideale e nel suo stile, che rimaneva identico in tutte le redazioni, caratterizzato dalla elaborazione e dalla stabilità della forma. Leggendo la Supplica si ha la sensazione che sia stata scritta nella ben nota maniera dell’antica Rus’, che sia la continuazione di una tradizione strettamente legata alla vita russa. Gli ignoti coautori e «redattori» della Supplica avevano una percezione eccellente di questo stile, di questa maniera, di questo orientamento ideale in cui essa fu scritta, li apprezzavano e cercavano di non turbarli. Questo ci autorizza, nel dare una definizione complessiva della Supplica, a non fare distinzioni particolari tra le sue diverse redazioni, ma a considerarle simili stilisticamente. Non considereremo perciò determinanti nel nostro studio i dettagli sull’origine delle singole redazioni, la loro collocazione cronologica, le singole differenze. Considereremo inessenziale anche il problema dell’identificazione del manoscritto originario e del suo autore. Nella nostra esposizione consideriamo convenzionalmente l’opera nel suo complesso e parliamo convenzionalmente del suo autore (sarebbe meglio dire dei suoi «autori»). Sono stati fatti alcuni tentativi per determinare l’ambiente sociale a cui apparteneva l’autore della Supplica. Questi tentativi hanno portato tuttavia a risultati apparentemente contraddittori. Alcuni studiosi lo ritengono un dvorjanin (nobile di corte)27, altri un membro della družina del principe28, altri un servo29, altri ancora suppongono che Daniil non avesse affatto una salda posizione sociale30. E con ciò, nonostante tutta l’apparente contraddittorietà delle illazioni sull’origine sociale dell’autore della Supplica, una cosa è sicura: l’autore non apparteneva alle classi sociali dominanti ma a quelle sottomesse. Tuttavia, a prescindere dalla categoria di sudditi cui apparteneva Daniil, c’è un tratto che lo distingue da tutti: Daniil ribadisce la sua totale dipendenza unicamente dal principe. Solo nel principe egli vede la possibile fonte della propria felicità, solo il principe viene da lui esaltato, elevato al cielo. Questa circostanza lascia intravvedere in Daniil il tipico «beniamino» del principe, come ce n’era-
La Supplica di Daniil Zatočnik e il Discorso La Supplica e il Discorso di Daniil Zato/nik («il prigioniero») sono due monumenti letterari molto vicini tra loro, che presentano straordinarie difficoltà per gli studiosi. Queste opere sono antiche, forse addirittura del xii secolo, ma ci sono pervenute in trascrizioni di epoca più tarda, dopo un lungo iter di mutamenti testuali, parzialmente danneggiate, con grosse lacune. Nessuno studioso fino ad oggi ha potuto stabilire con precisione le correlazioni tra i manoscritti e le redazioni di ciascuna delle opere, il Discorso e la Supplica, in modo più o meno fedele. Non ha ancora trovato una risposta definitiva il quesito su quale delle due opere sia antecedente all’altra. La vicinanza di questi due capolavori è indiscutibile, ma non si è ancora potuto stabilire definitivamente da quale relazione siano legati, in cosa consista la loro vicinanza. Esistono soltanto ipotesi e supposizioni, ma questo resta un campo ancora aperto per i più esperti studiosi testologi. Proviamo a definire convenzionalmente il Discorso e la Supplica come un’unica opera intitolata la Supplica, poiché la «supplica» rivolta al principe resta veramente, come vedremo, il suo tratto caratteristico. La Supplica nacque nel lontano Nord-Est della Rus’. Il suo autore scrive di trovarsi sul lago La/a (un lago non lontano dall’odierna Vologda). Ciò testimonia che dell’unica sfera culturale della Rus’ non facevano parte soltanto Kiev, Novgorod, Gali/ e Vladimir, ma anche il lontano Nord. Il tema della Supplica è una lettera indirizzata al principe con la preghiera di liberare l’autore dalla «prigionia» (donde il suo nome) e di concedergli diverse «benevolenze». In qualsiasi modo consideriamo l’origine delle singole redazioni della Supplica di Daniil Zato/nik, una cosa è chiara: quest’opera non soltanto veniva letta e trascritta, ma anche continuamente rielaborata, completata, se ne facevano degli estratti, essa viveva, prendeva forma nel corso dei secoli. È sorprendente anche il fatto che ciascuno dei suoi coautori sapesse inserirsi nello stile della Supplica senza entrare in contrasto con il suo contenuto ideale. Le parti riscritte o rielaborate non si distinguevano quasi per carattere dal corpo principale, come se lo
17. Giuramento del principe Igor’ e dei suoi guerrieri pagani sulla collina davanti all’idolo di Perun’, e dei cristiani presso la chiesa di Sant’Elia (945), dalla Cronaca di Radziwiłł, fol. 26v.
52
Supplica sulla propria condizione sono troppo vaghe per poter determinare in modo convincente a quale categoria sociale dipendente egli appartenesse effettivamente. Molto dipendeva qui dalle interpolazioni, dalle aggiunte e dai rifacimenti, di cui è praticamente impossibile fare un inventario che copra i quasi cinque secoli che separano l’epoca della sua creazione da quella in cui furono stesi i manoscritti giunti fino a noi. Tuttavia la precisione dello stile lascia indovinare molto anche dello stesso contenuto ideale dell’opera. Lo stile e il lato ideale dell’opera sono infatti strettamente legati; ma finora lo stile della Supplica non è stato quasi studiato. Sono stati studiati i «prestiti», i «parallelismi», le fonti di informazione dell’autore, ma non lo stile. Stranamente gli studiosi della Supplica non hanno dedicato la dovuta attenzione all’umorismo, agli elementi parodistici, all’ironia di quest’opera. Gli studiosi erano «seri» fino al punto di chiamare prestiti dai Salmi quelle che in realtà erano delle parodie, di vedere nell’ironia le più serie sfumature e così via. Nel nostro studio sarà proprio lo stile della Supplica l’elemento principale a favore della nostra determinazione delle concezioni sociali dell’autore. La forma ci darà la chiave del contenuto.
no molti nella terra di Vladimir-Suzdal’, provenienti appunto dalle più diverse categorie di sudditi. I «beniamini» dei principi erano servi, contadini ed anche artigiani, o uomini delle più diverse professioni caduti in disgrazia. Erano spesso avventizi, dalla vita disorganizzata, che riponevano la loro unica speranza nel principe, nella sua «benevolenza». Non a caso anche la stessa parola «benevolenza» e il ricorso ad essa sono così frequenti nella Supplica. Vedremo in seguito che l’identificazione dell’autore della Supplica come un «beniamino» del principe poggia anche su altri fondamenti. Daniil paragona il principe alla primavera, che adorna la terra di fiori, ad un fiume che disseta uomini e animali. Il principe manda le nuvole, la tempesta. Egli è così ricco che le sue ricchezze non si esauriscono mai, come non si può vuotare il mare con una tazza. Il generoso principe è come un padre per i servi, è il «caldo difensore», egli dona ricchezza e gloria, come la terra il suo frutto, come l’albero la «verzura». A lui tutti ricorrono e «sono liberati dalla tristezza». Solo un orecchio molto esperto può cogliere nel tono di questo panegirico le tracce di una lieve ironia. In ogni caso, per Daniil Zato/nik il principe non era né una figura sacra, né infallibile. Il suo atteggiamento verso il principe è espresso da paragoni col mondo animale. Il principe è simile all’aquila che regna sugli uccelli, allo storione sui pesci, al leone sulle altre fiere. Perché allora per l’autore della Supplica il principe resta comunque una figura positiva? Col suo potere il principe può liberare dalla miseria l’uomo sottomesso, innalzarlo sulla scala dei rapporti sociali, difenderlo dall’arbitrio dei ricchi. D’altra parte il principe è il difensore della patria dai nemici esterni, e non a caso una delle redazioni della Supplica si conclude con la lode del principe, unita alla preghiera a Dio perché difenda la Rus’ dai nemici: «Rafforza la potenza del nostro principe; consolida i pigri; infondi ardore nei cuori dei pavidi. Non lasciare, o Signore, la nostra terra a popoli che ignorano Dio, affinché le genti straniere non dicano: ‘Dov’è il loro Dio?’. Il nostro Dio è in cielo e in terra. Concedi, o Dio, al tuo popolo la forza di Sansone, il valore di Alessandro, la castità di Giuseppe, la sapienza di Salomone, la dolcezza di Davide, moltiplica le tue genti in eterno sotto il Tuo regno, affinché Ti lodi ogni paese ed ogni anima umana». Sappiamo che nei secoli xii e xiii il potere del principe godeva dell’attivo sostegno degli strati dipendenti della popolazione nella sua lotta contro il potere dei bojari. Così era nella terra di Gali/-Volynija e specialmente in quella di Vladimir-Suzdal’. Ma nonostante la «democraticità» delle posizioni ideali dell’autore della Supplica, non lo definiremmo «popolare» nel senso in cui definiamo «popolari» le posizioni idea li dell’autore del Canto della schiera di Igor’. Le posizioni dell’autore della Supplica erano legate ad obiettivi troppo angusti, temporanei e locali per poter affermare questo. Nella sua opera il concetto di Patria è relegato in secondo piano. Il suo orizzonte è limitato e gli ideali sono offuscati da interessi personali. Tuttavia nella Supplica esistono indubbiamente elementi popolari, nel suo contenuto ideale, come vedremo in seguito, e nei suoi fondamenti artistici. Entrambi questi aspetti nella Supplica sono fusi in una unità inscindibile. Concentreremo ora la nostra attenzione sull’aspetto più stabile della Supplica nelle sue diverse redazioni: quello stilistico. Le singole dichiarazioni dell’autore della
*** La Supplica di Daniil Zato/nik, più di qualsiasi altra opera della letteratura russa dei secoli xi-xiii, poggia nel suo sistema espressivo sui fatti della vita quotidiana russa. Questi tratti storico-quotidiani nella Supplica furono riepilogati per la prima volta da D.V. Ajnalov nella sua opera Saggi e note sulla storia dell’arte anticorussa. Ajnalov osserva che l’autore della Supplica ricorda «molto» chiaramente due disposizioni dei reggimenti: «ad accerchiamento» e «come cacciatori sparsi per il terreno». Queste due tecniche di tattica militare, cioè il combattimento con un ordine e alla spicciolata (i cavalieri), ci sono ben note dalla cronaca, in cui si incontra lo stesso termine «accerchiamento», e dal Canto della schiera di Igor’: «spargendosi come frecce per la campagna». Nelle redazioni più antiche si trovano alcuni accenni a ferro, stagno, rame. Significativi i termini: bollire lo stagno, saggiare col fuoco l’oro, lo stagno si riduce (cioè diminuisce di quantità per la rifonditura), ma il ferro non si può bollire. Tra gli altri termini della vita quotidiana ricordo: gli angoli sono caduti (termine per le antiche costruzioni in legno, importante perché «sugli angoli» si edificavano sia il terem – casa a torre – che le chiese in legno), saliera, rete, rete a strascico, laccio, coltri di ermellino, letti morbidi, poggiatesta allungato (cioè un lungo cuscino di seta per il capo, conosciuto dalle opere pittoriche bizantine ed anticorusse), cielo di feltro e stelle di tiglio (espressione importante per la descrizione delle decorazioni degli antichi palazzi, che merita uno studio particolare). Tale espressione, come «scalpellare la pietra», è sintomo di una familiarità con la tecnica di lavorazione della pietra (di conseguenza la parola «scalpello» compare qui con lo stesso significato del termine «ascia»). Gli sono noti: i calzari di tiglio e i rossi calzari nel palazzo del bojaro, la boccola d’oro (orecchino d’oro), lo stilo dello scriba veloce… D’altra parte solo in Daniil Zato/nik troviamo una definizione più precisa del tessuto prezioso (pavoloka): «come un drappo screziato da molti fili di seta, ha un bell’aspetto». La parola «paradiso» viene da lui usata per indicare in generale i frutteti e non il 53
granchio; né uccello tra gli uccelli il pipistrello; non è uomo tra gli uomini colui che la propria donna domina». Accanto al lessico quotidiano, nella Supplica di Daniil si introduce anche con un semplice linguaggio parlato la stessa quotidianità russa. E non è un caso che la Supplica abbia sempre attirato l’attenzione degli studiosi che si occupavano dei costumi e dei rapporti sociali nei secoli xii-xiii. «Non avere la tua casa accanto alla casa del sovrano, e non possedere un borgo vicino al borgo del principe: il suo tivun infatti è come un fuoco di tremula e i suoi rjadoviči come faville. Se dal fuoco potrai ripararti, dalle faville non potrai ripararti e dal bruciarti le vesti»: ci troviamo davanti ad un curioso quadro dei rapporti sociali. «Servendo un buon signore si guadagna la libertà, ma servendo un cattivo signore si guadagna più schiavitù», «se con un buon consigliere il principe si consiglia, raggiungerà un alto soglio, ma se con un cattivo consigliere si consiglia, perderà anche quello più modesto». Daniil pare ostentare la propria rozzezza con uno stile intenzionalmente scadente, usando senza imbarazzo il vocabolario corrente. Non a caso in una delle redazioni la Supplica si chiama Discorso sui proverbi profani e sulle cose quotidiane; ad esso è simile la nostra vita e come in essa ci comportiamo. Erano i discorsi «semplici» dell’uomo «semplice», che in parte dovevano essere familiari ai lettori e ai copisti, se risultava così facile immedesimarsi nello stile di quest’opera, completandola con nuove aggiunte che quasi non si distinguevano dal testo principale. Prestiamo orecchio alla maniera stilistica di Daniil. Vediamo per esempio il brano iniziale dell’opera. Con questo esordio Daniil sembra chiamare a sé gli ascoltatori, proprio gli ascoltatori, poiché nella sua opera si percepisce distintamente l’appello rivolto direttamente a loro: «Diamo fiato, fratelli, come a tromba d’oro, all’intelligenza della nostra mente e cominciamo a percuotere gli argentei organi, in annunzio di sapienza, e battiamo nei timpani della nostra mente, suonando flauti da Dio ispirati, perché gemano in noi edificanti pensieri. Sorgi mia gloria, sorgete salterio e gusli: sorgerò all’alba. Ti glorificherò: possa io spiegare in parabole i miei enigmi e proclamare tra le genti la mia gloria. Il cuore dell’uomo assennato infatti si corrobora, nel proprio corpo, di bellezza e di saggezza». Ci troviamo di fronte a una chiara parafrasi dei salmi 57 e 10832, ma una parafrasi eseguita non ai fini della preghiera. Dietro a questa introduzione metaforica ancora D.V. Ajnalov rilevò le linee della realtà effettiva. Il salterio assomiglia troppo chiaramente ai gusli del buffone. Scriveva D.V. Ajnalov: «Trombe, organi, flauti sono ispirati nel Discorso di Daniil dai concerti principeschi e dai loro divertimenti, a cui anch’egli partecipava, divenendo il miglior suonatore di gusli. Solo interpretando così l’inizio dell’opera si può spiegare adeguatamente anche la frase immediatamente successiva: “Sorgi gloria mia (nel) salterio e (nei) gusli”»33. Non è forse a questi gusli del buffone che ci si riferisce anche più avanti: «i gusli si accordano con le dita, e il corpo si fonda sulle vene»; «i gusli si accordano con le dita, e la città nostra col tuo governo». Tra tutti i mestieri ricordati nella Supplica, quello del buffone riscuote maggiore attenzione. «Simile ad un’aquila un altro uomo, balzato su un destriero, corre attraverso l’ippodromo in spregio della vita; quello vola da una chiesa, o da un palazzo, con ali di stoffa; un altro, nudo, si getta nel fuoco, mostrando la saldezza del suo cuore ai propri sovrani; un altro, scarnificate le tibie, messe a nudo le ossa delle
paradiso biblico: «un bellissimo giardino dai molti frutti». Conosce anche il termine pagano «rod» – pazzo (e la partoriente – rožanica): «i bambini fuggono il pazzo e il signore l’uomo ubriaco». Gli sono noti il belletto e lo specchio usati dalle donne. Accanto a questi elementi tratti dalla vita quotidiana, sono particolarmente interessanti i riferimenti all’uso di predire il futuro con il Salterio o con i gusli, come un soggetto molto familiare a Daniil: «i gusli si accordano con le dita»31. È significativo che l’autore della Supplica tragga tutti questi particolari dalla vita quotidiana non a fini narrativi (in questo caso la cronaca presenterebbe ancora più materiali dalla sfera della vita quotidiana russa), ma per costruire paragoni, metafore, singole espressioni. La vita quotidiana russa, e quella più ordinaria, penetra nel sistema poetico. Sotto questo aspetto la Supplica rappresenta un fenomeno eccezionale per i secoli xii-xiii. «Il ferro lo infocherai, ma la donna malvagia non l’ammaestrerai»; «come infatti lo stagno si consuma troppo spesso fuso, così anche l’uomo sopporta molte sventure»; «l’oro si saggia con il fuoco, e l’uomo con le disgrazie; il grano a lungo macinato dà puro pane, e nel dolore acquista l’uomo mente perfetta»; «come la rete non trattiene l’acqua, ma unicamente i pesci, così anche tu, principe, non serbare oro, né argento, ma distribuisci alle genti»; «è bello al riparo di un poggio pascolare i cavalli, così pure combattere per un buon principe»; «non seminare segala nelle prode dei campi, né saggezza nel cuore degli stolti»; «non è il fuoco che arroventa il ferro, ma il soffio del mantice; così anche tu principe non è da solo che incorri nella sventura, ma ti ci inducono i consiglieri»; «per non essere come un otre bucato, che sparge ricchezze nelle mani di chi non possiede; per non essere simile alle macine, esse che molta gente saziano e se stesse non possono saziare di cibo»; «io sono un uomo povero, come albero lungo la strada; molti lo recidono e lo gettano nel fuoco»; «meglio infatti cavalcare un cavallo selvaggio, che vivere con una donna malvagia»; «nessuno può, senza aver impiumato la freccia, saettare dritto, né con la pigrizia acquistare onore»; «meglio per me fondere il ferro che vivere con una donna malvagia»; «né lavoro fra i lavori condurre il carro comandati da donne». Da dove proviene questa abbondanza di immagini prese dai diversi mestieri? Daniil parla della fusione del ferro, dello stagno, dell’oro, della lavorazione della farina, della pesca con la rete a strascico, del pascolo dei cavalli, della semina del frumento, della battitura del ferro, della preparazione della legna, del tiro con l’arco, del piumaggio delle frecce e della guida dei carri a cavalli. Evidentemente questa ricchezza di immagini prese dalla vita quotidiana, dai mestieri del popolo, è direttamente connessa con l’appartenenza di Daniil agli strati bassi della popolazione, che egli proclamava con tanta arguzia e insistenza. La bassa posizione di Daniil sulla scala dei rapporti sociali non è solo un fattore della sua vita personale, ma determina anche la sua posizione letteraria, lo stile stesso della sua opera e la sua ideologia. Daniil non è il rappresentante di questo o quel ceto sociale, o di una professione precisa. È un suddito, rappresentante degli strati più bassi della società. E questa sua posizione sociale corrisponde anche alla sua posizione letteraria. Egli introduce nella letteratura gli elementi della vita lavorativa, della saggezza popolare, i «proverbi profani»: «non è animale domestico fra gli animali domestici la capra; né fiera tra le fiere il riccio; né pesce tra i pesci il 54
gambe, le mostra al suo sovrano, gli palesa così la sua prodezza; un altro, con un balzo, si lancia nel mare da un’alta ripa con il suo cavallo; coperti gli occhi al destriero, colpendolo sui fianchi dice: “per l’onore e la gloria del nostro sovrano spregiamo la vita!”; un altro, legata una corda ad una metope di chiesa e l’altro capo a terra, la tira lontano dalla chiesa, e sulla corda si lascia scivolare in basso, reggendosi con una mano all’estremità di quella corda, e nell’altra mano tenendo una spada nuda; un altro, avvoltosi in un telo bagnato, lotta a braccia con una belva feroce». Nella Supplica si notano i continui richiami alla generosità del principe, le preghiere per le elemosine. Se Daniil era un «prigioniero» (zatočnik), comunque egli non prega per la libertà; se era un uomo casualmente caduto in disgrazia, comunque non prega il principe perché lo reintegri nella sua vecchia posizione sociale. L’unica cosa per cui prega il principe con grande determinatezza sono le elemosine. E la forma di questa preghiera sembra quasi portarci nelle circostanze di un banchetto: «ma quando ti allieti di molti cibi, rammentati di me che mangio pane secco; o quando bevi dolce bevanda, rammentati di me che bevo acqua tiepida». Egli chiede la carità, o meglio la benevolenza al principe: «Non guardarmi, signore, come il lupo l’agnello, ma guardami come la madre il fanciullo. Mira gli uccelli del cielo, che né arano né seminano, ma confidano nella benevolenza divina; così, signore, noi bramiamo la tua benevolenza». La parola «noi» indica evidentemente l’intera categoria delle persone che dipendono dal principe. Non si tratta del solo «prigioniero», caduto personalmente in disgrazia. Nella Supplica non si parla nemmeno di disgrazia. Daniil al contrario sottolinea la generosità del principe, fa appello alla sua generosità: «per questo, ostaggio della povertà, imploro te: abbi pietà di me, figlio del gran sovrano Vladimir, perché io non debba piangere gemendo come Adamo il paradiso; manda una nube sulla terra della mia miseria». «Signore mio! – invoca Daniil – Non privare del pane il povero savio, non portare al cielo il ricco scervellato». Prega di non distribuire oro e argento al primo che capita: «Ai cani e ai porci non si conviene né oro né argento». Egli assicura il principe che se non fosse per l’amara necessità non starebbe ad implorarlo: «Ma se avessi saputo rubare non ti avrei così afflitto». Lungo tutta la Supplica Daniil chiede al principe solo la carità materiale, oro, argento, l’elemosina dalla tavola del principe: «Principe mio, signore! Salvami da questa povertà, come il camoscio dalla rete, come l’uccello dal laccio, come l’anatroccolo dagli artigli dello sparviero che lo ghermisce, come la pecora dalle fauci dei leoni»; «Principe mio, signore! Tutti si abbeverano all’abbondanza della tua casa, come un torrente è il tuo cibo; solo io ho sete della tua benevolenza, come il cervo della sorgente d’acqua». Tra tutte le qualità del principe, quella che maggiormente attrae Daniil è la generosità, ed egli la menziona di continuo: «il principe generoso è un padre; molti servi infatti rinunciano al padre e alla madre e da lui si rifugiano»; «il principe generoso è come un fiume, che scorre senza argini attraverso le selve, che abbevera non solo gli uomini, ma anche gli animali». Daniil esalta la ricchezza del principe: «Principe mio, signore! Come il mare non si colma accogliendo molti fiumi, così anche la tua casa non si ricolma ricevendo una moltitudine di ricchezze, perché le tue mani, come nube possente che dal mare assorbe le acque, dispensano le ric-
chezze della tua casa nelle mani dei miseri. Perciò anch’io sono assetato della tua benevolenza». Daniil spiega di essersi presentato al principe perché contava sulla sua generosità: «Ho visto, signore, il tuo buon cuore verso di me e sono ricorso alla tua abituale benevolenza». Daniil dunque approfitta della «abituale» benevolenza del principe e si trova presso la sua corte, non gli scrive da lontano. In contrasto con la ricchezza del principe, Daniil sottolinea in ogni modo la propria miseria: «e mi ricopri povertà, come il Mar Rosso il faraone»; Daniil è «come l’erba appassita che cresce sotto il muro, sulla quale non splende sole né cade pioggia», egli è «oltraggiato da tutti», «poveramente vestito», per lui «è meglio la morte che non continuare a vivere nella miseria». Daniil pensa a come sottrarsi alla miseria. Questi pensieri sono intenzionalmente assurdi: sposare una donna «brutta» ma ricca, rubare e così via. Quanto più assurdi sono i suoi progetti, tanto più la sua condizione sembra senza via d’uscita. Osservando più da vicino la situazione di Daniil che si appella alla generosità del principe, notiamo dei particolari curiosi nella stessa forma stilistica della sua preghiera. Daniil non è solo. Egli paragona sé e i suoi compagni agli uccelli del cielo, che «non arano, non seminano». «Mira gli uccelli del cielo – dice Daniil rivolto al principe –, che né arano né seminano, ma confidano nella benevolenza divina; così, signore, la gente brama la tua benevolenza». Daniil va ramingo, e ovunque si trovi sta sempre male: «c’è chi ha Bogoljubovo, ma per me è crudo dolore; c’è chi ha il Lago Bianco, ma per me è più nero della pece; c’è chi ha il Lago La/e, ma per me che vi sto recluso è amaro pianto; e c’è chi ha Novgorod, ma a me anche gli angoli di casa rovinarono, perché non fiorì la mia sorte». Daniil loda la generosità del principe verso i forestieri provenienti da vari paesi, e qui ancora una volta non si può non scorgere un accento personale: «canta, dicono, la pernice e chiama gli uccellini, quelli che ha generato e quelli che non ha generato – così tu pure, principe, raduna molta gente, non solo i tuoi domestici, ma aduna anche quelli di altre contrade che accorrono a te, che sanno della tua abituale benevolenza». Il principe, dunque, non raccoglie soltanto i servi – i figli nati nella sua casa –, ma anche servi di altri paesi ed effonde su di loro la sua «abituale benevolenza». Qualora dovesse ricevere benevolenza dal principe, Daniil promette: «perché io esulti del mio re come se guadagnassi ricco bottino d’oro, perché lo canti come fossi ebbro di vino, perché esulti quale gigante nel correre la sua via». In un altro passo della sua Supplica, Daniil esige una ricompensa per le sue «parole», per il suo «parlare», per la sua «mente» che considera una ricchezza. Dopo aver descritto vari servi che intrattengono re e sultani, Daniil dice: «Cesserò dunque di parlare molto, per non disperdere in un lungo discorrere la mia mente; per non essere come un otre bucato, che semina ricchezze nelle mani altrui; per non essere simile alle macine, che saziano la gente ma se stesse non possono riempire di cibo». Perciò il principe nella sua generosità deve ricompensare il suo «molto parlare», il suo «esaurirsi la mente» – evidentemente arguzie, consigli, «saggezza». Più oltre Daniil si paragona a un uccello «che canta di continuo». Stando alla corte del principe, Daniil conobbe da vicino i suoi buffoni, e si pone al pari di coloro che ricevono «benevolenza» per aver divertito il principe, e trovandosi nella stessa situazione introduce nel suo stile gli elementi tipici dei lazzi dei 55
buffoni: «soffiare in una zucca bucata»; «correre dopo le vespe a ramazzare le briciole»; «saltare giù da un palo per un pisello»; «cavalcare un maiale» e così via. La burla di Daniil emerge con particolare chiarezza laddove egli descrive una delle strade che gli capiterà di percorrere se il principe non lo libererà dalla miseria. Questa via d’uscita dalla miseria è il matrimonio con una donna ricca, ma «di brutto aspetto». Daniil usa tutti i mezzi per dipingere a chiare tinte la sua «felicità» coniugale, facendo così sorridere e commuovendo il principe e la compagnia strettamente maschile dei commensali. «La donna brutta in verità è simile a una piaga: qui prude, là duole». Essa è «guercia, simile a un diavolo, con una gran bocca, una gran mascella, una lingua biforcuta». Come se non bastasse, Daniil la descrive nella situazione per lei più ridicola, mentre si ammira allo specchio: «Vidi una donna brutta, che si accostava allo specchio e si ungeva di belletto, e le dissi: “Non guardare nello specchio, ché, vista la bruttezza del tuo viso, ne avrai maggior dolore”». Daniil dipinge poi un’altra scenetta, non meno comica, con questa donna mostruosa. Essa dichiara il suo amore ad un uomo che non la ama: «E disse al suo uomo: “signore mio, luce degli occhi miei! Io rimirarti non posso: quando ti volgi a me, allora ti guardo e mi sembra di morire, e si commuovono tutte le viscere del mio corpo e crollo in terra”». Da cui si deduce: «Meglio per me condurre in casa un bue selvaggio, che prendere una donna malvagia; il bue infatti né parla né pensa malvagità, ma la donna malvagia, castigata si indemonia, blandita insuperbisce, nella ricchezza s’empie di orgoglio, nella povertà accusa gli altri». L’arguzia di Daniil ha il gusto delle celie buffonesche. Possiamo riportare qui un sacco di frottole di cui è infarcito il discorso di Daniil: «Non ho mangiato infatti dalla sabbia burro, né da un becco latte, né ho visto uno sciocco che dica cose sagge»; «non schernire un morto, né ammaestrare uno sciocco»; «quando la cinciallegra divorerà l’aquila, quando la pietra galleggerà sull’acqua, quando prenderà il porco ad abbaiare allo scoiattolo, allora lo sciocco acquisterà senno»; «non con un mestolo si prosciuga il mare, né con il nostro prendere si strema la tua casa»; «non si addice una boccola d’oro alle frogie di un porco, né a servi vesti di pregio»; «se anche un tegame avesse anelli d’oro ai manici, non gli toglieresti dal fondo nero e fuliggine»; «non ho visto cielo fatto di feltro, né stelle di tiglio, né sciocco che dica cose sagge»; «né la pietra galleggia sull’acqua. Ai cani e ai porci non si conviene l’oro, né agli sciocchi parole savie. Non schernire un morto, né ammaestrare un dissoluto. Quando la cinciallegra divorerà l’aquila, allora lo sciocco acquisterà senno. Come soffiare in una zucca bucata, così è istruire lo sciocco; gli sciocchi infatti né si arano, né si seminano, né si tessono, né si filano, ma nascono da soli»; «o tu mi dici, principe: “fatti monaco”? Ma non ho visto un morto cavalcare maiali, né un diavolo una donnetta; non ho mangiato da un salice un fico, né da un tiglio uva». Hanno il sapore dei lazzi buffoneschi anche i doppi sensi costruiti sui toponimi: «C’è chi ha Pereslavl’, ma per me è goreslavl’ (cioè amara gloria), c’è chi ha Bogoljubovo (cioè “che ama Dio”), ma per me è cruda pena; c’è chi ha Belo Ozero (il Lago Bianco), ma per me è più nero della pece; c’è chi ha La/e Ozero, ma per me è colmo di molto pianto (plač)». Daniil si avvale anche degli indovinelli popolari, ma ancora una volta per suscitare ilarità, per costruire un’im-
magine grottesca. «Cosa c’è più feroce del leone tra i quadrupedi, e cosa c’è più crudele del serpente fra i rettili della terra?» – chiede Daniil, e risponde: «Di tutto questo più malvagio è la donna malvagia». Nella Supplica troviamo anche tracce di rime: «Meglio volontariamente la casa demolire, che una donna malvagia in casa far venire», «La donna malvagia infatti non ascolta insegnamenti, né onora il sacerdote, non ha timor di Dio, né vergogna della gente, ma tutti offende e tutti accusa»34. Le facezie dei buffoni entrano a far parte dello stile espressivo della Supplica, generalmente svilito, intenzionalmente rozzo: vi troviamo i termini «tela ruvida», «calzari di tiglio», «salame», «macina», «zucca bucata», «ramaiolo», «cane», «bue selvaggio», «capra», «tormenti del fumo», «piaga» e molti altri. La Supplica contiene anche intere scenette dello stesso rozzo carattere: «un porco con una boccola d’oro alle frogie», una donna «guercia», con una gran bocca, una gran mascella, che si guarda allo specchio, un diavolo che cavalca una donnetta, disputare a un cane un pezzo d’osso, correre dopo le vespe a ramazzare le briciole, ecc. Daniil riporta abbastanza esattamente le parole del principe Andrej Vladimirovi/ di Perejaslavl’: «Meglio per me sarebbe la morte con la mia družina nella patria mia e dei miei avi che il principato di Kursk»35. Daniil scrive: «Non mi mentì dunque il principe Rostislav36: “meglio per me sarebbe la morte che il principato di Kursk”; lo stesso è per l’uomo: meglio la morte che una lunga vita in povertà». Ma la precisione con cui sono riportate le parole di Andrej (sottolineata dalla frase «non mi mentì dunque…») serve solamente a mascherare l’ironico doppio senso di queste parole. Andrej rispose con queste parole alla proposta di Vsevolod Jur’evi/ di Suzdal’ di ritirarsi dalla sua patria, accettando in cambio il principato di Kursk. Daniil diede a queste parole di Andrej un altro significato, beffardo nei confronti del principato di Kursk. Il principato di Kursk è infatti equiparato a una vita nella «povertà». La stessa sfumatura ironica acquistano sotto la penna di Daniil anche le parole dei Salmi, quando Daniil ne «svilisce» il significato, applicando la loro tematica nobile e «spirituale» alla propria situazione di mendicante. Il Salmista Davide si rivolge a Dio: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio»37. Daniil Zato/nik si rivolge al principe: «solo io ho sete della tua benevolenza, come il cervo della sorgente d’acqua». Nel primo caso si tratta della tensione dell’anima a Dio, nel secondo dell’aspirazione di Daniil a ricevere «benevolenza» dal suo principe. Qui e in molti altri casi, nella Supplica di Daniil la parola «signore» ha sostituito il «Signore» del salmo: «Così, signore, china il tuo orecchio alle parole della mia bocca e liberami da tutte le mie disgrazie»38, «Mio principe, signore! Non guardare al mio aspetto esteriore, ma guarda invece ciò che vi è nel mio intimo». Daniil fa la parodia anche delle parole del buon ladrone a Cristo. Scrive infatti: «Mio principe, signore! Ricordati di me nel tuo principato». Il significato del termine «servo» nell’accezione ecclesiastica (nel senso di «servo di Dio») viene trasposto da Daniil al significato giuridico letterale di «servo» come servo della gleba. Scrive infatti: «Poiché io sono tuo schiavo, figlio della tua schiava», modificando le parole del salmo 116, versetto 16: «Io sono il tuo servo, Signore, figlio della tua ancella». Le immagini bibliche vengono usate continuamente da Daniil, ma sempre con la stessa sfumatura di leggera parodia. 56
Questa sfumatura di parodia nasce dalla mancata corrispondenza tra la grandiosità dell’immagine e la trivialità e la meschinità di ciò a cui è riferita: «mi ricopre la povertà, come il Mar Rosso il faraone»; «fuggendo dal cospetto della mia miseria, come Agar la schiava da Sara sua padrona». Non a caso Daniil, come abbiamo già notato, inizia la sua Supplica riferendo a sé le parole del Salmista Davide: «Sorgi mia gloria, sorgi salterio (strumento musicale biblico) e gusli. Possa io spiegare in parabole i miei enigmi e proclamare tra le genti la mia gloria». Le numerose corrispondenze di molti passi della Supplica con le Sacre Scritture sono state già da tempo rilevate dagli studiosi. Queste corrispondenze sono state considerate esclusivamente a livello di prestiti. Gli studiosi non hanno rivolto l’attenzione alla sfumatura beffarda che la penna di Daniil conferiva a tutti questi stralci dalle Sacre Scritture. Tutte queste citazioni servivano esclusivamente ad implorare la benevolenza del principe, e non la misericordia di Dio. Daniil mendica scherzosamente dal principe un aiuto materiale, e non si rivolge a Dio nell’ardore della preghiera per chiedere un aiuto spirituale. In questo cambiamento della funzione di tutte le citazioni è racchiuso anche un elemento di comicità, la natura stessa dello stile della Supplica. La beffarda autoumiliazione che si percepisce in questo travisamento delle citazioni dalle Sacre Scritture pervade tutta la Supplica. Essa si percepisce chiaramente anche laddove l’autore parla della propria vigliaccheria, della propria povertà, dell’inesorabilità della sua situazione, quando dice di essere figlio di un servo e di una serva del principe. Si percepisce anche dove Daniil si pone nella situazione ora di un ladro, ora del marito di una donna «di brutto aspetto» e così via, come pure in tutte le esagerate lodi della forza del principe, che difficilmente sarebbero potute piacergli, se fossero state dette seriamente: «Il leone ruggisce, chi non spaventa? E se tu, principe, apri bocca, chi non ha paura? Come infatti il serpente è terribile per il suo sibilo, così anche tu, principe nostro, sei minaccioso per la moltitudine di armati». Solo di una cosa Daniil non si priva: l’intelligenza. Privarsi del diritto all’intelligenza avrebbe voluto dire rinunciare anche al diritto all’arguzia, all’umorismo. È chiaro perciò che molte delle notizie biografiche comunicate dallo stesso Daniil, le lamentele sulla sua sfortuna, sulla sua mancanza di denaro, sulla sua viltà, sulla sua donna e così via, corrispondono rigorosamente alla posizione di Daniil come umorista, che confonde il lettore, e forse anche lo spettatore con la sua presenza, con la sua condizione, di uno che cerca di ottenere la carità dal principe, che fa appello alla sua generosità con l’umiliazione di sé e con lodi esagerate. Questa posizione letteraria di Daniil includeva anche nel suo stile gli elementi dei lazzi dei buffoni, dell’umorismo popolare del povero che ironizza sulla propria sorte, la tendenza a volgere in scherzo persino le parole delle Sacre Scritture, ad abbellire il discorso con la rima e così via. Ma la Supplica risulta affine all’arte dei buffoni non solo per via del suo tono scherzoso. Nel loro repertorio i buffoni sviluppavano anche l’elemento satirico della poesia popolare, che durante tutta l’era feudale tendeva a denunciare la classe dominante. Come osserva V.P. Adrianova-Peretc, «sotto la maschera esteriore del “beniamino” del principe, Daniil Zato/nik cela nella sua Supplica attacchi satirici sia contro i ricchi, contrapposti ai poveretti, sia contro la ricca “donna dal brutto aspetto”, sia contro gli amici, che “nella disgrazia si rivelano nemi-
ci…”. Anche il tivun e i suoi rjadoviči (gerarchie feudali della Rus’ kieviana) dovettero fare i conti con la lingua pungente del “prigioniero”… Persino il “principe avaro” viene umoristicamente raffigurato “come un fiume tra gli argini, e argini di pietra: né puoi bervi, né il cavallo abbeverarvi”. Così, con l’aiuto di paragoni inattesi, ma precisi e sprezzanti, costruiti su immagini strettamente ordinarie, il “prigioniero” condanna i rappresentanti “non caritatevoli” della classe dominante, rendendoli ridicoli agli occhi dei lettori»39. E tuttavia, per quanto forti fossero gli elementi dello stile buffonesco nella Supplica di Daniil Zato/nik, la Supplica non è il discorso di un buffone, trascritto da un copista. Non è un’opera buffonesca nel suo complesso. Essa conserva solamente una sfumatura dei lazzi buffoneschi, dell’arte dei buffoni. La scelta di sentenze e scherzi pare solamente allinearsi d’abitudine alle facezie dei buffoni. Gli elementi libreschi nella Supplica emergono più chiaramente che nel Canto della schiera di Igor’. Così per esempio nel Canto, la natura, secondo l’uso folcloristico, interviene direttamente nella vita delle persone, è spiritualizzata, poetizzata, mentre nella Supplica, in sintonia con le concezioni cristiane, offre solamente un esempio morale. La Supplica non rifugge da immagini letterarie, da singoli temi letterari: è un’opera indubbiamente letteraria, che nello stesso tempo scaturisce in una certa misura dai principi della creatività popolare. Daniil è una sorta di «intellettuale» dell’antica Rus’ dei secoli xii-xiii, un «intellettuale» appartenente agli strati sfruttati della società. «Chiunque fosse Daniil Zato/nik – scriveva V.G. Belinskij –, abbiamo buoni motivi di ritenere che egli fosse di quei tipi che, per loro disgrazia, sono troppo intelligenti, troppo dotati, troppo istruiti, e non sapendo celare agli uomini la propria superiorità, offendono l’amor proprio dei mediocri; a queste persone il cuore duole e si consuma di gelosia per cose che non le riguardano, che parlano quando sarebbe meglio tacere, e tacciono quando sarebbe più conveniente parlare; in breve, una di quelle persone che gli uomini dapprima lodano e circondano di cure, e poi lasciano morire, e alla fine, una volta distrutte, incominciano di nuovo a lodare»40. Daniil aveva solo imparato dai buffoni, ma non era un buffone lui stesso. Ecco perché l’umorismo di Daniil è così vicino all’umorismo popolare e nello stesso tempo è originale. Personalmente Daniil poteva essere un servo della gleba, o anche un gentiluomo, poteva supplicare il principe non per ottenere un’elemosina, ma per essere liberato dalla prigionia. Tutta la sua autodescrizione e tutti i dettagli della sua biografia da lui ricordati nella Supplica potevano essere fatti del tutto reali. È importante, tuttavia, il fatto che nella sua Supplica Daniil abbia ripreso lo stile dei rappresentanti dell’umorismo popolare, i buffoni. Ecco perché la Supplica ha tanto attirato l’interesse dei lettori russi, che hanno continuato a integrare e rielaborare quest’opera, ma restando sempre «nello stile» della Supplica, intuendo infallibilmente il suo stile, il suo genere di umorismo, che tutti avevano sott’occhio: l’umorismo dei buffoni. Servo della gleba o nobile di corte, Daniil trovò il modo di buttarla in scherzo di fronte al principe, trovò la consueta via dello scherzo per implorare per sé la «misericordia», sotto la forma o di sostegno materiale, o di perdono, la trovò in un ambiente altrettanto vicino al popolo e al principe. 57
Note
re di tutti gli uccelli, e lo storione dei pesci, e il leone delle fiere, e tu, principe, degli abitanti di Perejaslavl’… Come infatti la pernice raccoglie gli uccellini e porta non solo le sue uova, ma anche quelle di altri nidi, così tu pure, principe, raduna molti servi…» (N.N. Zarubin, Slovo Daniila Zatočnika, Leningrado 1932, p. 66). Cfr. la bylina Gli uccelli, diversi articoli del Fisiologo e molto altro. 21 Istorija russkoj literatury, Edizione dell’Istituto di letteratura russa dell’Accademia delle Scienze dell’urss, t. i, Mosca; Leningrado 1941, p. 292. 22 Sul culto della terra vedi anche: V.L. Komarovi/, Kul’t roda i zemli v knjažeskoj srede xi-xiii vv., in todrl, t. 16, Mosca; Leningrado 1960. 23 A.S. Orlov, Slovo o polku Igoreve, Mosca; Leningrado 1946, p. 6. 24 Nell’incendio del 1812 andarono distrutte anche le ricche biblioteche di A.A. Barsov, I.N. Boltin, I.P. Elagin, I.I. BantyšKamenskij, F.G. Bauze, D.P. Buturlin, E.R. Daškova, P.G. Demidov, N.M. Karamzin, I.T. Orlov, A.L. Šlecer e molti altri. 25 Si veda: V.P. Adrianova-Peretc, Slovo o polku Igoreve. Bibliografija izdanij, perevodov i issledovanij, Mosca; Leningrado 1940; L.A. Dmitriev, Slovo o polku Igoreve. Bibliografija izdanij, perevodov i issledovanij 1938-1954, Mosca; Leningrado 1955. Si veda anche: B. Gasparov, Poetika «Slova o polku Igoreve», Vienna 1984. 26 Del resto in uno dei suoi lavori successivi (in Slavonic and East European Review) A. Mazon considera il Canto come un’opera artisticamente più elevata della Zadonščina. 27 I.U. Budovnic, Pamjatnik rannej dvorjanskoj publicistiki (Molenie Daniila Zatočnika), in todrl, t. viii, Mosca; Leningrado 1951. 28 P. Mindalev, Molenie Daniila Zatočnika i svjazannye s nim pamjatniki, Kazan’ 1914. 29 N.K. Gudzij, «K kakoj social’noj srede prinadležal Daniil Zato/nik», in Sbornik statej k 40-letiju učenoj dejatel’nosti akad. A.S. Orlova, Leningrado 1934. 30 B.A. Romanov, Ljudi i nravy Drevnej Rusi, Leningrado 1947. 31 Izvestija Otdela rus. jazyka i slovesnosti AN, t. xiii, 1908, libro i, pp. 353-354. 32 Cfr. nel Salmo 57(56), versetto 9: «Svegliati mio cuore, svegliati arpa, cetra», o nel Salmo 108(107), versetti 3-4: «Svegliatevi arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora. Ti loderò tra i popoli Signore, a te canterò inni tra le genti». 33 D.V. Ajnalov, «Dva prime/anija k “Slovu” Daniila Zato/nika», in Izvestija Otdelen. russkogo jazyka i slovesnosti AN, t. xiii, 1908, libro i, p. 361. 34 Giustamente P.N. Berkov vede qui gli elementi della futura filastrocca in versi (Russkaja narodnaja drama. Redazione, introduzione e commento di P.N. Berkov, Mosca 1953, p. 31). 35 Letopisec Pereslavl’-Suzdal’skogo (anno 1139), Mosca 1851, p. 54. 36 II nome Rostislav (mentre nel ms di Copenhagen troviamo il nome Jaroslav) sostituisce il nome di Andrej nelle redazioni conservate fino a noi. 37 Sal 42(41), 1. 38 Cfr. Sal 86(85). 39 V.P. Adrianova-Peretc, Satiričeskaja literatura xvii veka, Mosca; Leningrado 1954. 40 V.G. Belinskij, «Russkaja narodnaja poezija», in Otečestvennye zapiski, 1841, t. xix, n. 11, pp. 19-20. 41 L.S. Šeptaev, «Russkij raesnik xvii veka», in Učenye zapiski Leningradskogo Gosudarstvennogo pedagogičeskogo instituta, t. lxxxvii, 1949, p. 36.
Dall’antico ebraico furono tradotti nella Rus’ di Kiev il Libro di Ester, il libro Iosippon (N.A. Meš/erskij, «Problemy izu/enija slavjanorusskoj perevodnoj literatury xi-xv vv.», in Trudy Otdela drevnerusskoj literatury (todrl), t. xx, 1964, pp. 198ss. Anche riguardo agli echi anticorussi dei testi di Kumran). 2 A.I. Sobolevskij riteneva tradotte dal latino la leggenda di Gumpol’d su Vja/eslav \ešskij, la Vita di Vito, di Apollinare di Ravenna, di Anastasio Romano e Crisogone e una serie di preghiere, pervenuteci in manoscritti russi (A.I. Sobolevskij, Materialy i issledovanija v oblasti slavjanskoj filologii i archeologi, San Pietroburgo 1910, pp. 43, 95 ed altre). 3 Fu evidentemente tradotto dall’originale siriaco il racconto su Akir il Sapiente. 4 S.P. Ševyrev, Istorija russkoj slovesnosti, parte ii, ed. 2, Mosca 1860, p. 26. 5 I.N. Ždanov, Sočinenija, t. i, San Pietroburgo 1904, p. 80. 6 Inizialmente si riteneva che il Discorso fosse indirizzato contro la dottrina ebraica. Questa ipotesi fu confutata dall’accademico I.N. Zdanov (Sočinenija, t. i, pp. 1-80). 7 V.M. Istrin, Očerk istorii drevnerusskoj literatury, t. ii, P., 1922, p. 131. 8 A.A. Šachmatov, Razyskanija o drevnejšich russkich letopisnych svodach, San Pietroburgo 1908, pp. 398ss. 9 M.D. Priselkov, Očerki po cerkovno-političeskoj istorij Kievskoj Rusi xi-xii vv, San Pietroburgo 1913, p. 98. 10 Correggo: nel ms «pastore». 11 Des Metropoliten Ilarion Lobrede auf Vladimir den Heiligen und Glaubensbekenntnis, nach der Erstausgabe von 1844 neu herausgegeben, eingeleitet und erläutert von L. Müller, Wiesbaden 1962. 12 D.V. Ajnalov-E. Redin, Drevnie pamjatniki iskusstva Kieva, t. x, Charkov 1899, p. 5. 13 A.A. Šachmatov, op. cit., p. 583. 14 D.V. Ajnalov-E. Redin, op. cit., pp. 30-40. 15 Pamjatniki drevne-russkoj literatury, n. 2, Žitija sv. mučenikov Borisa i Gleba, a cura di D.I. Abramovi/, Pietrogrado 1916, p. 2. 16 Si veda P. Sokolov, Russkij archierej iz Vizantii, Kiev 1913, pp. 37ss. 17 Nell’Europa orientale l’origine dei popoli, dei fondatori delle città, dei capostipiti delle dinastie si faceva risalire molto spesso a personaggi che avevano partecipato alla guerra di Troia. Nella discendenza dei francesi da Franco figlio di Ettore, ma dei re francesi dai troiani si credeva ancora nel xvi secolo. I tedeschi facevano discendere molte delle loro dinastie da Roma, gli svizzeri dagli scandinavi, gli italiani dai germanici. Una leggenda vicina alla nostra tradizione della chiamata dei Varjaghi è tramandata da Vidukind Krveiskij, che nella sua cronaca racconta della chiamata di tre fratelli anglo-sassoni. Si vedano i dati raccolti a questo proposito da V.S. Ikonnikov, Opyt russkoj istoriografii, t. ii, libro ii, Kiev 1908, pp. 65ss. 18 Si veda al riguardo: N.N. Voronin, «O vremene i meste vklju/ enija v letopis’ so/inenij Vladimira Monomacha», in Istorikoarcheologičeskij sbornik, Mosca 1962; R. Mat’esen, «Tekstologi/eskie zame/anija o proizvedenijach Vladimira Monomacha», in todrl, t. xxvi, Leningrado 1971. 19 Si veda sull’idea del patronato il mio articolo: «Nekotorye voprosy ideologii feodalov v literature xi-xiii vv», in todrl, t. x, Mosca; Leningrado 1954, pp. 76-82. 20 Nelle opere medioevali il comportamento degli animali e il rapporto tra gli animali viene sempre considerato come un esempio morale per gli uomini, per giustificare la disuguaglianza tra gli uomini. Cfr. nella Supplica di Daniil Zato/nik: «L’aquila è il 1
18
19
20
21
22
23
Dalla Cronaca di Radziwiłł: 18. Vittoria dell’esercito di Igor’ Svjatoslavič di Novgorod Severskij contro le avanguardie dei Cumani (1186), fol. 232v. 19. Storia del kissel di Belgorod (997), fol. 72v. 20. Gli eserciti contrapposti di Jurij Vladimirovič Dolgorukij e Izjaslav Mstislavovič di Kiev sotto le mura di Kiev (1115), fol. 190v. 21. Mstislav Vladimirovič fonda la chiesa della Dormizione della Madre di Dio (Pirogoščaja) a Kiev (1131), fol. 164v. 22. Uccisione di Andrej Bogoljubskij per mano dei congiurati a palazzo (1175), fol. 215. 23. Massacro dei cittadini di Bogoljubovo ad opera dei cortigiani e dei servi di Andrej Bogoljubskij, fol. 215v.
o un artigiano, avrebbe potuto identificare il suo stile con quello dei buffoni, permettersi di ridere di sé, celiare e impetrare la «misericordia» del principe. Daniil poteva appartenere solo a quello strato sociale che sosteneva energicamente la forte autorità principesca. Proprio qui potevano nascere anche le opinioni sociali di Daniil e lo stesso stile della sua Supplica, riversatosi nella trasformazione buffonesca di elementi letterari, uno stile che si colloca al confine tra popolare e letterario. Nello stesso tempo, come «beniamino» del principe, egli si accostava sicuramente non a quei buffoni che divertivano il popolo ed erano gli autentici rappresentanti dell’arte popolare, ma a quelli che dilettavano il principe e il suo seguito, mescolandosi con la folla degli stessi «beniamini» nella corte del principe. I buffoni principeschi facevano parte dei «beniamini» del principe, e Daniil era uno di loro. Ecco perché la Supplica, pur incarnando in sé i singoli elementi popolari, non divenne un’opera autenticamente popolare, che rifletteva gli interessi di tutto il popolo, come invece si riflettevano nel Canto della schiera di Igor’.
L’arte dei buffoni nell’antica Rus’ invitava all’imitazione, come testimonia in modo eloquente un passo dell’Insegnamento trovato da L.S. Šeptaev, attribuito a Giovanni Crisostomo: «chi infatti ride di ciò che dice un eremita, allora tutti si metteranno a ridere. Conviene infatti scacciare a botte il blasfemo che insulta, ma chi assiste si meraviglia… gli amici infatti danno una ricompensa al giullare… gli spettatori non solo ammirano, ma hanno anche imparato le sue parole, perché quando si raduneranno a un banchetto o in altre occasioni… tutti dicano: ecco, questi parla come un buffone, o è un blasfemo o è un giullare»41. Chiunque fosse Daniil, servo della gleba o dvorjanin (nel significato che aveva questo termine nei secoli xiixiii), in ogni caso proveniva dagli strati più bassi della società, ed era uno di coloro che si possono definire i «beniamini» del principe. Se l’autore del Canto della schiera di Igor’ poteva essere un membro della družina o un bojaro, esprimendo tuttavia il punto di vista del popolo, Daniil non poteva essere né l’uno né l’altro. A quel tempo né un membro del ceto dei bojari nobili, né un autentico rappresentante del popolo, un contadino-agricoltore 58
59
Parte Seconda L’ARTE ANTICA RUSSA G.K. Vagner
personalità, maturare un’adeguata coscienza di se stesso, né tanto meno della propria unicità, come già accennavamo in precedenza. Inoltre l’inscindibilità del piano ideale da quello materiale costituisce l’essenza del paganesimo. Poiché qualsiasi moto materiale è sottoposto alle leggi di un Cosmo ragionevole, esprime l’armonia cosmica, anche quello ideale non possiede una propria volontà libera. Di conseguenza anche la coscienza umana, che riflette questa armonia cosmica, non ha la possibilità di scegliere con un atto volontario, ma opera quasi automaticamente, o meglio, fatalisticamente. L’impossibilità di scegliere con un atto volontario è una caratteristica fondamentale della coscienza pagana, come una specie di atarassia epica, cioè un’assoluta tranquillità dello spirito. Per la coscienza epica non esistono non soltanto la drammaticità della morte, ma nemmeno il valore stesso dell’esistenza umana. Come osservò acutamente A.A. Tacho-Godi, è propria del paganesimo la concezione della vita umana come una sorta di «palcoscenico»1 sul quale gli uomini giungono non si sa da dove e se ne vanno non si sa dove, e che dunque non ha un particolare valore. La necessità è vista come qualcosa di assolutamente inevitabile, involontario. A ciò sono legati anche molti aspetti dell’etica. È facile osservare che una concezione puramente naturale (mitologica) dell’essenza dell’uomo liberava i giudizi morali dal senso della giustizia umana, cioè dalla coscienza della colpa. «I miti non trasmettono una morale» (M.A. Livšic). «La legge morale della coscienza epica tutelava il diritto all’arbitrio individuale della “personalità forte”. Di conseguenza l’obiettivo, il dovere e la virtù principale dell’eroe epico coincidevano indubbiamente con l’attuazione del proprio diritto individuale (anche a scapito del diritto di qualsiasi altro individuo)»2. In altre parole, la pietra angolare era il valore dell’individuo, ma non la coscienza, e questo portava inevitabilmente all’arbitrio. Nemmeno la condotta degli dèi ne era immune. Entrambe queste circostanze, la mancanza di un fine superiore per le proprie aspirazioni e l’arbitrio individuale libero dall’etica, divennero in epoca classica il terreno adatto al fiorire dell’epos eroico e, un po’ più tardi, alla nascita del dramma e anche della scultura antropomorfa. Ma da
Il genio artistico della Rus’ di Kiev ha saputo indubbiamente tradurre l’eredità culturale dell’Oriente sasanidico, dell’Occidente romanico, del Caucaso e specialmente dell’antichità in opere originali di suprema levatura. Questo fatto è una testimonianza dell’antichità e della solidità delle tradizioni artistiche proprie del popolo russo. D.V. Ajnalov
Per quanto profonde siano le radici delle popolazioni slave orientali, la storia della Rus’ di Kiev ha inizio nel 988, quando esse adottarono il cristianesimo. Se non teniamo conto dei meccanismi che muovono la coscienza, probabilmente non conosceremo mai abbastanza a fondo come la nuova coscienza cristiana veniva assimilata da coloro che poco prima erano ancora pagani. Ma confrontando le concezioni pagane che conosciamo con le strutture di pensiero cristiane che ad esse si andavano sostituendo, possiamo comprendere perché per la Rus’ di Kiev era non solo necessario, ma addirittura inevitabile abbracciare il cristianesimo. Certo, attorno al x secolo il paganesimo slavo aveva superato già da tempo lo stadio mitologico nel quale l’uomo non si concepiva separato dalla natura, e attribuiva a tutti i suoi oggetti e fenomeni delle qualità identiche a se stesso. Attribuire un’anima a tutte le cose (animismo) non significava assolutamente spiritualizzarle, poiché anche nella filosofia antica e fino a Platone l’anima era concepita come qualcosa di materiale (aria, fuoco, atomi circolari). L’attribuire un’anima a tutte le cose esprimeva una personificazione molteplice e diversificata delle forze naturali in varie divinità, che anche solo per la loro pluralità e per l’impossibilità di concepirle separatamente dalle forze della natura non ha un significato personale. La loro apparente personificazione è puramente esteriore, naturale, ma non spirituale. Come abbiamo già detto, anche nella Grecia antica, nel suo sviluppato antropomorfismo mitologico, la divinità non corrisponde a una persona, ma alle forze naturali e sociali. Va da sé che all’interno di una simile concezione cosmologica l’uomo non poteva prendere coscienza della propria 61
tanto l’abbassarsi di Dio verso l’uomo (antropodicea), ma anche l’innalzarsi dell’uomo verso Dio (teodicea); la persona umana, la coscienza personale venivano così nobilitate. A prima vista questa potrebbe sembrare un’esclusione, un’estromissione dell’uomo dal Cosmo, cioè una svalutazione della sua persona. Ma in realtà era la liberazione della persona da una cieca dipendenza cosmologica e l’assegnazione ad essa di una volontà propria. Ma la liberazione dell’uomo da un’appartenenza meccanica (materiale) alla Natura (al Cosmo) lo inserì subito in un altro sistema, nella condizione di responsabilità davanti al Divino per la propria autodeterminazione morale. Il problema della volontà libera fu per molto tempo oggetto di discussioni. Dopo lunghe esitazioni tra il riconoscimento della libertà totale e quello di una grazia che la guida, si arrivò alla concezione di libertà di scelta dei mezzi per raggiungere la grazia unica per tutti. Si apriva così un’ampia strada per la condotta personale e insieme anche per la salvezza personale. Riassumendo quanto abbiamo detto sul nuovo tipo di coscienza, e precisamente: la concezione del principio assoluto come personale, come un essere consistente in sé; la concezione dell’incarnazione di Dio nella persona di Cristo; la divinizzazione dell’uomo; la libertà della volontà nel raggiungimento della grazia e della possibilità di salvezza, non possiamo non riconoscere l’effettiva «inconsistenza del paganesimo», come notò acutamente anche S.M. Solov’ëv. Ma non basta. Appare indiscutibile che il graduale superamento del paganesimo e l’assimilazione della nuova coscienza che portò al Battesimo della Rus’ non erano legati soltanto a una necessità politico-sociale, ma anche a uno sviluppo spirituale interiore, cioè ultimamente all’essenza del cristianesimo. Altrimenti il riconoscimento del carattere progressivo del cristianesimo perde tutta la sua forza. A prescindere da quanto pieno e volontario sia stato il Battesimo della Rus’, e anche indipendentemente dall’estensione di questo processo nel tempo, è comunque certo che questo fu prima di tutto un processo inarrestabile di cambiamento da una religione a un’altra, cioè non poteva esistere e non ci fu nessuna dvoeverie (doppia fede), e che, in secondo luogo, il cambiamento di religione era un’esigenza interiore della popolazione di quel grande paese. La migliore dimostrazione è la sorprendente ascesa della cultura della Rus’ di Kiev, che durante il primo mezzo secolo occupò le prime posizioni in Europa. La Rus’ di Kiev doveva certamente molto, moltissimo, a Bisanzio, che le aveva dato dei maestri in tutti i rami dell’arte. E non soltanto artisti, ma anche opere d’arte già pronte, come le icone e i più vari oggetti di culto. Molto veniva anche dalla Bulgaria. Ma né Bisanzio, né la Bulgaria avrebbero potuto fare nulla se si fossero trovati davanti un paese che conosceva soltanto gli idoli. La Rus’ stava già in gran parte vivendo una nuova coscienza artistica. Sappiamo che ancora prima di Ol’ga e del suo battesimo esisteva a Kiev 7 una chiesa dedicata ad Elia, che svolgeva anche la funzione di cattedrale (sobor): dunque esistevano anche altre chiese parrocchiali. Le iniziative pagane del principe Vladimir sono degli sforzi tardivi per conservare usi strettamente tribali. La decisione di battezzare la Rus’ dimostra che tanto il principe quanto i vertici della nobiltà feudale conoscevano da tempo i vantaggi del cristianesimo. Se tali vantaggi si riducessero esclusivamente a motivazioni socio-economiche e politiche, avremmo a che fare non con persone in pieno possesso della propria volontà, che vivevano una complessa
questo terreno non sarebbero potute nascere né le Confessioni di sant’Agostino, né le famose Areopagitiche dello Pseudo-Dionigi, né l’architettura bizantina, né l’iconografia anticorussa, senza le quali non solo la cultura europea, ma anche la cultura universale sono impensabili. Certamente l’essenza della coscienza pagana, che abbiamo tratteggiato qui in modo estremamente schematico, non poteva essere largamente diffusa nella Slavia orientale. L’assenza nella Rus’ di Kiev di uno schiavismo molto sviluppato frenò l’evoluzione della concezione pagana del mondo quasi allo stadio della società tribale. Ma lo sviluppo storico generale dell’Europa occidentale e orientale stava già attirando la Rus’ nella propria orbita, e qui il paganesimo mostrò in pieno la propria inconsistenza. Bisanzio si annunciava già in tutta l’Europa occidentale e in parte anche in Oriente come una nuova, fulgida cultura. I missionari cristiani portavano alla nuova fede un paese dopo l’altro, mentre nella Rus’ si incominciava allora a fabbricare degli «Olimpi» primitivi, con idoli di legno e di pietra. La nuova fede elevava l’uomo ad un’altezza mai vista («Io ho detto, voi siete dèi», Gv 10,34), mentre a Kiev si compivano sacrifici umani, e inoltre le vittime erano addirittura dei cristiani (!). A Costantinopoli l’architettura monumentale e la pittura brillavano per la loro magnificenza, e nella Rus’ il popolo 26- pregava in templi pagani scoperti, circondati da fossati di 27 terriccio. Pare che gli slavi orientali non conoscessero affatto la pittura. E del resto chi avrebbero potuto ritrarre?! Le rappresentazioni delle divinità pagane erano così amorfe che parlando dell’«Olimpo» di Kiev, creato per ordine del principe Vladimir, il cronista non fu in grado di descrivere l’aspetto di queste divinità. Solo a proposito di Perun osservò: il «baffo dorato». E ciò non è affatto strano. Le divinità pagane non erano personificate. Non erano persone, ma elementi della natura, l’incarnazione delle forze naturali. Ma forse con l’andare del tempo la Rus’ sarebbe uscita da una condizione così primitiva? Possiamo azzardare una risposta. Anche se il paganesimo slavo si fosse sviluppato fino allo stadio greco, anche se gli idoli slavi avessero lasciato il posto ad immagini scultoree più evolute, la Rus’ non avrebbe ugualmente potuto varcare i confini della condizione «naturale». Infatti pure le divinità antiche erano mortali. In diverse località mediterranee è testimoniata l’esistenza di sepolcri di Zeus e di Apollo. Il cielo della concezione pagana del mondo era molto alto, equivaleva al Cosmo. Ma lo stesso Cosmo era concepito come un corpo tridimensionale, e cioè «materiale». E la coscienza pagana non poteva oltrepassare i confini di questa «materialità» di tutta l’esistenza (infatti, proprio per questo motivo sono fallimentari le attuali teorie che pretendono di raggiungere l’unità universale per mezzo di un «metamito globale»). La coscienza ha potuto varcare e ha varcato i confini del cosmo materiale solo con l’apparire di significati ultimi trascendenti, e prima di tutto con una concezione personale dell’assoluto. Data la particolare rilevanza del problema vogliamo ritornarci sopra. Nel cristianesimo la concezione personale dell’assoluto espressa nei dogmi di una trinità in tre ipostasi distinte e della divina incarnazione si differenziava da quella veterotestamentaria proprio in quanto Dio si rivela nella persona umana storicamente irripetibile di Gesù Cristo. La concezione di Gesù Cristo come volto dell’assoluto, uguale alle altre due persone della Trinità, e al tempo stesso come reale unione della divinità con l’intera natura umana, cioè con il suo corpo, l’anima, la mente e la volontà, indicava non sol62
angoli bui, ma anche in quelli abbastanza luminosi. Ed anche la Russia ebbe i suoi Giuliano l’Apostata. Tuttavia ciò non significa che negli strati superiori della società russa il cristianesimo venisse assimilato in modo «qualificato», e nei vasti strati popolari in modo «primitivo», circostanza questa che avrebbe favorito il formarsi della cosiddetta dvoeverie. Certo, dobbiamo guardare criticamente le varie 17 teorie del popolo russo «teoforo», ma non si possono nemmeno sottolineare eccessivamente le tendenze antireligiose dei contadini, cosa che tra l’altro gli studiosi più seri non hanno mai fatto. Ora, dopo aver accennato alle principali forze motrici della cultura spirituale nella Rus’ di Kiev, dobbiamo persuaderci che esse furono realmente come le abbiamo descritte, dobbiamo cioè persuaderci della loro produttività creativa. A tale scopo vedremo come esse si sono manifestate negli aspetti fondamentali delle principali arti spaziali: architettura, scultura e pittura. Siamo costretti a parlare dell’arte urbana, ma ciò non vuol dire che questa fosse l’unica espressione della nuova creatività artistica. Tutte le forze più progredite e dotate della Rus’ di Kiev partecipavano al processo creativo, e solo più tardi si potrà parlare di una loro differenziazione sociale.
vita spirituale, ma con politicanti meschini e pragmatisti. Ma questa sarebbe un’estrema volgarizzazione della storia, perché nel medioevo non potevano esistere politicanti pragmatisti di quel genere. Pur considerando il fatto che i costruttori delle prime chiese russe, ed anche gli autori (o gli artisti) dei primi affreschi, mosaici ed icone, erano greci, la nascita e il sublime livello raggiunto da quest’arte furono possibili solo perché essa trovò un’adeguata comprensione, cosa che accadde quando gli ambasciatori di Vladimir, dopo aver assistito a 10 una Divina Liturgia nella chiesa della Sofia a Costantinopoli, ne riportarono un giudizio entusiastico. Le loro parole testimoniano non soltanto uno «sfondamento» verso l’alto, nella sfera del trascendente, avvenuto nella coscienza dell’uomo russo, ma anche il carattere personale di questo «sfondamento», cioè una concezione personale sia dell’assoluto che dell’unione spirituale con esso. Si può dire che questo fu un passo decisivo per la formazione di una nuova coscienza artistica e della creazione artistica. Ovviamente il processo di assimilazione della nuova fede ebbe uno sviluppo molto complesso e lento. Nel corso dei secoli il paganesimo resisteva tenacemente non solo negli
Capitolo I L’arte della Rus’ di Kiev unita nei secoli x-xi
Nel passaggio all’architettura religiosa della Rus’ di Kiev balza agli occhi l’evidente varietà tipologica delle chiese a seconda della loro destinazione concreta: sede del metropolita, del vescovo, chiesa della corte principesca, o semplice chiesa parrocchiale delle corporazioni (di rione), di un monastero o infine cappella privata. Per definire queste strutture funzionali-tipologiche uso il termine convenzionale di «generi», e nel presente lavoro ad essi si attribuisce una notevole importanza. Poiché non sappiamo niente sulla forma delle prime chiese di Kiev, dobbiamo rifarci alla chiesa della Madre di Dio (della Decima), le cui fondamenta furono gettate nel 989, subito dopo la campagna di Cherson e il battesimo del principe Vladimir. Sulla chiesa della Decima esiste una vasta letteratura, e in questa sede non intendiamo affrontare le questioni controverse ivi contenute. Ci limitiamo solo alle «condizioni specifiche» riguardanti la costruzione della chiesa, che meritano un’analisi più approfondita. Quando in quella grande città (Kiev contava allora quasi ventimila abitanti), in un ambiente ancora pagano, senza conoscere l’architettura monumentale più sviluppata, si incominciò a costruire un tempio cristiano, cioè l’immagine del Mondo, la specificità delle condizioni doveva essere molto particolare. Il problema non riguarda tanto l’aspetto tecnico, quanto, se così si può dire,
Architettura Malgrado l’unità tipologica nello sviluppo storico dei concetti di armonizzazione dello spazio che accomuna tutte le civiltà dell’antico Oriente, tutti i popoli dell’antichità, tutte le popolazioni medioevali, tuttavia ogni popolo aveva la propria visione del Mondo, le proprie idee sull’armonia delle sue parti, sui principi dell’organizzazione architettonica più adeguata dello spazio terreno, chiamato a fungere da immagine del Mondo. In questo senso, naturalmente, sono particolarmente importanti i primi passi dell’architettura monumentale di un popolo, studiando i quali possiamo subito dire cosa fosse «originale» e cosa fosse «acquisito». Questo tema si trova in una posizione particolare se riferito all’antica Rus’, poiché essa intraprese il cammino di un’architettura monumentale evoluta quando le architetture degli stati vicini avevano già alle spalle molti secoli di storia. Come abbiamo già detto, una delle prime chiese cristiane di Kiev, quella dedicata ad Elia, portava il titolo di cattedrale (sobor). Alcuni dati fanno pensare che essa non fosse già più in legno. Ciò significa che a Kiev c’erano anche delle chiese parrocchiali, che potevano essere non solo in legno ma anche in muratura. Dell’esistenza di queste ultime parlano i resti di plinto in mattone negli scavi di un tempio vicino alla chiesa della Decima (anno 1975). 63
supponiamo fosse la base dei muri. Tale opera è orientata secondo i punti cardinali, in modo che i quattro aggetti sporgenti dal cerchio centrale, diretti verso gli angoli del «recinto» risultano orientati non secondo i punti cardinali, come in genere si dice, ma a nord-est, nord-ovest e così via. Essi avevano evidentemente qualche altro significato. È poco probabile che la costruzione centrale circolare in pietra fosse un altare sacrificale (come alcuni affermano), poiché l’altare circolare era tangente al lato orientale del «recinto», perciò si sarebbe dovuto accedere al recinto da occidente. Tutte queste particolarità richiedono una interpretazione. La cosa più interessante è che con l’apparire della configurazione a quadrilatero del tempio pagano la sua antica forma circolare non fu abbandonata come ormai priva di significato. Non solo non perse il suo significato, ma fu accentuata da quattro aggetti, che certamente non erano un semplice riempimento dello spazio, ma indicavano qualcosa di importante. Ma cosa? Come è noto, l’«idea del cerchio» è innata in quasi tutti i popoli. Mediante la forma circolare trovano espressione nel modo più naturale le antiche contrapposizioni tra «nostrano» ed «estraneo», «cultura» e «natura», «ordine» e «caos». Il passaggio dalla forma circolare a quella rettangolare non fu assolutamente facile. Basti dire che il tempio di 25 Perun’ a Novgorod (ix secolo, scoperto da V.V. Sedov)3, sebbene avesse una complessa forma plurilobata (pluriconco), tuttavia non era racchiuso da un perimetro rettangolare. Non avevano contorni rettangolari nemmeno gli altri templi pagani slavi scoperti nella regione del Dnestr. Perché apparisse quella forma perimetrale era necessario il lavoro di una coscienza più concettuale, che non si accontentasse di trasferire automaticamente lo spazio circolare sensoriale-visivo della terra nella struttura architettonica del tempio, ma scoprisse una concezione più speculativa dell’immagine del Mondo. Tale concezione era nata a suo tempo anche nell’Antico Oriente, probabilmente in Egitto, come testimonia la rappresentazione egizia di un universo di forma quadrangolare, e di una terra a forma di «scatola». Come è noto, nell’Antico Oriente al numero quattro era attribuito un significato mistico, e su questa base si costruirono le teorie cosmografiche accadiche e assiro-babilonesi di un universo strutturato in quattro ordini. Quanto detto trova conferma nella tradizione architettonica veterotestamentaria, che porta direttamente ai primordi del cristianesimo, poi a Bisanzio e ancora più oltre al medioevo. L’arca del Testamento e la relativa tenda veterotestamentaria avevano forma quadrangolare in proporzione di 1:3, mentre il recinto rettangolare della tenda era in proporzione 1:2. Semanticamente tale struttura era prescritta dal libro dell’Esodo (capitoli 25-27), dunque è pienamente legittimo supporre un influsso delle tradizioni egizie. Funzionalmente le proporzioni della tenda erano determinate dal suo orientamento longitudinale sulla linea est-ovest (con l’ingresso dal lato orientale), dalla suddivisione in una parte anteriore aperta (il «Santo», o la «tenda del convegno») e dietro di essa il «Santo dei Santi», anch’esso diviso in due parti: quella anteriore per i sacerdoti e quella posteriore per l’arca del Testamento. La tenda non era considerata la dimora di Dio, ma solo il luogo della sua apparizione (Es 34), perciò era scoperta, essendo immagine del Mondo.
quello gnoseologico, la possibilità di interpretare e far proprio il carattere spaziale del nuovo genere di costruzione. Se la coscienza architettonica dei kieviani (tra cui anche quella del principe stesso) non fosse stata assolutamente preparata a percepire ed apprezzare la forma a blocco rettangolare volumetrico-spaziale del tempio bizantino, se cioè non fosse andata oltre la forma circolare anticoslava dei kurgan (tumuli) e dei templi pagani, la composizione della chiesa della Decima sarebbe apparsa loro del tutto insolita, e forse anche inaccettabile. Ci sono, invece, buoni motivi di supporre che, almeno in gran parte, le forme della chiesa della Decima non costituissero un’assoluta novità per i kieviani. Torniamo all’architettura kieviana in muratura dell’epoca precristiana, al già ricordato tempio pagano, portato alla luce da V.V. Chvojka nel 1908. Esso funzionò probabilmente fino all’adozione del cristianesimo. Come è noto, la caratteristica essenziale del tempio 24/1, pagano di Kiev era la recinzione del suo corpo centrale, 26 in quel caso circolare (o più precisamente ellittico) con un perimetro rettangolare in pietra (non in mattoni), che
24. Pianta di Kiev, xi-xii secolo: I. la città antica (Gorodiš/e) nei secoli viii-ix – II. la «città di Vladimir» – III. la «città di Jaroslav» – IV. la collina di San Michele – 1. tempio pagano – 2. chiesa della Decima – 3. monastero Jancin – 4. chiesa di San Basilio – 5. chiesa di San Teodoro – 6. cattedrale del monastero di San Michele dalle cupole d’oro – 7. chiesa di San Demetrio – 8. chiesa di San Pietro – 9. cattedrale della Santa Sofia – 10. chiesa di San Giorgio – 11. chiesa di Sant’Irina – 12. Porte d’oro – 13. Porte dei prati – 14. Porte di Batyi – 15. Porte di L’vov.
64
Parallelamente con lo sviluppo veterotestamentario del tempio correva l’evoluzione dell’edificio per il culto nel mondo antico, dove la più antica forma circolare (urne funerarie dell’isola di Milo; case sull’isola di Creta) si trasformò ben presto nel megaron, dal quale si formò l’antico periptero. Inoltre, al centro del megaron si custodiva il focolare circolare, e nel tempio antico al centro era raffigurato un omphalos circolare, che rappresentava il centro della terra. Quando il commerciante, poi monaco e teologo, Cosma Indicopleuste lavorava alla sua «Topografia cristiana, cioè a riprodurre, conformemente alla Bibbia, l’Universo con la forma di una scatola (“stanza”) quadrangolare allungata, si rifaceva all’analoga rappresentazione dei quattro punti cardinali “secondo Eforo”»4. È difficile dire se la raffigurazione rettangolare del Mondo di Eforo fosse un tributo alle concezioni dell’Universo dell’Antico Oriente, o se in essa si possa vedere l’eco delle teorie numeriche proporzionali di Platone (427(8)-347(8) a.C.), il quale, elaborando il principio della simmetria, operava con rettangoli costruiti sulla diagonale di un quadrato. Ma per il nostro tema la cosa importante è un’altra. Nelle riproduzioni anticorusse del disegno di Cosma Indicopleuste cui abbiamo accennato sopra, al centro del rettangolo è collocato il cerchio dei pianeti, e negli angoli i simboli dei venti5. Da una parte questa raffigurazione è vicina alla costruzione geografica di Eforo, ma dall’altra è sostanzialmente affine alla pianta del tempio pagano kieviano, che in tal modo, nel progetto e nelle idee dei suoi costruttori, non è assolutamente un primitivo ammasso di pietre, ma è al contrario una composizione cosmografica piuttosto sviluppata, vicina alle concezioni cosmografiche del mondo antico, parzialmente penetrate anche nel cristianesimo. A noi naturalmente interessano di più le sorti di queste ultime. Si ritiene che il prototipo delle basiliche paleocristiane fossero le basiliche di Roma. A proposito della basilica di S. Paolo fuori le mura (anno 386), M. Dvoržak scriveva che essa è la «pura incarnazione dello spirito dell’architettura cristiana»6. Tuttavia l’architettura paleocristiana vi arrivò non attraverso una grossolana assimilazione, ma grazie alla comprensione di tradizioni più remote. Probabilmente l’eredità veterotestamentaria e quella antica ebbero qui una funzione altrettanto importante. Clemente Alessandrino (morto prima del 215) e Origene (185-254), creatori della gnosi cristiana, nelle loro teorie sulla struttura del Mondo a forma di arca quadrangolare si ispiravano alla tradizione veterotestamentaria. Quest’ultima si estendeva alla struttura del servizio liturgico cristiano e persino all’innografia7. Quindi non è strano che la raccomandazione di costruire il tempio cristiano
25. Tempio di Perun a Perun’ presso Novgorod, x secolo (ricostruzione).
in forma allungata («a somiglianza di una nave») si rifacesse anche alla struttura del tempio veterotestamentario, in altre parole alla tenda. Sarebbe errato pensare che ai costruttori dei templi paleocristiani non interessassero affatto gli edifici a cupola dell’epoca, aventi principalmente funzione di martyrium. Altrettanto errato sarebbe presumere che i neofiti della nuova religione preferissero le basiliche perché non possedevano e non conoscevano nessun’altra forma architettonica. Il motivo era completamente diverso. Proprio la basilica era quella che si adattava nella maniera più funzionale al nuovo uso liturgico, come ben comprendevano Clemente Alessandrino, Origene ed altri. La caratteristica principale di questa nuova visione del mondo era lo storicismo che soppiantava l’antica ciclicità. Una concezione storica del tempo richiedeva uno sviluppo lineare-spaziale dell’azione liturgica, e proprio la basilica offriva lo spazio più adatto al suo svolgimento. La basilica lineare-spaziale era come una rappresentazione del cammino dall’Antico al Nuovo Testamento, e di conseguenza anche le sue parti erano disposte in un ordine sacrale-gerarchico (da Occidente a Oriente): il nartece per i catecumeni, il naos per i fedeli e il santuario per i sacerdoti. In tale ordine storico si svilupparono più tardi anche gli affreschi. Nella chiesa a forma circolare tutto ciò era difficilmente raggiungibile, e talvolta addirittura impossibile. Tuttavia anche lo sviluppo della forma basilicale ebbe le sue difficoltà. In effetti le costruzioni a pianta centrale presentavano dei vantaggi che le basiliche non avevano: erano adatte ad una copertura a cupola. La necessità della cupola era dettata non soltanto dallo sviluppo dell’azione liturgica, che si concentrava sempre più al centro della chiesa (davanti al solea dove sorgeva l’ambone), ma anche dalla complessità semantica del tempio, dal suo valore figurativo architettonico-simbolico. È vero che le basiliche erano concepite come immagine del Mondo, ma questa immagine era abbastanza astratta. Forse essa si concretizzava soltanto
26. Tempio pagano a Kiev, x secolo.
65
nell’omphalos che già conosciamo, che secondo la tradizione antica simboleggiava il «centro della terra». Da esso partivano delle particolari strisce (i «fiumi»), e questo ci conduce ancor più alla composizione del tempio pagano kieviano, con i suoi aggetti che sporgono dal cerchio centrale. Ma per l’architettura cristiana non bastava. Le teorie dei vari ideologi bizantini erano piene di «inclinazione alla cupola». Ed è naturale. Non esisteva infatti un simbolo del cielo più evidente della cupola. Il pantheon romano, probabilmente, non dava pace ai costruttori delle chiese paleocristiane, e in epoca paleobizantina l’idea della cupola divenne quasi dominante. In seguito a ciò comparvero anche monumenti come San Lorenzo a Milano (vi secolo), la chiesa rossa presso Peruštica in Tracia (vi secolo), la chiesa di San Sergio e Bacco a Costantinopoli (527-530), quella di San Vitale a Ravenna (547) ed altre. Tuttavia con la loro costruzione si verificò un involontario ritorno a una disposizione che, come abbiamo già detto, era inadatta a un servizio liturgico che si faceva sempre più complesso. La via d’uscita da tale situazione fu, come è noto, la combinazione della basilica con la cupola, che dopo una serie di ricerche costruttive portò all’edificazione della famosa Sofia di Costantinopoli (532-537), «nuovo modello dell’universo»8. Per il poeta Corippo (vi secolo) la cupola della Sofia costituiva l’«esatta rappresentazione del cielo stesso». Ma Evagrio Scolastico, nato nell’anno in cui fu terminata la Sofia (morì nel 594), apportò una precisazione sostanziale, dicendo che la cupola della Sofia era «uguale alla volta celeste sulla terra»9. Questa svolta del pensiero verso la terra segnò anche il contenuto di tutta la successiva architettura mediobizantina, tra cui anche quella anticorussa, che passeremo ora ad esaminare, dopo aver esposto un’ultima osservazione. Cosma Indicopleuste nella sua Topografia cristiana non dice nulla della costruzione di Giustiniano, sebbene Cosma avesse terminato la sua opera dieci anni dopo l’edificazione della Sofia. Si potrebbe supporre che Cosma sapesse qualcosa della nuova immagine del Mondo costantinopolitana, poiché la sua teoria dell’universo a forma di «scatola» con un’unica volta è sostanzialmente affine all’architettura della Sofia. Certamente i costruttori del tempio pagano di Kiev non sapevano nulla né della Sofia, né della Topografia cristiana di Cosma, ma costruendone la parte centrale a guisa di un grande cerchio, circondandola con muri rettangolari, dirigendo verso gli angoli di questo rettangolo i relativi aggetti del cerchio centrale, e infine collocando nella parte orientale del tempio una seconda cerchia di muri, essi precorrevano topograficamente le componenti fondamentali delle future chiese cristiane di Kiev, e ciò non va sottovalutato. Riguardo al problema delle fonti dell’architettura anticorussa in pietra, riveste particolare importanza il fatto che verso il x secolo, quando il tempio pagano di Kiev era ancora in funzione, nella stessa architettura bizantina si verificarono dei cambiamenti che ne resero notevolmente più facile l’assimilazione da parte della Rus’ pagana. Da stato semischiavista, che conservava ancora alcune vestigia dell’antichità, l’impero bizantino si trasformò in uno stato feudale. I nuovi centri feudali acquistarono una grande autonomia. Non c’era più la necessità né la possibilità di costruire edifici sul tipo della Sofia di Costantinopoli. Si indebolivano e si dissolvevano le concezioni architettoniche di un Cosmo simbolico. Mutò anche il carattere della celebrazione liturgica. La solenne gestualità si tra-
sformò in una consuetudine di preghiera più raccolta. Poiché il tempio era visto sempre più come il «cielo sulla terra», si modificò anche il suo aspetto. Al posto di una cupola grandiosa e universale («esatta rappresentazione del cielo stesso», come scrive Corippo) si ergono piccole cupole su tamburi (simbolo del cielo), sostenute da un sistema di pilastri e volte che prese il nome di cupola con croce inscritta. Una maggiore capienza si ottiene aumentando il numero delle navate e aggiungendo esonarteci e grandi cori. Il sistema di chiesa a croce e cupola era molto elastico, tanto che secondo il medesimo principio si poteva costrui re una piccola chiesa a quattro pilastri, a sei pilastri e tre navate, a cinque navate e persino a otto pilastri, a seconda della destinazione funzionale dell’edificio. La facilità di eseguire varianti nella struttura architettonica era dovuta all’uso del mattone regolare (plinto). Inoltre a Kiev, contemporaneamente a Costantinopoli, si era imposto un modo di costruire in cui si alternavano un ordine di mattoni a filo e uno più incassato nello spessore del muro, legati da un consistente strato di malta, a formare una superficie assai decorativa. Con questa tecnica fu costruita anche la prima chiesa monumentale di Kiev, la chiesa della Decima. La chiesa della Decima occupava una posizione particolare a Kiev. Ciò è testimoniato prima di tutto dalla singolarità delle sue funzioni e dalla loro particolare complessità. Era indubbiamente la chiesa del principe, poiché ai tempi di Vladimir Svjatoslavi/ non esisteva a Kiev una chiesa apposita (palatina). La destinazione della chiesa della Decima a chiesa prin- 24/2 cipesca nasce dal fatto che qui erano sepolti il principe 36Vladimir e sua moglie Anna. Nel 1044 vi furono traslati 38 anche i resti dei principi Oleg e Jaropolk Svjatoslavi/, uccisi durante i disordini del x secolo, ed anche le reliquie della principessa Ol’ga. Furono sepolti qui anche il principe Izjaslav Jaroslavovi/ e suo nipote Rostislav Mstislavovi/ (mentre i principi Vsevolodovi/ non furono sepolti nella chiesa della Decima). Partendo dalla somiglianza tra la parte centrale della chiesa della Decima e la cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione a \ernigov abbiamo motivo di ritenere che vi fossero ampi cori, tratto caratteristico di una chiesa principesca. Ma ciò non è del tutto esatto. Per il principe, che partecipava alla celebrazione liturgica con le stesse modalità dell’imperatore, i cori non avevano alcuna utilità. Essi erano destinati piuttosto alle donne, tra cui anche quelle della famiglia principesca. Allo stesso tempo la chiesa della Decima era anche la cattedrale cittadina, anche se, a rigor di termini, il concetto di «cattedrale» (sobor) può essere applicato nel caso che essa riunisse attorno a sé altre chiese parrocchiali, come del resto è probabile, se si pensa che a Kiev c’erano molte chiese in legno. Lo status di sobor cittadina richiedeva (oltre a una grande capienza) la celebrazione quotidiana della liturgia, e tra l’altro anche di liturgie (per esempio a quattro voci) celebrate da un gran numero di sacerdoti, ed era quindi indispensabile uno spazio adeguato. Tuttavia le funzioni della chiesa della Decima non si limitavano a quanto detto finora. Nel noto componimento Lettura su Boris e Gleb, opera di Nestor (fine dell’xi secolo), essa è chiamata «katholikani iklisia» che corrisponde al termine di «chiesa cattedrale». Senza dubbio questo titolo è una memoria del passato, poiché già molto prima 66
indispensabile costruire in prossimità dell’altare i cosiddetti skeuophylàkion e mutatoria, appositi locali dove il metropolita e il principe indossavano i paramenti per la celebrazione (nella Sofia di Costantinopoli erano i locali per la vestizione del patriarca e dell’imperatore). Le gallerie della chiesa della Decima, con le loro aule sul lato orientale, assolvevano a tale funzione. La foggia aperta delle gallerie (secondo l’ipotesi di N.V. Cholostenko)16 non era una grande novità. Questo tipo di gallerie è conosciuto anche nelle chiese bizantine, e ai kieviani era famigliare per la somiglianza con i recinti delle chiese di legno, come conferma N.N. Voronin. La coscienza cristiana dei Russi era ancora piena di timori pagani. Non tutti i cittadini, per esempio, avevano il coraggio di entrare in chiesa; una parte di essi, per tradizione, ne restava fuori, come succedeva anche in Geo rgia («tutti erano in preda a un grande timore»)17. Non a caso alla chiesa della Decima sono legati gesti rituali che hanno una tradizione tutt’altro che cristiana18, mentre questo sarebbe stato assolutamente impossibile nella cattedrale della Sofia. Il nartece di forma allungata faceva assomigliare la chiesa della Decima ad alcuni esempi di Cherson, della Bulgaria e della Moravia. V. Kora0 ritiene con assoluta certezza che in Bulgaria la preferenza per la basilica rispetto alla chiesa a croce e cupola fosse legata alla funzione di cattedrale della chiesa stessa, alla necessità di avere un ambiente molto spazioso per i catecumeni, fornito dal nartece19. Di carattere tipicamente occidentale era la decorazione della facciata della chiesa della Decima, con un grande rilievo della Madre di Dio Odigitria. Non bisogna interpretare quanto detto come se tutte queste caratteristiche fossero nate separatamente, e poi combinate artificiosamente. Prese tutte nel loro insieme, esse erano il prodotto della coscienza di coloro che parteciparono alla costruzione del complesso della chiesa della Decima. È certo molto interessante la figura di Anastas di Cherson, parroco della chiesa della Decima, che ebbe una funzione rilevante nella vita politica di Kiev a cavallo tra il x e l’xi secolo. Fu sicuramente lui, e non il principe Vladimir, ad elaborare il «programma» della chiesa della Decima, e qui ebbero certamente la loro importanza le sue simpatie chersoniane e filo-occidentali. Non si sa in quale chiesa di Cherson celebrasse Anastas, e quale forma di chiesa egli preferisse. L’importante è che nel x secolo nella Tauride sud-occidentale predominava il tipo basilicale, ed erano conosciute basiliche a cinque navate con nartece ed anche esonartece. Il problema della struttura architettonica della chiesa della Decima non si risolve certamente con le osservazioni sopra elencate, ma tuttavia non crediamo sia esatta l’opinione formatasi nei nostri ambienti scientifici, dove si sostiene che l’architettura della Rus’ non dovrebbe nulla a Korsun-Cherson20. Non esiste, purtroppo, alcuna possibilità di ricostruire gli affreschi della chiesa della Decima, mediante i quali potremmo avvicinarci alle sue caratteristiche formali generali. È indubbio che nell’abside fosse raffigurata la Madre di Dio, ma sul resto si possono solo fare illazioni. Così il notevole sviluppo delle parti occidentali della chiesa lascia supporre che si dedicasse grande attenzione alla tematica veterotestamentaria con la sua tendenza storica. Lo storicismo era quella nuova forza motrice che veniva a sostituire il concetto di una ciclicità senza principio e senza fine. Ad ogni modo quest’ultimo doveva ancora svolgere la sua funzione stabilizzatrice.
di Nestor la chiesa cattedrale di Kiev era la Sofia. Ma in questo ricordo si coglie un elemento della realtà. La teoria secondo la quale prima del 1037 (cioè prima di Theopempt) a Kiev non c’era un metropolita, non è assolutamente suffragata da fatti. E non perché fino al 1037 la metropolia sarebbe stata a Perejaslavl’-Južnyj (meridionale). Abbiamo già presentato prove sufficienti a dimostrare che anche prima di Theopempt ci furono a Kiev (e non a Perejaslavl’) dei metropoliti, e non uno solo, ma diversi, uno dopo l’altro10. Non c’è motivo di dubitare del testo della Regola (Ustav) del principe Vladimir sulle decime: «… i vincoli del primo metropolita Michail su Kiev e su tutta la Rus’, colei che ha battezzato tutta la terra russa»11. Da questo testo emerge inconfutabilmente che la chiesa della Decima svolgeva effettivamente la funzione di chiesa metropolitana12. Da qui deriva la complessità della sua architettura. La chiesa a sei pilastri e tre navate che costituiva il nucleo dell’edificio, oltre al nartece possedeva anche un esonartece molto sviluppato, ed inoltre gallerie laterali e una cappella nell’angolo sud-occidentale. Condividendo l’opinione che la chiesa della Decima, come quella del Salvatore di \ernigov, si rifanno alle tradizioni dell’architettura metropolitana di Costantinopoli (con la «rinascita» di caratteristiche premacedoni)13, suppongo che le circostanze storiche di carattere locale abbiano avuto una funzione molto importante. E qui non si può evitare un approccio funzionale. Come prima grande chiesa di Kiev, la chiesa della Decima doveva avere un locale capiente per coloro che si preparavano al battesimo (i catecumeni), cioè il nartece. È improbabile che la parte occidentale della chiesa della Decima, molto sviluppata (nartece con esonartece), che conferiva alla chiesa una insolita estensione («basilicale»), sia un’aggiunta posteriore. Bisogna dunque accettare l’ipotesi di N.V. Cholostenko e I.S. Krasovskij, i quali ritengono che questa parte sia contemporanea al nucleo centrale della chiesa. A questo proposito bisogna ricordare che «nei monasteri atoniti, di Tessaglia e in molti altri monasteri orientali, non di rado le chiese principali avevano ed hanno tuttora fino a due pritvory o narteci»14. Nel nartece aveva inizio il vespro festivo o il mattutino, e così doveva essere anche nella chiesa della Decima. Inoltre qui doveva situarsi anche il battistero. Già questa funzione missionaria bastava a distinguere notevolmente la chiesa della Decima dalla chiesa bizantina classica dei secoli x-xi. Con tutta probabilità il principe Vladimir era preoccupato del fatto che il metropolita di Kiev non disponesse di una cattedrale adeguata. In altre parole, il principe avrebbe dovuto costruire appositamente una chiesa con funzione di cattedrale, oppure «condividere» col metropolita la sua chiesa principesca. Costruire un’altra cattedrale, evidentemente, non aveva molto senso, poiché a Kiev non era stata ancora ufficialmente costituita una metropolia. Era più facile adeguare l’architettura della chiesa della Decima al «livello metropolitano», ed anche questo richiedeva un impegno non da poco. La celebrazione liturgica nella chiesa della Decima non doveva essere diversa dalle forme di culto che i russi avevano visto nella Sofia di Costantinopoli. «In queste stesse forme, cioè riti e uffici, che distinguevano la Grande Chiesa dalle altre, non c’era nulla che potesse impedire categoricamente la loro introduzione fin dall’inizio nella chiesa della Decima di Vladimir, nella Sofia di Jaroslavl’ e in altre delle nostre cattedrali più importanti»15. A parte la necessità di aumentare la capienza della chiesa, era 67
A grandi linee (non in modo esauriente: non ho accennato infatti alla singolare chiesa a 25 cupole), la chiesa della Decima come primo esempio dell’architettura monumentale di Kiev costituiva indubbiamente un’immaginesimbolo del nuovo Mondo organizzato in cui l’uomo russo avrebbe dovuto vivere. L’apparente ritorno all’idea bizantina tradizionale era sostanzialmente un enorme passo avanti per la giovane architettura russa. Non è necessario decifrare questo simbolo, poiché per l’aspetto comunicativo era importante non la simbologia convenzionale, ma quelle associazioni che nascevano spontaneamente nello spettatore che si avvicinava alla chiesa. Con una lunghezza di quasi 42 metri, una larghezza di 34 metri, le cupole luccicanti, la nuova chiesa in pietra di Kiev poteva benissimo produrre un’impressione simile a quella che suscitava la Sofia di Edessa, con il suo «cielo dei cieli», la «corona», gli «angoli di universo» e le «volte di nuvole». Questi epiteti e paragoni sono storicamente documentati e non devono sembrare delle artificiose forzature. Dobbiamo solo apportare una «correzione di tempo». Nel x secolo a Kiev un’immagine del Cosmo avrebbe difficilmente suscitato tanto entusiasmo come al tempo di Giustiniano. La chiesa della Decima, in armonia con la tradizione bizantina che si era affermata, era piuttosto il «cielo sulla terra», ed anche la stessa cupola della Sofia di Costantinopoli era considerata così dai pellegrini russi (fino a Vasilij Barskij). Ma nel nostro caso non ci interessa tanto questo, quanto il rapporto tra il tipo architettonico della chiesa e la sua funzione. Abbiamo già osservato come la funzione della chiesa della Decima fosse molteplice: doveva essere al tempo stesso la chiesa del gran principe, della città e cattedrale. Ciò le conferisce sostanzialmente lo status di sobor. Se per una chiesa principesca era sufficiente un nucleo centrale a tre navate con cori, narteci e una sola cupola, per una cattedrale cittadina con tendenze metropolitane questo era del tutto insufficiente. Perciò furono costruiti nartece e gallerie, ed anche più cupole. Il carattere «personale» della forma architettonica divenne espressione di una collettività (sobornost’). La cattedralità, malgrado il suo carattere non ufficiale, si esprimeva a sufficienza attraverso le forme di chiesa-sobor, ed anche attraverso reminiscenze della basilica a cupola, che indubbiamente accrescevano il prestigio dell’azione liturgica svolta sull’ambone, sotto la cupola. Così si formarono le caratteristiche architettoniche che dovevano preparare il terreno a un genere particolare, che chiamerei statale-cattedrale o metropolitano. Sottolineo che questa è ancora una fase preparatoria, poiché questo genere trovò piena realizzazione soltanto nella Sofia di Kiev.
cioè prima del Salvatore di \ernigov, quest’ultimo si può considerare solo come una reminiscenza del genere statale-cattedrale (metropolitano). Se invece la cattedrale della Sofia fu iniziata solo nel 1037, allora nel Salvatore di \ernigov possiamo vedere un esempio precedente del genere che ci interessa. La prima ipotesi ci appare più logica. In un modo o nell’altro, il metropolita Theopempt di Kiev, ricordato nelle cronache nell’anno 1039, restava senza una cattedrale adeguata alla sua posizione, e probabilmente si doveva accontentare dell’ospitalità offerta dalla chiesa della Decima. A Jaroslav non restava che decidere di costruire a Kiev una grande chiesa in muratura destinata al metropolita, e per questo fece gettare le fondamenta della Sofia. Che la Sofia di Kiev sia stata costruita come cattedrale ii/1sede del metropolita si deduce non solo dalle cronache: 3; «fondò [Jaroslav] anche la chiesa della Santa Sofia, me- 28 tropolitana», ma anche dal fatto che nella costruzione si tenne conto delle «carenze» funzionali della chiesa della Decima. Essa non aveva una capienza sufficiente per le celebrazioni liturgiche del metropolita, cui partecipavano molti fedeli e molto clero, e che con il riconoscimento ufficiale della metropolia di Kiev diventavano sempre più solenni. Ricordiamo che nella chiesa della Decima si era cercato di superare questo difetto con la costruzione di due gallerie, una settentrionale e una meridionale, ma esse non permettevano di passare liberamente nello spazio centrale, né di scorgere cosa vi accadeva. La Sofia di Kiev nacque come una chiesa a cinque 39navate con due ordini di gallerie; inoltre le gallerie del 40 primo ordine (a due piani) si aprivano non soltanto sul naos, ma anche sulle gallerie esterne. In tal modo la Sofia di Kiev può definirsi una chiesa a sette navate, e contando le gallerie esterne (che erano praticabili), persino a nove navate! Oggi si pensa che tutto questo complesso, con due torri sul lato occidentale, sia nato contemporaneamente. Lungo le gallerie esterne, probabilmente, si svolgevano le processioni e si riuniva anche il veče, l’assemblea popolare di Kiev. Gli enormi cori della cattedrale della Sofia non potevano essere riservati solamente al principe e alla sua famiglia. Con tutta probabilità ad essi si affiancavano (secondo il modello costantinopolitano) i locali del metropolita. La parte restante (sempre secondo il modello costantinopolitano) poteva essere riservata alle donne. Quindi, anche senza contare le gallerie esterne, la Sofia di Kiev per la prima volta rispondeva pienamente alla funzione di chiesa metropolitana. La riduzione dell’estensione longitudinale della chiesa, la sostituzione della forma basilicale con la centralità (pianta quadrata), si spiega evidentemente col fatto che la funzione propriamente missionaria della chiesa passava qui in secondo piano. Trascorsi ormai 40-50 anni dal «battesimo della Rus’», il numero dei catecumeni a Kiev doveva essere diminuito. Al contrario, l’eccezionale sviluppo di uno spazio centrale cruciforme (attorno all’ambone sottostante la cupola) conferma l’importanza attribuita all’estrema solennità delle liturgie presiedute dal metropolita. Se nelle cattedrali vescovili il numero di chierici che celebravano la liturgia arrivava a venti (senza i cantori), le liturgie presiedute dal metropolita erano celebrate da un numero di sacerdoti due volte maggiore21. Questo creava una «pomposità» particolarmente solenne, che anche la massa del popolo doveva poter vedere. Nella Sofia di Kiev i triplici archi
*** Come è noto, la discussione sull’epoca di costruzione della cattedrale della Sofia si è protratta a lungo. Alcuni 24/9 studiosi facevano risalire la fondazione di questa chiesa al 1017, altri soltanto al 1037. Non si può dire che la discussione abbia portato a un parere concorde. Se il presente lavoro perseguisse scopi puramente storici dovremmo approfondire di più questo problema, e per far questo non disponiamo di dati abbastanza convincenti. Ma per lo studio dei generi architettonici non è tanto importante stabilire se la cattedrale della Sofia fu costruita prima o dopo la cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione a \ernigov. Se le sue fondamenta vennero gettate nel 1017, 68
progetti che si andavano formando a quell’epoca e delle prospettive che si stavano delineando, si può dire con certezza che la concezione stessa della funzione di cattedrale metropolitana, cioè di sobor di tutta la Rus’, divenne al tempo stesso più ampia e più profonda. Il principe Vladimir costruì la sua chiesa mentre stava conquistando delle salde posizioni storiche. Vladimir aveva ancora a che fare con le forze pagane della Rus’: una volta abbattuti gli idoli pagani, Vladimir non aveva ancora alcuna garanzia che la nuova religione si sarebbe affermata senza intralci. Restavano delle tribù da sottomettere; bisognava ancora ottenere il pieno riconoscimento da Bisanzio, e la stessa organizzazione ecclesiale della Rus’ non si era ancora completamente formata22. In condizioni simili, difficilmente sarebbe potuta nascere l’idea di un’autorità universale della Rus’, per non parlare di una Chiesa russa. Ciò che contava erano solo le grandi imprese. Se pure in questo periodo si formarono determinate concezioni storiche, esse erano ben lontane dall’autoesaltazione. Nel Lorenziano, all’anno 988 leggiamo: «Volodimer, lieto… disse: Dio… abbi cura di questa nuova gente… e aiuta me, o Signore, contro il nemico che mi assale»23. Come è diverso da ciò che dirà il metropolita Ilarion sotto Jaroslav: «Guardo anche alla città, che splende di grandezza, guardo alle chiese che prosperano, guardo al cristianesimo che germoglia…»24. Nella splendente grandezza di Kiev sotto Jaroslav la maestosa costruzione di Vladimir sarebbe apparsa, tuttavia, insufficiente per l’intero stato. L’imprecisa caratterizzazione della sua funzione generò delle contraddizioni nella forma. Al carattere «basilicale» con la sua tendenza allo storicismo si associavano costruzioni accessorie casuali, dettate da necessità pratiche. Certo, se la forma a basilica si fosse combinata con un centralismo sul tipo della Sofia di Costantinopoli non sarebbe stato così, ma Vladimir non se lo poteva permettere: era al di sopra delle sue forze. E poi una concezione così universale non poteva ancora nascere: avrebbe potuto nascere con Jaroslav. Ma perché egli non ordinò agli architetti greci di seguire, seppure in scala ridotta, le forme della loro cattedrale maggiore? Forse perché questo era un compito impossibile persino per gli artigiani greci? Penso che qui sia accaduto come a Bisanzio dopo la costruzione della Sofia di Giustiniano: copiare le sue forme era praticamente inutile. Ma se a Bisanzio ciò era compensato dall’esistenza della Sofia come eccelsa conquista architettonica, a Kiev l’imitazione dell’architettura della Sofia di Costantinopoli poteva costituire un precedente di una palese dipendenza ideale-religiosa dal patriarcato, cosa che Jaroslav non voleva. «Jaroslav riesce ad elevare l’autorità internazionale della Rus’ e, fondandosi sul generale sviluppo della coscienza popolare nella prima metà del xi secolo, a gettare solide basi per l’autonomia politica e religiosa della Rus’, per la letteratura russa, l’annalistica russa, l’architettura russa e l’arte figurativa russa»25. La riproduzione del modello architettonico della Sofia di Costantinopoli sarebbe stata in contraddizione con questo programma. Tuttavia Jaroslav non poteva nemmeno costruire una cattedrale metropolitana al di fuori da ogni tradizione bizantina. Lo esigeva il culto e, da parte loro, i maestri greci, la cui partecipazione è certa, diedero sicuramente molto del loro. Molto ma non tutto. Se la pianta a cinque navate della Sofia di Kiev non giunse a Kiev da Costantinopoli, allora anche tutto l’aspetto architettonico della Sofia di Kiev ha poco in comune con i prototipi costantinopoli-
che già conosciamo non sono costruiti secondo la linea della navata centrale (come nella cattedrale di \ernigov), ma sono traslati sulla linea delle navate laterali, rendendo così più ampio di due o tre volte lo spazio cruciforme sotto la cupola. Esso poteva contenere un gran numero di celebranti, persino «tutti i vescovi della terra russa», quando la solennità del rito lo esigeva (vedi sopra!). Il Grande Ingresso, con il suo passaggio attraverso il solea e la sosta con i doni di fronte al popolo, si trasformava anch’esso in una cerimonia che si svolgeva attraversando gran parte della chiesa. La massa dei fedeli ora poteva seguire la celebrazione dalle navate più esterne e anche dalle gallerie. Ciò aumentava certamente la distanza, ma nello stesso tempo conferiva all’azione una grande spettacolarità. Bisogna però notare che l’illuminazione uniforme della chiesa, ottenuta attraverso i tredici tamburi traforati delle cupole, eliminava qualsiasi suddivisione in posti «buoni» e «cattivi» (ad eccezione di un piccolo spazio in ombra sotto i cori). Evidentemente non si era ancora formata una netta differenziazione sociale, per lo meno durante la celebrazione del culto. Ciò è testimoniato anche dalla tendenza a conferire alla celebrazione un carattere estremamente di massa, espressa dalla costruzione di un ordine esterno di gallerie e dalla loro struttura ad arco che permetteva lo svolgersi dell’azione liturgica in uno spazio aperto. Tutto ciò distingueva in modo sostanziale la cattedrale «metropolitana» di Kiev dalla Sofia di Costantinopoli, con il suo Cosmo nettamente chiuso. Se nella sua parte centrale la chiesa della Decima (come la cattedrale di \ernigov) era effettivamente una sorta di reminiscenza delle concezioni architettoniche bizantine dei secoli vi-ix (basiliche a cupola), la Sofia di Kiev non era legata all’architettura costantinopolitana del tempo, che non conosceva un tipo di chiesa grande a cinque navate, a croce e cupola. Rispetto alla chiesa della Decima questo segnò un cambiamento notevole nella vita architettonica di Kiev. È vero che qui entrò in gioco soltanto la tensione a superare le carenze strettamente funzionali dell’edificio, oppure a questa vennero ad assommarsi anche altre motivazioni? Considerato tutto ciò che sappiamo della politica di Jaroslav, della situazione della Rus’ sotto Jaroslav, dei
27. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, sezione trasversale.
69
tani. La scelta del tipo a cinque navate a croce e cupola per la costruzione della Sofia di Kiev si spiega sicuramente col fatto che la chiesa a cinque navate a croce e cupola, pur conservando qualcosa delle «funzioni pratiche» della Sofia di Costantinopoli (la centratura dello spazio sotto la cupola), era liberata dalla brusca contrapposizione della massa dei fedeli (che si affollavano nelle buie navate laterali) all’azione principale troppo centrale sotto la cupola. In essa la persona non si annullava nel Cosmo (e nemmeno nell’assolutismo monarchico). Abbiamo già accennato alla posizione relativamente omogenea della massa del popolo nella Sofia di Kiev. Ma non basta. L’abbondanza di articolazioni verticali creava le condizioni per la relativa chiusura di un numero ristretto di persone in un piccolo alveo. Sicuramente questa caratteristica («il cielo sulla terra») proviene dalle chiese costantinopolitane a cinque navate, ma ricordiamo che generalmente queste erano chiese di piccole dimensioni, appartenenti a monasteri. In queste chiese il numero dei pilastri interni non arrivava mai a dodici, come si osserva nella cattedrale di Jaroslav. Nella Kiev di Jaroslav venivano esaltati quei tratti dell’architettura costantinopolitana che, se pure non accentuavano volutamente la funzione nazionale (non esistono dati al riguardo), in ogni caso non la contrastavano. Nella Sofia di Costantinopoli la grandiosa cupola era legata a una simbologia teologico-cosmologica molto astratta. Nella Sofia di Kiev le tredici cupole sui tamburi si potevano associare sia ai dodici apostoli attorno a Cristo, sia all’unità di «tutte le terre cristianizzate della Rus’ sotto l’egemonia di Kiev». Le ricerche più recenti permettono inoltre di affermare che i dodici compartimenti delle gallerie interne (del secondo ordine) della Sofia avevano una copertura a cupola, così che i venticinque «vertici» erroneamente attribuiti alla chiesa della Decima, erano probabilmente quelli della Sofia26. In ogni caso nella Sofia dalle molte cupole si manifestò in primo luogo un principio esclusivamente russo, e in secondo luogo un principio «sobornico» (universale), quale sia il senso che si vuole attribuire al termine sobornost’. Non sarà esagerato vedere in questa «universalità» una sorta di sopravvivenza di quel democratismo epico che contraddistingue l’epoca delle byline del ciclo di Vladimir. Quanto detto sulle premesse funzionali del genere architettonico della cattedrale della Sofia a Kiev permette di definire questo genere come statale-cattedrale o metropolitano. Naturalmente questa definizione sarà tanto più reale, quanto più ampia sarà la sfera di fenomeni che abbraccerà. Perciò bisogna studiarla anche in altri esempi. Particolarmente interessante e indicativa a questo riguardo è la cattedrale dell’Arcangelo Michele a Perejaslavl’ Russkij (Južnyj). Secondo il testo di Lavrentij della Cronaca degli anni passati, la chiesa dell’Arcangelo Michele a Perejaslavl’ Russkij fu consacrata nel 1089 dal metropolita Efrem, che fu insediato a Perejaslavl’ tra il 1077 e il 1078 o ancora prima, tra il 1072 e il 1076. La sua prima costruzione, secondo le cronache, fu appunto la cattedrale di San Michele. Non sappiamo se Efrem fu il primo metropolita di Perejaslavl’ Russkij, ma nel nostro caso non è nemmeno così essenziale. Per il nostro tema è importante il fatto che oltre alle metropolie di Kiev e di \ernigov, negli anni ’70’90 dell’xi secolo esisteva anche la metropolia «titolare» di Perejaslavl’. La sua istituzione è legata a Vsevolod Jaroslavi/, il quale voleva avere una metropolia («a pari diritti»)
dei suoi fratelli Izjaslav di Kiev e Svjatoslav di \ernigov. Da qui scaturisce il grande interesse per la cattedrale metropolitana di San Michele. Che tipo di chiesa era? In seguito agli scavi di M.G. Karger (1949-1954) si è stabilito che essa era una grande cattedrale a cinque navate (33 metri di lunghezza per 27 di larghezza), con tre arcate sotto la cupola (esclusa la parte orientale) che si aprivano sulle navate laterali a modello della Sofia di Kiev. Poco tempo dopo, a questo nucleo fondamentale a cinque navate si aggiunsero delle costruzioni sui lati settentrionale e meridionale, che conferirono alla cattedrale un aspetto ancora più imponente. Non a caso le cronache la chiamavano chiesa «grande». La ricchezza della decorazione musiva del pavimento non aveva nulla da invidiare alla Sofia di Kiev. Come la chiesa della Decima, la cattedrale di San Michele è un «monumento di straordinaria importanza». Le sue forme esterne non sono ancora del tutto certe, ma a giudicare dai pilastri eccezionalmente massicci (3x3 metri) e dall’assenza di lesene interne sui muri, la sua copertura poteva essere a torre o a gradoni e con una cupola centrale molto grande, il che ci rimanda a prototipi bizantini piuttosto che alla Sofia di Kiev. Gli studiosi citano ad esempio monumenti come la cattedrale della Sofia a Tessalonica (viii secolo), la chiesa di Kalenderhane Camii (ix secolo?) e di Santa Teodosia (oggi Gül-Camii – xi secolo) a Costantinopoli27, ricordando altresì che, prima del suo insediamento a Perejaslavl’ come metropolita, Efrem era vissuto a lungo a Bisanzio. Osserviamo che l’introduzione nella cattedrale di Perejaslavl’ di una terza coppia di pilastri (orientali) la avvicina alla cattedrale di \ernigov, ed anche alla Sofia di Polock, sulla quale dovremo ancora tornare. La distruzione della cattedrale dell’Arcangelo Michele ci impedisce di esaminare più dettagliatamente le sue caratteristiche tipologiche, ma da quanto detto pensiamo di poter dedurre che il metropolita Efrem fu estremamente logico e coerente scegliendo il tipo architettonico della sua chiesa metropolitana. Non è escluso che in ciò fosse coinvolto anche il principe Vsevolod Jaroslavi/, signore di Perejaslavl’, che certamente vedeva di buon occhio la nomina del metropolita Efrem. Per la «metropolia» era necessaria una chiesa grande, capiente, imponente, a cinque navate, con tutti gli ambienti necessari alla celebrazione solenne del metropolita: skeuophylàkion, mutatoria, ecc. Nella Sofia di Kiev tutto ciò trovava piena espressione. Ad Efrem e Vsevolod non restava che adottare e consolidare nei limiti del possibile questa «norma» funzionale politico-religiosa ed ideale-artistica, cosa che essi fecero. La comparsa nella Rus’ di Kiev di cattedrali tanto maestose come la chiesa della Decima, Santa Sofia di Kiev, San Michele Arcangelo di Perejaslavl’, non poteva non destare un’enorme impressione nella gente del tempo. Oratori e annalisti sfoderarono entusiastici appellativi per descriverle. Ma questo è solo un aspetto della vicenda: infatti al tipo di Chiesa che si era formato si legavano determinati programmi statali-amministrativi e persino politico-ideali. Con la liquidazione delle metropolie titolari di \ernigov e Perejaslavl’ non sarebbero dovute esistere altre cattedrali metropolitane, eccetto che a Kiev. Ma l’influenza esercitata dal loro modello architettonico veniva presa in considerazione e trovava una realizzazione pratica laddove le forze storiche locali proclamavano il proprio diritto (o soltanto il proprio desiderio, l’aspirazione) alla parità con Kiev. Questo concerne non solo i principi, i principati e le loro capitali, ma anche i monasteri. Fu lo stesso Jaroslav a dare 70
inizio a tutto ciò. Quasi contemporaneamente alla Sofia metropolitana egli costruì due grandi chiese nei monasteri di Sant’Irina e San Giorgio a Kiev, non lontano dalla Sofia. Nessuna di queste chiese si è conservata, ma gli scavi compiuti sui luoghi dove esse sorgevano originariamente hanno rivelato l’esistenza di complessi a cinque navate e tre absidi, con una torre presso l’angolo sud-occidentale, simili alla cattedrale della Sofia per la proporzionalità degli elementi. Come si può spiegare il loro genere, tenendo conto che queste non erano chiese metropolitane, ma facevano parte di monasteri? È necessario ricordare qui che le composizioni a cinque navate non erano estranee nemmeno ai monasteri bizantini. Tale è la grande chiesa di Kalenderhane Camii a Costantinopoli (fine del ix secolo), che abbiamo ricordato sopra (a proposito della cattedrale di Perejaslavl’) e la chiesa del monastero di Lips (x secolo), a cui N.I. Brunov attribuì una particolare importanza per «l’architettura universale»28. Chiese simili sorgono nei monasteri bizantini anche in epoca successiva. Esse sono legate a nobili committenti (Costantino Lips era un dignitario di corte), adibite a cappelle funerarie della famiglia imperiale (la chiesa di Lips), e infine svolgenti funzione di cattedrale centrale del monastero (katholikòn). Notando una certa contraddizione tra l’edificio a cinque navate e il suo funzionamento all’interno del monastero, N.I. Brunov rilevò come loro caratteristiche una ripetuta articolazione dello spazio e la struttura delle cappelle. Non sappiamo se le chiese dei monasteri kieviani di Sant’Irene e San Giorgio avessero delle cappelle, ma non vi è alcun dubbio che questi complessi a cinque navate recassero (assieme alla cattedrale della Sofia) il marchio del trionfo di Jaroslav, celebrato da Ilarion nel Discorso sulla legge e la grazia. Certamente Jaroslav poteva costruire semplicemente grandi chiese a tre navate nei monasteri, come farà, per esempio, molto più tardi, il principe Svjatoslav nel monastero delle Grotte di Kiev (vedi oltre), ma la preferenza di Jaroslav per la chiesa a cinque navate è segno che questa forma architettonica era legata a particolari funzioni. La chiesa del monastero di San Giorgio era stata costruita in onore del patrono celeste di Jaroslav. San Giorgio era venerato anche come protettore dei principi e dei guerrieri. Da qui doveva nascere la particolare predilezione per il monastero di San Giorgio e la sua chiesa, che possiamo considerare la chiesa di Jaroslav. Non per niente nella chiesa di San Giorgio fu insediato un vescovo. Dunque questa chiesa assurse al rango di cattedrale, al pari della Sofia. Come testimonia Makarij, nella chiesa di San Giorgio si svolgeva l’«insediamento» dei nuovi vescovi29. Qui Jaroslav poteva recarsi per assistere a celebrazioni speciali assieme al metropolita, la cui residenza si trovava presso la chiesa. Tutto ciò era sufficiente perché Jaroslav desiderasse costruire una chiesa dedicata al suo patrono «al livello» della cattedrale metropolitana. Quanto detto riguarda parzialmente anche la cattedrale del monastero di Sant’Irina, il nome della moglie di Jaroslav, Ingegärd, figlia di un re svedese. La duplice condizione «regale» di Irina esigeva uno sfondo architettonico adeguato, anche solo per dare a Ingegärd un edificio di rappresentanza dal gusto europeo. Penso che ciò abbia influito anche sulla scelta del tipo a cinque navate per la Sofia di Novgorod, di cui parleremo più avanti. Non è superfluo aggiungere che il monastero di Sant’Irina a Kiev apparteneva territorialmente alla «residenza del metropolita»; il metropolita indubbiamente dava lustro con la sua
presenza al monastero della moglie di Jaroslav, e quindi è perfettamente spiegabile la scelta della struttura a cinque navate per la chiesa del monastero. Non è ancora del tutto certa la denominazione della grande chiesa a cinque navate, le cui tracce sono state rinvenute a Kiev durante gli scavi in via Vladimirskaja. Gli studiosi del xix secolo ritenevano che proprio questa chiesa fosse dedicata a sant’Irene, ma P.A. Rappoport mette in dubbio tale attribuzione30. In un modo o nell’altro, l’architettura kieviana dell’xi secolo presentava alcune repliche del genere statale-cattedrale che sono indice del grandioso programma edilizio imperiale di Jaroslav il Saggio. *** È un fatto da tempo riconosciuto che la cattedrale del- 30, la Sofia di Novgorod è una sorta di replica della Sofia di 41Kiev. Il suo nucleo centrale a cinque navate è circondato, 43; è vero, non da due bensì da un solo ma ampio ordine di iii/1gallerie (papert’). Sul lato occidentale c’è una sola torre 2 adiacente alla chiesa, e nella cattedrale di Novgorod le cupole sono sei invece di tredici. È indicativo, tuttavia, che «per dimensioni le chiese sono perfettamente uguali tra loro. E la Sofia di Novgorod supera addirittura in altezza la chiesa omonima di Kiev»31. La Sofia di Novgorod non svolgeva funzioni di chiesa metropolitana, ed era improbabile che il suo costruttore, il principe Vladimir Jaroslavi/, che regnò dal 1034 al 1054, desiderasse elevare il vescovo di Novgorod anche solo al rango di metropolita titolare, non essendo in rivalità con suo padre, Jaroslav il Saggio. Al contrario, considerando
28. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, facciata orientale, absidi, particolare.
71
Tavole a colori II
1
2
3
1. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, affresco nell’abside del battistero, particolare.
4. Kiev, chiesa del Salvatore di Berestovo, veduta attuale. 5. \ernigov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione.
2. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, veduta dal lato orientale. 3. Novgorod, cattedrale della Santa Sofia, facciata meridionale.
4
6. I santi Nestore e Demetrio, ardesia, xi secolo, Mosca, Galleria Tret’jakov.
7. Novgorod, cattedrale di San Giorgio nel monastero di San Giorgio.
72
5
6
7
cinque navate possedeva già la sua semantica tipologica, come è testimoniato anche dalla pianta a cinque navate della Sofia di Polock. V.N. Lazarev riteneva che la costruzione nella Rus’ di tre grandi cattedrali dedicate alla Sofia (Kiev, Novgorod, Polock) fosse espressione di un «orientamento verso Costantinopoli»34. Ma ciò non rappresentava in alcun modo una concessione a Bisanzio. Era piuttosto una dimostrazione, se non altro, di uguaglianza. Le grandi cattedrali a cinque navate dell’«epoca di Jaroslav» trasmettevano con le loro forme l’idea della grandezza dello stato russo dal meridione al settentrione (Sofia di Novgorod) e fino all’occidente (Sofia di Polock). Questo faceva parte indubbiamente della loro funzione tipologica.
che la costruzione della Sofia di Novgorod fu iniziata nel 1045, quando con tutta probabilità si terminava la Sofia di Kiev, si può presumere che Jaroslav, il quale aveva sempre riservato un’attenzione particolare a Novgorod, insediando sul suo trono principesco i figli maggiori che vi si recavano spesso, decise di contribuire con suo figlio Vladimir alla costruzione di una cattedrale a cinque navate. Jaroslav poteva essere stato spinto a ciò anche dal ricordo della sua precedente signoria a Novgorod, da un sentimento di riconoscenza per i novgorodiani che lo avevano aiutato ad impadronirsi del trono di Kiev, ed anche, forse, dal prestigio che avrebbe acquistato presso il vicino re svedese. La moglie di Jaroslav, Ingegärd-Irina, desiderava essere più vicina alla sua patria; ottenne per sé la zona del Ladoga, ed evidentemente morì al nord, poiché è sepolta nella Sofia di Novgorod32. La presenza nella cattedrale di Novgorod di gallerie molto ampie fa pensare che questa ampiezza prevedesse la costruzione in esse di cappelle supplementari33. Questo è vero. Ma ciò non vuol dire che l’idea di costruire le gallerie (e quindi l’idea della struttura a cinque navate) sia nata in relazione a queste cappelle supplementari. La struttura a
*** È ormai assodato che anche la Sofia di Polock, costruita 31 tra il 1044 e il 1066, esprimesse la stessa tendenza osservata nelle omonime cattedrali di Kiev e Novgorod. Già il fatto che sia stata dedicata anch’essa alla Sofia-Sapienza divina ne è una prova. Sebbene la cattedrale di Polock sia giunta fino a noi fortemente modificata nella forma, la sua struttura a cinque navate si legge ancora chiaramente. Avendo infine stabilito che le absidi occidentali sono un’aggiunta più tardiva35, appare assolutamente evidente come la struttura a cinque navate della cattedrale ci riconduca ai prototipi novgorodiani e kieviani. Presso la chiesa sono state rinvenute anche le tracce di una torre di scale. Tuttavia la differenza sostanziale della cattedrale di Polock consiste nel maggior numero di navate trasversali, che erano cinque e non quattro. Ciò permise a K.N. Afanas’ev di accostare la Sofia di Polock alla cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione a \ernigov36, cosa che, peraltro, fornisce più materiale per il nostro tema che non altre caratteristiche della chiesa, come le sette cupole. Il carattere «basilicale» della pianta della Sofia di Polock, anche se debolmente espresso all’esterno, crea all’interno navate notevolmente estese in lunghezza, ma poiché il quadrato sottostante la cupola si trova esattamente al centro della chiesa, risultava fortemente accentrata non la parte occidentale, ma quella orientale antistante l’altare, che presentava una navata trasversale supplementare. Le absidi diventavano così molto più profonde, si ingrandivano il bema e il solea, e tutto questo svolgeva certamente una funzione ben precisa. Se la Sofia di Polock fu edificata veramente dagli artigiani che avevano costruito la Sofia di Novgorod, questa deviazione dai prototipi di Kiev e Novgorod appare molto strana. Ma dal donatore della cattedrale di Polock, probabilmente il principe Vseslav Brja/islavi/, celebrato nella letteratura epica (regnò dal 1044 al 1101!), non c’è da aspettarsi un’imitazione passiva. È nota la sua ostilità nei confronti di Novgorod (e quella dei novgorodiani verso di lui), e anche con Kiev non era in buoni rapporti, per cui si guadagnò una pessima descrizione dal «sapiente Bojan»37. Era di là da venire il trionfo di Vseslav nel 1068, quando egli, dopo essere stato rinchiuso in prigione, fu collocato a furor di popolo (unico tra i principi!) sul trono di Kiev. Il principato «dotato di appannaggio» (izgojnoe) di Polock38 si differenziava notevolmente da Kiev, e tanto più da Novgorod, e se il principe Vseslav credette indispensabile costruire nella sua capitale una grande cattedrale a cinque navate, questo non fu affatto un atto di deferenza per il suo potente vicino, ma piuttosto, al contrario, un gesto di
29. Pianta di Novgorod, xi-xii secolo.
81
aperta opposizione nei suoi confronti. In questo senso la frase del Canto della schiera di Igor’: «Aprì le porte di Novgorod, scosse la gloria di Jaroslav» rende bene il contenuto delle gesta del principe di Polock. B.A. Rybakov scorgeva in questa frase addirittura una gioia maligna dell’autore del Canto per la sconfitta del principe novgorodiano e per il vacillare della «gloria di Jaroslav»39. Si può dire che come Jaroslav si contrapponeva a Costantinopoli con la sua Sofia, così Vseslav con la sua Sofia si contrapponeva a Kiev e Novgorod. Questa contrapposizione, naturalmente, poteva risultare tanto più evidente, tanto più vicini tra loro erano i tipi architettonici (non le forme, ma i tipi). Mediante l’uguaglianza del tipo, o – con un’espressione che preferisco – del genere architettonico, si poteva sottolineare più chiaramente l’originalità artistica. Nella Sofia di Polock il genere architettonico statale-metropolitano era usato per elevare il prestigio del principato (e dello stesso principe) al livello di Kiev e Novgorod. A questo proposito ha ragione V. Korać, quando dice che nella Sofia di Polock (come pure in quella di Novgorod) si rifletteva «l’idea della Santa Sofia come chiesa cattedrale»40. Pur non essendo «metropolia», la Sofia di Polock col suo stesso genere architettonico appariva come equivalente alla «metropolia», e in ciò si esplicava probabilmente la sua funzione ideologica. Ma perché la Sofia di Polock presentava delle caratteristiche particolari? Nell’orientamento politico e religioso di Vseslav di Polock non si ravvisano tendenze filobizantine. Al contrario. Nelle cronache, nelle byline e nel Canto della schiera di Igor’, Vseslav è dipinto con caratteristiche profondamente radicate nella mitologia slava. Nasce da uno stregone, compie magiche trasforma-
31. Polock, pianta della cattedrale della Santa Sofia, tra il 1044 e il 1066.
zioni e così via. «Tutto ciò – scrive B.A. Rybakov – creava l’immagine di un eroe straordinario, soprannaturale, che poteva competere col sole stesso, il Grande Chors». Credo che non si sarebbe fatto nulla se Vseslav non avesse avuto come consigliere un dignitario ecclesiastico, ben informato sulle diatribe bizantine sul fatto se fosse lecito o meno al sacerdote indossare i paramenti nel santuario. Nella Sofia di Costantinopoli per il patriarca e l’imperatore erano stati costruiti skeuophylàkion e mutatoria, dove essi indossavano i paramenti. Ma a poco a poco si introdusse l’uso di vestirsi nel santuario, che doveva perciò essere allargato. La prima chiesa russa in cui questa caratteristica appare chiaramente era la cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione a \ernigov (terminata poco dopo il 1036), della quale parleremo più avanti. Nella Sofia di Polock era particolarmente necessario un santuario ampio, dato il notevole accorciamento della sua parte occidentale. Non si può trascurare anche il fatto che l’ampliamento della parte orientale poteva essere determinato dallo sviluppo dell’aspetto «drammatico» della celebrazione liturgica, sotto l’influsso del vicino Occidente, dove in quel periodo la liturgia andava assumendo il carattere di un’azione misterica molto sviluppata. Le grandi dimensioni delle prime cattedrali, che «si accollavano» (per necessità) la funzione metropolitana, il loro particolare carattere missionario, la «restaurazione» di forme paleo-bizantine, la loro combinazione con tratti di carattere locale, la grandiosità formale e strutturale dell’edificio in cui si unificavano passato (Bisanzio, e in parte anche tradizioni prebizantine), presente (la nuova Rus’) e persino futuro (l’Ortodossia orientale), e nello stesso tempo una evidente unità quantitativa, tutto ciò creava quello stile di insieme che nella sua variante ottimale ricevette l’appellativo di «storicismo monumentale»41. Esso nacque prima di tutto in seno al genere statale-metropolitano. Dopo la comparsa delle grandi cattedrali a cinque navate dell’xi secolo ora esaminate, che avevano le caratteristiche di cattedrali «metropolitane» (ma di cui l’unica vera sede metropolitana era la Sofia di Kiev), la loro necessità storica e di conseguenza anche funzionale venne a mancare per molto tempo. Ma ciò non significa che l’antica Rus’
30. Novgorod, cattedrale della Santa Sofia, veduta del lato orientale.
82
abbia abbandonato per sempre il loro sublime carattere architettonico. Vedremo più avanti come le caratteristiche del genere architettonico statale-metropolitano della cattedrale siano ricomparse in questa o quella forma ogni volta che un principe coltivava qualche ambizione di predominio. Questa è un’ulteriore conferma della specificità del loro genere e della loro attività sociale, realmente riconosciuta dai contemporanei. L’epoca di questi fatti è soprattutto la seconda metà del xii secolo, ma spesso anche nell’xi e nella prima metà del xii secolo il successo nella soluzione di determinate situazioni storiche dipendeva in gran parte dalla grandiosità espressiva che esse potevano trovare nell’architettura monumentale. In altre parole, l’energia ideale-spirituale accumulata e condensata in queste situazioni storiche era tale da generare immagini architettoniche di grande rilievo. Alcune di queste costruzioni, create da forti ed attivi fondatori che aspiravano al potere su tutta la Rus’, sono particolarmente vicine al genere statale-metropolitano, tanto che le possiamo considerare delle reminiscenze di esso. Con reminiscenze intendo, qui e in seguito, la parziale assimilazione non di dettagli, ma dei tratti determinanti di un genere (per esempio torri, gallerie, battisteri, cappelle, e in parte anche narteci). Tale fu prima di tutto la cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione a \ernigov, che abbiamo già più volte menzionato. Come la chiesa della Decima, essa sorse in condizioni molto difficili. Nel 1023, quando Jaroslav non si era ancora stabilito abbastanza saldamente a Kiev, da Tmutarakan’ mosse contro di lui con un grosso esercito il fratello Mstislav il Bello. Sconfitto Jaroslav nel 1024, egli si stabilì saldamente a \ernigov, lasciando Kiev al fratello, e alle sue spalle tutte le terre sulla riva sinistra del Dnepr. Per il «prode Mstislav» cantato da Bojan, questo bastava per desiderare di avere nella sua nuova capitale non un vescovo, ma un metropolita, sia pure titolato42, bisogna cioè supporre che la cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione a \ernigov sia stata pensata da subito non solo 32- come cattedrale (come rilevava già M.D. Priselkov), ma 33, come cattedrale metropolitana. Lo si vede anche solo dal 44- fatto che la cattedrale di \ernigov si differenziava sostan46, zialmente dalla chiesa di Mstislav a Tmutarakan’ (dell’anii/5 no 1022): una chiesa piccola (16,5m x 10,4m), a croce e cupola e con nartece43 (l’ipotesi di N.I. Brunov che questa chiesa fosse a cinque cupole non è suffragata da alcun dato). Bisogna tener presente pure che, dopo Mstislav, il principe Svjatoslav (suo nipote) si prefisse proprio questo obiettivo, e ottenne il titolo di metropolita al vescovo Neofit44. Ciò accadeva già negli anni ’60 dell’xi secolo, ma simili piani si preparano solitamente in anticipo. In un modo o nell’altro, la cattedrale fondata da Mstislav si confaceva perfettamente alla funzione di chiesa metropolitana. Bisogna presumere che la chiesa di Tmutarakan’ abbia avuto qui un suo ruolo, anche solo perché Mstislav doveva avere qualcosa da cui partire, con cui confrontare e da cui differenziare la sua nuova cattedrale. In confronto alla chiesa di Tmutarakan’ la cattedrale di \ernigov appare grandiosa. Non per questo le forme della chiesa di Tmutarakan’ furono abolite o archiviate. Al contrario, da qui prenderà il via un’intera serie di cattedrali vescovili del xii secolo (vedi oltre). Ma per ora ci interessano le reminiscenze del genere metropolitano. La metropolia di \ernigov (come quella di Perejaslavl’) era provvisoria, dettata dalle aspirazioni di supremazia politica del principe di \ernigov, in cui aveva interesse anche la
corte bizantina, desiderosa di ampliare i propri legami con la Rus’. La chiesa metropolitana sotto Svjatoslav era certamente la cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione, iniziata da Mstislav negli anni 1030-1031 e terminata da Jaroslav (dopo la morte di Mstislav nel 1036). Non è escluso, tuttavia, che già Jaroslav fosse incline a considerare la cattedrale di \ernigov come cattedrale metropolitana. La chiesa in legno della Sofia (se così era) avrebbe potuto difficilmente soddisfare i piani imperiali di Jaroslav. La nuova chiesa in muratura della Sofia non era ancora pronta. Così per Jaroslav portare a termine la cattedrale di \ernigov (probabilmente nel 1038) non fu solo un dovere fraterno, ma anche una necessità molto pratica, tanto più che nel progetto di Mstislav c’erano dei tratti che distinguevano quella chiesa dalla massa delle costruzioni ordinarie. Quasi tutti gli studiosi dell’architettura anticorussa hanno osservato e osservano l’insolita estensione del Salvatore di \ernigov lungo l’asse longitudinale. Malgrado ci troviamo di fronte a una chiesa a quattro pilastri, tuttavia in sostanza la si può considerare a sei, o addirittura a otto pilastri (come la chiesa della Decima). A.I. Kome/ vede in ciò una sorta di rinascita dell’architettura basilicale del primo periodo bizantino, ma bisogna dire che appunto questi tratti erano caratteristici delle chiese greche (ateniesi) dei secoli xi-xii, del cosiddetto «tipo sintetico»45, e nello stesso tempo questa particolarità risale a monumenti costantinopolitani quali la chiesa settentrionale del monastero di Lips (inizio x secolo). Inoltre l’allungamento della pianta avveniva mediante l’inserimento di un’altra coppia di pilastri orientali (davanti alle absidi), formando così una navata trasversale supplementare davanti all’altare. Difficilmente si può parlare qui dell’influsso di qualche corrente esteticoarchitettonica (ad esempio la tendenza alla simmetria); abbiamo piuttosto a che fare con le particolarità del servizio liturgico, in cui, come è noto, si attribuiva non poca importanza al rito della vestizione prima della celebrazione. Nella Sofia di Costantinopoli erano adibiti a questo scopo gli appositi locali presso il santuario, skeuophylàkion e mutatoria (vedi sopra). Probabilmente c’erano anche nella chiesa della Decima, situati alle estremità orientali delle gallerie. Ma nella cattedrale di \ernigov questi locali non c’erano. La vestizione doveva avvenire nel santuario, un uso che si era già gradualmente affermato a Costantinopoli. Questo problema non è stato ancora studiato, e noi l’abbiamo incontrato esaminando la Sofia di Polock. Noteremo qui che l’ampia parte occidentale della chiesa del Salvatore di \ernigov permetteva che vi si raccogliesse un gran numero di catecumeni, e in seguito lo svolgimento della litia. La buona visibilità dello spazio sottostante la cupola, con l’ambone al centro, permetteva di accrescere il prestigio delle celebrazioni liturgiche presiedute dal vescovo o anche dal metropolita. L’enorme santuario dava la possibilità di aumentare il numero dei celebranti durante il Piccolo e soprattutto il Grande Ingresso, ai quali, in occasioni particolarmente solenni, partecipavano i sacerdoti di tutte le chiese vicine. Infine, la struttura a cinque cupole, evidentemente pensata a questo scopo, conferiva alla chiesa una «sobornost’ da cattedrale». Non c’è motivo di dubitare che tutti questi espedienti fossero considerati dai primi costruttori del Salvatore di \ernigov come gli espedienti mediante i quali si poteva conferire una immagine «metropolitana» alla chiesa. I costruttori rinunciarono per qualche motivo alle gallerie, le quali permettevano, come nella chiesa della Decima, di rendere quasi doppia 83
è del tutto comprensibile il desiderio di non dissolversi in una totale novità, ma di restare se stessi. E in questo non c’è nulla di strano. Anzi, il fenomeno che abbiamo osservato corrisponde perfettamente a quanto accadeva in altri campi della cultura russa del tempo. Non accenneremo all’arte figurativa, perché questo ci porterebbe molto lontano. Per il taglio del nostro discorso è molto più interessante la letteratura dei secoli x-xi, in quanto le sue sorti sono strettamente legate alle sorti dell’architettura. Per introdurre il servizio liturgico nelle nuove chiese russe erano necessari determinati libri. Poiché la liturgia era celebrata in lingua russa (staroslava), erano necessarie delle traduzioni. Ed esse vennero immediatamente eseguite con l’impegno di tutti, cioè con la partecipazione di Greci che conoscevano lo slavo antico, e di Bulgari che avevano appreso questa lingua prima dei Russi. Tuttavia il fatto principale è che non furono tradotti i testi dei secoli x-xi, ma prima di tutto i classici della letteratura religiosa greca dei secoli iv-xi. D.S. Licha/ëv ha fornito una spiegazione del tutto funzionale di questo fenomeno, particolarmente importante per il tema in esame. Traducendo i classici dei secoli iv-vii, i letterati anticorussi (e bulgari) erano spinti non da problemi di stile (per loro questo si poneva in secondo, se non addirittura in terzo piano e oltre), ma dalla necessità di avere «prima di tutto opere canoniche ed ecclesialmente autorevoli, senza le quali non potrebbe esistere la vita della Chiesa»46. Ai testi religiosi si aggiunsero opere di carattere più generalmente divulgativo e testi di omiletica. Se il primo gruppo di traduzioni veniva eseguito in modo relativamente letterale, il secondo, invece, non era condizionato da limitazioni canoniche e perciò vi si possono trovare modifiche di varia entità, determinate dall’influsso di circostanze locali, e ultimamente anche di ordine funzionale. Un quadro pressappoco simile si osserva anche nella più antica architettura di Kiev-\ernigov. Molto qui era legato
la capienza della chiesa. Ma possiamo pensare che queste gallerie fossero state progettate. Le cappelle funerarie collocate presso le absidi settentrionale e meridionale della chiesa possono essere immaginate come conclusione delle gallerie. Nel corpo di queste doveva entrare anche il battistero presso l’angolo sud-occidentale (smantellato nel xviii secolo). La grandiosità e la magnificenza della cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione fanno pensare che tutto ciò fosse stato progettato nell’intento di riunire la funzione di chiesa principesca e quella metropolitana. A.I. Kome/ ha fatto molte acute osservazioni sullo stile ellenizzante metropolitano-bizantino di questo meraviglioso monumento. Tutte le sue osservazioni sono ancora attuali. La presente esposizione si propone di chiarire le circostanze nelle quali si è potuta formare l’originalità strutturale della cattedrale di \ernigov che abbiamo brevemente delineato. Io identifico queste circostanze nella rapida ascesa di \ernigov, legata all’insediamento in città del principe Mstislav Vladimirovi/ il Bello (980-1036), il quale, se non un pretendente al trono di Kiev, era almeno un componente (assieme a Jaroslav) di una sorta di «duumvirato» della «terra russa». Questa coscienza di «duumviro» difficilmente avrebbe potuto conciliarsi con la sottomissione ecclesiale alla «metropolia di Kiev»; essa esigeva un proprio centro religioso, quale sarebbe dovuta essere probabilmente la cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione. La sua dedicazione a una festa tanto imperiosa corrispondeva perfettamente a questo ruolo. Nella fase dell’architettura della Rus’ di Kiev che stiamo esaminando è caratteristica una certa «ambiguità» del programma ideale-artistico. Da una parte non si può non vedere e non capire una ben precisa tendenza all’assimilazione dell’eredità bizantina, che permette di superare i resti di un sincretismo ereditario-tribale e sociale-naturale e, dall’altra, è altrettanto evidente il desiderio di conservare in questo processo culturale le proprie tradizioni secolari,
32. \ernigov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione, veduta dal lato orientale.
33. \ernigov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione, colonna nell’interno.
84
a limitazioni canoniche: la struttura della navata, del nartece, del santuario, dell’ambone, ecc., ma molti elementi cambiarono forma per motivazioni di ordine locale. Abbiamo già osservato come alla tradizione bizantina, non dei secoli x-xi, ma più antica, possano essere ricondotte solo le parti centrali della chiesa della Decima e della cattedrale di \ernigov. Tutto il resto fu dettato funzionalmente da condizioni storiche russe, in parte statali-missionarie, in parte politiche e di prestigio, ed ecclesiastico-amministrative (metropolitane). Poiché tra tutti questi fattori non si era ancora creata un’unità interna, il genere architettonico statale-metropolitano che si era venuto a formare, risultava pienamente omogeneo solo nella Sofia di Kiev. La sua immagine architettonica si arricchì di reminiscenze non subito, ma al suo stadio finale. Intendiamo qui non solo gli annessi, ma gli elementi conclusivi, che perseguono la funzionalità tipologica ottimale. Ciò si è riflesso in una certa misura anche sullo stile. Anch’esso era abbastanza contraddittorio. Passando ad altri esempi di reminiscenze del genere statale-cattedrale (metropolitano), dobbiamo fare una riserva. Molto dipendeva da quale fosse la forma architettonica originaria. Se era la Sofia di Kiev, le sue reminiscenze erano abbastanza considerevoli. Tali erano, per esempio, la grande cattedrale del principe Izjaslav Jaroslavi/ nel monastero di San Demetrio e la chiesa della Madre di Dio nel monastero di Kiev. Altri monumenti, pur molto espressivi per la loro grandiosità, si possono considerare reminiscenze delle reminiscenze del genere da noi esaminato.
lo), anch’essa non conservatasi fino a noi. In base ai materiali pubblicati da Ju.S. Aseev49, doveva essere una grande chiesa a tre navate con nartece e, forse, con torri e gallerie; questo la colloca propriamente nella categoria delle reminiscenze del genere statale-metropolitano. Gli studi più recenti riferiscono proprio a questa chiesa i ben noti rilievi di grandi dimensioni su lastra di ardesia raffiguranti i santi guerrieri a cavallo, tra cui anche san Demetrio50. È molto interessante quanto riportano le cronache su questa impresa di Izjaslav: «Izjaslav eresse infatti il monastero di San Demetrio e collocò Varlaam come igumeno di San Demetrio, per accrescere l’importanza di questo monastero, possedendo egli molte ricchezze»51. Cioè, Izjaslav, che vantava enormi ricchezze, trasferì per suo volere l’igumeno Varlaam dal monastero delle Grotte di Kiev al suo monastero «di famiglia», per l’ambizione di innalzare quest’ultimo al di sopra del monastero di Kiev. In riferimento a quanto detto sarebbe molto importante sapere se la chiesa di San Demetrio era a una o a cinque cupole. Non esistono indicazioni dirette al riguardo, ma faremo qui alcune supposizioni. Appresso a Svjatoslav ed Izjaslav intervenne nella competizione architettonica anche Vsevolod, il terzo «triunviro». Negli anni 1070-1086 (?) egli eresse nel suo monastero «di famiglia» di Vydubicy un’enorme cattedrale con torri. Essa era una chiesa a tre navate già senza gallerie, sarebbe perciò più esatto considerarla come una sorta di parziale reminiscenza del genere statale-metropolitano. Ma nello stesso tempo la cattedrale di Vydubicy fu completata con 34, cinque cupole52, e ciò compensava indubbiamente la man- 48canza di gallerie dal punto di vista del prestigio esteriore. 50 La costruzione di Svjatoslav nel suo monastero familiare di San Simeone, evidentemente, non era abbastanza espressiva e non adempiva alle proprie funzioni ideologiche. Intanto Svjatoslav, divenuto gran principe di Kiev nel 1073, si trovò in una posizione abbastanza difficile. Il fatto è che dopo il 1072 il «triunvirato» incominciò rapidamente a sfasciarsi. Svjatoslav (con Vsevolod) scaccia Izjaslav da Kiev; i rapporti con l’Occidente e Bisanzio si complicano fino a un conflitto col metropolita di Kiev e persino col monastero delle Grotte di Kiev. Quest’ultimo, rappresentato dall’igumeno Feodosij, accusa apertamente Svjatoslav di usurpazione: «occupò illegalmente il trono che era di suo padre, dopo aver scacciato il fratello maggiore»53. Ancora più bruscamente inveisce contro Svjatoslav il monaco annalista Nikon. In tali circostanze Svjatoslav, pur avendo il proprio cantore di corte Bojan, rischiava tuttavia di perdere l’appoggio del monastero delle Grotte di Kiev, che interveniva sempre in difesa dell’unità della terra russa54. Egli si riconcilia subito col monastero, gli dona della terra e pone le fondamenta della nuova cattedrale della Dormizione. Alla cerimonia della posa della prima pietra erano presenti il principe Vsevolod col figlio Vladimir, giunti da Perejaslavl’. Questo non impedisce di vedere nella cattedrale della Dormizione un monumento che fungeva per Svjatoslav da chiesa «di famiglia», ma tuttavia la funzione della cattedrale era assai più ampia.
Cominciamo dalla cattedrale di San Demetrio. Essa fu 24/7, 47 costruita in quegli anni critici quando, dopo la morte di
Jaroslav il Saggio (1054), sull’unità della Rus’ di Kiev incombeva la minaccia della disgregazione. Inizialmente i figli di Jaroslav – Izjaslav, Svjatoslav e Vsevolod – dividevano il potere alla pari, formando una specie di «triunvirato». Ma evidentemente ognuno di loro accarezzava il sogno della supremazia. Ciò risulta chiaramente anche solo dal fatto che essi incominciarono uno dopo l’altro a munirsi delle «proprie» cattedrali, che costruivano in monasteri «di famiglia» (otnie). Già M.D. Priselkov riteneva che la costruzione di cattedrali in monasteri «di famiglia» fosse dettata non tanto da considerazioni di comodo (la permanenza del principe nel monastero stesso e la sua sepoltura sul posto), quanto da qualche accordo fra i «triunviri», il cui contenuto è difficilmente intuibile47. Credo che esso vada ricercato (o ipotizzato) nel desiderio di munirsi di un proprio baluardo spirituale come simbolo di indipendenza, quali furono le cattedrali della Sofia a Kiev, Novgorod e Polock. Già questo creava il terreno per una «competitività architettonica» non solo con la metropolia (cioè con la cattedrale della Sofia), ma anche di una chiesa con l’altra. E di questa competitività architettonica si rendevano perfettamente conto gli storici della vita politico-ecclesiale dell’antica Rus’. In merito alla costruzione delle chiese di Boris e Gleb da parte di Vladimir Monomach e del principe David Svjatoslavi/ di \ernigov, M.D. Priselkov scriveva: «Dunque la competizione tra \ernigov e Kiev non pareva voler cessare nemmeno in un secondo tempo»48. Purtroppo non sappiamo nulla della costruzione di Svjatoslav nel suo monastero «di famiglia» di San Simeone. La costruzione di Izjaslav era la cattedrale nel suo monastero «di famiglia» di San Demetrio (metà dell’xi seco-
Il monastero delle Grotte di Kiev, divenuto a quel tempo il principale centro della cultura russa, in opposizione al potere dei metropoliti greci, era una grande potenza nazionale. Qui ebbe inizio l’annalistica russa, da qui provenivano i vescovi di tutte le eparchie russe, ma soprattutto, qui si sviluppò la convinzione che «i russi sono capaci 85
a tre navate esigeva che essa fosse ulteriormente ampliata mediante cappelle e gallerie, ed anche con l’aggiunta del battistero, così che alla fine ne risultasse qualcosa non meno imponente della chiesa della Decima, per non parlare del Salvatore di \ernigov. Non è escluso che si fossero ispirati alla struttura a cinque cupole di queste chiese anche i costruttori della cattedrale delle Grotte, mentre la struttura a cinque cupole di quest’ultima può essere stata adottata dai costruttori della cattedrale di Vydubicy. Come vedremo in seguito, questa caratteristica passerà anche ad alcune altre cattedrali principesche, dando vita a una tradizione del tutto diversa da quanto finora si è ritenuto. In altre parole, la Grande chiesa della Dormizione del monastero delle Grotte non si collocava affatto alle origini della tradizione delle chiese cittadine cattedrali-vescovili del xii secolo; questa tradizione nasce invece da un’architettura di genere del tutto diverso. Con ciò la chiesa della lavra rimane nell’ambito delle reminiscenze del genere statale-metropolitano, cosa pienamente spiegabile anche a partire dalla sua funzione storica. Il principe Svjatoslav non si limitò a partecipare alla costruzione della Grande chiesa della Dormizione. Al suo nome è legata la grandiosa impresa della costruzione della chiesa-mausoleo di Boris e Gleb a Vyšgorod, dove Svjatoslav dimostrò un’acuta conoscenza delle circostanze storiche. Il culto di Boris e Gleb, i giovani fratelli di Svjatopolk Vladimirovi/ proditoriamente uccisi per sua istigazione, diventò ben presto un’arma offensiva nelle mani dei principi e delle personalità ecclesiastiche nella lotta per la salvaguardia dell’ordine dinastico nella successione al trono del gran principe. Ciò influenzò numerose opere di arte figurativa, di architettura e letteratura, tanto più importanti, quanto più profondi erano i programmi che in esse si esprimevano. Fu ancora il principe Jaroslav il Saggio a dare inizio all’esaltazione architettonica di questo culto, costruendo a Vyšgorod una chiesa in legno a cinque navate (al posto della vecchia chiesa di San Basilio) per seppellirvi le spoglie dei fratelli uccisi. Mezzo secolo dopo, quando la chiesa cadde in rovina, il principe Izjaslav Jaroslavi/ costruì (nel 1072) una nuova chiesa in legno, ma già a una cupola56. Questo cambiamento dell’aspetto architettonico è già di per sé significativo. La preferenza per una cupola invece di cinque non indicava affatto che la chiesa del 1072 era divenuta meno importante. La sua consacrazione e la traslazione in essa delle spoglie di Boris e Gleb furono celebrate con eccezionale solennità. Alla cerimonia, oltre a tutti i principi «triunviri», parteciparono anche il metropolita di Kiev, il metropolita «titolare» di \ernigov, tre vescovi e gli igumeni di vari monasteri di Kiev. Riteniamo che M.K. Karger fosse molto vicino al vero supponendo che, in un certo senso, la struttura a una cupola della chiesa del 1072 manifestasse un’idea patriottica, il desiderio di smorzare le somiglianze con la tradizione di Bisanzio57. Ma l’aspetto architettonico della chiesa di legno non era certamente adatto per conferire una vasta risonanza al culto di Boris e Gleb. È indicativo il fatto che l’iniziatore della costruzione della chiesa in pietra fu proprio il principe Svjatoslav, che aveva patrocinato la costruzione della Grande chiesa della Dormizione nel monastero delle Grotte di Kiev. La chiesa di Boris e Gleb fu progettata ancora più grande: essa superava di 7 metri (in lunghezza) quella del monastero. Dato inizio alla costruzione della chiesa nel 1073, il principe Svjatoslav morì tre anni dopo,
di cavarsela da soli nelle questioni religiose ed anche di superare i loro “maestri”». Il monastero, come è noto, seguiva una rigida regola antica, prima abbandonata e poi ritrovata a Costantinopoli. Non c’è da meravigliarsi se nella condizione di aspra contrapposizione all’orientamento bizantino della metropolia di Kiev, occupata dai Greci, il monastero delle Grotte avesse urgente bisogno anche della «contrapposizione architettonica» della Sofia di Kiev. Tale programma (che noi naturalmente possiamo solo ipotizzare) avrebbe potuto trovare una reale e feconda attuazione se la nuova cattedrale del monastero fosse stata ad un tempo simile e dissimile a una cattedrale metropolitana. In altre parole, essa avrebbe dovuto essere altrettanto grandiosa, ma un po’ differente sotto l’aspetto artistico. Non si può dire russificata, poiché non c’era ancora una tradizione russa in questo senso, ma in ogni caso non come la Sofia. Certo, sempre a motivo delle tradizioni, era impossibile anche rifiutare totalmente l’eredità bizantina, ma in proporzioni ammissibili era tuttavia auspicabile. La cattedrale della Dormizione del monastero delle 5152 Grotte di Kiev fu costruita principalmente da artigiani russi secondo la tipologia della chiesa a tre navate e sei pilastri con nartece. Ma è indicativo che anche con questa composizione essa fosse la chiesa più imponente nella Rus’ dei secoli xi-xii, ed evidentemente proprio per questo ebbe l’appellativo di Grande. Recenti studi hanno dimostrato che la cattedrale non era ad una cupola, come si riteneva in precedenza, ma a cinque cupole55. Ma era troppo poco. L’insufficiente imponenza del nucleo della chiesa
34. Kiev, cattedrale di San Michele nel monastero Vydubicy, veduta attuale.
86
lasciandola incompiuta. La costruzione fu terminata dal principe Vsevolod, ma ben presto andò in rovina, e solo nel 1115 fu restaurata dal figlio di Svjatoslav, il principe Oleg, ricordato come «Gorislavi/» (figlio di amara gloria) nel Canto della schiera di Igor’. La traslazione dei resti di Boris e Gleb e la consacrazione della chiesa furono presiedute da Vladimir Monomach. Quanto detto è una prova indubbia dell’eccezionale importanza della cattedrale di Boris e Gleb, che trovò espressione anche nella sua architettura. La cattedrale fu progettata senza le tradizionali torri, senza narteci, ma rispetto alla cattedrale della lavra abbiamo motivo di supporre che anch’essa avesse cinque cupole. Date le sue notevoli dimensioni è impensabile che avesse un’unica cupola. Così la chiesa mausoleo di Boris e Gleb era anch’essa una reminiscenza del genere statalemetropolitano. La sua risonanza architettonica fu enorme, come conferma il fatto che dopo di essa furono subito costruite altre chiese omonime. Prima di tutti si accinse a quest’opera, così sembra, Vladimir Monomach, il quale, pur avendo avuto una parte determinante negli avvenimenti di Vyšgorod del 1115, tuttavia non partecipò direttamente alla costruzione della chiesa mausoleo. Nello stesso tempo egli, come principe di Kiev, doveva dimostrare pubblicamente che la venerazione di Boris e Gleb era una sua indiscussa e primaria prerogativa, visto che Boris era principe di Rostov. A questo scopo Monomach costruì a sua volta nel 1117 una chiesa di Boris e Gleb sul fiume Al’ta, dove era stato ucciso il principe Boris. Nulla sappiamo delle forme di questa costruzione. L’annalista la definisce «bellissima». Infine, nel 1120, nell’epopea architettonica di Boris e Gleb interviene il principe di \ernigov, David (Gleb) Svjatoslavi/, cugino di Vladimir Monomach. Quest’ultimo, per decisione del consiglio dei principi di Ljube/, gli aveva lasciato \ernigov nel 1097, sebbene suo fratello Oleg aspi35 rasse da tempo a quel trono. Riguardo alla datazione della cattedrale di Boris e Gleb a \ernigov esistono pareri differenti, ma la maggioranza degli studiosi la colloca negli anni 1120-1123. Nuovi elementi a favore di tale datazione sono stati recentemente forniti da E.V. Vorob’eva e A.A. Tic58. David Svjatoslavi/ poteva avanzare pretese al trono del gran principato per anzianità, ma come suo fratello Oleg era stato aggirato da Vladimir Monomach, perciò gli era assai conveniente rivolgersi al culto di Boris e Gleb, tanto più che il principe assassinato Gleb era considerato il patrono non solo dello stesso David (Gleb), ma anche degli Svjatoslavi/ in generale. La scelta di ricorrere al patronato di Gleb e Boris, naturalmente, richiedeva forme espressive fuori dal comune, rappresentative, in grado di «competere» con la cattedrale di Vyšgorod. In essa si esprimeva architettonicamente quella «competitività tra \ernigov e Kiev» che ben ha rilevato M.D. Priselkov (v. sopra). La cattedrale di Boris e Gleb a \ernigov (che prima si chiamava di Gleb e Boris) è un chiesa abbastanza maestosa (25 metri di lunghezza), a tre navate, con nartece, ma con una sola cupola di grandi dimensioni. Fu costrui ta come cappella funeraria della famiglia Svjatoslavi/, come testimoniano i numerosi arcosoli. Ma la cosa più importante è che questa cattedrale fu pensata certamente come un edificio che dimostrasse in forma monumentale la parità di diritti di David Svjatoslavi/ tra tutti i nipoti di Jaroslav il Saggio59. Inizialmente ciò era espresso dalla
particolare qualità artistica della chiesa, le cui lesene sulla facciata erano arricchite da accentuate semicolonnine (che si incontravano già nella Sofia di Kiev) e da capitelli scolpiti in pietra bianca. La scultura in pietra bianca si ritrova anche sui portali della cattedrale. Inoltre attorno alla cattedrale furono costruite delle gallerie, sempre a somiglianza della Sofia di Kiev. È possibile che le gallerie fossero già nel progetto originario. In questo modo il principe David equiparava la sua costruzione non soltanto alla cattedrale vescovile cittadina del Salvatore della Trasfigurazione, ma anche alle principali cattedrali «di famiglia» dei grandi principi di Kiev. Prima di procedere oltre, ci soffermiamo su una pagina curiosa nella storia dell’architettura kieviana dell’xi secolo. Rimane ancora piuttosto oscuro in che modo, nel clima di rivalità tra i figli di Jaroslav il Saggio, nel monastero delle Grotte di Kiev sia divenuto igumeno Stefan, eletto dopo la morte di Feodosij, ma ben presto scacciato dai fratelli. Il motivo della sua cacciata fu, secondo M.D. Priselkov, il sostegno dato da Stefan al principe Vsevolod, in un momento in cui il monastero delle Grotte di Kiev gli era contrario, poiché Vsevolod e Svjatoslav avevano scacciato ingiustamente da Kiev il fratello Izjaslav. Stefan, allontanato da Kiev, costruisce in un monastero sulla Klova l’enorme chiesa della Madre di Dio delle Blacherne (1096-1108), un edificio a tre navate e otto pilastri con due (!) ordini di gallerie60. Stefan trovò un forte sostegno materiale tra i bojari. Evidentemente quello era il «partito di Vsevolod», e nella costruzione della chiesa si poteva vedere la stessa dimostrazione della potenza di Vsevolod, come nella sua cattedrale «di famiglia» di Vydubicy. In qualche modo le due costruzioni si assomigliano. La chiesa di Vsevolod non era una replica, ma soltanto una reminiscenza del genere da noi esaminato. Possono essere, tuttavia, considerate reminiscenze del genere statale-cattedrale anche le chiese monumentali prive di gallerie circolari. Se disponiamo in ordine storico (che inizialmente pare artificiale) i monumenti architettonici del periodo esami-
35. \ernigov, cattedrale di Boris e Gleb, 1120-1123, facciata meridionale, restauro del 1957.
87
36
37
38
40
41
44
45
48
49
42
39
43
46
47
50
51
36-38. Kiev, chiesa della Dormizione della Madre di Dio (della Decima), 989-996 (ricostruzione di N. Logvin): pianta; sezione longitudinale; facciata meridionale. 39-40. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, 1017/19-1031/32 (ricostruzione di N. Logvin): pianta del primo livello; assonometria, veduta dal lato sud-occidentale. 41-43. Novgorod, cattedrale della Santa Sofia, 1045-1050: pianta; facciata occidentale; sezione trasversale (ricostruzione di G. Stender). 44-46. \ernigov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione, 1031-1038 (?): pianta; sezione longitudinale (secondo A. Tic); cattedrale (ricostruzione di N. Cholostenko). 47. Kiev, cattedrale del monastero di San Demetrio, tra il 1055 e il 1062, facciata meridionale (ricostruzione di N. Logvin). 48-50. Kiev, cattedrale di San Michele nel monastero Vydubicy, 1070-1086: pianta; facciata settentrionale; facciata meridionale (ricostruzione di N. Logvin). 51. Kiev, cattedrale della Dormizione nel monastero delle Grotte, 1073-1078, pianta al livello dei cori (ricostruzione di N. Logvin).
88
Per comprendere l’essenza di questo spostamento tipologico dobbiamo seguire, seppur brevemente, la storia della nascita dei monumenti in questione e, ove possibile, comprenderne la funzione. Potremo trarne poi le debite conclusioni.
nato, come le cattedrali dei monasteri di Kiev: Vydubicy (1070-1088?), delle Grotte (1073-1078), San Michele dalle cupole d’oro (1108-1113?), Berestov (primo quarto del xii secolo), la chiesa mausoleo di Boris e Gleb a Vyšgorod presso Kiev (fine dell’xi-inizio del xii secolo), le cattedrali del monastero di Bel’/icy a Polock (inizio del xii secolo), la cattedrale del monastero Eleckij a \ernigov (a cavallo tra l’xi e il xii secolo), la cattedrale di Boris e Gleb a Rjazan’ («Staraja»; metà del xii secolo), le cattedrali di Novgorod: di San Nicola a Dvoriš/e (della corte), del monastero di Sant’Antonio (1117), del monastero di San Giorgio (1119), e altre simili, non possiamo non notare che, pur in tutta la loro diversità iconografica e persino stilistica, esse conservano in misura diversa dei tratti «residui» del genere statale-metropolitano. Può nascere allora la domanda: se siamo in grado di vedere la differenza stilistica nei monumenti elencati, a cosa serve studiare il loro genere? Ma il loro stile è cambiato proprio in funzione della maggiore o minore deviazione dalle «norme tipologiche», ecco perché queste ultime rivestono un particolare interesse. In cosa consistono, allora, i tratti «residui» del genere statale-cattedrale (metropolitano)? Prima di tutto si manifestano nelle proporzioni gigantesche61. Prendiamo a paragone solamente la lunghezza delle cattedrali. Per quella di Vyšgorod è 42 metri; 40,4 m per il Salvatore di Berestov; 35,25 m per la cattedrale delle Grotte; 30 m per quelle di Vydubicy ed Eleckij; 28,6 m per San Michele e così via. Naturalmente erano tutte costruzioni a sei pilastri, e talvolta anche a otto pilastri. La seconda caratteristica che accomuna questi monumenti al genere statale-metropolitano è l’articolazione del volume principale a tre navate mediante torri di scale (nelle cattedrali di Vydubicy, San Michele, Berestov ed anche nelle cattedrali dei monasteri di Sant’Antonio e San Giorgio a Novgorod) che entravano a far parte del nartece, oppure formavano un volume a sé. In questo stesso gruppo si nota anche la presenza di costruzioni sussidiarie adiacenti allo scheletro a tre navate dell’edificio: cappelle, battisteri, narteci. Un discorso a parte riguarda gli atri (pritvory). Nella letteratura scientifica essi sono generalmente considerati come una novità architettonica che determinava l’aspetto artistico degli edifici del nuovo tipo «alto». Senza negare loro questa funzione più avanti nel tempo, io considero atri più antichi come una sorta di rudimentali gallerie, cioè come «gallerie tronche», e qui emerge il loro legame (reminiscenza) con il genere statale-metropolitano. Per quanto riguarda la copertura delle chiese del genere da noi esaminato, le cattedrali di San Michele, Berestov e Nicola a Dvoriš/e erano certamente a cinque cupole. Le cattedrali di Eleckij e Sant’Antonio erano invece a tre cupole. Il numero delle cupole nelle altre chiese non è stato ancora stabilito. Queste sono le caratteristiche tipologiche comuni ai monumenti che abbiamo provvisoriamente raggruppato ed esaminato. Esse testimoniano chiaramente la ricerca di una nuova forma architettonica, più laconica, per le chiese di grandi proporzioni, e nello stesso tempo indicano un certo attaccamento alle grandiose immagini architettoniche «dell’epoca di Jaroslav il Saggio». Proprio questo tipo di monumenti può essere chiamato «reminiscenze delle reminiscenze» del genere statale-cattedrale.
*** La storia di tutte le chiese del gruppo da noi osservato è sostanzialmente unica. Salvo le cattedrali dei monasteri di Sant’Antonio e Bel’/icy, le altre erano tutte monumenti eretti dai figli e dai nipoti di Jaroslav il Saggio, i quali cercavano con ogni mezzo di consolidare la propria «eredità paterna». Per gli uni essa era l’ambita Kiev, per gli altri \ernigov, Novgorod o la lontana Suzdal’. Nell’architettura essi vedevano l’incarnazione del proprio potere. «A poco a poco le chiese-sobor delle città più importanti e soprattutto più antiche e più ricche divennero per loro e per i volost’ (territori rurali) da loro dipendenti ciò che la Sofia di Kiev era per tutta la terra russa»62. Bisogna dire, tra l’altro, che di questa funzione ideologica dell’architettura si sono ben resi conto alcuni storici della chiesa russa. A. Golubcov, per esempio, scriveva: «Nella costruzione delle chiese-sobor si vedeva a quel tempo uno dei mezzi per unificare le proprietà dei principi, per innalzare alcuni principati sopra altri e per consolidarli. Erano persino i vescovi ad inculcare questa idea ai principi, sollecitandoli a costruire le cattedrali ed illustrandone loro i vantaggi e le conseguenze positive»63. *** Nel 1093 Svjatopolk Izjaslavi/, cugino di David, divenne gran principe di Kiev. Sebbene Svjatopolk fosse stato anche «invitato» dai kieviani, che non vedevano di buon occhio Vladimir Monomach, egli tuttavia dovette conquistarsi la propria autorità in difficili circostanze. In quello stesso anno 1093 i Cumani marciarono verso Kiev e Svjatopolk fuggì. Poi iniziò la sua lotta con Vladimir Monomach. La dura politica fiscale di Svjatopolk provocò la rivolta dei kieviani nel 1113. E in queste circostanze Svjatopolk nel 1108 costruì una grande cattedrale nel suo monastero «di famiglia» di San Michele. Per diametro della cupola centrale e per altezza com- 24/6, plessiva la cattedrale del monastero di San Michele era 53leggermente inferiore alla Sofia di Kiev, ma restava tut- 54 tavia simile ad essa nelle proporzioni. Poiché la lotta dinastica che divampava a quel tempo tra i figli e i nipoti di Jaroslav era sostanzialmente animata da interessi simili, anche il programma architettonico dei rivali restava circa lo stesso: l’incarnazione dell’idea di grandezza nel genere più eccelso. Ma dato che non si poteva adottare il genere statale-metropolitano, i figli dei «triunviri» si attenevano a quel tipo architettonico in cui molte cose rimandavano indietro nel tempo. Anche la cattedrale del monastero di San Michele era di questo genere architettonico intermedio. È indicativo il fatto che i costruttori della cattedrale di San Michele abbiano conservato la copertura a cinque cupole, ispirandosi alla cattedrale del monastero delle Grotte. Questo è tanto più certo, in quanto nel 1098 Svjatopolk stabilì stretti contatti col monastero, mal visto da Vladimir Monomach. Nella competizione con il saggio cugino, Svjatopolk diede prova di non minore, se non addirittura di maggiore perspicacia nelle alleanze ecclesiali. 89
verso la grandiosità del passato. La chiesa del Salvatore era lunga 30,4 metri, cioè 5 metri di più della Sofia di Kiev (!), e solo 5 metri meno della Grande chiesa della Dormizione. Il diametro della sua cupola era pari al diametro della cupola della Sofia. Gli atri della chiesa, sebbene volumetricamente ridotti, sono stati interpretati come rudimenti di vecchie gallerie circolari. Essi naturalmente accrescevano la forza espressiva della composizione, conferendole un profilo a gradoni a somiglianza della Sofia di Kiev. Particolarmente interessante è il nartece occidentale, coperto da una volta a tre costoloni, che è il più antico esempio conosciuto di una simile soluzione costruttiva. Non è escluso che una chiesa così grandiosa potesse avere cinque cupole64. La data di costruzione della cattedrale di Monomach è anch’essa sconosciuta. Vladimir Monomach regnò sul trono di Kiev dal 1113 fino alla sua morte, avvenuta nel 1125, ma è difficile che la chiesa di Berestov sia stata costruita prima del 1114-1116. In quegli anni Vladimir Monomach affidò l’incarico di stendere una nuova redazione della Cronaca non al monastero delle Grotte, ma al proprio monastero «di famiglia» di Vydubicy, per mano dell’igumeno Sil’vestr, che terminò la sua opera nel 1116. Per un uomo così intelligente e un politico tanto acuto come Vladimir Monomach era certo più importante un fe-
*** Come abbiamo già detto, Vladimir Monomach, figlio del «triunviro» Vsevolod, fu per lunghi anni il rivale di Svjatopolk nella competizione per il trono del gran principato di Kiev. Molto è stato scritto sul ruolo saliente di Vladimir Monomach nella salvaguardia della Rus’ di Kiev dallo sfaldamento della propria unità. Appunto da Vladimir Monomach, vincitore dei Cumani, eroe delle byline ed autore dell’importante Poučenie (Insegnamento), che conosceva fin dall’infanzia la grandezza della cattedrale metropolitana a cinque navate di Perejaslavl’, e che più tardi, in età matura, aveva «celebrato» qui assieme al metropolita Efrem, ci si poteva aspettare che riprendesse questo genere costruendo la cattedrale di Suzdal’ e la chiesa del Salvatore nel monastero «di famiglia» di Berestov. Ma persino Monomach, che teneva saldamente «in pugno l’intera Rus’» non fu in grado di farlo. L’architettura della chiesa del Salvatore è stata ricostrui 5556; ta come una struttura a tre navate, sei pilastri e nartece ii/4 comprendente una torre con una scala che dava sui cori e tre atri coperti. Di fatto anche questo era sufficiente per cogliere nella costruzione di Monomach una tendenza
52
55
53
54
56
57
52. Kiev, cattedrale della Dormizione nel monastero delle Grotte, facciata settentrionale (ricostruzione di N. Lovgin). 53-54. Kiev, cattedrale di San Michele dalle cupole d’oro, 1108-1113/14: facciata meridionale prima dell’aggiunta della cappella; facciata occidentale con la cappella annessa (ricostruzione di N. Lovgin). 55-56. Kiev, chiesa del Salvatore di Berestov, tra il 1113 e il 1125: facciata meridionale; facciata occidentale (ricostruzione di N. Lovgin). 57. \ernigov, cattedrale della Dormizione nel monastero Eleckij, tra l’xi e il xii secolo (ricostruzione di N. Cholostenko).
90
dele annalista che non il luogo di redazione della cronaca. Ma ciò nonostante, è difficile che a quel tempo la chiesa di Berestov fosse già pronta. Una volta terminata essa divenne evidentemente per Monomach quel baluardo ideale-politico che fu per i suoi predecessori il monastero delle Grotte di Kiev. Il ravvicinamento di Vladimir Monomach alla metropolia, e viceversa, il suo allontanamento dall’influenza del monastero delle Grotte di Kiev, che in quel periodo passò chiaramente in secondo piano, contribuirono indubbiamente a far sì che l’aspetto della chiesa del Salvatore “ereditasse” i tratti principali della cattedrale delle Grotte. Probabilmente Vladimir Monomach voleva vedere nella sua costruzione l’«erede» storico della decantata culla della chiesa russa; si spiegano così anche le reminiscenze del genere statale-cattedrale nella sua architettura. Dal punto di vista tipologico la chiesa del Salvatore a Berestov appare come la «cugina» della cattedrale Eleckij, ma anche su questo paragone bisogna fare delle riserve.
\ernigov, sia con le caratteristiche tecnico-stilistiche della cattedrale. Resta ancora non completamente chiarito il problema del costruttore della chiesa. Non la si può attribuire al principe David Svjatoslavi/, poiché a quel tempo egli non avrebbe avuto motivo di costruire una seconda cattedrale di Boris e Gleb. Ma il principe di \ernigov doveva contribuire, come i suoi cugini, al rafforzamento e all’abbellimento del monastero cittadino, che poteva svolgere per lui una funzione storica altrettanto grande e importante di quella del monastero delle Grotte di Kiev. Teniamo presente che il periodo tra il 1108 e il 1120 fu, probabilmente, il più teso per le rivendicazioni dinastiche dei nipoti di Jaroslav il Saggio: Oleg Svjatoslavi/, Svjatopolk Izjaslavi/ e Vladimir Vsevolodovi/ Monomach, figli dei famosi «triunviri». Ciascuno di loro tendeva a dimostrare la propria «priorità» con la costruzione di una grande cattedrale con reminiscenze del genere statale-metropolitano. Pensiamo che E.V. Vorob’eva e A.A. Tic siano vicini al vero vedendo nel vescovo Feoktist di \ernigov il donatore della cattedrale Eleckij67. Feoktist fu trasferito a \ernigov nel 1112 dal monastero delle Grotte di Kiev, di cui era stato igumeno dal 1103 al 1112. Egli fu uno straor dinario artefice dell’opera di consolidamento della linea nazionale del monastero. Grazie alla sua perseveranza si riuscì ad ottenere il consenso di Svjatopolk e del metropolita per la santificazione dell’igumeno Feodosij, e per questo, secondo M.D. Priselkov, Feoktist è l’unico igumeno del monastero delle Grotte insignito del titolo di archimandrita68. Essendo originario del monastero delle Grotte, Feoktist avrebbe dovuto preferire anche la tradizione architettonica di quel monastero. Ma la cattedrale Eleckij, sebbene tipologicamente rappresenti (assieme a quella delle Grotte) una reminiscenza del genere statale-metropolitano, dal punto di vista compositivo è tuttavia molto diversa. Credo che qui l’esigenza o la volontà del principe abbiano avuto comunque la loro parte. Come sappiamo, nel periodo tra la fine dell’xi e l’inizio del xii secolo si moltiplicarono le costruzioni di monasteri «di famiglia». Gli Svjatoslavi/ di \ernigov non avevano un monastero «di
*** La cattedrale della Dormizione del monastero Eleckij 57, 60 a \ernigov è un monumento estremamente importante
e interessante. Riuscendo a stabilire se esso sia stato costruito prima o dopo la chiesa del Salvatore a Berestov potremmo gettar luce anche sulle origini delle chiese con narteci. La chiesa, che oggi, dopo vari rifacimenti, si presenta come un parallelepipedo abbastanza laconico con una sola cupola barocca, dalle ricerche di N.V. Cholostenko esce tanto imponente da poter essere pienamente paragonata alla chiesa di Berestov di Vladimir Monomach. Era una chiesa molto grande (30 m di lunghezza senza nartece), a tre navate, con nartece e tre atri coperti, coronata, come suppone N.V. Cholostenko, da tre cupole. La chiesa non aveva più una torre di scale, ma nel nartece era collocato il battistero. La muratura totalmente in mattoni, le semicupolette della facciata, le incisioni in pietra bianca e la cinturina architettonica alla base degli archi ciechi (zakomary) avvicinano la cattedrale della Dormizione a quella di Boris e Gleb65. Per quanto riguarda gli atri coperti, come abbiamo visto, possono essere considerati sia come rudimenti di gallerie circolari, sia come una formazione del tutto nuova. N.V. Cholostenko considera la cattedrale della Dormizione del monastero Eleckij antecedente a quella di Boris e Gleb, ritenendola opera del principe Oleg Svjatoslavi/, il quale abbandonò \ernigov nel 1097. E.V. Vorob’eva e A.A. Tic spostano la data di costruzione della cattedrale agli anni 1110-112066, cioè al tempo in cui regnò David Svjatoslavi/. Altri studiosi propongono datazioni ancora più tardive, fino alla seconda metà del xii secolo. Per ora non ci è possibile accettare con sicurezza questa o quella data. L’opinione di N.V. Cholostenko è discutibile anche solo per il fatto che in quel periodo il principe Oleg «Figlio di amara gloria» non poteva costruire una cattedrale, tanto più così imponente. Egli era sempre in viaggio tra \ernigov, Tmutarakan’, Bisanzio, e ancora \ernigov, Smolensk, e la lontana Rjazan’ per regolare i conti con i cugini. Le datazioni più tardive sono state respinte con argomentazioni abbastanza convincenti da E.V. Vorob’eva e A.A. Tic. La datazione da loro suggerita concorda sia con la situazione storica venutasi a formare in quel tempo a
58. \ernigov, chiesa della Parasceve Pjatnica, veduta dal lato occidentale.
91
Nicola a Dvoriš/e di Jaroslav non era una chiesa monastica, ma principesca. Forse per questo Mstislav non volle gallerie circolari, ma conservò la solenne copertura a cinque cupole. Non avendo una torre di scale, la cattedrale era priva della sesta cupola, e anche in questo si differenziava dalla Sofia. Indubbiamente non si ottenne una forma architettonica equivalente alla cattedrale della Sofia, ma ciò nonostante la costruzione di Mstislav era abbastanza imponente da ricordare ai novgorodiani l’importanza del principe. Alla «carenza» nell’immagine della cattedrale di San Nicola a Dvoriš/e supplì la cattedrale a tre navate del monastero di Sant’Antonio (1117-1119), che all’estremità settentrionale del nartece aveva una torre di scale dotata di cupola indipendente (come nella Sofia), e ancora altre due cupole. Fondata l’anno della partenza di Mstislav da Novgorod, la cattedrale del monastero di Sant’Antonio, la cui fondazione 63è attribuita ad Antonij Romano (Rimljanin), predeterminò 64 la forma dell’enorme cattedrale di San Giorgio nel monastero omonimo (1119-1130), il cui donatore fu Vsevolod, ii/7; figlio di Mstislav. Si ritiene che l’architetto di queste due 59, cattedrali fosse il maestro Petr, che lasciò il proprio nome 61e «autoritratto» su un muro della cattedrale di Sant’Anto- 62
famiglia» tradizionale e il monastero Eleckij poteva essere pienamente considerato tale. Il vescovo Feoktist era il confessore di David Svjatoslavi/, e perciò ad entrambi non era affatto indifferente come sarebbe figurata la nuova cattedrale nella serie delle costruzioni di Svjatopolk e Vladimir Monomach. Più di tutto doveva interessare loro il «manifesto architettonico» di Vladimir Monomach. A partire da quanto abbiamo detto e premettendo l’ipoteticità della soluzione proposta, ritengo che, quando furono gettate le fondamenta della cattedrale Eleckij, la chiesa del Salvatore di Monomach a Berestov esistesse già. Il desiderio del principe e del vescovo di \ernigov di non «esser da meno» di Vladimir Monomach contribuì anch’esso a determinare la somiglianza compositiva delle chiese di Berestov ed Eleckij. Il tempo, tuttavia, è un grande semplificatore. La rinuncia alla torre di scale nella cattedrale della Dormizione è certamente sintomo di una semplificazione del grande genere architettonico metropolitano, e già solo per questo la chiesa di \ernigov è da considerarsi successiva a quella di Berestov. Alla cattedrale di Eleckij sono tipologicamente vicini altri due monumenti del xii secolo: la cattedrale di Boris e Gleb a Rjazan’ (Staraja) e la grande cattedrale del monastero di Bel’/icy a Polock. La cattedrale di Staraja Rjazan’ è considerata da tutti gli studiosi quasi una copia di quella di Eleckij: non c’è ragione perciò di soffermarci sulle sue caratteristiche tipologiche. Ricordiamo soltanto che essa era una chiesa principesca, costruita al tempo delle lotte di Rjazan’ con il principato di Vladimir, circa a metà del xii secolo. La cattedrale di Bel’/icy è stata datata agli anni ’20-’30 del xii secolo e, cosa altrettanto importante per noi, è opera del principe Rostislav di Polock, che trasformò Bel’/icy in una specie di castello principesco69. In altre parole, anche qui la funzione della grande cattedrale a sei pilastri con narteci era in una certa misura «accentrante»; con ciò si spiegano anche le reminiscenze del genere statale-metropolitano nella sua architettura.
nio71. Sebbene entrambi gli edifici del maestro Petr fossero sorti ormai in assenza di Mstislav, tuttavia lo spirito della sua attività in difesa dell’unità della Rus’ traspariva chiaramente da entrambe le costruzioni. Questo fu ad un tempo il tramonto del grande genere statale-metropolitano e il preannuncio di un nuovo tipo di architettura monumentale.
Quasi tutte le cattedrali del tipo da noi esaminato erano costruzioni principesche o principesco-monastiche. Questa circostanza balza agli occhi e induce a ricercarvi un determinato condizionamento funzionale dell’architettura. Io lo ravviso nella creazione di «micrometropolie» illusorie, quando il principe pretendente al trono di Kiev (o che in generale aspirava al ruolo guida nella vita politica della Rus’), nell’impossibilità di avere una propria metropolia «titolare» (come a \ernigov e a Perejaslavl’-Južnyj), cercava di conferire alla propria chiesa principesca un’importanza predominante a livello ecclesiastico. La cattedrale «di famiglia» principesco-monastica diventava il centro spirituale della politica principesca, vista da ogni principe di quel periodo come «panrussa». Costruendo la Grande chiesa della Dormizione del monastero delle Grotte si pensava di contrapporla alla Sofia di Kiev. Costruendo le cattedrali di San Demetrio e del monastero Vydubicy si pensava, se non di superare il monastero delle Grotte, almeno di eguagliarlo, e così via. Questa catena di confronti e contrapposizioni determinava molti tratti caratteristici: grandi dimensioni, forme architettoniche retrospettive e così via. Molto probabilmente questo doveva toccare anche le funzioni delle cattedrali in senso stretto, cioè i servizi liturgici che in esse si svolgevano. Le liturgie presiedute dal metropolita non si limitavano solamente alla Sofia di Kiev. In giorni particolari dovevano essere celebrate anche nelle cattedrali «di famiglia» principesco-monastiche. Poiché i grandi principi di questo periodo erano ancora considerati (o si consideravano) come governanti di tutta la Rus’, le celebrazioni nelle cattedrali «di famiglia» potevano essere sostanzialmente equiparate alle funzioni della Grande chiesa di Costantinopoli. Se celebrava il metropolita dovevano presenziare e concelebrare gli igumeni di tutte le cattedrali dei monasteri. Ogni cattedrale principesco-monastica aveva un igumeno, e tra questi si contavano anche insigni personalità, come per esempio Sil’vestr, a cui Vladimir Monomach aveva affidato la redazione della cronaca del monastero delle Grotte di Kiev. Prima di Sil’vestr, l’annalista del monastero delle Grotte era Nikon, il nome monastico assunto, secondo M.D. Priselkov, dal primo metropolita russo Ilarion quando vestì lo schima72, e, dopo Nikon, l’igumeno Ivan. Entrambi si intromisero attivamente nella vita politica di Kiev e subirono punizioni dai principi. Al pari di loro dovette distinguersi anche l’igumeno Stefan. In mancanza di contatti con il metropolita greco, la cattedrale «di famiglia» col suo igumeno e il folto clero poteva creare l’illusione di una propria «micrometropolia» principesca, e per questo essa doveva avere delle adeguate forme architettoniche dal punto di vista funzionale e rappresentativo. Doveva essere grande, con un capiente nartece, un ampio santuario, un vasto spazio
Dopo la morte di Jaroslav il Saggio (1054) l’unità della Rus’ è messa a dura prova. La rivalità dei suoi figli e nipoti getta le basi di una situazione in cui «si seminavano e crescevano le discordie, e periva la ricchezza del nipote di Daždbog…» (Canto della schiera di Igor’). Dopo la morte di Vladimir Monomach (1125), l’unità della terra russa fu conservata ancora per sette anni da suo figlio Mstislav il Grande. I figli di Jaroslav, i «triunviri» Izjaslav, Svjatoslav e Vsevolod, sempre in competizione, cercano ancora di costruire la propria politica sfruttando la grande eredità architettonica dell’«epoca di Jaroslav». E sebbene nessuno di loro (eccetto Izjaslav) sia più in grado di costruire chiese a cinque navate, anche solo nello stile della Sofia di Polock, tuttavia, in un modo o nell’altro, si conservano le caratteristiche tipologiche di queste grandi forme dell’architettura statale. Esse rimangono in alcuni monumenti sotto forma di annessi che ricordano delle gallerie, in altri sotto forma di monumentali torri di scale, in altri ancora attraverso una molteplicità di cupole. La tendenza generale è a ridurre gli annessi e le cupole, per portare la forma della cattedrale a un blocco rettangolare, coronato da un’unica cupola (\ernigov). Una serie di cattedrali conserva la pianta allungata di tipo basilicale.
*** Gli avvenimenti della Russia meridionale non potevano non riflettersi anche su Novgorod. Benché i principi di Novgorod non partecipassero alla «rotazione» dei principi del Sud nella lotta per il trono di Kiev, tuttavia anch’essi erano animati dal desiderio di rafforzare la loro precaria posizione con i mezzi offerti dal genere architettonico statale-metropolitano. Ciò era dovuto al complicarsi della situazione a Novgorod, caratterizzata da un notevole rafforzamento del ceto dei commercianti-artigiani e dei bojari, e dalla trasformazione di Novgorod in una repubblica governata dal veče. Il principe dovette accontentarsi del ruolo di capo dell’esercito, e dovette persino abbandonare il detinec (Cremlino) con la sua Sofia, «in cambio» della quale il principe Mstislav costruì una nuova cattedrale principesca, dapprima a Gorodiš/e (nel 1003) e poi alla corte di Jaroslav (nel 1113). Sarebbe stato strano se Mstislav, figlio di Vladimir Monomach, dopo aver regnato a Novgorod per 12 anni e, come scrive l’annalista, dopo aver «allevato» i novgorodiani, si fosse ritirato tranquillamente dalla scena politica di Novgorod. Come incaricato del gran principe di Kiev, egli continuò a rappresentare la suprema forma di potere locale70, e naturalmente doveva dimostrarlo costruendo una nuova cattedrale equivalente alla Sofia. La cattedrale di San
59. Novgorod, cattedrale di San Giorgio nel monastero di San Giorgio, veduta dal lato nord-orientale, iniziata nel 1119. 60. \ernigov, cattedrale della Dormizione nel monastero Eleckij, veduta attuale.
92
62. Novgorod, pianta della cattedrale di San Giorgio nel monastero di San Giorgio.
61. Novgorod, cattedrale di San Giorgio nel monastero di San Giorgio, interno.
93
secolo. Le caratteristiche ora osservate dovranno svilupparsi ancora in futuro.
sottostante la cupola (ambone), cori, e scale per le quali era necessario un particolare volume a forma di torre. Non tutti i principi potevano permettersi la costruzione di grandiose cattedrali. L’aspetto architettonico variava. Si riducevano il numero delle cupole, le gallerie o le torri. Le reminiscenze del grandioso genere statale-metropolitano dell’«epoca di Jaroslav» diminuivano sempre più. La perdita di una serie di tratti tipologici era compensata dalla tendenza monumentale delle forme architettoniche, per la quale si distinguono specialmente le cattedrali di Novgorod. Un altro mezzo decorativo era l’aggiunta di un gioco di opera in laterizio che rendeva più complessa la facciata e, dove possibile, l’introduzione nella decorazione della facciata di lastre di ardesia incise con motivi tematici (cattedrale del monastero delle Grotte di Kiev, cattedrale del monastero di San Demetrio). Un momento molto importante nel processo architettonico in atto fu la comparsa dei narteci nella chiesa del Salvatore di Berestov. Sostituendo in un certo senso le primitive gallerie circolari, essi creavano tuttavia un effetto notevolmente diverso. Il blocco rettangolare della cattedrale, nettamente delimitato mediante i muri dallo spazio circostante e ad esso contrapposto nel suo isolamento sacrale, risultava più disteso da tutti i lati, «attaccato» alla terra, agli edifici circostanti, un po’ «protetto». Nella chiesa di Eleckij i tratti nuovi sono così numerosi che alcuni studiosi la collocano all’origine di una nuova fase stilistica nell’architettura dell’antica Rus’. In effetti essa è tipologicamente più vicina alle chiese «micrometropolitane» kieviane dell’xi
*** L’indebolimento delle reminiscenze del genere statalemetropolitano nell’architettura russa della seconda metà dell’xi e della prima metà del xii secolo portò, naturalmente, a un cambiamento dello stile storicistico monumentale. Tuttavia il cambiamento maggiore non riguardò il monumentalismo, ma lo storicismo. La monumentalità, come abbiamo detto, non perdeva il proprio significato, ma al contrario, utilizzava come compensazione anche alcuni tratti architettonici che erano andati perduti (o si stavano perdendo), come per esempio gallerie, torri e più cupole. Nella monumentalità conservatasi si manifestava prima di tutto la preoccupazione di ciascun principe per il proprio potere e la propria forza, che dovevano suscitare un’adeguata impressione. «Nelle genti dell’antica Rus’ l’atteggiamento di venerazione per la chiesa cattedrale e la profonda fiducia nella protezione da essa esercitata sulla città e il suo dominio di celeste protettrice erano sostenuti e animati da svariate circostanze, e prima di tutto dall’effetto destato in loro dalla cattedrale…»73. Di questo effetto, che naturalmente si estendeva anche ai costruttori della cattedrale, doveva preoccuparsi anche il principe, e con lui anche l’igumeno. In una certa misura esso veniva raggiunto, necessitando soprattutto dell’elemento fisico. Ma lo storicismo?
64. Novgorod, cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Sant’Antonio, interno.
63. Novgorod, cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Sant’Antonio, 1117-1119, architetto Pëtr, veduta dal lato orientale.
94
Riguardo allo storicismo la cosa era assai più complessa. L’impressione di storicismo nell’architettura della fine del x-prima metà dell’xi secolo nasceva soprattutto grazie ad associazioni e simbologie. Tuttora non sappiamo se la chiesa della Decima avesse davvero 25 «vertici». G.N. Logvin e N.G. Logvin ritengono che questa notizia si debba riferire alla Sofia di Kiev. La chiesa della Decima aveva non meno di cinque cupole, e questo fu probabilmente ripetuto nella cattedrale del monastero delle Grotte. Un notevole aumento del numero delle cupole si verificò nella cattedrale della Sofia. Non sappiamo se le sue 13 cupole simboleggiassero l’idea dell’unione dei dodici apostoli attorno a Cristo oppure l’idea dell’unità delle molte tribù della Rus’. Forse le cupole non erano nemmeno 13, ma di più, e non stavano a simboleggiare né l’una né l’altra cosa, ma una terza, comunque le associazioni di idee da esse prodotte (anche nello spettatore contemporaneo) richiamano al senso della collettività. Qualcosa si riunifica. E il concetto di unificazione presuppone un luogo di destinazione per ciò che si raccoglie, un tempo per riunirsi, cioè un processo, e questa è proprio la trama dello storicismo. Una funzione analoga a quella delle cupole era svolta dai volumi architettonici che si andavano gradualmente integrando: numerosi archi ciechi, articolazioni architettoniche, arcate di gallerie che, a proposito, ricordavano gli antichi portici aperti sotto cui si svolgeva la vita pubblica. Il concetto di unificazione, come processo storico, presuppone dietro di sé un’azione latente, ma quest’ultima, data la relativa impersonalità dell’immagine, è rappresentata dall’elemento epico. La grandiosità epica e l’eroismo, ed anche il patriottismo propri delle byline sono ricolmi di un senso di storicismo, e tutto ciò è molto affine all’immagine architettonica dello stile chiamato «storicismo monumentale». E così nulla poteva propriamente compensare la progressiva sparizione dei tratti tipologici portatori dell’idea dello storicismo. I momenti dell’unificazione, dell’azione epica, della libera pluralità di elementi, di una «sobornost’» popolare e addirittura universale che creavano il senso dello storicismo, si trasformarono gradualmente in qualcosa di più disciplinare, dogmatizzante-rappresentativo, ideale-localizzato. Lo storicismo monumentale assunse un aspetto di monumentalismo rappresentativo, espresso naturalmente in una varietà di forme. Nella regione di Kiev sopravvissero più a lungo le tradizioni «jaroslaviane»; nella regione di Smolensk, assieme a Polock e Rjazan’, il processo di sviluppo si avviò verso un verticalismo centralizzato della composizione architettonica; \ernigov si trovò come in una posizione intermedia tra Kiev e Smolensk; a Novgorod la tradizione kieviana fu abbellita con i «toni nordici» autoctoni. Lo stile appena nato aveva davanti a sé un interessante sviluppo in nuove forme tipologiche. Ma prima di passare a trattare questo problema vogliamo esaminare ancora un genere dell’architettura tra l’xi e l’inizio del xii secolo, prodotto da una funzione particolare. Si tratta della nascita di un genere «privato» di architettura.
inizio xii secolo, dando poi l’impulso a generi indipendenti. La chiesa del genere domestico non poteva far conto nemmeno sulla celebrazione del vescovo. La celebrazione non era quotidiana e vi partecipava un numero ristretto di sacerdoti. Nacquero così: un piccolo battistero a quattro pilastri e una cupola accanto alla cattedrale del monastero delle Grotte di Kiev (xi sec.), la chiesa a quattro pilastri sopra la porta dello stesso monastero (1108), la «cappella di San Giorgio» a Oster, a due pilastri (fine xi secolo), la chiesetta senza pilastri di Elia a \ernigov (secoli xi-xii), la piccola chiesa senza pilastri di Vladimir Monomach a Perejaslavl’-Južnyj, e la sua «cappella Letskaja» (la chiesa di Boris e Gleb) sul luogo dell’assassinio del principe Boris, nei pressi di Perejaslavl’-Južnyj (Russkij), la chiesacappella funeraria della Parasceve (del Venerdì Santo) nel monastero di Bel’/icy a Polock (inizio xii secolo) e diverse altre. Questo genere di chiesette si trova soprattutto a Perejaslavl’-Južnyj. A prima vista apparentemente insignificante, questo genere architettonico domestico racchiudeva in sé grandi potenzialità. Prende inizio da qui il genere della chiesa principesca palatina e il genere della chiesa parrocchiale (rionale, di sobborgo e così via). All’architettura della Rus’ di Kiev tra il x e l’inizio del xii secolo possiamo così applicare le parole di M.V. Alpatov, riferite a tutta l’arte di quel tempo: «A Kiev sono state gettate le fondamenta di quello sviluppo che per molti secoli ha determinato le future sorti della cultura artistica dell’antica Rus’»74. Quel periodo fu interessante sia per la varietà dei generi architettonici, sia anche per la loro disciplina funzionale. Dietro ognuno di questi generi si intravede una funzione più o meno determinata, e spesso anche ben determinata, ciò che non si potrà dire dei generi architettonici nel periodo del frazionamento feudale. Là le funzioni e i generi si intrecceranno, rendendo più difficoltosa l’analisi e meno precise le conclusioni. Scultura L’eredità plastica pagana della Rus’ di Kiev è abbastanza povera, ma non perché fosse pagana (anche l’antichità
Col termine convenzionale di genere «privato» o domestico intendo quegli edifici costruiti non per svolgere delle funzioni di interesse statale, ma per rispondere a bisogni di carattere personale. In questa categoria rientrano i battisteri, le cappelle funerarie, le cappelle personali del principe e del vescovo. Tutte queste varietà del genere domestico comparvero nell’architettura russa dell’xi-
65. Idolo Zbru/skij, x secolo; disegno, Cracovia, museo.
95
Tavole a colori III
1
2
3
4
5
6
8
10
12
7
9
11
13
1. Novgorod, cattedrale della Santa Sofia. 2. Novgorod, cattedrale della Santa Sofia. 3. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, mosaico della Deesis, Cristo sacerdote. 4. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, mosaico dell’abside centrale (1043-1046), la Madre di Dio Orante. 5. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, mosaico della cupola centrale, Cristo Pantocratore. 6. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, mosaico dell’Annunciazione, l’arcangelo Gabriele. 7. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, mosaico dell’Annunciazione, la Madre di Dio. 8. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, Abramo, particolare dell’affresco L’incontro di Abramo con i tre pellegrini sul lato meridionale dei cori. 9. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, affresco nell’abside della cappella di Gioachino e Anna, l’incontro di Maria ed Elisabetta. 10. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, cappella dei Santi Pietro e Paolo, l’apostolo Paolo. 11. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, martire sconosciuta, particolare dell’affresco della navata centrale. 12. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, santo sconosciuto, particolare dell’affresco nella cappella di Antonij e Feodosij. 13. Novgorod, cattedrale della Santa Sofia, Salomone, particolare dell’affresco nel tamburo della cupola centrale. 14. Novgorod, cattedrale della Santa Sofia, l’apostolo Pietro, particolare dell’affresco della Deesis nell’atrio Martirievskij (fine xii secolo). 15. Novgorod, cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Sant’Antonio, affresco del santuario (1125), santo. Nelle decorazioni pittoriche della cattedrale è evidente l’influsso dell’arte romanica, e ciò si spiega con i vivaci legami tra Novgorod e l’Europa occidentale. Quello stesso monastero, secondo la tradizione, fu fondato da Antonio Romano, originario di Roma o dell’Italia meridionale. 16. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, santo sconosciuto, particolare dell’affresco della galleria esterna settentrionale. 17. Kiev, chiesa di San Cirillo, martire sconosciuta, particolare dell’affresco della navata centrale (anni 1170). Questa chiesa fu costruita dai principi Ol’govi/ di \ernigov, che avevano conquistato il principato di Kiev, e serviva loro come cappella funeraria. Qui fu sepolto uno degli eroi del Canto della schiera di Igor’, il principe Svjatoslav Vsevolodovi/ di Kiev. Gli affreschi della chiesa furono eseguiti da maestri locali; il loro stile e il programma sono strettamente legati alla scuola pittorica slava meridionale dei Balcani. Qui vennero raffigurate tredici scene dalla vita del santo apostolo degli Slavi Cirillo, oltre a venticinque santi balcanici. Nella scena del Giudizio universale vi è la singolare figura di un angelo che avvolge il cielo come un rotolo. Gli affreschi della chiesa di San Cirillo sono l’ultima testimonianza a noi nota della scuola pittorica kieviana. 18. Novgorod, cattedrale della Santa Sofia, Costantino ed Elena, particolare dell’affresco della galleria meridionale (seconda metà xii secolo). 19. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, duello di maschere, particolare dell’affresco della torre settentrionale. 20. Kiev, cattedrale della Santa Sofia, caccia all’orso, particolare dell’affresco della torre settentrionale. Gli affreschi delle torri di scale che portano ai cori (il posto occupato dal principe e dei suoi famigliari durante le funzioni liturgiche) raffigurano gli svaghi cerimoniali della corte. Il programma di questo ciclo di affreschi serviva l’idea dell’identificazione dei principi di Kiev con i basileus costantinopolitani. Nella torre settentrionale sono raffigurate scene di caccia, duelli di esercitazione, animali esotici ed anche scene dalla vita di corte bizantina. 21-22. Madre di Dio Grande Panagija (Orante di Jaroslavl’), Rus’ di Vladimir-Suzdal’, 1224 circa; Mosca, Galleria Tret’jakov. L’antico tipo iconografico della Madre di Dio Orante (mosaico della Sofia di Kiev) ha una variante più complessa, riprodotta nella magnifica icona della scuola di Vladimir. La Madre di Dio Grande Panagija, che reca sul petto un medaglione con il Salvatore Emmanuele benedicente, è un’immagine proveniente dall’arte monumentale di Bisanzio che perpetua nell’icona russa le dimensioni del mosaico murale. 23. Madre di Dio delle grotte (Svenskaja), fine xiii secolo; Mo-
sca, Galleria Tret’jakov. È l’unica testimonianza legata alla scomparsa scuola iconografica di Kiev dei secolo xi-xii. Questa copia del xiii secolo raffigura la Madre di Dio col Cristo benedicente sulle ginocchia, ai lati si trovano i fondatori del monastero delle Grotte di Kiev, i santi Antonij e Feodosij. Molto probabilmente il modello ispiratore fu la famosa icona della Madre di Dio delle Grotte, una delle immagini più venerate nella Kiev cristiana. 24. Diadema con la raffigurazione dell’Ascesa in cielo di Alessandro il Macedone, oro, smalto alveolato, xii secolo; Kiev, Museo storico. Assieme al rito dell’incoronazione al principato i principi russi adottarono da Bisanzio anche il tipo della corona-diadema fatta di placche d’oro. Esse erano decorate da raffigurazioni simboliche eseguite nella tecnica prediletta nella Rus’, quella dello smalto alveolato. Il soggetto dell’ascesa in cielo di Alessandro il Macedone simboleggia la somma potenza e protezione del potere principesco (come anche nella scultura della cattedrale di San Demetrio a Vladimir). Un altro soggetto era la Deesis, che rifletteva l’idea della celeste intercessione per gli uomini. Dal xii secolo ci è pervenuta più di una decina di diademi principeschi e frammenti degli stessi (tra cui anche una placca con la figura della Madre di Dio, proveniente da Vladimir). Il diadema si portava assieme a un monile di medaglioni-barma, di cui sono stati trovati esempi a Suzdal’ e Staraja Rjazan’. 25. Braccialetto con raffigurazione di scene rituali, argento, fusione, incisione, niello, xii secolo; Kiev, Museo storico. L’aquila araldica è circondata dal lato sinistro dalle figure di una ballerina e un musicante e dal lato destro da un uccello-drago e un guerriero in atto di protezione. Braccialetti simili, rinvenuti in molte città della Rus’ premongolica, venivano usati in riti pagani il cui senso rimane ancora in gran parte oscuro, paragonati spesso ai riti misterici della fertilità in uso presso la maggior parte dei popoli antichi europei. 26. Kolt con figure di grifoni, Kiev, argento, incisione, niello, xii secolo; Mosca, Museo storico. 27. Anello da tempie a sette lobi della tribù dei Vjatci, bronzo, fusione, fine xii secolo; Novgorod, Museo. 28. Ciondolo a forma di anatrella, bronzo, fusione, xii secolo; Novgorod, Museo. 29. Ciondolo e kolt con figura di testa femminile, Kiev, oro, smalto alveolato, xii secolo; Kiev, Museo storico. 30. Arca dall’interno di una chiesa, principato di \ernigov, bronzo, fusione, maestro Konstantin, seconda metà xii secolo; Mosca, Museo storico. 31. Ciondolo e kolt con figure di sirene, Kiev, oro, smalto alveolato, xii secolo; Kiev, Museo storico. 32. Serpentello di Vladimir Monomach, oro, fusione, xii secolo; San Pietroburgo, Museo russo. Il serpentello è un amuleto a foggia di medaglione, su una faccia del quale era raffigurato un personaggio cristiano (qui l’arcangelo Michele) e sul rovescio un serpente aggrovigliato (l’apotropei pagano). Il magnifico serpentello in oro apparteneva evidentemente al principe Vladimir Monomach di Kiev. Sul rovescio l’iscrizione: «Signore, aiuta il Tuò servo Vasilij» (Vasilij era il nome cristiano del principe). 33. Kolt con figura di uccello, Kiev, oro, smalto alveolato, xii secolo; Kiev, Museo storico. Il kolt era un pendente a medaglione che faceva parte del costume di gala femminile. Veniva intrecciato nei capelli all’altezza delle tempie o appeso al copricapo. 34. Kolt con figura di uccelli presso l’albero della vita, Kiev, oro, smalto alveolato, xii secolo; Kiev, Museo storico. 35. Placca raffigurante la Madre di Dio, oro, smalto alveolato, xii secolo; San Pietroburgo, Museo russo. 36a-b. Kolt con figura di santo (su entrambi i lati), \ernigov, oro, smalto alveolato, xii secolo; San Pietroburgo, Museo Ermitage. 37. Diadema raffigurante la Deesis, oro, smalto alveolato, xii-inizio xiii secolo; San Pietroburgo, Museo russo. 38. Grande Sion dalla cattedrale della Santa Sofia di Novgorod, Novgorod, argento, cesellatura, doratura, niello, metà xii secolo; Novgorod, Museo. Il «Sion» o «Gerusalemme» è un modello simbolico della chiesa della Resurrezione del Signore a Gerusalemme. Veniva usato per trasportare i Santi Doni durante le funzioni liturgiche solenni. Le sei porticine con dodici figurine di apostoli si aprivano lasciando scorgere il tabernacolo racchiuso nell’interno.
96
14
15
16
17
19 18 20
21
22
23
24
25
27
26
28
29
30
32 33
34
38
31
35 36a 36b 37
classica era pagana), ma prima di tutto a causa del polimorfismo del suo contenuto. Le forze della natura non avevano ancora trovato la propria personificazione nella figura umana. Il Cosmo appariva ancora come un quadro scarsamente articolato, composto dall’unione dei diversi elementi: il mondo sotterraneo, il mondo terreno e il mondo sacrale. Un’incarnazione di tale concezione si trova nel grande idolo di pietra a forma di colonna, rinvenuto nel fiume Zbru/ (regione del Dnestr) e passato alla storia 65 come idolo Zbru/skij. Chi raffigurava: Perun’? Svjatovit? Non abbiamo una risposta certa. Per la storia è sufficiente sapere che questa è un’opera della Rus’ di Kiev precristiana, ed è un’opera assolutamente impersonale. L’antica scultura kieviana è rappresentata da opere dalla «genealogia» abbastanza vaga. Non rientrano nel discorso i vari frammenti architettonici marmorei e nemmeno i sarcofagi portati a Kiev da Cherson e da altre località meridionali. Appartenendo a fasi storiche e stili da tempo superati, essi non possono essere considerati né come fonti, né come componenti della cultura spirituale della Rus’ di Kiev. Nemmeno la quadriga in bronzo di Cherson e alcune altre statue possono essere considerate esempi della scultura kieviana. Tuttavia non si può non tenerne conto, poiché per i kieviani esse erano opere figurative mai viste prima, e dovettero senz’altro destare in loro una forte impressione. Fino a non molto tempo fa l’imponente rilievo della Ma67 dre di Dio Odigitria era considerata un’opera della fine del x o dei primi anni dell’xi secolo, come se fosse legato alla decorazione della facciata occidentale della chiesa della Decima. Ma recentemente è stata espressa l’ipotesi di una sua datazione al xii secolo75. Se è così, allora le più antiche testimonianze della scultura della Rus’ di Kiev sono i
67. Madre di Dio Odigitria, pietra calcarea, x secolo, Kiev, Museo storico.
quattro rilievi monumentali (di ardesia rossa), la cui datazione agli anni ’60-’70 dell’xi secolo pare non destare alcun dubbio. La prima coppia di rilievi proviene dal monastero delle Grotte di Kiev, e la seconda coppia dal monastero di San Michele dalle cupole d’oro (o di San Demetrio). Tutti e quattro i rilievi sono scolpiti su grosse lastre a forma di rettangolo allungato orizzontalmente, che ornavano o una delle facciate delle chiese o i parapetti dei cori. I rilievi si possono facilmente raggruppare a coppie in base al soggetto e allo stile. Sulla prima coppia sono raf- 68 figurati Eracle che vince il leone nemeo e Dioniso su un cocchio trainato da un leone e una leonessa. Sulla seconda i santi guerrieri a cavallo Giorgio e Teodoro Stratilate (in un rilievo) e Nestore e Demetrio (nell’altro). Senza ii/6 alcun dubbio essi funzionavano così appaiati: la prima coppia su un edificio ignoto, e la seconda nell’architettura della scomparsa cattedrale di San Demetrio. I rilievi di tematica mitologica appaiono più antichi di quelli storici, poiché un interesse per tali soggetti è più plausibile all’epoca in cui il paganesimo cercava ancora di prolungare la propria esistenza. Ricordiamo le procedure non cristiane ammesse nella chiesa della Decima. Anche la norma della decima istituita da Vladimir non era caratteristica della Chiesa orientale. Non per niente Vladimir minacciava di maledizione chi avesse infranto questa norma. Non per niente, infine, il parroco della chiesa della Decima, Anastas di Cherson, era emigrato assieme a colui che aveva temporaneamente conquistato Kiev ed era stato poi costretto dal re polacco Boleslao ad abbandonarla. Evidentemente l’ortodossia del clero della chiesa della Decima non era molto forte. Debole era anche l’ortodossia del figlio di Jaroslav il Saggio, Izjaslav, uno dei principi più «filooccidentali» nella storia russa e, tra l’altro, donatore della cattedrale di San Demetrio. Ai principi Svjatoslav e Vsevolod toccò sostenere una dura lotta con i vicini Polacchi e Tedeschi di Izjaslav, e si può pensare che la differenza sostanziale tra le coppie di rilievi che ci interessano – mitologica e storica – rifletta in qualche modo questa lotta. Svjatoslav e Vsevolod si appoggiavano apertamente alla tradizione greca, il cui
66. Cattedrale della Santa Sofia a Kiev, tomba del principe Jaroslav il Saggio, marmo, xi secolo.
129
baluardo era il monastero delle Grotte di Kiev. Quest’ultimo aveva molti obblighi verso Svjatoslav. Le fonti greche (bizantine) dei rilievi mitologici con Eracle e Dioniso sono indubbie. Proprio una sanzione bizantina poteva ammettere dei rilievi con personaggi pagani, che verso l’xi secolo si erano abbastanza assimilati al cristianesimo. Eracle poteva addirittura simboleggiare… il Cristo! È difficile che gli autori dei rilievi mitologici fossero dei maestri bizantini. Il materiale di provenienza locale (ardesia rossa) e le licenze anatomiche nelle figure rivelano la mano di artigiani autoctoni che lavoravano su modelli bizantini. Tali modelli potevano essere opere plastiche di piccole dimensioni. Forse non va dimenticata nemmeno l’influenza delle fonti folcloriche. Vogliamo così accomunare la scena del combattimento di Eracle col leone alla leggenda, narrata nelle cronache, di Jan Usšmovic che ferma in piena corsa un toro infuriato. Il lavoro nel campo della scultura decorativo-monumentale piuttosto voluminosa, di tematica mitologica, fu un ottimo stadio preparatorio per la futura plastica anticorussa. In primo luogo sugli artigiani non gravava il divieto di raffigurazioni plastiche dell’uomo, da cui probabilmente la scultura della Rus’ fu in seguito condizionata. Come la costruzione della chiesa della Decima, anche questo dischiuse nuovi ampi orizzonti alle popolazioni russe, comunicando al pensiero creativo il distacco dal mondo oggettivo-materiale inanimato. Se in questo pensiero creativo restava qualcosa di pagano, questo paganesimo si elevava all’altezza di un’armonia universale. L’immagine della chiesa della Decima era l’immagine del mondo nuovo. L’immagine di Eracle che vinceva il leone era l’immagine dell’uomo nuovo. Non possiamo disattendere questi cambiamenti nei sistemi figurativi, poiché da ciò traspariva il pensiero figurativo stesso, come si vede dallo stile dei rilievi. A prima vista lo stile dei rilievi mitologici osservati appare un po’ rozzo. Le proporzioni delle braccia e delle gambe di Eracle sono un po’ esagerate. Al contrario, la figura di Dioniso colpisce per l’aspetto un po’ debilitato. Ma non lo riteniamo frutto dell’incapacità. L’ingrandimento di quelle parti del corpo che apparivano più importanti nel soggetto in questione è un tratto tipico di tutta la scultura di stile romanico, sostanzialmente unitario per tutta l’Europa. Si manifestava qui non la debolezza, ma la forza degli artigiani. Nelle scene della lotta col leone – prevalentemente simbolo del male nella Bibbia e nel Vangelo – questa esagerazione delle proporzioni era particolarmente opportuna. Eracle appare notoriamente come il vincitore. Se il rilievo fu eseguito per incarico del principe Svjatoslav, ciò dovette piacergli. E non solo a lui, ma
anche ai suoi sostenitori, e forse anche ai kieviani in genere, mal disposti verso l’«ipocrita» Izjaslav. Non a caso, se Svjatoslav avesse rifiutato di marciare contro Izjaslav, i kieviani minacciavano di andarsene «in terra di Grecia»76. E così ci troviamo davanti a un fulgido esempio di utilizzazione dell’eredità pagana per esaltare l’uomo Nuovo della Nuova fede. Il rilievo con Dioniso non è meno significativo. Se l’eroico Eracle appare una personificazione dell’Uomo nuovo, il fiacco e brillo Dioniso è il suo esatto contrario. Persino il leone e la leonessa che tirano il cocchio dove giace Dioniso, con l’«espressione» del muso appaiono più «positivi». Forse è un po’ forzato affermare che, in una interpretazione così ironica della divinità greca delle forze naturali, si manifestava la concezione del mondo altamente etica degli artigiani e in generale dell’uomo russo dell’xi secolo, ma che Dioniso sia presentato come l’antipode di Eracle è pienamente evidente. D’altra parte non bisogna dimenticare che la più ricca simbologia di Dioniso lo conosceva anche come lottatore con i nemici, capace di gettare su di loro la follia77. A questo simbolismo è strettamente legato anche il «passato ferino» di Dioniso, che nel rilievo kieviano può essere anche indicato dalla coppia di leoni che tirano il cocchio. In un modo o nell’altro, il simbolismo di Dioniso si è dimostrato molto scottante nel contesto della difficile lotta di Svjatoslav e Vsevolod con l’«ipocrita» Izjaslav, sebbene questi fosse il fratello maggiore. Se nel rilievo con Eracle si espresse un simbolismo eroico, mentre nella figura di Dioniso un simbolismo ironico, questo conferma una volta di più che il pensiero creativo dei maestri russi della prima metà dell’xi secolo conosceva già una concezione delle immagini artistiche articolata secondo diversi piani o aspetti, nello spirito dell’estetica anticobizantina, riflessa poco più tardi nell’Izbornik (Raccolta) del principe Svjatoslav del 107378. Nello stadio che stiamo esaminando, predominava una concezione positiva e l’interpretazione del simbolo, e questo va probabilmente attribuito a una certa parentela tra il pensiero intriso di paganesimo dei neofiti slavi e gli antichi creatori di miti. Così si spiega anche il prevalere, nei nostri rilievi, del principio corporeo su quello spirituale. Un interessante cambiamento si verificherà pochi anni più tardi, quando verranno scolpiti in ardesia i rilievi dei santi guerrieri a cavallo. A prima vista la composizione di questi rilievi è costrui ta sul medesimo principio binario, cioè sulla contrapposizione tra la figura di destra e quella di sinistra, come nel rilievo con Eracle. Ma là si contrapponevano le forze contrastanti del bene e del male, del vincitore e del vinto. Qui, invece, le forze contrapposte sono equivalenti: a san Giorgio si oppone Teodoro Stratilate, e a san Nestore san Demetrio. In sostanza questa contrapposizione è di tipo puramente formale-compositivo, e non certo semantica. Si potrebbe definirla piuttosto un’equidistanza rituale, simile a quella rappresentata dagli antichi rilievi rupestri sasanidici. Ma anche in questi rilievi monumentali il re appariva di fronte alla divinità che lo incoronava. I santi guerrieri kieviani sono assolutamente equivalenti: si presentano allo stesso modo davanti alla forza superiore che aleggia invisibile tra loro come il possibile centro ideale della composizione. Questa forza invisibile, ma possente, che attirava a sé i santi cavalieri guerrieri, poteva essere soltanto Dio.
68. Eracle e il leone, ardesia, xi secolo, Kiev, Museo del monastero delle Grotte.
130
segno grafico. Evidentemente bisognava per forza passare attraverso questa astrazione per non cadere in balia dell’allettante plasticità antichizzante, che venera la materia ed è indifferente all’individualità umana. Nonostante il loro stile lapidario, nei rilievi kieviani è evidente che le figure di Eracle e Dioniso sono impersonali, mentre le sembianze di san Giorgio, san Teodoro Stratilate, san Nestore e san Demetrio sono individualizzate (nei limiti del possibile). Giorgio, Demetrio e Teodoro Stratilate sono riconoscibili nonostante la tecnica molto lapidaria usata nello scolpire i loro volti. Soltanto Nestore è «problematico» e non a caso in questo cavaliere alcuni vedono anche Mercurio. È certamente convenzionale anche l’imperatore sottomesso ai guerrieri, identificato in Diocleziano (ma altri vedono in lui anche l’imperatore Massimiliano). Così, se nell’architettura della chiesa della Decima l’eredità autoctona precristiana si sviluppò in libero rapporto espressivo con il modello costantinopolitano (e inoltre questo modello era filtrato attraverso il prisma della tradizione architettonica chersoniana e bulgara), invece nei rilievi mitologici e storici in ardesia la rielaborazione locale dei modelli orientali e bizantini acquistò un carattere più intraprendente, per cui possiamo parlare di inizio di una scultura russa.
In effetti, proprio questo genere di composizioni trinarie con la figura di Cristo al centro comparve a quel tempo nella scultura monumentale georgiana79, che si può considerare come la più vicina antenata dei rilievi kieviani. La fonte delle composizioni georgiane fu probabilmente Ahtamar. Ma la fonte iconografica non indica il modello. La differenza (iconografica ed artistica) dei rilievi kieviani da quelli georgiani è assai notevole. È stata anche avanzata l’ipotesi che, non avendo analogie stilistiche nell’arte cristiana orientale, i rilievi kieviani dei santi guerrieri siano la prova di un legame con Tessalonica80. Ma questa congettura non è suffragata da alcun confronto stilistico. Resta più reale l’ipotesi di un’opera di matrice locale (kieviana), tanto più che il principe Izjaslav, assai ostile ai Greci, avrebbe difficilmente chiamato dei maestri tessalonicesi. Ispirandosi all’iconografia cristiana orientale, abbastanza diffusa, i maestri (o il maestro) kieviani misero alla prova qui le loro possibilità creative. Dal punto di vista tecnico-formale essi non si dimostrarono a un livello molto alto: le figure sono abbastanza piatte, le criniere dei cavalli sono raffigurate come viste dall’alto (!); le forme sono lapidarie, non plastiche, il che non si spiega con la durezza dell’ardesia, poiché i rilievi mitologici, più plastici, sono scolpiti nel medesimo materiale. In particolare non si può assolutamente condividere l’opinione che «i rilievi dei santi cavalieri sono decisamente superiori, per livello di esecuzione artistica, a quelli della lavra»81. L’analisi intellettuale-filologica dell’opera, per quanto erudita, non può essere scissa da quella artistica. E quest’ultima ci dice dell’altro. Se l’ipertrofica sproporzionalità, come nell’esempio di Eracle, non va considerata come una carenza di maestria, tuttavia si può dire che il lato corporeo, e con ciò anche plastico, dei rilievi con i guerrieri a cavallo si era sensibilmente ridotto. Se ancora si manifestava nelle figure dei cavalli corposi e con le gambe corte, nelle figure dei cavalieri, invece, si nota molto una certa astrazione da tutto ciò che è carnale; le figure sono schematiche, in un certo senso addirittura spiritualizzate, quasi ridotte a un
Pittura Sarebbe molto interessante seguire i primi passi e, di conseguenza, le origini della pittura della Rus’ di Kiev sullo sfondo architettonico-scultoreo appena descritto. Frammenti di affreschi sono stati rinvenuti nelle rovine delle prime chiese in muratura (in mattoni) di Kiev, costruite ancora prima della chiesa della Decima, ma essi sono così indistinti che è impossibile avvalersene per giudicare il carattere degli affreschi stessi. Anche gli affreschi della chiesa della De- 71 cima, a parte alcuni piccoli frammenti, sono andati perduti assieme alla chiesa. Nello stile del frammento del volto di un ignoto santo meridionale si intravedono tratti arcaizzanti, non costantinopolitani, che vengono ricollegati a Tessalonica82. Questa osservazione è più accettabile dell’ipotesi sull’origine tessalonicese degli artigiani autori dei rilievi con i santi guerrieri. Gli Slavi conoscevano comunque meglio la scultura che non la pittura monumentale. Qui bisogna tuttavia considerare la seguente circostanza: la costruzione e l’affrescatura di una chiesa come quella della Decima, lunga 27 m, larga 18 m e probabilmente altrettanto alta (se non di più), dove perciò la superficie delle pareti e delle volte da affrescare era di circa 1500 mq, non potevano essere eseguite dai soli maestri greci. Questi intervenivano come sovrintendenti, accanto ai quali svolgevano i loro compiti molti apprendisti muratori, stuccatori, vetrai, impastatori di colori e forse anche decoratori. In questo laboratorio delle diverse tecniche crescevano e si formavano i pittori russi. Se il loro apporto alla «realizzazione» della chiesa della Decima resta impercettibile, invece nella costruzione e nella decorazione della cattedrale della Sofia esso appare abbastanza chiaramente, tanto che anche i ricercatori più rigorosi ritengono di poter riconoscere il loro contributo. Ma prima di addentrarci in questo tema vogliamo accennare all’elemento principale che la nuova arte della pittura portò con sé: un complesso sistema di affresco. Esso è strettamente legato alla struttura musicale della liturgia. Come è noto, nell’arte canora del tempo regnava la forma del canone, sebbene il genere del kontakion che la
69. Colonna con la figura di un grifone e un centauro, legno, xi secolo, disegno, Novgorod, Museo. 70. Cattedrale di Boris e Gleb a \ernigov, capitello intagliato, disegno.
131
Come vedremo più avanti, questa immagine sofianica universale si sviluppava nella pittura in cerchi concentrici. Ora, parlando del cerchio più grande dell’ordine universale, ricordiamo che negli affreschi delle chiese, a partire dal ix secolo si era saldamente affermato un sistema che definiremmo universale. Ma universale, significa anche storico. Se per lo Slavo pagano il simbolo dell’universo è il cerchio terrestre (tempio, kurgan) o la colonna con la rappresentazione dei tre ordini dell’universo: cielo, terra e inferi (idolo Zbru/skij), per il Russo cristiano l’universo è una più complessa gerarchia di forme architettoniche e una storia sacra di settemila anni in forme figurative. Già sappiamo che la settemillenaria storia universale iniziava con soggetti veterotestamentari nella parte occidentale del tempio e si sviluppava fino all’Annunciazione, raffigurata sui pilastri orientali. Le immagini della Natività di Cristo e della venuta di Cristo nel mondo, della sua passione fino alla Risurrezione e all’Ascensione si sviluppavano sulle porzioni superiori dei muri e sulle volte. Le parti inferiori dei muri erano riservate alla raffigurazione dei padri della Chiesa e dei principali asceti. Sulle arcate sotto la cupola erano raffigurati i martiri. Questa Chiesa terrena si univa alla gigantesca figura della Madre di Dio nell’abside centrale. Essa era raffigurata in atteggiamento di preghiera (Orante), con le braccia levate in alto come a difendere, a proteggere e benedire tutti i presenti. Così era anche negli affreschi della Sofia di Novgorod e, forse, già nella chiesa della Decima. Nella decorazione musiva della Sofia di Kiev questa immagine fu chiamata anche «Madre di Dio muro incrollabile». Proprio sotto di essa si trova l’iscrizione sofiologica: «Dio sta in essa: non potrà vacillare; la soccorrerà Dio prima del mattino» (Sal 46(45),6). S.S. Averincev l’interpreta in questo modo: la Madre di Dio-Sofia in mezzo allo stato russo kieviano. È la sua protettrice. Il ciclo pittorico della Sofia di Kiev è completato dagli evangelisti (nelle vele), dalla Madre di Dio tra gli apostoli (ripetizione del tema della Chiesa terrena) e dal Pantocratore con gli arcangeli nella cupola (Chiesa celeste). Inoltre, il Pantocratore nella cupola aveva anche un contenuto sofianico come Logos che dona la sapienza alla Sofia. È assai probabile che un analogo ciclo pittorico (forse senza le iscrizioni sacrali?) si trovasse già nella chiesa della Decima, e dopo la cattedrale della Sofia anche nelle altre principali cattedrali di Kiev. Nella Sofia di Novgorod, al posto degli evangelisti, sul tamburo sono raffigurati i profeti. I soggetti veterotestamentari erano accentuati anche in altre parti del ciclo pittorico83; ciò era legato probabilmente al tema della Sofia-Sapienza. Inoltre, la particolare accentuazione del significato sofiologico della figura di Cristo è considerata una caratteristica novgorodiana. In ogni caso il momento storico, o addirittura storicouniversale trova un’espressione molto forte nelle pitture monumentali dell’xi secolo. Questo è indubbiamente un riflesso di quel nuovo senso di appartenenza della Rus’ di Kiev «alla pari degli altri» alla storia universale, di cui è pieno il Discorso sulla Legge e la Grazia di Ilarion. E non solo un senso di appartenenza ma, cosa non meno, se non addirittura più importante e interessante, un senso di gioia, di dignità, di solennità. E anche lo stile pittorico monumentale era veicolo di tali riflessioni. Il monumentalismo nello stile della pittura russa dell’xi secolo non consiste solo nelle grandi dimensioni
71. Chiesa della Dormizione della Madre di Dio (della Decima) a Kiev, frammento di affresco della fine del x secolo, non conservato (fotografia di N. Sycev).
precedeva conservasse ancora la propria importanza. La forma del canone è particolarmente interessante in quanto era suddivisa in odi, che a loro volta erano composte dagli irmo «iniziali» (veterotestamentari) e da sticheròn o tropari che ne sviluppavano la tematica; essa offriva la possibilità di uno sviluppo musicale e contenutistico politematico del contenuto fondamentale del canone. Questo pensiero creativo, che si «svolge» dal centro semantico come «trasformando» una grande tematica, contraddistingue la nuova coscienza. Esso costituisce l’essenza del pensiero architettonico, come evidenzia particolarmente l’esempio delle cattedrali di Kiev, Novgorod e Polock dedicate alla Sofia. E anche la nuova pittura deve essenzialmente la propria fioritura a questa mentalità. La causa dello sviluppo della pittura nella Rus’ di Kiev viene spesso ricondotta al lavoro dei maestri greci arrivati in quelle regioni, alla comparsa di nuovi materiali pittorici e così via. Ma tutto ciò poté dar frutti soltanto perché la gente era ben disposta verso la nuova arte ed era in grado di comprenderla, come accadde per l’architettura. Comprendere qui non significa sapere chi è il Pantocratore, cos’è l’Annunciazione, l’Ingresso in Gerusalemme e così via. La comprensione è la capacità stessa di vedere dietro all’immagine il suo significato nei vari aspetti e nelle trasformazioni di cui si è parlato riguardo al canone. Non a caso, proprio nel periodo della fioritura del canone (ix secolo) si formò quel sistema di pittura del tempio che fu assimilato dalla Rus’ di Kiev, in particolare negli affreschi della cattedrale della Sofia. Come abbiamo già notato, la pittura era così organiiii/8 camente legata all’architettura (e non solo all’interno, ma -12 anche all’esterno del tempio), che è impossibile concepirla 16, separatamente. I muri e le volte sono contemporaneamen19- te anche pittura. La pittura è contemporaneamente anche 20 muri. Persino le tavole delle icone, scavate all’interno, non erano considerate come quadri, ma come parti dei muri. Ma se i muri e le volte della chiesa sono questo universo creato con l’aiuto dell’artista Sofia-Sapienza, la «casa» della Sofia con i suoi sette pilastri, allora le pitture sui muri e sulle volte sono anch’esse l’universo della Sofia-Sapienza, sono anch’esse la sua «casa». 132
È difficile dire da quali fonti i pittori cristiani abbiano mutuato l’immagine della Madre di Dio, la bellezza e la purezza del suo volto. Non ci riferiamo qui alle sue varie espressioni iconografiche, indagate da molti studiosi che si propongono come compito principale di ritrovarne le fonti, ma all’immagine della Madre di Dio in generale, in tutta la sua nuova spiritualità. Sicuramente i pittori antichi non conoscevano la testimonianza dello storico della Chiesa Niceforo Kallistos (xiv secolo) sulle sembianze della Madre di Dio, ma dovevano conoscere almeno i materiali su cui si basava Niceforo. Provengono indubbiamente da qui tratti come i capelli «color dell’oro», «gli occhi vivaci con le pupille colore dell’oliva, le ciglia arcuate e quasi nere, il naso allungato, le labbra floride e piene di dolci parole, il volto né tondo né affilato e alquanto prolungato»84. Certamente ogni epoca, ogni «stile d’epoca» portò in questa immagine qualcosa del «gusto dell’epoca», ma in generale si conservò l’immagine tipologica descritta. Nella raffigurazione musiva dell’Orante – Muro incrollabile di Kiev quasi tutti questi tratti ci appaiono effettivamente incrollabili (i capelli, a dire il vero, sono coperti dall’omophorion, ma dall’immagine di Cristo si può desumere che fossero biondi). Ma la migliore espressione personificata del tema sofianico dell’incarnazione era l’immagine della Grande Panagia (la cosiddetta «Orante Jaro- iii/ slavskaja»); la datazione più convincente di quest’opera 21assai discussa mi pare quella che la fa risalire al tempo di 22 Vladimir Monomach. L’immagine della Madre di Dio, non solo in forza della sua sofianicità, ma anche per il particolare atteggiamento del popolo russo rispetto al suo significato di protettrice della nazione, determinò in una certa misura l’ideale della personalità umana dal punto di vista dello spirito e dell’anima, ragione per cui i suoi tratti si possono intravedere in tutte le raffigurazioni di giovani, persino di sesso maschile. È particolarmente indicativa in questo senso la famosa icona di san Giorgio guerriero, datata attorno al xii secolo85. Ho già avuto modo di applicare a questa immagine il concetto antico di «compresenza di bello e buono». In sostanza è tale anche l’immagine della Madre di Dio nella pittura russa dell’xi secolo, ma con l’eccezione che, in confronto all’antichità, nelle immagini della pittura russa dei secoli xi-xii la «compresenza di bello e buono» è incomparabilmente più spirituale. Parafrasando Florenskij potremmo dire che la Bellezza è la Sofia.
delle figure (nella Sofia di Kiev fino a 5,45 m!), ma anche nell’interpretazione tipizzata di tutti i volumi, nella purezza di linee dei drappeggi degli abiti, nelle grandi superfici delle macchie di colore; questo non disturba affatto né la plasticità delle forme, né la policromia del colorito. Secondo i calcoli degli studiosi, questa policromia nella Sofia di Kiev è ottenuta mediante diciotto gruppi di colori con 129 gradazioni! Solamente lo stile dello «storicismo monumentale» poteva esprimere l’immagine dell’universo e il posto dell’uomo nuovo (figlio e non servo!) in questo universo. La parte principale in questa percezione e rappresentazione integrale del mondo era svolta dall’architettura e dalla pittura. Esse determinavano in grande misura la solennità del quadro della pittoresca liturgia, in cui il nuovo canto corale occupava un posto di rilievo. Se la musica organistica medioevale aveva cacciato gli idoli germanici dai loro boschetti e aveva imposto gli eroi della nuova epoca, nella Rus’ di Kiev la stessa cosa fece il canto corale degli inni cristiani. Dall’viii secolo nell’arte dei cantori si affermò saldamente la forma del canone, in cui avevano una parte significativa i motivi sofiologici del nono Proverbio di Salomone, come il mistero dell’incarnazione. Il canone, come è noto, è composto da irmi e da tropari che si sviluppano. In sostanza anche il sistema pittorico era composto di irmi e tropari, e in questo modo la nuova arte si lasciava alle spalle l’ornamentalismo pagano primitivo. Finora abbiamo esaminato la sfera universale sofianica dell’arte tra la fine del x e l’xi secolo. Ma in cosa consisteva la sfera più propriamente ecclesiastica e quella individuale? Non basta dire che le cattedrali della SofiaSapienza indicavano la chiesa ideale, ne erano l’immagine. Esse erano il centro di questa rappresentazione. Ma la medesima funzione ideale era svolta anche da altre chiese importanti: il Salvatore della Trasfigurazione (\ernigov), la Dormizione (Kiev), l’Arcangelo Michele (Kiev, Perejaslavl’-Zalesskij), Boris e Gleb (Vyšgorod), San Demetrio (Kiev) ed altre. Le prime due sono strettamente legate al tema sofiologico, mentre nella dedicazione delle altre prevale il motivo del patrocinio. La concezione della Sofia come chiesa ideale trovò espressione nel fatto che proprio la grande cattedrale a tre navate e sei pilastri, a partire da quella della Dormizione nel monastero delle Grotte di Kiev, divenne una sorta di modello per le principali cattedrali di tutte le città russe. Naturalmente anche qui la sofianicità del tema della chiesa ideale si esprimeva più chiaramente nella pittura. Il sistema di decorazione pittorica costruito gerarchicamente, basato sulla raffigurazione dei padri della Chiesa, degli eremiti e degli asceti nell’ordine inferiore, contenente nei registri superiori le immagini dei profeti, degli apostoli e della Madre di Dio, e completato dal Pantocratore, divenne il simbolo abituale della Chiesa ideale. Successivamente questo sistema subì modifiche irrilevanti, e soltanto in alcune sue parti. Siccome, a giudicare dagli affreschi della cattedrale della Sofia di Kiev, le immagini della Madre di Dio e di Cristo occupavano il posto principale ed erano le più importanti, esse lasciavano la loro impronta su tutto il ciclo pittorico. Proprio qui il tema sofiologico trovava un’espressione personificata, e inoltre nell’xi secolo il rapporto tra la Madre di Dio e il Cristo, come portatori dell’immagine della Sofia, si articolava in modo assai complesso. A quanto pare prevaleva, comunque, l’aspetto della Madre di Dio.
Delle decorazioni della chiesa di San Michele (11081113), ormai in rovina, sono rimasti soltanto alcuni mosaici, e in particolare la raffigurazione dell’Eucaristia (nell’abside) e la figura di Demetrio di Tessalonica. Erano gli ultimi mosaici dell’antica Rus’, ed oggi, staccati dalle pareti, sono conservati in musei: l’Eucaristia nella cattedrale della Sofia, Demetrio di Tessalonica nella galleria Tret’jakov. Nell’Eucaristia, pur in tutta la sua vicinanza iconografica alla composizione della Sofia di Kiev, richiama l’attenzione la grande eleganza delle figure degli apostoli, rappresentati per di più senza il nimbo (!). La figura coraggiosa di Demetrio di Tessalonica richiama associazioni con l’arte del Quattrocento italiano. A.I. Nekrasov l’ha paragonata anche… all’immagine di un condottiero. Questo non è certamente sintomo di uno svilimento dell’arte, ma certo si andava delineando qualche cambiamento nel suo complesso. 133
iii/ In confronto alla decorazione della cupola, anche gli af13- freschi del xii secolo della Sofia novgorodiana (nel corpo 14, principale e nelle cappelle) non sono così monumentali ed 18 epici. Accanto a una perfetta conoscenza dell’eredità ar-
re una quantità di ornamenti con motivi mitologici. In iii/ ambiente rurale si foggiavano vari amuleti zoomorfi in 26, bronzo (cavallini, anatrelle e così via) e in città si pro- 29, ducevano oggetti in oro e in argento: grivny (collane), 31, kolty (pendenti per copricapi che scendevano all’altez- 33za delle tempie), braccialetti, monili, diademi, eccetera, 34, realizzati con le più varie tecniche di smalto alveolato 36a(cloisonné), fusione, battitura a caldo, cesellatura e così b via. Particolarmente degni di nota i kolty, inizialmente con figure smaltate di volatili, grifoni, e in seguito anche iii/ con figure umane. Nei naruči (bracciali d’argento) era- 24no molto sviluppate le raffigurazioni mitologiche. Ma il 25, tempo compì la sua opera. Sui diademi incominciarono 37 ad apparire estese composizioni di soggetto cristiano. iii/ Particolarmente sfarzoso è il diadema del tesoro di Kiev 27con la raffigurazione di una Deesis a sette figure, mentre 32 la croce d’oro di Evfrosinija di Polock (andata perduta durante la guerra del 1941-1945) era decorata da nume- v/ 20rose figure di santi. È curioso che a Novgorod tra l’xi e l’inizio del xii se- 22, colo fosse quasi assente l’artigianato in oro. Si risentiva, 26 probabilmente, della lontananza da Bisanzio. Anche il iii/ potere del principe qui non era forte come a Kiev. Oltre 25 alla magistrale arte dell’intaglio in legno, che già nell’xi secolo aveva prodotto capolavori come la colonnina con il centauro e il grifone, era diffuso qui l’artigianato in osso, ed anche la fusione e la cesellatura del metallo. Nell’osso intagliato dei secoli xi e xii i motivi mitologici dominavano incontrastati. Lo stile «animalesco», ampiamente diffuso nell’intaglio in legno e in osso, ci fa capire in certa misura come la plastica in pietra bianca delle facciate di Vladimir-Suzdal’ non fosse affatto un fenomeno estraneo all’arte anticorussa dell’epoca premongolica. Ma tuttavia il vanto dell’arte applicata novgorodiana era dato da oggetti di elevato pregio artistico, fabbricati dagli artigiani per un uso particolare. Tali erano il «grande» e il «piccolo» Sion, ed anche due crateri dei maestri Bratila e iii/ Kosta. Nei Sion si rilevano tratti bizantini, ma la loro prove- 38 nienza è molto probabilmente locale. La provenienza locale v/ 30 dei crateri è invece documentata dalle iscrizioni. I due crateri sono esempi del grandissimo livello raggiunto dagli artigiani novgorodiani nell’arte della cesellatura, nonostante fosse già iniziato il processo di frazionamento feudale della Rus’ kieviana.
tistica bizantina, si osserva qui una russificazione dei tipi dei volti e un rafforzamento della linearità nello stile. Una maggiore pittoricità caratterizza i frammenti conservati della decorazione dell’atrio meridionale (Martirieevskij), specialmente l’immagine dell’apostolo Pietro nella Deesis. Gli affreschi delle cattedrali novgorodiane di San Nicola a Dvoriš/e, di San Giorgio e della Natività (primo terzo del xii secolo) ci sono giunti in frammenti così esigui che è estremamente difficile trarne informazioni sui loro sistemi pittorici originari. Lo stile, infatti, come nell’architettura, sebbene conservi i tratti del «monumentalismo kievianobizantino», lascia intravedere chiaramente anche la comparsa di tratti locali, richiamando un’affinità con lo stile romanico. Arte applicata A differenza delle cosiddette arti «maggiori»: architettura, pittura e scultura, l’arte applicata penetrò molto più a fondo nella vita quotidiana degli Slavi pagani, e perciò entrò nell’arte della Rus’ di Kiev con una stratificazione assai consistente. Qui è estremamente difficile stabilire cosa sia creazione propriamente slava, cosa provenga dai popoli vicini, e cosa sia apparso già come risultato della cristianizzazione della Rus’ kieviana. Poiché siamo venuti in possesso delle opere d’arte applicata della Rus’ prekieviana e kieviana solo grazie a scavi archeologici, la loro composizione è abbastanza casuale, ma non tanto da non poterne delineare un quadro generale. Da questo quadro generale emerge che tra l’arte applicata della Rus’ prekieviana e kieviana non si può tracciare il confine che esisteva nell’architettura e nella pittura. Qui non c’era una chiesa della Decima o una Madre di Dio «Muro incrollabile». Le decorazioni preferite degli Slavi pagani rimasero ancora a lungo anche dopo il Battesimo della Rus’. Si notava tuttavia un cambiamento nei gusti. Dopo i bui secoli vi e vii, che videro la diffusione di vari tipi di fibule, tra cui anche alcune zoomorfe, gli ornamenti preferiti diventarono gli oggetti decorati con filigrana a granuli. Assimilato questo motivo dall’Oriente, gli Slavi perfezionarono la filigrana e ottennero ottimi risultati costruendo uno stile geometrico particolarmente sontuoso. Nella sua natura si scorge una parentela con l’arte del tessuto. Al pari della filigrana a granuli era molto popolare anche l’arte del tessuto. Più si andava verso Nord, più si percepiva l’influsso esercitato sull’arte applicata della Rus’ dal suo potente vicino: la Scandinavia. Tale influsso è particolarmente evidente a Novgorod e nella regione del Ladoga, nell’estroso «stile animalesco» dell’artigianato locale. Verso il ix secolo questo stile penetrò anche nella regione del Dnepr. Ne è un magnifico esempio il corno caprino di \ernigov. La scena di caccia fiabesca raffigurata sulle sue incrostazioni in argento è oggetto ancora oggi di svariate interpretazioni. Come già detto, i gusti pagani alimentarono ancora a lungo l’arte applicata della Rus’ di Kiev. Fiorivano già una nuova architettura sacra, una nuova pittura cristiana, ma nell’arte applicata si continuava a fabbrica-
*** Resterà sempre l’interrogativo di quanto l’arte dell’epoca dell’unità della Rus’ kieviana fosse amata da tutto il popolo. Dobbiamo ricordare che le contraddizioni sociali in quell’epoca non potevano essere molto profonde. Naturalmente la cultura cittadina e quella contadina erano assai differenti, ma di fatto la cultura cittadina nasceva non da particolari personalità, ma da gente proveniente dal popolo. «Non si può rappresentare l’élite come un principio attivo e formante, e la “massa” come un principio inerte e passivo». Ma non basta: «L’orientamento stesso del pensiero teologico e il suo contenuto fondamentale erano determinati prima di tutto dalla “massa”, per il semplice motivo che il cristianesimo era la “filosofia dei milioni”»86. Ma per quanto integra, questa primitiva unità della cultura artistica nella Rus’ kieviana doveva subire e subì di fatto una rottura. 134
Capitolo II L’arte nel periodo del frazionamento feudale dal xii secolo alla prima metà del xiii
alla loro importanza storica o per il loro particolare pregio architettonico. Dato che nella precedente esposizione, proprio per questo motivo, alcune chiese principesche (non vescovili), seguendo la tradizione, sono state definite cattedrali (sobor) – come quella del monastero di San Michele ed altre – e che dovremo avvalerci anche più avanti di questo procedimento, accettiamo per convenzione di chiamare formalmente sobor proprio le chiese cattedrali, e informalmente anche le chiese principali dell’uno o dell’altro quartiere cittadino, di un monastero o persino di un principato. Il concetto di «classico» si potrebbe sostituire con il concetto di «canonico», usato talvolta da N.N. Voronin. Ma il termine «canonico» richiama qualcosa di congelato, impietrito, mentre all’interno del «classico» si svolgeva l’intenso lavoro del pensiero creativo. La riduzione funzionale della cattedrale territoriale (eparchiale) a un preciso territorio non coincideva assolutamente con una «riduzione» dell’immagine del Mondo. La cattedrale del xii secolo, per quanto laconica nelle proprie forme, restava sempre l’immagine del Mondo, che era immutabile. Lo si vede anche solo dal fatto che «a poco a poco le chiese cattedrali delle città capitali (corsivo di A. Golubcov), a partire da quelle più antiche e più ricche, diventarono, per queste città e per i volost’ ad esse legati, ciò che la Sofia di Kiev era per tutta la terra russa»87. Non era cambiata l’immagine del Mondo, ma la sua incarnazione architettonica. Solo coloro che la storia aveva posto in condizioni particolari, che erano impegnati in programmi politici particolarmente vasti, o al contrario, costretti ad opporsi a tali programmi, potevano permettersi di fondare chiese grandi, fuori dal comune, con reminiscenze del genere statale-cattedrale. Certo, in un simile intrico di pretese dinastiche e programmi ideali è molto difficile operare una sistematizzazione architettonica più o meno rispondente alla realtà storica. Tanto più che molti monumenti, noti in base a fonti scritte, non sono giunti fino a noi, e se gli scavi hanno riportato alla luce alcuni resti, essi non si prestano ancora ad attribuzioni, perciò gli errori sono inevitabili. Per ridurli al minimo bisogna tener conto di quella «distribuzione» (è un termine di D.S. Licha/ëv) di forze principesche e vescovili che ebbe luogo dopo la morte di Mstislav il Grande (1132) e che mutava quasi ogni anno. Questa «distribuzione» determinava, seppur in modo inadeguato, i principali indirizzi degli sforzi creativi nel campo dell’architettura monumentale e, di conseguenza, anche le funzioni dei monumenti, mentre le funzioni condizionavano la scelta del genere. Bisogna tener conto qui di altre due circostanze piuttosto importanti. In primo luogo tutti gli elementi indispensabili alla funzione vescovile erano già contenuti in sintesi nella chiesa di Mstislav il Bello a Tmutarakan’ (1022).
Nel 1132, dopo la morte di Mstislav il Grande, che con la propria autorità e forza era riuscito ancora a trattenere la Rus’ di Kiev dal frazionamento feudale, questo processo divenne inevitabile. I principi di una quindicina di stati sovrani, alla pari e simili ai regni dell’Europa occidentale, si dedicarono ad «organizzare i propri territori». Nella storiografia si è saldamente affermata l’idea che il processo di frazionamento feudale della Rus’ di Kiev (un processo comune a tutta l’Europa medioevale) non abbia portato alla decadenza del paese, ma a una «rapida crescita delle città» e al fiorire della cultura russa. Al posto dell’unica Rus’ di Kiev si formarono circa quindici principati, corrispondenti alle antiche unioni tribali. Quindici principati vuol dire quindici capitali «territoriali», tra cui, oltre a Kiev, \ernigov, Polock, Novgorod e Perejaslavl’-Južnyj, vediamo anche Smolensk, Novgorod-Severskij (settentrionale), Rostov Velikij (la Grande) – più tardi Vladimir, Gali/, Vladimir di Volynija, Murom (Rjazan’), Turov ed altre. Nello stesso tempo cresceva tra i principi l’ambizione di ricevere una propria sede vescovile. Alle sedi vescovili già esistenti (Kiev, Novgorod, Belgorod, Jur’ev) si aggiunsero nell’xi secolo quelle di \ernigov, Perejaslav, Rostov, Tmutarakan’, Vladimir di Volynija, Poros’e, e nel xii secolo Polock, Smolensk, Turov, Gali/, Vladimir (sulla Kljaz’ma). Ciascuna capitale feudale (la capitale di ciascuna «terra») doveva avere una chiesa con funzione di cattedrale vescovile e, se questa non era allo stesso tempo principesca, anche una chiesa principesca palatina. Architettura Il xii secolo vide il rapido sviluppo di due generi architettonici, uno dei quali si può definire classico «territoriale»-cattedrale (sobornyj), cattedrale-vescovile, e l’altro principesco palatino. Il genere «territoriale» dell’architettura cattedrale è così chiamato perché l’immagine del Mondo che esso esprimeva non era, volente o nolente, quella di una coscienza comune a tutti i Russi, ma quella dell’uomo di un «territorio» a sé (principato), in quanto, come abbiamo detto, a quel tempo i principi si dedicarono a «organizzare i propri territori». Per quanto vasti, essi erano comunque i territori di Vladimir-Suzdal’, Polock, Smolensk e così via, e non tutta la terra russa. La denominazione «terra russa» si conservò per il territorio di Kiev; esso tuttavia non corrispondeva più a tutta la terra russa, ma ne era piuttosto il simbolo. La cattedrale «territoriale» era la chiesa principale situata nella capitale di questo o quel territorio, che inizialmente poteva essere allo stesso tempo chiesa principesca e cattedrale-vescovile. Quest’ultima circostanza era fondamentale perché la chiesa acquistasse lo status di cattedrale (sobor), mentre diverse chiese principesche venivano chiamate cattedrali (sobor) solamente in base 135
(Osserviamo ancora una volta, tra parentesi, che l’ipotesi di N.I. Brunov sulla presunta struttura a cinque cupole della chiesa di Tmutarakan’ non è suffragata da alcuna prova). Bisognava svilupparli per ottenere il pieno «rendimento» funzionale. In secondo luogo bisognava conferire al nuovo genere di architettura una sorta di sanzione di universalità. Fino a non molto tempo fa si pensava che il ruolo di questa tacita «sanzione» fosse svolto dalla Grande chiesa della Dormizione nel monastero delle Grotte di Kiev, che si riteneva avesse una sola cupola. Quando fu accertato che era invece una chiesa a cinque cupole, la sua posizione mutò considerevolmente. Basti dire che la prima cattedrale monumentale costruita da Monomach a Suzdal’ nel 1096 aveva sì un nartece, ma a quanto pare una sola cupola, senza gallerie, atri coperti e torri di scale. Era probabilmente così anche la cattedrale di Monomach a Smolensk (circa 1101), che è andata totalmente distrutta. Ciò fa pensare che non sia stata la cattedrale del monastero delle Grotte, ma queste chiese di Monomach a dare inizio al genere delle chiese «territoriali»-eparchiali, cattedrali-vescovili del xii secolo, con la loro precisa funzione. Non è escluso, del resto, che né la cattedrale di Smolensk né quella di Suzdal’ siano state le prime tra le costruzioni di questo tipo, in quanto M.K. Karger colloca alla fine dell’xi secolo la datazione di due chiese senza nome, le cui fondamenta sono state scoperte nei territori dell’Istituto d’arte a Kiev e nel monastero Zarubskij88, e di cui non conosciamo i costruttori. Quanto detto ci riporta alla lontana chiesa del principe Mstislav a Tmutarakan’, la prima chiesa a una cupola con nartece, destinata certamente non al metropolita, ma ad un vescovo. Nel 1125, con la morte di Vladimir Monomach e del metropolita Nikita, la cattedra metropolitana rimase vacante fino al 1130, ed entrambe le forze ideologiche rimaste a Kiev, il principe e il monastero delle Grotte, poterono disporre di una piena «indipendenza». È vero che, come sempre, i vescovi posti a capo dell’eparchia difficilmente provenivano dal monastero89, ma da parte del principe Mstislav si nota una particolare attenzione per quest’ultimo. La sua seconda chiesa a Kiev e quella della Dormizione della Madre di Dio Pirogoš/aja vennero da lui fondate nel 1131, nello spirito della cattedrale paterna di Suzdal’. Ancora prima, nel 1127, una chiesa simile, San Giovanni a Opoki, era stata fondata a Novgorod da suo figlio, il principe Vsevolod, che era, come è noto, un docile strumento nelle mani del padre. Nel 1135 costruì qui anche una chiesa sul Mercato, sempre nello stesso genere. Questo è tanto più interessante poiché nessuna delle due chiese era vescovile, ma il principe Vsevolod aveva palesemente costruito entrambe per ingraziarsi i novgorodiani, insoddisfatti della sua politica90. Probabilmente qualcosa di simile si verificò anche a Pskov, con la costruzione della cattedrale del monastero di San Giovanni, quasi identica ma a tre cupole. Ma ciò accadde molto tempo dopo (1230). Nel primo stadio di sviluppo le funzioni delle chiese del nuovo genere erano «complesse». Per questo motivo, ed anche per l’impossibilità di una precisa attribuzione delle chiese di cui sono state rinvenute le fondamenta nei territori dell’Istituto d’arte a Kiev e nel monastero Zarubskij, è difficile dire come, in definitiva, si sia formato il genere territoriale-cattedrale. Per ora è chiaro che «iconograficamente» questi monumenti non derivano dalla Grande chiesa della Dormizione nel monastero delle Grotte di Kiev, ma da qualche altro modello. Ma l’iconografia nel nostro caso non contraddistingue il gene-
re, poiché il genere è determinato dal soggetto narrativo. Nella Grande chiesa della Dormizione del monastero delle Grotte di Kiev il soggetto narrativo era l’ampia tematica della protezione della Madre di Dio su tutta la Rus’. Pur non facendo parte della leggenda politica legata alla realizzazione architettonica del monastero delle Grotte di Kiev, questa funzione di protezione e patrocinio della Madre di Dio su tutta la Rus’, e non solo su Kiev, rimane determinante91. Così si spiegano le dimensioni grandiose della chiesa, che in alcune parti superano anche le dimensioni della Sofia di Kiev. Così si spiega anche l’aggiunta del battistero, di cappelle e di altri componenti a un edificio già molto grande. Tenderei a spiegare la scelta delle cinque cupole (invece delle molteplici cupole della Sofia) con l’assenza di un progetto di tipo storico (riunificazione delle varie tribù della Rus’), col carattere rigorosamente bizantino della regola del monastero, adottata dal monastero Studita di Costantinopoli, e forse anche col rifiuto di uniformarsi alla metropolia, egemonizzata dai Greci, cioè con un certo senso di opposizione nei loro confronti (vedi sopra). Anche se, come affermava N.I. Brunov, la forma a cinque cupole non era caratteristica di Bisanzio (o meglio di Costantinopoli), tuttavia le associazioni grecizzanti richiamate dalla cattedrale di \ernigov potevano far nascere un senso di avversione per la molteplicità di cupole della Sofia. Bisogna dire che sul piano simbolico le cinque cupole si associavano liberamente all’idea della nobiltà principesca, che dalla seconda metà dell’xi secolo in poi divenne tanto attuale. Comunque sia, la linea tradizionalmente tenuta dal monastero delle Grotte di Kiev per il rafforzamento dell’unità della Rus’ si rispecchiava ottimamente nella forma della cattedrale della Dormizione nella lavra delle Grotte. Né sotto l’aspetto tipologico, né sotto quello stilistico essa poteva costituire un «modello» per la costruzione di cattedrali vescovili nelle diverse eparchie: era troppo grandiosa, «a misura di tutta la Rus’». Una situazione diversa si venne a creare alla fine del xii secolo, ma di questo parleremo a suo tempo. Come abbiamo già notato, molte cattedrali eparchiali del xii secolo erano allo stesso tempo cattedrali-vescovili, principesche e cittadine. Tale complessa funzione era determinata, certamente, non già da particolari principi, ma da necessità concrete. Come la chiesa della Decima, che essendo la prima grande chiesa di Kiev e della Rus’ doveva rispondere alle necessità del metropolita, del principe e della cittadinanza, così in un’analoga posizione si trovarono le cattedrali delle città russe del xii secolo in cui si era costituito un episcopio. Soltanto Gali/ e Vladimir prima della costruzione delle cattedrali vescovili della Dormizione disponevano già di particolari chiese principesche palatine. A poco a poco, come vedremo più avanti, questo tipo di chiese si costruirà (oltre a quelle vescovili) anche in altre città. Ma nello stadio iniziale della vita delle capitali feudali la cattedrale cittadina svolgeva una funzione molteplice, così articolata: celebrazione del ciclo liturgico fisso, partecipazione del principe e della sua famiglia, se non a tutte almeno alle principali ricorrenze religiose, partecipazione di tutti i cittadini alle funzioni. Notiamo che questi non erano dei parrocchiani, poiché le parrocchie in quanto tali forse non esistevano ancora, ma l’intera popolazione cittadina. Come era possibile svolgere nel modo migliore tutte queste funzioni? Poiché il servizio liturgico nella cattedrale eparchiale non era svolto dal metropolita ma da un vescovo, e solo 136
in giorni particolari, mentre nelle feste normali celebrava il parroco della cattedrale e nei giorni feriali dei semplici sacerdoti con pochi concelebranti, disponendo di scarsi mezzi materiali i fondatori limitavano l’opera al minimo livello architettonico. Per una cattedrale vescovile questo livello minimo era una struttura a tre navate, con nartece, tre absidi e una cupola. Le tre navate erano necessarie per sostenere una tribuna. Le tre absidi erano richieste dal complesso svolgimento del servizio liturgico (proscomidia, Piccolo e Grande Ingresso, vestizione e conservazione dei beni della chiesa). Il nartece era necessario per i catecumeni, che nelle terre lontane da Kiev erano molti. Nel nartece di alcune cattedrali veniva sistemato il battistero (Rjazan’). Tale si presentava il «purismo architettonico» sui generis di quell’epoca. Quanto detto non si riferisce solo alle chiese vescovili del xii secolo, ma anche a quelle dei monasteri e cittadine, costruite sia dai principi che dal monastero stesso. Esse non erano le chiese principali – «micrometropolie» dei monasteri «di famiglia», ma nel migliore dei casi chiese votive, come lo è anche la chiesa della Dormizione (Pirogoš/aja) del principe Mstislav Vladimirovi/. Evidentemente a tali costruzioni si ispirarono anche le chiese a sei pilastri e una cupola della seconda metà del xii secolo. Come in ogni processo storico, alle origini del nuovo genere devono esserci state delle forme preparatorie o di transizione. Poiché il genere della cattedrale «territoriale» era costituito da un vasto gruppo di monumenti contenenti reminiscenze del genere statale-metropolitano, è naturale che siano stati ereditati alcuni tratti di quest’ultimo. Inoltre, già nella prima fase di passaggio delle caratteristiche del vecchio genere si verificò una certa «scelta», determinata dalla funzione sociale dell’edificio da costruire. Così c’è motivo di pensare che nelle costruzioni propriamente principesche, lontano dagli occhi del metropolita e persino del vescovo, si siano conservati certi tratti dell’architettura civile, come le torri, che vediamo anche nella chiesa del palazzo di Volkovysk (seconda metà del xii secolo). Con questa medesima circostanza N.N. Voronin spiegava le originali caratteristiche nella forma architettonica della chiesa «Inferiore» di Grodno, costruita dal principe Vsevolod nel proprio palazzo92. Questo rapporto selettivo non soltanto rispetto all’eredità, ma anche alle nuove idee architettoniche, lo ritroveremo costantemente in tutta la storia del genere territoriale-cattedrale, e per questo sarebbe più esatto chiamarlo genere principesco-vescovile o semplicemente cittadino cattedrale. Ma ciò renderebbe impreciso sia il momento funzionale che quello tipologico dell’architettura. Io preferisco parlare, tuttavia, di genere territoriale-cattedrale, con riserve sulla prevalenza, di caso in caso, della funzione principesca su quella vescovile, come già è stato fatto per Volkovysk e Grodno. Nel corso della nostra esposizione bisogna considerare un’altra importante circostanza, che ha esercitato un influsso sulla formazione tipologica dell’architettura russa del xii secolo. L’insediamento di Vsevolod Ol’govi/ sul trono di Kiev nel 1139 segna una svolta nei rapporti con il monastero delle Grotte di Kiev e con la sua linea russa. Vsevolod riesce ad allontanare il monastero dall’orbita di influenza del metropolita ed a trasformarlo in una stauropegia del patriarca. Il monastero torna nuovamente in primo piano e tra i suoi monaci vengono di nuovo scelti i candidati alle cattedre vescovili93. Ma la «tradizione architettonica delle
Grotte» chiaramente non si consolida. Nel 1144 Vsevolod Ol’govi/ costruisce una cattedrale a sei pilastri e una cupola nella residenza del vescovo di Jur’ev, istituita a Kanev. Nel 1146 erige una chiesa uguale nel monastero di San Cirillo a Kiev, la cui costruzione viene portata a termine dalla moglie Marija Ol’govna. L’unione di Vsevolod Ol’govi/ con Andrej di Perejaslav (il futuro Bogoljubskij), ed anche la riconciliazione con Mstislav Izjaslavi/ di Vladimir (in Volynija), cioè la rappacificazione su un terreno non filobizantino, ma chiaramente filorusso, porta all’espansione della «tradizione architettonica territoriale» nelle regioni occidentali e nord-orientali della Rus’. A Occidente il principe Mstislav Izjaslavi/ edifica negli anni 1156-1160 la gigantesca cattedrale della Dormizione a Vladimir in Volynija, e a nord-est una cattedrale non meno grandiosa, anch’essa dedicata alla Dormizione, viene costruita a Rostov Velikij da Andrej Bogoljubskij (1161-1162). Quello che al tempo di Vsevolod Ol’govi/ muoveva i suoi primi passi, ora era confluito in un programma ben elaborato e produceva brillanti risultati. La cattedrale della Dormizione a Vladimir in Volynija fu costruita dal principe Mstislav Izjaslavi/ in circostanze particolari. I rapporti tesi tra i principi di Vladimir in Volynija e la metropolia si inasprirono particolarmente verso la metà del xii secolo, quando Izjaslav ii Mstislavi/ di Kiev si impegnò con tutte le sue forze per far eleggere un metropolita russo: Kliment Smoljati/. Nell’accesa lotta tra il «partito» greco e quello antigreco Izjaslav riuscì quasi a far prevalere il proprio, ma non ricevette la sanzione del patriarca e, probabilmente, data l’atmosfera rovente fuggì a Vladimir «portando con sé anche il metropolita Klim». Dopo la morte del padre, Mstislav Izjaslavi/ cercò nuovamente di far ratificare la nomina di Klim, ma non avendo consolidato la propria posizione a Kiev si ritirò in Volynija. Lo seguì anche Klim Smoljati/. Così a Vladimir in Volynija si crearono le condizioni perché il principe Mstislav Izjaslavi/ progettasse una cattedrale per il metropolita non riconosciuto. Questo spiega, probabilmente, le enormi dimensioni della cattedrale della Dormizione, lunga ben 34,7 m (!). A Kiev comparve in quel periodo il metropolita greco Costantino, per cui non c’era motivo di costruire una chiesa metropolitana a Vladimir, ma tuttavia Mstislav non voleva darsi per vinto e costruì una chiesa del genere vescovile, ma straordinariamente imponente. Ricostruita nel 1900 dall’architetto G.I. Kotov, per la sua superba imponenza la cattedrale della Dormizione a una cupola di Vladimir in Volynija non sfigura anche rispetto alla cattedrale di San Michele a cinque cupole costruita dallo zio Svjatopolk Izjaslavi/, ma l’edificio di Mstislav non aveva più né la torre di scale, né le gallerie laterali, né il battistero, per non parlare poi della decorazione di lastre di ardesia incise, per cui non si può estendere ad essa la definizione di «micrometropolia». È pure interessante notare che, nonostante l’ampio nartece e l’estensione «basilicale» dello spazio diviso in tre navate, la cattedrale della Dormizione non possedeva la navata trasversale supplementare davanti all’altare, come in alcune chiese dell’xi secolo; ciò significa che la funzione metropolitana non era contemplata fino in fondo per questa chiesa. Tutto ciò contribuiva a semplificarne la struttura tipologica, introducendovi un elemento di geometrismo schematico. Ma più avanti vedremo che l’altra faccia della medaglia era l’ingrandimento 137
della plastica sulle facciate, la cui importanza andrà sempre aumentando verso la fine del secolo.
zione kieviana anche per le navate laterali molto strette. A quanto detto va aggiunto che, al posto delle absidi laterali, la chiesa dell’Annunciazione presentava nicchie absidali nello spessore del muro orientale. Gli studiosi identificano in queste particolarità un influsso caucasico (armeno) e persino europeo occidentale, e ciò non è escluso. È indicativo al riguardo il fatto che la chiesa dell’Annunciazione non presentasse una navata trasversale aggiuntiva davanti all’altare, e dunque la presenza di tale elemento nella Sofia di Polock e in alcune altre cattedrali dell’xi secolo non è una caratteristica occidentale, ma bizantina. Ma perché nell’architettura russa occidentale del xii secolo comparvero le nicchie absidali? Le ritroviamo non soltanto nella chiesa di Vitebsk, ma anche nella chiesa del Salvatore nel monastero del Salvatore di Evfrosinija a Polock (metà xii secolo), nella cattedrale del detinec di Polock (xii secolo), nelle chiese di Boris e 86 Gleb e della Parasceve a Bel’/icy (metà xii secolo), in una piccola chiesa di Minsk (prima metà del xii secolo), nella chiesa di Volkovysk (xii secolo), nella cosiddetta chiesa «Inferiore» di Grodno (prima metà del xii secolo), mentre nella seconda metà del xii secolo caratterizzeranno una serie di monumenti di Smolensk. Non bisogna vedere nel dettaglio appena esaminato una particolarità solamente dell’architettura russa occidentale del xii secolo, poiché esso presenta una diffusione assai più ampia (Armenia, Georgia), e nell’architettura russa si incontra già a Kiev (battistero della Sofia e della cattedrale di Berestov). Lo vediamo anche nelle costruzioni erette dagli artigiani di Smolensk a Rjazan’ (cattedrale del Salvatore), Novgorod (chiesa della Parasceve) e nella stessa Kiev (chiesa sulla Discesa dell’Ascensione). La cosa interessante è un’altra. Sebbene molti degli edifici ora elencati siano costruzioni principesche, tuttavia l’inserimento nella costruzione di altari laterali ebbe una notevole diffusione nelle chiese dei monasteri. A.Ja. Jakobson e V.V. Beridze mi ricordavano che questa caratteristica è propria di quei templi antichi – come per esempio le chiese delle comunità nestoriane al confine tra l’Iraq e la Mesopotamia – che si differenziavano ancora poco dalla struttura della casa di abitazione. In altre parole, questa non è una caratteristica cultuale, ma strutturale-architettonica, cioè, in ultima analisi, di origine architettonico-artistica: il desiderio di vedere la facciata orientale anch’essa rettilinea. Aggiungo che né le chiese principesche, né quelle dei monasteri possedevano quelle «forze funzionali assai considerevoli» (A. Golubcov), che avevano le cattedrali cittadine delle capitali. Perciò, costruendo chiese che dovevano accogliere un clero numericamente ridotto, era più facile rinunciare alle absidi laterali semicircolari, che disturbavano indubbiamente la centralizzazione della composizione complessiva tendente verso l’alto – tendenza stilistica dominante nell’architettura del xii secolo. Non bisogna, tuttavia, esagerare l’importanza del motivo in esame. Per il nostro tema esso è solo un fenomeno secondario, in quanto la tipologia dell’architettura russa antica, legata a genere architettonico e funzionalità, si rea lizza a prescindere da esso. Sono assai più interessanti alcune innovazioni dell’architettura russa occidentale del genere territorialecattedrale, come la forma a torre della composizione ottenuta facendo poggiare il tamburo della cupola non direttamente sugli archi di rinforzo, ma su uno speciale elemento
Passiamo ora alla cattedrale di Andrej Bogoljubskij a Rostov, «affratellata tipologicamente» con la chiesa di Vladimir in Volynija. Confrontandola con la cattedrale della Dormizione della città di Vladimir (sulla Kl’jazma, vedi sotto) comprenderemo meglio la differenza tipologica tra la chiesa cattedrale-vescovile e quella che abbiamo chiamato «micrometropolia». La cattedrale della Dormizione di Rostov fu costruita 77 da Andrej Bogoljubskij negli anni 1161-1162, dopo che la grande chiesa in legno preesistente era bruciata in un incendio. Secondo M.D. Priselkov, la cattedra vescovile a Rostov esisteva dal 1077, perciò il principe Andrej non fece che rimpiazzare la chiesa in legno con quella in muratura, ma naturalmente senza alcuna ambizione di renderla metropolitana, poiché intendeva elevare a chiesa metropolitana la cattedrale di Vladimir. Per questo nella cattedrale di Rostov, nonostante le sue dimensioni superiori anche a quelle della chiesa di Vladimir, non si trova alcun segno del genere metropolitano. Era una chiesa a tre navate, una cupola, col tradizionale nartece. Le gigantesche dimensioni dell’edificio, quasi pari alla cattedrale delle Grotte, si possono spiegare come un riflesso indiretto delle pretese di Andrej Bogoljubskij all’indipendenza della chiesa di Rostov-Suzdal’-Vladimir. Come si suol dire, una metropolia è una metropolia e un vescovato è un vescovato. «In ogni caso» anch’essa doveva esprimere le lungimiranti intenzioni del principe. La cattedrale della Dormizione di Rostov, costruita negli anni 1161-1162, era considerata una delle più vicine «imitazioni» della Grande chiesa della Dormizione del monastero delle Grotte, come è testimoniato anche dagli immediati contemporanei. «E nel suo principato il devoto Vladimir, vista la misura di quella divina chiesa delle Grotte, a sua somiglianza fondò una chiesa nella città di Rostov…». Ma qui è stato confuso tutto: sia il nome del costruttore, sia le dimensioni non erano quelle che ho già avuto modo di indicare94. Nel medesimo spirito fu costruita dieci anni dopo la cattedrale della Dormizione a Rjazan’. A quel tempo Rjazan’ dipendeva ancora dal vescovato di \ernigov, ma la sua lontananza dal centro ecclesiale dettava la necessità di stabilire una sede vescovile a Rjazan’, come già a Kanev. Così la cattedrale della Dormizione di Rjazan’ può essere considerata vescovile, a differenza di quella principesca dedicata a Boris e Gleb. La totale distruzione della cattedrale al tempo dell’invasione tataro-mongola nel 1237 non permette di caratterizzarla in modo esauriente, ma non c’è alcun dubbio sulla sua struttura a tre navate, con una cupola e nartece, mentre non era dotata di atrio coperto. Probabilmente anche la chiesa dell’Annunciazione a Vitebsk, barbaramente distrutta nel 1961, era sede vescovile, questa volta del vescovo di Polock. Essa si presentava come un edificio a tre navate e una cupola, assai esteso lungo l’asse longitudinale, con nartece e un’abside semicircolare. Caratteristica particolare di questa chiesa è la disposizione di tre coppie di pilastri che formano due quadrati di uguali dimensioni (sotto la cupola e sul lato ovest), preparando così la possibilità futura di erigere la cupola non sul gruppo orientale di quattro pilastri, ma su quello occidentale. Questa chiesa si discosta dalla tradi138
cosiddetta «chiesa Koložskaja» (la chiesa di Boris e Gleb sul fiume Kolož), della fine del xii secolo. Il paramento in mattoni della facciata è arricchito dall’inserimento di massi levigati di diversi colori, e da inserti di maiolica con varie figure. Le facciate della chiesa di Smolensk alla foce del fiume \urilovka (fine del xii secolo) sono suddivise da contrafforti a fascio a cinque elementi e, agli angoli dell’edificio, anche a quindici (!). È difficile anche chiamarle «modanature a fascio» (sebbene questa sia la loro funzione), tanto i loro elementi sono marcati sotto l’aspetto plastico-lineare. Naturalmente non furono le chiese cattedrali i primi esempi di questa delicata decorazione; essa proveniva dalle chiese principesche del xii secolo che avevano formato un proprio genere principesco palatino. Ma prima di passare a queste ultime è necessario considerare ancora le reminiscenze del genere statale-metropolitano, che nel xii secolo erano abbastanza forti, soprattutto nei principati che avevano una funzione di spicco nella vita politica del secolo: quelli di Gali/ e di Vladimir-Suzdal’.
intermedio – uno zoccolo con quattro terminali, lavorato all’esterno con triplice frontone curvo. Tra i monumenti conservati, questa composizione appare per la prima vol92- ta nella chiesa del Salvatore nel monastero del Salvatore 93 di Evfrosinija a Polock (metà xii secolo). L’impianto della chiesa della principessa Predslava (Evfrosinija) di Polock pare più una costruzione principesca che monastica. Ma anche nel vicino monastero di Bel’/icy, ancora prima della chiesa del Salvatore, la chiesa di Boris e Gleb presentava la medesima composizione e costruzione. Pare addirittura che nemmeno questa fosse la prima, e di conseguenza il punto di partenza delle ricerche sulla nuova espressione architettonica risale ancora più indietro nel tempo. N.N. Voronin riconduce la genesi di tale composizione all’xi secolo (Vyšgorod)95. Per il tema in esame è essenziale il fatto che la sua nascita non è legata a chiese che svolgevano solo le funzioni di cattedrale, ma avevano una destinazione più «complessa». Le chiese di Vyšgorod erano mausolei, quella di Bel’/icy chiesa principesca, quella di Evfrosinija principesca-monastica. Ciò non significa che l’avvento delle nuove composizioni abbia segnato la fine del genere territoriale-cattedrale. Chiese del tipo a sei pilastri, con narteci, una o persino tre cupole, ma senza gallerie e atri coperti, si costruivano anche nella seconda metà del xii e persino all’inizio del xiii secolo: la chiesa di Boris e Gleb nel detinec di Novgorod (1167), costruita dal bojaro Sotko Sytini/, la già menzionata chiesa del monastero di San Giovanni a Pskov (1230) ed altre. È probabile che il laconismo romanicizzante della loro architettura, che consente di parlare di una sorta di «purismo plastico», venisse apprezzato non da un punto di vista semplicemente funzionale, ma anche estetico. Non a caso anche sulla nostra esperta coscienza estetico-architettonica il laconismo del tipo della chiesa novgorodiana di San Giovanni a Opoki produce una forte impressione. Tuttavia, per quanto forte fosse questo linguaggio laconico dell’architettura cattedrale, la vita in costante sviluppo aveva le proprie esigenze. Nella seconda metà del xii secolo non solo le chiese principesche, ma anche alcune chiese di monasteri del genere vescovile-cattedrale divennero più complesse dal punto di vista decorativo-plastico, o con l’introduzione della policromia, o mediante l’accentuazione dell’articolazione della facciata. Un esempio del primo genere sono alcune chiese di Grodno: la già nota chiesa «Inferiore» e specialmente la
Le grandi rivendicazioni storiche del principato di Gali/ si fondavano sulla sua posizione al confine con l’Europa occidentale, sull’unione con Bisanzio e sui «reggimenti di ferro», con i quali il principe Jaroslav Vladimirovi/ Osmomysl («dall’ottuplice pensiero»), figlio di Vladimir Volodarevi/, «apre le porte di Kiev» (Canto della schiera di Igor’). L’epoca in cui regnò Jaroslav – gli anni 1153-1187 – fu il periodo di maggior potenza del principato di Gali/. Ma esso non ebbe una sede vescovile fino all’anno 1157. Non è strano perciò che quando essa venne istituita si impose subito anche la necessità di una chiesa cattedrale. Non c’è motivo di considerare chiesa della corte principesca la cattedrale della Dormizione, di cui ora parleremo, poiché la chiesa principesca era quella 78 del Salvatore, menzionata nelle cronache nell’anno 1152. In base a quanto abbiamo detto, la gigantesca cattedrale della Dormizione, portata alla luce durante gli scavi eseguiti da Ja. Pasternak negli anni 1937-1939, non si può far risalire oltre l’anno 1157. Essa si adeguava perfettamente alla funzione di cattedrale vescovile. Ma non basta. Dalle sue forme emergevano chiaramente alcuni tratti del genere statale-cattedrale. Era una chiesa molto grande (36,7 m di lunghezza), a tre navate, con nartece, gallerie e battistero (?) nell’angolo sud-ovest96, a somiglianza della cattedrale di Eleckij. La presenza del nartece lascia supporre una struttura a sei pilastri. La cattedrale, tuttavia, si ritiene avesse una sola cupola, cosa un po’ strana date le sue enormi dimensioni. Dal punto di vista compositivo rammenta la cattedrale del monastero di San Demetrio del principe Izjaslav a Kiev (vedi sopra). In linea con la tradizione kieviana, la cattedrale presentava una serie di rilievi in pietra bianca sulla facciata97, che contribuivano ad esaltarne l’imponenza. A Gali/ fu collocato come vescovo il greco Cosma. Considerata l’unione di Gali/ con Bisanzio, possiamo supporre che, nel contesto della politica antibizantina di Kiev sotto Izjaslav Mstislavi/, il vescovo di Gali/ godesse di poteri ecclesiastici più ampi, che lo avvicinavano al metropolita di Kiev. Le forme della cattedrale di Gali/ ottemperano alla funzione di chiesa metropolitana. Secondo la tradizione storiografica dovremmo passare all’architettura del principato di Vladimir-Suzdal’, che
72. Pskov, cattedrale di San Giovanni Battista nel monastero di San Giovanni, 1243.
139
verso la metà del xii secolo avanzò decisamente in primo piano nella vita politica della Rus’. Ma gli studi archeologici degli ultimi due decenni hanno dimostrato che tra le reminiscenze del genere statale-cattedrale attorno alla metà del xii secolo il posto principale era occupato da Smolensk. Fino agli anni 1160, quando Andrej Bogoljubskij a Vladimir incominciò a sviluppare la costruzione su grande scala, a Smolensk esisteva già una chiesa tanto 79 grandiosa, a tre navate e con gallerie, come la cattedrale di Boris e Gleb sul fiume Smjadyn’. La cattedrale di Boris e Gleb fu fondata nel 1145, cioè poco dopo la costruzione dell’omonima chiesa di \ernigov, e costituiva un determinato anello in quella catena di iniziative architettoniche per celebrare il culto di Boris e Gleb a cui i principi più in vista ricorsero in occasione delle loro liti famigliari. La sua costruzione (sullo Smjadyn’) è associata al luogo dell’assassinio del principe Gleb, mentre si stava recando da Murom a Kiev. Il costruttore della cattedrale fu il principe Rostislav Mstislavi/ (1127-1159), nipote di Vladimir Monomach, e di conseguenza, custode e devoto al culto del principe Boris, patrono della famiglia Monomach. Negli anni ’30 del xii secolo Rostislav Mstislavi/ dovette darsi non poco da fare per istituire l’eparchia di Smolensk, e nel 1136 vi riuscì. Vescovo di Smolensk fu nominato il greco Manuil. Notiamo che in questo periodo la metropolia esercitava una forte pressione per rimuovere la gerarchia ecclesiastica russa; vennero nominati vescovi greci oltre che a Smolensk, anche a Novgorod, Vladimir in Volynija, Turov. Il monastero delle Grotte di Kiev retrocesse in secondo piano. Intanto vigeva aperta discordia tra Rostislav Mstislavi/ di Smolensk e gli Ol’govi/. Poiché questi ultimi, per dimostrare i propri «diritti dinastici» si basavano sulla principale chiesa-mausoleo di Boris e Gleb, costruita a Vyšgorod dal loro «capostipite», Oleg Svjatoslavi/ (come facevano anche gli Svjatoslavi/-Ol’govi/ di \ernigov), allora a Rostislav di Smolensk, come discendente dei Monomach e come «proprietario» del luogo dell’assassinio del principe Gleb, «spettava» di costruire la «propria» cattedrale di Boris e Gleb. In questa complessa situazione, la nuova chiesa non doveva essere una normale cattedrale vescovile, bensì un tempio di pari importanza delle chiese di Boris e Gleb già esistenti. Con la chiesa-mausoleo di Vyšgorod la cattedrale di Smolensk non poteva nemmeno paragonarsi, ma con quella di \ernigov sì. Anche noi vediamo, effettivamente, che esse hanno molto in comune. Sono entrambe a sei pilastri (con nartece) e una cupola. Entrambe sono circondate da gallerie, e ciò risale alla tradizione antica. E.E. Vorob’eva e A.A. Tic ritengono addirittura che la cattedrale di \ernigov possa essere servita da modello per quella di Smolensk98. Quest’ultima pare non avesse rilievi in pietra bianca. Le sue dimensioni (31,5 m di lunghezza con la galleria) e il suo aspetto complessivo si inscrivono bene in quella serie di monumenti che gravitano attorno al vecchio genere statale-cattedrale. La natura delle reminiscenze del genere statale-metropolitano cattedrale emerge con particolare evidenza dalla storia della cattedrale della Dormizione a Vladimir.
Andrej non riuscì ad ottenere il risultato voluto, la cattedrale della Dormizione a Vladimir (1158-1160) fu co- 90struita chiaramente nell’ottica della metropolia, come si 91 vede non tanto dalle ragguardevoli dimensioni (26,3 m di lunghezza), quanto da certi elementi retrospettivi, come le torri agli angoli ovest, gli atri coperti e un’aula particolare adiacente al muro nord, che N.N. Voronin riteneva essere gli «alloggi vescovili»100, o meglio lo skeuophylàkion, il luogo dove il (presunto) metropolita o il principe indossavano i paramenti per le celebrazioni. Lo skeuophylàkion della Sofia di Costantinopoli si trovava proprio nella medesima posizione. Ci sono anche altri tratti caratteristici che indicano come la cattedrale di Vladimir sia stata intenzionalmente costruita come chiesa metropolitana. Essa superava in altezza la Sofia di Kiev, il numero delle finestre nel tamburo era il medesimo: 12. Infine, come dice N.N. Voronin: «Il fatto stesso che la sussistenza della cattedrale della Dormizione fosse garantita mediante la decima sugli introiti e i possedimenti principeschi era indice del desiderio di ripetere quanto fece Vladimir il “santo” per la prima chiesa della Rus’, la chiesa della Decima»101. Molto di quanto abbiamo detto, e in particolare la sua disposizione, accomuna la cattedrale di Vladimir alla chiesa del Salvatore a Berestov, costruita dal nonno del principe Andrej. Tuttavia, se la chiesa di Berestov si può supporre avesse cinque cupole, la cattedrale di Vladimir segue il corso della «tradizione territoriale» (che, come vedremo più avanti, diverrà predominante nel xii secolo). Bisogna dire in genere che nelle questioni di ordine religioso Andrej Bogoljubskij non seguì le orme del padre, il quale si atteneva all’orientamento bizantino. L’invito di maestri dell’Europa occidentale, l’adozione della pietra bianca come materiale di costruzione, l’introduzione della scultura figurata nella decorazione102, tutto ciò conferiva un nuovo aspetto artistico all’edifico. Ma dal punto di vista strutturale la cattedrale della Dormizione conteneva reminiscenze del grande genere statale-cattedrale. E ciò non era casuale. Dato che la chiesa della Dormizione era una cattedrale vescovile, in essa, come in generale nelle cattedrali del suo genere, la celebrazione liturgica era diversa da quella svolta nelle chiese parrocchiali o monastiche. Prima di tutto era addobbata con sfarzo metropolitano. Ma non basta. Il vecchio ordinamento liturgico usato nelle cattedrali, soprattutto quando erano sede di metropolia, ma anche nelle cattedrali vescovili, era stato adottato da quello in uso nella Sofia di Costantinopoli. «Gli ordinamenti liturgici della Santa Sofia di Costantinopoli erano in vigore e continuavano a funzionare nella pratica liturgica delle nostre chiese cattedrali»103. E ciò significa che anche il principe Andrej, paragonato dagli annalisti a Salomone, partecipava al servizio liturgico come l’imperatore bizantino. Ma la sostanza della questione non sta certo nell’orientamento verso Bisanzio, bensì nel cerimoniale, il quale aveva una tendenza di tipo concreto-storico: l’affermazione dell’indipendenza della chiesa di tutta la Rus’ nordorientale (ed anche più in là). Risulta così pienamente giustificata dal punto di vista funzionale la «pendenza» verso il genere statale cattedrale assunta dall’architettura della cattedrale della Dormizione a Vladimir. Riportiamo il giudizio di un esperto come A. Golubcov: «Avendo preso il posto della Santa Sofia di Kiev, essa (la cattedrale della Dormizione – G.V.) era un tempio più che confacente alla metropolia russa e alla capitale del gran principe…»104.
Come è noto, Andrej Bogoljubskij si adoperò con tutte le sue forze per ottenere dal patriarca l’istituzione di una metropolia autonoma a Vladimir. «Voglio infatti rendere questa città nuovamente metropolia, affinché questa città sia un grande principato a capo di tutti»99. Anche se 140
Vedremo più avanti come, col tempo, la funzione metropolitana della cattedrale della Dormizione si facesse sempre più ampia.
tra bianca squadrata, ma nella sua cattedrale è impiegata in parte anche un’opera in pietra bianca, che distingue il lavoro degli artigiani di Rjazan’ da quelli di \ernigov. I rilievi in pietra bianca impiegati sulla facciata della cattedrale di Rjazan’ sono anch’essi molto diversi dalle incisioni della cattedrale di \ernigov. Essi sono lontani anche da quelli di Vladimir, costituendo una variante locale di una decorazione che (per materiale impiegato) è comune a Gali/, \ernigov, Vladimir-Suzdal’ e Rjazan’105.
Le reminiscenze del genere statale-cattedrale nell’architettura della metà del xii secolo non erano privilegio solo dei principati più importanti. Tendenze analoghe si manifestarono a seconda delle necessità anche in quei principati che erano costretti far valere davanti agli altri la propria illusoria indipendenza. Nel xii secolo Rjazan’ dovette battersi per la propria «sovranità» con il principato di Vladimir-Suzdal’ da cui era stata occupata. Dopo numerosi scontri il principe di Rjazan’ entrò con le armi a Vladimir e portò con sé a Rjazan’ l’icona della Madre di Dio venerata dalla popolazione di Vladimir. Prima di sottomettersi definitivamente a Vladimir e morire in prigionia, il principe Gleb (1155-1177) fece in tempo a costrui re a Rjazan’ una cattedrale dedicata al suo santo protettore, quasi una copia della cattedrale della Dormizione nel monastero Eleckij (vedi sopra). Come quest’ultima, essa aveva tre atri coperti e il battistero nel nartece. I dati a nostra disposizione non ci consentono finora di supporre che la chiesa avesse tre cupole (sebbene non sia escluso, il problema resta comunque aperto). Le sue grandi dimensioni (30,8 m di lunghezza senza l’atrio) collocano questa chiesa non solo accanto a quella di Eleckij, ma anche di quelle di Vydubicy e di San Michele. Come è noto, dal punto di vista ecclesiastico Rjazan’ era legata a \ernigov, ma è sufficiente questo legame a spiegare la somiglianza della chiesa di Rjazan’ con quella di \ernigov? Per Rjazan’ era più importante dimostrare la propria «uguaglianza» con Vladimir, propugnare questa uguaglianza, per quanto illusoria. In queste circostanze il riferimento al culto di Boris e Gleb era quanto mai efficace, in quanto la memoria di Gleb era particolarmente venerata a Rjazan’, distaccatasi da Murom. Gleb era principe di Murom (o meglio, lo era nominalmente). Questa grande cattedrale con atri coperti poteva pretendere di paragonarsi con la cattedrale della Dormizione di Andrej Bogoljubskij. La costruzione del principe Gleb sorge negli anni 1160, quando era già stata costruita la cattedrale di Vladimir. Il principe di Rjazan’ non poteva permettersi un lusso architettonico come quello di costruire una chiesa in pie-
Dal punto di vista della formazione stilistica, le reminiscenze del genere architettonico statale-cattedrale della «seconda redazione» (metà xii secolo) si differenziavano dalla «prima redazione» (inizio xii secolo) per il fatto che esse incominciavano a svolgere una funzione più attiva. Ciò si manifestò prima di tutto in una saturazione delle loro caratteristiche nello sviluppo successivo. Eppure, per quanto fossero monumentalizzati i grandi volumi delle cattedrali-«micrometropolie» con la loro serie di arcate cieche (zakomary), gallerie, atri coperti e sporadicamente anche torri, cupole e, infine, con la plastica in pietra bianca introdotta nella decorazione delle facciate, tuttavia non erano queste caratteristiche architettoniche a determinare lo sviluppo e a conferire ai monumenti un gusto moderno. Lo sviluppo venne col graduale trasferimento dell’accento architettonico dalla copertura orizzontale a blocchi dell’edificio (resti dello storicismo del genere antecedente) a una dinamica plastica verticale-centralizzata, pur mantenendo in pieno la tradizionale struttura a croce e cupola dell’edificio. Ciò si ottenne in parte con il semplice aumento dell’altezza complessiva del četverik (componente architettonica a forma di quadrilatero). Così, l’altezza della cattedrale della Dormizione a Vladimir sul fiume Kljaz’ma, pari a 32,3 m (fino alla cupola), supera di 4 m l’altezza della Sofia di Kiev. Aumentando così l’altezza della composizione e diminuendo le proporzioni degli atri coperti, come fu per la cattedrale della Dormizione di Vladimir negli anni 1158-1160, le associazioni bizantine si indebolivano, e nell’immagine della cattedrale appariva qualcosa di nuovo. Questa novità si può attribuire anche al manifestarsi del gusto nazionale, educato alle composizioni in legno del tipo «a torre», e, come vedremo poi, anche in seguito a influenze romaniche. Una prova della
73. Pianta di Vladimir nei secolo xii-xiii: I. la «città di Monomach» – II. la «città antica», fortificazioni degli anni 1158-1164 – III. la «città nuova», fortificazioni degli anni 1158-1164 – IV. detinec. 1. chiesa del Salvatore – 2. chiesa di San Giorgio – 3. cattedrale della Dormizione – 4. Porte d’oro – 5. Porte di Sant’Irina – 6. Porte di bronzo – 7. Porte d’argento – 8. Porte del Volga – 9. cattedrale di San Demetrio – 10. monastero dell’Ascensione – 11. monastero della Natività – 12. monastero della Dormizione «della principessa» – 13. Porte dei mercanti – 14. Porte di San Giovanni – 15. Porte del detinec – 16. chiesa dell’Esaltazione della croce sul Mercato.
141
comporre un’ode in onore dell’Universo107, ma in questo universo non esisteva contrapposizione tra la legge (il passato) e la grazia (il presente), non c’erano i popoli di tutto il mondo e la loro storia. In sostanza, non c’era nemmeno la storia contemporanea. Lo storicismo viene sostituito dal rappresentativismo, in cui si osservano sempre più chiaramente motivi personali. Dopo l’inno alle «opere prodigiose» del creatore del Mondo: cielo e terra, bestie selvatiche e uccelli, Vladimir Monomach nel suo famoso Insegnamento si dedica con tutta l’anima ad esporre il concetto della precarietà umana. Le sue parole sulla vanità della vita suonano come l’Ecclesiaste di Salomone. La cosiddetta «cappella Letskaja» di Monomach (la chiesa di Boris e Gleb sul fiume Al’ta) è descritta piuttosto come una cappella privata che non come una normale chiesa. Non a caso l’annalista le riserva affettuosi epiteti come «cara chiesa», «bellissima»108 e non il consueto «maestosa come non ce n’è altre nella Rus’». In realtà anche in questo periodo si costruiscono chiese grandiose. Ma il nocciolo della problematica tipologica è appunto questo: per funzioni diverse vengono costruite chiese diverse. La chiesa principesca palatina, come vedremo, era addirittura di più che «il cielo sulla terra», essa era «il cielo nell’uomo», come proclamava già Massimo il Confessore (vedi capitolo 1), un concetto vicino solo a gente come Nikolaj Svjatoša. Proprio a lui, tra l’altro, è attribuita la costruzione di una delle prime chiese a quattro pilastri nella Rus’, la chiesa della Trinità sulla porta nel monastero delle Grotte di Kiev (1108), presso le cui porte si trovava Nikolaj Svjatoša (il principe Svjatoslav Davidovi/, figlio di David di \ernigov). E tutto ciò non costituiva affatto un’eccezione. La vita si faceva più complicata nell’inquieto mondo medioevale. A Bisanzio questa era l’epoca in cui si costruivano chiese private o di famiglia. «Quelle piccole chiese, chiuse tra robuste mura, rispondevano perfettamente alla propria destinazione»109. Proprio questa architettura regolamentata, e per di più del tutto accessibile dal punto di vista materiale e tecnologico, conquistò il gusto dei sovrani delle numerose «corti principesche» dell’antica Rus’, e riempì di sé l’intero xii secolo. Inoltre, nel genere architettonico principesco palatino del xii secolo si possono individuare tre diversi tipi o sottogeneri: ordinario, non ordinario e straordinario. Nel sottogenere ordinario rientrano le chiese a quattro pilastri senza nartece né atri coperti. In quello non ordinario, le chiese a quattro pilastri con atri coperti (a volte torri) ed anche gallerie (paperti). In quello straordinario, le chiese a pianta rotonda, a triconco e a tetraconco (a quadrifoglio). Tali monumenti sono distribuiti nel tempo in rapporto alla loro crescente complessità. Dobbiamo di nuovo rimpiangere di non sapere nulla sulle caratteristiche della più antica chiesa di Kiev, quella del profeta Elia. Dato che gli Slavi pagani avevano già dei templi quadrati con pianta a quattro pilastri (ad esempio ad Arkona), possiamo osare supporre che tale fosse anche la chiesa del profeta Elia, il cui appellativo di sobor non significava che essa non fosse una chiesa principesca. Nell’antica Kiev, quando ancora non esisteva la chiesa della Decima, anche una chiesa principesca a quattro pilastri poteva presentarsi come sobor. Forse un giorno gli archeologi ne troveranno i resti. Non parleremo della chiesa di San Basilio, attribuita al principe Vladimir Svjatoslavi/, poiché questa leggenda è stata completamente
realtà della tendenza stilistica ora osservata è il fatto che i medesimi tratti caratterizzano anche lo sviluppo del genere «classico» dell’architettura russa del xii secolo, costituito non da costruzioni di corte, ma da edifici del tipo «territoriale-cattedrale». La tradizione stilistica, se osservata solo a livello empirico, offre ben poco alla ricerca artistica teorica. Perciò i tratti caratteristici del progresso stilistico rilevato nell’architettura russa attorno alla metà del xii secolo necessitano di una definizione terminologica. Propongo di definire questa tendenza come il passaggio dallo stile dello «storicismo monumentale» bizantineggiante (D.S. Licha/ëv) a uno stile romanicizzante rappresentativo. Questa stessa rappresentatività si manifestò nel xii secolo in alcune forme di sottogenere, che saranno anch’esse esaminate in seguito. Il genere architettonico principesco palatino nell’antica Rus’ annoverava chiese a quattro pilastri, prevalentemente a una sola cupola con croce inscritta e senza narteci. Sono considerati un attributo di questo tipo architettonico anche i cori (nella parte ovest), ma abbiamo già avuto occasione di notare che i cori erano destinati non tanto al principe, quanto ai suoi famigliari e in generale alla parte femminile dell’aristocrazia feudale. A rigor di termini le chiese del genere principesco palatino non si potevano dire cattedrali (sobor); erano piuttosto come delle chiese domestiche di famiglia, anche se con l’andar del tempo le chiese domestiche si differenziarono in un genere a sé. Abbiamo altresì notato che le chiese principesche potevano essere (e in molti casi erano realmente) di tipo cattedrale. Il genere principesco palatino raccoglie soprattutto chiese che svolgono questa funzione, ma che non erano state commissionate come tali. Potevano sorgere anche fuori della corte principesca, ma assai spesso erano unite al palazzo principesco mediante appositi passaggi, come la chiesa del Salvatore a Gali/. Dalle caratteristiche tipologiche si nota che le chiese del genere da noi osservato non erano destinate a celebrazioni presiedute dal metropolita, cittadine o territoriali (eparchiali), che vi si svolgevano soltanto in casi particolari (la festa patronale, l’onomastico del principe e così via). La chiesa principesca non aveva bisogno di nartece (che era invece indispensabile per le chiese dei monasteri), e nemmeno di un santuario molto ampio. La struttura a una cupola, come abbiamo già visto, rispondeva perfettamente all’idea della sovranità del principe. Così, evidentemente, la chiesa cubica, a una cupola con croce inscritta e quattro pilastri, svolgeva ottimamente la propria funzione. Ma i nostri studi non hanno ancora determinato in cosa consistesse essenzialmente questa funzione! N.I. Brunov scriveva che il prototipo bizantino di questo tipo di chiesa si era formato «sulla base di un edificio di utilità primaria»106. Se per utilità primaria di un edificio intendiamo i momenti sopra elencati, allora le cose stanno così. Ma non è ancora abbastanza. L’edificio era destinato a svolgere non solo una funzione utilitaristica, ma anche una ideale, o meglio ideale-formale. E qui ritorniamo al tema fondamentale del medioevo: il tempio come immagine del Mondo. La chiesa principesca palatina era ancora immagine del Mondo, ma rappresentava una concezione un po’ diversa del Mondo, non tanto impersonale come al tempo di Jaroslav e Ilarion. Vladimir Monomach poteva ancora 142
(figlio di Vsevolod di Polock) fondò una piccola chiesa dello stesso tipo, datata al primo ventennio del xii secolo. Tali costruzioni non erano naturalmente programmatiche, potevano sorgere in momenti e circostanze diverse, come per esempio la «piccola chiesa» di Belgorod presso Kiev (fine del xii secolo), senza perdere il loro carattere principesco. Naturalmente, presso le corti dei principi di Gali/, Vladimir-Suzdal’ e Smolensk sorsero composizioni architettoniche assai più monumentali. Già nella prima metà del xii secolo l’antica Gali/ crebbe fino a diventare un importante centro feudale, come abbiamo già illustrato in precedenza. Ancora prima di Jaroslav Osmomysl, essa incominciò a svolgere una funzione di rilievo nella vita politica della Rus’ di Kiev. Avvalendosi anche della vicinanza con l’Ungheria e la Polonia, dove l’architettura monumentale si era sviluppata prima, a Gali/ il principe Volodar’ diede impulso alla costruzione in pietra bianca. Di questa sono rimasti solo alcuni resti archeologici, tuttavia molto significativi. Grazie agli studi di architettura ed archeologia svolti in questi ultimi anni si è stabilito che, oltre alla chiesa palatina del Salvatore (1151-1152), nel territorio di Galizia esisteva nella prima metà del xii secolo anche la chiesa di San Giovanni a Peremyšl, sempre dello stesso tipo o genere112. In seguito agli stretti rapporti tra il principato di Galizia e quello di Vladimir-Suzdal’, al tempo di Jurij Dolgorukij a Vladimir e in altre città videro la luce delle chiese principesche uguali a quella di Gali/, a quattro pilastri e una cupola. Ma questo è vero solo se ci riferiamo alle costruzioni in pietra bianca, poiché qui esisteva già fin dal 1110 la chiesa palatina di Vladimir Monomach in mattoni (cioè in plinto). Dopo Vladimir Monomach, Jurij Dolgorukij costruisce nei suoi possedimenti quattro (?) chiese in pietra bianca del genere ora esaminato: due dedicate a San Giorgio (a Vladimir e Jur’ev-Pol’skoj), una iv/1; a Boris e Gleb (a Kidekya), e una al Salvatore della Tra- 85, sfigurazione (a Pereslavl’-Zalesskij), tutte presso la corte 94principesca. 95 Tra le chiese conservate fino a noi, le più note sono quella del Salvatore a Pereslavl’-Zalesskij e quella di Boris e Gleb nella residenza principesca di Kidekša, che risalgono entrambe al 1152. La chiesa del Salvatore a Pereslavl’-Zalesskij è chiamata sobor fin dai tempi antichi, ma il motivo è tuttora ignoto. Forse perché nel xii secolo era l’unica chiesa della città, e si trovava entro l’anello dei terrapieni, cioè al centro del principato. Si ritiene che accanto alla chiesa vi fosse anche il palazzo del principe, collegato attraverso dei passaggi ai cori della chiesa, cosa del tutto probabile, stando all’esempio galiziano. La stessa cosa si può dire anche di Kidekša. La tradizione iniziata dal padre, fu brillantemente perpetuata da Andrej Bogoljubskij, che diede vita subito ad alcuni sottogeneri. La sua chiesa del Salvatore nella nuova «corte principesca» (presso le Porte d’oro) si differenziava solo lievemente dalle costruzioni paterne, perciò non ci soffermeremo su di essa. Le altre chiese palatine, che passeremo presto ad esaminare, quella di Bogoljubovo e quella sul fiume Nerl’, si distaccano già dal gruppo ordinario. Si possono considerare con certezza monumenti principeschi del genere architettonico principesco palatino della seconda metà del xii secolo (gruppo ordinario): la chiesa nel vicolo Perekopskij a Smolensk (principe Rostislav di Smolensk, metà xii secolo), San Basilio sul fiume Šmjadyn’ a Smolensk (principe David Rostislavi/, 1191 circa),
sfatata110. Come prima chiesa principesca del tipo ordinario nella storia dell’architettura anticorussa non possiamo identificare nemmeno la chiesa della Madre di Dio a Tmutarakan’, costruita nel 1022 dal principe Mstislav Vladimirovi/. Ora lo si può affermare con sicurezza dopo gli scavi di B.A. Rybakov, dai quali è emerso chiaramente che la chiesa di Mstislav presentava una composizione a croce e cupola, sebbene su quattro colonne (per di più senza gallerie ed atri coperti), ma con nartece111. Ma con una certa soluzione che prevede dei passaggi nel nartece, la chiesa può essere considerata a sei pilastri. Ricordo che, indipendentemente dal tipo a cui apparteneva, la prima chiesa costruita in un posto o in un altro, come prima e per il momento anche unica chiesa (in quel determinato posto), svolgeva una funzione comune, era cioè sia principesca che cittadina, e se era costruita nel centro amministrativo del principato era anche vescovile (cattedrale). Comunque sappiamo ben poco delle cattedrali a quattro pilastri dell’epoca della Rus’ di Kiev, ad eccezione della Dormizione di Gali/, la cui struttura a sei pilastri è piuttosto dubbia, poiché i resti delle sue fondamenta sono mal conservati, tanto che alcuni studiosi ritengono addirittura che avesse solo quattro pilastri. Ma, come abbiamo detto, all’inizio dell’architettura di stile monumentale emergeva una complessità funzionale, mentre la suddivisione tipologica intervenne solo più tardi. I bizantinismi indubbiamente presenti nell’architettura della chiesa di Tmutarakan’ (colonne in marmo), ed anche l’affinità strutturale con la chiesa di San Giovanni Battista (x secolo) a Ker/’ mostrano chiaramente la provenienza di tale composizione. È indicativo che, con la conquista di \ernigov (1024), Mstislav non riprodusse le forme della chiesa di Tmutarakan’, ma si accinse subito a costruire una grande chiesa cattedrale-vescovile, i cui maestri potevano essere stati scelti tra gli architetti bizantini di Tmutarakan’. Probabilmente Mstislav non fece in tempo a costruire una chiesa principesca palatina appositamente per sé, poiché morì di morte improvvisa nel 1036. Dopo di ciò, come sappiamo, tra i figli di Jaroslav il Saggio divampò la lotta per il trono, nella quale essi utilizzarono forme architettoniche con reminiscenze del genere statale-cattedrale. Lo stesso fecero i principi più influenti delle altre terre, compresa Novgorod Velikij. La necessità di una chiesa principesca palatina venne per un po’ soddisfatta con la costruzione di piccole chiesine-cappelle, come per esempio la chiesa nel detinec di Smolensk. Ma a questo genere (chiamato «minore» o domestico) non corrispondeva affatto una linea di sviluppo storico. Tale linea doveva essere costituita da uno speciale genere principesco palatino. Un certo rallentamento nel suo processo di formazione va spiegato soprattutto con la concentrazione dei principali sforzi costruttivi sulle chiese «di famiglia» e sulle cattedrali vescovili, di cui sarebbe stato difficile fare a meno nella complessa situazione storica del tempo. Man mano che un principe usciva vincitore dall’intricata «battaglia genealogica», questi rafforzava immediatamente la propria posizione costruendo una chiesa particolare presso la propria corte. È curioso, tuttavia, come le più antiche costruzioni di questo genere a noi note non appartengano alle «corti principesche» di Kiev, Gali/ o Smolensk, ma a quella di Vladimir, fondata solo nel 1108, e alla piccola Minsk. Negli anni 1108-1110 Vladimir Monomach costruì a Vladimir la chiesa del Salvatore, una piccola chiesa a quattro pilastri nella corte principesca, e a Minsk il principe Gleb 143
Tavole a colori IV
1. Suzdal’, chiesa di Boris e Gleb a Kidekša, 1152.
4. Novgorod, chiesa della Natività della Madre di Dio a Peryn’, inizio xiii secolo. 5. Vladimir, chiesa della Protezione della Madre di Dio sul fiume Nerl’.
1
2
3
2. Staraja Ladoga, chiesa di San Giorgio, 1167. 3. \ernigov, chiesa della Parasceve, restaurata da P. Baranovskij.
6. Vladimir, Bogoljubovo, chiesa della Natività della Vergine. 7. Jur’ev-Pol’skoj, cattedrale di San Giorgio, veduta dal lato nord-occidentale.
4
5
6
7
8. Suzdal’, cattedrale della Natività della Madre di Dio, veduta di insieme. 8
144
verso la fine del secolo si evolve in una qualità artistica. Ma passiamo ora al gruppo fondamentale dei monumenti del genere principesco palatino del xii secolo, la cui costruzione risale alla seconda metà, alla fine del xii e persino all’inizio del xiii. Si potrebbe pensare che, dopo la comparsa di accentuate lesene con semicolonne nella chiesa nel vicolo Perekopskij a Smolensk (metà del xii secolo), le nuove composizioni sviluppate in altezza avrebbero avuto una rapida crescita. Ed effettivamente così è stato, ma nell’altro gruppo di monumenti, quello non ordinario, che passeremo presto ad esaminare. Nel gruppo in esame, fino agli ultimi anni del xii secolo erano tenute ancora in considerazione quelle chiese, divenute quasi canoniche, di forma cubica, a quattro pilastri e una cupola, che si distinguevano per la loro particolare stabilità. E la cosa più sorprendente è che esse godevano di maggior favore proprio negli ambienti principeschi. Abbiamo qui al primo posto la famosa chiesa del Salvatore sulla Neredica, costruita dal principe Jaroslav Vladimirovi/ di Novgorod (nipote di Mstislav il Grande) nel 1198. Questa fu l’ultima chiesa di Novgorod costruita su incarico dei principi. Come poté venir fuori allora una forma così tradizionale, quando mancavano non più di setteotto anni alla nascita della composizione a torre rappresentata dalla chiesa della Parasceve? Anche qui non si può rispondere all’interrogativo senza tener conto dell’aspetto sociologico, che fino a un certo punto si può considerare anche funzionale. Il principe Jaroslav Vladimirovi/ (cognato del principe Vsevolod iii) regnò per l’ultima volta a Novgorod nel 1197, perciò la fondazione della chiesa del Salvatore sulla Neredica può essere considerata come un segno della sua ratifica. Per il cognato di Vsevolod iii doveva essere più che conveniente introdurre una nuova usanza architettonica, sia pure con la forma della chiesa di Rostislav a Smolensk. Ma Novgorod era in lotta con
75 il Salvatore sulla Neredica a Novgorod (principe Jaroslav
Vladimirovi/, 1198), San Basilio sulla Discesa dell’Ascensione a Kiev (principe Rjurik Rostislavi/, fine xii-inizio xiii secolo), San Pantelejmon a Gali/ (principe Roman Mstislavi/ (?), 1200 circa), la chiesa di Cholm (principe Daniil Galickij, inizio xiii secolo). Le due chiese della Parasceve, quella famosa di \ernigov (a cavallo tra xii e xiii secolo) e quella di Smolensk (inizio xiii secolo), a giudicare dalla dedicazione e dalla posizione, dovevano essere state costruite da mercanti, mentre le chiese novgorodiane dell’Annunciazione ad Arkaži (1179) e di Pietro e Paolo sul colle Sini/’ia (1185) sono attribuite a bojari-mercanti. Tra le costruzioni monastiche emergono solo la chiesa del monastero di San Cirillo a Novgorod (1196) e la chiesa in via della Grande Flotta Rossa a Smolensk (fine del xii secolo). L’esatta collocazione della chiesa di Smolensk resta comunque incerta. A questo elenco (ovviamente incompleto) vanno aggiunte le due chiese ancora esistenti a Staraja Ladoga (San Giorgio – 1167, e Dormizione – 1153) e tre rinvenute in seguito a scavi, oltre alla elegante chiesa dello skit (eremo) di Peryn’, nei pressi di Novgorod (a cavallo tra xii e xiii secolo), nelle cui forme è visibile il passaggio a un genere più popolare-rionale. Pur appartenendo tipologicamente al medesimo sottogenere (ordinario), tutti questi monumenti non rientrano certamente in un unico stile. Più precisamente, essi formano una certa evoluzione stilistica, di cui si può parlare con sufficiente precisione, sebbene di molte costruzioni siano rimaste soltanto le fondamenta. È assai indicativo in questo senso che alla base della evoluzione architettonica si collochi non tanto l’epoca di costruzione del monumento, quanto la sua valenza sociologica. Il monumento più antico del gruppo da noi esaminato (seconda metà del xii secolo) è la chiesa del principe Rostislav nel vicolo Perekopskij a Smolensk (metà del xii secolo). Intanto questo monumento contiene già nelle fondamenta alcune particolarità che fanno supporre una notevole altezza della composizione (semicolonne molto massicce sulle lesene della facciata)113. Al contrario, le 111 chiese novgorodiane dell’Annunciazione ad Arkaži e di Pietro e Paolo sul colle Sini/’ia, costruite 30-35 anni dopo (e forse anche di più), con i loro volumi inerti e l’austerità delle facciate, sono espressione dell’estetica oltremodo statica dei bojari-mercanti. E non c’è nulla di strano, se si tiene conto che la fine del xii secolo vide rinnovarsi a Novgorod la lotta dei bojari contro il principato114. Non si può trascurare, del resto, una particolarità molto importante delle chiese dei bojari-mercanti, e cioè la costruzione al loro interno di piccoli locali chiusi, cappelle, che rendevano più raccolto l’interno e preparavano funzionalmente il genere della chiesa rionale. Sulla nascita delle chiese monastiche del xii secolo, San Cirillo a Novgorod e quella in via della Grande Flotta Rossa a Smolensk, si sa troppo poco per potersi esprimere al riguardo. Dell’architettura monastica del tempo (metà del xii secolo) si può dire comunque che essa non si atteneva così rigidamente alla tradizione. Monumenti tanto origiv/1; nali, come la chiesa del monastero sulla Miroža a Pskov 74 (metà xii secolo) e la vicina chiesa di San Clemente a Staraja Ladoga (metà xii secolo) con i suoi volumi cruciformi (nelle parti superiori), indipendentemente dall’origine di tali caratteristiche, indicano la ricerca di una composizione più centripeta. Nei monumenti della metà del secolo ciò era ancora legato anche alla simbologia cristiana, ma 152
74. Pskov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione nel monastero di Salvatore sulla Miroža, sezione trasversale.
153
riuscì tuttavia ad introdursi anche a Novgorod, che restava rigidamente fedele alla vecchia tradizione. La piccola chiesa a quattro pilastri e una cupola nello skit di Peryn’ (a sud iv/4 della città) ha delle proporzioni segnatamente verticali, e le facciate terminano in frontoni curvi a tre lesene. Sono assenti articolazioni verticali. Non si conosce il nome del committente della chiesa, ma la sua nascita in uno skit fa pensare ad una costruzione ad uso monastico. La cosa più interessante è però che da questo monumento prende il via un nuovo genere, che potremmo chiamare rionale. Sarebbe naturalmente assai strano se la tendenza allo sviluppo verso l’alto di tutta la composizione, già nella forma ordinaria (in assenza di atri coperti), non si riscontrasse nel genere principesco palatino dell’architettura galiziana e di Volynija. L’architettura di questa parte occidentale della Rus’ di Kiev era un focolare di influenze romaniche, e lo stile romanico, come è noto, è pervaso dall’«idea della torre». Gli studi sulla chiesa di San Pantelejmon a Gali/ (del 1200 circa) hanno di- 83 mostrato che questo monumento, da tempo ben noto alla letteratura sulla storia dell’arte anticorussa, è significativo non tanto per la sua decorazione a rilievo sulla facciata, quanto per la complessa forma a gradoni dei pilastri a sostegno delle cupole, cui corrispondevano lesene interne dalla stessa forma. Questa caratteristica di chiara provenienza europea occidentale è stata definita «la comparsa di nuove costruzioni gotiche»115. L’architetto della chiesa di San Pantelejmon risolse così il problema di costruire una chiesa a forma di torre con mezzi del tutto diversi, rispetto a quelli impiegati nelle terre dell’antica Rus’, sulla base della «costruzione gotica». O.M. Ioannisjan ritiene che il maestro della chiesa di
Rostislav e la sua famiglia. Jaroslav non era assolutamente in grado di tenere il passo con l’architettura di Vladimir. Nella situazione estremamente complessa e intricata della lotta tra i raggruppamenti bojari novgorodiani era certo molto più prudente attenersi al vecchio uso novgorodiano, come per riparare la propria colpa nei confronti degli abitanti («perché hanno compiuto molte iniquità nelle terre novgorodiane»), e per questo il principe Jaroslav fu anche allontanato da Novgorod dallo stesso Vsevolod iii. Dopo esservi tornato, ne fu cacciato una seconda volta nel 1196. Perciò la data del suo terzo ritorno, il 1197 appunto, doveva essere per lui assai memorabile. Del resto, appena gettate le fondamenta della chiesa, Jaroslav dovette abbandonare ancora Novgorod. Ma ciò che per Jaroslav Vladimirovi/ fu così difficoltoso, ebbe un brillante sviluppo a Smolensk, presso la famiglia avversaria dei Rostislavi/. Qui nacquero una dopo l’altra chiese principesche palatine del tipo sviluppato in altezza, appartenenti a tutti e tre i tipi: ordinario, non ordinario e anche straordinario. David, uno dei Rostislavi/, costruì nel 1191 la chiesa di San Basilio sul fiume Šmjadyn’, naturalmente a quattro pilastri, una cupola, ma con delle semicolonne così possenti sulle lesene della facciata, che, data la mancanza di lesene interne, fanno pensare a una composizione a forma di torre originariamente sviluppata verso l’alto, magari con facciate culminanti in frontoni curvi a tre lesene. Ciò ravvicinava la chiesa di San Basilio alla famosa chiesa di Svirskaja, costruita dallo stesso principe alcuni anni più tardi. All’impresa architettonica di David Rostislavi/ si affrettò a rispondere il fratello Rjurik di Kiev. La chiesa da lui costruita nel 1197 a Kiev, nella sua «Nuova corte», riproduceva quasi interamente le forme di quella di Smolensk, ma in proporzioni un po’ inferiori. Anch’essa era dedicata a San Basilio. Gli studiosi ritengono che le forme della chiesa di Kiev risentano dell’influenza della scuola di Smolensk, e forse anche il capo dei maestri costruttori veniva da Smolensk. La chiesa fu costruita da una brigata (artel’) di costruttori locali, non molto esperti, infatti l’edificio non è di grande qualità. L’influsso artistico dell’architettura smolenskiana principesca palatina del xii secolo fu così intenso da riflettersi anche sulle opere architettoniche non commissionate da un principe. Ne è un esempio la chiesa iv/3; della Parasceve a \ernigov, nella magnificenza delle sue 100- audaci forme slanciate, coperta da una sola cupola che 101 poggia su tre ordini di archi ciechi lievemente a cuspide, decrescenti verso l’alto, cui corrispondono all’interno degli archi a gradoni. La paternità di questa eccezionale costruzione è attribuita al famoso architetto kieviano Petr Miloneg, amico del principe Rjurik Rostislavi/. Se è così, c’è motivo di pensare che lo stesso gran principe di Kiev abbia partecipato alla costruzione della chiesa della Parasceve. Del resto il principe di Novgorod costruiva per i mercanti novgorodiani! La chiesa della Parasceve a Smolensk, sul «Piccolo Mercato», non era un monumento così grandioso, ma in essa si scorgono vari sintomi di novità. L’atrio coperto occidentale equilibrava l’unica abside fortemente aggettante. Non è escluso che questa chiesa avesse anche degli atri coperti laterali, e in questo caso passerebbe dalla categoria ordinaria a quella non ordinaria (vedi sotto). Alla fine del xii secolo una nuova corrente nel gruppo ordinario dei monumenti del genere principesco palatino
75. Novgorod, chiesa del Salvatore della Trasfigurazione sulla Neredica, 1198, veduta dal lato sud-orientale.
154
San Pantelejmon provenisse dall’ambiente dell’architettura cistercense116. Una composizione simile, ma in una versione semplificata, viene riprodotta nella chiesa in pietra bianca di Vasilevo, le cui vestigia sono state rinvenute grazie agli scavi di B.A. Timoš/uk e G.N. Loginov. Il monumento è stato datato a un’epoca posteriore al 1200, ma anteriore al 1230. Più vicina alla chiesa di San Pantelejmon era la chiesa di San Giovanni Crisostomo nella città di Cholm, che presentava decorazioni plastiche non solo ornamentali, ma anche dalla tematica antropomorfa (in particolare capitelli a forma di nudi umani). I costruttori dei monumenti di Gali/-Volynija che abbiamo menzionato possono essere sia il principe Roman Mstislavi/ (che morì nel 1205), sia suo figlio Daniil (morto nel 1266): entrambi lasciarono una viva impronta nella storia del loro tempo. Senza pretendere di aver esaurito la serie di monumenti principeschi palatini del sottogenere ordinario del xii secolo, passiamo ora al sottogenere non ordinario. Esso è certamente molto più ricco di varianti, e di varianti tanto individuali che si potrebbero considerare addirittura come «sottogeneri». La caratteristica che rende non ordinario questo sottogenere di costruzioni principesche palatine consiste nell’articolazione del consueto nucleo della chiesa a quattro pilastri, o mediante atri coperti, o con gallerie circolari (con o senza cappelle), o con torri di scale. Tutti questi elementi che rendono più complessa la struttura della chiesa, nella grande architettura del xii secolo rappresentavano repliche o reminiscenze del genere statale-metropolitano, dettate non certo dal capriccio del committente, e tanto meno dal capriccio degli artigiani, ma piuttosto da una necessità storica, di carattere immediato-pratico o contingente-ideologico. Si può dunque pensare che l’adozione di tali scelte nell’architettura del genere principesco palatino, meno ampiamente diffuso, sia anch’essa legata a determinate tendenze «autocratiche» o «alla sovranità», cioè all’interesse che le chiese svolgessero una funzione più ampia che non semplicemente quella di corte, cosa che richiedeva una maggiore solennità nelle celebrazioni. Esaminiamo da principio i monumenti che contengono repliche del genere statale-metropolitano. Come il lettore ha probabilmente indovinato, si tratterà di chiese dotate di gallerie-paperti circolari o di torri. Nel sottogenere da noi considerato sono le più antiche, quasi contemporanee ai più antichi monumenti del genere ordinario. In ogni caso la chiesa della Protezione sul fiume Nerl’ del 1165 non è sicuramente la prima. Nel 1159 fu fondata la chiesa di San Giovanni Evangelista a Smolensk, subito dotata di cappelle e gallerie. Era la chiesa palatina del principe Roman Rostislavi/ (terminata nel 1183). Le sue cappelle – quella nord e quella sud – sono piccole chiesette senza pilastri, esternamente monoabsidali, ma che all’interno presentano nello spessore del muro orientale le «nicchie absidali» a noi già note. Di conseguenza non sono semplicemente cappelle, ma chiesette ausiliarie, concepite per celebrarvi funzioni contemporaneamente alla funzione svolta nella chiesa principale. Nelle gallerie-paperti sono collocati numerosi arcosoli per la sepoltura dei membri della famiglia principesca. Essa era perciò una chiesa con funzione di cappella funeraria. Da qui deriva il carattere tranquillo, solenne, da mausoleo della sua architettura. Non si percepisce una particolare tensione verso l’alto di tutta la composizione, ma è chiaramente visibile il pro-
gressivo aumento delle masse a gradini dalla periferia verso il centro. Pensiamo che questa caratteristica abbia influenzato anche in futuro il pensiero architettonico degli architetti smolenskiani nel senso di una sottolineatura verticale della massa centrale di una composizione così estesa. Precedente alla chiesa di San Giovanni Evangelista era la chiesa dei Santi Pietro e Paolo (1140-1160), che molti studiosi consideravano il «modello» della chiesa di San Giovanni. Come scrivono N.N. Voronin e P.A. Rappoport, «esse sono quasi gemelle»117. La differenza sta nel fatto che la complessa composizione della chiesa di San Giovanni è nata simultaneamente, mentre la stessa composizione della chiesa dei Santi Pietro e Paolo si è formata mediante l’aggiunta dapprima di cappelle, e poi di gallerie-paperti con numerosi arcosoli. Fino all’aggiunta degli annessi la chiesa fungeva da cappella funeraria della famiglia principesca, ma ben presto passò a disposizione del «mondo», e allora la chiesa divenne il mausoleo degli alti esponenti della «corporazione di San Pietro»118. E questo cambiamento apparentemente insignificante della funzione sociale non tardò ad influenzare la forma architettonica del monumento. Il rigido simmetrismo fu violato. La cappella sul lato nord è priva di abside e copertura a cupola. Una cappella supplementare è stata costruita nell’angolo sud-occidentale della galleria. Anche la copertura a quattro cupole non è simmetrica. Le cupole in generale non hanno uno stretto legame con le pratiche di culto. N.N. Voronin e P.A. Rappoport ritengono che esse siano state fatte più per «accrescere l’importanza dell’edificio, per articolare il suo imponente complesso, calcolato per creare un determinato “colpo d’occhio”»119. In una certa libertà della composizione si percepisce un’estetica non tanto principesca, quanto «più libera», di borgata. Questo si nota in particolar modo se si confronta la composizione della chiesa di Pietro e Paolo con la composizione «classica» della Protezione sul fiume Nerl’, costruita solo cinque anni più tardi. Le chiese dei Santi Pietro e Paolo e di San Giovanni Evangelista non erano le uniche costruzioni della forma che stiamo esaminando. Nella stessa tipologia sono state ricostruite due chiese di Polock: una nel monastero del Salvatore di Evfrosinija e l’altra presso il Vecchio castel- 92lo. Entrambe risalgono alla prima metà del xii secolo. Di 93 esse solamente la chiesa del castello era di tipo principesco. La seconda ondata di queste composizioni cade alla fine del xii secolo, ed è caratteristica soprattutto di Smolensk. Prima di passare a quest’ultima, esaminiamo quali varianti non ordinarie del genere principesco palatino hanno caratterizzato l’architettura russa nel periodo intermedio, cioè tra le chiese antiche e quelle più tarde con gallerie circolari. Questo periodo intermedio diede tre varianti del sottogenere non ordinario: la chiesa con passaggi di collegamento al palazzo (Bogoljubovo), la chiesa con gallerie circolari aperte (Vš/iz) e la chiesa con torri di scale (Ovru/ 81 presso Kiev). Come vediamo, non ci sono qui novità sostanziali. Anche le chiese dell’xi secolo erano collegate ai complessi dei palazzi di corte, alcune avevano anche gallerie aperte e torri di scale. La peculiarità sta nel fatto che, in tutte le varianti citate, gli elementi (a prima vista) tradizionali (passaggi, gallerie, torri) non compaiono in cattedrali-«micrometropolie» a sei (e più) pilastri, ma in compatte chiese principesche palatine a quattro pila155
stri. Inoltre si combinano organicamente già nel progetto dell’autore. Per di più questi elementi vengono impiegati con il palese intento di produrre un’impressione di verticalità, cambiando così l’intera composizione, compreso il carattere delle decorazioni. È possibile che il monumento più antico di questo gruppo sia la chiesa di Vš/iz, città indipendente del principato di \ernigov, anche se la sua datazione alla metà del xii secolo non è del tutto certa. Inoltre, secondo B.A. Rybakov, la galleria circolare aperta (ad arco) di questa chiesa è stata costruita in epoca successiva120. La galleria (è propriamente una galleria, non un atrio-papert’) doveva fungere (sia nella parte inferiore che in quella superiore) non da cappella funeraria, ma da luogo di incontro della popolazione, svolgendo la stessa funzione dei portici ellenistici. Come già sappiamo, lo stesso accadeva nella Sofia di Kiev e, forse, già nella chiesa della Decima. La chiesa di Vš/iz si trovava al centro del borgo, e forse questa circostanza ha influito sulla trasformazione degli atri (paperti). Infatti, quando divenne «laica», cioè passò alla «corporazione di San Pietro», la chiesa di Pietro e Paolo a Smolensk aveva proprio degli atri adibiti a cappelle funerarie, e non delle gallerie. Probabilmente non si può stabilire qui un legame diretto: questo delicato problema necessita di uno studio a parte. Ma si può già dire che la trasformazione dell’atrio-cappella funeraria in una galleria circolare aperta rappresenta un passo avanti verso la secolarizzazione dell’immagine architettonica, e con essa anche del genere architettonico. Ciò non è mai apparso tanto chiaramente come nella chiesa della Protezione sul fiume Nerl’ (1165). Non ci soffermeremo a chiederci a chi spetti la priorità in questo caso: agli artigiani di Vladimir o a quelli di Vš/iz (si pensa tuttavia che la costruzione della chiesa di Vš/iz sia sorta sotto l’effetto di quella della Protezione sul fiume Nerl’). Il problema principale è un altro: fino a che punto la galleria della chiesa della Protezione è contemporanea alla chiesa stessa? Quando N.N. Voronin pubblicò per la prima volta la iv/5; 84 sua ricostruzione della chiesa della Protezione sul Nerl’ con una galleria circolare ad arco (ricostruzioni grafiche sono state eseguite da diversi studiosi: B.A. Ognev, Ja.N. Trofimov, B.P. Dedušenko, G.K. Vagner. Nell’opera fondamentale di N.N. Voronin sono inclusi i disegni degli architetti B.A. Ognev e B.P. Dedušenko)121, non incontrò solo approvazioni ma anche obiezioni (A.V. Arcichovskij, P.N. Arkatov), e questi ultimi erano a loro volta divisi tra loro: a una posizione di totale rifiuto si opponeva una soluzione del tutto diversa del problema. Per quanto riguarda il totale rifiuto dell’esistenza delle gallerie possiamo solo sorprendercene. La presenza nell’articolazione ovest della facciata sud di tracce dell’antica porta che dava sui cori, che oggi appare come «sospesa in aria», mostra chiaramente che ai cori si accedeva da un pianerottolo situato allo stesso livello. Lo studioso d’arte P.N. Arkatov ritiene che questo fosse appunto il pianerottolo davanti alla porta, che si raggiungeva da una scala racchiusa nella torre di sud-ovest122. N.N. Voronin obiettava in modo circostanziato che non si trattava di un pianerottolo, ma di una galleria circolare (eccetto, naturalmente, la facciata orientale), come testimoniano i ritrovamenti archeologici delle fondamenta con tracce di pilastri corrispondenti a quelli delle facciate della chiesa. Recenti studi di S.M. Novakovskaja hanno provato l’esi-
stenza di antichi incastri per travi nell’opera della facciata, corrispondenti al livello della copertura delle gallerie123. A quanto detto si possono aggiungere argomentazioni funzionali di altro ordine, e cioè: la chiesa, costruita sul terreno acquitrinoso accanto al fiume, non era adatta ad accogliere numerose inumazioni; era necessaria proprio una galleria aperta e non coperta (papert’). La galleria aperta semicircolare, che offriva a chi vi si trovava sopra (e sotto) una panoramica completa dello spazio circostante, esaltava indubbiamente il principio profano dell’architettura, e ancor di più il suo principio estetico. Che da tali desideri e intenzioni fossero guidati i maestri costruttori traspare dall’intera forma architettonica della chiesa della Protezione. La presenza delle gallerie spinse gli artigiani ad aumentare le proporzioni verticali del četverik. La chiesa della Protezione, anche nelle ricostruzioni meno riuscite, non appare «ammassata» dietro le gallerie, come si percepisce ancora nei monumenti di Smolensk dello stesso periodo. La tensione degli sguardi verso l’alto, verso la copertura, cioè il senso di verticalità «a torre», è favorito dalla collocazione dei rilievi più voluminosi negli archi ciechi (zakomary). Anche la figura del personaggio principale della scultura sulla facciata, il re-Salmista Davide, con la sua mano levata attrae lo sguardo sempre più verso l’alto. Non c’era forse a quel tempo nella Rus’ un’altra costruzione nell’ambito del sistema architettonico tradizionale a croce e cupola (e questo sistema è rigorosamente osservato nella chiesa della Protezione) in cui la tensione verso l’alto si materializzasse con tanta chiarezza. Questo era il confine, varcato il quale il pensiero architettonico dell’antica Rus’ si gettò coraggiosamente in avanti, verso la creazione di diverse composizioni «a torre». Bisogna notare qui che gli artigiani di Vladimir, accingendosi ai nuovi compiti, disponevano di più ampie possibilità, vale a dire la scelta di composizioni non ordinarie del genere principesco palatino. Prima di passare alla variante della chiesa con galleria circolare, si cimentarono in una redazione più «tranquilla» della chiesa palatina, realizzando il famoso complesso del «palazzo» di Bogoljubovo. Questo insieme architettonico in pietra bianca comprendente le mura, il palazzo con i passaggi di comunicazione con la chiesa, il ciborio e il cosiddetto pilastro della Madre di Dio, era così esteso orizzontalmente che 116 per conferirgli un «senso di verticalità» si sarebbe dovuta costruire una parte centrale (e questa naturalmente era proprio la chiesa) troppo alta per le possibilità del tempo. La chiesa della Natività della Madre di Dio rende abbastanza centralizzato tutto l’insieme, ma direi quasi, centralizzato in forme «classiche», come il parallelepipedo del Partenone dà un senso di centralità all’acropoli ateniese. La chiesa della Natività della Madre di Dio è un esem- 88pio tipico di chiesa principesca palatina nell’architettura 89, russa del periodo premongolico. Mentre di altre chiese 123 palatine e del loro collegamento con le stanze del principe sono rimaste solo testimonianze scritte o leggende locali e congetture, qui a Bogoljubovo è rimasto quasi tutto intatto. Si è conservata la torre di scale, con da una parte la iv/6 chiesa e dall’altra il palazzo. Si sono conservati i passaggi che dalla torre vanno direttamente ai cori della chiesa. Si è conservata la chiesa stessa, nella parte inferiore. La parte superiore crollò nel xviii secolo e fu subito ricostruita (in mattoni), ma non è certo che sia stata ricostruita con la stessa altezza di prima. È possibile che le proporzioni originarie fossero più sviluppate in verticale. In ogni caso 156
la scultura sulla facciata della chiesa, andata perduta con la ricostruzione (ad eccezione di tre maschere leonine)124, doveva fare un effetto simile a quello della chiesa della Protezione. Una grande innovazione erano le colonne sotto la cupola, che sostituivano i tradizionali pilastri. A quel tempo non era ancora stata costruita la chiesa Koložskaja, ed era difficile che gli artigiani di Vladimir conoscessero le colonne di marmo della lontana chiesa di Tmutarakan’. In effetti le colonne della chiesa di Bogoljubovo non erano in marmo, bensì in pietra bianca, ma anche questo produceva l’impressione insolita di uno spazio «a guisa di sala», aggiungendo un altro elemento di carattere profano. L’esistenza di un passaggio che andava dal palazzo ai cori non prova ancora che la chiesa fosse destinata propriamente al principe. Alle celebrazioni assistevano la famiglia principesca e la nobità feudale locale. Certo, è possibile che vi trovasse posto anche il principe, ma non abbiamo dati per affermare che a quel tempo fosse mutato l’uso costantinopolitano secondo cui anche il governante prendeva parte al cerimoniale liturgico. Bisogna supporre che, data l’ampia risonanza prodotta dalla chiesa palatina di Andrej Bogoljubskij e soprattutto dalla chiesa della Protezione sul Nerl’, costruire chiese a quattro pilastri, a croce e cupola singola con gallerie diventasse un fatto di prestigio non solo presso le corti principesche, ma anche a qualsiasi livello elevato della struttura feudale. Inoltre non è escluso che in alcuni casi si optasse per il genere principesco palatino anche senza una particolare rispondenza funzionale. Esistono parecchi esempi del genere nella storia dell’architettura fino ai giorni nostri. Non dobbiamo perciò meravigliarci, per esempio, se incontriamo un monumento non ordinario del genere principesco palatino in un complesso commerciale o addirittura in un monastero. La chiesa con gallerie-paperti trovò una risonanza particolare a Smolensk. Le chiese sulla Malaja Ra/evka (11801204), sul ruscello Protok (1181-1209) e presso il cimitero Okopnyj (1205-1228) rappresentano uno sviluppo logico di tale composizione, con una progressiva elevazione della massa centrale. Una somiglianza con i monumenti di Smolensk si trova nelle chiese dei monasteri della Natività (1192-1195) e della Dormizione («delle principesse» – 1200-1202) a Vladimir. In tutte le chiese di Smolensk le absidi laterali sono costituite da nicchie nella parete orientale. Di tutti questi monumenti gli ultimi tre appartenevano a monasteri. Ma la chiesa della Natività svolgeva la funzione di cappella funeraria delle principesse di Vladimir, perciò la si può considerare principesca. E proprio esse non presentavano complessi pilastri fascicolati, al posto dei quali sono visibili tracce di normali lesene. Nella chiesa sulla Malaja Ra/evka i fasci di articolazioni verticali erano composti da sette profili, è agli angoli il numero dei profili arrivava a quattordici. La composizione più complessa era quella della chiesa sul ruscello Protok, che agli angoli occidentali presentava delle gallerie (paperti) oltre a una piccola cappella a quattro lati (funeraria). Le absidi della chiesa centrale e della cappella nord erano a forma rettangolare (!). L’abbondanza di arcosoli con inumazioni e l’interpretazione della galleria ovest come un nartece (o un refettorio) conferiscono a questo monumento un carattere un po’ funebre. Probabilmente faceva parte anch’esso di un monastero, e ciò sarebbe confermato anche dalla semplificazione dei pilastri fascicolati, segno che la composizione non si sviluppava verticalmente. N.N.
Voronin e P.A. Rappoport paragonano la chiesa sul Protok alla cattedrale del monastero Eleckij125, ma ciò va inteso solo come un confronto basato sull’altezza e non sulle caratteristiche tipologiche. Dal punto di vista tipologico la chiesa di Smolensk rimane fondamentalmente principesca palatina, sebbene adattata a funzioni cultuali-ideologiche più ampie. Essa era forse la «cattedrale» del monastero vescovile fuori città: in questo caso sarebbe più esatto collocarla nel gruppo delle tarde repliche del genere statale-metropolitano. L’adattabilità della struttura della chiesa principesca a quattro pilastri con gallerie, che poteva facilmente svolgere funzioni commemorative, fu determinante nella scelta di tale composizione per i monasteri. La frequenza di questa scelta nel xii secolo, specialmente nel territorio di Polock-Smolensk, permette addirittura di parlare di una sorta di genere architettonico principesco-monastico. Inoltre la variante preferita di questo sottogenere era proprio la chiesa a quattro pilastri con gallerie (paperti). Sarebbe più esatto dire che nell’ultimo quarto del xii secolo l’architettura principesca palatina del sottogenere non ordinario si sviluppava secondo due linee: quella propriamente principesca e quella monastica. L’architettura propriamente principesca sviluppava attivamente la composizione a pianta centrale del tipo a torre, che talvolta veniva adottata anche per le chiese costruite su commissione dei mercanti. Le costruzioni dei monasteri si attenevano strettamente alla composizione estesa in larghezza. La prima linea di sviluppo portò alla formazione della chiesa verticale con gallerie (paperti). La seconda coltivò maggiormente la tradizione sobornaja. Ci sono buone ragioni di affermare che verso la fine del xii secolo la composizione della chiesa principesca con gallerie incominciava a soddisfare sempre meno il gusto architettonico, ormai alla ricerca di forme più integre e slanciate. L’architettura russa tra la fine del xii e l’inizio del xiii secolo ci ha lasciato degli splendidi esempi di queste nuove composizioni. Ma essa vi arrivò non prima di aver sfruttato fino all’esaurimento la composizione della chiesa con gallerie e di aver sperimentato alcune altre soluzioni dell’«idea di torre». Accennando all’esaurimento delle possibilità artistiche della composizione di chiesa con gallerie circolari mi riferisco naturalmente soltanto al genere principesco palatino. Nell’altro genere questa variante compositiva non aveva ancora detto la sua ultima parola, e in una serie di altri non aveva ancora mosso i primi passi. In cosa consisteva allora il vicolo cieco? Nel fatto che una composizione del tipo della chiesa di San Giovanni Evangelista a Smolensk, o anche della Protezione sul Nerl’ non si poteva rendere più centrale di quanto già fosse. Centralizzare significa conferire alla composizione un’espressività uguale da tutti i lati. Ciò era impedito dall’appiattimento delle costruzioni, dalla loro rigida struttura quadrangolare, dalla loro relativa asimmetricità, in una parola, dal fatto che esse erano progettate in base a un determinato punto di osservazione. Inoltre la loro forma conservava palesi bizantinismi. Alla fine del xii secolo ci fu un tentativo tardivo di restituire alle chiese principesche palatine l’espressività di un genere più imponente. Il principe Vsevolod iii di Vladimir e il principe Rjurik Rostislavi/ di Kiev costruirono le loro chiese principesche con… le tradizionali torri. 157
aveva fatto molto male ai kieviani ed era stato costretto a rifugiarsi ad Ovru/. La chiesa di San Basilio a Ovru/, alta, slanciata, a quattro 81 pilastri e una cupola, fu il risultato di un’abile applicazione del nuovo sistema di archi di volta a gradoni, che conferiva al profilo della chiesa un aspetto di piramide a gradoni, a torre. Si ritiene che l’architetto della chiesa sia quello stesso Petr Miloneg il cui nome è legato alla Parasceve di \ernigov, costruita in maniera analoga (vedi sopra). La caratteristica originale, e si può dire addirittura unica, della chiesa di San Basilio è la combinazione del četverik con due torri di scale cilindriche agli angoli orientali. Ciò conferì alla chiesa i tratti di una fortezza, ma assieme anche una maestosità, nello spirito architettonico del genere statale-metropolitano. Questa chiesa non si può considerare una replica del vecchio genere: ci troviamo davanti piuttosto una sorta di reminiscenza, che prova, tra l’altro, come tra i diversi generi esistessero delle precise relazioni che sfociavano in forme intermedie. Queste forme intermedie tra i vari generi erano composizioni cubiche in basso e cruciformi in alto, sul tipo della chiesa sulla Miroža, oltre ad alcune chiese dei mercanti e monastiche, erette nelle forme del genere principesco palatino. La reminiscenza nello spirito dell’architettura del genere statale-metropolitano nella costruzione di Rjurik Rostislavi/ risulta del tutto comprensibile se ricordiamo che la sua posizione di «duumviro» kieviano era legata alla lotta per la supremazia persino sul fratello Roman. Non dobbiamo tuttavia sopravvalutare né il ruolo di donatore dello stesso Rjurik Rostislavi/, né le innovazioni del suo «amico», l’architetto Petr Miloneg. Come abbiamo visto in precedenza, la chiesa di San Basilio a Kiev (alla «Nuova corte»), sebbene fosse stata progettata abbastanza coraggiosamente, non fu tuttavia realizzata al livello dovuto, e la Grande chiesa degli Apostoli a Belgorod, edificata da Rjurik Rostislavi/ nel 1197, ci riconduce in pieno alle tradizioni dell’xi secolo. Non fu un grande innovatore nemmeno Petr Miloneg. Se la chiesa della Parasceve a \ernigov è effettivamente opera sua, allora in questa chiesa è stato semplicemente ripetuto il sistema delle volte a gradoni della chiesa di Ovru/, mentre nel senso di tutta la composizione si nota una forte semplificazione: mancano le torri, non c’è traccia di atri coperti (pritvory). Naturalmente si può anche ragionare in senso inverso: se la chie-
Dopo il carattere aperto della composizione della chiesa
102, della Protezione sul fiume Nerl’, la chiesa di San Demetrio 103, a Vladimir, con le sue torri originarie sull’angolo ovest e le 117 gallerie-paperti coperte che mettevano in comunicazione
76
80
83
78
77
le torri con le absidi, appare assai più complessa. Le torri conferivano un’impressione di imponenza alla facciata, e forse per questo San Demetrio ha ricevuto fin dai tempi antichi il titolo di sobor. In effetti, da tutti gli altri punti di vista la combinazione di torri alte con gallerie basse dava l’impressione di una costruzione sproporzionata. Anche la ricca decorazione scultorea che proseguiva 125 dai muri della chiesa sulle torri, e dalle torri di nuovo ai muri della chiesa, non creava un’impressione unitaria. L’unità come immagine del Mondo riflesso in essa si andava frantumando in varie sfere. Ma non dobbiamo dimenticare che per l’uomo medioevale il senso dell’unità nella multiformità era un po’ diverso. La combinazione di numerosi elementi, talvolta abbastanza diversi, non turbava questo senso di unità. L’unità era concepita non tanto visualmente (sincronica), quanto mentalmente, attraverso la «lettura». E a questo riguardo la «lettura» della scultura sulla facciata, ora poco distinguibile126, era naturalmente molto ricca. Si può dire che nella forma della cattedrale di San Demetrio il genere principesco palatino era sfociato in qualcosa di simile al genere statale-cattedrale. Ma su questo problema dovremo tornare ancora. Forse più riuscita per l’organicità del progetto e la compattezza della composizione era l’architettura della chiesa di San Basilio a Ovru/, costruita negli anni ’90 del xii secolo. Alla fine del xii secolo l’antica città di Vru/ij (Ovru/) divenne appannaggio di Rjurik Rostislavi/, coreggente («duumviro») del principe kieviano Svjatoslav Vsevolodi/. Non ci occuperemo qui di come si sia formato questo «duumvirato». Osserveremo solo che esso non segnò assolutamente una stabilizzazione nei complessi rapporti internazionali della fine del secolo. Al contrario, fu una sorta di compromesso politico tra le famiglie dei Rostislavi/ e degli Svjatoslavi/, in continua competizione per affermare i propri diritti su Kiev. E questo equilibrio nella «giostra» dei principi dell’epoca era considerato, evidentemente, come un dono dall’alto. L’annalista chiama Rjurik Rostislavi/ lo «zar» che ha compiuto l’«opera patriarcale» di sostenere la chiesa127, anche se assieme al suo secondo «duumviro», Roman Mstislavi/ di Volynija,
79
81
82
84
85
76. Kiev, pianta della chiesa della Dormizione della Madre di Dio (Pirogoš/aja), 1131. 77. Rostov Velikij, pianta della cattedrale della Dormizione, 1161-1162. 78. Gali/, pianta della cattedrale della Dormizione, 1157 circa (ricostruzione di E. Vorob’eva e A. Tic). 79. Smolensk, pianta della cattedrale di Boris e Gleb sul fiume Šmjadyn’, 1145. 80. Novgorod, chiesa della Parasceve sul Mercato, 1207 (ricostruzione di G. Stender). 81. Ovru/, chiesa di San Basilio (ricostruzione di P. Rappoport). 82. Pskov, cattedrale della Trinità, anni 1180-1190 (schizzo della ricostruzione di N. Voronin). 83. Gali/, pianta della chiesa di San Pantelejmon, 1200 circa (secondo O. Ioannisjan). 84. Vladimir, pianta della chiesa della Protezione della Madre di Dio sul fiume Nerl’, 1165-1166. 85. Jur’ev-Pol’skoj, pianta della cattedrale di San Giorgio, 1230-1234. 86. Polock, pianta della chiesa del detinec, seconda metà xii secolo. 87. \ernigov, pianta della cattedrale dell’Annunciazione, 1183-1185 (secondo B. Rybakov).
158
86
88-89. Vladimir, Bogoljubovo, chiesa della Natività della Madre di Dio, 1158-1165 (?) (ricostruzione di N. Voronin); complesso architettonico del palazzo.
87
159
Se la cattedrale della Trinità di Pskov fu davvero co- 82 struita negli anni ’80 del xii secolo128, potrebbe essere la prima di una serie di cattedrali a sei pilastri (proprio cattedrali!) con tre atri. Ma la datazione agli «anni ’80» è troppo vaga. Inoltre alcuni ritengono plausibile anche spostarla agli anni ’90 del xii secolo. Perciò è meglio aprire la nostra panoramica con la cattedrale della Trinità sul fiume Klovka a Smolensk, datata agli anni 1188-1209129. 98Perché è chiamata sobor, cattedrale? Gli studiosi non 99 hanno affrontato il problema. Tra l’altro sarebbe più esatto considerarla chiesa monastica o principesca. Probabilmente era la chiesa principale del monastero (katholikòn), e per questo è chiamata sobor. Era una chiesa dalla composizione molto compatta, a quattro pilastri, con absidi laterali di forma esternamente rettangolare, con atri aperti all’interno ed accentuate lesene dalle molteplici modanature. La forte profilatura delle modanature lascia supporre che la massa della chiesa fosse notevolmente sviluppata in verticale, a somiglianza della famosa chiesa Svirskaja a Smolensk. Nella loro ricostruzione della chiesa della Trinità, N.N. Voronin e P.A. Rappoport ne hanno paragonato le forme appunto a quelle della chiesa Svirskaja130, ma ciò appare un po’ strano, poiché quest’ultima non è a quattro, ma a sei pilastri. Del resto la composizione della cattedrale della Trinità, così come è stata ricostruita, corrisponde meglio proprio alla variante a quattro pilastri. In ogni caso i terminali a tre lesene del četverik (a somiglianza della chiesa di Peryn’) e la stessa configurazione dello zoccolo sotto il tamburo (come nella chiesa del monastero del Salvatore di Evfrosinija) appaiono verosimili. Gli studiosi datano questa chiesa agli anni 1188-1209, di conseguenza essa fu costruita contemporaneamente alla chiesa Svirskaja, che si colloca in un arco di tempo tra il 1180 (1188?) e il 1197131. Gli studiosi ritengono che le forme della chiesa della Trinità siano state rifinite (nel corso della costruzione) non senza risentire dell’influsso della chiesa Svirskaja, ma, lo ripeto, dato che quest’ultima era a sei pilastri, si può parlare solo di influsso, non certo di copiatura. In ultima analisi è importante constatare che alla fine degli anni ’80 del xii secolo le ricerche di una composizione a pianta centrale sviluppata in altezza si compirono a Smolensk con la costruzione di una chiesa a pianta quadrata, quattro pilastri, una cupola, tre atri e un profilo complessivo piramidale a gradoni («a torre»). Se non abbiamo motivi certi per ritenere che la chiesa della Trinità fosse principesca, la chiesa Svirskaja invece lo era sicuramente. Prima di passare ad esaminare quest’ultima, accenniamo ancora a due o tre chiese affini a quella della Trinità, che rientrano tutte nell’architettura della Rus’ di Vladimir-Suzdal’, ed esulano già dai confini del xii secolo. Al 1225 è datata la chiesa del Salvatore di Nižnij Novgorod, fondata in quegli anni. Era una chiesa a tre atri e quattro pilastri, naturalmente con una sola cupola, ma quanto al suo ingombro in altezza non esistono dati precisi. Fu fatta costruire dal principe Jurij Vsevolodi/ di Vladimir; allo stesso modo fu costruita due anni dopo, nelle immediate vicinanze, anche la cattedrale dell’Arcangelo Michele. Dati più precisi si hanno in merito alla famosa sobor di San Giorgio a Jur’ev-Pol’skoj (1230-1234), eretta dal 104principe Svjatoslav Vsevolodi/, fratello di Jurij. Una chie- 106; sa a quattro pilastri, tre atri e una cupola, cui ancora una iv/7 volta viene dato arbitrariamente l’appellativo di sobor (lo
sa della Parasceve fu costruita prima di quella di Ovru/, allora Petr Miloneg, al contrario, per articolare con atri coperti la composizione della chiesa di San Basilio scelse la via delle reminiscenze e introdusse… le torri. Torri e atri alla fine del xii secolo non erano affatto equivalenti. Le torri mal favorivano la forma piramidale della figura, anzi appesantivano la composizione, senza parlare delle possibili associazioni con le fortezze arcaicizzanti. Gli atri avevano delle potenzialità assai considerevoli. E noi vediamo come alla fine del xii secolo l’architettura russa nella maggioranza delle principali città, dopo aver dato due nuove varianti tipologiche della chiesa principesca palatina – a torre, piramidale, con tre atri – si accinse con tutto l’impegno alla rivalutazione del sistema bizantino a croce e cupola. Il ruolo principale toccò qui a Smolensk.
94
95
98
99
93
92
91
90
97
96
100
101
90-91. Vladimir in Volynija, cattedrale della Dormizione, 1158-1160: veduta di insieme (ricostruzione di N. Voronin); pianta. 92-93. Polock, cattedrale del Salvatore nella chiesa del monastero del Salvatore di Sant’Evfrosinija, metà xii secolo, architetto Ivan: facciata occidentale (ricostruzione di I. Chozerov); pianta. 94-95. Pereslavl’-Zalesskij, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione, 1152-1157: sezione longitudinale; pianta. 96-97. Staraja Rjazan’, cattedrale del Salvatore, inizio xiii secolo (ricostruzione di M. \ernysov); pianta (secondo A. Monhait). 98-99. Smolensk, cattedrale del monastero della Trinità sulla Klovka, 1188-1209 (ricostruzione di P. Rappoport); pianta. 100-101. \ernigov, chiesa della Parasceve Pjatnica, fine xii-inizio xiii secolo: sezione longitudinale; pianta.
160
La prima variante di chiesa principesca con tre atri è rappresentata da costruzioni a quattro pilastri del tipo a torre, e la seconda variante da costruzioni a sei pilastri. Non è possibile suddividerle cronologicamente, e non avrebbe nemmeno senso, poiché le due varianti sono geneticamente indipendenti l’una dall’altra. Le chiese a quattro pilastri con atri derivano dalle chiese a quattro pilastri del sottogenere ordinario della chiesa principesca, mentre quelle a sei pilastri derivano dalle cattedrali. Perciò non si può ritenere senza riserve che una variante sia la semplificazione, o al contrario, l’articolazione dell’altra. Il problema sta tutto nella funzione, nel genere di commissione.
102-103. Vladimir, cattedrale di San Demetrio, 1185-1189; 1194-1197: prima del restauro (disegno di V. Žukovskij); pianta.
161
ritroviamo anche in alcuni dei miei lavori), presenta lesene rinforzate da accentuate semicolonne. L’interno della chiesa è privo di lesene. La sommità della chiesa crollò nel xv secolo. Tutto questo insieme lascia supporre che le parti di copertura della chiesa di San Giorgio fossero molto pesanti, sovraccariche nella massa volumetrica, ed è possibile perciò ricostruire la copertura della chiesa come una struttura a gradoni (archi di rinforzo elevati a gradoni, zoccolo a gradoni sotto la cupola), che dava origine a un profilo piramidale a gradoni132. A.I. Stoletov obiettò a suo tempo contro l’ipotesi di un contorno a tre lesene dello zoccolo133, opinione con cui si può forse concordare, ma non si può negare l’esistenza di uno zoccolo originario. La caratteristica più curiosa della cattedrale di San Giorgio (esaminata più avanti) era la balaustra in pietra del santuario, alla quale (e solo ad essa) possono essere attribuiti i blocchi con rilievi che ripetono i soggetti della decorazione scultorea sulla facciata (ordine della Deesis, profeti), ed anche i grandi rilievi dei santi. Lo scetticismo riguardo all’esistenza di questa balaustra non è motivato. Il problema è solo se essa aveva tre lati oppure si estendeva solo tra i pilastri. Entrambe le varianti sono testimoniate nell’antichità. La comparsa stessa della balaustra indica comunque la tendenza a una chiusura sacrale del santuario e, d’altro canto, la tendenza ad avvicinare la divinità (attraverso l’iconostasi) all’uomo (il fedele in preghiera). Questa idea assai complessa trova il suo sviluppo tra la fine del xiv e il xv secolo. Tre anni dopo la costruzione della chiesa di San Giorgio, lo sviluppo dell’architettura anticorussa venne arrestato per molti decenni dall’invasione dei tatari-mongoli.
tremmo chiamare convenzionalmente principesco-cattedrale. Si tratta anche qui di chiese con tre atri dalla composizione a torre, tuttavia non a quattro ma a sei pilastri. Una di esse, quasi la «capostipite», l’abbiamo già più volte ricordata. È la chiesa dell’Arcangelo Michele a 107Smolensk, più nota col nome di Svirskaja. Fu costruita 108 tra il 1180 (o il 1188) e il 1197 dal principe David Rostislavi/ (fratello di Rjurik Rostislavi/ di Kiev) nella propria residenza di campagna. L’eccezionale levatura del monumento, riconosciuta già dai suoi contemporanei («non ce n’è di simili nelle terre di settentrione, e tutti coloro che vi giungono restano meravigliati per la sua straordinaria bellezza»)134, la sua distruzione durante la seconda guerra mondiale, l’abile ricostruzione di P.D. Baranovskij135, tutto ciò ha procurato a questa chiesa un’ampia notorietà, perciò non è necessario che banalizziamo a fondo in questa sede: ci limiteremo solo a toccare i punti più controversi. Prima di tutto, tra le varie date fornite dalla letteratura specifica relativamente alla costruzione di questo monumento, ho scelto quella proposta da S.S. Pod’japol’skij, che considero il ricercatore più scrupoloso. Questo è importante perché ci consente di affermare che la chiesa Svirskaja e quella del monastero della Trinità (vedi sopra) siano nate contemporaneamente. Di conseguenza le due varianti di chiesa principesca a tre atri si sono sviluppate sincronicamente. Ma verso l’inizio del xiii secolo la variante a sei pilastri divenne chiaramente predominante. Secondo lo schema a sei pilastri e tre atri vengono costrui te: la cattedrale del Salvatore a Rjazan’ (Staraja), la cattedrale della Trinità a Pskov, la chiesa della Parasceve a
Tuttavia, già prima di questo tragico avvenimento gli architetti dell’antica Rus’ diedero vita a un’altra variante del genere architettonico principesco palatino, che po-
104-106. Jur’ev-Pol’skoj, cattedrale di San Giorgio: facciata settentrionale; ghimberga dell’atrio settentrionale (ricostruzione di A. Stoletov); facciata occidentale (ricostruzione di G: Vagner).
162
ma anche altri committenti, o meglio i loro raggruppamenti. Perciò nell’epoca in esame manifestarono un particolare interesse per le chiese a tre atri con volumetria verticale i principi di Smolensk, Polock, Vladimir-Suzdal’, il mir (comunità) di Pskov e di Novgorod e il principe di Rjazan’. Il principe di \ernigov, come vedremo in seguito, era entrato in scena qualche tempo prima e preferì forme più tradizionali per la propria cattedrale. Capita assai spesso di leggere che il nuovo movimento architettonico verso lo «stile a torre» fu capeggiato dall’architetto della chiesa Svirskaja, dalla quale si dipartono come dei fili che la uniscono a \ernigov, Novgorod, Rjazan’ e così via. Questo stesso architetto, il cui nome rimane purtroppo a tutt’oggi sconosciuto, si ritiene fosse originario di Polock, chiamato da quella città dove già verso la metà del xii secolo erano sorte composizioni architettoniche del tipo a torre. La paternità di queste è attribuita al maestro Ioann137. Ritengo che sarebbe troppo astorico voler ricondurre alla chiesa Svirskaja tutti i fili che portano alle composizioni a sei pilastri sviluppate verticalmente, sorte al confine tra il xii e il xiii secolo. Il pensiero architettonico (appunto quello più all’avanguardia) operò contemporaneamente in varie città, e si avvaleva di un’eredità architettonica tanto ampia che è impossibile individuare un’unica linea ininterrotta di continuità. In ogni caso, se vogliamo prefiggerci questo compito, la connessione di tutti gli anelli di congiunzione va verificata con la massima precisione possibile. P.A. Rappoport ritiene, per esempio, che il prototipo della chiesa Svirskaja fosse la cattedrale nel detinec di Polock138, portando come prova i marchi sui mattoni. Questo fatto completa quanto detto prima sulla datazione della cattedrale della Trinità. Per noi è importante stabilire che i monumenti della variante principesco-cattedrale ora elencati sono effettivamente determinati da circostanze di ordine funzionale. Non possiamo naturalmente cercare queste circostanze nei dettagli del servizio liturgico, in quanto esso non poteva cambiare sensibilmente. Ma non si può non considerare anche il fatto che, costruendo le loro nuove cattedrali, i principi (e in generale i committenti) facevano conto che la liturgia vi venisse celebrata solennemente, quasi come o addirittura al pari di quelle presiedute dal vescovo. Per quanto riguarda il principe David Rostislavi/, è ben noto che egli «… aveva un’abitudine: ogni giorno si recava alla chiesa del santo archistratega di Dio Michele, che era stata da lui stesso costruita nel suo principato»139. Costruendo la «straordinaria» chiesa Svirskaja, egli naturalmente non pensava soltanto al suo dovere di cristiano. La chiesa fu costruita nel periodo in cui l’annosa inimicizia con Vsevolod iii si era conclusa con il matrimonio tra Rostislav Rjurikovi/ (nipote di David) e la figlia del principe di Vladimir, e a Smolensk regnava una grande esultanza140. Perciò la chiesa Svirskaja era una specie di monumento alla vittoria. A ciò non poteva restare indifferente il principe Jaroslav Glebovi/ di Rjazan’, sposato con la figlia di Rjurik Rostislavi/, ma appartenente allo «schieramento» di Vsevolod. Questi celebrò la costituzione di un vescovato autonomo a Rjazan’ nel 1198 (prima dipendeva dal vescovo di \ernigov) costruendo nella sua città una chiesa simile (dedicata al Salvatore)141. È difficile tuttavia immaginare che abbia lavorato a Rjazan’ una brigata di artigiani (artel’) di Smolensk, i quali erano già sovraccarichi di commissioni nella propria città. D’altra parte le forme 96della cattedrale del Salvatore a Rjazan’, dopo accuratissi- 97
Novgorod Velikij, la Grande chiesa nel monastero di Bel’/icy a Polock, la cattedrale nel detinec di Polock, la cattedrale della Natività della Madre di Dio a Suzdal’ e altre. Tutti questi monumenti sono definiti legittimamente come cattedrali (sobor), ad eccezione forse della Parasceve di Novgorod, in quanto a Novgorod esisteva già una sobor di tipo tradizionale (cattedrale-vescovile), mentre la chiesa della Parasceve era legata al rione mercantile. Nella Storia dell’architettura russa la chiesa dell’Arcangelo Michele (o Svirskaja) è chiamata sobor del tutto legittimamente, e anche noi concordiamo con questa definizione. Non è facile, del resto, rispondere all’ovvia domanda: perché il principe David Rostislavi/ sentì la necessità di una chiesa cattedrale dalla funzione sociale così specifica, quando a poca distanza sorgeva già la sobor di Boris e Gleb e al centro di Smolensk esisteva la cattedrale vera e propria? Credo che per dare risposta a questo interrogativo si debba tener presente il concetto anticorusso di sobor. Come abbiamo già in parte accennato nel primo capitolo, il termine di chiesa sobornaja non indicava solamente la presenza in essa della cattedra vescovile (questo va da sé, era irrinunciabile), ma esprimeva anche, se così si può dire, la notorietà dello stesso principe, l’entità e l’importanza della sua forza politica e del suo potere. Il principe si preoccupava non soltanto del vescovo, ma anche di se stesso. «Costruire… una chiesa sobornaja (corsivo di A. Golubcov) per il principe… a quel tempo significava guadagnarsi le simpatie degli abitanti, essere amati dal popolo. Ciò si può dire prima di tutto e prevalentemente dei principi che occupavano il trono del gran principe e che sedevano sui troni più antichi e in generale su quelli più in vista (il corsivo è mio – G.V.), che li costringevano a curare ogni forma di rappresentanza, tra cui anche quella ecclesiastica»136. Naturalmente non tutti i troni principeschi presso i quali sorsero delle chiese del sottogenere principescocattedrale tra la fine del xii e l’inizio del xiii secolo erano tra i più antichi e i «più in vista». Ma bisogna considerare qui la circostanza già rilevata in precedenza, e cioè che le cattedrali monumentali venivano costruite non solo dai principi «più in vista», ma anche dai principi che contendevano loro questa posizione nella gerarchia feudale (seppur illusoriamente). E ciò non riguarda soltanto i principi,
107-108. Smolensk, chiesa dell’Arcangelo Michele – Svirskaja (ricostruzione di S. Pod’japol’skij), tra il 1180 e il 1198; ricostruzione della pianta.
163
me e ripetute campagne di scavi, risultarono essere tanto simili alla chiesa Svirskaja da rendere apparentemente senza via d’uscita l’antinomia venutasi a formare. Penso che la via d’uscita vada ricercata nell’ipotesi che sia stato chiamato a Rjazan’ un artel’ di Polock. Ciò è naturale sia dal punto di vista della tipologia iconografica, sia da quello del suo contenuto. Iconograficamente e tipologicamente la chiesa del Salvatore è ugualmente vicina alla chiesa nel detinec di Polock, precedentemente menzionata142. Dal punto di vista ideale essa va considerata non apologeticamente, ma «competitivamente», come la dimostrazione architettonica di una forza e potenza quanto meno equivalenti a quelle del principe di Smolensk. Anche se questa era una delle illusioni medioevali, le illusioni a quel tempo erano una forza motrice della storia non certo irrilevante (se non addirittura determinante). E la cattedrale di Polock? Il suo ruolo attivo nella storia dell’architettura russa della fine del xii secolo, che si è andato delineando precisamente, necessita di una spiegazione. La datazione di questo monumento agli anni ’60-’80 del xii secolo143 ci semplifica il compito. In primo luogo è assai probabile che proprio la cattedrale di Polock, e non quella di Smolensk, si collochi all’inizio di una serie di monumenti analoghi o molto simili: Polock-SmolenskRjazan’-Novgorod-Pskov-Suzdal’. In tale schieramento Polock poteva avere importanza per Rjazan’, mentre per Novgorod poteva avere importanza Smolensk, come si dice anche in tutte le rassegne storiche dell’architettura russa. La chiesa della Parasceve a Novgorod (nel rione mercantile) viene immancabilmente considerata una replica novgorodiana della chiesa Svirskaja. Tornando a Polock, ricordiamo che la cattedrale nel detinec fu preceduta dalla Grande chiesa cattedrale del monastero di Bel’/icy, che si differenziava dalla cattedrale nel detinec (e da quelle che la seguirono) per la consueta forma semicircolare delle absidi laterali. La cattedrale di Bel’/icy presenta a sua volta dei punti di contatto con la tradizione kieviana del tipo della chiesa del Salvatore a Berestov, da cui il monumento di Polock dista non più di uno o due decenni. Si delinea così nei suoi caratteri essenziali la stessa tendenza principesca a riportare in vita il possente programma dei vecchi tempi kieviani, in forme non più metropolitane, ma propriamente principesche. Se pur si possa ancora parlare di reminiscenze del genere statale-metropolitano, esse si possono identificare nella struttura a sei pilastri e negli atri. Ma queste reminiscenze vennero utilizzate in maniera del tutto nuova, come strumento per ottenere una nuova espressività architettonica attraverso una pianta centrale complessa (cruciforme) e un innalzamento a gradoni di tutte le masse dalla periferia verso l’asse centrale. Si venne a formare così una figuratività architettonica «intermedia» tra lo stile romanico e il gotico, una sorta di «romanico anticorusso». A suo tempo questo concetto fu applicato da F. Halle solamente all’architettura di Vladimir-Suzdal’. Tuttavia, ora che i miei tentativi di definire lo stile della scultura di Vladimir-Suzdal’ con un «termine autoctono» hanno dimostrato la propria inconsistenza, mentre D.S. Licha/ëv ha attribuito allo stile romanico una interpretazione internazionale (epocale)144, ritengo possibile applicare quest’ultimo anche all’antica Rus’ dei secoli xii-xiii. In sostanza, il complesso di tutti quegli indizi stilistici con i quali gli studiosi cercano di determinare la natura propriamente russa e non romanica dell’architettura anticorussa dei se-
coli xii-xiii (fino al 1237) non esulano dai confini dei tratti tradizionali dello stile romanico. Possiamo solo parlare di diverse sfumature. Così sono più sature di tratti romanici l’architettura di Gali/-Volynija e quella di Vladimir-Suzdal’; in quella di Kiev-\ernigov convivono tratti romanici e bizantini; quella di Novgorod-Pskov è più vicina alla tradizione kieviana; quella di Polock-Smolensk adatta tratti bizantini e romanici al proprio modo russo. Quest’ultima tendenza stilistica trovò subito un’applicazione sempre più ampia nella Rus’, tanto da poter parlare della formazione di un nuovo stile panrusso145. Ulteriori studi hanno tuttavia dimostrato che il processo di formazione di uno stile nazionale di architettura fu più complesso, e la parte principale svolta in esso dal genere principesco palatino era solo apparente. Per chiarire tutto ciò dobbiamo esaminare più a fondo questo genere molto spettacolare. Dopo che tra la fine del xii e l’inizio del xiii secolo furono create grandiose composizioni architettoniche «non ordinarie» dei tipi «a torre» e «cubico», il genere principesco palatino parrebbe destinato solo ad elaborare e perfezionare questi tipi. Ma il pensiero architettonico dell’antica Rus’ si espresse all’interno di questo genere con la creazione di altre due o tre forme architettoniche: la rotonda, il triconco, il tetraconco e persino l’octaconco, che costituiscono una variante straordinaria del genere principesco palatino. Alcuni tra i monumenti dei tipi non tradizionali appena ricordati sono opera di artigiani forestieri. Altri, sebbene creati dalla mano di artigiani russi, sono costruiti chiaramente secondo modelli stranieri. Ma quanto detto non esclude assolutamente dall’ambito dell’architettura anticorussa le costruzioni «straordinarie» di configurazione circolare. Quasi tutte le loro piante erano note agli Slavi già in epoca pagana. Con l’inizio dell’influenza culturale bizantina queste forme vennero relegate nel fondo della coscienza, ma non si può dire che siano state completamente dimenticate. Alla fine del xii secolo riemersero dal profondo della memoria artistica, soprattutto in seguito all’indebolimento dell’aspetto cultuale, che lasciava il posto a un’estetica più profana. Il nostro compito è solo quello di stabilirne e di determinarne l’importanza all’interno del loro genere. Nel capitolo precedente, in cui abbiamo trattato i generi architettonici dell’xi secolo e dell’inizio del xii, abbiamo accennato di sfuggita ai monumenti del genere ordinario, al quale si riferiscono chiesine molto piccole, talvolta addirittura minuscole, destinate essenzialmente ad un uso individuale. Tuttavia, verso la fine del xii secolo, in una serie di territori il potere del principe si era tanto chiuso in interessi separatistici che, oltre alle chiese principesche ordinarie e non ordinarie, si incominciarono a costruire cappelle individuali, conferendo loro un aspetto assai antitradizionale, così straordinario che alcuni di questi monumenti si possono considerare per così dire «di importazione». Dietro all’iniziativa del principe si situavano, come in epoca precedente, le corporazioni dei mercanti. Fino a non molto tempo fa la cosiddetta «cappella tedesca» a Smolensk pareva essere l’unico esempio di 109 composizione rotonda. Dato che questa forma era sconosciuta nell’architettura cultuale (cristiana) della Rus’, si riteneva che fosse un edificio di genere civile, e precisamente un’antica scuola. N.N. Voronin e P.A. Rappoport dimostrarono il carattere cultuale della rotonda, rilevaro164
Tuttavia tutte queste considerazioni semantiche non hanno significato per la celebrazione rituale del culto. È difficile immaginare lo svolgimento della liturgia in una chiesa circolare senza absidi. Forse questa forma di chiesa era ammissibile per una cappella personale, pur con alcune riserve. Non a caso nell’architettura bizantina le costruzioni di questo tipo erano soprattutto battisteri e martyria. Del tutto diversa era la chiesa con pianta a croce. In essa si poteva comodamente disporre sia l’altare che il seggio del principe, il coro per i cantori e così via. Ecco perché le rotonde non si affermarono nell’antica Rus’. Solo nell’epoca del barocco e del classicismo, con l’ampliamento della sagoma e la specificazione di tutti i luoghi rituali, le rotonde incominciarono a prendere piede, e col classicismo divennero una delle forme preferite. Oltre alla rotonda di Smolensk è conosciuta anche la rotonda di Kiev (fine xii-inizio xiii secolo), sulle cui funzioni esistono pareri divergenti. Alcuni la ritengono un edificio civile, altri una chiesa cattolica. La chiesa di Sant’Elia a Staryj Gali/ (Krylos) aveva una base rotonda, articolata a ovest da un atrio rettangolare e a est da un’abside fortemente aggettante. La sua datazione è pressappoco la stessa. Ancora un’altra rotonda era parte integrante del palazzo principesco di Peremyšl, con funzione di chiesa palatina. È possibile addirittura che essa sia la prima rotonda dell’antica Rus’, cosa che rende ancora più interessante il suo legame col palazzo. Una quinta rotonda si trovava infine nel boschetto della Resurrezione, nei pressi di Gali/147. Per quanto costruzioni del genere fossero poco adatte alla celebrazione liturgica, tuttavia per la loro originalità esse attiravano l’attenzione di committenti provenienti dagli strati privilegiati, e le possiamo considerare appartenenti alla variante straordinaria del genere principesco palatino.
no analogie con l’architettura dell’Europa settentrionale (Danimarca, Svezia, isola di Gotland), rifiutarono la definizione di «cappella tedesca» e la datarono alla seconda metà del xii secolo146. La paternità del progetto e la direzione della costruzione sono attribuite ad un architetto forestiero, mentre le maestranze che eseguirono la costruzione erano muratori locali. Rotonde di questo tipo sono utilizzate normalmente come cappelle nei castelli feudali, e sono particolarmente caratteristiche per l’architettura romanica del xii secolo, perciò la rotonda non è una rarità in una città russa occidentale. Più difficile è definirne la funzione. Con tutta probabilità essa era la chiesa dei mercanti tedeschi. Ma poi la rotonda è davvero tanto estranea alla coscienza anticorussa? All’inizio del nostro studio abbiamo accennato all’«idea del cerchio» slava come a una primordiale immagine del Mondo. Si è parlato anche della forma circolare del tempio pagano di Kiev, il quale non era altro che una chiesa pagana a forma di «rotonda». Perciò non si può dire che questa idea fosse estranea all’architettura russa. Nei secoli x-xi l’«idea del cerchio» venne sostituita dall’«idea del rettangolo», all’interno della quale si sviluppò tutta l’architettura della Rus’ fino alla metà del xii secolo. Si manifestò in ciò la sua dipendenza dal sistema cosmologico dell’antica Bisanzio (Cosma Indicopleuste), e attraverso di esso anche da concezioni più antiche. La solidità dell’«idea del rettangolo» non è spiegata solo dalla sua razionalità, ma anche dall’irrazionalità, cioè dalla simbologia, dalla sua ricchezza simbolica. Perciò non è strano che con l’indebolirsi della simbologia, o meglio, in misura che essa si andava riempiendo di un contenuto architettonico-estetico, l’«idea del rettangolo» incominciasse a perdere forza, mentre rinasceva l’«idea del cerchio». Sostanzialmente tutte le tendenze nell’architettura di carattere centralistico procedevano nel segno di una recondita «idea del cerchio», in quanto fin dall’antichità il cerchio ha simboleggiato l’eternità, il compimento, la perfezione. Tutte le strutture cruciformi, in particolare quelle con terminali uguali, contenevano in modo latente l’«idea del cerchio». La forma ideale del centrismo era il cerchio. Come è noto, nell’estetica popolare la semantica del cerchio, del quadrato e del rombo sono identiche.
Un’analoga sorte toccò al triconco e al tetraconco. Un triconco fu costruito nel monastero di Bel’/icy di Polock. Il triconco di Bel’/icy è stato interpretato da N.N. Voronin come una chiesa monastica di tipo balcanico, e datato genericamente al xii secolo148. A.V. Bogusevi/, scopritore e studioso del «triconco» di Putivl’, non concordava con la classificazione del monumento di Polock come chiesa monastica, rilevando che il suo «gemello» di Putivl’ non sorgeva in un monastero ma nel detinec principesco149. B.A. Rybakov, tornando al triconco di Putivl’, ne precisò la data, collocando la chiesa alla fine del xii secolo150. A rigor di termini, la chiesa di Putivl’ non rappresenta un triconco, ma un pentaconco, cosa che le conferisce dei tratti specifici, più che altro russi. Del resto, anche per il triconco di Bel’/icy non va esagerato il suo carattere monastico. L’interpretazione dell’abside settentrionale e meridionale del triconco di Bel’/icy come «cantorie», legate al «particolare ordinamento del canto monastico» non è accettabile, in quanto l’ordinamento del canto liturgico non monastico richiedeva anch’esso un doppio coro, uno che cantava in russo e l’altro in greco. Tale «disposizione» esisteva ancora nel periodo premongolico151. In questi ultimi anni una chiesa simile a quella di Putivl’ è stata rinvenuta durante gli scavi a Novgorod-Severskij (Settentrionale). Non è escluso che questa fosse la chiesa del principe Igor’ Svjatoslavi/, l’eroe del Canto della schiera di Igor’.
109. Smolensk, pianta della rotonda, seconda metà xii secolo.
165
Il tetraconco (quadrifoglio) è legato soprattutto al
a fondo la questione. In uno dei suoi lavori più interessanti sulle origini storiche dell’architettura nazionale russa, N.N. Voronin scrisse: «… gli elementi iniziali della nuova estetica architettonica si erano formati ancora prima della conquista mongolica»155. Dalla costruzione di questa frase si vede che con «nuova estetica architettonica» l’autore intendeva l’immagine architettonica del periodo postmongolico, e in particolare quell’immagine che rappresentava una importante deviazione dalla tradizione, cioè dal sistema a croce e cupola di tipo bizantino. Nell’architettura russa dell’epoca premongolica c’era effettivamente molto che esulava dai confini stilistici dell’architettura bizantina, dunque l’approccio tipologico all’architettura consente di determinare più concretamente la tendenza fondamentale, che a prima vista sembra essere la preferenza per le composizioni piramidali-verticali. Ma se osserviamo attentamente le funzioni storiche dei monumenti da noi esaminati, scopriamo che nessuno di essi pretendeva di incarnare un qualsiasi principio panrusso. È indicativo a questo riguardo il carattere delle commissioni. Il principe David Rostislavi/ di Smolensk, costruttore della chiesa Svirskaja, si meritò una descrizione assai critica dall’autore del Canto della schiera di Igor’. B.A. Rybakov, che esaminò a fondo la questione, definisce apertamente David come l’«eroe negativo» del famoso poema156. In modo del tutto analogo è stato definito anche il fratello di David, Rjurik Rostislavi/, costruttore della chiesa di Ovru/. Qui l’autore del Canto della schiera di Igor’ si allontana notevolmente dall’annalista, ma noi abbiamo motivo di fidarci di più del geniale poeta. I costruttori delle chiese di Novgorod e Putivl’ (il principe Igor’ e probabilmente suo figlio) erano così lontani da interessi panrussi, e tanto deboli economicamente e politicamente che non si può attribuire loro la commissione di alcuna opera significativa. Quanto detto si riferisce anche a tutti gli altri monumenti architettonici del genere principesco palatino, ad eccezione di quelli dotati di tratti significativi del genere statalecattedrale. È indicativo che tutte le costruzioni del genere principesco palatino che presentano i tratti spettacolari di una composizione sviluppata in altezza, a gradoni e centrale (cruciforme), videro una diffusione soprattutto lungo la fascia occidentale dell’antica Rus’, da Novgorod Velikij fino a Gali/. Nell’architettura della Rus’ di Vladimir-Suzdal’ questa composizione trovò applicazione solo iv/7; nel monumento più tardo: la cattedrale di San Giorgio a 104Jur’ev-Pol’skoj (1230-1234), e anche qui ebbe un’espres- 106 sione abbastanza contenuta. Non si può non considerare altresì che, sebbene in questa immagine architettonica si riflettesse la tendenza a superare la staticità cubica del sistema bizantineggiante a croce e cupola, tuttavia questa tendenza non fu accompagnata dalla comparsa di concezioni architettoniche e programmi su grande scala (a livello di tutta la Russia); le chiese «a torre» rimangono così entro i confini delle funzioni principesche di corte. La definizione di questa tendenza come nuovo stile panrusso richiede una revisione. Tale necessità è dettata anche dal fatto che nell’arco di tempo da noi considerato, spesso definito come l’epoca del Canto della schiera di Igor’, emerse nuovamente un interesse per l’architettura del genere statale-cattedrale. Nella nostra esposizione essa rappresenta già una terza ondata, e questa volta il rapporto con un programma panrusso è così evidente che ci induce ad approfondire la questione.
110 territorio di Gali/. Un quadrifoglio fu rinvenuto ancora
nel 1953 da M.K. Karger presso il villaggio di Poberež’e. Un altro tetraconco fu considerato per molto tempo un «poligono», finché O.M. Ioannisjan non accertò trattarsi proprio di un quadrifoglio152. Entrambi questi monumenti risalgono al terzo quarto del xii secolo e presentano le caratteristiche di costruzioni principesche, erette, probabilmente, più per soddisfare un senso aristocratico di novità e originalità che non per la celebrazione rituale. Sotto questo aspetto le si può considerare cappelle principesche, in cui le celebrazioni erano quasi «da camera». Così, dopo un secolare sviluppo, il genere quotidiano si fonde con la variante straordinaria del genere architettonico principesco palatino.
La chiesa di San Basilio a Vladimir-Volynskij (xiii secolo) può considerarsi il vertice delle costruzioni a pluriconco di tipo centrale dei secoli xii-xiii. La sua massa rotondeggiante tende a trasformarsi in un octoconco, cioè in una rosetta a otto petali153. È indicativo il fatto che proprio questa forma sarà recuperata nelle chiese dei poderi principeschi-bojari alla fine del xvii secolo. Nella presente sezione è bene soprattutto esaminare la piccola chiesa cruciforme, senza pilastri, nella cittadina di Ol’govo presso Staraja Rjazan’, che si differenzia dall’octoconco solo perché i suoi «petali» non hanno forma circolare ma rettangolare. Questo è un monumento unico non solo nel genere principesco di corte, ma anche nell’architettura anticorussa in genere154, e si colloca perciò a buon diritto tra le costruzioni del tipo straordinario. La chiesa della cittadina di Ol’govo è considerata dagli studiosi una «cappella di castello» (cioè principesca – G.V.), ed è collocata tra il xii e l’inizio del xiii secolo. Dopo questa breve panoramica sul genere principesco palatino nasce spontaneamente la domanda: quale avrebbe potuto essere il passo successivo dell’architettura anticorussa se non ci fosse stata l’invasione dell’Orda d’oro? È una domanda importante non sotto l’aspetto formale-futurologico, ma per considerazioni storiche concrete: nell’architettura anticorussa si stavano formando idee prerinascimentali? Nel dare risposta a questa domanda la problematica tipologica si lega organicamente (si intreccia) con quella stilistica. Soffermiamoci ad esaminare più
110. Gali/, pianta del quadrifoglio, inizio xiii secolo.
166
Come è noto, i protagonisti del Canto della schiera di Igor’, ai quali erano legate le speranze di unificazione delle forze russe in difesa dei confini della Rus’, furono Jaroslav Osmomysl di Galizia, il «grande e terribile» Svjatoslav Vsevolodi/ di Kiev (e di \ernigov) e Vsevolod iii (Grande nido) di Vladimir. Proprio questi tre principi non intrapresero la costruzione di complessi architettonici a torre, ma si rivolsero alla grande eredità architettonica dell’epoca della possente unità della Rus’ kieviana, cioè al genere statale-cattedrale dei tempi di Jaroslav il Saggio. Jaroslav Osmomysl esordì prima di tutti gli altri, ancora all’inizio della seconda metà del xii secolo, perciò la cattedrale della Dormizione da lui costruita a Gali/ rientra per noi in una delle ondate precedenti di reminiscenze del genere statale-cattedrale. Ma ecco che nel 1183 (o attorno a quella data) Svjatoslav Vsevolodi/ di Kiev fonda nel suo 87 dominio a \ernigov la grande chiesa a sei pilastri dell’Annunciazione, con alte gallerie circolari che la rendevano a cinque navate. L’imponente costruzione non si è purtroppo conservata; le sue fondamenta sono state però accuratamente studiate da B.A. Rybakov157, consentendoci di farci un’idea abbastanza completa dell’immagine architettonica di questa chiesa. Essa era lunga circa 32 metri (con le absidi) e larga 26 metri (con le gallerie). Come abbiamo già detto, le gallerie erano di altezza uguale al corpo principale a tre navate dell’edificio, e terminavano a est con speciali ambienti (pastophorion?), destinati forse alla vestizione del metropolita e del principe. Si può supporre perciò che questa chiesa fosse pensata per le celebrazioni del metropolita. Una chiesa così grande doveva avere senz’altro cinque cupole. E così, senza affrontare nemmeno la questione della decorazione architettonica (che peraltro era magnifica, a mosaici e rilievi in pietra bianca!), si può constatare che in questo caso non abbiamo a che fare semplicemente con una chiesa del genere principesco palatino con caratteristiche di cattedrale, come quelle di cui si è parlato in precedenza (Polock, Smolensk, Suzdal’ ed altre), ma con un monumento del vero e proprio genere statale-cattedrale, progettato indubbiamente perché avesse una risonanza panrussa. Ce lo conferma tutto ciò che sappiamo del «grande e terribile» Svjatoslav Vsevolodi/. Ce lo conferma anche il momento storico scelto da Svjatoslav per costruire questa chiesa: la metà degli anni ’80 del xii secolo, quando, consolidata la propria posizione a Kiev, Svjatoslav «intraprese azioni decisive e ad ampio respiro contro i propri nemici»158, indubbiamente assai compromesse dall’avventata campagna condotta contro i Cumani dal principe Igor’ Svjatoslavi/. Si spiega forse così l’altissimo pathos del Canto della schiera di Igor’, il cui autore era il «cantore degli Svjatoslav». Ma nonostante la tragedia verificatasi nel 1185, nel 1186 la chiesa dell’Annunciazione era terminata e consacrata: un’ennesima conferma della potenza di Svjatoslav. Possiamo supporre che le forme della chiesa, costruita in una circostanza così difficile e importante, fossero state accuratamente ponderate in precedenza e poi scelte in vista di un «risultato funzionale» più completo possibile. B.A. Rybakov aveva indubbiamente ragione, quando quarant’anni fa diceva che «la sontuosa costruzione del «grande e terribile» Svjatoslav riportava in vita le tradizioni architettoniche della Rus’ unita dell’xi secolo e venne imitata da una serie di principi rivali negli anni immediatamente successivi alla sua nascita»159. Non è strano che il primo a dimostrare interesse sia stato Vsevolod Grande nido, gran principe di Vladimir. La
costruzione di Svjatoslav stava ancora avviandosi al termine quando nel 1185 Vsevolod incominciò a circondare di alte gallerie la cattedrale della Dormizione di Andrej Bogoljubskij, pare, in seguito all’incendio scoppiato all’interno della cattedrale nel 1184. Questo fatto non poteva naturalmente passare inosservato. Ma ricordiamo che ciò avvenne nel 1185. Come già detto, la chiesa dell’Annunciazione di Svjatoslav era ormai quasi finita. Vsevolod iii, che seguiva attentamente tutte le iniziative di Svjatoslav, capiva bene che, pur in tutta la sua grandezza, la cattedrale della Dormizione nella città di Vladimir, a una cupola e tre navate, non poteva competere con la magnifica costruzione di Svjatoslav, a cinque navate e cinque cupole. Nel 1185 fu composto anche il Canto della schiera di Igor’, di cui si diede lettura poco tempo dopo, così suppone B.A. Rybakov, presso la corte del principe Svjatoslav160. In quest’opera si rivolgevano parole eccelse nei confronti di Vsevolod iii. Bisognava dunque giustificarle! L’aggiunta di Vsevolod alla cattedrale della Dormizione (1185-1189), v/2 che la rendeva una chiesa a cinque navate e cinque cupole, e per dimensioni ancora più grande di quella dell’Annunciazione di Svjatoslav Vsevolodi/ (quasi 38 metri di lunghezza e oltre 31 di larghezza), si può considerare come la prima risposta al Canto della schiera di Igor’. Naturalmente anche in questo caso la scelta di una forma del genere statale-cattedrale, cioè l’orientamento verso le grandi tradizioni architettoniche dell’epoca di Jaroslav il Saggio, era perfettamente consapevole. Riguardo a Vsevolod iii possiamo dire che, evidentemente non soddisfatto delle modifiche alla cattedrale della Dormizione, negli anni 1194-1197 costruì anche San Demetrio, la propria chiesa principesca palatina, con la pretesa di associarla al genere statale-cattedrale di cui abbiamo parlato sopra. Ma la natura e la funzione del genere principesco palatino non permettevano di creare forme così monumentali come nel genere statale-cattedrale. Ecco perché quelle chiese della variante tipologica «principesco-cattedrale», a cui abbiamo accennato prima (Polock, Smolensk, Suzdal’ e altre) restano come un ramo laterale nello sviluppo della terza ondata di reminiscenze del genere statale-cattedrale alla fine del xii secolo. Questo fatto sarà significativo nel rispondere all’importante quesito sulla complicazione dello stile architettonico nazionale panrusso. Per far questo bisogna esaminare alcuni aspetti della nuova «estetica architettonica». Partendo dall’aspetto principale, cioè dall’Immagine del Mondo, come abbiamo già detto, attraverso svariate trasformazioni compositive esso ricevette un’espressione più personale nel genere architettonico principesco palatino. Certamente questo personalismo non va esagerato: si era ancora molto lontani dall’individualizzazione rinascimentale. Ma se prendiamo qualsiasi monumento del genere territoriale-cattedrale con la sua foggia «a quattro facciate» rivolte verso i quattro punti cardinali (nord-sud, est-ovest), con il suo ritmo uniforme («isocefalico»), le sue arcate cieche, l’estensione orizzontale e così via, e lo confrontiamo con la chiesa principesca a gradoni, slanciata verso l’alto con il suo verticalismo, non possiamo non accorgerci che l’immagine della prima chiesa è collettiva, impersonale, persino «canonica», come impersonale e «canonico» è il Mondo, mentre l’immagine della seconda, se non personale, certamente è tutt’altro che «canonica»; in essa si percepisce un impeto creativo dello spirito verso 167
Tavole a colori V
1
2. Vladimir, cattedrale della Dormizione, veduta dal lato nord-orientale.
2
3 5 4
8
3. Pskov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione nel monastero del Salvatore sulla Miroža, affresco dell’Eucaristia nell’abside del santuario. 4. Pskov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione nel monastero del Salvatore sulla Miroža, discesa agli inferi, affresco sulla parete orientale del braccio nord del transetto. 5. Pskov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione nel monastero del Salvatore sulla Miroža, affresco del santuario (metà xii secolo). 6. Pskov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione nel monastero del Salvatore sulla Miroža, la Madre di Dio, particolare dell’affresco dell’Annunciazione nell’abside del santuario. 7. Pskov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione nel monastero del Salvatore sulla Miroža, pianto di Cristo morto, particolare dell’affresco nella lunetta della parete settentrionale.
7
6
1. Pskov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione nel monastero del Salvatore sulla Miroža, veduta di insieme.
9
11 12 10 13
8. Pskov, cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione nel monastero del Salvatore sulla Miroža, l’arcangelo Gabriele, particolare dell’affresco dell’Annunciazione nell’abside del santuario. 9. Annunciazione di Ustjug, Novgorod, seconda metà xii secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov. Proviene dalla cattedrale di San Giorgio nel monastero di San Giorgio a Novgorod. 10. Demetrio di Tessalonica, Rus’ di VladimirSuzdal’, fine xii secolo, con parziali rifacimenti successivi; Mosca, Galleria Tret’jakov. 11-12. Madre di Dio del Segno (sul verso l’apostolo Pietro e la martire Natal’ja), Novgorod, precedente al 1169; Novgorod, Museo. 13. Salvatore non fatto da mano umana (sul verso Venerazione della croce), Novgorod, seconda metà xii secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov.
14 e 16. Il Salvatore Emmanuele con angeli, Vladimir, fine xii secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov. 15. Deesis, Rus’ di Vladimir-Suzdal’ (?), inizio xiii secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov.
17-18. Dormizione della Madre di Dio, Novgorod, inizio xiii secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov.
19. Madre di Dio Belozerskaja, Novgorod (?), primo terzo xiii secolo; San Pietroburgo, Museo russo. 20. Braccialetto con figure di animali fantastici e scene rituali, Vladimir, argento, incisione, doratura, niello, xii secolo; San Pietroburgo, Museo russo. 21. Braccialetto con figure di animali, Vladimir, argento, incisione, doratura, niello, xii secolo; San Pietroburgo, Museo russo. 22. Braccialetto con figure di animali, argento, cesellatura, niello, Rjazan’, xii secolo; Mosca, Museo storico. 23-24. Gioiello fatto di collana e medaglioni con figure di croci fiorite e di San Gleb, Rjazan’, argento, incisione, doratura, niello, seconda metà xii-primo terzo xiii secolo; Rjazan’, Museo di belle arti. 25. Barma di Rjazan’, Rjazan’, oro, pietre preziose, perle, smalto alveolato, filigrana, granuli, xii secolo; Mosca, Museo del Cremlino. 26. Kolt a forma di stella, argento, incisione, niello, xii secolo; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria. 27. Monile con medaglioni (barma) di Suzdal’, Rus’ nord-orientale, argento, incisione, inizio xiii secolo; Mosca, Museo storico. 28-29. Elmo, Rus’ di Vladimir-Suzdal’, argento, cesellatura, incisione, xii secolo; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria.
30. Cratere (vaso per l’acqua santa) dalla cattedrale della Santa Sofia di Novgorod, Novgorod, argento, fusione, cesellatura, incisione, doratura, maestro Kosta, xii secolo; Novgorod, Museo. 31. Calice, Rus’ di Vladimir-Suzdal’, argento, incisione, doratura, 1152-1157; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria. Questo calice per la comunione proviene dalla cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione di Pereslavl’-Zalesskij. Fu forgiato su ordinazione di Jurij Dolgorukij e collocato nella chiesa dopo la morte del principe da suo figlio Andrej Bogoljubskij. 32. Elmo, Rus’ di Vladimir-Suzdal’, argento, cesellatura, incisione, xii secolo; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria.
168
14 16 15
17
18
20 19
21 22
23 24 27 25
26
28
29
30
31
32
Bisogna considerare qui due circostanze: in primo luogo l’avvenuta antropomorfizzazione e umanizzazione dell’architettura non era un processo isolato: essa rispecchiava un movimento a livello europeo (e persino euroasiatico), che prese il nome di protorinascimento, e in secondo luogo il movimento protorinascimentale comprendeva in sé non solo componenti gotiche, ma anche romaniche161, quindi la «tendenza» che abbiamo osservato nell’architettura russa antica non era un fenomeno esclusivo. Perciò siamo autorizzati, ad esempio, ad applicare ad essa una definizione convenzionale come «visionismo romanicizzante e araldicizzante». Avendo adottato tale denominazione si capisce perché riteniamo necessario rivedere la definizione dello stile «a torre» delle chiese del genere principesco palatino come nuovo stile panrusso. Nuovo lo era, ma panrusso non poteva esserlo, a causa della limitatezza dell’«estetica dell’individuale», da noi brevemente esaminata. Quanto detto non significa certamente che l’estetica architettonica della Rus’ alla fine del xii secolo fosse finita in un vicolo cieco. La via d’uscita c’era, e molto ampia; inoltre siamo condotti alla soluzione di questo problema dalla «politica architettonica» dei protagonisti positivi del Canto della schiera di Igor’, come abbiamo già brevemente accennato. Non bisogna valutare la novità soltanto sotto l’aspetto formale. La nuova forma portava indubbiamente un nuovo contenuto. Ma quale? Quale era l’importanza universale e, di conseguenza, il valore storico di questo nuovo contenuto? La nuova forma delle chiese «a torre» del genere principesco palatino non aveva affatto un’importanza universale. Se i contemporanei del Canto della schiera di Igor’ non l’avessero compreso, Svjatoslav Vsevolodi/ non sarebbe ricorso alle forme storico-monumentali del genere statale-cattedrale, e Vsevolod iii non avrebbe seguito l’esempio di Svjatoslav. Sia la chiesa dell’Annunciazione a \ernigov, sia la cattedrale della Dormizione a Vladimir v/2 (nella versione modificata da Vsevolod) tracciavano con
l’alto, verso l’idea del Meraviglioso, che è naturalmente divina, cioè abbastanza impersonale, ma tale divinità si concepisce come persona. L’Immagine del Mondo nella chiesa del genere principesco palatino è più antropomorfa, soggettiva: bisogna supporre che in ciò si manifestasse anche una funzione più individualizzata di tale chiesa: quella di corte, o meglio personale (domestica), piuttosto che cittadina, pubblica. Ripeto che nella chiesa palatina non era necessario il nartece, né molte cupole (che, come abbiamo visto, compariranno più tardi in altre circostanze), si erano ridotte le funzioni delle gallerie mentre era aumentata l’importanza della plastica sulla facciata, delle associazioni con le torri e dell’armonizzazione di tutte le forme attorno all’asse centrale. L’Immagine del Mondo nell’architettura del genere principesco palatino, specialmente nella sua variante straordinaria, è più antropomorfa. Della cattedrale non si può dire che rappresenti l’Uomo, ma lo si può dire della chiesa principesca centralizzata. Ma naturalmente essa non è un’Immagine dell’Uomo, ma ancora del Mondo, seppure concepito attraverso la sua antropomorfizzazione. Inoltre l’antropomorfizzazione non si attuava soltanto con mezzi tradizionali simbolico-metaforici (suola della fondazione, cintura, spalle, testa dell’edificio), ma anche con strumenti di appercezione, cioè l’associazione di nuove qualità architettoniche (centricità, altezza, ecc.) con i concetti psicologici di snellezza, elevatezza, magnificenza, individualità e così via, che si erano già venuti formando. Il termine «bellezza» era spesso adoperato dai contemporanei per definire proprio questo tipo di costruzioni. Nella nuova «tendenza» che si andava formando non si può non riconoscere un senso del monumentale, ma anche questa monumentalità è diversa, non massiccia e calma, pesante e monolitica, storica e maestosa, ma in continua ascesa verso il cielo, energica e attiva; essa crea l’illusione di spiccare il volo e nello stesso tempo è simmetrica e araldica (da qui scaturisce la sua spettacolarità, calcolata per suscitare un’impressione visiva, visionismo). Nell’espressione formale venutasi a creare, la sensazione di salda, universale staticità, di ritmico portamento storico viene sostituita da uno slancio impulsivo, da un gioco di fantasia. Questo stile non lo si può chiamare storicismo monumentale: esso si avvicina piuttosto al lirismo epico che caratterizza il Canto della schiera di Igor’. Ma ricordiamo che il lirismo epico del Canto della schiera di Igor’ è tutto pervaso dell’idea dell’unità della Rus’. Questo tipo di semantica non si osserva nella forma architettonica delle chiese «a torre» del genere principesco palatino. Questo è il primo «avvertimento» in cui inevitabilmente ci si imbatte tirando delle conclusioni. Nelle chiese del genere principesco palatino dell’ultimo quarto del xii secolo viene sottolineata non tanto la possanza del muro, quanto la sua pittoricità, non la stabilità della massa, ma la sua leggera mobilità, non l’inerzia del corpo, ma la sua impulsività. Per effetto dell’individualizzazione funzionale questo genere architettonico diviene assai più soggettivato. L’Immagine del Mondo nell’architettura della cattedrale del Salvatore a Smolensk, o in qualsiasi altro tetraconco, è un mondo soggettivato, un microcosmo che si riflette involontariamente sull’intimizzazione dello stile. È molto difficile definire questo stile con un termine preciso. Paragonarlo al gotico è impossibile, sebbene in esso siano presenti diversi elementi romanico-gotici. 192
111. Novgorod, chiesa dell’Annunciazione ad Arkaži, 1179, veduta di insieme.
193
Il geniale slancio dell’architettura «a torre» non andò certo perduto. Una serie di brillanti elementi di questa forma espressiva architettonica si conserverà e verrà utilizzata nell’architettura dello stato della Moscovia, quando si sarà già formato lo stile panrusso.
112-113. Suzdal’, cattedrale della Natività della Madre di Dio, 1222-1225: facciata meridionale (ricostruzione di G. Vagner); pianta. 114. Vladimir, Porte d’oro, veduta.
In quarto luogo, nelle forme monumentali era ammessa una decorazione plastica. Lo storicismo monumentale dell’architettura dell’xi secolo si modificò in un originale stile monumentale-estetizzante, in cui si accordava un’attenzione ben maggiore alla bellezza architettonica, ed ecco perché, evidentemente, la cattedrale della Dormizione a Vladimir lasciò una traccia enorme nell’architettura russa. B.A. Rybakov scrisse a suo tempo che dopo le sfarzose costruzioni di Svjatoslav di Kiev (chiesa dell’Annunciazione) e di Vsevolod di Vladimir (modifiche alla cattedrale della Dormizione), le future vie dell’architettura russa erano già diverse: ne sono un esempio edifici come la chiesa Svirskaja la cattedrale della Trinità a Pskov, della Parasceve a \ernigov e altre162. Questo è vero, ma solo in parte. Ricordiamo che a quel tempo chiese così imponenti come la già più volte menzionata cattedrale di San Demetrio a Vladimir (1194-1197) e quella della Natività della Madre di Dio iv/8; a Suzdal’ (1222-1225) non furono costruite «a torre», ma 112in forme monumentali-cattedrali. Infine, ammettendo che 113 la ricostruzione più fedele della copertura della cattedrale di San Giorgio a Jur’ev-Pol’skoj (1230-1234) sia quella fatta da A.B. Stoletov, allora anche quest’ultimo monumento dell’architettura di Vladimir-Suzdal’ di epoca premongolica terminava con un tamburo che poggiava su uno zoccolo rettangolare abbastanza tradizionale. Non si tratta di sottovalutare le costruzioni «a torre» piramidale e la loro bellezza. Si tratta delle associazioni. Alle composizioni a torre piramidale non si associava l’idea della grandezza e dell’unità della Rus’, l’idea della sobornost’. Perciò è corretto ritenere che la linea generale di formazione dello stile panrusso nell’architettura di epoca premongolica sia quella che si diparte dalle grandi cattedrali principesche dell’xi secolo, come ben compresero Svjatoslav di Kiev e Vsevolod iii. Questa linea si sviluppava all’interno del genere statale-cattedrale, i cui monumenti nel xii secolo vanno considerati reminiscenze.
precisione quella linea generale dell’architettura russa antica dalla quale ci si poteva attendere il massimo risultato nel senso della formazione di un’estetica architettonica panrussa. L’estetica dell’architettura «a torre» non veniva negata, le sue qualità antropomorfe, cioè il senso dell’individualità avevano ancora il loro peso, ma si inserivano in una espressività artistica formale resa più ampia dal senso dello storicismo. L’espressività formale della cattedrale della Dormizione a Vladimir è indubbiamente più ampia rispetto alla chiesa Svirskaja o alla cattedrale di Suzdal’. Essa è più ricca di associazioni di tipo nazionale (Kiev, \ernigov, ecc.), e inoltre, verso la fine del xii secolo, queste associazioni nazionali divennero tanto universalmente comprensibili e significative da far escludere qualsiasi tendenza al bizantinismo. I tratti bizantini (struttura a cinque navate, a croce e cupola, ecc.) erano già a tal punto «nazionalizzati» da essere considerati autenticamente russi. Sotto questo aspetto lo stile dell’architettura di genere statale-cattedrale può vantare pretese di una valenza panrussa assai di più che non lo stile architettonico del tipo «a torre». Cosa caratterizza la formazione dello stile architettonico panrusso alla fine del xii secolo? In primo luogo, l’importanza determinante dell’antica tradizione di Jaroslav. La forma espressiva panrussa era racchiusa nella grande cattedrale a cinque navate, coronata da cinque cupole. In secondo luogo, il senso dell’integrità o integralità monumentale. Il gigantesco parallelepipedo dell’edificio era concepito e trattato non come la somma di parti dalle diverse proporzioni, ma come un blocco unico nei propri parametri. In terzo luogo, questo blocco unico era dotato di una vita interiore: la superficie dei muri era variata in linea orizzontale da accentuate semicupolette e in verticale da un fregio a colonne con capitelli figurati e mensole. 194
115. Vladimir, Porte d’oro, 1165, schizzo.
A differenza dell’architettura religiosa, l’architettura monumentale civile si poteva ricondurre a due generi: di corte o di palazzo e da fortezza. Delle corti e dei palazzi dei secoli x-xii si sono conservati solo insignificanti resti archeologici (Kiev, \ernigov), che testimoniano, del resto, come essi fossero ai loro tempi edifici abbastanza considerevoli. Dal punto di vista compositivo erano dei parallelepipedi allungati, sia a un piano (Kiev), che a due piani (\ernigov). In mancanza di testimonianze dettagliate è impossibile fornirne una descrizione più esauriente. Qualcosa di più si può dire anche del genere da fortezza di epoca premongolica. Dopo la complessa natura funzionale di ciascun genere dell’architettura religiosa, che svolgeva non solo funzioni strettamente pratiche, ma anche mansioni spirituali, ideologiche e addirittura espressive di una concezione del mondo, il genere dell’architettura da fortezza appare molto semplice: il suo scopo era solo e semplicemente difensivo. Da qui la necessità di mura e torri, a cui si potrebbe a prima vista ricondurre la struttura di questo particolare genere. Ma non è affatto così. Scrive giustamente V.V. Kosto/kin: «… le costruzioni difensive dell’antica Rus’, che ci colpiscono per la monumentalità delle forme, l’austera proporzionalità delle masse e l’espressività dell’immagine artistica, entrano nella storia dell’architettura accanto alle diverse costruzioni religiose e civili»163. E ancora: «… le costruzioni difensive militari in pietra esercitavano un’influenza sull’architettura delle altre costruzioni in pietra, in molte delle quali venivano inseriti elementi propri delle costruzioni difensive»164. Abbiamo già espresso più volte il nostro appoggio a queste idee. I più antichi monumenti in pietra del genere da fortezza si ritiene siano le «Porte d’oro» di Kiev (1037) e le «Por114115 te d’oro» a Vladimir Zalesskij (1165). La particolarità delle torri con porte era la presenza sulla loro sommità di chiese «sulle porte» che «… non soltanto santificavano l’ingresso in città, ma tenevano anche le porte sotto la loro protezione»165. Anche il detinec di Novgorod aveva delle torri con chiese sulle porte. A differenza di Kiev e Vladimir, le torri del detinec di Novgorod non si combinavano con una linea di fortificazioni in legno e terrapieno, ma con mura in pietra. Riassumendo quanto detto sulla differenziazione tipologica nell’architettura russa del xii-inizio xiii secolo, possiamo concludere che la forza motrice di questo processo era una differenziazione di funzioni architettoniche più attiva che non in epoca precedente. Se tutto lo sviluppo architettonico nel xii secolo avesse preso origine, per esempio, unicamente dal genere cattedrale-sobornyj, difficilmente si sarebbe sviluppata tanto energicamente nell’architettura dell’antica Rus’ la tendenza a un ripensamento del tradizionale sistema bizantino a croce e cupola. La separazione e lo sviluppo separato delle funzioni del genere principesco palatino ebbero qui un’importanza decisiva. Il genere architettonico principesco palatino era indubbiamente il più attivo. Bisogna supporre che se nel 1237 la Rus’ non fosse stata vittima dell’invasione tataromongola, nei secoli xiii-xiv sarebbero nate nella sua architettura composizioni armoniche sul tipo della chiesa co-
stantinopolitana della Panagia Mougliotissa (Santa Maria dei Mongoli, oggi Kanli Kilise), con il suo intimo spazio a tetraconco il cui individualismo «ha punti di contatto col rinascimento»166. Si sarebbero sviluppate anche composizioni più gotiche sul tipo dell’architettura galiziana del terzo stadio, anch’esse gravitanti verso l’estetica architettonica prerinascimentale. Dietro tutto ciò stava indubbiamente non solo un mutamento nei gusti artistici, una loro individualizzazione, ma prima di tutto un cambiamento nella visione del mondo, l’individualizzazione della simbolica, l’intimizzazione del culto stesso, che nel mantenere la simbolica primitiva venne tuttavia pervaso da un motivo intimo, dalla concentrazione e dall’attenzione a se stesso. Tuttavia il corso della storia russa affidò il ruolo principale al genere statalecattedrale, forse meno attivo, ma più fondamentale dal punto di vista nazional-spirituale. Fu proprio esso a conservare l’immagine della cattedrale russa fino alla fine del xii secolo e a far sì che venisse adottata nell’architettura moscovita. Nonostante l’alterazione del cammino storico dell’architettura russa antica dovuta all’invasione tataromongola, lo sviluppo delle sue conquiste artistiche non fu interrotto. Venne frenato, ostacolato, ma le conquiste erano troppo grandi per scomparire; anzi, esse entrarono a far parte dello sviluppo europeo nel suo complesso, tanto che, divelte quasi alle radici, nel xiii secolo iniziarono ancora gradualmente a ricostituirsi. L’aggravamento della situazione storica fu il motivo della deformazione delle tendenze prerinascimentali. Scultura Mentre tra la fine dell’xi e l’inizio del xii secolo nell’architettura di Kiev, \ernigov e Gali/ la scultura aveva trovato un’applicazione abbastanza limitata sulle facciate, tra la seconda metà del xii e l’inizio del xiii secolo essa incominciò a riempire tutti i muri delle chiese, e penetrò all’interno: questo fenomeno fu paragonato da A.A. Bobrinskij alla nascita di Minerva dalla testa di Zeus. In realtà ciò si verificò solo nel principato di VladimirSuzdal’, si interruppe con l’invasione dei Mongoli e in 195
seguito non ricomparve più nelle stesse proporzioni. Come spiegare questo fenomeno? Fu qualcosa di straordinario oppure si può vedere in esso la rispondenza a una certa legge? Paragonando la scultura di Vladimir-Suzdal’ con la nascita di Minerva, A.A. Bobrinskij pare privarla di qualsiasi conformità a una legge. Ma anche se «la storia non è mai stata alla scuola della logica»167, essa tuttavia non conosce un simile «arbitrio». Abbiamo visto che, sia nell’architettura come nella pittura, si è lentamente ma puntualmente estinto il «classicismo bizantino», soppiantato da forme più originali. A ciò contribuì in forte misura nel xii secolo una particolare «rinascita» della «coscienza popolare», che portò alla fioritura dell’arte decorativa applicata dello «stile animalesco». In tale atmosfera trovava un terreno favorevole tutto ciò che non era simile a Bisanzio. E così Andrej Bogoljubskij approfittò della possibilità di pronunciare quella parola che non potevano dire gli altri principati, nemmeno quello di Galizia-Volynija. Le cronache informano che per Andrej Bogoljubskij lavoravano artigiani provenienti da tutti i territori. Dobbiamo supporre che il nucleo principale fosse costituto da gente originaria di Gali/, cui si unirono artigiani dell’Europa centrale. Il primo esempio di decorazione plastica esterna nella Rus’ di Vladimir-Suzdal’ fu la costruzione
della chiesa palatina di Bogoljubovo, presso Vladimir 116, (1156-1158?). La chiesa fu decorata con «maschere» fem- 123 minili e leonine, stilisticamente vicine a modelli romanici. Nella chiesa della Protezione sul fiume Nerl’ (dello stesso periodo) aumentò il numero di volti femminili, apparve la figura del Salmista Davide circondato da volatili e leoni, oltre a numerose mensole figurate. All’interno vennero introdotti rilievi raffiguranti leoni. Nei profili dei volti femminili si conservano in parte tratti romanici, ma prevalgono chiaramente le immagini «russificate». Una straordinaria «esplosione» di decorazioni plastiche si produsse sui muri della cattedrale di San Demetrio 117, a Vladimir, costruita negli anni 1192-1197. In realtà, la 125 metà inferiore dei muri fu lasciata libera (ad eccezione dei rilievi sui portali). La parte superiore, invece, comprese le absidi e i tamburi delle cupole, è integralmente ricoperta da bassorilievi, come un broccato. Il divario di quarant’anni che separa la chiesa della Protezione sul Nerl’ dalla cattedrale di San Demetrio ci fa supporre che dal principe Vsevolod iii (fratello di Andrej Bogoljubskij che venne ucciso nel 1174) fosse arrivato un nuovo grande artel’ (circa 20 persone), che in cinque anni riuscì a creare una simile favola architettonica. Il motivo centrale della scultura è ancora il Salmista Davide, che però questa volta non è circondato da due volatili e due leoni, ma campeggia in mezzo a qualche centinaio di bestie e volatili reali e fantastici. Prevalgono le figure di leoni e grifoni. Molto spazio è riservato anche alle figure umane, tra le quali si riconoscono i principi Boris e Gleb, ed anche lo stesso Vsevolod iii con i suoi figli. Tutto questo fantastico agglomerato di bassorilievi è intessuto di un ornamento vegetale a forma di alberi stilizzati o rami168. È interessante notare come i tratti romanici nello stile delle sculture murarie della cattedrale di San Demetrio siano notevolmente diminuiti. Ma c’è di più. Si distinguono intere porzioni di parete (per esempio sulla facciata meridionale) con un’incisione marcatamente piatta che rivela una mano abituata ad intagliare il legno. Qui lavorarono indubbiamente artigiani russi, probabilmente locali. È ancora un enigma chi possa aver ideato un progetto scultoreo tanto complesso, che certamente non si può ridurre a mero senso decorativo, ma che evidentemente contiene un pensiero molto profondo. Che genere di pensiero? L’accostamento di Vsevolod iii al re Davide, unificatore e organizzatore di un regno unitario? Oppure una raffigurazione dell’universo? Queste domande hanno avuto diverse risposte. È importante notare come nella scultura della cattedrale di San Demetrio non ci sia nulla di escatologico o apocalittico, e già solo per questo non si può classificarla nello stile romanico. In essa non ci sono grandi figure statuarie, né tremendi esseri demoniaci, mentre vi trova molto spazio l’ornamento vegetale. Invece della lotta tra le forze delle tenebre e quelle della luce regna dappertutto un’armonia universale. Il libero accostamento di forme vegetali, zoomorfe e antropomorfe distingue nettamente la scultura di Vladimir-Suzdal’ sia da quella precedente, sia dai sistemi decorativi dell’Asia centrale (musulmani). Abbiamo a che fare con un’arte molto indipendente, che si manifesta con particolare chiarezza nelle forme decorative vegetali. Gli esperti dell’arte antica russa hanno scritto molto sulla decorazione della cattedrale di San Giorgio a Jur’ev- 127 Pol’skoj, paragonandola ora con quella caucasica, ora con quella asiatica, e sottolineando in tutti i modi la sua natura
116. Vladimir, Bogoljubovo, «pilastro della madre di Dio» con capitello a quattro facce, 1115-1165 (ricostruzione di G. Vagner).
196
profondamente e spontaneamente realistica, poiché alla base non solo della chiesa terrena, ma anche di quella celeste è posto il mondo della Natura, la Madre-Terra. Lo stile della scultura di Vladimir-Suzdal’ è altrettanto 126, difficile da definire quanto lo stile dell’architettura e della 128 pittura nella Rus’ tra la seconda metà del xii e l’inizio del xiii secolo. È già difficile ricondurlo allo storicismo monumentale. Anche la stessa architettura non è tanto monumentale ma, ciò che più importa, nella scultura lo storicismo è come affondato in un quadro fantastico, costituito dai più svariati elementi. Folclore? Certo non se ne può fare a meno. Ma è impossibile anche ricondurre tutto al folclore. Non si può nemmeno negare la presenza nella scultura di Vladimir-Suzdal’ di un elemento colto, dotto. Abbiamo a che fare piuttosto con l’espressione scultorea di quella teologia popolare del primo medioevo che si nutriva di composizioni popolari sul tipo dell’Elucidario ed era rivolta ad un auditorio di massa169. Ma se nella scultura europea occidentale di stile romanico si puntava sulla minaccia delle pene infernali, nella Rus’, invece, in particolare nel principato di Vladimir-Suzdal’, spiccava in primo piano il tema della vittoria del bene sul male (la figura di Davide come costruttore di pace) e della salvezza (le immagini dei patimenti del Signore). Il Microcosmo (l’uomo) non era contrapposto al Macrocosmo (l’Universo), ma formava un tutto unitario con esso. Sotto questo aspetto tutte le forme di arte figurativa della Rus’ di Kiev erano unitarie.
di arabesco. Ma in questa decorazione non c’è proprio nulla dell’arabesco! A dire il vero, non si può nemmeno definire realistica, ma il grado di stilizzazione degli “alberi” non fa venir meno l’«idea» stessa di albero, e proprio in essa sta il senso dell’ornamento. L’«albero della vita» su basamento triangolare e con alcune coppie di volute è un motivo antico e molto diffuso nell’arte dei popoli contadini. Lo si trovava fin dai primordi anche nell’arte slava ed è sopravvissuto nell’arte contadina fino al xix secolo. Nel corso della storia questo motivo, originariamente cultuale, perdette lentamente il proprio significato simbolico rituale ed acquistò attributi estetici dell’arte profana di città. Ma quando in qualche opera bisognava esprimere il tema della Natura, della Terra, della Vita, gli artigiani popolari riproducevano invariabilmente il tradizionale «albero della vita». Nella decorazione della cattedrale di San Giorgio (1230-1234) l’ornamento dell’ordine inferiore dell’edificio rappresentava la Terra nel senso più ampio del termine. Al di sopra era disposta una scultura sul tema della chiesa terrena e celeste. Mentre nel primo ordine l’ornamento appariva come un lussureggiante giardino di alberi della vita, nell’ordine superiore si trasformava in un intreccio di liane più minuto e pittoresco, come smaterializzato. L’idea della Terra è sottolineata dalla presenza di coppie di uccelli presso le radici degli alberi, che richiamano il mito molto diffuso che li vorrebbe creatori del mondo. I volatili e le bestie presso le radici degli alberi si ricollegano anche alle antiche rappresentazioni dei compagnicustodi dell’«albero della vita». L’immagine della Terra sotto forma di giardino rigoglioso alla base dell’intero universo, rappresentato dall’apparato scultoreo della chiesa, conferisce a questa scultura un carattere cosmogonico. Nonostante gli elementi ecclesiastici, non è una cosmogonia ecclesiastica ma popolare,
Pittura La pittura tra la seconda metà del secolo xii e l’inizio del xiii è più conosciuta di quella dell’epoca precedente. Essa è indubbiamente un’espressione del fecondo sviluppo di molti centri artistici locali, di cui abbiamo parlato in precedenza. Sebbene tutti questi centri fossero impensabili a prescindere da Kiev, tuttavia il processo di frazionamento feudale continuò la propria opera. Era cresciuto rapidamente il numero di opere dell’architettura monumentale e bisognava affrescarle, dotarle di icone e di suppellettili liturgiche. Oggi è persino difficile immaginate la quantità di artel’ e di artigiani attivi nella Rus’ alla vigilia dell’invasione tatara. Erano Russi, Greci e oriundi dei Balcani e del mondo romano occidentale. Questa grande varietà di artigiani ebbe un’importante conseguenza. In primo luogo, chi invitava dei mastri artigiani aveva ampia possibilità di scelta in base alle notorie tendenze artistiche di questo o quell’artel’. Un committente voleva, supponiamo, una pittura di carattere bizantineggiante, un altro preferiva uno stile balcanico, romanico o locale. In secondo luogo, anche se non si operava una scelta di questo tipo, comunque la specificità della tradizione di ogni artel’ emergeva da sé, spontaneamente. Infine, anche all’interno di ogni singolo artel’ c’erano artigiani dalle diverse inclinazioni artistiche. Era certamente così anche nell’xi secolo, ma allora si seguiva più rigorosamente la linea panrussa. Con il frazionamento feudale della Rus’ questa unità convenzionale incominciò a disgregarsi. Alla formazione di «scuole architettoniche» si accompagnava la differenziazione della singola corrente pittorica, anche se a quel tempo non si può parlare ancora di formazione di scuole pittoriche. Possiamo osservare qui schematicamente due linee: una «grecofileggiante» e una propriamente russa. La prima, naturalmente, è più caratteristica dei lavori commis-
117. Vladimir, cattedrale di San Demetrio, facciata settentrionale.
197
sionati da esponenti dell’alta nobiltà feudale. Nel periodo in esame, questo genere di pittura ha inizio con il complesso ciclo di affreschi nella chiesa del Salvatore della v/3- Trasfigurazione nel monastero sulla Miroža. Il suo com8 mittente non poteva essere più il vescovo Nifont di Novgorod (morto nel 1156), ma il contenuto e lo stile degli affreschi rispecchiavano quell’orientamento «grecofilo» per cui Nifont rassomigliava a Jurij Dolgorukij. Ma questa non era già più una linea puramente bizantina. Nello stile degli affreschi si nota una rozzezza e un infoltimento delle figure, e soprattutto compare quella linea ornamentale che si svilupperà nella pittura di carattere locale. Alcuni studiosi vedono in questo un possibile influsso dello stile romanico, dimenticando che esso era un tratto comune sia all’arte russa che a quella romanica, dettato dalla formazione di un principio nazionale. Con l’andar del tempo questi due principi si svilupperanno parallelamente. Il primo, quello «grecofilo» si manifesta verso la fine del secolo nel magnifico ciclo pittorico 118- della cattedrale palatina di San Demetrio a Vladimir (1194119 1197), pervasa di spirito ellenistico. Si è conservata, in realtà, solo la porzione occidentale degli affreschi (il Giudizio universale), ma proprio qui le figure umane riprodotte (gli apostoli) sono in proporzioni così grandi da consentire agli artisti di dar prova della propria maestria nell’ambito dell’individualizzazione psicologica dei volti. Alcuni apostoli (in particolare Marco) sono così espressivi che sembrano quasi varcare i confini stilistici del xii secolo. La stessa impressione è prodotta anche da uno stile pittorico più libero, lontano dalla stilizzazione lineare. Nella Rus’ del xii secolo quest’arte può essere considerata tipica della capitale, cosa, del resto, del tutto naturale, dato che al tempo di Vsevolod iii la città di Vladimir era la capitale informale v/ della Rus’. Sebbene ci siano ignote le origini degli artigia14- ni che eseguirono gli affreschi di Vladimir, come pure la 16 composizione dell’artel’ di Pskov (monastero sulla Miroža), v/3- essi erano senza dubbio artisti greci (non necessariamente 8 costantinopolitani). Tra i monumentalisti bizantini che lavorarono nella Rus’ nella seconda metà del xii secolo c’erano naturalmente anche gli iconografi. Queste specialità non erano rigidamente separate, ma tuttavia non tutti i monumentalisti avevano la padronanza della «scrittura» iconica, più fine e minuziosa, e per questo non tutti la praticavano. Non è escluso che dal gruppo di artisti che affrescarono la v/ cattedrale di San Demetrio di Vsevolod iii sia uscito anche 10 il maestro che dipinse la grande icona di San Demetrio di Tessalonica, eseguita con mirabile maestria. Seduto in trono con portamento fiero, con la spada semisguainata sulle ginocchia, il santo guerriero appare molto simile alle immagini degli apostoli-giudici del Giudizio universale negli affreschi di San Demetrio. Demetrio di Tessalonica non va visto necessariamente come la raffigurazione idea le di Vsevolod iii, sebbene ciò sia psicologicamente del tutto giustificato. L’importante dal punto di vista della storia dell’arte anticorussa è che questa è un’opera locale e non importata da Bisanzio. Quindi nella Rus’ del xii secolo non si verificò affatto quello svilimento dell’arte che talvolta è legato al frazionamento feudale. Oltre all’icona di San Demetrio di Tessalonica, tra la seconda metà del secolo xii e l’inizio del xiii videro la luce diverse altre icone dallo stile altrettanto elevato. Tra le più famose ricordiamo il Salvatore non fatto da mano d’uomo (dalla cattedrale della Dormizione del Cremlino), San Ni-
cola (dal monastero Novodevi/ij), l’Angelo dai capelli d’oro, la cosiddetta (erroneamente) Annunciazione di Ustjug v/9 (da Novgorod), San Giorgio guerriero (dalla cattedrale della Dormizione del Cremlino), gli Apostoli Pietro e Paolo (da Beloozero) e varie altre. I volti altamente ispirati con grandi occhi espressivi, la pittura artistica di queste icone, rivelano la mano di maestri che ben conoscevano l’arte bizantina. Di particolare bellezza è l’icona dell’Angelo dai capelli d’oro, nella quale l’unione di bellezza spirituale e terrena raggiunge un’estrema perfezione. Più virile è l’immagine di San Giorgio guerriero, nella cui interpretazione pittorica il procedimento della «scrittura coi colori» è molto vicino ai mosaici della Sofia di Kiev. Come già detto, assieme a questa «tendenza» (usando questo termine in modo convenzionale), nell’epoca che stiamo esaminando prese piede una pittura con evidenti tratti di «russificazione». Anche questo termine è usato convenzionalmente. Si tratta di una pittura in cui un rigido stile bizantino è come riempito da tratti più concreti, terreni. Essi si potevano già notare nella pittura della prima metà del xii secolo (affreschi nella Sofia di Novgorod), ma ora danno vita a uno stile che V.N. Lazarev chiamò arditamente «locale». V.N. Lazarev partiva principalmente dall’analisi degli affreschi nella chiesa del Salvatore della Trasfigurazione 120 sulla Neredica, risalenti all’anno 1199. Ma questo stile non si formò certamente tutto in una volta. Già negli affreschi della chiesa di San Cirillo a Kiev (anni ’60-’70 del xii secolo) si notava chiaramente una deviazione dal-
118. Vladimir, cattedrale di San Demetrio, l’apostolo Marco, dall’affresco del Giudizio universale nella navata centrale.
198
lo stile classico bizantino, tanto nel sistema come nei segni formali. Al posto del rigido («trasparente») sistema costantinopolitano, vediamo un condensarsi di soggetti, un’associazione abbastanza libera di decorazione murale e affresco ad imitazione delle icone. Si sviluppa il metodo chiamato «ad arazzo», che si riflette anche nell’ampliamento della superficie pittorica, cui si aggiunge una sfumatura di graficità. I volti dei santi si vanno notevolmente v/ «slavizzando». Questo stile un po’ lapidario si sviluppa 13, negli affreschi delle chiese di Novgorod negli ultimi de17- cenni del xii secolo (chiesa dell’Annunciazione ad Arkaži, 18 1189; chiesa di San Giorgio a Staraja Ladoga, anni ’80 del iv/2 xii secolo; chiesa del Salvatore della Trasfigurazione sulla Neredica, 1199), formando, come dice V.N. Lazarev, uno stile originale novgorodiano170. Questo stile è espresso con particolare chiarezza negli affreschi della chiesa di Neredica, nella cui ricchezza e realismo, come dice V.N. Lazarev, «emerge con una forza straordinaria il filone popolare. E ciò è ancora più interessante in quanto abbiamo a che fare con affreschi che, come già abbiamo notato, decorano una chiesa principesca»171. Poiché gli affreschi di Novgorod, Pskov e Ladoga rappresentavano allora la quasi totalità della pittura russa, questo stile si può definire russo. Esso si manifestò altrettanto chiaramente anche nelle icone, prima di tutto in quelle che non erano tanto legate alla tradizione bizantina (San Nicola dal monastero dello Spirito Santo, la Madre di Dio del Segno ed altre). Nell’icona di San Nicola la tradizionale combinazione dell’immagine centrale con figure di santi di proporzioni piuttosto piccole «ai margini» si condensa dal punto di vista compositivo, il colore è più localizzato e pulito, ap-
120. Novgorod, chiesa del Salvatore della Trasfigurazione sulla Neredica, battesimo, affresco sulla parete meridionale.
portando così nel sistema pittorico dell’icona un elemento dell’arte applicata. Con il rafforzamento della graficità e dei contorni la pittura ricorda un’opera d’arte applicata, e a questo contribuisce anche la marcata piattezza della raffigurazione. Non si può dire che l’immagine iconica (l’immagine del santo) si sia con ciò semplificata. Ha perduto, forse, la propria individualità, il distacco psicologico, ma è divenuta tuttavia molto più «adatta alla preghiera», ha acquistato quasi una concretezza di preghiera, in quanto sull’icona erano evidentemente raffigurati i santi patroni della grande famiglia del committente. Tutto ciò favoriva il consolidamento dei tratti locali, caratteristica principale della Scuola di Novgorod all’inizio del xiii secolo. Ma questo processo ebbe inizio ancora nella seconda metà del xii secolo, periodo a cui risale l’icona della Madre di Dio del Segno. Sul retro di questa icona sono raffi- v/ gurati Pietro e la martire Natalia (!) che pregano Cristo. 11L’interpretazione ampiamente pittorica (e non grafica) 12 del volto di Pietro con accentuata probelka (tecnica dello schiarimento) assieme alla dolcezza popolaresca (tenerezza) dell’espressione, si allontanano molto dal canone bizantino, preannunciando un nuovo stadio dell’arte russa.
121. Suzdal’, cattedrale della Natività della Madre di Dio, grifone, particolare delle porte occidentali, rame, «doratura a caldo», niello, anni 1230.
119. Vladimir, cattedrale di San Demetrio, angelo, dall’affresco del Giudizio universale nella navata centrale.
199
si percepisce una certa ingenuità popolare (sproporzione delle figure, immobilità che ricorda gli idoli, stile araldico, ecc.), in alcune miniature (per esempio quelle dell’Evangeliario di Gali/ in Volynija, inizio secolo xiii) sono già evidenti i sintomi di una ripresa dello stile, e di una ripresa che è segno «della partecipazione della pittura russa premongolica al processo di rinnovamento delle forme artistiche medioevali comune a tutta l’Europa dell’inizio del xiii secolo»174. Ciò emerge sia dalla festosa atmosfera delle miniature, sia anche dalla «inconsueta mobilità delle figure, delle pose e dei drappeggi» e dall’impressione di «spontaneità e gaiezza che ravviva l’austerità del sistema artistico bizantino». È logico concludere la sezione sulla pittura della Rus’ di Vladimir-Suzdal’ con un’opera che si trova già alle soglie dell’arte applicata e si colloca alla vigilia dell’invasione mongola. Si tratta delle Porte d’oro della cattedrale di Suzdal’, eseguite negli anni 1222-1225. I battenti metallici dei portali occidentale e meridionale della cattedrale di Suzdal’ furono chiamati «d’oro» perché furono eseguiti con la tecnica della doratura a caldo su disegno a niello. Non si tratta propriamente di pittura, bensì di una sorta di grafica del tipo dell’acquaforte, ma con doratura. Tuttavia queste opere sono tradizionalmente collocate nell’ ambito della pittura. Ognuna delle porte contiene 28 piastre incise. Le fasce inferiori di incisioni sono occupate da motivi zoomorfi, le altre da soggetti biblici (porte meridionali) e cristiani (porte occidentali). Durante la loro storia secolare le porte di Suzdal’ sono state più volte «riparate», non vale perciò la pena di parlare dell’ordine dei riquadri. Più interessante è l’interrogativo sui loro autori. Le porte sono indubbiamente opera di maestri diversi (o di diversi artel’). Nello stile compositivo delle porte occidentali si trovano più tratti slavi, mentre in quelle meridionali prevalgono i tratti bizantini, ma le iscrizioni su entrambe le porte sono in lingua staroslava175. Lo scintillio dell’oro sul fondo nero e nella cornice dell’opera in pietra bianca ricca di bassorilievi fa delle porte di Suzdal’ uno dei prodotti più sublimi dell’arte premongolica, in cui si coniugano profondità concettuale, un fine senso decorativo e una grande maestria tecnica. Poco dopo l’esecuzione di queste porte le orde di Batyj si riversarono sulla Rus’ nordorientale…
122. Suzdal’, cattedrale della Natività della Madre di Dio, santo sconosciuto, dall’affresco della sacrestia (1230-1233).
Un po’ diversa era la situazione nella Rus’ di Vladimir-Suzdal’. La tragica sorte di Andrej Bogoljubskij non indebolì, anzi rafforzò il potere del principato con le sue tendenze panrusse. Da qui deriva un’attenzione assai maggiore verso l’eredità bizantina, come avevamo già notato ricordando gli affreschi della cattedrale di San Demetrio. Le due principali Deesis di epoca premongolica provev/ 14- nienti da Vladimir (una col Cristo, la Madre di Dio e San 16 Giovanni Battista; l’altra col Cristo raffigurato come l’Emmanuele e gli angeli) sono considerate da V.N. Lazarev come le più bizantine per carattere172. Nello stesso tempo egli non le attribuisce però a un maestro bizantino, specialmente la prima Deesis, quella con la Madre di Dio e Giovanni Battista. Una certa diminuzione della spiritualità e un certo aristocratismo sono compensati in questa icona da tratti non tradizionali (non costantinopolitani), che è più corretto chiamare non tanto provinciali, quanto locali. È difficile dire quanto fossero forti queste due «tendenze» a Vladimir, ma la comparsa a Jaroslavl’, probabilmente ancora prima dell’invasione mongola, di un’immagine così interiorizzata come quella del Salvatore, è sintomo che non solo a Novgorod, ma anche nella Rus’ di Vladimir-Suzdal’ la pittura aveva acquistato un fondamento nazionale. Ne sono testimonianza anche l’icona moscovita della Madre di Dio Eleusa del xii secolo, una sorta di «equivalente russo» della famosa Eleusa bizantina (Madre di Dio di Vladimir) e antesignana della Madre di Dio del Don173. Naturalmente con la caduta di Costantinopoli nel 1204, l’arte locale russa si rafforzò, e questo l’aiutò a sopportare il terribile colpo dell’invasione dell’Orda d’oro. Se nelle icone «di stile originale novgorodiano» (Lazarev)
Arte applicata L’arte applicata nella Rus’ all’epoca del frazionamento feudale non è forse tanto brillante come ai tempi dell’unità dell’«impero dei Rjurikidi», ma è più varia e più vicina all’estetica popolare. Ciò è naturale, poiché con la crescita dei centri locali crebbero e si consolidarono anche le potenzialità artistiche locali. Ma l’eredità kieviana, che D.S. Licha/ëv definì «la nostra antichità» era così grande e ricca che continuò ad alimentare i centri locali fino alla catastrofe degli anni 1237-1240, che coinvolse tutti tranne Novgorod e Pskov. Nel 1237 cadde Rjazan’ e nel 1240 Kiev. Dopo il frazionamento feudale della Rus’ di Kiev, iniziato verso la metà del xii secolo, non solo Gali/, \ernigov, ma anche città più distanti furono ancora a lungo i centri di gravità dell’artigianato originario delle regioni del Dnepr. Così, per esempio, Rjazan’ era famosa per i barma (collari) d’oro, i kolty (pendenti da tempie) e i braccialetti v/ d’argento, il cui gusto locale lascia chiaramente trasparire 23l’eredità kieviana176. 24 200
123
124
125
126
127
128
123. Vladimir, Bogoljubovo, maschera femminile, rilievo nella chiesa della Natività della Madre di Dio, 1158-1165 (?). 124. Vladimir, cattedrale della Dormizione, capitello di una semicolonna della facciata. 125. Vladimir, cattedrale di San Demetrio, pavone, rilievo nella parte sinistra della facciata settentrionale. 126. Suzdal’, cattedrale della Natività della Madre di Dio, particolare dell’archivolto del portale interno occidentale. 127. Jur’ev-Pol’skoj, cattedrale di San Giorgio, centauro, rilievo sulla parete settentrionale dell’atrio occidentale. 128. Suzdal’, cattedrale della Natività della Madre di Dio, maniglia a forma di testa leonina, porte occidentali.
cornice ornamentale ispirata all’incisione in pietra bianca delle antiche cattedrali177. Un carattere più individuale presentano altri singoli oggetti, come un elmo da guerra, attribuito al principe v/28Jaroslav Vsevolodovi/178, ricoperto di piastre d’argento 29, cesellate con figure di santi e con una grande immagine 32 dell’arcangelo Michele sulla fronte. L’elmo è decorato da un orlo rabescato con grifoni che lo accomuna con gli ornamenti architettonici d’intaglio, ed anche con la decorazione delle porte «d’oro» della cattedrale di Suzdal’. L’elmo descritto fu rinvenuto sul campo della battaglia avvenuta nel 1216 tra i principi di Pereslavl’ e di Novgorod, cui parteciparono (da parti opposte!) due fratelli germani. In tali condizioni di separazione i principati russi non potevano naturalmente opporre resistenza all’Orda d’oro.
v/ Nella fabbricazione dei barma d’oro di Rjazan’ ha una 25 funzione molto importante lo smalto alveolato (cloison-
né). Non è così sgargiante come nei monili kieviani, ma è reso più armonico incastonandovi pietre colorate; inoltre la decorazione dei barma utilizza anche la filigrana. Le v/ immagini di santi collocate al centro del barma si collo27 cano in una cornice di preziosa trina, come ad anticipare le facciate rabescate dell’architettura di Vladimir-Suzdal’. È accertato che a Rjazan’ era conosciuta anche la tecnica della doratura a fuoco su metallo. Non è strano che anche nell’arte applicata di Vladimir-Suzdal’ si trovino molte analogie. Per esempio lo smalto alveolato è simile a quello di Rjazan’, ma non è applicato su oro, bensì su una base di rame. Nei bracciali d’argento i motivi mitologici russi compaiono in una
Conclusione L’arte anticorussa prima dell’invasione dei Mongoli si presentava straordinariamente viva e integra. Abbandonati con relativa facilità i templi pagani e gli idoli ad essi legati, ma conservando tuttavia uno spirito vivificante, essa interpretò i valori spirituali provenienti da Bisanzio senza un eccessivo razionalismo teosofico, evitando così di giungere ad un antagonismo con la cultura popolare. Il paganesimo come religione, come culto, fu certo lenta-
mente superato, ma i suoi principali valori estetici: il senso dell’unità con la natura, la poetica della natura, la poetica della creazione artistica, si conservarono e divennero la forza vivificante della nuova arte. Assieme al cristianesimo l’uomo acquisì la concezione del valore dell’anima, perfettamente espressa da Vladimir Monomach con le parole: «La mia anima mi è più cara di tutto questo mondo»179. Ma egli scrisse pure: «Non il romitaggio, né il monache201
simo, né il digiuno cui ora si sottopongono gli uomini di buona volontà vi guadagneranno la misericordia divina, ma una piccola opera». Per una piccola opera, tuttavia, sono necessarie molte forze fisiche, senza di esse non si è in grado di compiere sacrifici eroici per lo stato, e tutte le 83 campagne di guerra di Vladimir Monomach furono sacrifici eroici di questa levatura. La lastra di pietra intagliata raffigurante la lotta di Eracle col leone, che si trova nel monastero delle Grotte di Kiev, descrive perfettamente lo spirito eroico dell’epoca della Cronaca degli anni passati, con la sua idea centrale dell’unità della terra russa. Nell’arte questo diede origine allo stile dello storicismo monumentale. Nelle sue forme trovarono espressione le nuove concezioni della Rus’ come componente imprescindibile della storia mondiale, formulate con estrema chiarezza dal primo metropolita russo Ilarion nel suo Discorso sulla Legge e la Grazia. L’arte di Kiev, \ernigov, Novgorod, e in parte di Polock tra il secolo xi e l’inizio del xii, sebbene differente nei dettagli, nel suo complesso rappresentò uniformemente questo stile dell’epoca, che per il suo spirito di «compresenza di bello e buono» possiamo chiamare la «nostra antichità»180. La monoliticità di stile dello storicismo monumentale era così forte che i suoi echi (o reminiscenze) si sono osservati per tutto il xii secolo, e in tutti i campi dell’arte. È in parte per questo che la datazione di alcune opere si presenta molto difficoltosa. Per esempio opere come l’icona di San Giorgio e la Madre di Dio dell’Incarnazione (Jaroslavskaja orante) vengono attribuite sia all’xi secolo che al xii e persino al xiii, e così è anche per alcune icone del Pantocratore. Ciò non di meno la vita nella situazione del frazionamento feudale detta le proprie necessità. In architettura si formano scuole locali. Accanto all’immagine classica della Madre di Dio Eleusa (famosa icona bizantina del xii secolo, nota col nome di Vladimirskaja) appaiono altre immagini, iconograficamente affini, ma stilisticamente originali, come la Madre di Dio Beloozerskaja, la Madre di Dio della
Tenerezza ed altre. La drammaticità del sacrificio materno espressa in queste immagini (specialmente nella Beloozerskaja) non è tanto convincente sotto l’aspetto psicologico, ma è indice di una interpretazione autonoma di questa grande tematica, particolarmente evidente nell’icona del Cremlino. Ancora più numerose sono le varianti locali nelle immagini del Salvatore (a busto) tra le quali se ne trovano alcune dall’espressione sorprendentemente sognante e buona «che hanno perduto ogni severità» (V.N. Lazarev). Non troviamo invece immagini «comuni a tutto lo stato» come il Pantocratore dipinto nella cupola di Kiev o di Novgorod, e poi queste cupole non c’erano più nell’architettura del xii-inizio xiii secolo. Nelle cupole si incominciò spesso a riprodurre l’Ascensione di Cristo, un soggetto più legato all’idea ecclesiale del servizio apostolico. Assieme alla riduzione della portata universale dell’architettura e della pittura si verificò una concretizzazione dei programmi artistici in conformità con le condizioni locali di vita. A Novgorod si formò il culto della SofiaSapienza, nel principato di Vladimir-Suzdal’ il culto della Madre di Dio, in alcuni principati (\ernigov, Rjazan’) il culto dei principi Boris e Gleb. L’arte si avvicinò all’uomo, nelle immagini dell’architettura e della pittura si andava esaltando il principio individuale. Nella scultura sopravvisse più a lungo un certo «cosmologismo», ma anche in essa all’inizio del xiii secolo apparve un’immagine di Cristo così emotiva da potersi paragonare ad alcune opere dell’arte italiana181. Accanto alla raffigurazione dei santi vediamo anche personaggi profani, ora della cerchia principesca, ora personificazione dei diversi «popoli». Tutto ciò significa che nell’arte russa dell’inizio del xiii secolo stavano maturando dei tratti che consentono di parlare, se non di un «duecento russo», almeno di una sua fase preparatoria. Proprio in questo interessantissimo stadio lo sviluppo dell’arte russa fu arrestato dall’invasione dell’Orda d’oro nel 1237 e dal successivo giogo tataro, durato oltre due secoli.
Note Drevnerusskie knjažeskie ustavy xi-xv vv., a cura di Ja.N. Š/apov, Mosca 1976, p. 15. 12 Questa opinione era condivisa anche da A. Golubcov. Golubcov A., Sobornye \inovniki i osobennosti služby po nim, Mosca 1907, pp. 21-22, nota 4. 13 Kome/ A.I., Spaso-Preobraženskij sobor v \ernigove, in «Drevnerusskoe iskusstvo. Zarubežnye svjazi», Mosca 1975, p. 25. 14 Vagner G.K., Iskusstvo myslit’ v kamne. Opyt funcional’noj tipologiji pamjatnikov drevnerusskoj architektury, Mosca 1990, pp. 3 ss. 15 Ibid. 16 Cholostenko N.V., Z istorii zodčestva drevn’oi Rusi x st., in «Archeologija», xx, Kiev 1965, pp. 76 ss. 17 Beridze V.V., Gruzinskaja architektura rannechristianskogo vremeni (iv-vii vv.), Tbilisi 1974, p. 8. 18 V. in particolare: Vagner G.K., U istokov drevnerusskoj monumental’noj architektury, in «Trudy Akademii chudožestv sssr», 4, Mosca 1987, p. 209. 19 Kora0 V., Dva tip a kafedral’nych soborov xi v. V oblastjach, kul’turno svjazannych s Vizantiej, in Srednevekovaja Rus’, Mosca 1976, p. 163. 20 Cfr. Korzuchina G.F., O pamjatnikach «korsunskogo dela» na Rusi, in «Vizantijskij vremennik», t. xiv, Mosca 1958, p. 130. 21 Golubcov A., Sobornye \inovniki…, cit., p. 175. 11
Tacho-Godi A.A., Žizn’ kak sčeničeskaja igra v predstavlenii drevnich grekov, in «Iskusstvo slova», Mosca 1973, p. 310. 2 Stoljarov A.A., Fenomen sovesti v antičnom i srednevekovom soznanii, in «Istoriko-filosofskij ežegodnik 1986», Mosca 1986, pp. 24-34. 3 Sedov V.V., Drevnerusskoe jazyčeskoe svjatilišče v Peryni, in «Kratkie soobš/enija Instituta istorii material’noj kul’tury», fasc. 50, Mosca 1953, pp. 92-103. 4 Redin E.K., «Christianskaja topografja» Koz’my Indikoplova po grečeskim i russkim spiskam, Mosca 1916, p. 2. 5 Ibid., pp. 76 ss. 6 Dvoržak M., Istorija ital’janskogo iskusstva v epochu Vozroždenija, t. 2, Mosca 1978, p. 98. 7 Averincev S.S., U istokov poetičeskoj ohraznosti vizantijskogo iskusstva, in Drevnerusskoe iskusstvo. Problemy i atribucii, Mosca 1977, pp. 430-431. 8 Polevoj V.M., Iskusstvo Grecii. Srednie veka, Mosca 1973, p. 69. 9 Evagrij Scholastik, Cerkovnaja istorija, libro iv, San Pietroburgo 1858, p. 31. 10 Poppe A.V., Russkie mitropolii Konstantinopol’skogo patriarchata v xi stoletii, in «Vizantijskij vremennik», t. xxviii, Mosca 1968, p. 86. 1
202
Š/apov Ja.N., Formirovanie i razvitie cerkovnoj organizacii na Rusi v konce x-xii v., in Drevnejšie gosudarstva na territorii sssr, Mosca 1985, pp. 59-60. 23 Logvin G.N., K istorii sooruženija Sofijskogo sobora v Kieve, in Pamjatniki kul’tury. Novye otkritija, Mosca 1977, pp. 169-186; Aseev Ju.S., K voprosu o vremeni osnovanija Kievskogo Sofijskogo sobora, in «Sovetskaja archeologija», 1980, n. 3, pp. 128-140. 24 Chrestomatija po drevnej russkoj literature, a cura di N. Gudzij, Mosca 1947, p. 60; (tr. it. in «L’Altra Europa», 1, Milano 1987, p. 51). 25 Licha/ëv D.S., Russkie letopisi i ich kul’turno-istoričeskoe značenie, Mosca-Leningrado 1947, pp. 47-48. 26 Logvin N.G., O zaveršenii vtorogo jarusa vnutrennich galerej Sofijskogo sobora v Kieve, in Architektura Kieva, Kiev 1982, pp. 85-89; v. anche Logvin G.N., Kiev, Mosca 1982, p. 53. 27 Malevskaja M.V. e Rappoport P.A., Cerkov’ Michaila v Perejaslavle, in «Zograf», n. 10, Belgrado 1979, pp. 31-32. 28 Brunov N.I., Architektura Konstantinopolja ix-xii vv., in «Vizantijskij vremennik», t. xxviii, Mosca 1968, pp. 78, 186. 29 Makarij, Istorija russkoj cerkvi, t. i, San Pietroburgo 1857, pp. 224-225, nota. 30 Rappoport P.A., Russkaja architektura x-xiii vv., Mosca 1982, p. 15. 31 Afanas’ev K.N., Postroenie architekturnoj formy drevnerusskimi zodčimi, Mosca 1961, p. 61. 32 Grekov B.D., Kievskaja Rus’, Mosca-Leningrado 1944, p. 285. 33 Kome/ A.I., Rol’ pridelov v formirovanii obščej kompozicii Sofijskogo sobora v Novgorode, in «Srednevekovaja Rus’», cit., p. 149. 34 Lazarev V.N., Mozaiki Sofii Kievskoj, Mosca 1960, p. 19. 35 V. in particolare: Rappoport P.A., Russkaja architektura x-xiii vv., cit., pp. 93-94. 36 Afanas’ev K.N., Postroenie architekturnoj formy…, cit., p. 66. 37 Rybakov B.A., Drevnjaja Rus’. Skazanija. Byliny. Letopisi, Mosca 1963, p. 80; Id., Russkie letopisi i avtor «Slova o polku Igoreve», Mosca 1972, pp. 442-459. 38 Il principato di Polock era considerato dotato di appannaggio (izgojnoe) perché il principe di Polock (figlio di Vladimir) era morto mentre il padre era ancora in vita, e i suoi discendenti erano stati privati dei diritti di primogenitura (il cosiddetto izgoj). 39 Rybakov B.A., Russkie letopisi i avtor «Slova o polku Igoreve», cit., po. 451-452; (tr. it. di E. Bazzarelli, in Il canto dell’impresa di Igor, Rizzoli, Milano 1991, p. 73). 40 Kora0 V., Dva tipa kafedral’nich soborov xi v…, cit., p. 168. 41 Licha/ëv D.S., Razvitie russkoj literatury x-xvii vekov, Leningrado 1973, p. 65. 42 II metropolita di \ernigov poteva essere solo «titolare». Sui metropoliti titolari v: Sokolov P., Russkij archierej iz Vizantii i pravo ego naznačenija do načala xv veka, Kiev 1913, p. 21 ss. 43 La chiesa di Mstislav a Tmutarakan’, ricordata dalle cronache nell’anno 1022, fu scoperta nel 1953-1954 durante gli scavi di B.A. Rybakov. V. «Archiv Instituta archeologii an sssr», sez. i, n. 1051, 1417. 44 Priselkov M.D., Očerki cerkovno-političeskoj istorii Kievskoj Rusi x-xii vv., San Pietroburgo 1913, p. 78. V. anche: Poppe A.V., Russkie mitropolii Konstantinopol’skogo patriarchata v xi stoletii, cit., p. 103, nota 71. 45 Kome/ A.I., Spaso-Preobraženskij sobor v \ernigove, cit., p. 9. 46 Licha/ëv D.S., Razvitie russkoj literatury x-xvii vekov, cit., p. 27. 47 Priselkov M.D., Očerki cerkovno-političeskoj istorii Kievskoj Rusi…, cit., p. 121. 48 Ibid., p. 330. 49 Aseev Ju.S., Novye dannye o sobore Dmitrievskogo monastyrja v Kieve, in «Sovetskaja archeologija», 1961, n. 3, pp. 291-296. 50 Pu/ko V.G., Kievskie rel’efy svjatych vsadnikov, in «Starinar», xxvii, 1976, Belgrado 1977, pp. 111-124. 51 Polnoe sobranie russkich letopisej, t. i, San Pietroburgo 1846, p. 69. 52 Logvin N.G., O rekonstrukcii pervonačal’nych architekturnych form pamjatnika xi v. – Michajlovskoj cerkvi v Vydubicach, in «Sovetskaja archeologija», 19. 53 Priselkov M.D., Očerki cerkovno-političeskoj istorii Kievskoj Rusi, cit., p. 220. 22
Licha/ëv D.S., Russkie letopisi i ich kul’turno-istoričeskoe značenie, cit., p. 79. 55 Logvin N.G., Cerkov’ Spasa na Berestove v Kieve, in «Stroitel’stvo i architektura», 7, Kiev 1983, p. 28. 56 V. in particolare: Voronin N.N., U istokov russkogo nacional’nogo zodčestva, in «Ežegodnik Instituta istorii iskusstv 1952», Mosca 1952, pp. 257-316. 57 Karger M.K., Drevnij Kiev, t. ii, Mosca-Leningrado 1961, p. 318. 58 V. in particolare: Vorob’eva E.V., Tic A.A., O datirovke Uspenskogo i Borisoglebskogo soborov v \ernigove, in «Sovetskaja archeologija», 1974, n. 2, pp. 99 ss. 59 Ibid., p. 107. 60 Aseev Ju.S., Charlamov V.O., Mov/an I.I., Doslidženija Borisoglibskogo soboru v \ernigovi, in Architekturni pam’jatniki, Kiev 1950, p. 71. 61 Afanas’ev K.N., Postroenie architekturnoj formy…, cit., appendice 5. 62 Golubcov A., Sobornye \inovniki…, cit., p. 37. 63 Ibid., p. 65. 64 Logvin N.G., Cerkov’ Spasa na Berestove…, cit., p. 28. 65 Cholostenko N.V., Architekturno-archeologičeskie issledovanija Uspenskogo sobora Eleckogo monastyrja v. \ernigove, in «Pamjatniki kul’tury», 3, Mosca 1961, p. 67. 66 Vorob’eva E.V., Tic A.A., O datirovke Uspenskogo i Borisoglebskogo soborov…, cit., pp. 102-104. 67 Ibid., pp. 99 ss. 68 Priselkov M.D., Očerki cerkovno-političeskoj istorii Kievskoj Rusi…, cit., p. 320. 69 Voronin N.N., Bel’čickie ruiny, in «Architekturnoe nasledstvo», 6, Mosca 1956, pp. 14-18. 70 Janin V.L., Novgorodskie posadniki, Mosca 1962, p. 51. 71 Karger M.K., Novgorod Velikij, Mosca-Leningrado 1961, pp. 240-241. 72 Priselkov M.D., Očerki cerkovno-političeskoj istorii Kievskoj Rusi…, cit., p. 182. 73 Golubcov A., Sobornye \inovniki…, cit., p. 41. 74 Alpatov M.V., Vseobščaja istorija iskusstv, t. iii, Mosca 1953, p. 62. 75 Pucko V.G., Kamennyj rel’ef iz kievskich nachodok, in «Sovetskaja archeologija», 1981, n. 2, pp. 230-231. 76 Polnoe sobranie russkich letopisej, t. i, col. 173. 77 Losev A.F., Dionis, in Mify narodov mira, t. i, Mosca 1980, p. 380. 78 Vagner G.K., Stat’ja Georgija Chirovoska “Ob obrazach” v “Izbornike Svjatoslava 1073 goda” i russkoe iskusstvo xi v., in Izbornik Svjatoslava 1073 g., Mosca 1977, pp. 189, 152. 79 Aladašvili N.A., Monumental’naja skul’tura Gruzii, Mosca 1977, pp. 146 ss. 80 Pucko V.G., Kievskie rel’efi svjatych voinov, cit., pp. 121, 123. 81 Ibid. 82 Sy/ev N.N., Iskusstvo Kievskoj Rusi, in Istorija iskusstva vsech vremen i narodov, i-16, Leningrado 1929, p. 188. 83 Lazarev V.N., Živopis’ i skul’ptura Kievskoj Rusi, in Istorija russkogo iskusstva, t. i, Mosca 1953, p. 188. 84 Florenskij P.A., Stolp i utverždenie istiny, Mosca 1914, pp. 365-366; tr. it. di Pietro Modesto, La colonna e il fondamento della verità, Milano 1974, p. 429. 85 Lazarev V.N., Russkaja srednevekovaja živopis’, Mosca 1970, p. 59. 86 Sidorov A.I., Nekotorye problemy rannevizantijskoj filosofii, in Drevnejšie gosudarstva na territorii sssr, pp. 217 ss. 87 Golubcov A., Sobornye \inovniki…, cit., p. 180. 88 Karger M.K., Drevnij Kiev…, cit., pp. 418-420. 89 Priselkov M.D., Očerki cerkovno-političeskoj istorii Kievskoj Rusi, cit., p. 341. 90 Janin V.L., Novgorodskie posadniki, cit., pp. 70-71. 91 Licha/ëv D.S., Gradozaščitnaja simvolika Uspenskich chramov, in «Unikal’nomu pamjatniku russkoj kul’tury Uspenskomu soboru Moskovskogo Kremlja 500 let. Tezisy nau/noj konferencii», Mosca 1979, p. 35. 92 Voronin N.N., Drevnee Grodno, mia 1954, n. 41, p. 202. 93 Priselkov M.D., Očerki cerkovno-političeskoj istorii Kievskoj Rusi…, cit., pp. 356 ss. 94 Vagner G.K., Belokamennaja rez’ba drevnego Suzdalja, Mosca 1975, p. 20. 54
203
Voronin N.N., U istokov russkogo nacional’nogo zodčestva…, cit., cap. 3. 96 Vorob’eva E.V., Tic A.A., Analiz i restavracija Uspenskogo sobora v Galiče xii v., in «Sovetskaja archeologija» 1983, n. 1, p. 215. 97 Vorob’eva E.V., Rel’ev s drakonom iz Galiča, in «Sovetskaja archeologija» 1980, n. 1, pp. 209-218. 98 Vorob’eva E.V., Tic A.A., O datirovke Uspenskogo i Borisoglebskogo soborov…, cit., p. 109. 99 Polnoe sobranie russkich letopisej, t. ix, Mosca 1965, p. 222. 100 Voronin N.N., Zodčestvo Severo-Vostočnoj Rusi xii-xv vv., t. i, Mosca 1961, p. 167. 101 Ibid., p. 316. 102 Vagner G.K., Skul’ptura Drevnej Rusi. Vladimir. Bogoljubovo, Mosca 1969, pp. 95 ss. 103 Golubcov A., Sobornye \inovniki…, cit., p. 84. 104 Ibid., p. 133. 105 Vagner G.K., Architekturnye fragmenty Staroj Rjazani, in «Architekturnoe nasledstvo», 15, Mosca 1963, pp. 22 ss. 106 Vseobščaja istorija architektury, t. iii, Mosca-Leningrado 1966, p. 80. 107 Chudožestvennaja proza Kievskoj Rusi xi-xiii vv., Mosca 1957, p. 157. 108 Polnoe sobranie russkich letopisej, t. i, p. 129. 109 Polevoj V.M., Iskusstvo Grecii. Srednie veka, cit., p. 157. 110 Karger M.K., Drevnij Kiev, cit., p. 455. 111 «Archiv Instituta archeologii an sssr», sez. i, n. 1417, p. 16. 112 Ioannisjan O.M., Galickoe zodčestvo xii-pervoj poloviny xiii vv., Avtoreferat, Leningrado 1982, pp. 11-12. 113 Voronin N.N., Rappoport P.A., Zodčestvo Smolenska xii-xiii vv., Leningrado 1971, pp. 109 ss. 114 Janin V.L., Novgorodskie posadniki, cit., p. 106. 115 Ioannisjan O.M., Galickoe zodčestvo…, cit., p. 15. 116 Ibid. 117 Voronin N.N., Rappoport P.A., Zodčestvo Smolenska…, cit., p. 135. 118 Ibid., pp. 88-89. 119 Ibid. 120 Rybakov B.A., Stol’nyj gorod \ernigov i udel’nyj gorod Vščiz, in Po sledam drevnych kul’tur. Drevnjaja Rus’, Mosca 1953, p. 120. 121 Voronin N.N., Zodčestvo Severo-Vostočnoj Rusi, t. i, tavola inserita tra le pp. 288 e 289. 122 «Kratkie soobš/enija Instituta archeologii», fasc. 144, Mosca 1975, p. 112. 123 Novakovskaja S.M., K voprosu o galerejach belokamennych soborov Vladimirskoj zemli, in «Kratkie soobš/enija Instituta archeologii», fasc. 164, Mosca 1981, pp. 43-51. 124 Vagner G.K., Skul’ptura drevnej Rusi…, cit., pp. 66-85. 125 Voronin N.N., Rappoport P.A., Zodčestvo Smolenska, cit., p. 325, nota 27. 126 Alla ricostruzione di questa scultura sono dedicati dei lavori di G.K. Vagner e S.M. Novakovskaja. 127 Polnoe sobranie russkich letopisej, cit., t. ii, p. 153. 128 Voronin N.N., U istokov russkogo nacional’nogo zodčestva, cit., p. 292. 129 Voronin N.N., Rappoport P.A., Zodčestvo Smolenska…, cit., p. 373. 130 Ibid., pp. 213, 394, 400. 131 Ibid., p. 163 (testo di S.S. Pod’japol’skij). 132 Vagner G.K., Skul’ptura Vladimiro-Suzdal’skoj Rusi. G. Jur’evPol’skoj, Mosca 1964, pp. 83-93. 133 Stoletov A.I., Recenzija na knigu G.K. Vagnera, in «Sovetskaja archeologija», 1967, n. 2, p. 274. 134 Polnoe sobranie russkich letopisej, cit., t. ii, p. 151. 135 Istorija russkoj architektury. Kratkij kurs, Mosca 1951, p. 23. 136 Golubcov A., Sobornye \inovniki…, cit., p. 65. 137 Voronin N.N., U istokov russkogo nacional’nogo zodčestva, cit., pp. 260 ss. 138 Rappoport P.A., Polockoe zodčestvo xii v., in «Sovetskaja archeologija», 1980, n. 3, p. 156. 139 Polnoe sobranie russkich letopisej, cit., t. ii, p. 151. 140 Alekseev L.V., Smolenskaja zemlja, Mosca 1980, pp. 225-226. 141 Vagner G.K., Architekturnye fragmenty Staroj Rjazani, cit., p. 25. 142 Voronin N.N., Rappoport P.A., Zodčestvo Smolenska, cit., tavv. 176-1, 183-2.
Rappoport P.A., Polockoe zodčestvo, cit., p. 156. Licha/ëv D.S., Poetika drevnerusskoj literatury, Mosca 1979, pp. 34-35. 145 Voronin N.N., U istokov russkogo nacional’nogo zodčestva, cit., p. 292. 146 Voronin N.N., Rappoport P.A., Zodčestvo Smolenska, cit., pp. 148-149. 147 Rappoport P.A., Russkaja architektura x-xiii vv., cit., pp. 108, 109, 112. 148 Voronin N.N., K istorii polockogo zodčestva xii v., in «Kratkie soobš/enija Instituta archeologii», fasc. 87, 1962, pp. 103-104. 149 Bogusevi/ A.V., Raskopki v Putivl’skomu kremli, in «Archeologija», 1963, xv, pp. 165-174. 150 Rybakov B.A., Raskopki v Putivle, in «Archeologi/eskie otkrytija-1965», Mosca 1966 pp. 154-156. 151 Golubcov A., Sobornye \inovniki…, cit., pp. 117-118. 152 Ioannisjan O.M., Galickoe zodčestvo…, cit., pp. 13-14. 153 Istorija russkoj architektury. Kratkij kurs, cit., p. 39. 154 Vagner G.K., Eščë raz o cerkvi Ol’gova gorodka, in Srednevekovaja Rus’, cit., pp. 240-243. 155 Voronin N.N., U istokov russkogo nacional’nogo zodčestva, cit., p. 132. 156 Rybakov B.A., Otricatel’nyj geroj «Slova o polku Igoreve», in Kul’tura Drevnej Rusi, Mosca 1966, pp. 238-242. 157 Rybakov B.A., Drevnosti \ernigova, in «Materialy i issledovanija po archeologii sssr», n. 11, Mosca-Leningrado 1949, pp. 69 ss. 158 Ibid., p. 96. 159 Ibid., p. 93. 160 Rybakov B.A., «Slovo o polku Igoreve» i ego sovremenniki, Mosca 1971, p. 280. 161 Lazarev V.N., Proischoždenie ital’janskogo Vozroždenija, t. i, Mosca 1956, p. 57. 162 Rybakov B.A., Drevnosti \ernigova…, cit., p. 33. 163 Kosto/kin V.V., Russkoe oboronnoe zodčestvo konca xiii-načala xiv vv., Mosca 1962, p. 7. 164 Ibid., pp. 7-8. 165 Ibid., p. 19. 166 Brunov N.I., Očerki po istorii architektury, t. ii, Mosca-Leningrado 1935, p. 537. 167 Erenburg I., Ljudi. Gody. Žizn’, in «Novyj Mir», 1963, n. 1, p. 69 (tr. it. Uomini, anni, vita, Editori Riuniti, Roma 1963). 168 Vagner G.K., Skul’ptura Drevnej Rusi…, cit., pp. 233-415. 169 Gurevi/ A.Ja., Populjarnoe bogoslovie i narodnaja religioznost’ srednich vekov, in Iz istorii kul’tury srednich vekov i Vozroždenija, Mosca 1976, pp. 65-91. 170 Lazarev V.N., Živopis’ i skul’ptura Novgoroda, in Istorija russkogo iskusstva, t. ii, Mosca 1954, p. 111. 171 Ibid., pp. 110-111. 172 Lazarev V.N., Russkaja srednevekovaja živopis’, cit., pp. 128-139. 173 Zonova O.V., «Bogomater’ Umilenie» xii veka iz Uspenskogo sobora Moskovskogo Kremlja, in Drevnerusskoe iskusstvo. Chudožestvennaja kul’tura domongol’skoj Rusi, Mosca 1971, pp. 270- 282. 174 Popova O.S., Galicko-Volynskie miniatjury rannego xiii veka, in Drevnerusskoe iskusstvo. Chudožestvennaja kul’tura domongol’skoj Rusi, cit., p. 284. 175 Medvedeva E.S., O datirovke vrat Suzdal’skogo sobora, in «Kratkie soobš/enija Instituta istorii material’noj kul’tury an sssr», fasc. 11, Mosca-Leningrado 1945, p. 106 ss.; Janin V.L., O datirovke vrat Suzdal’skogo sobora, in «Sovetskaja archeologija», 1959, n. 3, pp. 91-98. 176 Makarova T.I., Peregorodčatye emali Drevnej Rusi, Mosca 1975, pp. 58 ss. 177 Per maggiori dettagli v.: Makarova T.I., \ernevoe delo Drevnej Rusi, Mosca 1986. 178 Janin V.L., O pervonačal’noj prinadležnosti tak nazyvaemogo šlema Jaroslava Vsevolodoviča, in «Sovetskaja archeologija», 1958, n. 3, pp. 55 ss. 179 Chudožestvennaja proza Kievskoj Rusi xi-xiii vv., cit., p. 128. 180 Licha/ëv D.S., Razvitie russkoj literatury x-xvii vekov, cit., p. 119. 181 Vagner G.K., Mastera drevnerusskoj skul’ptury. Rel’efy Jur’eva-Pol’skogo, Mosca 1966, p. 60.
95
143 144
204
Tomo Secondo LA CULTURA RUSSA DALLA SECONDA METÀ DEL XIII AL XV SECOLO G.I. Vzdornov
LA CULTURA RUSSA DALLA SECONDA METÀ DEL XIII AL XV SECOLO
nimento per tutti i principi sovrani, che, invece di pensare a una politica di difesa comune, erano occupati in interminabili diatribe per definire i limiti del proprio potere personale. Dopo neanche mezzo secolo un’altra pagina tragica fu scritta negli annali dell’antica Rus’: essa sentì su di sé i primi colpi delle orde tataro-mongole. Nel dare la notizia della comparsa nella Rus’ di nuovi conquistatori, il compilatore della Cronaca Laurenziana dice: nel 1223 «sono arrivati popoli, dei quali nessuno sa di preciso chi sono e da dove sono giunti, e qual è la loro lingua, e di che razza sono, e che fede professano. Essi vengono chiamati tatari». In questo ignoto minaccioso e misterioso si profilano i tratti di una terribile forza senza volto che incombe da Oriente, quella stessa che nella recente letteratura europea è stata così vividamente descritta nel romanzo di Buzzati, Il deserto dei tartari. 131 Con Tatari si intende una complessa entità etnica che comprendeva popoli centroasiatici di razze diverse e che ebbe origine nelle aree desertiche del Karakorum. In mancanza di terre fertili, adatte alla coltivazione di cerea-
Introduzione
129-130. Madre di Dio Odigitria; I profeti Daniele, Davide e Salomone; 1497 circa, icone dall’iconostasi della cattedrale della Dormizione nel monastero di Kirill di Beloozero; Mosca, Galleria Tret’jakov.
206
Se nella storia della Russia ci sono stati tempi in cui la sopravvivenza dello Stato ha corso un reale pericolo, il xiii secolo è senza dubbio uno di questi. Già nel xii secolo la potente Rus’ di Kiev, che aveva unificato le terre abitate dai Russi dalle rive del Dnepr fino ai corsi superiori del Volga e della Dvina settentrionale, si era disgregata in decine di piccoli principati, ognuno dei quali era, inoltre, il pomo della discordia tra i rappresentanti di questa o quella famiglia nobiliare. Kiev aveva da tempo smesso di essere il centro statale di tutte le terre russe e manteneva solamente il potere ecclesiastico, e anche questo non completamente, poiché esso si andava via via spostando nella città di Vladimir sulla Kljaz’ma, fondata da Vladimir Monomach. Come spesso accade, il processo di trasformazione, la disgregazione delle vecchie strutture amministrative, ebbe come conseguenza il venir meno di alcune formazioni statali e l’emergere di altre, completamente diverse. Kiev, \ernigov, Perejaslavl’, Polock, Smolensk finirono nell’ombra, mentre si accese di vivida luce la stella di Vladimir e di città della terra di Suzdal’, quali Rostov, Jaroslavl’, Nižnij Novgorod, Tver’ e, da ultima, Mosca. Gli studiosi che indagano oggi le ragioni di tali trasformazioni hanno da tempo individuato come loro causa principale la frantumazione dell’unità statale della Rus’ di Kiev nei principati indipendenti, il cui potere feudale fu proprio all’origine di quella divisione delle terre che alla fine demolì il monumentale edificio dell’originario stato russo. Lo sfacelo della Rus’ di Kiev avveniva gradualmente, ma già nel xii secolo aveva acquistato proporzioni tali che sarebbe stato impossibile non indovinare gli sconvolgimenti politici che avrebbero interessato le popolazioni della zona del Dnepr e di altre regioni della Russia meridionale. Il pericolo maggiore era costituito dalla minaccia esterna e soprattutto dai territori stepposi al di là del Volga, abitati dai Cumani, dai quali anche in tempi precedenti arrivavano reparti mobili e ben armati che prendevano d’assedio le città fortificate della Russia: Kiev, Perejaslavl’ e Novgorod Severskij. La disfatta dei principi russi guidati da Igor’ Svjatoslavi/, principe di Novgorod Severskij, nella battaglia contro i Cumani nel 1185 (avvenimento descritto nel Canto della schiera di Igor’) fu un chiaro ammo-
131. Izjaslavl’ dopo la devastazione tatara nel 1240, scavi di M.K. Karger.
207
132. Le terre russe nel xiv secolo. Carta disegnata da VA. Ku/kin e A.A. Korolëva.
208
li, essi praticavano il nomadismo, che spingeva i reparti armati di questi popoli alla conquista di territori stranieri e all’inizio del xiii secolo centinaia di migliaia di Tatari guidati dal khan Batyj si diressero verso Occidente come un’onda spaventosa. Nel 1223 conquistarono il Caucaso e la Steppa cumana, nel 1236 la Bulgaria del Volga e nel 1237 devastarono la città e il principato di Rjazan’. Le continue diatribe interne rendevano quasi impossibile una resistenza organizzata della Rus’ all’armata di Batyj. Nel 1238 caddero Vladimir, Kolomna, Toržok, Murom, Nižnij Novgorod e altre città della Rus’ nordorientale, nel 1239 scomparvero i principati di Perejaslavl’ e \ernigov e nel 1240 toccò a Kiev e al territorio di Gali/-Volynija. Sullo sfondo dei cataclismi storici dell’epoca medioevale in Europa orientale, l’invasione della Rus’ da parte dei Tatari è paragonabile solamente alle spedizioni crociate in Oriente e alla loro distruzione di Bisanzio (1204) e, più tardi, alla conquista turca dell’impero bizantino (1453). Le città russe, un tempo fiorenti, erano un ammasso di rovine fumanti, mucchi di cadaveri abbandonati riempivano le strade, i campi non venivano coltivati, i mestieri decaddero rapidamente in quanto nessuno richiedeva l’opera degli artigiani. Coloro che erano sopravvissuti vivevano in uno stato di continuo terrore e incertezza del domani, ai bambini che piangevano si incuteva terrore evocando il «malvagio Tataro». Ma il «crudele giogo tataro» nella Rus’ ebbe caratteristiche tali da permettere ai Russi di non essere inghiottiti dai conquistatori e di mantenere la propria individualità etnica, la propria arte e cultura. I Tatari praticavano il nomadismo in un territorio che quasi sempre era compreso nella Grande steppa, che andava dai territori d’oltre Don alla Mongolia nordoccidentale e alla costa settentrionale del Mar Nero. Nella storia russa questa distesa infinita ha ricevuto la significativa definizione di «campo selvaggio»; proprio da queste regioni veniva il pericolo continuo di un improvviso attacco nemico. I Russi associavano i Tatari soprattutto con quella parte di essi che si chiamava Orda, oppure Orda d’oro. Il quartier generale di due dei più potenti khan: Batyj, il nipote di Gengis-Khan, nel xiii secolo, e Mamaj nel xiv secolo, si trovava a Saraj sul Volga, a nord del Mar Caspio. Per una serie di motivi e soprattutto per l’impossibilità di trovare altrove pasture per le enormi mandrie di cavalli da guerra, i Tatari non avevano intenzione di trasferire la propria capitale nelle terre russe conquistate; per ciò il giogo tataro nella Rus’ ebbe
un’incidenza relativa. Essi conducevano una politica di tributi, e reparti speciali, non molto numerosi, di Tatari di tanto in tanto venivano inviati nei principati russi a raccogliere lo jasak: denaro, pelli e altre cose di valore. La loro politica si avvaleva anche delle divisioni e dei dissapori tra i principi russi rivali, i quali nella lotta per il potere sovente ricorrevano all’alleanza con i Tatari e insieme con loro facevano guerra ai propri vicini e perfino ai parenti stretti. Infine, si verificò anche un processo di assimilazione dei Tatari da parte dei Russi, con l’uscita dall’Orda e l’inserimento in un nuovo ambito etnico e culturale, uscite che diventarono più frequenti con il lento indebolirsi del potere tataro. La vecchia letteratura storica è piena di riferimenti all’asservimento della Rus’ da parte dei Tatari. Ma è da tempo venuto il momento di rivedere il concetto di giogo tataro, della Rus’ «sotto i Tatari». Il contraccolpo della prima invasione dei popoli della steppa si fece maggiormente sentire nella Rus’ meridionale, la cui forza vitale era da tempo esaurita e che dalla metà del xiii secolo era caduta in uno stato di definitivo abbandono. La distruzione di Kiev da parte di Batyj fu solo la conclusione di una determinata fase storica, che era stata, secondo le parole di L.N. Gumilev, il risultato «dell’invecchiamento del sistema etnico, oppure – che è la stessa cosa – di un abbassamento di intensità passionale». Del tutto diversa era la situazione nella Rus’ nordoccidentale, che aveva visto una fioritura culturale nella seconda metà del xiii secolo e che, quando iniziarono le devastazioni dei Tatari, si trovava al culmine dell’ascesa politica e culturale. Il grande principe Vsevolod «grande nido» (1176-1212) non solo gettò solide basi per il futuro ordinamento statale dello Zales’e, il territorio tra i fiumi Oka e Volga, dove in seguito si svilupparono città come Mosca, Tver’ e Nižnij Novgorod, ma riuscì anche a creare le condizioni per una splendida cultura, in cui si trovavano armonizzati elementi della tradizione artistica russa, bizantina e romanza. Nel febbraio del 1238 i Tatari assediarono la capitale della Rus’ nordoccidentale e l’impatto della conquista fu tale che la città non ritrovò più il precedente splendore. Tuttavia i Tatari non erano per niente interessati alla distruzione delle città russe, loro potenziali tributarie, e adottarono una tattica selettiva abbastanza intelligente: le città che si arrendevano senza opporre resistenza, senza aspettare il primo colpo di cannone nemico, non solo riuscirono a sopravvivere, ma col tempo diventarono così potenti da opporsi e in seguito abbattere il potere esterno. Sappiamo con si-
133. I dintorni di Pskov. Il fiume Velikaja presso il monastero di Snetogory, foto dell’inizio del xx secolo.
134. Veduta di Novgorod, foto dell’inizio del xx secolo.
209
curezza che l’invasione tatara risparmiò Rostov, Jaroslavl’, Perejaslavl’, Suzdal’, Tver’, Ugli/, Mosca. Infatti, l’armata di Batyj non sarebbe stata perfino fisicamente in grado di distruggere tutte le numerose, grandi e piccole città di cui era disseminata la terra russa, che non a caso era chiamata nelle fonti medioevali Gaardarîki, regno delle città. Gli annali menzionano solo alcuni luoghi abitati fortificati che furono saccheggiati e bruciati dai cavalieri di Munke e Batyj: furono in tutto quattordici. Inoltre, anche le città saccheggiate si risollevavano abbastanza in fretta. I Tatari non lasciavano guarnigioni nelle fortezze conquistate e quando se ne andavano la gente tornava tra le rovine, dove presto si ricostruivano le case e le chiese e dove rinasceva la vita economica e culturale. Osserveremo, infine, che l’invasione tatara lasciò praticamente intatta metà del territorio russo. Il Nord russo fu completamente risparmiato dall’invasione e in tal modo vi si sono conservate quelle forme di vita economica e di cultura che danno un’idea dei più antichi modelli russi di architettura, pittura, letteratura e poesia orale. Novgorod e Pskov, che non furono toccate dalle fiumane turbolente dei nomadi, fino ad oggi rappresentano per noi i focolari della cultura russa. Non solo, grazie alla loro indipendenza politica, nel corso dei secoli xiii-xiv essi ebbero la possibilità di costruire tanto, che anche oggi il volto di queste città è in gran parte determinato dalle grandiose fortificazioni e dalle decine di non meno grandiose chiese e monasteri. «Il crudele giogo tataro» fu solo uno, e non certo il principale, dei mali della Rus’ medioevale. La stragrande maggioranza delle guerre e delle distruzioni nei secoli xiii-xiv fu causata non dai Tatari ma dagli stessi Russi, che spesso usarono nei confronti dei propri vicini una crudeltà che non era nemmeno paragonabile alla ferocia delle prime incursioni tatare. Non è inutile ricordare che ai khan tatari talvolta toccava perfino rappacificare i principi russi e invitarli a cessare le discordie tra di loro, come ad esempio accadde nel 1303 a Perejaslavl’ Zalesskij. D’altro canto, le lotte intestine fecero emergere i combattenti più forti e i politici più perspicaci e intelligenti. Fu una specie di selezione naturale, che portò in tempi relativamente brevi, sebbene con alterne fortune, al consolidamento del potere personale dei rappresentanti di una famiglia dinastica. Come risultato dei sanguinari scontri tra Mosca, Tver’, Nižnij Novgorod e una serie di piccoli principati, intorno
alla metà del xiv secolo – un secolo dopo la prima comparsa dei Tatari – si delineò chiaramente la supremazia di Mosca. Il principato di Mosca sorse sulle rovine dello stato kieviano; all’inizio esso costituiva solo una formazione secondaria: era uno dei possedimenti dei grandi principi di Vladimir. Un tempo Mosca era stata una cittadina di nessuna importanza, appartenente a Jurij Dolgorukij, e in quanto suo possedimento feudale è per la prima volta ricordata nel 1147. Nel 1283 divenne proprietà di Daniil, uno dei figli del gran principe Aleksandr Nevskij, e da questo momento entrò nella scena politica già come principato indipendente. Vale la pena di ricordare che esattamente venti anni dopo Daniil ingrandì i propri possedimenti con l’annessione di Perejaslavl’, lasciatagli in eredità da un parente morto senza figli. I figli di Daniil Aleksandrovi/, Jurij e Ivan, oltre a possedere Mosca erano anche grandi principi di Vladimir, circostanza che ebbe un peso decisivo nel successivo emergere di Mosca come centro politico, ecclesiastico e culturale della Rus’ nordorientale. Proprio qui, come a Novgorod e Pskov, che conservarono la propria indipendenza fino alla seconda metà del xv secolo, nel corso di due secoli si maturò la coscienza nazionale russa. Ciò portò a sua volta alla formazione di un’arte nazionale russa, di uno stile architettonico e di una propria letteratura originale. Una caratteristica della Rus’, che ebbe un’importanza incalcolabile nella sua storia e che in larga misura ha determinato il suo destino, fu l’integrità etnica della popolazione e la comunanza della fede cristiana. Nelle terre russe vivevano anche molti altri popoli, Vepsi, Koreli, Komi, colonizzati a suo tempo dalle genti provenienti dal Sud, che però entrarono ben presto nella sfera d’influenza degli Slavi e della Chiesa ortodossa. Essi non avevano mai avuto una organizzazione statale e un’amministrazione proprie e per il loro carattere pacifico non erano mai entrati in conflitto con i Russi che li circondavano. Le più importanti formazioni statali nei secoli xiii-xv erano i principati di Tver’ e di Mosca, insieme alla libera repubblica di Novgorod con il suo «fratello minore» Pskov. Tutti gli altri principati avevano lo status di udel, principati indipendenti, e appartenevano di solito ai rami minori delle famiglie dei grandi principi. Per lo più, essi non avevano un potere reale e nelle guerre si schieravano con i fratelli maggiori. Decine di anni dopo la campagna di Batyj nella Rus’ nordoccidentale, in questa regione con alterna fortuna si svolse una sorda lotta per il potere tra le due più potenti casate dei grandi principi di Tver’ e di Mosca. Proprio questi due principati rivendicavano il diritto a ereditare il potere che era stato di Vladimir. Dopo aver perso il potere politico, Vladimir aveva tuttavia mantenuto quello ecclesiastico, poiché ospitava la sede del metropolita di tutta la Rus’, Maksim, qui giunto dopo la distruzione di Kiev (1299). La Chiesa, detentrice di un potere reale, non poteva ovviamente rimanere al di fuori delle diatribe tra i principi, e la sua posizione risultò determinante nella soluzione di molte controversie. Inizialmente i khan dell’Orda d’oro riconobbero la supremazia dei principi di Tver’ e per due volte conferirono loro le proprie credenziali. Tuttavia, a motivo di manifestazioni estreme di separatismo da parte di Tver’, della continua inimicizia mostrata dai suoi principi nei confronti dell’Orda e della costante aspirazione all’autonomia della Chiesa da Costantinopoli, si ridussero a nulla persino i numerosi successi ottenuti dall’amministrazione di Tver’. Il comportamento di Mosca risultò essere più ragionevole e
135. Paesaggio russo del Nord, dintorni del monastero di Ferapont.
210
per portar via il fieno dai prati inondati e il legname dal vicino bosco. In barca, infine, viaggiavano ambasciatori e mercanti, se il loro spostamento non doveva essere fatto in tempi stretti. L’inverno nella pianura russa era lungo a causa del clima continentale. Già da ottobre cadeva una fitta neve e fino a marzo venivano aperte vie di terra, attraverso le quali convogli e interi treni di slitte trasportavano una massa di carichi diversi, coprendo distanze di migliaia di verste. Molto più tardi, già in un’altra epoca, nel 1730, il futuro grande scienziato russo Michail Lomonosov, con un convoglio di pesce congelato, percorse il tragitto da Kurostrovo sul Mar Bianco fino a Mosca, e si può esser certi che simili spostamenti di convogli su slitte venivano effettuati anche nei tempi più remoti. È noto che la patria di Lomonosov, il villaggio di Kurostrovo, viene ricordato per la prima volta nel 1397 nelle credenziali del grande principe di Mosca Vasilij Dmitrievi/. Non si può infine sottovalutare il significato della cavalleria e degli spostamenti a cavallo. Nell’arido periodo estivo, quando le erbe crescevano alte, il cavallo era indispensabile sia alle truppe del principe, sia al contadino, sia al mercante, se si trattava di viaggi non troppo lunghi: c’erano solo strade di collegamento tra un paese e l’altro e al tempo delle piogge stesse erano altrettanto impraticabili, quanto anche ai nostri giorni lo sono le strade nella provincia russa. Eppure, nonostante i suoi spazi sconfinati, entro cui avrebbero facilmente trovato posto una decina circa di stati europei, la Grande Russia già in quel tempo lontano costituiva un organismo abbastanza compatto e i singoli principati non avevano difficoltà a comunicare con i vicini, così come le città delle lontane province con il proprio centro. Convogli, viaggiatori a cavallo e a piedi, barche solcavano queste vastità in lungo e in largo e perfino viaggi molto lunghi, ad esempio a Costantinopoli, al monte Athos, in Germania e in Italia, non erano così rari come potrebbe sembrare oggi ad un profano. La Russia era principalmente un paese agricolo e la prosperità dello stato si basava sulla produzione di cereali, sull’orticultura e sull’allevamento. Con gli inverni rigidi, le nevicate frequenti, l’estate breve e piovosa, la coltivazione del grano e l’allevamento non erano cosa facile. Al contadino si richiedeva fermezza, padronanza di sé, tenacia nel lavoro, ingegnosità nelle situazioni estreme, a cui la vita sottoponeva di continuo. Tutto ciò, alla fine, ha forgiato quella fermezza di carattere del popolo russo
politicamente avveduto, poiché si era compreso che finché esisteva il protettorato dell’Orda d’oro e la pratica, storicamente consolidatasi, di nominare alla testa della metropolia russa dei Greci di Costantinopoli, nessun radicale cambiamento a breve termine sarebbe stato possibile. La tattica di alleanza con l’Orda, l’incondizionato riconoscimento delle decisioni del patriarcato di Costantinopoli, uniti a un disegno lungimirante per il consolidamento del potere militare e politico nelle mani dei figli e perfino dei nipoti, diedero ai principi di Mosca l’opportunità storica di realizzare i propri piani. Nel 1326 il metropolita Petr trasferì la propria sede da Vladimir a Mosca, consacrandola in tal modo come nuova capitale di tutta la Rus’. Esprimendo così gli interessi di tutti i Russi, indipendentemente dal loro luogo di residenza, il metropolita Petr e, dopo di lui, i metropoliti Teognoste e Aleksej gettarono una solida base ideologica per i progetti dei grandi principi di Mosca. Se guardiamo la carta della Russia, quale essa si presen132 tava intorno all’anno 1300, noteremo che la popolazione era concentrata principalmente nella Rus’ nordoccidentale, soprattutto a Novgorod e Pskov, e nella Rus’ nordorientale, soprattutto a Tver’, Mosca e Nižnij Novgorod. Ad Oriente il confine naturale era costituito dal Volga, a Sud dal fiume Oka e dal corso superiore del Don, mentre ad Occidente, sul confine con la Lituania e i principati tedeschi, si trovava Pskov. Se colleghiamo tra loro i citati punti geografici, otterremo un gigantesco arco, lungo circa duemila chilometri che contiene, come una coppa, i territori del Nord russo, che si estendevano fino al Mare Glaciale Artico. In altri termini, la Russia del periodo dei Tatari non solo non era inferiore, ma superava nelle sue dimensioni la Russia meridionale dell’epoca di maggiore splendore. Era la Grande Russia, il germe da cui in seguito si sviluppò il moderno stato russo. È naturale che distanze tanto estese si distinguessero per la notevole varietà di paesaggio e clima. Da boschi impenetrabili si passava a zone in parte steppose, migliaia di laghi e paludi bagnavano il terreno e alimentavano un numero ancor più alto di fiumi grandi e piccoli, i quali poi si univano agli ampi alvei del Volga e della Dvina settentrionale, che trasportavano le proprie imponenti acque verso il lontano Sud e il non meno lontano Nord. Il paesaggio era quasi sempre pianeggiante con qualche rara altura di tanto in tanto. Non c’erano montagne e solo al Nord quasi ovunque si potevano vedere le tracce dei ghiacciai sotto forma di grossi macigni e ammassi di pietre che rendevano difficoltosa la coltivazione della terra; ma con tenace lavoro i contadini sgombravano gli appezzamenti loro necessari per la coltivazione dei cereali e del lino, ottenendo così i prodotti fondamentali per l’alimentazione e la confezione degli abiti. Le principali vie di comunicazione erano costituite da fiumi e laghi, solcati lungo e contro corrente da una moltitudine di barche e perfino da capaci barconi da trasporto. Gli spartiacque erano corti e dove era necessario le barche venivano trascinate da un fiume all’altro: il ricordo di questa pratica è rimasto, in particolare, nei nomi delle città di Vyšnij Volo/ek e Volokolamsk (volok = «rimorchio»), sulla strada tra Novgorod e Mosca. Centinaia di fiumi e fiumiciattoli, ora buoni solo per risciacquare i panni, erano un tempo navigabili e la flotta fluviale dei principi russi e soprattutto di città come Novgorod o dei liberi contadini del Nord russo contava decine di migliaia di barche, usate per trasportare la merce o le truppe, per pescare,
136. Il villaggio di Sujsari nella regione dell’oltre Onega.
211
singoli edifici civili e religiosi. Lo storico ha a sua disposizione preziose raffigurazioni su icone di città e monasteri, mappe, «disegni» ed infine concreti resti d’antichità, come interi quartieri dissotterrati a Novgorod, con le strutture in legno e il pavimento delle strade ancora in buono stato. Gli insediamenti umani si trovavano di preferenza sulla riva di un fiume o di un lago, da dove si poteva attingere acqua potabile e che servivano da vie di trasporto e collegavano i luoghi abitati su questo o quel tratto di strada. A Novgorod, parallelamente alla riva del fiume correva- 134, no di solito una o due strade, mentre decine di altre vie, 137 più corte, erano disposte perpendicolarmente e sboccavano sul lungofiume. Le vie erano disposte allo stesso modo anche nei quartieri della Sofia e dei Mercanti. La città era circondata da fortificazioni con bastioni e torri; inoltre l’altra estremità cieca, «terrestre», delle vie terminava contro le torri e le porte, attraverso le quali si svolgeva la comunicazione col territorio circostante e uscivano al pascolo le mandrie di cavalli e le greggi di animali domestici. La densità di popolazione all’interno della sicura cinta fortificata obbligava nella costruzione a fare economia di spazio prezioso e le case padronali occupavano di norma una superficie abbastanza limitata. La città crebbe in altezza e si può supporre che le case avessero diversi piani. A parte si trovavano i magazzini, gli annessi e i pozzi; inoltre, tutto questo complesso di edifici aveva una recinzione, fatta di pali conficcati verticalmente, oppure fatta come un’alta palizzata del tipo «ad incastro» con assi collocate orizzontalmente. Per l’impossibilità di tagliare questa o quella parte di appezzamenti privati, le strade riproducevano bizzarramente i diversi angoli e tortuosità, cosicché solo in rari casi si poteva avere una visuale di qualche centinaio di metri. Sul caotico agglomerato degli edifici dominavano le chiese in legno e in pietra, di cui in ogni grande città si contavano parecchie decine. Spesso in una sola strada o in un isolato si trovavano diverse chiese. Nelle vecchie raffigurazioni di Novgorod, Pskov e Mosca si vede un’intera foresta di chie- 141 se con cupole e cuspidi coronate da croci, a dimostrazione della devozione degli abitanti. «Paese che vai, usanze che trovi» dice un proverbio che si può benissimo riferire anche ai tempi antichi. A differenza di Novgorod, Pskov abbondava di case d’abitazione mezze in pietra e mezze in legno e di colossali fortificazioni. Mosca stupiva per l’immensa quantità di imponenti 142 palazzi in legno, dagli aspetti più diversi, che formavano bizzarre combinazioni di forme e fogge di copertura. Il palazzo in legno dello zar Aleksej Michailovi/, nel villaggio di Kolomenskoe vicino a Mosca, costruito in tempi più recenti, è l’ultima espressione dell’antico sogno di un’abitazione che non fosse solo confortevole, ma anche di squisita bellezza. Con tutta la cautela e la ovvia convenzionalità di una ricostruzione del panorama cittadino, incominciamo a muoverci con più sicurezza quando si passa a parlare del villaggio, innanzitutto del villaggio del Nord russo. Qui fino al xix secolo si sono usate forme architettoniche molto antiche. La fitta foresta e le numerose paludi rendevano difficili i contatti col mondo esterno e gli insediamenti umani si trovavano lungo i fiumi. Le case venivano costruite sulle alte rive e si allineavano lungo un’unica strada, più in basso della quale, sul greto del fiume, ogni casa aveva la propria sauna. Il lavoro dei campi richiedeva la forza di molte braccia e nella società contadina presto si instaurò la supremazia della famiglia patriarcale. In forza
che ha salvato la nazione dall’uragano delle lotte intestine, delle invasioni tedesche, delle incursioni tatare. Gli spazi infiniti della pianura russa rendevano instabili i confini tra i diversi principati. Le controversie nascevano per lo più a motivo del possesso di un potere reale, delle pretese al titolo di gran principe. La comparsa di una cavalleria straniera entro i confini di un altro principato provocava naturalmente azioni di risposta, ma gli spostamenti di persone singole, di ambascerie, di carovane di mercanti non incontravano impedimenti ai confini. Nella coscienza della gente aveva il sopravvento il senso della patria comune, e non del singolo principato di Rostov o di Tver’. A questo proposito è degno di nota il testo, di cui non si è conservata la versione integrale, del Canto sulla rovina della terra Russa, opera di un autore della Russia meridionale, da lui scritto nella Rus’ nordoccidentale subito dopo l’invasione di Batyj, tra il 1238 e il 1246. «O chiaramente luminosa e meravigliosamente adornata terra Russa! Per molte bellezze sei celebre: sono famosi i tuoi molti laghi, i fiumi e le fonti onorate nei diversi luoghi, i monti, le erte colline, gli alti querceti, le pianure inviolate, i mirabili animali, le varietà degli uccelli, le innumerevoli illustri città, le genti gloriose, i giardini dei monasteri, i santi templi, e i terribili principi, i virtuosi boiari, i numerosi magnati. Di ogni cosa sei ricolma, terra di Russia, o vera fede cristiana!». Solo il fatto che, perfino in quel doloroso frangente, quando la Rus’ di Kiev si trovava in uno stato di definitiva rovina, l’autore del Canto parli della Russia usando il presente, e non il passato, dimostra che ancora si continuava a percepire la Rus’ come una grande distesa etnicamente compatta, con una fede comune, una distesa che andava dai Lituani e dai Tedeschi fino ai Mordvini e dagli abitanti delle steppe fino all’oceano «alitante». Difficilmente qualsiasi altro popolo europeo nei secoli xiii e xiv avrebbe potuto figurare in tal modo: l’orizzonte dei Russi non era assolutamente confrontabile con quello degli altri popoli del medioevo. Architettura L’abitazione privata e l’edificio religioso costituivano in Russia, come negli altri paesi, le forme principali di architettura. Ma se le chiese delle città e dei monasteri, costruzioni durature in mattoni e pietra, sono sopravvissute ai secoli e sono arrivate fino ai nostri giorni, esse non sono le uniche manifestazioni della creatività nazionale nel campo dell’architettura civile e religiosa. In un paese ricco di boschi, il legno costituiva il principale materiale da costruzione, ed è naturale pensare che la secolare abitudine al legno e alle forme architettoniche ad esso collegate non solo non poteva non lasciare traccia nell’architettura in pietra, ma doveva anche determinarne lo stile in misura considerevole. Ed è ancora più significativo il fatto che per molti secoli il volto del villaggio, del monastero e della città in Russia è stato caratterizzato proprio dagli edifici in legno, che nei villaggi russi sono fino ad oggi dominanti. Poste queste premesse, cercheremo di analizzare le caratteristiche fondamentali dell’architettura in legno nell’antica Rus’. Non abbiamo molte fonti che ci permettano di stabilire le forme dell’architettura in legno nei secoli xiii-xv, ma, se consideriamo la straordinaria stabilità, persino il conservatorismo delle antiche forme di vita, siamo in grado di ricostruire l’aspetto della città, del villaggio anticorusso e di 212
rotonda», secondo il modello antico «dalle venti pareti», prototipo del tempio di Nënoksa. Furono invitati a lavorarvi carpentieri di Vologda, guidati dal maestro Aleksej. Sessanta falegnami edificarono in legno in una estate l’«illustre» chiesa, la cui altezza era tale, che il cronista citò in modo particolare le cento (meno cinque) “corone” (elementi compositivi sovrapposti) che costituivano solo la struttura principale della cattedrale. Secondo i calcoli basati sugli standard delle travi usate nella costruzione di grandi chiese, la chiesa della Dormizione ad Ustjug raggiungeva i 70-80 metri di altezza ed era indubbiamente uno dei templi più grandiosi nell’antica Rus’. Pur nell’apparente semplicità delle forme, i templi del Nord possiedono innanzitutto una grande ricchezza decorativa nei dettagli e, in secondo luogo, i loro autori prendevano lo spunto da modelli di periodi e maniere diverse, cosa che risulta evidente anche solo da una conoscenza superficiale di tutti gli edifici conservatisi. La chiesa della Trasfigurazione a Kiži (1714), a corpo ottagonale con quattro annessi, sormontata da ventidue cupole a bulbo, disposte in sei ordini verso l’alto, assomiglia ad un gigantesco frondoso abete. Sembra assodato che simili templi a molte cupole non fossero una rarità nei secoli scorsi, in quanto è noto che l’antichissima cattedrale in legno della Sofia di Novgorod fu edificata nel 989 dai carpentieri locali «a tredici cupole», il numero simbolico del Cristo e degli apostoli. Ma, quale che fosse il senso riposto nelle forme architettoniche, le chiese di legno dell’antica Russia si fondono con straordinaria semplicità con la vastità del paesaggio circostante. I tempi successivi non conobbero più una tale armonia tra l’opera delle mani dell’uomo e l’opera della natura. Ma c’era un campo dell’arte popolare dove questo connaturato senso di unità della vita naturale e della vita umana ricevette un’espressione ancor più perfetta. Si tratta della comune interrelazione tra la campagna, il villaggio, la città o il monastero e il paesaggio circostante. Essa è caratterizzata solitamente dall’equilibrio delle proporzioni e raramente qualche edificio contrasta con le proprie dimensioni o forme con l’ambiente esterno o con la figura umana. Da qui deriva la fusione dell’architettura col paesaggio, elemento che è andato quasi perduto nell’edilizia del xx secolo, ma che riappare dalle vecchie fotografie e si può ancora osservare nelle piccole città russe, nei remoti villaggi e nei complessi dei monasteri, dove pochissime sono le aggiunte recenti. Nell’antichità gli uomini vivevano in accordo con la natura, senza turbare il corso dei fiumi, il
137. Novgorod, veduta aerea sul quartiere della Sofia con il Cremlino e sul quartiere dei Mercanti con i dintorni.
di tale principio i figli sposati raramente uscivano dalla casa paterna e vivevano in un’unica casa. Tale è l’origine delle dimensioni davvero enormi delle case contadine nel 136 Nord russo, soprattutto nelle regioni al di là dell’Onega e nella provincia di Archangel’sk, che facevano stupire i viaggiatori anche in tempi recenti. Sotto un unico tetto trovavano posto diverse famiglie, il bestiame, i fienili, le aie coperte, l’androne e le varie attrezzature dei contadini. Le case, la cui struttura era fatta di enormi travi, si costrui vano spesso su due e perfino tre piani, intorno sorgevano vari locali di uso domestico e finivano così per formare un insieme complicato e pittoresco. Il piano superiore aveva un balcone, ornato con un intaglio traforato e dipinto, mentre l’estremità della trave superiore del tetto spesso spuntava di un buon tratto e la sporgenza, appositamente lasciata, veniva intagliata nella forma del muso di un cavallo o di un cervo, a cui venivano a volte applicate autentiche corna. Anche le chiese venivano edificate come le case. Per antica usanza esse venivano erette nei pogost, grossi borghi, che fungevano nella regione da centri ecclesiastici ed amministrativi, comprendenti anche più di cento villaggi circostanti. Uno dei più noti nella storia della cultura è 139 il pogost di Kiži, non lontano da Petrozavodsk, che nel xvi secolo riuniva, ancora prima della costruzione delle chiese a più cupole ora esistenti, circa 130 villaggi con 687 corti. Grazie al sostegno di una comunità così grande, i pogost venivano abbelliti con edifici eccezionalmente monumentali. Vyja, Belaja Sluda, Panilovo, Tur/asovo, Ustjug, Nënoksa, Vazency, Varzuga, Kondopoga, Kiži e molti altri pogost, per la maggior parte solo recentemente scomparsi, andati in rovina o distrutti dagli incendi, erano vere vestigia viventi del passato. Le loro chiese colossali si vedevano da chilometri di distanza e nell’avvicinarsi si rimaneva stupiti per le loro incredibili e gigantesche dimensioni. Tali sono innanzitutto i celebri templi a tenda di ardita concezione, da quelli di Vyja e Panilovo, dalle linee severe, alla più recente chiesa della Trinità a Nënoksa, dove su una base poliedrica sono poste cinque coperture a tenda. Quanto fosse grande il significato della tradizione che permette allo studioso contemporaneo di gettare uno sguardo al passato, ce lo testimonia la notizia negli annali del 1490 della costruzione a Ustjug della «chiesa
138. Casa di Lepsin nel villaggio di Kuznecy oltre l’Onega (Carelia); xix secolo, disegno di A. Opolovnikov, 1949.
213
torri di Pskov. Col tempo Novgorod e Pskov diventarono fortezze potenti e praticamente inespugnabili: alte mura su terrapieni, fossati pieni d’acqua e torri minacciose facevano rimanere il nemico incerto sulla possibilità di attaccare e prendere tali roccaforti. Ed effettivamente solo la comparsa e il largo uso dell’artiglieria negli eserciti rese possibile la distruzione delle fortificazioni di Novgorod e Pskov. In icone dei secoli xvii-xviii, che risalgono ad originali della fine xvi-inizio xvii secolo, si sono conservate alcune raffigurazioni di Pskov, come pure analoghe raffigurazioni di Novgorod. Sia le une che le altre riproducono con straordinaria esattezza la topografia delle due maggiori città della Russia nordoccidentale e possono essere usate per studiare le caratteristiche dell’architettura religiosa e militare. A Novgorod come a Pskov, secondo una pratica largamente diffusa, dettata dalla convenienza, esistevano diverse linee di difesa. Il nucleo era costituito dalla città interna: a Novgorod il detinec e a Pskov il krom (cremlino). Qui si trovavano la cattedrale cittadina e la sede ufficiale delle autorità ecclesiastiche e secolari. Diversamente che a Novgorod, al krom di Pskov era contigua un’altra appendice fortificata, la cosiddetta città di Daumantas, con tanti piccoli templi uno a ridosso dell’altro, in seguito andati completamente distrutti e portati alla luce dagli scavi archeologici effettuati dal museo Ermitage. La città vera e propria aveva i propri bastioni e torri (a Pskov esse portavano gli espressivi nomi locali di «petto» e «canne»), mentre i villaggi erano circondati da una terza linea di mura o da terrapieni e fossati. I monasteri disseminati per la campagna circostante rimanevano completamente indifesi e in caso di pericolo i monaci si rifugiavano in città, sovente dopo aver dato alle fiamme gli edifici in legno per togliere al nemico ogni riparo. Nell’osservare le raffigurazioni di Novgorod e Pskov è impossibile non esprimere ammirazione per la pittoricità del loro aspetto, formatosi nel corso dei secoli, reso ancor più caratteristico dal solenne scorrere dei fiumi Volchov e Velikaja. L’uomo russo edificava con tanto amore e cura, con tale ponderatezza e gusto che la città intera era già un’opera d’arte, dava un’immagine di forza, potenza e bellezza, di valore militare e virtù civile. Le città anticorusse il più delle volte erano originariamente borghi fortificati su un’altura, o, più precisamente, su un promontorio alla confluenza di due fiumi. Tale è la posizione di Pskov ed esattamente allo stesso modo è nata Mosca. Quest’ultima nei secoli xiv-xv si sviluppò fino a divenire una città grande e popolosa: al Cremlino si aggiunsero altri ampi quartieri con fortificazioni indipendenti: Kitaj Gorod, Belyj Gorod, Zemljanoj Gorod. Verso la fine del xv secolo, quando Novgorod e Pskov persero la propria indipendenza e Mosca fu ufficialmente proclamata capitale dello Stato russo unito, i grandi principi Ivan iii e Vasilij iii consolidarono l’importanza di Mosca con la costruzione di nuove mura e torri del Cremlino e di Belyj Gorod, invitando, tra l’altro, a tale scopo celebri esperti italiani di architettura militare. Nonostante la perdita di quasi tutte le mura, le torri, i baluardi e i fossati esterni, per un caso fortunato il Cremlino ha conservato l’aspetto di minacciosa fortezza medioevale, arricchita, è vero, nel xvii secolo di una sovrastruttura decorativa delle torri, che si presenta come una composizione smerlata a più ordini. Dopo l’invasione dei Tatari, il primo tempio in pietra fu costruito nel 1292 nei dintorni di Novgorod. È la chie- vi/1 sa di Nicola Taumaturgo sulla Lipna, l’unico edificio ri-
139. Pogost di Kizi, Carelia, regione dell’oltre Onega, veduta aerea.
terreno, i boschi. Le esigenze d’acqua, di terra da coltivare e di materiale da costruzione per lungo tempo non hanno superato il normale ciclo riproduttivo delle risorse naturali e talvolta l’uomo doveva perfino arginare l’azione dell’ambiente esterno. Egli si adattava all’ambiente, piuttosto che trasformarlo. Ciò spiega il ruolo preponderante 135 dell’elemento paesaggistico nelle forme architettoniche della Russia delle epoche passate. L’invasione dei Tatari nel xiii secolo minò in misura notevole la fiducia dei Russi nel futuro ed ebbe a sua volta come conseguenza la decisa riduzione delle risorse impiegate per l’edilizia e per altri dispendiosi progetti. In città prima fiorenti, come Vladimir, Rostov, Jaroslavl’, Suzdal’, l’architettura in pietra fu ripresa solo nei secoli xvi-xvii e fa parte di un capitolo completamente nuovo della storia della cultura. Ma Pskov e Novgorod a nord-ovest, Tver’ e Mosca a nord-est e i numerosi monasteri a nord di Mosca e Rostov si ripresero abbastanza in fretta dal giogo tataro e iniziarono un’intensa edificazione di chiese in pietra e in mattoni, ritenendo giustamente che i templi grandiosi, costruiti in materiali resistenti, fossero la testimonianza più evidente e persuasiva della potenza di una città o dell’importanza di un monastero. I turbolenti secoli xiv-xv spinsero come prima cosa a rinnovare le difese in terra e a costruire sicure fortificazioni cittadine in pietra. Agli anni 1262, 1270 e 1316 risalgono i lavori per la costruzione dei bastioni di Novgorod «presso la città da entrambi i lati», e all’inizio del xv secolo furono poste le fondamenta delle prime mura in pietra e delle
140. Pskov, veduta della cattedrale della Santa Trinità dalla riva opposta del fiume Pskova, foto della fine del xix secolo.
214
masto del monastero maschile di San Nicola sulla Lipna. Semidistrutto negli anni della seconda guerra mondiale, esso è stato ricostruito dai restauratori di Novgorod nel suo aspetto originario, con le terminazioni trilobate delle mura esterne. Il tempio colpisce per l’inaspettata combinazione della mole delle forme con l’ardita elevazione dell’interno, ottenuta, in realtà solo dallo spazio della cupola, in quanto i pilastri portanti su cui poggiano le volte sono largamente distanziati tra loro e collocati vicino alle pareti. Ci si deve rammaricare che durante il restauro le pareti siano state intonacate per salvaguardare la muratura dall’azione distruttiva delle intemperie. La chiesa era stata costruita con pietra grezza policroma e grandi mattoni rossi. I cangianti di colore dal grigio-azzurro al rosso-marrone chiaro, le croci di pietra e maiolica inserite nella muratura conferivano all’edificio quella plastica vivace e variegata di cui sono ora prive quasi tutte le chiese di Novgorod. Il divario cronologico di alcune decine di anni che seguì la comparsa dei Tatari nella Rus’ ha trasformato in modo considerevole il carattere dell’architettura russa. Fu interrotta completamente la costruzione di grandi cattedrali nelle città e nei monasteri, si diffuse la pratica di erigere piccoli templi con funzione di parrocchie in questo o quel quartiere cittadino, cambiò anche la tecnica di costruzione, in cui la solida muratura in cotto cedette il posto ad una muratura fatta con frammenti di lastre, ciottoli, mattoni e legno. L’imperfezione tecnica, causata dal calo nella richiesta di artigiani e dal venir meno delle conoscenze legate all’esperienza, ebbe come conseguenza il rapido deterioramento anche di chiese di nuova costruzione. Di più di cento chiese erette a Pskov nei secoli xiv-xvi, in prevalenza con pietre locali non molto resistenti, non si è conservato neanche un edificio originario che non sia stato guastato dai rifacimenti. Per di più la stragrande maggioranza di essi era andata in rovina già nel passato. Solo pochi edifici, come ad esempio la cattedrale del 143 monastero di Snetogory (1310) e la chiesa della Teofania nella regione di Pskov (1496) conservano ancora al loro esterno le caratteristiche di un tempo, ma solo le ricostruzioni grafiche danno la possibilità di immaginarsi il loro aspetto originario. Senza addentrarci in un’analisi formale delle caratteristiche architettoniche, diremo solo questo: tutti i templi di Pskov possiedono una sorprendente qua-
lità – la plasticità, ottenuta grazie al modellamento quasi scultoreo delle pareti e dei volumi. Decisamente migliore è lo stato di conservazione dei monumenti a Novgorod, poiché il materiale da costruzione e la tecnica dell’opera in muratura furono scelti con maggior cura. Negli anni della seconda guerra mondiale molti templi di Novgorod furono semidistrutti e al momento della ricostruzione si tentò di restituire loro l’aspetto originario. La chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Kovalëvo (1394), la chiesa di San Biagio (1407), la chiesa 147 di Pietro e Paolo a Koževniki (1406) ritrovarono le vecchie forme; furono in gran parte recuperati i templi di Teodoro Stratilate sul ruscello (1360-1361), del Salvatore della 145 Trasfigurazione in via di Sant’Elia (1374) e della Natività di Cristo sul cimitero (1381-1382). Le chiese conservate si dividono in monastiche, costruite per iniziativa degli arcivescovi di Novgorod, e rionali, fatte costruire dagli abitanti di questa o quella parrocchia, tra i quali buona parte delle spese erano sostenute dai ricchi gosti o mercanti. Bisogna osservare che l’edilizia statale religiosa e civile diminuì considerevolmente nei secoli xiv-xv e in molti casi si esprimeva in forme e dimensioni più che modeste. I monasteri isolati nei dintorni di Novgorod spesso non avevano templi in pietra e sopravvivevano come piccoli conventi con un pugno di monaci; laddove, invece, si costruivano edifici in pietra, si teneva conto di una comunità monastica di non più di dieci o venti fratelli o sorelle e non c’era la necessità di intraprendere costruzioni monumentali. Il monastero della Dormizione sul campo di Volotovo, a cinque chilometri da Novgorod sulla strada per Mosca, è uno degli esempi più caratteristici di questo tipo di costruzione «ad aula». La chiesa isolata è stata progettata come un edificio di piccole dimensioni a base quadrata, all’interno del quale sono posti quattro pilastri che reggono le volte e la cupola. Nell’antichità la parte superiore della chiesa aveva senza dubbio un aspetto più elegante, che dissimulava il passaggio dalla parte più voluminosa dell’edificio all’alto e stretto fusto del tamburo, che serviva da fonte principale d’illuminazione durante il giorno. Le strette finestre inserite nello spessore delle pareti servivano più a movimentare la superficie delle facciate che a far passare la luce. L’interno è separato dal mondo e manifesta l’idea mistica del tempio come cielo in terra.
141. Mosca, incisione di T. Makovskij da un disegno di Š. Smetan’skij (1607 circa); Polonia, museo nazionale di Poznań. 142. Fortificazioni e chiese di Pskov, schema da un’icona con veduta della città nel xvii secolo in una copia del xix secolo.
215
Molto più solenni e di maggiori dimensioni sono i tem-
rali sullo scopo ultimo del romitaggio. Il potere del principe a Novgorod aveva perso la propria autorità già nel xii secolo e aveva ceduto il posto alla repubblica, che era di fatto nelle mani degli arcivescovi novgorodiani. La loro giurisdizione si estendeva anche su Pskov e sugli sconfinati possedimenti di Novgorod nel Nord della Rus’. La Chiesa usava le sue sostanze con parsimonia e non badava tanto alla grandezza, quanto al numero degli edifici ecclesiastici. Nei secoli xiv-xv furono fondati numerosi monasteri nuovi e ne furono rinnovati molti vecchi. Gli alloggi e i locali di uso domestico venivano naturalmente costruiti in legno, mentre le cattedrali sempre più spesso venivano edificate in mattone e pietra. Erano di solito piccoli templi le cui dimensioni erano calcolate per una comunità di non più di 10-15 persone. Esempio di tale tipologia è la chiesa della Dormizione della Madre di Dio nel campo di Volotovo, 151 non lontano da Novgorod. Apprendiamo dalla cronaca che la chiesa di Volotovo fu eretta dal vescovo Moisej nell’estate del 1352. Poiché nel monastero per lungo tempo i monaci condussero vita eremitica, avendo ognuno una propria cella e un’economia non comune, bensì individuale, l’aspetto del monastero nei secoli xiv-xv doveva essere quello di un insieme di pittoresche casette in legno, sparpagliate intorno ad una chiesa in pietra. Quest’ultima era il centro naturale del complesso e il luogo dove i monaci si incontravano tutti i giorni per il servizio mattutino e vespertino. Il tempio era un piccolo edificio di pianta quadrata, con quattro colonne a sostegno delle volte e un tamburo con una cupola, poggiato su alte arcate. Sui lati settentrionale e meridionale due atrii furono annessi al corpo principale, dei quali quello occidentale fungeva da vestibolo e nel contempo, con tutta probabilità, sosteneva un piccolo campanile (gli atrii sono una caratteristica comune a quasi tutte le chiese di Novgorod di questa epoca). Nonostante i successivi rifacimenti della sommità del tempio, tutti gli elementi della decorazione originaria si sono conservati sotto il nuovo tetto e alla vigilia della guerra, negli anni 1940 e 1941, il museo di Novgorod effettuò una completa ricostruzione delle parti superiori dell’edificio. Sfortunatamente le fotografie fatte al tempo andarono perdute durante l’occupazione nazista e la chiesa fu distrutta dall’artiglieria tedesca. Perciò i nostri apprezzamenti sull’architettura possono essere confermati solo dalle fotografie scattate prima della guerra e dai rilievi
149 pli cittadini, come quello del Salvatore della Trasfigurazio-
143
144
145
146
147
148
149
150
151
143. Cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Snetogory presso Pskov, 1311. 144. Chiesa di San Basilio di Cesarea sulla collina a Pskov, 1413. 145. Chiesa di San Teodoro Stratilate a Novgorod, 1360-1361. 146. Chiesa della Dormizione nel villaggio di Melëtovo vicino a Pskov, 1462-1463. 147. Chiesa del Salvatore a Kovalëvo nei dintorni di Novgorod, 1394, restaurata nelle forme originarie (architetto E. Krasnore/’ev). 148. Cattedrale dell’icona del Salvatore non fatto da mano d’uomo nel monastero del Salvatore di Andronik a Mosca, 1410-1427. 149. Chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Novgorod, 1374. 150. Chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Kozevniki, Novgorod, 1406. 151. Chiesa della Dormizione della Madre di Dio a Volotovo presso Novgorod, 1352.
216
ne in via di Sant’Elia a Novgorod (1374). Questo tempio enorme – soprattutto se riferito al xiv secolo – fu costruito con il denaro dei ricchi abitanti del rione mercantile e, fino alla costruzione della vicina cattedrale del monastero della Madre di Dio del Segno nel xvii secolo, era la più grande chiesa nella parte orientale di Novgorod. Nei sei secoli della sua esistenza, la chiesa del Salvatore ha subito poche trasformazioni e, tranne il nartece sul lato occidentale, che fu demolito, e la costruzione di alti tetti a cuspide in sostituzione delle originarie coperture tripartite delle volte, essa ha mantenuto il suo aspetto primitivo. Al posto dell’attuale forma a punta della copertura, il tempio del Salvatore possedeva nel passato un’altra caratteristica, una certa qual pesante monoliticità. La monumentalità dell’edificio dava perfino un’impressione di immobilità delle forme, ma gli abitanti di Novgorod davano valore alla forza e nella chiesa del Salvatore è espressa proprio la bellezza della forza fisica sicura di sé. Il tipo architettonico della chiesa del Salvatore fu rea150 lizzato in modo ancor più completo nella chiesa di Pietro e Paolo, eretta nel 1406 nel rione Nerevskij di Novgorod, chiamato anche Koževniki. Restituita dopo la guerra alla sua forma originaria, compresa la ricostruzione del tetto a volte, coperto con scandole in legno, la chiesa di Pietro e Paolo ci riporta all’epoca di maggior sviluppo dell’arte edile novgorodiana. Nell’opera muraria delle pareti sono utilizzati per lo più blocchi irregolari di pietra locale, a cui sono mescolati materiali ferrosi che danno sfumature di colore rosso. I motivi decorativi, costituiti da nicchie di varie forme e croci, sono ricavati in mattone e danno un ultimo tocco all’insieme pittoresco delle facciate, le quali non hanno nulla di quel pallore caratteristico delle superfici intonacate. A differenza dell’imponenza delle chiese rionali, segno dell’agiatezza dei principali donatori e a volte anche di tutto il quartiere, l’architettura monastica nel secoli xiv-xv aveva un carattere molto più modesto. Era ormai lontana l’epoca dei monumentali complessi monastici del xii secolo. È significativo che il motivo della modestia degli edifici monastici non fosse da ricercare nella mancanza di mezzi, ma nella trasformazione del potere e delle opinioni gene-
152-153. Cattedrale della Dormizione di Gorodok a Zvenigorod, 1400 circa; pianta. 154. Cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di San Savva a Storoži, Zvenigorod, 1405 circa. Ricostruzione dell’aspetto originario e disegni di B.A. Ognev.
217
155
156
157
155. I templi moscoviti della fine xiv-inizio xv secolo conservati fino ai nostri giorni sono edifici di rara bellezza e complessità strutturale: la cattedrale della Trinità nella lavra della Trinità di San Sergio (1422-1424) ha nel complesso un aspetto monasticamente vigoroso, potente e perfino severo, che si addice perfettamente al carattere di Sergio di Radonež, quale ci appare nelle storie della sua vita e nei primi ritratti. 156. Già nei secoli xiv-xv il Nord era attivamente colonizzato dai monaci, provenienti in maggior parte da Rostov e Mosca. Proprio giù sorsero monasteri famosi come quello di Ferapont dove, nel 1490, fu eretta la cattedrale della Natività della Madre di Dio. 157. Il monastero di Ferapont è posto sulla cima di un’alta collina tra due laghi.
sua giovane cultura poggiava sulla luminosa eredità del grande principato di Vladimir, e Mosca utilizzò appieno l’esperienza accumulata dall’epoca precedente. Quali che siano state le esperienze iniziali di Mosca nel campo dell’arte architettonica, noi conosciamo i risultati finali dello sviluppo dell’architettura moscovita nel corso dei secoli xiv-xv: le imponenti cattedrali e le mura del Cremlino, edificate alla fine del xv secolo. L’architettura a Mosca iniziò con costruzioni molto modeste: senza entrare nel merito dell’alquanto discutibile supposizione che la prima cattedrale della Dormizione della Madre di Dio nel Cremlino sia stata costruita in pietra già alla fine del xiii secolo, noi sappiamo con precisione che non molto tempo dopo, nel 1326, il metropolita Petr iniziò la costruzione di una chiesa in muratura nella propria residenza; proprio in questo periodo il metropolita decise di trasferire la propria sede da Vladimir a Mosca. Dopo la chiesa principale, Mosca con un ritmo quasi febbrile intraprende e porta a compimento la costruzione di una serie di edifici in pietra: nel 1329 si conclude la costruzione della chiesa di Giovanni Climaco «che sta sotto la campana», nel 1330 viene eretta la cattedrale del Salvatore al bosco, nel 1333 la cattedrale dell’Arcangelo Michele, nel 1340 la chiesa della Teofania «fuori il mercato» (oltre la piazza Rossa), nel 1365 la cattedrale del Miracolo dell’arcangelo Michele nell’omonimo monastero del Cremlino e, infine, negli anni 1366-1368 si costruiscono le prime mura in pietra del Cremlino di Mosca. L’edilizia in pietra, oltre ad essere preferita per considerazioni pratiche, in quanto diminuiva i danni dovuti ai continui incendi e il rischio di assalti nemici contro le mura, aveva anche un evidente scopo politico: dimostrare la potenza dei principi di Mosca e il loro diritto ereditario al grande principato in Russia. Tutti i templi e le fortificazioni menzionati furono distrutti e ricostruiti dopo cento e più anni con imponenza ben maggiore. Solamente a livello archeologico si può immaginare il loro aspetto esterno e il quadro colorito che insieme formavano. Informazioni ancora più scarse si hanno sulle singole chiese in pietra a Tver’, Kolomna, e Nižnij Novgorod, anch’esse in seguito andate distrutte.
grafici. Per fortuna, già cento anni fa si erano fatte molte riproduzioni, copie e perfino foto a colori, tra le quali occupa un posto a parte l’immagine della Dormizione di Volotovo nelle mani dell’arcivescovo Moisej, che aveva commissionato il tempio: vi si vede un armonioso edificio con le facciate tripartite e una elegante cupola. È facile notare che si tratta di una variante rimpicciolita di quelle grandi chiese cittadine di Novgorod, di cui le chiese del Salvatore della Trasfigurazione e di Pietro e Paolo sono un esempio. La chiesa della Dormizione di Volotovo era, prima della guerra, uno dei più incantevoli edifici di Novgorod. Non vi giungeva il trambusto della città, i vecchi alberi e il minuscolo, incolto cimitero di campagna ispiravano una nostalgica e luminosa mestizia, il vicino campo di grano simboleggiava l’eterna forza creatrice della vita. La chiesa si inseriva meravigliosamente nel paesaggio e le sue forme si confacevano alla bassa collina dai dolci pendii sulla quale si trovava. La frescura della penombra interna ci dava la viva impressione di essere ritornati al xiv secolo. Difficilmente si sarebbe potuto trovare in qualsiasi altra chiesa di Novgorod un tale stato di conservazione delle forme architettoniche e della pittura muraria, ad eccezione, naturalmente, della chiesa sulla Neredica, anch’essa distrutta dai Tedeschi. Dopo Novgorod e Pskov, l’altro centro di cultura in rapida crescita durante il periodo dei Tatari era Mosca. Verso la fine del xiv secolo la città si affermò – ancora, a dire il vero, non formalmente – come capitale della Rus’ nord-occidentale. Questo viene confermato, in particolare, dal fatto che nel 1380, alla vigilia di una battaglia decisiva contro le truppe tatare del khan Mamaj, il gran principe di Mosca Dimitrij si assunse il compito di formare una forza panrussa per opporsi ai Tatari e sotto il suo vessillo con l’immagine del Salvatore non fatto da mano d’uomo si riunirono le schiere di non meno di venti principati e città. Le fonti parlano di uomini armati di Mosca, Novgorod, Nižnij Novgorod, Rostov, Jaroslavl’, Perejaslavl’ Zalesskij, Serpuchov, Možajsk, Kostroma, Beloozero, Dmitrov, Ugli/ e molti altri luoghi. A differenza di Novgorod e Pskov, Mosca aveva ancora una storia recente: non più di duecento anni. Ma la 218
Abbiamo, comunque, buoni motivi per ritenere che l’architettura nella Russia nordorientale ebbe un’evoluzione abbastanza rapida, in quanto i templi moscoviti della fine xiv-inizio xv secolo conservatisi fino ai nostri giorni sono edifici di rara bellezza e complessità strutturale. Ci vi/ riferiamo soprattutto alla cattedrale della Dormizione a 2-3; Gorodok, alla cattedrale della Natività della Madre di 152- Dio nel monastero di San Savva a Storoži presso Zveni153 gorod (1400-1405 circa), alla cattedrale della Trinità nella lavra della Trinità di san Sergio (1422) e alla cattedrale del Salvatore non fatto da mano d’uomo nel monastero Andronik di Mosca, datata intorno al 1427. Per la loro costruzione fu usata la pietra bianca dei dintorni di Mosca, lavorata con una perfezione tecnica che presuppone una rinomata tradizione artigianale che non abbia conosciuto lunghe pause forzate. Tutte queste chiese di Mosca ripetono un unico modello architettonico: a pianta quadrata con quattro pilastri, tre absidi semplici e una cupola alta; la parte che collega il corpo principale e la cupola è decorata con motivi a forma di chiglia che costituiscono la parte terminale delle mura esterne e con fasce della stessa forma alla base del tamburo. Le facciate sono suddivise da pilastri e nel mezzo hanno una fascia intagliata di pietra bianca che cinge il tempio da due o tre lati; inoltre, la parte orientale della chiesa ha una simile piccola fascia alla sommità delle absidi. Particolarmente complessa è la composizione architettonica della parte superiore della 148 cattedrale del monastero del Salvatore di Andronik: posta su un alto basamento, tanto che si dovette costruire una scalinata di accesso alle porte, la cattedrale del Salvatore leva verso la cupola un intero gruppo di pareti a chiglia, che variano in altezza e collocazione. Questa sinfonia di forme, ripetuta cento anni più tardi nella chiesa lignea di Kiži, dimostra una volta di più che esiste uno stretto legame tra l’architettura in pietra e quella in legno e che quest’ultima ha con tutta probabilità origini assai antiche. A differenza che a Novgorod, gli artigiani di Mosca evitano volutamente gli atrii coperti e le cappelle isolate, ottenendo così una rara purezza ed espressività nella sagoma dell’edificio. Si persegue chiaramente l’intento di dare al tempio coesione e una struttura piramidale. Nella 155 cattedrale della Trinità della lavra quest’ultima idea è sottolineata dalla netta pendenza delle pareti all’interno del tempio e dal tamburo, collocato quasi alla stessa altezza della parte bassa della costruzione, dove i vani alti e stretti delle finestre aumentano l’elegante struttura verticale dell’edificio. La chiesa ha nel complesso un aspetto monasticamente vigoroso, potente e perfino severo, che si addice perfettamente al carattere di Sergio di Radonež, quale ci appare nelle storie della sua vita e nei primi ritratti. Quanto grande e vario nei metodi fosse il bagaglio crea tivo degli architetti moscoviti dell’epoca di Sergio di Radonež e di Andrej Rublëv ci è dato di saperlo anche dai resti di altre chiese, tra le quali si distinguono la cattedrale della Natività della Madre di Dio nel Cremlino di Mosca, che si trova ora nel complesso del palazzo Bol’šoj (1393), e la chiesa in pietra bianca di Nicola Taumaturgo nel villaggio di Kamenskoje vicino a Mosca (fine xiv secolo), ancora poco nota, ma in perfetto stato di conservazione. Entrambe furono costruite per volere del gran principe ma, a differenza dell’elegante chiesa del Cremlino, l’architettura della chiesa di San Nicola si limita a una pianta semplicissima e a forme esterne altrettanto semplici. Si utilizza l’idea del tempio senza pilastri, le cui volte poggiano su po-
tenti sostegni ad angolo, uniti direttamente alla muratura delle pareti. Analoghi templi si possono trovare nei Balcani e non è escluso che l’elaborazione di nuove idee nella prima architettura moscovita abbia subito l’influenza dei maestri serbi, di cui Mosca era piena durante la breve amministrazione del metropolita Kiprian e, in parte, anche di Fozio. Gli architetti di Mosca, così come gli altri artisti, capivano l’importanza delle novità dei metodi artistici da loro usati e non è un caso che perfino opere d’arte applicata, come ad esempio il turibolo d’argento firmato di Nikon di Radonež nella sagrestia della lavra della Trinità di san Sergio (1405) e il piccolo sion nel Palazzo dell’arme- 158 ria (1486), proveniente dalla cattedrale della Dormizione del Cremlino di Mosca, riproducano le forme delle citate chiese di Mosca. A metà del xv secolo a Mosca ferveva l’attività edile; aumentava velocemente non solo il numero degli edifici per il culto, ma anche di quelli secolari: dai palazzi d’abitazione ai refettori dei conventi, dalle torri campanarie alle mura fortificate. Per uno strano caso nessuno di questa trentina di edifici si è conservato fino ai nostri giorni e l’autore di una monografia relativamente recente su questo periodo dell’architettura russa è stato costretto ad esporre il proprio tema da un punto di vista puramente storico-archeologico, senza poter fornire immagini concrete di monumenti un tempo realmente esistiti. La storia della cultura poggia, tuttavia, sulle opere migliori, e il xv secolo è incredibilmente ricco di capolavori sia in architettura, che in letteratura e in pittura. La lista dei primi si apre con un’opera di portata nazionale come la cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca, dove avvenivano le incoronazioni di zar e zarine, le nomine di patriarchi e metropoliti e tutte le più importanti cerimonie ecclesiastiche e statali. Gli insuccessi con cui iniziò la costruzione dell’attuale cattedrale della Dormizione furono la prova che molte delle soluzioni tecniche ed artistiche usate in precedenza non erano più utilizzabili. Nel 1474 la cattedrale, portata quasi a compimento dagli architetti moscoviti Krivcov e Myškin, crollò per un leggero terremoto e gli architetti chiamati da Pskov si rifiutarono di aggiustare e ultimare la costruzione. Fu allora che Ivan iii invitò a Mosca il celebre architetto fiorentino Aristotele Fioravanti. Per comprendere il motivo della chiamata, così insolita per la Russia ortodossa, di un maestro latino (cattolico), bisogna ricordare che il grande principe Ivan Vasil’evi/ era sposato in seconde nozze con la principessa bizantina Sofia, nipote dell’ultimo imperatore greco Costantino xii, perito durante la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi. Il padre di Sofia, Tommaso Paleologo, era signore di Morea (l’odierno Peloponneso) e dopo la conquista turca del Peloponneso aveva trovato rifugio a Roma. Quando Ivan iii decise di prendere Sofia in moglie, essa venne a Mosca con un nutrito seguito di Greci e Italiani di ogni sorta, con alla testa il nunzio papale, il cardinale Antonio. Con questo matrimonio, naturalmente, il Vaticano perseguiva lo scopo di indurre Mosca all’unione, che sembrava cosa probabile dopo il concilio di Firenze del 1439, in cui il metropolita di Mosca Isidoro aveva firmato un accordo con la Santa Sede. Tuttavia, in questo caso Mosca dimostrò fermezza di convinzioni e non solo non si lasciò persuadere dalla propaganda dei latini, ma si proclamò ufficialmente erede di Costantinopoli e di tutto l’impero bizantino. Il matrimonio dinastico di Ivan aveva, quindi, anche un aspetto puramente politico, che il Vaticano 219
non aveva minimamente considerato. In ogni caso, con l’arrivo di Sofia Paleologa, Mosca si riempì di decine di persone della sua corte e attraverso di loro gli intellettuali di Mosca poterono essere iniziati alla cultura italiana. La chiamata di Aristotele a Mosca fu senza dubbio dovuta all’iniziativa di qualcuno nella corte di Sofia che aveva già avuto contatti col maestro fiorentino. Parlando della costruzione della nuova cattedrale della Dormizione, i cronisti moscoviti ricordano immancabilmente che, come i suoi sfortunati predecessori, Aristotele fu mandato a Vladimir per studiare il principale edificio della precedente metropolia: la cattedrale della Dormizione di Vladimir. Mosca faceva chiaramente capire a tutte le altre città russe la sua intenzione di assumersi interamente la grande eredità del passato e di erigere un edificio non meno solenne del tempio di Andrej Bogoljubskij e Vsevolod «grande nido». Ed essa riuscì a realizzare fino in fondo questo difficile compito. Dopo aver sgombrato le macerie del tempio crollato nel 1474, in breve tempo, dal 1475 al 1479, Aristotele riuscì a terminare la costruzione della chiesa, che stupiva i contemporanei per l’imponente bellezza delle sue forme, e rimane tuttora un capolavoro dell’architettura religiosa universale e la migliore creazione di Aristotele. La cattedrale della Dormizione è la sintesi del pensiero architettonico anticorusso e italiano dell’epoca del Rinascivii/ mento. Ciò che colpisce innanzitutto è l’eccezionale chia2-3; rezza delle sue linee. Nonostante le grandiose dimensioni 243 e la modestia delle decorazioni, la sua facciata meridionale, che chiude la piazza delle cattedrali del Cremlino, desta un’impressione di completa armonia. Maestosi si innalzano gli archi che articolano la facciata, cinque possenti cupole coronano il grandioso corpo del tempio, ma non ci abbandona il pensiero che l’architetto abbia trovato quel punto di equilibrio, che né si abbassa a misura umana, né si eleva smisuratamente, come accade nelle colossali cattedrali gotiche e romaniche dell’Occidente cattolico. Già i contemporanei di Aristotele, che avevano osservato direttamente la sua opera a Mosca, ritennero necessario dire che la cattedrale della Dormizione si costruiva alla maniera «dei palazzi». In altri termini, essi volevano far rilevare la vastità degli spazi interni, che non aveva precedenti in Russia. Grazie a un accurato calcolo ingegneristico, che rese inutile l’utilizzo di pilastri eccessivamente massicci a sostegno delle volte e della cupola, Fioravanti riuscì ad ottenere un’eccezionale integrità dello spazio interno del tempio, che si
estende ugualmente in verticale e in orizzontale. I potenti pilastri di sostegno simili a colonne e la mancanza di forme sfaccettate smussano l’orientamento del movimento lungo le linee assiali delle navate e dei transetti, che è di solito predominante in costruzioni di questo tipo. Lo spazio del tempio assomiglia a quello di una sala, dove prevale il movimento circolare e non quello in una direzione obbligata. L’individuale cede qui chiaramente il posto al comune e addirittura all’universale, cosa che ben concorda col concetto di tempio come immagine del cielo sulla terra. Michail Vrubel’, spirito di grande sensibilità artistica, trovò forse l’unica giusta definizione delle caratteristiche figurative della cattedrale della Dormizione: ripensando alla cattedrale russa davanti alla facciata di San Marco a Venezia e nel dare il dovuto merito a questo originale tempio italo-bizantino, egli dice chiaramente: la nostra cattedrale è più «dignitosa» di quella veneziana. Tale statale «dignità» della cattedrale della Dormizione è proprio la sua principale caratteristica artistica. Il tempio della Dormizione della Madre di Dio fu il primo di una lunga serie di nuovi edifici del Cremlino, di cui furono autori per la maggior parte architetti italiani. Solo la chiesa della Deposizione del Manto della Vergine nella corte del metropolita (1484-1486) e la chiesa dell’Annunciazione, la chiesa di famiglia del gran principe, furono costruite da maestri di Pskov. Il Palazzo a faccette, situato tra le due chiese, fu eretto da Marco Frjazin e Pietro Antonio Solari (1487-1491), la cattedrale dell’Arcangelo Michele da Aloisio il Nuovo (1505-1508), il campanile di Ivan il Grande da Bono Frjazin (1505-1508), le nuove mura e torri del Cremlino da Pietro Antonio Solari, Marco e Antonio Frjazin e altri maestri italiani (1485-1499). Con la conclusione di questi colossali lavori di costruzione, il Cremlino di Mosca acquistò l’attuale fisionomia e insieme quel sistema di piazze e complessi architettonici, che tuttora determinano la sua disposizione interna e il suo significato artistico. Come è noto, le nuove fortificazioni del Cremlino di Mosca seguivano i contorni delle mura in pietra bianca del tempo di Dimitrij Donskoj, ma esse vennero costruite a partire dal lato esterno di quelle precedenti e, di conseguenza, la superficie complessiva del Cremlino e l’estensione delle mura attuali aumentarono. Queste ultime raggiunsero i 2 chilometri e 235 metri. Prima che fossero aggiunte le decorazioni delle torri nel xvii secolo, essa era una fortezza possente e inaccessibile, eretta secondo i più nuovi principi dell’arte militare dell’Europa occidentale. Le mura hanno un’altezza che oscilla tra i 6 e i 19 metri e sono coronate da merli a coda di rondine alti dai 2 ai 2,5 metri. Le strette feritoie nei merli e le cannoniere per il combattimento al suolo erano adatte ad armi di diverso tipo e vi trovavano posto arcieri e artiglieri. Lo spessore delle mura andava dai 3,5 ai 6,5 metri. Era una fortezza inaccessibile, cinta, inoltre, da fossati e dalle barriere naturali della Moscova e della Jauza. Nell’Europa orientale era comparso un minaccioso baluardo, alle cui spalle si estendeva fino al Volga la vasta Terra Russa; al di là di essa iniziava la poco conosciuta pianura asiatica con gli ancora meno noti popoli nomadi e seminomadi, che continuavano a incutere terrore ai principi e ai re europei. Una delle più originali costruzioni degli italiani al Cremlino è il Palazzo a faccette, una sala da cerimonie in cui si ricevevano gli ambasciatori stranieri e si tenevano i banchetti solenni. Si tratta di un edificio a pianta quasi quadrata, coperto da quattro volte a crociera, che poggia-
158. Piccolo Sion dalla cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca, 1486; Cremlino di Mosca, Palazzo dell’armeria.
220
Mosca, Novgorod e Pskov non erano certamente le uniche scuole architettoniche in Russia. Caratteristiche proprie distinguevano gli edifici di Tver’ e Nižnij Novgorod, dei quali, a dire il vero, quasi nulla è rimasto. Ancora più peculiare è lo stile della scuola di Rostov, che già nel xv secolo aveva prodotto una serie di edifici notevoli, soprattutto nel Nord della Russia. La diocesi di Rostov comprendeva gli enormi territori d’oltre Volga e i principi cadetti del casato di Mosca possedevano in queste zone estesi possedimenti, come Vologda, Kuben, Zaozer’e. Ricordiamo, infine, che già nei secoli xiv-xv il Nord era attivamente colonizzato dai monaci, provenienti in maggior parte da Rostov e Mosca. Proprio in questo periodo sorsero monasteri famosi come quelli di Kirill di Beloozero, Lerapont, Dionisij di Glušica, Aleksandr Kuštskij, del Salvatore di Priluck, di Nil di Sora e molti altri. Quasi tutti presto o tardi eressero templi in pietra, che si sono in parte conservati fino ad oggi. Uno dei monasteri più antichi in quest’area era quello del Salvatore sulla roccia, fondato, secondo la tradizione, intorno al 1260 dal principe di Beloozero, Gleb Vasil’ kovi/, della famiglia dei principi di Jaroslavl’. Dovevano passare, però, duecento anni prima che il monastero iniziasse la costruzione della chiesa in pietra. La cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione fu eretta nel 1481 col denaro offerto dal fratello minore di Ivan iii, a cui all’epoca appartenevano Vologda e le terre intorno al lago Kuben. Qualche anno dopo, nel 1490, fu costruito anche il tempio in pietra del vicino monastero di Ferapont, che ha molto in comune con la cattedrale del Salvatore. È risaputo che la cattedrale nel monastero di Ferapont fu costruita per iniziativa di Ioasaf Obolenskij, arcivescovo di Rostov, che si ritirò poi nel monastero dove morì. Con l’aggiunta della cattedrale della Dormizione nel monastero di Kirill di Beloozero, costruita nel 1497 dal maestro Prochor di Rostov, i monumenti architettonici di Rostov del xv secolo costituivano già un gruppo stilistico coerente e considerevole. Proprio queste tre chiese rappresentano nella storia della cultura russa gli esempi più puri del ramo di Rostov all’interno della scuola architettonica nordorientale. Sembra si possa affermare senza esitazioni che la concezione architettonica complessiva dei templi di Rostov si rifà all’architettura moscovita del xv secolo. Non a caso le cattedrali nei monasteri di Ferapont e del Salvatore sulla 156roccia sorgono su alte strutture a volte e l’accesso alla chiesa 157 avviene tramite una ripida scala, come anche a Mosca nelle cattedrali del monastero del Salvatore di Andronik e nelle chiese dell’Annunciazione e della Deposizione del Manto al Cremlino. L’architettura doveva, ovviamente, tener presente le condizioni della natura nordica e le alte strutture nei monasteri del Salvatore sulla roccia e di Ferapont dovevano salvaguardare le cattedrali dall’affiorare delle acque sotterranee. Risalgono chiaramente alla tradizione di Mosca le fasce decorative dei cornicioni e dei basamenti, comparse per la prima volta a Zvenigorod e nella lavra della Trinità di san Sergio. Eppure tutte le chiese citate possiedono caratteristiche particolari: un evidente gusto per il fregio nella decorazione, che sfocia nel puro stile popolare dei gorodki, i festoni smerlati che conosciamo dai ricami contadini, come pure quella mancanza di simmetria a cui sempre tendevano gli artisti nei centri principali. Le cattedrali dei monasteri di Ferapont e del Salvatore sulla roccia avevano, in particolare, una cupola in più, posta sulle cappelle di San Nicola e del metropolita Petr.
no sulle spesse pareti esterne e sul massiccio pilastro al centro della sala. Poiché in tal modo non c’era più la necessità di traverse in legno o ferro, lo sguardo abbracciava liberamente tutto lo spazio interno. Indipendentemente 249- dai modelli di origine occidentale, il Palazzo a faccette 250 ricorda i refettori monastici, largamente diffusi nell’architettura anticorussa. Il più antico refettorio in pietra di Mosca fu costruito a metà del xv secolo nel monastero del Miracolo al Cremlino e nel 1469 un simile refettorio viene eretto nella lavra della Trinità di san Sergio. In seguito, dalla fine del xv secolo, altri simili refettori in pietra con un pilastro di sostegno centrale cominciarono a sorgere ovunque e, col tempo, divennero uno degli elementi essenziali dei complessi monastici. Tutti quanti venivano costruiti su alte sottostrutture, dove si trovavano le ghiacciaie, altri locali d’uso domestico e, sovente, anche le cucine e i sistemi per il riscaldamento dell’aria calda, che veniva poi fatta salire nella sala superiore. A differenza dei refettori dei monasteri, che erano per lo più privi di ogni addobbo, il Palazzo a faccette fu elegantemente adornato: la sua parete frontale è rivestita di blocchi di pietra bianca con un bugnato a punta di diamante, le finestre a doppia ogiva nello stile del gotico italiano hanno cornici rettangolari, negli angoli si trovano alte colonne a torciglione, le pareti laterali sono dipinte di colore rosso e sulla parete meridionale è inserito un alto ingresso d’onore con una scalinata che conduce alla Porta Santa, i cui battenti intagliati sono opera di Aloisio il Nuovo. Questo edificio, unico per i suoi pregi artistici, chiudeva il lato occidentale della piazza delle cattedrali, mentre il campanile di Ivan il Grande fu eretto su quello orientale e la cattedrale dell’Arcangelo su quello meridionale. Ai lati del Palazzo a faccette furono costruite ancora due chiese in 247- tempi brevi: quella dell’Annunciazione e quella della De248 posizione del Manto. Entrambe non sono opera di architetti italiani, ma di maestri di Pskov, a cui si deve anche la chiesa dello Spirito Santo nel monastero della Trinità di san Sergio (1476-1477). Tutte e tre le chiese non hanno niente in comune con Pskov, nonostante la chiara testimonianza delle cronache, dove si fa sempre riferimento a maestri di quella città; si tratta, invece, di esempi tipici di architettura moscovita del tardo xv secolo. Le forme sono armoniose, le pareti hanno la tipica decorazione moscovita fatta con fasce di semicolonnine o di piastrelle ornamentali di terracotta. Le absidi della chiesa dello Spirito Santo nel monastero della Trinità hanno una decorazione che non si trova altrove in Russia, fatta di semicolonnine, legate tra loro nella parte superiore da appendici in forma di corno. Questo tipo di decorazione è però noto perché si ritrova nell’architettura di alcune chiese di Mistra (Peloponneso) dei secoli xiv-xv. Rimane da scoprire da dove venissero questi architetti «di Pskov», comparsi a Mosca così inaspettatamente al tempo del crollo della prima cattedrale della Dormizione e che si erano rifiutati di condurre a termine quanto intrapreso da Myškin e Krivcov. Dei tre citati templi «pskoviani» il più interessante è la chiesa dello Spirito Santo, che appartiene al tipo delle chiese «sotto le campane», ma che offre un esempio unico di chiesa-campanile. La torre campanaria si trova qui nella zona di passaggio dalle volte alla cupola, la quale, di conseguenza, non serve per dare luce all’edificio, ma solo come cassa di risonanza. Il tempio ha quindi un’illuminazione molto ridotta ed è probabile che fosse destinato al servizio funebre per i monaci. 221
a Novgorod crea condizioni particolarmente favorevoli per la conservazione del legno, le beresta vengono trovate con più frequenza soprattutto qui. Il loro contenuto è incredibilmente vario. Particolare interesse suscitano alcune beresta, che sono in pratica manuali per lo studio della scrittura, delle specie di abbecedari con le lettere dell’alfabeto incise sulla corteccia, o libri di studio per bambini, composti di strati di corteccia piegati in due. Vi si possono trovare sia esercizi di aritmetica, sia ripetizioni scolastiche di espressioni scritte di uso comune. Questo fatto testimonia che molti avevano accesso all’istruzione elementare, che iniziava, tra l’altro, come adesso all’età di sette anni. Una caratteristica notevole del corpo delle beresta di Novgorod è la varietà degli autori e dei destinatari. Ci sono bambini e adulti, uomini e donne, uomini di Chiesa e laici, personalità ufficiali dell’amministrazione della repubblica e semplici cittadini, mercanti, uomini d’affari, contadini, artisti e committenti. Vi sono rappresentati interessi privati e statali, vi si parla d’amore, d’amicizia e d’affari, vi troviamo la vita della grande città e la vita della provincia vicina e lontana. I signori feudali intrattengono corrispondenza con i loro rappresentanti in campagna, i contadini con i signori. Contrariamente all’idea di un regresso dell’alfabetismo durante il periodo dei Tatari, i documenti mostrano un intensificarsi della corrispondenza proprio in quest’epoca, poiché sono state trovate molte più beresta del xiv secolo che non dei secoli precedenti. Bisogna, d’altra parte, ricordare, che Novgorod non fu devastata dai Tatari e la vita culturale della città continuò a seguire il suo corso naturale. Ma il livello d’istruzione del popolo russo non è documentato solamente dalle beresta. Si è conservata un’enorme quantità di altri documenti su pergamena, su carta e di manoscritti. Ce ne sono a migliaia, e il xiii secolo non è inferiore ai periodi precedenti per abbondanza di tale produzione. Nel xiv secolo abbiamo un afflusso potente della più svariata letteratura. Predominano ovviamente i libri liturgici: Evangeliario, Apostolo, Triodion del tempo di quaresima e del tempo pasquale, Regole, Messali, Libri di preghiere. Ma accanto ad essi, con sempre più frequenza compaiono libri di lettura: raccolte di Vite di santi, predilette dai lettori dei più diversi strati sociali, cronache, trasposizioni di libri dell’Antico Testamento, cronografie, lo Zlatostrui di Giovanni Crisostomo, opere di padri della Chiesa e di santi vescovi e asceti di epoca più recente, leggende e racconti storici, racconti di viaggio. Nella beresta di Jakov, ritrovata a Novgorod, da lui inviata al compare e amico Maksim 161 nella seconda metà del xiv secolo, il mittente chiede all’amico di mandargli «una buona lettura»: certamente non un’opera liturgica, ma del secondo gruppo. Nella vecchia letteratura specialistica sull’argomento, e soprattutto in
Molti monasteri del Nord si sono conservati fino a tempi recentissimi nella viva cornice di una natura vergine e delle tradizionali abitazioni di campagna. Queste circostanze conferivano loro un fascino incomparabile. Il monastero del Salvatore sulla roccia si trova fin dai tempi più remoti su un’isoletta del lago Kuben, quasi simboleggiando con la sua stessa posizione la vita anacoretica dei monaci. Il monastero di Ferapont è posto sulla cima di un’alta collina tra due laghi, e quello di Kirill di Beloozero si trova letteralmente «tra le acque»: anche vedendolo da vicino la bassa riva scompare e il maestoso complesso si fonde con la limpida superficie del lago Siversk. Non c’è, s’intende, nessuna casualità nell’incanto del paesaggio in cui si trovano. Il senso estetico suggeriva la scelta del luogo per la fondazione del monastero e le considerazioni pratiche raramente discordavano dall’idea di bellezza del sito dove dovevano essere posti il tempio o la cella. Istruzione e letteratura Contrariamente alla vecchia idea che l’istruzione nel Medio Evo fosse prerogativa esclusiva dei monasteri, essa invece trovò diffusione innanzitutto nelle città; la funzione dell’educatore era svolta da persone appartenenti a diversi gruppi sociali: dagli ecclesiastici ai laici e ai d’jak. Gli «istitutori» (parobki), che vivevano a decine presso la corte degli arcivescovi di Novgorod, Moisej e Aleksej nel xiv secolo, scrissero tanti di quei libri liturgici e di altra natura, che perfino oggi, dopo le innumerevoli perdite subite dal patrimonio librario russo nei secoli seguenti, la loro produzione costituisce una «scuola» sui generis, con caratteristiche peculiari facilmente riconoscibili. Nonostante il carattere imitatorio di questa letteratura, che si rifà a modelli e traduzioni bizantini, essa contribuì a integrare il patrimonio di conoscenze e ad elevare il livello culturale del popolo. La Chiesa e i suoi più illuminati rappresentanti incarnarono in questo inquieto periodo l’istruzione russa. Ciò è anche naturale, dato che l’esercizio delle funzioni ecclesiastiche e il servizio divino in particolare richiedevano che il sacerdote avesse un’istruzione e sapesse facilmente orientarsi nei testi che si leggevano in chiesa. Le cronache sono ugualmente piene di notizie d’incendi in edifici ecclesiastici, di icone e libri andati bruciati, e di accenni a nuovi templi e a libri nuovi. Anche solo il puro e semplice lavoro di cancelleria nelle diocesi richiedeva la presenza costante di persone istruite per comporre e scrivere missive, lettere credenziali e disposizioni di ogni genere. Le molte migliaia di manoscritti giunti fino a noi ci confermano che nell’ambiente ecclesiastico l’alfabetismo era largamente diffuso. Tuttavia, mezzo secolo fa si è stabilito che anche in ambiente laico esso era altrettanto affermato e diffuso, non solo tra gli uomini, ma anche tra le don159 ne. Ci riferiamo alle cosiddette beresta di Novgorod, testi scritti su corteccia di betulla. Si tratta di lettere personali e commerciali di novgorodiani, i cui più antichi esemplari risalgono ai secoli xi-xii, ma che appartengono per la maggior parte ai secoli xiii-xv. Le prime beresta di Novgorod furono scoperte per caso durante scavi archeologici nel 1951 e fino ad oggi ne sono state ritrovate circa 700. Non solo, speciali ricerche hanno portato al loro ritrovamento anche in altre città russe: a Pskov, Staraja Ladoga, Vitebsk, Mstislavl’, Staraja Russa, Tver’. Poiché l’umidità del suolo
159. Scritto su corteccia di betulla, fine xiii secolo, dagli scavi di Novgorod.
222
dove la registrazione degli ultimi avvenimenti si riallacciava agli scritti delle epoche precedenti. Ecco perché i cosiddetti «stemmi» delle cronache nelle ricerche storico-letterarie ricordano molto spesso dei complicatissimi rompicapi. L’annalistica russa ha conosciuto i suoi periodi di splendore e decadenza, ma non si è mai interrotta. Nei secoli xiv-xv, che vedono la formazione di uno Stato russo centralizzato e la costituzione di un nuovo sistema di potere politico (nei principati il principio del maggiorasco fu sostituito dalla successione dinastica), l’annalistica ebbe un intenso sviluppo e si espresse in brillanti fenomeni storici. La compilazione degli annali, venuta meno a Vladimir dopo che la città fu devastata dai Tatari, fu ripresa a Rostov e Tver’, e nella seconda metà del xiv secolo si concentrò a Mosca. Non bisogna, infine, dimenticare, che la stesura delle cronache proseguì a Novgorod e Pskov: le ultime annotazioni ufficiali nella cronaca di Novgorod si riferiscono all’anno 1446, mentre a Pskov all’anno 1547. Nel 1478, dopo un lungo antagonismo durato decenni, Ivan iii riuscì a liquidare la repubblica di Novgorod, nel 1485 cadde il principato di Tver’ e all’inizio del xvi secolo Pskov e Rjazan’ persero definitivamente la propria indipendenza. Da allora proprio Mosca si assunse la responsabilità di guidare il cammino della storia russa. Le cronache erano, in sostanza, un «diario», o più esattamente un «annuario», poiché la registrazione degli avvenimenti più rilevanti dell’anno riceveva poi una stesura ordinata e il testo così definitivamente aggiustato veniva inserito nel corpo delle cronache. La prima cronaca di Novgorod offre forse uno degli esempi più chiari dello stile degli annali. Eccone un esempio: «Nell’estate del 1352. Ci fu una forte moria a Pskov. In quella stessa estate giunsero a Novgorod gli ambasciatori di Pskov per invitare il vescovo Vasilij a far loro visita, affinché li benedicesse, e il vescovo esaudì la loro preghiera, andò da loro, e dopo esser giunto li benedisse; e mentre andava da Pskov a Novgorod spirò lungo la strada sul fiume Uza il tre del mese di luglio, giorno in memoria del santo martire Akinfij, il martedì alle nove del mattino. Quella stessa estate il vescovo Moisej eresse una chiesa in pietra dedicata alla Dormizione della santa Madre di Dio a Volotovo. Quella stessa estate con grande supplica fecero Moisej arcivescovo della Santa Sofija. Quella stessa estate ci fu una forte moria a Novgorod. Quella stessa primavera morì Teognoste, metropolita di tutta la Rus’, dopo lunga malattia». Di testi simili ce ne sono migliaia, ma ciò non vuol dire che tutti gli eventi siano uniformemente raccontati e spesso, soprattutto in situazioni politicamente complesse, il cronista si immerge in un racconto dettagliato, che costituisce una specie di resoconto dell’accaduto. La vita della città medioevale offriva abbondante materiale al cronista-storico e molto raramente, solo in casi davvero eccezionali, egli scriveva sul libro le parole: «Ci fu calma tutta l’estate» (1260).
quella divulgativa, si dava una valutazione esagerata del contributo creativo dei monasteri alla storia della pittura, dell’architettura, dell’istruzione. Le nuove ricerche hanno mostrato l’infondatezza di tali opinioni. L’ambiente cittadino, per giunta laico e non ecclesiastico, produceva molte più nuove idee e formava professionisti ben preparati nei più diversi campi. Nei grandi centri si trovavano in quantità compilatori di cronache, maestri-educatori, uomini di lettere, pittori, orafi, architetti, ingegneri, scrivani che offrivano la propria arte e perizia ad ogni committente disposto a pagarli bene, fosse questi un gran principe o il sovrano di un principato indipendente, un alto dignitario, un mercante, o gli starec di monasteri vicini e lontani. Il mercato era alquanto ampio e vi competevano non solo i maestri locali, ma anche quelli provenienti da altre città e perfino da altri paesi. La storia della letteratura russa nei secoli xiii-xv è piena di quegli stessi pensieri e idee che agitavano la società, poiché è questo l’unico ambito creativo, in cui gli avvenimenti del quotidiano trovano diretto riflesso. I generi letterari predominanti continuano ad essere le cronache, le vite di santi, il genere epico, le memorie di viaggio, le epistole. Ma, come è stato giustamente osservato da D.S. Licha/ëv, i generi letterari nell’antica Rus’ rispondevano spesso ad esigenze pratiche della società e la loro gamma era ampia quanto la vita stessa. Non c’è altro paese slavo che abbia un tale costante interesse verso la propria storia, come la Russia. Non più tardi della metà dell’xi secolo iniziò la compilazione degli annali, l’annotazione cronologica degli avvenimenti più importanti della storia patria, e, col tempo, da semplice raccolta di brevi notizie, gli annali crebbero fino a formare un grandioso edificio storico-letterario. Essendo questa un’attività chiaramente legata alla vita dello stato, essa raramente si interruppe per motivi casuali e fu svolta con uguale intensità presso le corti dei principi e dei grandi principi, presso le cattedre dei vescovi e dei metropoliti, nei più importanti monasteri, ma quasi mai nelle case private, poiché, in quanto appropriazione di funzioni statali, sarebbe stata considerata un’ingerenza nelle prerogative del potere. Gli annali non sono solamente registrazione di fatti, frammentaria elencazione di avvenimenti grandi e piccoli, non hanno un significato esclusivamente locale. Nell’orizzonte del cronista sono costantemente presenti decine di altri stati, egli cerca e trova le cause e le forze motrici della storia, ha presente tutta la lunga storia della Russia e spesso giudica l’accaduto in modo parziale, da un punto di vista panrusso. La tradizione, presto stabilitasi, di includere i fatti della storia locale nel processo storico di tutta la Russia portò alla compilazione di ampie opere generali,
160. Calamo, metà xiv secolo, dagli scavi di Novgorod.
161. Missiva di Jakov all’amico Maksim, seconda metà xiv secolo, museo di Novgorod.
223
Le vite dei santi furono per molti secoli la lettura favorita dei Russi. L’autorità morale del monastero e dei suoi abitanti – indipendentemente dal fatto che fossero Greci o Slavi – aveva in Russia una fortissima influenza sulla società, poiché la vita dei giusti era ritenuta la misura della vita dell’uomo in generale. Inoltre, agli occhi del lettore i santi erano celesti protettori e intercessori nelle cure di tutti i giorni per il principe come per il mercante, il soldato, il contadino. La «buona lettura», di cui nel xiv secolo il novgorodiano Jakov fa richiesta al suo corrispondente, era con molta probabilità una raccolta di vite. Simili raccolte avevano caratteristiche costanti, e di particolare popolarità godevano i Prologhi, che nella loro versione integrale raccoglievano le vite di tutti i santi, ordinate giorno per giorno per tutto l’anno. Per diversi motivi – e soprattutto a causa dell’enorme mole dell’opera integrale – dal corpo del Prologo venivano estratte singole vite o gruppi di vite, e le vite dei santi russi presto formarono una variante particolare del Prologo, inoltre esse circolavano in redazioni diverse. È un vero peccato che solo alcune delle vite dei santi russi abbiano conservato i loro testi originari: la stragrande maggioranza fu riscritta nei secoli xv-xvi, quando fu effettuata una canonizzazione di massa di santi vecchi e nuovi e, per adeguarsi alle necessità liturgiche, le caratteristiche individuali dei testi originari con i loro dettagli quotidiani e topografici lasciarono il posto a «intrecci delle parole» astrattamente solenni e alquanto stereotipati. Una delle vite più lette nella Rus’ era naturalmente quella di Sergio di Radonež (1322 circa-1392), «illuminatore» della terra russa. Poco tempo dopo la morte del santo, il suo discepolo Epifanij il Saggio scrisse una breve vita di Sergio, con tutta probabilità per l’occasione del ritrovamento delle reliquie del santo nel 1422 e della consacrazione della chiesa in pietra della Santa Trinità, costruita sulla tomba del beato negli anni 1422-1424. Dopo un quarto di secolo
162. Salterio di Chludov, fine xiii secolo, scuola di Novgorod; Mosca, museo storico.
Nonostante la loro natura informativa e lo stile apparentemente semplice, le cronache costituiscono brillanti modelli di prosa. Il gusto innato e la plasticità di pensiero dei compilatori davano la possibilità di esprimere il proprio intento in modo tale che, a differenza, ad esempio, delle cronache scandinave, gli annali russi si leggono con interesse perfino ai nostri giorni. Inoltre, l’evoluzione dell’annalistica come genere particolare nell’ambito della letteratura fu tale, che il suo carattere letterario acquistò sempre maggiore importanza, soprattutto nel xv secolo e soprattutto a Mosca. Quando a cavallo dei secoli xiv-xv il bulgaro Kiprian divenne metropolita di tutta la Russia, Mosca risentì profondamente delle norme della lingua letteraria slavo-meridionale, formatasi nel xiv secolo, che trovò la sua migliore espressione nei numerosi scritti di Pachomij il Serbo (Logoteta). Sebbene Pachomij sia famoso innanzitutto come compilatore e autore di vite di santi russi, la sua influenza si fece sentire in quasi tutti i generi letterari. Grazie alla pratica consueta di includere negli annali vite di santi, racconti e panegirici di santi padri particolarmente venerati, anche nelle cronache ci imbattiamo negli scritti di Pachomij. Pachomij Logoteta arrivò in Russia prima del 1438 e si stabilì inizialmente a Novgorod. Intorno al 1440 era già a Mosca, in seguito per lungo tempo visse e lavorò nella lavra della Trinità di San Sergio, una seconda volta a Novgorod, nei monasteri di Kirill di Beloozero e di Ferapont e ancora a Novgorod, dove con ogni probabilità morì poco dopo il 1484. Pachomij fu scrittore eccezionalmente fecondo e popolare e le sue opere abbracciarono come una grande ondata tutta la letteratura russa del xv e, in parte, anche del xvi secolo. Il suo stile ampolloso, intricato, abilmente ornamentale, simile a quello dell’innografia, si manifesta pienamente nelle vite di santi. Secondo un calcolo estremamente modesto, Pachomij scrisse non meno di cinquanta o sessanta vite di santi, panegirici, narrazioni, liturgie e canoni! Nel corpo dei suoi scritti sono comprese le vite di tutti i più celebri santi russi: Varlaam di Chutyn’, Sergio e Nikon di Radonež, i metropoliti Petr e Aleksej, Kirill di Beloozero, Michail di \ernigov, gli arcivescovi Ioann e Moisej di Novgorod. Le prime annotazioni alla buona sulla vita di questi uomini, spesso scritte subito dopo la loro morte registrando le testimonianze dei contemporanei, furono ornate da Pachomij di tutti i fiori dell’eloquenza e in tale variante sono usate fino ad oggi dalla Chiesa russa.
163. San Sergio di Radonež, 1425-1427. Drappo funebre dalla cattedrale della Trinità nel monastero della Trinità di san Sergio; museo del monastero della Trinità di san Sergio.
224
Saggio a Kirill di Tver’ su Teofane il Greco, il fantastico Racconto del viaggio del vescovo di Novgorod Ioann a Gerusalemme a cavallo di un diavolo, il Viaggio al concilio di Firenze, il Racconto di come Dimitrij Šemjaka accecò Vasilij ii, il Racconto dello zarevi/ Petr Ordynskij. Basta questo breve elenco di opere per capire non solo la varietà dei generi letterari, ma anche l’ampiezza geografica della loro diffusione. Vi sono rappresentate Mosca, Novgorod, Tver’, Rostov Velikij e, come punti di riferimento più precisi, la corte del grande principe, cattedre di vescovi, cancellerie statali e persone private, nella cui corrispondenza si trovano ugualmente riflessi gli interessi e le tendenze sociali. L’estrema varietà dei luoghi dove si svolge questa o quella storia conferisce alla letteratura di questo periodo un particolare colorito: Mosca e i suoi dintorni, l’Orda d’oro, la Palestina, Firenze e Roma, Novgorod, Rostov, Tver’, il Mare Glaciale Artico, la Crimea, Costantinopoli, il monte Athos. Senza, infine, parlare della valanga di traduzioni o nuove redazioni dal greco di testi dell’Antico e Nuovo Testamento, di opere dei padri della Chiesa, di raccolte di commenti, di opere storiche. Liberatasi dal dominio dei Tatari, la Russia è ora tesa ad accrescere il proprio potenziale creativo, entra senza esitazione nella famiglia dei popoli europei, fonda una nuova cultura nazionale, in sintonia con l’epoca del Rinascimento. Per meglio comprendere l’atmosfera della vita che si svolgeva a cavallo dei secoli xiv-xv, riporto il testo completo della Lettera di Epifanij il Saggio, scrittore di Mosca, al suo amico Kirill, archimandrita del monastero del Salvatore di Afanasiev a Tver’. Come appare chiaro dalle prime righe, la lettera risulta essere solo una parte di un messaggio più ampio andato perduto, ma anche il frammento rimastoci è di grande interesse per la caratterizzazione del celebre pittore bizantino Teofane, che era fuggito da Costantinopoli in Russia, dove eseguì le sue opere migliori. Trascritto dall’epistola del monaco Epifanij, che scrive a un certo Kirill suo amico. «Tu hai visto tempo fa la chiesa della Santa Sofia a Costantinopoli, rappresentata nel mio libro del Vangelo, quello che in greco si chiama Tetravangelo e nella nostra lingua russa \etveroblagovestie. Ecco come accadde che nel nostro libro fu raffigurata tale opera. Al tempo in cui vivevo a Mosca, vi si trovava anche il famosissimo saggio e acutissimo filosofo Teofane, greco di nascita, noto disegnatore di libri e il migliore pittore di icone, il quale affrescò molte diverse chiese di pietra, più di quaranta: alcune a Costantinopoli e Calcedonia, e anche a Galata, a Caffa, a Novgorod e Nižnij Novgorod. Anche a Mosca vi sono tre chiese affrescate da lui: dell’Annunciazione della santissima Madre di Dio, di san Michele arcangelo e un’altra ancora. Nella chiesa di san Michele sulla parete ha dipinto la città, tratteggiandola in ogni suo dettaglio coi colori; su una parete dell’abitazione del principe Vladimir Andreevi/ ha dipinto nuovamente Mosca; pure il terem del gran principe è stato da lui dipinto in maniera straordinaria e inconsueta; e nella chiesa in pietra dell’Annunciazione nella stessa maniera straordinaria ha dipinto la “radice di Iesse” e l’Apocalisse. Mentre dipingeva o ritraeva qualche cosa, nessuno e in nessun luogo lo vide osservare i modelli, come fanno certi nostri pittori di icone, i quali, nell’incertezza, se ne servono costantemente, copiando qua e là, tanto che invece di dipingere si direbbe che si limitino a seguire i modelli. Lui, invece, dipingeva per conto suo e si muoveva
Pachomij rielaborò stilisticamente la vita e, data la mancanza di qualsiasi diritto d’autore, inserì nel testo già esistente anche osservazioni proprie. Riflettendo su quanto egli era riuscito a fare, pur non lasciando quasi mai il monastero, Pachomij scrive: «Non aspirò ad andare a Costantinopoli, al Sacro Monte o a Gerusalemme come me, maledetto e privo di discernimento. Ahimè, un peso mi opprime! Io mi trascino di qua e di là, e navigo per ogni parte, e mi sposto da un luogo all’altro; non così peregrinava il beato, ma restava in un lodevole silenzio e porgeva l’orecchio al proprio cuore; non andò in molti posti, in paesi lontani, ma rimaneva in un solo posto e lodava Dio. Poiché egli non cercava le cose mondane e difficili, di cui non si ha necessità…». I secoli xiv e xv furono eccezionalmente prodighi, tristemente prodighi di guerre e devastazioni, che portarono alla tomba decine di migliaia di guerrieri e civili. Alle guerre intestine si aggiunsero i sanguinosi scontri coi Tatari, che culminarono nella battaglia nel campo di Kulikovo, sul corso superiore del Don, l’8 di agosto del 1380. Il gran principe Dimitrij Donskoj, alla testa di un unico esercito russo, e il khan Mamaj, ben sapevano che l’esito del combattimento avrebbe a lungo determinato il rapporto di forza tra i due popoli; per questo motivo da parte russa parteciparono alla battaglia circa settantamila uomini, e da parte tatara non meno di centomila. Ma la battaglia di Kulikovo era stata preceduta da un scontro sul fiume P’jana nel 1377, dove l’armata russa era stata sconfitta, e da un combattimento sul fiume Voža, che vide la vittoria dei Russi. Neanche la battaglia di Kulikovo pose fine alle incursioni tatare nella Rus’: nel 1382 il khan Tochtamyš conquistò e diede alle fiamme Mosca, Vladimir, Zvenigorod, Možajsk, e nel 1408 ci fu una breve incursione in Russia del khan Edigej, durante la quale Vladimir fu devastata. Coscienti del significato storico di questi ultimi scontri con l’Orda, i letterati di Mosca li fissarono non solo nelle cronache, ma anche in componimenti di genere epico. Furono così creati i Racconti dello scontro sulla P’jana, della battaglia di Kulikovo, dell’invasione di Tochtamyš, della battaglia sulla Voža; l’Epopea d’oltre Don (Zadonš/ina); il Racconto della pugna di Mamaj, di TemirAksak, dell’invasione di Edigej. In tutte queste opere il filo conduttore è l’idea patriottica dell’impossibilità di tollerare oltre le violenze dei Tatari e la necessità di liberare la Rus’ da ogni attentato alla sua indipendenza: in nome della santa Chiesa e della fede ortodossa decine di migliaia di Russi persero la vita sui campi di battaglia. La letteratura russa colta nei secoli xiv-xv e soprattutto le opere vecchie e nuove che uscirono dalla penna di Pachomij Logoteta erano naturalmente destinate a un lettore intellettuale, che trovava particolarmente apprezzabili la lunga narrazione, le complicate fioriture del linguaggio, dove la stessa forma letteraria finisce per rendere sfumati i contorni della figura di questo o quell’eroe. È difficile che il lettore moderno possa con poco sforzo arrivare in fondo alla lunghissima vita di Sergio di Radonež e c’è da dubitare che anche nelle epoche precedenti tale letteratura fosse più facilmente digerita. Su questo sfondo risaltano ancora di più la freschezza e la spontaneità delle poche opere letterarie dell’epoca di Dimitrij Donskoj, Andrej Rublëv e Epifanij il Saggio che hanno mantenuto il proprio testo originario. La loro concretezza, la forma laconica, l’interesse dell’argomento e la lingua, vicina a quella parlata, ci riportano con vivacità l’atmosfera di seicento anni fa. Tali sono l’Epistola sul paradiso del vescovo di Novgorod Vasilij al vescovo di Tver’ Feodor, la Lettera di Epifanij il 225
incessantemente, discorreva con quelli che venivano, ma parlando di tutto ciò che è spirituale e non di questo mondo, con gli occhi esteriori vedeva la bellezza terrena. Quest’uomo meraviglioso e celebre portava amore alla mia pochezza, e anch’io, che sono una nullità, lo amavo. E spesso osavo andare da lui per conversare, poiché amavo parlare con lui. Se qualcuno parlava con lui, poco o tanto, allora non poteva non meravigliarsi per il suo ingegno, le allegorie e l’abile esposizione (dei propri pensieri). Io, vedendo che egli mi amava e mi dimostrava amicizia, all’audacia unii l’impudenza e dissi: “Ti prego, dipingimi con colori l’immagine della chiesa della Santa Sofia a Costantinopoli, che eresse il grande imperatore Giustiniano, sull’esempio del saggio Salomone. Alcuni sostengono che a girarla tutta, per qualità e grandiosità delle mura e della fondazione ricorda il Cremlino di Mosca. Se un pellegrino vi entra e vuole visitarla senza guida, non riesce, per quanto savio sia, ad uscirne senza prima smarrirvisi, e questo a causa delle numerose colonne e colonnati, discese e salite, vicoli e gallerie, i molti edifici e le chiese, le scale ed i magazzini, i sepolcri dei santi, gli svariati annessi e le cappelle, le finestre, i passaggi e le porte, le entrate e le uscite e le colonne in pietra. Dipingi per me anche Giustiniano, seduto sul destriero e con nella mano destra il globo di bronzo, uguale per grandezza e capacità a due secchi e mezzo d’acqua. E tutto quanto detto dipingimi su un foglio, sì che io possa inserirlo come prima pagina del Libro e guardando poi questa immagine e ricordandomi di te, mi sembrerà di essere stato di persona a Costantinopoli”. Egli è più saggio di un saggio e mi rispose: “Non è possibile, dice, né per te ottenere tanto, né per me dipingerlo. Ma per il tuo desiderio ti dipingerò qualcosa di piccolo, come una parte dell’intero, o meglio non una parte ma il centesimo di una parte, una minuzia rispetto al tutto, ma anche attraverso questa piccola immagine dipinta potrai raffigurarti e immaginare il resto”. Detto questo, prese senza esitazione il pennello e la carta e in fretta disegnò l’immagine del tempio a somiglianza della vera chiesa di Costantinopoli, e me la consegnò. Questo foglio fu molto utile anche agli altri iconografi moscoviti, poiché molti lo ricopiarono per sé, e se lo contendevano e passavano a vicenda. Infine anch’io, come artista, mi son deciso a dipingerlo in quattro versioni. E misi questo tempio nel mio Libro in quattro posti: uno, con la colonna di Giustiniano, all’inizio del Vangelo di Matteo, dove c’è l’immagine dell’evangelista, l’altro all’inizio del Vangelo di Marco, il terzo all’inizio del Vangelo di Luca, il quarto all’inizio di quello di Giovanni. Ho dipinto i quattro templi e quattro evangelisti che tu hai visto quando, temendo Edigej più di tutti, fuggii a Tver’ dove trovai presso di te riposo, ti raccontai le mie pene e ti mostrai i libri salvati dalla devastazione e dalla fuga. Vedesti allora la chiesa dipinta e dopo sei anni, lo scorso inverno, hai avuto la compiacenza di ricordarmelo. Per ora con questo è tutto. Amen». Poiché il periodo «dei Tatari» nella storia della cultura russa è caratterizzato da bruschi cambiamenti della situazione politica e da rapide trasformazioni nell’ambiente intellettuale, la cultura di quest’epoca non è contraddistinta da un proprio preciso stile. Si potrebbe addirittura dire che il suo tratto dominante sia proprio la varietà degli stili, dove convivono vestigia del genere epico-monumentale, di naturalismo, la narrazione lenta, il lirismo commosso, la riflessione psicologica, il realismo quotidiano. Ma qua-
lunque opera letteraria si prenda, di regola essa è strettamente legata ad un luogo e un tempo chiaramente determinati, vi sono sempre contenuti personaggi e situazioni realmente esistenti. La mancanza di finzione, il particolare «storicismo» di questa letteratura sono così evidenti, che essa costituisce una forma di autocoscienza sociale altrettanto valida quanto le principali fonti storiche. Si tratta di un fenomeno comune nel Medio Evo, ma in Russia esso si manifestò in modo particolarmente accentuato. Le opere letterarie, con il loro intreccio e le immagini plasticamente modellate, spesso spingevano gli autori e i committenti sulla strada della pittura illustrativa. Miniature e disegni dai tempi più antichi decoravano esemplari particolarmente preziosi di manoscritti. Nella maggioranza dei casi si trattava di libri con testi evangelici o liturgici, ma sappiamo anche dell’esistenza di cronache illustrate, come, ad esempio, il corpo di cronache dell’inizio del xiii secolo proveniente da Rostov o da Vladimir. Il periodo di cui ci occupiamo non è ricco di tali testi. Si conoscono solo tre testi storici provvisti di cicli di miniature: la Cronaca di Giorgio Amartolos di Tver’ (xiii secolo), la Paleja di Pskov (1477) e la Cronaca di Radziwiłł (Königsberg), di Smolensk o di Novgorod (fine xv secolo). Come si vede dai titoli, predominano le opere di storia universale di autori bizantini e solamente la Cronaca di Radziwiłł, con più di seicento miniature, eseguite con tratto rapido e perfino volutamente trascurato, illustra gli avvenimenti della storia russa. Passò quasi un secolo prima che molte delle opere letterarie da noi citate, e in particolare il corpo delle cronache o la vita di Sergio di Radonež ricevessero dettagliati cicli illustrativi. Il corpo illustrato delle cronache è
corredato di sedicimila disegni, che formano come un secondo filone di questa grandiosa serie storica, in quanto vi hanno trovato espressione situazioni reali, non registrate dai testi, ma che si riferiscono alla vita dei secoli xiv, xv e dell’inizio del xvi secolo. Ma non erano soltanto le miniature dei manoscritti che affiancavano il testo a tradurre in immagini artistiche il tessuto verbale dell’opera letteraria. Una funzione analoga era assolta a volte da quadri di contenuto iconografico, destinati non tanto alla preghiera, quanto a raccontare i miracoli di questa o quella icona. Un esempio di questo tipo di raffigurazione è l’icona di Novgorod, comunemente nota come Battaglia tra gli abitanti di Novgorod e vi/ Suzdal’, ma il cui titolo esatto è Miracolo dell’icona della 21; Madre di Dio del Segno. Soggetto dell’icona è l’antica leg164 genda di Novgorod sulla battaglia dell’esercito novgorodiano contro Suzdal’ nel 1169, quando il gran principe Andrej Bogoljubskij assediò Novgorod per assoggettarla al proprio potere. Gli abitanti di Novgorod, confidando nell’aiuto divino, esposero sulle mura della città l’icona miracolosa della Madre di Dio. Gli arcieri nemici colpirono l’immagine sull’icona, che si voltò mostrando loro la schiena; essi ne rimasero accecati e si diedero alla fuga. La leggenda orale, conosciuta probabilmente da ogni novgorodiano fin dalla più tenera età, fu riportata per iscritto nello Slovo della Madre di Dio del Segno non più tardi della metà del xv secolo, e dopo qualche altra decina d’anni iniziarono anche le prime raffigurazioni iconiche sullo stesso tema. Due delle icone più antiche appartengono al xv secolo e si trovano al museo di Novgorod e alla Galleria Tret’jakov. La loro composizione segue un criterio puramente narrativo. Su tre registri sono rappresentati i cinque episodi principali: il trasporto dell’icona fuori dalla chiesa del Salvatore in via di Sant’Elia, la presentazione dell’icona al popolo e al clero sul ponte Velikij, le trattative degli ambasciatori e l’icona colpita dagli arcieri di Suzdal’, infine lo scontro decisivo tra i due eserciti, che si conclude con la sconfitta della cavalleria del gran principe Andrej. Difficilmente si può dubitare che sia la leggenda, sia le due icone sullo stesso tema risalgano al periodo in cui Novgorod perse la propria indipendenza politica. Dopo trecento anni si ripete la stessa situazione del 1169, ma con una differenza sostanziale: se nel xii secolo Novgorod aveva ottenuto la vittoria e difeso la propria sovranità, nel 1471 la sua armata di quarantamila uomini subì una schiacciante sconfitta sul fiume Šelon’ ad opera delle truppe del grande principe, nel 1475 Ivan iii entrò solennemente nella città conquistata e il 13 gennaio del 1478 gli ambasciatori di Novgorod «baciarono la croce» e consegnarono un giuramento scritto con i sigilli al grande principe di Mosca.
soprattutto nella regione dello Zales’e, sperimentarono la «grande disgrazia» dell’assalto dei Tatari, ma il colpo inferto dai conquistatori non ebbe conseguenze così pesanti e funeste come al Sud. Rostov e Jaroslavl’ sfuggirono alla devastazione dei nemici. I Tatari risparmiarono anche Novgorod e Pskov, i principali centri artistici della Rus’ nordoccidentale. In queste città rimaste intatte, dove si conservarono in vita gli eredi delle tradizioni culturali, anche l’arte pittorica vide un ulteriore sviluppo. Nella Rus’ di Kiev e nei principali agglomerati statali del primo periodo del frazionamento feudale, l’apparato ornamentale delle chiese era costituito soprattutto da decorazioni musive e da affreschi. Una caratteristica della seconda metà del xiii secolo è, al contrario, la quasi totale mancanza di testimonianze di pittura monumentale, legata al fatto che in quel periodo si smise di costruire chiese in muratura. Iniziò invece un rapido sviluppo dell’iconografia. L’architettura religiosa in legno prevalse su quella in muratura anche nell’epoca successiva, quando era ormai scomparsa la minaccia diretta che la Rus’ cadesse sotto il giogo dei Tatari. Perciò l’iconografia si sviluppò secondo una linea ascendente, e durante i secoli xiv e xv nacquero innumerevoli capolavori di questo genere artistico. In generale in quel periodo si svilupparono forme di creatività artistica che non richiedevano spese troppo ingenti, né un particolare impiego di materiali, si crearono opere che in caso di necessità potessero essere facilmente trasferite da un luogo all’altro, salvate, nascoste, portate via. Parallelamente all’iconografia, per esempio, ebbe una rigogliosa fioritura l’arte del manoscritto, a cui dedicarono le proprie energie i migliori calligrafi, disegnatori e miniaturisti. Fino alla metà del xiii secolo le espressioni pittoriche nelle città della Rus’ nordoccidentale e nordorientale erano come i rami dell’unico albero che cresceva dal suolo di Kiev. Le peculiarità locali emergevano solo debolmente. Perciò le più antiche icone russe, i manoscritti e gli affreschi sono difficilmente classificabili in gruppi territoriali. Esistono parecchi capolavori di cui non si può dire con certezza se provengano da Kiev, Novgorod o Vladimir. Gli intensi legami artistici che esistevano tra Kiev e Novgorod, Novgorod e Pskov, Kiev e Vladimir, Rostov e Kiev, ed anche tra le città russe e Bisanzio, contribuirono inevitabilmente a livellare il processo di sviluppo artistico nelle varie città, conferendogli dei tratti comuni che offuscavano ogni espressione stilistica locale. Lo smembramento dei grandi territori statali in udel, iniziato nel xii secolo, favorì lo sviluppo di tratti locali nell’arte di questo o quel principato, e in vari casi condusse anche alla nascita di scuole autonome. A Novgorod, Rostov e Vladimir, già nel xii secolo si andavano formando delle tradizioni artistiche che si distaccavano un po’ dalle tradizioni di Kiev e Bisanzio. L’invasione dei Tatari e il lungo isolamento della Rus’ da Bisanzio, ma anche la crescente disgregazione tra le città russe, diedero un fortissimo impulso alla crescita delle tendenze locali nell’arte. Proprio nel xiii secolo raggiunsero una forma definitiva le scuole pittoriche di Novgorod e Rostov, e qualche tempo dopo, già nel xiv secolo, quelle di Tver’, Pskov e Mosca. L’evoluzione della pittura russa nel primo mezzo secolo dopo l’invasione tatara si può seguire al meglio nei monumenti di Novgorod, più conservati che nelle altre città russe. Inoltre, l’origine locale di molte icone novgorodiane è ottimamente testimoniata anche dai manoscritti illustrati, che hanno un valore inestimabile per la classificazione
L’arte figurativa La pittura russa dalla seconda metà del xiii a tutto il
xv secolo si presenta come la naturale continuazione di
164. Battaglia tra gli abitanti di Novgorod e Suzdal’, metà xv secolo, scuola di Novgorod; museo di Novgorod.
226
quella dell’epoca premongolica. Ma in conseguenza della catastrofe che colpì l’intera nazione russa con l’invasione dei Tatari, il suo sviluppo si localizzò in altri centri artistici e assunse una sfumatura e un indirizzo diversi. La prima conseguenza degli avvenimenti verificatisi a metà del xiii secolo fu il trasferimento dell’intensa vita artistica da Sud a Nord. In effetti anche le città settentrionali, 227
delle icone russe antiche secondo il luogo di origine ed anche per la loro datazione. Essendo forniti di annotazioni che indicano la data e il luogo in cui furono scritti, essi offrono dei punti di partenza per la ricostruzione di intere scuole e correnti. Sono giunti fino a noi alcuni manoscritti illustrati novgorodiani della seconda metà del xiii secolo, tra i quali quello che riveste maggior interesse è l’Evangeliario del 1270, eseguito da Georgij, figlio del pope della chiesa dell’Annunciazione a Gorodiy/e, per il monaco Simon del vicino monastero di San Giorgio. Il manoscritto contiene quattro miniature con gli evangelisti; su uno dei fogli, sotto un arco orientaleggiante a ferro di cavallo, è raffigurato l’evangelista Luca. La composizione della miniatura è rigidamente simmetrica. Luca tiene in mano il libro aperto, ma volge lo sguardo più lontano. I sentimenti forti sono come celati da uno sforzo di volontà, i movimenti sono ponderati e calcolati, pregni di un profondo significato. La testa di Luca ricorda la sua immagine nell’affresco della chiesa sulla Neredica. Gorodiy/e, dove fu eseguito il manoscritto, e Neredica sono poco distanti, e l’autore delle miniature conosceva bene gli affreschi della chiesa e vi si richiamò volutamente. Era un convinto sostenitore delle correnti locali più estreme nell’arte novgorodiana, e questo è tanto più indicativo in quanto il manoscritto è stato eseguito nel centro che si opponeva con maggiore insistenza alla libertà di Novgorod: la corte principesca. Si vede qui come fosse inconsistente l’influenza esercitata sull’arte di Novgorod dall’autorità principesca e dagli ambienti sociali ad essa legati. La pittura di questa città, a differenza dell’arte di Kiev, Vladimir, Jaroslavl’ e Mosca, possiede una minima quantità di opere create nell’ambiente aristocratico di corte, che lasciò sempre una profonda traccia sia sull’indirizzo ideale dell’opera, sia sulla maniera esecutiva. Dal punto di vista stilistico, a questo Evangeliario si possono accostare due splendide icone, anch’esse quindi appartenenti alla seconda metà del xiii secolo: I santi Giovanni, Giorgio e Biagio custodita al Museo russo e il Salvatore in trono con l’Etimazia e figure di santi sulla cornice, conservata nella Galleria Tret’jakov. Entrambe sono dipinte su fondo rosso. Nella prima si nota particolarmente la grande figura di san Giovanni Climaco, grande più del doppio rispetto alle immagini dei santi Giorgio e Biagio. La generalizzazione dei contorni della figura di Giovanni, le ciocche uniformi della sua barba, le pieghe verticali della veste e i tratti salienti del volto lo fanno rassomigliare a un idolo intagliato nel legno. Tuttavia l’icona non è affatto rozza e primitiva, al contrario, si distingue per la sua grande espressività artistica. Allo stesso artista che dipinse l’icona dei tre santi dobbiamo anche la seconda icona, il Salvatore in trono. Anche qui ci sono san Giorgio e san Biagio, per di più molto simili alle raffigurazioni della precedente icona. Entrambe le tavole risplendono di colori intensi. In esse vediamo anche la costruzione puramente lineare, grafica della forma, a differenza della maniera pittorica delle antiche icone di Novgorod, dove si accentuava la manifestazione della forma con l’aiuto di passaggi chiaroscurali. I tratti stilistici di queste due icone, provenienti dall’arte popolare, la loro composizione non complicata da allegorie, le tinte chiare, il gusto per l’ornamento, trovano il loro classico compimento nella splendida immagine di San Nicola sulla Lipna, conservata al Museo di Novgorod. Questa monumentale icona fu dipinta nel 1294 da un certo Aleksa Petrov per la chiesa monastica di San Nicola sulla
Lipna, nei dintorni di Novgorod. A suo tempo l’icona sta- vi/1 va in chiesa, al posto d’onore e doveva certamente attirare l’attenzione della gente. Aleksa Petrov creò un’immagine di grande effetto. Se anche oggi è difficile distogliere lo sguardo da questa icona, gli uomini del xiii secolo dovevano certamente provare una profonda emozione nel contemplarla. Nicola è da sempre il santo prediletto dei Russi. Né nell’Oriente greco, né in Italia, dove più tardi giunsero le sue reliquie, il culto di san Nicola Taumaturgo acquistò mai una sfumatura genuinamente popolare come nella Rus’. Al Nord non c’era una chiesa che non avesse una sua icona e un altare dedicato a lui. Non a caso recita un detto popolare: «Da Cholmogory a Kola ci sono trentatré Nicola». La popolarità di san Nicola era dovuta soprattutto al molteplice carattere dei miracoli di cui si gloria, a causa dei quali è chiamato Taumaturgo. Il popolo russo era persino convinto che Nicola avrebbe potuto diventare Dio, ma che avesse rifiutato questo onore. A san Nicola si attribuiva il potere di aiutare nei lavori di falegnameria, di proteggere dagli incendi e dai pericoli dei viaggi. Ma soprattutto lo veneravano come protettore dei naviganti. A lui solo si ascriveva il potere di salvare le vittime dei naufragi e di salvaguardare i naviganti dalle sciagure. Nella Rus’, dove nei tempi antichi le vie d’acqua avevano un’importanza capitale, il culto di Nicola ebbe anche per questo motivo una diffusione così vasta. Non a caso anche l’icona dipinta da Aleksa Petrov fu collocata nella chiesa sulla Lipna, come, a sua volta, anche la chiesa dedicata a san Nicola: la collina di Lipna sorge alla foce del fiume Msta nel lago Il’men’, e lungo la Msta passava la via che univa Novgorod con le città del Volga e dello Zales’e. Contemplando l’icona di Nicola sulla Lipna si dimentica che è un santo greco, tanti sono i tratti puramente russi che la caratterizzano. L’austero filosofo bizantino, come veniva raffigurato sulle più antiche icone greche e russe, si trasforma qui in un educatore molto attento e pratico. Già solo il dolce gesto della sua mano benedicente basta per far capire quali accorati sentimenti infuse in questa immagine l’artista che la dipinse. Con una ingenua immediatezza, il pittore circonda l’immagine del santo prediletto con le figure di altri santi, ma Nicola conserva naturalmente il ruolo primario. Lo stile dell’icona di Nicola sulla Lipna è caratterizzato da una chiara espressione del gusto decorativo. Il nimbo bianco del santo è abbellito da un sottile ornamento lineare e da medaglioni rossi; i bordi del colletto, le croci dell’omofor, i polsini e la rilegatura del libro con punti bianchi che imitano impunture di perle; la pianeta è ornata geometricamente con sottili croci; la veste azzurra da placchette romboidali chiare. Questa abbondanza di ornamenti e di tinte chiare risente indubbiamente dell’influenza dell’arte popolare che, come è noto, ha sempre preferito i fregi e i colori vistosi, o addirittura un po’ rozzi. Le miniature dell’Evangeliario del 1270, le icone dei tre santi, del Salvatore in trono e di San Nicola sulla Lipna, come anche altre opere stilisticamente affini, rappresentano la corrente più espressiva ed originale nella pittura novgorodiana della seconda metà del xiii secolo. Singole icone ed affreschi che si distinguevano dal canone bizantino erano stati realizzati anche in precedenza, ma queste opere costituivano dei fenomeni a carattere episodico e non ottennero vasti riconoscimenti. È indicativo il fatto che i nuovi procedimenti stilistici nella pittura novgoro228
non costituiscono un gruppo così distinto e stilisticamente compatto come quelle novgorodiane, e spesso colpiscono per l’estrema arcaicità delle loro forme. Si tratta nella maggior parte dei casi di composizioni monumentali, come la Madre di Dio Odigitria, il Profeta Elia con scene della vita e la Dormizione della Madre di Dio, conservate 165 nella Galleria Tret’jakov, e la Madre di Dio Odigitria del museo di Pskov. La loro maniera ampia, la generalizzazione dei profili delle figure sono evidenti, ma le linee sembrano un po’ fiacche, e il colorito non abbastanza vivo. Questa assenza di movimento, la rigidità delle forme furono per molto tempo tratti caratteristici di vari monumenti pittorici di Pskov, come testimoniano le opere della prima ed anche della seconda metà del xiv secolo. Quando da Novgorod e Pskov ci trasferiamo nella Rus’ nordorientale, notiamo subito che qui i monumenti pittorici si sono conservati meno, e più spesso che altrove richiamano associazioni con l’arte dell’epoca premongolica. Per quanto riguarda i caratteri generali delle icone nordorientali e dei manoscritti illustrati giunti fino a noi, in essi è facile distinguere la radice aristocratico-principesca o greco-ecclesiastica. A differenza di Novgorod e Pskov, le città della Rus’ nordorientale erano prima di tutto un baluardo dell’autorità principesca ed ecclesiastica. Le botteghe artistiche, poco numerose, erano annesse alle sedi vescovili o alle corti dei grandi principi. Qui l’arte aveva un carattere particolarmente chiuso, di casta, e perciò le tendenze democratiche non ebbero particolare sviluppo. Il principale centro artistico della Rus’ nordorientale durante i secoli xiii-xiv fu Rostov. Il suo ruolo emergente nella storia della cultura russa si fondava sul fatto che essa era il centro della vita religiosa di un ampio territorio: dalla sua sede vescovile dipendevano molte città grandi e piccole dello Zales’e, delle regioni d’oltre Volga e del Nord, e
diana su tavola del periodo premongolico si incontrino in immagini collocate ora sul verso di altre icone, ora sulla cornice, nelle scene marginali. Nel loro complesso le opere erano eseguite in uno stile vicino a quello bizantino. Solo dopo gli avvenimenti della metà del xiii secolo le antiche tradizioni grecofile della pittura novgorodiana vennero superate e furono gettate solide basi per lo sviluppo di un’arte nazionale. Dei vecchi originali greci e semigreci, il cui influsso si faceva sentire in molte opere ancora all’inizio e addirittura verso la metà del xiii secolo, alla fine di questo secolo rimase sostanzialmente solo lo schema iconografico. Il vigore degli artisti di questa corrente era tanto, e le loro opere godevano di tale fama che essi ardirono misurare le proprie forze anche con la pittura monumentale. Una testimonianza della loro attività in questo campo erano gli affreschi della chiesa sulla Lipna, andati distrutti durante la seconda guerra mondiale, dei quali oggi rimangono solo frammenti insignificanti. Sono gli unici resti di affreschi novgorodiani della fine del xiii secolo. Vennero eseguiti dopo un intervallo di settant’anni, dovuto inizialmente alle aspre guerre contro Svedesi e Tedeschi, e poi alla minaccia tatara. La chiesa fu affrescata nello stesso periodo in cui Aleksa Petrov dipingeva l’icona locale di san Nicola ad essa destinata. Ai lavori presero parte diversi maestri, ciascuno dei quali, nonostante lo stile fosse comune, usava tuttavia una maniera pittorica ben precisa. Questo, tra l’altro, lascia intravedere che la loro arte non era il risultato di un tirocinio sistematico in una bottega artigianale. Probabilmente questi maestri svolgevano il loro apprendistato in numerose botteghe, ma scarsamente collegate tra loro. Sarebbe un errore giudicare il valore estetico delle miniature, delle icone e degli affreschi di Novgorod della seconda metà del xiii secolo con il metro usato per l’arte bizantina e russa antica nei suoi esempi classici. Non troveremo qui né la forma levigata, elaborata nei secoli, né il colorito ricercato, ma essi hanno comunque un valore e un fascino particolare. A differenza dell’arte monumentale di epoca precedente, che nella stragrande maggioranza dei casi si manteneva al livello degli originali greci, la pittura di Novgorod della seconda metà del xiii secolo si sviluppò in stretto contatto con l’artigianato popolare locale. Negli anni di dure prove che l’intera Rus’ dovette attraversare, costretta a vivere per decenni quasi in stato di guerra, il mantenimento di grandi botteghe artistiche costava troppo, ed esse furono sciolte o ridotte di organico. Perciò l’attività pittorica si concentrò nelle mani di singoli maestri. L’arte, che si era mantenuta fino ad allora ad un livello di conoscenza profonda, professionale, incominciò ad accostarsi alla creatività popolare. Con ciò si spiega anche in parte la vivacità dei colori, la generalizzazione delle linee di contorno, le composizioni povere, un po’ rigide, la ripetuta raffigurazione dei santi prediletti nelle icone novgorodiane. Queste icone erano più comprensibili e più vicine alla gente comune che non le severe immagini di santi del xii secolo. Con la ricerca di una modalità espressiva per le tematiche iconografiche che fosse il più possibile immediata e comprensibile a tutti, nella pittura novgorodiana si andò lentamente formando un nuovo stile artistico. L’arte della «sorella minore» di Novgorod, Pskov, si sviluppò in una direzione analoga. A partire dalla seconda metà del xiii secolo si ebbe anche qui una rivalutazione critica dell’antica eredità artistica. Ma le icone di Pskov
165. Profeta Elia con scene della vita, fine xiii secolo, scuola di Pskov, dalla chiesa del profeta Elia nel villaggio di Vybuty presso Pskov; Mosca, Galleria Tret’jakov.
229
i vescovi di Rostov mantenevano delle botteghe artistiche per i bisogni delle chiese di quella grande diocesi. Tratti caratteristici delle opere del primo periodo della scuola pittorica di Rostov, che comprendono anche le miniature dei manoscritti, sono le proporzioni notevolmente allungate delle figure, la magrezza ascetica dei volti, l’esile forma degli elementi architettonici in secondo piano e l’accurata rifinitura dello strato di colore superficiale. Tutto ciò è legato indubbiamente ad una tradizione artistica molto antica, formatasi a Rostov probabilmente già nei secoli xi-xii, la quale elaborò schemi e procedimenti tecnici tanto solidi che per gli artisti delle generazioni successive fu difficile non considerare il passato come un modello. Inoltre, in seguito al chiaro orientamento filo-greco della cattedra vescovile di Rostov, questa tradizione assimilò parecchi elementi dogmatici dall’arte bizantina, per esempio quella forma estremamente ricercata, le cui tracce si ritrovano invariabilmente persino nelle icone del xiv secolo. Ma anche nell’arte di Rostov, in seguito all’interruzione dei rapporti internazionali e interregionali dopo l’invasione dei Mongoli, predominarono per qualche tempo i gusti locali, per i quali era tipica una certa rozzezza stilistica. A questo riguardo è estremamente indicativa l’icona del Salvatore non fatto da mano d’uomo, dell’inizio del xiv secolo, custodita alla Galleria Tret’jakov. Pesante, possente, scura di colore, con i tratti marcati del volto e le ciocche di capelli che cadono liberamente, la testa di Cristo produce un’impressione straordinariamente forte e vivace. Ma la tendenza a saturare le immagini iconografiche di un contenuto attinto direttamente dall’osservazione della realtà circostante, portava inevitabilmente alla perdita di quella bellezza astratta, la cui esistenza era sempre stata considerata dagli apologeti della pittura religiosa come una qualità irrinunciabile dell’icona. Perciò all’interno della scuola di Rostov durante tutto il xiii e il xiv secolo ci fu un incessante contrasto tra le vecchie e le nuove tendenze nell’interpretazione dei modelli dogmatici. Non a caso all’icona del Salvatore non fatto da mano d’uomo si contrappone un’altra icona rostoviana dello stesso periodo, magistralmente eseguita in uno stile fortemente decorativo, la Trinità della Galleria Tret’jakov, in cui paiono rivivere i metodi degli esperti maestri rostoviani del primo xiii secolo. Assai caratteristica dell’arte russa medioevale è l’ampia diffusione della pittura come mestiere nei centri artistici di provincia, spesso assai distanti dalle grandi città come Novgorod, Vladimir, Rostov, Tver’ e Mosca. Già nel xiii secolo Rostov deteneva il dominio su Ustjug, situata al Nord, alla confluenza dei fiumi Jug e Suchona, che univano le loro acque formando l’ampia Dvina settentrionale. La posizione geografica favorevole e l’importanza commerciale di Ustjug, ed anche una certa autonomia politica e religiosa dovuta alla sua lontananza da Rostov, favorirono la nascita in questa città di una cultura originale. Nel corso dei secoli xiii-xv a Ustjug furono dipinte in particolare alcune interessanti icone. La più antica testimonianza pittorica di Ustjug è forse la spettacolare icona della Sinassi degli arcangeli Michele e Gabriele (Museo Russo), proveniente dal locale monastero dell’Arcangelo Michele, e dipinta probabilmente nella seconda metà del xiii secolo o all’inizio del xiv. L’icona raffigura gli arcangeli Michele e Gabriele che indossano divitissia imperiali con loroi trapuntati di perle e pietre preziose. Essi mostrano solennemente un disco con la figura a busto del Salvatore Emanuele che funge da simbolo dell’incarnazione. In questa icona il concetto dogmatico è
reso con mezzi estremamente semplici e nello stesso tempo espressivi. La composizione si distingue per l’impeccabile costruzione architettonica, il disegno per la sua chiarezza, il colorito per la sua generale solennità. L’ignoto artista era ben conscio del carattere festoso, cerimoniale del tema iconografico della Sinassi ed è riuscito a rendere felicemente il contenuto grave ed ispirato della scena. Nello stile dell’icona di Velikij Ustjug si osserva un’unione delle caratteristiche della scuola pittorica di Rostov, dalle cui opere evidentemente prendeva spunto il suo autore, con tratti locali chiaramente percepibili. Il disegno ampio, addirittura libero, i colori insufficientemente densi (specialmente il giallo e il verde), la mancanza dell’oro, l’azzurro di una sfumatura molto scura, lo sfondo, il motivo ornamentale sulla linea della terra conferiscono alla pittura dell’icona di Ustjug una particolare immediatezza e freschezza che forse sarebbero state fuori luogo in un’opera puramente rostoviana. Assai interessanti sono le testimonianze pittoriche provenienti da Jaroslavl’. Solitamente si presume che qui si sia 166 sviluppata una scuola locale che aveva molto in comune con quella di Rostov, ma in parte anche indipendente da essa. Purtroppo è impossibile distinguere le opere propriamente di Jaroslavl’ da quelle di Rostov. Jaroslavl’, città ricca e fiorente, aveva tutte le carte per poter sviluppare una pittura propria, ma il fatto che si trovasse nei pressi del centro diocesano con le sue importanti botteghe e con le altre tradizioni artistiche impedì la formazione di una scuola locale. Le icone e i manoscritti di Jaroslavl’ che si sono conservati, precedenti al xiv secolo, non si distinguono molto da quelli di Rostov, e questo ci autorizza a considerarli come parte di un fenomeno più ampio, che abbracciava tutto l’arco delle opere provenienti da Rostov e Jaroslavl’. Il migliore esempio dell’arte di Jaroslavl’ è l’icona dell’Arcangelo Michele conservata nella Galleria Tret’jakov. L’Arcangelo è raffigurato in abiti imperiali; indossa un divitission color marrone rossiccio lungo sino ai piedi, e sulle spalle e sul petto ha sempre la stessa fascia rossa del loros. Queste vesti rigide, pesanti per l’abbondanza di pietre preziose e trapuntate di perle, formano un paramento dallo splendore abbagliante, che alla corte dei basileus bizantini era usato nelle uscite di gala, e l’artista è riuscito in pieno a rendere lo sfarzo di questo abito. La figura di Michele ci sorprende per il suo carattere animato, pieno di pathos. L’arcangelo è dipinto in modo da creare l’impressione dell’uscita, della comparsa del condottiero delle armate celesti. Ha in mano una lancia e uno specchio; le sopracciglia serrate, i denti stretti, gli occhi puntati sull’osservatore; sul collo e sulle guance giocano riflessi rossi. Nell’insieme è come un istante di contemplazione della terribile bellezza e forza divina. A Jaroslavl’ si può ricollegare probabilmente anche un manoscritto illustrato, l’Evangeliario di Teodoro, conservato al Museo di Jaroslavl’. Esso contiene cinque miniature, delle quali, tuttavia, sono contemporanee al manoscritto soltanto la raffigurazione di Teodoro Stratilate e quella di Giovanni Evangelista con il discepolo Procoro. La miniatura che presenta Teodoro Stratilate è stata eseguita nel medesimo spirito dell’immagine dell’arcangelo Michele; si distingue dall’icona solo per il suo diverso colorito, molto chiaro e festoso, che vede prevalere le tinte verde malachite, bianca e rosso scarlatto, ed anche l’oro. Le icone e i manoscritti di Rostov e Jaroslavl’ ci portano naturalmente ad uno dei migliori monumenti dell’iconografia anticorussa: l’icona di Boris e Gleb del Museo Rus230
avversaria politica. La nascita della pittura di Tver’ fu la diretta conseguenza dell’istituzione della cattedra vescovile vi/ (attorno al 1271). Come sempre in questi casi, l’isolamento 22 della vita ecclesiale portò alla formazione di quadri locali tra gli iconografi. In seguito ai burrascosi eventi politici dei secoli xiv-xv, quando Tver’ fu ripetutamente al centro di aspri combattimenti e fu devastata ora dai Tatari, ora dai Moscoviti, la sua arte ebbe uno sviluppo non uniforme, in cui brevi periodi di splendore si alternavano a periodi assai più lunghi di decadenza. Si può pensare che l’epoca più intensa e feconda nella vita artistica di Tver’ siano stati gli anni a cavallo tra il xiii e il xiv secolo, quando a capo del principato si trovavano il gran principe Michail Jaroslavi/ (1272-1319) e sua madre, la grande principessa Oksinija. Sotto il loro governo fu costruita la cattedrale in pietra del Salvatore della Trasfigurazione, affrescata nel 1292, che è la prima costruzione in pietra ed anche la prima testimonianza della nascita di una tradizione di pittura monumentale nella Rus’ nordorientale in tutto il periodo successivo all’invasione tatara del 1238. Gli affreschi della cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione di Tver’ non si sono conservati, come del resto la cattedrale stessa. Ma, evidentemente, poco tempo dopo l’esecuzione di questi affreschi, cioè all’inizio del xiv secolo, fu dipinta una magnifica icona del Salvatore, proveniente dalla terra di Tver’. Essa si distingue per la scurezza delle tinte – insolita per le icone russe – tra cui prevalgono l’olivastro scuro e il marrone scuro. Inoltre, in questa antica icona appaiono per la prima volta anche vi/7 le lumeggiature biancastre assai caratteristiche della pittura di Tver’. In uno stile molto simile sono eseguite le icone dell’arcangelo Michele della Galleria Tret’jakov e le miniature del frontespizio nella redazione di Tver’ della Cronaca di Giorgio Amartolos. Nel manoscritto è particolarmente interessante la prima miniatura, raffigurante il principe Michail Jaroslavi/ di Tver’ e sua madre Oksinija al cospetto del Salvatore in trono. Ancora nei primi anni dopo la rivoluzione era diffusa l’ipotesi di una possibile discendenza dell’antica pittura di Tver’ da quella del tardo periodo kieviano. La scarsità di materiali non permette ancora di confermare con certezza questa ipotesi, ma è probabile che risulti veritiera. La passata autorevolezza di Kiev e della sua scuola deve essere stata certamente tenuta in considerazione dai nuovi principati emergenti.
so, databile probabilmente attorno al primo quarto del xiv secolo. In Boris e Gleb l’idea religiosa dell’icona e l’espressività ritrattistica-psicologica delle figure dei principi si combinano con una straordinaria purezza e vivacità stilistica. Questa icona colpisce tanto per i suoi accostamenti cromatici e per i dettagli eseguiti con l’abilità di un orafo, che è impossibile trovare analogie dirette, ed è altrettanto difficile attribuirla con la dovuta certezza a un determinato centro artistico. Alcuni studiosi la mettono in relazione con Mosca. Nello stesso tempo però, essa presenta singoli punti di contatto con le opere di Rostov-Jaroslavl’, la cui qualità decorativa, assieme alla generale festosità dello stile, sembrano trovare qui la loro suprema incarnazione. Né Vladimir mezzo distrutta dai Tatari, né la Mosca dei primi tempi, che all’inizio del xiv secolo non aveva ancora un’importanza sostanziale nell’arte della Rus’ nordorientale, furono in grado di produrre un’immagine simile. Ma anche Rostov e Jaroslavl’, dove nel corso dei secoli xiii e xiv ferveva la produzione di icone e libri illustrati e dove si impiegavano espedienti artistici formali estremamente raffinati, si trovavano nelle condizioni necessarie per poter produrre questa icona dalla mirabile bellezza pittorica. Oltre alle icone e alle miniature che abbiamo già ricordato, a Jaroslavl’ sono legate anche altre insigni opere pittoriche, tra cui, in particolare, tre icone della cosiddetta 167 Madre di Dio della Tolga: una grande icona della fine del xiii secolo attualmente alla Galleria Tret’jakov, una piccola icona dipinta attorno al 1314, del Museo di Jaroslavl’ e un’altra piccola icona della prima metà del xiv secolo, conservata al Museo Russo. In confronto alle precedenti opere, la pittura di queste icone appare più severa. Esse rappresentano forse la corrente puramente ecclesiale e addirittura monastica nell’arte di Rostov-Jaroslavl’. È particolarmente caratteristica la prima piccola icona della Madre di Dio della Tolga. Dipinta su uno sfondo scuro, di colore plumbeo, mantenuta tutta in una gamma quasi monocromatica con marcate lumeggiature bianche a guisa di corte pennellate e punti, con la sua espressione mesta, essa suscita un’impressione indimenticabile. Parallelamente alle scuole pittoriche di Novgorod, Pskov e Rostov, dalla fine del xiii secolo incominciarono a svilupparsi nuove scuole, tra le quali il ruolo primario apparteneva probabilmente a Tver’. In campo artistico Tver’ aveva acquistato l’autonomia molto prima di Mosca, sua futura
vi/5
166. Arcangelo Michele, 1300 circa, dalla chiesa dell’Arcangelo Michele sul Kotorosl’ a Jaroslavl’, particolare; Mosca, Galleria Tret’jakov.
167. Madre di Dio della Tolga, seconda metà xiii secolo, dalla chiesa dell’Esaltazione della croce nel monastero della Tolga presso Jaroslavl’, particolare; Mosca, Galleria Tret’jakov.
231
Tavole a colori VI
1
2
3
4
5
7
6
8
9
10
11
13
15
17
12
14
16
18
1. Chiesa di San Nicola Taumaturgo sulla Lipna nei dintorni di Novgorod, 1292. 2. Cattedrale della Dormizione di Gorodok a Zvenigorod, 1400 circa. 3. Cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di San Savva a Storoži, Zvenigorod, 1405 circa. 4. Salvatore in trono con santi, seconda metà xiii secolo, scuola di Novgorod; Mosca, Galleria Tret’jakov. 5. Boris e Gleb, primo quarto xiv secolo; collezione N.P. Lichačëv, San Pietroburgo, Museo Russo. 6. Il miracolo di san Giorgio e il drago, con scene della vita del santo, prima metà xiv secolo; collezione M.P. Pogodin, San Pietroburgo, Museo Russo. 7. Salvatore Pantocratore, xiv secolo, scuola di Tver’; collezione A.I. Anisimov, Mosca, Galleria Tret’jakov. 8. Trinità dell’Antico Testamento, Teofane il Greco, 1378, affresco sulla parete est dell’aula sui cori della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Novgorod. 9. Arcangelo Michele, Teofane il Greco, 1378, affresco nella cupola della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Novgorod. 10. I beati Arsenio il Grande e Giovanni Climaco, Teofane il Greco, 1378, affreschi sulla parete nord dell’aula sui cori della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Novgorod. 11. Serafino, Teofane il Greco, 1378, affresco nella cupola della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Novgorod. 12. Sant’Antimo di Nicomedia, Teofane il Greco, 1378, affresco sull’arco del diaconicon nella chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Novgorod. 13. Arcangelo Gabriele, anni ’80 del xiv secolo, affresco nella cupola della chiesa di San Teodoro Stratilate a Novgorod. 14. Profeta, anni ’80 del xiv secolo, affresco nella cupola della chiesa di San Teodoro Stratilate a Novgorod. 15. Cristo nel sepolcro, 1380, affresco nella prothesis della chiesa del Salvatore a Kovalëvo presso Novgorod, affresco ricostruito dai frammenti negli anni 1965-1981. 16. Giovanni Battista, Teofane il Greco, fine xiv secolo, icona dell’iconostasi della cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca. 17. Giudizio universale, Teofane il Greco (?), fine xiv secolo, Mosca, particolare di una piccola icona quadripartita dal Cremlino di Mosca; Mosca, Galleria Tret’jakov. 18. Giudizio universale, Teofane il Greco (?), fine xiv secolo, Mosca, particolare di una piccola icona quadripartita dal Cremlino di Mosca; Mosca, Galleria Tret’jakov. 19. Natività di Cristo, seconda metà xv secolo, scuola di Novgorod; Mosca, Galleria Tret’jakov. 20. Il miracolo dell’arcangelo Michele e Floro e Lauro, fine xv secolo, scuola di Novgorod; Mosca, Galleria Tret’jakov. 21. Battaglia tra gli abitanti di Novgorod e Suzdal’, seconda metà xv secolo, scuola di Novgorod; Mosca, Galleria Tret’jakov.
22. Ascensione, xv secolo, scuola di Tver’ (?); collezione D.N. Apasidis, Stoccolma. 23. Parasceve Pjatnica e i santi Gregorio il Teologo, Giovanni Crisostomo, Basilio il Grande, inizio xv secolo, scuola di Pskov; Mosca, Galleria Tret’jakov. 24. Boris e Gleb con scene della vita, dalla chiesa del Salvatore a Kolomna, xiv secolo, scuola di Mosca; Mosca, Galleria Tret’jakov. 25. Angelo (simbolo dell’evangelista Matteo), Andrej Rublëv, inizio xv secolo, miniatura dell’Evangeliario Chitrovo; Mosca, Biblioteca nazionale russa. 26. Giovanni evangelista con il discepolo Procoro, Andrej Rublëv, inizio xv secolo, miniatura dell’Evangeliario Chitrovo; Mosca, Biblioteca nazionale russa. 27. Martire Zosima, Andrej Rublëv e Daniil \ërnyj, 1408, affresco sul lato illustrato del pilastro sudorientale della cattedrale della Dormizione a Vladimir. 28. Arcangelo Michele, Andrej Rublëv, inizio xv secolo, dalla Deesis di Zvenigorod; Mosca, Galleria Tret’jakov. 29. L’apostolo Paolo, Andrej Rublëv, inizio xv secolo, dalla Deesis di Zvenigorod; Mosca, Galleria Tret’jakov. 30. Demetrio di Tessalonica, Andrej Rublëv e altri, 1425-1427, icona dell’iconostasi della cattedrale della Trinità nel monastero della Trinità di san Sergio. 31. L’apostolo Paolo, Andrej Rublëv e Daniil \ërnyj, 1408, particolare di un’icona dall’iconostasi della cattedrale della Dormizione a Vladimir; San Pietroburgo, Museo Russo. 32. Salvatore Pantocratore, Andrej Rublëv, inizio xv secolo, dalla Deesis di Zvenigorod; Mosca, Galleria Tret’jakov. 33. Trinità, Andrej Rublëv, 1425-1427 (?), dal monastero della Trinità di san Sergio; Mosca, Galleria Tret’jakov. 34. Kirill di Beloozero, Dionisij di Glušica (?), 1424, dal monastero di Kirill di Beloozero; Mosca, Galleria Tret’jakov. 35. Parasceve Pjatnica, metà xv secolo, Rjazan’; Taškent, museo d’arte. 36. Copertura dell’icona della Madre di Dio di Vladimir, inizio xv secolo (Deesis sul bordo superiore - xiii secolo), dalla cattedrale della Dormizione del Cremlino di Mosca; Cremlino di Mosca, Palazzo dell’armeria. 37. Madre di Dio col Bambino, inizio xv secolo, icona dal monastero della Protezione della Madre di Dio a Suzdal’; San Pietroburgo, Museo Russo. 38. Madre di Dio Odigitria, Dionisij, 1482, dal monastero dell’Ascensione nel Cremlino di Mosca; Mosca, Galleria Tret’jakov. 39. Demetrio di Tessalonica, Dionisij e figli, 1502 circa, dall’iconostasi della cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Ferapont; Mosca, Galleria Tret’jakov. 40. Scene evangeliche, Dionisij e figli, 1502, affreschi sulla volta meridionale della cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Ferapont.
19
20
21
22
23
24
25 27 26
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
232
Dalla fine del xiii secolo in molte città russe si riprese a costruire chiese in muratura, e di conseguenza si aprì nuovamente la strada allo sviluppo dell’affresco. Ma poiché dopo l’invasione tatara la tradizione artistica dell’arte monumentale russa aveva avuto una lunga interruzione e le tecniche artistiche dei pittori erano andate perdute, la rinascita fu molto lenta. Perciò la quantità di affreschi russi del periodo antico è piuttosto ridotta, e la loro qualità, a giudicare dai frammenti rimasti dell’affresco della chiesa di San Nicola sulla Lipna, era spesso inferiore a quella degli affreschi di epoca precedente. Della pittura monumentale russa della prima metà del xiv secolo ci è rimasta una sola testimonianza: gli affreschi della cattedrale della Natività della Madre di Dio del monastero di Snetogory, presso Pskov. Il programma di questi affreschi è del tutto simile ai monumenti dell’epoca premongolica, ed ha molto in comune con la chiesa sulla Neredica. Anche i tratti stilistici degli affreschi di Snetogory mostrano dei punti di contatto con l’arte premongolica, ed è naturale, poiché questi affreschi sono stati eseguiti nel periodo iniziale della rinascita dell’arte monumentale nella Rus’, e i maestri per ideare il programma pittorico e dipingere composizioni tanto complesse devono essersi necessariamente rifatti a monumenti più antichi. Ma pur rappresentando il compimento della linea di sviluppo della pittura monumentale premongolica, gli affreschi di Snetogory sono nello stesso tempo inscindibili dall’arte del xiv secolo, anzi, possiamo dire che sotto molti aspetti ne abbiano addirittura anticipato i tratti nuovi. Tutto ciò naturalmente va considerato nel contesto dell’arte locale di Pskov e non dell’arte russa nel suo complesso, poiché in altre città fenomeni sostanzialmente simili agli affreschi di Snetogory assunsero forme un po’ diverse. Gli affreschi di Snetogory colpiscono per la loro straor- 169 dinaria forza espressiva. Gli eremiti e i santi che circondano in una fascia ininterrotta la parte orientale della chiesa, volgono sull’osservatore il loro sguardo acuto e penetrante. Questa impressione di estrema tensione psicologica è favorita da uno stile pittorico caratterizzato da corte lumeggiature a fasci, tipiche della pittura di Pskov. A differenza degli affreschi dell’epoca premongolica, in cui le figure dei santi appaiono massicce, immobili e come fissate alla linea del terreno, negli affreschi di Snetogory queste figure si trovano in una condizione di equilibrio instabile, e nello stesso tempo non sono in grado di cambiare posizione se non ad angolo acuto o retto. Nel complesso, quest’arte impulsiva e fortemente caratterizzata è già infinitamente lontana dai monumenti dell’epoca precedente. Per capire meglio i tratti individuali degli affreschi di Snetogory dobbiamo tener presente che essi sono contemporanei o quasi ai mosaici e agli affreschi di Fethiye Camii (inizio xiv secolo) e Kariye Camii (1316-1321 circa), a Costantinopoli, in cui domina una forma classicamente chiara e persino pacata. Nell’organizzazione dell’attività artistica medioevale, dove l’artista monumentalista normalmente svolgeva anche la funzione di iconografo, le norme estetiche affermatesi nella pittura murale sarebbero diventate presto o tardi anche patrimonio dell’iconografia, e quest’ultima a sua volta determinava spesso lo stile della pittura ad affresco. Questo processo era comune a tutte le città russe. Un’espressione evidente di questo fenomeno si trova nell’arte di Pskov. Oltre agli affreschi di Snetogory, troviamo qui un’intera serie di opere su tavola i cui autori in un modo o nell’altro riproducono i tratti stilistici salienti della nuova epoca.
Purtroppo per ora resta difficile cogliere con precisione il volto dell’antica arte moscovita. Restano discutibili i tentativi di legare a Mosca l’icona della cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca, raffigurante l’Apparizione dell’arcangelo Michele a Giosuè, e l’icona di Boris e Gleb del Museo Russo, cui accennavamo in precedenza. La prima testimonianza attendibile della pittura mo168 scovita sono due miniature dell’Evangeliario della Sija (1340), che raffigurano l’Adorazione dei Magi e la Missione degli apostoli. Belle per i loro colori, le miniature presentano però uno stile ancora arcaico. Particolarmente caratteristiche sono le figure degli apostoli: scalzi, con grandi teste, con pesanti tratti contadini, seri. Circa negli stessi anni fu dipinta anche la meravigliosa icona del Salvatore occhio ardente, della cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca. Il volto severo, duro di Cristo nell’icona si accorda bene con le sue tinte scure. Nelle miniature dell’Evangeliario della Sija e nell’icona del Salvatore occhio ardente i tratti della futura arte moscovita risultano quasi impercettibili. Eppure queste sono testimonianze basilari della pittura moscovita della prima metà del xiv secolo, giacché il manoscritto, come informa l’ampia postfazione, fu eseguito per ordine di Ivan Kalita in persona, e l’icona fu dipinta per la cattedrale metropolitana della Dormizione. Ciò lascia pensare che la prima metà del xiv secolo fosse un periodo in cui la pittura moscovita si sviluppava in modo relativamente ridotto, come una corrente secondaria dell’arte di Rostov-Jaroslavl’. È pure evidente che i maestri moscoviti non prendevano spunto dalle icone sgargianti e di una bellezza sfolgorante, come quella dell’arcangelo Michele di Jaroslavl’, ma dal ramo severo, monastico-ecclesiastico, della pittura di Rostov Jaroslavl’, di cui abbiamo degli esempi nell’icona del Salvatore non fatto da mano d’uomo (Galleria Tret’jakov, inizio xiv secolo) e nella prima piccola icona della Madre di Dio della Tolga.
168. Cristo con gli apostoli, 1340, miniatura dall’Evangeliario della Sija; San Pietroburgo, biblioteca dell’Accademia russa delle scienze.
273
indicativa a questo riguardo è l’icona della Deesis del Museo di Novgorod. Ad eccezione delle figure laterali di santa Barbara e santa Parasceve, essa ricalca la composizione che già conosciamo dall’icona del Museo Russo. Ma quali profondi cambiamenti sono avvenuti nell’arte di Pskov nel breve arco di tempo che separa queste due opere! Le figure nell’icona del Museo Russo hanno un carattere solenne, immobile, invitano a una contemplazione lunga e non frettolosa; tutto ciò si riscontra anche nello stile dell’icona di Pietroburgo, contraddistinta da una certa pesantezza e dall’abbondanza di elementi decorativi. L’icona del museo di Novgorod è dipinta in modo del tutto diverso. Il suo stile rende perfettamente l’entusiasmo del pittore alle prese con un compito puramente artistico. Sul fondo chiaro dell’icona si delineano con precisione le mani dei santi, rivolte verso Cristo in atteggiamento di supplica. I volti e le figure sono dipinti con sorprendente libertà, il che sembra quasi incredibile, poiché i tipi iconografici di Cristo, della Madre di Dio e del Battista, ed anche delle sante Barbara e Parasceve sono riprodotti invece con tutta la precisione necessaria. La coraggiosa modellatura coloristica delle forme infonde alla tradizionale scena della Deesis una peculiare sfumatura drammatica, intensificata dalla gamma cromatica, costruita sui toni verde scuro, giallo, bruno e rosso mattone tipici di Pskov. La dinamica della maniera pittorica e della costruzione compositiva è, in misura variabile, una caratteristica comune a tutte le icone di Pskov. Si può pensare che in una serie di casi gli iconografi di Pskov cercassero volontariamente di rappresentare i soggetti religiosi tradizionali in una forma che già di per sé spingesse l’osservatore a
Prima fra tutte va ricordata la stupenda icona della Teofania dell’Ermitage. Come gli affreschi di Snetogory, questa icona colpisce immediatamente per il suo aspetto complessivamente arcaico che si accosta a dettagli dipinti con grande energia. L’antico sfondo ottimamente conservato, del colore dello stagno scuro, nasconde un po’ i contorni delle figure e lo schema generale della composizione, rendendo così ancora più intensi, ad un attento esame, i volti degli angeli. Essi esprimono una forza di attrazione magnetica che sembra scaturire dalla figura di Cristo. Questa manifestazione un po’ esagerata dei rapporti semantici intrinseci e della condizione spirituale in generale è caratteristica della pittura pskoviana, e i tratti propri agli affreschi di Snetogory e all’icona dell’Ermitage si ritrovano spesso anche in altri monumenti di questa scuola locale. Una caratteristica singolare di tutta la scuola di Pskov è la combinazione di un’arcaizzazione, conscia o inconscia, con un impetuoso senso pittorico che fa crollare tutte le nostre concezioni di canone iconografico. Non per niente non è stato ancora possibile formulare una datazione precisa di molte opere, che gli studiosi collocano ora tra il xiii e il xiv secolo, ora tra il xv e il xvi. Nello stesso tempo esistono, seppure in esigua quantità, icone e miniature databili con precisione, che forniscono una base per la classificazione cronologica dei monumenti non datati. Tali sono, per esempio, le miniature di due Evangeliari, del 1409 e del 1463, una delle quali colloca perfettamente nel primo quarto o nella prima metà del xv secolo icone come la Madre di Dio di Ljubjatovo e l’ordine della Deesis, rispettivamente alla Galleria Tret’jakov e al Museo Russo; e la seconda, con la sua gamma monocromatica brunastra e con la caratteristica tipologia del volto dell’evangelista, trova precise analogie stilistiche negli affreschi di Melëtovo. Ma tuttavia, sia nel xiv che nel xv secolo, e in parte anche nel xvi, queste due tendenze sembrano coesistere pacificamente, e non ci sono indizi del prevalere di uno stile sull’altro. Forme pesanti, scarsamente ponderate e una spessa decorazione dorata caratterizzano il San Nicola Taumaturgo della Galleria Tret’jakov, la Deesis del Museo Russo e la Madre di Dio Odigitria del Museo di Novgorod, recentemente scoperta, mentre l’altra corrente stilistica è rappresentata dall’icona delle sante Parasceve Pjatnica, Barbara e Giuliana e dalla 170 Sinassi della Madre di Dio conservate alla Galleria Tret’jakov, dalla Deesis con le sante Barbara e Parasceve del Museo di Novgorod e dalla Natività di Cristo con santi del Museo Russo. Questo secondo gruppo di opere si colloca uniformemente nel xv secolo, e vanta tra l’altro repliche molto somiglianti anche nel xvi secolo. La monumentale Deesis del Museo Russo è la migliore esemplificazione dei tratti stilistici che caratterizzano questo primo gruppo di icone. Essa è colma della severità ed anche della solennità che erano così tipiche dell’arte dell’epoca precedente. Le tinte sature, tra cui spiccano in particolare il rosso ceralacca e il verde scuro, appesantiscono il colorito già di per sé scuro. La pittura ha un che di prezioso, sottolineato anche dall’antica copertura fissata sulla tavola. Assai differenti sono le icone della seconda corrente. In queste immagini, nonostante la loro probabile provenienza da botteghe diverse, troviamo dei tratti comuni, tipici dell’arte di Pskov. Saltano all’occhio i movimenti energici, impulsivi delle figure, l’espressione penetrante, profonda dei loro occhi, il colorito scuro e intenso. Particolarmente
169. La discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, 1313, affresco sulla parete est della cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Snetogory presso Pskov, particolare.
274
considerare questi avvenimenti come fenomeni di eccezionale importanza. Tali sono per esempio le famose icone della Sinassi della Madre di Dio (Galleria Tret’jakov) e della Discesa agli inferi (Museo Russo). L’icona della Sinassi della Madre di Dio è ispirata alle parole di un inno liturgico che si canta nella festa della Natività di Cristo. Questa spettacolare composizione lascia trasparire un’incontenibile libertà che contraddice in pieno la concezione di «rigidità iconografica» della pittura anticorussa. Un esempio dell’arte di Pskov, altrettanto rilevante per la sua forza espressiva, è l’icona della Discesa agli inferi. In questa icona l’immagine centrale di Cristo è raffigurata in gloria: attorno, come scariche temporalesche, compaiono e scompaiono serpeggiando delle linee bianche. Colpiscono in particolare i volti di Adamo ed Eva, che Cristo trae dagli inferi; essi sono dipinti con una rara espressività che invano cercheremmo in altre icone russe. Ancora poco tempo fa quella di Pskov era una scuola pittorica poco conosciuta e studiata, dominata dalle proprie leggi, passioni, correnti iconografiche e in cui la forma artistica assumeva una sfumatura strettamente locale. L’importantissima mostra di iconografia di Pskov, allestita nel 1990 e portata con successo a Mosca, Pskov e Pietroburgo, ha presentato per la prima volta la straordinaria pienezza e varietà dell’arte dei maestri pskoviani, dimostrando così che anche qui l’arte aveva attraversato le stesse fasi di sviluppo per le quali erano passate Novgorod, Mosca, Rostov e Jaroslavl’. La grandiosa immagine con quattro santi, probabilmente della prima metà del xv secolo, in cui sono raffigurati Parasceve Pjatnica e i santi Gregorio il Teologo, vi/ Giovanni Crisostomo e Basilio il Grande, proviene da una 23 cappella che sorgeva nei pressi del monastero di Snetogory. L’autore dell’icona doveva certamente conoscere gli affreschi della cattedrale del monastero, poiché la composizione e le immagini dei santi ricordano le figure dei vegliardi negli affreschi. È indimenticabile il colorito festoso dell’icona, in cui il fondo dorato si combina con tinte bianco, rosso, nero, bruno e verde scuro. L’icona dei quattro santi è una testimonianza dell’inesauribile energia creativa della scuola pittorica pskoviana, che fu assai originale ed una delle più incisive dell’antica Rus’. Una testimonianza fondamentale della pittura pskoviana del xv secolo è data dagli affreschi della chiesa della Dormizione nel villaggio di Melëtovo, che sorge a 45 km ad est di Pskov, al confine con il territorio di Novgorod. Stando alle cronache, gli affreschi furono eseguiti nel 1465, ma furono molto danneggiati nel corso dei secoli. Le pitture meglio conservate si trovano nel diaconicon, nella prothesis e nell’angolo nordoccidentale sui cori. Alcuni ampi frammenti che rivelano una stupenda pittura si trovano anche sulla parete occidentale del braccio sud della croce (Incredulità di Tommaso), sulla parete nord del santuario (Pianto sul Cristo morto), sulla parete sud della navata centrale sotto i cori (Protezione della Madre di Dio) e sulla parete ovest a destra della porta di ingresso (qui si trova l’affresco con l’immagine del saltimbanco, già nota dalla letteratura). Basandosi sulle parti conservate, sono state ricostruite in tutto circa cento figure singole e composizioni scenografiche od ornamentali, ma in origine erano probabilmente il doppio. Il ritrovamento degli affreschi di Melëtovo suscitò dal primo momento un grande interesse; ma ad attirare l’attenzione degli studiosi furono soprattutto le iscrizioni cronachistiche riferite agli affreschi, ed anche la scena
rarissima, se non addirittura unica nel suo genere, con la figura di un saltimbanco che suona uno strumento musicale. Invece gli affreschi di Melëtovo sono interessanti soprattutto per il loro stile pittorico. Come gli affreschi di 171 Snetogory, si mantengono in una gamma di toni marrone rossiccio, terracotta. Questo colorito dipende dall’abbondante uso del colore fatto con le terre locali, raccolte lungo le rive dei fiumi sotto forma di argilla colorata. Gli artisti utilizzavano anche il blu, il giallo, il bianco e il verde, ma il colore prevalente era l’ocra marrone rossiccio. Il suo pesante tono «materiale», se così si può dire, si combina tuttavia con una maniera pittorica molto libera, insolita per il xv secolo. Come ha osservato uno studioso, essa «dà l’impressione di una scarsa cromaticità accanto a una grande maestria esecutiva». Gli artisti, che qui dovevano essere parecchi, si preoccupavano soprattutto del profilo, della figura nel suo complesso, della precisione nelle scene con molte figure. Le pieghe delle vesti sono ampie, gli atteggiamenti dei personaggi esprimono prevalentemente la loro condizione o il loro rapporto con gli eventi di cui sono partecipi. Disponendo di una tavolozza estremamente povera, gli artisti erano costretti a dipingere con lo stesso marrone rossiccio e con la stessa ocra giallo pallido i volti, le figure, i drappeggi e gli sfondi architettonici. Perciò, per ravvivare gli affreschi ricorrevano all’uso virtuosistico di luci e lumeggiature alla maniera di Teofane il Greco, che operò a Novgorod un secolo prima. Gli affreschi di Melëtovo presentano molti punti di contatto con gli affreschi di Teofane e con il suo stile pittorico. Ma a differenza di Teofane, che amava le composizioni di gran-
170. Sinassi della Madre di Dio, fine xiv secolo, scuola di Pskov; Mosca, Galleria Tret’jakov.
275
La scarsità di materiali storici rende più difficile lo studio degli affreschi novgorodiani. Gli studiosi sono costretti a limitarsi per lo più ad una valutazione soggettiva dei monumenti. Perciò nella letteratura scientifica esistono opinioni contrastanti anche sui problemi fondamentali della storia della pittura monumentale di Novgorod. Per raccapezzarsi in questa complessa situazione bisogna considerare prima vi/ di tutto i principali tratti stilistici di ogni singola opera, e 8poi, sulla base di queste osservazioni, classificare gli affre- 14 schi nei relativi gruppi. In totale, eccetto il primo affresco vi/ nel santuario della chiesa di Volotovo, che si discosta stili- 15 sticamente dai restanti affreschi, si possono identificare due gruppi. Il primo è formato dagli affreschi del Salvatore della Trasfigurazione, di San Teodoro Stratilate e dall’affresco principale di Volotovo, e il secondo da quella del Salvatore a Kovalëvo, della Natività sul cimitero, dell’Annunciazione a Gorodiy/e e dell’Arcangelo Michele a Skovorodka. Negli affreschi del primo gruppo prevalgono una maniera pittorica ampia, espressiva, composizioni arditamente costruite, linee a parabola, un colorito austero, la drammaticità delle scene e un profondo studio psicologico delle singole figure. Negli affreschi del secondo gruppo, al contrario, i tratti determinanti sono dati da uno stile pittorico più accurato e talvolta addirittura minuzioso, dal consolidamento del principio grafico a scapito di quello pittorico, dalla partizione delle superfici murali in porzioni isolate relativamente piccole, a somiglianza di tavole, dalla varietà dei colori e ultimamente dalla grande serenità e perfino da una certa indifferenza, da un’abitudine all’arte bella ma non eccessivamente emozionale (Skovorodka). Non conoscendo una cronologia sicura della maggior parte degli affreschi novgorodiani, la loro osservazione deve iniziare da un monumento la cui datazione e paternità siano state accertate in modo indiscutibile. Tali sono gli affreschi nella chiesa del Salvatore della Trasfigurazione nella via di Sant’Elia, eseguiti nel 1378 da Teofane il Greco. Teofane è il primo pittore della Rus’ di cui possediamo testimonianze abbastanza complete e affidabili. Viene ri-
di proporzioni ed assai espressive, questi sono più piccoli, ed alcuni sono addirittura eseguiti nelle dimensioni e con una tecnica quasi miniaturistica. Qui si percepisce altresì che gli artisti cercavano di ottenere l’espressività non soltanto con l’aiuto della pennellata di colore, ma anche attraverso le linee. Tuttavia la graficità caratteristica degli affreschi del xv secolo, di cui erano un classico esempio le pitture nella chiesa di San Nicola dell’ex monastero di Gostinopol’e presso Novgorod, distrutte durante la seconda guerra mondiale, appare qui piuttosto carente. Rispetto agli artisti di Novgorod, i pittori pskoviani del xv secolo erano più ricettivi verso le tradizioni del libero stile artistico del secolo precedente. Questa caratteristica emerge chiaramente negli affreschi di Melëtovo e ne costituisce la peculiarità di maggiore interesse. A differenza di Pskov, dove i monumenti artistici dei secoli xiv e xv sono legati tra loro da una tradizione locale chiaramente identificabile, nell’arte di Novgorod manca questa linea stilistica unitaria, e questo è un segno della complessità della cultura artistica novgorodiana. Essendo uno dei principali centri urbani dell’Europa orientale, Novgorod godeva di grande fama e attirava una moltitudine di artisti forestieri che speravano di ricevere incarichi vantaggiosi. Le loro aspettative solitamente non venivano deluse, poiché la fervida opera di costruzione di chiese in muratura svoltasi a Novgorod dalla metà del xiv secolo comportò anche un’intensificazione dell’attività pittorica. Erano particolarmente richiesti maestri esperti nel campo della pittura monumentale. Quando nella Rus’ del xiv secolo, dopo un lungo intervallo, si incominciò di nuovo ad affrescare le chiese, gli artisti russi dovettero apprendere quasi ex novo la tecnica dell’affresco. Essi si formarono in parte grazie a un approfondimento individuale, come a Pskov, e in parte, come testimoniano fonti di origine moscovita, grazie all’aiuto di maestri greci. Alcuni affreschi, soprattutto a Novgorod e Mosca, furono dipinti da artisti forestieri, poiché la nobiltà bojara e le autorità ecclesiastiche preferivano assumere maestri qualificati piuttosto che attendere la formazione di quadri professionali locali. Le cronache di Novgorod sono estremamente avare di citazioni riguardanti gli affreschi. Esse accennano essenzialmente a tre affreschi della metà del xiv secolo, eseguiti su incarico degli arcivescovi di Novgorod nella chiesa dell’Ingresso in Gerusalemme al Cremlino (1338-1339), nella chiesa della Resurrezione del monastero sul fiume Derevjanica (1348) e nella chiesa della Dormizione a Volotovo (1363). Una quarta menzione cronachistica, riguardante gli affreschi eseguiti da Teofane il Greco nella chiesa del Salvatore della Trasfigurazione nella via di Sant’Elia (1378), non è opera di un contemporaneo di Teofane: fu inserita nella cronaca solo nel xvii secolo, quando uno studioso novgorodiano raccolse materiali per una storia artistica della città e ricopiò dalla chiesa l’iscrizione del donatore, oggi andata perduta. Un’iscrizione analoga, conservata nella chiesa del Salvatore a Kovalëvo, riferisce che la chiesa fu affrescata nel 1380. Sugli altri affreschi di Novgorod non abbiamo alcun dato, né dalle cronache né da fonti diverse; ma oltre al primo affresco di Volotovo, del Salvatore della Trasfigurazione e di Kovalëvo, ce ne sono altri cinque: uno nella chiesa di San Teodoro Stratilate sul ruscello, il secondo nella chiesa della Dormizione nel campo di Volotovo, e gli altri nelle chiese della Natività di Cristo sul cimitero, dell’Annunciazione a Gorodiy/e e dell’Arcangelo Michele a Skovorodka.
171. Presentazione al tempio, 1465, affresco nella chiesa della Dormizione nel villaggio di Melëtovo presso Pskov.
276
riescono a liberarsi dai dubbi e dal timore che li corrodono. Anche questi asceti sono perseguitati dallo spettro del Giudizio universale, anche loro si sentono addosso lo sguardo adirato del Pantocratore. Le mani incrociate sul petto, a significare la loro rinuncia al mondo, esprimono chiaramente la vanità dell’esistenza terrena anche nelle sue manifestazioni più ascetiche, e nell’animo dei contemporanei di Teofane dovevano far nascere un senso di profondo pentimento. Gli affreschi della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione esprimevano evidentemente l’idea della necessità di un giudizio interiore, e nello stesso tempo anche della vanità degli sforzi umani per raggiungere la perfezione e ottenere il perdono divino. A giudicare dai frammenti degli affreschi sulla parete ovest e sulle volte adiacenti, il ciclo pittorico non comprendeva il Giudizio universale. Ma lo spirito di questo grandioso avvenimento è indubbiamente il tema principale che determina tutti gli altri aspetti del contenuto pittorico. Teofane era un artista itinerante; egli trascorse la maggior parte della sua vita in peregrinazioni per le città di Bisanzio, della Crimea e della Russia, e per questo è tanto difficile determinare la sua appartenenza al panorama artistico di qualsiasi paese. Ma è chiaro fin da ora che parlando di lui non si può prescindere né dalla storia della pittura bizantina né da quella dell’antica Rus’. Qui, nella Rus’, egli trascorse oltre metà della sua vita, e in questo arco di tempo raggiunse l’apice della sua creazione. Inoltre, sia a Novgorod che a Mosca, dove Teofane si trasferì in seguito, non lavorò da solo, ma con l’aiuto di artisti locali, e naturalmente aveva anche diversi allievi. Di questa fusione dell’arte di Teofane con l’arte russa abbiamo
cordato più volte nelle cronache, e la sua figura è chiaramente delineata nella lunga lettera scritta attorno al 1415 dal monaco della Trinità Epifanij il Saggio all’igumeno Kirill del monastero del Salvatore di Afanas’ev a Tver’. Come narra la lettera di Epifanij, il cui testo è riportato nel capitolo sulla letteratura, prima di giungere nella Rus’ Teofane aveva lavorato a Costantinopoli, Galata e a Caffa, e poi nella Rus’ a Novgorod, Nižnij Novgorod e Mosca; in complesso affrescò circa una quarantina di chiese. Teofane morì dopo il 1405, poiché in quest’anno le cronache lo ricordano per l’ultima volta. Nella lettera di Epifanij su di lui se ne parla già al passato: «… era… un uomo vivace…». Poiché Epifanij menziona Costantinopoli come la prima città dove Teofane il Greco lavorò, è naturale pensare che egli provenisse dalla scuola pittorica della capitale, ed anche le opere giunte fino a noi confermano la testimonianza del suo contemporaneo. Nella chiesa del Salvatore della Trasfigurazione gli affrevi/ 8-12 schi di Teofane meglio conservati sono quelli nella cupola e nel vano dell’angolo nord-ovest, a livello dei cori. Nella volta della cupola si trova un grande affresco raffigurante 172 il Pantocratore. È senza dubbio l’affresco più espressivo di Teofane. Cristo rivolge uno sguardo duro sulla terra che si stende sotto di lui. È un giudice terribile, che non conosce né pietà né indulgenza. Il suo occhio onniveggente penetra nelle pieghe più recondite dell’anima umana. Non è il Salvatore buono e compassionevole, è l’Onnipotente che deve vigilare sull’uomo e, come una spada spirituale, punire ogni manifestazione di peccato. Sotto questo sguardo tremendo si può solo chinare il capo e attendere il castigo. Hanno un’espressione minacciosa anche i volti degli arcangeli e dei serafini che formano la guardia celeste di Cristo. La potenza e grandezza biblica si incarnano nelle gigantesche figure degli antenati, dipinte sulla parete del tamburo. Tutto l’affresco della cupola ha in sé qualcosa di sovrumano. Se si fossero conservati anche gli affreschi delle volte e nei registri superiori delle pareti, avremmo un’affascinante rappresentazione del ciclo della passione, il cui tragico contenuto doveva essere particolarmente caro a Teofane. Purtroppo quasi tutti gli affreschi nelle parti alte sono andati perduti, ed anche nelle zone basse della chiesa ne sono rimasti ben pochi. Solo nel vano d’angolo sopra i cori gli affreschi formano un piccolo ciclo, che assieme agli affreschi della cupola può dare un’idea di come doveva essere stata l’opera del maestro nel suo complesso. A suo tempo questo vano serviva probabilmente come cappella privata del costruttore principale della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione: «il nobile e pio bojaro Vasilij Danilovi/». Era dedicata alla Trinità, poiché sulvi/8 la parete est si trova un affresco raffigurante la Trinità dell’Antico Testamento. Sulle altre pareti dell’aula sono raffigurati l’Adorazione dell’offerta e santi, tra cui hanno il vi/ posto d’onore gli stiliti e i grandi asceti d’Egitto: Giovanni 10 Climaco, Arsenio il Grande, Onofrio il Grande, Acacio e Macario. Particolarmente suggestive sono le figure degli stiliti, alte circa tre metri. Il pensiero teologico medioevale considerava gli stiliti come la gloria e la speranza dell’umanità. Salendo su una colonna per sottrarsi al baratro del male da cui è inghiottita la terra, essi si dedicavano soltanto alla preghiera. Qui, negli affreschi di Teofane, stanno come a simboleggiare l’idea della conoscenza di Dio e il grado più alto nel cammino verso la salvezza dell’anima. Ma anche sulle colonne i santi di Teofane non
172. Pantocratore, Teofane il Greco, 1378, affresco nella cupola della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Novgorod.
277
vi/ uno splendido esempio negli affreschi della chiesa di San 13- Teodoro Stratilate. La chiesa di San Teodoro Stratilate fu costruita negli 14 173 anni 1360-1361, ma i suoi affreschi devono essere stati fatti
molti anni dopo, poiché negli angoli sud-est, nord-ovest e nord-est sono eseguiti su archi aperti, murati in un secondo tempo. Come gli affreschi nella chiesa del Salvatore della Trasfigurazione, anche quelli di San Teodoro sono mal conservati. I piccoli frammenti sparsi sulle pareti dell’enorme chiesa non arrivano a formare una figura intera. Celati a lungo sotto uno strato di intonaco, hanno molto sofferto per la penetrazione della calce. Inoltre le lumeggiature sugli affreschi furono fatte a suo tempo con bianco di piombo, che ora è diventato completamente nero. Tutto ciò ha guastato l’affresco, che a prima vista non appare molto somigliante a quello della chiesa del Salvatore, ma il loro legame è evidente. Osserviamo qui una quantità di corrispondenze nel campo dell’iconografia, nella tipizzazione dei volti, nell’impostazione delle figure ed anche nei metodi pittorici. E tuttavia gli affreschi di San Teodoro Stratilate destano un’impressione contraddittoria. Accanto a figure stupende come l’angelo dell’Annunciazione, molte parti di affresco, per esempio nella cupola, non sembrano corrispondere allo stile di Teofane il Greco per la grossolanità e l’imprecisione del disegno, l’insicurezza delle forme e la piattezza dello stile, la ripetitività e i dettagli delle grandi scene. È perciò naturale pensare che il lavoro maggiore in questa chiesa non fu svolto direttamente da Teofane, ma da artisti locali di Novgorod. A favore di questa tesi parlano anche le iscrizioni in parte russe e in parte greche, danneggiate e incomprensibili, sugli affreschi della cupola. La chiesa di San Teodoro Stratilate fu affrescata probabilmente subito dopo quella del Salvatore della Trasfigurazione, all’inizio degli anni ’80 del xiv secolo. Un ruolo saliente nella storia della pittura monumenta174175 le di Novgorod tocca agli affreschi della chiesa sul campo di Volotovo. Il maestro che ricevette l’incarico di affrescare la chiesa della Dormizione a Volotovo seppe combinare felicemente gli affreschi con l’architettura, trovando per le composizioni figurative delle proporzioni così indovinate che la chiesa divenne addirittura più ampia, più semplice e leggera. Questo effetto era dovuto anche all’insolito stile pittorico. Gli affreschi di Volotovo erano dipinti con libertà e leggerezza, sembravano quasi volare, e ciò risultava tanto più sorprendente dato che in essi si percepiva chiaramente anche la materialità delle cose, in quanto l’autore faceva ampio uso del chiaroscuro, e non usava solamente tinte grigio-azzurro, ma anche terre abbastanza compatte. L’effetto della pittura era dovuto alla sua stupefacente perfezione. Questa pittura aveva l’inspiegabile proprietà di essere nello stesso tempo schizzo e pittura finita. Ogni composizione colpiva subito per la sua incomparabile freschezza e contemporaneamente per la precisione con cui era realizzato il progetto. Tale era in particolare la figura a busto dell’arcangelo Michele, di rara bellezza, collocata sulla chiave di volta di uno degli archi di rinforzo. Rinchiusa nella forma classica di un medaglione rotondo, essa appariva come un prodigio nell’arte del disegno e della composizione. Qualsiasi affresco prendiamo in considerazione, collocato in vista o negli angoli della chiesa, troviamo ovunque l’impronta del grande artista e della straordinaria libertà di pensiero del loro autore. Questa libertà si manifestava in diversi modi, ma soprattutto nel fatto che, mettendo coraggiosamente da parte i dettagli e pre278
occupandosi in primo luogo dell’effetto generale, l’autore seppe infondere nei consueti schemi iconografici il ritmo pulsante della vita. Gli affreschi di Volotovo non avevano nulla di iconografico. Le linee agili ed ampie e la macchia di colore, la pennellata, erano i principali metodi artistici del maestro. Da qui nascevano naturalmente la dinamica e l’espressività dei suoi affreschi. Mentre nelle antiche icone di Novgorod e negli affreschi della chiesa di San Nicola sulla Lipna i personaggi principali presentavano il viso allo spettatore, e le composizioni erano organizzate secondo il principio verticale, nell’arte del maestro di Volotovo la posizione frontale della figura, specialmente nelle scene di massa, è estremamente rara. L’asse compositivo nella maggioranza degli affreschi di Volotovo è disposto sulla diagonale. Lungo la diagonale dal basso in alto galoppano i magi, lungo la diagonale si drizzano verso il cielo, aguzze come frecce, le sommità delle rocce, lungo la diagonale si sviluppa la stupenda scena dell’Ascensione di Cristo. L’atmosfera inquieta, estatica degli affreschi di Volotovo dipendeva in gran parte proprio dal loro stile pittorico, privo di artificio o di qualsiasi traccia di esitazione da parte dell’artista. Per apprezzare adeguatamente l’arte russa del xiv secolo, e in particolare gli affreschi di Novgorod, bisogna ricordare che a quell’epoca nell’Europa orientale si ha un rafforzamento degli elementi umanistici nella cultura medioevale. Questo processo trovò chiara espressione nella letteratura, nelle arti plastiche e nella pittura. Gli affreschi, le icone e le miniature di quell’epoca presentano nuovi tratti stilistici. Le composizioni acquistano spazialità, nelle scene di grandi dimensioni gli sfondi architettonici e il paesaggio diventano un dettaglio quasi indispensabile, il movimento delle figure si fa più naturale, cresce l’interesse per una caratterizzazione psicologica della persona. Il
nuovo stile artistico, che all’inizio trovò ampia applicazione nelle botteghe di Costantinopoli, col tempo si diffuse anche in Serbia, Bulgaria e Russia, e in ciascuno di questi paesi assunse le proprie sfumature locali, conservando nello stesso tempo anche molte caratteristiche comuni, che rendono più difficile la classificazione delle opere. Gli affreschi di Volotovo presentavano molti tratti iconografici e stilistici che trovavano convincenti analogie con gli affreschi delle chiese del Salvatore della Trasfigurazione e di San Teodoro Stratilate, ed anche, assieme ad esse, con le opere della pittura greca e serba. Ed è comprensibile: durante il xiv secolo, infatti, a Novgorod lavorarono così tanti maestri forestieri che gli artisti locali non poterono certo restare indifferenti all’arte dei Greci e degli altri popoli slavi. Come è noto, il primo affresco del xiv secolo menzionato nelle cronache novgorodiane fu eseguito proprio da maestri bizantini, il Greco Isaia «e amici», che negli anni 1338-1339 dipinsero per incarico dell’arcivescovo Vasilij la chiesa dell’Ingresso in Gerusalemme nel Cremlino. La via della Rus’, aperta da Isaia «e dagli amici», non fu dimenticata dai Bizantini, come ben testimonia il successivo arrivo a Novgorod di Teofane il Greco. Gli artisti bizantini venivano di buon grado, anche perché trovar lavoro in patria diventava sempre più difficile, mentre nella Rus’ la loro arte aveva molto successo. Tutta la storia della rinascita della pittura monumentale nella Rus’, sia a Novgorod che a Mosca, è legata ad artisti greci. Tuttavia la vecchia ipotesi che attribuisce a Teofane il Greco gli affreschi di Volotovo non pare accettabile. È sufficiente considerare il tipo di figura femminile caratteristico di Volotovo, con mani sottili ed ossute, per rinunciare a qualsiasi ipotesi di una partecipazione di Teofane a questo affresco. Questo genere di figure non è tipico della
sua pittura. M.V. Alpatov e V.N. Lazarev hanno avanzato l’ipotesi che nella chiesa della Dormizione a Volotovo abbia lavorato un insigne maestro novgorodiano, che aveva studiato a fondo l’arte di Teofane il Greco ma che seppe elaborare anche uno stile personale. È tuttavia possibile che vi abbia lavorato un maestro greco di cui non conosciamo il nome. Stando alle cronache, la chiesa della Dormizione fu costruita nel 1352 ed affrescata nel 1363. Apparentemente la datazione della cronaca sembrerebbe fugare qualsiasi dubbio sulla collocazione cronologica degli affreschi di Volotovo, ma questo problema è oggetto ancora oggi di accese discussioni, in quanto sotto l’affresco del santuario, che raffigura la liturgia, fu scoperto nel 1855 un altro affresco, sullo stesso tema, ma più antico. Questa circostanza diede modo ad A.I. Anisimov e V.N. Lazarev di datare al 1363 solamente l’affresco nella zona inferiore, mentre la pittura conservata nel registro superiore viene fatta risalire ad epoca più tarda. E in effetti una serie di considerazioni spinge a datare l’affresco principale di Volotovo alla fine del xiv secolo (attorno al 1390). È particolarmente indicativo il fatto che l’arcivescovo Aleksej, raffigurato assieme al suo predecessore – l’arcivescovo Moisej – nella porzione inferiore del muro della chiesa accanto alla Madre di Dio, è ritratto nella foggia di un santo, col nimbo, ed egli morì nel 1388: quindi l’affresco non fu eseguito prima di quell’anno. Nella pittura russa, infatti, non si conoscono esempi di ritratti di personaggi ecclesiastici, anche tra i più eminenti, raffigurati come santi mentre erano ancora in vita. Uno stile del tutto diverso è quello degli affreschi di Novgorod del secondo gruppo, tra cui i principali sono quelli della chiesa del Salvatore a Kovalëvo (1380), dan- 176neggiati dalla guerra, ma ricostruiti per oltre la metà in 179 base ai frammenti. A differenza degli affreschi del Salvatore della Trasfigurazione, di San Teodoro Stratilate e di Volotovo, dallo stile spiccatamente pittorico, quelli di Kovalëvo furono eseguiti da maestri che risentivano profondamente dell’influenza dell’iconografia. Con ciò si spiega l’insolito sistema di collocazione delle scene principali sulle pareti. Racchiuse in ampie cornici rettangolari, senza alcun legame compositivo l’una con l’altra, parevano grandi icone. Anche la tecnica degli affreschi di Kovalëvo rivelava la propria dipendenza dall’iconografia. I maestri,
173. Serafino, anni ’80 del xiv secolo, affresco nella cupola della chiesa di San Teodoro Stratilate a Novgorod.
174. Chiesa della Dormizione a Volotovo nei dintorni di Novgorod, 1352, pittura murale, 1390 circa.
175. Giovanni Battista, 1390 circa, affresco nella cupola della chiesa della Dormizione a Volotovo nei dintorni di Novgorod.
279
176-178. Profeta Mosè; Profeta; Martire; 1380, affreschi nella chiesa del Salvatore a Kovalëvo presso Novgorod.
che qui erano tre, fecero ampio uso della grafica, cioè graffiavano sull’intonaco i contorni del disegno dei singoli affreschi. In questo modo la grafica, che solitamente era solo un mezzo ausiliario, acquistava invece un’importanza assai maggiore ed influiva anche sullo stile. Perciò le figure dei singoli santi negli affreschi di Kovalëvo apparivano molto strane, dipinte in pose un po’ innaturali e casuali, come si nota in particolare negli apostoli prostrati nell’affresco della Trasfigurazione e negli affreschi del registro inferiore, dove erano raffigurati i santi guerrieri in posizioni molto innaturali. Gli affreschi di Kovalëvo si differenziavano da quelli del primo gruppo anche per la loro iconografia. In questo senso sono una rarità le figure del tetramorfo nella pittura del tamburo e la solenne composizione dal titolo Sta la Regina alla Tua destra sulla parete nord. L’affresco raffigura Cristo assiso sul trono col paramento arcivescovile, la Madre di Dio che gli sta di fronte in abito regale e il Battista. Il significato dell’affresco Sta la Regina era la glorificazione di Cristo come re dei re e grande sacerdote. Questo tipo iconografico, nella variante degli affreschi di Kovalevo, si formò in area serba e fu certamente portato a Novgorod da maestri serbi. Ed effettivamente non solo l’iconografia ma anche lo stile degli affreschi di Kovalëvo rivelavano un legame diretto con l’arte serba.
Di epoca successiva rispetto a Kovalevo sono gli affreschi nelle chiese dell’Annunciazione a Gorodiy/e e della Natività di Cristo sul cimitero. Gli affreschi della chiesa di Gorodiy/e, anch’essi andati perduti durante la seconda guerra mondiale, erano stati scoperti solo parzialmente. Qui, in due nicchie della prothesis, erano rappresentati rispettivamente, nella prima, una composizione dal titolo Non piangere su di me o Madre, con san Giovanni Evangelista e san Rodion ai lati, e nella seconda la liturgia con due angeli e due santi. Assai mal conservati, questi frammenti rivelavano tuttavia il loro legame con quelli della chiesa della Natività sul cimitero. In entrambi i cicli coincidevano non solo la caratterizzazione dei santi, per esempio san Rodion e san Simeon, ma anche lo stile pittorico, compatto, conciso, con piccoli cenni iconografici sopra le lumeggiature e una gamma cromatica abbastanza ampia. Questi tratti, che oggi si possono osservare negli affreschi della chiesa della Natività, conservati e completamente ripuliti, trovavano a loro volta dei paralleli negli affreschi di Kovalëvo. Tutti e tre questi monumenti avevano le caratteristiche di una medesima corrente, non però greca, ma con una sfumatura slava meridionale. È sufficiente confrontare lo stupendo affresco della chiesa della Natività, con l’immagine dell’angelo che annuncia la lieta novella, e gli affreschi di soggetto analogo nelle chiese di San Teodo-
179. Eucaristia, 1380, affresco nell’abside della chiesa del Salvatore a Kovalëvo presso Novgorod, parti sinistra e destra, riproduzione al tratto di L.A. Durnovo, 1920.
280
ro Stratilate e Volotovo, per convincersi della differenza dei rispettivi stili. La figura dell’angelo nella chiesa della Natività, totalmente priva di una ricercata raffinatezza di forme, possente e quasi furtiva, risulta anche molto robusta, e i tratti marcati e rigidi del suo volto sono simili al tipo dei volti che troviamo negli affreschi di Kovalëvo. Poiché la chiesa della Natività fu costruita nel 1381-1382, i suoi affreschi e quelli ad essi affini nella chiesa dell’Annunciazione a Gorodiy/e non potevano essere stati dipinti prima del 1382. Probabilmente furono eseguiti negli anni ’80-’90 del xiv secolo. Un altro importante ciclo di affreschi appartenente 180- al secondo gruppo di opere della pittura monumentale 182 novgorodiana è quello della chiesa dell’Arcangelo Michele nel monastero di Skovorodka. La chiesa, che le cronache datano al 1355, e i suoi affreschi, di cui non abbiamo una datazione precisa, furono distrutti dai tedeschi. Questa perdita irreparabile è tanto più grave in quanto gli affreschi di Skovorodka, scoperti poco prima della seconda guerra mondiale, non erano ancora stati fotografati e studiati dagli specialisti, e a giudicare dalla qualità e dallo stato di conservazione dello strato di colore dei frammenti rimasti, dovevano essere tra i migliori di Novgorod. L’affresco di Skovorodka contava relativamente poche composizioni di varie figure. Si distingueva dagli altri solo un affresco di grandi dimensioni sopra l’arco del santuario, raffigurante l’Ascensione di Cristo. Molto più numerose erano invece le figure singole: profeti, evangelisti, progenitori, santi, martiri e angeli. Gli artisti riservarono molto spazio anche ai motivi ornamentali, che conferivano agli affreschi di Skovorodka una sfumatura gioiosa, che del resto non era dovuta soltanto all’ornato. Tutta la decorazione pittorica della chiesa era caratterizzata da una particolare chiarezza e semplicità. Essa non aveva lo scopo di sviluppare un complesso pensiero teologico attraverso scene coerenti e profondamente ponderate. Al contrario, i suoi maestri erano tutti assorbiti dal compito di creare nella chiesa, con l’aiuto della pittura, un’atmosfera luminosa e serena di pace. Nascono così le figure assai snelle e sottili dei loro santi, l’espressione tranquilla e quasi impassibile dei volti, le pieghe ampie delle vesti che cadono liberamente, l’abbondanza dell’ornato. Con ciò si spiegava anche il colorito splendente degli affreschi di Skovorodka, in cui si poteva osservare molto spesso la combinazione di tonalità di viola tenero, grigio, verde chiaro, marrone chiaro e giallo arancio. La tavolozza dell’affresco rivelava chiaramente la mano di maestri esperti, e che l’apparente semplicità della loro arte era frutto di una scuola pittorica ben precisa. Come per gli altri affreschi del secondo gruppo, le analogie più convincenti con gli affreschi di Skovorodka si trovano nell’arte degli Slavi meridionali. Ma a differenza degli affreschi precedenti, la gamma di queste analogie è più ampia e non consente di mettere in relazione gli affreschi di Skovorodka con un’opera serba ben precisa. Dal punto di vista dello stile generale, in cui si sente chiaramente l’influenza paleologa, sono affini agli affreschi serbi della prima metà del xiv secolo. Tuttavia a Skovorodka mancano totalmente alcuni tratti propri della pittura monumentale serba del secondo quarto del xiv secolo, come le scene sovraffollate di figure e l’espressività un po’ rozza. Nelle opere della metà del xiv secolo, cronologicamente ancora più vicine all’epoca della costruzione della chiesa del monastero di Skovorodka, si notano addirittura i segni palesi della decadenza del-
la pittura monumentale serba. Rispetto a queste opere gli affreschi di Skovorodka si distinguono a proprio vantaggio per il loro carattere nobile, per la purezza delle linee, la sobrietà nella riproduzione dei movimenti, l’atmosfera soave e luminosa. Qui prevalgono forme eleganti, calme, tipiche dello stile della pittura monumentale serba di epoca tarda. Per quanto possa sembrare strano considerando l’epoca piuttosto antica in cui fu costruita la chiesa del monastero di Skovorodka, risultano evidenti al primo sguardo diversi punti di contatto proprio tra gli affreschi di Skovorodka e i cicli di affreschi del tardo Medioevo serbo, che costituiscono il vertice della cosiddetta scuola pittorica morava, formatasi nei monasteri della Serbia settentrionale e che ebbe il periodo di massima fioritura tra la fine del xiv e l’inizio del xv secolo. I migliori esempi della produzione artistica della scuola morava sono gli affreschi nelle chiese della Madre di Dio a Kaleni0 (poco dopo il 1413) e della Trinità a Manasija (1418 circa), ed anche le miniature dalla stupenda qualità e perfezione artistica eseguite dal maestro Radoslav su uno dei manoscritti atoniti, conservate ora nella biblioteca pubblica di Pietroburgo. Proprio qui troviamo dei particolari che richiamano le più strette associazioni con i particolari dell’opera novgorodiana. Non è escluso che nel monastero di Skovorodka abbiano lavorato dei maestri serbi, oppure, cosa meno verosimile, degli artisti russi che conoscevano molto bene l’arte serba in quel periodo del suo sviluppo, sopravvenuto subito dopo l’esecuzione degli affreschi di Ravanica. Resta per ora difficile stabilire per quali vie questo stile giunse fino a Novgorod: se direttamente dalla Serbia o attraverso l’Athos, con cui i Novgorodiani mantenevano stretti contatti. Per quanto riguarda la datazione degli affreschi di Skovorodka, quanto abbiamo detto dimostra abbastanza chiaramente che siamo inclini a collocarli nel tardo xiv secolo se non addirittura all’inizio del xv. Nella storia della pittura di Novgorod essi occupano circa lo stesso posto che nella storia dell’arte moscovita spetta agli affreschi della cattedrale della Dormizione a Vladimir, eseguiti da Andrej Rublëv e Daniil Cërnyj nel 1408, e che, tra l’altro, come gli affreschi di Skovorodka, non sono separati da una barriera etnica troppo marcata dall’arte degli Slavi balcanici, parenti dei Russi. Nel xii secolo le chiese novgorodiane in muratura di nuova costruzione venivano solitamente affrescate appena terminati i lavori architettonici. Nel xiv secolo, al contrario, tra la costruzione della chiesa e la sua decorazione passava spesso molto tempo. La chiesa del Salvatore a Kovalëvo rimase senza affreschi per trentacinque anni, quella dell’Annunciazione a Gorodiy/e non meno di quarant’anni, quella della Dormizione a Volotovo attese undici anni il primo ciclo di affreschi e non meno di trent’anni il secondo, la chiesa dell’Arcangelo Michele a Skovorodka circa quaranta-cinquant’anni. Questi tempi di attesa si possono spiegare solo col fatto che a Novgorod nel xiv secolo non c’erano o c’erano ben pochi maestri locali, e quei pochi erano costantemente impegnati ad affrescare chiese. È indicativo che le cronache di Novgorod non facciano menzione di affreschi nelle chiese, e ciò risulta ancora più strano in quanto la costruzione delle chiese era invece registrata in modo eccezionalmente completo e circostanziato. Bisogna dunque concludere che i cronisti non fossero entusiasti di annotare negli annali locali i servigi prestati da artisti forestieri. E in effetti, l’analisi degli affreschi di Novgorod mostra che l’arte dell’affresco tra il xiv e l’inizio del xv secolo era qui appannaggio o dei Gre281
ci e degli Slavi meridionali, oppure, se venivano incaricati dei maestri locali, questi ultimi dimostravano una perfetta conoscenza dei modelli greci e serbi che essi, salvo alcune eccezioni, cercavano di imitare. Novgorod fu per secoli il principale centro produttore di manoscritti, che in migliaia di esemplari costituiscono le basi della sua eredità culturale. Il xiv secolo è l’epoca di maggior fioritura della letteratura di Novgorod. I manoscritti illustrati e ornati rivelano un ulteriore aspetto dell’arte locale. La produzione libraria riprendeva nei suoi tratti fondamentali l’evoluzione dell’arte in scala maggiore. In un’opera così antica come il Salterio Chludov, novgorodiano della fine del xiii secolo, con oltre cento illustrazioni, vediamo una corrispondenza quasi diretta con tutta l’iconografia postmongolica fino all’icona della Vita di san Giorgio del Museo Russo compresa. Troviamo anche qui la stessa incertezza del disegno, la rigidità del movimento, lo stile primitivo dal punto di vista della colorazione. La rilevanza del tema è posta in primo piano, ed esaminando la miniatura del frontespizio con Davide che suona e la sua «orchestra», siamo più attratti dalla varietà degli strumenti musicali che dalla forma artistica. Solo una miniatura di frontespizio con la figura di Cristo a busto e Marta e Maria che si prostrano ai suoi piedi si distacca dalle altre immagini. Non a caso si è tentato di collocare questa illustrazione oltre i confini del xiii secolo: la maestria della sua esecuzione contrasta infatti bruscamente con le altre miniature del manoscritto. L’arte miniaturistica di Novgorod fornisce sorprendenti esempi della fusione tra i gusti locali e la creatività artistica dei maestri forestieri. In uno degli Evangeliari del terzo quarto del xiv secolo, conservato al Museo storico di Mosca, troviamo miniature in folio con le figure di Matteo, Marco e Luca. Il manoscritto, con i caratteri onciali e la decorazione teratologica tipica dell’arte miniaturistica novgorodiana, non corrisponde assolutamente alla tradizione artistica locale per quanto riguarda le illustrazioni, che tradiscono invece una strettissima parentela con l’arte serba, e in particolare non con la miniatura, ma con l’affresco. Le figure a busto sono riprodotte in pose complicate, i rotoli sono appesi alla cornice, e Matteo e Marco, tenendone in mano l’estremità inferiore srotolata, scrivono i testi dei vangeli. I drappeggi formano complesse pieghe e angoli, generosamente illuminati dai bianchi pastosi per ottenere un effetto spettacolare. Rifacendoci a De/ani e ad altri monumenti serbi della prima metà del xiv se-
colo come modelli ispiratori dello stile delle miniature di questo Evangeliario, troviamo inaspettatamente analogie molto strette con gli affreschi di Kovalëvo, che lasciano supporre che l’autore delle miniature abbia lavorato anche agli affreschi del Salvatore a Kovalëvo, dove, come è noto, lavorarono appunto maestri serbi. Il carattere non locale dello stile delle illustrazioni di questo Evangeliario risulta ancora più evidente per il fatto che sono state ritrovate copie esatte delle miniature con Marco e Luca, eseguite alla fine del xiv secolo da un artista novgorodiano, in cui le forme diventano più tremolanti, e le figure degli evangelisti mostrano addirittura qualche incertezza. Un’altra corrente stilistica, anch’essa ispirata all’affresco, non però di provenienza serba, ma greca, è rappresentata da due miniature del famoso Salterio di Ivan il Terribile, datato agli anni ’80 del xiv secolo (Biblioteca statale russa). Il manoscritto è tipicamente novgorodiano, ma le miniature con le figure dei profeti, del Salmista Davide e di Asaf provengono con tutta probabilità da un ambiente artistico dominato dallo stile di Teofane il Greco. Nel colorito prevalgono i toni marrone e blu pallido, l’ocra gialla, e nel disegno le linee ampie, nervose, le pennellate pastose e una generale spontaneità delle immagini. Il confronto con i noti affreschi di San Teodoro Stratilate rivela una certa debolezza di questi ultimi, mentre rispetto agli affreschi di Volotovo spicca l’evidente vivacità. Le miniature del Salterio presentano invece un’estrema affinità con gli affreschi di Teofane nella chiesa del Salvatore, e probabilmente provengono proprio dalla sua bottega di Novgorod. La collocazione cronologica e i tratti stilistici degli affreschi di Novgorod, per quanto si riesce a cogliere dai due cicli datati con precisione e dalle caratteristiche delle restanti opere, dimostrano che l’originaria influenza bizantina sulla pittura monumentale di Novgorod lasciò gradualmente il posto a quella slava meridionale. Ciò avvenne negli anni ’80 del xiv secolo, quando videro la luce gli ultimi affreschi greci e i primi slavi meridionali. Nell’arte di Novgorod si verificarono contemporaneamente anche delle trasformazioni stilistiche sostanziali, che potremmo definire in breve come lo sviluppo nella pittura dei metodi iconografici, conseguente all’impetuoso sviluppo dell’iconografia in quella città. L’icona, e non l’affresco, era la vera vocazione degli artisti novgorodiani. Proprio in questo campo essi raggiunsero le massime vette e portarono un contributo determinante nella storia della cultura universale.
180-182. Arcangelo; Profeta Avvakum; Profeta Zaccaria; fine xiv-inizio xv secolo, affreschi nella chiesa dell’Arcangelo Michele nel monastero di Skovorodka nei dintorni di Novgorod.
282
A differenza dell’affresco, l’iconografia di Novgorod ebbe uno sviluppo lento. Quasi tutte le opere rimaste sono caratterizzate da uno stile estremamente arcaico. Ciò si nota particolarmente nelle icone della prima metà del xiv secolo, come la Presentazione al tempio del villaggio di Krivoje e l’icona con la vita di san Nicola dal villaggio di Ljubon’, conservate al Museo Russo di Pietroburgo, la Dormizione della Madre di Dio dal villaggio di Kuricko, conservata al Museo di Novgorod, e le icone di Boris e Gleb e della Protezione della Madre di Dio del monastero della Protezione al Serraglio, ora al Museo storico di Mosca. Tutte, in un modo o nell’altro, seguono tradizioni artistiche risalenti ancora al xiii secolo. Di grande interesse a questo riguardo è anche l’icona con la vita di san Nicola Taumaturgo, della seconda metà del xiv secolo, conservata nel Museo di Novgorod. Il suo stile è lineare, piatto, i volti sono scarsamente modellati, molto spazio è lasciato all’ornamento. La composizione delle scene marginali ricorda i disegni dei manoscritti. Il contenuto generale delle scene sulla cornice è espresso mediante i gesti e le scritte lunghe ed esaurienti. Il colorito risulta molto scuro a causa dell’abbondanza di tonalità di marrone, verde pallido, olivastro, verde acqua e verdastro. Tutto ciò, comunque, crea un’ottima armonia tra la severa figura di san Nicola al centro dell’icona e l’ingenua, povera semplicità delle scene della sua vita. Fortemente conservativa, appena sfiorata dai nuovi mutamenti stilistici, quest’arte sopravvisse a Novgorod per molto tempo. Ma c’erano alcune eccezioni, e una di esse è l’icona dei cavalieri Boris e Gleb conservata al mu183 seo di Novgorod e proveniente da una chiesa costruita a Novgorod nello stesso anno, il 1377. Esiste l’ipotesi che questa immagine sia una copia della famosa icona di Boris e Gleb della cattedrale della Dormizione del Cremlino di Mosca, che a sua volta risente dell’influsso dell’iconogra-
fia greca, e questo è un fatto particolarmente interessante. Nel xiv secolo si verificò un forte sfaldamento sociale a Novgorod. I principali committenti di opere d’arte divennero le ricche famiglie bojare, le associazioni dei mercanti e la cattedra della Santa Sofia. Essi erano attratti più dall’arte dei Greci, la cui autorità nel campo della pittura godeva di grande considerazione nella Rus’ fin dall’xi secolo. Si spiega così l’attenzione riservata alle opere degli artisti greci e la tendenza dell’arcivescovo e dei bojari ad incaricare (soprattutto per l’affrescatura delle chiese) artisti bizantini o slavi meridionali. Gli echi della concezione bizantina della forma, assenti nelle icone novgorodiane di epoca precedente e posteriore, si possono cogliere distintamente nelle grandiose icone del Salvatore e dell’Annunciazione, dipinte probabilmente negli anni ’70-’80 del xiv secolo (entrambe al Museo di Novgorod). Ancora poco tempo fa delle icone novgorodiane del xiv secolo si conoscevano solo singoli esemplari. Adesso, grazie ai lavori di pulitura e alle scoperte degli ultimi anni, sono venute alla luce nuove opere, assai smaglianti e diverse dalle precedenti, ma appartenenti anch’esse al xiv secolo. Tra queste dobbiamo ricordare prima di tutto due icone conservate al Museo Russo: la Discesa agli inferi di Tichvin e la Madre di Dio Odigitria proveniente dal villaggio di Ljubon’ nella regione di Borovi/i, nel distretto di Novgorod. Entrambe sono dipinte in un ampio stile pittorico proveniente dalla pittura monumentale. Le pastose pennellate rosso-arancione sui volti e sul dorso delle mani sono tracciate da una mano sicura, avvezza non a copiare ma a modellare la forma. Nell’icona della Discesa agli 184 inferi i nuovi procedimenti apparivano particolarmente evidenti: il libero svolgimento della composizione, la dinamica dei movimenti di Cristo, di Adamo ed Eva, resa con grande forza espressiva, le pieghe delle vesti dipinte con una percezione plastica mai vista prima, i volumi. Tra le prime icone novgorodiane in cui si vanno formando distintamente molti tratti caratteristici di uno stile artistico locale, si trova anche la famosa icona della Pater- 185 nità conservata alla Galleria Tret’jakov, assai interessante, oltre che per le sue eccellenti qualità artistiche, anche per la rarità del soggetto. Essa raffigura la Trinità, non però nella variante rappresentata nella famosa icona di Andrej Rublëv, ma in una composizione più complessa, e per questo anche più concreta, in cui Dio Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono raffigurati ognuno col proprio volto: Dio Padre come un vecchio canuto, il Figlio nelle sembianze di un fanciullo e lo Spirito Santo sotto forma di colomba. Le tre Persone si differenziano inoltre per la loro posizione: la figura di Dio Padre è leggermente arretrata rispetto a quella del Figlio che gli siede sulle ginocchia, e la sfera con l’immagine della colomba si trova dinanzi al Figlio. Questa disposizione delle Persone trinitarie è dettata dalla dottrina ecclesiale, secondo la quale al Padre spetta il posto più indietro in quanto Egli è il principio, e il Figlio e lo Spirito Santo devono stare in primo piano essendo coloro che eseguono e compiono la volontà del Padre. L’icona nel suo complesso doveva esprimere con chiarezza il dogma della Santa Trinità. Le differenze nell’aspetto esteriore delle figure stanno ad indicare che la Trinità è formata da tre ipostasi divine, mentre la disposizione delle tre Persone su un unico asse, che ha origine in Dio Padre, e le caratteristiche comuni simboleggiano l’unica essenza trinitaria. Il nimbo crociato, che è normalmente attributo di Cristo (poiché ricorda la crocifissione), circonda qui
183. Boris e Gleb, 1377 circa, dalla chiesa di Boris e Gleb “dei falegnami” nel quartiere dei mercanti di Novgorod; museo di Novgorod.
283
anche il capo di Dio Padre, ed accanto al simbolo dello Spirito Santo compaiono le prime lettere del nome di Cristo (aggiunte anche accanto alla figura di Dio Padre). Questo evidente accenno dell’artista all’essenza trinitaria come ad un’essenza cristologica (nella sua intenzione, infatti, tutte e tre le Persone della Trinità figurano come tre diverse incarnazioni di Cristo) si spiega col fatto che Dio nella Chiesa ortodossa era considerato soprattutto nel suo aspetto neotestamentario, cioè come Gesù Cristo. Dal contenuto teologico dell’icona si deduce senza ombra di dubbio che essa fu dipinta col preciso scopo di dimostrare l’unità delle tre Persone trinitarie; d’altra parte questa chiarificazione poteva rendersi necessaria solo qualora esistessero opinioni contrastanti al riguardo. Perciò è naturale supporre che l’icona della Paternità sia stata dipinta a Novgorod, e proprio nel momento in cui la Chiesa iniziava la sua lotta contro l’eresia degli strigol’niki, una setta che metteva in dubbio i dogmi fondamentali della Chiesa stessa. Il dogma della Santissima Trinità, incomprensibile e inspiegabile razionalmente, doveva destare in loro un particolare senso di ribellione, e lo schema iconografico della Paternità fu adoperato proprio per fornire un’ulteriore dimostrazione dell’idea trinitaria. Nella storia della cultura novgorodiana, data la mancanza di una reale autorità principesca, molto era determinato dalla politica della sede arcivescovile. Tra i vescovi di Novgorod, che furono ricordati per secoli per la loro buona amministrazione, ricordiamo Vasilij (1331-1352), Moisej (1324-1329, 1352-1359), Evfimij (1424-1458). Preoccupandosi di mantenere il prestigio della cattedra e svolgendo le proprie funzioni secondo coscienza, essi costruirono nuove chiese e restaurarono le antiche, commis-
sionarono manoscritti, icone e vasellame liturgico, indicando spesso il nome del «costruttore» e una scadenza per l’esecuzione di questo o quell’oggetto. Una testimonianza esemplare del buon governo del primo tra questi vescovi sono le porte d’oro, da lui costruite per la cattedrale della Sofia nel 1336 e sottratte a Novgorod da Ivan il Terribile, che le portò nell’Aleksandrovskaja sloboda, presso Mosca, dove si trovano tuttora. Sul montante centrale della porta, che la divide in due battenti, è collocato anche il ritratto del committente, nelle sembianze di una figurina prostrata ai piedi del Cristo assiso in trono. La scritta esplicativa suona: «l’arcivescovo Vasilij in preghiera». Anche Evfimij ii fu molto attivo nel suo governo, e i suoi disperati sforzi per conservare la libertà a Novgorod Velikij si espressero nella ristrutturazione di antiche chiese semidistrutte, che egli poi ricolmò di sontuosi arredi liturgici. Alla figura di Evfimij sono legati in particolare due capolavori nell’arte del ricamo, che ormai da tempo hanno lasciato Novgorod: la Sindone del 1441, rinvenuta nella città di Pu/ež sul Vol- 186 ga e conservata ora nei Musei del Cremlino di Mosca, e la piccola Deesis a figura intera, ad essa stilisticamente affine, giunta prima nel monastero della Trinità di san Sergio ed ora conservata nella Galleria Tret’jakov. Se le cronache non parlassero della Sindone di Pu/ež, sarebbe difficile credere all’origine novgorodiana di questi due oggetti, eseguiti in uno stile straordinariamente elegante, con delicatissime iridescenze da un colore all’altro e raffinati ornamenti. Una certa sproporzione della figura del Cristo morto sulla Sindone e delle figure che lo circondano è compensata dalla stupenda gamma cromatica che ha in sé un’atmosfera fiorita e primaverile. Ancora più bella è la Deesis. Nonostante la sua frammentarietà, essa si può annoverare tra i dieci
184. Discesa agli inferi, fine xiv secolo, icona di Tichvin, scuola di Novgorod; San Pietroburgo, Museo Russo.
185. Paternità, inizio xv secolo, scuola di Novgorod; Mosca, Galleria Tret’jakov.
284
capolavori del ricamo anticorusso. La fantasia decorativa delle ricamatrici abbraccia tutti i particolari dell’opera, dalle nicchie in cui sono collocate le figure alle ali degli angeli, ornate con occhi di pavone. A differenza dell’affresco, l’iconografia di Novgorod era legata molto strettamente all’arte locale, ed aveva un’indole più democratica. La pittura su tavola, anche solo per i suoi costi contenuti, era più accessibile al popolo che non l’affresco: un’icona poteva infatti essere commissionata anche da una persona non troppo benestante. Perciò i gusti della massa si riflettevano principalmente nell’icona. Alla fine l’icona ebbe il sopravvento sull’affresco e la creatività locale novgorodiana del xv secolo si concentrò soprattutto nel campo dell’iconografia. Molti storici dell’arte prerivoluzionari consideravano l’iconografia come un’arte pura, non legata alla realtà, semplice incarnazione di idee religiose, poetiche e pittoriche; ma è difficile immaginare un concetto più errato dell’iconografia. Così come ogni altra sfera della vita spirituale del popolo, essa era strettamente legata ai suoi interessi vitali, come dimostra chiaramente l’icona della Paternità. Estremamente indicativa è anche la scelta dei santi rappresentati nelle icone di Novgorod: vi troviamo vi/5 soprattutto Nicola, Giorgio, Elia, Biagio, Floro e Lauro, Parasceve Pjatnica, Anastasia. Nella coscienza popolare tutti questi santi avevano un rapporto diretto con lo svolgersi della vita contadina e cittadina. A san Nicola si ricorreva in tutti i casi difficili, ed era inoltre il protettore di chi viaggiava per terra e per mare; san Giorgio era considerato il difensore dagli assalti del nemico e protettore dei lavori dei campi; il profeta Elia dissetava la terra con la pioggia e favoriva i raccolti; san Biagio, ed anche i santi Modesto o Spiridione, spesso raffigurati con lui, erano considerati i protettori del bestiame; Floro e Lauro erano venerati come protettori degli stallieri; Parasceve Pjatnica e Anastasia erano le protettrici del commercio ed anche del matrimonio. Tutti questi santi, secondo la credenza popolare, erano in grado di recare un concreto aiuto e giovamento. In ogni izba contadina o casa di città non mancava mai qualche icona con questi santi. Erano molto popolari anche le icone domestiche, destinate alla preghiera e alla venerazione nelle case. Stupendi esempi di queste icone, quasi altarini in miniatura, sono due icone pieghevoli, una delle quali si trova alla Galleria Tret’jakov e l’altra al Museo storico. Entrambe conservano l’inconfondibile profumo dell’antico stile di vita popolare e ci trasportano nel vivo della realtà del xv secolo. Il tipo iconografico preferito a Novgorod era l’icona raffigurante un singolo santo. Se anche venivano dipinti vari santi, essi non erano comunque legati da un’azione comune, ma erano rappresentati frontalmente, con lo sguardo fisso sullo spettatore. Si otteneva così la massima forza espressiva dell’icona. Il fedele in preghiera non doveva impegnarsi per comprendere cosa accadeva nell’icona: era essa a stabilire subito il rapporto necessario tra l’oggetto di culto e il fedele. Proprio in questo modo è dipinta la stupenda icona a sfondo rosso di san Demetrio di Tessalonica, conservata nel museo di Recklinghausen, e due altre icone, anch’esse a sfondo rosso, del profeta Elia, ora alla Galleria Tret’jakov. Tutte queste opere risalgono alla prima metà del xv secolo. Particolarmente espressiva è l’icona del profeta Elia proveniente dalla collezione di I.S. Ostrouchov. Il santo ricorda Dio Padre nell’icona del-
la Paternità; anch’egli colpisce per la tremenda forza e potenza da cui è pervaso. La fede popolare legava alla figura di Elia il temporale, la pioggia e il fuoco. Come Zeus, egli era padrone degli elementi celesti e poteva comandare al tuono, far scrosciare la pioggia, scagliare saette. Gli iconografi di Novgorod amavano raffigurare san Giorgio, che era rappresentato quasi sempre a cavallo, trionfante sul drago. Moltissime icone di questo tipo sono state eseguite o nella stessa Novgorod o nelle sue vaste province settentrionali, mentre questa tipologia era poco conosciuta in altre regioni. La popolarità di san Giorgio a cavallo a Novgorod è molto significativa. Nell’arte, strettamente legata agli ambienti principeschi, si preferiva un altro tipo iconografico, più severo e statico, in cui san Giorgio era raffigurato frontalmente e completo di armatura. Era il san Giorgio dei principi, il protettore dei vertici della società feudale. Invece alle grandi masse popolari veniva imposta di preferenza l’immagine di san Giorgio a cavallo che si rifaceva alle narrazioni fantastiche o folcloristiche sul cavaliere che lottava col drago cattivo e liberava la bellissima principessa. Inoltre la memoria liturgica di san Giorgio ricorreva il 25 aprile, giorno in cui iniziava la primavera, si liberavano le mandrie di cavalli, si avvicinava l’epoca del lavoro nei campi. In tutti questi preparativi primaverili a san Giorgio era riservato il ruolo di attivo aiutante. Secondo la credenza popolare, il 23 aprile usciva egli stesso su un cavallo bianco per proteggere il bestiame lasciato in libertà. È naturale che in un simile contesto di pensiero all’immagine di san Giorgio fosse riservata una particolare venerazione a Novgorod e nei suoi vasti possedimenti boschivi e di campagne. Le migliori icone novgorodiane di san Giorgio furono dipinte nel xv secolo, e tra queste anche la bellissima icona del Museo Russo: il cavallo bianco galoppa veloce, voltando- vi/6 si agilmente, san Giorgio conficca una lancia appuntita e sottile nelle fauci spalancate del drago. Non c’è traccia di lotta, nessun dettaglio. Giorgio vince perché non può non vincere. I colori splendenti dell’icona, l’accostamento del fondo cinabro col bianco del cavallo creano un’atmosfera luminosa e gioiosa. È stato già osservato come le deviazioni dal modello si incontrino soprattutto nelle opere di origine provinciale, inferiori per qualità alla produzione della capitale. Tuttavia esistono parecchie icone assai originali, dipinte indubbiamente a Novgorod e per di più da artisti di alto livello. Caratteristica in questo senso è l’icona della chiesa di San Bia-
186. Sindone, 1441, scuola di Novgorod, dalla chiesa della Risurrezione a Pu/ež sul Volga; Cremlino di Mosca, Palazzo dell’armeria.
285
gio nel quartiere della Sofia (oggi custodita al Museo storico di Mosca). Essa raffigura i santi Biagio e Spiridione, ai piedi dei quali pascolano pecore, capre, vacche e cinghiali. I santi sono chiamati a proteggere il bestiame, a prendersene cura. Questa particolare credenza riguardo a Biagio e Spiridione si fonda sulle loro Vite bizantine, in cui figurano entrambi come pastori. Ma a Novgorod sul culto di Biagio si stratificarono anche le credenze relative al suo predecessore precristiano, Veles, il «dio delle mandrie». Viene involontariamente da pensare alle osservazioni etnografiche secondo le quali i contadini rivolgevano a san Biagio non tanto preghiere, quanto formule magiche. Per quanto riguarda le numerose icone novgorodiane di Floro e Lauro, in cui i due santi sono generalmente rappresentati con mandrie di cavalli, tale chiave rappresentativa non trova conferma in tradizioni religiose conosciute. Non è escluso che questa tipologia si sia formata sul terreno di credenze puramente popolari. Più tardi, nei secoli xvii e xviii, quando i teologi incominciarono ad indagare sull’origine dell’icona di Floro e Lauro con i cavalli, e non risultando dalla letteratura agiografica alcuna conferma al proposito, le icone di questo tipo furono messe seriamente in discussione. Ma nel xv secolo queste icone venivano dipinte nelle migliori botteghe, ne circolavano centinaia di esemplari e non destavano alcuna critica né da parte delle autorità ecclesiastiche di Novgorod, né tantomeno da parte dei committenti. La libera creatività degli iconografi novgorodiani, non troppo irrigidita dai canoni ecclesiali, si manifesta anche nella splendida icona convenzionalmente chiamata 187 Novgorod in preghiera (Museo di Novgorod). La sua datazione al 1467 è certa. L’icona vera e propria si limita solo al registro superiore, in cui è raffigurata la Deesis. La scritta che l’accompagna dice: «i servi di Dio Grigorij, Mar’ja, Jakov, Stefan, Evstej, Timofej, Olfim e i bambini pregano il Salvatore e la Purissima Madre di Dio per i loro peccati». Nessun’altra icona dà un’idea tanto chiara dell’aspetto degli abitanti dell’antica Novgorod. La forma convenzionale lascia qui il posto a uno schema iconografico concreto, quasi un’osservazione diretta. Infine ancora un’altra opera pittorica certifica lo strettissimo rapporto tra l’arte novgorodiana e la storia della vi/ città: è l’icona della Battaglia tra gli abitanti di Novgorod 21 e Suzdal’, o del Miracolo dell’icona della Madre di Dio del Segno, di cui abbiamo già parlato. Di questo soggetto esistono diversi esemplari, dei quali il più antico ed anche il migliore ha la medesima origine dell’icona di Novgorod in preghiera, ed è conservato anch’esso nel museo di Novgorod. Come la precedente icona, anche questa va datata alla seconda metà del xv secolo. Il soggetto dell’icona del Miracolo dell’icona del Segno fu riprodotto su tavola all’epoca in cui Novgorod, cedendo all’assalto di Mosca, perse gli ultimi resti della sua passata indipendenza. Il ricordo delle antiche vittorie sugli abitanti di Suzdal’, nei panni dei quali l’autore dell’icona e i suoi committenti identificavano i Moscoviti, avrebbe dovuto, secondo loro, incitare i Novgorodiani a battersi disperatamente per la propria indipendenza. E benché da questa battaglia Mosca fosse uscita vincitrice, anche in seguito si continuò a dipingere icone sul tema del Miracolo. Ma sarebbe sbagliato valutare questa icona solo in base al suo soggetto o, ancora peggio, ricercarvi una novità tematica. A Novgorod si producevano molte icone, dipinte secondo rigidi canoni iconografici, che in sé non contenevano nulla di specificamente novgorodiano. Essi venivano
ripetuti migliaia di volte senza distinzioni sostanziali in icone dipinte anche in altre città. Le deviazioni dalla norma e le peculiarità dei soggetti delle icone novgorodiane derivavano generalmente, come è naturale, dalle condizioni di vita locali. L’autentica sfera di applicazione della fantasia creativa e della maestria degli iconografi novgorodiani stava nell’aspetto stilistico, figurativo dell’icona. La peculiarità che distingue l’iconografia novgorodiana in generale da quella degli altri territori si identifica appunto nella sua forma artistica: la composizione, il disegno, il colorito. Ora che le icone non sono più soltanto un oggetto di culto, le loro qualità estetiche vengono alla luce in tutta la loro pienezza, e sono oggetto di un’attenzione sempre maggiore. E sotto questo aspetto le icone novgorodiane, come quelle moscovite, sono ancora più interessanti, essendo autentiche opere d’arte. I tratti più caratteristici delle icone novgorodiane sono la laconicità delle loro composizioni, il disegno fine e un po’ rigido, la limpidezza dei colori allo stato puro, la tecnica ineccepibile. Le icone di san Demetrio di Tessalonica, del profeta Elia, dei santi Biagio e Modesto, ed altre ancora, testimoniano che la codificazione definitiva di tutte queste peculiarità dell’iconografia novgorodiana ebbe luogo nella prima metà del xv secolo, ed anche il successivo sviluppo della pittura locale si mantenne ad un livello eccezionalmente alto. Ci sono rimaste molte icone novgorodiane della seconda metà del xv secolo la cui dignità artistica è tale da poterle annoverare tra le migliori opere dell’arte novgorodiana in tutti i secoli della sua esistenza. Tali sono per esempio cinque icone delle feste provenienti dalla chiesa della Dormizione della Madre di Dio a Volotovo: la Presentazione al tempio, la Resurrezione di Lazzaro, la Trasfigurazione,
187. Deesis e novgorodiani in preghiera, 1467, scuola di Novgorod; museo di Novgorod.
286
la Discesa agli inferi (Museo di Novgorod) e la Dormizione (Ermitage), alcune icone dall’iconostasi della cattedrale del188 la Dormizione nel monastero di Kirill di Beloozero, e una parte del registro dei profeti dalla stessa iconostasi (Galleria Tret’jakov), tutte dipinte alla fine del xv secolo. Esse sono caratterizzate da una bellezza fredda, quasi esteriore. Ma il loro disegno sicuro, senza errori, le composizioni chiare, i colori smaglianti lasciano un’impressione indimenticabile. La pittura di queste icone si può paragonare alla bellezza di una pietra sapientemente levigata. Esse rallegrano la vista con la perfezione delle loro forme e lo splendore della tecnica esecutiva. Molto simile stilisticamente a queste icone è la serie delle 189 famose doppie tavole della cattedrale della Sofia, costituita da venticinque piccole icone dipinte su una base in tela, o levkas (Museo di Novgorod, Galleria Tret’jakov, Museo Pavel Korin a Mosca, Museo Russo a Pietroburgo). Le figure sono dipinte sui due lati, per un totale di cinquanta. Queste icone venivano collocate sul leggio al centro della chiesa nelle festività, ed erano sostanzialmente oggetti di culto. Le figure si susseguono secondo l’ordine del calendario liturgico. Le tavole della Sofia sono una serie unica nel suo genere, di alta qualità stilistica e integralmente conservata. Vi si possono paragonare solamente le tavole della cattedrale della Natività di Suzdal’, ora conservate nel museo cittadino, dipinte però in epoca più tarda. E tuttavia nelle tavole della Sofia, nonostante l’alto livello qualitativo, si colgono già i primi sintomi della decadenza della tarda iconografia novgorodiana: la complessità della composizione, la degenerazione delle forme, la tendenza a una esposizione rigidamente dogmatica del tema. Tutto ciò è in parte conse-
guenza dell’influsso dell’arte moscovita sull’iconografia di Novgorod. Fin dalla metà del xv secolo Mosca incominciò ad esercitare una sensibile influenza sull’arte delle altre città russe. Entrando lentamente a far parte dello stato centralizzato, le città perdevano la loro individualità artistica. I tratti peculiari della loro pittura scomparivano per lasciare il posto allo stile unico, idealmente magnifico, ma anche totalmente uniforme, che aveva preso piede a Mosca. In un primo tempo questo processo di livellamento ebbe un carattere episodico, ma nell’ultimo trentennio del xv secolo andò rafforzandosi, per diventare poi dominante a cavallo tra il xv e il xvi secolo. Il quadro dello sviluppo della pittura nel Nord sarebbe incompleto se ci limitassimo soltanto a considerare i monumenti di Novgorod e lasciassimo da parte le icone dipinte nei vasti domini di questa città. Nei remoti territori settentrionali, tra laghi e foreste, l’iconografia era solitamente un’attività secondaria svolta dal clero nero e bianco, dai villici e dai contadini. Lavorando in solitudine, lontani dalle botteghe iconografiche professionali, con metodi artigianali, essi naturalmente non potevano trasmettere conoscenze qualificate ai loro apprendisti, né tantomeno fondare una vera e propria scuola. Normalmente le icone della «scuola del Nord», dipinte nella provincia di Novgorod, si rifanno ai modelli novgorodiani, ma se ne distinguono per la qualità inferiore. Tuttavia anche in questa massa di opere mediocri si incontrano a volte delle belle icone, dotate di una loro originalità, una freschezza, di un gusto popolare che pervade anche soggetti estremamente dogmatici. In nessun altro paese sono state dipinte così tante icone come nella Rus’, e ciò è dovuto in parte a condizioni locali favorevoli allo sviluppo dell’iconografia. Nella Rus’ c’erano molti boschi. Il pino e il tiglio si prestavano ottimamente ad essere lavorati con accetta e pialla. I vasti rapporti commerciali permettevano l’uso di pigmenti rari. In molte zone si usavano a quanto pare anche colori di produzione locale. Già nei secoli xv-xvi incominciò a formarsi un organico di artisti locali. Ma tuttavia queste circostanze non basterebbero da sole a spiegare la fioritura dell’iconografia russa. Condizioni favorevoli esistevano anche nell’Oriente greco e nei Balcani, ma in queste zone lo sviluppo dell’iconografia non fu così vasto. Dunque nella Rus’ dovevano esistere dei motivi particolari per lo sviluppo dell’arte iconografica, ed essi sono facilmente individuabili. La superiorità dell’iconografia sulla pittura murale era legata al fatto che l’architettura religiosa nella Rus’ era prevalentemente in legno. Le chiese in muratura di Kiev, Novgorod, Vladimir e Mosca erano come una goccia nel mare rispetto alla quantità di chiese in legno che sorgevano a quel tempo sia al Sud che nelle immense distese boschive del Nord. Ornare queste chiese in legno con pitture murali era impensabile: non rimaneva quindi che decorarle con icone, e tali e tante da sostituire gli affreschi delle pareti, se non del tutto, almeno nelle parti principali. Ecco perché le icone russe sono numerosissime e offrono una grande varietà di soggetti. Nella storia dell’arte dell’antica Rus’ esse hanno un posto altrettanto rilevante come i mosaici nella storia dell’arte bizantina e gli affreschi in quella degli Slavi meridionali. Si può pensare che già in epoca molto antica si fosse cercato di organizzare sistematicamente le icone delle chiese. Dopo l’invasione dei Mongoli, quando si interruppe la costruzione di chiese in muratura, ma l’iconografia non soltanto continuò ad esistere, bensì incominciò a svilup-
188. Battesimo, 1497 circa, icona dall’iconostasi della cattedrale della Dormizione nel monastero di Kirill di Beloozero; Mosca, Galleria Tret’jakov.
287
dedicata la chiesa. Ci sono rimaste molte di queste icone, tra cui le più antiche risalgono addirittura al xii secolo. Poiché le icone locali costituivano la parte principale del patrimonio iconografico di ogni chiesa, esse venivano collocate nei posti più visibili, cioè davanti alla balaustra del santuario. L’ordine locale, inoltre, non costituiva un insieme dogmatico immutabile, come la Deesis. Le icone locali si potevano togliere, spostare o addirittura sostituire con altre icone. Questo spiega perché dai secoli xiv-xv ci siano giunte soltanto icone locali isolate ed eterogenee, e non si sia conservato nessun ordine locale completo. Proprio per questo la storia dell’ordine locale appare poco chiara, indistinta, incerta e spesso lascia erroneamente dedurre che esso sia il registro dell’iconostasi di origine più tarda. Nel periodo in cui le icone locali incominciarono a disporsi su un’unica superficie verticale ampliando la Deesis, e ciò accadde probabilmente nei secoli xiii-xiv, l’evoluzione dell’iconostasi ebbe una svolta sostanziale: essa incominciò a trasformarsi in una parete chiusa. Ma poi l’iconostasi incominciò a crescere in altezza, trasformandosi in una parete non solo chiusa, ma anche alta. Nelle chiese in muratura affrescate i fedeli dovevano poter vedere l’affresco nel santuario: la Madre di Dio o il Cristo nella conca absidale e i registri inferiori raffiguranti l’eucaristia e i santi. Perciò nelle chiese in muratura la balaustra del santuario conservò a lungo la foggia di un muretto basso o di un portico sovrastato da una piccola Deesis, al di sopra della quale si scorgevano distintamente gli affreschi dell’abside. Su queste balaustre si evitava di collocare grandi icone, poiché avrebbero celato agli occhi dei fedeli l’affresco dell’abside. A Bisanzio, dove l’architettura religiosa era esclusivamente in muratura, e la tradizione della pittura monumentale era continuata ininterrotta, la balaustra dell’altare e la Deesis su di essa ebbero perciò un’evoluzione molto lenta, e il problema dell’iconostasi alta, che avrebbe nascosto tutto l’arco del santuario, non si presentò essenzialmente fino alla caduta dell’impero. Nella Rus’ invece, nelle chiese di legno, le Deesis davanti al santuario non incontravano alcun ostacolo nell’aumentare di dimensione, poiché esse non celavano nulla se non le nude pareti di tronchi. Perciò essa poteva crescere sia in larghezza che in altezza, limitata solo dalle dimensioni dell’edificio. La tendenza ad innalzare l’iconostasi nelle chiese in legno prese piede anche in quelle in muratura, che nel xiv secolo restavano a lungo, talvolta anche per decenni, prive di affreschi. L’ingrandimento dell’iconostasi avvenne in vari modi, uno dei quali, affermatosi un po’ prima degli altri, consisteva nell’aumentare la dimensione delle icone della consueta Deesis a busto. Di queste Deesis a busto piuttosto grandi ci restano la famosa icona dell’arcangelo Michele della fine del xiv secolo, oggi alla Galleria Tret’jakov (dalla collezione di S.P. Rjabušinskij) e le quattro icone pskoviane della prima metà del xv secolo, appartenenti originariamente a un’unica iconostasi, tre delle quali (il Salvatore, la Madre di Dio e il Battista) si trovano alla Galleria Tret’jakov, mentre la quarta (l’Arcangelo Gabriele) è conservata al Museo Russo. A questo genere appartiene anche la famosa iconostasi di Zvenigorod dipinta da Andrej Rublëv. Un altro metodo prevedeva la trasformazione della Deesis da immagini a busto a immagini a figura intera. Gli esempi più antichi delle grandi Deesis russe a figura intera sono quella della cattedrale dell’Annunciazione al Cremlino di Mosca (1405) e quella della cattedrale della
189. Risurrezione di Lazzaro, 1500 circa, scuola di Novgorod, icona-tavoletta dalla cattedrale della Sofia a Novgorod, museo di Novgorod.
parsi con particolare intensità, la necessità di una sistematizzazione delle icone dovette farsi sentire sempre di più. Le maggiori possibilità in questo senso erano offerte dalla Deesis, una composizione di icone del Cristo, della Madre di Dio e del Battista. Deesis di questo tipo si trovavano sopra le porte centrali della balaustra del santuario. Esse esprimevano l’idea dell’intercessione dei santi presso Cristo in favore del genere umano. E in realtà, aumentando il numero di icone nelle chiese, al nucleo originario delle tre icone della Deesis incominciarono ad aggiungersi anche altre icone che ampliavano la composizione a destra e a sinistra. Questo stadio di crescita della Deesis è ben testimoniato dalla composizione di sette icone del xiv secolo a sfondo rosso, conservata al Museo Russo, in cui alle icone di Cristo, della Madre di Dio e del Battista sono già state aggiunte le immagini degli apostoli Pietro e Paolo e degli 190 arcangeli Michele e Gabriele. L’ampliamento della Deesis fu il punto di partenza per la formazione dell’iconostasi. Ma la Deesis in sé, anche nella sua forma estesa, non è ancora l’iconostasi. La vera storia dell’iconostasi inizia solo con l’aggiunta di altri registri alla Deesis, l’ordine locale, quello delle feste e quello dei profeti. In altre parole, essa inizia nel momento in cui la composizione di icone posta davanti al santuario incomincia a svilupparsi non solo in orizzontale, ma anche in verticale, formando una parete alta e chiusa tra il santuario e l’aula dei fedeli. Quale ordine di icone fu aggiunto per primo alla Deesis: quello inferiore, locale, oppure quelli superiori, le feste e i profeti? Oggi possiamo dire con certezza che fu aggiunto prima l’ordine locale. Per icone locali si intendono le icone principali dell’iconostasi, collocate in basso: la Madre di Dio, il Salvatore e i santi o le feste a cui è 288
la cattedrale del monastero Simonov (dopo il 1405), la cattedrale della Trinità del monastero della Trinità di san Sergio (1425-1427). Pochi brandelli di affresco, spesso insignificanti, sono rimasti solo in quattro edifici dell’inizio del xv secolo: la cattedrale della Dormizione di Gorodok presso Zvenigorod (1400 circa), la cattedrale della Dormizione a Vladimir (1408), la cattedrale del monastero del Salvatore di Andronik a Mosca (1427-1430) e la cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Savva a Storoži presso Zvenigorod (probabilmente 1425-1434). Facendo oggi un bilancio degli affreschi nelle chiese di Mosca e dintorni dalle testimonianze che ne restano, troviamo documentato un numero piuttosto considerevole di affreschi: quattordici. Questa cifra supera ampiamente quella degli affreschi conosciuti a Novgorod, che compreso l’affresco originario nell’abside di Volotovo arrivano solamente a dieci. È chiaro quindi che il ruolo guida nel campo della pittura monumentale nei secoli xiv-xv spettava a Mosca e non a Novgorod, che si collocava solo al secondo posto. Il terzo, quarto e quinto posto erano ripartiti rispettivamente tra Pskov, Tver’ e Nižnij Novgorod. Poiché la maggior parte delle opere della pittura monumentale moscovita è andata perduta, non abbiamo le basi per valutare questa parte essenziale dell’eredità artistica moscovita del xiv secolo. E la situazione non è migliore anche nel campo della pittura su tavola. Migliaia di icone locali e di manoscritti illustrati sono andati distrutti nell’incendio della città conquistata da Tochtamyš nel 1382. Perciò è estremamente difficile ricostruire un quadro autentico dello sviluppo dell’arte figurativa moscovita. Gli oggetti rimasti hanno un carattere più che mai casuale e non servono tanto ad aprire una finestra su un mondo scomparso, quanto a destare perplessità, a porre domande, a creare enigmi. Non sappiamo nemmeno con certezza quale aspetto avesse l’interno di una chiesa russa tra il xiv e il xv secolo, poiché quasi tutte le chiese antiche sono state sottoposte in seguito a molteplici rifacimenti. Ma laddove mancava una decorazione delle pareti e l’iconostasi conservava ancora l’aspetto di una balaustra bassa davanti al santuario, dobbiamo supporre che fossero ampiamente usati tessuti decorativi ed icone ricamate. Queste ultime erano probabilmente molto più diffuse di quanto ora possiamo immaginare. Non sempre si riesce a comprendere fino in fondo anche la funzione di certe opere conservate. Uniche nel loro genere sono, per esempio, tre grandi icone, menzionate nelle annotazioni delle cronache come «aere» (santi veli): una Deesis col Salvatore non fatto da mano d’uomo e santi del 1389, l’Eucaristia con scene della vita della Madre di Dio, eseguita tra il 1410 e il 1425 (entrambe al Museo storico di Mosca) e ancora una Eucaristia del 1485 (Museo di Rjazan’). Il primo velo fu ricamato da Marija Tverskaja, vedova del gran principe moscovita Simeon il Superbo, per una delle chiese di Mosca, probabilmente al Cremlino; il secondo è opera di Agrafena, figlia del principe Konstantin di Suzdal’-Nižnij Novgorod, ed era destinato alla cattedrale della Natività della Madre di Dio a Suzdal’; il terzo infine fu ricamato dalla grande principessa Anna di Rjazan’ per la cattedrale della Dormizione di Perejaslavl’-Rjazanskij (l’odierna Rjazan’). Già solo il fatto che si parli di opere monumentali, che raggiungono una larghezza di oltre due metri, pone un interrogativo sul loro impiego. È stata avanzata l’ipotesi che questi veli ricamati fossero appesi sulla parete dell’abside dietro l’altare, come a colmare la mancanza dell’affresco. I due veli raffi-
190. Iconostasi della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione a Kiži, xviii secolo.
Dormizione a Vladimir (1408). Il terzo modo per ingrandire l’iconostasi in verticale, infine, prevedeva l’aggiunta alla Deesis di nuovi ordini di icone: quello delle feste e quello dei profeti. Il primo ordine delle feste completo nella Rus’ è quello della cattedrale dell’Annunciazione (inizio xv secolo), e i primi ordini dei profeti si trovano nella cattedrale della Dormizione a Vladimir (1408) e nella cattedrale della Trinità della lavra della Trinità di san Sergio (1425-1427). Non è difficile notare come le icone di Novgorod e Pskov rappresentino dei tentativi relativamente timidi di cambiare la foggia originaria dell’iconostasi, mentre le opere moscovite portano delle trasformazioni realmente innovative. Finora non abbiamo motivo di ritenere che le grandi Deesis a figura intera siano nate in qualche altra località della Rus’ prima che a Mosca. La prima artefice della classica iconostasi russa alta fu probabilmente Mosca e non Novgorod. E non è un caso. Via via che Mosca diventava la città principale di tutta la Rus’ nordorientale e il centro capace di riunire in uno stato unitario i principati russi frazionati, la sua arte si trovò a dover affrontare e risolvere compiti estremamente impegnativi, cui le altre città e principati non sarebbero più stati in grado di far fronte. L’intensa vita artistica di Mosca era legata anche al suo ruolo di centro religioso di tutta la Rus’ e sede del gran principe. Per la sua vastità e ramificazione la pittura moscovita non aveva pari. L’opinione secondo cui il centro della pittura ad affresco nella Rus’ dei secoli xiv-xv fosse Novgorod si basa solo sugli affreschi conservati, che a Novgorod erano effettivamente di più che negli altri centri artistici russi. Ma la pittura ad affresco ebbe un intenso sviluppo anche a Mosca, dove purtroppo gran parte del patrimonio di pittura monumentale è andato perduto. Non si sono conservati gli affreschi che un tempo adornavano le cattedrali della Dormizione (1344) e dell’Arcangelo Michele (1344-1346 e 1399) nel Cremlino, del Salvatore al bosco (1345-1346), la chiesa di San Giovanni Climaco (1346) ed anche la cattedrale della Dormizione a Kolomna (1392), le chiese della Natività della Madre di Dio e dell’Annunciazione al Cremlino (1395, 1405), 289
guranti l’Eucaristia (quello di Suzdal’ e quello di Rjazan’) potrebbero confermare questa supposizione, poiché proprio sulla parete dietro l’altare venivano solitamente dipinti affreschi sul tema della Comunione degli apostoli al corpo e al sangue di Cristo. I ricami sono attribuiti dalle cronache a tre nobili principesse, e questo, come sappiamo, indica che esse dirigevano i lavori nei salotti in cui si eseguivano tali ricami e probabilmente anche una loro partecipazione in prima persona. L’alto rango delle autrici doveva garantire già in partenza la qualità del lavoro: e in effetti abbiamo a che fare con dei capolavori del ricamo figurato, e con modelli iconografici non meno straordinari. Fra le tre città, Mosca possiede il velo più antico e stupendo. Nel mezzo, il posto centrale è riservato all’immagine del Salvatore non fatto da mano d’uomo sul sudario, di fronte al quale stanno in preghiera la Madre di Dio, il Battista, gli arcangeli Michele e Gabriele e i metropoliti di Mosca Maksim, Teognoste, Petr e Aleksij. Più in basso troviamo le figure a busto di alcuni santi: Boris, Gleb, Aleksij uomo di Dio, Nicola il Taumaturgo, Gregorio il Teologo, il grande martire Nikita, Demetrio di Tessalonica e il gran principe Vladimir. Sui bordi sono raffigurati i quattro evangelisti nei medaglioni e le schiere celesti rappresentate da venti angeli. Cosa significa questa composizione iconografica unica nel suo genere? Notiamo prima di tutto che essa non ha alcun intento commemorativo, poiché mancano del tutto i santi patroni della famiglia della committente, anche quelli del marito e del padre morti da tempo, il gran principe Simeon il Superbo (1353) e il gran principe di Tver’, Aleksandr Michajlovi/, ucciso mentre si trovava presso l’Orda (1339). Ma ricordiamo che Marija fu battezzata nella cattedrale del Salvatore della Trasfigurazione a Tver’, e sepolta nella cattedrale del monastero del Salvatore al bosco al Cremlino; infine il metropolita Aleksij, morto nel 1385, fu il fondatore del monastero del Salvatore non fatto da mano d’uomo sulla Jauza, ripetutamente devastato dai Tatari, poiché sorgeva nei dintorni della città verso gli insediamenti dell’Orda d’oro. Con tutta probabilità i veli furono eseguiti in un monastero di Mosca, facilmente quello del Salvatore al bosco. Per noi è particolarmente interessante la parte centrale del velo, dove compare la prima Deesis a figura intera, il prototipo delle tre iconostasi eseguite a cavallo tra il xiv e il xv secolo ed attribuite a Teofane il Greco e Andrej Rublëv. Naturalmente è inutile dire che i ritratti dei metropoliti Teognoste e Aleksij di Mosca, contemporanei di Marija, erano per lei storia viva: vivendo al Cremlino essa li vedeva non come santi venerati da tutta la Russia, ma come uomini in carne ed ossa nella loro esistenza quotidiana e spirituale. Il velo di Marija Aleksandrovna fu ricamato su un di191 segno preparatorio, tracciato in grigio e rosa sulla base di seta. Quale che fosse il maestro invitato dalla principessa Marija, nel suo aspetto definitivo il velo è risultato uno straordinario esempio di lavoro femminile, che combina una composizione nel complesso rigidamente simmetrica con fili di seta dai colori straordinariamente teneri e ricercati per il ricamo delle figure. Una maestria fuori dal comune si esprimeva spesso proprio nell’attività artistica dei salotti femminili, in cui ferveva un’attività sommessa, quasi inosservata, ma anch’essa artisticamente valida. Ci sono rimaste parecchie centinaia di opere del ricamo anticorusso, questa variante di arte figurativa, la «pittura con l’ago», il cui autentico valore storico-artistico ha
191. Velo di Marija Tverskaja, 1389, Mosca, icona ricamata dalla collezione P.I. Š/ukin; Mosca, Museo storico.
trovato finalmente il suo giusto riconoscimento solo di recente. Il xv secolo vide nascere e consolidarsi l’importanza di Mosca come centro artistico. La presenza della sede metropolitana e la nomina del greco Teognoste a questa cattedra, e in seguito di Kiprian, strettamente legato alla cultura greca, e del greco Fozio, diedero libero accesso a Mosca agli artisti greci provenienti da Costantinopoli. Già questa era una garanzia dell’alta professionalità dell’arte moscovita. Le fonti ricordano sovente anche gli allievi russi dei pittori greci, che spesso davano prova della loro abilità e non di rado rivaleggiavano addirittura con gli artisti bizantini. Mentre nel xiv secolo l’arte greca e quella russa godevano praticamente di pari diritti, sul finire del secolo l’arte locale, diffondendosi e consolidandosi un decennio dopo l’altro, riuscì infine a soppiantare del tutto quella greca. Un insigne esponente dell’arte greca a Mosca fu Teofane il Greco, giunto a Mosca da Novgorod attorno al 1390. Le cronache fanno menzione di tre chiese di Mosca dipinte da lui: la Natività della Madre di Dio (1395), l’Arcangelo Michele (1399) e l’Annunciazione (1405). Abbiamo anche ragione di pensare che nel 1392 abbia affrescato pure la cattedrale della Dormizione a Kolomna. Tuttavia nessuno di questi affreschi si è conservato. Ci sono rimaste solo alcune icone di Teofane, tra le quali una (attribuita a Teofane) proviene dalla cattedrale di Kolomna, una dalla chiesa di San Giovanni Battista nei sobborghi di Kolomna e le altre dalla cattedrale dell’Annunciazione nel Cremlino di Mosca. Dalla cattedrale di Kolomna proviene l’icona a due facce della Madre di Dio del Don, sul cui recto è dipinta la Tenerezza, e sul verso la Dormizione. La composizio- 192ne della Dormizione testimonia, tra l’altro, che l’icona 193 fu eseguita appositamente per la cattedrale di Kolomna, dedicata appunto alla Dormizione della Madre di Dio. Poiché la cattedrale fu affrescata e consacrata nel 1392, anche per l’icona della Madre di Dio del Don si può stabilire la stessa datazione. L’artista che dipinse questa icona è riuscito ad esprimere in modo eccellente la tenerezza della madre verso il figlio e il moto impetuoso e fiducioso di Gesù bambino. Il gesto cauto della mano destra di Maria, il movimento del capo e i tratti del volto, tutto è autenticamente vivo. Sul verso dell’icona è raffigurata la morte della Madre di Dio. Il suo esile corpo sdraiato con le braccia incrociate sul petto riposa su un alto giaciglio, coperto da bianchi veli funebri. Al capezzale e ai piedi, in due gruppi di sei, sono raffigurati gli apostoli piangenti e due santi. Dietro al letto, sullo sfon290
192-193. Madre di Dio del Don, 1392; Dormizione, verso della stessa icona dalla cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca; Mosca, Galleria Tret’jakov.
pittorica di una delle idee fondamentali, elaborate in seno all’arte religiosa orientale in tutta la sua secolare esistenza. Poiché le icone della Deesis dell’Annunciazione erano destinate al secondo registro dell’iconostasi e dovevano essere perciò collocate molto in alto, Teofane ha accentuato volutamente i profili delle figure. Ha evitato in ogni modo le curve complesse, gli angoli acuti, le violazioni ingiustificate delle linee di contorno, che si interrompono solo dove gli orli delle vesti si sollevano attorno alle braccia protese in gesto di preghiera. Questo metodo cattura l’attenzione dello spettatore e richiama l’idea dell’intercessione, della supplica. Basta anche un breve sguardo per rendersi conto di quale sottile calcolo stia alla base delle icone di questa Deesis. A suo tempo le figure si stagliavano chiaramente su uno sfondo splendente d’oro. Collocati simmetricamente ai lati dell’icona di Cristo, leggermente chinati, con le braccia protese in avanti, i santi si rivolgevano a lui in atteggiamento di supplica, e questa atmosfera di preghiera si trasmetteva impercettibilmente anche ai presenti. La Deesis raccoglieva in sé i pensieri e i sentimenti di tutti coloro che vi si trovavano davanti e la contemplavano. Era il centro compositivo e logico della struttura della chiesa nel suo complesso, dall’architettura dell’edificio adibito alla celebrazione liturgica fino all’ordinamento della celebrazione stessa. Il merito di Teofane, autore di questa stupenda Deesis (oggi si pensa che essa si trovasse originariamente nella cattedrale di Kolomna nel 1392), sta nel fatto che essa esprimeva il suo contenuto in una forma opportunamente severa e monumentale. Per le loro dimensioni ridotte, le figure a busto delle Deesis del xiv secolo non erano molto adatte a rappresentare l’autentico centro della struttura pittorica della chiesa. Pur esprimendo la stessa idea della Deesis di Teofane, esse rimanevano però al livello di semplici icone. Anche gli iconografi più dotati non riuscivano a trarre da questa composizione più di quanto consentissero le sue dimensioni tradizionali. L’idea universale della Deesis esigeva per principio una forma diversa, più imponente, di quella delle icone normali. Per sortire effetto essa doveva avvicinarsi alle proporzioni dell’affresco. Teofane seppe acutamente cogliere questa incongruenza e la necessità di creare una grande Deesis, perciò ne aumentò drasticamente le dimensioni. Tutte le icone della Deesis dell’Annunciazione superano i due metri di altezza, e la composizione si estende orizzontalmente per oltre 12 metri. Poiché non abbiamo notizia di altre Deesis russe a figura intera in icone precedenti a quelle della cattedrale dell’Annunciazione, non è escluso che questa fosse la prima Deesis a figura
do di un nimbo blu scuro, sotto le ali fiammeggianti di un serafino infuocato, si erge la figura di Cristo. Il suo volto concentrato è impassibile, egli non è toccato dai sentimenti umani della disperazione e del dolore, di cui invece sono in preda gli apostoli. Egli è il re della gloria, disceso dal cielo per accogliere nelle sue mani l’anima della madre. L’apparizione di Cristo è simbolica e invisibile, perciò gli apostoli non si accorgono di lui. Circondando il letto di morte di Maria, essi vi si prostrano e contemplando l’amata figura cercano di imprimersela nella mente. Ma questo momento di addio è molto breve. La candela che era stata accesa da Maria prima di morire e posta presso il letto arde ancora, la fiammella oscilla, la cera cola, e con l’ultimo bagliore viene meno anche ogni speranza. L’icona della Madre di Dio del Don ha un colorito insolitamente intenso per un’icona russa. Non avevano mai ottenuto nulla di simile né gli iconografi di Novgorod, né tantomeno quelli di Mosca, la cui pittura era solitamente priva di una sfumatura drammatica chiaramente espressa. I tratti stilistici dell’icona fanno pensare che il suo autore fosse un artista greco. L’ipotesi molto diffusa che la Madre di Dio del Don sia stata dipinta da Teofane potrebbe essere vera, ma è difficilmente dimostrabile. Le analogie più strette con l’icona della Madre di Dio del Don si ritrovano negli affreschi di Volotovo, in cui alcune figure ricordano in modo sorprendente la tipologia degli apostoli della Dormizione raffigurata sul verso dell’icona. Nello stesso tempo non si può ignorare che dal punto di vista dello stile, e soprattutto del colorito, l’icona si avvicina molto alla Deesis della cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca, dipinta indiscutibilmente da Teofane il Greco. Secondo le cronache, la Deesis, ed anche l’ordine delle feste nel registro immediatamente superiore nell’iconostasi della cattedrale dell’Annunciazione, furono dipinte nel 1405 da Teofane il Greco, Prochor di Gorodec e Andrej Rublëv, ma Teofane non mise mano alle icone dell’ordine delle feste: a lui si devono soltanto le nove icone del vi/ registro principale, e precisamente: il Salvatore, la Madre 16; di Dio, Giovanni Battista, l’Arcangelo Michele, l’Arcangelo 194 Gabriele, Pietro apostolo e Paolo apostolo, Basilio il Grande e Giovanni Crisostomo. Teofane ebbe naturalmente un ruolo determinante nell’esecuzione della Deesis, in cui dominano perciò le caratteristiche proprie del suo stile. Una profonda spiritualità, l’espressività del disegno, la forza drammatica del colorito fanno della Deesis della cattedrale dell’Annunciazione uno dei capolavori dell’arte universale. È il vertice dell’arte teofanesca, incarnazione 291
intera dipinta nella Rus’. Era certamente un obiettivo che stava molto a cuore a Teofane, la cui arte si esprimeva pienamente solo quando dipingeva grandi superfici, quando risolveva problemi artistici importanti e complessi. Alla Deesis dell’Annunciazione si applicano perfettamente le parole di un vecchio studioso dell’arte anticorussa sull’ordine degli apostoli nell’iconostasi russa, che «non è altro che uno sviluppo in piano della cupola delle antiche chiese bizantine e russe», riferendosi al fatto che l’iconostasi aveva sostituito lentamente la pittura murale, poiché infatti ne conteneva tutte le componenti principali. Ma le figure dei santi nella Deesis della cattedrale dell’Annunciazione ricordano tanto le grandiose figure degli antenati nel tamburo della chiesa del Salvatore della Trasfigurazione, che queste parole acquistano un significato quasi letterale. La Deesis dell’Annunciazione è un vero esempio di arte monumentale affine all’affresco. Certamente non si può nemmeno parlare di una trasposizione meccanica dei principi dell’arte monumentale sulla tavola dell’icona: è una combinazione artistica delle migliori conquiste nel campo dell’iconografia e dell’affresco. I profili delle figure finemente tracciati si combinano con uno stile pittorico molto ampio, imponente, la profonda espressività psicologica dei volti con l’espressività dei movimenti e delle pose, le finissime soluzioni cromatiche di ogni singola icona con il loro colorito generale, scuro e solenne secondo lo stile bizantino. Dalla lettera di Epifanij il Saggio su Teofane apprendiamo che l’arrivo del maestro greco a Mosca portò una straordinaria animazione nell’ambiente artistico locale. Gli iconografi moscoviti seguivano attentamente i lavori di Teofane e facevano a gara per accaparrarsi un suo disegno autentico o una copia dei suoi disegni da utilizzare nel proprio lavoro. Attorno a Teofane comparve ben presto anche una cerchia di apprendisti, ricordati già nelle notizie cronachistiche sull’affrescatura della chiesa della Natività della Madre di Dio (1395) e della cattedrale dell’Arcangelo Michele (1399). Ma se ci basassimo soltanto sulle fonti scritte dovremmo concludere che l’arte di Teofane era la forza trainante che determinò in quegli anni lo sviluppo della pittura moscovita. Tuttavia i monumenti rimasti testimoniano che l’arte greca non era l’unica a Mosca, e nemmeno la principale. Alla bottega dello stesso Teofane si possono far risalire solo alcune tra le vi/ opere più significative della fine del xiv secolo: l’icona del 17- Battista di Kolomna, che abbiamo già ricordato, e l’icona 18 miniata quadripartita del Cremlino di Mosca (entrambe
alla Galleria Tret’jakov), la monumentale immagine degli apostoli Pietro e Paolo nella cattedrale della Dormizione del Cremlino di Mosca, ed anche la grande icona dell’inizio del xv secolo (1403 circa) proveniente da Perejaslavl’Zalesskij, sul soggetto della Trasfigurazione (Galleria Tret’jakov). Dopo la morte di Teofane, la sua arte cessò di esercitare qualsiasi influsso sui pittori moscoviti, che si dedicarono prevalentemente a creare una tradizione artistica propria. A questa tradizione è strettamente legata l’opera del grande artista russo Andrej Rublëv. Ci sono rimaste alcune icone dipinte dai predecessori di Andrej Rublëv e dai suoi contemporanei più anziani: tra queste la Discesa agli inferi dalla chiesa della Resurrezione a Kolomna e San Nicola con scene della vita dal monastero di San Nicola di Ugreš’ sul fiume Moscova, conservate ora alla Galleria Tret’jakov. In queste icone vediamo per la prima volta nella storia della pittura moscovita il tipo del santo con la fronte alta e aperta, gli occhi piccoli, vicini alla radice del naso, il naso sottile e diritto e lo sguardo attento: una tipologia che non si incontra nell’arte di Novgorod o di Bisanzio, mentre è caratteristica della pittura moscovita; molte icone ed affreschi locali ripeteranno in seguito questo modello. Nel primo quarto del xv secolo, caratterizzato dall’arte di Andrej Rublëv e dai maestri che condividevano le sue teorie artistiche, nacquero a Mosca ancora parecchie opere, espressione di una corrente stilistica del tutto diversa. Due di queste meritano una trattazione a parte: la doppia icona di san Nicola il Taumaturgo con san Giorgio proveniente dal monastero di Guslica nei dintorni di Mosca, ora conservata al Museo Russo, e il velo ricamato per il sepolcro di san Sergio di Radonež, attualmente al museo storico-artistico di Sergiev Posad. L’immagine di san Giorgio nell’icona di Guslica è un eccezionale prodotto della pittura moscovita. Nel suo nobile sembiante l’ignoto autore ha impresso l’idea di un coraggio senza ostentazione e di un supremo tormento. Contemplando questo volto, giovane ma assorto, entriamo in contatto con un’arte capace di esprimere pensieri molto profondi e pregnanti senza ricorrere all’effetto dell’azione e allo splendore della situazione circostante. Altrettanto importante è l’immagine di san Sergio, eseguita attorno al 1424 per la nuova cattedrale della Trinità. A trent’anni dalla morte del santo i suoi contemporanei e discepoli erano ancora in vita; è possibile perciò che questa immagine sia veramente il ritratto del fondatore del monastero della Trinità. Presentando un’immagine ideale di san
194. Madre di Dio, Teofane il Greco, fine xiv secolo, particolare dell’icona dell’iconostasi della cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca. 195. Giovanni Battista angelo del deserto, fine xiv secolo, particolare dell’icona dalla chiesa di San Giovanni Battista a Gorodiš/e presso Kolomna; Mosca, Galleria Tret’jakov.
292
Sergio negli episodi della sua vita, il velo richiama le sue migliori qualità: il raccoglimento nella preghiera, la fermezza nelle convinzioni, il dono della veggenza, il dolore per le sorti della Russia, il desiderio di pace, amore e bene. In questo penetrante ritratto, privo di ogni bellezza esteriore, si coglie l’atmosfera di un’epoca che diede alla storia russa esempi di tenacia, coraggio, ascesi monastica ed afflizione per la Russia dilaniata. Contemplando san Giorgio e il bea to Sergio è come se vedessimo anche Dimitrij Donskoj, Peresvet e Osljaba, Epifanij il Saggio, Andrej Rublëv con la sua «brigata» e molte altre figure di Russi, al cui impegno e valore militare si deve la vittoria di Kulikovo e l’inizio della rinascita nazionale. L’icona di san Nicola e san Giorgio e il velo di san Sergio di Radonež furono eseguiti proprio al tempo in cui Rublëv incominciava a lavorare da solo, ma tutto sommato queste due opere si possono considerare come prodotti dell’arte del periodo prerublëviano, in quanto l’arte di Rublëv è legata al xv secolo più che al xiv. È importante sottolineare che tutte le opere pittoriche citate non hanno nulla in comune con l’arte di Teofane, ed anche Rublëv, all’epoca in cui avvenne il suo incontro con Teofane, era già un artista formato, perciò Teofane non esercitò su di lui un influsso determinante. Sulla vita e le opere di Andrej Rublëv ci sono rimaste poche notizie attendibili. Non sappiamo dove e quando nacque. Era monaco, ma sia la data, sia il luogo, sia le circostanze in cui si ritirò in monastero ci sono altrettanto ignote. La prima citazione cronachistica su di lui si riferisce all’anno 1405, quando egli affrescò la cattedrale dell’Annunciazione assieme a Teofane il Greco e Prochor di Gorodec. Il suo nome è ricordato per la seconda volta nel 1408 in riferimento all’affrescatura della cattedrale della Dormizione a Vladimir. Questa volta Rublëv lavorò assieme a Daniil Cërnyj, un maestro la cui arte resta a tutt’oggi ancor meno conosciuta di quella di Rublëv. Tra il 1425 e il 1427 Rublëv collaborò alla decorazione della cattedrale della Trinità nella lavra della Trinità di san Sergio, e tra il 1427 e il 1430 lavorò nella cattedrale del Salvatore nel monastero Andronik a Mosca. Il monastero Andronik fu probabilmente l’ultima tappa dell’artista, che vi morì nel 1430. Le indicazioni delle fonti sono evidentemente frammentarie, e possiamo essere certi che di molti episodi assai importanti della sua biografia non esistono testimonianze scritte. Normalmente si ritiene che Rublëv si sia formato nella bottega di iconografia della lavra della Trinità di San Sergio, ma è più probabile che abbia studiato in uno dei monasteri moscoviti. Bisogna infatti considerare che all’inizio del xv secolo Rublëv lavorava soprattutto su incarico del gran principe (cattedrale dell’Annunciazione, cattedrale della Dormizione a Vladimir), e questo lascia supporre che egli appartenesse alla sua cerchia di artisti e perciò uscisse da un monastero strettamente legato alla vita della corte del gran principe di Mosca. Le notizie delle cronache sull’opera di Andrej Rublëv si riferiscono all’epoca in cui egli aveva già acquistato una certa fama, e incominciava a ricevere incarichi di responsabilità. Né le cronache né altre fonti scritte fanno invece alcun accenno alle sue opere giovanili. Esistono tuttavia alcuni insigni monumenti pittorici della fine xiv-inizio xv secolo, le cui peculiarità stilistiche hanno molto in comune con quelle delle opere sicuramente rublëviane. Vale la pena ricordare qui gli affreschi della cattedrale della Dormizione di Gorodok a Zvenigorod e due miniature che
decorano un piccolo Evangeliario proveniente dalla cattedrale della Dormizione del Cremlino di Mosca, conservato ora al Museo storico di Mosca. Lo stile degli autori di queste opere è scevro da qualsiasi tratto naturalistico. Sia gli affreschi che le miniature sono espressione di uno stile agile, idealmente bello. Le delicate tonalità grigio-argentate e violetto non hanno più nulla in comune con la densa e cupa fattura delle opere artistiche del xiv secolo. Non abbiamo fondati motivi per attribuire ad Andrej Rublëv questi affreschi e miniature, ma essi sembrano appartenere per lo meno alla sua cerchia artistica, ed altresì all’arte del periodo in cui egli era già molto ricercato dai committenti di opere d’arte. Sono comunque opere di artisti con una grande esperienza professionale e al tempo stesso dotati di una sensibile anima poetica. Per molto tempo si è pensato che le prime opere datate di Andrej Rublëv fossero le feste del 1405 appartenenti all’iconostasi della cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca. Oggi tuttavia si mette in dubbio non solo la data esatta, ma anche la stessa attribuzione di queste icone a Rublëv e al suo collaboratore Prochor di Gorodec in quanto le fonti del xvi secolo parlano di un devastante incendio del 1547 che distrusse tutte le chiese del Cremlino, tra cui anche la cattedrale dell’Annunciazione. Comunque sia, le icone delle feste di questa cattedrale sono capolavori dell’arte moscovita, eseguiti non oltre il primo quarto del xv secolo e chiaramente classificabili in due gruppi artistici. Da un’analisi comparata di questi due gruppi di icone emerge la sostanziale diversità di ideali artistici e di concezione del mondo degli autori. Il più anziano ha la mano ferma, se ne percepisce l’ottima padronanza del disegno e della composizione, la professionalità tecnica, ma le sue opere mancano di profondità, di poesia e di sentimento. Il colorito delle sue icone è piuttosto piatto, i dettagli noiosi e irrilevanti per la comprensione del tema. In questo senso il più giovane, che si è soliti identificare con Rublëv, superò ampiamente Prochor. Le sue icone sono particolarmente belle e varie nel colore, le figure sono più fini, le composizioni più ampie, la pittura è in generale più leggera ed eterea. Di particolare bellezza è l’icona della Trasfigurazione, con il suo paesaggio che si fonde nella luce mattutina, le eleganti figure di Cristo e degli apostoli e le tenerissime sfumature rosa e grigio perla. Ma nel vivo dell’arte di Rublëv si entra solo studiando gli affreschi della cattedrale della Dormizione a Vladimir vi/ (1408), che costituiscono il suo capolavoro nel campo, 27, della pittura monumentale. Rublëv non li dipinse da solo, 31; ma con l’aiuto di Daniil Cërnyj, ed è difficile stabilire qua- 196li parti siano di uno e quali dell’altro. I.E. Grabar’ riteneva 199 che i tratti dello stile pittorico acquisiti da Teofane il Greco indicassero prevalentemente la mano di Daniil, mentre i tratti dello stile grafico, lineare si accordavano di più con l’arte di Rublëv. Non è escluso tuttavia che i due artisti abbiano lavorato assieme, poiché non di rado il medesimo affresco contiene allo stesso tempo i tratti stilistici dell’uno e dell’altro artista, come fusi in un unico stile. Essendo difficile tracciare una precisa linea di demarcazione tra gli affreschi dipinti da Daniil e quelli dipinti da Rublëv, è meglio considerare il ciclo pittorico nel suo complesso, senza fermarsi sull’attribuzione di questa o quella scena a Rublëv o soltanto a Daniil. Gli affreschi dell’inizio del xv secolo si sono conservati in diverse parti della cattedrale, ma soprattutto nella zona occidentale sotto i cori. Qui sono dipinti gli episodi del Giudizio universale, soprattutto la preparazione al Giudi293
quanto la preoccupazione del pastore di mantenere unito il gregge a lui affidato. Nell’affresco di Vladimir, al contrario, vediamo la figura di Pietro che si fonde con il gruppo degli apostoli, e assieme ad essi anche con gli altri giusti. Il suo primato non è sottolineato qui con espedienti particolari: Pietro appare come uno dei partecipanti al corteo, che condivide con i compagni la loro attesa della beatitudine futura e la loro fede. E se gli occhi dei giusti che lo seguono sono rivolti verso di lui, in essi tuttavia non si legge né paura né dubbio sul felice esito del cammino, ma un’amichevole fiducia in chi li guida. In questo senso sono molto espressivi i volti di quegli apostoli e santi che camminano accanto a Pietro e nelle sue vicinanze. Giovanni, il cui atteggiamento rivolto verso Pietro sembra l’immagine speculare della posa di Pietro stesso, ha sostanzialmente le stesse caratteristiche di Pietro, tanto che ci è facile immaginarlo al suo posto: non cambierebbe nulla. Ci troviamo qui di fronte ad un aspetto essenziale dell’arte di Rublëv. Le immagini da lui create hanno la straordinaria proprietà di potersi sostituire a vicenda, poiché sono simili tra loro. La forza non presuppone in lui la debolezza. La sua arte è uniformemente illuminata da ideali di uguaglianza, di amore, amicizia ed aiuto reciproco. In generale nelle opere di Rublëv nate durante il primo decennio del xv secolo troviamo già molti tratti caratteristici di tutta la sua arte. Si delinea distintamente, tra l’altro, lo spirito sereno della pittura di Rublëv, priva di qualsiasi sfumatura drammatica. Lo stato d’animo delle immagini di Rublëv è nettamente contrapposto a quello che troviamo nelle immagini di Teofane. Nell’artista russo trova chiara espressione il rapporto naturale dell’uomo con il mondo e con l’ambiente in cui è chiamato a vivere e che non gli è contrapposto. Egli vede prevalentemente i lati luminosi della realtà e sembra quasi evitare appositamente di ritrarre scene eccessivamente dinamiche, caratteri complessi, volti tenebrosi. L’uomo che ci troviamo di fronte nell’arte di Rublëv non è roso dal tarlo del dubbio e non è arso dal fuoco delle passioni. La sua anima non vive uno sdoppiamento tra il mondo spirituale e quello terreno, ma permane in una condizione di felice equilibrio. Ma
zio, le schiere degli apostoli e degli angeli, il corteo dei giusti e immagini del paradiso. Dovevano esistere certamente anche le figure dei peccatori e dei tormenti infernali, ma non si sono conservate. In generale le scene di orrore e disprezzo della dignità umana non sono proprie dell’arte di Rublëv e dei suoi contemporanei, un’arte che appare dolce e pacifica, priva di rabbia o disperazione. In questo senso tutti gli affreschi della cattedrale della Dormizione presentano caratteristiche identiche, e neppure uno rivela la tendenza a una diversa interpretazione di questo tema. Uno dei migliori affreschi della cattedrale della Dormi198199 zione è il Corteo dei giusti in paradiso, la grande composizione dipinta a destra dell’entrata sul versante sud della volta della navata più piccola. L’iscrizione, oggi scomparsa, che accompagnava l’affresco, diceva: «I santi vanno in paradiso». Secondo la tradizione instauratasi in questo genere di scene, i giusti sono divisi in gruppi: davanti a tutti sono dipinti gli apostoli, dietro di loro i profeti, poi i santi, i martiri, i beati, le donne giuste e i laici. Il corteo è guidato dagli apostoli Pietro e Paolo. Paolo era considerato testimone oculare del paradiso, perciò qui gli spetta il ruolo di guida, che indica la strada verso il luogo dell’eterna beatitudine e regge il rotolo svolto con la scritta «venite con me voi tutti buoni». All’altro apostolo, Pietro, sono affidate le chiavi del paradiso, ed egli le tiene con la mano destra protesa. Voltato verso i suoi compagni, li incoraggia con uno sguardo sereno ed aperto e pare esortarli dicendo: il destino è nelle nostre mani, presto si apriranno davanti a noi le fronde del paradiso, e sentiremo il dolce canto degli uccelli, fatevi coraggio e sostenetevi a vicenda. Esteriormente l’affresco di Vladimir sembra del tutto tradizionale. Simili processioni di giusti guidate da Pietro apostolo si trovano nel grandioso mosaico del Torcello, nell’affresco della chiesa del Salvatore sulla Neredica ed in altri monumenti. Ma dal punto di vista dell’interpretazione del soggetto esso presenta aspetti del tutto nuovi. In tutte le composizioni di epoca precedente la figura dell’apostolo Pietro era normalmente staccata da quelle dei giusti, camminava a una certa distanza da loro. Se si voltava verso di loro, il suo volto esprimeva non tanto amore e bontà,
Probabilmente nello stesso periodo in cui stava affrescando la chiesa della Dormizione, Andrej Rublëv dipinse anche la stupenda icona della Madre di Dio di Vladimir, conservata ora al Museo di Vladimir. La nuova icona doveva sostituire quella vecchia greca, portata a Mosca da Vasilij i. A giudicare dalle circostanze che accompagnarono il trasporto della sacra immagine di Vladimir, Rublëv fu incaricato di dipingere una copia esatta dell’originale del xii secolo. Ma confrontando l’originale e la copia non è difficile constatare che esse incarnano due concezioni diverse dell’immagine di Maria col Bambino. L’icona bizantina è dipinta con un senso di profonda afflizione. La Madre di Dio, accarezzando il figlio, prevede ed è cosciente della sua futura morte. Rublëv, al contrario, suscita il suo caratteristico stato d’animo di serena tristezza, di lieve riflessione, in cui è sprofondata non solo Maria, ma anche il Bambino. I maestri dell’arte russa, al pari dei loro contemporanei occidentali, nel periodo di apprendistato acquisivano una formazione poliedrica: facevano propria in ugual modo l’arte della pittura murale, su tavola e su carta, conoscevano alla perfezione il disegno e le tecniche, la ricetta per la preparazione dei colori composti e degli emulsionanti, erano in grado di eseguire qualsiasi incarico, semplice o complesso. Dalla lettera di Epifanij il Saggio su Teofane si apprende che Teofane era un «noto artista della miniatura», che rendeva generosamente partecipi i pittori moscoviti dei segreti della sua maestria nell’illustrazione dei libri. Ci sono buoni motivi per pensare che proprio Teofane abbia decorato con fantastiche iniziali l’Evangeliario di Feodor Koška, in cui si avvicendano draghi, uccelli, serpenti ed animali e piante sconosciuti, inventati da lui. Anche Andrej Rublëv non era estraneo all’arte dell’illustrazione dei libri, e a quanto pare fu l’autore delle miniature e delle iniziali nel famoso manoscritto russo dell’inizio del xv secolo, l’Evangeliario Chitrovo, così chiamato dal nome del suo ultimo proprietario e conservato assieme all’Evangeliario di Feodor Koška nella Biblioteca statale russa di Mosca. Negli ornamenti delle iniziali Rublëv si rifece all’Evangeliario di Koška decorato in precedenza, ma trasformò le tinte accese, quasi dure, di Teofane in una tavolozza legge-
nel complesso le immagini di Rublëv non sono il prodotto di un freddo canone. Inoltre, a differenza di Teofane, i cui santi sono generalmente guidati da una forza visibile e la cui vita si svolge all’insegna della predestinazione divina, nell’arte di Rublëv gli uomini si governano da sé, si comportano in maniera semplice e naturale, poiché tutto dipende solo da loro. La pittura di Rublëv propugna la libertà interiore dell’uomo, la sua indipendenza e la sua bontà. Qui sta la fonte del suo irresistibile fascino. Contemporaneamente agli affreschi, Rublëv e Daniil Cërnyj dipinsero per la cattedrale della Dormizione anche una nuova iconostasi, di cui ci sono rimaste soltanto tredici icone della Deesis, cinque icone delle feste e due icone dell’ordine dei profeti. Continuando l’opera iniziata da Teofane, Rublëv e Daniil aumentarono ulteriormente l’altezza delle icone della Deesis, portandola a 3,14 m. Il grandioso progetto realizzato dai due artisti superava ogni altra creazione del loro tempo nel campo della pittura. Questo capolavoro artistico aveva anche un rilevante valore sociale. All’inizio del xv secolo la cattedrale della Dormizione di Vladimir conservava ancora il ruolo di cattedrale principale di tutta la Rus’ nordorientale. Qui si svolgeva in particolare l’incoronazione al trono del gran principe. Perciò l’iconostasi incarnava non solo l’antica idea dell’intercessione dei santi per l’umanità in generale, ma anche l’idea della loro intercessione davanti a Cristo per tutta la terra russa, per la sua Chiesa e i suoi principi. Le icone della cattedrale della Dormizione sono conservate attualmente nei musei di Mosca e Pietroburgo, ma bisogna riconoscere che nelle sale dei musei queste icone perdono molto, poiché non sono nate per essere osservate da vicino, ma per fare effetto da lontano. Sarebbe inutile cercare in esse i consueti pregi della pittura su tavola. Le antiche icone della cattedrale della Dormizione non riacquisteranno la loro vera forza espressiva finché non saranno ricollocate nella sede originaria, al posto dell’iconostasi semibarocca costruita sotto Caterina ii. Solo allora la loro monumentalità, che noi oggi consideriamo come la qualità peculiare di queste grandiose icone, si potrà apprezzare nella originale cornice architettonica della chiesa, nella sua spazialità ed estensione.
199. L’apostolo Pietro conduce i giusti nel paradiso, Andrej Rublëv e Daniil \ërnyj, 1408, particolare dell’affresco sulla volta della navata sud della cattedrale della Dormizione a Vladimir.
196-198. Andrej Rublëv e Daniil \ërnyj, 1408, affreschi della cattedrale della Dormizione a Vladimir: l’apostolo Luca e due angeli (versante nord della volta principale); l’apostolo Giovanni (versante sud della volta principale), entrambi gli affreschi dalla composizione Giudizio universale; l’apostolo Pietro conduce i giusti nel paradiso (volta della navata sud).
294
295
le sue forze la politica di Dimitrij Donskoj, impegnato a sedare le discordie intestine tra i principi e nella lotta contro il giogo tataro, allora appare chiaro il ruolo di avanguardia svolto dal monastero della Trinità di san Sergio nella storia russa durante la vita di Rublëv, e quale forza di attrazione dovessero possedere agli occhi della gente i nomi di san Sergio e dei suoi seguaci. Abbiamo già detto che non c’è motivo per pensare che Rublëv fosse un monaco del monastero della Trinità e che avesse ricevuto proprio qui la sua formazione morale ed artistica. Il fatto che la sua arte si sia formata e sviluppata nell’atmosfera delle idee di san Sergio non va necessariamente interpretato come una prova della provenienza del maestro dal monastero della Trinità, poiché i monasteri di Mosca fondati dai discepoli di san Sergio si attenevano rigidamente alle tradizioni del maestro e avrebbero potuto esercitare sul giovane pittore altrettanta influenza del monastero di san Sergio stesso. Inoltre il monastero della Trinità era in costante rapporto con le sue filiazioni di Mosca, ed è certo che Rublëv si sia recato più di una volta al monastero della Trinità e vi abbia lavorato. Sappiamo infatti, che col suo aiuto e grazie alla sua diretta collaborazione furono eseguiti gli affreschi e l’iconostasi della cattedrale della Tri201 nità all’interno del monastero omonimo (1425-1427). Secondo i dati della Vita di Nikon di Radonež, il priore del monastero che fece decorare la chiesa, Rublëv – come già in passato – lavorò qui assieme a Daniil \ërnyj, ma oltre a loro collaborarono ai lavori anche altri maestri: «ed altri con loro». Gli affreschi della cattedrale della Trinità non si sono conservati, al contrario dell’iconostasi, le cui icone furono dipinte negli stessi anni degli affreschi. Questa è l’unica tra le iconostasi moscovite più antiche rimasta al posto dove era stata collocata nel xv secolo. Chi vuole
ra e chiara. In ugual modo anche il disegno acquista in lui un’eterea imponderabilità. Ma la cosa più notevole nell’Evi/ vangeliario Chitrovo sono le otto miniature in folio con le 25- figure degli evangelisti e i loro simboli: l’aquila, l’angelo, 26 il leone e il toro. L’espressività di queste composizioni, gli incantevoli colori, la grazia dell’angelo, i volti tipicamente russi degli evangelisti, infine tutta la veste artistica dell’Evangeliario Chitrovo conferiscono al libro una tinta profondamente nazionale, come gli affreschi della cattedrale della Dormizione a Vladimir. Risalgono probabilmente al secondo decennio del xv secolo anche le opere più mature e perfette del genio artivi/ stico di Rublëv, come le icone del Salvatore, dell’Arcangelo 28- Michele e di Paolo apostolo, ritrovate nel 1918 a Zvenigo29 rod, appartenenti un tempo ad una grande Deesis a busto. Originariamente la Deesis comprendeva sicuramente anche le icone della Madre di Dio, del Battista, di Pietro apostolo e dell’Arcangelo Gabriele, che non si sono conservate. Ma in base a ciò che è rimasto si può ritenere che tutte queste icone fossero opere d’arte dal valore universale. La prima cosa che colpisce nelle icone della Deesis di Zvenigorod sono i colori: freddi, puri e chiari, come il cielo prima dell’alba. La mancanza di una precisa fonte luminosa le priva della ricchezza di colori di una natura viva, ma nello stesso tempo dona loro un fascino inesprimibile. La bellezza di queste tonalità blu chiaro, rosate, azzurre, dorate e grigiastro-lilla invita ad una lunga contemplazione, richiama associazioni di idee, profonde riflessioni. L’icona principale della Deesis è stata molto danneggiata dal tempo. Fortunatamente si è conservato il volto di Cristo, ed esso è dotato di una tale espressività da far quasi dimenticare lo stato frammentario dell’icona. Il Salvatore di Rublëv è dolce, nobile. Non è il giudice terribile che vi/ troviamo nelle opere di Teofane il Greco. Nei suoi occhi 32 non si leggono la punizione, il castigo per i peccati. Lo sguardo di Cristo rivolto direttamente allo spettatore non infonde paura. Esso esprime un’attesa, e un’attesa con una sfumatura di benevolenza. Una forza serena, fiduciosa, attenzione e bontà sono dipinte sul volto di Cristo. Gli uomini ricorrono a lui come alla fonte della giustizia e della consolazione. Il Salvatore di Zvenigorod è il sostegno dei sofferenti: nessun altro artista dell’antica Rus’ era mai riuscito a creare una figura così profondamente umana. Così uno dei modelli iconografici più tradizionali, conservativi, acquista nell’arte del maestro russo caratteristiche del tutto nuove, fino ad allora sconosciute. Il nome di Rublëv è legato esclusivamente alla storia della scuola artistica di Mosca. Tutte le opere di sua mano, come pure quelle dipinte dagli artisti della sua cerchia, provengono o da Mosca o da città e monasteri dei dintorni. Inoltre, anche a Mosca Rublëv frequentava ambienti ben precisi della società del suo tempo, e cioè nel mondo laico i figli di Dimitrij Donskoj, Vasilij e Jurij, e in quello monastico i discepoli più stretti e i seguaci di quell’insigne figura religiosa che fu san Sergio di Radonež (1322-1392). La vita di san Sergio, fondatore del monastero della Trinità, centro della vita monastica della Rus’ nordorientale, diverrà anche l’ideale di Rublëv. A partire dalla seconda metà del xiv secolo quasi tutte le figure più note della Chiesa ortodossa russa avevano direttamente o indirettamente a che fare con il monastero della Trinità. Qui nacquero gli ideali di fratellanza, abnegazione, ascesi spirituale. Se a questo si aggiunge che Sergio era un convinto assertore della centralizzazione dello stato russo sotto Mosca e che egli sosteneva con tutte
200. Creazione di Adamo e immagini del paradiso, 1397, foglio con miniature dal Salterio di Kiev; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica nazionale.
296
farsi un’idea di com’era l’antica iconostasi russa vedendola nel suo ambiente naturale e non in un museo, deve assolutamente recarsi al monastero della Trinità. Qui vedrà non solo delle superbe opere pittoriche, ma anche un grandioso complesso di insieme, la più completa tra le iconostasi dell’inizio del xv secolo. Oltre alla Deesis e alla serie delle feste, che c’erano già nella cattedrale dell’Annunciazione, per la cattedrale della Trinità, Rublëv, Daniil \ërnyj e i loro collaboratori dipinsero ancora un’altra serie di icone, quella dei profeti, replicando quindi la composizione che essi stessi avevano realizzato per la prima volta nel 1408 per la cattedrale della Dormizione a Vladimir. Dall’iconostasi della cattedrale della Trinità provievi/ 33 ne la famosissima icona della Trinità dipinta da Rublëv, conservata ora alla Galleria Tret’jakov. È una delle poche opere attribuite con certezza al grande maestro, ma per quanto riguarda la sua datazione i pareri sono molteplici. Secondo alcuni fu dipinta nel 1411 poiché, come è noto, a quel tempo nel monastero della Trinità di san Sergio fu costruita e consacrata una chiesa in legno dedicata alla Santissima Trinità. Secondo altre ipotesi l’icona, eseguita appositamente per una chiesa in muratura, fu dipinta da Rublëv contemporaneamente ad altre icone negli anni 1425-1427. Comunque sia, nella valutazione dell’arte di Rublëv un divario di quindici anni cambia ben poco. Il soggetto dell’icona della Trinità di Andrej Rublëv si basa sul racconto biblico dell’apparizione dei tre angeli al patriarca Abramo e a sua moglie Sara, e di come uno di loro predisse a Sara la nascita di un figlio. Secondo le interpretazioni teologiche questi angeli erano le tre Persone della Trinità: Dio Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La stragrande maggioranza delle antiche rappresentazioni della Trinità si rifà proprio a questo episodio. Pur restandovi fedele nei tratti iconografici principali, l’icona della Trinità dipinta da Rublëv possiede al tempo stesso alcune particolarità che la rendono qualitativamente e contenutisticamente nuova. Quando gli iconografi bizantini e anticorussi dipingevano la Trinità dell’Antico Testamento, di solito rappresentavano in tutti i particolari le circostanze e la situazione in cui Dio si manifestò ad Abramo. Perciò quasi immancabilmente raffiguravano Abramo, Sara, il loro servo che sgozza il vitello, ed anche la casa, l’albero e la roccia. Il centro di gravità in questo tipo di icone era sempre nel racconto, nella narrazione dell’episodio biblico con la sua azione che si svolgeva senza fretta, e sembrava che l’artista si dilettasse ogni volta a mostrare come gli angeli fossero apparsi al patriarca, come questi li avesse accolti all’ombra della quercia di Mamre, come avesse ordinato di sgozzare per loro un vitello «giovane e buono», e come poi assieme a Sara avesse servito gli angeli, intuendo che sotto le loro spoglie si celavano le tre Persone della Santissima Trinità. La Trinità dell’Antico Testamento resta sempre un racconto, legato alle leggi dello spazio, del tempo e dell’azione. La Trinità dipinta da Rublëv si distingue dalle icone più antiche sullo stesso soggetto tematico poiché vi mancano Abramo e Sara. Esistono, in effetti, alcune grandi icone della Trinità dipinte prima di Rublëv, ed anch’esse senza le figure di Abramo e Sara, ma sono normalmente fenomeni casuali che non trovano ulteriore seguito. Nella Trinità di Rublëv le figure di Abramo e Sara sono state tralasciate per la prima volta intenzionalmente dall’artista, a partire da una interpretazione del tutto particolare dell’e-
pisodio biblico. L’icona di Rublëv non vuole rappresentare tanto l’apparizione della Trinità ad Abramo, l’ospitalità di Abramo, come le icone dei secoli precedenti, quanto l’idea filosofica dell’unità delle tre Persone della Trinità. Rublëv subordina tutto all’espressione di questa idea: la composizione, il disegno, il colorito. Come ogni altro pittore medioevale, attraverso le sue opere o parti di esse Rublëv comunicava un significato simbolico. Per raffigurare la Trinità come divinità trina e indivisa, senza principio né fine, scelse la forma del cerchio come simbolo dell’eternità, e dipinse gli angeli in maniera che i loro profili costituissero insieme la forma di un cerchio. Inoltre, le loro posizioni, i gesti, l’espressione dei volti sono ideate in modo da non far pensare ai tre angeli separatamente. Per ottenere l’effetto dell’unità, Rublëv si avvalse del mezzo più efficace della sua arte: la linea, il disegno. Le linee nell’icona della Trinità sono pacate, dolci, leggiadre. Con l’aiuto delle linee che vanno in un’unica direzione secondo un cerchio chiuso e che paiono prolungarsi l’una nell’altra, Rublëv estende l’idea dell’indivisibilità anche agli oggetti inanimati raffigurati nell’icona. Il ritmo lento e fluido delle linee crea un’atmosfera di eternità, di silenzio. E queste caratteristiche non riguardano solo gli angeli, ma anche l’albero, la roccia, la casa. Da qui derivano quindi l’integrità, la naturalezza, la verità artistica dell’opera, poiché in essa non c’è un dettaglio né una figura che a suo modo non esprima o non integri l’idea fondamentale contenuta nell’icona. La Trinità di Rublëv riunisce in sé l’immagine della divinità trinitaria con la raffigurazione del sacramento dell’Eucaristia. L’angelo di sinistra probabilmente rappresenta Cristo, quello centrale Dio Padre e quello di destra lo Spiri-
201. Iconostasi della cattedrale della Trinità nel monastero della Trinità di san Sergio, 1425-1427.
297
to Santo. Gli angeli di sinistra e di centro (Cristo e Dio Padre) benedicono la coppa che sta al centro della tavola, e in cui si vede la testa del vitello. Secondo l’insegnamento della Chiesa, il vitello è la prefigurazione dell’agnello neotestamentario; di conseguenza la coppa acquista un significato eucaristico nel senso generale dell’icona: Cristo benedicendola esprime la propria disponibilità ad offrirsi come vittima sacrificale, e Dio Padre benedice il sacrificio di Cristo. Sullo sfondo chiaro del trono si delinea ben visibile anche la mano destra del terzo angelo (lo Spirito Santo), che però non benedice la coppa, ma partecipa all’Eucaristia come Consolatore, l’eternamente giovane, il principio immortale, il simbolo della resurrezione futura. Si può pensare che le complesse idee teologiche poste da Rublëv a fondamento dell’icona fossero comprensibili solo per una cerchia relativamente ristretta di religiosi dotti e di letterati. Esaminando il profondo significato della Trinità, Epifanij il Saggio avrebbe potuto dire di Rublëv, come già di Teofane il Greco, che era un «filosofo sommamente acuto». Per la maggioranza, infatti, era difficile cogliere il contenuto della Trinità nei suoi svariati aspetti, esaurirlo fino in fondo. Ma perché allora questa icona ha acquistato una fama tanto vasta e non cessa di commuovere persino oggi, anche persone del tutto lontane dalla religione? La risposta a questa domanda può essere una sola: il contenuto della Trinità non si limita alle sue idee teologiche, ma le supera fino ad acquistare un significato universalmente umano. La Trinità non è soltanto l’immagine della divinità in tre ipostasi e il simbolo dell’Eucaristia, è anche simbolo dell’unità umana e immagine dell’amore divino. Già nel xiv secolo la popolarità del culto della Trinità si basava non tanto sul suo contenuto dogmatico religioso, quanto sul suo rapporto con la situazione concreta della vita politica e sociale. Era un’epoca di continue guerre feudali, che costavano migliaia di vite umane e minavano sistematicamente l’economia dei principati russi, già di per sé piuttosto debole. Le menti più acute comprendevano certamente che le lotte feudali erano tremendamente dannose, in quanto indebolivano la Rus’ e la rendevano facile preda dei Tatari, perciò si adoperavano con tutte le forze per porre fine alle guerre feudali e liberare la Rus’ dal giogo tataro. Giacché le forme di pensiero medioevali associavano abitualmente fatti della vita reale con concetti attinti dalle Sacre Scritture e dalle opere patristiche, queste idee, attraverso un complesso lavoro speculativo, si incarnavano in particolare anche nelle icone della Santissima Trinità. Nella Trinità come unità indivisibile si condannavano le discordie intestine e si auspicava la riunificazione, e nella Trinità non confusa nelle sue ipostasi si condannava il giogo tataro e si rivendicava la liberazione. Ecco perché Sergio di Radonež, che dedicò alla Trinità il monastero da lui fondato, non si limitava alle preghiere e non si isolò dal mondo nella solitudine monastica. Grande patriota, egli vedeva la realizzazione della propria missione non soltanto nella organizzazione della vita monastica, ma anche nell’impegno per sedare le lotte feudali, per rovesciare il giogo tataro ed unificare la Rus’ in una forte potenza centralizzata. Il suo primo biografo, Epifanij il Saggio, scrive che Sergio fondò il suo monastero perché «contemplando la Santissima Trinità si potesse vincere l’odiosa paura della divisione di questo mondo». Non a caso la Trinità di Andrej Rublëv è da noi considerata come la suprema conquista dell’arte russa nel suo
complesso. Nata come esito del lungo cammino creativo di un unico maestro, essa nello stesso tempo incarna in sé anche il lavoro del pensiero creativo di parecchie generazioni. Come ogni altro artista medioevale, Rublëv aveva molta stima per la tradizione e per il lavoro collettivo. Tutti i lati migliori della cultura artistica dei secoli xiv-xv sono confluiti nella Trinità, il suo profondo legame con i problemi fondamentali della vita; una forma di generalizzazione filosofica apparentemente astratta, ma allo stesso tempo straordinariamente concreta nel contenuto; la capacità di esprimere in forme iconografiche l’indole nazionale. La Trinità appartiene al numero di quelle rare opere d’arte che non smetteranno mai di destare emozione, poiché il momento presente è concepito qui nella prospettiva dell’eterno. Nell’iconostasi della cattedrale della Trinità l’icona della Trinità era indubbiamente la migliore. Tutte le altre icone sono inferiori per qualità e profondità di espressione del contenuto, ma prese separatamente molte di esse sono autentici capolavori. Ci riferiamo soprattutto alle feste, tra cui sono particolarmente degne di nota la Presentazione al Tempio, l’Ultima Cena, la Lavanda dei piedi, la Frazione del pane e l’Apparizione dell’angelo al sepolcro. Nell’Ultima 202 Cena è raffigurato uno degli episodi più drammatici della vita di Cristo, quando con un gesto impetuoso, avido, Giuda protende la mano verso il piatto rivelandosi come il traditore. L’autore dell’icona ha seguito solamente il testo evangelico, ed è riuscito a infondere alla scena il senso dell’ineluttabilità dell’evento. Cristo segue tranquillamente Giuda e non manifesta esteriormente i propri sentimenti. Sa che la sua vita non gli appartiene, che in essa si sta semplicemente attuando quanto era stato scritto, il Verbo. Giovanni si stringe al petto di Cristo, e nei suoi occhi si legge il timore per la sorte del maestro. Pietro protende la mano, come se non volesse credere al crimine che si sta compiendo. Matteo, seduto accanto a Giuda, ha posato le mani sul tavolo, e la sua posa esprime assieme lo sforzo di trattenere il traditore e la coscienza dell’impossibilità di far ritornare indietro gli eventi. In poche parole, in questa scena si sviluppa un complesso dramma psicologico. Benché si parli spesso della «scuola» di Rublëv, sarebbe inesatto pensare che egli stesse a capo di un grosso gruppo di allievi e li guidasse sistematicamente. Le fonti che riportano dati biografici su Rublëv non fanno alcun accenno ai suoi allievi, parlano solo dei maestri che lavorarono assieme a Rublëv e Daniil, gli «altri con loro», cioè artisti professionalmente indipendenti. Le icone dell’iconostasi della Trinità, parlando delle quali le fonti accennano agli «altri», sono opera anch’esse di questi anonimi contemporanei di Rublëv. Certo non è escluso che qualche parte di queste icone sia stata dipinta personalmente da Rublëv e Daniil, ma non bisogna dimenticare nemmeno gli affreschi della cattedrale della Trinità, andati perduti, nella cui esecuzione lo stesso Rublëv deve aver avuto il ruolo di coordinatore, oltre a svolgere personalmente gran parte del lavoro. L’esecuzione dell’iconostasi, invece, fu evidentemente affidata ad altri pittori. Vi lavorarono diversi artisti, e spesso le loro creazioni si differenziano molto dall’arte di Rublëv per il loro stile pittorico e l’interpretazione dei soggetti. Tale è per esempio l’icona dell’Ultima Cena, di cui abbiamo già parlato, dipinta da un artista della generazione precedente. Solo una icona dell’iconostasi della Trinità può essere effettivamente opera di un diretto vi/ discepolo del grande maestro: quella di San Demetrio di 30 298
dopo la sua morte. Il più capace era il gruppo di discepoli che concentrò i propri sforzi in un ulteriore sviluppo della forma artistica elaborata da Rublëv. Essi portarono lo stile pittorico delicato ed etereo impiegato da Rublëv ad una perfezione che non si incontra nemmeno nei lavori fatti da lui in persona; inoltre davano molta importanza anche allo schizzo, al contorno della figura. Tra le opere migliori dei maestri di questo gruppo vanno ricordate la grande icona di San Giovanni Battista da una Deesis di Dmitrov, ora conservata al museo Rublëv di Mosca, ed anche l’icona del Salvatore del monastero della Trinità di san Sergio, 205 conservata alla Galleria Tret’jakov. Ma non tutti gli artisti che subirono l’influenza dell’arte di Rublëv seppero elevarsi abbastanza in alto per donare il proprio contributo creativo alla storia dell’arte russa. Nella maggior parte dei casi si trattava di epigoni che, nell’incapacità di fare completamente propria l’arte del grande maestro, si limitarono ad assimilarla parzialmente. Essi erano soprattutto attratti dall’aspetto canonico dell’arte di Rublëv: i suoi tipi iconografici prediletti, la combinazione dei colori. Ma scindendola nelle singole componenti, quest’arte perse il suo fascino e incominciò ben presto a degenerare in schemi belli ma banali e freddi. Non tutte le icone russe sopravvissute possono essere classificate secondo il luogo e persino la data di esecuzione, e questo è tanto più spiacevole quando si tratta delle opere più insigni, senza le quali è addirittura impensabile una storia del Medioevo russo. Conosciamo ormai da circa trent’anni l’icona del Miracolo di san Giorgio col drago, proveniente dalla zona del fiume Pinega nella regione di Archangel’sk, appartenuta un tempo alla collezione di M.V. 207 Rozanova e A.D. Sinjavskij, da dove fu poi trasferita al Museo Britannico. Piena di una impetuosa dinamicità, magnifica per la sua combinazione di rosso e nero, con un insolito drago raggomitolato, elegante nel disegno, questa icona resta ancora un enigma per quanto concerne le sue origini. Probabilmente abbiamo a che fare con il capolavoro di un ignoto autore moscovita trasportato nell’estremo Nord. Altrettanto difficile da collocare è anche l’icona di Santa Varvara della Galleria Tret’jakov. Ritrovata ancora nel 1910 a
Tessalonica, con la sua atmosfera che sembra estranea a questo mondo. Negli altri casi si può parlare sicuramente solo di maestri della cerchia di Rublëv, ma non di una scuola né di una bottega. Non possediamo ancora dati incontestabili che potrebbero essere utili per suddividere la scuola di Mosca in botteghe ben precise, legate ai nomi dei pittori più importanti. Esistono alcune icone moscovite che presentano a loro volta dei tratti comuni con la pittura di Rublëv. Qui bi203- sogna ricordare in primo luogo la Natività di Cristo di 204 Zvenigorod e l’Ascensione già della collezione di S.P. Rjabušinskij, ed oggi alla Galleria Tret’jakov. Per molto tempo si è ritenuto che queste icone risalissero a periodi diversi: la prima veniva datata all’inizio del xv secolo e attribuita a un anonimo artista della cerchia di Andrej Rublëv, e la seconda veniva generalmente fatta risalire alla metà del xv secolo e attribuita a un ignoto discepolo di Rublëv. Invece esse provengono dalla medesima iconostasi che, a giudicare dal luogo di ritrovamento dell’icona della Natività, doveva trovarsi a Zvenigorod, forse in una delle due cattedrali in pietra della città. Entrambe le opere sono in perfetto stato di conservazione, e sono perciò icone assolutamente rare, sul cui esempio possiamo farci un’idea della superficie pittorica delle icone di Rublëv e dei maestri della sua cerchia nel suo aspetto originario, ancora non guastato dal tempo e dai restauri tardivi. Le icone di Zvenigorod sono state dipinte negli anni ’10-’20 del xv secolo. Chi ne sia l’autore: Rublëv, un suo allievo o un ignoto ed eminente artista della cerchia di Andrej Rublëv, naturalmente è difficile dirlo. Gli stili individuali nella pittura russa medioevale emergono così debolmente che anche per opere molto brillanti è impossibile stabilire con certezza l’attribuzione a questo o quell’autore. Abbastanza chiaramente si delinea invece l’arte dei discepoli di Rublëv. Questi maestri, pur non essendo direttamente legati a Rublëv, risentivano tuttavia della sua influenza ed affrontavano i propri compiti artistici nello spirito del maestro e con metodi simili. Molte delle loro opere si sono conservate; inoltre esse furono eseguite per lo più durante gli ultimi anni di vita del maestro, o già
202-204. Ultima cena, 1425-1427, icona dell’iconostasi della cattedrale della Trinità nel monastero della Trinità di san Sergio. Natività di Cristo, primo terzo xv secolo, scuola di Mosca, icona di Zvenigorod; Mosca, Galleria Tret’jakov. Ascensione, primo terzo xv secolo, scuola di Mosca; collezione S.P. Rjabušinskij, Mosca, Galleria Tret’jakov.
299
Ugli/, cambiò tre volte proprietario finché non fu acquisita dalla Galleria Tret’jakov. Ci sembra poco verosimile la classificazione ufficiale di questa icona, che nei cataloghi della galleria risulta come un’opera novgorodiana della seconda metà del xiv secolo, stilisticamente vicina agli affreschi di Skovorodka. Con tutta probabilità l’icona fu dipinta nel xv secolo e non è escluso che sia stata dipinta nella fascia della Russia centrale. Un’altra icona sarebbe altrettanto enigmatica se non riportasse sul bordo della tavola un’annotaziovi/ ne cronachistica che la identifica. È la Parasceve Pjatnica 35 del Museo statale delle arti di Taškent, dove fu inviata per cause imprecisate dal 35 museo di Rjazan’. Secondo l’iscrizione, la Parasceve Pjatnica fu dipinta sotto il principe Ivan Feodorovi/ e il vescovo Iona di Rjazan’ negli anni ’40 del xv secolo (1444-1445 o 1447-1448). Questa monumentale icona esprime la dura verità della vita, attraverso il volto intenso ed espressivo della santa vergine. Un aspetto essenziale della vita culturale dei secoli xiv-xv nella Rus’ è dato dal fatto che, con il formarsi di uno stato centralizzato con a capo Mosca, che a sua volta esercitava una potente influenza sui principati vicini e sulle singole città, sottomettendole man mano alla propria autorità, le scuole artistiche locali non solo continuarono ad esistere, ma seppero limare definitivamente le proprie caratteristiche stilistiche, creando molte opere di grande valore artistico. Tutta impegnata a rintuzzare l’indipendenza politica degli avversari, Mosca per molto tempo non prese seriamente in considerazione l’unificazione e il nuovo indirizzo della sua vita letteraria ed artistica, e grazie a ciò, parallelamente alla scuola moscovita, durante i secoli xiv-xv nel nord-est della Rus’ si svilupparono per esempio centri artistici come Rostov, Vologda e Tver’. Naturalmente questo processo fu complicato, contraddittorio, e nello sviluppo dell’arte locale va in particolar modo sottolineata l’importanza delle forze conservatrici, frenanti. Non di rado gli iconografi che operavano in remoti centri artistici manifestavano un vivo desiderio di conoscere e comprendere i tratti caratteristici del nuovo stile, formatosi nelle botteghe della capitale, ma non potendo tuttavia soddisfare le proprie esigenze erano co-
stretti a ripetere all’infinito gli stessi modelli consolidati. D’altra parte molti esponenti delle scuole locali facevano volutamente a meno di qualsiasi innovazione e cercavano di impiegare solamente i metodi stilistici usati all’interno della propria scuola. Finché questa resistenza corrispondeva alla tendenza generale dei singoli principati a difendere la propria autonomia, essa favorì la nascita di opere interessanti e valide, ma con l’andar del tempo, quando la politica centralizzatrice dei principi moscoviti divenne una necessità vitale e privò gli esponenti della cultura e dell’arte locale della loro intrinseca base socio-economica, tali aspirazioni si dimostrarono limitate e diventarono un freno allo sviluppo delle scuole locali. Nel xv secolo emerse una caratteristica singolare della cultura russa: nonostante il crescente accentramento del potere politico nelle mani dei grandi principi di Mosca, l’attività artistica nei vecchi centri – e cioè Tver’, Rjazan’, Rostov, Vologda, Novgorod e Pskov – sembrò riprendere fiato, e non solo la quantità, ma anche la qualità dei suoi edifici e delle sue opere pittoriche continua a stupire anche gli storici e studiosi contemporanei, pur abituati a tutto. La Russia aveva molto sofferto per la scarsa richiesta di opere d’arte durante l’irrequieto periodo della minaccia tatara, ma il xv secolo, le fece rapidamente riguadagnare il tempo perduto. Per meglio comprendere il processo di formazione delle nuove correnti stilistiche prendiamo in considerazione la forma artistica più popolare, e cioè l’iconografia. La principale scuola artistica nei secoli xiv-xv si trovava ancora a Rostov. Come sempre, il genere preferito qui erano le icone con le vite dei santi e quelle con santi scelti. Queste opere, spesso caratterizzate da uno stile arcaico, che tuttavia non toglie nulla al loro valore artistico, colpiscono per i colori caldi, per le scene delle vite composte in modo ingenuo ma commoventi, per l’espressione assorta sui volti dei santi. Alcune icone di Rostov possono essere tranquillamente allineate tra le opere pittoriche più insigni dell’antica Rus’. Ricordiamo in particolare l’icona con la vita di san Nicola, proveniente dal villaggio di Pavlovo nei pressi di Rostov, ed oggi conservata alla Galleria Tret’jakov. Il santo nobile e severo, come era solitamente
205-207. Madre di Dio Odigitria con Trinità e santi, xv secolo, dal monastero della Trinità di san Sergio; Mosca, Galleria Tret’jakov. Salvatore pantocratore, metà xv secolo, scuola di Mosca, dal monastero della Trinità di san Sergio; Mosca, Galleria Tret’jakov. Il miracolo di san Giorgio col drago, xv secolo, icona dalla zona del fiume Pinega nella regione di Archangel’sk; collezione M.V. Rozanova e A.D. Sinjavskij, Londra, British Museum.
300
Mosca e Novgorod. L’arte di Teofane e Rublëv non trovava alcun riflesso nello stile della pittura di Rostov, e qui anche molti decenni dopo la morte di Rublëv si continuò a dipingere icone che per la proporzione delle figure e il sistema di applicazione dello strato di colore ricordavano le opere di quasi cento anni prima. Alcune bellissime icone dei secoli xiv-xv provengono da Suzdal’, sebbene per ora non esistano motivi per ritenere che Suzdal’ avesse una propria scuola. La nascita della bottega artistica (ma non della scuola) di Novgorod potrebbe collocarsi verso la metà del xiv secolo, quando Suzdal’ ottenne l’autonomia ecclesiastica, e in seguito si separò dalle città principali della Moscovia per entrare a far parte del principato di Suzdal’-Nižnij Novgorod che faceva capo a Nižnij Novgorod. La maggior parte delle icone probabilmente provenienti da Suzdal’ sono state trovate nel locale monastero femminile della Protezione della Madre di Dio, fondato attorno al 1364, e sono caratterizzate da un dise- vi/ gno un po’ debole e da uno stile molto minuzioso. A questo 37 riguardo sono particolarmente interessanti le icone della Madre di Dio Odigitria e della Natività della Madre di Dio, 209 attualmente al Museo Russo di Pietroburgo. L’originalità e la delicata bellezza delle icone di Suzdal’ risultano particolarmente evidenti se si confrontano le figure femminili di queste icone con le immagini spontanee e lo stile pittorico dinamico delle opere novgorodiane della stessa epoca. Ci troviamo di fronte a due realtà diametralmente opposte: un’ennesima testimonianza dell’estrema ricchezza e varietà dell’arte figurativa anticorussa. Ancora non molto tempo fa alla scuola di Tver’ venivano attribuite solamente singole opere a carattere episodico, ma oggi il loro numero è cresciuto rapidamente, anche grazie a ricerche metodiche e alla pulitura delle presunte opere pittoriche di Tver’. La stragrande maggioranza di queste icone, ad eccezione solo di alcuni esemplari conservati alla Galleria Tret’jakov, risale al xv ed anche al xvi secolo. Quest’epoca fu contrassegnata dal lungo governo del gran principe Boris Aleksandrovi/ (1425-1461), durante il quale il principato di Tver’, dopo i burrascosi sconvolgimenti politici che aveva attraversato nel secolo precedente, entrò finalmente in un periodo di relativa pace ed addirittura di floridità. Durante il regno di Boris Aleksandrovi/, a Tver’ si ebbe una notevole rinascita della letteratura, dell’architettura, dell’artigianato, del commercio, dei rapporti internazionali e regionali, e tutto ciò si riflesse positivamente anche sullo sviluppo della pittura. Le icone di Tver’ si distinguono per l’uso di un colore intenso e di una densa ocra biancastra. Quest’ultima caratteristica si può osservare anche nelle opere più antiche della scuola di Tver’, mentre con l’andar del tempo la pittura di Tver’ entrò impercettibilmente in contatto con quella moscovita, come si intuisce chiaramente nella famosa Dormizione azzurra, in cui troviamo ad esempio le 210 proporzioni regolari e slanciate dei corpi e i tipi dei volti degli apostoli che erano entrati nell’uso comune dei pittori moscoviti all’inizio del xv secolo. Sempre a Tver’ fu dipinta, a quanto pare, anche l’icona della Resurrezione di Cristo, dagli stupendi colori, proveniente da una collezione privata di Stoccolma, e che ora viene ad integrare il già vasto inventario delle opere di Tver’ compilato da G.V. Popov (circa cento pezzi diversi). Anche in questa icona sono evidenti i punti di contatto con l’arte moscovita, in particolare con l’Ascensione della metà del xv secolo, conservata alla Galleria Tret’jakov, dove in verità il principio
raffigurato san Nicola nelle icone bizantine, sotto il pennello del maestro di Rostov sembra reincarnarsi ed acquistare caratteristiche nuove, più confacenti alle condizioni e all’ideale estetico del posto. L’autore dell’icona di Rostov ha saputo cogliere con grande sensibilità nell’immagine di san Nicola quei tratti che avrebbero potuto incutere rispetto nell’uomo russo, la cui esistenza si svolgeva in un clima austero, in mezzo a una natura selvaggia, e richiedeva una grande tenacia: il suo Nicola appare spiritualmente forte ed attento ai bisogni della gente del popolo, e le varie scene dei miracoli nei riquadri sui bordi dell’icona devono far capire che Nicola è un protettore fedele in tutti i casi difficili della vita. Altrettanto espressiva è un’altra icona rostoviana di san Nicola, che secondo la tradizione san 208 Sergio di Radonež teneva appesa nella propria cella. Caratteristica di questa icona è la stupenda rappresentazione dello stato d’animo profondamente assorto del santo, che guarda diritto verso lo spettatore, ma nello stesso tempo è tanto sprofondato nei suoi pensieri che sembra non accorgersi di ciò che gli sta intorno. Questo silenzio «interiore» del santo doveva essere in consonanza con alcune idee di san Sergio di Radonež, nel cui monastero si incoraggiava la pratica del perfezionamento interiore attraverso la rinuncia ai discorsi vuoti e al contatto quotidiano col mondo. L’icona è dipinta con colori diluiti ed è piuttosto piatta, ma grazie a piccoli colpi di pennello che comunicano una sorta di vibrazione alla superficie pittorica essa produce un’impressione straordinariamente vivace e convincente. La scuola di Rostov era lontana dai nuovi problemi artistici che agitavano a quel tempo i migliori maestri di
208. San Nicola Taumaturgo, seconda metà xiv secolo, icona dalla cella di san Sergio di Radonež; museo del monastero della Trinità di san Sergio.
301
emotivo è espresso in misura minore e con altri mezzi. Ma le successive opere di Tver’ dimostrarono che questa tendenza non era destinata a svilupparsi, e la scuola di Tver’, racchiusa negli angusti confini di un fenomeno artistico a carattere locale, incominciò a produrre icone banali, di scarso interesse. Nella sua storia si rifletteva come in uno specchio la politica separatista e conservatrice dei principi di Tver’, che si opponevano tenacemente all’autorità di Mosca, con la quale combatterono per centocinquant’anni una vana e inutile guerra. Alla regione di Vologda è legata l’arte di Dionisij di Glušica, l’unico artista locale di cui ci sia stato tramandato il nome (1362-1437). Come riporta il suo biografo, Dionisij non soltanto dipingeva icone, ma era anche fabbro e sapeva intrecciare i cesti. Questa notizia conferma che al Nord anche gli iconografi illustri come Dionisij non erano artisti di professione, e abbinavano la conoscenza dell’iconografia con altri mestieri. La tradizione religiosa attribuiva a Dionisij moltissime opere, tra cui in particovi/ lare la piccola icona di San Kirill di Beloozero del 1424, 34 attualmente alla Galleria Tret’jakov. È un’icona estremamente importante, poiché fu dipinta mentre il santo era ancora in vita, e il suo autore riprodusse indubbiamente l’autentica effigie del noto igumeno: un vecchio tarchiato, operoso e alla buona, con occhi vivaci e un volto affabile e saggio. È un ritratto nel vero senso della parola, molto raro nella pittura anticorussa. Non a caso la scritta originaria dell’icona era «Kiril», e solo nel xvii secolo l’aggiunta dell’epiteto «beato» rafforzò nell’immagine il suo valore di icona, destinata alla preghiera e alla venerazione. Fino a non molto tempo fa non c’era motivo di considerare Vologda come un centro artistico a sé. Le poche icone provenienti da questa regione venivano classificate nella categoria generale di «maniera del Nord», anche se tra queste si annoveravano, come è noto, opere estremamente eterogenee per qualità. Ma è sufficiente ricordare 212 l’icona di San Nicola Taumaturgo del villaggio di Karga/ Borisoglebskij, da tempo conservata alla Galleria Tret’jakov, e quella del Salvatore non fatto da mano d’uomo,
recentemente rinvenuta nel villaggio di Novlenskoe e ac- 213 quisita anch’essa dalla Galleria Tret’jakov, per convincersi fermamente dell’esistenza di una scuola di Vologda: le due icone dimostrano che a Vologda dovevano lavorare pittori professionisti. In esse troviamo una precisa costruzione della forma, un’iconografia pienamente matura e un colorito estremamente espressivo che rivela un’evidente preferenza degli artisti per i toni blu scuro. Sembra che a Vologda si possa riferire anche una serie di icone eccellenti dal punto di vista pittorico, appartenute a suo tempo a diversi collezionisti, ed ora conservate alla Galleria Tret’jakov e al Museo di arte russa di Kiev. La serie è composta da cinque icone che raffigurano l’Ultima Cena, la Decollazione di san Giovanni Battista, la Deposizione dalla croce, Il Pianto sul Cristo morto e la Discesa agli inferi. Il Pianto può essere tranquillamente an- 214 noverato tra i capolavori della pittura anticorussa. Con la sua grande padronanza del disegno e la chiara concezione della specificità dell’icona come rappresentazione di un determinato simbolo o idea, l’anonimo autore ha saputo raggiungere il vertice dell’espressività artistica e psicologica per il tema da lui scelto. Utilizzando il metodo, consueto per l’iconografia, di rendere il contenuto del racconto con l’aiuto dei gesti dei personaggi principali, l’autore ci comunica il senso del dolore irreparabile che afferra coloro che stanno attorno a Gesù al momento della sua sepoltura. Il viso straziato della Madre di Dio che si stringe convulsa al volto del figlio morto, le sopracciglia dolorosamente inarcate di Giuseppe di Arimatea, le braccia imploranti e disperatamente protese della donna che sta al capezzale di Gesù, la profonda tristezza degli altri partecipanti alla sepoltura raggiungono il loro culmine espressivo nel commovente gesto di Maria Maddalena, che intreccia le mani per l’incontenibile disperazione alla vista di Cristo straziato. Il paesaggio dipinto in stile simmetrico, quasi araldico, comunica all’azione una punta di severa nobiltà, e le linee sottili delle montagne che si ripetono geometricamente, convergendo secondo la legge della prospettiva inversa sul
209-211. Natività della Madre di Dio, prima metà xv secolo, dal monastero della Protezione della Madre di Dio a Suzdal’; San Pietroburgo, Museo Russo. Dormizione, xv secolo, scuola di T ver’; collezione I.S. Ostrouchov, Mosca, Galleria Tret’jakov. Madre di Dio della regione di Kuben’, xiv secolo, scuola del Nord; Vologda, museo storico-geografico.
302
sepolcro di Cristo e sulle figure delle pie donne, concentrano magistralmente l’attenzione dello spettatore sulla scena in primo piano. Non esistono notizie precise sulla provenienza dell’icona del Pianto sul Cristo morto e delle altre opere di questa serie, e tutt’oggi gli studiosi le attribuiscono ora alla «maniera del Nord» della regione di Kargopol’, ora alle scuole di Novgorod e Nižnij Novgorod. Questa abbondanza di opinioni deriva prima di tutto dallo stile un po’ enigmatico delle icone, in cui si osservano come fusi assieme i tratti caratteristici di diverse correnti locali della pittura anticorussa. Il disegno laconico ed estremamente espressivo sembra indicare un legame indiretto delle icone con l’arte di Novgorod; lo stile pittorico piatto e le tinte acquose, semitrasparenti, secondo vari studiosi indicano un’affinità di queste icone con le «maniere del Nord»; il principio emotivo chiaramente espresso fa pensare alla pittura moscovita, e i singoli metodi stilistici, per esempio la forma delle montagne, sono interpretati come possibili indizi della scuola di Nižnij Novgorod. Tutte queste argomentazioni sono di per sé buone, ma prese assieme possono evidentemente concordare solo qualora si giunga alla conclusione che le icone sono state dipinte in una città dove venivano costantemente assimilate le migliori conquiste di alcune delle maggiori scuole artistiche e nello stesso tempo si lavorava attivamente per creare uno stile originale. A queste condizioni risponde pienamente solo Vologda, e non è certo un caso che proprio qui siano state segnalate a suo tempo opere che rivelavano una lontana, ma indubbia parentela con le icone della Galleria Tret’jakov e del Museo di Kiev. Non siamo a conoscenza di opere della pittura moscovita particolarmente belle che si possano datare con certezza alla metà del xv secolo: verranno forse scoperte in un prossimo futuro. La mancanza di opere pittoriche 216 a tempera è colmata in parte dalla superba sindone ricamata del 1452, conservata al museo di Novgorod. La scritta ricamata sulla sindone attesta che essa era stata donata dal gran principe di Mosca Vasilij Vasil’evi/ l’O-
scuro e dai suoi figli alla cattedrale della Sofia, nella loro «votčina… a Velikij Novgorod al santissimo arcivescovo Evfimij». Per motivi inspiegabili si pensò a lungo che questa sindone provenisse da Novgorod, mentre i nomi dei donatori e il fatto che la libera città di Novgorod compaia nella scritta come votčina dei principi di Mosca escludono del tutto questa ipotesi. La sindone fu indubbiamente inviata da Mosca. Essa è ricamata con fili d’oro e d’argento su uno sfondo blu come il cielo notturno, tempestato di stelle. Le figure leggiadre e aggraziate degli angeli sono perfettamente piatte, senza il minimo accenno di volume. Grazie alla sindone del 1452, è venuta alla luce un’intera serie di opere di ricamo di origine moscovita ad essa stilisticamente affini, tra le quali si distinguono per la qualità dell’esecuzione la sindone del monastero di Kirill di Beloozero, oggi al Museo Russo di Pietroburgo e la cosiddetta sindone «azzurra» nella sacrestia del monastero della Trinità di san Sergio. Queste opere di grande rarità, che risalgono anch’esse alla metà del xv secolo, completano la nostra panoramica delle opere di ricamo moscovite e della vita artistica cittadina nel periodo successivo a Rublëv. Perché, rispetto al primo trentennio del xv secolo, l’arte moscovita della metà del secolo non si presenta molto ricca di capolavori? Naturalmente ebbero qui la loro importanza gli eventi accaduti nella Rus’ nordorientale durante il secondo trentennio del xv secolo: le estenuanti lotte feudali, le epidemie, le carestie ricorrenti, ed anche le frequenti incursioni dei Tatari e delle truppe lituane nelle terre di confine; ma il fatto principale era che la scuola di Mosca aveva esaurito le proprie energie prima di riuscire a dar vita ad una nuova maniera pittorica, a un nuovo indirizzo stilistico. Con la morte di Rublëv, di Daniil e forse di altri due o tre maestri della stessa portata, essa entrò in un periodo di ripetizione dei modelli famosi e incominciò a brillare di luce riflessa. Era il periodo in cui l’arte di Rublëv e dei suoi contemporanei apparteneva ormai al passato, e non era ancora nata l’arte della fulgida epoca futura, legata al nome di Dionisij.
212-214. San Nicola Taumaturgo con scene della vita, seconda metà xiv secolo, icona dal pogost di Karga/ Borisoglebskij nella regione di Vologda; Mosca, Galleria Tret’jakov. Salvatore non fatto da mano d’uomo, seconda metà xiv secolo, dalla chiesa del villaggio Novlenskoje nella parte settentrionale della regione di Jaroslavl’, scuola di Vologda; Mosca, Galleria Tret’jakov. Pianto sul Cristo morto, xv secolo, maniera del Nord; collezione I.S. Ostrouchov, Mosca, Galleria Tret’jakov.
303
di Dionisij e dei maestri della sua cerchia. È evidente che i contemporanei apprezzavano la loro pittura per la bellezza, lo splendore, l’impressione che destava nello spettatore. Dionisij era un maestro molto fecondo. Si può tranquillamente affermare che dipinse alcune centinaia di icone. Solo nel monastero di Iosif di Volokolamsk, secondo un inventario del 1545, erano conservate 87 icone dipinte di suo pugno. I compilatori dell’inventario intendevano con ciò solo le icone dipinte da lui personalmente, mentre le icone dei suoi aiutanti (Paisij, Feodosij, Vladimir) venivano conteggiate a parte. È difficile dire di quali indizi concreti tenessero conto i compilatori degli inventari per classificare e suddividere per autore le enormi scorte di icone dei monasteri. È molto facile che sapessero semplicemente che questa o quell’opera era stata dipinta da Dionisij. Attualmente risulta difficile tracciare un confine preciso tra le opere dello stesso Dionisij e quelle dei suoi figli e dei maestri a lui spiritualmente vicini. Perciò le autentiche icone di Dionisij sono una rarità come quelle dipinte da Andrej Rublëv. Gli anni giovanili del maestro, in cui si formò il suo gusto artistico e si elaborò lo stile, si collocano circa a metà e nel terzo quarto del xv secolo. A quel tempo era ancora fresco il ricordo di Rublëv, ed alcuni dei suoi discepoli erano ancora vivi e operanti. Dionisij doveva certamente conoscere bene l’arte di Rublëv, ma il fattore decisivo nella sua biografia artistica è costituito dalle opere dei contemporanei più giovani e dei discepoli di Rublëv, che si diedero a sviluppare la maniera del grande maestro nella direzione di una pittura sempre più raffinata e bella. Ci danno una certa idea della loro arte due icone dell’Odigitria dal monastero della Trinità di san Sergio, ed anche la 206 sindone del 1452. Queste opere dovevano piacere a Dio- vi/ nisij: non a caso la sua Odigitria, dipinta nel 1482, ricorda 38 col suo stile raffinato le due icone dell’Odigitria del monastero della Trinità. Le opere giovanili di Dionisij: gli affreschi del monastero di Pafnutij e la Deesis, le feste e i profeti della cattedrale della Dormizione, non si sono conservate; ma nella cattedrale della Dormizione ci sono alcuni affreschi che furono evidentemente dipinti nel 1481, contemporaneamente all’iconostasi. Sono le figure dei Santi sulla balau-
215. Tra i due vertici rappresentati da Rublëv e da Dionisij, nei decenni verso la metà del xv secolo la pittura si esprime con opere di medio livello. Madre di Dio di Jaroslavl’, metà xv secolo, scuola di Mosca; collezione I.S. Ostrouchov, Mosca, Galleria Tret’jakov.
La biografia di Dionisij, proprio come quella di Rublëv, si può ricostruire esclusivamente in base alle notizie sui suoi lavori. Il suo nome viene ricordato per la prima volta tra il 1467 e il 1477, quando egli collaborò alla decorazione della cattedrale in pietra del monastero di Pafnutij di Borovsk. L’ultimo lavoro importante del maestro furono gli affreschi da lui eseguiti nella cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Ferapont, databili al 1502. Nell’intervallo di trent’anni che corre tra queste due date, Dionisij collaborò all’esecuzione dell’iconostasi a tre ordini e agli affreschi per la cattedrale della Dormizione al Cremlino di Mosca (1481), dipinse l’icona dell’Odigitria per la chiesa dell’Ascensione, nello stesso Cremlino (1482), decorò con affreschi ed icone la cattedrale in pietra del monastero di Iosif di Volokolamsk (1484-1486) e dipinse le icone per l’iconostasi del monastero di Pavel di Obnora, nei pressi di Vologda (1500). Dionisij lavorava raramente da solo; normalmente aveva accanto numerosi collaboratori e aiutanti: Mitrofan, Timofej, Jarec, Konja, lo starec Paisij, e i propri figli, Feodosij e Vladimir. Tutti questi artisti godevano di una vasta notorietà; ogni loro nuova opera destava un entusiasmo strepitoso. Gli affreschi nella chiesa del monastero di Pafnutij erano così belli che i principi ne furono stupefatti; la Deesis dipinta per la cattedrale della Dormizione era «assai bella», e gli artisti erano «a quel tempo più famosi di tutti in quel mestiere», «iconografi raffinati e abili nella terra russa, i pittori migliori che si fossero sentiti nominare» e così via. In queste parole lusinghiere risuona distintamente una valutazione puramente estetica dell’arte
216. Sindone, 1452, scuola di Mosca, dono del gran principe di Mosca Vasilij ii alla cattedrale della Sofia di Novgorod; museo di Novgorod.
304
stra del santuario, l’Adorazione dei magi sulla parete della sacrestia e i Quaranta martiri di Sebaste e una Scena della vita di san Pietro nella cappella dei Santi Pietro e Paolo. A parte la composizione dei Quaranta martiri di Sebaste, gli affreschi hanno molto in comune con le opere di Dionisij, e benché non sappiamo se egli abbia collaborato o meno all’esecuzione di questi affreschi, essi ci danno comunque un’idea di quella corrente della pittura moscovita nel cui alveo si sviluppò anche l’arte dello stesso Dionisij. Tra il gran numero di icone attribuite a Dionisij, il posto principale è occupato dalle monumentali icone con le vite del metropolita Petr (cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca) e del metropolita Aleksij (Galleria Tret’jakov). Si pensa che esse risalgano agli anni ’80 del xv secolo, quando il maestro era al culmine della sua fama. Le icone provengono entrambe dalla cattedrale della Dormizione del Cremlino di Mosca, e, a giudicare dalle loro dimensioni (197x151 e 197x152), erano destinate alla nuova costruzione progettata dall’architetto Aristotele Fioravanti. In tal caso la loro datazione è legata al resto dei lavori per la decorazione pittorica della chiesa, eseguiti, come riferiscono le cronache, da Dionisij, Jarec e Konia nel 1481 e probabilmente negli anni seguenti. Inoltre, poco prima che gli artisti fossero invitati al Cremlino, si svolse la solenne traslazione delle spoglie del metropolita Petr (1479) nella nuova cattedrale, e qualche anno dopo la traslazione delle spoglie del metropolita Aleksij nella chiesa a lui dedicata, costruita nel monastero del Miracolo, non lontano dalla cattedrale della Dormizione (1485). A questo accresciuto interesse per la memoria dei primi vescovi moscoviti, difensori della chiesa e della statalità russa, è legato anche, evidentemente, il progetto che sta alla base delle due icone. Nei riquadri del bordo non troviamo le scene della traslazione delle spoglie, molto popolari in epoca successiva, e ciò fa pensare che le immagini siano state dipinte quando questi fatti si erano appena svolti e non avevano ancora trovato espressione nell’iconografia. Le icone dei metropoliti Petr e Aleksij ci presentano vii/ Dionisij come il più grande autore di icone con vite di 1012 santi. Queste immagini, in cui è raffigurato al centro il santo, circondato da una serie di riquadri che illustrano gli avvenimenti principali della sua vita e i miracoli operati dalle sue reliquie, si dipingevano nella Rus’ già nei secoli xiii-xiv, e continuarono ad essere molto popolari anche in seguito. Ma nelle icone dei santi di epoca antecedente i grandi riquadri limitano spesso la forza espressiva della figura principale. Fu necessaria una lunga evoluzione dell’iconografia verso un affinamento del sistema artistico e l’elaborazione della tecnica miniaturistica perché le icone con le vite dei santi raggiungessero finalmente la perfezione. Proprio nell’arte di Dionisij il tipo iconografico del santo con scene della vita si cristallizzò nelle sue forme classiche. Le dimensioni della zona centrale e quelle dei riquadri sui bordi sono rigidamente legate tra loro in una proporzione facilmente esprimibile in termini numerici. In confronto alle immagini di epoca precedente, le dimensioni della figura centrale sono un po’ ridotte, mentre sono aumentate quelle delle figure nei riquadri laterali, oltre alle dimensioni dei riquadri stessi. La cornice colorata o l’intaglio in sbieco della seconda «arca» (kovčeg: l’interno incavato della tavola) che sostituisce la cornice sono scomparsi, e il fondo uniforme bianco-azzurrognolo della parte centrale si è fuso con l’a-
nalogo fondo delle scene della vita. Sono scomparse anche le righe verticali tra i riquadri, la cui funzione è svolta ora dagli sfondi architettonici che incorniciano le singole scene. In alcuni casi, nella parte superiore e inferiore dell’icona, il confine tra i riquadri adiacenti è poco marcato, e il racconto incomincia a svilupparsi in orizzontale, come nei fregi antichi. Del resto la costante della figura centrale si ripete regolarmente anche nei riquadri, le cui azioni si svolgono solitamente con lentezza, con ripetute scene di solenni incontri e colloqui. Il colorito della parte centrale e dei riquadri non presenta sostanziali differenze e si costruisce su combinazioni dei medesimi colori: bianco, azzurro, verde, giallo, rosa, ciliegia e rosso. L’uso insolitamente frequente del bianco, che fa risaltare con particolare intensità tutti gli altri colori, conferisce alle icone un aspetto festoso, decorativo. Nell’opera di Dionisij l’icona del santo con scene della vita è giunta ad una tale perfezione da far addirittura attribuire a questo artista il merito della trasformazione di questo tipo di icona in un vero e proprio genere a sé stante. Nell’arte di Dionisij l’interesse per il contenuto interiore della figura umana lascia in parte spazio all’interesse per problemi di ordine puramente artistico. Per lui è importante non tanto il soggetto, quanto il modo di dar forma al soggetto stesso. Da qui nasce la preferenza del maestro per le scene con molte figure, che gli davano più spazio per combinazioni creative (principalmente cromatiche) rispetto alle figure singole. Le icone di vari santi, tra cui anche quelle sicuramente di Dionisij, come l’Odigitria della chiesa dell’Ascensione nel Cremlino di Mosca, o le icone che si suppone siano state dipinte da Dionisij, come la bellissima icona della santa martire Varvara di 217 Volokolamsk, conservata ora nel Museo di Sergiev Posad, pur con tutti i loro pregi artistici sono tuttavia relegate in secondo piano dalle icone dei santi con scene della vita e dalle superbe composizioni dipinte da lui stesso o dagli artisti della sua cerchia e della sua scuola su temi come la Dormizione della Madre di Dio, la Discesa agli inferi, In te si rallegra, la Protezione della Madre di Dio, l’Apoca- 218 lisse, l’Esamerone e molte altre. Un quadro festoso delle solennità popolari, i temi della gloria e della celebrazione: questi sono gli elementi fondamentali in Dionisij. Qui egli ha raggiunto vette che nessun altro maestro del passato aveva mai sfiorato. Si potrebbe premettere già in partenza che l’interesse di Dionisij per la magnificenza esteriore comporta una elaborazione del tipo iconografico tradizionale, altrettanto adatto a qualsiasi icona indipendentemente dal suo contenuto. Ed effettivamente, per la stragrande maggioranza i santi di Dionisij sono dipinti con lo stesso volto: secondo la definizione dei manuali iconografici essi sono tutti «a somiglianza» l’uno dell’altro. Sergio di Radonež è simile a Kirill di Beloozero, Kirill a Dimitrij di Priluck, Dimitrij a san Nicola Taumaturgo e così via. Questa ripetitività è ancora più evidente, in quanto le opere di Dionisij sono uniformi anche dal punto di vista della tecnica iconografica. Le figure eccessivamente allungate, la rigida verticalità delle pieghe delle vesti, il movimento appena accennato, lo stile dolce, molto fluido con le gote sempre un po’ rosate, l’ampio uso di velature, tutto ciò passa da un’immagine all’altra senza alcun cambiamento sostanziale. A volte sembra che, avendo finalmente trovato uno stile che lo soddisfa, Dionisij si sia arrestato nella propria evoluzione e che tutto il suo lungo cammino creativo non 305
ispirate alle parole dell’Acatisto, un inno di lode in onore di Maria. Collocando, secondo la tradizione, la composizione del Giudizio universale sulla parete ovest della chiesa, gli artisti sottolineano abilmente in questo affresco il ruolo di Maria che intercede presso Cristo in favore del genere umano, celeste protettrice e orante. Salta all’occhio il fatto che, nonostante l’abbondanza di scene riferite direttamente o indirettamente a Maria, ad eccezione dell’affresco sul portale che rappresenta la Natività e le Tenerezze, essa non compare in nessun’altra scena come normalmente nelle narrazioni della sua vita. Ovunque emerge in primo piano l’idea astratta dell’esultanza per la sua nascita, la festa «che ha destato la gioia di tutto l’universo». Questa idea indusse anche gli artisti ad usare nel programma degli affreschi le composizioni che illustrano l’Acatisto, l’inno più solenne e nello stesso tempo più astratto in onore della Madre di Dio. Gli affreschi che illustrano le strofe dell’Acatisto occupano la fascia centrale degli affreschi. In altre parole, è stata assegnata loro la posizione più in vista, il posto d’onore. Questi affreschi cantano le lodi di Maria seguendo puntualmente il canovaccio del testo poetico; inoltre, proprio come il testo, essi hanno la forma di complesse raffigurazioni simboliche che illustrano non tanto la vita della Madre di Dio, quanto i suoi diversi significati. «Salve, o astro che fa apparire il sole; salve, o splendore del mistico giorno»: questo motivo elogiativo dominante dell’Acatisto è nello stesso tempo anche il motivo dominante di tutti gli affreschi di Ferapont. Una caratteristica rilevante degli affreschi di Ferapont è vi/ il loro colorito. Dal punto di vista del colore questi sono 40 senza dubbio i più begli affreschi anticorussi. Per molto vii/ tempo si è supposto che Dionisij e i suoi aiutanti utilizzas- 8-9 sero i ricchi giacimenti locali di terre colorate che si trovavano sulle rive dei laghi attorno al monastero. C’erano tinte gialle, rosse, violetto, rosa, verdi, brune, bianche, grigie e
sia nient’altro che un’imitazione di se stesso. Perciò ultimamente non ha un’importanza essenziale stabilire una vera cronologia delle opere di Dionisij. La passione per l’aspetto esteriore a scapito dello studio psicologico della figura umana si poteva osservare già negli affreschi di Skovorodka, ma nell’arte di Dionisij questa tendenza ha raggiunto la piena fioritura ed è diventata la caratteristica determinante del metodo artistico nel suo complesso. Certamente il carisma del grande pittore salva le sue icone dalla vacuità e dalla noia che avvolgono le opere di molti contemporanei di Dionisij e specialmente dei suoi discepoli. Solo alcune rarissime opere, e non pittoriche, ma di ricamo figurato (O madre da tutti cantata e la Decollazione di Giovanni Battista provenienti dalla bottega di Elena Voloyanka, conservate al Museo storico, e i veli del 1510 con la Natività della Madre di Dio della Galleria Tret’jakov), arricchiscono questo quadro generale di temi trattati con uno stile originale. Negli ultimi anni della sua vita, Dionisij lavorò molto al Nord. Nel 1500 dipinse una Deesis con feste e profeti per la cattedrale della Trinità del monastero di Pavel di Obnora. Dalle uniche icone rimaste di questa iconostasi si capisce che doveva trattarsi di un complesso decorativii/ vo di grande bellezza pittorica. Particolarmente bella tra 6; queste è l’icona della Crocifissione, oggi conservata alla 219 Galleria Tret’jakov. Come tutte le opere di Dionisij, essa si distingue particolarmente per il colorito. La veste del centurione Longino, in piedi accanto a Giovanni, è dipinta con tinte bianco, azzurro chiaro, giallo limone, rosso, giallo scuro, azzurro scuro, verdastro e verde azzurrognolo. Anche per la tavolozza di Dionisij questa figura appare straordinariamente spettacolare. Nel 1502 Dionisij e i suoi figli Feodosij e Vladimir incominciarono ad affrescare la cattedrale in pietra del monastero di Ferapont. I lavori furono portati a termine in un mese e mezzo, come testimonia la relativa iscrizione lasciata dagli autori sul soffitto del vano della porta settentrionale. Gli affreschi sono particolarmente ben conservati, avendo subito in più di quattro secoli di vita solamente un restauro, e assai poco rilevante. Scoperti e resi pubblici nel 1911, guadagnarono ben presto una grande fama e vasti riconoscimenti. La cattedrale di Ferapont è dedicata alla festa della Natività della Madre di Dio, e naturalmente il contenuto di tutto il suo programma pittorico è riferito a Maria. Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che l’affresco esterno che incornicia il portale, una rarità per la pittura anticorussa, sia stato dipinto personalmente da Dionisij. Qui, in tre registri relativamente corti, sono raffigurati la Deesis, la Natività della Madre di Dio, le Tenerezze della Madre di Dio e ai lati dell’ingresso due angeli. Inoltre, immediatamente sopra l’ingresso sono dipinti la Madre di Dio del Segno, che simboleggia l’incarnazione di Cristo, e i grandi autori di inni liturgici Giovanni Damasceno e Cosma di Maiuma. Già nell’affresco del portale si può distinguere chiaramente il progetto che sta alla base di tutto il ciclo pittorico: è l’espressione della gioia per l’evento della nascita di Maria, la venerazione resa alla Madre di Dio e la sua glorificazione. All’interno della cattedrale questa idea viene sviluppata con la massima ampiezza; successivamente trova espressione nell’affresco della nicchia del santuario in composizioni come la Protezione della Madre di Dio, In te si rallegra, Le lodi della Madre di Dio ed anche in una intera serie di scene
nere, che a loro volta potevano dare una quantità di tenere sfumature di sorprendente bellezza. Oggi tuttavia è stato dimostrato che la composizione chimica della stragrande maggioranza dei pigmenti utilizzati da Dionisij non aveva nulla a che fare con i minerali locali. Non è escluso, in rea ltà, che Dionisij avesse acutamente colto la bellezza delle argille e delle ghiaie locali e riproducesse di proposito nel suo colorito leggero, opaco e armonico i prodigi della natura delle regioni settentrionali. I colori predominanti negli affreschi sono bianco, rosso ciliegia, rosa e ocra chiara combinati con un fondo celeste. Chi contempla questi affreschi è pervaso da un senso di ammirazione e serenità. A ciò contribuisce anche l’aspetto puramente grafico dell’affresco: le figure sono alte, slanciate, eleganti; la plasticità dei corpi non viene quasi espressa, e tutte le figure paiono librarsi sulla superficie della parete. La posizione verticale delle figure, caratteristica per Dionisij, fa sì che la stragrande maggioranza dei personaggi negli affreschi sia raffigurata in grandezza naturale. Anche nei casi in cui lo schema iconografico imponeva all’artista di rappresentare delle persone sedute, egli ne allunga sensibilmente le figure, tanto da farle sembrare in piedi. Tutti gli affreschi senza eccezione portano il segno dell’indifferenza di Dionisij per l’azione drammatica e l’azione in generale. Dappertutto vediamo il motivo dell’intercessione. Tutte le figure sugli affreschi intercedono l’una presso l’altra. Persino la Madre di Dio e Cristo, che apparentemente dovrebbero costituire il centro compositivo della maggioranza degli affreschi, di fatto sono spostati dall’asse centrale e sono anch’essi raffigurati in pose oranti di intercessione. Questa caratteristica, a prima vista strana, degli affreschi di Ferapont scaturisce naturalmente dall’orientamento generale di Dionisij, che cercava di raffigurare non tanto la divinità, l’uomo o l’azione, quanto la condizione religiosa, la preghiera. Perciò i santi, destinati ad essere oggetto di venerazione da parte dei fedeli, trovano questa venerazione nei personaggi degli affreschi stessi, in cui anche loro sono raffigurati. Con ciò si spiega tra l’altro anche il debolissimo effetto puramente psicologico della pittura. A differenza dei santi possenti e fanaticamente impulsivi degli affreschi di Novgorod, i santi negli affreschi di Dionisij non sono rivolti verso chi osserva, i loro occhi non attraggono, non affascinano l’uomo e non risvegliano in lui sentimenti religiosi. Non è difficile rendersi conto che il carattere dell’arte di Dionisij e il progetto degli affreschi nel monastero di Ferapont si conciliano assai bene tra loro. Ecco perché
gli affreschi di Ferapont, nonostante siano stati eseguiti al termine della vita di Dionisij e forse siano stati addirittura in gran parte dipinti non da lui ma dai suoi figli, costituiscono tuttavia uno dei capolavori della sua eredità artistica. L’arte di Dionisij si colloca a cavallo tra due epoche. Da un lato essa porta a compimento le ricerche creative del xv secolo, e dall’altro apre il periodo della pittura sontuosa e complessa del xvi secolo. Alla nuova epoca essa è anzi legata addirittura più saldamente che a quella precedente. Non a caso della pittura di Dionisij era entusiasta Ivan iii, che vi vedeva riflessa la gloria del suo regno. Ma bisogna sottolineare in particolar modo il rapporto di Dionisij con la Chiesa. I suoi committenti e protettori fissi erano i membri dell’alta gerarchia ecclesiastica e gli igumeni dei più importanti monasteri, tra i quali il primo posto spettava a Iosif di Volokolamsk. Capo della corrente degli stjažateli (i «possidenti»), brillante polemista di indirizzo ortodosso, sostenitore dell’idea dell’unificazione dell’autorità regale con quella religiosa, irriducibile nemico di qualsiasi manifestazione di libero pensiero, Iosif deve aver esercitato una profonda influenza su Dionisij. A Dionisij e a suo figlio Feodosij, Iosif indirizzò la famosa Lettera all’iconografo e i Discorsi sulla venerazione delle icone, impregnati di uno spirito rigidamente dogmatico. In queste opere Iosif afferma ripetutamente che le icone devono essere splendide perché la loro bellezza indirizzi il pensiero umano «al desiderio di Dio e all’amore», «all’indescrivibile, ineffabile e irraggiungibile». Per esprimere questo ideale astratto mediante forme artistiche ci voleva una mente scolastica ben addestrata e un’estrema tipizzazione dei metodi figurativi. Proprio per questo, negli affreschi della cattedrale del monastero di Ferapont, Dionisij e i suoi aiutanti ripeterono volutamente la stessa composizione varie volte, quando ritenevano che potesse esprimere efficacemente il contenuto dei vari avvenimenti. Questo vale soprattutto per gli affreschi che rappresentano i Colloqui dei tre santi vescovi e i Concili ecumenici, che sono dipinti secondo lo stesso schema e rivelano un fortissimo influsso del pensiero dogmatico, che non tende alla varietà dei metodi ma alla loro unificazione. Come Andrej Rublëv e Daniil \ërnyj, che dipingendo la cattedrale della Dormizione a Vladimir non si erano limitati soltanto agli affreschi, anche Dionisij e i suoi figli dipinsero una nuova iconostasi per la cattedrale della Natività del monastero di Ferapont. Di questa stupenda opera si sono conservate alcune grandi icone dell’ordine
218. In te si rallegra, Dionisij (?), inizio xvi secolo, dalla cattedrale della Dormizione di Dmitrov, particolare: gruppo di santi di sinistra; Mosca, Galleria Tret’jakov.
217. Santa Varvara, Dionisij, fine xv secolo, dalla chiesa della Protezione della Madre di Dio a Volokolamsk; museo del monastero della Trinità di san Sergio.
306
307
locale, la Deesis e i profeti (mentre non abbiamo testimonianze di icone dell’ordine delle feste). Anche queste icone isolate, esposte nei musei, bastano a dimostrare che per il colorito e la generale delicatezza pittorica l’iconostasi della cattedrale della Natività fu uno dei punti centrali nella sua decorazione complessiva, formando assieme agli affreschi un complesso stilisticamente unitario. Allo stesso modo degli affreschi, anche le icone sono ricche di tonalità tenere e decorative ed espressive nello stesso tempo. Contemplando queste icone si resta affascinati dalla finezza del disegno, dal gioco delle linee, dall’armonia del colore, dagli ampi schiarimenti con colori sfumati. È particolarmente caratteristica l’icona di San vi/ Demetrio di Tessalonica con la sua mirabile giustapposi39 zione di toni azzurro e ciliegia sul fondo oro. La figura del santo è tagliata lungo la diagonale dal lembo del suo manto dritto come una freccia. Grazie a questo indovinato dettaglio la figura fresca e giovanile, pura e leggiadra di Demetrio acquista inaspettatamente un austero splendore e una saldezza spirituale. Ma in linea col contenuto generale dell’arte di Dionisij, i tratti psicologici dei suoi santi non sono mai predominanti, e il valore delle ricerche e delle scoperte puramente pittoriche del maestro resta sempre l’aspetto più importante della sua eredità artistica. La pittura moscovita della seconda metà del xv secolo, elevata al rango di arte ufficiale dall’autorità del gran principe e dalla Chiesa, ebbe una vasta diffusione; inoltre il suo campo di azione non si limitava a Mosca e alle vicine città e monasteri della vecchia Moscovia. Come l’autorità dei sovrani di Mosca aveva sottomesso le repubbliche e i principati della Rus’ nordoccidentale e nordorientale, così anche le idee, i principali temi iconografici e le singole peculiarità stilistiche di questa pittura penetrarono a poco a poco nell’arte delle altre città ed esercitarono un forte influsso sulle scuole locali.
cazione di oggetti di uso domestico e quotidiano risentì della dominazione tatara non meno delle altre arti. La capacità di lavorare il legno, il metallo, la pietra e il tessuto esige un lungo tirocinio, i metodi e la perizia si ottengono quando le botteghe operano con continuità per rispondere a un gran numero di commissioni. Laddove gli ordini hanno un carattere occasionale, la professione dell’orafo o del cesellatore diviene inevitabilmente un’arte poco raffinata, in grado di accontentare solo i gusti meno esigenti. Durante la minaccia tatara diminuirono considerevolmente i lavori con i metalli preziosi, le perle e le pietre dure, poiché non c’era alcuna sicurezza che gli oggetti d’oro e d’argento non cadessero poi in mano ai Tatari. Per di più molti artigiani delle città conquistate furono tratti in prigionia dall’Orda, dove venivano costretti a lavorare per i khan e i dignitari tatari. Anche nelle altre città, comunque, le arti attraversavano tempi difficili. Una testimonianza evidente della decadenza artistica di quel periodo ci viene da un’intera serie di oggetti metallici di uso religioso. Due panagiar (vaso liturgico usato per trasportare la prosfora della Madre di Dio – Panagia) in bronzo con la raffigurazione della Trinità, entrambi di Novgorod (Museo storico di Mosca e Museo di Novgorod) della prima metà del xiv secolo, con le loro forme sgraziate e il disegno alquanto primitivo delle figure degli angeli danno l’impressione di essere stati fusi e incisi da artisti che avevano appena appreso il mestiere di fonditore. E probabilmente fu proprio così. Ma il rinascere dei mestieri nel xiv secolo, dopo circa cento anni dalla comparsa dei Tatari, non era più condizionato dal pericolo esterno, e si sviluppò nel senso di una sempre maggiore ricercatezza e perfezione tecnica. Per capire questo progresso bisogna confrontare le raffigurazioni sui panagiar con un soggetto analogo, inciso sulle cosiddette porte di Tver’ ad Aleksandrov (vicino a 221 Mosca), datate intorno alla seconda metà del xiv secolo. Le eleganti figure degli angeli, con le loro proporzioni allungate, rivelano subito la mano sicura del maestro che sa brillantemente gestire la composizione. Una certa imprecisione del disegno, con le sue linee spezzate, non diminuisce per niente il valore artistico del monumento, che ci dà un’idea della cultura di Tver’, a noi poco nota.
Arti decorative e applicate La variante della creatività artistica popolare russa a carattere prevalentemente decorativo, legata alla fabbri-
219. Crocifissione, Dionisij, 1500 circa, dal monastero di Pavel di Obnora nella regione di Vologda; Mosca, Galleria Tret’jakov. 220. Madre di Dio in trono con Gesù bambino, Dionisij e figli: 1502, affresco nella conca dell’abside del santuario della cattedrale della Natività della Madre di Dio nel monastero di Ferapont.
308
dell’arcivescovo Moisej, nonostante le forme e le dimensioni considerevoli, è riccamente decorato con incisioni raffiguranti santi, in filigrana, niello e pietre preziose, che dovevano mostrare la ricchezza, la potenza e le illimitate facoltà dell’arcivescovo, poiché ogni giorno questo calice veniva portato sul solea della chiesa per la comunione dei fedeli. Le scritte liturgiche lungo la ghiera superiore della coppa e la cronaca incisa sulla ghiera inferiore si inseriscono nell’insieme delle decorazioni con la loro scrittura legata, oppure con la scrittura onciale staccata, che ha non poche qualità ornamentali. Ancora più notevole è la croce Ljudogoš/enskaja, intagliata dal maestro Jakov Fedosov su commissione degli abitanti della via Ljudogoš/enskaja 223 e presumibilmente collocata nella chiesa di Floro e Lauro, le cui figure si trovano insieme a quelle di altri santi nei medaglioni posti sulla faccia anteriore della croce. Questo eccezionale esempio della scultura in legno di Novgorod fu eseguito in memoria della sanguinosa lotta tra le famiglie bojare dei quartieri della Sofia e dei Mercanti, nella quale, come si racconta, persero la vita anche molti cittadini innocenti. Il quartiere della Sofia fu quello che subì maggiori perdite, sebbene alla fine riuscì a sopraffare il rione Slavenskij di Novgorod, e non per niente la scritta sul piedistallo della croce chiede a Cristo, a nome degli abitanti della via Ljudogoš/enskaja, di intercedere e soccorrere «i puri nella fede e nel cuore». La croce Ljudogoš/enskaja è un esempio di autentica arte popolare, che si basava soprattutto su motivi ornamentali rabescati, e non figurativi. La forma della croce è complicata dalle estremità bizzarramente piegate, che per consolidare la struttura sono collegate tra loro con spessi rinforzi, cosicché le tonde e strette aperture che ne risultano sono come inserite nel grande corpo arrotondato della croce. Il legno è interamente ricoperto da un intaglio piatto e i medaglioni con le figure dei santi risaltano a fatica su
Abbiamo tutte le ragioni per ritenere che migliaia di opere d’arte decorativa esistenti in passato, spesso citate persino in inventari di chiese e monasteri già in epoca più tarda, nel secolo xvii, siano andate perdute per sempre. È quindi ancor più sorprendente la grande quantità di quelle che si sono conservate e che sono ora al sicuro nei depositi statali. Il Palazzo dell’armeria del Cremlino di Mosca, il Palazzo delle udienze dell’arcivescovo nel Cremlino di Novgorod e altri famosi musei sono pieni di simili oggetti, spesso ancora poco studiati, che offrono un filo conduttore per comprendere il processo di rinascita artistica della Russia. Il più importante centro delle arti era naturalmente Novgorod, dove orafi, argentieri, smaltatori, incisori, intagliatori di pietra e legno da molto tempo costituivano l’élite degli artigiani cittadini. Mancando le gilde, ben note nell’Europa occidentale, la loro funzione veniva svolta, con tutta probabilità, dalle grandi botteghe presso la corte dell’arcivescovo, che controllavano il lavoro dei centri di produzione più piccoli, distribuivano loro le commissioni di importanza secondaria, e li raccomandavano a committenti meno facoltosi del capo della chiesa novgorodiana. Lo spirito corporativo era sufficientemente forte da non permettere un comportamento arbitrario e da mantenere la perfezione tecnica degli oggetti prodotti. Per una felice coincidenza ci è rimasto un ritratto di uno dei migliori maestri operanti a Novgorod all’inizio del xv secolo: il fonditore Avraam. Sulle porte bronzee di Korsun’, sul lato occidentale della cattedrale della Santa Sofia, ci sono le figure di tre maestri che hanno partecipato alla loro preparazione: Rikvin, Vasmut e Avraam. I primi due sono fonditori tedeschi del xii secolo, che fusero le porte a Magdeburgo, il terzo è un artista russo, al quale fu affidato il compito di mettere insieme le porte, trasportate a Novgorod come trofeo, conquistato durante una delle 222 guerre contro i tedeschi. Sebbene Avraam si sia sforzato di imitare lo stile romanico dell’originale, la sua figura bronzea in forte rilievo e in posa naturale è eseguita in uno stile completamente diverso, dove il naturalismo ingenuo del prototipo è sostituito da una più viva raffigurazione della realtà esistente. Avraam tiene in mano gli strumenti del proprio mestiere: il martello e le pinze. Nella sua figura rigorosamente frontale e a rilievo, negli occhi, fissi sull’osservatore, è chiaramente espresso il nobile valore dell’artista, che conosce il proprio mestiere e non prova soggezione a ritrarsi sulle porte della cattedrale cittadina. Bisogna notare altresì che né l’arcivescovo di Novgorod, né il consiglio degli anziani vedevano nulla di riprovevole nell’autoritratto di Avraam, poiché vi veniva indiscutibilmente riaffermata l’autorità di Novgorod come centro delle arti e dei mestieri. L’artigianato artistico di Novgorod ha prodotto molte opere di eccellente fattura e veri e propri capolavori come la croce in pietra di Borovi/i (fine xiii-inizio xiv secolo), custodita al Museo Russo, in perfetto stato di conservazione, il calice dell’arcivescovo Moisej (1329), scolpito in agata e con rifiniture in argento dorato, la monumentale 227 croce Ljudogoš/enskaja in legno intagliato (1359), un panagiar del 1435 con la raffigurazione intagliata della Trinità, proveniente dalla chiesa della Santa Sofia di Novgorod (tutti questi oggetti si trovano al museo di Novgorod). Il titolo delle opere con le loro date esatte e le scritte, che spiegano le circostanze della loro fabbricazione, ci danno una rara occasione di seguire i cambiamenti qualitativi e l’evoluzione dello stile di questi generi artistici. Il calice
221. Trinità, metà xiv secolo, particolare delle porte di bronzo di Tver’, cattedrale della Protezione della Madre di Dio nella Aleksandrovskaja sloboda presso Mosca.
309
questo campo ricamato, limitandosi a sottolineare le linee verticale e orizzontale della croce. Questa massiccia e grossa croce (2,30 x 1,87) costituisce un eccezionale esempio della creatività artistica di quegli strati della popolazione di Novgorod Velikij che di fatto determinava il peculiare carattere culturale della città. Sebbene il legno, come sappiamo, fosse il materiale più usato dagli artigiani, l’arte di Novgorod faceva largo uso anche di un materiale più duraturo: la pietra. Vennero intagliate in pietra centinaia di croci delle più diverse dimensioni e forme prevalentemente votive, che venivano inserite nella muratura di chiese vecchie e nuove. Sono di solito croci di forma molto semplice, senza intaglio e scritte, ma si conoscono anche opere di ben altro stile. Ad esempio, la croce di Borovi/i e una grande croce di pietra del terzo quarto del xiv secolo, simile alla croce Ljudogoš/enskaja, incorporata nella muratura della Santa Sofia di Novgorod nel 1376 «per ordine del pio e santissimo arcivescovo Aleksej… affinché fosse venerata dai cristiani ortodossi». Sia per le dimensioni che per la configurazione generale, la croce di Aleksej ricorda la Ljudogoš/enskaja, ma in una versione più semplice, data la maggiore durezza del materiale. Anche qui troviamo scene figurate: La Crocifissione con gli astanti, l’Annunciazione, la Natività di Cristo, la Discesa agli Inferi e la Resurrezione. Nell’annotazione cronachistica, scritta in bella calligrafia e accuratamente incisa, che corre lungo i bordi dei bracci della croce, viene usata l’espressione: «questa croce fu scritta». La parola «scritta» si addice piuttosto all’arte iconografica che all’intaglio in pietra, ma la troviamo spesso sugli oggetti più diversi, il cui materiale non dà alcun motivo di ipotizzare la partecipazione di un pittore. La croce di Aleksej è un’eccezione in quanto, a differenza della croce Ljudogoš/enskaja, ha conservato i resti della pittura ori-
ginaria, che riproduceva con tutta probabilità le consuete raffigurazioni iconografiche. L’arte applicata dei secoli xiv-xv è rappresentata da un’enorme quantità di oggetti in metallo. I manufatti prodotti con metalli non ferrosi e pietre avevano un valore venale molto alto. Se appartenevano alla chiesa, quest’ultima li conservava devotamente in sagrestie sorvegliate con cura, ricoverandoli in speciali nascondigli o addirittura trasportandoli in un’altra città o monastero nel momento del pericolo. Se appartenevano ai principi, essi li trasmettevano in eredità ai loro successori, elencando nei testamenti tutti gli oggetti in oro, argento e pietre dure di particolare valore. Grazie a tali comprensibili attenzioni nella custodia degli oggetti preziosi, oggi abbiamo ancora una gran quantità di notevoli opere d’arte applicata, raccolte in musei di fama internazionale, come il Palazzo dell’armeria del Cremlino di Mosca, la sagrestia della lavra della Trinità di san Sergio, il Palazzo a faccette nel Cremlino di Novgorod. L’oggetto più sacro del primo di questi musei è l’arca-reliquiario (kovčeg) dell’arcivescovo Dionisij di Suz- 224 dal’. Essendo uno tra i più ambiziosi vescovi russi, dopo la morte del metropolita Aleksej di Mosca nel 1378, Dionisij si diede da fare per ereditare la cattedra vacante, a cui aspiravano anche il monaco Mitjaj di Kolomna, sostenuto da Dimitrij Donskoj, l’archimandrita Pimen di Perejaslavl’ e il monaco atonita Kiprian, di origine bulgara, candidato del patriarca di Costantinopoli. Le beghe religiose e politiche attorno alla metropolia di Mosca iniziarono mentre era ancora in vita Aleksej, a quel tempo ottantenne, età che per il medioevo si avvicinava a quella del biblico progenitore Abramo. Il desiderio di Aleksej di avere come successore Sergio di Radonež, l’igumeno del monastero della Trinità da tutti rispettato, non si realizzò, poiché Sergio declinò con fermezza l’offerta dell’anziano metropolita, dimostrando in questo momento critico uno scarso senso dello stato e della patria, checché ne dicano a questo proposito sia gli storici laici che quelli ecclesiastici. Kiprian, Pimen, Mitjaj e Dionisij si precipitarono a Costantinopoli, dove le cariche ecclesiastiche venivano facilmente distribuite agli aspiranti più generosi, adulatori e soprattutto intriganti. Questo «parapiglia» ecclesiastico, passato alla storia e durato dodici anni, si concluse con la morte di Mitjaj, Pimen e Dionisij (morti tutti a Costantinopoli) e l’insediamento di Kiprian nella cattedra della metropolia russa. Tutti i candidati, ad eccezione di Mitjaj, si precipitarono a Costantinopoli più di una volta e ne riportarono, in segno della benevolenza loro accordata, icone, sante reliquie, libri e credenziali del patriarca. L’arca di Dionisij di Suzdal’ fece la sua comparsa appunto in relazione al trasporto delle reliquie. La data esatta è l’anno 1383: «Dionisij vescovo di Suzdal’ portò con sé da Costantinopoli e strumenti della passione di Cristo e reliquie di molti santi e croci e icone miracolose con molte reliquie», informa il cronista, e la stessa notizia è incisa sui lati del reliquiario: «I divini strumenti della passione di Cristo Dio nostro Salvatore furono portati da Car’grad (Costantinopoli) dall’umile arcivescovo Dionisij al santo arcivescovado a Suzdal’, Novgorod, Gorodec… Ai tempi del gran principe Dmitrij Kostantinovi/ fu fatto questo reliquiario… nell’estate del 6891 (1383)». Non è del tutto chiaro dove esattamente sia stata fatta l’arca-reliquiario del vescovo di Suzdal’: si suppone che non si tratti né di Costantinopoli, né di Novgorod, dove sog-
222. Autoritratto del maestro Avraam, primo quarto xv secolo, figura in bronzo sulle porte di Sigtuna della cattedrale della Sofia a Novgorod.
310
Amvrosij, proveniente dalla sagrestia della lavra della Trinità di san Sergio, decine di croci, coperture e altri ornamenti 232 in diversi musei russi. Allo scopo di rafforzare la propria autorità, la metropolia di Mosca elargiva con generosità oggetti preziosi a monasteri e cattedrali, alle sagrestie episcopali da Novgorod e Pskov fino a Nižnij Novgorod e da Kolomna e Serpuchov fino a Rostov e Beloozero. Al tempo dei metropoliti Kiprian e Fozio e del gran principe Vasilij Dmitrievi/, Mosca diventò a poco a poco uno dei più grossi centri artistici, in grado di determinare lo stile e la qualità degli oggetti prodotti. Tutte le conquiste stilistiche e tecniche pensabili per quest’epoca arrivavano velocemente fino ai più lontani confini dello stato. Anche nei casi in cui sappiamo per certo che gli oggetti non furono fatti a Mosca, è evidente il tentativo di adeguarsi allo stile di Mosca, la quale dettava i propri gusti e il proprio concetto di bellezza a decine di altre città. La produzione artigianale passa a una lavorazione in serie di oggetti quasi uguali, cosa che risultava vantaggiosa soprattutto nella fusione, permettendo di riutilizzare più volte gli stampi. Alcuni massicci panagiar in argento, impiegati durante la celebrazione liturgica per l’elevazione dei santi doni, sono una prova evidente di tale pratica. Di questo tipo sono i panagiar con l’Ascensione del monastero di San Simone a Mosca, ora al Museo Russo di San Pietroburgo, quello del monastero del Salvatore sulla Roccia (Spaso-Kamennyj) sul lago Kuben, ora al Museo di Vologda, il panagiar, andato perduto, del vescovo Arsenij, appartenuto al Museo di Tver’, il panagiar della sagrestia del monastero di Kirill di Beloozero, custodito al Palazzo dell’armeria del Cremlino di Mosca e, infine, il magnifico panagiar del museo di Novgorod, eseguito nel 1435 dal maestro Ivan. Per la sua perfezione, l’immagine della Trinità incisa sul lato interno della base di quest’ultimo panagiar è confrontabile forse solo con la Trinità di Rublëv. L’antica cultura bizantina non amava l’opera d’arte nelle sue diverse forme in quanto tale. La pittura, i tessuti, le opere in pietra e metallo, la ceramica e gli oggetti smaltati erano il più delle volte utilizzati negli arredi di chiese o edifici civili formando bizzarre combinazioni, senza che alcuna forma d’arte fosse considerata più importante di un’altra. La sintesi delle arti era la regola estetica dominante e la tradizione greca trovò un terreno favorevole in Russia. La pittura veniva largamente impiegata nella decorazione degli interni e delle pareti esterne; le icone venivano adornate con rivestimenti in metallo e con pietre preziose incastonate nel levkas (fondo bianco); sui paramenti sacerdotali venivano cucite placchette d’oro o d’argento con figure smaltate o incise; le croci in legno e
giornò il committente, ma piuttosto di Nižnij Novgorod. La forma dell’arca è chiaramente bizantina, tuttavia le numerose scritte con l’indicazione delle reliquie e le annotazioni cronachistiche sono chiaramente russe, della Russia centrale. Ma la contaminazione di elementi greci e russi nell’arte del periodo a cavallo tra i secoli xiv e xv diventa un elemento quasi antologico, perciò non c’è motivo di negare l’origine russa dell’arca. La stauroteca di Suzdal’, trasportata a Mosca nel 1405 è un cimelio di importanza ecclesiastica e statale e non sorprendono quindi, le sue dimensioni monumentali (39 x 39), la forma imponente e la ricchezza delle rifiniture. Confrontata con altri reliquiari della stessa epoca – quelli della principessa Marija di Suzdal’ e Nižnij Novgorod (1410), del principe Ivan Danilovi/ di Suzdal’ e 225 Nižnij Novgorod (1414), dei principi di Radonež (primo quarto del xv secolo), senza parlare poi di altri più modesti reliquiari in forma di croci e piccole icone – la stauroteca di 226 Suzdal’ si distingue per il suo aspetto aristocratico. L’arte del xv secolo si sviluppò velocemente rivestendosi di un lusso sempre maggiore, inteso sia a recuperare il tempo perduto a causa dei Tatari, sia a rafforzare l’autorità delle città russe e soprattutto dei grandi principati agli occhi di Costantinopoli e dell’Europa. Particolare pompa assunsero i rituali degli arcivescovi di Novgorod e dei metropoliti di Mosca. Basta solo confrontare, ad esempio, il sakkos del metropolita di Mosca Petr (1322) con il piccolo e il grande 228- sakkos del metropolita Fozio (1414-1417), per capire come 229 fossero radicalmente diversi gli intenti del committente e dell’artista. L’ascetismo di prima, le linee essenziali lasciano il posto ad una forma pesante, ridondante di ornamenti, che spesso si rifà agli antichi modelli greci. Gli arredi liturgici assumono le stesse forme preziose. Perfino opere notevoli del xiv secolo, ad esempio la copertura dell’Evangeliario di Simeon il Fiero (anni ’40), impallidiscono davanti 230 a coperture come quelle dell’Evangeliario di Feodor Koška 231 (1392) e soprattutto dell’Evangeliario da altare della cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca, eseguito ai tempi del metropolita Fozio, in cui l’oro, le pietre dure e la perfezione tecnica della lavorazione sbalordiscono anche ai nostri giorni, per non parlare del xv secolo. La fusione, l’intaglio, la cesellatura vengono sempre più spesso sostituiti con la filigrana, un elegante intreccio di sottili fili d’oro. Con questa tecnica, usata insieme ad altre già nel xiv secolo, vengono eseguite quasi tutte le più notevoli opere del xv secolo: la copertura dell’Evangeliario di Fozio e la vi/ riza dell’icona miracolosa della Madre di Dio di Vladimir 36 nel Palazzo dell’armeria del Cremlino di Mosca, il calice in oro di Ivan Fomin, la croce e l’icona pieghevole del maestro
223-225. Croce Ljudogoš/enskaja, Jakov Fedosov, 1359, dalla chiesa di Flora e Lauro a Novgorod, nel museo di Novgorod; arca-reliquario del vescovo Dionisij di Suzdal’, 1383, Nižnij Novgorod, nel Cremlino di Mosca, Palazzo dell’armeria; arcareliquario, primo quarto xv secolo, appartenuta ai principi di Radonež, nel museo del monastero della Trinità di san Sergio.
311
226. Arca-reliquario, prima metà xiv secolo, Tver’; Cremlino di Mosca, Palazzo dell’armeria. 227. Trinità, 1435, figura incisa sul lato interno del panagiar della cattedrale della Sofia di Novgorod; museo di Novgorod.
celebre icona fu dipinta all’inizio del xii secolo a Costantinopoli e fu subito portata a Kiev; nel 1155 Andrej Bogoljubskij la trasportò da Kiev a Vladimir, da dove all’inizio del xv secolo fu a sua volta trasportata a Mosca e collocata nella cattedrale della Dormizione al Cremlino. L’icona di Vladimir fu presto nota come protettrice della terra Russa e già nel xii secolo divenne oggetto di particolare venerazione e fu abbellita con grande ricchezza d’ornamenti. Il suo primo addobbo lo ricevette molto probabilmente al termine della costruzione della cattedrale della Dormizione di Vladimir, nel 1161. Il costo di questo rivestimento stupì il cronista, che mise in rilievo gli sforzi del principe Andrej: «e fuse in essa più di trenta grivne d’oro, oltre all’argento e alle pietre preziose e alle perle». Nei miracoli dell’icona, annotati in tempi diversi, si dice che, in riconoscenza per le guarigioni, le genti russe «applicavano» all’immagine miracolosa nuove gemme, che resero ancor più complesso il suo già prezioso addobbo. I Tatari, come è noto, dopo aver preso Vladimir nel 1237, staccarono dall’icona «tutta la preziosa cesellatura», ma essa fu ripristinata subito dopo
in pietra venivano spesso dipinte; nel ricamo ornamentale e figurativo venivano impiegati fili d’oro e d’argento e perle; piastrelle in ceramica e lastre in pietra dalla preziosa lavorazione venivano usate per il rivestimento dei pavimenti e nelle rifiniture esterne degli edifici; il vetro colorato spesso sostituiva le pietre preziose ed è possibile che sia stato a volte impiegato come nelle vetrate delle cattedrali dell’Europa occidentale. Questo approccio sintetico all’arte trova chiara espressione già nelle opere più antiche, come la famosa monumentale icona di Pietro e Paolo dell’xi secolo, custodita nel museo di Novgorod, a cui, appena terminata, fu subito applicato il bellissimo rivestimento in argento, per non parlare delle epoche successive, quando la sintesi delle arti divenne consuetudine nella storia della cultura di tutti i centri artistici, senza fare eccezione per le scuole artistiche russe. Per comprendere meglio questo carattere sintetico dell’arte russa, basta scegliere alcuni esempi significativi di ricamo e pittura tra quelli conservati nel Palazzo dell’armeria del Cremlino di Mosca. Già nel polistavrion (felon’ crociato) del metropolita Petr, confezionato nel 1322, possiamo vedere ornamenti in oro e perle, mentre il piccolo e grande sakkos e l’epitrachilion di Fozio costituiscono ampie opere programmatiche, nelle quali il tessuto è ricamato sia con figure singole, sia con intere scene evangeliche. Nonostante l’evidente origine greca di tutti gli oggetti citati, essi già nei secoli xiv e xv ricevettero numerose aggiunte in stile russo: il sakkos di Petr ebbe le placche cesellate in argento e oro, tempestate di perle, e i paramenti di Fozio una decorazione in perle unica nel suo genere, che trasformarono le vesti ricamate greche in abiti d’aspetto autenticamente regale, degni del capo della Chiesa russa designato dal patriarca di Costantinopoli. È significativo che nella parte inferiore del grande sakkos di Fozio si trovino i ritratti dell’imperatore greco Giovanni Paleologo con l’imperatrice Anna, del grande principe di Mosca Vasilij Dmitrievi/ con la principessa Sofija e dello stesso proprietario del sakkos, il metropolita Fozio; inoltre, le figure dei personaggi russi sono accompagnate da scritte in russo, e non in greco, cosa che sembrerebbe indicare che il sakkos non fu fatto a Costantinopoli, ma direttamente a Mosca. Al nome di Fozio è legata circa una decina di opere d’arte applicata, tutte creazioni di eccezionale valore dei maestri che lavoravano alla sua corte. Tale è il già citato Evangeliario proveniente dalla cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca e il prezioso rivestimento in oro per l’icona miracolosa della Madre di Dio di Vladimir. Questa
228-229. Sakkos del metropolita Petr, 1322; Grande sakkos del metropolita Fozio, 1414-1417, Cremlino di Mosca, Palazzo dell’armeria.
312
230-232. Copertura dell’Evangeliario di Feodor Koška, 1392 (?), Mosca; Mosca, Biblioteca nazionale russa. Copertura di evangeliario dalla cattedrale della Dormizione del Cremlino di Mosca, inizio xv secolo; Cremlino di Mosca, Palazzo dell’armeria. Madre di Dio di Vladimir con copertura in argento, fine xiv-inizio xv secolo; museo del monastero della Trinità di san Sergio.
Russo, il Cristo Pantocratore, un tempo nella sagrestia della lavra della Trinità di san Sergio ed ora appartenente ad una collezione privata elvetica, la Madre di Dio Odigitria della lavra della Trinità di san Sergio, ora alla Galleria Tret’jakov, la Madre di Dio di Vladimir al museo di Suzdal’ e tutta una serie di piccole icone di diversa provenienza al museo di Sergiev Posad. Purtroppo solo vecchie fotografie possono dare un’idea dell’addobbo completo delle icone più venerate. La Madre di Dio Odigitria, della seconda metà del xiv secolo, custodita ora alla Galleria Tret’jakov, ha conservato non solo l’antica riza a sbalzo che copriva lo sfondo dell’immagine, ma anche la corona, il girocello, la croce, gli orecchini d’oro, la cuffietta, la collana e i pendenti di perle e perfino il «sudario» e il velo trapuntati di perle, che in tempi diversi furono donati da Ivan il Terribile e dalle sue mogli, Anastasija e Marija. È ancor più raro vedere – e anche in questo caso solo in fotografie prerivoluzionarie – intere iconostasi, dove decine di icone grandi e piccole appaiono amorevolmente ornate di rize d’argento, dorate o perfino in oro massiccio.
la partenza dei conquistatori. Allo stato attuale, se non fosse stata asportata dalla cattedrale della Dormizione, l’icona avrebbe non meno di tre rize di periodi diversi. All’inizio del xv secolo appartengono due rivestimenti in oro, uno dei quali era però destinato alla copia, eseguita alla fine del xiv o all’inizio del xv secolo; a questo rivestimento a sbalzo è unita, inoltre, la parte rimasta della riza del xiii secolo con vi/ la raffigurazione di una Deesis a sette figure intere. La riza 36 dell’originale è costituita da un fondo d’oro coperto di filigrana e decorato con dodici piastre a forma di chiglia con le raffigurazioni cesellate delle grandi feste, dall’Annunciazione alla Teofania. Più tardi, già nel xvii secolo, l’immagine della Madre di Dio col bambino fu ricoperta da una riza d’oro e ricevette in aggiunta una corona con smeraldi e rubini e, al collo, un pendaglio a medaglione altrettanto prezioso, tempestati di grosse perle di importazione. In tal modo la pittura fu definitivamente nascosta sotto stratificazioni successive di oro, argento, pietre dure e perle. L’addobbo della Madre di Dio di Vladimir è unico per l’importanza dell’icona stessa, ma il periodo di cui stiamo parlando è ricco di simili rivestimenti, sia che si tratti di una riza intera, di una semplice cornice o solamente di una corona. La devozione, e le possibilità economiche spingevano ad addobbare le icone, soprattutto quelle di famiglia di piccole dimensioni, con le coperture più svariate. Di tali oggetti erano piene un tempo le cattedrali del Cremlino, le sagrestie dei ricchi monasteri, alcune chiese di città e perfino di villaggio. L’ondata di confische dei beni ecclesiastici che dilagò per la Russia nel 1922 «spogliò» molte icone, privandole irreparabilmente delle loro rize, corone e preziosi addobbi. Oggi solamente alcune opere rimaste ci danno un’idea di quale potesse essere un tempo l’aspetto di questi oggetti. Le più antiche risalgono al xiv secolo, come, ad esempio, le icone della Madre di Dio della Tenerezza e della Madre di Dio del Latte nel Palazzo dell’armeria del Cremlino di Mosca. Ma si tratta soprattutto di opere del xv secolo: la Madre di Dio della Tenerezza, proveniente dal monastero di Sant’Ipazio a Kostroma ed ora alla Galleria Tret’jakov, la Madre di Dio Odigitria del monastero della Protezione della Madre di Dio di Suzdal’, ora al Museo
Conclusione Il periodo «tataro» nella storia della cultura russa ha avuto caratteristiche di eccezionale importanza, di cui, tuttavia, si può capire il significato solo mettendolo a confronto con l’epoca precedente e con quella successiva. Lo stile epico-monumentale che illuminava di vivi colori la cultura della Rus’ di Kiev, al momento della comparsa dei Tatari si era esaurito, poiché il processo di frantumazione delle grandi formazioni statali in piccoli principati era diventato incontrollabile già nel xii secolo. A causa della mancanza di artisti e di mezzi economici, i principi indipendenti e i grandi principi che controllavano territori con una popolazione di qualche migliaio o decine di migliaia di abitanti si trovarono nell’impossibilità sia di costruire chiese grandi e costose, sia di adornare quelle già esistenti, erette dai loro predecessori, con preziosi oggetti di culto. Diminuiti gli sforzi per mantenere gli attributi esteriori del potere, 313
l’inevitabile conseguenza fu una graduale rinuncia alle vecchie pretese di magnificenza e splendore. Ma non si può nemmeno trascurare il fatto che il crollo del potente stato kieviano portò con sé la formazione di una cultura completamente diversa, nel cui ambito si costituirono abbastanza in fretta nuovi centri artistici e nuove tendenze stilistiche. L’invasione delle orde tatare e la distruzione di Kiev, dalla quale l’illustre città non riuscì a riprendersi fin quasi al xix secolo, separarono definitivamente la Rus’ meridionale da quella settentrionale, e la vita del popolo russo (grande russo), nella pienezza delle sue caratteristiche, da allora in poi si concentrò nel Nord-Ovest, nel Nord e nel Nord-Est. Proprio qui si formarono tutti gli elementi della nuova cultura. L’isolamento delle singole città e di interi principati, che si trovarono in situazioni di conflitto più o meno permanente, favorì a sua volta lo sviluppo di scuole letterarie, architettoniche e pittoriche locali. Il primitivo universalismo, la comunanza di sviluppo anche tra città situate lontano da Kiev sono ormai fenomeni del passato, mentre si fa sentire energicamente la voce dei gusti, delle tradizioni e delle scuole locali. Se da un lato perse qualcosa dal punto di vista della qualità, la cultura russa divenne però più varia, colorita e viva. La seconda metà del xiii e buona parte del xiv secolo sono caratterizzate da un fermento di forze creative, dalla ricerca del proprio volto da parte di ogni centro artistico, ma anche da una estrema arcaizzazione e inesperienza dello stile. Gli artisti di quest’epoca non riuscirono conservare le vecchie forme, né per molto tempo furono in grado di rispondere adeguatamente con la propria arte alle esigenze del tempo. Poiché, tuttavia, il potenziale creativo non era andato completamente perduto, dopo centocinquant’anni – un periodo relativamente breve se considerato dal punto di vista di una storia plurisecolare – si crearono tutte le condizioni necessarie per la rinascita di una cultura non solo locale, ma comune a tutta la Russia. S’intende che tale comunanza non significava un livellamento delle scuole locali, un’equilibrata distribuzione delle forze creative esistenti su tutto il territorio della Rus’ e una standardizzazione dei modelli artistici. Ad essere più precisi, direi anzi che proprio la moltitudine di botteghe e di scuole artistiche nella Rus’ dei secoli xiv e xv risultò essere uno dei tratti più caratteristici della cultura di quest’epoca complessa e la garanzia del suo successivo fiorire. I tratti specifici di ognuna delle culture russe locali si formarono nel xiv secolo e le opere d’arte, i monumenti architettonici, l’artigianato artistico, le varie forme degli usi ecclesiastici e domestici a Pskov, Novgorod, Rostov, Mosca, Tver’ e Nižnij Novgorod, senza parlare del Nord russo, ci danno un quadro straordinariamente vivo del loro sviluppo. La Rus’ non aveva mai conosciuto una simile varietà di linguaggio artistico. Ma, in virtù dei costanti contatti tra le diverse terre russe, nella loro cultura si cristallizzarono gradualmente anche tratti comuni, che determinarono poi lo stile non più di singole città, ma di un’intera epoca. La caratteristica più notevole di questo stile fu la formazione della originalità nazionale della cultura artistica russa. Il sottofondo bizantino dell’architettura premongolica e soprattutto della pittura religiosa, così come il predominio di opere letterarie tradotte dal greco nei secoli xiii-xv, avevano di fatto già perso la loro influenza determinante. Dappertutto presero il sopravvento le opere nazionali russe. Nonostante la pressione esterna delle genti della steppa, la Russia riuscì a raccogliere le forze che portarono alla formazione di una variante origi-
nale della cultura medioevale. In questo consiste la specificità storica del periodo «tataro». L’arte di Andrej Rublëv è giustamente considerata dagli studiosi contemporanei come la più alta espressione del genio creativo russo e la sua Trinità come il fiore più fragrante dell’arte medioevale nell’Europa orientale. Ma né la comparsa di un simile artista, né il suo capolavoro sono fenomeni casuali per il loro tempo. Essi furono preparati da tutto il cammino dell’evoluzione storica della Russia. L’opera di Rublëv e degli artisti a lui vicini si sviluppò nel momento della resistenza decisiva dei principi russi al potere tataro. Era l’epoca della rinascita dell’autocoscienza dei Russi come grande popolo, capace sia di imprese militari, sia di esprimere il proprio potenziale creativo in splendidi esempi d’arte, di letteratura e di architettura. L’autorità morale, l’indipendenza economica, la crescita di sentimenti antitatari attiravano nelle città russe una quantità di gente delle più diverse professioni, provenienti da Bisanzio, dalla Bulgaria, dalla Serbia e dall’Italia, che trovavano qui buone occasioni di lavoro e che arricchirono la cultura russa con le proprie opere. In questo cosmopolitismo dell’arte delle città russe nei secoli xiv-xv si manifesta lo spirito del popolo russo, libero da pregiudizi e preconcetti, che assorbendo con entusiasmo tutto il meglio delle altre culture, non ne temeva l’influenza e sapeva conformare l’opera degli artisti stranieri ai propri obiettivi e compiti. Nessun altro periodo avrebbe potuto unire in tal modo i Russi come un’unica forza nazionale. Quando si accinse a raccogliere le truppe per la battaglia contro il khan Mamaj nel 1380, Dimitrij Donskoj trovò sostegno ed energica risposta da tutte le città russe, le quali capivano benissimo che solo unendo gli sforzi sarebbe stato possibile ottenere la vittoria a tutti necessaria. Sotto il vessillo militare del principe di Mosca si riunirono reparti provenienti dalle località più lontane, in particolare da Novgorod, Pskov e Beloozero. Questa grande alleanza militare sopraffece finalmente la minacciosa potenza dei Tatari. «E Dio ebbe compassione della Terra Russa, e i Tatari caddero in moltitudine infinita»: così conclude il proprio racconto l’anonimo autore della Zadonš/ina. Il tema dell’elezione divina della Terra Russa guidata da Mosca è un motivo ricorrente di tutta la letteratura nazionale del xv secolo. Tuttavia, la storia ci insegna che ogni centralizzazione del potere personale porta al soffocamento delle forze centrifughe anche nel proprio stato e alla soppressione del libero sviluppo di ogni forma individuale di cultura. Così accadde anche in Russia. Già nella seconda metà del xv secolo viene posta fine all’esistenza indipendente delle libere repubbliche feudali di Novgorod e Pskov, e di quelle di Tver’ e Rjazan’, già in via di decadenza. Con la perdita del potere politico, viene meno anche l’originalità della loro arte, nella quale compaiono presto gli stereotipi introdotti da Mosca. Intorno al 1480, cento anni dopo la battaglia di Kulikovo, nel momento della formazione definitiva di uno stato russo centralizzato, si conclude anche il periodo più fresco e irripetibile nella storia della cultura artistica russa. La pittura di Dionisij fu la logica conclusione di quest’epoca e fu necessaria tutta la volontà artistica del maestro di Ferapont per conservare nella propria opera l’incanto di un grande stile. Nell’arte dei suoi figli esso degenerò in pochi anni in opere aride e banali. Tenendo conto di queste circostanze, ci rifiutiamo di considerare la cultura artistica dei secoli xiii-xv come un periodo di decadenza: al contrario, assistiamo al fiorire di un’autentica arte nazionale. 314
Bibliografia essenziale Beleckij V.D., Drevnij Pskov. Po materialam raskopok ekspedicii Ermitaža, Catalogo della mostra, L. 1991. Licha/ev D.S., Russkoe iskusstvo ot drevnosti do avangarda, M. 1992. By/kov V.V., Russkaja srednevekovaja estetika. xi-xvii veka, M. 1992. Tichomirov M.N., Drevnjaja Moskva, xii-xv vv. Srednevekovaja Rossija na meždunarodnych putjach, xiv-xv vv., M. 1992. Filosofija russkogo religioznogo iskusstva. xvi-xx vv. Antologia, cur. N.K. Gavrjušin, M. 1993.
Stato e Chiesa Solov’ev S.M., Istorija Rossii s drevnejšich vremen, voll. ii (tt. 3-4), voll. iii (tt. 5-6), Mosca 1960. Klju/evskij V.O., Drevnerusskie žitija svjatych kak istoričeskij istočnik, M. 1871 (rist. M. 1988). Ključevskij V.O., Sočinenija, tt. i-ii, Kurs russkoj istorij, pp. 1-2, M. 1956-1957. Golubinskij E.E., Istorija russkoj cerkvi, t. i, prima metà, M. 19012, t. i, seconda metà, M. 19042; t. ii, prima metà, M. 1900, t. ii, seconda metà, fasc. 1, M. 1911. Priselkov A.E., Obrazovanie velikorusskogo gosudarstva. Očerki po istorii xiii-xv stoletij, Pietrogrado 1918. Kartašev A.V., Očerki po istorii russkoj cerkvi, i-ii, Parigi 1959. \erepnin L.V., Obrazovanie Russkogo centralizovannogo gosudarstva v xiv-xvi vekach, M. 1960. Budovnic I.U., Monastyri na Rusi i bor’ba s nimi krest’jan v xivxvi vv. (po “žitijam svjatych”), M. 1966. Kargalov V.V., Vnešne-političeskie faktory razvitija feodal’noj Rusi. Feodal’naja Rus’ i kočevniki, M. 1967. Žitijnye povesti Russkogo Severa kak pamjatniki literatury xiiixvii vv. Evoljucija žanra legendarno-biografičeskich skazanij, Leningrado 1973. Choroškevi/ A.A., Russkoe gosudarstvo v sisteme meždunarodnych otnošenij, M. 1980. Gumilev L.N., Drevnjaja Rus’ i Velikaja step’, M. 1989. Fedotov G., Svjatye Erevnej Rusi, M. 1990. Skrynnikov R.G., Gosudarstvo i cerkov’ na Rusi. xiv-xvi vv. Podvižniki russkoj cerkvi, Novosibirsk 1991. Gumilev L.N., Ot Rusi k Rossii. Očerki etničeskoj istorii, M. 1992.
Architettura Nekrasov A.I., Očerki po istorii drevnerusskogo zodčestva. xi-xvii veka, M. 1936. Zabello S., Ivanov V., Maksimov P., Russkoe derevjannoe zodčestvo, M. 1942. Istorija russkoj architektury, M. 19562. Voronin N.N., Zodčestvo Severo-Vostočnoj Rusi xii-xv vekov, ii. xiii-xv stoletija, M. 1962. Makoveckij I.V., Architektura russkogo narodnogo žilišča, M. 1962. Novgorod. K 1100-letiju goroda. Sbornik statej, M. 1964. Vseobščaja istorija architektury, vi, M. 1968. Grabar’ I., O russkoj architekture, M. 1969. Spegal’skij Ju.P., Pskov. Architekturno-chudožestvennye pamjatniki xi-xvii vekov, L. 19722. Spegal’skij Ju.P., Kamennoe zodčestvo Pskova, L. 1976. Sedov V.V., Pskovskaja architektura xiv-xv vekov. Proischoždenie i stanovlenie tradicii, M. 1992. Hamilton H., The Art and Architecture of Russia, Harmondsworth 1954.
Opere generali sulla cultura russa dei secoli xiii-xv
Cultura e letteratura
Zabylin M., Russkij narod. Ego obyčaj, obrjady, predanija, sueverija i poezija, M. 1980 (rist. M. 1989). Kostomarov N.I., Očerk domašnej žizni i nravov velikorusskogo naroda v xvi-xvii stoletijach, M. 1860 (nuova ediz. M. 1992). Miljukov P, Očerki po istorii russkoj kul’tury, pp. 1-3, San Pietroburgo 1909, 1916, 1909. Evdokimov I., Sever v istorii russkogo iskusstva, Vologda 1921. Nekrasov A.I., Drevnij Pskov i ego chudožestvennaja žizn’, M. 1922. Porfiridov N.G., Drevnij Novgorod, M.-L. 1947. Lazarev V.N., Iskusstvo Novgoroda, M.-L. 1947. Rybakov B.A., Remeslo drevnej Rusi, M. 1948. Istorija russkogo iskusstva, edizione dell’Accademia delle Scienze dell’urss, tt. i-iii, M. 1954, 1955 e 1956. Alpatov M.V., Vseobščaja istorija iskusstv, iii. Russkoe iskusstvo s drevnejšich vremen do načala xviii veka, M. 1955. Licha/ev D.S., Novgorod Velikij. Očerk istorii kul’tury Novgoroda xi-xvii vv., M. 1959. Licha/ev D.S., Kul’tura rusi vremeni Andreja Rubleva i Epifanija Premudrogo (konec xiv-načalo xv v.), M.-L. 1962. Alpatov M.V., Etjudy po istorii russkogo iskusstva, 1, M. 1967. Očerki russkoj kul’tury xiii-xv vekov, p. 1, Material’ naja kul’tura, M. 1970; p. 2, Euchovnaja kul’tura, M. 1970. Muzykal’naja estetika Rossii xi-xviii vekov, cur. A.I. Rogov, M. 1973. Il’in M.A., Iskusstvo Moskovskoj Rusi epochi Feofana Greka i Andreja Rubleva, M. 1976. Kuzakov V.K., Očerki razvitija estestvennonaučnych i techničeskich predstavlenij na Rusi v x-xvii vv., M. 1976. Drevnij Novgorod, Istorija, iskusstvo, archeologija. Novye issledovanija, M. 1983. Labutina I.K., Istoričeskaja topografia Pskova v xiv-xv vv., M. 1985. Vzdornov G.I., Istorija otkrytija i izučenija russkoj srednevekovoj živopisi. xix vek, M. 1986. Rabinovi/ M.G., Očerki material’noj kul’tury russkogo feodal’nogo goroda, M. 1988. Drevnij Pskov. Istorija, iskusstvo, archeologija. Novye issledovanija, M. 1988. Kul’tura russkogo severa. Sbornik statej, cur. K.V. \istov, L. 1988. Allenov M.M., Evangulova O.S., Lifšic L.I., Russkoe iskusstvo x-načala xx veka. Architektura. Skul’ptura. Živopis’. Grafika, M. 1989.
Petuchov E.V., Russkaja literatura. Istoričeskij obzor glavnejšich literaturnych javlenij drevnego i novogo perioda. Erevnij period, Pietrogrado 19163. Speranskij M.N., Istorija drevnej russkoj literatury. Moskovskij period, M. 19213. Licha/ev D.S., Russkie letopisi i ich kul’turno-istoričeskoe značenie, M.-L. 1947. \erepnin A.V., Russkaja paleografija, M. 1956. Janin V.L., Ja poslala tebe berestu…, M. 1965. Licha/ev D.S., \elovek v literature Drevnej Rusi, M. 19702. Licha/ev D.S., Poetika drevnerusskoj literatury, L. 1967 (3a ed. ampliata – L. 1979). Durnovo N.N., Vvedenie v istoriju russkogo jazyka, M. 19692. Licha/ev D.S., Razvitie russkoj literatury x-xvii vekov. Epochi i stili, L. 1973. Sluchovskij M.I., Bibliotečnoe dela v Rossii do xvii veka, M. 1968. Rozov N.N., Kniga Drevnej Rusi. xi-xiv vv., M. 1977. Karskij E.F., Slavjanskaja kirillovskaja paleografija, M. 19792. Sobolevskij A.I., Istorija russkogo literaturnogo jazyka, L. 1980. Rozov N.N., Kniga v Rossii v xv veke, L. 1981. Licha/ev D.S., Tekstologija. Na materiale russkoj literature x-xvii vekov, L. 19832. Slovar’ knižnikov i knižnosti Drevnej Rusi, fasc. 1. xi-pervaja polovina xiv v., L. 1987; fasc. 2. Vtoraja polovina xiv-xvi v., p. 1, L. 1988; p. 2, L. 1989. Knižnye centry Drevnej Rusi. xi-xvi vv., San Pietroburgo 1991. Arte figurativa Muratov P.P., Russkaja živopis’ do serediny xvii veka, in: Grabar’ I., Istorija russkogo iskusstva, vi., M. 1914. Russkaja ikona, 1-3, San Pietroburgo 1914. Muratov P., Erevnerusskaja ikonopis’ v sobranii I.S. Ostrouchova, M. 1914. Griš/enko A., Voprosy živopisi, fasc. 3, Russkaja ikona kak iskusstvo živopisi, M. 1917. Muratov P., La pittura russa antica, Roma 1925. Wulff O., Alpatov M., Denkmäler der Ikonenmalerei, Hellerau (Dresda) 1925. Muratov P, Les icônes russes, Parigi 1927. Masterpieces of Russian Painting, Londra 1930.
315
Schweinfurth Ph., Geschichte der russischen Malerei im Mittelalter, L’Aia 1930. Kondakov N.P., Russkaja ikona, i-iv, Praga 1928-1933. Ainalov D., Geschichte der russischen Monumentalkunst der vormoskowitischen Zeit, Berlino-Lipsia 1932. Alpatov M., Brunov N., Geschichte der altrussischen Kunst, Augsburg-Baden (Vienna) 1932. Ainalov D., Geschichte der Monumentalkunst zur Zeit des Großfürstentums Moskau, Berlino-Lipsia 1933. Nekrasov A.I., Drevnerusskoe izobrazitel’noe iskusstvo, M. 1937. Michajlovskij B.V., Purišev B.I., Očerki istorii drevnerusskoj monumental’noj živopisi so vtoroj poloviny xiv v. do načala xviii v., M.-L. 1941. \ernysev N.M., Iskusstvo freski v Drevnej Rusi. Materialy k izučeniju drevnerusskich fresok, M. 1954. Ouspensky L., Lossky W., Der Sinn der Ikonen, Berna-Olten 1952. Ouspensky L., Essai sur la théologie de l’icône dans l’Eglise Orthodoxe, Parigi 1960. Onasch K., Ikonen, Berlino 1961. Lebedewa J., Andrej Rubljow und seine Zeitgenossen, Dresda 1962. Lasareff V., Russian Icons from the Twelfth to the Fifteenth Century, New York-Milano 1962. Svirin A.N., Drevnerusskoe šit’e, M. 1963. Antonova V.I., Mneva N.E., Katalog drevnerusskoj živopisi [v Gosudarstvennoj Tretjakovskoj galeree]. Opyt istorikochudožest-vennoj klassifikacii, i. xi-načalo xvi veka, M. 1963. Demina N., «Troica» Andreja Rubleva, M. 1963. Drevnerusskoe iskusstvo. Sbornik statej, 1-16, M. 1963-1993. Š/ekotov N.M., Izbrannye trudy. Stat’i, vystuplenija, reči, zametki, M. 1963. Svirin A.N., Iskusstvo knigi Drevnej Rusi. xi-xvii vv., M. 1964. Nikolaeva T.V., Sobranie drevnerusskogo iskusstva v Zagorskom muzee, L. 1968. Trubeckoj E., Dmozrenie v kraskach. Tri očerka o russkoj ikone, Parigi 1965 (tr. it.: Contemplazione nel colore, Milano 19892). Mneva N.E., Iskusstvo Moskovskoj Rusi, M. 1963. Grabar’ I., O drevnerusskom iskusstve. Sbornik statej, M. 1966. Lazarev V., Old Russian Murals and Mosaics. From the xi to the xvi Century, Londra 1966. (ed. russa: Lazarev V.N., Mozaiki i freski Drevnej Rusi. xi-xvi vv., M. 1973). Lazarev V., Andrej Rublëv, Milano 1966 (ed. russa: Lazarev V.N., Andrej Rublëv i ego škola, M. 1966). Lazarev V., Theophanes der Grieche und seine Schule, ViennaMonaco 1968 (ed. russa: Lazarev V.N., Feofan Grek i ego škola, M. 1961). Grabar A., L’art de Moyen Age en Europe Orientale, Parigi 1968. Reformatskaja M.A., Severny e pis’ma, M. 1968. Rozanova N.V., Rostovo-Suzdal’skaja živopis’ xii-xvi vekov. Album, M. 1970. Danilova I.E., Freski Ferapontova monastyrja, M. 1970. Lazarev V.N., Russkaja srednevekovaja živopis’. Stat’i i issledovanija, M. 1970. Ov/innikov A., Kišilov N., Živopis’ drevnego Pskova, M. 1971. Danilowa I.J., Dionissi, Dresda 1970; Vienna-Monaco 1971. Majasova N.A., Drevnerusskoe yit’e, M. 1971. Alpatov M., Andrej Rublëv. Okolo 1370-1430, M. 1972. Maslenicyn S.I., Jaroslavskaja ikonopis’, M. 1973; M. 19822. Živopis’ drevnego Novgoroda i ego zemel’ xii-xvii stoletij. Catalogo della mostra. Aut.-cur. V.K. Laurina, G.D. Petrova, E.S. Smirnova, L. 1974. Alpatov M., Colour in Early Russian Icon Painting, M. 1974 (ed. russa parallela: Alpatov M., Kraski drevnerusskoj ikonopisi, M. 1974). Smirnova E.S., Živopis’ Velikogo Novgoroda. Seredina xiii-načalo xv veka, M. 1976. Alpatov M., Le icone russe. Problemi di storia e di interpretazione artistica, Torino 1976. Popov G.V., Živopis’ i miniatjura Moskvy serediny xv-načala xvi veka, M. 1975. Popova O., Les miniatures russes du xie au xve siede, L. 1975. Živopis’ vologodskich zemel’ xiv-xviii vekov. Catalogo della mostra, M. 1976. Uspensky V., The Semiotics of the Russian Icon, Lisse 1976. Lazarev V.N., Vizantijskoe i drevnerusskoe iskusstvo. Stat’i i issledovanija, M. 1978. Alpatov M., Early Russian Painting, M. 1978 (ed. russa parallela: Alpatov M.V., Drevnerusskaja ikonopis’, M. 1978). Popov G.V., Ryndina A.V., Živopis’ i prikladnoe iskusstvo Tveri. xiv-xvi veka, M. 1979.
Alpatov M.V., Feofan Grek, M. 1979. Tolstaja T.V., Uspenskij sobor Moskovskogo Kremlja, M. 1979. Popova O.S., Iskusstvo Novgoroda i Moskvy pervoj poloviny četyrnadcatogo veka. Ego svjazi s Vizantiej, M. 1980. Drevnerusskogo šit’e xv-načala xviii veka v sobranii Gos. Russkogo muzeja. Catalogo della mostra. Cur.-aut. degli articoli L.D. Licha/eva, L. 1980. Novgorod Icons. 12th-17th Century. Pref. D. Licha/ev. Intr. V. Laurina e V. Puškarev, L. 1980. Ouspensky L., La théologie de l’icône dans l’Eglise Orthodoxe, Parigi 1980. Dionisij i iskusstvo Moskvy xv-xvi stoletij. Cat. della mostra. Cur. T.B. Vilinbachova, V.K. Laurina, G.D. Petrova, L. 1981. Muzej drevnerusskogo iskusstva imeni Andreja Rubleva. Album. Aut.-cur. A.A. Saltykov, L. 1981. Smirnova E.S., Laurina V.K., Gordienko E.A., Zivopis’ Velikogo Novgoroda. xv vek, M. 1982. Lazarev V.N., Russkaja ikonopis’. Ot istokov do načala xvi veka, M. 1983. Vzdornov G.I., Feofan Grek. Tvor/eskoe nasledie, M. 1983. Smirnova E.S., Moskovskaja ikona xiv-xvii vekov, L. 1988. Kyzlasova I., Russkaja ikona xiv-xvi vekov. Gos. Istoričeskij muzej, Moskva, L. 1988. Uspenskij L.A., Bogoslovie ikony pravoslavnoj cerkvi, Parigi 1989. «Troica» Andreja Rublëva. Antologia. Cur. G.I. Vzdornov, M. 1981; M. 19892. Vzdornov G.I., Volotovo. Freski cerkvi Uspenija na Volotovom pole bliz Novgoroda, M. 1989. Ka/alova I.Ja., Majasova N.A., Š/ennikova L.A., Blagoveščenskij sobor Moskovskogo Kremlja, M. 1990. Alpatov M.V., Rodnikova I.S., Pskovskaja ikona xiii-xvi vekov, L. 1990. Vizantija. Balkany. Rus’. Ikony konca xiii-pervoj poloviny xv vekov. Catalogo della mostra, M. 1991. Srednevekovoe licevoe šit’e. Vizantija. Balkany. Rus’. Catalogo della mostra. Aut.-cur. N.A. Majasova, M. 1991. Iskusstvo Rjazanskich zemel’. Album-catalogo. Aut.-cur. G.S. Klokova e A.V. Silkin, M. 1993. Arte applicata Nikol’skij V.A., Drevnerusskoe dekorativnoe iskusstvo, Pietroburgo 1923. Nekrasov A.I., Očerki dekorativnogo iskusstva Drevnej Rusi, M. 1924. Sobolev N.N., Russkaja narodnaja rez’ba po derevu, M.-L. 1934. Jakunina L.I., Russkoe šit’e žemčugom, M. 1955. Nikolaeva T.V., Proizvedenija melkoj plastiki xiii-xvii vv. v sobranii Zagorskogo muzeja, Zagorsk 1960. Russkoe dekorativnoe iskusstvo. Ot drevnejšego perioda do xviii v., t. i, M. 1962. Rybakov B.A., Russkie datirovannye nadpisi xi-xiv vv., M. 1964. Kol/in B.A., Novgorodskie drevnosti. Derevjannye izdelija, M. 1968. Bo/arov G.N., Prikladnoe iskusstvo Novgoroda Velikogo, M. 1969. Nikolaeva T.V., Proizvedenija russkogo prikladnogo iskusstva s nadpisjami xv-pervoj četverti xvi v., M. 1971. Kol/in B.A., Novgorodskie drevnosti. Reznoe derevo, M. 1971. Postnikova M.-Loseva, Russkoe juvelirnoe iskusstvo. Ego centry i mastera. xvi-xix vv., M. 1974. Postnikova M.-Loseva, Russkaja zolotaja i serebrjanaja skan’, M. 1981. Sedova M.V., Juvelirnye izdelija drevnego Novgoroda. x-xv vv., M. 1981. Trofimova N., Russkoe prikladnoe iskusstvo xiii-načala xx v. Iz sobranija Gos. Vladimiro-Suzdal’skogo muzeja-zap., M. 1982. Nikolaeva T.V., Prikladnoe iskusstvo Moskovskoj Rusi, M. 1976. Nikolaeva T.V., Drevnerusskaja melkaja plastika iz kamnja. xi-xv vv., M. 1983. Il’ina T.V., Dekorativnoe oformlenie drevnerusskich knig. Novgorod i Pskov. xii-xv vv., L. 1978. Manušina T, Chudožestvennoe šit’e Drevnej Rusi v sobranii Zagorskogo muzeja, M. 1983. Plešanova I.I., Licha/eva L.D., Drevnerusskoe prikladnoe iskusstvo v sobranii Gos. Russkogo muzeja, L. 1985. Gosudarstvennaja Oružejnaja palata. Album. Aut.-cur. I.A. Bobrovnickaja, L.P. Kirillova, M.N. Lar/enko et al., M. 1988. \ernecov A.V., Reznye posochi xv v. (rabota kremlevskich masterov), M. 1987 (ed. inglese parallela: Chernetsov A., Carved Staves of the 15th Century. Manufactured by the Artisans of Moscow Kremlin, Mosca 1987). Kol/in B., Janin V, Jamš/ikov S., Drevnij Novgorod, M. 1985.
316
Tomo Terzo DALLA RUS’ DI MOSCA ALL’IMPERO RUSSO R.G. Skrynnikov
Introduzione
233-236. Simeon di Polock, Cibo spirituale, Mosca, 1682; Salterio rimato, Mosca, 1650. Dalla Cosmografia di Cosma Indicopleuste: Dio e l’universo, fol. 42; Il diluvio universale, fol. 19v; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica.
318
Lo stato russo antico, che aveva vissuto il periodo di maggior splendore nei secoli xi-xii, si disgregò in una moltitudine di principati e terre. Nel xii secolo il khan conquistatore mongolo Batyj sconfisse uno dopo l’altro i principati russi e soggiogò l’intera Rus’. Nel xv secolo i principi della Moscovia riunirono i più importanti principati e terre russe e misero fine al dominio straniero. Al tempo della liberazione dal giogo tataro la Rus’ era uno degli stati europei più poveri, con una popolazione molto esigua e un territorio relativamente piccolo. I suoi confini passavano lungo le più vicine vie d’accesso a Mosca – oltre Možajsk, Tula e Nižnij Novgorod. Solo verso Nord i domini della Rus’ si estendevano fino alle rive del Mar Bianco e del Mar Glaciale Artico. Agli estremi confini nordorientali dell’Europa il suolo era povero e il clima rigido, ma ciò nonostante i Russi riuscirono con grandi fatiche a creare anche qui importanti centri agricoli. Al tempo della riunificazione il «paesaggio culturale» della Rus’ si presentava assai variegato. La vita di Novgorod Velikij (la Grande), che era rimasta uno dei principali centri spirituali del paese, si differenziava notevolmente dalla vita di Mosca, Tver’ o Rjazan’. Il reciproco influsso di queste terre dopo la loro riunificazione costituì un fattore importante nello sviluppo della cultura russa nel periodo della Moscovia, ma anche gli impulsi provenienti dall’esterno ebbero un ruolo inestimabile nella formazione della nuova cultura. La Rus’ ricevette il cristianesimo da Bisanzio, e fu perciò inserita nell’orbita della cultura bizantina e slava meridionale. L’influsso bizantino fece sì che la Rus’ potesse accedere all’eredità degli antichi, sviluppando la propria cultura come una parte della cultura europea cristiana. L’invasione mongola aveva comportato una massiccia distruzione delle forze produttive della Rus’ e ancor più dei suoi valori spirituali. I conquistatori incendiarono quasi tutte le principali città della Rus’, sterminarono o fecero prigioniera gran parte degli artigiani e degli artisti russi. Il danno più grave lo subì l’architettura russa antica e la cultura letteraria. Dopo l’invasione, la costruzione in muratura si fermò per molti decenni. Quale erede dell’an-
tica Rus’, la Rus’ di Mosca cercò di riportare in vita le sue tradizioni culturali, creando così le condizioni per il successivo sviluppo di una cultura russa originale. L’invasione delle orde di nomadi ostacolò, ma non interruppe i legami tradizionali tra la Rus’ e Bisanzio. La cultura bizantina ebbe un ruolo particolare nel Rinascimento europeo, in quanto essa conservò per l’Europa la tradizione antica. La fulgida epoca del Rinascimento italiano fu preceduta dal periodo prerinascimentale, che assunse forme differenti nei diversi contesti europei. Lo sviluppo culturale che caratterizzò Bisanzio e i paesi slavi meridionali nella sua orbita di influenza nei secoli xiv-xv, è stato definito «Prerinascimento dell’Europa orientale» (D.S. Licha/ëv). Il Prerinascimento si estese anche alla Rus’. La cultura russa non avrebbe potuto fiorire senza le potenti sollecitazioni della cultura universale. Ma questi impulsi incominciarono a indebolirsi con la devastazione di Bisanzio compiuta dai Turchi. L’unione di Firenze, conclusa tra la Chiesa greca e quella di Roma poco prima della caduta dell’impero, permise l’integrazione di popolazioni di fede greca e di cultura italiana, che vissero nell’epoca rinascimentale. Ma il tentativo di superare il secolare scisma della Chiesa cristiana non ebbe successo. Il metropolita greco Isidoro, che aveva firmato il testo dell’unione subito dopo la sua nomina a capo della Chiesa russa, fu privato della dignità ecclesiastica. L’idea della sottomissione dello stato russo ortodosso all’autorità del papa di Roma fu recisamente respinta da Mosca. A Bisanzio la Chiesa dipendeva completamente dal potere imperiale. I principi moscoviti, man mano che il loro potere si rafforzava, cercavano di consolidare i propri rapporti con la Chiesa ortodossa secondo l’esempio bizantino. Il fatto che la Russia fosse considerata l’ultimo baluardo della vera fede nel mondo generò una rovinosa tendenza, che portò all’isolamento della cultura russa dal resto del mondo. Questo studio è dedicato alla storia e alla cultura della Rus’ di Mosca nei secoli xv-xvii. Il periodo della Moscovia fu particolarmente importante nella storia russa medioevale. Proprio in questo periodo si andarono formando il volto storico della Russia, le sue tradizioni, si 319
sempre più approfondendosi. Il fenomeno culturale può essere compreso solo nel contesto dei suoi rapporti con tutte le altre sfere dell’attività umana. Fu proprio la generale arretratezza storica della società russa a determinare la funzione e l’importanza degli influssi culturali esterni e dei prestiti nella storia della Rus’. La storia dell’impero moscovita nei secoli xv-xvii è avvolta da uno spesso velo di leggende, generate da schemi e dogmi erronei che regnano nella moderna storiografia russa. L’autore si propone di esporre i fatti principali della storia e della cultura russa, basandosi su fonti originali. Al fatto storico vanno restituiti i suoi diritti.
costituirono i fondamenti dell’ordinamento sociale, che rimasero immutati per alcuni secoli. In nessun altro paese europeo l’intromissione dello stato nella vita dei sudditi e nella sfera della cultura spirituale assunse forme tanto ipertrofiche come in Russia. Proprio per questo la storia della civiltà russa dei secoli xv-xvii non può essere compresa senza uno studio sistematico della cultura politica russa dell’epoca. Nei secoli xv-xvii la cultura materiale e spirituale dei paesi dell’Europa occidentale raggiunse l’apice del suo sviluppo. La Rus’ di Mosca non segnava il passo, ma in quel periodo il divario tra l’Occidente e la Russia andò
Capitolo i Le origini dell’impero moscovita Verso la metà del xv secolo nel principato di Mosca scoppiò una guerra intestina che si protrasse per un quarto di secolo. Il gran principe Vasilij ii fu scacciato dal trono dai principi indipendenti, e poi sconfitto dai Tatari e preso prigioniero. Dopo una lunga lotta Vasilij ii l’Oscuro (Cieco) ricuperò la corona, e i sostenitori degli ordinamenti liberi subirono una totale disfatta. Mentre era ancora vivente il padre cieco, Ivan iii (14621505) divenne suo coreggente. La sventura che aveva colpito il principe ancor giovane aveva inferto un duro colpo alla sua volontà. Salendo al trono, Ivan iii si impegnò con tutte le sue forze per ampliare i propri domini e sottomettere a sé tutte le terre russe. Per raggiungere questo scopo impiegò qualsiasi mezzo: violenza, denaro, matrimoni dinastici. Mosca assorbì i principati di Jaroslav e Rostov, Novgorod Velikij e infine Tver’. Il principato più importante che non cedette il proprio territorio al principato di Mosca fu quello di Novgorod. A Novgorod l’aristocrazia piegò il potere del principe e fondò una sorta di «repubblica». Il suo primo funzionario era l’arcivescovo, che aveva il proprio esercito e custodiva l’erario di Novgorod. Tutti gli affari di Novgorod erano amministrati da governatori elettivi e da bojari, che formavano il Consiglio dei signori. Tuttavia le decisioni più importanti del consiglio venivano ratificate dal veče (l’assemblea cittadina). Novgorod era la più antica città della Rus’ con un alto livello economico e culturale. Attraverso le città anseatiche intratteneva un florido commercio con i paesi dell’Europa occidentale. I domini di Novgorod comprendevano la penisola di Kola a Nord, e ad Est si estendevano fino agli Urali. La «repubblica» non aveva un esercito stabile e in caso di invasioni dall’esterno chiamava in aiuto i principi di Mosca. E questa fu poi la causa della fine di Novgorod. Ivan iii sconfisse le milizie popolari novgorodiane durante la prima campagna contro Novgorod nel 1471, e nella seconda campagna del 1478 costrinse la città alla resa. L’arcivescovo Feofil di Novgorod prestò grandi servigi a Mosca nel periodo in cui la sua città le era soggetta, ma tuttavia nel 1480 Ivan iii ordinò di arrestarlo per «tradi-
mento» e lo privò della dignità ecclesiastica. Come suprema autorità della repubblica l’arcivescovo aveva poteri troppo ampi. Come si vede, egli si impegnò a rispettare le condizioni dell’accordo con Mosca. Ivan iii promise di non scacciare i novgorodiani dalla loro terra e di non privare i bojari dei loro patrimoni ereditari. Tuttavia, dopo l’arresto di Feofil e del capo del partito bojaro, egli si rimangiò le sue promesse e annullò l’accordo. L’ordinamento repubblicano di Novgorod si rivelò molto solido e resistente. Per liquidare questa «repubblica» Ivan iii fu costretto ad espropriare ed esiliare oltre i confini della terra di Novgorod tutti i bojari locali, e poi i mercanti e i medi proprietari terrieri. Il ceto dei proprietari terrieri novgorodiani aveva un’origine storica. Con l’andar dei secoli questo ceto aveva garantito il governo politico della «repubblica» e la sua prosperità economica nelle avverse condizioni della Russia settentrionale. L’espropriazione di questo ceto dimostrava che non si trattava dell’unificazione di Novgorod con Mosca, ma di una conquista violenta, accompagnata dalla distruzione dell’intero sistema sociale tradizionale. La confisca delle terre di Novgorod fu guidata direttamente dai bojari Zachar’in, gli antenati più prossimi dei Romanov. Le terre confiscate divennero proprietà dello stato, rafforzando straordinariamente l’autorità e la potenza della dinastia moscovita. La conquista violenta di Novgorod gettò le fondamenta del futuro impero russo e divenne un punto cruciale nello sviluppo della sua cultura politica; le tendenze democratiche crollarono, lasciando il posto all’autocrazia. Ivan iii aveva sposato in prime nozze la figlia del gran principe di Tver’, e da lei aveva avuto il figlio Ivan il Giovane e il nipote Dmitrij. Rimasto vedovo, Ivan iii sposò in seconde nozze l’imperatrice greca Sofija. Zoja (Sofija) Paleologa era la nipote dell’ultimo imperatore bizantino, perito sulle mura di Costantinopoli nel 1453. La famiglia di Zoja si rifugiò a Roma, e Zoja fu chiesta in moglie da varie personalità regali, ma invano. I suoi contemporanei la criticavano per la sua eccessiva floridità; tuttavia l’ostacolo principale al suo matrimonio non era rappresentato dalla 320
sua opulenza (secondo le concezioni di allora, le forme opulente e il colorito vivace erano le caratteristiche prime della bellezza), ma da ben altri motivi. La futura sposa era senza dote. Alla fine un coniatore di monete italiano, impiegato come consigliere presso la corte moscovita, chiese in moglie Zoja per conto di Ivan iii, facendogli credere che la fanciulla, per rimanere fedele all’ortodossia, aveva già rifiutato la mano di due famosi «sovrani». Il papa di Roma Paolo ii appoggiò il progetto, illudendosi che la ragazza, allevata dai gesuiti, avrebbe convinto il principe di Mosca a concludere un’unione con la Chiesa cattolica. Ma Zoja non giustificò le sue speranze. Giunta a Mosca, essa respinse decisamente l’idea dell’unione e si schierò in difesa della fede ortodossa. In Italia si sperava che il matrimonio di Sofija Paleo loga avrebbe garantito l’alleanza con la Russia nella guerra con i Turchi che minacciavano di invadere nuovamente l’Europa. Nel 1473 il senato di Venezia rivolse ad Ivan iii questo appello: «L’impero orientale, conquistato dagli Ottomani (Turchi), a causa dell’interruzione della dinastia imperiale secondo la linea di successione maschile, deve appartenere alla vostra magnifica autorità in forza del vostro felice matrimonio». Era più difficile concepire un’idea del genere finché la stessa Rus’ si trovava sotto il dominio dei conquistatori mongoli. Anche un’altra circostanza ebbe un significato sostanziale. Il matrimonio con l’imperatrice bizantina fu concluso a condizioni per lei del tutto sfavorevoli. I figli di Sof’ja potevano aspirare al massimo a un principato indipendente. La corona moscovita spettava in eredità al figlio di primo letto di Ivan iii, Ivan il Giovane, ed ai suoi eredi. Il ramo dinastico di Tver’ non aveva rapporti con la «linea di successione greca». La situazione cambiò quando la Russia si liberò dal giogo tataro e riportò grandi vittorie nella guerra con la Lituania e l’ordine dei cavalieri di Livonia. Il problema dinastico si risolse in favore del ramo greco della dinastia, ma tutto ciò avvenne alcuni decenni dopo. L’erede di Ivan iii, Ivan il Giovane, si distinse nella guerra con i Tatari nel 1480, che restituì l’indipendenza alla Rus’. Era appunto lui a comandare le truppe durante lo scontro con la Grande orda sul fiume Ugra. I cronisti lodarono il coraggio di Ivan il Giovane, mentre suo padre fu sospettato di viltà. L’erede godeva di una discreta salute, ma contrasse un’affezione alle articolazioni dei ginocchi. Per curare l’ammalato venne chiamato il medico «cerusico Leone l’Ebreo», che Sofija aveva fatto convocare da Venezia ma, nonostante tutti gli sforzi del medico, Ivan morì. La sua morte spianò la strada al trono per i figli di Sofija Paleologa, e nacque perciò il sospetto che l’erede fosse stato avvelenato. Il noto medico veneziano fu decapitato. Ivan iii si affrettò a dichiarare suo erede al trono il nipote Dmitrij, figlio del defunto Ivan il Giovane; ma Sof’ja continuava a tessere intrighi, nella speranza di ottenere la «šapka di Monomach» (corona a forma di zucchetto) per suo figlio Vasilij. I sostenitori di Vasilij tramarono una congiura; il gran principe li punì crudelmente, e costrinse il figlio agli arresti domiciliari. Ivan iii scelse un modo insolito per risolvere definitivamente la contesa dinastica: mentre era ancora in vita incoronò il nipote Dmitrij con la corona di gran principe di Mosca. Dmitrij non discendeva dal ramo dinastico greco, tuttavia la cerimonia al Cremlino si svolse secondo il rito di incoronazione degli imperatori bizantini. La decisione
del sovrano inferse un duro colpo agli ambiziosi progetti di Sofija, ma essa non si rassegnò all’insuccesso. Passarono due anni, e nel 1499 Ivan iii affidò al figlio Vasilij il governo di Novgorod e Pskov, insignendolo del titolo di «gran principe». Da allora la Russia fu governata da tre gran principi: Sofija e suo figlio avevano ottenuto un grande successo. L’idea dell’eredità bizantina occupava un posto di rilievo nella vita politica della Rus’. La monarchia russa aveva adottato da Bisanzio il proprio stemma, un’aquila bicipite. Il modesto cerimoniale della corte moscovita cedette il posto agli sfarzosi rituali bizantini. Il gran principe non si accontentava dei titoli che aveva, e incominciò a chiamarsi samoderžec: questo titolo era l’esatta traduzione del titolo «autocrate», attribuito all’imperatore bizantino. Si suppone che questa modifica del titolo fosse legata alla conquista dell’indipendenza statale. Ivan iii deteneva il potere in prima persona: non gli veniva più demandato dal khan dell’Orda d’oro. Tuttavia è ammissibile anche un’interpretazione più semplice. A Bisanzio il titolo di «autocrate» spettava al supremo imperatore, che desiderava sottolineare il proprio primato nello stato rispetto agli imperatori che lo coadiuvavano nel governo. A Ivan iii servì il titolo di samoderžec da quando si trovò accanto prima uno, poi due altri governanti, tutti col titolo di «gran principe». I successi militari dello stato russo erano impressionanti, e l’imperatore del Sacro Romano Impero mandò un messaggero per proporre ad Ivan iii il titolo di re, ma Mosca rifiutò la proposta. Il sovrano russo restava fedele alla tradizione e solo raramente usava il titolo di zar, sovrano. Il sovrano greco Costantino il Grande aveva il titolo di imperatore dei romei, augusto e cesare. Ma quest’ultimo titolo perse il significato originario quando incominciarono a portarlo anche i figli dell’imperatore. Ivan iii usava il titolo di «zar» esclusivamente nella corrispondenza con i principi germanici e l’ordine dei cavalieri di Livonia. Il nuovo titolo doveva sottolineare il fatto che il «gran principe» della Moscovia si rivolgeva ai «grandi principi» di Germania e al «gran maestro» dell’Ordine non da pari a pari, ma come sovrano anziano ai più giovani. Le idee esposte nella missiva inviata dal senato veneziano ad Ivan iii nel 1473 vennero poi spesso dibattute nelle opere russe. Dopo il 1490 il metropolita moscovita Zosima scrisse le Lettere festali. In quest’opera paragonava Ivan iii alla colonna dell’ortodossia – l’imperatore bizantino Costantino – e affermava l’idea che Mosca era diventata la nuova Costantinopoli – «nuova Gerusalemme». L’opera di Zosima fu ben presto rielaborata nel monastero della Trinità di san Sergio; nella variante rielaborata Mosca veniva paragonata alla «Nuova Roma». Secondo la tradizione, i sovrani moscoviti governavano la Rus’ assieme ai propri dignitari, i bojari di nobili origini. La forte crescita dell’autorità e della potenza di Ivan iii rese inevitabile il conflitto con l’aristocrazia che vedeva ridurre la propria autorità. I bojari avevano aiutato il sovrano a conquistare Novgorod, ed in un primo tempo le terre confiscate in quell’impresa toccarono proprio a loro. Ma in seguito queste terre furono dichiarate proprietà esclusiva dell’erario e vennero distribuite ai piccoli proprietari della classe militare moscovita: dvorjanin (nobili di corte) e figli dei bojari (i bojari possedevano grandi appezzamenti di terreno, mentre quelli dei «figli dei bojari» erano più piccoli). Duemila mili321
tari ricevettero in concessione della terra a Novgorod, che restava tuttavia di proprietà dello stato (pomest’e). Essi erano possessori della terra finché restavano al servizio del gran principe di Mosca. Questi proprietari (pomeščiki) dipendevano dal monarca, e ciò fece della classe dei dvorjanin al servizio del sovrano un ulteriore sostegno alla monarchia assoluta. La perdita delle concessioni terriere destò il malcontento tra gli alti dignitari moscoviti, e la crisi dinastica fu aggravata da queste discordie. I membri più anziani della duma dei bojari e i rappresentanti dell’autorità ecclesiastica ben ricordavano a quale tremenda catastrofe avesse portato la lotta per il trono tra Vasilij ii e i principi indipendenti. Essi non volevano turbare l’ordine della successione al trono costituitosi a Mosca, e non appoggiarono le pretese al trono di Vasilij, figlio di Sofija. Nel 1499 Ivan iii condannò a morte i principi Patrikeev e S. Rjapolovskij, capi della duma. Grazie all’intervento dell’autorità ecclesiastica Patrikeev ebbe salva la vita, mentre S. Rjapolovskij fu decapitato sul ghiaccio della Moscova. Patrikeev fu costretto a farsi monaco. La crudele condanna di questi alti funzionari dello stato non intaccò la potenza dell’aristocrazia moscovita, ma fu foriera di futuri sconvolgimenti. Il xv secolo è segnato da aspri conflitti tra il monarca e i principi della Chiesa. Nel periodo del frazionamento l’autorità ecclesiastica aveva assunto immancabilmente la funzione di arbitro nelle annose dispute tra i gran principi. Nel tentativo di fare della Chiesa il proprio docile strumento, i principi moscoviti elargirono generose donazioni terriere alla metropolia. Tuttavia la trasformazione della Chiesa in grande proprietaria terriera ne favorì anche l’indipendenza. I khan dell’Orda esentarono dai tributi le proprietà ecclesiastiche e concessero alla Chiesa tutti i possibili privilegi. In seguito al periodo del frazionamento la Chiesa aveva acquistato una certa superiorità sul potere del gran principe (G. Podskalsky). Unificata la Rus’ e conquistato il potere, i sovrani moscoviti cercarono di riorganizzare i propri rapporti con la Chiesa seguendo l’esempio di Bisanzio, dove il clero dipendeva strettamente dall’autorità imperiale. Ivan iii partiva dall’idea che il monarca doveva avere l’autorità ultima nelle questioni ecclesiastiche. La sua ingerenza nella vita della Chiesa assunse forme addirittura provocatorie. Nella seconda metà del xv secolo si delinearono alcune divergenze e un’incertezza sulle questioni pratiche della vita ecclesiale e della liturgia. Uno degli approcci era caratterizzato da una tinta nazional-russa e dall’attaccamento alle vecchie tradizioni locali. I sostenitori di questa linea affermavano che il duplice «Alleluia» di uso moscovita simboleggiava la doppia natura del Salvatore. L’altra corrente di pensiero era più vicina ai greco-ecumenici e si atteneva totalmente ai modelli greci. La terza corrente presentava caratteristiche occidentaliste ed era legata a Novgorod. Ma queste tendenze non erano ancora giunte ad uno scontro aperto (F. Lilienfel’d). I teologi moscoviti non aspiravano all’autonomia e si comportavano sempre come zelanti discepoli. Essi temevano qualsiasi deviazione dai modelli bizantini. L’origine della loro incertezza e dei loro dubbi stava nel fatto che questi stessi modelli non restavano immutati. Nel x secolo ebbe un’ampia diffusione a Bisanzio la regola religiosa costantinopolitana (studita). Essa aveva fornito la base anche all’ordinamento russo quando i bizantini battezzarono la Rus’. Tuttavia nei secoli xii-xiii prevalse a Bisanzio
la regola gerosolimitana (di san Sabba). Al confine tra il
xiv e il xv secolo i metropoliti moscoviti Fozio e Kiprian,
del partito dei «greci», si accinsero a sostituire la regola costantinopolitana con quella gerosolimitana, ma non riuscirono a portare a termine il loro progetto a causa della disunione che affliggeva la Rus’ a quel tempo; perciò le regole russe in vari territori conservarono stranamente tratti arcaici antico-bizantini (S. Zen’kovskij). Agli occhi degli ortodossi più rigidi qualsiasi cambiamento nei principi della regola e nei riti aveva un significato sostanziale. Alla fine del xv secolo la divergenza sul rituale della processione portò a un aspro conflitto tra le autorità civili e quelle ecclesiastiche. Alla consacrazione della cattedrale principale della Russia, quella della Dormizione, Ivan iii criticò aspramente il metropolita Gerontij, il quale, secondo lui, aveva commesso un errore ordinando che la processione andasse contro la direzione del sole. Quando il metropolita si rifiutò di obbedire, il sovrano gli vietò di consacrare le nuove chiese costruite nella capitale. Nella disputa teologica così iniziata Ivan iii era sostenuto dall’arcivescovo di Rostov, Vassian Rylo, e da Gennadij Gonzov, archimandrita del monastero del Miracolo nel Cremlino. Questi esponenti della gerarchia ecclesiastica non erano in grado di portare alcuna testimonianza scritta a sostegno della loro tesi, e si basavano solo sull’uso. Il metropolita si fondava sull’esempio greco, la cui esattezza era confermata dall’igumeno, appena ritornato da un pellegrinaggio sull’Athos in Grecia. «Sulla Santa Montagna, – disse questi – ho visto consacrare in questo modo una chiesa, e con la croce camminavano contro il tragitto solare». Indignato per l’intromissione del sovrano in questioni strettamente ecclesiastiche, Gerontij si ritirò in monastero. Il conflitto ebbe ampia risonanza, ed Ivan iii fu costretto a cedere. Si recò al monastero per prostrarsi davanti a Gerontij, e riguardo allo svolgimento delle processioni promise di rimettersi al volere del metropolita. Qualche anno dopo il sovrano cercava di liberarsi del caparbio pastore, che si era ritirato per la seconda volta in monastero. Ma non riuscì a deporre Gerontij ed a sostituirlo con un candidato più confacente. Due brillanti figure della cultura religiosa all’epoca di Ivan iii furono il monaco Nil di Sora del monastero di Kirill di Beloozero (Lago Bianco) e Iosif Sanin, igumeno di Volokolamsk. Il monastero di Kirill di Beloozero, sperduto nei folti boschi del Nord, era uno dei principali centri religiosi della Rus’. Il monastero intratteneva stretti rapporti con la Grecia, e raccoglieva assiduamente entro le sue mura amanuensi e letterati. Sotto Ivan iii godette di grande notorietà in quel monastero lo starec Paisij Jaroslavov, famoso per il suo ascetismo. Nil di Sora, al secolo Nikolaj, discepolo di Paisij, proveniva dalla famiglia Majkov, di alti funzionari, vicina alla corte di Ivan iii. I d’jak, funzionari del gran principe, la futura burocrazia, appartenevano allo strato più colto della società russa. Dopo l’ingresso in monastero, Nil compì un pellegrinaggio sull’Athos, in Grecia, e forse anche in Palestina, dove conobbe da vicino le idee dell’esicasmo. Grazie all’opera di Gregorio Palamas, l’esicasmo acquistò un’importanza straordinaria nella coscienza religiosa bizantina già nel xiv secolo. Non la saggezza esteriore, insegnavano gli esicasti, ma il raccoglimento interiore apre la strada della verità. L’immergersi in se stessi dona una condizione di pace (esichìa), la «luce taborica», cioè il rapporto con Dio. Nella Rus’ le 322
idee del Palamas furono conosciute relativamente presto. Ma a quel tempo il terreno non era ancora pronto per accogliere le sue teorie mistiche. L’esicasmo fu assimilato dal pensiero religioso russo nel xv secolo grazie a Nil di Sora. Nil non riprese il tema della «luce taborica» e non citava Gregorio Palamas. Non era un palamita e il suo esicasmo non si può identificare pienamente con alcuna delle scuole bizantine. L’«esichìa» di Nil si rifaceva all’esperienza degli antichi monaci anacoreti bizantini e alle idee di Gregorio Sinaita, continuatore della loro opera. Secondo Nil, al centro della vita monastica si collocava la preghiera, come strumento di lotta contro le tentazioni e i pensieri peccaminosi, la vanità e l’orgoglio. La risposta alle tentazioni è il «comportamento saggio», la «contrizione», il «dono delle lacrime». «Solo il profondo sentimento del proprio essere peccatori, che pervade ogni uomo, può invocare la misericordia di Dio, che dona anche l’esichìa. Questa è la sostanza della dottrina di Nil» (F. Lilienfel’d). Tornato dall’Athos, Nil fondò lo skit sul fiume Sora (da cui il soprannome Sorskij) nelle vicinanze del monastero di Kirill di Beloozero. Nella Rus’ erano conosciuti da tempo gli eremitaggi-skit, ma solo Nil diede loro anche un fondamento teologico. A prima vista le opere di Sorskij sembrano un bizzarro mosaico intessuto di citazioni, ma un’esame più accurato rivela che il suo è un «parlare con parole altrui», in cui queste parole incarnano una vita vissuta e fondata nell’esperienza ascetica personale. Assai degna di nota è la Regola di Nil Sorskij, l’insegnamento sulla vita monastica, «il bilancio del suo cammino di penitenza». L’indigenza, agli occhi dell’eremita, era la via sicura per raggiungere l’ideale della vita spirituale. «Pulisci la tua cella – insegnava lo starec – e la povertà delle cose ti insegnerà la sobrietà. Ama la povertà, e l’assenza di possesso, e l’umiltà». I monaci devono vivere nella povertà e nutrirsi del frutto delle loro fatiche. Ciò che è «corporeo» serve come preparazione per immergersi nella vita spirituale. Ciò che è «corporeo» è come le foglie, mentre la vita spirituale è come i frutti dell’albero. Senza un «comportamento saggio» la realtà corporea è come un «seno arido». Il testamento di Nil è pervaso da uno spirito di abnegazione e umiltà: «Disperdete il mio corpo nel deserto, – ordinava lo starec ai discepoli, – affinché sia sbranato dalle fiere e dagli uccelli, poiché infatti ha molto peccato verso Dio e non è degno di sepoltura». Contemporaneo di Ivan iii fu anche un altro grande asceta della Chiesa russa, Iosif Sanin. Iosif discendeva da piccoli dvorjanin di Volokolamsk. Prese l’abito monastico da giovane, dalle mani dello starec Pafnutij del monastero di Borovsk, e divenne suo successore. Il monastero di Pafnutij era il monastero di famiglia di Ivan iii. Sanin aveva davanti a sé una brillante carriera, ma abbandonò il monastero e nel 1479 se ne andò a Volokolamsk, la propria città natale, capitale del principe indipendente Boris Vasil’evi/, dove fondò il monastero di Volokolamsk. Come Nil, anche Iosif era contrario all’accumulare ricchezze come mezzo di arricchimento personale, ma difendeva a spada tratta i beni della comunità monastica, vedendo in queste ricchezze uno strumento per la misericordia e la beneficenza. Nel monastero di Volokolamsk venivano attuati pienamente i principi di vita cenobitica, comunitaria dei monaci. Sanin aveva bei lineamenti e una voce sonora, era indifferente alle comodità della vita e si accontentava di una tonaca rattoppata. Dava prova di una rara sollecitudine per i suoi confratelli e discepoli, ma anche la sua
intransigenza e ferocia contro gli avversari ideali non avevano limiti. Iosif impiegava molte energie nell’acquisto di terre per il suo monastero e nell’accumulare ricchezze. Il monastero doveva acquistare «villaggi» (proprietà terriere) dai ricchi per far del bene ai poveri. Questa regola era per Iosif una norma di comportamento. Nelle frequenti carestie il monastero di Iosif di Volokolamsk distribuiva il grano a migliaia di contadini caduti in miseria e di poveri, salvandoli dalla morte per fame. Il «cenobio» del monastero di Iosif di Volokolamsk era una grande conquista per il suo tempo. Il monastero rifletteva le caratteristiche della personalità del suo fondatore. Gli sforzi degli starec del monastero erano tesi a mantenere la pietà esteriore e un’obbedienza incondizionata; i monaci erano sottoposti alla sorveglianza costante dell’igumeno e si controllavano diligentemente l’un l’altro; «la disciplina monastica domava l’energia del carattere, smussava le specificità personali, addestrava alla flessibilità e alla docilità e formava uomini pronti a sostenere e diffondere le idee del fondatore del monastero» (P.N. Miljukov). I discepoli di Iosif fecero propria e portarono alle estreme conseguenze questa caratteristica del loro maestro, come fosse una verità dogmatica. «La madre di tutte le passioni è l’opinione; l’opinione (il pensiero indipendente) è il secondo peccato originale», – così formulava il suo credo uno dei discepoli di Sanin. Per i giuseppini (i seguaci di Iosif) l’assenza del pensiero, dell’opinione, era compensata dalle citazioni, che essi avevano sempre «sulla punta della lingua». I dogmatici identificavano l’essenza del cristianesimo non nella conoscenza e nella riflessione, ma nell’organizzazione della vita in conformità alle interpretazioni dogmatiche dei sacri testi. A differenza dei perfetti dogmatici giuseppini, Nil e i suoi discepoli sostenevano idee nelle quali si può scorgere il primo tentativo relativamente autonomo di una teologia russa (D. \iževskij). Nil era destinato a gettare nel suolo russo un seme di spiritualità che avrebbe dato col tempo ricchi frutti. Gli eredi di Nil furono i famosi maestri spirituali, gli starcy dei secoli xviii e xix, la cui esperienza arricchì lo sviluppo del cristianesimo universale. Nil di Sora ebbe per la Chiesa orientale lo stesso ruolo di Francesco d’Assisi per quella occidentale (F. Lilienfel’d). L’opera di Nil e degli altri «starcy d’oltre Volga» (così chiamati perché i loro skit-eremitaggi sorgevano oltre il Volga) ebbe grande importanza, in quanto proprio in essa, come afferma G. Florovskij, si incarnò il processo di formazione spirituale e morale della personalità cristiana nella Rus’. La cultura religiosa a Novgorod Velikij ebbe uno sviluppo proprio. Il primo vescovo moscovita fu Sergij, che occupò la sede dopo l’arresto dell’arcivescovo locale. Sergij si dimostrò estremamente irriverente verso le cose sacre ai novgorodiani e si attirò ben presto l’odio dei fedeli. Venutosi a trovare in un ambiente ostile, l’arcivescovo non fu in grado di sopportare la pressione psicologica e cadde in preda alla «follia». La sua mente si annebbiò. Nel periodo del conflitto tra Ivan iii e Gerontij, il sovrano trovò il suo sostenitore più deciso in Gennadij Gonzov, archimandrita del monastero del Miracolo nel Cremlino. Adirato con Gennadij, il metropolita lo condannò e lo fece rinchiudere in una ghiacciaia. Il monarca lo liberò dalla prigionia e dopo qualche tempo lo nominò arcivescovo di Novgorod Velikij. Memore della sorte del suo 323
«ammattito» predecessore Sergij, Gonzov cercò, almeno nei primi tempi, di conformarsi all’ambiente culturale per lui nuovo. Gennadij era un tipico ortodosso moscovita. Ciò nonostante è considerato uno dei primi rappresentanti di un particolare «occidentalismo» nella Rus’. Non c’è alcun dubbio che questo stesso «occidentalismo» sia nato dal terreno delle tradizioni e delle pratiche novgorodiane, cui il vescovo dovette alla fin fine adattarsi. Per molti anni Novgorod mantenne intensi legami commerciali con la città di Lubecca. Secondo la tradizione, Gennadij entrò in trattative con questa città anseatica per il progetto di fondare una tipografia a Novgorod, e in seguito prese a servizio presso di sé lo stampatore di Lubecca B. Hotan; ma il tentativo di avviare già allora l’arte della stampa non ebbe successo; più fortunate si dimostrarono invece le imprese letterarie di Gennadij. La cultura religiosa di Novgorod aveva radici antiche. Sottrattasi alla distruzione dei Tatari, Novgorod Velikij conservava la più ricca raccolta di antichi manoscritti. Il livello culturale dei letterati della Santa Sofia di Novgorod era molto elevato. Nessun’altra raccolta di libri della Rus’ poteva paragonarsi a questa biblioteca. Sotto l’egida di Gennadij i letterati della Santa Sofia realizzarono un importantissimo progetto culturale: compilarono il primo corpus biblico integrale in lingua slava. Questo progetto non avrebbe potuto attuarsi se non a Novgorod, città aperta alle influenze occidentali. Esso fu realizzato dai colti letterati della Santa Sofia, e i lavori furono diretti dal cattolico Veniamin, di sangue croato, giunto a Novgorod dalla Boemia e preso a servizio da Gennadij nella biblioteca della Sofia. Il monaco domenicano Veniamin non si rifaceva ai manoscritti greci, mentre usava ampiamente la Volgata, di cui tradusse interamente dal latino alcuni libri. In questa nuova opera teologica era «percepibile lo spostamento della Bibbia slava dall’alveo greco a quello latino» (I.I. Evseev). Il lavoro durò molti anni, e non fu mai terminato. Il corpus fu chiamato Bibbia Gennadiana, anche se non sappiamo quale sia stato l’apporto personale dell’arcivescovo alla compilazione dell’opera. L’«occidentalismo» di Gennadij era limitato. Nelle opere letterarie non poteva fare a meno dell’aiuto di persone esperte in teologia latina. A Novgorod l’influsso culturale-religioso dell’Occidente si faceva sentire di più che a Mosca, e qui si manifestò prima il contrasto tra la nuova teologia dell’Occidente e la teologia tradizionale che un tempo era il fondamento comune per la Chiesa occidentale e quella orientale. La teologia occidentale riscoprì la filosofia antica, in particolare la logica aristotelica, dando impulso all’elaborazione di concezioni teologiche su fondamenti nuovi, mentre la teologia nella Rus’ conservava il vecchio indirizzo, sul quale si basava la rivelazione retorica della «ricchezza della fede», ma non una interpretazione logica adeguata; al centro della vita ecclesiale russa non vi era la ricerca teologica, ma l’ascetismo pratico, le preghiere, l’osservanza dei digiuni, l’iconografia; non si può perciò parlare di una «teologia» dell’Oriente ortodosso, ma piuttosto della sua «spiritualità» (G. Podskalsky). Il pensiero religioso russo non stava tuttavia in disparte rispetto allo sviluppo del pensiero europeo nel suo complesso: lo testimoniano l’«occidentalismo» di Gennadij e il «libero pensiero» dei novgorodiani. È caratteristico il fatto che i novgorodiani, estranei alla tradizione moscovita e aperti verso le nuove idee, nelle loro ricerche e interpretazioni teologiche siano andati ben oltre quanto potessero am-
mettere i dogmatici moscoviti. Su questo terreno si formò anche il «libero pensiero» novgorodiano, dichiarato eretico. A dare inizio al conflitto tra «eretici» ed ortodossi non furono tanto le dispute teologiche, quanto la prassi della Chiesa. A Mosca prosperava la vendita delle cariche ecclesiastiche. Dell’arcivescovo Gennadij si diceva che per ottenere la propria carica avesse investito una somma di denaro inaudita, e l’igumeno Zachar del monastero Nemcov di Pskov, contrario alla simonia, non voleva sottomettersi all’autorità dell’arcivescovo, alla cui diocesi appartenevano i monasteri di Pskov. Come repubblica, Pskov conservava l’indipendenza politica da Novgorod e ciò permetteva a Zachar di accusare apertamente Gennadij. Per tre anni l’igumeno spedì ovunque lettere in cui accusava Gennadij di eresia. A sua volta l’arcivescovo tacciava di eresia i suoi avversari, Zachar e i due sacerdoti novgorodiani Aleksej e Denisij. Questi sacerdoti furono portati a Mosca da Ivan iii e fecero una brillante carriera alla sua corte. Aleksej divenne arciprete della cattedrale principale – quella della Dormizione –, e Denisij divenne prete della cattedrale dell’Arcangelo al Cremlino, dove erano sepolti i sovrani moscoviti. Intrapresa la lotta contro gli eretici, Gennadij scoprì ben presto che il libero pensiero e l’eresia erano riusciti a penetrare nella capitale della Rus’ ortodossa. Si sentiva sempre la necessità di specialisti esperti provenienti dall’Occidente. Assieme agli uomini, dall’Occidente penetravano in Russia anche le nuove idee. Lo spirito del Rinascimento raggiunse i confini orientali dell’Europa. Tra i liberi pensatori moscoviti la figura di maggior rilievo fu il d’jak Fedor Kuricyn, vicino alla corte di Ivan iii. Lui ed altri «eretici» erano protetti apertamente da Elena Vološanka, madre dell’erede al trono Dmitrij (il nipote). Fedor Kuricyn criticava il monachesimo e coltivava l’idea della libera volontà dell’uomo («autocrazia dell’anima»), cui l’educazione e la conoscenza danno la libertà poiché egli conosce dov’è la virtù, dov’è il vizio, dov’è l’ignoranza. Il libero pensiero russo e le eresie furono giudicati in modi diversi dalla letteratura scientifica. Nella storiografia sovietica sono trattati come un movimento riformatore-umanistico, diretto contro la Chiesa feudale. L’eresia è vista come «una delle forme della protesta di classe delle masse popolari contro l’oppressione feudale»; la sua diffusione viene collegata con il brusco inasprimento della lotta di classe: bisogna notare tuttavia che nel periodo in esame non si rileva nemmeno l’ombra della lotta di classe. Come in Occidente, la lotta contro gli eretici si sviluppò nel xv secolo sullo sfondo dell’attesa di una ormai prossima e ineluttabile fine del mondo. L’esaltazione suscitata da questa attesa era pervasa da oscuri presentimenti e paure. L’estrema crudeltà dimostrata da Gennadij nei confronti degli eretici va attribuita sì al suo carattere personale, ma anche alla mentalità e al turbamento emotivo diffusi a quel tempo in tutta l’Europa. Gennadij disputò per alcuni anni con il sacerdote Aleksej ed altri liberi pensatori novgorodiani a proposito dell’incombente Giudizio universale. Gli ortodossi attendevano la Seconda Venuta nel 1492, o a 7000 anni dalla creazione del mondo. Gli «eretici» li contraddicevano, basandosi sui calcoli dello scienziato ed astrologo ebreo Immanuel Ben Ya’aka. Lo stesso arcivescovo dovette esaminare l’opera di Ben Ya’aka, in cui scoprì l’eresia giudaizzante. Tra i liberi pensatori alcuni condannavano 324
duramente i disordini in ambito ecclesiastico e la simonia, altri cercavano di interpretare il dogma della Trinità ed esprimevano dubbi sulla natura divina di Cristo, cosa che gli ortodossi videro come una bestemmia contro il Divinoumano e la Madre di Dio. Due anni prima dell’incombente fine del mondo, Gennadij accusò indiscriminatamente tutti i liberi pensatori di appartenere alla setta segreta dei giudaizzanti, e chiese che fossero condannati a morte. Inviando lettere ai suoi sostenitori, il vescovo portava ad esempio il re di Spagna, che con l’aiuto delle crudeli persecuzioni dell’Inquisizione aveva ripulito il suo paese dall’eresia giudaizzante. Nel 1490 l’alto clero russo si radunò a Mosca per processare gli eretici. Gennadij voleva che fossero puniti il d’jak Fedor Kuricyn e gli altri eretici moscoviti, ma Ivan iii e il nuovo metropolita, egli stesso contagiato dal libero pensiero, respinsero le sue pretese. Il principale accusato nel processo di Mosca fu Zachar, le cui idee non avevano nulla a che fare con l’eresia giudaizzante. La farsa legale contro la mitica setta segreta degli ebrei riuscì solo in parte: gli «eretici» moscoviti sfuggirono al processo, mentre quelli di Novgorod ricevettero una dura condanna; alcuni dei condannati furono rimandati a Novgorod e consegnati a Gennadij, che ordinò di incendiare sulla testa dei condannati dei berretti buffoneschi di corteccia di betulla, mentre gli altri «eretici» furono torturati in carcere. Ivan iii aveva salvato Fedor Kuricyn, ma non perché condividesse le sue opinioni: il processo contro gli «eretici» moscoviti minacciava di compromettere la corte dell’erede al trono, Dmitrij (il nipote), la cui madre passava per eretica. Ivan iii era un sottile politico e, come Machiavelli, giustificava qualsiasi mezzo per raggiungere lo scopo. Dmitrij era l’unico legittimo erede al trono, insediato al trono col rito dell’incoronazione e riconosciuto dalla duma dei bojari e dal popolo; ciò nonostante Ivan iii nel 1502 rinchiuse in prigione Dmitrij assieme a sua madre. Per giustificare questa decisione illegale chiamò in aiuto l’ortodossia ed accusò Elena Vološanka di eresia: il figlio di un’eretica non poteva ereditare un trono ortodosso. Sof’ja e suo figlio Vasilij iii raggiunsero il loro scopo, tendendo la mano agli ortodossi estremisti, e la loro unione costò cara alla cultura russa. Nel 1504 fu convocato a Mosca il santo concilio che condannò a morte i liberi pensatori. A Mosca divamparono i roghi. Morirono sul rogo il d’jak Ivan Volk Kuricyn, fratello di Fedor Kuricyn, ed alcuni altri. A Novgorod furono messi al rogo Kas’jan, archimandrita del monastero di San Giorgio, suo fratello, il pomeščik N. Rukavov, ed altri. Iosif Sanin fu il principale ideologo del partito ortodosso. Dedicò alla difesa della teoria ortodossa dall’eresia l’opera fondamentale della sua vita, chiamata in seguito Prosvetitel’ (L’Illuminatore). Nel suo trattato, Sanin dimostrava come l’eresia fosse stata portata a Novgorod dalla Lituania dall’ebreo Scharija, il quale convertì al giudaismo prima i novgorodiani, ed attraverso di loro i moscoviti. Gli eretici non riconoscevano la Santa Trinità, negavano la divinità di Cristo, non veneravano la Madre di Dio, non si prostravano davanti alla croce e alle icone, osservavano il sabato invece della domenica. Assieme a Sanin, tra i principali persecutori degli eretici c’era l’arcivescovo Gennadij Gonzov, che a suo tempo era stato uno tra i più devoti ad Ivan iii. Dopo essere vissuto a Novgorod quasi vent’anni, Gennadij passò a
capo dell’opposizione contro il sovrano moscovita. La formazione dell’opposizione ecclesiastica a Novgorod Velikij fu determinata da una serie di circostanze, tra cui un’importanza fondamentale ebbero le aspirazioni di Novgorod al primato nella vita della Chiesa, l’«occidentalismo» di Gennadij, e in particolare il conflitto sul problema delle proprietà fondiarie ecclesiastiche. L’arcivescovado di Novgorod superava di gran lunga per importanza tutte le altre cattedre vescovili. Uno dei simboli della particolare posizione dell’arcivescovo era il diritto a portare il klobuk bianco (corrispondente della mitra latina, ndt): nessun altro membro della gerarchia, compreso il metropolita, godeva di questo diritto. A cavallo tra il xv e il xvi secolo gli scrittori religiosi novgorodiani composero la Storia del klobuk bianco, in cui si affermava l’idea che dopo la caduta della «antica» Roma e della «nuova» Roma (Costantinopoli) il centro del cristianesimo sarebbe stato la terra russa: «e sulla terza Roma, che sorge in terra russa, risponderà la grazia dello Spirito Santo». Agli occhi dei novgorodiani la Chiesa russa, e in particolare la sua diocesi più antica, doveva diventare l’erede naturale dell’autorità del patriarca di Costantinopoli. Questa idea era confermata dal riferimento all’origine bizantina del «klobuk bianco» di Novgorod, la più importante regalia dell’arcivescovo locale. Le pretese dell’arcivescovo di Novgorod non incontrarono le simpatie di Mosca. Ma i dissidi più grossi nacquero sulla questione delle proprietà fondiarie dell’arcivescovado della Santa Sofia. Con la conquista di Novgorod Ivan iii aveva confiscato al vescovo locale una parte considerevole dei suoi terreni. Gennadij appoggiava le iniziative del sovrano, dato che la cosa riguardava i novgorodiani ribelli. Egli consacrò con l’autorità della Chiesa le azioni illegali delle autorità moscovite, che violarono l’accordo con i novgorodiani ed espropriarono i beni dei bojari di Novgorod. In seguito, tuttavia, i rapporti tra l’arcivescovo e il monarca furono soggetti a dure prove. Nel 1503 Ivan iii convocò l’alto clero a Mosca e propose di esaminare la questione delle proprietà fondiarie della Chiesa moscovita. Sembra che Nil di Sora sostenesse il progetto governativo, così fu proclamata per la prima volta apertamente la nuova corrente del pensiero religioso, che fu chiamata nestjažatel’stvo (dei «non possidenti»). Contro i nestjažateli si schierarono l’arcivescovo Gennadij Gonzov, Iosif Sanin ed altri esponenti della gerarchia ecclesiastica. La storia del concilio del 1503 ha destato da tempo l’interesse degli studiosi. Risulta difficile darne un giudizio anche perché nelle testimonianze cronachistiche che lo riguardano, ed anche nelle decisioni conciliari che sono giunte fino a noi non si fa alcun cenno ai progetti di secolarizzazione di Ivan iii, mentre i discorsi di Nil di Sora sono citati esclusivamente in opere pubblicistiche di epoca più tarda. Questa circostanza ha permesso allo storico americano D. Ostrovski di avanzare l’ipotesi della falsità di queste notizie tardive sulla nascita nella Rus’ della corrente dei nestjažateli nel 1503. La debolezza di questa ipotesi sta nel fatto che essa non spiega i motivi della falsificazione, di cui sarebbe stato complice non uno, ma vari letterati, appartenenti a correnti di pensiero diverse. Qualunque delle parti in causa si sarebbe affrettata a smascherare l’altra, se questa avesse permesso una falsificazione così rozza. Il silenzio degli storici antichi sul problema della secolarizzazione si spiega abbastanza facilmente: nel 1499, alcuni anni prima del concilio, Ivan iii 325
aveva confiscato molte terre alla chiesa della Sofia di Novgorod, ma né gli annalisti moscoviti ufficiali, né le fonti narrative novgorodiane fanno alcun cenno a questo importante provvedimento. La discussione del progetto di secolarizzazione nel 1503 non portò a nulla, e per questo non ci furono nemmeno decisioni conciliari sulla questione. Il tentativo di estendere l’esperienza novgorodiana al dominio della Chiesa moscovita suscitò un aspro conflitto. Il sovrano non riuscì ad imporre il proprio volere al concilio e le fonti moscovite ufficiali evitarono di parlare del suo insuccesso. Gli ecclesiastici da parte loro, indignati per il delittuoso attentato delle autorità civili contro le loro proprietà, preferivano che l’incidente fosse dimenticato per sempre. Solo dopo la morte di Ivan iii e del suo coreggente di fatto, Vasilij iii, questo tema prima vietato venne ampiamente dibattuto dai pubblicisti. Le loro opere uscirono mentre era ancora in vita la generazione che aveva conosciuto Nil o che poteva attingere informazioni dalla bocca dei suoi discepoli: perciò i letterati non dovevano «ricostruire» avvenimenti del passato e ricorrere a mistificazioni. Le autorità civili non esitarono ad impiegare la violenza a Novgorod. A Mosca cercarono di indurre il clero a cedere col metodo della convinzione. Dopo aver manifestato l’intenzione di confiscare i «villaggi» (votčiny) al metropolita e ai monasteri, Ivan iii promise subito loro una provvista di grano («obroki») e pagamenti in denaro («ruga») prelevati dall’erario. La teoria e la pratica degli starcy d’oltre Volga giustificava in un certo senso le intenzioni del sovrano. Nil denunciava come peccaminoso l’arricchimento dei monasteri. Essendo stato chiamato a Mosca da Ivan iii, dichiarò: «È indecoroso che un monaco possieda delle terre». I pubblicisti di epoca più tarda, avversari dei nestjažateli, incominciarono a descrivere i fatti come se Nil avesse consigliato al sovrano di confiscare le terre ai monasteri, ma non è così. I discorsi di Nil avevano un diverso significato: egli cercava di convincere i monaci a mettersi sulla via della salvezza e a rinunciare spontaneamente al possesso delle terre per nutrirsi dei frutti del proprio lavoro e vivere nella povertà. L’idea che gli esicasti russi, gli starcy d’oltre Volga, vivessero nella totale rinuncia alle vicissitudini mondane del loro tempo non è del tutto esatta. Quando Ivan iii decise di deporre il metropolita di Mosca Gerontij, non a caso propose la carica di metropolita a Paisij Jaroslavov, maestro di Nil e di altri starcy d’oltre Volga. Qualche tempo dopo, dietro insistenza del sovrano, Paisij fu messo a capo del monastero della Trinità di san Sergio. Gli igumeni di questo monastero svolgevano una funzione di rilievo nella vita della Chiesa russa. Gli aristocratici monaci della Trinità non volevano sottomettersi ai princìpi professati dagli starcy d’oltre Volga, e Paisij dovette lasciare il monastero. Secondo quanto riferisce un contemporaneo, i monaci di origine principesca o bojara non volevano obbedirgli e volevano addirittura ucciderlo. Sebbene privato della carica di igumeno, Paisij conservò la propria influenza presso la corte. Non a caso Ivan iii contava sull’aiuto degli starcy d’oltre Volga per attuare i progetti di secolarizzazione dei beni ecclesiastici, e ciò conferiva inevitabilmente una tinta politica all’ideologia di Nil di Sora. Al concilio del 1503, il metropolita di Mosca Simon si trovò in una situazione difficile. Qualche anno prima del concilio aveva benedetto l’azione di esproprio compiuta dal sovrano sulle terre del vescovo di Novgorod, ed ora doveva vuotare anch’egli questo amaro calice. La maggio-
ranza del clero della cattedrale era disposta a sottomettersi alla decisione del monarca; tuttavia la decisa protesta di Serapion, igumeno del monastero della Trinità di san Sergio e discepolo prediletto del metropolita, e di altri membri della gerarchia, cambiò la situazione. Durante un colloquio con Ivan iii, Simon \iž dichiarò: «Non consegnerò i villaggi della Chiesa purissima (della sede metropolitana), che sono stati proprietà dei metropoliti taumaturghi Petr e Aleksej di Mosca». L’arcivescovo Gennadij si oppose così aspramente al sovrano che questi lo interruppe con una rozza bestemmia. Poco dopo il concilio, il monarca ordinò di arrestare Gennadij e lo privò della dignità ecclesiastica con una pretestuosa accusa di corruzione. Ivan iii si ammalò gravemente, e nel 1505 morì senza riuscire a riprendere i suoi progetti di secolarizzazione. L’opposizione della Chiesa evitò una nuova grandiosa espansione della proprietà statale. Dopo Gennadij, la cattedra vescovile di Novgorod fu occupata da Serapion. Come il suo predecessore, anche Serapion entrò in conflitto col monarca. Per una denuncia vii/ di Iosif Sanin, Vasilij iii fece cadere in disgrazia il vescovo e 18 lo depose. Dopo questo fatto le autorità vietarono al santo concilio di designare un nuovo arcivescovo di Novgorod. La più antica diocesi del paese rimase senza pastore per diciassette anni. Al termine della sua vita Iosif Sanin abbandonò i suoi protettori, i principi indipendenti, e assieme al monastero passò sotto l’autorità del gran principe Vasilij iii. Dopo aver impiegato tutte le proprie forze nella lotta contro l’eresia, Iosif giunse alla conclusione che soltanto un’autorità organizzata secondo il modello dell’autorità imperiale bizantina poteva custodire nella sua purezza la fede ortodossa. Il pensiero religioso russo si alimentava continuamente alla tradizione bizantina. Si è conservata una lettera di Iosif al gran principe, quasi interamente intessuta di citazioni prese dallo scrittore bizantino Agapito. L’idea fondamentale di questo scritto è racchiusa nella tesi dell’origine divina dell’autorità imperiale: «lo zar, infatti, per il corpo è uguale a tutti gli uomini, ma per l’autorità è uguale al Dio altissimo». Lo zar è simile al sole e deve custodire i suoi sudditi dall’eresia. Ivan iii cercava di appoggiarsi ai nestjažateli nella sua politica di secolarizzazione delle proprietà ecclesiastiche, vedendo in loro dei possibili sostenitori. Tuttavia non furono i nestjažateli, ma i loro avversari, i giuseppini, a formulare un’idea che avrebbe esercitato una profonda influenza sulla cultura politica dell’impero moscovita. Il monastero di Volokolamsk, fondato da Sanin, divenne una sorta di vivaio di prelati giuseppini. Ovunque la sorte li mandasse, i discepoli di questo monastero si sostenevano l’un l’altro e cercavano di occupare posizioni di rilievo nella gerarchia ecclesiastica. Dalle file dei giuseppini uscirono due metropoliti e un gran numero di vescovi, che governarono la Chiesa russa nel xvi secolo. Essi riuscirono anche a incarnare nella vita le idee formulate da Iosif di Volokolamsk. Nello stesso tempo salvaguardarono strenuamente l’inviolabilità dei beni ecclesiastici, dichiarando come la peggiore delle eresie qualsiasi attentato alle ricchezze della Chiesa. L’idea della continuità dell’impero bizantino e dell’autocrazia moscovita ricevette una formulazione definitiva nelle epistole indirizzate dal monaco Filofej di Pskov a Vasilij iii. Seguendo la tesi dell’unità di tutto il mondo cristiano stabilita da Dio, Filofej dimostrava che il primo 326
centro universale fu l’antica Roma, e poi la seconda Roma, Costantinopoli, mentre negli ultimi tempi al loro posto era sorta una terza Roma: Mosca. «Due Rome sono cadute – affermava Filofej – ma la terza non cadrà e non ce ne sarà una quarta». La concezione di Filofej si basava sul concetto di un «impero romano indistruttibile», costituitosi all’epoca di Augusto, al quale si riferivano gli atti e la vita terrena di Cristo. La «grande Roma» ha conservato la propria esistenza fisica, ma ha perduto l’essenza spirituale, essendo prigioniera del cattolicesimo. L’impero greco è divenuto il baluardo dell’ortodossia, ma poi è caduto in mano agli «infedeli». La caduta dei due imperi ha sgombrato il posto all’impero ortodosso moscovita. In bocca a Filofej l’idea del ruolo universale di Mosca aveva un senso più sacrale che imperiale (N.V. Sinicyna). Ma la prassi moscovita apportò ben presto delle correzioni alla teoria di Filofej. Nel xv secolo l’impero dei Mongoli, l’Orda d’oro, si frantumò. Ivan iii smise di pagare i tributi, spingendo così la Grande orda a concludere un’alleanza con il re polacco e a intraprendere una campagna contro la Rus’. I Tatari cercarono di varcare il confine presso Kaluga, ma vennero fermati all’attraversamento del fiume Ugra. Ivan iii affidò il comando delle truppe al più esperto dei suoi bojari, poi si recò di persona a trattare col khan, suscitando preoccupazione e malcontento nel popolo. Cercava di evitare così una sanguinosa battaglia, e il suo tentativo ebbe successo: i Tatari non attesero l’esercito polacco alleato e col giungere del grande gelo si ritirarono nella steppa. Il giogo tataro era caduto. Ivan iii annientò Novgorod e Tver’, e Vasilij iii continuò la sua opera. Nel 1510 abolì la «repubblica» di Pskov, annettendo i suoi territori ai propri domini. Per Mosca non era necessario conquistare Pskov, vista la lealtà della sua popolazione; tuttavia anche a Pskov, come a Novgorod, si ricorse ampiamente alla violenza: tutti i bojari di Pskov furono espropriati ed espulsi dai luoghi natii. Con la riconquista di Smolensk alla Polonia e la sot237 tomissione di Rjazan’, Vasilij iii portò a compimento l’u238 nione delle terre della Grande Russia. Durante il regno di Ivan iii e Vasilij iii i territori del principato di Mosca si ampliarono di molto: caddero sotto l’autorità di Mosca anche alcuni popoli e tribù non russi, come i Kareli, i Komi (Permjaki), i \udi, gli Izori, gli Jugri degli Urali. Sotto Ivan iii i comandanti militari moscoviti portarono a termine la prima campagna di conquista entro i confini dell’Asia e sottomisero una serie di tribù siberiane oltre gli Urali, ma non riuscirono tuttavia a consolidare la propria posizione in Siberia. A cavallo tra il xv e il xvi secolo passò sotto il dominio di Mosca anche il territorio di \ernigov Severskij (Settentrionale). Le terre originariamente ucraine furono divise tra la Polonia e la Grande Russia, con sfavorevoli conseguenze per lo sviluppo del popolo ucraino. Sotto l’influsso dei cambiamenti in atto nello stato russo, mutava anche il carattere della sua cronachistica. Le capitali che erano state i centri della cronachistica anticorussa cadevano una dopo l’altra sotto i colpi di Mosca. La cronachistica di Tver’, Novgorod, Pskov fu soppressa o andò decadendo. Le opere cronachistiche a Mosca venivano prodotte come sempre sotto l’egida della Chiesa, ma il ruolo principale nella redazione dei maggiori corpi dei gran principi della fine del xv secolo toccava già alle cancellerie dei principati. Intraprendendo la campagna contro Novgorod, Ivan iii prese con sé il d’jak S. Borodatyj, che sapeva «parlare secondo le cronache», cioè sapeva
trovare nelle cronache la citazione adatta a dimostrare il diritto della corona moscovita sulle terre di Novgorod. Subito dopo il ritorno a Mosca il monarca incaricò i d’jak di integrare le cronache con le nuove informazioni. Nacque così il corpo cronachistico del 1479. I redattori del corpo dovevano riconoscere che l’azione di Ivan iii contro Novgorod era inaudita: «un simile arbitrio contro di essi (i novgorodiani) non è mai stato compiuto da nessun gran principe, né da nessun altro» dal tempo in cui «sorse Novgorod in terra russa». Giustificando il comportamento di Mosca, il cronista esponeva dettagliatamente il «tradimento» dei novgorodiani. Il controllo sulla cronachistica stabilito da Mosca si rafforzò, ma non acquistò un carattere universale. Non solo i letterati locali, trincerati al sicuro entro le mura dei monasteri, ma anche i cronisti moscoviti non appartenenti all’ufficialità potevano ancora permettersi bruschi rimproveri al sovrano. Il passaggio di Iosif Sanin con il suo monastero sotto la protezione di Vasilij iii suscitò la disapprovazione dei suoi avversari, che accusavano l’igumeno di Volokolamsk di tradire il re celeste passando dalla parte del re terreno. Tuttavia le speranze di Sanin nella benevolenza del sovrano non trovarono conferma. Dopo la morte di Nil di Sora la corrente dei nestjažateli vide una nuova fioritura. Il gran principe nominò metropolita un sostenitore dei nestjažateli e chiamò a corte il principe monaco Vassian Patrikeev, suo lontano parente. Il successore di Nil, Vassian, sviluppò la polemica contro Iosif Sanin e i suoi seguaci. Considerando il monachesimo come una rinuncia al mondo, Patrikeev denunciava i possedimenti dei giuseppini, esprimeva simpatia per i contadini, condannava la crudeltà nei confronti degli eretici e dei liberi pensatori. Il conflitto di queste due correnti del pensiero
237. Smolensk assediata da Vasilij iii, dal Corpo illustrato, tomo di Šumilov, fol. 40; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica.
327
Tavole a colori VII
1
2
8
6
8
3
9
7
9
1. L’evangelista Marco, dall’Evangeliario del 1507, fol. 10v., Feodosij; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica.
2. Mosca, Cremlino, cattedrale della Dormizione, 1475-1479. 3. Mosca, Cremlino, cattedrale della Dormizione, interno.
4. Monastero della Trinità di San Sergio. Chiesa dello Spirito Santo, 1476. 5. Mosca, Cremlino, campanile di Ivan il Grande, 1505-1508.
6. Dionisij, Crocifissione, inizio xvi secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov. 7. La prova di Tommaso, scuola di Dionisij, inizio xvi secolo; San Pietroburgo, Museo russo.
8. San Giorgio, icona dall’iconostasi della chiesa della Natività della Madre di Dio nel monastero di Ferapont, scuola di Dionisij, inizio xvi secolo; San Pietroburgo, Museo russo. 9. Giovanni Crisostomo, icona dall’iconostasi della chiesa della Natività della Madre di Dio nel monastero di Ferapont, scuola di Dionisij, inizio xvi secolo; San Pietroburgo, Museo russo.
10. Il metropolita Aleksej con scene della vita, scuola di Dionisij, fine xv-inizio xvi secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov. 11. Il metropolita Aleksej benedice il nuovo igumeno Andronik, particolare dell’icona del metropolita Aleksej con scene della vita; Mosca, Galleria Tret’jakov.
10
11
12. Il metropolita Aleksej con scene della vita, particolare: il principe di Mosca accoglie il metropolita Aleksej al ritorno dalla sua missione presso l’Orda; Mosca, Galleria Tret’jakov.
Dal Corpo illustrato; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica: 13. La battaglia tra i Russi e i Tatari di Kazan’, tomo di Golicyn, fol. 949v. 14. Il fidanzamento di Ivan iii con l’imperatrice bizantina Sofija, tomo di Golicyn, fol. 926. 15. La traslazione delle reliquie del santo metropolita Petr nella cattedrale della Dormizione in costruzione, tomo di Šumilov, fol. 39. 16. Il crollo della cattedrale della Dormizione, tomo di Šumilov, fol. 99. 17. L’architetto italiano Aristotele Fioravanti intraprende la costruzione della nuova cattedrale della Dormizione, tomo di Šumilov, fol. 110. 18. Iosif Sanin scrive la lettera di accusa contro gli eretici, tomo di Šumilov, fol. 441. 19. Il trasferimento dell’imperatrice Sofija dall’Italia alla Russia, tomo di Šumilov, fol. 48v. 20. Un segno (prodigio) nel cielo di Mosca, tomo di Šumilov, fol. 159. 21. L’assemblea dell’alto clero a Mosca, tomo di Golicyn, fol. 898. 22. Il crollo della cattedrale di San Michele a Perejaslavl’, tomo di Golicyn, fol. 83.
23. Piccolo Sion. Rame, cesellatura, doratura, niello, 1486; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria.
328
12
13 22 21
23
238. La Moscovia tra la fine del xv e l’inizio del xvi secolo, carta di R. Skrynnikov.
morte di Savonarola si trasferì a Venezia per completare gli studi. In Italia abbracciò il cattolicesimo, ma al ritorno in Grecia, sull’Athos, ritornò all’ortodossia. Con Massi- 239mo la Russia colta conobbe per la prima volta un dotto 240 enciclopedista, che aveva accumulato conoscenze approfondite e poliedriche nelle università italiane. I principi della scienza filologica del Rinascimento, cui si atteneva il Greco nelle sue traduzioni, erano i più avanzati per la sua epoca. Approfondendo la conoscenza della prassi e della letteratura ecclesiastica moscovita, il teologo atonita vi rilevò molte deviazioni dai canoni usati nella sua patria. In cinquecento anni di vita la cultura religiosa russa aveva assunto caratteristiche originali e nello stesso tempo aveva
religioso aveva radici profonde. I giuseppini cercavano di realizzare l’ideale cristiano attraverso l’impegno nel mondo esterno, mentre i nestjažateli cercavano di trasformare il mondo attraverso la trasfigurazione e l’educazione dell’uomo nuovo, con la nascita di una persona nuova (G. Florovskij). Sostenitore di Vassian Patrikeev era Massimo il Greco, inviato a Mosca per correggere e tradurre i testi liturgici. Massimo (Michele) proveniva dall’aristocratica famiglia bizantina Trivolis. Nel 1492 si recò a studiare in Italia, dove trascorse dieci anni. A Firenze conobbe l’insigne filosofo Marsilio Ficino, fu testimone della caduta della tirannia dei Medici e del trionfo di Savonarola. Dopo la 344
345
per disposizione di Ivan iii, il maestro Vasilij Ermolin eseguì dei lavori di restauro sulle antiche cattedrali di Vladimir. Le conquiste di Mosca misero fine al frazionamento feudale, e con esso anche all’isolamento culturale delle terre e dei principati. I maestri moscoviti non riuscirono a far rinascere l’ormai perduta architettura della Rus’ di Vladimir-Suzdal’ dei secoli xii-xiii, ma l’architettura moscovita si arricchì notevolmente grazie alle tradizioni di terre più civili – in primo luogo Pskov e Novgorod. Un’insigne opera dei maestri di Pskov in terra moscovita fu la chiesa dello Spirito Santo nel monastero della Trinità di san Sergio (1476), che unisce tratti caratteristici dell’architettura di Pskov e di quella moscovita. Un vii/ esempio di costruzione in muratura della fine del xv se- 4 colo è fornito invece dal palazzo di Ugli/, di proprietà 242 di uno dei principi indipendenti. L’edificio era costruito in laterizio e decorato con un elegante fregio in mattoni lungo il frontone. L’architettura russa ricevette un nuovo orientamento quando le autorità moscovite intrapresero lavori edili – grandiosi per quel tempo – per ristrutturare il complesso del Cremlino. Tornato vittorioso dalla campagna contro Novgorod Velikij nel 1471, Ivan iii decise di costruire al Cremlino una nuova cattedrale della Dormizione, che avrebbe dovuto offuscare lo splendore della Sofia di Novgorod e diventare la chiesa principale dello stato moscovita. La costruzione della cattedrale fu affidata ai maestri moscoviti Myškin e Krivcov, che avrebbero dovuto tenere come modello la cattedrale della Dormizione di Vladimir. La nuova chiesa era a cinque cupole, con cinque navate, e per dimensioni superava ampiamente la vecchia cattedrale. Mentre i maestri innalzavano i muri, la chiesa precedente restava essenzialmente intatta, e questo poneva i costruttori davanti a un difficile compito; quando l’edificio fu quasi terminato, crollò improvvisamente. I maestri di Pskov, chiamati d’urgenza a Mosca, identificarono vii/ le cause della catastrofe, ma rifiutarono la proposta di ri- 16 costruire la chiesa dalle rovine o di costruirne una nuova, poiché ciò comportava grandi difficoltà; allora Ivan iii decise di rivolgersi a maestri forestieri. Il suo ambasciatore, che si trovava in Italia, invitò al servizio dei russi Aristo-
conservato in forma arcaica molto di ciò che era stato portato nella Rus’ dai Bizantini nell’xi secolo. Rilevando errori e travisamenti nei libri liturgici russi, Massimo si mise energicamente a correggerli secondo gli originali greci, ma questo attentato alla tradizione russa consacrata dai secoli destò preoccupazione tra il clero moscovita. Per sua somma disgrazia Massimo espresse dubbi sulla legittimità di nominare il metropolita di Mosca senza la benedizione del patriarca di Costantinopoli. La cella di Massimo il Greco divenne il rifugio dei liberi pensatori moscoviti, criticati non solo dall’ordinamento ecclesiastico, ma anche dalle autorità civili della Moscovia. In seguito a una delazione, Vasilij iii ordinò di decapitare uno degli «interlocutori» di Massimo, che si era permesso delle osservazioni offensive sul monarca. Nel 1525 i giuseppini ottennero la condanna del Greco, e nel 1531 mandarono in prigione anche Vassian Patrikeev. *** Sul finire del xv secolo la Russia estese notevolmente i suoi rapporti con i paesi dell’Europa occidentale e soprattutto con l’Italia. Giunse a Mosca un gran numero di architetti, ingegneri, medici, orafi ed altri artigiani italiani, che avrebbero lasciato una profonda traccia nella storia della cultura russa, in particolar modo nell’architettura. L’invasione mongola aveva inferto un tremendo colpo alle città russe e aveva praticamente troncato lo sviluppo della tradizione architettonica anticorussa, la cui migliore realizzazione era l’architettura di Vladimir. La città di Vladimir era l’antica capitale della Rus’ nord-orientale. Quando il metropolita di Kiev si rifugiò al Nord per sfuggire alle violenze dei Tatari, fece della cattedrale della Dormizione a Vladimir la sua chiesa principale. Quando Mosca divenne la capitale religiosa della Rus’, Ivan i Kalita ordinò di costruire una cattedrale della Dormizione nel suo Cremlino. I principi di Mosca si impadronirono della corona di Vladimir, ma le loro costruzioni, per dimensioni e magnificenza, non eguagliavano certo le chiese della vecchia capitale. La trasformazione di Mosca nella capitale di uno stato unitario fece rinascere l’interesse per l’architettura di Vladimir e,
239-240. Dalla Narrazione nota di Massimo il Greco: fol. 1; fol. 11, ritratto di Massimo il Greco. San Pietroburgo, Biblioteca dell’Accademia delle scienze.
tele Fioravanti, un ingegnere di Bologna, e questa scelta si dimostrò estremamente felice. Al tempo del suo trasferimento a Mosca, Fioravanti aveva già quasi sessant’anni, e si era guadagnata la reputazione di uno degli migliori ingegneri d’Italia. Lo invitavano in varie città per eseguire i lavori che altri maestri rifiutavano. Egli spostava torri da un posto a un altro, raddrizzava campanili cadenti e mura fortificate. Giunto a Mosca nel 1475, Fioravanti si accinse vii/ a risolvere il problema che aveva condotto in un vicolo 17 cieco i maestri russi. Il crollo della chiesa sulle tombe dei metropoliti Petr e Aleksej – il principale santuario di Mosca –, era stato interpretato dai moscoviti come un castigo per i loro peccati. Nel timore di un nuovo insuccesso, le autorità russe non osarono porre a Fioravanti condizioni troppo dure, e gli permisero di violare la tradizione, e a sua volta il maestro italiano garantì loro che quella catastrofe non si sarebbe ripetuta. La tradizione russa collegava all’idea della metropolia di «tutta la Rus’» le principali cattedrali a cinque navate; ma l’architetto italiano rifiutò decisamente il progetto di una cattedrale a cinque navate elaborato da Myškin e Krivcov, e gettò le fondamenta di una chiesa a tre navate. Solo in un secondo tempo il maestro si recò a Vladimir per conoscere i migliori esempi dell’architettura di quella città. Con le sue proporzioni armoniche, la cattedrale della Dormizione di Vladimir produsse un’impressione favorevole su Aristotele, tanto da fargli dire che dei maestri italiani non l’avrebbero costruita diversamente. L’architetto italiano smontò la cattedrale crollata del Cremlino e alle due vecchie fondamenta ne aggiunse una terza, mutando la configurazione dell’edificio e dandogli una forma più allungata. Nella nuova co-
struzione le navate laterali della chiesa furono rese più ampie, venne raddoppiato il numero delle loro absidi, e i massicci pilastri che sostenevano la volta furono sostituiti da colonne rotonde. La cattedrale della Dormizione di Mosca (1475-1479) vii/ aveva cinque cupole e riproduceva altre caratteristiche 2-3 dell’omonima chiesa di Vladimir; ma nell’opera di Fioravanti le tradizioni si riempirono di un nuovo contenuto stilistico, pervaso dallo spirito del Rinascimento italiano. L’architetto rifiutò decisamente il genere a croce e cupola, tradizionale nella Rus’, e costruì una chiesa con uno spazio interno a forma di sala, caratteristica dell’architettura romanica e soprattutto di quella gotica (cfr. la pianta della cattedrale della Dormizione a Mosca). La cattedrale di Mosca era un po’ più stretta di quella di Vladimir, ma 243 la superava in lunghezza. Le sue cinque navate erano disposte in modo più compatto, accrescendo l’effetto monumentale della costruzione. Un’innovazione all’interno della chiesa era l’alta balaustra dell’altare, che separava il popolo in preghiera dall’altare e nello stesso tempo lo univa con la schiera dei santi, le cui immagini coprivano la balaustra dall’alto in basso. I contemporanei notarono che la nuova cattedrale era costruita a forma di «palazzo» (edificio civile), e non con la forma consueta delle chiese. La cattedrale della Dormizione li impressionò per la sua grandiosità, l’altezza, la luminosità, la sonorità, l’ampio spazio interno, che non si era mai visto nelle chiese precedenti. Costituita di compatti cubi di pietra bianca adiacenti l’un l’altro, la cattedrale pareva un enorme luccicante monolito. Su tre lati i muri sono decorati da una cinturina di arcate e colonne, in cui è incastonato il registro inferiore di finestre.
242. Palazzo del principe a Uglič (residenza dello zarevič Dmitrij), anni 1480.
241. Cattedrale di San Demetrio a Vladimir; incisione dal libro Descrizione di un viaggio a Mosca di A. Oleari, 1656.
346
347
Jaroslavl’ e Novgorod. I tratti rinascimentali delineati nelle forme della cattedrale della Dormizione apparvero ancora più chiaramente nell’architettura della cattedrale dell’Arcangelo, costruita dall’architetto italiano Alvise il 245Nuovo negli anni 1505-1508. La chiesa fungeva da cap- 246 pella funeraria per i sovrani moscoviti. Conservando la pianta tradizionale della cattedrale ortodossa a cinque cupole, l’architetto costruì un edificio del tutto somigliante a un palazzo italiano. Come chiarì S.S. Pod’japol’skij, «la cattedrale fu costruita da Alvise in piena armonia con le concezioni artistiche di un maestro del tardo quattrocento veneziano». Nelle forme esterne della chiesa salta all’occhio il ricco ornamento sui muri in mattone rosso, le conchiglie bianche nei zakomary (arcate nella parte superiore dei muri esterni, che chiudono la volta interna ad essi adiacente e ne ripetono il contorno). Le caratteristiche del razionalismo nella cattedrale dell’Arcangelo non sono tanto marcate come in quella della Dormizione. Lo spazio interno della chiesa è limitato da massicci pilastri, e quest’ultima caratteristica avvicina la chiesa alle tradizionali cattedrali vescovili della Rus’. Tuttavia la presenza di una serie di caratteristiche (le navate laterali raddoppiate, e di conseguenza le cinque absidi ed altro) consente di accostarla tipologicamente alla cattedrale della Dormizione. L’influsso delle forme rinascimentali della cattedrale dell’Arcangelo si riscontrerà poi in cattedrali di epoca più tarda, a Dmitrov, Rostov e in altre città. Contemporaneamente ad Alvise, operava a Mosca un altro architetto italiano, Bon Frjazin (Marco Bono), che tra il 1505 e il 1508 costruì sulle pendici della collina del Cremlino, accanto alla cattedrale dell’Arcangelo, una chiesa a tor- vii/ re che fu chiamata «il campanile di Ivan il Grande» (dal 5
Come chiesa a tre navate la cattedrale della Dormizione rientrava nel genere cattedrale-vescovile, ma per le sue funzioni e per il suo aspetto apparteneva al genere di architettura religiosa statale-cattedrale (metropolitana). Il capolavoro di Fioravanti divenne il principale luogo di culto della Rus’ ortodossa moscovita, e per molti decenni servì da esempio ai maestri russi che lavoravano in diverse città e territori. Secondo il modello della cattedrale moscovita furono costruite chiese a Rostov,
243. Mosca, Cremlino, pianta della cattedrale della Dormizione.
di piccole dimensioni, era come l’anello di congiunzione tra le chiese principesche di corte, tipiche del periodo del frazionamento feudale, e le grandiose cattedrali dell’epoca dello stato russo unitario. Accanto alla chiesa di famiglia del gran principe, i mae stri di Pskov eressero tra il 1484 e il 1485 la chiesa della Deposizione del Manto della Vergine, la chiesa personale del metropolita. Il grandioso complesso di corte del Cremlino, che comprendeva molte costruzioni in muratura e in legno, venne completato con la costruzione della Granovitaja palata (Palazzo a faccette), opera degli architetti italiani Antonio So- 249lari e Marco Ruffo (1478-1491), così chiamato perché la sua 250 facciata principale era rivestita di pietre sfaccettate. Il Palazzo a faccette era collegato con gallerie e scalette al palazzo di abitazione; in sé fungeva da sala del trono per le cerimonie solenni, il ricevimento di ambasciatori stranieri ecc. All’interno della sala, quattro volte a crociera poggiano su un possente pilastro, collocato al centro dell’ambiente. In molte delle sue caratteristiche costruttive il palazzo ricorda il refettorio costruito da Vasilij Ermolin nel monastero della Trinità di san Sergio. Tuttavia molti tratti del Palazzo a faccette (la scultura figurata sulla facciata principale ed altri) tradivano i gusti rinascimentali degli architetti. In seguito alle particolari caratteristiche dello stato che si era venuto formandosi, l’amministrazione moscovita impiegò ampi mezzi nelle opere di fortificazione. Il vecchio Cremlino, costruito sotto Dmitrij Donskoj in «pietra bianca» (calcarea) nel xiv secolo, era ormai vetusto. A causa dei molteplici restauri, le sue mura mezze cadenti da lontano sembravano di legno. Ivan iii aveva bisogno di una nuova residenza, conforme alla potenza e alla magnificenza della sua autorità. Per ristrutturare il Cremlino invitò l’ingegnere milanese Pietro Antonio Solari, Marco Ruffo ed altri costruttori. Nel 1487 Marco Ruffo si accinse a costruire la torre Beklemiševskaja, Anton Frjazin costruì la torre di
nome della chiesa in legno dedicata a Giovanni Climaco che si trovava in quel luogo). Gli elementi a pianta ottagonale disposti in diversi registri, con vani ad arco per le campane, creano un profilo a torre notevolmente snello. La torre di Ivan il Grande divenne una dominante architettonica di tutto il complesso del Cremlino. L’aspetto del campanile di Ivan il Grande riproduceva le antiche tradizioni architettoniche romanico-gotiche, conservatesi in alcune località dell’Italia settentrionale fino al xv secolo. La scuola di Pskov rimaneva comunque una delle migliori scuole architettoniche della Russia. Quando Ivan iii dovette ricostruire la sua chiesa di famiglia, che faceva parte del complesso della corte del gran principe, affidò l’incarico ad architetti di Pskov. Essi costruirono la chie247- sa dell’Annunciazione come una parte delle costruzioni di 248 corte (1484-1489). A differenza delle cattedrali principali, questa chiesa aveva un aspetto famigliare per i moscoviti, e si collocava pienamente all’interno della tradizione architettonica russa. La cattedrale dell’Annunciazione si ergeva su un alto basamento in pietra; originariamente aveva tre cupole, ed era circondata da una galleria aperta. L’interno della cattedrale era a quattro pilastri, era collegato direttamente con le stanze di abitazione del palazzo ed aveva dei cori, dai quali la famiglia del gran principe assisteva alle funzioni liturgiche. La cattedrale dell’Annunciazione era la chiesa di corte, ed univa in sé tratti dello stile architettonico di Pskov e di quello moscovita. L’ornamento geometrico in mattone a guisa di cintura-cornice è realizzato alla maniera di Pskov, ma l’estremità superiore del tamburo sotto la cupola è coronata da kokošniki tipicamente moscoviti (arcature cieche simili agli omonimi copricapi femminili). Con l’andar del tempo l’aspetto della chiesa dell’Annunciazione subì grandi mutamenti. Alle tre cupole furono aggiunte due cupole sul lato ovest. La galleria aperta venne coperta e sopra di essa furono costruite quattro cappelle a forma di chiesette ad una cupola. La chiesa dell’Annunciazione,
245-246. Mosca, Cremlino, cattedrale dell’Arcangelo, 1505-1508; pianta.
244. Mosca, Cremlino, piazza delle cattedrali.
348
349
ingresso (Tajnickaja, del segreto) con un nascondiglio per assicurare l’acqua alla fortezza, e poi la torre Sviblovskaja (oggi Vodovzvodnaja, torre dell’acqua), completando la fortificazione del lato sud del Cremlino. Pietro Solari eresse le torri presso le porte Borovickaja e Konstantino-Eleninskaja, e poi assieme a Marco Ruffo iniziò la nuova torre di 251 ingresso, Frolovskaja (oggi Spasskaja). Solari portò le mura fino alla torre Borovickaja, ed anche dalla torre Nikol’skaja fino alla Neglinnaja, dove costruì la torre Sobakina (oggi Uglovaja Arsenal’naja, torre angolare dell’arsenale) con una sorgente. Le nuove fortificazioni del Cremlino erano in mattone. Le mura non hanno mutato di aspetto, mentre alle torri furono aggiunte delle coperture a “tenda” (šatër) nel xvi secolo. Dopo la morte di Solari i lavori di costruzione vennero proseguiti dall’ingegnere Aloisio da Milano. 252 Nel 1495 fu eretta la torre Troickaja (della Trinità). La costruzione del Cremlino fu terminata nel 1515 da Aloisio il Nuovo, che innalzò le mura lungo il fiume Neglinnaja; il Cremlino divenne così una delle migliori fortezze d’Europa, e la sua costruzione determinò il livello delle successive opere di fortificazione in tutta la Russia. Fra tutte le città russe, quelle che maggiormente si distinguevano per le loro opere di fortificazione erano 255 Novgorod e Pskov. A Novgorod il Cremlino fu costruito negli anni 1480-1490 sulle basi del vecchio detinec (fortezza). La minaccia di uno scontro con l’ordine dei cavalieri di Livonia spinse Ivan iii a costruire la fortezza di Novgorod contro la Narva dei Livoni (1492). Pskov era cinta da poderose fortificazioni e torri, che difendevano il mercato e tutto il territorio della città. Alla ristrutturazione della fortezza di Pskov collaborò anche Giovanni Frjazin, mentre Pietro Frjazin diresse la costruzione del Cremlino a Nižnij Novgorod. Ai confini meridionali vennero erette 257 fortezze in pietra a Tula (1514-1521) e Kolomna. Una tappa fondamentale nella storia dell’architettura russa fu l’epoca dello sviluppo dell’architettura a tenda (o a piramide), nella prima metà del xvi secolo. Nel nuovo stile architettonico si nota una sorta di reminiscenza
delle forme romanico-gotiche (A.I. Nekrasov). Un’altra teoria sostiene che l’architettura a tenda in legno era un’espressione popolare di una crescita dell’autocoscienza dei Russi; nel suo riflesso statale lo spirito eroico dell’epoca si esprimeva nella costruzione di grandi chiese a tenda (G.K. Vagner). La tesi secondo cui lo stile russo a tenda avrebbe origine dall’architettura popolare in legno necessita di prove più solide, poiché le chiese in legno di quel periodo non si sono conservate. Le antenate delle costruzioni a tenda furono le chiese principesche di corte «a torre» dei secoli xii-xiii, di cui i predecessori più prossimi sono i monumenti della prima architettura moscovita sul tipo della cattedrale del Salvatore nel monastero di Andronik, costruita nel 1427, e, dall’altra parte, le chiese a torre come il campanile di Ivan il Grande nel Cremlino vii/5 di Mosca, opera dell’architetto Bon Frjazin, le chiese cattoliche polacche con copertura a tenda, caratteristiche del tardo gotico, ed altre chiese analoghe nei paesi occidentali, in Armenia e in Georgia. Una chiesa a tenda particolarmente interessante è quella dell’Ascensione, costruita nella tenuta di campagna 258del gran principe a Kolomna tra il 1530 e il 1532. Que- 259 sta chiesa principesca di corte è al tempo stesso chiesa e monumento commemorativo. La chiesa dell’Ascensione fu costruita per celebrare la nascita dell’erede Ivan nella famiglia del gran principe. A differenza delle tradizionali chiese a croce e cupola, le chiese a tenda erano prive di pilastri interni e presentavano uno spazio interno unitario. Lo stile a tenda testimoniava «una evidente svolta del pensiero architettonico russo dagli italianismi delle cattedrali del Cremlino a un genere classico nazionale» (G.K. Vagner). Si può supporre che la condizione principale per la fioritura dell’architettura russa nel xvi secolo fu l’unificazione di diverse scuole locali e l’arricchimento della tradizione russa grazie agli influssi dell’architettura occidentale. La pittura moscovita visse il suo secolo d’oro nel 1400. Le tradizioni di Andrej Rublëv crearono delle solide basi
247-248. Mosca, Cremlino, cattedrale dell’Annunciazione, 1484-1489; pianta.
350
249. Mosca, Cremlino, Palazzo a faccette, 1487-1491. 250. Mosca, Cremlino, Palazzo a faccette, interno.
ra di Cristo al centro e i santi che si rivolgono a Lui in preghiera; nei registri superiori si trovano le icone delle feste e quelle dei profeti). Evidentemente Dionisij e i suoi compagni dipinsero un’iconostasi in legno, che non si è conservata fino ai giorni nostri. Alcuni studiosi mettono in relazione con la bottega di Dionisij i frammenti di pittura della balaustra dell’altare e di alcune cappelle della cattedrale della Dormizione, ma tuttavia non esistono prove sicure per attribuire questi frammenti a Dionisij. Nel periodo moscovita Dionisij ricevette un incarico dal piccolo monastero femminile dell’Ascensione nel Cremlino. L’antica icona bizantina della Madre di Dio Odigitria, appar- vi/ tenente al monastero, era bruciata durante un incendio, 38 e Dionisij la rinnovò nel 1482, con l’incarico di seguire l’originale greco. Si ritiene che Dionisij sia stato vicino alla corte durante tutta la sua vita, e che fosse il prediletto di Ivan iii, ma ciò non è del tutto attendibile. Nel 1479 il monarca entrò in aperto conflitto col capo della Chiesa. Vassian Rylo, discepolo di Pafnutij di Borovsk, divenuto arcivescovo di Rostov, si schierò decisamente dalla parte del sovrano. Vassian conosceva bene Dionisij, dal tempo del suo soggiorno al monastero Pafnutij-Borovskij, e grazie alla sua protezione Dionisij fu incaricato di dipingere icone per la cattedrale della Dormizione. Dionisij e la sua brigata (artel’) ricevettero da Vassian una ricompensa enorme per quei tempi: cento rubli. Ma nel marzo del 1481 Vassian Rylo morì, e Dionisij perdette il suo influente protettore e committente. L’opera di Dionisij ebbe un inizio felice. Le sue icone decorarono l’iconostasi della cattedrale più importante del principato di Mosca e si meritarono entusiastici apprezzamenti dai contemporanei. Ma questo fortunato esordio non ebbe seguito. Al monastero Borovskij, Dionisij strinse amicizia con Iosif Sanin. Sanin, successore di Pafnutij di Borovsk, avrebbe dovuto assumere la guida del monastero dopo la morte del fondatore, ma lasciò invece i possedimenti di Ivan iii e si trasferì nella capitale del principe indipenden-
per il futuro sviluppo della scuola di Mosca nella seconda metà del xv secolo. Il principale artista di quell’epoca fu Dionisij. Della sua vita si conosce ben poco; nacque verso la metà del xv secolo, presumibilmente attorno al 1440, e morì all’inizio del xvi secolo, probabilmente tra il 1503 e il 1508. Si possono stabilire con certezza solo le tappe fondamentali della sua esperienza artistica. La prima opera importante di Dionisij furono gli affreschi della cattedrale della Natività nel monastero Pafnutij-Borovskij, eseguiti tra il 1467 e il 1477. Dionisij svolse questo lavoro sotto la guida del maestro Mitrofan, monaco del monastero moscovita di san Simone, ma gli affreschi del monastero Pafnutij non si sono conservati. Non oltre il 1481, come narrano le cronache moscovite, Dionisij, assieme ad altri tre iconografi, Jarec, Konja e Timofej, dipinse una Deesis «con feste e profeti» per la cattedrale della Dormizione del Cremlino (la Deesis è una composizione con la figu351
te Boris. Ben presto, poi, il principe Boris e suo fratello Andrej sollevarono una rivolta armata contro Ivan iii. Mentre si trovava nel principato di Volokolamsk, Iosif scrisse un trattato sull’autorità del sovrano. Riconoscendo che l’autorità del monarca è istituita da Dio, Sanin affermava che in determinate circostanze i sudditi non dovevano obbedire allo zar, se questi era un vessatore e un tiranno. Quando il principe Andrej morì in prigione a Mosca, e dopo di lui morì anche il principe Boris, Sanin dichiarò che Ivan iii si poteva paragonare a Caino. Recandosi a Volokolamsk, Iosif portò con sé l’icona dell’Odigitria «nella maniera di Dionisij». Grazie alla protezione e alla generosità del principe Boris, Sanin fondò un monastero nel suo principato e vi costruì una cattedrale della Dormizione in muratura. Sanin invitò Dionisij a dipingere per la cattedrale. Negli anni 1484-1485 l’artista incominciò a dipingere le icone per il nuovo monastero. Il biografo di Dionisij non scrive più nulla riguardo alla vita dell’artista nei quindici anni che seguono, il periodo di maggior fioritura del suo talento. Si può affermare con certezza, scriveva V.N. Lazarev, che nel decennio del 1490 l’attività di Dionisij si concentrò soprattutto a Mosca. Ma noi non possiamo condividere questa ipotesi. Non è chiaro dove sia vissuto Dionisij e dove si trovasse la sua bottega, ma è assodato che in quegli anni l’iconografo lavorò molto su commissione del principe indipendente Boris di Volokolamsk e del ricco monastero di Iosif di Volokolamsk. A Mosca si costruivano importanti chiese e cattedrali, che andavano poi affrescate. Ma Dionisij fu invitato solo dall’igumeno \igas, che nel 1483 aveva fondato un minuscolo monastero nei sobborghi di Mosca, oltre la Jauza. Qui egli affrescò la chiesetta del monastero. Dionisij non apparteneva alla schiera degli iconografi
moscoviti al servizio del gran principe o del metropolita, presto distaccatisi dall’ambiente degli altri iconografi. Nella redazione ridotta dell’Ikonopisnyj podlinnik (manuale per gli iconografi) sono elencati i migliori artisti moscoviti al servizio del gran principe e del metropolita all’inizio del xvi secolo, ma tra essi non è citato Dionisij. L’attività del maestro è strettamente legata con Volokolamsk, dove egli eseguì le icone e gli affreschi nella cattedrale della Dormizione (dopo il 1485), nelle chiese dell’Odigitria (1490 circa) e della Teofania (1504 o 1506 circa). Alla scuola di Dionisij sono legati anche gli affreschi della cattedrale della Resurrezione, costruita a quel tempo dal principe Boris a Volokolamsk. Evidentemente la scuola artistica di Dionisij si formò definitivamente nel principato di Volokolamsk; ad essa appartenevano anche i figli del pittore, Feodosij e Vladimir, due giovani nipoti di Iosif Sanin, e lo starec Paisij. I risultati dell’attività di Dionisij e degli iconografi della sua scuola erano considerevoli. Secondo l’inventario della sacrestia del monastero di Iosif di Volokolamsk, verso la metà del xvi secolo il monastero possedeva 87 icone dipinte da Dionisij e 37 dai suoi figli Feodosij e Vladimir. Dionisij e i suoi allievi non hanno lasciato lettere né altri scritti, ma si è conservata la Lettera all’iconografo, indirizzata o a Dionisij stesso o a suo figlio Feodosij. Questa lettera è importante in quanto è opera di Iosif di Volokolamsk, e forse anche di Nil di Sora. I sostenitori della fede ortodossa erano allarmati perché i liberi pensatori e gli eretici, accanto ad altri riti, criticavano anche la venerazione delle icone. L’autore della Lettera all’iconografo interviene in favore della canonizzazione delle forme tradizionali moscovite di venerazione delle icone. Iosif e i suoi discepoli attribuivano grande importanza all’atmosfera
solenne della chiesa, erano affascinati dalle preziose rize delle icone, nel cui scintillio e splendore essi vedevano un riflesso della luce divina. Parlando del culto tributato all’icona, Iosif indicava la purificazione spirituale come risultato della preghiera davanti all’icona. L’opera di Dionisij era ispirata da questo stesso ideale. I suoi gusti e le sue idee erano molto vicine alle teorie dei giuseppini. Il dogma della Santa Trinità – Dio Padre, Figlio e Spirito Santo – occupava il posto centrale nel sistema del pensiero ortodosso. Gli uomini devoti del xvi secolo iniziavano a scrivere ogni lettera richiamandosi al simbolo di fede, la Trinità. Tuttavia nella coscienza popolare si verificò un certo spostamento, e il culto della divinità dovette lasciare spazio anche al culto della Madre di Dio, che intercede per il mondo intero, e questo cambiamento si rifletté anche nell’iconografia. L’immagine della Madre di Dio divenne centrale nell’opera di Dionisij, che eseguì le icone e gli affreschi per il monastero della Natività della Madre di Dio a Borovsk e per i monasteri della Dormizione della Madre di Dio a Mosca e Volokolamsk, e più tardi per il monastero della Natività della Madre di Dio a Ferapont. Secondo un inventario del 1545, nella collezione del monastero di Volokolamsk le icone di Dionisij raffiguranti l’Odigitria e la Purissima Vergine erano più di tutte le altre icone messe insieme. La maggior parte di queste icone è andata perduta, ma si è conservata un’opera di Dionisij di epoca più tarda, eseguita per il monastero di Ferapont sul Lago Bianco. Dionisij «diede la preferenza alla solenne immagine dell’Odigitria, che verso la seconda metà del xv secolo venne a sostituire il tipo più domestico della Tenerezza, affinandola e portandola alla perfezione. La sua raffigurazione era come una conferma del pensiero ricorrente nelle lettere di Iosif di Volokolamsk, della regina “splendente come il sole nella
251. Mosca, Cremlino, torre Frolovskaja (Spasskaja – del Salvatore), 1491.
252. Mosca, Cremlino, torre della Trinità, 1495-1499.
253. Ivangorod, fortezza, torre «delle porte», 1498.
352
terra russa”, e dell’idea largamente diffusa di un nuovo Regno della Madre di Dio, cioè lo stato russo» (G.V. Popov). La famiglia del principe indipendente Boris di Volokolamsk apprezzava l’arte di Dionisij non meno di Iosif Sanin, e la raccolta di icone del principe comprendeva probabilmente parecchie delle sue opere. Il principe Boris elargiva generosamente denari per la costruzione e la decorazione del monastero di Iosif di Volokolamsk. Tuttavia, dopo la sua morte, il principato indipendente passò nelle mani dell’avaro principe Fedor, che non esitò a riassestare le sue finanze disastrate, anche a scapito delle ricchezze del monastero. Iosif cercò di riscattarsi dal sovrano: «incominciò a consolare il principe con doni, inviandogli icone dipinte da Rublëv e Dionisij». Mosca riscoprì Dionisij per la seconda volta probabilmente già dopo la sua morte. Ciò fu dovuto a diverse circostanze. Avendo rotto col principe Fedor, nel 1508 Iosif dichiarò che avrebbe lasciato il principato assieme al suo monastero e si sarebbe affidato alla protezione di Vasilij iii. Con la morte del principe Fedor di Volokolamsk nel 1513 il principato, caduto nei diritti del fisco con tutto il tesoro ed anche le icone di Dionisij, passò nelle mani di Vasilij iii. Le autorità del monastero di Iosif di Volokolamsk erano in grado di determinare con esattezza la paternità delle icone dipinte sotto i loro occhi. Nella loro catalogazione, oltre a Dionisij, compaiono i nomi di una decina di altri iconografi che lavorarono contemporaneamente. Ma gli starcy del monastero, seguendo l’esempio di Dionisij, non apponevano la firma alle loro icone. In seguito una parte della collezione del monastero divenne proprietà dello stato e delle cattedrali di Mosca. Il cambiamento di proprietario fece sì che col tempo andasse perduta la loro attribuzione. Molte icone di Dionisij andarono distrutte o si rovinarono, e furono ridipinte da nuovi iconografi. L’identificazione delle icone di Dionisij è resa più difficile anche dal fatto che per tutta la vita il maestro lavorò assieme ad altri artisti, con una brigata di aiutanti e di apprendisti. Perciò è praticamente impossibile determinare quali opere siano di Dionisij e quali dei pittori della sua cerchia. Dionisij fu uno dei pittori più fecondi della Rus’, ma le sue opere sono una rarità come le icone di Rublëv. Non è escluso che proprio il conflitto col principato indipendente di Volokolamsk e la restrizione dei sussidi finanziari abbiano spinto Dionisij ad abbandonare il principato e cercare incarichi nei lontani monasteri del Nord. Attorno al 1500 l’artista dipinse una serie di icone per il monastero di Pavel di Obnora, e più tardi affrescò la cattedrale della Natività nel monastero di Ferapont sul Lago Bianco. Durante i suoi lavori nel Nord della Russia, Dionisij deve avere certamente incontrato l’esicasta russo Nil di Sora e i suoi seguaci, i cui skit erano disseminati attorno ai monasteri di Kirill di Beloozero (Lago Bianco) e di Ferapont. Un tratto caratteristico nella concezione di Nil era la tensione alla perfezione e alla bellezza interiore, al rapporto con Dio attraverso la preghiera e l’illuminazione interiore. Nil era contrario alle proprietà dei monasteri ed esigeva che i monaci vivessero del lavoro delle proprie mani. Si potrebbe supporre che l’opera di Dionisij sia stata influenzata dalle concezioni degli anacoreti del Nord; tuttavia gli studiosi hanno messo in dubbio tale ipotesi. Assai caratteristica è l’icona di Dionisij raffigurante la Discesa agli inferi. Il suo contenuto filosofico – l’apoteosi del trionfo della vita 353
Il monastero di Ferapont era situato sulle rive del Lago Bianco, non lontano da quello di Kirill di Beloozero. Al centro si ergeva la cattedrale della Natività della Madre di Dio, costruita su una altura pittoresca in mezzo a due laghetti. Dionisij fu invitato al monastero per affrescare questa cattedrale. Per i cristiani la chiesa rappresentava un modello ideale del mondo, e gli affreschi di Dionisij, fusi organicamente con l’architettura della cattedrale, incarnavano l’idea dell’armonia e dell’«ordine» universale. Dionisij e i suoi aiutanti iniziarono l’affrescatura della chiesa nell’agosto del 1500 (secondo altre ipotesi nel 1502) e terminarono il lavoro un anno dopo. Come si deduce dalle firme sugli affreschi, Dionisij lavorò assieme ai suoi «rampolli» (i suoi figli) Feodosij e Vladimir. Un’analisi delle peculiarità stilistiche degli affreschi conferma la tesi che la cattedrale fu affrescata da artisti diversi, dalle differenti tecniche e abilità. Le opere di Dionisij sono piene di armonia ed eleganza; questo maestro era saldamente legato alle tradizioni rubleviane del xv secolo. Troviamo poi un folto gruppo di affreschi tendenti allo stile del xvi secolo, caratterizzati da una maggiore ricercatezza e dall’abbondanza di decorazioni. Questi affreschi sono attribuiti a Feodosij, il più dotato tra gli allievi di Dionisij. Gli affreschi del terzo gruppo, che denotano minore maestria, sono attribuiti a Vladimir, il figlio minore di Dionisij. Gli affreschi nelle zone superiori della cattedrale, sotto la cupola, sono ritenuti i meno perfetti dal punto di vista artistico, e sono stati attribuiti a un quarto membro della brigata, di cui non si conosce il nome. Tuttavia dall’analisi della composizione chimica i colori sono risultati del tutto identici a quelli usati negli affreschi del primo gruppo. La pittura murale della cattedrale della Natività ha un’importanza eccezionale, in quanto essa è l’unica testimonianza, totalmente conservata, degli affreschi monu-
eterna sulla morte – è consono all’ideale morale di Nil di Sora e nella stessa misura a quello di Iosif Sanin. Nell’icona gli angeli calpestano le porte degli inferi e legano Satana. Dionisij esalta le virtù cristiane – carità, verità – e denuncia i vizi – inimicizia e odio. Tra i vizi da lui rappresentati manca l’allegoria dell’avidità e della bramosia di denaro. Ma proprio questi vizi erano maggiormente stigmatizzati da Nil. Le fastose celebrazioni liturgiche, i ricchi paramenti dei sacerdoti, i preziosi arredi liturgici erano inammissibili per gli eremiti. Nel 1500 Dionisij dipinse Deesis, feste e profeti per l’iconostasi del monastero di Pavel di Obnora. Del ciclo vii/ delle feste si è conservata l’icona della Crocifissione di Dio6; nisij, che ebbe come modello la Crocifissione di Rublëv del 219 monastero della Trinità di San Sergio. La figura di Cristo con le braccia allargate è come se si librasse nello spazio. Lo strumento della passione, la croce, gli serve solamente da cornice o da sfondo. L’elegante curvatura del corpo del crocifisso non rimanda alla sofferenza terrena, ma all’idea del supremo sacrificio del Dio-uomo. Sui volti di coloro che lo piangono non appaiono lacrime né sofferenza. La scena è pervasa da uno spirito di pacificazione e grandezza: si è compiuto ciò che era stato predestinato dalla divina provvidenza. Nella gamma cromatica dell’icona prevalgono i toni cremisi-lilla su fondo dorato. Per vii/ lo stesso monastero nella bottega di Dionisij fu dipinta 7 anche l’icona della Prova di Tommaso. L’ordine più consistente fu conferito a Dionisij dalle autorità del monastero di Ferapont, che assieme a quello di Kirill di Beloozero divenne all’inizio del xvi secolo uno dei principali centri religiosi della Rus’. Il monastero era celebre per la sua collezione di manoscritti. L’arcivescovo Gennadij di Novgorod cercava qui opere teologiche che mancavano nella più ricca biblioteca della Santa Sofia.
di nota anche due altre icone, realizzate per il monastero di Ferapont: Giovanni Crisostomo e San Giorgio. Analizzando gli affreschi di Dionisij dedicati alla Madre di Dio, I. Grabar’ osservò che l’architettura dell’affresco della Madre di Dio col Bambino è pervasa da una divina leggerezza e da una bellezza quasi raffaelliana. Riconoscendo la perfezione classica degli affreschi di vi/ Ferapont, gli studiosi hanno scorto nell’arte di Dionisij 40, una sfumatura di riservatezza che confina con la fred- vii/ dezza. Le figure degli affreschi sono leggiadre, ma i loro 89 movimenti sono come subordinati a un rigido rituale di corte. Prevale il motivo del culto dei santi o dello zar, da cui l’azione rallentata assume l’aspetto di solenne, posata cerimonia, a cui si adattano le vesti sontuose, di uno splendore regale; particolarmente eleganti sono le vesti dei martiri; nella raffigurazione della persona umana i momenti puramente decorativi assumono in Dionisij un significato assai più grande che in Rublëv (V.N. Lazarev). È stato rilevato l’influsso esercitato sull’opera di Dionisij dalla «saggezza letteraria» dell’epoca, che ha generato la ritualità e la solennità delle composizioni, l’aspirazione ad illustrare i libri liturgici. La struttura espressiva delle opere di Dionisij era consona alla liturgia, la tematica del canto liturgico si poneva al centro della creazione di Dionisij e degli artisti della sua cerchia (G.V. Popov).
mentali di quell’epoca. La composizione di Dionisij rivela indubbiamente l’influsso dei princìpi per l’affrescatura delle chiese elaborati dagli iconografi di Bisanzio e dei paesi slavi meridionali nei secoli xiv-xv. L’intensificazione dell’influsso balcanico sulla Rus’ era legata al fatto che, dopo la conquista turca, era aumentato l’afflusso di Serbi e di altri Slavi meridionali a Mosca. Dionisij introdusse nei suoi affreschi l’Acatisto alla Madre di Dio ed anche la raffigurazione dei Concili ecumenici della Chiesa che sancirono il culto alle icone della Madre di Dio. In confronto agli affreschi russi di epoca precedente, l’Acatisto e i Concili sono tematiche nuove, la cui nascita è dovuta all’influsso balcanico; di queste composizioni la scuola russa diede la sua interpretazione. Evitando i particolari di vita quotidiana, Dionisij accentuava l’attenzione sulla simbologia delle scene evangeliche. Gli affreschi sulla cupola e sulle volte della chiesa comprendono, secondo la tradizione, la figura del Pantocratore circondato dagli angeli, dagli evangelisti e dai profeti. La pittura murale è come un gioioso inno che glorifica la Madre di Dio. Nella Deesis sul portale principale occidentale, la Madre di Dio intercede per il genere umano presso il trono del Figlio. Ai due lati del portale sono raffigurati gli arcangeli, e al di sopra la Madre di Dio del Segno. Sotto la Deesis si trovano le scene della nascita e dell’infanzia della Vergine Maria. Sul lato orientale, nell’aggetto dell’altare, è raffigurata la Madre di Dio col Bambino sulle ginocchia. Nell’altare manca la tradizionale scena dell’Eucaristia, la comunione col corpo di Cristo. Al centro della chiesa sta l’affresco della Protezione della Madre di Dio. Sulle pareti gli affreschi si articolano in quattro registri; in quello principale è raffigurato l’inno Acatisto alla Madre di Dio. La scena dell’Annunciazione illustra il canto: «L’angelo che tiene il primato fu mandato dal Cielo a recare il saluto alla Madre di Dio: “Rallegrati!”». Molto poetica la composizione sulle parole del canto: «In te si rallegra, o piena di grazia, ogni creatura». L’idea della misericordia della regina celeste addolcisce il tema della fine del mondo nella composizione del Giudizio universale. Negli affreschi di Dionisij è assente il tema della Dormizione (la morte) della Madre di Dio. È stata da tempo rilevata la peculiarità stilistica fondamentale della pittura di Dionisij, che consiste nella cauta espressione del movimento, nell’estrema contenutezza dell’artista. «Il movimento di tutte le composizioni (di Dionisij) a più figure si risolve nella grazia delicata e lenta di un unico gesto». Le figure negli affreschi e nelle icone del monastero di Ferapont si distinguono per la loro eleganza, la snellezza, le proporzioni estremamente affusolate. È opera di Dionisij anche l’icona di Giovanni il Precursore (Battista), che fa parte dell’iconostasi del monastero di Ferapont. La composizione dell’icona riproduce esattamente quella eseguita da Andrej Rublëv nella cattedrale della Dormizione vii/ a Vladimir. Nell’opera di Dionisij il carattere ascetico della 8-9 figura di Giovanni Battista è mitigato al massimo. Degne
257. Kolomna, Cremlino, porte della Parasceve, 1525-1531.
254. Novgorod, incisione dal libro Descrizione di un viaggio a Mosca di A. Oleari. 255. Novgorod, Cremlino, veduta di insieme.
354
256. Kolomna, incisione dal libro Descrizione di un viaggio a Mosca di A. Oleari.
355
del santo si mantiene in toni solenni, enfatici. La figura di Aleksij è come disincarnata e appare quasi come un profilo. La raffigurazione di persone e oggetti nelle figure marginali è resa in uno spazio privo di misura. Alla cerchia di Dionisij è attribuita anche l’icona di Kirill di Beloozero con scene della vita. Kirill, discepolo di Sergio di Radonež, in età avanzata fondò sul Lago Bianco (Beloozero) un monastero che sarebbe poi divenuto famoso. Da questa icona emergono chiaramente i procedimenti pittorici di Dionisij. Sono indicativi i volti dei suoi santi. «C’è in essi una pesante ripetizione di tipi con nasi e occhi piccoli, e con la testa arrotondata» (V.N. Lazarev). Il volto di Kirill, con i suoi tratti minuti e l’espressione concentrata, somiglia come due gocce d’acqua al volto di un altro santo, Dmitrij di Priluck. L’arte di Dionisij segna la fine del periodo che aveva avuto inizio con l’opera di Andrej Rublëv. La principale conquista di questo periodo fu la concezione tipizzata-idealizzata dell’immagine dell’uomo perfetto, e nel campo dei mezzi figurativi, l’estremo alleggerimento delle figure, lo schiarimento e le delicate sfumature del colorito, l’equilibrio della composizione, lo spazio aereo, la tensione a una «bellezza ricercata» (G.K. Vagner). Nella letteratura critica si discute da tempo dell’influsso del Rinascimento italiano sulla pittura russa tra la fine del xv e l’inizio del xvi secolo; alcuni studiosi hanno ravvisato una somiglianza tra gli affreschi di Dionisij e le opere di Giotto. I. Grabar’ rifiutava questa analogia e spiegava tale somiglianza affermando che sia il Rinascimento italiano sia la pittura russa si rifacevano originariamente all’«accademia» artistica di Bisanzio, «il cui insegnamento è stato in parte assimilato e in parte superato dall’Europa nel primo Rinascimento». L’influsso del Rinascimento italiano si esercitò soprattutto nella sfera dell’architettura. Gli architetti che lavoravano a Mosca possedevano conoscenze ed esperienze poliedriche, pienamente rispondenti all’universalismo dell’epoca. Alcuni di essi, a quanto pare, parteciparono come disegnatori esperti all’affrescatura delle chiese del Cremlino. Ancora nel secolo scorso, nell’atrio della cattedrale dell’Annunciazione, sotto il tradizionale affresco In te si rallegra furono 218
Gli affreschi di Dionisij sono idealmente fusi con la parete, le composizioni spiccano per la loro mirabile perfezione. Ma focalizzando l’attenzione sulla superficie piana, il maestro evitava di indicare la reale collocazione della figura e degli edifici nello spazio: essi sembrano perciò librarsi nell’aria, privi di massa e di peso. I maestri dell’epoca di Rublëv non ricorrevano mai a una espressione figurativa così immaginaria (V.N. Lazarev). La tavolozza di colori di Dionisij supera di gran lunga per ricchezza quella dei suoi predecessori. Negli affreschi della cattedrale della Natività prevalgono le tonalità delicate, chiare: azzurro e verde chiaro, dorato e roseo. La chiesa della Natività della Madre di Dio forma come un tutt’uno con il rigido ambiente naturale che la circonda. Nell’affrescare questa chiesa gli artisti impiegarono i colori delle terre locali che con le loro tonalità smorzate si armonizzavano con la pallida bellezza del paesaggio nordico. Agli ultimi anni della vita di Dionisij risalgono le sue icone con scene di vite di santi, dipinte per il monastero della Dormizione del Cremlino, probabilmente su commissione della sede metropolitana. Il genere delle icone con scene della vita, che i Russi ereditarono da Bisanzio, fu portato alla perfezione da Dionisij e dalla sua scuola. Le due icone più famose di questo genere sono quella del vii/ Metropolita Petr con scene della vita e quella del Metro10- polita Aleksij con scene della vita. Entrambe queste icone 12 adornavano la cattedrale della Dormizione del Cremlino. Nell’icona del Metropolita Aleksij, questi è raffigurato con un klobuk candido; nella mano sinistra tiene un libro e un velo. Attorno alla parte centrale dell’icona (sredinka) sono disposte le scene marginali (klejma) che illustrano la vita, le imprese e i miracoli del santo: la sua nascita, gli anni di studio, i voti monastici, l’elezione a metropolita, la missione presso l’Orda, le conversazioni con Sergio di Radonež, la morte, il ritrovamento delle reliquie, la resurrezione di un bambino, la guarigione di una donna cieca e di un monaco zoppo presso la tomba del taumaturgo. Va rilevato il rigido rapporto proporzionale tra le dimensioni della parte centrale e quelle delle icone sulla cornice. Il fondo bianco o bianco-azzurro conferisce alle icone un carattere particolarmente festoso. La rappresentazione della vita
scoperti frammenti a carattere grafico, che servivano come schizzo per l’affresco, e che presentano strette analogie con le opere del trecento italiano (G.S. Sokolova). Tendenze rinascimentali si rilevano sia in questi frammenti grafici, sia nel fregio architettonico della cattedrale dell’Arcangelo, sia nella scultura figurata del Palazzo a faccette. Tra tutte le città italiane, Venezia era la più vicina a Bisanzio sotto il profilo artistico, e ciò rendeva l’arte veneziana comprensibile ai maestri russi, integralmente educati nella tradizione bizantina. L’influsso italiano si vedeva nel fatto che gli artisti moscoviti, senza rinunciare agli abituali metodi arcaici, cercavano di creare composizioni di un nuovo tipo panoramico-spettacolare. Nell’iconografia incominciarono ad apparire i segni di una nuova espressività artistica. Nelle icone della fine del xv secolo le proporzioni delle figure si allungano, il colorito si fa più armonico e lo stile assume tratti più elevati (G.K. Vagner). Dionisij aveva parecchi allievi, tra i quali quello di maggior talento era, a quanto pare, suo figlio Feodosij. Possiamo farci un’idea chiara della sua maniera pittorica dalle miniature dell’Evangeliario manoscritto del 1507, in vii/ cui sono raffigurati gli evangelisti Marco e Matteo. Nel 1 1508 Vasilij iii incaricò Feodosij di affrescare la chiesa di famiglia del sovrano, la cattedrale dell’Annunciazione. Un posto di rilievo negli affreschi di Feodosij è occupato dal ciclo delle parabole evangeliche, ed anche da tematiche dell’Apocalisse (nell’edificio distrutto della cattedrale dell’Annunciazione l’Apocalisse era stata dipinta da Teofane il Greco). Per la loro decoratività, l’eleganza del disegno e il colorito festoso gli affreschi dell’Annunciazione ricordano quelli della chiesa della Dormizione nel monastero di Ferapont. La scuola di Dionisij rappresenta un’intera epoca nella storia della pittura russa. Novgorod Velikij e Mosca erano anche i principali centri dell’arte orafa nel xv secolo. Dopo la sottomissione di Novgorod, una quantità di oggetti preziosi confiscati venne mandata a Mosca, e qui si trasferirono pure alcuni gioiellieri ed altri maestri di Novgorod. L’assoggettamen-
to delle terre e dei principati permise ai maestri moscoviti di arricchirsi delle tecniche in uso nelle varie scuole locali; ma l’alto livello raggiunto dall’oreficeria nella Rus’ era dovuto a una serie di circostanze, una delle quali era il costante afflusso di abili maestri provenienti dall’estero, prima di tutto dall’Italia. Tra gli orafi russi del xv secolo si distingueva Amvrosij, cesellatore del monastero della Trinità di San Sergio, un maestro della filigrana (finissimo disegno realizzato con fili d’oro e d’argento intrecciati). Man mano che si costruivano le nuove cattedrali del Cremlino, si rendeva necessario anche il vasellame liturgico per queste chiese. Nel 1486 Ivan iii ordinò due grandi arche (tabernacoli) per la cattedrale della Dormizione, il Grande e il Piccolo Sion, a forma di chiese cubiche a una cupola. Il Grande Sion è realizzato in stile romanico, ma coronato da una cupola russa. Il Piccolo Sion si distingue vii/ per una maggiore unità artistica. Le sue pareti laterali 23 sono decorate con figure di santi abilmente realizzate a bassorilievo. Il cubo è abbellito da tre ordini di kokošniki. Alla sommità la «chiesa» è coronata da un alto tamburo con una cupola a cipolla a scaglie. Il Piccolo Sion riproduceva la tipologia delle piccole chiese russe a croce e cupola della fine del xv secolo. Il prezioso vasellame eseguito per le grandi cattedrali del Cremlino veniva usato solo nelle celebrazioni liturgiche delle grandi feste. Alla fine del xv secolo i maestri italiani alla Corte della zecca di Mosca si accinsero a coniare monete d’oro russe. 260Sull’«oro moscovita», copiato dal ducato ungherese, era 261 inciso il nome di Ivan iii e del suo coreggente. All’iscrizione russa era unito lo stemma dell’Ungheria. Le monete furono emesse in quantità limitata e non furono usate come mezzo di pagamento. Necessitando di metalli preziosi, il governo moscovita inviò il dvorjanin Bolotin e due geologi «tedeschi» a cercare minerale d’argento nelle regioni del Nord. La spedizione fu coronata da successo, ed Ivan iii ordinò ai frjazin (italiani) di iniziare lo sfruttamento dei giacimenti scoperti. Con la costruzione del Cremlino si ampliò
260a-b. Moneta d’oro (ducato) di Ivan iii, San Pietroburgo, Museo Ermitage. 261a-b. Moneta d’oro (nauta) di Ivan iii, San Pietroburgo, Museo Ermitage.
258-259. Chiesa dell’Ascensione a Kolomna, 1531; pianta.
356
357
l’attività della Fonderia di cannoni. I vecchi cannoni in ferro furono sostituiti da quelli in bronzo, che andarono ad integrare l’artiglieria della fortezza moscovita. Nel 1488 il maestro forestiero Paolo Frjazin fuse il «grande cannone» del peso di 16 tonnellate, che per calibro e dimensioni stava al passo con gli armamenti più pesanti dell’Europa del tempo.
cominciò a indebolirsi l’influenza bizantina sulla Rus’ e la sua cultura. La conquista di Novgorod e Pskov, le crudeli persecuzioni contro i liberi pensatori novgorodiani, la condanna al rogo degli eretici moscoviti, il processo contro Massimo il Greco – tutto ciò esercitò un influsso esiziale sullo sviluppo della cultura religiosa russa. Il trionfo della Chiesa ufficiale e dei principi autocratici, l’affermazione dell’idea dell’eccezionalità di Mosca «terza Roma», ultimo impero universale autenticamente cristiano, favorirono l’isolamento della Russia proprio quando essa aveva più bisogno di sviluppare i propri rapporti culturali e sociali con i paesi occidentali.
*** A cavallo tra il xv e il xvi secolo si sono osservati in Russia i sintomi del Prerinascimento, che però non sono sfociati nel Rinascimento. Con la caduta di Bisanzio, in-
Capitolo ii L’epoca di Ivan il Terribile Ivan iii riuscì ad unificare le terre russe all’interno di un unico stato; ma l’ordinamento e l’aspetto di questo stato si formò definitivamente solo sotto il regno di suo nipote, Ivan iv Vasil’evi/, soprannominato il Terribile. Ivan nacque il 25 agosto 1530 nella famiglia del gran principe Vasilij iii. A tre anni rimase orfano di padre, e ad otto non ancora compiuti perse anche la madre, la lituana Elena Glinskaja. Come voleva il testamento di Vasilij iii, il governo dello 262 stato passò nelle mani dei bojari, che avrebbero dovuto conferire il potere al principino al raggiungimento della maggiore età; infatti quando Ivan compì sedici anni il metropolita Makarij e la duma dei bojari lo incoronarono zar. La formazione del regno di Mosca è una pietra miliare nella storia russa. Gli zar russi non pretendevano di essere i successori di diritto degli imperatori bizantini, non introducevano una monarchia imperiale, ma cercavano solamente di ottenere la parità con i monarchi dell’Europa occidentale (D. Obolenskij). Inizialmente l’incoronazione di Ivan iv ebbe un’importanza limitata: essa stava a simboleggiare il principio del governo indipendente di Ivan e la fine della tutela dei bojari. La situazione incominciò a cambiare quando il regno moscovita effettuò importanti conquiste in Oriente. Queste vittorie erano particolarmente importanti, poiché assoggettavano al dominio dello zar ortodosso le orde infedeli; cominciò così ad avverarsi la previsione degli storici sulla trasformazione della Russia in un nuovo «impero romano», baluardo della vera fede cristiana nell’universo intero. Da quel momento lo zar aveva basi legittime per chiedere la benedizione al capo della Chiesa ortodossa universale; in risposta al suo appello, nel 1561 il patriarca di Costantinopoli comunicò ad Ivan che il Concilio ecumenico aveva riconosciuto la legittimità del suo titolo regale. Questa sanzione del patriarca coincise storicamente col periodo dei maggiori successi militari di Mosca. L’uomo medioevale concepiva il sistema politico universale come un impero con una rigida gerarchia, i cui vari gradini erano occupati dai regni e dai principati che
costituivano questa gerarchia. L’appartenenza all’unico impero cristiano determinava il carattere carismatico del potere dei monarchi, spesso rafforzato dal richiamo a qualche parentela simbolica con la famiglia imperiale. Nella coscienza medioevale la parola, il segno, il simbolo, acquistavano in determinate circostanze uno status di realtà superiore (Ju. Lotman); e proprio tale realtà rappresentarono nella Rus’ moscovita le leggende fantastiche sugli antenati dello zar e sui doni di Monomach. Nel xvi secolo molte centinaia di principi russi facevano discendere le proprie origini da Rjurik, ma solo Ivan iv ampliò i confini del mito genealogico ed avanzò pretese di parentela con gli imperatori romani, attraverso Rjurik. L’idea che Prus, fratello di sangue dell’imperatore romano Augusto, fosse il capostipite della dinastia moscovita, divenne parte della dottrina politica dello zar. La continuità dell’impero moscovita dalla «Prima Roma» trovava conferma nei rimandi genealogici, mentre la successione dalla «Seconda Roma» – Bisanzio – era comprovata dai doni di Monomach. Ancora ai tempi di Vladimir Monomach, così affermava Ivan iv, i sovrani russi ricevevano la corona e le altre regalie direttamente dalle mani degli imperatori bizantini. Il titolo di zar non implicava pretese di egemonia universale: esso incarnava una dottrina politico-religiosa, secondo la quale lo stato ortodosso russo si poneva al di sopra di qualsiasi regno o principato cattolico o protestante, cioè non autenticamente cristiano. Il Terribile parlava sdegnosamente dei re polacchi «elettivi», della dinastia svedese o del regno inglese. Quali che fossero i titoli di Ivan iv, il suo effettivo potere si reggeva su un sistema di istituti e ordinamenti tradizionali, formatisi nel periodo del frazionamento e conservatisi immutati fino alla metà del xvi secolo, quando diventò palese l’inadeguatezza di questo sistema per l’amministrazione di un vasto impero. Negli anni dell’infanzia di Ivan iv la duma dei bojari disponeva pienamente del potere. La critica agli abusi dei bojari fu il punto di partenza dell’intero programma di trasformazione, di cui si avvalsero i dvorjanin pubblicisti 358
262-267. Dal Corpo illustrato, libro dei re: Vasilij iii redige il testamento spirituale, fol. 29v.; Contrasti tra i bojari, fol. 170v.; Esecuzione dei bojari, fol. 273v.; Delazione di un d’jak ad Ivan iv, fol. 680v.; Ribellione a Mosca, 1547, fol. 683; I bojari prestano giuramento allo zarevič Dmitrij, 1553, fol. 678; Mosca, Museo storico. 268. Dal tomo di Šumilov, Le nozze di Vasilij iii ed Elena Glinskaja, fol. 863; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica.
359
Tavole a colori VIII
a
b 1
c
d
2
3
1. Dal Corpo illustrato; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica: a. Una cometa nel cielo di Mosca, tomo di Šumilov, fol. 443v. b. Costruzione della cattedrale di San Basilio (della Protezione della Madre di Dio «sul Fossato»), 1555, tomo sinodale, fol. 167; Mosca, Museo storico. c. Battaglia sul fiume, tomo di Golicyn, fol. 950. d. L’invio degli ambasciatori russi a Roma, tomo di Šumilov, fol. 868.
6. Decollazione di Giovanni Battista, icona-tavoletta, fine xv-inizio xvi secolo; San Pietroburgo, Museo russo. 7. San Basilio, fine xvi-inizio xvii secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov. 8. Gerasim e il leone, prima metà xvi secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov. 9. La Sapienza si è costruita la casa, 1548 circa; Mosca, Galleria Tret’jakov.
2. Monastero della Trinità di San Sergio, cattedrale della Dormizione, 1559-1585. 3. Mosca, Cattedrale di San Basilio (della Protezione della Madre di Dio «sul Fossato»), 15551561.
10. Scene della passione di Cristo, icona-tavoletta a due facce, fine xv-inizio xvi secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov. 11. Verso.
4. Monastero della Trinità di San Sergio, veduta di insieme.
12. «Berretto di Monomach»; oro, argento, pietre preziose, perle, pelliccia, filigrana, granuli, fusione, cesellatura, intaglio, oriente, fine xiii-inizio xiv secolo, Mosca, xvi secolo; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria. 13. Evangeliario appartenuto ad Ivan iv; oro, pietre preziose, perle, carta, cesellatura, smalto, filigrana, granuli, niello, 1571; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria.
4
a 5 b
c
5a. La chiesa militante, metà xvi secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov. b. Particolare: L’Arcangelo Michele e Ivan il Terribile. c. Particolare: La città condannata.
14. Coppa a stelo, dono dell’ambasciatore inglese A. Jenkinson ad Ivan iv; argento, cesellatura, fusione, doratura, Inghilterra, 1557-1558; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria.
360
6
7
8
9
10
11
12
13
14
militare fu attuata nell’ambito di una riorganizzazione del sistema terriero, il pomest’e, basato su un contratto sociale, su impegni reciproci tra il monarca e i suoi dvorjanin. Ma l’organizzazione del pomest’e non si esauriva nel trasferimento a Novgorod dei militari dipendenti da Mosca; la spartizione delle circoscrizioni amministrative di Novgorod diede inizio alla tradizione secondo la quale tutti i membri del ceto dei funzionari militari moscoviti (e non solo quelli trasferiti nelle terre di Novgorod) ottenevano il diritto di ricevere in dotazione del terreno dall’erario dello stato. Il fondo delle terre confiscate a Novgorod era enorme, mentre il contingente dei figli dei bojari moscoviti era limitato. Di conseguenza l’amministrazione pubblica incominciò a distribuire proprietà terriere ai figli, e poi anche ai nipoti dei dvorjanin man mano che essi raggiungevano la maggiore età (quindici anni) ed entravano al servizio dello stato. Il nuovo ordinamento di distribuzione statale delle terre dei militari si basava sui reciproci impegni tra lo stato e i dvorjanin. L’amministrazione pubblica si impegnava a garantire ai dvorjanin le proprietà terriere, ed essi accettavano il principio del servizio obbligatorio legato alla terra. In definitiva, nel xvi secolo il vecchio ceto dei bojari si trasformò in quello dei dvorjanin a servizio dello stato. Per secoli aveva dominato in Russia la votčina (principio dell’ereditarietà della terra), che garantiva al vecchio ceto dei bojari una certa indipendenza nei confronti dello stato. L’espropriazione dei proprietari terrieri novgorodiani cambiò tutto. Per estensione territoriale Novgorod e Pskov non erano inferiori al vecchio principato di Mosca, perciò la trasformazione in proprietà statali (pomest’e) delle terre dei bojari confiscate in quelle regioni assicurò immediatamente alla proprietà statale il ruolo predominante nel sistema delle proprietà terriere. Nel xvi secolo il fondo delle terre di proprietà statale era in continua crescita. Le espropriazioni a Novgorod gettarono le basi del sistema burocratico-militare moscovita, caratterizzando il volto dell’impero russo per due secoli. I bojari moscoviti si dimostrarono sufficientemente forti per utilizzare il nuovo sistema nel proprio interesse. Le dotazioni terriere dei bojari meno bisognosi di approvvigionamenti supplementari superavano di gran lunga le dotazioni dei figli nullatenenti dei bojari, che avevano bisogno soprattutto della terra. Rilevando questo fatto bisogna fare un’importante eccezione. L’aristocrazia aveva diritto a maggiori dotazioni terriere. Ma per gli aristocratici, che avevano conservato i beni terrieri di famiglia, il pomest’e, le terre dello stato erano un mezzo di approvvigionamento supplementare. Per i figli dei bojari di provincia, proprietari di piccolissimi appezzamenti, il pomest’e si trasformò col tempo nella principale fonte di introiti. L’aristocrazia che possedeva grandi latifondi, e i piccoli proprietari figli dei bojari, che avevano solo terre statali, costituivano due categorie sociali nettamente distinte all’interno dello stato feudale. Il bojaro proprietario terriero sfruttava il lavoro dei contadini e dei servi della gleba (cholopy), mentre il piccolo proprietario non di rado si dedicava personalmente al lavoro dei campi. La riforma militare fu portata a termine a metà del xvi secolo. Tutti i dvorjanin avevano diritto ufficialmente ad un pomest’e e, di conseguenza, come pomeščiki erano tenuti a servire il monarca. Questa circostanza permise anche allo stato di estendere il principio del servizio militare
e la nascente burocrazia russa. Il pubblicista Ivan Peresvetov, originario della Lituania, propose di costruire un impero russo a modello del terribile impero ottomano, che era all’apice dei propri successi militari e seminava il terrore in tutta l’Europa meridionale ed orientale. Lo scrittore protestava coraggiosamente ed appassionatamente contro lo strapotere dell’aristocrazia in Russia, ed affermava che per cambiare la situazione bisognava coinvolgere negli affari di stato anche la nobiltà. Bisanzio era perita per la «pigrizia dei ricchi», dei patrizi. Il sovrano ottomano MaomettoSaltan era «forte e glorioso» per i suoi guerrieri (nobili). Peresvetov consigliava allo zar di governare «col terrore», usando la forza contro i «patrizi» ribelli. L’iniziatore delle riforme fu un dvorjanin non facoltoso, Aleksej Adašev, che aveva affascinato lo zar con le sue idee ardite. Egli si mise in luce dopo l’introduzione della riforma giudiziaria, essendo un funzionario (il tesoriere) del dicastero del tesoro. I dicasteri (prikazy) avevano sostituito le vecchie istituzioni dell’epoca del frazionamento. Essi permettevano di centralizzare il potere, come si rendeva necessario nel nascente impero. Da allora i dicasteri, dotati di ampie funzioni, divennero la cancelleria della duma dei bojari. Di fatto la piccola burocrazia – d’jak e «scrivani» – assunse una parte considerevole nell’amministrazione. Tra i burocrati c’erano molte persone di talento, come il diplomatico Ivan Viskovatyj, di origini popolari. Il Dicastero degli esteri da lui creato esprimeva la sua brillante personalità. Le riforme del potere centrale comportarono dei mutamenti nell’amministrazione locale. Le autorità abolirono il vecchio sistema del kormlenie (da kormit’ = nutrire: il bojaro a cui era affidato il governo di una città o una circoscrizione riscuoteva le tasse ad uso proprio, si «nutriva» a spese della popolazione, e ciò dava adito ad abusi di ogni genere). Le risorse che prima venivano incamerate dai governatori bojari ora andavano ad arricchire le casse dello zar. Un’influenza enorme sulla società ebbe anche la riforma militare, che affermò il principio del servizio obbligatorio legato alla terra. Ebbe larga diffusione la concezione in base alla quale lo stato nel xvi secolo stabilì la servitù della gleba per ceti sociali, obbligando i nobili al servizio militare, e legando i contadini alla terra. È opinione diffusa che l’introduzione del principio del servizio civile obbligatorio legato alla terra abbia avuto conseguenze a lungo termine. Secondo R. Pipes, l’affermazione di questo principio in Russia segnò di fatto l’abolizione della proprietà fondiaria privata, l’«espropriazione della società da parte della corona». A Mosca, scrive R. Hellie, c’era l’aristocrazia, ma essa fu messa fuori gioco dal principio del servizio militare obbligatorio; erano tenuti a prestare servizio militare tutti i proprietari terrieri, perciò le proprietà terriere non erano più un segno di indipendenza; la classe dei dvorjanin non aveva voce in capitolo come corporazione e così via. La dipendenza dalla corona e il servizio militare, come afferma R. Crummey, erano un fatto centrale nella vita dei bojari russi. In Occidente i rapporti tra il monarca e i suoi vassalli avevano carattere contrattuale, mentre in Russia dominava il principio del servizio militare obbligatorio, segno della sottomissione dei dvorjanin al monarca. Questa tesi va puntualizzata. La monarchia moscovita tra il secolo xv e la prima metà del xvi non disponeva delle forze e dei mezzi sufficienti per imporre con la forza al ceto dei dvorjanin il principio del servizio obbligatorio. La riforma 376
377
obbligatorio alle proprietà terriere ereditarie (votčiny). Ogni proprietario terriero era tenuto ad andare in guerra 269 «a cavallo, con i suoi servi e armato». Il numero di servi della gleba da inviare sotto le armi era determinato in base all’estensione della terra posseduta, calcolando sia i possedimenti ereditari, sia quelli dati in usufrutto dallo stato. Anticamente i bojari mandavano in campo la družina, il loro seguito, che formavano a propria discrezione. I grandi proprietari terrieri del xvi secolo erano tenuti a presentarsi a servizio col proprio seguito armato, il cui effettivo era stabilito dalla legge. Se il proprietario terriero non dava abbastanza servi della gleba gli veniva trattenuta una somma in denaro; se invece portava dei soldati in sovrappiù veniva pagato in aggiunta. Nel corso delle riforme della metà del xvi secolo le autorità eseguirono in tutta la Russia un censimento generale dei dvorjanin, fissando così il sistema delle assegnazioni terriere ai militari dipendenti dallo stato. Ai figli dei dvorjanin venivano assegnati possedimenti conformi a quelli dei loro padri. Il sistema del pomest’e funzionò abbastanza bene finché il governo ebbe a disposizione un fondo di terre statali in eccedenza. Ma non appena le proprietà fondiarie recentemente conquistate o confiscate incominciarono a scarseggiare, il governo si trovò nella difficoltà di adempiere i propri obblighi nei confronti dei dvorjanin, e si ruppe il «contratto sociale» che consentiva al monarca di imporre ai dvorjanin il principio del servizio militare obbligatorio. Ciò nonostante le autorità, senza adempiere ai propri obblighi, costringevano tutti i proprietari terrieri ad osservare rigorosamente i propri impegni. L’uso della violenza nella vita politica della società aumentò notevolmente. I dvorjanin che avevano ricevuto terre dallo stato ed erano tenuti a servire il trono non eliminarono dalla scena politica l’aristocrazia. Ma il principio del servizio obbligatorio in tutte le terre – dello stato ed ereditarie – mise allo stesso livello i dvorjanin e gli aristocratici caratterizzando il volto dell’impero russo.
Il nascente impero si annunciò portando avanti un 270, ampio programma di conquiste. Per bocca di Ivan Pere- 272 svetov i dvorjanin dichiararono che la Russia non doveva tollerare la vicinanza del piccolo «paradiso terrestre» di Kazan’ e che perciò bisognava conquistarla senza indugio, data la sua fertilità. Nel xvi secolo avvennero grandi cambiamenti nel mondo tataro. Il khan di Crimea, vassallo dei Turchi, sgominò e annientò la Grande orda. Vennero così a cadere le barriere che impedivano ai Russi di avanzare nelle regioni del basso Volga, dominate dai khanati relativamente deboli di Kazan’ e Astrachan’. Kazan’ resistette disperatamente all’esercito imperiale. Ivan iv fu costretto ad armare per quattro volte i suoi reggimenti contro le forze di questa città, e alla fine, nel 1552, dopo un sanguinoso assalto i vii/ Russi conquistarono la capitale del khanato di Kazan’. 13 In queste campagne il ventiduenne zar non diede prova di particolari abilità strategiche; in esse si distinse invece come esperto condottiero Aleksandr Gorbatyj, principe di Suzdal’, che si guadagnò la fama di vincitore dell’Orda. La caduta di Kazan’ aprì ai Russi la strada verso il basso Volga e il Caucaso settentrionale, e così i confini dell’impero si ampliarono notevolmente. Le guarnigioni dello zar fecero la loro comparsa ad Astrachan’, alla foce del Volga e alla foce del Terek, sul Caucaso. Subito dopo la Russia si accinse alla conquista delle regioni baltiche: le sue truppe occuparono il porto di Narva sul Baltico, di Derpt (Tartu) e una quantità di castelli nel territorio dei cavalieri dell’ordine di Livonia. Lo zar in persona capeggiò l’invasione dello stato polacco-lituano e strappò al suo re la città bielorussa di Polock con le terre circostanti. Avendo riportato brillanti vittorie nella guerra con l’Orda, le autorità furono in grado di portare avanti le riforme. Ivan iv era attratto dalle trasformazioni, ma ne interpretava a modo suo gli scopi e le finalità. Ben presto il monarca fece propria l’idea dell’origine divina del potere imperiale; nelle prediche dei sacerdoti e nei testi biblici egli cercava esempi grandiosi di personaggi dell’antichità, nei quali «come in uno specchio, cercava di scorgere se stesso, la propria figura imperiale, di cogliere in loro il riflesso del proprio splendore e della propria grandezza» (V.O. Klju/evskij). Tuttavia le concezioni ideali formatesi nella sua mente riguardo all’origine e al carattere illimitato del potere imperiale, male si accordavano con la realtà effettiva delle cose, dove il monarca doveva governare lo stato assieme alla duma dei bojari. Nei propri giudizi politici Ivan si atteneva a regole semplici: considerava validi solo quei principi che consolidavano il potere assoluto; ma i risultati finali della politica di riforme non corrispondevano a questi criteri. In conclusione, l’iniziatore principale delle riforme, Aleksej Adašev, amico personale di Ivan il Terribile, terminò la propria vita in carcere; Sil’vestr, predicatore di corte, maestro di vita del giovane Ivan iv, finì in un remoto monastero del Nord, e i «grandi» bojari, che avevano aiutato i riformatori, vennero estromessi dal potere. In prime nozze Ivan iv aveva sposato Anastasija Romanova, della famiglia dei bojari Zachar’in. Dopo la sua morte, sposò Marija \erkasska, figlia del principe di Kabardinka, nel Caucaso settentrionale. Come suo nonno, lo zar Ivan era risoluto ad assicurare il trono al discendente nato dal primo matrimonio. I figli erano minorenni e lo zar li affidò (per testamento) alla tutela dei Zachar’in, fratelli della zarina Anastasija Romanova. L’autorità dei Zachar’in
269. Cavalleria dei dvorjanin moscoviti, incisione dal libro Appunti sulla Moscovia di S. Herberstein, 1567.
378
si accrebbe notevolmente quando essi ottennero la destituzione di Sil’vestr e Adašev. Il passaggio del potere nelle mani della famiglia Zachar’in provocò il malcontento tra gli alti dignitari. Il disaccordo tra la duma e lo zar arrivò a un livello critico; il principe I.D. Bel’skij, capo della duma dei bojari, cercò di fuggire in Lituania, ma fu arrestato e gettato in prigione. Nel 1563 Ivan iv, sospettandolo di ordire un complotto, arrestò suo cugino, il principe Vladimir Andreevi/ Starickij. Andrej, padre di Vladimir, godeva dell’affetto e della fiducia di Vasilij iii, suo fratello di sangue, ed era stato perciò nominato tutore del minorenne Ivan iv. Vasilij iii salì al trono, esautorando il vecchio ramo legittimo della dinastia. Questo precedente non fu dimenticato. Efrosin’ja Starickaja, madre di Vladimir, covava progetti sovversivi: i suoi sostenitori volevano mettere sul trono il nipote più vecchio di Sof’ja Paleologa al posto del nipote giovane, e la crisi del potere, provocata dal contrasto tra il monarca e la duma dei bojari, diede speranze di successo ad Efrosin’ja, ma il suo intrigo fu scoperto in seguito a una delazione. Il crudele e diffidente Ivan era pronto a giustiziare i congiurati, ma il metropolita Makarij lo convinse a non farlo. Nel 1563 la principessa Efrosin’ja fu costretta a farsi monaca e inviata in un monastero del Nord; il monarca perdonò il fratello e gli restituì persino il principato. Grazie all’opera conciliatrice della Chiesa, lo zar acconsentì a non rendere pubblica l’accusa contro il fratello: le cronache ufficiali accennano solo vagamente al «grande tradimento» di Vladimir. Col tempo Ivan iv decise di correggere la cronaca e vi introdusse una testimonianza secondo cui gli Starickij erano traditori di vecchia data e avrebbero cercato di rovesciare la dinastia
270. La Moscovia, carta dal libro Cosmografia di S. Münster, 1544.
271. L’Europa settentrionale, carta di O. Mangus, 1539.
379
272. La Moscovia a metà del xvi secolo, carta di R. Skrynnikov.
dal fatto che egli non poteva giustiziare i traditori a causa dell’intromissione del capo della Chiesa. Ma non appena il metropolita Makarij morì, a Mosca si versò il sangue dei bojari. Alcuni di essi riuscirono a fuggire in Lituania – tra questi anche il principe Andrej Kurbskij, vecchio amico dello zar – e dalla Lituania nel 1564 i bojari inviarono una lettera accusatoria ad Ivan iv. Il loro carteggio costituisce una delle più vive testimonianze letterarie del xvi secolo; recentemente è stata avanzata l’ipotesi che questo carteggio sia falso, tuttavia un’accurata analisi delle fonti storiche delle lettere ha cancellato ogni dubbio sulla loro autenticità.
legittima già nel 1553, quando il sovrano era in punto di morte, e i bojari sollevarono una «rivolta» nella duma. L’autocrate ammalato avrebbe tenuto un discorso alla duma, per placare i rivoltosi. Rivolgendosi ai Zachar’in il monarca disse: «E voi, Zachar’in, di cosa avete paura? … voi sarete i primi a morire ad opera dei bojari! Non permettete a nessun costo che i bojari uccidano mio figlio (l’erede), fuggite con lui in terra straniera, dove Dio vi indicherà». I discorsi dello zar, scritti da lui stesso il giorno precedente, dimostrano che il complotto dei bojari aveva destato paura e smarrimento nell’animo di Ivan il Terribile. La difficoltà della sua posizione era aggravata 380
In una lettera alla duma dei bojari, Ivan iv dichiarò di privare dei suoi favori i governanti e la nobiltà. Lo zar inviò anche una lettera alla popolazione della capitale, in cui scriveva di non nutrire ira o risentimento contro il popolo. La popolazione di Mosca si mise in agitazione, e gli avversari del Terribile non osarono prendere in mano la situazione. Gli alti esponenti della gerarchia ecclesiastica e della duma dichiararono totale sottomissione al monarca, e quest’ultimo accettò di rioccupare il trono a condizione che gli fosse riconosciuto il potere assoluto. Nel febbraio 1565 lo zar promulgò l’ukaz (decreto) sull’«opričnina». In forza di questo decreto l’autocrate si assegnava come 274 possesso personale una serie di distretti, l’opričnina, in cui costituiva un corpo difensivo di opričniki e una forma particolare di governo. Da quel momento il monarca poteva condannare i bojari «disobbedienti» e appropriarsi delle loro terre senza consigliarsi con la duma. L’enigma dell’opričnina interroga gli storici da diversi secoli: alcuni hanno visto l’opričnina come una importante riforma dello stato, destinata a sbaragliare l’opposizione dei bojari e a sradicare gli ordinamenti dell’epoca del frazionamento feudale; altri come l’insulso capriccio di un tiranno mezzo matto. In realtà l’opričnina non era un fatto interamente politico, soggetto unicamente ai principi della politica. Tra le altre cose, Ivan iv punì i partecipanti alla recente congiura degli Starickij; tuttavia la sua vittima principale fu l’eroe della guerra di Kazan’, il bojaro A.B. Gorbatyj, che era del tutto estraneo alla congiura, ma fu condannato assieme al figlio quindicenne. Nelle prime settimane gli opričniki dello zar si scatenarono in una vera caccia contro l’aristocrazia caduta in disgrazia. Oltre cento principi di Jaroslavl’, Rostov e Starodub vennero catturati nelle città, nelle guarnigioni o nelle tenute di campagna e inviati sotto scorta al confino nella regione di Kazan’, e al loro seguito vennero esiliate anche le famiglie. Lo zar confiscava i possedimenti ereditari dei deportati e dava loro in cambio piccoli appezzamenti di terra dello stato nei dintorni di Kazan’: grazie all’opričnina si ampliarono così anche i fondi terrieri dello stato. Ivan iv discendeva dal principe Vsevolod di Vladimir, soprannominato «grande nido», ed anche i principi Gorbatyj di Suzdal’, quelli di Rostov, Jaroslavl’ e Starodub discendevano dallo stesso principe Vsevolod; le vittime dell’opričnina erano perciò parenti di sangue della dinastia regnante. Il paradosso storico consisteva nel fatto che la monarchia russa, sottomettendosi vasti territori e principati, divenne prigioniera dell’aristocrazia trasferitasi a Mosca. L’aristocrazia di Suzdal’ limitava il potere del monarca e il Terribile la colpì duramente, per affermare l’ordinamento autocratico. L’opričnina minacciava per la Russia cambiamenti sia politici che sociali. La monarchia si rendeva conto della propria potenza e cercava di estendere il suo controllo a tutta la sfera del sistema fondiario. L’ordinanza sulla deportazione a Kazan’ era la continuazione diretta dei precedenti provvedimenti sulle proprietà terriere. Nel 1562 lo zar impose alla duma il Codice sulle proprietà terriere ereditarie (votčiny) dei principi: a molte famiglie principesche fu vietato vendere e scambiare i propri appezzamenti terrieri ereditari. Le votčiny ereditate dalle mogli o portate in dote venivano confiscate dallo stato. Persino i fratelli e i nipoti del principe non potevano ereditare le sue proprietà terriere senza una particolare autorizzazione dello zar. Tre anni dopo il Terribile fece eseguire una
Lo zar e i bojari toccarono molti argomenti nella loro corrispondenza, ma quello principale riguardava le sorti dell’impero. Per analogia col Sacro romano impero degli Absburgo, Kurbskij definiva la Rus’ «Sacro impero russo». Sia Ivan il Terribile che Andrej Kurbskij difendevano sostanzialmente il medesimo ideale dell’impero moscovita come ultimo baluardo della fede ortodossa. I due vecchi amici disputavano furiosamente su chi fosse rimasto fedele a questo ideale e chi l’avesse tradito, alleandosi con l’anticristo. Le accuse di Kurbskij contenevano una tremenda minaccia per il trono: infatti il giuramento a uno zar che si fosse alleato con l’anticristo perdeva la sua legittima forza. Chiunque avesse sofferto nella lotta contro il trono diventava un martire, e il sangue da lui versato diveniva santo. Le profezie di Kurbskij avevano un carattere quasi apocalittico; l’esempio della caduta di Roma e di Costantinopoli era davanti agli occhi di tutti. Il Sacro impero russo, secondo il principe, si reggeva sui bojari. La strage dei devoti e coraggiosi bojari, «i forti in Israele», minacciava la rovina della stessa «nuova Israele». Rispondendo alle accuse di Kurbskij, Ivan iv affermava che lo stato rischiava la rovina a causa del tradimento e della «indisciplina» dei bojari. Rifacendosi alle Sacre Scritture e alla storia dei regni antichi, Ivan iv dimostrava che senza un forte potere autocratico l’impero russo sarebbe subito crollato in seguito ai disordini e alle lotte intestine. L’autorità dello zar eletto da Dio era illimitata ed egli era libero di «graziare o giustiziare» i suoi sudditi. Nelle opere di Ivan il Terribile il titolo di autocrate (samoderžec) si riempì di un nuovo contenuto: Ivan iv difendeva il principio della monarchia assoluta; la lettera dello zar a Kurbskij suonava come un autentico manifesto dell’autocrazia. Per dimostrare la verità della propria teoria, il Terribile si riferiva spesso alla lettera dell’apostolo Paolo ai Romani, citandone le parole: «poiché non c’è autorità se non da Dio» (Rm 13,1). Kurbskij invece cercava appoggio nelle lettere di Ioakim e Ioann. Il suo schema dei rapporti tra l’uomo, l’autorità e Dio lo lasciava sperare di vincere la lite con lo zar nel giudizio divino. Il Terribile seguiva un altro schema: lo zar è insediato da Dio e solo a Lui è soggetto, i sudditi non possono avere la meglio su di lui nemmeno nel giudizio divino. Kurbskij dichiarò pubblicamente che accanto allo zar era già apparso l’anticristo, insegnandogli a versare il sangue dei bojari. Questi era A.D. Basmanov, il cui figlio (a quanto diceva Kurbskij) era divenuto l’intimo favorito di Ivan iv. Ma l’esaltazione dei Basmanov, ispiratori delle incipienti repressioni, suscitò sdegno non solo in Kurbskij: a Mosca, durante un alterco, il nobile dvorjanin D. Ov/ina accusò il giovane Basmanov di perversione sessuale con il sovrano. Ivan iv, offeso, ordinò di uccidere Ov/ina. In una lettera a Kurbskij lo zar esprimeva la convinzione che oltre ai complici del bojaro fuggitivo (dopo il complotto), non c’erano nella Rus’ altre persone che non fossero sottomesse al loro sovrano; ma dovette ben presto convincersi del contrario. Dopo l’ingiusta punizione contro Ov/ina, il nuovo metropolita e i capi della duma protestarono apertamente e chiesero con insistenza allo zar di sospendere le condanne. Ivan iv fu colpito soprattutto dal fatto che contro di lui si fossero schierati anche i suoi fedeli bojari e il capo della Chiesa, Afanasij, che per molti anni era stato il confessore del monarca. Le condanne furono momentaneamente sospese, e dopo sei mesi l’autocrate lasciò Mosca e abdicò al trono. 381
bizzarria. I dvorjanin dell’opričnina indossarono gli abiti monastici, e l’ordine monastico incominciò a funzionare nella Aleksandrovskaja sloboda nei giorni liberi dagli impegni di esazione fiscale. Tornando dalle campagne punitive, la «confraternita» degli opričniki eseguiva una fedele parodia della vita monastica. Di primo mattino lo zar, con una lanterna in mano, saliva sul campanile dove lo attendeva il capo degli opričniki, il «sacrestano» Maljuta Skuratov. I due suonavano le campane a distesa, chiamando in chiesa gli altri «monaci». Ivan ed i suoi figli pregavano devotamente e cantavano nel coro della chiesa. Poi dalla chiesa si recavano tutti al refettorio; ognuno aveva con sé il cucchiaio e il piatto. Mentre i «confratelli» facevano colazione l’igumeno stava umilmente in piedi accanto a loro. Gli opričniki sparecchiavano dalla tavola il cibo avanzato e lo distribuivano ai poveri che stavano all’uscita del refettorio. Così Ivan fece il monaco per alcuni giorni, poi fece ritorno al Palazzo delle torture. Nel comportamento del comando dell’opričnina si notavano sintomi di incertezza e debolezza. Con i suoi discorsi imprudenti e ambigui al monastero di Kirill, lo zar diede adito ad ogni genere di voci, che rianimarono l’opposizione. Tutti ricordavano la prima abdicazione di Ivan il Terribile, e perciò l’argomento principale nei pettegolezzi della zemščina (quella parte dello stato moscovita governata alla vecchia maniera, da un Consiglio di bojari, ndt) era l’interrogativo su chi avrebbe occupato il trono se lo zar si fosse fatto monaco. Queste voci spaventarono seriamente lo zar Ivan. Nell’autunno del 1567 convocò al palazzo dell’opričnina l’ambasciatore inglese e attraverso di lui trasmise alla regina Elisabetta la richiesta di asilo in Inghilterra «per la sicurezza propria e della sua famiglia… finché i guai non fossero passati, e Dio non disponesse diversamente». La viltà di Ivan il Terribile diede coraggio agli insoddisfatti, che nel più profondo segreto intavolarono trattative con il principe indipendente Vladimir, ma questi ebbe paura e riferì al monarca quei discorsi avventati. Dopo questa delazione il Terribile aprì un’inchiesta sulla terza congiura degli Starickij. Gli opričniki identificarono nel bojaro Fedorov il capo della congiura, ma in sua difesa intervenne il metropolita Filipp Koly/ev, che nella cattedrale della Dormizione pronunciò un energico discorso contro le esecuzioni e gli abusi dell’opričnina e negò la benedizione allo zar. Grazie all’intervento della Chiesa, il processo contro Fedorov andò per le lunghe; infine, nell’autunno del 1568, il Terribile riunì la duma e i dvorjanin nel palazzo del Cremlino. Gli opričniki condussero Fedorov nella sala e il sovrano gli ordinò di indossare gli abiti regali. Inginocchiatosi, lo zar incoronato da Dio rivolse all’accu-
confisca forzata delle votčiny dei principi. La distribuzione delle terre dello stato ai dvorjanin moscoviti li equiparò alla classe dei funzionari militari. Ogni membro di questa classe era tenuto a servire il trono come pomeščik, ma il principio del servizio obbligatorio era esteso anche alle proprietà terriere ereditarie dei dvorjanin, cosa che celava una grave minaccia: il fisco incominciò a considerare le votčiny come «terra dei funzionari militari». Prima dell’opričnina nessuno avrebbe potuto privare l’aristocrazia delle sue terre senza una sentenza del tribunale e una delibera della duma dei bojari, ma l’ordinanza sulla deportazione a Kazan’ aveva creato un pericoloso precedente. Lo zar cercava chiaramente di appropriarsi del diritto di spadroneggiare sulle votčiny così arbitrariamente come già faceva con le terre dello stato. L’ingerenza violenta nella sfera della proprietà terriera privata si scontrò con un’energica opposizione delle classi dominanti, e questo scontro guastò tutto il meccanismo di governo dello stato. Il conflitto finì nel terrore e nel sangue. L’impaziente autocrate aveva sopravvalutato le proprie forze. L’indignazione della classe dei proprietari terrieri era tale che Ivan iv dovette riconoscere il fallimento della propria impresa già un anno dopo l’introduzione dell’opričnina. Emanò un decreto di «grazia» per tutti i deportati di Kazan’, li fece tornare dall’esilio e incominciò a restituire loro le terre a suo tempo confiscate. Il clero e i bojari cercarono di approfittare del momento per ottenere la totale abolizione dell’opričnina. Il metropolita Afanasij rinunciò alla propria dignità ecclesiastica per esercitare pressione sul monarca, e il suo successore, Filipp Koly/ev, prese una posizione ancora più decisa. Lo scudiero I.P. Fedorov, membro del direttivo della duma dei bojari, e il fior fiore dei dvorjanin moscoviti si presentarono a corte esigendo che si congedasse il corpo degli opričniki e che si mettesse fine alle repressioni, ma la protesta non raggiunse il suo scopo; Fedorov fu mandato al confino e tre bojari furono giustiziati, ma lo zar, nel timore di possibili rivolte, lasciò Mosca e incominciò a costruire una fortezza a Vologda, la capitale dell’opričnina. Preoccupato della propria incolumità personale, il Terribile incominciò ad accarezzare l’idea di vestire l’abito monastico. Recatosi in pellegrinaggio al monastero di Kirill di Beloozero, il sovrano donò una grossa somma di denaro perché gli riservassero una cella nel monastero qualora avesse preso i voti. La cella fu immediatamente preparata, ma allo zar ciò sembrava insufficiente: decise perciò di prepararsi alla vita monastica, senza rimandare la cosa all’indomani. Nacque così un enigma che i contemporanei non seppero spiegarsi e considerarono una
273. Campagna di Novoluckoe, disegno dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg.
382
sato un ironico discorso: «Tu volevi occupare il mio posto, ed ora ecco, gran principe, goditi il comando che volevi!». Poi, al segno convenuto, gli opričniki uccisero lo scudiero, trascinarono il suo corpo fuori dal palazzo e lo gettarono su un mucchio di letame. La farsa inscenata al Cremlino dimostrava che il governo non era in grado di provare le accuse contro Fedorov. Il bojaro giustiziato era uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Le sue terre furono devastate per ordine dello zar. Il metropolita, celebre per la sua vita ascetica, fu deposto dopo essere stato falsamente accusato di condurre una vita depravata. Filipp Koly/ev trascorse un anno rinchiuso in un monastero di Tver’, e fu poi strangolato dal capo degli opričniki, Maljuta Skuratov. La delazione non bastò a salvare il principe Vladimir. L’ufficio investigativo dell’opričnina fabbricò un «caso» su un nuovo complotto che avrebbe visto implicati l’arcivescovo Pimen di Novgorod e l’intera popolazione di
Novgorod e Pskov. Nel gennaio 1570 Ivan iv si recò personalmente a Novgorod a capo dell’intera opričnina. Sul ponte sul Volchov gli venne incontro il clero cittadino con le croci e le icone, ma la festa fu rattristata fin dal primo momento: il sovrano diede a Pimen del traditore e rifiutò di ricevere la sua benedizione. Tuttavia, essendo un uomo devoto, lo zar non volle mancare alla funzione in chiesa. I sacerdoti celebrarono la messa senza badare alla confusione generale, e dopo la funzione il vescovo invitò gli ospiti a mangiare nel suo palazzo; ma il triste banchetto durò poco. In preda alla collera, il Terribile ordinò alle guardie di catturare l’arcivescovo e saccheggiare la sua dimora; poi gli opričniki si precipitarono nella cattedrale della Sofia, si impadronirono delle icone e del prezioso vasellame liturgico e sfondarono le antiche Porte di Korsun’ (Cherson). Saccheggiando la residenza della Sofia, Ivan iv portava a compimento la secolare lotta con l’ortodossia
274. L’opri/nina di Ivan il Terribile, carta di R. Skrynnikov.
383
di Novgorod, iniziata dalla gerarchia moscovita dopo la conquista della città. La diocesi di Novgorod era la più antica della Rus’. Le leggende sulle origini Chersoniane, come dimostrò A. Poppe, dovevano rafforzare le pretese dei vescovi novgorodiani ad una posizione particolare nella gerarchia ecclesiastica russa. Il principe Vladimir di Kiev si era fatto battezzare a Cherson: là aveva avuto inizio la «santa Rus’». Le leggende di Novgorod narrano che il primo vescovo giunse a Novgorod da Cherson, e da là fu portata anche una delle più importanti reliquie della Sofia: le Porte di Korsun’ (in realtà le porte furono eseguite a Magdeburgo nel 1153). Spogliando la sede arcivescovile della Sofia delle Porte di Korsun’ e di alcune icone antiche, lo zar cercava di estirpare le prove dell’antichità e dell’originalità della chiesa locale. Gli opričniki saccheggiarono i monasteri più famosi ed importanti e, prima di lasciare Novgorod, Ivan iv ordinò di mettere a sacco anche le botteghe dei mercanti e l’intera città. Da Novgorod le truppe degli opričniki si diressero a Pskov; qui lo zar ordinò che fosse decapitato l’igumeno del monastero delle Grotte e fece confiscare tutte le proprietà ecclesiastiche. Fatto ritorno a Mosca, il Terribile addossò tutta la colpa dell’accaduto al re polacco, che aveva inviato a Novgorod una «dichiarazione di tradimento» in seguito a cui i novgorodiani avevano deciso di passare al servizio della Polonia. Esistono prove attendibili che i servizi segreti polacchi avrebbero effettivamente diffuso a Novgorod delle false missive; il sospettoso autocrate vide in esse la prova del tradimento dei suoi sudditi, restando vittima di una inaudita mistificazione. Si dice che nella devastazione di Novgorod siano perite circa quarantamila persone, ma questa non è una cifra attendibile: in base ai rapporti degli uffici dell’opričnina, a Novgorod furono uccise circa tremila persone. Tornati a Mosca, gli opričniki arrestarono i rappresentanti più in vista dell’alta burocrazia moscovita, e qualche tempo dopo anche A.D. Basmanov ed altri membri della vecchia guardia dell’opričnina: essi vennero tutti condannati come complici dell’arcivescovo Pimen di Novgorod. Lo zar progettava anche di saccheggiare Mosca, ma poi rinunciò alle proprie intenzioni. Le esecuzioni sommarie scatenarono il panico tra la gente; allora il Terribile ordinò di convocare la folla presso il luogo del patibolo e si rivol-
se al popolo chiedendo: «Agisco giustamente, se voglio punire i miei traditori?». In risposta si levarono alte grida: «Viva il benedettissimo zar! Tu agisci bene, punendo i traditori per i loro misfatti!». Negli anni dell’opričnina le campagne russe furono colpite da grandi calamità naturali. Gli opričniki calarono su Novgorod, Pskov e Tver’ mentre in quelle città regnava una terribile carestia e venivano segnalati casi di cannibalismo. Dopo la carestia, il paese fu devastato dalla peste. Il regime del terrore indebolì definitivamente lo stato e le sue forze armate. Nel 1571 il khan di Crimea bruciò Mosca fino alle fondamenta, e un anno dopo cercò di conquistare definitivamente la capitale russa, ma ne uscì sconfitto, anche se nella battaglia l’esercito russo riportò perdite non inferiori a quello tataro. Scomparve la vecchia classe dirigente che aveva fondato l’opričnina, e i saccheggi demoralizzarono completamente l’esercito degli opričniki, quindi nel 1572 il Terribile soppresse definitivamente l’opričnina. Il capo dei boia, Maljuta Skuratov, aiutò il monarca a liberarsi della vecchia guardia dell’opričnina. Nel 1575 Ivan iv collocò sul trono il khan tataro vassallo Simeon, ed egli si ritirò in un principato indipendente dove costituì una nuova guardia di opričniki. Ricominciarono le esecuzioni, ma non si ripeterono le stragi e le devastazioni di un tempo. La seconda opričnina aveva qualcosa di farsesco; sopravvisse solo un anno, ma il corpo di guardia costituito nel principato indipendente rimase effettivo fino alla morte di Ivan il Terribile. Sotto il regno di Ivan perirono circa quattromila persone: tali furono le proporzioni del terrore nel xvi secolo, quando la popolazione del paese non superava i sei-otto milioni. L’opričnina nacque come misura contro i principi, ma nel periodo del terrore di massa, negli anni 1567-1571, essa andò perdendo ogni significato politico: ne furono vittima i parenti stretti dello zar, l’alta burocrazia, centinaia di dvorjanin e pomeščiki di umili origini, commercianti e semplici cittadini. Non è possibile vedere in essa il «baluardo del frazionamento feudale»: il terrore, infatti, indebolì il sostegno della monarchia, e la giustizia sommaria contro il metropolita e molti esponenti della gerarchia ecclesiastica rafforzò la dipendenza della Chiesa dal potere civile.
Ediger fu espulso dalla sua capitale dal khan Ku/um di Buchara. Approfittando della catastrofica sconfitta della Russia al termine della guerra di Livonia, Ku/um cercò di cacciare i Russi dagli Urali; l’esercito di Ku/um giunse in aiuto delle tribù locali, insorte contro l’autorità degli Stroganov. Allora gli Stroganov inviarono dei corrieri fino al Volga e reclutarono l’ataman Ermak Timofeevi/ con un reparto di liberi Cosacchi. Incontrando la resistenza dei Cosacchi, i Tatari siberiani abbandonarono i domini degli Stroganov e si diressero al Nord, dove cinsero d’assedio la città di \erdyn’. In Siberia non restarono grosse forze militari, ed Ermak si affrettò ad approfittare dell’occasione. Lasciando gli Stroganov al loro destino, egli si diresse verso gli Urali, con l’intenzione di conquistare un ricco bottino. Secondo le cronache del xvii secolo, Ermak conquistò la Siberia nel 1581. Al tempo di N.M. Karamzin questa data era considerata un’assioma, ma un’analisi critica delle lettere inviate da Ivan il Terribile agli Stroganov negli anni 1581-1582 consente di spiegare l’errore di Karamzin. Ermak intraprese la sua campagna su leggere imbarcazioni fluviali; la campagna iniziò il 1° settembre 1582 e già il 26 ottobre i Cosacchi conquistarono Kašlyk. Ermak non fu inviato in Siberia né dallo zar, né dagli Stroganov. Visti gli insuccessi sui confini occidentali, Ivan iv cercò di evitare la guerra con Ku/um, ed inviò appresso ad Ermak l’ordine di interrompere la campagna sugli Urali, ma l’ordine arrivò in ritardo. Cinquecento Cosacchi sconfissero l’Orda
Le esecuzioni pubbliche dei bojari e dei funzionari statali destarono grande scalpore tra il popolo e fecero nascere il mito dello zar «buono», che puniva i «cattivi» governanti ed oppressori. Questo mito ebbe una funzione determinante durante le sommosse e le rivolte del xvii secolo. Agli occhi del popolo Ivan iv era un sovrano terribile ma giusto; al suo nome la gente collegava i tempi delle vittorie militari e della maggior potenza dell’impero. Lo zar Ivan fu uno dei primi governanti che cercarono in tutti i modi di sviluppare i rapporti commerciali con i paesi dell’Europa occidentale attraverso il Mar Bianco e il Baltico. Durante la guerra con la Livonia negli anni 1558-1583 la Russia intraprese una politica di conquista delle terre dell’ordine dei cavalieri livoni lungo il Baltico; tuttavia nel conflitto erano coinvolte anche Lituania e Polonia, Svezia e Danimarca. In tre campagne militari il re polacco Stefan Batory sconfisse l’esercito russo; rimasto senza alleati, lo zar non era in grado di scendere in guerra contemporaneamente contro la Rzeczpospolita (la Polonia), la Svezia e le Orde delle steppe. Dopo la conquista di Kazan’ da parte dei Russi, il khan siberiano Ediger si dichiarò vassallo dello zar. Grazie a questa circostanza, la ricca famiglia degli Stroganov, commercianti e produttori di sale, non incontrando opposizione da parte del khan siberiano, si stabilì nella regione degli Urali, costruendovi cittadelle fortificate. La Siberia ruppe i rapporti di vassallaggio con la Russia dopo che
276. Villaggio di Nikol’skoe, due disegni dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg.
275. Campagna di Zimogory, disegno dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg.
384
277. Villaggio di Krestcy.
385
siberiana, lasciando Ku/um senza le forze per difendere la capitale, così quando Ermak sferrò l’attacco, tutto l’esercito di Ku/um era impegnato nell’assedio di \erdyn’. Conquistata Kašlyk, i Cosacchi non poterono più lasciare la Siberia col bottino, poiché era arrivato l’inverno e i fiumi si erano ghiacciati. Passato l’inverno, i Cosacchi dichiararono la Siberia possedimento della corona imperiale e imposero tributi alle popolazioni locali. La conquista della Siberia aprì la strada alla penetrazione russa nel cuore del vasto continente asiatico. Testimonianze dettagliate sulla campagna siberiana di Ermak sono state raccolte dal cronista e storico siberiano Semën Remezov. La sua Storia 279- siberiana, composta a cavallo tra il xvii e il xviii secolo, è 281 corredata da numerose illustrazioni. L’influenza della personalità di Ivan il Terribile sugli avvenimenti del suo tempo fu varia nei diversi periodi. Essendo un tipo psicologicamente instabile e facilmente suggestionabile, lo zar era costantemente soggetto all’influenza dei suoi favoriti. Senza il loro consiglio non sapeva cavarsela nelle questioni politiche, né in quelle personali. Sil’vestr fu il primo maestro di vita per Ivan; Adašev lo entusiasmò col progetto di vaste riforme; Aleksej Basmanov, uno dei migliori condottieri del xvi secolo, gli inculcò l’idea dell’opri/nina, un governo fondato su una violenza incondizionata. Ma per quanto a lungo il Terribile subisse l’influenza dei suoi favoriti, alla fine li sterminava senza pietà. Gli antenati del Terribile appartenevano ad antiche famiglie aristocratiche; tra di essi vi erano il konung (principe) varjago Igor’, la dinastia imperiale bizantina dei
Paleologi, gli «zar» \ingizidy dell’Orda, principi lituani e sovrani serbi. Verso il xvi secolo si delinearono precisamente i sintomi della decadenza della dinastia moscovita. Il fratello di Ivan iv era sordomuto e idiota dalla nascita, suo figlio maggiore soffriva di una forte nevrastenia, il medio di demenza e il minore di epilessia. Nella letteratura scientifica è stata espressa da tempo l’ipotesi che Ivan iv soffrisse di turbe psichiche ereditarie. Nei giorni dell’abdicazione al trono lo zar ebbe un forte trauma nervoso che gli causò una grave malattia. Gli improvvisi accessi d’ira, l’eccessiva diffidenza, lo spirito di vendetta e la disumana crudeltà erano sintomo di qualche malattia nervosa. Secondo vari storici Ivan iv soffriva fin da giovane di paranoia, e fu appunto l’evoluzione di questa sua malattia la causa del terrore, ma questo ci sembra un giudizio discutibile. In primo luogo è abbastanza difficile giudicare la malattia dello zar, data la mancanza di una «cartella clinica». Le uniche testimonianze sulla salute psichica del Terribile ci vengono dai libelli scritti dai suoi avversari. In secondo luogo, il terrore aveva i propri meccanismi, e le sue fasi non corrispondevano alle fasi della malattia del monarca. Le sanguinose repressioni raggiunsero l’apogeo quattordici anni prima della morte di Ivan, mentre i sintomi della malattia si manifestarono solo negli ultimi anni di vita dello zar, quando le esecuzioni ebbero termine; quindi la crudeltà del Terribile non si può attribuire a cause esclusivamente patologiche. Tutta l’atmosfera tenebrosa, stantia, del medioevo era pervasa dal culto della violenza, del disprezzo per la dignità e la vita umana, e imbevuta delle più rozze superstizioni, e lo zar Ivan Vasil’evi/ non costituiva un’eccezione nella lunga serie di governanti-tiranni medioevali. I numerosi matrimoni di Ivan iv diedero origine a non pochi miti. I giudizi sulla personalità del fondatore dell’autocrazia russa sarebbero incompleti se non tenessero conto di questi fatti. Lo zar celebrò il suo primo matrimonio a sedici anni. Le autorità fecero l’inventario delle fanciulle di tutto il paese, ma esse non fecero in tempo a radunarsi a Mosca per presentarsi: Ivan venne fatto sposare con l’orfana di un bojaro della famiglia Romanov. Il primo matrimonio di Ivan il Terribile fu a suo modo felice, e in ogni caso fu il più lungo: durò tredici anni. La zarina diede alla luce sei figli, ma quattro di essi morirono ancora piccoli. Il secondo matrimonio di Ivan iv durò otto anni. Marija \erkasskaja partorì un figlio, ma anche questo morì in età infantile. Le due prime mogli del Terribile morirono prima dei trent’anni. Appena Ivan iv rimase vedovo, le autorità statali indissero un nuovo censimento delle fanciulle in età da marito. Senza badare alla volontà dei genitori, i messi dello zar condussero alla Sloboda duemila ragazze. Il paese era attanagliato dal terrore che sciolse ogni riserva morale nella vita del Terribile. L’imperatore donato da Dio violentava vergini, poi le dava in sposa ai suoi fedeli opričniki. In seguito al censimento delle fanciulle, lo zar si fidanzò con la sedicenne Marfa Sobakina, figlia di un proprietario terriero di Kolomna. Dopo il fidanzamento, Marfa si ammalò improvvisamente, ma lo zar «si affidò a Dio» e celebrò le nozze. Così la Sobakina morì, senza essere diventata di fatto la moglie del sovrano. Le damigelle di Marfa erano la moglie e la figlia di Maljuta Skuratov. A quanto pare il capo degli aguzzini aveva dato in sposa al Terribile una propria parente, e così si era imparentato con la famiglia dello zar. Skuratov inculcò ad Ivan iv l’idea
278. Ritratto di Ivan iv, dal libro La vita del gran principe Ivan Vasil’ev/i di P. Oderborn, 1585.
386
mentre i figli illegittimi li uccideva coscientemente, considerandoli frutto del peccato e dell’inferno. Le guerre di conquista del Terribile gettarono le basi dell’«impero moscovita», l’impero russo. L’opričnina determinò l’ordinamento interno della monarchia autocratica, e la Russia visse la prima epoca del terrore nella propria storia, che ebbe un riflesso enorme sulla sua cultura politica e la sua tradizione. Il Terribile credeva nella propria eccezionale missione sulla terra. Egli «divenne sacro a se stesso e nei suoi pensieri creò un’intera teologia dell’autolatria politica sotto forma di teoria scientifica del proprio potere imperiale» (V.O. Klju/evskij). La dottrina del Terribile non era esclusivamente frutto della sua fantasia e presunzione. Per la coscienza popolare del medioevo era caratteristica la fede nel carattere sacro del potere del monarca e nella santità della sua persona. Tutta l’arte di quell’epoca era legata alla liturgia e alla teologia. Quanto detto determinava il ruolo del monarca e della sua corte nella creazione artistica del suo tempo. Il grande sovrano stava al centro di tutte le cerimonie religiose e godeva della suprema autorità negli affari religiosi. L’erario disponeva dei mezzi senza i quali era impossibile attuare importanti progetti culturali ed artistici, e nel xvi secolo l’iniziativa di tali progetti proveniva quasi sempre dalla corte imperiale, che operava congiuntamente alle autorità ecclesiastiche.
che Marfa era stata avvelenata dai «traditori». In quarte nozze il monarca sposò Anna Koltovskaja, e in quinte Anna Vasil’/ikova. Entrambi i matrimoni furono di breve durata; le zarine furono costrette a farsi monache e terminarono la loro vita in monastero. Poi lo zar visse per qualche tempo con la vedova di un d’jak, Vasilisa Melent’eva, che amava sinceramente; ma anche Vasilisa morì presto. Il nuovo favorito A.F. Nagoj combinò il matrimonio del Terribile con sua nipote Marija. Nonostante la nascita del figlio Dmitrij, Ivan iv si preparava a rompere il matrimonio con la Nagoj per sposare una principessa inglese. La morte impedì il settimo matrimonio del pio monarca. Un tratto caratteristico del Terribile era la sua tendenza alla follia e alla penitenza. Nelle sue lettere ai direttori spirituali il sovrano si riconosceva colpevole di peccati di ogni genere: ubriachezza, lussuria, adulterio, assassinio, saccheggio ed ogni sorta di malvagità. Accadeva persino che nelle bicchierate con gli amici il Terribile si vantasse dei propri peccati. Se vogliamo dar fede al suo contemporaneo inglese Gorcey, che godeva della fiducia della famiglia reale, Ivan iv si vantava di aver stuprato un migliaio di fanciulle e di aver ucciso migliaia di suoi figli illegittimi. È noto che il monarca in un accesso d’ira picchiò il suo erede, lo zarevi/ Ivan e sua moglie incinta. La nuora diede alla luce un figlio morto e lo zarevi/ morì in seguito al terribile trauma. Ivan uccise il suo erede involontariamente,
279-281. Tre disegni dal libro Storia siberiana di Semën Remezov; San Pietroburgo, Biblioteca dell’Accademia delle scienze: La campagna di Ermak, fol. 10; Ermak fa giustiziare i nobili Tatari, fol. 19; La fede ortodossa si afferma in Siberia, fol. 38v.
387
Novgorod avanzò la proposta di unificazione delle tradizioni religiose e delle cose sacre, perciò anche le richieste dello zar e le risposte del clero sono piene di rimandi ai riti e all’antichità novgorodiana. Tuttavia la riconciliazione fra la tradizione novgorodiana e quella moscovita si rivelò una questione assai ardua. I moscoviti si segnavano con due dita e cantavano l’Alleluia due volte, a differenza dei novgorodiani, che si segnavano col simbolo delle tre dita e proclamavano il triplice Alleluia. Come arcivescovo di Novgorod, Makarij riconosceva totalmente le usanze rituali dei novgorodiani; ma quando si trasferì a Mosca come metropolita dovette rinunziare al canone novgorodiano. Per risolvere le questioni di carattere rituale, il clero moscovita non ritenne necessario rifarsi alle regole greche e alla pratica della Chiesa greca. I decreti del Concilio dei cento capitoli dimostravano come la Rus’ si stesse sempre più allontanando dall’eredità bizantina. Gli usi locali russi spodestavano energicamente la tradizione greca. Dai materiali dello Stoglav è impossibile farsi un’idea delle argomentazioni di coloro che difendevano l’ortodossia dei riti moscoviti; solo rari dettagli disseminati nelle fonti dell’epoca ci permettono di immaginare come si risolsero in realtà le dispute religiose all’interno della gerarchia moscovita. Nell’attuazione delle riforme lo zar era stato aiutato dal bojaro I.V. Šeremetev e dal d’jak I. Viskovatyj. Dopo aver rotto con questi consiglieri, il Terribile li accusò immediatamente di sacrilegio, di violazione del canone ortodosso: «… nel mondo (prima che si facesse monaco, nda) quel Šeremetev con Viskovatyj per primi smisero di camminare dietro la croce. E al veder questo tutti smisero di camminare. Ma fino ad allora tutta la cristianità ortodossa… camminava dietro la croce», scriveva Ivan iv in una delle sue lettere. Viskovatyj e Šeremetev erano delle colonne della devozione moscovita; essi rappresentavano la persona dell’autocrate, essendo «gente della sua cerchia», e fu proprio questo a determinare la soluzione del problema. La cerimonia della processione era oggetto di discordia già al tempo di Ivan iii. Ivan iv e i suoi bojari diedero una formulazione definitiva alla cerimonia della processione «dietro la croce»: la parola decisiva spettava ancora alle autorità civili. Del resto il Concilio dei cento capitoli aveva decretato senza discussioni di fare il segno della croce con due dita soprattutto in seguito a un analogo intervento delle autorità civili moscovite. La trasformazione della Russia in Sacro impero russo rafforzò la dipendenza della Chiesa dallo stato. Il comportamento dell’autocrate e dei suoi alti dignitari diventò il modello della devozione religiosa. Nessun delitto o peccato commesso da Ivan il Terribile poteva far vacillare la sua reputazione di sovrano grande e devoto. L’orientamento della società verso la tradizione russa antica assumeva forme svariate. A metà del xvi secolo, Sil’vestr, il favorito dello zar, compose il Domostroj (insegnamenti per il governo della casa). L’ideale del Domostroj è un padrone parsimonioso, che dirige con autorità gli affari famigliari in conformità alle norme della morale cristiana. Il Domostroj imponeva il rispetto del capofamiglia, dello zar terreno, e soprattutto del re celeste, poiché «questo (zar) è provvisorio, ma quello celeste è eterno». Il trattato di Sil’vestr divenne con l’andar del tempo il simbolo della patriarcalità della Rus’ moscovita. L’ascesa di Makarij al seggio metropolitano e le riforme diedero un nuovo impulso al pensiero religioso. Massimo
Nel periodo del frazionamento la vita religiosa nelle varie terre perse la propria uniformità. In ogni principato nacquero i propri santi e una letteratura agiografica, il proprio ciclo di letture liturgiche, ed anche dal punto di vista rituale si delinearono caratteristiche diverse. Alle autorità di Mosca premeva di riportare il paese ad un’unica fede. Pur sottomessa a Mosca, Novgorod rimase tuttavia il principale centro culturale della Russia, e proprio a Novgorod è legato uno dei progetti più importanti del xvi secolo, che mirava a superare la disgregazione nella vita religiosa del paese: mentre era arcivescovo, Makarij si dedicò alla redazione di una raccolta integrale di tutti i «santi libri che si trovano in terra russa». Prima le letture mensili, i Minei čet’i, comprendevano quasi esclusivamente Vite dei santi ed alcuni insegnamenti. Makarij unì gli sforzi di letterati, traduttori ed amanuensi per raccogliere da vari luoghi, tradurre e «correggere», rielaborare o riscrivere decine e centinaia di libri sacri, sermoni, Vite, epistole. Nella prefazione ai Minei Makarij comunicava al lettore di aver raccolto e riunito «i santi grandi libri» per dodici anni. Il primo esemplare fu preparato a Novgorod per la cattedrale della Sofia. Dopo l’elezione di Makarij alla cattedra metropolitana, i lavori per la compilazione dei Minei acquistarono un respiro più ampio. Il progetto interessò lo zar Ivan, che ordinò un volume dei Minei per la sua biblioteca personale; un altro volume fu preparato per la cattedrale della Dormizione al Cremlino, e l’intervento delle autorità civili accelerò i lavori. Basandosi sull’ordinanza dello zar, il capo della Chiesa effettuò una sorta di distribuzione tra gli scriptoria delle diverse città e dei monasteri. Alcuni amanuensi svolsero di buon grado il proprio incarico, altri lo fecero ma controvoglia. L’importanza di Novgorod come centro della cultura libraria è testimoniata anche dal fatto che la mole principale di lavoro sui cosiddetti tomi moscoviti dei Minei fu svolta negli scriptoria novgorodiani, mentre nella capitale i suddetti Minei ricevettero solamente la veste definitiva. I primi esponenti della gerarchia ecclesiastica moscovita inviati a Novgorod per occupare la sede vescovile miravano ad imporre ai novgorodiani il culto dei santi moscoviti, mentre il metropolita Makarij fu il primo a riconoscere la necessità di creare un unico pantheon dei santi per amore dell’unità della Chiesa. Negli anni 1547 e 1549 Makarij convocò due concili, che istituirono il culto di trentanove santi taumaturghi (quelli già venerati erano poco più di venti, senza contare i santi locali). Tra i taumaturghi appena canonizzati, il gruppo più numeroso era costituito dagli asceti novgorodiani (cinque vescovi di Novgorod, tre igumeni e jurodivyj – folli in Cristo – della diocesi di Novgorod-Pskov). Nella loro vita quasi tutti questi santi si erano battuti per l’indipendenza di Novgorod e contro il dominio di Mosca, perciò canonizzandoli la sede metropolitana di Mosca aveva compiuto un passo molto saggio. Nel 1551 si riunì a Mosca un concilio che raccolse il clero proveniente da ogni parte della Russia. Per la sua importanza nella storia dell’ortodossia moscovita questo concilio può lontanamente ricordare il concilio di Trento nella storia del mondo cattolico. Lo zar Ivan iv rivolse al concilio un centinaio di richieste, parlando duramente e senza mezzi termini dei disordini religiosi. Il clero rispose agli interrogativi dello zar in un documento articolato in cento capitoli, dal quale il concilio stesso prese il nome di Concilio dei cento capitoli (Stoglavyj sobor). 388
il Greco, rimesso in libertà dopo vent’anni di reclusione, riprese a scrivere. Battendosi per la rinascita religiosa della società, Massimo pronunciò un brillante sermone accusatorio contro le proprietà dei monasteri, lo strozzinaggio, le estorsioni. I discepoli di Nil di Sora, che dopo l’esecuzione di Vassian Patrikeev si erano rifugiati nei loro skit presso il Lago Bianco, rialzarono il capo. Il loro capo riconosciuto era lo starec Artemij dell’eremo di Porfir’ev. Per iniziativa dei fautori delle riforme, Artemij fu chiamato da Beloozero ad occupare il posto di igumeno del monastero della Trinità di san Sergio; ma il monastero era uno dei maggiori proprietari terrieri del paese, e lo starec dovette abbandonare ben presto la carica in seguito a divergenze di vedute con gli altri monaci. Artemij non riteneva che fosse peccato la lettura del Vangelo compiuta dai laici, non vedeva un’eresia in ogni libero pensiero, tendeva sempre a riconoscere la verità. I discorsi di Artemij ravvivarono l’antico conflitto tra i nestjažateli e i giuseppini. Artemij non riconosceva l’autorità del maestro dei giuseppini, Iosif Sanin, che aveva ottenuto la condanna al rogo degli «eretici» nel 1504. Nella cerchia dei suoi discepoli Artemij esprimeva dubbi sulla colpevolezza dei liberi pensatori giustiziati. Il conflitto tra nestjažateli e giuseppini ebbe un’importanza fondamentale per il futuro della cultura religiosa russa: la vittoria dei nestjažateli (con il sostegno delle autorità civili restava questa possibilità) avrebbe garantito uno sviluppo più libero del pensiero russo; tuttavia ebbero la meglio i giuseppini, guidati da sentimenti di fanatismo e dall’idea di un’ortodossia esclusiva. Gli ortodossi organizzarono un processo contro i liberi pensatori moscoviti, Matvej Baškin e i dvorjanin aristocratici Borisov. Baškin, propugnatore del Vangelo, difendeva l’idea dell’amore per il prossimo e dell’uguaglianza tra gli uomini. Come già Massimo il Greco, Ivan Peresvetov e Sil’vestr, Baškin dichiarava inammissibile la servitù della gleba; egli stesso liberò i propri servi ed invitava gli altri a fare lo stesso. Al processo, Baškin e i Borisov furono accusati di aver interpretato «oltraggiosamente» il Vangelo, di aver diffamato Cristo, affermando la sua disuguaglianza da Dio Padre, di aver definito le icone «idoli diabolici» e di considerare pura fantasia «tutte le sacre scritture». La delazione contro Baškin venne da Sil’vestr. Inizialmente lo zar pensava di affidare le indagini sulle eresie a Massimo il Greco ed Artemij, ma questi rifiutarono la funzione di giudici e l’indagine fu intrapresa dai giuseppini. Non sopportando le torture, Baškin si riconobbe colpevole; gli «eretici» russi riconobbero di aver appreso le false dottrine da due Lituani: il farmacista di corte Matias Liach e Andrej Choteev. I giuseppini non erano abbastanza informati sulle concezioni dei protestanti lituani, e si affrettarono a dichiarare che Baškin e i suoi maestri erano «latini» (cattolici); tuttavia Kurbskij riconobbe più avvedutamente nell’eresia un’espressione degli «scismi luterani». Nelle idee di Baškin e dei Borisov echeggiava la Riforma che infuriava in Europa. I nestjažateli non volevano partecipare alle azioni punitive contro i liberi pensatori, perciò, all’insaputa dello zar, Artemij lasciò la capitale per il suo eremo; per questa insubordinazione fu arrestato e condotto a Mosca sotto scorta. I giuseppini ottennero un nuovo procedimento giudiziario. Artemij non considerava eretiche le riflessioni di Baškin e le sue interpretazioni del Vangelo, e perciò fu ritenuto complice dell’eretico. Al processo i giuseppini accusarono Artemij di aver criticato il Prosvetitel’ (l’Il-
luminatore) di Iosif Sanin, di simpatizzare con i «latini», di essere indifferente ai riti e di dubitare dei miracoli. Ad accusare Artemij si presentarono Simeon, igumeno del monastero di Kirill di Beloozero, l’ex igumeno del monastero di Ferapont, Nektarij, ed altri. I nestjažateli persero l’appoggio del centro settentrionale della spiritualità russa, il monastero di Kirill di Beloozero, e ciò segnò definitivamente la loro sorte. Artemij fu allontanato dalla Chiesa e confinato alle isole Solovki. Le autorità arrestarono anche i suoi «complici», Feodosij Kosoj ed altri eremiti. Lo starec Feodosij, servo della gleba fuggito, sottoponeva a dura critica l’istituto della servitù della gleba e criticava dal punto di vista razionalista le sacre scritture: rifiutava il dogma della Trinità, vedeva Cristo non come Dio, ma solo come uomo, negava l’immortalità dell’anima, non credeva nei miracoli. Sotto Ivan iii lo smascheramento dei liberi pensatori era stato coronato dalla loro condanna al rogo; ma questa volta l’atmosfera di riforme impedì ai fanatici di ottenere l’immediata esecuzione di Baškin, perciò l’affare si concluse con la sua carcerazione. Borisov, protettore e compagno di idee di Baškin, fu confinato sull’isola di Valaam, ma da qui riuscì a fuggire in Svezia. Lo starec Artemij, dopo aver trascorso qualche tempo rinchiuso nel monastero delle Solovki sul Mar Bianco, riuscì a fuggire e riparò in Lituania, da dove continuò a intervenire pubblicamente come difensore dell’ortodossia. Là si recò anche Feodosij Kosoj, che era espatriato per sfuggire al processo. Alcuni degli starec esuli in Lituania aderirono alla Riforma; uno di loro si conquistò l’appellativo di «secondo Lutero». A Mosca avrebbero dovuto bruciarlo sul rogo, ma a quanto affermava l’eretico, lo zar Ivan aveva commutato la sua condanna capitale. Le persecuzioni contro i seguaci dell’esicasta Nil di Sora e la definitiva scomparsa dei nestjažateli come corrente di pensiero religioso allontanarono ancora di più la cultura russa dall’eredità bizantina. Il processo Baškin eresse delle barriere sulla strada degli influssi culturali occidentali che venivano a soppiantare la tradizione bizantina. È indicativa la storia dell’introduzione della stampa nella Rus’. Ivan iv incominciò a darsi da fare per aprire una tipografia a Mosca dopo la propria incoronazione e le prime riforme ecclesiastiche. Nel 1548, per suo ordine, il sassone G. Schlitte si impegnò ad assumere al servizio dello zar e far venire a Mosca dalla Germania un tipografo, un incisore, un rilegatore e un mastro cartaio. Due anni dopo, Ivan iv chiese al re danese Cristiano iii di inviargli un artigiano per organizzare una tipografia. Nel maggio del 1552 il re annunciò ad Ivan che avrebbe inviato in Russia G. Missenheim con dei libri da tradurre e da pubblicare a Mosca. L’artigiano giunse a Mosca non più tardi dell’estate-autunno dello stesso anno, come confermano le parole dei primi tipografi russi, secondo cui a Mosca avevano incominciato «ad apprendere l’arte tipografica» nell’anno 7061 dalla creazione del mondo: tale anno iniziava appunto nell’autunno del 1552. Il re scriveva che Missenheim poteva stampare alcune migliaia di copie di libri, perciò l’artigiano aveva con sé tutte le attrezzature necessarie. Tuttavia il tentativo di fondare una tipografia a Mosca fu in prima battuta un fallimento. Il danese si presentò a Mosca «con la Bibbia e due altri libri, nei quali (come annunciava Cristiano iii) era contenuta l’essenza della nostra fede». Dopo un primo esame dei libri danesi, il clero moscovita si convinse che la fede cristiana del re era assai lontana dalla fede ortodossa. Cristiano iii profes389
sava il luteranesimo e sperava di allettare lo zar con l’idea della lotta contro il cattolicesimo, ma i suoi calcoli non si avverarono: le autorità moscovite si opposero categoricamente alla traduzione e alla pubblicazione dei libri protestanti. L’introduzione della stampa nella Rus’ fu ulteriormente ritardata dal processo Baškin del 1553, che aveva mostrato come l’eresia protestante fosse già penetrata nella Rus’ e buttasse abbondanti germogli. Il tipografo danese non fu cacciato da Mosca, ma non fu nemmeno assunto a servizio dello zar, nonostante la raccomandazione del re. A Missenheim fu concesso, evidentemente, di lavorare in proprio; di regola gli artigiani stranieri erano obbligati ad educare apprendisti russi. Passarono tre o quattro anni, e a Mosca apparvero i primi «maestri dei libri a stampa» russi. Le prime edizioni moscovite erano evidentemente ad experimentum; sui libri non era indicato dove, da chi e con la benedizione di chi erano stati pubblicati. Senza una partecipazione diretta di artigiani stranieri i primi libri di Mosca non sarebbero mai usciti, ma il clero non voleva che nei libri ortodossi fosse menzionato il nome di un tipografo di altra fede. Grazie alle edizioni ad experimentum i tipografi moscoviti raggiunsero una preparazione a livello europeo. Una tipografia in Russia non poteva essere fondata senza ingenti sussidi governativi, ma il governatore Aleksej Adašev conduceva le sue riforme sotto il vessillo della fede ortodossa; era dedito a digiuni e preghiere e restava indifferente alle conquiste della civiltà europea; solo dopo le sue dimissioni l’erario dello stato assegnò finalmente i sussidi per la tipografia. Il primo tipografo, Ivan Fedorov, scriveva con grande esattezza che la sua tipografia era stata fondata grazie alla protezione e alla generosità dello zar, mentre contro i tipografi insorsero «molti capi e dignitari ecclesiastici», che sospettavano di «molte eresie» i loro libri. Il clero era decisamente contrario alla possibilità di ricevere dalle mani di eretici un’invenzione della civiltà europea; ma i difensori della stampa trovarono il modo di superare l’ostacolo, ricorrendo alla mediazione dei fratelli di fede greci a Costantinopoli. Il commerciante italiano Barberini aveva visto con i propri occhi il lavoro di Fedorov alla Corte della stampa nel 1564 ed aveva ricevuto da lui un ordine di carta e inchiostro. Barberini annotò che i russi avevano importato da Costantinopoli le macchine per la stampa, e la testimonianza dello stesso Ivan Fedorov conferma le parole di Barberini. Per l’apertura della tipografia a Mosca, affermava il primo tipografo, lo zar ordinò di provvedere affinché «fossero prodotti i libri a stampa come in Grecia e a Venezia e in Frigia e in altre terre». I tipografi moscoviti dovevano seguire l’esempio dei maestri ortodossi greci e italiani, e prima di tutto dei maestri di Venezia. Le parole di Fedorov hanno una loro spiegazione. È stato osservato da tempo che i tipografi russi usavano termini come stampa, tipografia, ecc. (in italiano nel testo, ndt), di origine italiana. Evidentemente, Mosca aveva acquistato dai Greci attrezzature di fabbricazione italiana, ma poiché intermediari furono i Greci, l’istituzione della tipografia acquistò un carattere rigidamente ortodosso. Ivan iv destinò un terreno al centro della capitale su cui costruire la Corte della stampa, e assegnò un generoso stipendio ai tipografi. Il primo tipografo moscovita di cui si conosce il nome fu Nefed’ev, ma questi non poté esprimere appieno le proprie conoscenze e capacità. Come direttore della Corte della stampa fu invitato il dia-
cono del Cremlino Ivan Fedorov, che ebbe come aiutante Petr Mstislavec. Fedorov, evidentemente, aveva fatto un buon apprendistato presso gli artigiani stranieri invitati a Mosca, perché quando assunse l’incarico era già un abile maestro. Nel 1563 i primi tipografi si accinsero alla stampa dell’Apostolo (libro liturgico), e lo terminarono il 282 primo marzo. Per qualità tipografica l’Apostolo superava di molto i libri pubblicati precedentemente a Mosca. Fedorov era uno tra gli uomini più colti nella Russia del suo tempo, e proprio questo fece del suo libro un capolavoro. Egli si era proposto di pubblicare il testo corretto del libro sacro, e per far questo bisognava utilizzare diversi manoscritti, eliminare gli errori, perfezionare la traduzione. La correzione di un testo canonico anticorusso secondo gli originali greci aveva provocato liti furiose a Mosca fin dai tempi del processo contro Massimo il Greco. Ivan Fedorov continuò la tradizione di Massimo, e ciò destò i sospetti degli ortodossi. A sentire i tipografi, dopo la morte di Makarij, negli ambienti dei bojari e della gerarchia gli ortodossi cominciarono a perseguitarli. Nel frattempo Ivan iv fondò l’opričnina e impose contributi alla zemščina. L’erario scarseggiava di terre e la Corte della stampa fu privata per lungo tempo dei sussidi. Ivan Fedo-
282. L’evangelista Luca, frontespizio dell’Apostolo (Atti degli apostoli), 1564, stampatori Ivan Fedorov e Petr Mstislavec.
390
rov emigrò all’estero, dove continuò a stampare libri: il «primo tipografo» sentì questa partenza come un esilio, di cui attribuiva interamente la colpa ai bojari e alle autorità ufficiali della Chiesa. Quanto allo zar Ivan iv, egli manifestava un instancabile interesse per le novità occidentali nei diversi campi, dalla cultura alla tecnica militare. Dopo l’emigrazione di Fedorov in Lituania la tipografia mosco283 vita proseguì la propria attività; nel 1568 gli artigiani Neveža Timofeev e Nikifor Tarasiev pubblicarono il Salterio. Timofeev utilizzò gli stessi caratteri di Fedorov, ma rifiutò i principi di correzione dei testi seguiti dal suo predecessore. Dopo l’opričnina, Ivan iv ordinò di trasferire la tipografia da Mosca alla sua ex residenza dell’opričnina, l’Aleksandrovskaja sloboda. Nel 1577 Neveža (Andronik) Timofeev riuscì a ristampare il Salterio nella Sloboda, in una nuova variante, che recava evidenti i segni di un ritorno allo stile di Ivan Fedorov (A.I. Rogov). L’introduzione della stampa rappresentò una pietra miliare nello sviluppo della cultura russa del xvi secolo. Con la formazione dell’impero, il Sacro impero russo, le opere cronachistiche a Mosca acquistarono dimensioni grandiose e mutò al contempo il carattere stesso dell’antica annalistica. Della redazione delle cronache fu incaricato il Dicastero degli esteri. Assieme alla burocrazia al servizio del monarca, alla redazione delle cronache parte-
cipava anche la cancelleria del metropolita, mentre i centri di redazione delle cronache locali videro una definitiva decadenza. L’opera cronachistica più di rilievo al tempo di Ivan iv e del metropolita Makarij fu la Cronaca di Nikon (così chiamata dal nome del metropolita Nikon, cui si deve uno dei manoscritti della raccolta). La cronaca contiene oltre diecimila fogli e sedicimila miniature (manoscritto miniato, da cui il nome Licevoj svod, Corpo illustrato). I viii/ primi tomi sono dedicati alla storia biblica, segue poi un 1 Cronografo (storia universale), e poi la cronaca dedicata propriamente alla storia russa. Gli autori della raccolta effettuarono un’ampia compilazione, includendo nel testo una grande quantità di racconti e narrazioni diverse, e nel tentativo di subordinare il testo a un unico fine, i redattori corressero arbitrariamente gli antichi testi annalistici. La raccolta dell’epoca del Terribile si distingue tra le altre cronache per la sua estrema tendenziosità; i redattori della raccolta utilizzarono fonti bizantine per collegare la storia di Bisanzio a quella della Rus’; essi si sforzavano di presentare la nascita dell’impero russo come lo sviluppo logico di un processo storico universale. Lo zar Ivan iv era ai loro occhi il discendente diretto e l’erede degli imperatori romani e bizantini. Assieme a Makarij, la redazione delle raccolte cronachistiche, divenute una sorta di enciclopedia storica della Moscovia, era diretta dal governatore Aleksej Adašev. Dopo le dimissioni di Adašev fu lo stesso Ivan iv ad occuparsi di esaminare e correggere le cronache. Le sue correzioni ai margini del Libro imperiale e delle minute di questa cronaca avevano lo scopo di giustificare l’ideologia e la pratica dell’autocrazia. Alcuni sostengono che il Terribile si sia occupato delle cronache negli ultimi anni della sua vita (S.O. Šmidt); ma questa ipotesi va puntualizzata. La storia ufficiale del regno di Ivan iv arriva solo fino al 1567: in altre parole, il monarca non si preoccupò di far luce sugli avvenimenti degli ultimi sedici anni del suo governo; dunque al termine della sua vita egli perse semplicemente ogni interesse per le cronache. Essendo di competenza del Dicastero degli esteri, l’annalistica ufficiale fiorì finché sulla burocrazia non si abbatterono i colpi del terrore dell’opričnina. Ma i primi sintomi della decadenza delle cronache si erano manifestati già in precedenza. Quando il metropolita Afanasij si ritirò in monastero senza il permesso dell’autocrate, ciò si riflettè immediatamente sull’annalistica. I d’jak dello zar smisero di includere nella raccolta i materiali ufficiali della Chiesa – i discorsi dei metropoliti alla cerimonia della consacrazione e così via. Il processo contro Filipp Koly/ev distrusse definitivamente la forma tradizionale di redazione della cronaca moscovita. Nell’infuriare dell’opričnina, Ivan il Terribile esonerò dal lavoro alla cronaca le autorità ecclesiastiche, e poi fece confiscare dal Dicastero territoriale degli esteri i materiali annalistici già pronti. I materiali storici «arrestati» furono portati nell’Aleksandrovskaja sloboda, sede dell’opričnina, dove furono sottoposti a una nuova redazione. Nell’opričnina non c’era nessuno in grado di proseguire il lavoro della cronaca; la condanna del d’jak Ivan Viskovatij, che dirigeva i lavori di stesura delle cronache, portò a compimento la catastrofe. Una tradizione culturale che vantava oltre sei secoli di vita andò completamente distrutta. La Riforma del xvi secolo fu accompagnata da una fioritura del pensiero sociale. I maggiori pubblicisti dell’epoca furono Ivan Peresvetov ed Ermolaj Erazm. Il principe Andrej Kurbskij, fuggito dalla Russia, gettò le basi della
283. Il profeta Davide, frontespizio del Salterio, 1568, stampatori Neveža Timofeev e Nikifor Tarasiev.
391
sulle opere greche. Tra gli altri, ad Ostrog lavorò anche il primo tipografo moscovita, Ivan Fedorov. Il principe di Ostrog, che guidava i lavori sulla raccolta biblica, utilizzò manoscritti greci portati dall’Italia, ed anche dai monasteri greci, bulgari e serbi. Il ritorno alla tradizione bizantina che si andava delineando in Ucraina, con l’andar del tempo, esercitò un’influenza significativa sullo sviluppo della cultura ortodossa moscovita.
letteratura russa dell’emigrazione. La riforma polacca non riuscì a scuotere le convinzioni religiose di Kurbskij, ma allargò enormemente il suo orizzonte intellettuale. Osservando come le idee protestanti e la propaganda cattolica incalzavano l’ortodossia in Ucraina e in Bielorussia, Kurbskij si convinse che agli ortodossi, per affermare la propria fede, era necessario raggiungere un livello culturale più alto. «Noi siamo inesperti, e pigri nell’apprendere, ma siamo altezzosi nel chiedere ciò che non sappiamo», scriveva Kurbskij. «I forestieri si dilettano delle opere dei nostri maestri, e noi deperiamo per la fame spirituale, guardando le nostre ricchezze». Verso le conquiste della cultura e della civiltà occidentale lo zar Ivan iv aveva un atteggiamento pragmatico. Egli cercava di attirare nel paese i mercanti inglesi, invitava a Mosca maestri e medici forestieri, si dava da fare per conquistare un porto sul Baltico e per dare impulso ai commerci con i paesi dell’Europa occidentale. Ma la sua dottrina e le interminabili guerre di conquista portarono inevitabilmente all’isolamento della Russia dal mondo occidentale: non a caso Kurbskij rimproverava lo zar di aver «rinchiuso» la Rus’ «come in un baluardo infernale». Considerando il proprio regno come la principale ed ultima roccaforte della vera fede nell’universo, Ivan iv provava diffidenza per la saggezza latina occidentale. Kurbskij non era di meno da lui quanto ad ortodossia, ma considerava l’Occidente in modo del tutto diverso. Dalle opere di Massimo il Greco il principe apprese che dopo la caduta dell’impero ortodosso bizantino molte inestimabili opere dei padri della Chiesa erano state portate in Italia e qui tradotte in latino. Proprio in Italia Kurbskij si mise alla ricerca delle traduzioni latine dei testi greci al fine di restaurare la tradizione bizantina. In età già avanzata, lo scrittore si dedicò allo studio della lingua latina. Gli ortodossi – scriveva il principe – conoscono male la letteratura patristica a motivo della loro pigrizia e per la mancanza di traduzioni slave. Dal proprio maestro Massimo il Greco, Kurbskij aveva ereditato la ricettività all’influsso della cultura e dell’umanesimo bizantino-italico. Mentre si trovava in Lituania, Kurbskij si mise a raccogliere attorno a sé una cerchia di «baccellieri» (persone colte) ed elaborò un vasto programma di traduzioni, che includeva «tutte le opere» di Giovanni Crisostomo, le opere del Damasceno, di Cirillo di Alessandria ed altri. Alcuni «baccellieri» venivano da lui inviati in Italia per impratichirsi delle «scienze superiori». Attraverso il Damasceno, Kurbskij si accostò allo studio dei filosofi, tra i quali il primo posto spettava ad Aristotele. Lo attiravano anche le opere di Cicerone. Ma i Russi riunitisi all’estero riuscirono ad attuare solo una piccola parte dei piani stabiliti: tradussero la raccolta degli insegnamenti di Giovanni Crisostomo, dal titolo La nuova perla, iniziarono la traduzione del Teologo e di altre opere del Damasceno. A giudicare dalla scelta delle raccolte e dei testi, Kurbskij e i suoi collaboratori si preparavano fondamentalmente a sostenere le discussioni con i polacchi antitrinitari (ariani). Lo spirito di tolleranza e di libertà religiosa che regnava nella società polacca favorivano l’attività degli scrittori e dei teologi ortodossi. L’avvenimento più importante fu la pubblicazione dell’intera raccolta dei testi biblici in lingua slava, la Bibbia di Ostrog (1580). Alla base della raccolta stava la Bibbia Gennadiana di Novgorod, ricopiata da Mosca; tuttavia a differenza dei testi novgorodiani, confrontati con i testi latini, la Bibbia di Ostrog si basava
*** La soppressione dei centri religiosi locali, il trionfo delle forme autocratiche, il distacco dall’eredità bizantina dovevano necessariamente riflettersi sullo sviluppo dell’arte russa all’epoca di Ivan il Terribile. Pur con i suoi grandi progressi, l’arte del xvi secolo divenne più chiusa e contraddittoria (G.K. Vagner). La metà del xvi secolo è caratterizzata dal fiorire dell’architettura a tenda. Le chiese monumentali erette in quel periodo celebravano lo zar e le sue vittorie. Un capolavoro dell’architettura russa è la piccola chiesa di San x/1; Giovanni il Precursore (il Battista) nel villaggio imperia- 284 le di D’jakovo, costruita negli anni 1547-1553 in ricordo dell’incoronazione di Ivan iv come zar. La torre centrale di questa chiesa è circondata da quattro torri-cappelle, che conferiscono una particolare espressività all’idea fondamentale della costruzione, la sua tensione verso l’alto. Una caratteristica comune delle chiese a tenda è la ristrettezza dello spazio interno. Le chiese nei villaggi del gran principe, Kolomna e D’jakovo, svolgevano la funzione di chiese di famiglia ed erano destinate alla stretta cerchia dei membri della famiglia del gran principe (lo zar). Sul piano compositivo la chiesa di D’jakovo era l’immediato predecessore della chiesa di San Basilio. L’espugnazione di Kazan’ segnò l’apice delle guerre di conquista di Ivan il Terribile. Per celebrare questo avvenimento fu costruita la chiesa della Protezione della Madre viii/ di Dio nel quartiere Kitaj-gorod («città cinese»), accanto 3; alle porte principali del Cremlino. La chiesa fu dedicata 285 anche alla Trinità, poiché, dopo la sua conquista, la musulmana Kazan’ era stata consacrata alla Santissima Trinità. Inizialmente sulla piazza Rossa era stata costruita una chiesa in legno dedicata alla Trinità, sulle cui fondamenta
284. Pianta della chiesa di San Giovanni Battista a D’jakovo.
392
Tra le chiese a tenda si distingue la cattedrale di Boris e Gleb a Starica (1557-1571), costruita contemporaneamente alla chiesa di San Basilio, ma che tuttavia non si è conservata. Nella cattedrale di Boris e Gleb, con cinque coperture a tenda, si ravvisa un «simbolo della superiorità del potere dello zar sui principi indipendenti», e ciò avvicina questo monumento commemorativo al genere statale-cattedrale. «In questo senso, – osserva G.K. Vagner, – la cattedrale di Boris e Gleb è certamente più significativa della chiesa di San Basilio». Ma questo giudizio va puntualizzato: la chiesa di Boris e Gleb era stata costruita dai principi indipendenti a Starica, capitale del loro principato, ed era il simbolo della grandezza di questo principato, uno tra i maggiori domini indipendenti della Rus’. Il principato di Starica fu liquidato poco prima della nascita dell’opričnina. L’opričnina ebbe un’influenza negativa sullo sviluppo delle forme architettoniche. Acquistarono un’importanza decisiva i gusti di Ivan iv, la sua passione per l’antichità. Quando lasciò Mosca, lo zar decise di stabilire la sua nuova capitale dell’opričnina a Vologda, città sperduta nelle foreste del Nord; lo zar seguì personalmente la costruzione della chiesa della Santa Sofia a Vologda (1568- x/3 1570), una chiesa cattedrale-vescovile che avrebbe dovuto offuscare lo splendore della cattedrale moscovita della Dormizione, sul cui modello fu costruita. La cattedrale dell’opričnina doveva dimostrare la forza e la potenza dello zar e della sua opričnina. Essa non era una costruzione unica nel suo genere: allo stesso tipo appartiene anche la cattedrale della Dormizione nel monastero della Trinità di san Sergio, costruita negli anni 1559-1585. Questa chie- viii/ sa superava per dimensioni la cattedrale della Dormizio- 2, 4; ne del Cremlino. Lo sfarzoso edificio sbalordisce per la xi/2 mole delle sue forme e la pesantezza dei tamburi sotto le cupole. Il monastero della Trinità era luogo di frequenti pellegrinaggi del Terribile, e i costruttori della cattedrale della Trinità tennero indubbiamente conto dei suoi gusti nell’edificare questa chiesa. Le voluminose costruzioni del xvi secolo sul tipo della Sofia di Vologda e della cattedrale della Dormizione del monastero della Trinità di san Sergio appartenevano allo stile arcaizzante, definito da D.S. Licha/ëv «monumentalismo secondario». Proprio all’inizio del regno di Ivan iv fu costruita a Mosca la fortezza di Kitaj-gorod, che costituiva una seconda cerchia di fortificazioni della città. Alla costruzione collaborò anche l’ingegnere italiano Pietro Piccolo Frjazin. Grandi lavori di ristrutturazione furono eseguiti a Mosca dopo che la città fu incendiata dai Tatari nel 1571. Il noto architetto russo Postnik Jakovlev diresse la costruzione del Cremlino in muratura a Kazan’; alle sue dipendenze lavorava una numerosa brigata di muratori di Pskov. Le guerre di Ivan il Terribile dissanguarono le casse dello stato, e questo fatto provocò una brusca riduzione delle costruzioni in muratura; tra le fortificazioni costruite nelle terre conquistate prevalevano delle piccole palizzate in legno. In condizioni migliori si trovavano invece i ricchi monasteri; a metà del xvi secolo le autorità del monastero della Trinità di san Sergio circondarono il cenobio con possenti mura e torri in pietra. La tematica della pittura russa all’epoca di Ivan il Terribile si fece più ampia e varia. Ai tradizionali soggetti evangelici si aggiunsero temi dell’Antico Testamento, racconti edificanti, parabole mezzo storiche e mezzo mitologiche. Nella Rus’ si formò un nuovo genere simbolico-allegorico,
fu eretta nel 1555-1561 una chiesa in muratura. Secondo i dati riportati nelle cronache, la costruzione fu diretta dagli architetti Barma e Postnik Jakovlev; di quest’ultimo si sa che proveniva da Pskov. La pianta della cattedrale aveva una complessa forma a stella, che riuniva in un solo blocco nove chiese a torre, delle quali quella centrale era coronata da un’alta copertura a tenda, mentre le altre otto chiese-cappelle terminavano con una cupola. Le quattro chiese più grandi segnavano le estremità di una croce, mentre le altre erano disposte a croce in diagonale. Tutte le parti della cattedrale poggiavano su un unico possente fulcro in pietra ed erano unite da gallerie. Lo spazio interno delle chiese ricorda dei pozzi. Quando fu costruita, la cattedrale era tutta bianca, comprese le cupole; solo nel xvii secolo la costruzione venne colorata, acquistando così un aspetto sgargiante e festoso, e alla chiesa fu aggiunto il campanile a tenda. Durante la costruzione della cattedrale morì lo jurodivyj (folle in Cristo) moscovita Vasilij (Basilio), che viveva viii/ 7 «senza vesti» e trascinando catene in ferro, famoso per le sue profezie. Vasilij fu sepolto con tutti gli onori presso le mura della chiesa, che per questo motivo fu dedicata al «Beato Basilio». Alla chiesa sulla piazza Rossa il popolo diede anche un altro soprannome: «Gerusalemme»; la più grande tra le cappelle della chiesa era infatti dedicata all’Ingresso di Cristo a Gerusalemme. La domenica delle palme dalla chiesa della Dormizione partiva la processione festiva «sugli asinelli» che si dirigeva a questa cappella; lo zar seguiva a piedi, tenendo per le briglie l’«asinello» su cui sedeva il metropolita. La cerimonia ripeteva l’episodio evangelico dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme. Questa popolare cerimonia religiosa veniva chiamata «Gerusalemme», quasi a sottolineare l’importanza di Mosca come «Nuova Gerusalemme», centro del Sacro impero russo.
285. Mosca, pianta della cattedrale di san Basilio (della Protezione della Madre di Dio «sul Fossato»).
393
In primo piano si vedono i commensali che ricevono la coppa con il vino della «sapienza» dalle mani dei servi, che versano il vino e sgozzano un vitello. Sovrasta la folla il saggio re Salomone che annuncia il proverbio scritto sul rotolo (manoscritto). Nel xvi secolo il contenuto della pittura si fece più complesso e il suo linguaggio figurativo divenne più articolato. Nelle loro illustrazioni delle tematiche teologiche gli iconografi cercavano di riprodurre il testo nel modo più completo e letterale, riportandone i particolari concreti e i simboli astratti. «Appesantite da numerose figure ed oggetti, le opere pittoriche del xvi secolo (l’epoca di Ivan il Terribile) perdono l’integrità, la chiarezza e la grandiosità delle immagini dell’epoca precedente» (N.E. Mneva). Le allegorie erano il procedimento letterario prediletto nelle opere di Ivan Peresvetov; di questo metodo si servono volentieri anche i pittori, gli autori di icone raffiguranti «visioni», come ad esempio la Visione di Evlogij e la Visione di Giovanni Climaco. Queste icone, dipinte negli anni ’30-’40 del xvi secolo, facevano originariamente parte di un’unica icona a trittico. Evlogij vide in sogno gli angeli che distribuivano doni ai monaci in misura dei loro meriti e delle loro virtù. Questo il soggetto della prima icona. Sulla seconda è raffigurata la scala con i trenta gradini della perfezione, che conduce al cielo; i monaci che non raggiungono la perfezione cadono dalla scala negli inferi. L’epoca del Terribile, osservava a suo tempo I. Grabar’, non si può definire un’epoca felice per la pittura russa: in quegli anni incominciò a venir meno l’armonia che era l’anima dell’arte di Rublëv e Dionisij, mutarono i colori, le icone smisero di splendere e rilucere. I vecchi affreschi del Cremlino erano stati distrutti dal grandioso incendio del 1547. I lavori per il loro rifacimento si protrassero dal 1547 al 1552. Anche i muri del palazzo imperiale del Cremlino, il Palazzo d’oro, erano coperti di affreschi. Per espresso desiderio dello zar, fu Sil’vestr a dirigere la decorazione pittorica del palazzo; al lavoro degli artigiani sovrintendeva direttamente il metropolita Makarij, egli stesso pittore ed iconografo. Il metropolita e Sil’vestr cercarono di chiamare a Mosca i migliori maestri di Pskov e Novgorod per svolgere nel modo migliore l’incarico loro affidato dallo zar. Gli affreschi del Palazzo d’oro non si sono conservati, ma si può ricostruirne il contenuto sulla base di una dettagliata descrizione riportata dall’artista Simon Ušakov nel xvii secolo. Come istitutore dello zar, Sil’vestr cercava di preparare il suo pupillo al ruolo di governante di un’enorme potenza, e gli affreschi del Palazzo d’oro fungevano da illustrazione degli insegnamenti del padre spirituale. La pittura era stata progettata come un ciclo allegorico unitario. Sulla parete accanto all’ingresso nel vestibolo (ampia anticamera) erano raffigurate le immagini edificanti dal titolo Il cuore dello zar è nella mano di Dio, L’inizio della autentica saggezza è il timor di Dio. Nel vestibolo gli affreschi avevano a tema la storia di Israele; seguivano poi le imprese militari di Giosuè. Negli affreschi del Palazzo d’oro prevalevano composizioni dell’Antico Testamento, alternate a temi storici. Gli affreschi che coprivano le volte del palazzo illustravano la concezione cristiana dell’universo (terra, sole e pianeti, angeli), di Dio e degli evangelisti e il cammino dell’esistenza umana. Le composizioni abbondavano di simboli. L’illustrazione della parabola di Basilio il Grande sui vizi e le virtù conteneva figure allegoriche dipinte in ogni particolare: la Ragione – «una fanciulla in piedi…
corrispondente al carattere dell’epoca. Gli affreschi monumentali rispecchiavano con chiarezza le sue peculiarità, e in particolare il suo asservimento ai fini del potere statale e dell’autocrazia moscovita. L’intensificazione degli elementi illustrativi ed allegorici nella pittura moscovita fu in certa misura il risultato dell’influsso delle incisioni occidentali, che giungevano a Mosca in numero sempre maggiore. All’epoca dell’impero moscovita le idee del regime acquistano particolare risonanza nella pittura. Una delle opere più importanti nella pittura moscovita a metà del xvi secolo è il grande quadro (quattro metri di lunghezza) viii/ intitolato La benedetta armata del re celeste, noto anche 5 col nome di Chiesa militante, che ha per tema la conquista di Kazan’ e la glorificazione di Ivan il Terribile, vincitore degli infedeli. Il sovrano torna dalla vittoriosa campagna a capo del suo esercito; davanti a lui galoppa su un cavallo sauro il comandante delle armate celesti, l’Arcangelo Michele. L’esercito ortodosso è diretto alla «montuosa Sion» (Mosca), davanti alla quale troneggia la Madre di Dio col Figlio sulle ginocchia. Dietro all’esercito si scorge «Sodoma» infuocata (Kazan’ che brucia). Sullo sfondo incedono con andatura solenne i gloriosi antenati dello zar, da Vladimir Svjatoslavi/ ad Aleksandr Nevskij e Dmitrij Donskoj, con truppe di cavalleria e fanteria. Caratteristico della pittura è il vivo senso della natura con il suo spazio, una realtà storica, che conferisce al quadro un sapore di arte profana: «così, in realtà, non ci troviamo davanti ad un’icona, ma ad un quadro nello spirito del Trecento, che si pensa sia stato eseguito per il Palazzo dei terem» (G.K. Vagner). Tra le maggiori testimonianze della scuola pittorica moscovita figura l’icona di Giovanni il Teologo e Procoro, in cui è raffigurato san Giovanni Evangelista che detta i testi evangelici al discepolo Procoro. All’epoca del Terribile la scuola pittorica di Mosca era quella dominante, ma continuavano ad esistere anche tradizioni di arte locale. Possiamo farci un’idea delle particolarità della scuola di Novgorod dall’icona del Piccolo monastero di San Kirill presso Novgorod, intitolata La viii/ Sapienza si è costruita la casa. Il tema dell’icona è il rito 9 della Comunione. Nel grande cerchio iridato sulla sinistra è rappresentata l’immagine della Sofia, «sapienza di Dio», e nel cerchio più piccolo sulla destra la Madre di Dio col Bambino, simbolo della Chiesa e della sapienza terrena.
286. Aleksandrovskaja sloboda, incisione dal libro Viaggio in Russia di J. Ulfeld, 1627.
394
scrive su un rotolo», la Follia (la depravazione) – «una donna leggermente china che si volge indietro», la Verità – «una fanciulla in piedi con in mano una bilancia». Un altro ciclo di affreschi raccoglie soggetti storici che illustrano l’idea dell’origine divina dell’autocrazia imperiale, presentando lo zar come erede degli imperatori romani e bizantini. Al principe Vladimir Svjatoslavi/ sono dedicati i temi La scelta della fede, L’imposizione della corona di Monomach ed altri. Glorificando le battaglie e le vittorie dei re dell’Antico Testamento, le pitture lodavano le imprese di Ivan iv nella guerra contro gli «infedeli» abitanti di Kazan’. I problemi della pittura furono oggetto di discussione in alcuni concili, e questo era già in sé un sintomo della crescente dipendenza della creazione artistica dallo stato. Lo zar Ivan pose ai membri del Concilio dei cento capitoli la domanda se fosse lecito raffigurare nelle icone persone che non appartenevano alla schiera dei santi e dei taumaturghi, e il Concilio prese una decisione conforme al volere dello zar. Le autorità ecclesiastiche approvarono gli affreschi del Palazzo d’oro raffiguranti i membri della dinastia moscovita. A suo tempo Massimo il Greco si era pronunciato contro la rigidità dei canoni, propugnando un atteggiamento più libero verso la pittura. Il clero giuseppino sosteneva invece un altro punto di vista: essi cercavano di canonizzare la maniera pittorica di Rublëv e di preservare gli artisti dalle «intenzioni carnali». Il Concilio dei cento capitoli imponeva agli iconografi di seguire rigidamente i vecchi modelli, «come dipingevano gli iconografi greci e come dipingeva Andrej Rublëv». Dionisij seguiva la tradizione di Rublëv, ma a Mosca incominciavano a dimenticarlo, e gli estensori dei decreti conciliari non ritennero possibile menzionare il suo nome. Il Concilio dei cento capitoli decise di introdurre i manuali per la pittura dei personaggi (Licevye ikonopisnye podlinniki), con i canoni per la raffigurazione delle singole figure, volti e intere composizioni. Oltre a questi manuali, gli iconografi del xvi secolo usavano spesso come esempio anche le icone-tavolette. viii/ 10- Una delle icone più famose di questo tipo è la tavoletta bi11 fronte della Decollazione di Giovanni Battista, provenienviii/ te dalla cattedrale della Sofia di Novgorod (fine xv-inizio 6 xvi secolo). Il Concilio dei cento capitoli imponeva agli iconografi moscoviti elevati principi morali nella vita quo-
tidiana. Facendo eco a questi insegnamenti, i «manuali» ammonivano l’artista ad astenersi dalla cupidigia e stabilivano un limite al compenso per il loro lavoro. Non a caso il Concilio dei cento capitoli indicava la tradizione moscovita come esempio da imitare in pittura. I richiami a Rublëv contenevano una indiretta condanna della maniera predominante nei nuovi affreschi del Cremlino. Il Concilio non riuscì a decidere a maggioranza, poiché gli affreschi del Palazzo d’oro erano stati approvati dallo stesso zar; tuttavia a Mosca ci furono persone che non ebbero paura di esprimere pubblicamente i propri dubbi, condivisi da molti ortodossi moscoviti. Il d’jak Ivan Viskovatyj, diplomatico colto e di talento, «aizzò il popolo» per tre anni contro le icone di recente fattura. Una particolare indignazione destò nel d’jak un’icona quadripartita, opera dei maestri Ostan’ e Jakuška di Pskov. L’icona illustrava il dogma dell’incarnazione di Cristo ed era destinata alla chiesa di famiglia dello zar, la cattedrale dell’Annunciazione. Viskovatyj difendeva la tradizione artistica moscovita; tuttavia il punto di contrasto principale non concerneva l’aspetto artistico ma quello teologico. Si fecero nuovamente sentire le antiche divergenze tra la cultura religiosa di Novgorod-Pskov, più aperta alle influenze occidentali, e la rigida ortodossia moscovita. Due anni dopo il Concilio dei cento capitoli, le autorità moscovite condannarono il nobile proprietario Baškin per la sua adesione all’eresia occidentale. Approfittando di questa circostanza, il d’jak Viskovatyj dichiarò apertamente che le nuove icone di Pskov e gli affreschi del Palazzo d’oro erano contaminati dalla stessa eresia. Il d’jak nutriva dubbi sulla canonicità della raffigurazione di Cristo con le sembianze di un guerriero seduto sulla croce, o di un angelo nudo, coperto dalle ali. Lo disgustavano le allegorie con figure nude o seminude, come pure le immagini che abbassavano il «divino» a livello del quotidiano. Viskovatyj riteneva inammissibile collocare accanto alla figura di Cristo raffigurazioni allegoriche della «lussuria» con le sembianze di «una donna che, abbassate le maniche, sembra danzare» (gli abiti russi di gala avevano maniche più lunghe del braccio). Viskovatyj è comunemente ritenuto il difensore di una retriva antichità; tuttavia, come osservava G. Florovskij, il senso della diatriba sulle icone era più ampio e profondo di quanto si pensi normalmente. Il xvi secolo fu un’epoca di rottura nell’iconografia russa, e questo
287. Vologda, incisione dal libro Il viaggio di K. van Klenck, 1677.
395
in un caso egli riconobbe superflua la raffigurazione della sua persona: «Nel disegno la figura del sovrano non c’entra» – dettò il Terribile al suo d’jak. Nel xvi secolo il ritratto storico non si distinse come un genere a sé, come testimoniano sia le miniature delle cronache, sia gli affreschi. Le raffigurazioni di Vasilij iii, di Ivan iv, dello zar Fedor negli affreschi del Palazzo d’oro 278 e del Palazzo a faccette sono considerate «uno dei primi esempi di pittura ritrattistica anticorussa» (B.I. Purišov). Tuttavia queste raffigurazioni si potrebbero più esattamente definire «ritratti convenzionali». Il nimbo attorno alla testa degli antenati dello zar Ivan sottolinea questa convenzionalità. I ritratti letterari nei testi di narrativa storica sono, invece, più ricchi di contenuto. Nel xvi secolo aumentarono nella Moscovia gli umori escatologici provocati dall’attesa della seconda venuta di Cristo e del giudizio universale. I quadri apocalittici hanno una rilevanza eccezionale all’epoca di Ivan il Terribile. «Le scene dei martirii (sugli affreschi) vengono rappresentate con estrema espressività, talvolta con un naturalismo repellente. Dopo le elevate concezioni escatologiche dell’epoca di Rublëv e Dionisij tutto ciò pare spaventoso» (G.K. Vagner). Le aspettative apocalittiche dell’epoca precedente avevano un carattere abbastanza astratto; il xvi secolo invece portò con sé forti sconvolgimenti emotivi. Le stragi e le devastazioni compiute per tutta la Russia dagli opričniki di Ivan il Terribile infondevano un terrore nell’animo dei contemporanei, davanti al quale i presagi del passato impallidivano. Delle disastrose conseguenze dell’opričnina risentirono sia la politica che la cultura della società in generale. Si verifica una decadenza delle tradizioni del neoellenismo e la perdita dei valori estetici conservatisi nella cultura dell’inizio del xvi secolo. Sotto Ivan il Terribile l’attività delle botteghe artistiche del Cremlino acquistò una maggiore apertura. Tra le regalie dello zar fabbricate in quell’epoca, la più antica è considerata il «berretto di Monomach». La storia di questa corona viii/ è legata secondo la tradizione alla storia del «berretto d’o- 12 ro» appartenente ai principi di Mosca. Già Ivan i Kalita aveva lasciato al suo erede gli abiti di gala («pantaloni»), il caffettano ricamato di perle, e il «berretto d’oro». Nella Rus’ disgregata, il sovrano superiore agli altri era il gran principe di Vladimir, che aveva ereditato le regalie da Vladimir Monomach; ma i principi moscoviti potevano disporre solo della sua corona, poiché nel principato di Vladimir spadroneggiava l’Orda. Vasilij ii lasciò in eredità ad Ivan iii la croce di Petr il taumaturgo e il berretto che egli, a differenza dei suoi antenati, non chiamava «d’oro». Ivan iii poté disporre per la prima volta della corona russa senza doversi guardare dal khan; ma egli benedisse Vasilij iii con la croce di Petr, senza far parola del «berretto» del padre. Come si vede, la questione delle regalie non era di attualità all’inizio del xvi secolo. Il testamento di Vasilij iii non si è conservato, ma è risaputo che egli usava come corona il «berretto di Monomach». Secondo la testimonianza di un ambasciatore austriaco, essa era elegantemente ornata di placchette d’oro che ondeggiavano, attorcigliandosi come serpentelli. Non è chiaro se essa fosse la corona di Mosca o di Vladimir; in ogni caso era fatta secondo la foggia orientale, ma non secondo il modello bizantino. Sotto Vasilij iii i letterati composero la Storia dei principi di Vladimir, dalla quale risultava che Vladimir Monomach aveva ricevuto regalie dalle mani di suo nonno, l’imperatore bizantino Costantino ix Monomach. Questa leggenda trovò un riconoscimento
cambiamento si rispecchiò prima di tutto a Novgorod e Pskov. Nella pittura apparvero nuove tematiche e composizioni, si faceva sentire sempre di più l’attrazione del simbolismo decorativo, o più precisamente dello stile simbolico-allegorico. In questo stile si percepiva distintamente l’influsso dell’Occidente, la conoscenza delle incisioni occidentali: si profilava la fine del vecchio stile iconografico; l’icona incominciava a rappresentare idee piuttosto che volti. Viskovatyj colse questo cambiamento ed insorse energicamente contro di esso. Il d’jak temeva non tanto la novità, quanto il concetto su cui si fondava la nuova iconografia, in cui egli vedeva un allontanamento dalla verità evangelica verso l’Antico Testamento, verso le immagini dei profeti. «Non è bene – diceva Viskovatyj – venerare le immagini invece della verità». Nell’allontanamento dalle immagini bizantine il d’jak scorgeva l’«eresia latina», cioè l’influsso dei modelli pittorici occidentali. Ma la decorazione pittorica degli edifici del Cremlino era stata approvata dallo zar; per questo motivo al Concilio del 1554 il metropolita respinse energicamente i dubbi di Viskovatyj e minacciò di punirlo. Nella pittura del xvi secolo si notava da una parte la tendenza ad una estrema complicazione dei simboli, e dall’altra la tendenza a una raffigurazione più precisa della vita degli uomini e della realtà naturale. Sono invii/ dicative in questo senso le miniature del Licevoj svod in 13- vari tomi, eseguite nella seconda metà del xvi secolo. La 22 raccolta non fu portata a termine, e i fogli della cronaca viii/ sono stati rilegati in volumi solo nei secoli xvii-xviii. (I 1; volumi sono conservati presso la Biblioteca pubblica sta262- tale e la Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di San 267 Pietroburgo e il Museo storico statale di Mosca). Il testo della cronaca occupava un terzo dello spazio, le illustrazioni gli altri due terzi. Alle miniature lavorarono almeno una decina di artisti. Per illustrare il contenuto del testo gli artisti erano spesso costretti ad abbinare in un solo disegno diversi soggetti, ma ciò nonostante gli avvenimenti principali si distinguevano per le maggiori proporzioni del disegno e per il colore più denso, mentre i soggetti secondari arretravano sullo sfondo. L’unità dell’azione è raggiunta sia nell’intera composizione, sia nella singola gamma cromatica della miniatura. Complessivamente le miniature della cronaca sono caratterizzate dal marchio narrativo: esse «non raffigurano tanto questo o quel momento della storia russa, quanto raccontano la storia russa con mezzi figurativi» (D.S. Licha/ëv). Sforzandosi di avvicinare le illustrazioni al testo della cronaca, gli autori delle miniature si discostavano lentamente dal vecchio sistema convenzionale di caratterizzazione dei personaggi e degli avvenimenti. Così essi badavano che i berretti (le corone) dei sovrani corrispondessero ai loro titoli, cercavano di caratterizzare gli stessi personaggi incoronati, dotandoli di barbe di lunghezza diversa. Nelle miniature, come pure nel testo della raccolta, si persegue chiaramente un’idea fondamentale, l’esaltazione dell’impero russo come erede dell’impero bizantino. Dai particolari si distinguono le miniature dedicate alle regalie imperiali di Vladimir Monomach, che si pretendevano ricevute da Bisanzio. Lo zar Ivan iv esaminava accuratamente e in alcuni casi correggeva le miniature dedicate alla sua incoronazione regale e ad altri avvenimenti di grande importanza; l’idea della bellezza dell’autorità imperiale assorbiva completamente l’attenzione del sovrano, e solo 396
Nel 1571, nel pieno del terrore dell’opričnina, Ivan iv donò alla cattedrale dell’Annunciazione un Evangeliario viii/ dal prezioso rivestimento. La copertina, riccamente deco- 13 rata di pietre preziose e perle, si distingue per la sua severa bellezza. I petali e i fiori coperti di smalto colorato, applicati separatamente, affascinano per la finezza del disegno. La decorazione con niello degli oggetti d’oro diviene un tratto caratteristico dell’arte orafa del xvi secolo. In occasione del suo secondo matrimonio, Ivan iv ordinò di forgiare un piatto d’oro di gala per la seconda moglie, Marija \erkasskaja. Al centro del piatto era raffigurata un’aquila bicipite, lungo il bordo un ornamento vegetale stilizzato e un’iscrizione augurale dello zar. La fioritura dell’oreficeria nel xvi secolo fu favorita dal fatto che la corte imperiale invitava continuamente mae stri dall’estero, e gli artigiani russi lavoravano assieme ai forestieri, specialmente quando dovevano realizzare importanti ordinazioni per l’erario dello stato. Il tesoro dello zar si arricchiva continuamente dei migliori esempi dell’arte orientale ed occidentale. Il fisco aveva il diritto di sequestrare tutti i pezzi migliori tra i manufatti di importazione, prima che fossero immessi sul mercato. Un’importanza sostanziale aveva anche lo scambio di preziosi tra le corti, previsto dalla prassi diplomatica allora vigente. Qualsiasi ambasceria che si recasse a Mosca assieme alle credenziali consegnava dei «doni», che venivano accuratamente valutati dai funzionari del tesoro, poi agli ambasciatori venivano distribuiti doni o una somma in denaro dello stesso valore. Un esempio di un prodotto dell’oreficeria occidentale finito nel tesoro dello zar è la «coppa a stelo» di fattura inglese (a Mosca fu chia- viii/ mata «coppa per il rassol’nik» – una minestra), forgiata a 14 Londra negli anni 1557-1558, e probabilmente portata a Ivan iv dall’ambasciatore inglese A. Jenkinson. Alla Corte della zecca gli artigiani russi coniavano le monete d’oro usate come onorificenze. Nel xvi secolo continuò a svilupparsi la tradizione del ricamo artistico. È caratteristica l’abbondanza di ricami in oro e argento che illustrano la ricchezza del committente. Un’importante testimonianza dell’epoca è la plaščanica
ufficiale solo sotto Ivan iv, che aspirava al titolo imperiale (di zar). Nel suo testamento lo zar benediceva l’erede del «berretto di Monomach», inviato dall’imperatore bizantino Costantino da Costantinopoli; ma nel «berretto di Monomach» mancavano del tutto le scagliette d’oro, e ciò impedisce di identificarlo col «berretto di Monomach» di Vasilij iii. La corona custodita nell’Oružejnaja palata (Palazzo dell’armeria) reca le tracce di ripetuti rifacimenti. La parte originaria fu eseguita attorno al xiv secolo nell’Asia Centrale o nell’Oriente arabo (secondo alcune ipotesi a Bisanzio, ma ciò è meno probabile). Questa parte antica del berretto è formata da otto piastre d’oro, decorate da un finissimo disegno in filigrana a granuli. Molto tempo dopo all’antica base fu aggiunta una copertura con una croce d’oro, decorata da grosse perle. Ivan iv aveva a disposizione diverse corone imperiali e principesche, portate a Mosca dai principati conquistati, ed ognuna di esse corrispondeva ad uno dei suoi numerosi titoli. Una delle corone è chiamata «berretto di Kazan’»; su di essa manca la croce, ma la scelta delle pietre preziose (granati e turchesi) è caratteristica della produzione degli orafi orientali. Negli inventari del tesoro dello stato nel xvii secolo è citato il nome del proprietario del «berretto», l’ultimo khan di Kazan’. Nella cattedrale della Dormizione del Cremlino fu alle288 stito per lo zar un trono intagliato (il «seggio dello zar»), coronato da un baldacchino a tenda. I bassorilievi lignei del trono illustravano la storia leggendaria di Vladimir Monomach, che aveva ricevuto la corona regale dall’imperatore bizantino. Gli intagli in legno erano ricoperti da una doratura. Nel Palazzo dell’armeria si conserva anche il trono imperiale, la «sedia d’avorio», eseguito nel xvi secolo in Europa occidentale. La base del trono è coperta da piastre d’osso intagliate e sovrapposte, sullo schienale è raffigurata un’aquila. Tra le pietre preziose custodite nel tesoro imperiale nel xvi secolo spicca l’«Angelo del deserto». La figura di Giovanni Battista, santo patrono di Ivan iv, intagliata in corniola di provenienza veneziana, è un’opera di rara perfezione.
288. Mosca, Cremlino, cattedrale della Dormizione, Il principe Vladimir Monomach si appresta a una campagna, 1551, particolare del «seggio dello zar» Ivan iv.
397
(l’icona era venerata come protettrice di Mosca dagli infedeli). Sono noti i nomi dei compositori Fedor Christianin e Markel Bezborodnyj; il primo fu invitato dallo zar nell’Aleksandrovskaja sloboda, sede dell’opričnina, men- 286 tre il secondo compose salmi e scrisse Vite di santi. Nel xvi secolo il canto all’unisono raggiunse la massima perfezione e nacque il canto russo polifonico. Una particolare scuola di composizione si formò a Novgorod; le opere del compositore novgorodiano Opekalov sono colme di drammaticità. Per altre vie si andava sviluppando nella Rus’ anche la musica profana, eseguita dai buffoni; nacque infine il genere della canzone storica, dedicata ai principali avvenimenti del xvi secolo.
(sindone) con la Deposizione nel sepolcro (anni 1560), eseguita nella bottega di Efrosin’ja Starickaja. Quando venne rinchiusa in monastero, la principessa donò il telo ricamato al monastero di Kirill di Beloozero. La scena del pianto sul corpo di Cristo, che occupa il posto centrale nella composizione della Deposizione nel sepolcro, è di grande bellezza artistica. La Chiesa ortodossa creò nella Rus’ anche una grande cultura del canto corale. Ivan iv manteneva una cappella di corte ed egli stesso cantava nel coro della chiesa. Sono note due composizioni dello «zar Ioann despota della Russia»: gli stichiri (versetti) in onore del metropolita Petr e quelli dedicati all’icona della Madre di Dio di Vladimir
Capitolo iii Il periodo dei Torbidi in Russia L’edificio della monarchia autocratica, costruito da Ivan il Terribile, si rivelò fragile, e già con lo zar Fedor Ivanovi/ il potere monarchico incominciò a indebolirsi. Il figlio del Terribile si distingueva per la propria inettitudine negli affari di stato, tanto che gli risultava difficile adempiere perfino alle cerimonie di corte. I bojari non lo tenevano in nessun conto e cercavano il momento opportuno per ritornare in possesso dei privilegi e dei diritti di cui avevano goduto prima della costituzione dell’opričnina. Bogdan Bel’skij, che era stato il favorito del Terribile, tentò di impedire le trame dei bojari, ricostituendo il sistema dell’opričnina, ma a Mosca si verificarono dei tumulti popolari e su richiesta della duma dei bojari Bel’skij fu inviato al confino. Ai tempi dello zar Fedor esisteva un consiglio di tutela, che era di fatto controllato dal bojaro N. Romanov. Dopo la morte di Jur’ev il potere passò nelle mani di Boris Godunov, cognato dello zar Fedor. I Godunov avevano fatto carriera nell’opričnina e i nomi di Boris e di suo suocero Maljuta Skuratov erano invisi alla nobiltà. Una folla di moscoviti, fomentata da Šujskij, tentò di saccheggiare il palazzo di Godunov. Il Cremlino fu posto in stato d’assedio e Boris fu costretto ad inviare un corriere a Londra con una richiesta di asilo in Inghilterra. La stirpe del Kalita stava estinguendosi. Irina Godunova era stata più volte incinta, ma tutti i suoi figli nascevano già morti. Gli Šujskij, con la scusa della «sterilità» della zarina, cercavano di convincere Fedor a divorziare per porre fine all’influenza di Boris a corte. I membri del consiglio di reggenza, il principe I.P. Šujskij e il metropolita Dionisij inviarono allo zar una supplica, in cui si chiedeva che Irina fosse mandata in monastero e che egli contraesse un secondo matrimonio per poter garantire la successione. La supplica fu sottoscritta dai membri della duma dei bojari e perfino da mercanti (gosti) della capitale, che rappresentavano il terzo stato. In gioventù Fedor era assai terrorizzato dai maltrattamenti paterni, ma anche un despota capriccioso come il padre non era riuscito ad obbligare il debole figlio a divor-
ziare. I bojari e il metropolita, che avevano osato intromettersi nella sua vita privata, non potevano sperare di ottenere risultati migliori. Il 13 ottobre 1586 il metropolita Dionisij fu privato della propria dignità e fu esiliato come semplice monaco nel monastero di Chut’ny a Novgorod. I mercanti di Mosca che avevano sostenuto gli Šujskij furono condannati a morte, e gli stessi Šujskij furono mandati al confino. Al termine della guerra di Livonia il reggente I.P. Šujskij si era guadagnato la fama di migliore condottiero russo; era stato lui a guidare la difesa di Pskov contro le truppe del re polacco Stefan Batory, salvando il paese da una sicura rovina. Il popolare condottiero era il più pericoloso nemico di Boris e questi lo costrinse ad entrare in monastero e in seguito ordinò di sopprimerlo segretamente. L’assassinio di I.P. Šujskij non fu dettato da un freddo calcolo politico, ma da un senso di paura e insicurezza. La reputazione di Boris ne fu compromessa irrimediabilmente. D’ora in poi qualsiasi morte, qualsiasi sciagura venne attribuita alla sua volontà malvagia. I contemporanei lo accusavano di voler sterminare la nobiltà e restaurare l’opričnina, ma queste accuse erano chiaramente esagerate. In qualità di difensore dell’autocrazia, Boris fu in grado di vincere le resistenze dei bojari senza bisogno di ricorrere a uccisioni e persecuzioni; inoltre, egli non poteva ignorare che il paese non aveva nessuna voglia di tornare ai tempi dell’opričnina. Proprio durante la crisi, scoppiata in seguito alle iniziative degli Šujskij, Boris annunciò lo scioglimento della «corte», il corpo di guardia che costituiva il retaggio politico del Terribile, ultimo frutto dell’opričnina. Godunov promosse grandi riforme sociali nella speranza di guadagnarsi il sostegno dei dvorjanin. La proprietà statale della terra aveva condotto ad un eccessivo carico di tasse, di cui finora i pomeščiki non avevano sentito il peso perché non possedevano terre coltivate. Durante la guerra di Livonia, che durò dodici anni, i contadini, rovinati dai tributi, presero ad abbandonare i propri poderi. Quando, per migliorare la propria situazione economica, i pomeščiki incominciarono ad ampliare l’estensione delle 398
terre arate padronali si accorsero immediatamente dell’onerosità delle tasse che gravavano sulle loro tenute. La rovina economica della classe dei dvorjanin avrebbe potuto portare a sconvolgimenti politici e Boris si vide costretto a rinunciare ai diritti derivanti dal principio della proprietà statale delle terre. Durante il governo di Godunov l’erario per la prima volta liberò dal tributo le terre arate padronali nelle tenute dei dvorjanin, creando, in questo modo, una profonda divisione tra questa classe privilegiata e quelle più basse, che rimasero soggette al tributo. In questo periodo si verificarono cambiamenti radicali nella condizione dei contadini in Russia. Alla metà del xvi secolo essi avevano il diritto di abbandonare il proprietario terriero a conclusione dei lavori agricoli, nel giorno di san Giorgio, alla fine di novembre. Alla fine del secolo, tuttavia, questo diritto già non esisteva più. Ivan il Terribile lasciò ai suoi successori un paese in rovina e una situazione finanziaria disastrosa. Dopo la sua morte si costituirono nuovi catasti nelle città e nelle campagne, ma questo provvedimento non servì a molto a causa dell’estrema mobilità della popolazione che cercava di sottrarsi a tasse troppo gravose. Fu allora che si consentì alle città e ai proprietari terrieri di ricercare i contribuenti fuggiaschi e riportarli ai luoghi d’origine. Iniziò, così, il periodo che viene definito «anni delle proibizioni» (zapovednye leta); con zapoved’ nella Rus’ venivano indicati i divieti di qualsiasi tipo. Nel caso specifico lo stato vietò per un certo periodo al basso popolo (černye, i «neri») – coloro che erano soggetti a tasse – di abbandonare i propri luoghi di residenza per consentire all’erario la puntuale esazione delle imposte. Nelle città questo provvedimento non durò a lungo, ma i dvorjanin ne capirono tutti i vantaggi e fecero in modo che tali disposizioni da temporanee fossero trasformate in legge permanente. I contadini persero, di fatto, il diritto di andarsene nel giorno di san
Giorgio, perdendo, così, anche la propria libertà. La nascita della servitù della gleba fu sanzionata nel 1597 con una legge, la quale prevedeva che qualsiasi proprietario potesse nell’arco di cinque anni cercare e riportare indietro i propri contadini fuggiti. La legge sul servaggio del 1597 fu promulgata a nome dello zar Fedor. Ma Fedor era ormai al termine dei suoi giorni e tutti sapevano benissimo chi fosse il vero artefice dell’ukaz. Tra i dvorjanin la popolarità di Boris crebbe moltissimo. All’epoca del Terribile e di Godunov la struttura dell’Impero russo ricevette la sua forma definitiva, che ne avrebbe determinato il destino per alcuni secoli: nacque la monarchia assoluta fondata sul servaggio. Con Boris Godunov si ebbe la ricostituzione di un potere forte, che consentì all’inetto zar Fedor di assumere per la prima volta il titolo di «monarca assoluto». Con la formazione del Sacro impero russo si incominciò a sentire il bisogno di ottenere per il capo della Chiesa di Mosca la dignità di patriarca, la più alta tra le cariche ecclesiastiche. I patriarchi orientali, che languivano sotto l’umiliante giogo turco, sempre più di frequente venivano a Mosca in cerca di aiuti finanziari. Nel 1586 giunse nella Rus’ il capo della Chiesa ortodossa universale, il patriarca Geremia di Costantinopoli. Quando ancora si trovava in Lituania, il cancelliere polacco gli aveva proposto di istituire un nuovo patriarcato a Kiev. Questo fatto allarmò le autorità di Mosca che decisero di trattenere Geremia e gli altri Greci del suo seguito in città. Anche se trattati con ogni riguardo, essi erano di fatto dei prigionieri, completamente isolati dal mondo esterno. Il vecchio patriarca decise, allora, di piegarsi alle circostanze e comunicò ai suoi compagni che avrebbe acconsentito all’istituzione di un patriarcato moscovita, che egli stesso avrebbe guidato. Queste parole furono riferite a Godunov, il quale riuscì a convincere il patriarca che in Russia lo attendeva un grande futuro e ottenne da lui la conferma
289-291. Tre disegni dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg: Villaggio di Medgna presso Torožok; campagna di Vina; campagna di Zaeksevo.
399
Tavole a colori IX
1
2
1. Monastero di Zosima e Savvatij delle Solovki (Monastero delle Solovki), inizio xvii secolo; Mosca, Galleria Tret’jakov.
3. Semën Borozdin, Madre di Dio Bogoljubskaja con santi, fine xvi-inizio xvii secolo; San Pietroburgo, Museo russo. 4. Nikifor Savin, San Giorgio e il drago, prima metà xvii secolo; San Pietroburgo, Museo russo.
2. Monastero delle Solovki, veduta di insieme.
5. Miniature dal codice Vita di san Sergio di Radonež; Mosca, Biblioteca statale russa: a. Sergio e i confratelli, fol. 75v. b. San Sergio, fol. 230. c. Guarigione di un giovane indemoniato presso la tomba di san Sergio, fol. 231v. d. I diavoli scacciati dalla chiesa, fol. 283. 6. Il Salmista Davide, dal Salterio di Godunov (1594); Kostroma, Museo del monastero di Sant’ Ipazio. 7. Turibolo, donazione della zarina Irina Godunova alla cattedrale dell’Arcangelo del Cremlino di Mosca; oro, pietre preziose, cesellatura, niello, bottega del Cremlino; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria.
400
3
a
4
b 5
c
6 d
7
ufficiale della sua decisione di volersi fermare nel paese. Riunitasi immediatamente, la duma dei bojari propose a Geremia di porre la propria residenza a Vladimir, mentre la guida della Chiesa moscovita sarebbe rimasta al metropolita Iov, che aveva la propria sede al Cremlino. Geremia respinse l’offerta, ma gli fu fatto intendere che la sua libertà dipendeva dall’accettazione di tali condizioni. I d’jak dello zar minacciarono, addirittura, di farlo annegare nel fiume e Geremia si vide costretto a sottostare alla volontà dello zar e dei bojari (alle trattative non parteciparono i rappresentanti del clero moscovita). In conformità alle tradizioni bizantine, lo zar e le autorità ecclesiastiche stabilirono tre candidature al patriarcato, e le votazioni «segrete» che seguirono designarono il metropolita Iov come nuovo patriarca. Le circostanze dell’elezione sono state descritte nei minimi particolari, compresa la «segretezza» della votazione. I Greci furono trattenuti a Mosca per quasi un anno, dopo di che fu loro consegnata una forte somma di denaro e furono lasciati ripartire per Costantinopoli. Dopo il favore reso allo zar a Mosca, Geremia non poté opporsi alla richiesta di Sigismondo iii, col quale si incontrò a Vilnius durante il ritorno a Costantinopoli, e acconsentì a elevare alla dignità di metropolita l’archimandrita di Kiev Michail Ragoza, che, secondo le intenzioni del re, doveva restaurare in Ucraina e in Bielorussia l’Unione fiorentina. Durante il concilio dell’alto clero ortodosso a Brest, il metropolita Michail sanzionò l’atto di unione che prevedeva la sottomissione della Chiesa russa occidentale alla Chiesa di Roma. Per lunghi anni i letterati russi avevano sostenuto la teoria di «Mosca-terza Roma» in opere di carattere non ufficiale. Nell’atto di costituzione del patriarcato di Mosca questa teoria acquistò il peso di una dottrina ufficiale. Non si deve ritenere per questo che la Mosca di Godunov pretendesse di aver raccolto l’eredità di Roma e di essere diventata il centro di un impero mondiale. La sconfitta nella guerra di Livonia e le cattive condizioni in cui versava il paese avevano infranto i piani di conquista del Terribile. Nonostante il nome altisonante, l’obiettivo primario della dottrina di «Mosca-terza Roma» era quello di equiparare Mosca agli altri centri mondiali dell’ortodossia. La dinastia di Ivan Kalita, che aveva governato Mosca per trecento anni, si estinse alla fine del xvi secolo. Gli ultimi rappresentanti della famiglia furono lo zar Fedor e il fratello Dmitrij. Il testamento di Ivan iv prevedeva che allo zarevi/ Dmitrij fosse assegnato un principato indipendente con capitale nella città di Ugli/, che, a nome di Dmitrij, veniva governato dalla madre, la zarina Maria, e dai fratelli di lei, i dvorjanin Nagoj. I loro intrighi spinsero Godunov a porre il principato sotto la guida dell’amministrazione moscovita. Allo scopo fu inviato a Ugli/ il d’jak M. Bitjakovskij, il quale doveva reggere il principato come rappresentante del sovrano. Anche se formalmente il principato di Ugli/ non fu abolito, i principi furono privati dei loro precedenti diritti. Lo zarevi/ Dmitrij era malato di epilessia. Durante uno dei suoi attacchi periodici egli si ferì mortalmente al collo (il fanciullo stava giocando a «coltellino» con i suoi coe tanei. I partecipanti al gioco lanciavano a turno il coltellino all’interno di un cerchio tracciato sul terreno). La duma inviò a Ugli/ il principe Vasilij Šujskij con una commissione per indagare sull’accaduto. Le indagini fu408
rono accurate e chiarirono senza possibilità di dubbio il carattere accidentale della morte dello zarevi/. La madre di Dmitrij, Maria Nagaja, e i suoi fratelli sostenevano, invece, la versione dell’assassinio, che però non era avvalorata né da indicazioni di testimoni, né da indizi di altro genere. Il giorno stesso della morte dello zarevi/ i Nagoj regolarono i conti con l’amministrazione di Ugli/, nella persona di Bitjakovskij e dei suoi aiutanti. Il d’jak fu accusato dell’uccisione di Dmitrij e linciato dalla folla insieme ai suoi famigliari e servitori. Il tentativo di sostenere le accuse davanti alla commissione e a Šujskij fallì immediatamente. Il confessore dei Nagoj testimoniò sotto giuramento che al momento della morte di Dmitrij egli era a tavola con Bitjakovskij e suo figlio. I presunti assassini dello zarevi/ risultarono essere completamente estranei al fatto. Boris fu accusato di aver avvelenato gli zar Ivan e Fedor, suoi benefattori, sua sorella la zarina Irina Godunova, il principe Hans di Danimarca, suo futuro genero e molti altri, ma è difficile credere a tutte queste fantastiche accuse. Dopo la morte di Dmitrij, Irina partorì una figlia e Godunov si prodigò per assicurare alla sorella la migliore assistenza medica. Subito dopo la nascita della bambina, il reggente organizzò un fidanzamento a Vienna, offrendo il trono di Mosca al principe austriaco che avesse sposato la figlia dello zar Fedor, ma la «fidanzata» morì quando aveva un anno e mezzo, ponendo fine ai piani dinastici dei Godunov. Lo zar Fedor morì, come il Terribile, di morte naturale e le accuse contro Boris, anche in questo caso, non furono altro che vuota calunnia. Lo zar Fedor Ivanovi/ non lasciò nessun testamento e non si è riuscito a stabilire se ciò gli sia stato impedito dal reggente o se non sia riuscito a farlo per debolezza mentale. Durante la lotta per la successione al trono circolarono versioni differenti circa le sue ultime volontà. I Godunov sostenevano che egli avesse indicato come suo erede al trono la moglie Irina e che a Boris avesse «affidato» il regno e la propria anima. Tuttavia, attendibili fonti non ufficiali attestarono una versione completamente diversa. Lo zar Fedor era preoccupato per il futuro della moglie, non del trono, e aveva ordinato alla zarina di ritirarsi in monastero. Il reggente non rispettò questa volontà del sovrano e pretese che la duma e il popolo prestassero giuramento non solo alla zarina vedova, ma anche allo stesso Boris e ai suoi eredi. Ma fece male i conti, perché i bojari costrinsero Irina a ritirarsi nel monastero di Novodevi/. I bojari Romanov, cugini dello zar Fedor, cercarono di appropriarsi della corona, mentre per tutta Mosca circolò la voce che lo zar fosse stato avvelenato proprio da Boris. Temendo per la propria vita, Godunov si nascose nel monastero di Novodevi/. La fuga di Godunov dal Cremlino era il segno della sua sconfitta politica e molti si aspettavano che egli lasciasse immediatamente la sua carica di reggente. Il 17 gennaio 1598, tuttavia, il patriarca Iov riunì nella propria residenza i sostenitori del reggente e diede l’annuncio della sua elezione al trono. La duma dei bojari non era in grado di proporre un candidato che fosse ben accetto da tutti e fece il tentativo di introdurre nel paese un governo dei bojari, senza, però, riuscire a guadagnarsi il favore del popolo. Approfittando di questa circostanza, il patriarca, chiamati i moscoviti a raccolta, organizzò due processioni che si diressero al monastero di Novodevi/ per supplicare Boris di accettare la co409
Quando era ancora reggente, Godunov aveva iniziato una guerra contro la Svezia ed era riuscito a riconquistare le terre intorno alla foce dei fiumi Neva e Narva, che erano state occupate dagli Svedesi alla fine della guerra di Livonia, ma era poi stato accusato di essersi lasciato sfuggire la possibilità di impadronirsi di Narva. Effettivamente Boris aveva rinunciato a conquistare territori nella zona baltica e, dopo aver ottenuto la revisione delle clausole stabilite a conclusione della perduta guerra di Livonia, si era affrettato a stringere con la Svezia una pace permanente. La tregua di venti anni, conclusa nel 1600 con la Rzeczpospolita, fu per lo zar Boris un grosso successo politico. La pace sui confini occidentali permise all’impero di concentrare le proprie forze militari ad Oriente. Dopo tre anni di sanguinosa guerra, i Russi riuscirono a soffocare la ribellione dei popoli del Volga, che avevano tentato di sottrarsi al dominio della Russia durante il regno di Fedor. I condottieri russi si spinsero in profondità nelle steppe tatare e costruirono una serie di fortificazioni nella regione del Volga e sul Don. In questo modo i confini dell’impero si trovarono spostati molto più a sud. Boris Godunov portò a termine la guerra con il khan Ku/um, le sue truppe furono sgominate e in tal modo fu conclusa la conquista della Siberia occidentale. Nel 1604 varcò i confini della Russia il primo falso Dmitrij e col suo arrivo sotto le spoglie del defunto zarevi/ iniziò il lungo periodo dei Torbidi, che portò il paese sull’orlo della catastrofe. Non è tanto importante stabilire chi si nascondesse dietro la maschera del figlio del Terribile, quanto chiarire le condizioni che consentirono alle macchinazioni dell’usurpatore di acquistare proporzioni così tremende. Nella storiografia sovietica è prevalente la tendenza a considerare i Torbidi come una conseguenza dell’asservimento dei contadini. La lotta di classe degli oppressi contro i feudatari oppressori avrebbe dato origine alla prima Guerra contadina della storia russa. Ma i fatti non confermano questa tesi. I Torbidi furono la prima guerra civile nella storia russa, dovuta in primo luogo alla crisi sociale e politica interna al paese e alle discordie tra i dvorjanin. I documenti raccolti a Novgorod ci permettono di indagare i motivi di tale crisi. La «repubblica» di Novgorod nel periodo dell’indipendenza non aveva intrapreso guerre di conquista, né aveva speso parte delle proprie risorse per mantenere un esercito. I servi della gleba non erano gravati da tasse eccessive, sia per tradizioni storiche, sia perché lo richiedevano le particolari condizioni dell’agricoltura nel Nord russo. Le terre sottratte con la violenza ai proprietari di Novgorod andarono a costituire un ampio fondo terriero statale. I contadini furono gravati di eccessivi obblighi nei confronti dello stato e di tasse troppo onerose. La prosperità economica della campagna novgorodiana ne fu definitivamente compromessa. Nell’ultimo decennio del xvi secolo i contadini di Novgorod, non avendo i mezzi per pagare i tributi allo zar, ridussero considerevolmente l’estensione degli appezzamenti da loro coltivati. Poiché lo zar non pensò di alleggerire il peso delle imposte, sia l’erario che i sudditi ebbero enormi perdite economiche. Verso l’inizio del xvii secolo entrò in crisi il sistema dei pomest’e, che vennero smembrati, così come era successo con le proprietà feudali. La situazione fu aggravata da una crisi economica generale e da tre anni di carestia, dal 1601 al 1603.
rona. Dapprima il reggente non voleva acconsentire, ma alla fine del secondo giorno annunciò di essere disposto a salire sul trono. Tuttavia, la duma dei bojari si rifiutò di prestargli giuramento e propose di consegnare la corona al gran principe Simeon Bekbulatovi/, a cui il Terribile di tanto in tanto aveva affidato per capriccio il trono di Mosca, ma anche questa macchinazione della duma fallì, a causa della scarsa popolarità di Simeon, e all’inizio dell’autunno Boris fu incoronato zar. Per legittimare l’elezione di Godunov e dimostrare che egli era stato regolarmente scelto come successore al trono dal zemskij sobor, un’assemblea formata dai membri della duma dei bojari, dalla gerarchia ecclesiastica e dai rappresentanti di tutte le classi sociali, furono prodotti dei documenti che presentavano evidenti contraffazioni. Il documento principale fu redatto e firmato dai bojari retroattivamente, un anno e mezzo dopo l’incoronazione del nuovo zar. Nel salire al trono Boris aveva giurato che non avrebbe condannato a morte nessuno e che nel suo regno non ci sarebbe stata la povertà, ma queste promesse rimasero disattese. Due anni dopo l’incoronazione, i bojari Romanov e i loro consanguinei furono oggetto di crudeli persecuzioni. Il maggiore, Fedor, fu costretto ad entrare in monastero e i suoi fratelli furono mandati al confino, da dove solo alcuni tornarono vivi. I Romanov furono accusati di voler uccidere la famiglia reale per mezzo di incantesimi, ma la vera ragione della loro persecuzione era un’altra. Lo zar Boris si era gravemente ammalato subito dopo l’incoronazione e se egli fosse morto suo figlio non sarebbe riuscito a conservare la corona. Per questo motivo Boris aveva bisogno di eliminare i possibili pretendenti al trono. I Romanov agirono con troppa precipitazione: avevano già riunito nella capitale le loro truppe e si preparavano al colpo di stato. All’inizio del xvii secolo, a causa di tre anni di cattivi raccolti buona parte della popolazione della Russia morì di fame. Boris mise a disposizione dei poveri i granai della corona e una gran quantità di contadini affamati accorse nella capitale, sperando nell’aiuto del sovrano. Presto le riserve di pane della capitale si esaurirono e Godunov ordinò che tutte le quantità eccedenti di pane nel resto del paese fossero portate a Mosca. Sulle strade incominciarono a imperversare bande di predoni che saccheggiavano i convogli reali. Una di queste bande si scontrò con le truppe dello zar presso la capitale. Questo episodio viene comunemente interpretato come un atto di ribellione contro l’oppressione feudale che segnò l’inizio della Guerra contadina in Russia. Questa tesi è facilmente criticabile. Le violenze commesse dai banditi lungo le strade erano veri e propri atti criminali; il brigantaggio rese problematico l’arrivo degli approvvigionamenti a Mosca, causando la morte per fame di centomila persone, che erano state attirate nella capitale dalle voci sulla generosità dello zar. Essi erano per la maggior parte contadini scappati dalle campagne. Per alleviare le sofferenze del popolo, Boris emanò per due volte un decreto in cui veniva restituita ai contadini la possibilità di riacquistare la propria libertà nel giorno di san Giorgio. La validità del decreto era limitata alle terre dei piccoli dvorjanin di provincia, circostanza che suscitò l’indignazione di questi ultimi. Nel 1603 ogni tentativo di venire incontro alle necessità dei contadini fu definitivamente accantonato, ma ciò non bastò a restituire a Boris la popolarità di cui aveva goduto tra i dvorjanin. 410
Allo scopo di estendere il patrimonio terriero statale, si incominciò a costituire dei pomest’e nelle lontane zone steppose di nuova annessione. I figli dei bojari erano riluttanti a trasferirsi in queste regioni e l’erario cominciò a distribuire le tenute tra i Cosacchi e i figli dei contadini. I nuovi tenutari dovevano dissodare il terreno stepposo con le proprie mani. Quando nel Sud del paese si volle costituire un’estensione di terre arate demaniali, furono chiamati a prestare la loro opera i soldati delle guarnigioni locali. I militari stanziati nelle fortezze della steppa e i dvorjanin delle regioni meridionali capeggiarono la rivolta a favore dell’impostore, che fece precipitare il paese nel caos della guerra civile. L’insurrezione era sostenuta dai liberi Cosacchi del Don e del Volga. Boris Godunov aveva fatto costruire numerose fortezze nel Sud della Russia, con l’intento di inglobare nei confini dello stato le zone periferiche, e i Cosacchi non glielo perdonarono. La crisi in cui si trovò il potere statale all’inizio del xvii secolo non era dovuta a debolezza o incapacità del sovrano. Boris Godunov era un governante saggio e di grande esperienza, ma commise l’errore di cedere alle pressioni dei dvorjanin e privare della libertà i contadini, infrangendo in tal modo consuetudini secolari nella vita del popolo russo. I tre anni di carestia aggravarono ancora di più le condizioni del paese, portando lo stato al dissesto economico. Il potere centrale sprofondò nella paralisi, la classe dei dvorjanin era impedita ad agire dalle divisioni createsi al suo interno; il popolo abbandonò l’infelice Boris. Il ricordo del «brillante» regno di Ivan iv infondeva nelle genti russe la speranza che l’eliminazione dei Godunov e il ritorno sul trono di un rappresentante della dinastia legittima avrebbe restituito al paese la prosperità. La fede nello zar «buono» non era viva solo tra i contadini, ma veniva condivisa dai più diversi strati sociali. Quando il falso Dmitrij fece la sua comparsa nella Rzeczpospolita, a Mosca si disse che dietro la maschera dell’impostore si nascondeva il monaco fuggiasco Grigorij Otrep’ev. Proveniente da una famiglia di piccoli dvorjanin, Jurij Otrep’ev era stato al servizio dei bojari Romanov, ma quando essi erano stati mandati al confino, per sottrarsi alla condanna, si era fatto monaco col nome di Grigorij. Di lì a poco andò a vivere nel monastero del Miracolo del Cremlino, dove confidò segretamente ai propri confratelli di essere di stirpe reale. I monaci lo derisero ed egli fuggì in Lituania, dove trovò protezione presso un magnate ortodosso, il principe Adam Wivniowiecki. Non avendo, però, ricevuto il sostegno che si aspettava dai circoli ortodossi, si rivolse ai cattolici. Jurij Mnivek, un alto dignitario caduto in miseria, gli diede asilo a Sambor, lo presentò al re Sigismondo iii e lo aiutò a raccogliere un esercito di mercenari. «Dmitrij» raccontò a Wivniowiecki la storia di come fosse miracolosamente sfuggito ai suoi assassini. Questi la trascrisse e la inviò immediatamente al re. Poiché l’impostore lasciò il paese senza aver elaborato nei dettagli la sua storia, dobbiamo dedurre che i Romanov, i quali conoscevano benissimo le circostanze legate alla morte di Dmitrij, fossero estranei all’intrigo. Il racconto del presunto «zarevi/» assomigliava piuttosto a una grossolana favola. Egli asseriva che un monaco avesse riconosciuto la sua nobile origine per la sua indole orgogliosa e la regalità del portamento. Si tratta probabilmente dello starec Varlaam, della famiglia degli Jackij, piccoli proprietari terrieri. Egli accompagnò Grigorij Otrep’ev in Lituania e in seguito de-
scrisse le proprie peregrinazioni in un promemoria, consegnato alle autorità di Mosca. Secondo la testimonianza di Varlaam, Otrep’ev si recò a Tambov, passando per Kiev, Ostrog, Goš/a e Bra/in. Nella «confessione» fatta a Wivniowiecki l’usurpatore aveva citato questi stessi luoghi, attraversati recandosi a Bra/in. Il suo soggiorno in questi posti è, inoltre, confermato da altri documenti. Ad Ostrog il principe Ostrožskij regalò a Grigorij e a Varlaam un libro con una dedica, dove sopra le parole «a Grigorij» fu aggiunto «zarevi/ di Mosca». Nel tratto di strada che va dal confine a Ostrog e Bra/in era avvenuta la metamorfosi, il monaco vagabondo si era trasformato nello zarevi/. 292 Il falso Dmitrij entrò in Russia con un esercito di quattromila soldati e Cosacchi. Dopo qualche mese i mercenari sollevarono la rivolta e abbandonarono lo zarevi/, ma le truppe di Boris Godunov non furono in grado di fermare gli insorti. Lo zar Boris fu una figura tragica. A differenza del Terribile, che saccheggiava i beni dei propri sudditi, egli li beneficò. I contemporanei ritenevano che egli fosse analfabeta, ma si sbagliavano. Quando era funzionario dell’opričnina firmava i documenti con una calligrafia elegante e accurata. Da zar non prese mai in mano la penna, ma ciò non vuol dire che egli avesse disimparato a scrivere; il nuovo sovrano non voleva infrangere una tradizione secolare che vietava ai re di servirsi di penna e inchiostro. I contemporanei non riuscivano a perdonargli la sua cattiva conoscenza delle Sacre Scritture, ma lodavano i suoi sforzi nel campo dell’istruzione e le molte cure da lui dedicate «alla propria potenza». Chi lo conosceva lo considerava un raffinato oratore e rimaneva affascinato dai suoi discorsi. Pur possedendo una volontà inflessibile, egli dava l’impressione di essere un uomo mite. Quando il suo spirito era tormentato, egli dava sfogo alle lacrime. Nel 1602 andò a trovare il duca Hans di Danimarca, che era venuto a Mosca come futuro sposo della figlia dello zar, Ksenija Godunova, ed ora si trovava in fin di vita. Tutte le volte che lo zar compariva al capezzale del duca si ripeteva la stessa scena. Boris singhiozzava e con lui si lamentavano tutti i bojari. Il frastuono era indescrivibile. Uno dei membri del seguito del duca ebbe modo di udire il «pianto» di Boris accanto al letto di Hans e lo descrive nel proprio diario: «Anche una pietra piangerebbe di dolore per la morte di un tale uomo, dal quale io mi aspettavo grandissimo conforto – si lamentava lo zar –. Dal dolore il cuore mi si spezza nel petto!». A differenza di Ivan iv, Godunov dimostrò una rara costanza negli affetti famigliari, amava i figli, considerava vergognoso l’eccedere nel vino. L’attivo ed energico Boris verso la fine della sua vita cadde nell’apatia e prese a condurre un’esistenza da anacoreta, passando il tempo in compagnia di astrologi e indovini. Nonostante possedesse ricchi tesori, cominciò a dare segni di avarizia e grettezza; di sera controllava personalmente che le sue cantine e i suoi depositi fossero sigillati. Il 13 aprile 1607 morì per un colpo apoplettico. In maggio, tra le truppe che combattevano contro il primo falso Dmitrij nacque una rivolta, fomentata da un gruppo di bojari: P. Basmanov, i fratelli Golicyn e L. Ljapunov, insieme con i dvorjanin di Rjazan’. Il primo giugno la popolazione di Mosca insorse contro la dinastia dei Godunov e il nuovo zar Fedor Borisovi/ fu arrestato insieme agli altri membri della famiglia. Da Tula, dove si trovava, il falso Dmitrij annunciò la propria ascesa al trono, mentre, dietro suo ordine, il nuo411
conferire un «grado militare», poiché «tutti i sovrani vengono celebrati per i loro guerrieri e cavalieri (dvorjanin – R.S.): su di essi si fonda la loro potenza, grazie a loro lo stato si ingrandisce, essi sono il terrore dei nemici». A volte Ivan iv si era vantato che i monarchi russi fossero liberi di condannare o graziare i loro sudditi-servi. Ma perfino sulle labbra del Terribile queste dichiarazioni erano solo parole. Diventato zar, Otrep’ev si scontrò con le stesse difficoltà che aveva avuto il suo presunto padre. Gli osservatori stranieri erano stupiti dagli ordinamenti vigenti a Mosca, per cui il potere dello zar non poteva funzionare senza la partecipazione dei bojari. Non solo i bojari affiancavano lo zar negli affari di stato, ma lo accompagnavano ovunque andasse. Il sovrano non poteva spostarsi da un palazzo all’altro senza avere attorno i bojari. I membri più giovani della duma restavano negli appartamenti privati dello zar fino al mattino. Non sapendo come fare a sottrarre l’imperatore alla tutela dei bojari i suoi amici polacchi gli consigliarono di trasferire la capitale da Mosca ad un’altra città. Il primo falso Dmitrij non fu un misterioso avventuriero, sceso nella tomba senza che fosse stato rivelato il segreto della sua identità. Perfino il bojaro Basmanov e gli altri suoi amici intimi non credevano alla nobiltà dei suoi natali. Dell’impostura dell’«imperatore» parlavano i polacchi, messi a riposo dopo la campagna di Mosca. Šujskij, che era stato presente ai funerali di Dmitrij a Ugli/, rischiò la testa durante le prime settimane del regno di Otrep’ev, ma nessuna persecuzione poteva fermare le dicerie, tanto nefande per il falso zar. Dapprima i bojari non osavano opporsi apertamente al monarca, ma col tempo si abituarono a lui, studiarono i suoi punti deboli e cominciarono a trattarlo familiarmente. L’impostore si abituò a mentire di continuo; questa consuetudine divenne per lui una seconda natura e lo mise diverse volte in situazioni assai spiacevoli. Si racconta che i bojari spesso smascheravano le piccole menzogne di Dmitrij, dicendogli: «Grande principe, zar, sovrano di tutta la Russia, hai mentito». Il rituale di corte, che si rifaceva a quello bizantino, il comportamento servile dei cortigiani durante i ricevimenti ufficiali davano agli stranieri l’impressione di una straordinaria potenza dei sovrani di Mosca. Le manifestazioni esteriori del potere sembravano escludere ogni possibilità di opposizione aperta all’auto-
vo zar Fedor e la madre venivano strangolati. Si occupò dell’esecuzione il bojaro Golicyn, che diede, invece, al popolo la versione del suicidio. Il vecchio patriarca Iov fu indegnamente cacciato dalla sua residenza e rinchiuso in monastero. La duma dei bojari concluse un accordo con l’impostore: solo dopo che egli ebbe sciolto i reparti di Cosacchi e mercenari che lo avevano portato al Cremlino, la duma 293 acconsentì a incoronare il presunto figlio del Terribile. Nel tentativo di rafforzare le proprie posizioni, il falso Dmitrij modificò il proprio titolo. Agli occhi dei Russi colti, che conoscevano il latino, i titoli di zar e di imperatore erano equivalenti. Otrep’ev prese, quindi, il titolo di «invincibile autocrate, cesare e imperatore». Fu così che un ex-domestico, e forse perfino servo della gleba dei bojari Romanov divenne il primo imperatore della storia russa. Come risultato della vittoria nella sanguinosa guerra civile, Otrep’ev concentrò nelle proprie mani un potere enorme. Ma la potenza dell’imperatore non durò a lungo. Il falso Dmitrij faceva di tutto per mantenere la reputazione di zar «buono». Annunciò di voler introdurre nello stato l’ordine e la giustizia, proibì la corruzione nei dicasteri. Coloro che si macchiavano di truffa e abuso di potere venivano pubblicamente fustigati. Le speranze del popolo in un alleggerimento della pressione fiscale furono deluse. Solo la città di Putivl’, che aveva sostenuto «Dmitrij» nelle difficoltà e che aveva subito i danni maggiori durante la guerra, ricevette franchigie speciali. La raccolta dei tributi raffreddò gli entusiasmi dei sudditi. I liberi Cosacchi entrarono di nuovo in fermento e sul Terek uscì dalle loro file un nuovo impostore, che prese il nome di «zarevi/ Petr». I ribelli si misero in marcia lungo il Volga alla volta di Mosca, ma lungo la strada vennero a sapere della morte di Dmitrij e deviarono verso il Don. Il falso Dmitrij aveva trovato nelle casse statali circa mezzo milione di soldi contanti, che in un anno aveva completamente dissipato, soprattutto per pagare i dvorjanin. Proveniente da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, Otrep’ev capiva bene le necessità del ceto russo dei dvorjanin e perfino i suoi accusatori si meravigliavano per il suo amore verso l’«esercito». Durante i ricevimenti a palazzo, il falso Dmitrij aveva più volte pubblicamente dichiarato che, sull’esempio del padre, provava piacere a
292. Grigorij Otrep’ev: spostamenti in Lituania e campagna contro Mosca, carta di R. Skrynnikov.
412
finte credenziali un sigillo statale, da lui sottratto nel palazzo del Cremlino. Capo della rivolta in Russia divenne l’ataman cosacco Ivan Bolotnikov. Catturato dai Turchi, era stato liberato dagli Italiani e durante il viaggio di ritorno in patria dall’Italia si era fermato a Sambor, dove ebbe l’onore di un’udienza con «Dmitrij» (con ogni probabilità, la parte dello zar era stata recitata da Mol/anov). A Sambor ricevette le credenziali dello zar, con cui veniva promosso comandante supremo dell’esercito di Putivl’. Gli insorti si mossero verso Mosca, giustiziando lungo il cammino i sostenitori di Vasilij Šujskij. L’armata governativa fu disfatta e per cinque settimane la capitale fu assediata dai ribelli, che poi si spostarono verso Kaluga. Invano Bolotnikov inviò messaggi a Sambor, invitando «Dmitrij» a venire immediatamente in Russia; senza aspettare l’arrivo dello «zar» dalla Polonia, il comandante e gli abitanti di Putivl’ chiamarono in aiuto l’impostore del Don, che aveva preso il nome di «zarevi/ Petr», figlio dello zar Fedor Ivanovi/. Lo «zarevi/» pretese che i dvorjanin, rinchiusi nelle prigioni di Putivl’, gli prestassero giuramento, ma i più si rifiutarono di riconoscere «l’imbroglione» e furono crudelmente massacrati dai Cosacchi. Dopo aver raccolto in fretta un esercito, Petr si diresse verso Tula, dove si unì a lui Bolotnikov. Nel frattempo la situazione si complicava sempre di più. In Lituania comparve un secondo falso Dmitrij. Sulla sua origine correvano voci diverse, ma le testimonianze più attendibili ci sono date dagli stranieri, che avevano seguito in Lituania le prime mosse del pretendente, o avevano indagato sul caso mentre le tracce erano ancora fresche. I gesuiti polacchi vennero a sapere che dietro la maschera del secondo falso Dmitrij si nascondeva un certo Bogdanko, un ebreo battezzato. I Romanov conoscevano bene il «mariuolo», poiché Filaret Romanov aveva prestato servizio alla sua corte. Dopo l’elezione al trono i Romanov continuarono a sostenere la versione dell’origine ebraica del secondo falso Dmitrij. Uno dei più noti ritratti dell’impostore è quello apparso in un’edizione londinese del 1698, che però non è storicamente attendibile. Si ritiene che il secondo falso Dmitrij fosse una creatura dei magnati polacchi, ma si tratta di una leggenda
crate. Si trattava, tuttavia, di apparenza e la duma, dopo lo smarrimento iniziale, prese nuovamente nelle proprie mani le leve del governo dello stato. In Polonia Otrep’ev si era abituato a contrarre debiti e anche al Cremlino continuò a trattare i problemi finanziari con leggerezza. Avendo conosciuto il bisogno in gioventù, Otrep’ev, come molti arrivisti, era diventato particolarmente attaccato al denaro. Lo zar era così desideroso di avere sempre cose nuove, che teneva per sé ogni oggetto prezioso che gli capitasse tra le mani. Le casse dello stato si svuotarono e lo zar si ritrovò a un passo dalla bancarotta. I bojari non avevano intenzione di tollerare che un vagabondo e un avventuriero sedesse sul trono e tentavano continuamente di ucciderlo. Presentendo il pericolo, il falso Dmitrij si preparava segretamente a fuggire in Francia. Nel frattempo, aveva fatto venire dalla Polonia la fidanzata Ma249- rina Mnivek, mentre il padre di lei, Ju Mnivek, aveva avuto 250 l’ordine di raccogliere nuovi reparti di mercenari a sostegno di Dmitrij. L’arrivo delle truppe polacche non aiutò l’impostore, ma peggiorò notevolmente la situazione a Mosca. Gli Šujskij e i Golicyn prepararono una congiura e il 17 maggio 1606 effettuarono un colpo di stato. Otrep’ev fu ucciso dai congiurati e al trono salì il bojaro Vasilij Šujskij. Immediatamente per tutto il paese corse la voce che i malvagi bojari avevano tentato di uccidere lo zar «buono», ma che questi si era salvato una seconda volta e aspettava l’aiuto del suo popolo. Nelle zone periferiche a sud del paese scoppiarono insurrezioni popolari, che diedero inizio alla seconda fase della guerra civile. Diventato zar, Otrep’ev aveva sciolto i reparti degli insorti che egli aveva condotto a Mosca da Putivl’. Dopo il colpo di stato, Putivl’ divenne il centro della nuova rivolta, che fu istigata dal principe G. Šachovskoj e da M. Mol/anov. Quest’ultimo, che era il favorito del primo falso Dmitrij, scappò da Mosca dove era tenuto sotto sorveglianza e si rifugiò nei possedimenti dei Mnivek a Sambor. Approfittando della protezione dei signori di Sambor, l’avventuriero iniziò a raccogliere truppe in Ucraina e a mandare a nome di Dmitrij credenziali in tutta la Russia con l’appello a muovere guerra a Šujskij. Questa falsificazione ebbe successo perché Mol/anov aveva apposto sulle
293. Il primo falso Dmitrij, incisione di L. Kilian, 1605. 294-295. Marina Mnivek; Jurij Mnivek, incisioni dal libro Canto festoso di S. Grochovskij.
413
storiografica. Questa nuova impostura fu ideata da Bolotnikov e dallo «zarevi/» Petr con l’aiuto di nobiluomini bielorussi che avevano partecipato alla marcia di Otrep’ev su Mosca. Essi avevano notato a Mogilev un vagabondo di bassa statura che assomigliava all’usurpatore ucciso a Mosca. Costui era un insegnante girovago di Šklov. Quando tentarono di convincerlo di essere lo zar scampato alla morte, egli si dileguò in fretta da Mogilev, ma fu ritrovato e gettato in prigione. Solo allora il vagabondo acconsentì ad assumere il nome dello «zarevi/ Dmitrij», dopo di che fu subito inviato oltre confine, a Starodub, dove gli uomini di Bolotnikov lo riconobbero come proprio sovrano. Seguendo le orme di Otrep’ev, il secondo falso Dmitrij si mosse verso Mosca, ma non riuscì ad occupare la città e pose l’accampamento a Tušino, nei pressi della capitale. Nel frattempo avevano fatto la loro comparsa nel paese una decina di altri falsi zarevi/. Il secondo falso Dmitrij, che aveva bisogno d’aiuto, inizialmente accoglieva volentieri i «parenti» con i loro reparti di insorti, ma quando nel suo campo apparvero dvorjanin e nobili la situazione cambiò. Il falso Dmitrij ordinò di impiccare due zarevi/. Il potere passò nelle mani della duma dei bojari di Tušino, dove divenne patriarca Filaret Romanov, il più pericoloso nemico di Šujskij. I reparti di mercenari venuti dalla Polonia ebbero un ruolo importante nell’accampamento di Tušino. La posizione del secondo falso Dmitrij si fece più stabile quando egli fu raggiunto dalla zarina Marina Mnivek, liberata dalla prigionia da Vasilij Šujskij. L’impostore accolse la «sposa» alla presenza di una grande folla di popolo ed essa riconobbe in lui il marito salvato. Nei due anni in cui il secondo falso Dmitrij tenne Mosca sotto assedio, l’impero ebbe due zar. Alle volte i possedimenti dell’impostore arrivavano ad essere estesi quanto quelli del signore del Cremlino. L’esistenza di due zar paralizzò completamente lo stato, rendendolo facile preda dei vicini. Nell’autunno del 1609 Sigismondo iii ruppe l’accordo di tregua e assediò Smolensk. Nella guerra contro i ribelli di Tušino e i Polacchi, Šujskij si serviva di reparti di mercenari, inviati in Russia dal re di Svezia, che gli era alleato. Nel marzo del 1610 il voevoda Skopin-Šujskij liberò Mosca con un esercito di soldati russi e svedesi. L’accampamento di Tušino fu abbandonato e l’impostore, insieme con i Cosacchi, si rifugiò a Kaluga. Skopin, che si preparava a portare rinforzo alla guarnigione di Smolensk, morì improvvisamente all’età di 23 anni e il comando dell’armata fu assunto dall’incapace fratello dello zar Dmitrij Šujskij. La battaglia sotto Smolensk si risolse con una sconfitta dell’esercito russo-svedese, a cui contribuì un ammutinamento tra i mercenari. Vasilij Šujskij tentò invano di raccogliere nuovamente le truppe; il popolo lo abbandonò. «Non sei più il nostro zar!» – gridava la folla sotto le finestre del palazzo. Il 17 luglio 1610 egli fu destituito dalla duma dei bojari e dall’esercito e due giorni dopo fu costretto ad entrare in monastero. Il potere passò nelle mani di una commissione di sette bojari. Quando l’esercito polacco arrivò nei pressi di Mosca, i bojari conclusero un accordo di pace col comandante, lo hetmano Zółkiewski, in virtù del quale veniva riconosciuto come zar il principe Władysław, figlio del re polacco. La capitale 296 si affrettò a giurare fedeltà al principe prima che l’accordo fosse ratificato dal re e dal senato polacco. Su insistenza di Zółkiewski nell’accampamento nei pressi di Smolensk si incontrarono i «grandi ambascia-
tori» – il principe Vasilij Golicyn e il metropolita Filaret Romanov – e i rappresentanti di tutti i ceti sociali. Ma i negoziati di pace non ebbero buon esito perché Sigismondo aveva già deciso di prendere Smolensk e di annettere la città ai suoi possedimenti. Inoltre, egli non voleva mandare il figlio in Russia e si riprometteva di occupare egli stesso il trono degli zar. Dopo aver firmato l’accordo con Zółkiewski, la commissione dei sette bojari cominciò a chiedere la resa di Smolensk e permise l’entrata al Cremlino dei mercenari polacchi. Nel frattempo il secondo falso Dmitrij fu ucciso dalla propria guardia a Kaluga e con la sua morte Władysław rimase l’unico zar. Ma i moscoviti non lo amavano affatto. Sigismondo riprese le operazioni contro Smolensk. I suoi soldati si comportavano in Russia da conquistatori. Il capo dei dvorjanin di Rjazan’, P. Ljapunov, sfidò il governo dei bojari, accusandoli di tradimento. I suoi soldati si unirono ai Cosacchi arrivati da Kaluga e insieme formarono le prime Milizie territoriali, sostenute oltre che da Rjazan’ e Kaluga, anche da Nižnij Novgorod, Jaroslavl’, Vladimir e dalle città del Nord. Gli oppositori al governo dei bojari si prefiggevano di sollevare una rivolta a Mosca dopo l’arrivo delle Milizie territoriali, ma i disordini scoppiarono prima del previsto. I mercenari, non riuscendo a sedare la rivolta, su consiglio dei bojari diedero fuoco alla città. I Polacchi conservarono il Cremlino e una parte della città ad esso adiacente, chiamata Kitaj-gorod, mentre il resto di Mosca, o meglio, ciò che ne era rimasto dopo l’incendio, fu occupato dalle Milizie, nel cui accampamento si insediò il governo, il Consiglio di tutta la terra. Era la prima volta che al zemskij sobor non partecipavano né la duma dei bojari, né la gerarchia ecclesiastica. Al suo interno avevano un ruolo decisivo la nobiltà di provincia e i Cosacchi. Queste forze, tuttavia, erano troppo diverse tra loro per mantenersi unite. Il capo riconosciuto delle Milizie, P. Ljapunov, fu sospettato di tradimento dai Cosacchi e giustiziato senza processo. Nel frattempo la situazione in politica estera era decisamente peggiorata. A conclusione di un assedio durato venti mesi, l’armata di Sigismondo iii conquistò Smolensk. Un mese e mezzo dopo, Novgorod fu presa dagli ex-alleati svedesi. I voevody e il metropolita di Novgorod costituirono lo stato di Novgorod e stipula-
296a-b. Onorificenza dallo zar Władysław, San Pietroburgo, Museo Ermitage.
414
rono con gli Svedesi un accordo per l’elezione a zar del figlio di Carlo ix. Il Movimento di liberazione nazionale stava per sfaldarsi, quando il patriarca Hermogen rivolse un appello al popolo per la salvezza del regno dagli eterodossi. Su ordine dei bojari e dei comandanti polacchi il patriarca fu posto sotto sorveglianza e dopo qualche mese morì in prigione, ma il suo appello diede al popolo nuovo coraggio. A Nižnij Novgorod il mercante Koz’ma Minin e il voevoda, principe Dmitrij Požarskij, organizzarono le Nuove milizie territoriali. Dopo lunghi e duri combattimenti intorno a Mosca le due milizie unite sbaragliarono l’armata polacca dello hetmano Jan Chodkiewicz e nell’ottobre del 1612 liberarono il Cremlino. Essendo uscite vittoriose dalla guerra civile, le Milizie territoriali ottennero la possibilità di disporre del trono, ma l’elezione dello zar non avrebbe avuto forza giuridica senza la partecipazione della duma dei bojari, che era l’organo supremo della monarchia. Mentre il governo dei bojari e la duma, che alloggiavano al Cremlino insieme alla guarnigione polacca, erano vincolati da giuramento allo zar Władysław, i principali pretendenti alla corona erano le famiglie dei Trubeckoj e dei Romanov, i cui nomi erano legati al campo di Tušino. D. Trubeckoj aveva ricevuto il titolo di bojaro a Tušino e aveva guidato la duma del «mariuolo»; Filaret Romanov era diventato patriarca a Tušino. Essendo il più noto esponente del Movimento di liberazione nazionale, Trubeckoj si preparava a salire sul trono, quando i suoi piani furono infranti dalla rivalità tra i capi delle Milizie. Per porre fine alla sanguinosa guerra civile occorreva un uomo che fosse accetto ad entrambe le parti contendenti e, soprattutto, che il popolo potesse riconoscere come zar. Michail Romanov possedeva queste qualità: egli aveva ereditato dal padre e dal nonno un nome popolare nel paese, suo padre Filaret aveva sofferto la prigionia polacca ed era considerato un martire della fede ortodossa, Michail aveva condiviso tutti i travagli della sua famiglia. Aveva passato l’infanzia in esilio, si era trovato adolescente nel Cremlino assediato. Questa circostanza non compromise la sua reputazione in considerazione della sua minore età. Inoltre, agli occhi del popolo, Michail come nipote dello zar Fedor rappresentava la dinastia legittima, che aveva felicemente retto la Russia per trecento anni. A Mosca fu convocato il zemskij sobor, che comprendeva rappresentanti dei dvorjanin, delle città e di alcuni volost’ rurali. Quando il sobor respinse la candidatura di Michail al trono, i suoi sostenitori si presentarono davanti al popolo sulla piazza Rossa. Nel tentativo di ostacolare l’elezione di Michail, i membri del sobor chiamarono a Mosca i grandi bojari che erano stati in precedenza allontanati dalla città. I bojari, compreso lo zio del candidato, si schierarono decisamente contro l’elezione di Michail. Allora la folla e i Cosacchi fecero irruzione nel Cremlino, circondando i palazzi di Trubeckoj e Požarskij e pretendendo l’elezione immediata dello zar. Il 21 febbraio 1613 il zemskij sobor nominò zar Michail Romanov. L’illusoria popolarità della dinastia estinta aveva elevato al trono un uomo che non si era distinto per qualità particolari, scombinando tutti i piani e i pronostici dei capi del sobor. La guerra civile aveva portato ad una frammentazione dell’impero, con la formazione di uno «Stato di Novgorod» staccato da Mosca, mentre erano in corso preparativi per la costituzione di un «Regno di Kazan’». L’avvento
al trono della nuova dinastia mise fine a questo processo di disintegrazione e creò una condizione favorevole al superamento dello stato di anarchia nel paese. Per alcuni anni lo zar Michail cercò di cacciare i Polacchi e gli Svedesi dalle terre russe, ma le sue truppe subirono ripetute sconfitte. Infine, servendosi della mediazione degli Inglesi, Mosca avviò negoziati di pace con la Svezia. Nel 1617 a Stolbovo, un villaggio situato sul confine tra i due paesi, fu sottoscritto l’accordo di «pace perpetua» tra Russia e Svezia. Gli Svedesi restituirono Novgorod, ma si tennero tutto il corso del fiume Neva e la Carelia. Nell’autunno del 1618 lo zar Władysław si avvicinò a Mosca nel tentativo di prendere la città e riconquistare con la forza il regno. L’impresa fallì e alla fine del 1618 la Russia e la Rzeczpospolita stabilirono una tregua di quattordici anni. La Russia perdeva Smolensk, \ernigov e altre trenta città. Il nuovo confine passava per le vicine vie d’accesso a Mosca. Il re Sigismondo iii creò i presupposti per una nuova guerra. *** Alla fine del xvi secolo si risvegliò in Russia la vita culturale. L’istituzione del patriarcato diede impulso allo sviluppo dell’editoria nel paese. Negli anni 1589-1610 Andronik Neveža e, dopo di lui, il figlio Ivan pubblicarono dieci libri. Nonostante gli sconvolgimenti del periodo dei Torbidi, a differenza di quanto era avvenuto nel secolo precedente, dall’inizio del xvii secolo l’attività editoriale non conobbe soste. La migliore delle edizioni di Neveža, l’Apostolo, ebbe una tiratura di 1.500 copie. Il libro a stampa, pur essendo di uso liturgico, veniva spesso usato come manuale per imparare a leggere e scrivere. Nel 1613 esistevano tipografie a Novgorod e Kazan’ che pubblicavano libri di contenuto patriottico. Boris Godunov aveva intenzione di dare ampio impulso all’istruzione nel paese. Durante il suo regno si progettò di istituire una università a Mosca e di invitare ad insegnarvi uomini di scienza dalla Germania, dall’Italia e da altri paesi occidentali. Nel 1602 per la prima volta furono mandati all’estero dei giovani a studiare le lingue, dapprima in Inghilterra a Cambridge, Oxford, Eton, poi a Lubecca e Vienna. Quando iniziò il periodo dei Torbidi in Russia essi furono abbandonati a se stessi e pochi fecero ritorno in patria. Il successore di Boris, il primo falso Dmitrij, era consapevole della necessità di istituire in Russia un sistema di istruzione. Prima di stabilirsi al Cremlino, egli aveva preso lezioni di filosofia, grammatica e letteratura dai gesuiti. Aveva in progetto di istituire delle scuole e un’Accademia e di chiamare insegnanti e studenti dall’Italia e da altri paesi occidentali, mentre giovani Russi sarebbero stati mandati a studiare in Occidente. Dopo essere salito al trono, l’impostore continuò a parlare di questi piani solo nelle sue conversazioni segrete con gli amici cattolici. Al padre Savickij promise di aprire in Russia, a tempo opportuno, un collegio gesuita e di provvedere per gli scolari russi un’istruzione scolastica a spese dello stato. Ma tutte le energie del falso Dmitrij furono spese nella lotta per il mantenimento del potere ed egli non si decise, seguendo l’esempio di Godunov, a mandare studenti russi all’estero, sebbene ne parlasse continuamente. Pieno di sospetto verso i bojari che lo circondavano, l’«imperatore» aveva confidato segretamente ai suoi amici stranieri di essere pronto a destituire i bojari dalle alte cariche dello stato e 415
nuovi generi, come quello della «visione». Sono note la Visione del protopope Terentij, il Racconto della visione di un uomo di chiesa, la Visione di Nižnij Novgorod. Erano opere che si prefiggevano uno scopo più politico che religioso, spesso si trattava all’origine di dicerie popolari che solo in un secondo momento trovavano forma scritta. Col cambiare della vita, si trasformarono anche le forme tradizionali, come la letteratura agiografica. Ne è un esempio la Vita di Ulianija Osor’inaja, scritta dal figlio. È l’ingenua e commovente storia della «via crucis» di una pia dvorjanka (vedova di un opričnik). La figura di Ulianija si distingue per le sue buone qualità; non è avida, le sventure non hanno soffocato in lei la compassione per il suo prossimo. Mentre imperversano la fame e la guerra civile, senza esitazioni impiega tutte le proprie sostanze per aiutare i suoi contadini e le persone bisognose. La tragedia della guerra civile fu all’origine di opere pubblicistiche di varia natura. Numerose furono le lettere anonime, i racconti-proclama di contenuto patriottico a sostegno del Movimento di liberazione nazionale. Una delle più note opere di questo genere è la Nuova cronaca del gloriosissimo regno russo, comparsa negli anni 16101611. Il risveglio della coscienza nazionale si esprimeva con motivi e concetti religiosi. Il pericolo della perdita dell’indipendenza nazionale veniva percepito come una minaccia alla sopravvivenza della fede ortodossa sotto l’assalto della «latinità».
ad affidare il governo dell’impero a Italiani, appositamente chiamati in Russia. All’inizio del xvii secolo si verificò un lento accumulo di conoscenze in diversi campi e si ebbe un aumento delle opere tradotte. Per alcuni decenni si lavorò al Libro della grande mappa, con un elenco completo di tutte le città russe, la descrizione delle strade e l’indicazione delle distanze tra i centri abitati. Boris Godunov commissionò 297 per l’erede al trono una carta dettagliata della Russia, che fu eseguita dallo straniero Hessel Herrits nel 1613. La stesura degli annali ufficiali di Mosca, che era stata interrotta durante il regno del Terribile, non fu ripresa nel periodo dei Torbidi. Gli annali tornarono a essere occupazione di privati. Si conservano brevi annotazioni di S. Šachovskoj, di d’jak ed ecclesiastici, privi di valore letterario. Il periodo dei Torbidi favorì l’inserimento della letteratura russa nell’ambito di quella europea. L’avvento al trono del primo falso Dmitrij e l’elezione al trono di Władysław facilitarono la conoscenza in Russia di opere di autori polacchi, come le Cronache di Marcin Bielski e di Stryjkowski, sulla cui base un autore moscovita stese nel 1617 la seconda e in seguito la terza redazione del Cronografo, con un’accurata descrizione dei paesi europei e un’esposizione degli eventi della storia russa. Il profondo sconvolgimento causato dai Torbidi, la maggiore diffusione di opere tradotte rinnovarono il sistema dei vecchi generi letterari e permisero la nascita di
297. Carta della Moscovia di H. Herrits, 1613.
delle autorità. Lo zar Vasilij Šujskij lo fece rinchiudere nel monastero di Iosif di Volokolamsk, lo zar Michail in quello di Kirill di Beloozero. Durante il soggiorno sul Lago Bianco il «libero pensatore» si pentì e ricevette il permesso di tornare a Mosca presso la corte. Chvorostinin fu uno dei primi «occidentalisti» nella Moscovia. Alla vigilia dei Torbidi l’architettura russa aveva avuto importanti sviluppi. Boris Godunov aveva un’autentica passione per le opere edili. Salito al trono, decise di innalzare una grandiosa cattedrale al centro del Cremlino. Questo progetto era legato all’istituzione del patriarcato in Russia nel 1589. Poiché la Madre di Dio era venerata come protettrice di Mosca, a lei era stato dedicato il principale santuario della Russia, la chiesa della Dormizione della Madre di Dio. La nuova cattedrale della Risurrezione del Signore (il «Santo dei santi») fu costruita sul modello del tempio di Gerusalemme, il santuario principale della Chiesa ortodossa universale. La nuova chiesa doveva dare lustro al patriarcato di Mosca. Nei giorni della sua elezione al trono Boris fece leva sul popolo. I vecchi templi, la cattedrale della Dormizione e la chiesa di San Basilio, potevano contenere solo un numero limitato di persone. Il giuramento al nuovo zar Boris si svolse nella cattedrale della Dormizione in una calca indescrivibile. La chiesa della Risurrezione del Signore doveva essere molto spaziosa per essere usata durante le cerimonie a cui partecipavano lo zar, la corte e il popolo. Essa sarebbe diventa-
Il contatto con la cultura «latina» (occidentale) influenzò in vario modo gli scrittori dell’inizio del xvii secolo. Durante le sue peregrinazioni in terra straniera, il primo falso Dmitrij ebbe modo di apprezzare i vantaggi dell’istruzione europea. Da zar amava fare la predica ai grandi dignitari, li rimproverava per la loro mancanza di istruzione, consigliava loro di recarsi a studiare all’estero. Questi discorsi fecero profonda impressione sul giovane favorito dello zar, il principe Ivan Chvorostinin. Il futuro scrittore non ebbe l’occasione di visitare la Polonia, ma intrecciò stretti rapporti con i Polacchi che erano a corte. La società polacca era piena di fermenti religiosi; ne era un esempio la comunità polacca di Kiev, nel cui seno convivevano cattolici, protestanti-antitrinitari, uniati. Chvorostinin studiò il latino e scandalizzò gli zelanti devoti di Mosca con la sua venerazione di icone cattoliche. Il principe scriveva versi seguendo le regole della versificazione polacca e in età avanzata scrisse le Memorie del periodo dei Torbidi. Gli entusiasmi che aveva coltivato in gioventù non lo abbandonarono mai; per molti anni aveva progettato di fuggire in Polonia o in Italia e aveva continuamente dimostrato simpatia per tutto quello che era straniero. Chvorostinin rimproverava i moscoviti per la loro idolatria (il culto sconsiderato delle icone), si prendeva gioco delle loro rozze abitudini, si lagnava amaramente perché: «a Mosca non c’è nessuno a cui accompagnarsi, tutti sono stupidi, seminano la segale e vivono di frottole». Chvorostinin fu più volte oggetto di persecuzione da parte
298. «La cittadella del Cremlino», pianta del Cremlino di Mosca, inizio xvii secolo.
416
417
lungo le quali erano disposte 28 torri. La nuova fortezza ricevette il nome di Città Bianca o dello Zar. Lo stesso architetto diresse anche la costruzione della fortezza di Smolensk (1596-1602). Le mura del Cremlino di Smolen- 300 sk arrivavano a uno spessore di 6-8 metri e ad un’altezza di 12-16 metri, le torri erano alte fino a 22 metri. La fortezza era difesa da 24 torri a tre piani. Le costruzioni di Fedor Kon’ meravigliavano i suoi contemporanei per la loro imponenza e bellezza. Il Cremlino di Smolensk era chiamato «il gioiello della terra russa». Alla fine del xvi secolo i monasteri promossero grossi lavori di costruzione. Nel monastero di San Simone presso Mosca la costruzione delle fortificazioni sembra sia stata diretta da Fedor Kon’. Nel monastero delle isole Solovki sul Mar Bianco fu elevata una roccaforte inaccessibile, ix/ costruita dal 1582 al 1602. L’architetto, il monaco Trifon 1-2; Kologrivov (proveniente da una famiglia di produttori di 301 sale del Nord) utilizzò procedimenti costruttivi tipici delle scuole di Novgorod e Pskov. Nella costruzione di mura e torri venivano utilizzati grossi massi per le fondamenta, mentre per le parti superiori venivano usati i mattoni. Le torri della fortezza, che stupiscono per la loro monumentalità, si fondono col paesaggio della rocciosa isola, le cui coste si elevano a picco sul mare. La loro copertura a guisa di tende di legno dava al complesso della fortezza una particolare forza espressiva. Alla fine del xvi secolo alcuni artisti di Mosca affrescarono le pareti del Palazzo a faccette nel Cremlino. Queste pitture sono scomparse, ma si è conservata una loro descrizione dettagliata, fatta da un artista del xvii secolo, Simon Ušakov. Il soggetto di questi affreschi era simile a
ta il nuovo centro dell’ortodossia mondiale. I lavori preparatori per la costruzione erano già stati fatti, i materiali raccolti, quando iniziò il periodo dei Torbidi e Boris morì senza aver realizzato il suo progetto. In previsione della costruzione del «Santo dei santi», su ordine dello zar, gli architetti avevano innalzato la torre di Ivan il Grande e vi avevano scritto il nome di Boris; in cima era stata posta una cupola d’oro che conferiva all’edificio un aspetto moderno. Il periodo del governo di Godunov fu caratterizzato dal ritorno dell’architettura a tenda. Su commissione dello zar Boris nel 1603 fu innalzata nei pressi di Možajsk la cattedrale di Boris e Gleb, la cui copertura a tenda aveva un’altezza di 74 metri (la chiesa non si è conservata). Relativamente presto in Russia sorse un nuovo tipo di piccola chiesa padronale e di villaggio con volta a crociera, caratteristica che permetteva di eliminare i pilastri di sostegno dentro l’edificio e quindi ampliare lo spazio interno. Con ogni probabilità, alla costruzione di alcune di queste chiese hanno partecipato maestri italiani. La comparsa del nuovo tipo di tempio viene associata alla lotta della Chiesa ortodossa contro l’eresia dei «giudaizzanti». Si ritiene che in questi edifici la forma a «croce» delle volte sottolineasse l’idea dell’incrollabilità del dogma trinitario e che questo originale tipo di volta sia scomparso una volta vinta l’eresia (M.A. Il’in). Una tale interpretazione appare forzata, in quanto la cosiddetta eresia dei «giudaizzanti» fu sradicata all’inizio del xvi secolo, mentre templi con volta a crociera vennero costruiti dalla metà del xvi secolo fin quasi alla fine del xvii secolo. Splendidi 299 esempi di questo tipo di edifici sono la chiesa della Trinità nel villaggio di Choroševo e il tempio della Trasfigurazione a Vjazemy, eretti nei possedimenti fuori Mosca di Boris Godunov. Entrambe le chiese appartengono al genere delle costruzioni padronali nelle tenute di principi e bojari. Sembra che siano state ultimate intorno al 1598, l’anno in cui il bojaro Godunov fu eletto al trono. La chiesa della Trinità nel villaggio di Choroševo e quella della Trasfigurazione furono costruite contemporaneamente dallo stesso architetto. La chiesa di Vjazemy poggia su un alto basamento, il cui zoccolo ha decorazioni simili a quello della cattedrale di San Basilio. L’armonioso edificio a quattro pilastri con due cappelle lungo i lati è coronato da sette cupole e circondato da una galleria ad ampie arcate aperte. Rivestite di pietra bianca, le chiese di Godunov si distinguevano per la loro particolare eleganza e grazia. L’architetto si rifece nelle decorazioni agli ornamenti della cattedrale dell’Arcangelo nel Cremlino di Mosca. Spesso gli edifici voluti da Boris avevano scopi filantropici. Durante gli anni della carestia egli fece aggiungere al vecchio complesso del palazzo reale una «corte in pietra» per consentire «alla gente di mangiare». Sopra i vecchi palazzi di Godunov il falso Dmitrij fece elevare un sontuoso palazzo in legno in stile polacco. Davanti al palazzo dello zar furono per la prima volta collocate delle statue, i cosiddetti bolvany. Sul trono russo sedeva uno zar «criptocattolico», che favorì la penetrazione di novità occidentali. Ma il regno dell’impostore fu di breve durata. Le guerre del Terribile portarono a una lunga interruzione nella costruzione delle grandi fortezze in pietra. Passato a una politica di pace, Godunov fece costruire per la difesa del paese una serie di imponenti fortificazioni. Negli anni 1585-1591 l’architetto Fedor Kon’ circondò Mosca con una nuova cerchia di spesse mura in pietra,
quello delle pitture del Palazzo d’oro, eseguite ai tempi del Terribile. Soggetti biblici si alternavano a proverbi e scene tratte dalla storia russa, tra cui facevano mostra di sé i ritratti dello zar Fedor e del reggente Godunov. Le pitture del Palazzo d’oro celebravano le imprese militari di Ivan iv; gli affreschi del Palazzo a faccette intendevano esprimere la clemenza e la mitezza del potere zarista. Boris Godunov e i membri della sua famiglia mostrarono grande interesse per l’arte, commissionarono affreschi e icone agli artisti migliori, incoraggiarono i pittori. La chiex/5 sa nella tenuta di Boris Godunov a Vjazemy era decorata con pitture dedicate alla Trinità. Dopo la morte dello zar Fedor, la vedova Irina Godunova andò a vivere nel monastero di Novodevi/ e ne fece affrescare la cattedrale. È possibile parlare di una particolare «scuola di Godunov» della fine del xvi secolo, a cui viene contrapposta la «scuola degli Stroganov». Bisogna, comunque, ricordare che si tratta di termini convenzionali. L’origine della «scuola degli Stroganov» veniva inizialmente collegata alla bottega iconografica degli Stroganov, ricchi produttori di sale provenienti dal villaggio di Sol’vy/egodsk nel Nord della Russia. In seguito si notò che gli iconografi degli Stroganov dipingevano seguendo diverse maniere ed erano per la maggior parte semplici artigiani. Gli artisti che formavano la cosiddetta «scuola degli Stroganov» erano in realtà al servizio dello zar e lavoravano a Mosca. I migliori tra loro dipingevano icone su commissione dello zar Fedor e di Boris Godunov. Le loro icone erano di piccole dimensioni e caratterizzate da un disegno minuto e preciso, che i contemporanei chiamavano «miniaturizzato». Gli Stroganov le pagavano molto profumatamente. Durante i Torbidi, i possedimenti degli Stroganov sfuggirono alle distruzioni e i capolavori da loro acquistati si conservarono in buone condizioni, circostanza che spiega l’origine del termine «scuola degli Stroganov». Le caratteristiche che contraddistinguono la maniera degli artisti di questa «scuola» sono: il disegno raffinato, la ricchezza dei colori, il virtuosismo tecnico unito a un singolare formalismo, un particolare interesse per la tecnica del disegno, curata fino alla perfezione. Esempio tipico di tale maniera è la piccola icona di Prokopij \irin San Nicola guerriero. La figura del guerriero non dà un’impressione di forza, ma di debolezza e delicatezza, con le sue mani sottili che reggono la spada, le esili gambe piegate alle ginocchia e i piedi che appena sfiorano il terreno. «È caratteristico il gesto lezioso della mano, sollevata a livello della spalla, col polso piegato verso il capo chino» (Ju.N. Dmitriev). Il volto di Nikita guerriero è sof-
fuso di pallore e la sua ricca corazza, tempestata d’oro e pietre preziose, è dipinta con grande cura dei particolari. Con \irin lavoravano a Mosca gli iconografi Istoma e Fedor Savin, alla cui famiglia appartenevano anche i più giovani Nikifor e Nazarij Istomin Savin. Sono famosi i lavori eseguiti da Nikifor insieme a \irin; a lui vengono attribuite le icone San Giorgio e il drago (prima metà del ix/4 xvii secolo) e II miracolo di Feodor Tiron (inizio del xvii secolo). Quest’ultima icona è dedicata al tema dell’amore filiale. Il giovane Fedor Tiron sfida a duello e sconfigge il mostro che tiene prigioniera sua madre. Ritroviamo la maniera della «scuola degli Stroganov» anche in Semën Borozdin, autore dell’icona della Madre di Dio Bogoljubskaja con santi (fine del xvi-inizio del xvii ix/3 secolo). La «scuola degli Stroganov» viene considerata un fenomeno di esotismo nella pittura russa, che rispondeva al gusto di una cerchia ristretta di ricchi committenti. L’opera d’arte, che doveva esprimere uno stato di ispirata preghiera, veniva trasformata dalla maniera «degli Stroganov» in oggetto prezioso, destinato, più che ad una chiesa, ad impreziosire collezioni private. Durante l’epoca di Godunov continuò a svilupparsi il genere della miniatura. Uno dei migliori esempi di questo tipo sono le illustrazioni della Vita di Sergio di Radonež (anni 1590). Nel libro attirano l’attenzione soprattutto le ix/5 scene di vita quotidiana e le rappresentazioni dei miracoli: Sergio fonda il monastero nel mezzo di un bosco impenetrabile, le bestie escono dal folto verso l’asceta, la battaglia di Kulikovo, ecc. Si ha motivo di ritenere che le miniature della Vita siano state eseguite da artisti appartenenti a quelle stesse botteghe di Mosca che ai tempi del Terribile avevano disegnato le miniature per il Licevoj svod (Corpo illustrato). Verso la fine del secolo si verificarono alcuni cambiamenti nello stile artistico delle miniature, che si manifestarono nel disegno delle figure, con proporzioni allungate che ricordano la scuola di Dionisij, e in una certa ricercatezza coloristica (V.D. \ernyj). Alla fine del xvi secolo si ebbe una fioritura dell’oreficeria in Russia. Uno dei capolavori prodotti a quel tempo è la Panagija (medaglione o piccola icona portata al petto dagli ecclesiastici), regalata dallo zar Fedor e da Irina Godunova a Iov in occasione della sua elezione a patriarca nel 1589. La Panagija porta l’immagine del Crocifisso, intagliato su un’agata a due strati. Anche se il lavoro è in stile bizantino, ci sono elementi per pensare che sia stato eseguito da un maestro italiano. La raffinata montatura del cammeo fu preparata a Mosca alla fine del xvi secolo.
300. Smolensk, fortezza, 1596-1602, architetto Fedor Kon’.
299. Chiesa della Trinità a Choroševo, 1598.
418
419
italiano eseguì la raffigurazione della Trinità. Un altro italiano, l’orafo Ascentini, eseguì, sempre per lo zar Boris, una Crocifissione intagliata in agata. Nonostante la fame e lo sfacelo in cui si trovava il paese, ai tempi di Godunov il tesoro del Cremlino si riempì di molti oggetti preziosi. Il suo successore, il primo falso Dmitrij, che aveva un debole per il lusso, spese enormi somme per acquistare oggetti che faceva venire dalla Polonia e dalla Rzeczpospolita. Durante i Torbidi, però, il tesoro che i sovrani di Mosca avevano raccolto nel corso di alcuni secoli fu depredato. Molti oggetti antichi bizantini e russi di incalcolabile valore artistico e storico furono rifusi dalla Zecca o vennero usati per pagare i mercenari, che ne stabilivano essi stessi il valore. Tra le botteghe dove veniva praticato il ricamo artistico alla fine del xvi erano particolarmente rinomate quelle che lavoravano per Irina Godunova. Le icone ricamate dagli artigiani della zarina apparivano come dipinti su tela. Ai tempi di Boris e del primo falso Dmitrij la Corte della zecca di Mosca continuò ad emettere monete d’oro. Su ordine di quest’ultimo fu preparata la più grande moneta d’oro, un portogallo (del peso di dieci ducati unghe- 302 resi), con un’aquila come stemma. Nello stesso periodo in Polonia fu coniata un’onorificenza d’oro col ritratto dello «zar Dmitrij» e un’iscrizione latina (inizio del xvii secolo, 303 Museo Ermitage).
Dopo l’ascesa al trono, Boris Godunov commissionò una nuova corona con ricche ed eleganti rifiniture. Negli anni dei Torbidi questa corona fu spezzata e usata per pagare i soldati mercenari. Il falso Dmitrij, che subentrò a Boris sul trono di Mosca, commissionò una corona che per ricchezza e magnificenza avrebbe dovuto offuscare quelle di tutti i suoi predecessori, ma gli artigiani non fecero in tempo a ultimarla. Autentici capolavori di oreficeria sono il turibolo e gli altri oggetti di culto preparati nel 1598 su commissione della zarina Irina Godunova per la tomba dello zar Fedor nella cattedrale dell’Arcangelo. Il turibolo ha la forma di una chiesa cubica a una cupola, coronata da kokošniki riccamente ornati e una cupoletta a bulbo sul tamburo. Le decorazioni presentano motivi vegetali con fiori e foglie. Sulle pareti sono raffigurati gli apostoli e i santi protettori dei membri della famiglia reale. Le figure dei santi sono piene di grazia e naix/7 turalezza. Il turibolo è decorato con grosse pietre preziose. Nel xvi secolo gli orafi di Mosca raggiunsero la perfezione nella decorazione degli oggetti d’oro con smalti, niellature, pietre preziose (zaffiri accoppiati a smeraldi e rubini). Le pietre, prive di faccettatura, avevano una forma irregolare e sortivano l’effetto di vive macchie di colore. Per ordine di Godunov i migliori maestri di corte fecero una nuova copertura con smeraldi per l’icona della Trinità di Andrej Rublëv. Su uno degli smeraldi un artista
302a-b. Moneta d’oro del primo falso Dmitrij. 303a-b. Onorificenza del primo falso Dmitrij, San Pietroburgo, Museo Ermitage.
301. Monastero delle Solovki, torre dell’Arcangelo, 1582-1594.
420
Capitolo iv La Russia sotto i primi Romanov
La guerra civile fu per la Russia un’autentica catastrofe, dalla quale il paese si risollevò molto lentamente. La popolazione era diminuita considerevolmente, le terre arate erano state per buona parte abbandonate e si erano nuovamente coperte di boschi. Ne soffrirono soprattutto i distretti centrali e la regione di Novgorod, che, un tempo fiorente, 308 si era trasformata in una terra desolata. Lo zar Michail era salito al trono molto giovane, era di mediocri capacità e non aveva né esperienza, né predisposizione per gli affari di stato. La posizione della dinastia si rafforzò quando dalla prigionia in terra polacca tornò il padre di Michail, Filaret, che nel 1619 fu eletto patriarca. Egli prese il titolo di «grande sovrano» che veniva attribuito solamente al monarca. Di fatto la Russia si ritrovò ad avere di nuovo due signori; ma Filaret aveva un carattere forte e un’enorme esperienza e Michail dovette sottomettersi all’autorità del genitore. La posizione della nuova dinastia non era ancora consolidata. I Romanov non erano in grado di governare e raccogliere le tasse senza il sostegno del zemskij sobor. Per quasi dieci anni i rappresentanti elettivi delle città si riunirono periodicamente a Mosca. Queste assemblee ebbero un potere rea le per breve tempo, di fatto nel periodo di interregno; col rafforzarsi del potere dello zar la loro importanza diminuì. Con Filaret venivano convocate solo persone selezionate dalle autorità, a cui il monarca comunicava il proprio volere, ascoltando poi le loro risposte servili. Presto le autorità smisero di convocare i sobor. La morte di Filaret e la pesante sconfitta della Russia nella guerra contro la Rzeczpospolita favorirono una ripresa della pratica assembleare. Ci fu chi tentò di approfittare di questa circostanza. Nel 1634 il nobile dvorjanin I.A. Buturlin propose di istituire nella capitale un organo permanente, composto dai rappresentanti dei «migliori tra la gente d’armi di Mosca», dei bojari residenti nelle province e della popolazione delle città, che avrebbero dovuto risiedere a Mosca e riferire al «sovrano il vero su ogni crimine e offesa da chiunque commessi». I rappresentanti avrebbero dovuto cambiare periodicamente. Il progetto di Buturlin non fu realizzato. I sobor in Russia non portarono alla formazione di un parlamento, perché l’organizzazione politica dello stato, con una monarchia assoluta affiancata dalla duma dei bojari e da una Chiesa forte, non lasciava spazio ad istituzioni in cui venissero rappresentate tutte le classi sociali. Il sistema amministrativo e la proprietà statale in Russia erano strettamente connessi. L’indebolimento del potere durante il periodo dei Torbidi accentuò la crisi del sistema del pomest’e. Le indiscriminate confische ordinate da zar e impostori dissanguarono il fondo di terre destinate al pomest’e. I dvorjanin che si erano distinti al servizio del sovrano incominciarono ad ottenere per sé in possesso permanente, secondo il diritto feudale, i pomest’e migliori, mentre l’erario metteva in vendita quelli abbandonati. Gradualmente il pomest’e perse la sua importanza come
forma principale di proprietà della terra. Il rapporto approssimativo tra votčina e pomest’e nella prima metà del xvii secolo era di 2 a 3, mentre nella seconda metà del secolo era di 3 a 2. La comunità istintivamente tendeva a liberarsi da un peso troppo gravoso. La disgregazione della proprietà statale non si limitò alla riduzione dei fondi destinati ai pomest’e. Cedendo alle richieste dei dvorjanin, le autorità consentirono lo scambio tra pomest’e e votčina, estesero i diritti di ereditarietà dei pomest’e, e così via. Il governo non era in grado di garantire alle nuove generazioni di pomeščiki l’assegnazione delle terre e ciò era fonte di continuo malcontento tra i dvorjanin. Nell’estate del 1641 i dvorjanin delle province, riunitisi a Mosca per una rivista militare, chiesero l’aiuto delle autorità e, non avendolo ottenuto, fecero rumorosamente irruzione nel palazzo dello zar e consegnarono una supplica «circa tutti i nostri bisogni e ingiurie ricevute». Nel gennaio del 1642 fu convocato il zemskij sobor, con la partecipazione dei rappresentanti delle città. Nuovamente i dvorjanin usarono il sobor per lagnarsi della propria «povertà». La rovina economica dei dvorjanin nascondeva una minaccia di nuovi Torbidi, ma c’era dell’altro. Le milizie equestri dei dvorjanin, che si erano rapidamente ridotte a causa della crisi, non erano in grado di fronteggiare le armate dei mercenari occidentali sul campo di battaglia. Premuto da queste circostanze, il governo diede inizio alla riforma dell’esercito. In preparazione alla guerra contro la Polonia, con l’aiuto della Svezia formarono e armarono i primi battaglioni «di tipo straniero», ovvero organizzati secondo i modelli occidentali. I Torbidi fecero vacillare il potere dello zar e inevitabilmente conferirono maggiore potere alla duma dei bojari. Un testimone del tempo, il d’jak G. Kotošichin, scriveva che Michail non poteva fare niente senza il consiglio dei bojari. Il sistema del mestničestvo, che regolava i rapporti tra i bojari che svolgevano funzioni di governo, esisteva in Russia da più di un secolo e si era dimostrato straordinariamente solido. Le cariche più prestigiose erano assegnate a persone i cui antenati avevano con successo servito la dinastia dei Kalita, che si erano distinti per nobiltà o che, soprattutto, erano imparentati con la dinastia. Subito dopo l’avvento al trono di Michail, i bojari Morozov-Saltykov acquistarono una posizione di rilievo a corte (la madre di Michail era una Morozov). Non solo essi si occupavano degli affari di stato, ma si intromettevano nella vita personale del sovrano. Michail era fidanzato con una fanciulla della famiglia dei Chlopov, che piaceva allo zar ma non andava a genio ai Saltykov, i quali riuscirono a farla esiliare in Siberia. Michail non poteva dimenticare la fidanzata e Filaret, col pretesto del «tradimento», sostituì tutti i bojari ai vertici del governo. I Saltykov furono privati dei loro feudi e del rango e il loro posto fu occupato dai principi \erkasskij. 421
304-305. Villaggio di Jadrovoe; Campagna di Kolomna, disegni dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg.
I Romanov si rassegnarono a vedere seduti nella duma dello zar i «grandi bojari», che una volta li avevano condannati e consegnati alla vendetta di Boris Godunov. A quel tempo Filaret li aveva dichiarati suoi peggiori nemici. Per assicurarsi il sostegno dei dvorjanin nobili, Michail aveva generosamente distribuito loro posti nella duma, che durante il suo regno divenne numerosa e influente come mai in precedenza. Michail si faceva chiamare monarca assoluto, ma non aveva un potere illimitato. Dopo il ritorno di Filaret dalla prigionia il numero dei membri della duma fu ridotto. L’esperienza dei Torbidi aveva insegnato a Filaret che la stabilità del trono dipendeva dalla fedeltà dei reparti degli strelizzi di guardia al Cremlino. Il denaro e il pane necessari per pagarli venivano raccolti tra la popolazione. La tassa, denominata «denaro degli strelizzi», divenne col tempo la maggiore imposta diretta, la più gravosa per il popolo. Lo zar e il patriarca beneficavano continuamente gli strelizzi, invitavano i loro comandanti a palazzo, assegnavano loro onorificenze e ricostituirono il corpo degli strelizzi della capitale. Di Filaret si diceva che era «di carattere iracondo», vendicativo e che lo stesso zar lo temeva. Nonostante la rigida osservanza dell’etichetta di corte, Michail era completamente sottomesso ai genitori. La sua prima fidanzata, Chlopova, fu richiamata dalla Siberia. Essa piaceva allo zar, ma per volere dei genitori Michail non sposò lei, bensì la principessa Dolgorukaja e, dopo la sua precoce morte, si unì alla Strešnevaja, proveniente da una famiglia di funzionari di bassi natali, arrivati ad occupare un posto nella duma grazie al favore del primo falso Dmitrij.
Tra di loro, i nobili parlavano della nuova dinastia senza alcun rispetto. I principi Šachovskoj si divertivano a magnificare come zar «in modo beffardo e oltraggioso» uno dei membri della loro famiglia, mentre gli altri facevano i bojari. Questi scherzi costarono loro il confino in Siberia. In politica estera i Romanov si adoperarono per recuperare i territori russi perduti. Nel xvii secolo la Svezia era diventata una potenza militare di prim’ordine e la Russia aveva motivi per contare su un’alleanza con gli Svedesi nella guerra contro la Rzeczpospolita. Dopo la morte di Sigismondo iii in Polonia il trono era vacante. Fu in questo frangente che vennero a scadere i termini della tregua tra la Russia e la Polonia. Filaret premeva per iniziare le operazioni di guerra, approfittando del momento. La guerra di Smolensk (1632-1634) iniziò felicemente per i Russi, che liberarono molte delle città che dopo i Torbidi erano passate alla Rzeczpospolita. Il grosso dell’esercito zarista, comandato dal bojaro Šein-Morozov, pose l’assedio a Smolensk. Dopo un anno, però, l’assedio si concluse con una disfatta; il neoeletto re Władysław inflisse una sconfitta a Šein, obbligandolo alla resa. Secondo le condizioni della pace di Poljanovsk i Russi dovettero evacuare le truppe dalle città da loro occupate; dal canto suo, Władysław rinunciò al titolo di zar e riconobbe la legittimità dell’elezione dei Romanov al trono di Mosca. Il tribunale dei bojari decise la decapitazione di Šein, uno degli eroi del periodo dei Torbidi. Con questo atto i «grandi bojari» dichiararono il loro odio verso il governo del patriarca Filaret, morto da poco, di cui Šein era stato il più affiatato collaboratore.
306-307. Monastero della Trinità sull’Il’men’; Villaggio di Golino, disegni dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg.
422
La guerra di Smolensk dimostrò che, a causa del suo dissesto interno, lo stato di Mosca non era in grado di riacquistare la propria potenza militare. Nel 1645 lo zar Michail morì e gli successe al trono il figlio sedicenne Aleksej. Il governo passò nelle mani dell’istitutore dello zar, il bojaro B.I. Morozov, che rafforzò la propria posizione a corte dando in moglie ad Aleksej la giovane Miloslavskaja, di cui poi egli sposò la sorella. Morozov era un uomo di non comuni doti e di larghe vedute e nutriva interesse per le novità occidentali. Era un amministratore solerte dei propri possedimenti ed aveva capacità imprenditoriali. Sulle sue terre egli avviò l’estrazione dei minerali di ferro, costruì una ferriera e uno stabilimento per la produzione della potassa. La vendita della potassa sui mercati occidentali gli procurò grossi guadagni. Diventato potente, Morozov cercò di sfruttare la propria esperienza per rimettere in sesto le finanze dello stato. Le riforme da lui progettate contraddicevano le antiche consuetudini della Moscovia. Fu abolita la principale imposta diretta, il denaro degli strelizzi, e introdotta una imposta particolare sul sale. Si pensava, così, che i sudditi non sarebbero stati in grado di evadere il pagamento della tassa e, nello stesso tempo, che nessuno avrebbe pagato «in sovrappiù». Nei paesi occidentali (in Francia) da tempo veniva usato il sistema di tassazione indiretta e soprattutto la tassa sul sale serviva a rimpinguare le casse dello stato. A Mosca si decise di fare altrettanto, senza considerare che i rapporti commerciali e il giro di capitali in Russia erano a un livello primitivo in confronto all’Occidente. La riforma ebbe come unico esito di ridurre drasticamente il commer-
cio di sale nel paese. Non solo il popolo, ma anche i piccoli dvorjanin limitarono il consumo di sale e smisero di acquistarlo, dovendo pagare una tassa che era notevolmente più alta del suo prezzo di mercato. Visto che le entrate del fisco erano calate di netto, le autorità abolirono la tassa sul sale e disposero di raccogliere il «denaro degli strelizzi» relativamente ai due anni precedenti. L’erario si trovò privo dei fondi sufficienti per dare la paga agli strelizzi, circostanza che ebbe serie conseguenze. Nell’estate del 1648 Mosca fu sconvolta dai disordini. Per alcuni giorni folle di moscoviti saccheggiarono i palazzi dei ricchi. Gli strelizzi si rifiutarono di ubbidire agli ordini e di sparare sul popolo. Morozov e i suoi collaboratori non erano certo peggiori dei governanti precedenti; anzi, si erano preoccupati di alleggerire le sorti del popolo, motivo per cui avevano introdotto la tassa sul sale. Però la riforma non aveva avuto buon esito e la popolazione era inferocita nei confronti delle autorità per aver dovuto rinunciare al sale per due anni. Lo zar fu costretto a consegnare alla vendetta della folla Leontij Pleš/eev, capo del Dicastero territoriale (che garantiva l’ordine pubblico nella capitale), e P. Trachaniotov, capo di un altro dicastero. Il d’jak N. \istoj, che era considerato l’iniziatore della tassa incriminata, fu ucciso nel cortile di casa sua. Lo zar Aleksej con grande fatica riuscì a salvare il Morozov, che fu condotto sotto scorta via dalla città nel luogo del suo confino sul Lago Bianco. Nella duma intervennero contro Morozov il fratello dello zar I.I. Romanov e Ja.K. \erkasskij. I bojari a gara cercavano di guadagnare alla propria causa la guarnigione degli strelizzi. Ja.K. \erkasskij divenne capo del Dicastero degli strelizzi. Tuttavia, non appena i tumulti nella capitale si calmarono, lo zar richiamò Morozov e affidò la direzione del Dicastero degli strelizzi al bojaro I.D. Miloslavskij. L’erario distribuì agli strelizzi forti somme di denaro e i fomentatori della rivolta furono senza troppa pubblicità spediti al confino. I dvorjanin e i mercanti della capitale, approfittando della confusione in cui si trovava il potere centrale, riuscirono a convocare il zemskij sobor. I rappresentanti arrivarono nella capitale intorno al primo di settembre del 1648 e nel gennaio del 1649 una commissione, diretta dal principe I.I. Odoevskij, presentò al sobor un nuovo codice di leggi, che ricevette la denominazione di Codice del sobor. Come veniva indicato nell’istruzione dello zar, i compilatori del Codice dovevano attenersi alle regole apostoliche e alle leggi degli «imperatori greci» (il Codice bizantino). Inoltre, i legislatori dovettero tener presente le richieste di dvorjanin e mercanti, che avevano fatto loro pervenire istanze collettive. Da molto tempo i dvorjanin tentavano di ottenere il diritto di cercare i propri contadini fuggitivi a tempo indeterminato, senza la limitazione del periodo fissato dalla legge. Il sobor, su richiesta della gente d’armi «di tutte le città», approvò la legge sui contadini, con la quale essi venivano definitivamente legati alla terra. I dvorjanin richiedevano continuamente allo zar l’assegnazione di pomest’e, ma l’erario non disponeva di territori liberi. Al zemskij sobor essi proposero di sequestrare le terre che la Chiesa aveva acquistato eludendo i divieti di Ivan iv. Negli ambienti di corte si aveva timore ad opporre un rifiuto a tale richiesta; inoltre lo zar Aleksej aveva accolto la supplica dei dvorjanin e aveva dato ordine di preparare tutta la documentazione necessaria. Ciò che non era riuscito a Ivan iii e a Vasilij iii stava per essere realizzato da Aleksej. L’erario e i dvorjanin guardavano con invidia ai fiorenti possedimenti ecclesiastici e avrebbero volentieri proceduto alla loro secolarizzazione
308. Lo zar Michail Fedorovič, incisione dal libro Descrizione di un viaggio a Mosca di A. Oleari.
423
Tavole a colori X
1
2
3
4
5
6
1. Chiesa di San Giovanni Battista a D’jakovo, 1547.
7. Uglič, chiesa della Natività di San Giovanni Battista, 1681, e chiesa della Dormizione («Mirabile»), 1628.
2. Aleksandrovskaja sloboda, torre campanaria. 3. Vologda, chiesa della Resurrezione e cattedrale della Santa Sofia, 1568-1570.
8. Mosca, monastero di Novodevič.
4. Aleksandrovskaja sloboda, cattedrale della Protezione della Madre di Dio (1513) e torre campanaria (1570-1571).
9. Rostov Velikij, Cremlino, veduta di insieme.
5. Chiesa della Trinità a Vjazemy, 1591. 6. Mosca, chiesa della Trinità a Nikitinki, 16281631.
10. Mosca, monastero di Novodevič, torre campanaria, 1683-1690, 1704. 11. Monastero di Nuova Gerusalemme, torre angolare, 1690-1694, architetto Jakov Buchvostov.
7
8
9
10
12. Chiesa della Madre di Dio del Segno a Dubrovicy, 1690-1704. 12
424
11
per risolvere le proprie difficoltà economiche. Ma l’opposizione dell’alto clero era troppo forte e lo zar non trovò unanimità perfino tra i suoi più stretti collaboratori. Ci si limitò a ribadire la validità delle leggi del Terribile che vietavano alla Chiesa di estendere i propri possedimenti terrieri. Gli abitanti di Mosca erano danneggiati dall’esistenza all’interno della città di vaste aree urbane, chiamate sloboda «bianche», i cui abitanti non pagavano le tasse insieme alla gente «nera» (coloro che erano soggetti al pagamento delle imposte). Per sfuggire ai tributi dovuti allo zar gli abitanti della città si mettevano sotto la protezione di bojari e clero. La maggior parte delle aree «bianche» appartenevano a N.I. Romanov, ai \erkasskij, ai Saltykov e al patriarca, mentre B.I. Morozov non ne possedeva alcuna. I bojari anziani durante la rivolta sfruttarono abilmente gli umori dei moscoviti per aizzare la folla contro Morozov. Ma il reggente trovò un modo sicuro per spezzare le trame dei suoi nemici. Nonostante l’opposizione del patriarca e dei bojari anziani della duma, il zemskij sobor stabilì di confiscare a beneficio dell’erario tutte le sloboda «bianche» e obbligarle a pagare i tributi insieme al resto della comunità cittadina. Poiché era di carattere debole, lo zar Aleksej cercava sostegno tra le persone che gli erano più vicine. Dapprima egli si sottomise completamente all’autorità dello «zietto» (dell’istitutore), poi dell’ecclesiastico Nikon. Nikita Mini/ (da monaco Nikon) era nato da un contadino mordovo nei pressi di Nižnij Novgorod. A vent’anni Nikita divenne sacerdote e, in seguito, andò a vivere nello skit di Anzersk sul Mar Bianco, dove si fece monaco. A trent’anni divenne igumeno di un piccolo monastero sul lago Kiži; dopo tre anni fu per caso notato dallo zar e da allora ebbe inizio la sua brillante carriera. Nikon aveva un carattere forte e passionale, la sua devozione e rettitudine destavano grande stupore in quelli che gli stavano attorno. Subito dopo aver conosciuto Nikon, lo zar lo nominò archimandrita nel monastero del Salvatore Nuovo, il monastero di famiglia dei Romanov. Secondo le dichiarazioni dei testimoni, nei giorni della sommossa a Mosca si trovò un monaco, da tutti rispettato per la vita esemplare e lo zelo nella fede, che «domò la rabbia del popolo con la sua opera di convincimento». Si suppone che questo monaco fosse Vonifat’ev, ma tale ipotesi è senza fondamento, poiché Vonifat’ev non era un monaco e la gente a quel tempo sapeva con sicurezza distinguere il clero nero da quello bianco. Nikon aveva un carattere indocile e a lui, quindi, più si addiceva il ruolo di domatore della rivolta. Lo zar apprezzò moltissimo i servigi dell’archimandrita e sei mesi dopo la fine dei tumulti lo nominò metropolita di Novgorod. In quegli anni ci furono rivolte in altre città della Russia. Nel 1650 il popolo insorse nei due grossi centri di Novgorod e Pskov. A differenza dei voevody, che non sapevano
cosa fare, Nikon agì a Novgorod con la stessa energia che aveva dimostrato a Mosca. Non appena iniziò la rivolta egli scagliò la scomunica contro i caporioni, di cui fece i singoli nomi, e contro tutti i partecipanti. In risposta furono suonate le campane a martello e gli abitanti della città si riversarono nel cortile del metropolita e lo assalirono con osceni vituperi, ma questi rimase calmo e continuò a persuadere gli insorti. Tale comportamento rafforzò la fiducia del monarca in Nikon. Aleksej andava fiero del suo legame di sangue con il Terribile e amava leggere opere storiche su di lui. Uno degli episodi più drammatici nella storia di Ivan iv era stata l’esecuzione del metropolita Filipp, il cui martirio fu per la prima volta dettagliatamente descritto dal principe Kurbskij. Ai tempi di Fedor i monaci delle Solovki avevano ottenuto il permesso di trasportare nel loro monastero il corpo del metropolita che si trovava nel monastero del Fanciullo di Tver’, facente parte della diocesi di Novgorod. Nikon aveva seguito con vivo interesse l’iniziativa dei monaci e, senza tenere in alcun conto le simpatie di Aleksej, convinse il sovrano a scrivere una lettera di pentimento al martire Filipp da parte del carnefice Ivan. Dopodiché andò a prendere il corpo di Filipp alle Solovki e lo portò a Mosca, dove gli fu data nuova sepoltura nella chiesa principale del Sacro impero russo. Durante il viaggio di Nikon alle Solovki morì il vecchio patriarca e Aleksej offrì la dignità vacante al suo amico metropolita. La cerimonia della sua nomina si svolse accanto alle reliquie di Filipp Koly/ev nella cattedrale della Dormizione. Poiché Filipp aveva rifiutato per due volte la carica, seguendo il suo esempio Nikon rinunciò al patriarcato prima che la cerimonia finisse. Lo zar non si aspettava una simile conclusione e cadde ai piedi del metropolita. Dovettero seguire il suo esempio anche i bojari e gli altri presenti. In risposta alla supplica dello zar, Nikon rivolse una domanda alla duma e al popolo: «Lo onoreranno come pastore e padre, gli consentiranno di organizzare la Chiesa?». Il senso di questo discorso era estremamente chiaro: Nikon esigeva poteri speciali per portare avanti la riforma della Chiesa. Nikon credeva che la Russia avesse la missione di salvare l’ortodossia e liberare i popoli slavi in catene. Lo zar Aleksej non aveva le qualità del condottiero, ma il patriarca lo convinse a guidare una campagna in terra polacca per portare aiuto alle genti ortodosse dell’Ucraina. Per controllare il comportamento dei bojari tra i soldati e nelle retrovie il monarca istituì il Dicastero degli affari segreti. Questa istituzione, comparsa ai tempi della massima potenza di Nikon, non svolgeva le funzioni di polizia politica; era, piuttosto, la cancelleria privata del sovrano, chiamata a controllare l’operato della duma. Tutti i dicasteri della Russia erano di fatto diramazioni della cancelleria della duma. Il nuovo dicastero divenne un’eccezione: alla sua testa era
309. Novgorod, disegno dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg.
440
441
310. Pskov, disegno dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg.
un funzionario fidato, che non faceva parte della duma e che avrebbe perso il suo incarico non appena fosse entrato a farne parte. Ad ogni bojaro in partenza per la guerra lo zar affiancava un funzionario del Dicastero segreto, con il compito di «osservare» tutto e riferire immediatamente a Mosca. Per la corrispondenza il Dicastero usava spesso codici segreti, composti dallo stesso zar. La tutela dei bojari da tempo pesava allo zar. In una lettera inviata a Nikon alle Solovki egli comunicava di avere mandato in pensione il vecchio maggiordomo e aggiungeva con orgoglio: «Tutti ora a Palazzo mi temono e fanno tutto con sollecitudine». Il patriarca Nikon doveva aiutare lo zar a restaurare il potere forte, grandioso e «terribile». Ricordando il nonno Filaret, Aleksej attribuì a Nikon il titolo di «grande sovrano» e dopo la partenza dello zar per la guerra il governo dello stato passò di fatto nelle sue mani. Egli si occupava del reclutamento delle truppe, dei rifornimenti per l’esercito, e così via. Il patriarca non nascondeva la sua forte ostilità nei confronti del Codice del sobor. Egli riuscì a far cessare le confische delle sloboda «bianche» di proprietà della Chiesa. Eludendo la legge, il patriarcato ricevette dall’erario grosse concessioni di terre. Nikon trattava i bojari senza alcun rispetto, li ingiuriava perché infrangevano le regole del digiuno, li obbligava a lunghe ore di anticamera per essere ricevuti da lui. Dai sottoposti esigeva incondizionata ubbidienza. I sacerdoti che si macchiavano di qualche colpa venivano picchiati, imprigionati o esiliati in Siberia. Ivan Neronov, che era stato amico del patriarca, una volta gli disse con amarezza: «Quale onore te ne viene, santo padre, ad essere temuto da tutti», «mi meraviglio, non si sente più l’autorità del sovrano, dello zar, tutti hanno paura di te…». Nikon era un fautore della restaurazione dell’impero. Quando le truppe russe occuparono la capitale della Lituania, egli fece pressione perché la cattolica Lituania fosse annessa alla Russia e consigliò allo zar di conquistare anche la Polonia. La vittoria in guerra rinsaldò il potere di Aleksej ed egli aveva sempre meno bisogno dei servigi del «grande sovrano e patriarca», che era stato messo al di sopra della duma dei bojari. Ora le interferenze del pastore nel governo dello stato irritavano il monarca. L’idea di un predominio della Chiesa sullo stato era contraria agli usi russi e alla tradizione bizantina, in base alla quale era stato stabilito il ruolo della Chiesa nella società russa. Il patriarca non aveva fatto bene i conti con le proprie forze nell’inimicarsi la duma dei bojari. La rottura definitiva tra il monarca e la duma, da una parte, e il patriarca, dall’altra, non fu originata da un dissapore casuale, ma da un conflitto intorno al titolo, che aveva capitale importanza. Per mezzo dei bojari, Aleksej co-
municò a Nikon che lo privava del titolo di «grande sovrano». In risposta il dignitario lasciò la sua residenza al Cremlino e si ritirò in monastero, da dove espose le proprie tesi sulla superiorità del potere spirituale su quello temporale: egli paragonava il potere del patriarca a quello dell’astro diurno, il sole e il potere dello zar alla luna, che risplende di notte. Per otto anni Nikon condusse la sua guerra contro il monarca, dopodiché fu deposto dal concilio ecumenico, a cui parteciparono i patriarchi orientali. Si concluse, così, il processo di restaurazione dell’assolutismo, che i Torbidi avevano fatto vacillare. Come scriveva un contemporaneo ben informato, lo zar Michail non poteva muovere un passo senza il consiglio dei bojari e solo Aleksej ricominciò a governare «a proprio piacimento». La dinastia dei Romanov non apparteneva alla nobiltà di origine principesca e non aveva goduto degli antichi diritti dell’aristocrazia dei principati indipendenti. Non essendo principi i membri della dinastia non potevano avanzare pretese sui principati indipendenti. La secolare tradizione di assegnare principati indipendenti ai familiari dello zar fu definitivamente abbandonata nel xvii secolo. Ciò non impedì al bojaro Ivan Romanov, grazie alla protezione del fratello Filaret e del nipote, lo zar Michail, di estendere i propri possedimenti a tutte le città e i villaggi che erano un tempo appartenuti ai bojari Romanov, diventando uno degli uomini più ricchi del suo tempo. Il figlio Nikita Romanov morì senza lasciare eredi e tutte le proprietà della famiglia passarono all’erario e in parte furono trasferite sotto l’amministrazione del Dicastero degli affari segreti. Il Dicastero mise le mani sui beni passati allo stato di altri membri della dinastia, sulle terre e sulle fabbriche del defunto reggente B.I. Morozov. Lo zar Aleksej si costituì dei possedimenti personali, seguendo, quindi, l’esempio di Ivan il Terribile, che aveva formato per sé l’opričnina e, in seguito, l’«udel» (principato), ma con una differenza: i provvedimenti di Ivan iv avevano uno scopo politico, mentre lo zar Aleksej perseguiva soprattutto fini economici. Nei suoi possedimenti fu istituita un’economia modello, furono impiantate fabbriche. Di conseguenza, le entrate di cui lo zar poteva disporre senza consultare la duma incominciarono a crescere rapidamente. Una grossa fetta dei fondi del Dicastero degli affari segreti veniva usata per pagare gli strelizzi. I Torbidi avevano dimostrato l’incapacità della tradizionale guarnigione di palazzo di garantire la sicurezza della famiglia reale e la stabilità del potere statale. I Romanov cercarono di costituire milizie aggiuntive a protezione del trono, trasformando gli strelizzi di Mosca in guardia personale del monarca. 442
Dopo i Torbidi la Russia per circa trent’anni cercò di evitare di trovarsi coinvolta in guerre con gli stati vicini. La guerra di Smolensk, durata tre anni, rivelò la debolezza militare del paese. Quando i Cosacchi occuparono l’importante fortezza di Azov sul Don e chiesero allo zar Michail di prendere la città sotto la protezione della Russia, ricevettero un rifiuto, in quanto lo zar non intendeva farsi trascinare in una guerra contro l’impero ottomano. Nel 1648 i Cosacchi ucraini, insorti contro la Rzeczpospolita, rivolsero un appello analogo ad Aleksej. Lo hetmano ucraino Bogdan Chmel’nickij chiese al monarca ortodosso di mandare truppe per la guerra contro i Polacchi e prendere l’Ucraina sotto il potere di Mosca. Per cinque anni la Russia rimase in dubbio sull’opportunità di offrire aiuto militare agli Ucraini che lottavano per la propria liberazione. Infine, nel 1653 il zemskij sobor, convocato a Mosca, decise la partecipazione alla guerra. Nel 1654 la rada (assemblea popolare in Ucraina), riunitasi a Perejaslavl’ nei pressi di Kiev, approvò l’unione «in eterno» dell’Ucraina e della Russia. Entrando in guerra con la Polonia, la Russia aveva considerato di primaria importanza l’obiettivo di liberare i territori persi dopo i Torbidi. In Ucraina furono inviate truppe di rinforzo, mentre il grosso dell’esercito, guidato dallo zar, aveva posto l’assedio a Smolensk. La potenza militare della Rzeczpospolita era stata considerevolmente minata dalle insurrezioni in Ucraina e dalle incursioni del khan di Crimea. La situazione peggiorò dopo l’invasione delle truppe russe. Lo zar prese Smolensk nel 1654 dopo un assedio di tre mesi. L’anno successivo i Russi occuparono la Bielorussia e presero la capitale lituana Vilnius. La situazione divenne catastrofica quando anche gli Svedesi entrarono in guerra contro la Rzeczpospolita e occuparono Varsavia e Cracovia. I vincitori si preparavano a dividersi i territori conquistati, ma non riuscivano a trovare un accordo: la Russia avrebbe voluto tenersi la Lituania, ma anche la Svezia avanzava pretese su quelle terre. Il re svedese aveva intenzione di impossessarsi anche dell’Ucraina e offrì a Chmel’nickij il titolo di principe di Kiev sotto il protettorato della Svezia. Le vittorie fecero perdere la testa allo zar Aleksej e ai suoi consiglieri. Ritenendo che la Rzeczpospolita non fosse più in grado di riprendersi dalla sconfitta, il governo russo dichiarò guerra alla Svezia e fu fatto un tentativo di cacciare l’esercito svedese dalla Livonia. Durante la campagna del 1656 furono anche riprese le terre sulla Neva che erano state occupate dagli Svedesi durante i Torbidi. Lo zar guidò personalmente la campagna in Livonia con l’intenzione di conquistare Riga, importante fortezza e porto del Baltico orientale. Nei pressi della città, però, i Russi furono fermati. Nel frattempo i Polacchi avevano raccolto le forze e si accinsero a liberare il paese dalle truppe nemiche. Nel 1659 i Russi subirono una pesante sconfitta da parte dei Tatari di Crimea e dei Cosacchi ucraini e un anno dopo l’esercito polacco e l’Orda di Crimea presero prigioniera l’armata di Šeremetov in Ucraina. Sotto la pressione delle gravi sconfitte e delle difficoltà interne la Russia dovette rinunciare a proseguire la guerra. Secondo gli accordi del trattato di pace con la Svezia furono ritirate le truppe dal Baltico, senza aver riconquistato le terre sulla Neva. Lungo i confini polacchi la guerra terminò con la tregua del 1667. La Rzeczpospolita perse Smolensk e \ernigov; a loro volta, i Russi si ritirarono dalla Lituania. Le terre ucraine si trovarono ad essere divise. La Russia annesse Kiev e i territori ad oriente del
311-312. Ricevimento di gala al Palazzo a faccette; Palazzi dei dicasteri a Mosca, incisioni dal libro Descrizione di un viaggio a Mosca di A. Oleari. 313-314. Corteo solenne con lo zar e il patriarca; Visita dell’ambasceria italiana a Mosca, disegni dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg.
443
Dnepr, la Polonia si tenne quelli ad occidente del Dnepr. La guerra, iniziata con lo scopo di liberare le genti ortodosse dell’Ucraina, si concluse con la divisione del paese. La guerra fu causa di grosse sofferenze per il popolo e portò a una crisi economica nel paese. Uno degli avvenimenti di maggior rilievo nella storia russa del xvii secolo fu lo scisma della Chiesa russa. La guerra civile all’inizio del xvii secolo ebbe come conseguenza una diminuzione dell’autorità della Chiesa. Si sentiva ormai dappertutto la necessità di una riforma, ma tra i rappresentanti delle diverse correnti di pensiero religioso non c’era unanimità circa le finalità da perseguire e i metodi da usare. Queste diatribe tra i riformatori ebbero come esito lo scisma. Lo zar Aleksej era un uomo profondamente religioso. Su di lui esercitava una forte influenza il suo confessore Stepan Vonifat’ev, il quale aveva raccolto attorno a sé un gruppo di devoti, bogoljubcy, di cui facevano parte religiosi noti per la loro pietà ed eloquenza, che lo zar aveva fatto venire da diverse città della Russia. Vonifat’ev, Ivan Neronov, Avvakum Petrov, Nikon e altri bogoljubcy si prendevano cura che la Chiesa assolvesse alla sua alta missione morale, si occupavano del riordino degli affari ecclesiastici e dei riti liturgici e della correzione dei libri nella Corte della stampa, la tipografia di Mosca. Dopo i Torbidi, la Corte della stampa riprese e ampliò la propria attività. A suo tempo Massimo il Greco aveva tentato di emendare i manoscritti moscoviti, seguendo gli originali greci, ma aveva finito i suoi giorni in carcere. Tra il clero di Mosca si radicò l’opinione che i Greci non potevano aver conservato pura la loro fede sotto il dominio dei Turchi. Nonostante ciò, la Corte della stampa non poteva fare a meno dell’aiuto dei Greci e dei dotti monaci letterati fatti venire dall’Oriente. La loro opera divenne sempre più essenziale nella correzione e nella preparazione dei libri liturgici per la stampa. La loro attività, che preparava il terreno per la riforma della Chiesa, suscitava i sospetti e l’ostilità dei difensori delle pratiche religiose di Mosca, i quali ritenevano che nella correzione dei libri avrebbero dovuto essere presi come modello i manoscritti moscoviti, dal momento che, dopo la caduta di Bisanzio, Mosca era diventata l’unica depositaria della purezza della fede ortodossa. Come è naturale, queste pretese di Mosca incontrarono la resistenza dei Greci. Verso la metà del xvii secolo i Russi furono scossi dalla notizia che i libri liturgici di Mosca erano stati bruciati sul monte Athos. La tensione tra i sostenitori della tradizione greca e i loro oppositori continuava a crescere. La Chiesa ufficiale respingeva qualsiasi tentativo di riformare il culto e gli usi moscoviti. I bogoljubcy, contando sull’appoggio dello zar, non esitarono ad entrare in conflitto col capo della Chiesa. Dapprima si adoperarono per abolire l’intreccio di più voci durante la celebrazione liturgica, quando diversi sacerdoti officianti cantavano e recitavano preghiere contemporaneamente, rendendo difficile ai fedeli la comprensione dei testi. Vonifat’ev e i religiosi a lui vicini chiedevano l’introduzione dell’«unisono», poiché «nel ritorno alla liturgia completa vedevano il principale strumento mistico per la rinascita della Chiesa e del paese» (S. Zen’kovskij). Il patriarca considerò le innovazioni come un attentato alle antiche tradizioni. Il concilio da lui convocato nel 1649 vietò il canto all’unisono e quando Vonifat’ev dichiarò che nella Moscovia non esisteva più la Chiesa di Dio, il concilio minacciò di processare e condannare il confessore dello zar.
315. Benedizione sul patibolo nella piazza Rossa, incisione dal libro Descrizione di un viaggio a Mosca di A. Oleari.
Nikon condivideva le idee dei bogoljubcy, ma la loro amicizia fu posta a dura prova quando egli divenne patriarca e iniziò la riforma. I gerarchi della Chiesa orientale, che erano spesso in visita a Mosca, amavano parlare con lo zar dei piani per la rinascita di Bisanzio sotto l’egida della Russia. Uno di essi predisse a Nikon che, dopo la liberazione di Costantinopoli dai Turchi, egli avrebbe restituito all’ortodossia la chiesa della Santa Sofia e sarebbe diventato il capo della Chiesa ortodossa universale. Idee di tal genere venivano espresse di continuo e l’intelligencija moscovita era da tempo preparata ad accoglierle. Quando fu fondato il patriarcato in Russia l’idea di «Mosca-terza Roma» voleva rafforzare le pretese della Chiesa moscovita ad occupare una posizione pari a quella dei patriarcati orientali. Con Nikon, il «grande sovrano», questa teoria ricevette un nuovo orientamento in senso imperiale. L’idea di un impero ortodosso universale, fatta propria dallo zar Aleksej e da Nikon, divenne una delle cause principali dello scisma della Chiesa russa. Dopo aver sottomesso l’Ucraina e nella prospettiva di una successiva unificazione dei popoli ortodossi dell’Europa orientale e dei Balcani, lo zar e i suoi consiglieri dovevano adoperarsi per raggiungere l’unità religiosa, senza la quale l’impero non avrebbe avuto un fondamento saldo. Quest’unità poteva essere raggiunta in due modi: il primo consisteva nell’imporre come modello ai Greci, agli Ucraini e agli altri popoli ortodossi i riti e le traduzioni moscovite; oppure si potevano correggere i riti e i libri di Mosca, conformandoli ai modelli neogreci. Nikon scelse la seconda strada e riconobbe che la Chiesa russa doveva imparare dai più istruiti Greci e dai dotti monaci di Kiev. Il noto teologo ucraino Epifanij Slavineckij divenne il più stretto collabo444
ratore di Nikon. La correzione dei libri fu affidata dal patriarca ad Arsenij il Greco. Nel passato Arsenij aveva più volte cambiato il proprio credo, fu uniate, poi si convertì all’islamismo e per questo fu mandato a fare penitenza nel monastero delle Solovki, da dove Nikon lo liberò chiamandolo a lavorare alla Corte della stampa. Per ordine del patriarca la Corte della stampa incominciò a emendare i libri moscoviti, conformemente agli originali greci, dopodiché le autorità ecclesiastiche apportarono modifiche ai riti. Ai tempi del Terribile il metropolita Makarij e il concilio avevano condannato l’uso di segnarsi con tre dita e non con due, come a Novgorod; di ripetere «Alleluia» due volte e non tre; di celebrare la Liturgia con sette e non con cinque prosfore, di scrivere Isus e non Iisus, e così via. Resosi conto delle differenze del rituale russo da quello greco, Nikon prese decisamente posizione in favore di quest’ultimo e ordinò di propria iniziativa ai fedeli di segnarsi con tre dita, perché così facevano i Greci. Il concilio del 1654 approvò la riforma, ma il protopope Avvakum e altri bogoljubcy si dichiararono decisamente contrari alle innovazioni e furono di conseguenza mandati da Nikon al confino. Il patriarca agiva in fretta, dispoticamente e con durezza. Egli esigeva che venissero immediatamente abbandonati i vecchi riti e adottati i nuovi. La Corte della stampa stampò rapidamente i nuovi libri corretti, mentre quelli vecchi venivano ritirati. Il patriarca di Costantinopoli benedisse e approvò tutte le iniziative di Nikon. La sua grecofilia non aveva limiti: egli ordinò al clero di smettere i paramenti russi tradizionali e di adottare quelli greci; nella cucina del patriarca si cominciarono a preparare piatti greci; i riti anticorussi venivano derisi con inopportuna veemenza e durezza. La grecofilia era dovuta non all’ammirazione per la cultura ellenistica e per il retaggio bizantino, ma al provincialismo del patriarca, che era giunto in alto partendo da umili origini e che aspirava al ruolo di capo della Chiesa greca universale (S. Zen’kovskij). I difensori del culto moscovita non si arresero subito. Essi avevano dalla loro la forza della tradizione, avevano influenti protezioni a corte e molti sostenitori tra gli strelizzi e tra il popolo. Dopo il ritiro di Nikon in monastero, Avvakum e Neronov tornarono a Mosca per tentare con l’aiuto del re di revocare la riforma, ma il capo dell’impero ortodosso della Santa Russia deluse crudelmente le loro speranze; pur avendo rotto i rapporti con Nikon, Aleksej continuò la sua opera. Una delle tappe più importanti nella storia della Chiesa russa del xvi secolo era stato il Concilio dei cento capitoli. Le riforme di Nikon contraddissero le risoluzioni di questo concilio. Negli anni 1666-1667 il concilio dell’alto clero di Mosca, con la partecipazione dei patriarchi ecumenici dell’Oriente, dichiarò nulle le decisioni del Concilio dei cento capitoli, dando così inizio allo scisma (raskol) della Chiesa russa. Tutti coloro che non accettarono la riforma furono colpiti con l’anatema e scomunicati. Avvakum fu messo al rogo, dopo essere stato tenuto rinchiuso per molti anni in carcere. Le violenze usate dalle autorità stimolarono la resistenza. In difesa della vecchia fede perseguitata si schierarono i monaci delle Solovki, il cui monastero fu preso dalle truppe dello zar dopo otto anni di assedio. I vecchi credenti (raskolniki – scismatici) ritenevano che il tradimento dello zar e del patriarca nei confronti del culto di Mosca avesse trasformato il luminoso regno ortodosso nel regno dell’anticristo. I seguaci di Kapiton, l’iniziatore
316. Processione, incisione dal libro Descrizione di un viaggio a Mosca di A. Oleari. 317. Battesimo di un bambino, incisione dal libro La religione comune dei russi di T. Warmund. 318. Rito funebre, incisione dal libro La religione comune dei russi di T. Warmund. 319. Divertimenti mondani, incisione dal libro Descrizione di un viaggio a Mosca di A. Oleari.
445
del monarca rinforzarono il suo potere e limitarono l’influenza della duma dei bojari. Aleksej raggiunse il proprio scopo senza entrare apertamente in conflitto con l’aristocrazia. Negli ultimi anni della sua vita divenne particolarmente influente a corte A.S. Matveev. Figlio di un funzionario di dicastero non appartenente alla nobiltà, Matveev fece carriera grazie al servizio negli strelizzi e all’esecuzione di «affari segreti». Egli fu dapprima promosso al grado di colonnello degli strelizzi, in seguito gli fu affidata la direzione del Dicastero degli esteri e fu nominato bojaro. Quando la zarina morì, Matveev diede in moglie allo zar la propria pupilla Natal’ja Naryškina. I Naryškin erano discendenti dei Tatari di Crimea, in passato trasferitisi a Mosca al servizio della corte. Il padre di Natal’ja apparteneva alla piccola nobiltà terriera e viveva in provincia. I nemici dei Naryškin diffondevano malignità sul fatto che la futura zarina da bambina andava a cogliere bacche con i lapti (calzature di scorza portate dai contadini poveri). La casa di Matveev, che si era sposato con una scozzese, aveva un aspetto europeo; egli era un ammiratore della cultura dell’Europa occidentale e teneva presso di sé una compagnia di attori. Infrangendo il rituale di corte, Aleksej Michajlovi/ andava spesso a trovare il suo favorito. Dai due matrimoni lo zar Aleksej ebbe undici figli. Egli si adoperò affinché il trono passasse ai figli maggiori, avuti dalla zarina Miloslavskaja, ma tutti quanti godevano di cattiva salute e morirono in giovane età. Il 30 maggio 1672 la zarina Natal’ja partorì il figlio Pietro, il futuro imperatore. Aleksej Michajlovi/ morì all’età di 46 anni nel 1676. Lo zar era una persona di buon cuore, anche se di inconsueta irascibilità; non aveva doti letterarie, ma scriveva volentieri lettere ai suoi bojari, agli ecclesiastici, ai familiari e fece anche dei tentativi di comporre versi. Aleksej nutriva un vivo interesse per i progressi della civiltà occidentale, non era contrario ad adottare alcune delle sue innovazioni, ad introdurre cambiamenti che potessero rendere più confortevole la vita della famiglia reale. Ma la sua indole passiva e l’attaccamento alle antiche usanze moscovite non gli consentirono di adoperarsi seriamente per rinnovare la società russa. Appena il trono passò al quattordicenne zar Fedor, i bojari si affrettarono a prendere nelle proprie mani le redini del governo e come prima cosa liquidarono il Dicastero degli affari segreti, che costituiva un ostacolo al loro potere. Il favorito Matveev fu mandato al confino e l’influenza degli strelizzi incominciò a diminuire. Non si può dire, tuttavia, che la duma alla fine del xvii secolo fosse il baluardo del conservatorismo contrario ad ogni riforma. Ai tempi di Fedor i capi della duma, nelle persone di V.V. Golicyn e dei giovani amici dello zar, incominciarono a preparare la riforma dell’esercito e decisero l’abolizione di una delle istituzioni più arcaiche dello stato di Mosca: il mestničestvo, che salvaguardava i privilegi dell’aristocrazia bojara. Lo zar Fedor Alekseevi/ morì a vent’anni senza lasciare eredi. Poco prima della sua morte era tornato a Mosca dal confino A.S. Matveev, il quale riuscì a trovare un punto d’accordo tra i più stretti consiglieri del defunto zar e gli altri membri della duma, stanchi dello strapotere dei Miloslavskij che durava ormai da molti anni. Il maggiore dei fratelli, lo zarevi/ Ivan, era debole di mente, mentre lo zarevi/ Pietro, che aveva allora dieci anni, era un ragazzo intelligente e vivace. Il clero e la duma lo scelsero come erede al trono e il patriarca, accogliendo il volere
dello scisma, si nascondevano nel folto dei boschi e si lasciavano morire di fame; altri organizzavano i cosiddetti «roghi», ovvero si davano fuoco in massa. Lo scisma della Chiesa ebbe enormi conseguenze, in quanto avvenne in un periodo di crisi della società russa, agitata da rivolte e insurrezioni. Dopo la rivolta del sale era iniziata quella del bronzo. La guerra aveva mandato in crisi la circolazione monetaria. Per coprire le spese militari l’erario aveva emesso monete di bronzo al corso forzato dell’argento. La comparsa di grosse quantità di denaro svalutato aveva gettato nello scompiglio il mercato interno. Il corso delle monete di bronzo precipitò, i prezzi salirono vertiginosamente e la merce cominciò a sparire dai mercati. Le autorità pretendevano il pagamento delle tasse in argento, ma distribuivano le paghe con i soldi di bronzo. I funzionari statali ne approfittarono per arricchirsi. Presero a circolare molti soldi falsi, ma i truffatori rimanevano impuniti perché riuscivano a corrompere i funzionari. I bojari Miloslavskij, che facevano parte della famiglia dello zar, furono sospettati di speculazione e corruzione. Nel 1662 a Mosca scoppiarono disordini. Una folla di moscoviti si presentò a Kolomenskoe, dove si trovava lo zar, chiedendo la consegna dei bojari Miloslavskij e degli altri traditori. La folla fu dispersa dagli strelizzi chiamati da Mosca, ma la rivolta ebbe come effetto il ritorno in circolazione delle monete d’argento. Tra le molte rivolte scoppiate durante il regno di Aleksej, senz’altro la più notevole fu quella poi denominata razinščina, dal nome del suo capo, Stepan Razin, ataman cosacco della regione del Don. Costui aveva percorso con una banda di briganti i territori fino al Mar Caspio saccheggiando e uccidendo. I banditi avevano sconfitto la flotta persiana ed erano tornati sul Don carichi di bottino. Nel 1670, dopo aver raccolto sotto la sua bandiera alcune migliaia di Cosacchi, di servi della gleba fuggiaschi e di gente libera, Razin si mise in marcia verso Mosca con lo scopo di estirpare i «cattivi» bojari. I Cosacchi del Don cercarono di resuscitare l’idea dello zar «buono» per spingere il popolo alla ribellione e lo indicarono nella persona dell’erede al trono, lo zarevi/ Aleksej, il quale, in realtà, era già morto. I rivoltosi affermavano che l’erede «buono» era riuscito a sfuggire ai bojari e al padre e che si trovava tra i Cosacchi. La parte di zarevi/ veniva svolta a turno da un principe circasso prigioniero e da uno degli ataman cosacchi. Razin annunciò, inoltre, che tra di loro si trovava anche il patriarca Nikon, perseguitato dallo zar Aleksej. I Cosacchi si mossero dal Don al Volga e conquistarono Astrachan’. Razin prometteva al popolo la libertà ed esortava a eliminare tutti i bojari e i funzionari statali. I Cosacchi sostenevano la causa delle popolazioni non russe del medio e basso corso del Volga. La rivolta si estese ad una vasta parte del paese, ma Razin non riuscì ad arrivare fino a Mosca. Sconfitto nei pressi di Simbirsk, fu catturato e giustiziato nel 1671. La rivolta di Razin fu una delle più sanguinose della storia russa. Come ritorsione per l’uccisione dei bojari, decine di migliaia di insorti furono giustiziati. Il tentativo di Razin di avanzare la candidatura di un falso zar non ebbe seguito e non portò a una frattura all’interno dei dvorjanin. Si evitò in tal modo che la rivolta dei Cosacchi si trasformasse in guerra civile. Nonostante i tumulti e le rivolte, i trent’anni del regno di Aleksej si conclusero con il pieno ristabilimento dell’autocrazia in Russia. L’istituzione del Dicastero degli affari esteri e la costituzione di possedimenti fondiari personali 446
dei bojari, diede la notizia della sua nomina. Ma i sostenitori di Pietro e dei Naryškin non riuscirono a guadagnarsi l’appoggio degli strelizzi della capitale e ciò fu loro fatale. Gli strelizzi avevano motivo di essere indignati verso la dinastia. Mentre lo zar Aleksej elargiva loro paghe profumate, i consiglieri dello zar Fedor, che avevano intrapreso la riforma dell’esercito e abolito il mestničestvo, erano meno generosi nei confronti degli strelizzi, i quali non nascondevano il proprio disappunto. I Miloslavskij sfruttarono questi malumori come arma contro i propri nemici politici. Essi diffusero la voce che il legittimo erede, lo zarevi/ Ivan, era stato strangolato a palazzo. Il 15 maggio 1682 la guarnigione della capitale si ribellò. A suon di tamburo, con le insegne spiegate, gli strelizzi entrarono nel Cremlino e circondarono il palazzo reale. La ribellione colse i Naryškin di sorpresa. La zarina spaventata condusse i figli sul terrazzo davanti all’entrata del palazzo per mostrarli al popolo, ma ciò non servì ad ammansire la folla. Per tre giorni la «guardia» strelizza di corte diede la caccia ai bojari. Tra le vittime ci furono lo zio di Pietro, I.K. Naryškin, l’istitutore della zarina A.S. Matveev e altri eminenti bojari. Furono colpiti soprattutto i consiglieri dello zar Fedor, che erano stati gli iniziatori delle riforme. L’opera di trasformazione della società russa dovette essere rimandata per molti anni. Approfittando della rivolta, i Miloslavskij ottennero che entrambi i fratelli, Ivan e Pietro, fossero incoronati. Gli strelizzi, che presero il titolo di guardia di palazzo, pretesero dai giovanissimi zar che fosse loro rilasciato un attestato onorifico in cui veniva riconosciuta la loro opera nella lotta contro i traditori. Ci si affrettò a portare gli zar lontano da Mosca e il governo della capitale passò nelle mani di una commissione di bojari, guidata dal famoso voevoda il principe Chovanskij, che era stato messo a capo del Dicastero degli strelizzi. Questo passaggio di poteri incoraggiò i sostenitori della vecchia fede, che tentarono con l’aiuto degli strelizzi, nei cui villaggi essi andarono a predicare, di ottenere l’abolizione delle riforme volute da Nikon. Il capo del Dicastero degli strelizzi, il principe I.A. Chovanskij, teneva un atteggiamento ambiguo. I suoi famigliari erano ardenti difensori della «vecchia fede». Su insistenza degli strelizzi, nel Palazzo a faccette del Cremlino il patriarca e gli alti ecclesiastici tennero una disputa sulla vera dottrina con i portavoce dello scisma, alla quale presenziarono i due zar e la loro sorella Sof’ja. Tra gli scismatici si distingueva per la propria eloquenza Nikita Pustosvjat. Dopo la conclusione della disputa, uscito sulla piazza, egli annunciò a tutti che i nikoniani erano stati sconfitti e invitò il popolo a segnarsi con due dita. Il tentativo di Chovanskij di governare la capitale con l’aiuto della guarnigione strelizza e le iniziative dei vecchi credenti suscitarono forti apprensioni a palazzo e nella duma. Dopo aver nascosto gli zar minorenni tra le mura del monastero della Trinità di san Sergio, le autorità cominciarono a raccogliere truppe e circondarono la capitale con reparti di dvorjanin. Tra i membri della famiglia Romanov, che furono tutti presi dal panico, l’unica a mantenere la calma fu Sof’ja. La venticinquenne figlia dello zar aveva un carattere forte e un’enorme ambizione. Dopo la disputa sulla fede al Cremlino essa ordinò la cattura e la decapitazione di Nikita Pustosvjat. Nel giorno del suo onomastico, il 17 settembre 1682, Sof’ja convocò il Chovanskij al monastero della Trinità. Durante il percorso il bojaro fu catturato e giustiziato. I suoi ordini decisi
e crudeli le consentirono di impadronirsi del potere e di assumersi il titolo di «grande sovrana». Dopo l’esecuzione di Chovanskij, gli strelizzi e i soldati della capitale fecero atto di sottomissione alla reggente e ai bojari. La colonna (obelisco) con l’elenco dei meriti della «guardia di palazzo» che era stata innalzata nella piazza principale della capitale venne abbattuta per ordine di Sof’ja. Lo zar Aleksej era riuscito a dare ai figli maggiori una discreta educazione per quei tempi. Con il loro istitutore Simon Polockij avevano studiato le lingue, la retorica e la filosofia. Sof’ja aveva studiato latino insieme ai fratelli, mentre Pietro non aveva ricevuto un’educazione simile a quella degli altri figli perché ancora in giovanissima età gli era morto il padre ed era salito al trono. Il d’jak Nikita Zotov era riuscito a insegnare al ragazzo a leggere e scrivere, ma fino alla fine dei suoi giorni Pietro scrisse scorrettamente e da adulto lo si sentiva spesso rimpiangere di non aver avuto in gioventù un’istruzione adeguata. La zarina Natal’ja Naryškina era in cattivi rapporti coi Miloslavskij e non si fidava dei dotti monaci ucraini che godevano della protezione di Sof’ja, per cui non veniva loro consentito di entrare nelle stanze di Pietro, il quale evitò, così, lo studio del latino e dei classici latini e polacchi. Non gli venne neppure insegnata la teologia scolastica, circostanza che incise sul suo atteggiamento nei confronti delle antiche usanze della Moscovia. Dopo il colpo di stato che aveva restituito il potere ai Miloslavskij, la zarina Natal’ja si trasferì col figlio nel villaggio di Preobraženskoe, dove Pietro, lasciato a se stesso, giocava alla guerra con i figli del personale addetto al servizio di corte, degli stallieri, ecc., chiamati potešnye perché raccolti a formare un esercito per gioco (potechi), che costituì il nucleo da cui in seguito fu formata la guardia russa. La casa di A.S. Matveev, dove era stata allevata Natal’ja Kirillovna, era aperta ai «Tedeschi» (stranieri). Matveev aveva sposato una scozzese e si distingueva tra i dignitari per il suo attaccamento alla cultura occidentale. Natal’ja non aveva diffidenza per gli stranieri e non impediva al figlio di frequentare la Nemeckaja sloboda che, sviluppatasi alla periferia di Mosca, era un lembo di Europa occidentale in Russia. Per Pietro la Nemeckaja sloboda 320 divenne una specie di scuola, che sostituì per lui le lezioni di greco e latino impartite a palazzo. Tutto preso dai suoi giochi militari, Pietro cercava dei maestri nella Nemeckaja sloboda, dove abitavano molte persone amanti dell’avventura, esperti soldati e marinai. Il ragazzo sapeva apprezzare le loro conoscenze e la loro esperienza. Gli Olandesi Timmermann e Brant lo istruirono nell’arte delle fortificazioni e nella navigazione a vela. Quando Pietro raggiunse la maggiore età i famigliari gli diedero in sposa la giovane Lopuchinaja, proveniente
320. La Nemeckaja sloboda a Mosca, disegno dal libro Viaggio nella Moscovia di A. Meyerberg.
447
da una famiglia di dvorjanin non nobili. Ora che lo zar era in grado di governare autonomamente, Sof’ja avrebbe dovuto rinunciare ai poteri di cui aveva goduto durante la reggenza, ma era troppo ambiziosa per farlo. Pietro tentò di impedire alla sorella di partecipare alle cerimonie di corte, ma senza successo. Tra le persone a lei vicine nacque l’idea di conferirle il titolo di sovrana autocrate. Poiché il patriarca di Mosca si pronunciò contro questa iniziativa, i sostenitori della reggente decisero di chiedere l’assenso ai patriarchi orientali. In Olanda si preparò un’incisione che mostrava Sof’ja in abiti da zarina. Sof’ja poteva contare sul sostegno della duma, finché il principe V.V. Golicyn, nelle cui mani era di fatto il governo dello stato, continuava ad esserne uno dei capi più influenti. Un altro favorito di Sof’ja, F. Šaklovityj, era a capo del Dicastero degli strelizzi. Egli cercava segretamente di convincere gli strelizzi a firmare una petizione per chiedere l’incoronazione di Sof’ja e in una cerchia di persone fidate esaminava il progetto di un colpo di stato, in cui sarebbe dovuto essere decisivo l’intervento della guardia degli strelizzi. Le allarmanti notizie che arrivavano da Mosca al palazzo di Preobraženskoe tenevano i Naryškin in uno stato di continuo timore. La tensione raggiunse il culmine quando nella notte dell’8 agosto 1689 riferirono a Pietro che gli strelizzi avevano intenzione di ucciderlo e che allo scopo Šaklovityj aveva radunato nel Cremlino alcune centinaia di suoi complici armati. Svegliato nel mezzo della notte, Pietro fuggì da Preobraženskoe nei boschi e poi si rifugiò nel monastero della Trinità di san Sergio, dove lo raggiunsero i reggimenti potesnye. La duma cercò di ricomporre il conflitto e conservare la doppia regnanza, che sarebbe stata favorevole al governo dei bojari. V.V. Golicyn si adoperò per riconciliare i due figli dello zar Aleksej, ma senza ottenere alcun risultato. Sof’ja si mise in cammino verso il monastero della Trinità per incontrare il fratello, ma le fu impedito di raggiungere la meta. Uno dopo l’altro si recarono da Pietro il patriarca, i bojari, gli ufficiali stranieri e i comandanti degli strelizzi. Abbandonata dai suoi sostenitori, Sof’ja fu obbligata a consegnare Šaklovityj a Pietro, che lo torturò e lo condannò a morte, mentre V.V. Golicyn fu mandato in esilio. Sof’ja dovette ritirarsi nel monastero di Novodevi/ nei pressi di Mosca e il potere passò dalle mani di Golicyn, che era un governante illuminato, in quelle dei bojari Naryškin. Alla caduta di Sof’ja e di Golicyn contribuirono anche le difficoltà in politica estera. La sanguinosa guerra per il possesso dell’Ucraina logorò entrambi i paesi contendenti, sia la Rzeczpospolita che la Russia, e cambiò la situazione nell’Europa orientale. Anche l’impero ottomano avanzò pretese sui territori ucraini e nel 1672 i Turchi sconfissero i Polacchi e occuparono il Podol’e, fiorente regione ucraina. Per salvare il popolo da una completa rovina lo hetmano Dorošenko, sotto la cui guida si trovavano i territori a destra del Dnepr, si mise sotto la protezione del sovrano turco. La città di \igirin, sua residenza, fu subito occupata dall’esercito russo. Negli anni 1677-1678 per due volte i Turchi attaccarono in gran numero la città; nonostante la loro tenace difesa alla fine \igirin, che chiudeva le vie d’accesso a Kiev, fu presa dagli Ottomani. L’espansione turca minacciava i popoli dell’Europa centrale e meridionale. Tuttavia nel 1683 i Turchi subirono una disfatta sotto le mura di Vienna. Dopo tre anni la
Russia e la Rzeczpospolita firmarono la «pace perpetua». Per adempiere agli obblighi contratti nei confronti degli alleati, nel 1687 e nel 1689 V.V. Golicyn guidò due campagne di Crimea, senza alcun esito, nonostante le ingenti perdite subite. Nella seconda metà del xvii secolo la Russia manifestò 321 di nuovo tendenze imperialistiche in politica estera, ma Mosca non aveva forze sufficienti per mantenere il possesso dei territori occupati in Lituania e Livonia. Solo nel continente asiatico si verificarono condizioni favorevoli ad un’espansione territoriale dell’impero moscovita. Il movimento verso Oriente, che aveva subito una battuta d’arresto nel periodo dei Torbidi, ricominciò all’inizio della dinastia dei Romanov. Partendo dall’Ob, i Russi si spinsero fino allo Enisej e alla Lena e da lì arrivarono al lago Bajkal, all’Amur e alle estreme regioni orientali. Nelle spedizioni militari in Siberia non furono impiegate forze consistenti, in quanto l’unica seria opposizione venne dai Burjati. Nella regione dell’Amur i Russi si scontrarono con la Cina. La Russia si trasformò in una grande potenza euroasiatica. Nel xvii secolo ci fu un’accelerazione nel progresso della civiltà dell’Europa occidentale e il divario storico tra il livello di sviluppo della Russia e dei paesi dell’Occidente andò rapidamente approfondendosi. Gli uomini più illuminati in Russia cominciarono a sentire la necessità di una europeizzazione della società russa. Il bojaro A.L. Ordin-Naš/okin propose allo zar di fare ogni sforzo possibile per promuovere lo sviluppo dell’industria e del commercio. Egli si aspettava enormi vantaggi dalla conquista della Livonia e dall’ampliamento del commercio con l’Occidente grazie alle più comode vie di comunicazione attraverso il Mar Baltico. V.V Golicyn era un entusiastico ammiratore dell’Occidente. Poco prima di morire aveva esposto al francese De la Neville le proprie idee sulla necessità di trasformare la Russia ad immagine e somiglianza dei paesi occidentali. Dopo la sconfitta nella guerra di Crimea il reggente sentiva la necessità di una seria riforma dell’esercito, di liberare i contadini e assegnare loro le terre. Golicyn era convinto che fosse indispensabile per la Russia avere un sistema d’istruzione, garantire la libertà di coscienza e la tolleranza religiosa, estesa, però, solo agli occidentali, a cui veniva consentito il libero ingresso nel paese. Per quanto riguarda i vecchi credenti, invece, sotto il governo di Sof’ja e Golicyn essi furono perseguitati con particolare ferocia. *** Il sistema scolastico nel xvii secolo non era sempre in grado di soddisfare le esigenze della società, che aveva bisogno di persone qualificate. Non esisteva una scuola superiore, le scuole primarie non erano organizzate in un sistema ufficiale, non godevano di sussidi statali e gli stipendi degli insegnanti venivano pagati dalle famiglie. Lo sviluppo dell’istruzione scolastica fu favorito in primo luogo dalla diffusione della stampa. Prima dei Torbidi, il manuale scolastico di base, il Sillabario, non veniva stampato; nel xvii secolo se ne fecero ben sei edizioni. Gradualmente cambiavano i metodi educativi. Le punizioni corporali erano uno dei capisaldi dell’educazione scolastica e privata nella Rus’ di Mosca. Il tradizionale «elogio della verga» abbelliva ogni manuale e solo alla fine del xvii secolo Karion Istomin lo escluse dalle pagine del proprio 448
321. La Russia alla fine del xvii secolo, carta di R. Skrynnikov. 322- Sillabario. L’autore del testo attribuiva grande importanza 323 al metodo intuitivo; il suo Sillabario era corredato di illu-
Simeon aveva frequentato l’Accademia di Kiev, quindi il collegio gesuita di Wiłen´ska, dove «studiò esclusivamente in latino» e dove nacque la sua ammirazione per Aristotele. Nel 1664 fondò nel monastero dell’Icona del Salvatore la scuola statale per la formazione del personale di rango inferiore del Dicastero degli affari segreti. Nella scuola si insegnava il latino, la grammatica e la retorica. Insieme a Simeon lavorava il suo discepolo Sil’vestr Medvedev. Essi dovettero sostenere lunghe discussioni con Slavineckij e gli altri grecofili. Di fatto si scontrarono due orientamenti religiosi e culturali: quello latino e quello greco (bizantino). Il primo era favorevole all’Occidente e aveva un carattere più laico. Dagli appunti delle lezioni di Simeon Polockij risulta che il suo corso includeva una parte di filosofia ed etica e che egli conosceva l’insegnamento di Tommaso d’Aquino sulle virtù teologali (fede, speranza, carità) e cardinali (A.S. Lappo-Danilevskij). Nei trattati pedagogici dell’erudito frate sono degne di nota le riflessioni sull’educazione morale degli allievi (Il cibo spirituale, trattato, 1682). Simeon era in stretti rapporti con lo zar; 233, era lui a preparargli i discorsi e ad insegnare latino ai suoi 324 figli. Quando salì al trono, lo zar Fedor incaricò Simeon di Polock di stilare il Privilegio accademico, una sorta di statuto dell’Accademia di Mosca, che si voleva organizzare sul modello delle scuole latine polacche dell’Accademia kieviana. Nell’accademia si sarebbero dovute studiare «tutte le scienze libere», dalla grammatica alla teologia, le lingue slava, greca, latina e polacca; ma Simeon morì prima di avere realizzato i propri progetti. L’ostilità nei confronti della cultura latino-polacca crebbe visibilmente dopo l’arrivo a Mosca di due greci, i fratelli Lichudes. Essi erano venuti in Russia mandati dal patriarca di Gerusalemme, che era il patrono dei grecofili
strazioni eseguite da L. Bunin. Quando nell’organizzazione del sistema scolastico si trattò di migliorare i testi, le autorità di Mosca si trovarono nella necessità di consultare studiosi stranieri. Tradizionalmente i Russi si erano sempre indirizzati verso i Greci e la cultura greca, ma nella seconda metà del xvii secolo ci fu un considerevole avvicinamento culturale fra Mosca e la Polonia, che si accompagnò a una sempre maggiore penetrazione nella Rus’ della cultura latino-polacca. Non desiderando avere rapporti con i cattolici, Mosca preferiva rivolgersi ai dotti monaci di Kiev e della Bielorussia, che avevano ricevuto una buona istruzione nelle scuole polacche o in Occidente, ma erano di confessione ortodossa. Il favorito dello zar F.M. Rtiš/ev fondò il monastero di Sant’Andrea, che aveva al suo interno una scuola, dove egli invitò ad insegnare monaci ucraini di Kiev. A partire dal 1649, direttore della scuola fu il famoso pedagogo e traduttore Epifanij Slavineckij, che in patria aveva raggiunto ottimi risultati nello studio della teologia, della filosofia e delle lingue straniere, frequentando le scuole a Kiev e all’estero. In gioventù, come ammise egli stesso, si era interessato di «sapienza latina», ma ne aveva in seguito compreso la vanità dopo essersi rivolto alla lettura dei «libri greci». A Mosca Slavineckij fu a capo della corrente grecofila. Dal monastero di Sant’Andrea si trasferì poi a quello del Miracolo dove insegnò nella scuola del patriarcato. L’annessione dell’Ucraina rinvigorì l’afflusso di insegnanti dalle terre ucraine e bielorusse a Mosca. Quando conquistò la città di Polock, lo zar Aleksej fece la conoscenza del monaco Simeon Sitnianovi/ di Polock, che divenne il promotore della cultura latino-polacca nella Rus’. 449
I preparativi per l’inaugurazione di un istituto di studi superiori a Mosca durarono oltre cinque anni. Infine nel 1687 nel monastero dell’Icona del Salvatore fu aperta l’Accademia slavo-greco-latina, che accolse gli allievi provenienti dalle scuole che si trovavano presso la Corte della stampa e il monastero della Teofania. Secondo quanto previsto dal Privilegio accademico del 1682, la scuola superiore era aperta a tutti; vi studiavano i rampolli delle famiglie principesche dei Golicyn e degli Odoevskij, funzionari statali, mercanti e perfino persone di servizio. Oltre ai Russi vi studiavano Ucraini, Bielorussi, Georgiani, Tatari e altri. Nella classe iniziale gli studenti apprendevano «le scritture slava e greca», in quella intermedia la grammatica e la lingua latina; l’ultimo anno prevedeva lo studio della retorica, della dialettica e della fisica. I fratelli Lichudy prepararono i libri di testo per l’accademia, utilizzando l’Etica di Aristotele, i lavori di altri filosofi ellenici e l’opera di Campanella Del senso delle cose. I Lichudy attaccarono aspramente l’indirizzo latino-polacco che Sil’vestr Medvedev difese con gran foga. La caduta del governo di Sof’ja, che proteggeva gli occidentalisti, fu fatale a questi ultimi. Il patriarca Ioakim si schierò decisamente dalla parte dei grecofili e la direzione dell’Accademia passò nelle mani dei Lichudy. Il partito greco accusò di eresia S. Medvedev e gli altri rappresentanti della cultura polacco-latino-ucraina. Il patriarca criticò pubblicamente la persona e le opere di Simeon di Polock e nel concilio ecclesiastico del 1690 fu ufficialmente condannata la corrente latina e, in particolare, si accusarono i monaci kieviani e ucraini che vi appartenevano di essere diventati uniati negli anni in cui avevano studiato nelle scuole cattoliche all’estero e di aver accettato le decisioni del Concilio di Firenze riguardo all’unione tra la Chiesa romana e quella greca. Il concilio deliberò di bruciare le opere di S. Medvedev e condannò le edizioni della tipografia ortodossa di Kiev. Il patriarca riuscì a far espellere da Mosca gli insegnanti gesuiti. Gli ortodossi usavano qualsiasi mezzo; Medvedev fu ingiustamente accusato di aver voluto l’incoronazione di Sof’ja e l’11 febbraio 1691 fu giustiziato. La vittoria del partito greco rallentò la diffusione in Russia della cultura e della scienza europee. In quell’atmosfera di caccia all’uomo il sospetto cadde anche sui fratelli Lichudy, che avevano iniziato la campagna contro il latino. La loro formazione europea si faceva notare, all’Accademia insegnavano filosofia alla maniera delle scuole latine occidentali, nelle lezioni di teologia usavano i «sillogismi» come Tommaso d’Aquino. Poiché non avevano fiducia nella loro scienza, gli ecclesiastici ortodossi di Mosca inviarono una lagnanza nei confronti dei due fratelli ai patriarchi orientali. Nel 1694 i Lichudy furono costretti a lasciare Mosca e a rifugiarsi a Novgorod. Le lezioni all’Accademia continuarono, ma il livello peggiorò decisamente. Nel xvii secolo aumentò la quantità di libri tradotti in circolazione, soprattutto di medicina, astronomia e arte militare. A Mosca comparvero in traduzione il libro di A. Vesalius Sul corpo umano, manuali di medicina, la Cosmografia di G. Mercator. Le traduzioni venivano commissionate soprattutto dallo zar e dal patriarca. Solo pochi tra i libri tradotti godettero di un largo pubblico nella società russa. Epifanij Slavineckij tradusse la Cosmografia di I. Bleu, che comprendeva un’esposizione del sistema eliocentrico di Nicola Copernico. Si pensa che Slavineckij e i suoi amici si riunissero nella residenza del metropolita di
322-323. Sillabario, Mosca, 1696: fil. 1v.; lettera «Psi» (psaltir’, psalmy).
di Mosca. I fratelli Sofronij e Ianikij Lichudes o Lichudy avevano seguito un corso di scienze latine a Roma e all’università di Padova, ottenendo il grado accademico di dottori. A Mosca, però, erano venuti per consolidare l’insegnamento greco-ellenico, dopo aver giurato davanti al patriarca di non insegnare ai Russi «la dottrina e la lingua latina». Arrivati a Mosca, i Lichudy incominciarono ad insegnare alla scuola del monastero della Teofania, dove tennero un corso sui manoscritti greci. Il loro lavoro fu approvato ufficialmente e fu addirittura proposto loro di ampliare il corso e insegnare «tutte le libere scienze nelle lingue greca e latina». 450
Kruticy per discutere le idee di Copernico e per condurre le loro osservazioni astronomiche. V.V. Golicyn aveva nella sua casa libri di astronomia e cannocchiali. Naturalmente le nuove scienze sull’universo erano accessibili solo a una ristretta cerchia di persone colte. Lettura abi235- tuale dei russi nel xvi-xvii secolo continuava ad essere la 236, Cosmografia (Topografia cristiana) del famoso viaggiatore 325, bizantino Cosma Indicopleuste, vissuto ad Alessandria 326 nel vi secolo. Il metropolita Makarij incluse la Cosmografia nei Minei \et’i (Letture Mensili). Nella Cosmografia il lettore trovava una spiegazione alle sue domande sull’universo, le stelle e i paesi lontani. La popolarità del libro fu dovuta anche alla presenza di numerose illustrazioni. La Cosmografia si fondava sui racconti biblici della creazione del mondo, del diluvio universale e altri. La guerra civile risvegliò il pensiero sociale russo, che non si era più sviluppato dopo il periodo burrascoso dell’opričnina. Scrittori molto importanti tra i loro contemporanei furono il d’jak Ivan Timofeev, il monaco Avraamij Palicyn, il principe Ivan Chvorostinin, il principe Semën Šachovskoj, che compilarono narrazioni storiche e cronache, nelle quali cercavano di trarre insegnamento da quanto era accaduto durante i Torbidi. Ivan Timofeev riteneva che la causa principale della catastrofe abbattutasi sulla Russia fosse stato lo sviare dagli antichi costumi, il venir meno delle tradizioni. I sovrani avevano abusato del potere dato loro da Dio, i «piccoli» avevano scavalcato i «grandi», gli schiavi erano insorti contro i signori. Come Kurbskij, Ivan Timofeev definisce i bojari (l’aristocrazia) i potenti pilastri su cui si regge la terra (lo stato). I Torbidi avevano colpito la Russia per i peccati di tutta la società: «tutti hanno peccato dalla testa ai piedi, dai grandi ai piccoli». Lo scrittore condanna anche il «folle rumoreggiare» del volgo (dovere del volgo è sottomettersi in silenzio all’autorità costituita) e il «folle tacere» della nobiltà. Un regno che abbia perso il signore è come una vedova, poiché lo zar è garante dell’ordine e il suo potere gli viene da Dio. I Torbidi obbligarono i Russi a riflettere sul futuro della Russia, sul suo posto nell’ambito dell’Europa e sul suo destino storico. Le loro considerazioni, in qualche modo, anticipavano le future dispute, in cui si discuteva se la Russia fosse destinata a diventare l’erede della vecchia Europa, luce dell’Oriente ortodosso, o se sarebbe rimasta solamente un’ombra dell’Occidente (V.O. Klju/evskij). Ivan Timofeev per primo rimproverò amaramente le genti russe per la loro disunione, per essersi voltati le spalle guardando chi a Oriente, chi a Occidente. Gli scrittori del tempo dei Torbidi avevano difficoltà a conciliare il principio della monarchia ereditaria, a loro famigliare, con la pratica dell’elezione dello zar «da parte di tutte le terre» (della nazione). Ai loro occhi «falsi zar» furono non solo l’eretico Otrep’ev, ma anche Vasilij Šujskij e perfino Boris Godunov, sebbene quest’ultimo fosse stato eletto dal zemskij sobor alla presenza di tutto il popolo. Nei ricordi e nelle memorie scritti dopo l’ascesa al trono dei Romanov, l’elezione conciliare della nuova dinastia è presentata come il compimento della volontà dell’Altissimo. Michail Romanov, proveniente da «stirpe di re», fu scelto da Dio prima della sua nascita e predestinato al trono fin dal ventre materno (A. Palicyn). Lo sviluppo della letteratura russa nel xvii secolo è caratterizzato da un rafforzamento del principio dell’individualità dell’autore, da un graduale affrancamento dalla «sottomissione a interessi ecclesiastici o strettamente sta-
324. Simeon di Polock, Cibo spirituale, Mosca, 1682.
tali», dall’istituzione di nuovi generi, comuni a quelli esistenti nelle letterature europee occidentali (D.S. Licha/ëv). Le narrazioni sul tempo dei Torbidi non erano vere e proprie memorie, ma elementi di questo genere vi erano già presenti. Vengono prodotte le prime opere autobiografiche. La Vita del protopope Avvakum, scritta da lui stesso fu uno degli eventi di maggior rilievo nella letteratura russa del xvii secolo. Il fondatore dello scisma si riteneva un profeta, ma la Vita da lui scritta è una commossa confessione, non un panegirico della propria persona. Il protopope racconta il suo esilio nella lontana Siberia e nel Settentrione selvaggio, descrive con sentimento la natura di quei posti, le sue sofferenze e soprattutto le sue miracolose visioni, la lotta quotidiana con i demoni e con le autorità. Difendendo le proprie posizioni, Avvakum «sostiene un corpo a corpo titanico con le forze che personificavano la società e lo stato del tempo: i capi militari, il patriarca e lo stesso zar» (D.S. Licha/ëv). Lo stile della Vita ricorda in parte quello delle epistole di Ivan il Terribile, che il protopope aveva in grande considerazione. Anche Avvakum era un amante dell’«aspra» polemica, ma la sua lingua era più colorita e più vicina a quella popolare. Lo stile drammatico della narrazione della Vita occupò un posto a parte nella storia della nuova letteratura russa. Ampia diffusione ricevette nel xvii secolo il racconto satirico di costume, di cui può essere un esempio il Rac451
conto di Dolore-Malasorte. L’eroe, appartenente a una ricca famiglia di mercanti, abbandona i genitori per vivere a proprio piacimento. La cattiva fortuna, nella figura di Dolore-Malasorte, instancabilmente lo perseguita ad ogni passo della sua nuova vita e l’eroe troverà salvezza solo in monastero. Nella seconda metà del xvii secolo divenne molto popolare in Russia il Racconto di Bobo Korolevič, traduzione di un romanzo cavalleresco tedesco con l’inserzione di motivi del folclore russo. Tra le traduzioni di opere polacche, occupa un posto a sé la raccolta di storie edificanti, Gesta dei romani, antologia di autori latini. Nella Rus’ i cantori di byline usavano fin dai tempi antichi il linguaggio in versi, ma senza le rime. Nella letteratura dotta del xvii secolo la versificazione non fu desunta dal folclore, ma fu importata dalla letteratura polacca. Come poeta di corte, Simeon di Polock scriveva versi nello stile del barocco polacco. La metrica sillabica polacca non era adatta alla struttura della lingua russa, per questo motivo 234, i «virši» di Polockij non sono di grande valore artistico. 327 Egli fu anche l’autore delle prime commedie allegoriche russe, scritte appositamente per il teatro di corte. Lo zar Aleksej aveva incaricato il pastore Gregori della Nemeckaja sloboda di organizzare un teatro a Mosca. Egli e gli alunni della sua scuola nel 1672 recitarono scene tratte dalla bibbia, come La triste commedia di Adamo ed Eva. Il teatro di corte non disponeva di un proprio edificio e gli spettacoli, che duravano parecchie ore, venivano rappresentati fuori città nei palazzi estivi dello zar, nella casa del bojaro A.S. Matveev e in altri luoghi. Oltre a quello di corte, esisteva a Mosca anche un teatro scolastico presso l’Accademia slavo-greco-latina, dove gli studenti recitavano in occasione della conclusione degli studi, di feste religiose o di altre ricorrenze, opere teatrali tratte da episodi del Vangelo o dalle Vite dei santi. A causa del dissesto provocato dai Torbidi, in Russia per lungo tempo non furono costruiti edifici in pietra. Le città furono completamente devastate e i loro abitanti sfollarono nei villaggi. Calamità di tale portata si riflessero inevitabilmente sullo sviluppo dell’architettura e portarono a un cambiamento delle tradizioni. M.A. Il’in afferma, con una certa esagerazione, che è quasi impossibile stabi-
lire dei legami diretti tra le opere architettoniche del xvi e del xvii secolo. Si ritiene che nel xvii secolo l’architettura russa in legno abbia più che in altri periodi condizionato quella in pietra, che sia continuata la penetrazione delle idee occidentali attraverso la Polonia, la Bielorussia e l’Ucraina e che sia avvenuta una «secolarizzazione» della cultura (un aumento dei motivi profani negli edifici dedicati al culto). In architettura si affermarono i principi decorativi. Un’influenza diretta sull’architettura fu esercitata dalla riforma di Nikon e dallo scontro tra le tendenze teocratiche e quelle assolutistiche. Oltre all’erario e al patriarca, anche i mercanti ricchi e gli abitanti delle città si impegnarono nella costruzione di chiese. Molti capolavori del tempo sono nati grazie alle loro offerte. Con la fine della guerra civile ricominciò anche l’edilizia in muratura e a Mosca fu istituito il Dicastero delle opere in muratura, che si occupava di ripristinare e ricostruire fortezze, palazzi ed altri edifici. Il Dicastero si serviva della collaborazione dei migliori architetti russi: Anton Konstantinov, Bažen Ogurcov, i fratelli Starcev e altri. Diversi progetti furono da loro eseguiti sotto la direzione di ingegneri fatti venire dall’Europa occidentale. Dal 1624 al 1626 l’inglese Christopher Halloway e Bažen Ogurcov innalzarono la torre Spasskaja (del Salvatore) nel Cremlino di Mosca, decorandola con una struttura superiore ad archi gotici continui e con statue in pietra bianca nelle nicchie, che lo zar ordinò di coprire con mantelli di tela per nasconderne le nudità. Dal 1672 al 1686 furono ultimate anche le altre torri. Quella della Trinità fu rifinita in un particolare stile decorativo. Il Cremlino – cuore dell’impero – acquistò il suo aspetto definitivo. Gli architetti B. Ogurcov e A. Konstantinov diressero 328la costruzione del Palazzo dei terem (1635-1636). Sui due 329 piani inferiori del palazzo in pietra bianca di Ivan iii e Vasilij iii furono innalzati alcuni livelli superiori. L’ultimo piano (Piccolo terem superiore o Mansarda), destinato ai figli dello zar, aveva un tetto alto, decorato con rombi colorati ed era dotato di una piccola torre. Il palazzo aveva finestre con stipiti intagliati e conteneva alcune chiese, disposte su livelli diversi, per le quali furono costruite negli anni 1679-1681 undici cupolette a bulbo, dalla parte della facciata orientale dell’edificio. L’ingresso al palazzo era
325-326. L’universo, fol. 45v.; La torre di Babele, fol. 13; dalla Cosmografia di Cosma Indicopleuste, San Pietroburgo, Biblioteca pubblica. 327. Il profeta Davide, da Simeon di Polock, Salterio rimato, Mosca, 1650, frontespizio.
452
chiuso da un cancello abilmente forgiato, tanto che tra il popolo il Palazzo dei terem fu denominato del «Salvatore dietro la grata d’oro». A partire dagli anni 1620 si fecero dei tentativi di ripristinare lo stile a tenda, che era fiorito all’epoca del Terribile. Tra le chiese a tenda di quel tempo è degna di menzione la chiesa del refettorio della Dormizione, con x/7; tre coperture a tenda, terminata nel 1628 a Ugli/. Ad 330 oriente è collocato l’altare, ad occidente si apre l’ampio locale del refettorio (originariamente una costruzione civile). La chiesa fu chiamata «mirabile» per la sua bellezza. La cuspide a tenda centrale si erge sul grosso refettorio e due tende più piccole si spingono in avanti verso oriente. La chiesa della Natività della Madre di Dio a Putinki 331 (1649-1652) è un edificio di rara eleganza. Essa fu costruita con il denaro dei parrocchiani, artigiani e mercanti, e con il contributo dello zar. Sul corpo principale dell’edificio sono collocate tre coperture a tenda, un’altra si erge sulla cappella. La bizzarra composizione a «L capovolta» è stata ideata intorno al centrale campanile a tenda. Il basso refettorio e l’entrata a terrazzo con tetto a tenda accentuano l’impressione di pittoresco «disordine». La chiesa della Natività fu l’ultimo tempio a tenda costruito a Mosca. La riforma della Chiesa di Nikon, insieme al segno con due dita e ad altri riti e tradizioni anticorussi, condannò anche lo stile a tenda. È indubbio che il patriarca fosse animato dall’idea di restituire all’architettura il suo contenuto spirituale, ma i suoi interventi autoritari e i divieti non hanno certamente dato un contributo positivo allo sviluppo di un’architettura nazionale. Diventato patriarca nel 1652, Nikon vietò la costruzione di chiese a tenda e impose di costruire templi «a una, tre e cinque cupole», in conformità alle disposizioni dello statuto della Chiesa. Avendo concentrato nelle proprie mani un potere enorme ed essendo diventato di fatto il capo dello stato, Nikon realizzò grandiosi programmi edilizi, nei quali trovarono espressione sia le idee estetiche del patriarca, sia le tendenze teocratiche della chiesa. Nikon fece terminare la costruzione della chiesa dei Dodici Apostoli al Cremlino e
della Corte patriarcale, fondò il monastero Iverskij sull’isola in mezzo al pittoresco lago Valdaj, finì di costruire il monastero della Croce sull’isola Kij nel Mar Bianco. La realizzazione dei progetti fu diretta da Averkij Mokeev, maestro di opere in pietra, che non aveva particolari doti artistiche, ma possedeva una grande esperienza come costruttore. La monumentale cattedrale del monastero Iverskij di Valdaj (1656-1658) fu costruita nello stile tradizionale delle cattedrali vescovili. Il tempio a sei pilastri, sormontato da cinque cupole, aveva una particolare severità di linee e ricordava le cattedrali nello stile del «monumentalismo secondario» dell’epoca del Terribile. Gli alti prelati della Chiesa greca, che arrivavano ogni anno a Mosca in cerca di sostegno economico, non nascondevano la propria speranza che la Russia avrebbe aiutato le popolazioni ortodosse dei Balcani a liberarsi dal giogo turco. Poiché si preparava ad assumere il ruolo di capo della Chiesa ortodossa universale, il patriarca Nikon decise di riprendere il progetto, avanzato a suo tempo da Boris Godunov, di erigere nella Rus’ una cattedrale che fosse la copia del tempio costruito sulla tomba del Signore a Gerusalemme, primo santuario della cristianità. Per la sua costruzione non fu scelta la piazza del Cremlino, ma le pittoresche rive del fiume Istra, vicino a Mosca, dove il patriarca fondò il monastero di Nuova Gerusalemme. I costruttori si fecero guidare dai disegni del tempio contenuti nel libro di Bernardino Amico e da un modello della cattedrale mandato da Gerusalemme. La cattedrale della Risurrezione a Nuova Gerusalemme xi/1 (1656-1685) spiccava per le sue grandiose dimensioni e incarnava il pensiero, tanto caro al patriarca, che «lo spirito è più grande del regno» (il potere spirituale è superiore a quello dello zar). Il servizio divino nella maestosa cattedrale doveva ispirare l’idea che la figura del grande sovrano, il patriarca, fosse quasi «viva incarnazione» dello stesso Cristo. Parteciparono attivamente alla costruzione e alla decorazione della chiesa della Risurrezione anche artisti e artigiani fatti venire dalla Bielorussia. Essi rivestirono il tempio con lucide e multicolori mattonelle di maiolica.
328-329. Mosca, Cremlino, Palazzo dei terem, 1635-1636; sala a crociera.
453
distruzione che colpì Mosca e Novgorod. Per un certo tempo la città era stata la capitale del governo dello zemstvo (rappresentanza della popolazione di una località rurale) e dopo i Torbidi continuò ad essere uno dei principali centri commerciali del paese; i suoi mercanti facevano egregiamente concorrenza a quelli di Mosca. La prosperità economica consentì a Jaroslavl’ di diventare un importante centro artistico. I ricchi mercanti vi costruivano chiese che superavano in dimensioni e ornamenti quelle di Mosca. Su commissione dei mercanti Skripinyj, gli architetti della città 334 eressero la chiesa del profeta Elia (1647-1650), a cinque cupole e in uno stile che ricordava le tradizionali cattedrali del xvi secolo. Tuttavia, le pareti furono affrescate con una decorazione a grossi fiori rossi e blu, un motivo estraneo alla tradizione, ma rispondente ai gusti del committente. Dalla strada si poteva vedere la facciata occidentale della chiesa, che aveva, da un lato, una cappella con copertura a tenda e, dall’altro, un campanile sempre a tenda. I fabbricati laterali erano riuniti tra loro da un basso porticato, il nartece, che circondava anche le facciate meridionale e settentrionale dell’edificio, dove erano disposte altre cappelle. Il tratto distintivo del complesso della chiesa del profeta Elia, adiacente alla corte del mercante, era la sua asimmetria. L’unione di cupole a bulbo e coperture a tenda, le stravaganti decorazioni, le diverse dimensioni delle parti dell’edificio e delle cappelle conferivano alla chiesa un aspetto vivace e fiabesco che la rendeva simile ai palazzi dei ricchi mercanti. Quasi contemporaneamente alla chiesa del profeta Elia a Jaroslavl’ fu costruita quella di Giovanni Crisostomo a Korovniki (1649-1654), grazie alle offerte dei mercanti xi/ Neždanovskij e degli abitanti del villaggio di Korovniki 4,7 (da cui il nome della chiesa). Il tempio a cinque cupole aveva ai lati cappelle appaiate, due ingressi d’onore. L’e-
Tegole a spiovente ricoprivano originariamente anche l’enorme cupola a tenda che sormontava la rotonda del tempio. Per la ricchezza degli ornamenti e delle decorazioni la cattedrale della Risurrezione superava ogni altro edificio costruito in Russia fino ad allora. Ultimata e consacrata nel 1685, la chiesa rimase a lungo un modello per gli architetti russi. I maestri bielorussi invitati da Nikon, che erano stati educati nello spirito del barocco polacco, contribuirono notevolmente ad arricchire il pensiero architettonico russo. Nel secolo xvii risultati di rilievo diede lo sviluppo del genere della chiesa di villaggio, che era espressione dei gusti e degli ideali dei ricchi mercanti russi. Tra i «gosti», i grandi mercanti di Mosca, emergeva la famiglia dei Nikitnikov, che negli anni 1635-1653 fece costruire la x/6 chiesa della Trinità a Nikitniki. Il piccolo tempio cubico 332- è poggiato su un basamento, che lo eleva al di sopra delle 333 cappelle e costruzioni circostanti. L’edificio è sormontato da una piramide di kokošniki e da cinque cupole strettamente ravvicinate. I fabbricati della chiesa erano contigui al palazzo dei mercanti e si distinguevano per la loro disposizione asimmetrica. Il corpo principale dell’edificio confina, da un lato, con un campanile a tenda, da quello opposto con una cappella dalla pomposa copertura. Nel mezzo si trova un basso refettorio. La chiesa della Trinità a Nikitniki è decorata con mattonelle di maiolica verde, gli stipiti delle finestre sono intagliati e la decorazione interna stupisce per la sua ricchezza. Questo genere di chiese, che riflette i gusti mondani dei committenti, subì sempre di più l’influenza dell’architettura civile. Alla metà del xvii secolo a Jaroslavl’ vennero realizzate grosse opere edili. Durante i Torbidi Jaroslavl’ sfuggì alla
bojare e ha un limitato spazio interno, poiché è nata come tempio-cappella, destinato esclusivamente alla famiglia del bojaro e agli abitanti della tenuta. La chiesa della Protezione della Madre di Dio a Fili era un tipico tempio a 337pianta centrale a diversi ordini. La pianta della base è co- 338 stituita da un quadrilatero sul quale sono posti due ottagoni. La tradizionale formula delle cinque cupole viene interpretata in modo nuovo, collocando al centro una torre ad una cupola, con funzioni di campanile, formata da tre ottagoni di dimensioni ridotte, che domina sulle cupole più piccole, poste sui semicerchi laterali dell’edificio. Il primo ordine è circondato da una galleria con ampie scale. La chiesa fu abbellita con decorazioni in pietra bianca che danno all’edificio una particolare espressività. Non ha fondamento il tentativo di interpretare il tipo di tempio russo a pianta centrale come un simbolo della grandezza della Russia. Tra le altre costruzioni dei bojari Naryškin è degno di nota il refettorio del monastero della Trinità di san Sergio (1686-1692). Il refettorio aveva una facciata riccamente xi/2 decorata, con pareti dipinte e cornicioni con conchiglie. Il nuovo stile venne definito «barocco dei Naryškin», ma a torto, come è stato stabilito dagli studiosi. Di elegante semplicità è il monastero di Novodevi/ x/8; (delle Vergini), capolavoro dell’architettura del xvii seco- 339 lo. Si tratta di un complesso di costruzioni al cui centro fu posta nel 1690 un’armoniosa torre campanaria che, x/ essendo molto più alta di tutti gli edifici circostanti, fun- 10 geva da punto di riferimento, non solo per il monastero, ma anche per i quartieri di Mosca a sud del Cremlino. In linea col campanile si trovano la cattedrale principale del monastero, il grosso edificio del refettorio, costruito contemporaneamente al campanile, e le chiese sulle porte. Il monastero fu circondato di mura fortificate con torri, le cui sommità avevano l’aspetto di «corone», suggerito dalla decorazione ad archi continui e merlature (costruzione degli anni 1680). La questione dell’origine del «barocco dei Naryškin» non è stata ancora dibattuta sufficientemente. La fioritura di questo stile sembra concludere la storia dell’architettura anticorussa a Mosca. Il «barocco russo» era legato all’architettura tradizionale, perciò l’abbandono di
332-333. Mosca, chiesa della Trinità a Nikitinki, 1628-1631; pianta.
331. Mosca, chiesa della Natività della Madre di Dio a Putinki, 1649-1652.
330. Uglič, chiesa della Dormizione («Mirabile»), 1628.
454
dificio centrale era circondato da gallerie aperte, le cui arcate in seguito furono chiuse e trasformate in finestre con ricchi stipiti. Accanto alla chiesa di Giovanni ne apparve più tardi un’altra. Tra le due chiese fu costruito un campanile a tenda (1669). Il complesso aveva una recinzione 335- e una porta d’ingresso con una piccola torre. La pianta 336 dà un’idea complessiva della composizione architettonica. I bojari russi del xvii secolo superavano in ricchezza la nobiltà dei secoli precedenti. La conoscenza dell’arte europea occidentale e polacca trasformò i loro gusti. I dignitari di corte e i bojari non si accontentavano più di chiese padronali del tipo che usava ai tempi di Godunov. L’edificio cubico a cinque cupole (esempio classico era x/5 la chiesa di Vjazemy) viene sostituito da templi sul tipo di quello dei Naryškin. Dopo la destituzione di Sof’ja, il bojaro L.K. Naryškin, zio di Pietro i, divenne il primo dignitario dello stato. Negli anni 1690-1693 egli costruì nella propria tenuta la chiesa della Protezione della Madre di Dio a Fili. La chiesa è nello stile delle costruzioni feudali
334. Jaroslavl’, pianta della chiesa del profeta Elia, 1647-1650.
455
Tavole a colori XI
1
1. Monastero di Nuova Gerusalemme, cattedrale della Resurrezione, 1656-1685.
2. Monastero della Trinità di San Sergio, refettorio, 1686-1692.
8. Mosca, Cremlino, cattedrale dell’Arcangelo, Giudizio universale, affresco sulla parete occidentale, 1652-1666. 9. Jaroslavl’, chiesa dell’Epifania, I giorni della creazione, affresco dell’altare, 1691.
8
9
10. Rostov, chiesa del Salvatore sull’androne, Gli eterodossi scendono agli inferi, particolare dell’affresco del Giudizio universale, anni 1680.
10
2
3
4 5
6
7
3 e 5. Monastero di Iosif di Volokolamsk, xvii secolo. 4. Jaroslavl’, chiesa di San Giovanni Crisostomo a Korovniki, 1649-1650.
6. Cattedrale della Protezione della Madre di Dio a Izmajlovo, facciata ovest, 1671-1679; maestri della decorazione in maiolica Stefan Polubes e Ignat Maksimov. 7. Jaroslavl’, chiesa di San Giovanni Crisostomo a Korovniki, finestra dell’abside centrale.
11. Simon Ušakov, Salvatore non fatto da mani d’uomo, 1658, Mosca, Galleria Tret’jakov. 12. Simon Ušakov, L’arcangelo Michele, 1676, Mosca, Galleria Tret’jakov.
13. L’apparizione dell’angelo al profeta Elia, particolare dell’icona di Semën Spiridonov, Il profeta Elia con scene della vita; Jaroslavl’, Museo di belle arti. 14. Semën Spiridonov, Il profeta Elia con scene della vita, 1679; Jaroslavl’, Museo di belle arti.
15. Calice; oro, pietre preziose, smalto, Mosca, 1664; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria. 16. Croce, appartenuta allo zar Pietro i; oro, pietre preziose, fusione, cesellatura, intaglio, smalto, Mosca, fine xvii secolo; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria. 17. Cucchiaia, appartenuta allo zar Michail Fedorovič Romanov; oro, pietre preziose, perle, battitura, niello, Mosca, 1618; Mosca, Museo del Cremlino, Palazzo dell’armeria.
456
11
12
13
14
15
16 17
queste tradizioni divenne condizione indispensabile per l’ulteriore sviluppo dell’architettura russa, che sentiva sempre di più l’influenza del barocco europeo occidentale. B.A. Golicyn, che era l’istitutore e il più stretto consigliere del giovane Pietro i, fece erigere nella tenuta di Dubrovicy vicino a Mosca la chiesa della Madre di Dio del x/ Segno (1690-1704). Il tempio in pietra bianca è sovrastato 12 da un poliedro ottagonale a due ordini, terminante con una corona traforata e una croce. Nello stile del barocco italiano, la chiesa è una testimonianza dello sviluppo dei gusti artistici delle classi alte della società russa, che si stavano avvicinando alla cultura europea. Le principali fortezze del paese furono gravemente danneggiate durante i Torbidi dell’inizio del xvii secolo. Nella seconda metà del secolo le fortificazioni in pietra del Cremlino, di Kitaj-gorod e Belyj-gorod (Città Bianca) non solo furono completamente ricostruite, ma vennero rinforzate con diverse torri. La lunghezza delle mura fortificate della capitale era ora di quasi dieci chilometri. Imponenti lavori di fortificazione furono intrapresi a Kiev dopo il passaggio della città sotto il dominio dello zar. Poderose fortezze vennero costruite ad Archangel’sk sul Mar Bianco e ad Astrachan’ sul Caspio. I monasteri, che avevano subito numerosi assalti durante il periodo dei Torbidi, si munirono in fretta di nuove difese. Si ricostruirono le torri del monastero della Trinità di san Sergio. Un esempio notevole di architettura nordica è la «città nuova» (fortezza) del monastero di Kirill di Beloozero, costruita negli anni 1653-1679. Il 340- monastero patriarcale di Nuova Gerusalemme fu forti341 ficato negli anni 1690-1694. A Rostov Velikij il metroxi/ polita della città, Iona Sysoevi/, promosse grandiosi la11 vori di ricostruzione della «Corte del metropolita» che fu trasformata in Cremlino. La costruzione incominciò ai tempi di Nikon sotto la direzione dell’architetto P.I. Dosaev, che utilizzò elementi di stili diversi. Le torri del x/9 Cremlino di Rostov avevano una funzione decorativa e non militare. La bellezza della «Corte del metropolita» voleva sottolineare l’idea della grandezza della Chiesa, condivisa dalla maggioranza degli esponenti della gerarchia. Il Cremlino, situato sulle rive del Lago Nero, era di così singolare bellezza da far pensare a una città fiabesca. Particolare ricercatezza di forme avevano le torri del moxi/ nastero della Trinità di san Sergio e di quello di Iosif di 3,5 Volokolamsk nei pressi di Mosca. Le costruzioni civili del xvii secolo appartenevano al genere della casa d’abitazione, dove dominava la tradizione dell’architettura in legno. Solo i più ricchi tra i dvorjanin e i mercanti si facevano costruire abitazioni in pietra. Uno dei primi tipi di casa padronale del secolo xvii è quella dei mercanti Pogankinyj di Pskov. La disposizione interna delle stanze è semplice: è una fuga di locali, tra i quali il più grande era di solito usato da sala da pranzo. Le finestre dell’edificio sono prive di stipiti decorati. Case padronali di questo tipo ricordavano ancora la casa fortezza, con poderosi muri e finestre molto piccole. Le abitazioni della nobiltà e dei ricchi nella seconda metà del xvii secolo avevano, invece, un aspetto totalmente diverso, poiché i committenti si orientavano sui modelli europei occidentali e le loro case si avvicinavano al tipo del palazzo. Ne sono un esempio le case del d’jak Averkij Kirillov e di Simon Ušakov e il palazzo del principe V.V. Golicyn a Mosca. Tutti questi edifici si distinguevano per la ricercatezza delle decorazioni. 472
Un autentico capolavoro di architettura anticorussa in 342legno era il palazzo dello zar nel villaggio di Kolomna vi- 343 cino a Mosca (anni 1667-1681). I tetti del palazzo erano a forma di tende e di «botti», le pareti erano dipinte con colori sgargianti ed erano adorne di intagli dorati. I moscoviti avevano definito il palazzo «l’ottava meraviglia del mondo». Caduto in rovina, l’edificio fu smantellato nel xviii secolo. Non bisogna dimenticare che in Russia il legno era il materiale da costruzione di più facile reperibilità e che la stragrande maggioranza delle chiese era in legno. Forti furono gli influssi dell’arte popolare sull’architettura in legno, che nel xvii secolo raggiunse risultati di estrema perfezione, come testimoniano le poche chiese e cappelle in legno dell’inizio del xviii secolo che si sono conservate. Ne è un esempio la chiesa della Trasfigurazione a Kiži (1714). Dopo i Torbidi ripresero e ampliarono la propria attività le botteghe artistiche del Palazzo dell’armeria, che per lungo tempo fu diretto dall’armiere B.M. Chitrovo (1655-1680), uno dei membri di più larga cultura della duma dei bojari. Furono raccolti i nomi di tutti gli artisti di maggior talento, che vennero inclusi nell’elenco del Dicastero delle armi. Una commissione di esperti aveva il compito di esaminare attentamente le icone portate dagli artisti e giudicare se esse fossero fatte «con buona arte» e se l’autore fosse in grado di eseguire una composizione o un disegno «secondo la propria immaginazione», vale a dire, autonomamente. I migliori iconografi ricevevano il titolo di «premiati artisti dello zar» e venivano mantenuti completamente a spese dello stato. Una seconda categoria era costituita dagli «artisti tenuti a vitto». Essi erano fatti venire da diverse città e ricevevano una paga giornaliera (il «vitto») per tutto il tempo in cui lavoravano per lo zar o per i monasteri. Poi venivano rimandati alle loro case, dove riprendevano le solite occupazioni. Alcuni ritengono che nel xvii secolo il Palazzo dell’armeria divenne contemporaneamente la prima Accademia russa di Belle Arti e una specie di ministero della cultura, ma questa tesi non pare avere fondamento. È certo, comunque, che grazie alla sua attività il potere statale estese il proprio controllo sulla pittura. Dopo il 1643 vennero assunti al servizio del Palazzo dell’armeria i primi artisti provenienti dall’Europa Occidentale, tra i quali era Hans Deterson, maestro pittore olandese. Oltre a eseguire i lavori per lo zar, essi dovevano istruire nella propria arte gli allievi russi. C’erano, dunque, tutte le premesse per trasformare il Palazzo dell’armeria in Accademia di Belle Arti, ma non sappiamo se questo sia effettivamente avvenuto. Hans Deterson e i suoi allievi russi Isaak Abramov e Fedor Stepanov dipingevano insegne, soffitti di palazzi, e così via. A Deterson viene attribuito uno dei primi ritratti del patriarca Nikon, ma non abbiamo prove che lo confermino. La sfera d’attività dei maestri stranieri fu, con molta probabilità, severamente circoscritta, di conseguenza essi non ebbero molte possibilità di influenzare la cultura artistica della Russia. Come prima, la maggiore attività pittorica in Russia si esplicava nel campo delle icone. Verso la metà del xvii secolo a Mosca comparve una gran quantità di icone dipinte «alla maniera dei frjazin» (all’italiana), cosa che allarmò le autorità ecclesiastiche, nella persona di Nikon. Nel 1654 il patriarca ordinò di confiscare ai moscoviti e distruggere le icone dipinte secondo i modelli «delle tele francesi e polacche». Le im473
vano allegorie e piante (seguendo il modello) ed anche volti, ma senza espressività». Per capire il senso di questa affermazione bisogna tener presente che nella raffigurazione del volto umano la crisi della scuola pittorica russa tradizionale aveva assunto tratti particolarmente aspri. I primi ritratti (parsuny, tele raffiguranti persone) comparvero in Russia nel secondo quarto del xvii secolo. Il più noto esempio di questo genere era la «tela» di Ivan iv (il cosiddetto «ritratto di Copenaghen», portato in Danimarca nella seconda metà del xvii secolo). Nell’immagine si intuiscono con difficoltà i tratti caratteristici di Ivan iv. Il figlio del Terribile, Fedor, era un uomo malaticcio e debole di mente. Nella sua «tela» questi tratti sono solo leggermente accennati. Anche la tela di Skopin-Šujskij lascia solo intuire il carattere di questo condottiero dal forte volere, che si distingueva per una corporatura eccessivamente piena e che era stato stroncato da un colpo quando aveva poco più di vent’anni. Secondo quanto afferma Łopucki, l’allievo del Palazzo dell’armeria I. Bezmin non conosceva la tecnica del ritratto e dipingeva la figura umana, evidentemente, alla maniera delle icone. Bezmin non volle restare presso Łopucki e su sua richiesta fu affidato per l’apprendistato al pittore olandese Daniel Wuchters, entrato al servizio del Palazzo dell’armeria nel 1667. Nella domanda inviata allo zar, Wuchters dichiarava di essere migliore di Łopucki e Deterson in ogni campo della pittura. Le tele su temi biblici da lui presentate confermarono pienamente le sue parole. Le opere di I. Bezmin contribuirono alla formazione del genere del ritratto russo. Dalla sua bottega, con ogni probabilità, è uscito il ritratto dello zar Fedor Alekseevi/, che unisce bizzarramente motivi realistici con i canoni del linguaggio iconico. A Bezmin viene attribuito un ritratto di gruppo: Il patriarca Nikon con il clero (Istra, museo storico-geografico, 1685 circa), ma l’attribuzione è dubbia. Nel ritratto, proveniente dal monastero della Resurrezione, Nikon è raffigurato con i paramenti solenni mentre pronuncia un sermone davanti alle autorità ecclesiastiche e agli alunni. La rara maestria con cui sono dipinti i volti dei prelati fa ritenere che il ritratto sia di fattura olandese. Nella domanda allo zar l’olandese Wuchters scriveva di essere maestro nell’arte della tela. I migliori ritrattisti del xvii secolo lavoravano per i membri della famiglia dello zar. La vicinanza alla corte
magini venivano bucate in corrispondenza degli occhi e, così deturpate, venivano portate per le vie di Mosca dalla guardia di corte, gli strelizzi, che gridavano: «Chi d’ora in poi dipingerà icone simili a queste riceverà un castigo esemplare». Alla presenza dello zar e dei bojari Nikon pronunciò un ammonimento contro le «nuove icone» nella cattedrale della Dormizione. Mentre parlava, egli alzava le immagini, le mostrava al popolo e poi le spezzava contro le lastre di ferro del pavimento. Il patriarca già si apprestava a bruciare le immagini spezzate, ma lo zar lo convinse a desistere dal suo intento e a seppellirle nella terra. Gli artisti che dipingevano icone alla maniera polacca furono colpiti da anatema e scomunicati. Nel 1654 Mosca fu devastata dalla peste. Gli abitanti, turbati, venivano in gran numero al Cremlino e minacciavano di vendicarsi nei confronti di Nikon, che con la sua «lotta alle icone» aveva attirato sulla città l’ira divina. Un’eclissi di sole, verificatasi proprio in quel tempo, rafforzò le credenze superstiziose della folla. Nikon abbandonò Mosca e la zarina rivolse un appello agli abitanti della capitale, spiegando che il patriarca non era un eretico iconoclasta e che le icone distrutte «non erano state dipinte secondo la tradizione patria, ma nella versione papale e latina». La riforma della Chiesa e il generale stato d’animo non crea vano certo condizioni favorevoli alla trasformazione del Palazzo dell’armeria in centro di diffusione della cultura occidentale («latina») a Mosca. Dopo la morte di Hans Deterson il suo posto al servizio dello zar fu preso dal nobiluomo polacco Stanisław Łopucki. Egli eseguiva lavori diversi, intagliava nel legno, faceva dorature, tracciava carte dello stato di Mosca. Col tempo il raggio di attività dei pittori stranieri si ampliò. Nel suo secondo anno di servizio Łopucki dipinse su tela un ritratto (parsuna) dello zar Aleksej Michajlovi/, che è andato perduto. C’è da pensare che l’esperimento non fosse riuscito molto bene, dato che l’autore non ricevette più commissioni di tal genere. Il conflitto tra Łopucki e i suoi allievi russi conferma l’ipotesi che questo artista fosse uno specialista soprattutto di arti applicate. Gli allievi I. Bezmin e D. Ermolin si lagnarono con la direzione del Palazzo dell’armeria perché il loro maestro «non li istruiva nell’arte del dipingere, ma aveva loro insegnato solo a lavorar col legno e dorare le tele». Łopucki spiegò che gli allievi messi a lavorare il legno e le tele «dipinge-
garantiva la fortuna degli artisti, ma li rendeva anche completamente dipendenti dal potere. I. Bezmin aveva imprudentemente messo in un ripostiglio il ritratto del nipote dello zar e per un tale «affronto» alla grandezza del sovrano l’artista pagò con l’esilio, che pose fine alla sua attività. La storia della parsuna russa rivela quanto fosse difficile la penetrazione delle idee della pittura occidentale nell’arte russa. Gli studiosi danno valutazioni tra loro molto diverse dell’arte russa del xvii secolo. Per alcuni questo è un periodo di crisi e decadenza della pittura, per altri è il periodo di fioritura e formazione del «barocco russo». Ebbe un’importanza determinante il fatto che nel xvii secolo l’arte medioevale russa entrò nella sua fase conclusiva. I progressi dell’istruzione, il lento ma costante diffondersi delle conoscenze, il contatto con la cultura umanistica dell’Occidente conducevano inevitabilmente ad una secolarizzazione dell’arte e ad una maggiore comprensione del mondo circostante e dell’uomo. A Mosca affluivano con molta più frequenza di prima libri illustrati stranieri, stampe, ma i grandi capolavori della pittura occidentale continuavano a rimanere inaccessibili per gli artisti russi di talento. La maggior prosperità economica consentì la rinascita della pittura monumentale in Russia e la fioritura delle arti applicate. Contemporaneamente, si fece più rigido il controllo sulla creazione artistica da parte dello stato e della Chiesa ufficiale. Durante la guerra civile all’inizio del xvii secolo andarono perduti o furono rovinati molti affreschi che si trovavano negli edifici del Cremlino. Ai tempi di Michail Romanov se ne iniziarono i lavori di restauro. Negli anni 1642-1643 Ivan Paisein e altri artisti chiamati da tutte le città del paese affrescarono le pareti della cattedrale della Dormizione al Cremlino. Essi dovevano rifare i vecchi affreschi dell’inizio del xvi secolo, in buona parte dedicati alla protettrice di Mosca, la Madre di Dio, e alla Trinità del Nuovo Testamento. Il dipinto illustrava l’idea dell’elezione da parte di Dio della Chiesa di Mosca come punto di
convergenza di tutte le Chiese ortodosse. Negli anni 16521666 Jakov Kazanec e, in seguito, Simon Ušakov diressero i lavori degli affreschi del Cremlino di Archangel’sk, di cui fa parte il Giudizio universale, che si trova sulla parete xi/8 occidentale della chiesa. I nuovi affreschi del Cremlino celebravano la dinastia moscovita. I membri della dinastia erano raffigurati come giusti, con l’aureola intorno al capo a indicarne la santità. I nuovi affreschi avevano molto in comune con quelli del xvi secolo, ma li distingueva una maggiore ricchezza decorativa. Purtroppo il colore iniziale è stato falsato dai numerosi restauri eseguiti in epoche successive. Gli affreschi nella chiesa di Nikitinki (1652-1653) avevano un carattere meno ufficiale e più libero rispetto a quelli del Cremlino. È uno dei primi casi nella pittura sacra russa in cui si avverte chiaramente l’influenza delle stampe occidentali. La riforma della Chiesa influenzò profondamente la pittura di icone. Il patriarca Nikon si scagliò con rabbia contro le icone dipinte secondo i modelli occidentali; come nella correzione dei libri e dei riti, il punto di riferimento per lui erano i modelli greci. Grazie agli stretti rapporti che c’erano con l’Athos e con altri centri dell’Oriente ortodosso, i Russi avevano la possibilità di conoscere diversi tipi di icone greche. L’arte neogreca, che aveva subito l’influsso della pittura italiana, incarnava agli occhi dei riformatori di Mosca l’unione ideale di fede ortodossa e altissima maestria artistica. L’allontanamento dai canoni anticorussi, sanzionato dai modelli greci, suscitò l’indignazione e la rabbia del protopope Avvakum e di altri capi dello scisma. Avvakum si affrettò a dichiarare eretica ogni deviazione da ciò che è «sublime» verso ciò che «appartiene alla carne». Nel denunciare le «impure» icone latine, Avvakum esclamò: «Ma tutto questo è dipinto secondo la carne, perché gli stessi eretici ammirano la pienezza del corpo e hanno respinto il cielo per la terra». Il furioso protopope accusava di eresia non solo i latini, ma anchei nikoniani; per lui essi non erano i sostenitori dell’arte greca ortodossa, ma i seguaci
335-336. Jaroslavl’, chiesa di San Giovanni Crisostomo e della Madre di Dio di Vladimir a Korovniki. Pianta: 1. chiesa di San Giovanni Crisostomo; 2. chiesa della Madre di Dio di Vladimir; 3. torre campanaria; 4. porte sante.
474
337-338. Mosca, chiesa della Protezione della Madre di Dio a Fili, 1690-1697; pianta.
475
dei «frjazin», ovvero degli Italiani. I partigiani della vecchia fede in un certo senso accantonarono la questione dell’eredità artistica greco-bizantina, spiegando le nuove tendenze nella pittura russa con l’influenza dell’occidente eretico. I particolari realistici disgustavano Avvakum. «È quel cane di Nikon che ha architettato di dipingere le immagini come se fossero vive. E lo fa alla maniera dei frjazin (degli Italiani), ossia degli stranieri. Ecco che anche i nikoniani hanno imparato a dipingere la Madre di Dio incinta nell’Annunciazione, come gli impuri frjazin, e il Cristo sulla croce con fattezze piene: se ne sta rotondo e grazioso, e le sue gambe sono come colonnine! Oh, oh, povera Russia! Perché vuoi imitare la maniera e gli usi stranieri!». Nella foga della polemica con i riformatori, Avvakum accusò di eresia tutti quelli con cui era in disaccordo. Ma il suo innato senso del bello non poteva non influire sulle sue valutazioni. Nel condannare la pittura che aveva posto la bellezza del corpo al di sopra di quella dello spirito, Avvakum non respingeva quella, tra la pittura occidentale, che esprimeva un ideale di bellezza divina. In una delle lettere scriveva: «Sentiamo che alcuni tra voi non venerano le icone dipinte nel nostro tempo. Anche se gli eretici dipingono realisticamente la figura del Cristo, della Purissima e dei santi, tu inginòcchiati, venera e bacia le immagini con cuore puro». L’ideale di Avvakum era il volto dell’asceta dai sentimenti puri, estenuato dal digiuno, dalla fatica e dalle sofferenze, che aveva trovato espressione nelle opere di Rublëv e Dionisij. Noto artista del xvii secolo fu Simon (Pimen) Fedorov xi/ figlio di Ušakov (1626-1686). Alcuni studiosi ritengono che 1112 egli abbia sconvolto i fondamenti della tradizione pittorica russa, altri lo considerano un tradizionalista, che rivitalizzò lo stile iconico introducendo elementi di modernità. Il suo
nome viene associato alla corrente della pittura russa che viene convenzionalmente chiamata «dei frjazin» o italiana, nonostante l’artista non ne sia stato il fondatore e il suo particolare metodo abbia avuto solo una limitata influenza sullo sviluppo della pittura del xvii secolo (V.G. Brjusova). Simon Ušakov proveniva da una famiglia di posadskie ljudi, liberi abitanti della città. A ventidue anni fu assunto come pittore di icone e per lungo tempo lavorò come disegnatore per il Palazzo degli argenti e dal 1664 per il Palazzo dell’armeria, dove diresse la Bottega iconografica. Negli ultimi anni di vita ricevette il titolo di dvorjanin. Nei suoi lavori giovanili l’artista segue fedelmente la scuola tradizionale e solo dalla fine degli anni 1650 nelle sue icone compaiono elementi nuovi: il chiaroscuro, il rispetto delle proporzioni naturali del volto. Egli dedicò molti anni della sua vita al tentativo di esprimere la divinità nell’immagine del Cristo. Nell’icona Il Salvatore non xi/ fatto da mani d’uomo egli riuscì ad esprimere sottili sfu- 11 mature psicologiche. Attraverso la serenità non terrestre del sembiante di Cristo traspare la tristezza. A causa delle numerose copie eseguite (dal 1658 al 1674), questo soggetto divenne un modello convenzionale nella produzione dell’artista. Ma il vero problema fu che, abbandonando di fatto la tradizione della pittura anticorussa, Ušakov non seppe, d’altro canto, sollevarsi al livello della pittura occidentale contemporanea, che egli prendeva a modello. Il suo Salvatore perse la severa e monumentale bellezza delle migliori icone russe, senza acquistare la forza e l’espressività delle grandi opere d’arte. Oltre alla prediletta immagine del Salvatore, Ušakov si dedicò anche alla raffigurazione della Madre di Dio. Uno dei suoi lavori migliori su questo soggetto è l’icona della Madre di Dio Eleusa di Kikko. Seguendo il modello della famosa Trinità di Rublëv, Simon Ušakov dipinse la sua Trinità. Nella sua icona gli angeli sono privi di spiritualità ed hanno figure piene e pesanti, i loro abiti sono dipinti alla vecchia maniera e gli edifici sullo sfondo sono tracciati in prospettiva lineare. La corrente «dei frjazin», che era diventata predominante nelle botteghe di iconografia del Palazzo dell’armeria, suscitò reazioni contrastanti tra i contemporanei. Alcuni accolsero con ammirazione l’arte di Ušakov, altri la respinsero. Un arcidiacono di Jaroslavl’, il Serbo Ioann Pleškovi0, che era appassionato cultore della pittura, condannò i procedimenti artistici di Ušakov e sollevò dubbi sulla canonicità delle opere prodotte dal Palazzo dell’armeria. Alla vista dell’icona di Maria Maddalena dipinta da Simon Ušakov, egli andò in collera e dichiarò che «non avrebbe accettato simili immagini corporee». Quando su un’altura accanto alle porte di Jaroslavl’ fu collocato un Crocifisso eseguito secondo la nuova maniera, l’arcidiacono si infuriò ancor di più: «Hanno portato sul monte uno straniero, dipinto su quella croce». Pleškovi0 non era uno scismatico, perciò evitava accuratamente il problema dell’influenza italiana e dei modelli greci che erano alla base della riforma di Nikon. Pur non considerando eretica la tradizione neogreca, tuttavia Pleškovi0 condannava il tentativo di imitarla. Ai suoi occhi il canone tradizionale russo, e non quello greco, era di indubbia santità. «Solo ai Russi – diceva – è dato dipingere icone e ci si deve inchinare unicamente alle icone russe, non si devono prendere icone sante da altre terre, né esse sono da venerare». Le icone portate dalle terre greche o da altri paesi non perdevano la loro santità ma, secondo Pleškovi0, non erano
339. Mosca, monastero di Novodevič.
476
degne di venerazione per le innovazioni in esse contenute e le deviazioni dal canone russo. Stimolato dalle critiche di Pleškovi0, l’iconografo Iosif Vladimirov inviò a Simon Ušakov una lunga epistola, in cui esponeva le proprie opinioni sull’arte. È strano che Vladimirov, che era più anziano di Ušakov, nell’epistola sostenesse la nuova corrente, mentre nelle sue opere seguiva prevalentemente la maniera pittorica tradizionale. Qualche tempo dopo aver ricevuto il messaggio di Vladimirov, Ušakov scrisse un Discorso per rispondere alle affermazioni del suo compagno d’arte, che anch’egli condivideva. (Non tutti gli studiosi sono d’accordo nell’attribuire il Discorso a Ušakov). Vladimirov spiegava la propria intenzione di motivare le regole dell’iconografia col fatto che i suoi contemporanei non ne comprendevano il senso e la bellezza. I vecchi trattati descrivevano con minuzia di dettagli l’aspetto esteriore del santo, la posa, gli attributi. Vladimirov non negava la validità di queste regole, ma esponeva la propria idea di bellezza. Egli raccomandava al pittore di imitare la natura nella rappresentazione del viso e del corpo umano, in questo modo la figura sarebbe apparsa «luminosa e rosea, ombreggiata e femminea». Chi ha detto che bisogna sempre dipingere il Cristo «col volto magro ed esangue?» – si chiedeva l’autore. Dal fatto che egli dimorò sulla terra consegue che bisogna raffigurarlo «con sembiante corporeo» e la Vergine Maria deve essere rappresentata «con le fattezze» di una giovane fanciulla. Agli occhi di Vladimirov la povertà di colori è un difetto della vecchia pittura. La prevalenza di tinte scure priva l’arte di «somiglianza alle cose vive». Dei sostenitori della vecchia tradizione Vladimirov scriveva: «ciò che dai tempi remoti è diventato scuro e vetusto viene da loro considerato particolarmente prezioso». Nell’epistola a Vladimirov Simon Ušakov conferisce particolare importanza al principio della corrispondenza dell’immagine alla natura e comunica all’amico la propria
intenzione di scrivere «quell’abbecedario dell’arte, che tratti di tutte quelle parti del corpo umano, le quali in occasioni diverse ci servono nella nostra pittura». L’abbecedario, o l’«alfabeto delle arti», fu scritto, ma non si è conservato fino ai nostri giorni. L’atlante anatomico del corpo umano aveva un significato completamente diverso dai precedenti manuali per i pittori di icone, gli Ikonopisnye podlinniki illustrati. La polemica sulle icone è stata interpretata dagli studiosi in modi diversi. Da alcuni fu vista come una lotta di classe dei signori feudali contro l’arte popolare, uno scontro tra il partito della corte e del clero e le forze democratiche. Vengono caratterizzate come antidemocratiche le posizioni di Vladimirov e Ušakov, mentre in Pleškovi0 si vede il rappresentante dell’orientamento democratico della città, «un mecenate di nuovo tipo, appartenente alla borghesia mercantile e industriale» (B.G. Brjusova). Simili schemi, tuttavia, non corrispondono ai fatti. Nella Russia del xvii secolo non esisteva alcuna borghesia e le nuove tendenze nella pittura di icone erano sostenute dai rappresentanti del Palazzo dell’armeria, che era presso la corte. Nonostante la loro adesione alle nuove idee, Ušakov e i suoi compagni non ruppero con le antiche tradizioni e si fermarono a mezza strada. Questo compromesso comportò delle grosse perdite artistiche. I grandi iconografi dell’antica Rus’ esprimevano la spiritualità del cristianesimo e delle immagini cristiane con molta più profondità dei maestri del xvii secolo. I critici di Ušakov giustamente mettono in rilievo questo aspetto del nuovo stile pittorico. Denunciando la maniera pittorica dei «frjazin» (occidentale), il protopope Avvakum osservava: «…dipingono il Cristo nell’immagine dell’Emmanuele con il volto turgido, le labbra vermiglie, i capelli ricci, le braccia e i muscoli possenti e lo fanno tutto robusto e col ventre grosso come uno straniero, gli manca solamente la spada al fianco, ma per tutto il resto è raffigurato in modo corporale…».
340. Monastero di Kirill di Beloozero.
341. Monastero di Kirill di Beloozero, torre di Beloozero.
477
Un aspetto caratteristico della corrente di Ušakov fu la sua sottomissione ai fini del potere statale. In questo senso è illuminante l’icona di Simon Ušakov: La Madre di Dio di Vladimir (L’albero dello stato di Mosca, 1668, Galleria Tret’jakov). Al riparo delle mura e delle torri del Cremlino, vicino alla cattedrale della Dormizione il principe Ivan Kalita pianta un albero che viene innaffiato dal metropolita Petr. Accanto al loro, da una parte è raffigurato lo zar Aleksej, dall’altra sua moglie con i figli. Dalle radici dell’albero si alza un tronco con dei rami, che ha al centro una grossa icona della Madre di Dio di Vladimir, la protettrice di Mosca. Sui rami sono dipinti medaglioni con i ritratti dei santi e dei sovrani di Mosca. Tra gli ultimi troviamo gli zar Fedor Ivanovi/ e Michail Romanov, a sottolineare l’idea della continuità dell’antica e della nuova dinastia. Secondo A.I. Uspenskij, «in questa icona Ušakov raggiunse la perfezione massima a cui poteva arrivare l’iconografia russa con i propri mezzi di sviluppo». Gli storici dell’arte rilevano che l’icona di Ušakov è priva di armonia interna per l’eterogeneità e la diversità di proporzioni delle immagini e le dissonanze coloristiche. Non si può considerare convincente il tentativo di interpretare in senso barocco l’opera di Simon Ušakov. «Per quanto Iosif Vladimirov e Simon Ušakov usassero nel dipingere la maniera “chiaroscurata”, considerata all’avanguardia, in confronto con l’arte europea del tempo la loro pittura appariva decisamente provinciale» (G.K. Vagner). Simon Ušakov diresse la Bottega iconografica dal 1664 al 1686 e sotto la sua influenza si formò la scuola pittorica del Palazzo dell’armeria di Mosca. Allievo di Simon Ušakov fu Ivan Maksimov, autore di numerose illustrazioni per libri. Nel 1672 egli eseguì le illustrazioni per il cosiddetto Tituljarnik, un libro che includeva, tra l’altro, una serie di ritratti di sovrani e vescovi russi. Fedor Evtichiev Zubov diresse la Bottega delle icone del Palazzo dell’armeria insieme a Simon Ušakov. Figlio di un diacono di Solikamsk, egli nacque intorno al 1615 e morì nel 1689, dopo essere diventato iconografo alle dipendenze dello zar. Aveva passato la gioventù nel Nord del paese a Ustjug Velikij, da dove fu chiamato a Mosca
a lavorare per lo zar. L’artista abbandonò poi la capitale di sua volontà per far ritorno nelle regioni settentrionali; in seguito si recò a Jaroslavl’, da dove fu nuovamente chiamato a Mosca. La sua condizione di favorito a corte portò all’artista benessere materiale, ma introdusse nelle sue opere un elemento di routine. I membri della famiglia dello zar solevano ordinargli icone di santi in occasione del proprio onomastico. In questo caso era il genere stesso ad escludere ogni possibilità di ricerca artistica. Molte delle opere di Zubov hanno un carattere arcaico, ma le sue creazioni migliori rivelano la ricettività dell’artista nei confronti di ogni tipo di novità. Il monaco Nikodim, al secolo l’iconografo Vasilij Mamontov, fu uno degli allievi di Zubov o un suo collaboratore. Egli compilò il migliore Ikonopisnyj podlinnik del xvii secolo, che apparteneva al monastero di Antonij sulla Sija, situato nel Nord del paese. Tra i modelli di icone da lui raccolti, oltre a molti eseguiti da lui stesso, ci sono disegni di P. \irin, F. Zubov, S. Spiridonov e altri. I numerosi disegni del podlinnik della Sija forniscono una chiara im- 346magine dei canoni iconografici del xvii secolo. 349 Dal 1668 lavorò per il Palazzo dell’armeria l’iconografo Nikita Ivanov figlio di Erofeev, originario del villaggio di Pavlovskoe nel distretto di Nižnij Novgorod (da cui deriva il soprannome di Pavlovec)». Egli divenne famoso come maestro di icone in miniatura. Tra le sue opere migliori è l’icona La Madre di Dio giardino chiuso (1670 circa), caratterizzata da un certo raffinato lirismo. Lo stile della pittura di N. Pavlovec viene definito «decorativo» (Ju.G. Malkov). A Mosca il lavoro degli iconografi veniva sottoposto a un severo controllo, ma in altre città gli artisti godevano di grande autonomia. Tra i più importanti centri artistici abbiamo Jaroslavl’, Kostroma, Rostov, Novgorod. Un’idea del livello delle scuole locali ci è data dall’affresco dei maestri di Jaroslavl’ I giorni della creazione (Pittura dell’altare della chiesa della Teofania xi/9 a Jaroslavl’, 1691); dall’affresco La discesa degli eretici all’inferno (frammento del Giudizio universale, sulla xi/10 parete occidentale della chiesa del Salvatore sull’androne a Rostov, anni 1680).
342-343. Palazzo imperiale nel villaggio di Kolomna, disegno di A. Hilferding, 1768, San Pietroburgo, Museo Ermitage. Chiesa della Trasfigurazione a Kiži, 1714.
478
Un fenomeno rilevante nell’arte russa del xvii secolo fu l’opera di Gurij Nikitin, il più eminente rappresentante della scuola pittorica di Kostroma. Nikitin nacque intorno al 1620-1625 e morì nel 1691. Suo padre era un commerciante e possedeva una bottega a Kostroma; la sua morte prematura condusse la famiglia alla rovina economica. Gurij non si sposò mai, «permanendo nella verginità fino alla fine dei suoi giorni», e dedicò alla pittura tutte le sue capacità e le sue energie. Egli è famoso innanzitutto per i suoi affreschi. Negli anni 1660 G. Nikitin, con la squadra degli iconografi di Kostroma, fu chiamato a Mosca per dipingere la cattedrale della Trinità nel monastero Danilov. Al centro del complesso pittorico stanno le tematiche trinitarie, il ciclo cristologico e l’Apocalisse. Nikitin non aveva accolto favorevolmente la riforma ecclesiastica di Nikon e si ritiene che il suo atteggiamento nei confronti dei nikoniani abbia preso corpo nelle scene dell’Apocalisse. Al tempo in cui vennero eseguiti gli affreschi, l’igumeno del monastero Danilov era Ivan (Grigorij) Neronov, che era stato uno dei promotori dello scisma, in seguito pentitosi. Nella visione del mondo dei vecchi credenti le idee dell’Apocalisse occupavano un posto particolare. Essi vivevano nell’attesa della venuta dell’anticristo e nel timore della scomparsa della «vera fede». Nell’affresco del monastero Danilov il ciclo apocalittico è raffigurato con grande dovizia di particolari. Negli anni 1680-1682 su commissione degli Skripinyj, ricchi mercanti di Jaroslavl’, G. Nikitin, con una brigata di iconografi di Kostroma e Jaroslavl’, affrescò la chiesa
Godette di notevole fama nel xvii secolo Semen Spiridonov Cholmogorec, nato nel villaggio di Cholmogory nel Nord in una famiglia di posadskie. All’età di venticinque anni per ordine dello zar si trasferì con la famiglia a Mosca e più tardi entrò al servizio del Palazzo dell’armeria. La maggior parte dei lavori per committenti locali furono da lui eseguiti quando si trovava a Jaroslavl’ e quasi tutte le opere sue che ci sono rimaste sono, in un modo o nell’altro, legate a questa città. La sua maniera è arcaica, molto lontana dalle nuove tendenze di Mosca. Per la raffinatezza della tecnica e la ricercatezza il suo stile ricorda la tarda scuola degli Stroganov. Si possono considerare creazioni tipiche dell’artista l’icona del Salvatore Pantocratore in trono con scene evangeliche, nella chiesa di San Giovanni Evangelixi/ sta a Jaroslavl’, e l’icona Il profeta Elia con scene della vita 13- (1679, Jaroslavl’, Museo delle arti). Spiridonov è l’autore 14 dell’icona La Madre di Dio di Cipro con strofe dell’inno Acatisto. L’icona sorprende per l’abbondanza d’oro: la Vergine ha il capo cinto da una corona d’oro e siede su un trono d’oro, disegnato con precisione di dettagli. La figura della Madre di Dio è incorniciata da una fascia d’oro con le parole del canto liturgico: «Vergine prima della Nascita e Vergine durante la Nascita e Vergine dopo la Nascita». Il suo volto ha un’espressione un po’ infantile e le sue braccia sproporzionatamente piccole non toccano quasi il Cristo fanciullo, che le siede in grembo. Nello stile iconografico tradizionale vengono raffigurati i miracoli della Madre di Dio nelle quaranta scene marginali dell’icona. Queste piccolissime miniature sono eseguite con la massima cura.
344-345. Pantocratore, fol. 169v. e Madre di Dio della Deesis, fol. 223; dal Sijskij ikonopisnyj podlinnik, San Pietroburgo, Biblioteca pubblica.
479
ha osservato V.G. Brjusova, l’artista vedeva la sorgente principale dell’amore e dell’unità nell’insegnamento del Vangelo e l’aspetto più potente della sua opera fu la partecipata raffigurazione della bontà umana. Gli artisti migliori di Kostroma, Jaroslavl’ e di altre scuole pittoriche di provincia infrangevano di continuo i canoni iconografici. Si arrivò in tal modo ad una trasformazione delle caratteristiche dell’affresco. La pittura murale perse in monumentalità e le illustrazioni di passi delle Scritture si riempirono sempre più di dettagli quotidiani. Nel xvii secolo moltissime furono le chiese affrescate nelle città della Russia. I. Grabar’ osservò che «in nessun paese, neppure in Italia, esiste un numero così alto di affreschi, eseguiti, tra l’altro, in così breve tempo». Evidentemente questi lavori non furono fatti solamente da iconografi di professione, ma si ricorse anche all’opera di modesti artigiani. Pur nella loro rozzezza, questi affreschi sono frutto di «un’arte stupenda e autenticamente popolare» (I. Grabar’). Lo stile della silografia popolare russa si formò inizialmente nell’arte dell’affresco e, successivamente, anche nelle miniature su libro. Un esempio di silografia popolare è costituito dalla Bibbia di Vasilij Koren’. Originario della Bielorussia, Koren’ visse a Mosca nella Meš/anskaja sloboda (Rione della borghesia), dove incise e stampò i suoi «fogli» su temi biblici. Di origine popolare, la silografia russa fu indubbiamente influenzata dall’arte incisoria occidentale, che alla fine del xvii secolo aveva ricevuto ampia diffusione in Russia. Il libro di Koren’ esercitò un’influenza sulla tarda iconografia e fornì gli strumenti di espressione alla silografia russa del xviii secolo. L’arte anticorussa si sviluppò come parte di quella europea; vi si possono infatti osservare particolarità stilistiche comuni, sebbene esse si ritrovino in Russia in periodi
del profeta Elia a Jaroslavl’. Le pitture della chiesa, osservò I. Grabar’, sono illuminate «come dall’evanescente riflesso delle grandi leggende». Gli affreschi sono divisi in più ordini: quello superiore è dedicato al Vangelo, più in basso abbiamo i cicli La chiamata degli apostoli e Le opere di Pietro e Paolo. Alla Vita del profeta Elia (ultimo ordine) vengono preposte le parole di Cristo: «Nessuno è profeta nella propria patria». La scena finale è: L’ascesa al cielo di Elia su un carro di fuoco; salendo al cielo Elia consegna al suo discepolo Eliseo il proprio mantello e il dono della profezia «raddoppiato». Il ciclo delle Opere del profeta Eliseo si trova sulla parete meridionale della chiesa. Una delle scene del ciclo è La storia della sunammita. Gli affreschi di G. Nikitin rivelano l’influenza delle incisioni occidentali e in particolare delle incisioni della Bibbia di Piscator, ma nel complesso l’artista rimane all’interno della tradizione. La composizione delle pitture è tale che le singole scene non sono nettamente divise e «appaiono come un unico arazzo decorativo, che copre con i suoi arabeschi azzurro-oro tutte le pareti del tempio» (Ju.G. Malkov). Su richiesta del patriarca di Antiochia, il pittore di Kostroma dipinse le icone principali del Pantocratore con le feste e della Madre di Dio Odigitria con l’inno Acatisto per le cattedrali di Damasco e Antiochia. Alcuni studiosi attribuiscono a G. Nikitin l’icona Il Simbolo della fede (1668-1669, dalla chiesa di Gregorio di Neocesarea a Mosca). L’icona illustra le parole della preghiera «Credo in un solo Dio» e ognuna delle scene marginali illustra un versetto del testo. Nell’icona è evidente l’influenza delle incisioni europee occidentali. È risaputo che Gurij Nikitin, in complesso, si dimostrò indifferente verso i soggetti simbolici e dogmatici. Come
346-347. Crocifissione di Cristo, fol. 212; e Deesis, fol. 70v.-71; dal Sijskij ikonopisnyj podlinnik, San Pietroburgo, Biblioteca pubblica.
480
quella del panagiar che si trova nella cattedrale della Santa Sofia a Novgorod. I rivestimenti per il trasporto solenne dell’Evangeliario nel xvii secolo continuavano ad essere fatti nello stile del tempo di Ivan il Terribile, ma con maggiore ricchezza di colori e decorazioni. Uno dei più begli oggetti di questo genere è la copertura per Evangeliario eseguita nelle botteghe del Palazzo dell’armeria nel 1678. Gli orafi che vi lavorarono usarono una complessa tecnica in cui lo smalto veniva sovrapposto alle figure cesellate. La copertura è tempestata di molte pietre preziose ed è uno degli esempi più notevoli dell’oreficeria di Mosca. È degna di menzione l’arca istoriata, eseguita nel 1621 su commissione del principe I.A. Chvorostin, che era anche scrittore di fama. La sua ammirazione per la cultura occidentale trovò riflesso nella composizione dei disegni che rappresentano alcune scene evangeliche: la Crocifissione, l’Apparizione di Cristo a Maria Maddalena, la Risurrezione. Di rara perfezione artistica è la croce di Pietro i, della fine del xvii secolo. L’oggetto è costituito da una croce di fattura più antica, formata da grossi smeraldi e con un crocifisso intagliato, che è stata successivamente collocata su una grande croce d’oro, decorata con uno stravagante or- xi/ namento vegetale e pietre preziose. 16 Le cucchiaie d’argento e d’oro conservarono nel xvii secolo la forma del tradizionale vasellame russo, ma verso la fine del secolo non venivano impiegate per uso domestico, bensì come ornamento, come dono, e via dicendo. Uno dei migliori esempi di tali oggetti è la cucchiaia dello zar xi/ Michail del 1618. 17 Verso la fine del xvii secolo l’influsso dell’arte occidentale appare evidente persino nella produzione del vasellame russo più tradizionale. Ne è un esempio la bratina (coppa usata durante i brindisi che veniva passata da un convitato all’altro) appartenente a P.A. Tret’jakov. Le figure alla base della coppa e i fiori sul coperchio hanno come modello le coppe tedesche del xvii secolo. Nel xvii secolo raggiunse grande perfezione l’arte degli smalti. Pitture a smalto ornano riccamente preziosi oggetti, sia di uso liturgico che profano. Un autentico capolavoro dei maestri di Mosca è rappresentato dalla coppa ordinata dal patriarca Nikon come regalo per lo zar Aleksej Michajlovi/. Per eleganza e ricchezza di colori il vasellame liturgico poteva competere con quello di uso profano. Fa parte del vasellame liturgico il calice che apparteneva alla famiglia del bojaro B.I. Morozov e che, dopo la sua morte, fu donato dalla vedova al monastero del Miracolo (anno 1664). Il calice era un oggetto liturgico e veniva usato durante la celebrazione eucaristica, a simboleggiare la comunione xi/ del genere umano con il sacrificio salvifico di Cristo. 15 Verso la metà del xvii secolo il Palazzo dell’armeria produsse dei modelli unici di armi da parata, alla cui realizzazione parteciparono i migliori maestri e orafi russi e stranieri. Il pettorale dell’armatura dello zar Aleksej fu eseguito nel 1663 da N. Davydov, maestro al servizio del Palazzo dell’armeria. Secondo il tradizionale stile russo sulla cotta d’acciaio è fissato il pettorale che ha al centro l’aquila araldica e intorno una decorazione a motivi vegetali e figure di animali e uccelli fiabeschi. I prodotti dell’oreficeria del xvii secolo ci testimoniano sia il progredire delle arti russe tradizionali, sia il raffinarsi dei gusti estetici. Per la famiglia dello zar venivano di continuo acquistati in Germania, Olanda, Inghilterra e in altri paesi occiden-
posteriori e solo come accenni. Il xvii non fu un secolo di rinascita per la Russia, in quanto il periodo del Prerinascimento si protrasse troppo a lungo, senza giungere a conclusione. L’arte anticorussa entrò in un periodo di crisi: i vecchi procedimenti artistici avevano esaurito le proprie risorse. L’arte russa fu gravemente danneggiata dal suo isolamento dalla cultura degli altri paesi, che raggiungeva risultati sempre più sorprendenti. Grazie all’intensa attività del Palazzo dell’armeria le autorità riuscirono a consolidare il controllo sul lavoro dei pittori. I circoli di corte, nonostante la loro apparente simpatia per l’Occidente, non avevano nessuna voglia di rinunciare alle antiquate istituzioni sociali e alle tradizioni artistiche. I sovrani di Mosca possedevano il più ricco tesoro in Europa, raccolto nel corso dei secoli. Nel periodo dei Torbidi parte degli oggetti andarono perduti o rubati. Con i Romanov ripresero la propria attività i maestri del Palazzo dell’armeria, gli orafi del Dicastero dell’argento e del Dicastero dell’oreficeria. L’erario si era largamente servito dell’opera di orafi tedeschi e olandesi, a cui erano state commissionate le regalie dello zar, scomparse negli anni dei Torbidi. Nel 1626 fu eseguita una nuova corona di gala per lo zar Michail, ornata di piastre traforate e smaltate, di grosse pietre dure e perle. Tra le pietre spiccano enormi zaffiri. Sulla sommità della corona, al posto della croce, è collocato un grosso smeraldo cabochon di vivo colore verde. Su ordine dello zar Michail gli artigiani del Cremlino di Mosca trasformarono in trono la poltrona usata durante le cerimonie, che era di fattura orientale. Essi si servirono come modello del trono di Ivan iv (la cosiddetta «sedia d’avorio»). Nel nuovo trono rimangono evidenti le caratteristiche dell’oreficeria orientale (il taglio delle pietre preziose, l’accostamento di oro e turchesi, ecc.). I successori di Michail utilizzarono la sua «poltrona» come trono da campo. Come segno del proprio potere monarchico Michail Fedorovi/ si limitava a due oggetti: il globo con la croce, simbolo di dominio, e lo scettro, entrambi conservatisi per miracolo nel tesoro durante il periodo dei Torbidi. Lo zar Aleksej si fece fare da orafi greci di Istanbul nuove regalie: il globo, lo scettro e i barmy (preziosi collari portati durante le cerimonie). Il trono donato allo zar Aleksej Michajlovi/ dai mercanti armeni era opera di artigiani persiani ed era decorato con ottocento diamanti, motivo per cui fu poi chiamato «trono di diamanti». Dopo la rivolta degli strelizzi del 1682 si ebbero contemporaneamente due zar, Ivan Alekseevi/ e Pietro Alekseevi/, per cui fu fatto fare un trono doppio in argento. Infrangendo le tradizioni moscovite, i maestri del Cremlino conferirono al trono una forma ricercata, nello stile del barocco europeo. Famoso orafo russo del xvii secolo fu il maestro Gavrila Evdokimov, che insieme ad alcuni «compagni» eseguì nel 1630 la figura dello zarevi/ Dmitrij su un reliquiario d’argento, che ornava la sua tomba nella cattedrale dell’Arcangelo. Sebbene non sembri fondato ritenere che le sembianze dello zarevi/ siano state eseguite con somiglianza ritrattistica, è però evidente il tentativo dell’artista di infondervi l’espressione di un volto sofferente di bambino. I maestri del xvii secolo amavano rifarsi ai modelli del passato. Ne è un esempio il panagiar (vaso liturgico usato per trasportare la prosfora della Madre di Dio – Panagia), costituito da un gruppo di quattro angeli inginocchiati che sorreggono un piatto. Sembra che questo oggetto sia stato ordinato dal patriarca Nikon e la sua forma imita 481
L’esposizione armonica del tema rendeva il canto liturgico più dolce, lo avvicinava alle melodie popolari (A.I. Rogov). I cantanti e i compositori russi incominciarono a usare il nuovo sistema di scrittura musicale a cinque righi. Gli spartiti che si sono conservati rivelano l’indubbia influenza esercitata sulla cultura musicale russa dalla musica italiana (veneziana), che giunge in Russia attraverso la Polonia e i musicisti polacchi. Nella seconda metà del xvii secolo nelle chiese di Mosca comparvero numerosi cantori provenienti da Kiev, educati secondo la tradizione della musica cattolica polacca. L’ucraino N. Dileckij, allievo di famosi musicisti polacchi, stabilitosi a Mosca, pubblicò il primo manuale di musica vocale. La musica barocca suscitava reazioni diverse tra i contemporanei. Nikon era favorevole alle novità in campo musicale, mentre i vecchi credenti si lamentavano che «a Mosca in molti luoghi si cantano canzoni e non canti sacri», «un tale canto si può anche accompagnare con i gusli» (antico strumento popolare russo a corde). Poiché a corte era apprezzata la musica d’organo, si facevano venire organisti dalla Polonia, dall’Olanda e da altri paesi.
tali oggetti di notevole valore artistico, prodotti dai migliori orafi. Inoltre, il tesoro riceveva in continuazione i doni degli ambasciatori, di cui è un esempio il vaso a forma di cervo, fatto ad Amburgo intorno agli anni 1635-1644. Il prezioso oggetto fu donato allo zar Michail nel 1644 dagli ambasciatori danesi che avevano accompagnato a Mosca il figlio del re, Waldemar. La «grande ambasceria» polacca portò in dono allo zar Aleksej un enorme piatto ovale, eseguito dai maestri polacchi a Danzica alla metà del xvii secolo. Al centro del piatto si trova un medaglione con una scena di soggetto mitologico: Perseo e Andromeda. Nel xvii secolo continuò a svilupparsi la tradizione del ricamo decorativo russo, che per la ricercatezza e la magnificenza fu chiamato «ricamo di perle». Le sarte ricamavano sulla tela ornamenti geometrici e vegetali e lo spazio rimasto libero veniva riempito con ricami fatti di perle e lustrini. In tal modo venivano ornate le vesti da cerimonia degli esponenti della gerarchia ecclesiastica. Per la loro preparazione si impiegavano tessuti preziosi, importati dall’Italia e dai paesi orientali. Su commissione dello zar Michail fu confezionato un felon’ (paramento sacerdotale) in velluto veneziano a base di finissima seta, che fu da lui donato al monastero di famiglia dei Romanov a Mosca. Per la preparazione degli abiti da cerimonia le sartorie del Cremlino usavano, tra l’altro, velluti persiani e turchi, seta e raso. A Mosca si sono conservati numerosi ricami eseguiti nel xvii secolo nella sartoria dei nobili Stroganov. Gli abiti dello zar venivano confezionati con preziosi «tessuti d’oltremare» e venivano ornati con merletti, pizzi e bottoni d’oro tempestati di pietre preziose. Il canto liturgico ortodosso era la forma d’arte più vicina all’iconografia. Nel xvii secolo entra in crisi il sistema di canto tradizionale, che cede il posto al canto a più voci.
Conclusione Il periodo della Moscovia copre un’intera epoca della storia della Russia medioevale. Capitale di un piccolo principato indipendente all’inizio del xiv secolo, Mosca divenne nel xvi secolo capitale di un vasto regno. Non si deve credere che il ruolo di Mosca come centro della Grande Russia fosse storicamente predeterminato dall’inizio e che la rigida centralizzazione imposta alle terre e ai principati sia stata la salvezza del paese. La repubblica feudale di Novgorod costituiva un organismo politico più vicino al tipo europeo di quanto non fosse la monarchia moscovita. Erano gli stessi abitanti di Novgorod a chiamare i principi, con cui stabilivano un patto (rjad); inoltre, nella città le cariche più alte erano elettive. Essendo sfuggite all’invasione mongola, le terre di Novgorod conservavano intatte le loro antiche tradizioni culturali. L’economia era prospera; attraverso l’Ansa germanica la città intratteneva ampi rapporti commerciali coi paesi dell’Europa occidentale. Nonostante ciò, la repubblica non aveva un proprio esercito e non fu in grado di opporsi alla conquista da parte di Mosca. La sconfitta di Novgorod spianò la strada al trionfo dell’assolutismo in Russia. I possedimenti fondiari statali, costituiti sulla base delle proprietà confiscate ai bojari di Novgorod e Pskov, giocarono all’interno della Russia un ruolo dominante. I membri della vecchia classe dei bojari diventarono dvorjanin, gente d’armi al servizio dello zar, dopo aver tutti ricevuto in assegnazione i pomest’e dall’erario. La riforma militare del xvi secolo aveva in sé elementi utopici. Nel corso dei censimenti dei dvorjanin venne introdotto nello stato il sistema di distribuire quote fisse di pomest’e, le quali determinavano la posizione dell’uomo d’armi e di tutti i suoi discendenti. La quota riservata al padre serviva come misura per determinare l’assegnazione in proprietà delle terre ai figli e ai nipoti del dvorjanin. A queste condizioni fu accettata dai dvorjanin la riforma, che introduceva il principio del servizio militare obbligatorio. Verso la fine del xvi secolo divenne chiaro che non era realizzabile il progetto di assegnare terre coltivate alle nuove generazioni di dvorjanin, in quanto la crescita del fondo di terre statali non teneva il passo col processo di crescita biologica. Le famiglie dei dvorjanin avevano figli
348. Apostoli, dal Sijskij ikonopisnyj podlinnik, fol. 67v.; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica.
482
l’aristocrazia della Moscovia. I sovrani dividevano il potere con i propri nobili. Avendo deciso di sottrarsi alla tutela della duma, lo zar Ivan iv costituì l’opričnina e scatenò il terrore contro i propri sudditi. Fu presto chiaro che le stragi e le persecuzioni che ne conseguirono non erano dettate da necessità politica. L’alta burocrazia dei dicasteri di Mosca, i piccoli proprietari terrieri di Novgorod, i famigliari dello zar e, infine, tutti i capi dell’opričnina, che ne erano stati gli artefici, caddero vittime del terrore. I gravi fatti legati all’opričnina arrecarono un danno enorme all’economia del paese e determinarono molti aspetti della sua cultura politica. Secondo lo schema adottato dalla storiografia sovietica le lotte di classe ebbero un ruolo determinante nella storia della Russia medioevale. Le riforme e il terrore del Terribile, l’asservimento dei contadini, i Torbidi dell’inizio del xvii secolo, che ricevettero poi la denominazione di guerra contadina, sarebbero tutte «battaglie di classe». È uno dei tanti miti storiografici. Con i Torbidi abbiamo la prima guerra civile nella storia russa, legata anzitutto alla crisi socio-politica interna e alle divisioni in seno ai dvorjanin. L’impero crollò sotto il peso delle guerre di conquista e della proprietà terriera statale, che aveva trasformato il sistema fiscale. Le imposte eccessive danneggiarono la produzione e le finanze del paese, portandolo alla rovina. La comparsa dell’impostore fu il fatto che innescò la rivolta, a cui presero parte i dvorjanin del sud, le guarnigioni delle fortezze meridionali, i Cosacchi che abitavano le terre libere ai confini dello stato. La guerra civile minò la potenza del regno di Mosca e le invasioni straniere portarono la tragedia della Russia al suo punto culminante. L’impero cominciò a frantumarsi: si staccò lo «stato di Novgorod», che si sottomise all’autorità della Svezia; la Polonia conquistò la fortezza di Smolensk, la cui posizione era di importanza vitale per la difesa dei confini. Per due anni Mosca fu occupata dalla guarnigione polacca. Alla fine dei Torbidi acquistarono notevole importanza i zemskij sobor, organo che rappresentava le diverse classi sociali. I sobor contribuirono a riportare il paese a una situazione di normalità, ma la rinascita dell’assolutismo impedì che questo organismo si trasformasse in parlamento. Quando la dinastia dei Romanov si insediò sul trono, il paese era in totale sfacelo. Buona parte della popolazione era perita, le città e le campagne erano spopolate, il commercio era in rovina. Ci volle più di mezzo secolo per dissodare nuovamente i campi abbandonati e riportare l’agricoltura ai livelli in cui era alla metà del xvi secolo. Sebbene i Torbidi fossero finiti, la crisi non era stata superata, per cui insurrezioni e rivolte continuarono nel corso di tutto il xvii secolo. Dopo aver a fatica consolidato il proprio potere, i Romanov iniziarono la ricostruzione dell’impero. Con Aleksej Michajlovi/ gli eserciti russi conquistarono la Lituania e alcune fortezze nella Livonia svedese, senza però riuscire a mantenerne il possesso. A conclusione dei Torbidi riprese l’avanzata dei Russi verso Oriente. Piccoli reparti di militari e Cosacchi, dopo aver vinto la resistenza delle tribù locali, arrivarono alle rive dell’oceano Pacifico, all’Amur e alla Kam/atka. Il regno di Mosca divenne una grande potenza euroasiatica. La posizione della Chiesa all’interno dello stato russo mutò a seconda dei diversi periodi storici. Quando mancava l’unità politica la Chiesa, essendo l’unica istituzione comune a tutta la Russia, fungeva da arbitro nei conflitti
in abbondanza e l’erario era in grado di dare ai giovani solo piccoli appezzamenti, che non corrispondevano alla quota loro spettante. La crisi del sistema dei pomest’e e la caduta in rovina dei piccoli dvorjanin minacciavano di scombinare il sistema di reclutamento militare della Moscovia, che era alla base della potenza dell’impero. Questa situazione spinse il governo a nuovi tentativi di esproprio forzato delle proprietà private e fu emanata una legge che ampliava le possibilità di alienazione a favore dell’erario dei ricchissimi possedimenti principeschi. Per introdurre l’opričnina lo zar Ivan iv confiscò un grande numero di possedimenti aviti (votčiny) di famiglie principesche, alle quali furono distribuite in cambio piccole tenute nella regione di Kazan’. Questo provvedimento costituì un precedente in forza del quale lo stato si arrogava il diritto di disporre delle tenute feudali private nello stesso modo in cui disponeva delle terre demaniali. Ciò nascondeva una seria minaccia per l’istituto della proprietà privata della terra e suscitò il malcontento di nobiltà e dvorjanin, che riuscirono ad ottenere la revoca dell’ukaz sul trasferimento forzato nella regione di Kazan’. Alla fine il conflitto sfociò in un sanguinoso terrore. La formazione del regno di Mosca alla metà del xvi secolo segnò di fatto l’inizio del periodo imperiale della storia russa. Lo stato si impegnò in una serie continua di guerre di conquista. L’affermazione dell’assolutismo significò il trionfo di quegli stessi principi imperiali anche all’interno della società russa. Il supremo organo della monarchia russa era la duma dei bojari, che rappresentava
349. Disegno con volti di santi, dal Sijskij ikonopisnyj podlinnik, fol. 579v.; San Pietroburgo, Biblioteca pubblica.
483
tra i principi e si valeva dell’autorità della Chiesa bizantina. Ciò le conferì una posizione di vantaggio rispetto al potere secolare, ma non portò alla nascita di una teocrazia. Nel processo di formazione dello stato unitario tra le autorità secolari e quelle ecclesiastiche ci fu un breve ma intenso periodo di conflitto. In seguito a una ripetuta confisca dei beni, la più grande diocesi del paese, quella dell’arcivescovo di Novgorod, perse la maggior parte delle proprie ricchezze terriere. Il tentativo di usare lo stesso trattamento con le diocesi della Moscovia, tuttavia, non ebbe successo. Le supreme gerarchie ecclesiastiche si ribellarono contro il programma di secolarizzazione del governo e ai tempi del Terribile il capo della Chiesa entrò in aperto dissidio con il monarca. Il conflitto ebbe come esito la condanna del metropolita e una serie di processi contro alti prelati della Chiesa. La dottrina della Chiesa sulla elezione divina del capo del Sacro impero russo portò i suoi frutti. Il pio zar Ivan iv godeva di incontestata autorità nelle sue decisioni riguardo alle questioni sia secolari che ecclesiastiche. La guerra civile portò a una completa decadenza del potere assoluto e la Chiesa approfittò di questa congiuntura per perseguire i propri fini. Un concorso di circostanze casuali favorì la restaurazione del suo potere: fu nominato patriarca col titolo di «grande sovrano» l’autoritario Filaret Romanov, padre del debole zar Michail Romanov. La Chiesa si trovò temporaneamente in posizione di superiorità rispetto al potere secolare. Uno degli eredi di Filaret fu il patriarca Nikon, uomo deciso e autoritario, che esercitava una illimitata influenza sullo zar Aleksej e divenne, di fatto, il capo dello stato. Nikon sosteneva l’idea della superiorità del potere della Chiesa su quello dello stato, ma il processo contro di lui pose fine alle tendenze teocratiche della Chiesa, che fu costretta ad occupare una posizione di sottomissione nel sistema dello stato autocratico. La Chiesa ebbe un’eccezionale influenza sullo sviluppo della cultura russa. La conversione al cristianesimo estese anche alla Rus’ il retaggio culturale bizantino. La conquista mongola rese più difficoltosi, ma non spezzò i tradizionali legami della Rus’ con Bisanzio e con i popoli slavi dei Balcani. Le invasioni turche non interessarono la Rus’ direttamente, ma le conseguenze che ebbero sullo sviluppo della cultura russa furono profonde quanto quelle dell’invasione tatara. I capolavori di Andrej Rublëv, allievo dell’artista bizantino Teofane il Greco, sono una testimonianza dei sorprendenti risultati raggiunti dall’arte nazionale russa e dell’importanza che ebbe per la Rus’ il potente apporto culturale proveniente da Bisanzio e dai paesi balcanici. L’opera di Dionisij, che si era formato sotto l’influsso della scuola di Rublëv, rappresentò l’ultimo barlume di quell’epoca. Il Prerinascimento russo sarebbe stato impensabile senza Bisanzio. Come in Occidente, così anche nella Rus’ alla base del grande risveglio culturale dei secoli xiv-xv fu la riscoperta delle antiche tradizioni, che erano state conservate dai Bizantini. Le poche opere di autori antichi tradotte in lingua russa nella Rus’ furono considerate alla stregua di dogmi, o addirittura vietate dalla Chiesa. Mentre in Occidente lo studio dell’eredità degli antichi preparò la strada all’epoca del Rinascimento, in Russia il Prerinascimento non riuscì a svilupparsi e non giunse a conclusione. Con la caduta di Bisanzio l’influsso della cultura bizantina su quella russa incominciò rapidamente a indebolirsi. L’ampliamento dei rapporti culturali con l’Italia alla fine del xv secolo aveva dato ottimi risulta-
ti, ma fu solo un breve episodio. La persecuzione di liberi pensatori ed eretici, la reclusione di Massimo il Greco, il consolidamento dell’assolutismo e il trionfo della Chiesa ufficiale sono tutte circostanze che trovarono necessariamente un riflesso nella cultura russa e accentuarono il processo di isolamento della Russia. Con il processo di consolidamento dei princìpi imperiali nella vita della società, gli interventi dello stato in campo culturale si fecero sempre più forti. Le conseguenze di tale ingerenza non furono ovunque uguali. Un esempio significativo può essere il seguente. La stampa fu introdotta nella Rus’ per iniziativa dello zar Ivan iv e si affermò grazie ai generosi sussidi statali. Nello stesso tempo il Terribile scatenò nel paese il terrore, che pose fine ad uno dei più luminosi fenomeni della cultura anticorussa: la compilazione delle cronache, che era proseguita per seicento anni. Nel xvi secolo per la prima volta la pittura divenne oggetto di valutazioni ufficiali, che avevano lo scopo di giudicarne la validità dal punto di vista della corrispondenza ai canoni della Chiesa e della lotta all’eresia. Nel xvii secolo il controllo sull’attività di iconografi e pittori divenne più ampio, concentrandosi nel Palazzo dell’armeria del Cremlino. Nonostante la continua penetrazione nel paese delle novità occidentali, la Russia si andava sempre più allontanando dall’Occidente. Solamente in seguito alle trasformazioni promosse da Pietro i nel primo quarto del xviii secolo la Russia tornò ad orientarsi verso l’Occidente. Era passato il tempo in cui Novgorod Velikij, Tver’ e altre città riuscivano con successo a competere con Mosca. Nel xvii secolo Mosca non aveva più rivali. Novgorod Velikij, che una volta poteva rivaleggiare con Kiev ed era di gran lunga superiore a Mosca, giunse a completa decadenza dopo le devastazioni avvenute durante l’opričnina al tempo di Ivan iv e il dominio svedese negli anni dei Torbidi. Per un lungo periodo Novgorod era stata la porta della Russia sull’Occidente, ma nei secoli xvi-xvii il ruolo di centro principale del commercio con l’Europa occidentale passò a Mosca, dove sorse la Nemeckaja sloboda, che ospitava diverse colonie di stranieri provenienti per la maggior parte dalla Germania, dall’Inghilterra e dalla Danimarca. La comparsa di genti di fede diversa proprio nel cuore del regno ortodosso metteva in agitazione i bojari e i vertici della Chiesa. Furono emessi diversi ukaz che vietavano agli «stranieri» di risiedere nei quartieri russi della capitale. Grazie alla presenza della Nemeckaja sloboda i sudditi dello zar, a cui era consentito recarsi all’estero solo per missioni ufficiali, avevano la possibilità di osservare le abitudini di vita e la cultura occidentali, senza allontanarsi dalla capitale. I pregiudizi nei confronti degli «stranieri senza Dio», degli eretici, finirono per risultare giustificati. Proprio nella Nemeckaja sloboda Pietro i ricevette le sue prime impressioni dell’Europa, che furono all’origine delle riforme intese a europeizzare la Russia. Le trasformazioni volute da Pietro annullarono il significato di Mosca come centro del Sacro impero russo. Uno dei presupposti del successo delle riforme fu l’abolizione nel xviii secolo della proprietà statale della terra (sistema del pomest’e) e il passaggio alla proprietà privata dei dvorjanin. Inevitabile conseguenza di tale provvedimento fu la fine del servizio obbligatorio dei dvorjanin, che concluse il processo di sfaldamento del vecchio sistema militare della Moscovia. Le trasformazioni del xviii secolo iniziarono un nuovo periodo della storia russa. 484
INDICE ANALITICO
I numeri in tondo rimandano alle pagine del testo; i numeri in corsivo al numero delle illustrazioni in bianco e nero; i numeri romani alle didascalie delle illustrazioni a colori. Abramov, Isaak, 473 Adašev, Aleksej, 377-379, 386, 390-391 Adrianova-Peretc, V.P., 57 Aepa, khan, 47 Afanas’ev, K.N., 81 Afanasij, metropolita, 381-382, 391 Ajnalov, D.V., 53-54, 61 Aleksa Petrov, 228-229 Aleksandr Kuštskij, 221 Aleksandr Michailovi/, 290 Aleksandr Nevskij, 210, 394 Aleksandrovskaja sloboda, x/2, x/4, 284, 221, 382, 391, 286, 398 Aleksej, maestro di Vologda, 213 Aleksej, metropolita di Mosca, vii/1012, 211, 222, 224, 279, 290, 305, 310, 326, 356 Aleksej Michailovi/, zar, 212, 423, 441449, 474, 478, 481-484 Aloisio da Milano, architetto, 350 Aloisio il Nuovo, 220-221, 350 Alpatov, M.V., 95, 279 Amico, Bernardino, 453 Amur, fiume, 448, 483 Amvrosij, cesellatore, 311, 357 Anastas di Cherson, 67, 129 Anastasija Romanova, zarina, 313, 378379 Andrej Jur’evi/ Bogoljubskij, 42, 22-23, 137-138, 140, 143, 157, 167, 196, 200, 220, 227, 312 Andrej Rublëv, vi/25-33, 219, 225, 281, 283, 288, 290-291, 293-299, 196199, 303-304, 307, 311, 314, 350, 353-356, 395-396, 420, 476, 484 Andrej Vladimirovi/, principe, 56 Anisimov, A.I., 279 Anna di Rjazan, principessa, 289 Antonij, fondatore delle Grotte, 43 Antonij Romano (“Rimljanin”), 92 Antonio, nunzio apostolico, 219 Antonio Frjazin, 220, 349 Apolonij Tijanski, 34 Archangel’sk, 213, 299, 207, 473, 475 Aristotele, 45, 392, 450 Arkaži, 153, 111, 199 Arkona, 142 Armenia, 138, 350 Arsenij il Greco, 445 Asalup, khan, 47 Ascentini, orafo, 420 Aseev, Ju.S., 85 Askol’d, principe, 34 Astrachan, 378, 446, 473 Atanassio di Alessandria, 35 Athos (Sacro Monte), 43-44, 211, 225, 281, 322-323, 345, 475 Averincev, S.S., 132 Avraam, fonditore, 309 Avvakum Petrov, 444-445, 451, 475-477 Azov, 443 Bajkal, 448 Balcani, 197, 219, 287, 444, 453, 484 Baldovino, re di Gerusalemme, 44 Baltico, 31, 378, 385, 392, 443, 448 Bantyš-Kamenskij, I.I., 51 Baranovskij, P.D., 162 Barma, architetto, 393 Basilio il Grande, 37-38, 275
Baškin, Matvej, 389, 395 Basmanov, Aleksej D., 381, 384, 386 Basmanov, P., 411-412 Batyj, khan, 43, 209-211, 319 Begljuk, khan, 47 Bekbulatovi/, Simeon, 410 Belaia Sluda, pogost, 213 Belgorod, 19, 34, 43, 49, 135, 143, 159 Belinskij, V.G., 57 Beloozero, vi/34, 198, 129-130, 218, 221-222, 224, 311, 314, 389 Belskij, Bogdan, 398 Belskij, I.D., principe, 379 Beridze, V.V., 138 Bezmin, I., 474-475 Bielorussia, 392, 409, 443, 449, 452-453 Bielski, Marcin, 416 Bisanzio, Bizantini, 13-15, 25-26, 28, 3334, 37, 42-44, 46, 49-51, 62, 64, 6970, 81-82, 85-86, 91, 130-131, 134, 136, 139-140, 142, 165, 196-198, 201, 209, 211, 219, 222, 227-228, 277, 279, 281-283, 287-288, 290, 292, 314, 319, 321-322, 345, 354, 356-358, 377, 390-391, 396-397, 444, 484 Bitjakovski, M., 409 Bleu, I., 450 Bobrinskij, A.A., 195 Boemia, 324 Bogdanko, 413 Bogoljubovo (Vladimir), iv/6, 55-56, 23, 143, 155-157, 88-89, 116, 196, 123 Bogusevi/, A.V., 165 Bojan, cantore, 45-46, 81, 83, 85 Boleslao, re polacco, 129 Bolotnikov, Ivan, 413-414 Bono Frjazin (Marco Bono), 220, 348 Boris Aleksandrovi/ (Tver’), 301 Boris di Volokolamsk, 352-353 Boris Godunov, ix/6, 398-399, 409-411, 415-420, 422, 451, 453, 455 Boris Vasil’evi/, principe, 323 Boris Vladimirovi/, principe martire, iv/1, vi/24, 3, 30, 37, 40, 86-87, 95, 141, 196, 283, 183, 290, 393, 418 Borodatyj, S., 327 Borovsk, 323, 353 Borozdin, Semën, ix/3, 419 Bra/in, 411 Brant, 447 Bratila, maestro, 134 Brest, 409 Brjusova, V.G., 476-477, 480 Brunov, N.I., 71, 83, 135-136, 142 Buchara, 385 Buchvostov, Jakov, x/11 Bulgari del Volga, 31, 49, 209 Bulgaria, Bulgari, 14, 25-26, 31, 38, 62, 67, 84, 224, 279, 314 Bunin, L., 449 Burjati, 448 Buturlin, I.A., 421 Buzzati, Dino, 207 Bykovskij, Ioil, 51 Canto della schiera di Igor’, 11, 36, 45-47, 16, 49-53, 57-58, 82, 87, 93, 139, 165-167, 193, 207 Canto sulla rovina della terra russa, 47,
51, 212 Carelia, 415 Car’grad, vedi Costantinopoli Carlo ix, 415 Caspio, mare, 31, 209, 473 Caterina ii, 51-52, 295 Caucaso, 209, 378 Cechi, popolo, 31 \erdyn’, 385-386 \erkasskij, J.K., 423 \ernigov, città e principato, ii/5, iv/3, 37, 40-41, 43, 46, 49-50, 66-67, 69-70, 81-84, 32-33, 85-87, 35, 89, 44-46, 57-58, 91-95, 60, 70, 133, 135-136, 138-141, 143, 153-154, 156-157, 87, 159, 100-101, 163164, 167, 193-195, 200, 207, 209, 415, 443 \ernigov Severskij, 327 \ernyj, V.D., 419 Chazari, popolo, 33 Cheraskov, M.M., 51 Cherson, 26, 63, 67, 129, 384 Chitrovo, B.M., 473 Chlopova, moglie di zar Michail, 422 Chmel’nickij, Bogdan, 443 Chodkiewicz, Jan, 415 Cholm, 155 Cholmogorec, Semën Spiridonov, 478 Cholmogory, 228, 479 Cholostenko, N.V., 67, 91 Choriv, fondatore di Kiev, 31 Choteev, Andrej, 389 Chovanskij, I.A., principe, 447 Christianin, Fedor, 398 Chvalisy, tribù, 31 Chvojka, V.V., 64 Chvorostinin, Ivan A., 417, 451, 481 \igas, 352 \igirin, città, 448 \ingizidy, 386 Cirillo, apostolo degli Slavi, 25-26, 11, 29, 33 Cirillo di Alessandria, 392 Cirillo di Scitopoli, 35 \irin, Prokopij, 419, 478 \istoj, N., 423 \iževskij, D., 323 Clemente Alessandrino, 65 Clemente da Ocrida, 15, 26 Corpo illustrato, vii/13-22, viii/1, 237, 262-267 Cosacchi, 385-386, 411-412, 414-415, 443, 446, 483 Cosma, vescovo di Gali/, 139 Cosma di Maiuma, 306 Cosma Indicopleuste, 15, 65-66, 165, 325-326 Costantino, metropolita, 137 Costantino ix Monomach, 397 Costantino xii Paleologo, 219 Costantino il Grande, 28, 321 Costantino Lips, 71 Costantinopoli, 10, 25-26, 34-35, 43-44, 62, 66-71, 82-83, 86, 93, 136, 140, 210-211, 219, 225-226, 273, 277, 279, 290, 310-312, 320-321, 325326, 381, 390, 397, 409, 444 Cracovia, 443 Crimea, 26, 225, 277, 378, 384, 443, 448
485
Croati bianchi, 31 Cronaca degli anni passati, 13, 26, 30-36, 13, 39-42, 70 Cronaca di Radziwiłł (Königsberg), 1-12, 14-15, 17-23, 226 Cronaca Ipaziana, 41-43, 47 Cronaca Laurenziana, 36, 42, 47, 207 Cronaca primitiva, 26, 34, 39, 41 \udi, popolo, 26, 31, 327 Cumani, popolo, 33, 47, 49-50, 18, 8990, 167, 207, 209 Daniil, igumeno, 43-45 Daniil Aleksandrovi/, 210 Daniil \ërnyj, vi/27, vi/31, 281, 293, 196-199, 295-298, 302-303, 307 Daniil Galickij, 153, 155 Daniil Zato/nik, 52-58 Danimarca, 165, 385, 484 Danubio, fiume, 31, 46, 49-50 Danzica, 482 David Rostislavi/, 45, 143, 154, 162-163, 166 David Svjatoslavi/, 85, 87, 89, 91-92 Davydov, N., 481 Demetrio di Tessalonica, v/10, vi/30, vi/39, 133, 285, 290, 298-299, 308 Denisij, sacerdote, 324 Derpt (Tartu), 378 Deterson, Hans, 473-474 Dileckij, N., 482 D’jakovo, x/1, 392, 284 Dimitrij di Priluck, 305, 356 Dimitrij Donskoj, 50, 218, 220, 225, 293, 310, 314, 349, 394 Dimitrij Požarskij, 415 Dimitrij Šemjaka, 225 Dionisij, arcivescovo di Suzdal’, 310, 224 Dionisij, metropolita di Mosca, 398 Dionisij, pittore, vi/38-40, vii/6-10, 303308, 217-220, 314, 351-357, 396, 419, 476, 484 Dionisij di Glušica, vi/34, 221, 302 Dmitriev, J.N., 419 Dmitrij, primo falso, 410-412, 415-418, 420, 422, 293, 302-303 Dmitrij, secondo falso, 413-414 Dmitrij Ivanovi/, figlio di Ivan iv, 266, 387, 409, 481 Dmitrij Ivanovi/, figlio di Ivan il Giovane, 320-321, 324-325 Dmitrij Kostantinovi/, 310 Dmitrov, 218, 299, 218, 348 Dnepr, fiume, 31, 41, 49-50, 83, 134, 200, 207, 444, 448 Dolgorukaja, principessa, 422 Don, fiume, 47, 49-51, 209, 211, 225, 291, 410, 413, 443, 446 Donec, fiume, 46, 49 Dorošenko, 448 Dosaev, P.J., 473 Dragovi/i, tribù, 31 Drevljani, tribù, 6, 31, 34 Dubrovicy, x/12, 473 Dulebi, tribù, 31 Dvina (occid. e settentrionale), fiume, 31, 49, 207, 211, 230 Dvoržak, M., 65 Edigej, khan, 225-226
Ediger, khan, 385 Efrem, metropolita, 70, 90 Elena Glinskaja, 358 Elena Vološanka, 306, 324-325 Elisabetta d’Inghilterra, 382 Enisej, fiume, 448 Epifanij il Saggio, 224-225, 277, 292293, 295, 298 Epifanio di Cipro, 35 Erazm, Ermolaj, 391 Ermak Timofeevi/, 385-386, 279-281 Ermolin, D., 474 Ermolin, Vasilij, 349 Eton, 415 Europa, 311, 319, 321, 324, 356, 358, 377, 389, 451; occidentale, 220, 309, 312, 320, 346, 358, 271, 385, 392, 397, 446-448, 452, 473, 482, 484; orientale, 278, 314, 444, 448 Evfimij, vescovo di Novgorod, 284, 303 Evseev, I.I., 324 Fedor Alekseevi/, zar, 446, 474 Fedor Borisovi/, zar, 396, 399, 409, 411412, 415, 419-420, 441, 446-447, 449, 474 Fedor Ivanovi/, zar, 398, 478 Fedor Romanov, 410 Fedorov, I.P., bojaro, 382-383 Fedorov, Ivan, tipografo, 390-392, 282 Feodor, vescovo di Tver’, 225 Feodosij, figlio di Dionisij, 304, 306-307, 352, 354, 357 Feodosij del monastero delle Grotte, 12, 35, 39-41, 43, 85, 87, 91 Feofil, vescovo di Novgorod, 320 Feokfist, vescovo di \ernigov, 91-92 Ferapont, vi/39-40, vii/8-9, 135, 156157, 221-222, 224, 304, 306-307, 220, 314, 353-355, 357, 389 Filaret Romanov, patriarca, 413-415, 421-422, 442, 484 Fili, 455 Filipp, metropolita, 441 Filofej di Pskov, 326-327 Fioravanti, Aristotele, vii/17, 219-220, 346-348 Firenze, 219, 225, 319, 345, 450 Florenskij, Pavel, 133 Florovskij, G., 323, 345, 395 Fozio, metropolita, 290, 312, 229, 322 Francia, 413, 423 Frigia, 390 Galata, 225, 277 Gali/, Staryj (Krylos), 40, 49-50, 52, 135-136, 139, 141-143, 154, 78, 83, 165-167, 110, 195-196, 200 Gali/-Volynia, principato, 43, 53, 155, 164, 196, 209 Galizia, principato, 49, 143, 154 Geguevi/ Zdeslav, bojaro, 30 Gengis-Khan, 209 Gennadij, scrittore, 40 Gennadij Gonzov, 322-325, 354 Georgia, 67, 138, 350 Georgij (di Gorodiš/e), miniaturista, 228 Geremia di Costantinopoli, 399, 409 German Vojata (Voislav), pope, 42 Germania, Tedeschi, i/4, 46, 211-212, 218, 229, 389, 415, 481, 484 Gerontij, metropolita, 322-323, 326 Gerusalemme, 25, 35, 44, 225, 321, 417, 453 Giorgio Amartolos, 15, 31, 34-35, 226, 231 Giorgio Sincello, 35, 51 Giovanni Crisostomo, 392 Giovanni Damasceno, 392 Giovanni Esarca, 38, 44
Giovanni Frjazin, 350 Giovanni Paleologo, 312 Giuliano l’Apostata, 63 Giustiniano, 66, 68-69, 226 Gleb Rostislavi/, 141 Gleb Vasil’kovi/, 221 Gleb Vladimirovi/, principe martire, iv/1, vi/24, 30, 37, 40, 86-87, 140141, 196, 283, 183, 290, 393, 418 Gleb Vsevolodi/, 143 Godunova, Irina, ix/7, 398, 409, 419420 Godunova, Ksenija, 411 Golicyn, Boris Alekseevi/, 411, 413, 473 Golicyn, Vasilij Vasil’evi/, 411-414, 446, 448, 451, 473 Golubcov, A., 89, 135, 138, 140, 163 Gorbatyj, Aleksandr B., 378, 381 Gorcey, 387 Gorodec, 310 Gorodiš/e, 228, 273, 280-281, 195 Gorodok, vi/2, 152-154, 219, 289, 293 Gosca, 411 Grabar, I.E., 293, 355-356, 394, 480 Greci, vedi Bisanzio Gregorio Palamas, 322-323 Gregorio Sinaita, 323 Grigorij (Jurij) Otrep’ev, 411, 292, 413414, 451 Grodno, 137-139 Gumilev, L.N., 209 Gurij Nikitin, 479-480 Halle, F., 164 Hermogen, patriarca, 415 Herrits, Hessel, 416 Hotan, B., 324 iconostasi, 288-289, 190, 292, 297, 201, 307-308, 313 Ignat Maksimov, xi/6 Igor’, figlio di Rjurik, 28, 6, 33, 35, 17, 386 Igor’ Svjatoslavi/, 41, 45-47, 49-51, 18, 165-167 Ilarion, metropolita di Kiev, 12, 27-30, 40-41, 43-44, 69, 71, 93, 132, 142 Il’in, M.A., 418, 452 Il’men, lago, 31, 228, 306 Inghilterra, Inglesi, 398, 415, 481, 484 Ioakim, patriarca, 450 Ioann, arcivescovo di Novgorod, 224225 Ioann, esarca di Bulgaria, 26 Ioann, maestro, 163 Ioannisjan, O.M., 154, 166 Ioasaf Obolenskij, 221 Iona di Rjazan’, vescovo, 300 Iona Sysoevi/, 473 Iov, patriarca, 409, 412, 419 Irina (Ingegärd), moglie di Jaroslav Vladimirovi/, 24, 71, 81 Isaia (Greco), maestro, 279 Isidoro, metropolita di Mosca, 219, 319 Istanbul, vedi anche Costantinopoli, 481 Istra, fiume, 453 Istrin, V.M., 28 Italia, Italiani, 211, 219, 228, 314, 321, 345-347, 349, 357, 392, 413, 415, 417, 482, 484 Ivan, igumeno, m. delle Grotte, 93 Ivan, maestro, 311 Ivan i Kalita, 273, 346, 396, 409, 478 Ivan iii, vii/14, 214, 219, 221, 223, 227, 307, 320-327, 346, 349, 351-352, 357-358, 260-261, 388-389, 396, 423, 452 Ivan iv il Terribile, viii/5b, viii/13-14, 282, 284, 313, 350, 358, 265-266, 378, 380-388, 274, 278, 390-399, 409-412, 416, 418-419, 423, 441-
442, 445, 451, 453, 474, 481, 483484 Ivan v, zar, 446-447 Ivan Danilovi/, (Mosca), 210 Ivan Danilovi/, (Suzdal’), 311 Ivan Feodorovi/, (Rjazan’), 300 Ivan Fomin, 311 Ivan il Giovane, figlio di Ivan iii, 320-321 Ivan Ivanovi/ (figlio di Ivan iv), 350, 387 Ivan Ivanovi/ Romanov, bojaro, 423, 442 Ivangorod, 253 Izjaslav Jaroslavi/, i/4, 39, 43, 50, 66, 70, 85-87, 93, 129-131, 139 Izjaslav Mstislavi/, 20, 137, 139 Ižori, tribù 327 Jakobson, A. Ja., 138 Jakov, beresta di, 222, 161, 224 Jakov Fedosov, maestro, 309, 212 Jakuška di Pskov, 395 Jami, tribù, 31 Jan Usšmovic, cronachista, 130 Jarec, aiuto di Dionisij, 304-305, 351 Jaropolk Izjaslavi/, principe, i/4-5, 33 Jaropolk Svjatoslavi/, principe, 66 Jaroslav Glebovi/, 163 Jaroslav Vladimirovi/, nipote di Mstislav il Grande, 153-154 Jaroslav Vladimirovi/ il Saggio, 2, 11, 13-14, 27-29, 12, 30, 68-71, 81-87, 89, 91-94, 129, 66, 142-143, 167 Jaroslav Vladimirovi/ Osmomysl, 139, 143, 167 Jaroslav Vsevolodovi/, 47, 201 Jaroslavl’, città e principato, iii/21-22, xi/4, xi/7, xi/9, 51, 67, 133, 200, 207, 210, 214, 218, 221, 227-228, 230-231, 273, 275, 213, 320, 348, 381, 414, 454, 334-336, 476, 478480 Jaroslavna, moglie di Igor’ Svjatoslavi/, 46, 49-50 Jauza, fiume, 220, 290, 352 Jenkinson, A., viii/14, 397 Jugri degli Urali, 327 Jur’ev, 43, 135, 137 Jurij Danilovi/, 210 Jurij Dimitrievi/, 296 Jurij Vladimirovi/ Dolgorukij, 20, 47, 143, 198, 210 Jurij Vsevolodi/, 161 Jurjev-Pol’skoj, iv/7, 143, 85, 161-162, 104-106, 166, 194, 196, 127 Kabardinka, 378 Kaluga, 327, 413-414 Kam/atka, 483 Kanev, 137-138 Kapiton, scismatico, 445 Karamzin, N.M., 36, 51, 385 Karga/ Borisoglebskij, pogost, 301, 212 Karger, M.K., 70, 86, 166 Kargopol’, 303 Karion, Istomin, 448 Kašlyk, 385-386 Kazan’, vii/13, 378, 381-382, 385, 392395, 397, 415, 483 Kazanec, Jakov, 475 Kiev, città e principato, ii/1-2, ii/4, iii/312, iii/16-17, iii/19-20, iii/23, 1112, 16, 2, 26, 28-31, 12, 33-36, 39, 41-44, 21, 46, 49-50, 24, 52, 62-64, 66-71, 27-28, 81-87, 34, 36-40, 4756, 89-94, 129-143, 66-67, 71, 153, 76, 156, 159, 162, 164-165, 194195, 197-198, 200, 207, 209-210, 227-228, 231, 287, 200, 312, 314, 411, 443-444, 448-450, 473, 482 Kiprian, metropolita, 219, 224, 290, 311, 322 Kirill di Beloozero, vedi anche Belooze-
486
ro, vi/34, 224, 287, 188, 302-303, 305, 311, 322-323, 353-354, 356, 382, 389, 398, 417, 473, 340-341 Kirill di Turov, vescovo, 25-26, 44, 51 Kirill di Tver’, archimandrita, 225, 277 Kirillov, Averkij, 473 Kirillovna, Natal’ja, 447 Kiži, pogost, 213, 139, 219, 190, 473 Kleš/in, 31 Kliment Smoljati/, 44-45, 137 Kljazma, fiume, 135, 138, 141 Klju/evskij, V.O., 378, 387, 431 Klova, fiume, 87 Kobjak, campo di, 49-50 Kola, penisola, 228, 320 Kologrivov, Trifon, 418 Kolomna, città, vi/24, 209, 218, 289-291, 195, 311, 350, 256-259, 386, 392, 305, 446, 342-343 Koltovskaja, Anna, 387 Kolycev, Filipp, metropolita, 382-383, 391, 441 Komarovi/, V.L., 37 Kome/, A.I., 83-84 Komi, popolo, 210, 327 Kon, Fedor, 418 Kon/ak, khan, 47 Kondopoga, pogost, 213 Konja, aiuto di Dionisij, 304-305, 351 Konstantin di Preslav, 26 Konstantinov, Anton, 452 Kora0, V., 67, 82 Koreli, popolo, 210 Koren, Vasilij, 480 Korovniki, 454, 335-336 Korsi, tribù, 31 Korsun, 383 Kosoj, Feodosij, 389 Kosta, maestro, 134 Kostantin di Suzdal’-Nižnij Novgorod, 289 Kosto/kin, V.V., 195 Kostroma, 218, 313, 478-480 Kotorosl’, 231 Kotošichin, G., 421 Kotov, G.I., architetto, 137 Kovalëvo, vi/15, 215, 276, 279-282, 176179 Koževniki, 215, 217 Kozma, prete, 26 Krasovskij, I.S., 67 Krivcov, architetto, 219, 221, 346 Kuben, lago 221-222, 211, 311 Ku/umkhan, 385-386, 410 Kulikovo, campo, battaglia di, 50, 225, 293, 314 Kurbskij, Andrej, 380-381, 389, 391392, 451 Kuricyn, Fedor, 324-325 Kuricyn, Ivan Volk, 325 Kurostrovo (sul Mar Bianco), 211 Kursk, 49, 56 La/e, lago, 52, 55-56 Ladoga, 81, 134, 199 Lago Bianco, 31, 55-56, 353-354, 356, 389, 417, 423 Lago di Rostov, 31 Lago Nero, 473 Lappo-Danilevskij, A.S., 449 Lazarev, V.N., 81, 198-200, 279, 352, 355-356 Legge russa, istituzioni legislative, 26, 41, 51 Lena, fiume, 448 Libi, tribù, 31 Licha/ëv, D.S., 84, 135, 142, 164, 200, 223, 319, 393, 396, 451 Lichudes, Janikij, 450 Lichudes, Sofronij, 450 Lilienfeld, F., 322-323
Lipna, fiume, vi/1, 215, 228-229, 273, 278 Lituania, Lituani, 43, 49, 211-212, 321, 325, 377, 379, 385, 389, 391-392, 399, 411, 292, 413, 442-443, 448, 483 Litvi, tribù, 31 Livonia, 385, 398, 409-410, 443, 448, 483; cavalieri, 321, 350, 378 Livšic, M.A., 61 Ljapunov, L., 411 Ljapunov, P., 414 Ljube/, 39, 87 Loginov, G.N., 155 Logvin, G.N., 95 Logvin, N.G., 95 Lomonosov, Michail, 211 Londra, 397-398 Lopuchinaja, 447 Lopucki, Stanisław, 474 Lotman, J., 358 Lubecca, 324, 415 Luka Židjata, 40 Luti/i, tribù, 31 Makarij, metropolita, 71, 358, 379-380, 388, 391, 394, 445, 451 Maksim, metropolita, 210, 290 Maksimov, Ivan, 478 Malalas, Giovanni, 15 Malinovskij, A.F., 51 Malkov, J.G., 478, 480 Mamaj, khan, 209, 218, 225, 314 Mamontov, Vasilij, 478 Maometto-Saltan, sovrano ottomano, 377 Mar Bianco, 319, 385, 389, 418, 441, 453, 473 Mar Nero, 31, 42, 50, 209 Mare Glaciale Artico, 211, 225, 319 Marija Aleksandrovna Tverskaja, 289290, 191 Marija \erkasskaja, 313, 378, 386, 397 Marija di Suzdal’, principessa, 311 Marija Nagaja, zarina, 387, 409 Marija Ol’govna, 137 Markel Bezborodnyj, 398 Massimo il Confessore, 142 Massimo il Greco, 345-346, 239-240, 358, 388-390, 392, 395, 444, 484 Matias Liach 389 Matveev, A.S., 446-447, 452 Mazon, A., 51-52 Mazovci, tribù, 31 Medvedev, Sil’vestr, 449-450 Melenteva, Vasilissa, 387 Melëtovo, 274-276, 171 Meri, tribù, 26, 31 Metodio, apostolo degli Slavi, 1, 25, 11, 26, 29, 33 Michail, metropolita, 67 Michail di \ernigov, 224 Michail Fedorovi/ Romanov, zar, xi/17, 415, 417, 421-423, 308, 442-443, 475, 478, 481-484 Michail Jaroslavi/ (Tver’), 231 Michail Vrubel’, 220 Miljukov, P.N., 323 Miloslavskij, J.D., 423 Miniature (manoscritti), 227-231, 273, 282, 295 Minin, Koz’ma, 415 Minsk, 138, 143 Miroža, fiume, 153, 159, 198 Missenheim, G., 389-390 Mitjaj di Kolomna, 310 Mitrofan, aiuto di Dionisij, 304, 351 Mneva, N.E., 394 Mnivek, Jurij, 411, 413, 295 Mnivek, Marina, 413-414, 294 Mogilev, 414
Moisej, arcivescovo di Novgorod, 217218, 222-224, 279, 284, 309 Mokeev, Averkij, 453 Mol/anov, M., 413 Mongolia, Mongoli, 195, 201, 209, 230, 287, 327 Moravia, Moravi, 14, 31, 34, 46, 67 Mordvi, Mordvini, 31, 212 Morozov, Boris I., 423, 441-442, 481 Mosca (anche Cremlino), vi/24, vi/30, vi/33, vi/36, vi/38, vii/2-6, vii/2021, viii/1-4, ix/7, x/6, x/10, xi/2, xi/8, xi/15-17, 36, 198, 207, 209212, 214, 141, 215, 148, 155, 218-221, 158, 223-231, 163, 273, 275-277, 279, 283-284, 286-293, 295-305, 201-205, 216, 308-314, 230-231, 319-322, 324-327, 345346, 243-252, 350, 352-353, 355358, 377, 380-381, 383-384, 388396, 285, 288, 398-399, 409-414, 417, 298, 419-423, 441-442, 311315, 444-447, 449, 322-323, 452455, 328-329, 331-333, 473-475, 337-339, 478-484 Moscova, fiume, 220, 322 Moscovia, 195, 210-211, 238, 269-270, 272, 275-276, 289-291, 297, 304314, 444, 315-320, 447, 482-484 Mosè di Vydubicy, igumeno, 41 Možajsk, 218, 225, 319, 418 Mstislav Izjaslavi/, 137 Mstislav Vladimirovi/ il Bello, 21, 83-84, 92-93, 135, 143 Mstislav Vladimirovi/ il Grande, 135, 137 Mstislavec, Petr, 390, 282 Mstislavl’, 222 Munke, khan, 210 Murom, 31, 135, 140-141, 209 Muromi, tribù, 31 Musin-Puškin, A.I., 36 Myškin, architetto, 219, 221, 346 Nagoj, A.F., 387, 409 Narovi, tribù, 31 Narva, 378 Naryškin, Ivan Kirilovi/, 447 Naryškin, Lev Kirilovi/, 455 Naryškina, Natal’ja, zarina, 446-447 Neglinnaja, 350 Nekrasov, A.I., 133, 350 Nemeckaja sloboda, 447, 320, 452, 484 Nënoksa, pogost, 213 Neofit, vescovo, 83 Neredica (Novgorod) 16, 143, 153, 75, 198-199, 120, 218, 228, 273, 294 Neronov, Ivan, 442, 444-445, 479 Nestor, cronichista, 30-36, 39-40, 42, 66 Neva, fiume, 410, 415, 443 Neveža, Andronik, 415 Neveža, Ivan, 415 Nezatina Niva, battaglia di, 50 Niceforo di Costantinopoli, 35 Niceforo Kallistos, 133 Nicola di Zarajsk, 47 Nifont di Novgorod, vescovo, 198 Nikita, martire, 290 Nikita Ivanov, iconografo, 478 Nikita Ivanovi/ Romanov, 441-442 Nikodim, monaco, 478 Nikolaj Svjatoša, 142 Nikon, cronachista, 39, 43, 85, 93 Nikon (Nikita Mini/), patriarca, 441442, 444-447, 452-454, 473-476, 479, 481, 484 Nikon di Radonež, 219, 224, 296 Nil di Sora (Nikolaj Majkov), 221, 322323, 325-327, 352-354, 389 Nižnij Novgorod, 161, 207, 209-211, 218, 221, 225, 277, 289, 303, 310-
311, 224, 314, 319, 350, 414-415, 441, 478 Novgorod, città, repubblica, principato, i/1, ii/7, iii/1-3, iii/13-15, iii/18, iv/4, v/11-13, v/17-20, v/30, vi/1, vi/4, vi/13-15, vi/19-21, 11, 16, 31, 40-44, 49-52, 55, 71, 20, 81-82, 30, 41-43, 89, 92, 59, 61-64, 94-95, 69, 132, 134-135, 138-140, 143, 153154, 80, 163-164, 166, 195, 198201, 81, 210-215, 137, 145, 147, 149-151, 217-218, 221-231, 159, 162, 164, 274-287, 172-187, 189, 289, 291, 300-301, 303, 216, 307, 309-311, 223, 227, 314, 319-327, 346, 348, 350, 254-255, 357-358, 377, 383-384, 388, 394-396, 398, 410, 415, 421, 441, 309, 450, 454, 478, 481-484 Novgorod-Severskij, 45, 49, 135, 165, 207 Novolenskoje, villaggio, 301, 213 Ob, fiume, 448 Obolenskij, D., 358 Obri, popolo, 31 Oceano Pacifico, 483 Odoevskij, I.I., 423 Ogurcov, Bazen, 452 Oka, fiume, 31, 209, 211 Olanda, 448, 481-482 Oleg, principe di Kiev (m. 912), 4-5, 26, 34 Oleg Svjatoslavi/, «Figlio di amara gloria», 36-37, 39-41, 46-47, 49-51, 66, 87, 91, 140 Ol’ga, moglie di Igor’ Ol’govi/, 7-8, 26, 34, 62, 66 Ol’govi/, discendenti di Oleg Svjatoslavi/, 40-41, 140 Ol’govo, cittadina, 166 Onega, fiume, 136, 213, 138-139 Orda d’oro (Grande), 166, 200-201, 209-211, 225, 290, 308, 322, 356, 378 Ordin-Naš/okin, A.L., 448 Orlov, A.S., 51 Osen’, khan, 47 Ostrog, 392, 411 Ostromir, governatore di Novgorod, i/2 Ostrovskij, D., 325 Ostruchov, I.S., 285 Ov/ina, D., 381 Ovru/ (Vru/ij), 155, 81, 159, 161, 166 Oxford, 415 Pachomij il Serbo (Logoteta), 224-225 Paesein, Ivan, 475 Pafnutij di Borovsk, 304, 323, 351 Paisij, starec, aiuto di Dionisij, 304 Paisij Jaroslavov, 322, 326, 352 Palestina, 43-44, 225, 322 Palicyn, Avraamij, 451 Panilovo, pogost, 213 Paolo di \ernigov, igumeno, 30 Paolo Frjazin, 358 Pasternak, Ja., 139 Pavlovskoe, 478 Peceneghi, popolo, 9, 31, 35 Pe/ori, tribù, 31 Perejaslavl’, città e principato, vii/22, 35, 37, 43, 83, 85, 135, 201, 207, 209210, 443 Perejaslavl’-Južnyj («Russa»), 49, 66, 7071, 90, 93, 95, 135 Perejaslavl’-Zalesskij, 49, 133, 143, 9495, 210, 218 Peremyšl, 143, 165 Peresvetov, Ivan, 377-378, 389, 391, 394 Permi, tribù, 31 Permjaki, 327
487
Peryn’ (Novgorod), iv/4, 153-154, 161 Petr, maestro (architetto), 92-93 Petr, metropolita vii/15, 211, 218, 224, 290, 305, 311-312, 228, 398, 478 Petr, «zarevi/», 413-414 Petr Miloneg, architetto, 154, 159, 161 Petr Ordynskij, 225 Piccolo, Pietro, ingegnere, 393 Pietro i, xi/16, 446-448, 455, 473, 481, 484 Pietro Frjazin, 350 Pimen di Novgorod, arcivescovo, 383384 Pimen di Perejaslavl’, 310 Pinega, fiume, 299, 207 Pleš/eev, Leontij, 423 Pleškovi0, Ioann, 476-477 Pod’japol’skij, S.S., 162, 348 Podskalsky, G., 322, 324 Poljani, tribù, 31, 33 Polikarp, monaco, 42-43 Polo/ani, tribù, 31 Polock, 43, 49-50, 70, 81-83, 89, 92-93, 95, 132, 135, 138-139, 155, 157, 86, 92-93, 161, 164, 167, 207, 378, 449 Polonia, Polacchi, 31, 43, 143, 327, 384385, 413-415, 417, 420-422, 442, 444, 449, 452, 482-483 Popov, G.V., 301, 353, 355 Poppe, A., 384 Poros’e, 135 Postnik Jakovlev, architetto, 393 Predslava (Efrosinia) di Polock, 134, 139 Preobraženskoe, 447-448 Priluck, 221 Pripjat, fiume, 31 Priselkov, M.D., 29, 83, 85, 91, 93, 138 Prochor di Gorodec, 291, 293 Prochor di Rostov, maestro, 221 Pseudo-Dionigi, 62 Pskov, v/1, v/3-8, vi/23, 43, 51, 139, 153, 74, 82, 161-164, 194, 198-200, 133, 210-212, 214-215, 140, 142-144, 146, 217, 219-223, 226-227, 229, 231, 273-276, 170-171, 289, 300, 311, 314, 321, 324, 327, 346, 349350, 377, 383-384, 393-396, 398, 441, 310, 473, 482 Pu/ež sul Volga, 284, 186 Purisov, B.J., 396 Pustosvjat, Nikita, 447 Putivl’, città, 49, 165-166, 412-413 Radimi/i, tribù, 31, 34 Ragoza, Michail, 409 Rappoport, P.A., 71, 155, 157, 161, 163164 Razin, Stepan T., 446 Remezov, Semën, 386 Riga, 443 Rikvin, maestro, 309 Rimov, città, 49 Rjabušinskij, S.P., 288, 299 Rjazan’, (Staraja), città e principato, v/22-25, vi/35, 41, 47, 89, 91-92, 95, 135, 137-138, 141, 96-97, 162163, 166, 200-201, 209, 223, 289290, 300, 314, 319, 327 Rjurik, capostipite, 30, 33, 358 Rjurik Rostislavi/, 47, 153-154, 157, 159, 162-163, 166 Rogov, A.J., 391, 482 Roma, 31, 44, 219, 225, 319-321, 325326, 358, 381, 444, 450 Roman Mstislavi/, 47, 153, 155, 159 Roman Rostislavi/, 155 Rostislav Mstislavi/, 41, 45-46, 56, 66, 92, 140, 143, 153-154 Rostislav Rjurikovi/, 163 Rostov (Velikij), città e principato, x/9,
xi/10, 31, 41-43, 87, 135, 138, 77, 207, 210, 212, 214, 218, 221, 223, 225-227, 229-231, 273, 275, 300301, 311, 314, 320, 348, 381, 473, 478 Rozanova, M.V., 299 Rtiš/ev, F.M., 449 Ruffo, Marco, 349-350 Rukavov, N., 325 Rybakov, B.A., 82, 143, 156, 165-167, 194 Rylsk, città, 49 Rzeczpospolita, 420-422, 448
Šachmatov, A.A., 29 Šachovskoj, Semën, 413, 416, 451 Šaklovityj, F., 448 Sambor, 411, 413 Sanin, Iosif, vii/18, 323, 325-327, 351354, 389 Savickij, 415 Savin, Fedor, 419 Savin, Istoma, 419 Savin, Nazarij Istomin, 419 Savin, Nikifor, ix/2, 419 Š/ek, fondatore di Kiev, 31 Scharija, 325 Schlitte, G., 389 Sedov, V.V., 64 Šein-Morozov, M.B., 422 Semën Spiridonov, xi/13-14, 478 Serapion, igumeno, 326 Serbia, Serbi, 26, 31, 219, 224, 279-282, 314, 355, 386, 392 Šeremetev, I.V., 388 Sergij, vescovo di Mosca, 323 Sergio di Radonež, ix/5a-d, xi/2, 219, 224, 163, 292-293, 296, 298, 301, 208, 305, 310; Vita, 224-226, 356 Serpuchov, 218, 311 Severjani, tribù, 31, 34 Siberia, 327, 385-386, 279-281, 410, 421, 442, 451 Sigismondo iii, 409, 411, 414-415, 422 Sil’vestr, predicatore (xvi s.), 378-379, 386, 388-389, 394 Sil’vestr di Vydubicy, 90, 93 Simbirsk, 446 Simeon, khan, 384 Simeon, zar bulgaro, 14, 16 Simeon di Polock (Polockij), 447, 449450, 324, 452, 327 Simeon il Superbo, principe di Mosca, 289-290 Simon, vescovo di Vladimir-Suzdal’, 4243 Simon (di San Giorgio), monaco, 228 Simon \iž, 326 Simon (Pimen) Fedorov Ušakov, xi/1112, 394, 418, 473, 475-478 Sineus, fratello di Rjurik, 33 Sinicyna, N.V., 327 Sinjavski, A.D., 299 Siversk, lago, 222 Šklov, 414 Skopin-Šujskij, 414, 474 Skovorodka, 276, 281, 180-182, 300, 306 Skuzatov, Maljuta, 382-384, 386, 398 Slavi, popoli, 26, 31, 142, 164, 210; meridionali, 15, 25, 281-283, 355; orientali, 15, 25 Slavi, tribù, 31, 14 Slavineckij, Epifanij, 444, 450 Šmidt, S.O., 391 Šmjadyn, fiume, 140, 143, 153, 79 Smolensk, 12, 41, 49, 91, 95, 135, 138139, 143, 153-155, 157, 79, 98-99, 161-164, 107-109, 166-167, 207, 226, 327, 237, 414-415, 418, 300, 422, 443, 483 Snetogory, monastero, 215, 273-274, 169
Sobakina, Marfa, 386-387 sobor (cattedrale), sobornyj, sobornost, 62-63, 66, 68-69, 89, 135, 142-143, 157, 159, 161, 163, 194-195 Sofia (Zoja) Paleologa, vii/14, vii/19, 219-220, 320-322, 325, 379 Sof’ja Romanov, sorella di Pietro i, 447448, 450 Sofronij di Vydubicy, igumeno, 30 Sokolova, G.S., 357 Solari, Pietro Antonio, 220, 349-350 Solikamsk, 478 Solov’ëv, S.M., 62 Solovki, ix/1-2, 389, 301, 445 Sol’vy/egodsk, 419 Sora, fiume, 323 Sotko Sytini/, bojaro, 139 Speranskij, M.N., 40 Staraja Ladoga, iv/2, 153, 199, 222 Staraja Russa, 222 Starica, 393 Starickaja, Efrosin’ja, 379, 398 Starickij, Andrej, 379 Starickij, V.A., 379 Starodub, 381, 414 Stefan, igumeno, m. delle Grotte, 87, 93 Stefan, Batory, re polacco, 385, 398 Stefan Polubes, xi/6 Stepanov, Fedor, 473 Stolbovo, 415 Stoletov, A.I., 162 Strešnevaja, moglie di zar Michail, 422 Stroganov, 385 Stryjkowski, 416 Suchona, fiume, 230 Šujskij, Dmitrij, 412, 414 Šujskij, I.P., 398 Šujskij, Vasilij, 409, 413-414, 417, 451 Suzdal’, città, iv/1, iv/8, v/27, vi/21, vi/37, 42-43, 89-90, 136, 138, 167, 194, 112-113, 121-122, 200-201, 126, 128, 210, 214, 164, 227, 286, 289-290, 301, 209, 311, 313 Svezia, Svedesi, 165, 229, 301, 385, 389, 410, 415, 421-422, 483 Svjatopolk Izjaslavi/, 47, 89-92, 137 Svjatopolk Vladimirovi/, 3, 30, 34-35, 42, 86 Svjatoslav Davidovi/, 142 Svjatoslav Igorovi/, 26, 8, 33-34 Svjatoslav Jaroslavi/, 70, 85-87, 92, 129130 Svjatoslav Ol’govi/, 41 Svjatoslav Vsevolodi/, 46-47, 159, 161, 167, 193-194 Tambov, 411 Tarasiev, Nikifor, 391, 283 Tatari, vii/13, 207-208, 210, 214-215, 222-223, 225-227, 231, 273, 290, 298, 303, 308, 311-314, 320-321, 327, 346, 385, 280, 393, 443, 446 Teofane il Greco, vi/8-12, vi/16-18, 225, 275-279, 172, 282, 290, 194, 295, 298, 301, 357, 484 Teognoste, metropolita, 211, 223, 290 Terek, 378, 412 Terra Santa, 43-44 Tessaglia, 67 Tessalonica, 70, 131 Theopempt, metropolita, 67-68 Tic, A.A., 87, 91, 140 Tichvin, 283, 184 Timmermann, 447 Timofeev, Neveža, 391, 283 Timofej, aiuto di Dionisij, 304, 351 Timoš/uk, B.A., 155 Tiverci, tribù, 31 Tmutarakan’, 42-43, 49, 83, 91, 135-136, 143, 157 Tocho-Godi, A.A., 61
Tochtamyš, khan, 225, 289 Tommaso Paleologo, 219 Toržok, città, 209 Tretjakov, P.A., 481 Truvor, fratello di Rjurik, 31 Tugorchan, 47 Tula, 319, 350, 412 Tur/asovo, pogost, 213 Turchia, Turchi, 26, 219, 321, 378, 413 Turov, 43, 135, 140 Tušino, 414-415 Tver’, città e principato, vi/7, vi/22, 207, 209-211, 214, 218, 221-223, 225226, 230-231, 290, 300-302, 210, 308, 221, 226, 314, 319-321, 327, 383-384, 484 Ucraina, 392, 409, 413, 441, 443-444, 448-449, 452 Ugli/, città, x/7, 210, 218, 300, 242, 409, 412, 453, 330 Ugli/i, tribù, 31 Ugra, fiume, 321, 327 Ungheria, Ungari (Ugri), 34, 43, 50, 143; Ugri bianchi, 31; Ugri neri, 31 Urali, 320, 327, 385 Uspenskij, A.J., 478 Ustjug, 213, 230, 478 Uza, fiume, 223 Vagner, G.K., 350, 356-357, 392-394, 396, 478 Valdaj, lago, 453 Varjaghi, 26, 31, 14, 33-34, 42 Varlaam, igumeno di S. Demetrio, 43, 85 Varlaam di Chutyn’, i/9, 224 Varlaam Jackij, starec, 411 Varsavia, 443 Varzuga, pogost, 213 Vasil’\ikova, Anna, 387 Vasil’ev, 39 Vasilevo, 155 Vasilij, arcivescovo di Novgorod, 225, 279, 284 Vasilij, Beato, jurodivyj, viii/7, 393-394 Vasilij, vescovo di Pskov, 223 Vasilij i Dmitrievi/, 211, 295, 311-312 Vasilij ii l’Oscuro, 225, 216, 303, 320, 322 Vasilij iii, 214, 325-327, 237, 346, 353, 357-358, 262, 268, 379, 396-397, 423, 452 Vasilij Barskij, 68 Vasilij Danilovi/, bojaro, 277 Vasilij Ermolin, 346 Vasilij Ivanovi/ (figlio di Sofia), 321 Vasil’ko di Trebovlja, 41 Vassian Patrikeev, 327, 345-346, 389 Vassian Rylo, arcivescovo, 322, 351 Vazency, pogost, 213 Venezia, Veneziani, 46, 220, 321, 345, 357, 390 Veniamin, monaco, 324 Vepsi, popolo, 210 Vesalius, A., 450 Vesi, popolo, 26, 31 Vilnius, 409, 443 Viskovatyj, Ivan, 377, 388, 391, 395-396 Višnij Volo/ek, 211 Vistola, fiume, 31 Vitebsk, 138, 222 Vjat/i, tribù, iii/27, 31 Vjazemi, x/5, 419, 455 Vladimir, figlio di Dionisij, 304, 306, 352, 354 Vladimir (sulla Kljazma), iv/5-6, v/2, v/14, v/16, v/20-21, vi/27, vi/31, 12, 42-43, 15, 52, 135-136, 140141, 73, 143, 154, 156-157, 84, 159, 88-89, 102-103, 161, 167, 194, 114119, 196, 198, 200, 123-125, 207,
488
209, 214, 218, 220, 223, 225-228, 230-231, 281, 287-289, 293-294, 196-198, 296-297, 307, 312, 346, 241, 355, 409, 414 Vladimir i Svjatoslavi/, 27-30, 55, 62-63, 66-67, 69-70, 142, 290, 394-395 Vladimir Andreevi/, 225, 382-384 Vladimir Igorevi/, 46-47 Vladimir Jaroslavi/, 29, 71, 81 Vladimir-Suzdal’, i/4, iii/21-22, v/10, v/15, v/28-29, v/31-32, 40-42, 4950, 52-53, 92, 134-135, 139, 141, 143, 161, 163-164, 166, 194-197, 200-201, 207, 210, 218, 381, 346, 396 Vladimir Volodarevi/, 139 Vladimir-Volynskij, 41-42, 49, 135-136, 138, 140, 90-91, 166 Vladimir Vsevolodovi/ Monomach, iii/32, viii/12, 11, 13, 26, 36-41, 47, 51, 85, 87, 89-93, 95, 133, 136, 140, 142-143, 201-202, 207, 321, 358, 396, 288 Vladimir-Zalesskij, 40-42, 195 Vladimirov, Josif, 478 Volchov, fiume, 13, 214 Volga, fiume, 31, 49-50, 207, 209, 211, 220-221, 229, 323, 326, 378, 385, 410, 412, 446 Volkovysk, 137-138 Volochi (Valacchi), 31 Volodar’ di Minsk, 143 Vologda, x/3, 52, 213, 221, 300, 302304, 212-213, 219, 382, 393, 287 Volokolamsk, xi/3, xi/5, 211, 304-307, 217, 323, 326-327, 351-353, 417, 473 Volotovo, 213, 217-218, 223, 276, 278282, 174-175, 289, 291 Volynia, 154, 159 Vonifat’ev, Stepan, 441, 444 Vorob’eva, E.V., 87, 91, 140 Voronin, N.N., 67, 135, 137, 139-140, 155, 157, 161, 164, 166 Voža, fiume, 225 Vš/iz, 155-156 Vseslav Braj/islavi/, 49, 81-82 Vsevolod iii Jur’jevi/ Grande nido, 45, 15, 49, 56, 153-154, 157, 163, 167, 193-194, 196, 198, 209, 220, 381 Vsevolod Jaroslavi/, 70, 85, 87, 90, 93, 129-130 Vsevolod Mstislavi/, 92 Vsevolod Ol’govi/, 137 Vsevolod Svjatoslavi/, 45-47 Vyja, pogost, 213 Vyšgorod, 86-87, 89, 133, 139-140 Wiłen´ska, 449 Wivniowiecki, Adam, 411 Władysław, principe, 414-416, 296, 422 Zachar, igumeno, 324-325 Zachar’in, bojari, 320, 378-380 Zadonš/ina, 50-52, 225, 314 Zales’e, 209, 227-229 Zaozer’e, 221 Zbru/, fiume, 129; idolo Zbru/skij (x), 65, 129, 132 Ždanov, J.N., 28 Zen’kovskij, S., 322, 444-445 Zimigoli, tribù, 31 Zółkiewski, 414 Zosima, metropolita, 321 Zotov, Nikita, d’jak, 447 Zubov, Fedor Evtichiev, 478 Zvenigorod, vi/2-3, vi/28-29, vi/32, 152154, 219, 221, 225, 289, 293, 296, 299, 202-204