MONUMENTA VATICANA SELECTA
HEINRICH W. PFEIFFER, S.J.
LA SISTINA SVELATA ICONOGRAFIA DI UN CAPOLAVORO
Musei Vaticani
Libreria Editrice Vaticana
Nuova edizione 2020 Copyright © 2007 by Editoriale Jaca Book Srl, Milano
Indice
Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano Musei Vaticani, Città del Vaticano All rights reserved International Copyright handled by Editoriale Jaca Book Srl, Milano Prima edizione italiana ottobre 2007 Per tutte le immagini a colori della Cappella Sistina © Musei Vaticani Foto Archivio Fotografico Musei Vaticani, A. Bracchetti – P. Zigrossi
Traduzione dal tedesco di Renato Tallone
Prefazione pag. 7 Parte prima Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento eseguite al tempo di Sisto iv pag. 9 Parte seconda Gli affreschi di Michelangelo Buonarroti eseguiti al tempo di Giulio ii pag. 81
Revisione di Francesca Sgrazzutti
Parte terza Le Sibille e i Profeti pag. 143
Copertina e grafica Break Point / Jaca Book
Parte quarta I nove riquadri della volta e i tondi con gli ignudi pag. 177
Stampa e legatura Grafiche Stella San Pietro di Legnago (VR) agosto 2020
Parte quinta Il Giudizio universale di Michelangelo pag. 251 Epilogo pag. 333
isbn
978-88-16-60625-8
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
Note pag. 335 Bibliografia pag. 344 Indice dei Nomi di Luogo e di Persona pag. 349
Prefazione
Nel corso di una visita alla Cappella Sistina, compiuta all’epoca dei miei studi universitari verso la fine degli anni Cinquanta, notai che un affresco di Michelangelo, precisamente quello con Noè deriso, presentava una stretta correlazione con l’affresco della Crocifissione di Cosimo Rosselli, dipinto quasi perpendicolarmente sotto quella scena sulla volta. Da quel momento cominciai a ricercare nella letteratura teologica patristica e medievale la chiave che mi portasse all’esatta e corretta interpretazione di tutti gli affreschi della Cappella. Ma quanto venivo man mano osservando e scoprendo richiedeva spiegazioni sempre nuove dei dipinti, spiegazioni che, però, non riuscivo a trovare nei numerosi studi di storia dell’arte relativi alla Cappella e ai suoi affreschi. Procedendo nel mio lavoro, si è venuta così gradualmente formando in me una triplice convinzione: i temi rappresentati non potevano essere stati inventati dagli artisti, che, invece, dovevano essere stati guidati nel loro difficile compito dai teologi pontifici; ogni singolo particolare rappresentato negli affreschi non doveva avere solo una spiegazione formale, ma essere originato da un preciso contenuto, da ricercarsi nella biblioteca allora a disposizione di questi teologi; tra gli affreschi realizzati al tempo di papa Sisto iv e quelli eseguiti da Michelangelo si riscontrano una tale unità e armonia che non si può non ammettere che tutto il ciclo pittorico della Cappella risponda esattamente a un unico programma iconografico, elaborato nei suoi tratti fondamentali già dai teologi di Sisto iv. Mentre, dunque, da un lato si sviluppavano le mie indagini sugli affreschi, dall’altro lato aumentavano i passi della letteratura patristica e medievale nei quali mi imbattevo che si prestavano ad essere messi in relazione con le pitture della Cappella pontificia. La fondatezza delle mie tesi trovava, nel frattempo, non solo una conferma, ma anche una vasta eco positiva sia in occasione dell’elaborazione di diversi corsi universitari tenuti alla Pontificia Università Gregoriana, alla Pontificia Universidad de México e alla Universidad Iberoamericana di Città del Messico, sia durante la preparazione di conferenze da me tenute all’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Heidelberg e presso diverse istituzioni accademiche in Cina. Alle conferenze e ai corsi universitari hanno poi fatto seguito, a partire dal 1990, cinque articoli, tutti pubblicati nell’Archivum Historiae Pontificiae: l’ultimo di questi, sul Giudizio universale di Michelangelo, è stato pubblicato nel 1999. Gli articoli, tutti scritti in lingua tedesca, sono stati tradotti in italiano, inglese, francese e spagnolo e costituiscono il corpo del volume presente. Ho potuto poi apportare lievi correzioni, a seguito in particolare di un mio piccolo contributo sulla medesima tematica e pubblicato col titolo «Un Michelangelo nuovo: I restauri degli affreschi della Cappella Sistina», in La Civiltà Cattolica del 20 maggio 1995 (pp. 375-387), e di un altro, presentato nel convegno svoltosi in occasione della mostra «Il Volto di Cristo» nel Palazzo delle Esposizioni di Roma, nel marzo 2001, dal titolo «Aspetti della rappresentazione di Dio sugli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina», pubblicato nei relativi Atti («Studi e Testi 432», Città del Vaticano 2006, pp. 231-240). Non ho creduto opportuno modificare la struttura originaria degli articoli, né unificare il sistema delle note, collocate alla fine del volume. Non ho inoltre giudicato necessario completare la ricerca sui seguenti argomenti, non trattati negli articoli: la transenna di separazione tra lo spazio riservato ai chierici e quello per i laici, con
la raffinata decorazione scultorea fiorentina degli anni Ottanta del Quattrocento; gli arazzi tessuti su cartoni di Raffaello, destinati a ricoprire la parte inferiore delle pareti durante le funzioni solenni; i due affreschi realizzati in sostituzione di quelli perduti a causa del crollo del muro dell’ingresso nel 1522, eseguiti dopo la morte di Michelangelo da Matteo di Leccia (la Resurrezione di Cristo, al posto di quello di Domenico Ghirlandaio) e da Hendrik van den Broeck (la Lotta degli angeli e dei demoni intorno al corpo di Noè, al posto di quello di Luca Signorelli). Lo studio che qui si presenta è in primo luogo una ricerca iconografica. Non si sono quindi affrontate questioni attributive, in particolare per quanto concerne i dipinti delle pareti laterali; nel caso nuove indagini abbiano indotto a modificare vecchie attribuzioni, se ne è tenuto conto nelle didascalie e non nel testo, lasciato nella stesura originaria precedente le nuove proposte. A conclusione del lavoro è per me cosa doverosa ringraziare molti colleghi, come pure i miei studenti delle diverse istituzioni accademiche: mi sono stati di grande aiuto con la loro accoglienza e la discussione critica delle tesi presentate. Tra i molti che dovrei ringraziare vorrei citare qui solo tre nomi, quelli dei proff. Matthias Winner e Christoph Luitpold Frommel, già direttori della Biblioteca Hertziana a Roma, e del compianto dott. Fabrizio Mancinelli, dei Musei Vaticani, che hanno sempre accompagnato le mie ricerche con i loro stimoli e la loro amicizia. Per la redazione della bibliografia finale ringrazio le mie allieve Claudia Gottuso e, in particolare, Valerija Macan. Grato soprattutto a chi mi ha dato gli occhi e a chi, nel corso dei miei studi decennali sulla Cappella Sistina, mi ha fatto rintracciare tutti i testi qui menzionati, sarei veramente lieto se chi legge queste pagine potesse vedere e leggere gli affreschi, godendo con occhi nuovi della loro visione. Heinrich W. Pfeiffer, s.j.
Parte prima LE SCENE DELL’ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO ESEGUITE AL TEMPO DI SISTO IV
La Sistina svelata
Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
Introduzione
il cielo nell’allegoria teologizzante e nell’arte rinascimentale romana
a. Cappella Sistina b. Sala Regia c. Cappella Paolina d. Scala Regia e. Sala Ducale (Aula Secunda) 1. Cortile Borgia 2. Cortile della Sentinella
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astra deus nos templa damus tu sidera pande (Tu, o Dio, doni gli astri, noi Ti dedichiamo templi, Tu elargisci le stelle): questo esametro fa da fregio all’anello superiore della cupola della chiesa di Sant’Eligio degli Orefici in Roma1. Raffaello prese parte all’edificazione di questa chiesa2, la cui cupola, a dire il vero, venne nuovamente eretta, con il tamburo più elevato, all’inizio del xvii secolo, dopo la comparsa di lesioni nell’edificio. Tuttavia, l’iscrizione citata all’inizio va piuttosto collocata nella prima metà del xvi secolo: si tratta di una preghiera che esprime una supplichevole richiesta di «stelle» a Dio, precisando come «noi» a Lui dedichiamo templi. Questa preghiera rimanda al quarto giorno della creazione, così come viene descritto nel Libro della Genesi (Gn 1,14-19), mentre qualsiasi menzione al tempio fa riferimento a quello che è il modello di tutti i templi per gli ebrei e per i cristiani e, precisamente, il tempio eretto da re Salomone in Gerusalemme ricordato nelle Scritture. Ma, sia il concetto della volta celeste in cui, secondo la preghiera dell’iscrizione, si implora Dio di far risplendere stelle, sia quello del tempio necessitano di un’ulteriore spiegazione, altrimenti il significato dell’iscrizione resterebbe totalmente misterioso. Nelle opere romane del Rinascimento esistono ancora altri importanti riferimenti al cielo descritto nel quarto giorno della creazione e alle luci create da Dio. È probabile che inizialmente, prima che Michelangelo vi dipingesse i suoi affreschi animati da figure, un cielo azzurro stellato abbia decorato la volta della Cappella Sistina secondo la configurazione concepita sotto Sisto iv, il papa dal quale prese il nome3 (figg. 1, 2, 3). Uno dei dipinti di Michelangelo sul soffitto della Sistina illustra il quarto giorno della creazione, giorno in cui Dio ha creato il sole, la luna e le stelle, mentre uno dei capolavori di Raffaello, la Disputa nella Stanza della Segnatura, è stato definito un cielo dal Vasari, in termini che a noi possono sembrare del tutto singolari4. Ma cosa hanno in comune gli esempi che abbiamo citato finora e che significato hanno i cieli che compaiono in questi esempi? Per trovare una risposta alla domanda è opportuno chiedere informazioni ai teologi di quell’epoca e domandare loro cosa intendessero effettivamente con l’immagine-cielo.
Non possiamo più essere così ingenui da pensare che pittori come Raffaello e Michelangelo, per quanto geniali, abbiano personalmente ideato i contenuti dei temi illustrati nei loro dipinti, e, tantomeno, lo abbiano fatto i pittori che hanno lavorato nella Cappella Sistina prima di Michelangelo. Papa Sisto iv e suo nipote Giulio ii infatti posero a fianco degli artisti dei consulenti di teologia. È perciò necessario indagare sulle idee di tali consulenti se vogliamo comprendere quale contenuto tematico intendano esprimere i dipinti commissionati da questi papi. «Si vede solo ciò che si sa», disse una volta Ludwig Curtius. Sfogliando attentamente gli scritti di Egidio da Viterbo ho cercato di ricavare dei termini di paragone che rendessero possibile una più profonda comprensione del contenuto tematico della Disputa e degli altri affreschi di Raffaello dipinti nella Stanza della Segnatura5. Sebbene abbia dovuto rivedere alcuni dettagli della mia ricerca6, il metodo scelto si è, nel frattempo, dimostrato fondamentalmente giusto. In seguito, sono entrati nel nostro orizzonte anche altri teologi dell’epoca: la conoscenza delle loro opere (per lo più non ancora pubblicate) risulta di grande importanza per la retta interpretazione dei cicli di affreschi commissionati dai papi Sisto iv e Giulio ii. Tra i teologi rappresentanti della spiritualità francescana vanno menzionati Pietro Colonna (noto anche col nome di Petrus Galatinus)7 e Giorgio Benigno Salviati (Georgius Benignus de Salviatis) (il suo nome croato è Juraj Dragisi0)8 e, quale rappresentante dell’indirizzo neoplatonico, oltre ad Egidio da Viterbo, citiamo il patrizio veneziano e protonotario Cristoforo Marcello9: costoro appartengono tutti all’epoca di Giulio ii. Un’altra personalità della corte di Sisto iv che ha continuato ad influire sui teologi francescani di papa Giulio ii, che era suo nipote, è il beato Amadeo10, confessore del papa che fece costruire la Cappella Sistina ed avviare la sua decorazione. Recentemente Fausta Navarro ha accertato che la tavola detta Quadro dei Misteri della Galleria Barberini, risalente all’inizio del xvi secolo, è un’attenta traduzione pittorica di uno dei testi legati al beato Amadeo11. Grazie a questa scoperta siamo ora in grado di sapere non solo come un testo scritto possa essere tradotto in dipinto in modo preciso e aderente al testo, ma anche di conoscere quale aspetto avesse il beato Amadeo: infatti anch’egli viene raffigurato su questa tavola. Sono riuscito a trovare la medesima testa di Amadeo nella Disputa di Raffaello, e, precisamente, al centro, in secondo piano leggermente a sinistra, dove un gruppetto di teologi è assorto
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La Sistina svelata
in dialogo. I teologi, ovvero un vescovo e dei religiosi, sono radunati attorno ad un francescano, il cui ritratto corrisponde, specularmente, a quello di Amadeo raffigurato nel Quadro dei Misteri12. Si può, forse, supporre che il vescovo presente in questo piccolo gruppo sia Giorgio Benigno Salviati, il quale apparteneva alla stessa cerchia di Pietro Colonna e che, anche dopo la morte di Amadeo, si sentiva in obbligo verso la sua persona e i suoi principi13. Di Giorgio Benigno Salviati possediamo anche uno scritto teologico il cui primo foglio reca una sorta di indice in forma di miniatura schematizzata, con molte postille a lato, che mostra chiaramente come il teologo si sia preoccupato di illustrare le proprie idee tramite immagini. Dal momento che la miniatura è ancora inedita, verrà presentata e descritta di seguito14. Noi sappiamo che Giorgio Benigno Salviati nell’agosto 1507, come vescovo di Cagli, presso Urbino, e come membro della legazione pontificia, consegnò all’imperatore Massimiliano a Innsbruck lo scritto da noi menzionato ed ora custodito a Vienna nella Österreichische Nationalbibliothek sotto la denominazione di Cod. Palatinus 4797 (Theol. 28). Il titolo è Vexillum christianae fidei, e ha per oggetto la Trinità e l’Incarnazione della Parola eterna: ciò che è rappresentato sul fol. 6v trova rispondenza nel contenuto. Al di sopra della figura di Maria col Bambino Gesù sono rappresentati quattro cerchi dorati. Il cerchio posto alla sommità emana un raggio dorato che entra nel cerchio dipinto più in alto rispetto ad altri due cerchi cosicché,
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1. Pier Matteo d’Amelia, disegno preparatorio per la volta della Cappella Sistina, 1480 ca., Firenze, Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe.
collegati l’uno all’altro, disegnino idealmente un triangolo. Allo stesso tempo questi tre cerchi vengono uniti insieme da una croce dorata formata dai raggi e il cui asse longitudinale è costituito dal prolungamento del raggio superiore. Il raggio aureo perpendicolare al centro si prolunga poi verso il basso fino all’orecchio di Maria. Un altro raggio tracciato orizzontalmente esce dal tondo di sinistra fino a raggiungere il cuore del Bambino Gesù. Al di sopra del tondo alla sommità si può leggere: «Aurum optimum Lux Deitatis pellagus infinitum» (Oro migliore, luce divina, mare infinito). Il riferimento è, qui, alla Sapienza di Dio concepita come un globo, una sphaera, il cui centro si trova in ogni suo punto e la cui circonferenza non esiste da nessuna parte, come detto nella chiosa poi aggiunta: «Essa è un mare in cui confluiscono tutti i fiumi, dal quale essi hanno origine e nel quale essi ritornano per poi sgorgare e scorrere di nuovo». «Questa Sapienza di Dio», come dice un’altra postilla, «est res unica et simplicissima equivalens omnibus suis perfecte» (È una cosa unica e semplicissima, e corrispondente in modo perfetto a tutte le sue componenti). Con suis si intendono le tre Persone divine. Così dice un’iscrizione che, come un raggio gettato fra i tre tondi della Trinità e il tondo che indica la Sapienza come essentia seu usia (essenza o sostanza) di Dio, è stata aggiunta dallo scrivente: «hi tres unum et hoc unum» (Questi tre formano una cosa sola e questa cosa è unica). Allo stesso modo i raggi dorati, originati da una dimensione immaginata al di là del dipinto, provenendo dall’alto, definiscono e decorano nello stesso tempo la parte su-
2. Schema della parete dell’altare prima del “Giudizio universale” di Michelangelo (da Ettlinger).
periore della Disputa, cosicché proprio sotto questi raggi le tre Persone della Trinità vengono a trovarsi secondo uno schema raffrontabile con la nostra sintetica miniatura15. L’oro dei cerchi e i raggi della miniatura indicano la Lux Deitatis equivalente (equivalens) alle tre Persone divine. A questa medesima luce vanno fatti risalire i raggi della parte superiore della Disputa. La concezione dell’affresco della Disputa, per quanto riguarda la zona superiore, è dunque influenzata dalla teologia di Giorgio Benigno Salviati. La Sapienza di Dio, situata ancora in modo tanto esplicito sopra le tre Persone, non ha quasi mai riscontro nella teologia, al punto che la parentela tra la miniatura, che tra l’altro è da attribuirsi ad un maestro della Germania meridionale o dell’Austria, e l’affresco della Disputa può essere spiegata solo considerando per entrambi i casi Giorgio Benigno Salviati promotore di questa inusuale concezione del Mistero della Trinità. Il secondo teologo francescano, che forse si ispirò maggiormente alle idee e alle predizioni del beato Amadeo, fu Pietro Colonna. Dopo la morte del beato Amadeo, che avvenne nel 1482, cominciò a circolare entro una cerchia ristretta uno scritto segreto attribuito a lui dal titolo Apocalypsis Nova16. Si tratta precisamente del testo il cui prologo venne tradotto in immagine nella tavola della Galleria Barberini sopra menzionata. Pietro Colonna non cita mai espressamente questo scritto, ma si rivela decisamente influenzato da esso. Le sue opere contengono an-
Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
cora, forse, il maggior numero di informazioni riguardanti quell’epoca relative al patrimonio di idee racchiuse nel mondo iconografico degli affreschi della Cappella Sistina e delle tre Stanze. Non si può dire con precisione quando sia nato Pietro Colonna17; certamente intorno al 1460. E si ignora anche quando egli sia arrivato a Roma. Nel 1480 risulta già entrato nell’Ordine francescano. Può darsi anche che, in quel periodo, non avesse ancora conosciuto il beato Amadeo che, del resto, non è mai stato proclamato tale in forma solenne: nei suoi scritti Pietro Colonna non ci fornisce, infatti, particolari informazioni riguardo alla possibile conoscenza personale. Contenuto sostanziale della Apocalypsis Nova è la predizione dell’avvento di un papa simile ad un angelo, il «Pastor Angelicus» che porrà fine ai tempi di decadenza della Chiesa, tempi che vanno degenerando. Questo pensiero è perseguito da Pietro Colonna in parecchi dei suoi scritti. Una delle sue opere – conservata solo come manoscritto – porta appunto il titolo De ecclesia restituta (La Chiesa restaurata)18, mentre un altro scritto col titolo De Pastore angelico (Il Pastore angelico)19 tratta interamente la figura di un papa simile ad un angelo, predetta già da Gioacchino da Fiore; un’altra delle numerose opere del teologo si occupa, poi, della Sacra Scrittura in genere20. In questi libri di Pietro Galatino, già destinati alla pubblicazione e tuttavia rimasti inediti, si trovano i concetti fondamentali utili per capire quali siano i significati racchiusi negli affreschi delle Stanze e della Cappella Sistina. Uno dei più importanti concetti di matrice biblica, che risuona anche nell’iscrizione della cupola di Sant’Eligio degli Orefici, è quello del cielo che, secondo il nostro teologo, «contiene molti misteri, come lo esige la varietà delle Scritture»21. Applicando la dottrina dei molteplici sensi della Scrittura, Pietro Galatino distingue nel senso anagogico, che induce all’elevazione, la Chiesa trionfante dei santi dalla Chiesa militante, che troverebbe corrispondenza nella parola «cielo» letta alla luce del senso allegorico della Scrittura. In senso tropologico o morale cielo significa, invece, la Sacra Scrittura per il fatto che «mediante la riflessione essa si rivolge verso se stessa». Che anche per i teologi della seconda metà del xvi secolo, come già per Pietro Galatino, nella parola cielo fossero ancora racchiusi molti misteri, risulta ben evidente a chi apra, alla voce coelum, l’opera Sylva Allegoriarum Totius Sacrae Scripturae di Gerolamo Laureto22: un lessico in due volumi stampato a Venezia nel 1575. In esso, insieme alle indicazioni dei passi tratti dalle opere dei Pa-
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La Sistina svelata
dri e dei teologi medievali, leggiamo che coelum significa Dio, Cristo, gli angeli, le cose spirituali, la Vergine Maria, l’anima, gli Apostoli, i predicatori, i Profeti, la Chiesa ed anche la Sacra Scrittura. Riguardo al cielo come Sacra Scrittura, Laureto dice: «La Sacra Scrittura può venire chiamata il cielo dal quale Dio parla. Dall’alto di questo cielo splendono su di noi il Sole della Sapienza e la Luna della Scienza, mentre dai Padri rifulgono le stelle dei loro esempi e delle loro virtù»23. Il vedere e l’accostare la Sacra Scrittura al cielo non era, dunque, fatto così inusuale per i teologi dell’epoca di un Raffaello e di un Michelangelo. Per noi, al giorno d’oggi, questo linguaggio biblico figurato è completamente perduto. Chi si ricorda ancora il precedente richiamo al fatto che, in origine, un cielo stellato avrebbe decorato la volta della Cappella Sistina, potrà ora trarre alcune sorprendenti conclusioni. Infatti ciò che è stato dipinto sulle pareti della Cappella al tempo di papa Sisto iv, vale a dire avvenimenti tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, secondo la nostra capacità di comprensione resa possibile dalla lettura delle opere di Pietro Galatino e di Gerolamo Laureto, nel suo insieme, costituisce parimenti un cielo. Un cielo nel suo significato tropologico: un cielo con le stelle degli esempi e delle virtù dei Padri, e con il Sole della Sapienza che è Cristo. Ma ora siamo in grado di comprendere che anche Michelangelo, al tempo di papa Giulio ii, quando dipinse i suoi nuovi affreschi sul soffitto della Sistina, non fece altro che sostituire un unico cielo con un altro cielo, cioè il cielo delle stelle con quello della Scrittura veterotestamentaria (fig. 4). La Disputa di Raffaello è addirittura un cielo da interpretare secondo molteplici accezioni24. Infatti, volendo si possono attribuire a questo affresco tutti e tre i sensi scritturali della parola cielo, così come sono stati esposti da Pietro Galatino. La Disputa, nella sua parte superiore, raffigura, in senso anagogico, la Chiesa trionfante, mentre nella parte inferiore presenta, in senso allegorico, la Chiesa militante. I santi disposti a due a due sul banco di nuvole nella parte superiore sono, nel loro insieme, una raffigurazione della Sacra Scrittura, da considerarsi, dunque, come cielo in senso tropologico. Ciascuno dei santi, invece, rappresenta, singolarmente, ognuno dei più importanti libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il terzo cielo, nel quale san Paolo è stato rapito, come racconta egli stesso nella Seconda Lettera ai Corinzi, ha, nell’interpretazione basata sui diversi sensi scritturali, contenuto e significato particolari. Secondo Gerolamo Laureto esso rappresenta la visione spirituale di Dio, vi-
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3. Veduta esterna della Cappella Sistina, Cappella Magna fortificata del palazzo pontificio, costruita da Giovanni de’ Dolci.
sio intellectualis Dei, che si differenzia dalla visione corporale e dalla visione per immaginazione, la visio corporalis e la visio imaginaria. Quindi: al primo cielo appartiene la conoscenza di se stessi, al secondo la conoscenza perfetta della creatura, mentre il terzo consiste nella visione di Dio, la contemplatio Dei. Nel passo sopra citato Pietro Galatino dice in breve: «Chi vuole dunque penetrare nei misteri di Dio (Dei arcana inspicere), nella contemplazione delle cose divine, dopo aver lasciato dietro di sé le opere della carne, deve salire in spirito al cielo di questa Scrittura, affinché, come rapito con Paolo fino al terzo cielo ed entrato in questa porta aperta della stessa Scrittura, veda le parole arcane che all’uomo non è permesso pronunciare perché troppo sublimi»25. Ma cosa scrisse Raffaello in uno dei suoi abbozzi di poesie su un foglio con il disegno della Disputa? «Como non podde dir d’arcana Dei Paul, como disceso fu dal celo così el mio cor d’uno amoroso velo a ricoperto tutti i penser mei.»26 Poiché gli eruditi si ostinano ancora a sostenere la tesi secondo cui Raffaello avrebbe scritto queste righe a un’amata in carne ed ossa, è necessario a questo punto muoversi con fermezza contro una tale falsa opinione27. Queste righe rappresentano piuttosto un tentativo dell’artista di appropriarsi del linguaggio teologico, anche nel suo lessico, nella sua poetica e nella sua metrica, mentre abbozza i disegni dell’affresco della Disputa, affresco che raffigurerà proprio il cielo della teologia. Il primo biografo di Raffaello afferma che la Stanza della Segnatura è stata dipinta ad praescriptum pontificis28: di certo Raffaello sapeva che solo così avrebbe potuto soddisfare le disposizioni papali e rimanere in un dialogo proficuo con i consulenti di teologia scelti da papa Giulio ii per affiancarlo. Giulio ii imitò lo zio Sisto iv nel definire un programma erudito per i pittori incaricati della decorazione degli ambienti vaticani, ponendo loro accanto dei consulenti di teologia. Nel contempo, sono ora noti i tituli presenti nel programma degli affreschi della Cappella Sistina. Proprio quando, durante il restauro dei dipinti, questi tituli venivano a poco a poco alla luce29, John Shearman scoprì una loro trascrizione in un testo riguardante la disposizione dei seggi in occasione del conclave. Stranamente, però,
La Sistina svelata
questi tituli sembrano concordare solo in parte con gli affreschi eseguiti. In effetti, nonostante le ricerche di Steinmann ed Ettlinger, il programma iconografico della Cappella Sistina non è ancora stato spiegato alla luce di alcun nesso logico30. Finora non è stato ancora sviscerato a fondo il criterio che guidò la scelta delle scene rappresentate. Dovremo, perciò, dimostrare che i tituli concordano completamente con i dipinti e poi, nella seconda parte della nostra ricerca, metteremo in luce come anche gli affreschi di Michelangelo si inseriscano nel programma stabilito, nei suoi tratti essenziali, fin dai tempi di papa Sisto iv. Finora, si sono potuti confrontare soltanto pochi passi, espunti dai testi dei Padri della Chiesa o dei teologi del Medioevo, con i singoli particolari degli affreschi. Non è stato, però, possibile conoscere i consulenti di teologia, o, per lo meno, la loro cerchia. Da parte mia ricorro, nel lavoro che segue, ad alcuni testi che permettono di trarre conclusioni riguardanti tanto il programma generale della Cappella Sistina, quanto i possibili teologi che l’hanno elaborato. In tal modo avremo il piacere di gettare uno sguardo al firmamento degli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento; una visione possibile solo in seguito all’interpretazione allegorica della Sacra Scrittura. Un commentario medievale all’Apocalisse e il programma mariologico delle pitture parietali
Una teologia che interpreti la Bibbia con un metodo allegorizzante può essere tradotta in immagini più facilmente di un pensiero teologico che si serva in primo luogo di concetti filosofici, quasi sempre astratti31. L’esegesi biblica allegorizzante veniva praticata nella scuola francescana; questo spiega perché anche il teologo francescano papa Sisto iv fosse un maestro in quest’arte, come dimostra, in ampi passaggi, il suo trattato sul valore, o meglio, sul non valore salvifico delle reliquie del Santo Sangue di Cristo32. Colui che è stato consulente dei pittori degli affreschi della Cappella Sistina deve aver studiato a fondo non pochi autori dell’esegesi biblica alla luce dei molteplici sensi della Scrittura. Nella valutazione dei primi quattro affreschi datata 17 gennaio 1482, in un documento autenticato dal notaio33, oltre ai quattro pittori, Cosimo Rosselli, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino, vengono menzionati coloro che furono incaricati di valutare i dipinti: tra questi, troviamo due teologi, tre pittori ed un archi-
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4. La cappella pontificia, articolata in un recinto per i laici ed uno per i chierici, presenta una decorazione pittorica unitaria, nonostante sia stata realizzata sotto i pontificati di Sisto iv (pareti laterali), Giulio ii (volta) e Paolo iii (parete d’altare).
tetto della Cappella, Giovanni de’ Dolci. I due teologi sono Antonio da Pinerolo, dell’Ordine francescano, in sacra pagina magister, dunque un erudito in materia di Sacra Scrittura, e Bartolomeo de Bollis, canonico in san Pietro. Nell’esperto francescano possiamo certamente scorgere colui che delineò il programma degli affreschi basandosi su scritti teologici riferibili all’esegesi allegorizzante. Nella perizia, infatti, egli viene nominato per primo. Accanto a lui si trova il canonico, mentre in ultimo, tra gli arbitres, gli estimatori, figura l’architetto. Ad essere valutate furono le prime quattro istoriae completate cum cortinis cornicibus et pontificibus, dunque, pitture parietali che raffigurano avvenimenti storici, insieme a drappeggi, cornici e raffigurazioni di pontefici. Uno dei libri dai quali i consulenti di teologia hanno attinto principi in base a cui ideare il programma è stato la Expositio super septem visiones libri Apocalypsis: scritto che fu attribuito a sant’Ambrogio, sebbene parecchi riferimenti ivi contenuti portino a concludere che esso abbia avuto origini in epoca notevolmente più tarda, forse nel ix secolo. Questo libro è articolato in sette visioni. Nella terza visione l’apparizione del «libro che è scritto sul lato esterno e su quello interno» (Ap 5,1) viene interpretata come un riferimento all’Antico e al Nuovo Testamento. Quello «scritto sul lato interno» è il libro in senso spirituale, quello «scritto sul lato esterno» è il libro secondo il senso storico o letterale della Scrittura: infatti la comprensione spirituale dell’Antico Testamento non è costituita che dal Nuovo Testamento in esso nascosto34. Partendo da questa riflessione basilare l’autore menziona tutti i Patriarchi del Libro della Genesi e, giunto al Libro dell’Esodo prende a parlare di Mosè. I singoli episodi della vita di Mosè, scelti dallo sconosciuto autore della Expositio, si accordano in modo sorprendente ai primi affreschi nei quali è presentata la sua figura: si tratta dei dipinti che riguardano i racconti dell’abbandono di Mosè nelle acque del Nilo (affresco non più conservato), del roveto ardente, della circoncisione del figlio e del passaggio del Mar Rosso. Dal momento che la stima compiuta nel gennaio 1482 fa riferimento a ciascuna delle quattro istoriae come eseguita da ognuno dei quattro pittori menzionati, e poiché sulla parete di Mosè della Cappella Sistina le scene ivi raffigurate della circoncisione, del roveto ardente e del passaggio del Mar Rosso sono, in modo certo, da attribuirsi rispettivamente al Perugino, al Botticelli e a Cosimo Rosselli, la scena, non più conservata, dell’abbandono e del ritrovamento di Mosè
La Sistina svelata
bambino nel Nilo può solo essere stata realizzata da Domenico Ghirlandaio. La Expositio sceglie come terzo esempio, relativo alle prescrizioni della Legge di Mosè, il sacrificio di purificazione per la guarigione di un lebbroso. Anche questa scena, che, per quanto ne so, non è più stata raffigurata altrove, figura tra i dipinti della Cappella Sistina. Essa è stata aggiunta dal Botticelli nel suo affresco che ha per tema le tre tentazioni di Gesù ed è dipinto sulla parete opposta a quella degli affreschi dedicati alla figura di Mosè. L’autore della Expositio dichiara che due, tra gli avvenimenti tratti dalla vita di Mosè narrati, sono da intendersi come implicite allusioni a Maria35. La Cappella Sistina – è qui il caso di ricordarlo – è stata dedicata a Maria da papa Sisto iv. Come francescano e come teologo nella tradizione di Duns Scoto, era un seguace della dottrina dell’Immacolata Concezione36 e, dunque, convinto che, fin dal momento del suo concepimento, Maria fosse monda dal peccato originale. Solo nel 1854 questa dottrina venne elevata a dogma da papa Pio ix. L’Immacolata Concezione di Maria insieme al ruolo peculiare della Madre di Dio nel disegno della volontà divina, deve aver influito fin dall’inizio sull’ideazione degli affreschi eseguiti a decorazione della Cappella. L’affresco originale del Perugino, situato dietro l’altare e affiancato dalle scene del ritrovamento di Mosè e della nascita di Gesù, cedette il posto al Giudizio universale di Michelangelo. Di questo affresco si conserva però un disegno, considerato una rappresentazione dell’Immacolata sul modello di un’Assunta37 (fig. 5). Come si è detto, alla sinistra dovevano essere rappresentati l’abbandono e il ritrovamento di Mosè nel Nilo. Nel secondo capitolo del Libro dell’Esodo si racconta che, dopo la nascita di Mosè, i suoi genitori lo tennero nascosto per tre mesi e che, passato questo primo periodo, sua madre lo abbandonò sulle acque del Nilo in un cestello di giunco spalmato di pece e di bitume, allo scopo di eludere il comando del faraone secondo il quale tutti i neonati maschi degli ebrei avrebbero dovuto essere uccisi. Così si esprime al riguardo l’autore della Expositio: «Mosè significava Cristo, i tre mesi nei quali Mosè venne tenuto nascosto significano tre epoche: una è quella prima del diluvio universale, la seconda è quella dopo il diluvio fino a Mosè, la terza da Mosè fino alla venuta del Signore... con il cestello di giunco si fa però riferimento alla Beata Vergine Maria: la madre ha dunque preparato un cestello di giunchi nel quale venne deposto Mosè,
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5. Disegno che riproduce l’affresco dell’altare di Pietro Perugino, del 1481, attribuito a Pinturicchio; Vienna, Albertina.
poiché la Sapienza di Dio, che è il Figlio di Dio, ha eletto la beata e gloriosa sempre vergine Maria nel cui grembo materno incontaminato doveva formarsi l’uomo mediante l’unità della persona con Lui [cioè il Figlio di Dio]. Nel bitume che non può essere sciolto dall’acqua possiamo riconoscere la verginità della beata Maria che non poté essere violata da alcuna eccitazione carnale: nella pece, dal momento che essa conserva il vino, riconosciamo l’umiltà, la custode di tutte le altre virtù»38. Con questo tipico esempio di interpretazione allegorizzante della Scrittura seguiamo un tema che, a causa delle successive variazioni apportate al programma degli affreschi della Cappella Sistina, si riesce a stento ad individuare. Resta comunque un tema che, a suo tempo, ne ha determinato l’impostazione in larga misura, riguarda, cioè, i riferimenti a Maria celati nel Libro dell’Esodo. Affinché l’osservatore possa cogliere più facilmente questi riferimenti, i pittori della Sistina sono ricorsi all’espediente dell’uniformazione delle vesti. Come Mosè indossa sempre un abito giallo oro ed un mantello verde, così le persone che rimandano alla figura di Maria indossano sempre una veste rossa ed un mantello blu. Vestiti così troviamo Zippora, la moglie di Mosè, che circoncide suo figlio, come pure Mirjam, la sorella di Mosè, che intona il
Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
canto di vittoria dopo il passaggio del Mar Rosso, ed anche Dio stesso mentre appare a Mosè nel roveto ardente. Come avremo ancora modo di vedere, il Perugino ed il Botticelli si differenziano, però, nella raffigurazione della veste e del mantello di Zippora. «Mosè stava pascolando il gregge di pecore e di capre di Ietro, suo suocero... e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. Lì gli apparve l’angelo del Signore in una fiamma di fuoco che si levava da un roveto. Egli guardò, ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava» (Es 3,1ss.). L’autore della Expositio spiega questo passo dicendo che «nel roveto, che suscitava le fiamme dal suo interno senza venire consumato dal fuoco, noi possiamo scorgere la beata vergine Maria che dal suo grembo materno diede origine al Figlio di Dio senza perdere la sua verginità»39. Più avanti il nostro autore spiega come nel roveto possiamo vedere anche la relazione tra Cristo e la sua natura umana, mentre le fiamme dovrebbero significare la sua divinità40. Dall’interno del roveto ardente Dio ordinò a Mosè di togliersi i sandali dai piedi e lo inviò in Egitto a liberare i figli di Israele. E Mosè obiettò: «E se essi non mi crederanno e non mi daranno ascolto, ma diranno: Jahvè non ti è apparso?» (Es 4,1). A proposito di questo passo, nella Expositio leggiamo che Mosè ubbidì malvolentieri al comando di Dio. Il nostro autore si domanda, perciò, come un uomo così santo come Mosè abbia potuto ubbidire con tanta riluttanza a Dio. Egli suppone che si trovi qui celato un significato spirituale: infatti, in questo passo, la figura di Mosè è l’immagine degli Apostoli. All’inizio della loro predicazione, dice l’autore, essi erano troppo legati ai giudei e non volevano rivolgersi ai pagani. Secondo l’Expositio andrebbe interpretata allo stesso modo anche l’ingiunzione di Dio, rivolta a Mosè, di togliersi i calzari dai piedi. Infatti il luogo è «terra santa» (Es 3,5): questo disse Dio a Mosè, come dovesse dire ad uno dei grandi Apostoli: «Sebbene tu risusciti i morti, sebbene l’ombra del tuo corpo risani i malati, non puoi osare di paragonarti a me, poiché le cose grandi che tu compi, non provengono da te, ma sono io che opero per mezzo di te. I calzari proteggono i piedi, affinché essi non tocchino la terra: con la terra sono intesi i pagani»41. Il titulus dell’affresco, scoperto di recente, riguarda una delle tentazioni di Mosè: temptatio moisi legis scriptae latoris (Tentazione di Mosè latore della Legge scritta, fig. 6). Quella tentazione consisterebbe proprio nella riluttanza di Mosè all’obbedienza verso Dio e nel suo timore di non essere creduto. La lettura della Expositio richiama
l’attenzione di chi osserva l’affresco al suo nesso interno con il titulus che l’accompagna; diversamente, il dipinto riesce a stento a presentare una relazione col proprio titulus. Solo così veniamo, ora, instradati ad una lettura corretta di tutto l’affresco. In Mosè non va solo visto il Cristo, ma anche uno degli Apostoli, e perché non il successore di Pietro, il papa Sisto stesso? In questo dipinto murale del Botticelli molte cose non sono ancora state colte completamente poiché è mancata agli interpreti la chiave necessaria alla loro spiegazione. Per la retta interpretazione dell’affresco bisogna infatti tenere presente la disposizione dei diversi episodi e la scelta dei colori delle vesti. La scena più importante, l’apparizione di Jahvè nel roveto ardente, si trova nell’angolo superiore di sinistra. Sebbene, sospinta così a margine, essa perda importanza, tramite questo artificio tutti gli altri episodi appaiono come dipendenti dalla mano di Dio levata in atteggiamento oratorio, per quanto, dal punto di vista cronologico, siano antecedenti alla vicenda del roveto ardente. Proprio al centro del quadro, l’osservatore riconosce Mosè che abbevera le pecore e i capri della figlia di Reuel, sacerdote di Madian, dopo aver scacciato i pastori che impedivano alle figlie del sacerdote di avvicinarsi agli abbeveratoi42. La scena accanto, sulla destra, mostra Mosè che colpisce a morte l’egiziano e che poi fugge nel deserto. L’ultimo episodio, quello dell’uscita degli Israeliti dall’Egitto, illustrato a sinistra in primo piano, è direttamente conseguente alla missione affidata da Dio a Mosè nel roveto ardente. Solo questo episodio, sul piano temporale, fa seguito alla missione di Mosè. Dio, nell’atto di apparire nel roveto ardente, indossa una veste rossa e un mantello blu. È questo il modo di vestire abituale di Maria e di Gesù Cristo negli affreschi della Cappella Sistina. Che il colore blu del mantello faccia solo pensare al cielo, lo possiamo provare guardando la veste sacerdotale di Aronne, del medesimo colore. Il cielo rimanda anche all’idea stessa di Dio: informazione che ci viene dalla Sylva Allegoriarum, che consulteremo ancora molte volte. La veste rossa può essere certamente un’allusione all’amore: «Dio è Amore» dice la Prima Lettera di Giovanni (1 Gv 4,16). Mosè indossa sempre una veste dorata o di color giallo oro e un mantello verde in tutti i dipinti murali della Cappella Sistina: il mantello verde non può che alludere alla Speranza. Per leggere in modo corretto questo dettaglio, occorre ricordare che i misteri presenti nella vita di Mosè avrebbero trovato il loro compimento solo nel futuro, e cioè nella vita di Gesù. La veste dorata fa anche riferimento alla santità di
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6. Parete sud, Sandro Botticelli, affresco alla sinistra del trono pontificio con vari Episodi della vita di Mosè, dall’Uccisione dell’egiziano fino alla Condotta del popolo di Dio fuori dall’Egitto. 20
La Sistina svelata
Mosè e alla Fede che si manifesta nelle Virtù. Ma nel suo significato vero e proprio l’oro esprime la natura divina che è immortale e, in modo particolare, la natura divina di Cristo. Con la sua veste dorata Mosè rinvia, dunque, a Gesù Cristo, il vero mediatore e liberatore. Le figlie di Reuel sono vestite di bianco. Il bianco significa – come possiamo ancora una volta leggere nella Sylva Allegoriarum – «letizia spirituale, innocenza e purezza di vita... si può trovare questo fulgore bianco nelle pietre o nei vestiti, nei cavalli o nelle pecore»43. In questo affresco Botticelli ha dipinto vesti bianche, pecore bianche e pilastri marmorei bianchi. Infine devono ancora essere esaminati, nel loro contenuto e significato, i singoli elementi rappresentati nel quadro, come pure le persone. Mosè in questo affresco porta sempre con sè il proprio bastone. Nella Sylva Allegoriarum esiste un breve trattato sul bastone di Mosè: esso simboleggia la forza divina, ma anche l’autorità ed, infine, la passione e la croce del Signore. Nell’uscita dall’Egitto Mosè tiene il bastone come uno scettro: con questo gesto egli richiama, dunque, la signoria di Cristo. Con la forza di Dio, col suo bastone, Mosè scaccia i pastori che impedivano alle figlie del sacerdote di Madian di abbeverare le loro pecore. Col bastone sulle spalle Mosè fugge nel deserto dopo aver colpito a morte l’egiziano con la spada: può darsi che qui il pittore, o meglio, il suo consulente di teologia abbia pensato alla croce di Cristo. La spada con la quale Mosè uccide l’egiziano indica la parola di Dio, mentre nell’egiziano si deve vedere Satana. Ma il linguaggio figurativo richiede una sempre più attenta decodifica, cosicché, nel dipinto murale, possiamo riconoscere non solo l’arte di Botticelli, ma anche il messaggio teologico comunicato nei colori e nelle forme. L’ebreo ferito alla fronte dall’egiziano, e collocato nell’affresco sulla destra, porta una cazzuola alla cintola e viene sollevato e tenuto al braccio da una donna che indossa una veste celeste44. Ambedue sembrano aver trovato rifugio in un edificio che ha la foggia di un tempio. La costruzione è simile ad un tempio, ma in realtà si tratta del doppio sepolcro dei Patriarchi ad Ebron menzionato nel Libro della Genesi (Gn 49,29s.). La Meditatio in Passionem et Resurrectionem Domini, attribuita un tempo a san Bernardo, dichiara a questo proposito che «il santissimo Patriarca», cioè Giacobbe, non volle trovare l’estremo riposo in Egitto, ma nella «caverna doppia» (in spelunca duplici) «dove riposa la speranza delle opere buone e dove l’amore riposa nella contemplazione...»45. L’edificio a foggia di tempio a due entrate è dunque questo.
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7. Parete sud, Pietro Perugino, affresco alla destra del trono pontificio: Ritorno di Mosè in Egitto per liberare il popolo di Dio dal Faraone, particolare della circoncisione del figlio minore.
Con esso si rievoca, così, la tematica degli edifici, tematica importante per tutta la sequenza degli affreschi e che noi abbiamo già incontrato in precedenza. Avremo occasione di dedicare ancora la nostra attenzione al tempio nell’affresco dipinto che mostra come episodio centrale la purificazione del lebbroso. Ma, per il momento, dobbiamo ritornare ancora alla Expositio in Apocalypsin. L’episodio successivo tratto dalla vita di Mosè e commentato nella Expositio è quello del ritorno di Mosè in Egitto proveniente da Madian (fig. 7), raffigurato dal Perugino nella Cappella Sistina, nel riquadro adiacente di destra, che precede l’affresco del roveto ardente. Nel Libro dell’Esodo si legge: «Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore venne contro Mosè e cercò di farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello toccò i piedi di Mosè e disse: ‘Tu sei per me uno sposo di sangue’ (fig. 8). Allora il Signore si ritirò da lui. ‘Sposo di sangue’ essa aveva detto allora a causa della circoncisione» (Es 4,2426). Questo episodio della vita di Mosè viene raffigurato molto raramente: ne esistono alcune illustrazioni bizantine ed occidentali nelle Bibbie di epoca medievale46. Ma, per quanto ne so, questo è l’unico esempio di grande pittura parietale che lo ritragga. L’autore della Expositio, alla quale ora ritorniamo, si domanda perché il Signore, che può tutto, non abbia ucciso Mosè. Ecco che entra nuovamente in gioco il senso spirituale. Infatti in Mosè sono rappresentati tutti gli «apostoli della fede» e i predicatori che non hanno voluto imporre ai pagani i più severi comandamenti di Cristo. Ma la pietra significa Cristo e il taglio acuto della pietra rimanda ai duri comandamenti del Vangelo. Zippora è la Chiesa e, secondo la Expositio, non è Mosè colui che da lei è definito ‘sposo di sangue’, ma il figlio. Lo sposo della Chiesa è ancora Cristo. «Essa lo definisce sposo di sangue perché essa è stata salvata per mezzo del sangue di Cristo. Così, i figli della Chiesa, dopo la circoncisione dei loro vizi e dopo che essi hanno portato a compimento la loro vita con le opere buone, vengono detti non più figli, ma sposi, perché in cielo sono uniti a colui che sulla terra viene chiamato ed è realmente lo Sposo»47. Esistono ancora altre interpretazioni allegorizzanti del medesimo passo dell’Esodo che possono aver influito sull’impostazione dell’affresco del Perugino. Ugo di San Vittore, teologo parigino del xii secolo, noto ai francescani ed anche a Sisto iv, parla di Zippora nella sua Omelia xxxxix sulla circoncisione del Signore: «Davvero proprio tardi la madre Zippora circoncide anche il suo pri-
8. Parete sud, Pietro Perugino con la collaborazione di Pinturicchio, Ritorno di Mosè in Egitto con le scene della danza dei pastori, del congedo da Ietro, della tentata uccisione di Mosè per mano dell’angelo di Dio e della circoncisione del figlio minore. Alle pagine seguenti: 9. Parete sud, Biagio d’Antonio Tucci (già attribuito a Cosimo Rosselli), Passaggio del Mar Rosso.
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10. Parete nord, Sandro Botticelli con la collaborazione di Filippino Lippi, Le tre tentazioni di GesĂš, la rivelazione della futura incarnazione del figlio di Dio agli angeli e il sacrificio di purificazione di un lebbroso guarito.
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mogenito; bisogna quindi temere che venga il Signore e lo uccida. Zippora è la Chiesa, il suo primogenito il clero, il secondogenito il popolo, la pietra tutta tagliente è la fede cristiana, lo sposo di sangue è Cristo che non è venuto per portare la pace sulla terra, ma la spada»48. Nell’affresco del Perugino entrambi i fanciulli con la mano destra sollevano un poco la camiciola, certamente per alludere alla loro disponibilità alla circoncisione, mentre, sulla destra, in primo piano, il figlio più giovane viene circonciso da Zippora. Il figlio primogenito accanto a Mosè è ormai pronto e sta guardando pensieroso lo svolgimento della circoncisione. Non conosco alcun altro passo in cui si parli di un figlio più giovane e di uno più vecchio di Zippora in relazione alla circoncisione. Perugino ha certamente interpretato il pensiero di Ugo di San Vittore, secondo il quale Zippora, cioè la Chiesa, circoncide solo più tardi il suo figlio primogenito, in modo da risparmiare il clero e assoggettare prima il popolo dei laici alla severa disciplina. Egli non era certamente in grado di arrivare da solo ad una simile interpretazione: sarà stato illuminato in proposito da un teologo a conoscenza di tale passo dell’Omelia di Ugo di San Vittore. La menzione dello sposo di sangue costituisce il vero motivo per cui l’affresco si trova sulla parete di destra della Cappella dietro il trono papale. In Pietro Galatino troviamo a questo proposito l’idea che proprio il papa, come rappresentante di Cristo, è da considerarsi sposo di tutta la Chiesa49. Nell’affresco contiguo del Botticelli di cui abbiamo già parlato, collocato sulla sinistra, Mosè rimanda, infatti, al papa nel suo compito di pastore: Mosè, dopo la sua fuga dall’Egitto, è diventato genero di Reuel, il quale dalla Sylva Allegoriarum è chiamato «pastore di Dio»50. Nel dipinto del Perugino i pastori, sullo sfondo di sinistra, stanno danzando: non sembrano perciò particolarmente preoccupati per il loro gregge. In secondo piano è raffigurato Mosè che si congeda da suo suocero. La Sylva Allegoriarum dice che il gesto rimanda al momento in cui Dio Padre invia il Figlio, affinché questi si rivesta di carne e diventi uomo51. Anche tutti gli altri particolari hanno un significato allegorico: i due dromedari, il cagnolino, gli uccelli nell’aria, la palma e il cedro. Per il momento non ci occuperemo oltre di tutto questo. Una cosa, però, può essere detta già fin d’ora: difficilmente un particolare può essere casuale. Ogni oggetto raffigurato è un vocabolo di un linguaggio a noi oggi estraneo, ma che varrebbe la pena di imparare di nuovo, se vogliamo interpretare tali dipinti murali nel loro significato.
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Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
L’Expositio esamina poi l’episodio del passaggio del Mar Rosso come immagine del battesimo (fig. 9). Questa scena è stata dipinta da Cosimo Rosselli sulla parete della Sistina alla sinistra dell’affresco del Botticelli in cui è raffigurato Mosè davanti al roveto ardente. Come l’acqua del Mar Rosso ha inghiottito il faraone ed il suo seguito, ma ha salvato gli Israeliti, così l’acqua del battesimo salva l’immagine di Dio, cioè l’uomo, cancella i peccati e annienta il diavolo in colui che ha rinnegato lui e le sue pompe. La colonna di fuoco che ha accompagnato gli Israeliti indica lo Spirito Santo52. L’autore della Expositio non parla di Mirjam, la sorella di Mosè, raffigurata invece nella Cappella nell’atto di suonare uno strumento a corda e di cantare un inno dopo il passaggio del Mar Rosso. Il rilievo dato a questo particolare nel dipinto di Cosimo Rosselli trova riscontro in primo luogo nell’Omelia vi sul Libro dell’Esodo di Origene, come vedremo più avanti. Tra le diverse leggi di Mosè l’autore della Expositio sceglie la prescrizione del Libro del Levitico relativa al sacrificio di purificazione di una persona guarita dalla lebbra: «Questa è la legge da applicare per il lebbroso per il giorno della sua purificazione: egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà dall’accampamento e lo esaminerà; se riscontrerà che la piaga della lebbra è guarita nel lebbroso, ordinerà che si prendano, per la persona da purificare, due uccelli vivi, mondi, legno di cedro, panno scarlatto e issopo. Il sacerdote ordinerà di immolare uno degli uccelli in un vaso di terracotta contenente acqua sorgiva. Poi prenderà l’uccello vivo, il legno di cedro, il panno scarlatto e l’issopo e li immergerà, con l’uccello vivo, nel sangue dell’uccello sgozzato sopra l’acqua sorgiva» (Lv 14,1-6). Botticelli ha raffigurato il sommo sacerdote con il vaso contenente un gambo di issopo nel dipinto con le tentazioni di Gesù sullo sfondo (fig. 10), dipinto che fronteggia quello di Mosè e le figlie di Reuel. All’osservatore attento saltano agli occhi alcuni particolari che non si accordano con il testo biblico. Botticelli non rappresenta un uccello qualsiasi: mentre la Vulgata parla di passeri, il suo dipinto mostra chiaramente delle galline, che vengono portate da una serva in un vaso di terracotta al sacrificio di purificazione. La legna di cedro, necessaria al sacrificio, è stata sostituita da Botticelli con dei rami che, date le foglie, possono solo provenire da una quercia. Una giovane donna porta una fascina sulla testa. Per una cerimonia sacrificale così ben orchestrata occorre, poi, anche del panno scarlatto: si potrebbe individuar-
lo nell’abito dei due dignitari a destra e a sinistra della giovane donna con la fascina? Cosa dice l’autore della Expositio riguardo al passo citato tratto dal Libro del Levitico? Secondo questi il sacerdote è Cristo. I due uccelli sono l’Antico e il Nuovo Testamento, mentre l’acqua sorgiva allude ai comandamenti evangelici. Il sangue di un solo uccello viene mischiato all’acqua perché tutta la Scrittura fa riferimento al Nuovo Testamento, e l’Antico Testamento è pieno di esempi che non devono essere intesi letteralmente, ma spiritualmente. Secondo il nostro autore, il legno di cedro rimanda al Padre, lo stelo di issopo al Figlio, il tessuto di lana rossa, che ha il fulgore del fuoco, allo Spirito Santo: «Infatti solo invocando il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo qualcuno può venire purificato dalla lebbra del peccato mediante l’acqua del battesimo»53. Nella pittura murale della Cappella Sistina non vengono raffigurati dei passeri, ma delle galline. Questo particolare rimanderebbe ad Origene stesso, trovando riscontro nell’Omelia viii sul Libro del Levitico, dove gli uccelli usati nel sacrificio di purificazione non sono dei passeri ma delle galline. Si giustifica così la nostra scelta di continuare a guardare al Libro del Levitico, come sicuramente avrà fatto il consulente di teologia dei pittori della Cappella Sistina. Seguendo il testo biblico, il sangue di una «gallina», che non va sgozzata all’altare ma sopra un vaso di creta riempito d’acqua, deve essere mischiato con l’acqua di questo stesso vaso. Origene dice che il sacrificio avviene «come totale compimento del mistero di acqua e di sangue, che... sono sgorgati dal costato del Redentore, mentre si realizza in tal modo ciò che Giovanni scrive nella sua Lettera, che, cioè, la purificazione avviene in acqua, sangue e Spirito»54. Secondo il pensiero di Origene, qui non si tratta solo della purificazione ottenuta nel battesimo, ma di ogni forma di purificazione dai peccati, anche di quella che viene attuata attraverso la penitenza. Sulla base di alcuni esempi, abbiamo potuto osservare come nella Cappella Sistina vengano tradotti in immagini concetti appartenenti alla teologia allegorizzante dei Padri della Chiesa e degli esegeti medievali. Questo primo risultato concorda con le ricerche condotte da Ettlinger, che rilevano come i pittori, in ogni dettaglio, abbiano seguito un programma teologico55. Anche Ettlinger presenta molti passi tratti dai Padri della Chiesa come fonti di ispirazione per gli affreschi della Cappella. Avremo ancora modo di vedere che, nella lettura del programma figurativo, gli accenti vanno posti diversamente da come avviene nel suo libro, libro che rimane pur sempre fon-
damentale. Con l’aiuto dei pittori il consulente teologico ha sì formulato una teologia che trova le sue radici nei Padri, ma, in realtà, si tratta di un’elaborazione teologica di totale invenzione. Il giunco in mano ad una pastorella nell’affresco di Mosè del Botticelli (fig. 5), le ghiande e le mele che ornano la sua cintola ci danno un’indicazione di come il pittore e il suo consulente abbiano ulteriormente sviluppato il patrimonio di idee attinto dalla Expositio e, ancor più, dalle Omelie sul Libro del Levitico di Origene (fig. 11). È proprio un giunco a dover cingere Dante prima del suo cammino di purificazione (Purgatorio i,95), cosa che il fiorentino Botticelli conosceva bene. Il giunco, secondo il commentario del figlio di Dante, Pietro, simboleggia la semplice e paziente umiltà56. Una delle pastorelle all’abbeveratoio è Zippora, che diventerà la moglie di Mosè. Botticelli l’ha raffigurata insieme al suo sposo accanto all’episodio dell’uscita dall’Egitto. Essa indossa vesti di colore diverso da quelle della Zippora del Perugino. La sua veste è bianca, anzi d’argento lucente, e il suo mantello è celeste. Nel dipinto del sacrificio di purificazione, che lo fronteggia, si vede la giovane donna vestita in modo simile, con il capo ornato da rami di quercia (fig. 6). Il Botticelli, dipingendo tale affresco tra le scene del Nuovo Testamento, ha forse inteso collegare in modo piuttosto vago il sacrificio veterotestamentario di purificazione con le tre tentazioni di Gesù? La sua intenzione e quella del consulente teologico non scenderebbero molto più in profondità? Gli stessi testi che abbiamo citato, quello tratto dalla Expositio e quello di Origene, sebbene rimandino ad un preciso proposito espresso dal dipinto, non riescono a chiarirlo del tutto. Entrambi gli affreschi del Botticelli, l’uno di fronte all’altro, custodiscono, infatti, misteri che vale la pena scovare. Le tentazioni di Mosè e di Gesù Cristo nei primi due affreschi di Botticelli I dotti consulenti dei pittori furono indubbiamente in grado di formulare per i dipinti un programma guardando alla teologia allegorizzante dei Padri della Chiesa e agli scritti di teologi medievali con analogo contenuto. Tuttavia questa generica indicazione non ha chiarito in maniera esaustiva il motivo per cui tale programma includa il sacrificio per la purificazione di un lebbroso guarito come prescritto dal Libro del Levitico. Questo particolare,
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che, per quanto ne so, non sarebbe più comparso in tutta la produzione artistica a venire, deve essere certamente visto in connessione con un avvenimento dell’epoca. La spiegazione, data da Ernst Steinmann, secondo cui con la rappresentazione del sacrificio di purificazione e dell’edificio dell’ospedale di Santo Spirito si vorrebbe alludere all’attività caritativa del papa57, appare frettolosa. I due primi affreschi del Botticelli nella Sistina sono contraddistinti dalle immagini ricorrenti di querce, foglie di quercia e ghiande. La relazione con il papa Della Rovere, che ha una quercia sullo stemma, è perciò evidente. Ma, se andassimo a cercare nei due dipinti dove e come siano rintracciabili questi riferimenti, rimarremmo non poco sorpresi. L’albero al centro dell’affresco di Mosè (fig. 6), dietro il pozzo, nel punto in cui un masso al bordo del pozzo è spaccato, ha la corteccia screpolata di una quercia. Delle due pastorelle vestite di bianco, quella di sinistra porta appesi alla cintola un ramo con tre mele ed uno con tre ghiande (a questo avevamo già accennato). Nell’affresco a riscontro sulla parete opposta (fig. 10) si vedono chiaramente raffigurate, in secondo piano a destra, due querce: tra i loro due fusti si scorge, sullo sfondo, una città affacciata sul mare, che può far pensare solo a Savona, luogo d’origine del pontefice. Ma il diavolo, che Gesù scaccia dopo esser stato tentato al dominio del mondo, sembra cadere dentro una delle querce mentre, nel frattempo, perde il suo abito monacale. Proprio questa quercia, poi, appare mal ridotta e abbandonata: tutti i suoi rami più folti sono caduti ed è rimasto, praticamente, solo il fusto. Su tutto il tronco però stanno spuntando nuovi polloni. Se cerchiamo i rami più folti, li troviamo, al posto del legno di cedro, sulla testa della donna con la veste bianca ed il mantello blu, in primo piano sulla destra. Facilmente sarà la personificazione della Chiesa. Il suo sguardo, obliquo, è rivolto in alto58 verso la tentazione in cui Cristo si oppone alla pretesa del diavolo di costringerlo a trasformare prodigiosamente le pietre in pane. Alla destra e alla sinistra della donna, sulla quale grava un pesante fascio di legni di quercia, si trovano un cardinale ed un laico con lo scettro. Ambedue indossano una veste rossa. Non sono essi membri del casato dei Della Rovere che sono saliti di grado e di dignità tramite papa Sisto iv? Non sono qui raffigurati il cardinal Giuliano Della Rovere, il futuro papa Giulio ii, e Girolamo Riario, il comandante dell’esercito pontificio? Le allusioni sono state distribuite ad arte, tuttavia il papa le avrà certamente colte.
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11. Sandro Botticelli, episodi della vita di Mosè, particolare delle due pastorelle, figlie di Ietro, al pozzo.
Entrambi gli affreschi costituiscono un programma basato su motivi contrapposti: in esso, non senza una critica mordente e con un apparato estremamente dotto, viene presentata al papa la vera missione di Cristo, così come si può cogliere dall’interpretazione allegorizzante dell’Antico Testamento e così come si è manifestata in Cristo tramite il rifiuto delle tre tentazioni. Solo ora diventano comprensibili i tituli collocati sui due dipinti murali: temptatio moisi legis scriptae latoris e temptatio iesu christi latoris evangelicae legis (Tentazione di Mosè latore della Legge scritta e Tentazione di Gesù Cristo latore della Legge evangelica). Solo ora entrambi gli affreschi possono essere letti nel loro reale significato. Le due figlie di Reuel o Ietro, sacerdote di Madian, dialogano tra loro stando in piedi, molto vicine (fig. 5). Una di esse diventerà la moglie di Mosè: infatti, una delle due dovrebbe essere proprio Zippora. Ma nell’affresco della temptatio moisi non compare alcun segno che accenni al matrimonio tra questa e Mosè. Il testo del Libro dell’Esodo (Es 2,16) parla di sette figlie, non di due. Delle due pastorelle, quella a sinistra regge il giunco come fosse uno scettro. Come abbiamo potuto vedere in Dante, il giunco significa purificazione mediante la penitenza. La pastorella di destra tiene in mano un bastone da pastore e con la sinistra indica alla compagna i montoni che devono essere abbeverati da Mosè. Questa scena non dovrebbe far risuonare un motivo ben preciso che troviamo in due versi del Cantico dei cantici? E cioè: «Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni» (Ct 1,7s). Non è questo dialogo ad essere raffigurato? È come se solo un’unica persona parlasse e ascoltasse. Con la sposa si intende la Chiesa, con Mosè lo sposo, Cristo. La Chiesa è costituita da santi e da peccatori, è santa e peccatrice nello stesso tempo, deve fare penitenza ed è in sé perfetta. Questi due aspetti dell’unica e medesima Chiesa, dell’unica e medesima sposa di Cristo non sono stati illustrati splendidamente nel quadro di Botticelli?59 È il paradosso della Chiesa che già Origene ha messo in luce nelle sue Omelie sul Cantico dei cantici commentando il versetto «Bruna sono ma bella» (Ct 1,5)60. Al posto di «capretti» possono essere intesi anche come «montoni», gli armenti che la sposa, cioè la Chiesa, deve condurre là dove sono accampati i pastori: sono proprio questi i montoni, e precisamente quelli neri e bianchi, che nell’affresco di Botticelli vengono abbeverati da Mosè, lo stesso che scaccia i falsi pastori, quelli che, propriamen-
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te, dovrebbero essere compagni dello sposo. Sisto iv con la sua politica nepotistica ha ceduto alla tentazione di affidare, per prestigio di famiglia, cariche ecclesiastiche e temporali a persone indegne. Al posto di questo sarebbe stato suo compito porgere al popolo l’acqua del Vangelo che dà la vita: come mostra il Botticelli, la noria è appesa, infatti, ad una quercia. Ma il riquadro di Botticelli rappresenta anche alcune pietre già spaccate che delimitano il bordo del pozzo, che sta a significare proprio la «profonda sapienza dei misteri di Dio», come scrive Laureto nella sua Sylva Allegoriarum61. E all’ebreo che aveva litigato con l’egiziano riportandone, come conseguenza, una ferita sulla fronte, il pittore infila una cazzuola nella cintola. Come abbiamo già notato, egli viene ora sorretto da una donna che indossa una veste celeste. Che l’ebreo volesse sistemare il bordo del pozzo e che per questo motivo fosse sorto un litigio tra lui e l’egiziano? « Ti si chiama muratore, riparatore di brecce», si legge nel Libro del Profeta Isaia (Is 58,12), mentre nel linguaggio dell’allegoria l’egiziano è figura dell’uomo dai desideri mondani, dedito ai vizi, quindi, di colui che è servitore del diavolo, e talvolta, il diavolo stesso, che Mosè, vale a dire Cristo, ha sconfitto62. Se si legge l’affresco del Botticelli come una spiegazione allegorizzante del Libro dell’Esodo, si comprende meglio anche il suo titulus, che menziona la «tentazione di Mosè». Il papa, al contrario di Mosè, non ha resistito a questa tentazione: infatti, non ha né represso le sue aspirazioni mondane, né ha cacciato dalla fonte i falsi pastori già presenti al momento della sua ascesa al trono. E nemmeno è andato nel deserto in digiuno e in penitenza, come invece fece Mosè che, nel riquadro, portando il suo bastone sulle spalle – come la croce – si dirige verso un albero completamente spoglio: tutto questo non è altro che una serie di allusioni alla passione di Gesù Cristo. Cos’altro può, dunque, significare quella persona vestita di celeste che ha dato rifugio al muratore dalla fronte sanguinante, se non la contemplazione delle cose celesti, come annota in un suo manoscritto Pietro Galatino, illuminato in questo da Filone63? Il muratore e la donna vestita di celeste, come di fronte alla furia di un fiume in piena, si ritirano sul pianerottolo di un edificio che, come già abbiamo visto, è un sepolcro doppio a foggia di tempio, situato sul margine destro dell’affresco. Il tempio ha parecchi significati. Può alludere a Cristo o alla Chiesa, come leggiamo nella Sylva Allegoriarum: «Il tempio significa anche l’(articolato) ordinamento della Chiesa, quando le cose temporali vengono
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ordinate in vista dell’eternità»64. Ed è precisamente quanto illustrato da Botticelli nel suo dipinto: il muratore significa l’interesse per le cose terrene, la donna vestita di celeste significa, invece, la contemplazione delle cose eterne. Mosè scaccia i falsi pastori insieme al loro gregge di montoni da un piccolo bosco con alberi da frutto: anche questi alberi e questi frutti non sono senza importanza riguardo alla relazione esistente tra l’antica e la nuova Legge. Infatti leggiamo ancora nella Sylva Allegoriarum: «...il frutto dolce, prodotto dall’albero amaro, è Cristo con la sua Legge contenuta nella Legge antica»65. Teniamo a mente il titulus dell’affresco: temptatio moisi legis scriptae latoris. «Sotto la Legge siamo andati tutti vagando qua e là come pecore: con Cristo... i nostri passi vengono diretti sulla via della pace. Secondo la Legge le nostre colpe gravano su di noi come un carico pesante». Ma ora il nostro sguardo si dirige oltre, verso la figura della donna con il fascio di rami di querce sul capo, in primo piano, sulla destra dell’affresco che illustra le tentazioni di Gesù. «Ma il Padre ha caricato Cristo di tutte le nostre colpe». Ora guardiamo Mosè che va nel deserto col bastone sulle spalle, in direzione dell’albero spoglio che si innalza fino al cielo. «L’anima viene ferita ed indebolita dalla Legge. Noi veniamo, invece, guariti dal sangue di Cristo»66. A chi non vengono in mente, a questo punto, la ferita sanguinante sulla fronte del muratore e le due galline, nel riquadro posto di fronte, di cui una va sacrificata perché nel suo sangue vengano immersi un bastone di issopo, il legno di cedro, un panno rosso e l’altra gallina (che poi verrà rimessa in libertà)? Quanto più apprendiamo il linguaggio dell’allegoria, tanto più comprendiamo, fin nei minimi particolari, le relazioni costruite a regola d’arte tra i due affreschi posti a riscontro l’uno dell’altro. Per esempio, nel luogo santo in cui Mosè viene reso degno dell’apparizione di Dio e riceve il suo mandato, egli non sta pascolando che pochi montoni e quasi solo pecore: esse indicano quelle persone semplici, miti, innocenti e giuste che sono di esempio agli altri; sono coloro che vengono alla fede e che sono pronti ad accogliere la parola di Dio67. Il figlio più grande di Mosè tiene un cagnolino sotto il braccio. Il nome del figlio è Ghersom (straniero) perché nacque quando Mosè si trovava in terra straniera; il cane, invece, in linguaggio allegorico rappresenta un adulatore68. È probabile che con il cagnolino di Ghersom si voglia alludere agli adulatori presenti alla corte papale: infatti, il figlio più grande di Mosè, che, come abbiamo visto, simboleggia il clero, non volle rinunciare al cagnoli-
no durante l’esodo dall’Egitto (vale a dire dalla terra della schiavitù del peccato). Ghersom e la madre sono rivolti entrambi verso il figlio più giovane di Mosè: questo significa che Chiesa e clero affidano le loro preoccupazioni ai laici. Il vaso e il fagotto che due persone del corteo portano sulla testa richiamano la spoliazione degli Egiziani compiuta da parte degli Ebrei durante l’uscita dall’Egitto. Con questa «spoliazione» vengono confiscate le verità degli autori menzogneri – queste verità infatti non sono di loro proprietà – e vengono messe a servizio della parola di Dio69. Ma, nello stesso tempo, uscire dall’Egitto significa anche separarsi dal mondo e dire no alle cose del mondo e a Satana70. E adesso, allo stesso modo, bisogna descrivere e spiegare nei suoi particolari l’affresco che raffigura la temptatio iesu christi latoris evangelicae legis (fig. 6). Tre epoche diverse sono presentate in un unico dipinto: l’era dell’Antico Testamento, con il tempio di Gerusalemme e il culto sacrificale previsto dalla legge mosaica e perpetrato fino al tempo di Gesù; l’era coeva alla realizzazione del dipinto; l’era che precedette la creazione di ogni cosa visibile. Sulla sinistra, in primo piano, tre persone molto vicine tra loro, che indossano vesti preziose e dai colori vivaci, stanno dialogando. Tra esse, quella che si trova all’estrema sinistra è rivolta verso il tempio collocato al centro del quadro, mentre quella a destra è contraddistinta da un diadema e da una ghirlanda e sembra voler convincere, con il braccio ben alzato, la persona di sinistra che tiene in mano un oggetto allungato, probabilmente un pugnale. La figura situata tra le due, vestita di rosso e con una stola dorata posta a formare una croce sul petto, tiene il braccio appoggiato sulla spalla del giovane di destra, ma rivolge lo sguardo a quello all’estrema sinistra del dipinto. Chi sono queste tre persone? Di esse ci occuperemo nelle pagine successive. In linea verticale sopra questo gruppo, il pittore pone, e per ben due volte, la figura di Cristo: la prima volta, appena sopra i tre, appare circondata da angeli; la seconda volta, più in alto, è raffigurata al momento della prima tentazione. Nella zona centrale, direttamente dietro al terzo degli uomini attorno alla panca, Cristo si trova circondato da angeli, in piedi su una pedana in pietra a tre gradini. Il gradino superiore è sfaccettato dalla pianta ottagonale. Cristo è il fondamento, si vuole probabilmente affermare tramite questo particolare: «Nessuno può porre un fondamento diverso» (1 Cor 3,11). L’ottagono può essere messo in relazione tanto con il tempio quanto con
Cristo. Infatti, nell’ottavo mese dell’undicesimo anno del governo di Salomone venne terminato il tempio con tutto l’occorrente (1 Re 6,38). Ma il numero otto è, in modo particolare, il numero santo di Cristo: esso significa, infatti, la nuova Legge, poiché dopo i sette giorni della creazione sopravviene il giorno della Risurrezione71. Sempre a sinistra, in alto, dietro a Cristo con gli angeli, si vedono delle pietre grezze del deserto che giacciono ai piedi di Gesù: da queste pietre, secondo l’ordine impartito dal tentatore, Cristo dovrebbe trarre del pane per placare la propria fame. Le pietre si trovano sotto degli alberi: sono querce? «La pietra sotto la quercia è Cristo in croce» dice la Sylva Allegoriarum, facendo riferimento, così, ad un passo del Libro di Giosuè (Gs 24,26)72. Anche gli angeli sono «pietre o rocce ben connesse...». Si tratta «degli angeli che sono fermamente consolidati nel bene. Essi sono rocce e fenditure di rocce... rimasti stabili nella loro posizione allorché il diavolo precipitò insieme ai suoi angeli»73. I tre gradini in pietra, sui quali si erge Cristo, sono un simbolico riferimento numerico al fatto che, alla base di tutta la creazione, ma anche della Redenzione operata da Cristo, stia sempre un progetto nel quale ritorna il numero tre come impronta della Trinità74. Lo sguardo dell’osservatore si spinge oltre e, accanto al luogo solitario della tentazione, è inghiottito nella profondità del fondale per fissarsi sulla città di Gerusalemme e sul suo tempio. Dietro alla città si erge un nudo colle: è certamente il Golgota, il sito della crocifissione di Gesù. Proseguendo, vediamo che una scala fatta di massi rocciosi sale verso il luogo della tentazione: essa simboleggia la faticosa salita dell’uomo verso la santità. Infatti, solo dopo questa ascesa l’uomo è in grado di resistere alle tentazioni del diavolo, come Cristo nel deserto. Per riuscire in questo occorre, però, un’accorta capacità di discernimento, poiché il diavolo, così come lo ha dipinto il Botticelli, si copre con l’abito di un pio frate francescano. È noto che Salomone fosse dotato di tale capacità di discernimento, come dimostrò nel suo famoso giudizio. A questo proposito, ai piedi della scala troviamo due giovani donne, vicinissime tra loro: una ha lo sguardo rivolto verso la sua compagna o verso le tre persone collocate a sinistra in primo piano e indossa una veste rossa; l’altra è ornata di un diadema cruciforme incorniciato da perle e guarda verso il tempio al centro del dipinto. Queste sono le due donne che si recarono dal re Salomone per presentargli l’oggetto della loro controversia: in senso allegorico esse significano la Sinagoga e la Chiesa75. Ci spingiamo
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La Sistina svelata
troppo oltre se nel ragazzo vestito di nero davanti alle due donne vediamo un riferimento al figlio di cui si parla nella storia del giudizio di Salomone, minacciato di morte e salvato dall’amore della madre vera (1 Re 3,27)? Sappiamo, infatti, che il figlio dell’altra donna fu schiacciato da questa nel sonno. Proprio accanto al ragazzo scorgiamo un giovane, che indossa un mantello verde scuro ornato di stemmi dorati a forma di querce, il quale, insieme al compagno, è genuflesso davanti all’altare dell’olocausto, e sembra pesare con il braccio sulle spalle e sulla schiena di una figura in rosso. Ancora una volta, dunque, vengono mostrati nel dipinto gli emblemi della famiglia Della Rovere, al punto che essi diventano un peso, come i rami di querce sul capo della donna che noi abbiamo inteso come personificazione della Chiesa. Dobbiamo ora tornare, ancora una volta, alla figura di Cristo in piedi, insieme con alcuni angeli, sulla pedana in pietra a tre gradini: per quanto ne so, questa scena non avrebbe più fatto la sua comparsa nell’iconografia cristiana. Essa rappresenta la rivelazione fatta agli angeli riguardo all’Incarnazione di Dio: rivelazione che viene trattata approfonditamente nella Apocalypsis Nova e di cui noi abbiamo fatto cenno nell’Introduzione. Questo scritto tratta di alcune visioni apparse al beato Amadeo. Nel secondo raptus – così vengono definite le visioni in quest’opera – l’arcangelo Gabriele racconta quanto rivelato a lui e ai suoi compagni: «Dio... nostro creatore... apparve a noi nella forma di un... uomo, così come egli l’ha assunta più tardi, per metterci alla prova... Poi egli ci disse: ‘Ascoltatemi, o miei angeli... conoscete la forma e la natura nelle quali io vi appaio?’ Noi rispondemmo: ‘Noi sappiamo che tu sei Dio, nostro creatore; sappiamo anche che quella figura è la figura dell’uomo che non è ancora stato creato e ci meravigliamo di un così mirabile scambio... e non comprendiamo cosa vuole significare questa apparizione’. Allora Dio disse: ‘In questo modo voi sapete e riconoscete ciò che io ho deciso e che mi sono prefissato in modo fermo nella mia grande decisione: io assumerò la natura dell’uomo, sarò uomo, verrò concepito nel grembo di una donna e verrò partorito da essa’. Ed egli ci aprì la nostra intelligenza spirituale, affinché potessimo comprendere ciò che ci diceva, ma noi ci stupivamo del perché egli volesse fare questo. Allora egli aggiunse: ‘Io sarò uomo e l’uomo sarà Dio, e quando egli sarà diventato Dio, sarà, di conseguenza, anche vostro signore, vostro re e vostro sovrano e voi sarete tutti sottomessi al suo potere. Venerate-
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lo e adoratelo come me, poiché io e lui saremo una sola persona. Noi verremo adorati da voi in un’unica e medesima adorazione. Ed io porrò sopra tutti voi quella donna, che ho scelto come madre. Essa sarà vostra regina. Voi la onorerete e servirete a lei come genitrice di Dio e vostra signora’»76. Allora Lucifero respinse con i suoi questo progetto di Dio come contrario ad ogni ragione e rispose: «Io sono molto più grande dell’uomo, io voglio che l’uomo adori me, non io l’uomo»77. Dopo questo vi fu una lite con Michele, scoppiò una battaglia tra gli angeli e alla fine vennero fatti precipitare gli angeli cattivi che non vollero assecondare la volontà di Dio. Era necessario citare l’intero passo perché la rivelazione manifestata agli angeli, che ha condotto, poi, alla caduta di Lucifero e dei suoi, non può essere annoverata tra le tematiche consuete né all’iconografia né alla teologia cristiana. Tuttavia, solo a partire da essa diventa subito comprensibile il motivo per cui il diavolo inizia a tentare Gesù con le parole: «Se tu sei Figlio di Dio...» (Mt 4,3); parole che esprimono, infatti, la sua ipotesi che Gesù sia quel Dio diventato uomo, dal momento che Dio si era proprio rivelato agli angeli ancor prima dei tempi dell’esistenza dell’uomo. La tematica rende chiaro il motivo per cui il particolare del colloquio di Cristo con gli angeli sia stato posto al di sotto della prima tentazione nell’affresco del Botticelli: particolare che, diversamente, sarebbe del tutto ingiustificabile. Sul fianco sinistro di Cristo si trova l’arcangelo Gabriele con in mano il giglio col quale, come appare nella maggior parte delle illustrazioni, egli si è presentato nell’annunciazione a Maria a Nazareth. Ancora una volta, con grande sottigliezza, viene ricordato, qui, il tema mariano della Cappella Sistina. Anche Pietro Galatino nell’unica opera edita De Arcanis Catholicae Veritatis (Le cose arcane della verità cattolica), portata a termine nel 1518, parla della rivelazione manifestata agli angeli, citando uno scritto di Rabbi Mosè Hadarsan78. Qui, però, l’ordine di servire l’uomo è impartito agli angeli solo dopo la creazione di Adamo, al che Satana e alcuni dei suoi angeli reagiscono opponendo il loro rifiuto alla volontà di Dio: per questo vengono cacciati dal cielo da Michele e dagli angeli buoni. Dunque, la rivelazione manifestata agli angeli è parte integrante della tradizione ebraica e compare anche, con minimi accenni, qua e là nella tradizione cristiana, mentre nel passo citato della Apocalypsis Nova essa è presentata nel modo più dettagliato.
Se sussistono fondati dubbi sul fatto che l’Apocalypsis Nova esistesse già in una versione redatta all’epoca dell’esecuzione dell’affresco di Botticelli, ancor più forte, però, è il sospetto che il visionario stesso al quale è attribuita quest’opera affiorata solo nei primi anni del xvi secolo, vale a dire il beato Amadeo, abbia potuto essere l’unica persona in grado di illustrare e descrivere al pittore il particolare della rivelazione agli angeli. Come abbiamo già detto, il beato Amadeo era confessore di Sisto iv: alcuni particolari del programma quaresimale del dipinto di Botticelli non potrebbero venire messi in relazione con lui? Certamente il papa non approvava questo programma. Non sembra un po’ singolare che Amadeo, poco dopo il completamento dell’affresco nel 1482, abbia ottenuto dal suo penitente, il papa, il permesso di partire per il nord con l’incarico di visitare i conventi lombardi che seguivano la sua riforma79? Da questo viaggio egli non fece più ritorno: morì, infatti, a Milano il 10 agosto 1482. Come potrebbe essere nato il progetto riguardante l’affresco di cui abbiamo parlato? La scelta di una collocazione, decisamente così insolita, del sacrificio di purificazione di un lebbroso, al centro, in primo piano, davanti alle tre scene delle tentazioni di Gesù, vuole una spiegazione che trascenda il dipinto stesso: di questo parleremo presto. Infatti, il teologo che ha elaborato il programma dei dipinti della Cappella Sistina ha potuto trovare un riferimento al sacrificio di purificazione proprio nella Expositio, da noi citata in precedenza. Nella stessa troviamo un curioso rimando alla Trinità: il legno di cedro richiama il Padre, il gambo di issopo il Figlio, il tessuto color rosso fuoco lo Spirito. Non ha, forse, il Botticelli presentato, a modo suo, i medesimi riferimenti alla Trinità? Infatti, il sommo sacerdote è una figura che ricorda il Padre, il giovane chierico il Figlio, il fuoco dell’altare del sacrificio che arde tra i due richiama lo Spirito80. Origene, poi, nella sua Omelia che, parimenti, abbiamo già citato, paragona l’uscita del sacerdote dall’accampamento, uscita dall’ambito sacro per andare incontro al lebbroso guarito, con l’invio del Figlio da parte del Padre81. Ma quale fu la plausibile spiegazione storica all’origine di questa curiosa e singolare composizione del Botticelli? Fu probabilmente la riconciliazione dei fiorentini con il papa, il quale, come reazione al fatto che la congiura dei Pazzi fu sventata e tutti i cospiratori impiccati, aveva imposto alla città di Firenze ogni forma di sanzione ecclesiastica. Il Consiglio cittadino decise di inviare a Roma una legazione ufficiale per ottenere l’abrogazione
delle censure ammettendo gli errori commessi e invocando il perdono. Infatti, il 3 dicembre 1480, prima domenica di Avvento, i legati comparvero nell’atrio della basilica di S. Pietro, dinanzi al papa e al collegio cardinalizio, in atteggiamento umile e remissivo, si prostrarono a terra, confessarono le loro colpe nei confronti della Chiesa e del suo capo supremo e chiesero perdono per se stessi e per il loro popolo82. Questi ambasciatori non sono raffigurati nell’affresco di Botticelli nell’atto di inginocchiarsi accanto all’altare dell’olocausto e di chiedere umilmente perdono? Difatti, fu proprio in questo modo che i legati fiorentini si inginocchiarono nell’atrio davanti alla facciata della basilica di S. Pietro (quella antica), dinanzi al papa e ai cardinali. Botticelli, però, con il suo affresco ha girato le accuse. Non sono i fiorentini83, intende egli dire, probabilmente, ma il papa e la sua famiglia ad avere bisogno di purificazione e, prime tra tutte, le due persone col vestito rosso: il cardinale appartenente alla famiglia Della Rovere e il comandante dell’esercito pontificio. Nella composizione di Botticelli essi danno l’impressione di due paraste, mentre il tessuto rosso, come abbiamo visto, viene usato per il sacrificio di purificazione. Al centro del dipinto si erge il tempio, verso il quale alza lo sguardo l’uomo con il pugnale rappresentato in basso all’estrema sinistra. L’ipotesi che si trattasse del più grande edificio eretto a Roma al tempo di papa Sisto iv, l’ospedale di S. Spirito in Sassia, appare, ormai, debole. Il rilievo particolare attribuito alla costruzione nell’insieme del dipinto può essere spiegato solo considerando l’edificio immagine della Chiesa, chiave di volta e coronamento di Cristo. In una simile composizione diventano, allora, ben evidenti l’astuzia e la pretesa del diavolo: se Cristo fosse precipitato, il diavolo sarebbe rimasto lassù, in alto, come chiave di volta e coronamento dell’edificio. Per questo motivo egli vuole impedire che Cristo, con umile pazienza, adempia in lui stesso il piano del Padre, e che, invece, con una illusoria sicurezza, metta a prova la sua forza divina mediante questa dimostrazione pratica. Anche nella seconda tentazione l’attenzione è rivolta alla pietra, e, precisamente, a quella contro cui, secondo la giustificazione del tentatore, il piede di Cristo non può inciampare. Inciampare contro la pietra significa, nel linguaggio allegorico, rendersi colpevole di fronte alla Legge84. Cristo, il più innocente di tutti, ha preso su di sé la lebbra del peccato: infatti, innalzato sul Golgota, egli è diventato la chiave di volta dell’edificio spirituale della Chiesa, e, affinché i membri della Chiesa possano venire
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incastonati come pietre vive in questo edificio, viene preparato per essi il sacrificio di purificazione: è questo che intende esprimere l’affresco del Botticelli. Di conseguenza, l’Antico Testamento viene, così, contrapposto al Nuovo, la Chiesa alla Sinagoga, il tempio di Gerusalemme – a sinistra, sullo sfondo – al tempio della Chiesa – al centro del riquadro. La personificazione della Sinagoga porta le galline in un vaso di creta, quella della Chiesa porta il fascio di rami di quercia, mentre il sommo sacerdote consegna al levita dalla veste bianca non il prescritto vaso di terracotta, ma un catino di metallo, lo stesso che viene usato per il battesimo. Non una gallina viene offerta in sacrificio e non il suo sangue viene usato per il rito, ma il «sangue» del grappolo d’uva sorretto dalle braccia del fanciullino nudo collocato ai piedi della Chiesa, caratterizzata come una donna incinta85. Ma questo fanciullino è minacciato da un serpente, vale a dire dal diavolo che vuole indurlo al peccato (fig. 12). Accanto alla figura di Girolamo Riario che tiene in mano lo scettro, è riconoscibile un chierico vestito di viola, il quale, in modo non propriamente cortese, richiama l’attenzione di un membro della famiglia papale sul sacrificio di purificazione. Noi sappiamo che il violetto è il colore liturgico del tempo di Avvento e di Quaresima e sappiamo anche che la prima domenica di Quaresima viene letto il Vangelo delle tentazioni di Gesù Cristo: dunque, il nostro affresco illustra una predica quaresimale rivolta alla corte papale.
del
L’occasione immediata « sacrificio di purificazione»
nel programma iconografico della
Cappella Sistina: la congiura dei Pazzi
Ricapitoliamo qui le osservazioni fatte sinora. Innanzitutto non può più sussistere alcun dubbio sul fatto che l’unico riquadro con soggetto neotestamentario eseguito dal Botticelli nella Cappella Sistina sia quello con una raffigurazione del sacrificio di purificazione di un lebbroso guarito, nel modo in cui è esso prescritto dal Libro del Levitico (Lv 14,1-6)86. Il rimando alle due galline portate per il sacrificio in un vaso di creta deve certamente essere considerato come una prova più che evidente a favore di questa tesi: infatti, questa osservazione apre la via ad una interpretazione certa. Ma nello stesso tempo, va anche chiarita la circostanza che ha dato origine alla scelta di questo tema assolutamente insolito, poiché esso inter-
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12. Sandro Botticelli, Le tentazioni di Gesù, particolare della terza tentazione, con esponenti della famiglia pontificia che assistono al sacrificio di un lebbroso guarito.
rompe l’armonica successione dei temi neotestamentari presenti nella Cappella intromettendo un elemento veterotestamentario all’interno del motivo neotestamentario. Oltre a ciò, cosa vuol mettere, dunque, in evidenza il particolare più importante esistente nel sacrificio di purificazione come prescritto dal Libro del Levitico? Certamente il fatto che nel sacrificio un solo uccello venga ucciso: infatti, l’altro viene immerso nel suo sangue, ma poi è lasciato in vita. Ai contemporanei dell’artista non avrebbe dovuto venire subito in mente un recentissimo avvenimento sanguinoso? Ci sembra alquanto strano che a nessuno sia ancora balzata agli occhi quest’ultima circostanza. L’avvenimento verso cui corre immediatamente la memoria è la congiura dei Pazzi, nella quale uno dei due fratelli de’ Medici, Giuliano, venne assassinato all’interno della cattedrale di Firenze durante una messa solenne, mentre l’altro, Lorenzo, sebbene ferito e coperto di sangue, riuscì a fuggire trovando rifugio in sacrestia87. Ora, fu proprio Botticelli, il focoso sostenitore del partito dei Medici, a dover dipingere a Firenze i congiurati impiccati88, a imperitura memoria, prima di recarsi a Roma per collaborare al programma degli affreschi della Cappella Sistina. Se consideriamo la rilevante corrispondenza da un lato tra il tema del sacrificio di espiazione che prevede l’uccisione di un uccello, e, dall’altro lato, l’assassinio di Giuliano de’ Medici, avvenuto in un contesto sacrale insieme alla fuga riuscita del fratello Lorenzo, come filo conduttore delle nostre osservazioni sull’affresco del Botticelli, tale affresco si schiuderà ai nostri occhi sotto una luce totalmente nuova (fig. 10). All’estrema sinistra del dipinto abbiamo notato un uomo che, tenendo in mano un oggetto a forma di pugnale, sta guardando in alto verso la scena della seconda tentazione, nella quale Gesù viene istigato a gettarsi dalla cupola del tempio. L’uomo appare pronto a colpire. Difficilmente sussiste il dubbio che non sia stato dipinto con un pugnale stretto nella mano. Inoltre è in compagnia di altri due giovani, uno dei quali porta sul petto una stola dorata disposta a formare una croce: ricordiamo che uno dei congiurati impiccati a Firenze era Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa. Egli, infatti, venne appeso il giorno stesso dell’assassinio fallito a metà, insieme a Francesco de’ Pazzi – il banchiere del casato Della Rovere e della curia di Roma – e a Jacopo Bracciolini. Si può supporre che questi tre, che sono collocati a sinistra in primo piano presso una panca in pietra, siano stati dipinti nell’atto di ordire un complotto omicida. La figura, che nel dipinto si trova verso l’esterno e che porta il pugnale, sarebbe
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Girolamo Riario. A questo punto nell’affresco vediamo distendersi un grande triangolo i cui vertici sono l’uomo con il pugnale, la scena della tentazione sulla sommità del tempio e, a destra in basso, la figura del comandante dell’esercito pontificio. Tutto l’insieme riceve la sua chiara strutturazione in questo triangolo ideale; ogni elemento è inserito in un ordine ben preciso della narrazione. È giunto, però, il momento di presentare all’interno della nostra ricerca i dati storici più importanti. Sebbene Sisto iv all’inizio del suo governo fosse stato ben disposto verso i Medici e avesse dimostrato la sua benevolenza affidando al banco del loro casato le operazioni finanziarie papali e l’appalto degli opifici di allume a Tolfa, i rapporti, a poco a poco, si guastarono. Infatti, quando Lorenzo de’ Medici, sebbene fosse banchiere pontificio, cercò di mandare all’aria l’acquisizione di Imola e la riconduzione di questa città nello Stato della Chiesa – infatti, i fiorentini, nella primavera del 1473 l’avevano acquistata dal duca di Milano per 100.000 fiorini – i Medici non poterono più essere banchieri del papa. Tuttavia, nonostante le macchinazioni di Lorenzo de’ Medici, Sisto iv riuscì a ricomprare la città da Galeazzo Maria Sforza per la somma di 40.000 ducati. Il papa si affidò allora al banco della famiglia dei Pazzi che, volentieri, gli aveva anticipato la somma sopraindicata, ritirò ai Medici la cura delle sue questioni finanziarie e l’affidò, da allora in poi, alla famiglia a loro tanto ostile. Per trattare tutta questa faccenda il papa aveva nominato come legato suo nipote, il cardinale Pietro Riario, il quale, però, morì il 5 gennaio 1474 a seguito della sua vita dissoluta o, come alcuni mormoravano, per avvelenamento da parte dei veneziani. Il fanciullo, che nel dipinto di Botticelli è pallido come un morto ed è insidiato da un serpente, ha forse qualcosa a che vedere con questa faccenda? Dopo la morte del cardinale, fu suo fratello Girolamo Riario ad esercitare influenza crescente sul papa. Le tensioni con la famiglia de’ Medici si acuirono, poi, con la nomina di Francesco Salviati a vescovo di Pisa come successore di Filippo de’ Medici, morto nel 1474, senza che al papa fosse venuto prima in mente di consultare i suoi potenti parenti Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Di conseguenza, Firenze rifiutò di riconoscere il nuovo arcivescovo. All’inizio del 1478 la tensione tra i Medici e il papa raggiunse il culmine. Ogni volta che poteva Lorenzo de’ Medici cercava di opporsi all’aspirazione politica di Sisto iv volta ad accrescere la supremazia dello Stato della Chiesa in Italia. A fianco del papa strinsero un patto di allenza i nemici dei Medici con l’obiettivo di farli
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cadere: di questa alleanza facevano parte la famiglia de’ Pazzi, l’arcivescovo Salviati e la famiglia del papa. Sisto iv era solidale con questa coalizione e con la sua finalità. Di certo, però, egli non voleva lo spargimento di sangue omicida, cosa che, invece, avvenne in seguito. Il noto fatto di sangue si consumò nel duomo di Firenze: il segnale del delitto era l’elevazione dell’ostia consacrata durante la messa. Sacerdote officiante all’altare era però il cardinal Raffaele Sansoni-Riario, un nipote del papa, il quale venne poi tratto in arresto e minacciato di subire lo stesso destino che toccò a molti membri del partito dei Pazzi i quali, pur non essendo per la maggior parte responsabili dell’impresa omicida, furono impiccati ugualmente. Per salvare suo nipote, dopo un mese buono dall’assassinio di Giuliano, il papa inflisse al di lui fratello, Lorenzo, e a tutti i suoi seguaci la pena della scomunica. Il 12 giugno il cardinale Sansoni-Riario venne rilasciato: Sisto iv non riuscì a strappare a Lorenzo maggiori concessioni. Così il 20 giugno, giorno in cui il cadaverico nipote e cardinale giunse a Roma, il papa colpì Firenze con l’interdetto. Intanto i due partiti si irrigidivano sempre più nelle loro posizioni. Il 5 dicembre 1479 Lorenzo si recò a Napoli dal re Ferrante, che fino ad allora era stato alleato del papa e che, da quel momento, passò, invece, dalla parte di Lorenzo. Il 21 agosto 1480 i Turchi conquistarono Otranto; diventava, perciò, assolutamente auspicabile una riconciliazione tra i fiorentini ed il papa per l’unità interna dell’Italia. I fiorentini si dimostrarono, alla fine, disposti ad accettare alcune condizioni poste dal papa e a chiedere il proscioglimento dall’interdetto. Il 25 novembre 1480 giunse, dunque, a Roma un’ambasceria composta da rappresentanti delle famiglie più nobili di Firenze, i quali, come già abbiamo visto, il 3 dicembre chiesero pubblicamente perdono al papa. Come già menzionato, è proprio a quest’episodio che alludono le molte persone inginocchiate attorno all’altare nell’affresco di Botticelli. A questo punto possiamo, perciò, volgere la nostra attenzione nuovamente a questo riquadro e alla sua composizione (fig. 10). Abbiamo già visto che tutto il dipinto è attraversato da un grande triangolo, il cui vertice è reso visibile dal rilievo plastico dei lati obliqui del frontone. Rimangono al di fuori di questo triangolo le tre tentazioni di Gesù e la scena della rivelazione manifestata agli angeli prima della creazione degli uomini. Partendo, dunque, da sinistra e salendo con lo sguardo dal basso verso l’alto, troviamo le due donne con un ragazzo vestito di nero: in tale gruppo abbiamo già visto un riferimento al giudizio di Salo-
mone e, nell’interpretazione delle due donne, più precisamente un riferimento alla Chiesa e alla Sinagoga. Ritroviamo qui, ancora una volta, colui che fu ucciso, cioè il figlio della Sinagoga, e colui che fu salvato da morte, cioè il figlio della Chiesa. Al di sotto di questo gruppo troviamo i due giovani sulla panca, l’uno con la veste decorata di foglie di quercia e l’altro con una veste rossa: il primo, poggiandosi sulle spalle dell’altro, stringe a questi il collo con la destra. In effetti, il figlio di una delle due donne che portarono la loro controversia davanti a Salomone fu soffocato nel sonno. Inoltre, nel giovane vestito in modo sfarzoso riconosciamo Lorenzo de’ Medici89, mentre nell’uomo di età più matura, con la collana regale attorno al collo e in piedi dietro di lui, possiamo supporre di scorgere Ferrante di Napoli. Abbiamo già notato che la scena del sacrificio di purificazione interrompe la successione e il ritmo prestabilito degli affreschi neotestamentari. Propriamente dovrebbero essere le tre tentazioni a costituire tutto il contenuto di questo affresco. Mai, infatti, la cerimonia di purificazione prescritta dal Libro del Levitico fu unita anche solo ad una delle tre tentazioni di Gesù, né in qualche raffigurazione biblica né, per quanto mi risulta, in uno scritto di qualche Padre della Chiesa o di qualche teologo medievale o di quell’epoca. In ogni caso la guarigione di un lebbroso per opera di Gesù ha luogo solo dopo le tentazioni nel deserto. Come modello per il programma iconografico, tra tutte le guarigioni di lebbrosi, ce n’è una in particolare ad essere presa in considerazione più delle altre e che è stata compiuta in un tempo ancora vicino alle tentazioni: quella descritta in Mc 1,40-45, dove leggiamo: «Venne da Gesù un lebbroso che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: ‘Se vuoi, puoi guarirmi!’ Gesù ebbe compassione di lui, stese la mano, lo toccò e gli disse: ‘Lo voglio, guarisci!’». È proprio questo il passo evangelico che Cosimo Rosselli ha raffigurato nel secondo affresco successivo sulla stessa parete dedicata al Nuovo Testamento (fig. 13). Infatti, sulla destra in primo piano vi si scorge inginocchiato presso il gruppo un uomo coperto di lebbra, vestito solo di un perizoma e con entrambe le mani alzate verso Gesù in atteggiamento di supplica. Gesù, tenendo la mano sinistra aperta e tesa e la destra nell’atto di benedire, gli concede la tanto desiderata guarigione. Dal momento che dietro al lebbroso si erge anche una figura paterna, non è ancora chiaro se il pittore abbia pensato originariamente a una scena totalmente diversa, e, cioè, alla guarigione del figlio epilettico narrata in Mt 17,14-21, lo stes-
so passo al quale Raffaello avrebbe poi accennato in modo simile nel suo dipinto della Trasfigurazione di Gesù. Per quanto riguarda Botticelli sono i versetti successivi del testo sopraccitato di Marco che possono essere messi in relazione con il suo riquadro del sacrificio di purificazione, e precisamente Mc 1,43s.: «Gesù, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: ‘Guarda di non dire niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato’». Dunque, nell’affresco di Botticelli va senza dubbio cercato il lebbroso guarito, come già Steinmann ha fatto notare90. E lo si trova, insieme a due accompagnatori, in secondo piano, tra il tempio ed il gruppo dei cardinali Della Rovere, collocati a destra in primo piano (fig. 12). Ettlinger rinuncerebbe ad interpretare il gruppo come costituito dal lebbroso guarito e dai suoi accompagnatori. Questo non è assolutamente accettabile: per evidenti motivi, non è possibile che Botticelli rinunci alla raffigurazione del lebbroso guarito. Tale dettaglio gli permetteva di dissimulare con questo affresco, perlomeno velatamente, la sua decisa critica alla famiglia Della Rovere. Ma chi andrebbe con lo sguardo dal particolare della guarigione del lebbroso – dipinto da Cosimo Rosselli e or ora descritto – al sacrificio di purificazione, dal momento che, ancora una volta, il ritmo continuo tra i due dipinti viene interrotto dall’affresco della Vocazione del giovane ricco di Domenico Ghirlandaio? Esistono troppi indizi che rivelano come l’inserimento della scena della guarigione del lebbroso nell’affresco di Cosimo Rosselli giustifichi l’ampia illustrazione del sacrificio di purificazione fatta da Botticelli – probabilmente solo in un secondo tempo. Infatti nella parete veterotestamentaria non si trova più alcun riferimento a lebbra e a purificazione. A queste avrebbe potuto facilmente alludere la figura di Mirjam, che, come narra il Libro dei Numeri (Nm 12,115), fu colpita dalla lebbra e poi guarita per intercessione di Mosè, allorché si sollevò contro di lui insieme ad Aronne, per la donna etiope che Mosè aveva preso in moglie. Cosimo Rosselli faceva parte del gruppo di quattro artisti nominati espressamente nei documenti, vale a dire nel contratto del 27 ottobre 1481 e nella valutazione degli affreschi del 17 gennaio 148291. L’approccio estetizzante degli storici dell’arte non permette che questo pittore fiorentino sia messo in giusta luce rispetto ai suoi due conterranei, Botticelli e Domenico Ghirlandaio. Tuttavia proprio a lui venne conferito dalla commissione papale il primo premio; il Vasari ritiene che ciò fosse dovuto all’ingente spesa di Rosselli nell’esecuzione dei suoi affreschi
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La Sistina svelata
nella Sistina92. Jacob Burckhardt non gli perdona «l’assetto sovraccarico e non molto dignitoso» dei suoi dipinti. Nel suo Cicerone egli annota che specialmente il riquadro del Discorso della montagna costituisce una «prestazione un po’ deboluccia, della quale si occuparono molte mani di allievi»93. Certo, si può dire che i gruppi di figure serrate così strettamente e le serie di ritratti di personalità che oggi non siamo più in grado di riconoscere, tanto in Rosselli che in Domenico Ghirlandaio, non suscitarono una favorevole impressione nei confronti degli affreschi di questi due maestri della Cappella Sistina. Il paesaggio, invece, contribuisce non poco a definire una chiara articolazione del racconto illustrato. Con le sue cime arrotondate modellate plasticamente e con quegli scorci in lontananza, nel dipinto del Discorso della montagna esso è particolarmente ben riuscito (fig. 17). Può poi rimanere aperta la questione se esso sia da attribuire alla mano di Piero di Cosimo, come molti pensano94. Ciò che a noi interessa in modo particolare è il grande numero di allusioni simboliche, soprattutto il significato dei molti uccelli raffigurati. Infatti, in questo affresco non si trova un collegamento con il papato o addirittura un riferimento esplicito favorevole o contrario alla politica di Sisto iv, né, tantomeno, la sfrontata aggressività di Botticelli. Il suo contenuto va ascritto a tutt’altro ambito. Nel prossimo capitolo ci occuperemo delle molte chiese raffigurate nel quadro e del loro significato; avremo modo, così, di addentrarci più in profondità nell’arte di Cosimo Rosselli. Per rimanere sempre nel contesto della congiura dei Pazzi, dobbiamo nuovamente osservare l’affresco di Botticelli che raffigura la cacciata dei pastori da parte di Mosè (fig. 6), cominciando precisamente da quell’ebreo ferito alla testa dall’egiziano al margine destro del dipinto. Con nostra sorpresa, constatiamo che l’ebreo ricorda le fattezze di Giuliano de’ Medici. Cosa tanto più evidente, se si confronta con l’immagine di un suo ritratto, ora nella National Gallery di Washington95: i medesimi lunghi, scuri e leggermente ondulati capelli che incorniciano il volto del ritratto di Washington si ritrovano nell’ebreo dell’affresco. Botticelli, sostenitore del partito dei Medici, ha voluto dare qui, con chiare allusioni, una lavata di capo a Sisto iv. Infatti, andò molto diversamente da come pensava Steinmann, che in proposito scrisse: «E come egli [mentre sedeva sul trono papale] avrà tenuto gli occhi fissi sul dipinto di Botticelli della parete di fronte che esaltava con linguaggio ingegnoso i successi e il lavoro della sua vi-
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13. Parete nord, Cosimo Rosselli, Il Discorso della montagna, particolare del lebbroso presentato dal padre a Gesù.
ta!»96, Sisto iv, invece, seduto sul trono papale, collocato sotto l’affresco di Mosè, solo a fatica sarà riuscito a fissare lo sguardo sul sacrificio di purificazione del Botticelli sulla parete di fronte. Ma ciò che doveva irritare ancora di più il pontefice era che, qualora avesse voluto salire sul trono, sarebbe stato costretto ad avere davanti agli occhi Giuliano de’ Medici, l’assassinato. Questo era rappresentato nell’ebreo ferito al capo che, come detto prima, è accolto nel sepolcro doppio dei Patriarchi. Il trono papale è infatti collocato stabilmente sotto il lato destro di questo riquadro. Oltre a ciò, abbiamo già considerato che l’egiziano, in linguaggio allegorico, significa il diavolo. Queste allusioni, dunque, spiegano perché Botticelli non abbia eseguito tutti e quattro gli affreschi nella Cappella Sistina, come da contratto e perché, nel quarto, sia stato sostituito da Luca Signorelli. Con il terzo dipinto di Botticelli, di cui parleremo ancora, di certo venne meno la pazienza del papa, per cui al pittore sarà stato consigliato di rinunciare ad un’ulteriore collaborazione. Secondo il Vasari, Botticelli sarebbe stato nominato dal papa sovrintendente dei lavori. In effetti nell’esecuzione a lui assegnata dei ritratti dei papi egli si rivelerà come l’artista dominante nella Cappella97. Allorché, nel maggio 1482, l’impresa decorativa fu terminata «in ogni sua parte», tre pittori, Perugino e Ghirlandaio insieme a Botticelli, erano già partiti per Firenze. Inoltre, Botticelli dovette aspettare il compenso dovuto per i suoi lavori nella Sistina almeno fino all’8 dicembre 1483. È stato ipotizzato che i tre pittori se ne fossero andati da Roma perché il pagamento fu rimandato tanto; tuttavia difficilmente questo fu l’unico motivo che provocò una decisione simile, tanto più che il papa si vide costretto a chiamare un nuovo pittore, vale a dire il Signorelli, incaricato di dipingere i due ultimi affreschi ancora mancanti98. Con la dipartita il Ghirlandaio e addirittura il Perugino hanno forse voluto dichiararsi solidali con Botticelli? L’unico affresco del Ghirlandaio ancora conservato come pure quello del Perugino non presentano, però, alcuna provocazione nei confronti del papa Della Rovere. La chiesa edificata con pietre vive L’affresco del Perugino con la Consegna delle chiavi a Pietro, oltre a risultare particolarmente appariscente tra gli altri dipinti murali della Sistina, porta un titulus che, alle prime, non sembra accordarsi con il tema: contur-
14. Parete nord, Pietro Perugino, La consegna delle chiavi, il tributo della moneta e il tentativo di lapidazione di GesĂš nel tempio di Gerusalemme.
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(Turbamento di Gesù Cristo autore della Legge, fig. 14). Infatti, solo le scene in secondo piano, nelle quali siamo in grado di riconoscere l’episodio del tributo e il tentativo di lapidare Gesù nel tempio, fanno apparire sensata la scelta di questo titolo. Inoltre, facciamo notare che, secondo il Vangelo di Matteo (16,19), Gesù non ha pronunciato nel tempio il discorso della consegna delle chiavi, ma presso Cesarea di Filippi. Tuttavia, ogni volta che la rappresentazione non concorda con il testo della Sacra Scrittura, si può sempre supporre un intento assertivo particolare da parte del pittore o, per lo meno, da parte del consulente teologico. Ora, nell’affresco vediamo l’edificio ottagonale del tempio ergersi al fondo di una grande spianata e dietro alle scene in secondo piano. Il tetto a cupola viene delimitato dalla cornice: proprio in questo punto di raccordo l’osservatore scorge le due parole iesu christi che si trovano esattamente nel centro esclusivamente in questo titulus (fig. 14). Chi, collegando la scena in secondo piano che rappresenta il tentativo di lapidazione di Gesù (fig. 15) al suo stesso nome, posto a chiusura e a coronamento della cupola del tempio, non è portato a pensare al versetto biblico che dice: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d’angolo (o chiave di volta)» (Sal 117[118],22s.; cfr. Mt 21,42; Ef 1,22s.; 1 Pt 2,4-10)? A questo punto, dunque, va spiegato l’intento assertivo ivi contenuto e, cioè, che l’edificazione della Chiesa costruita con pietre vive viene messa in opera attraverso la consegna del potere delle chiavi da parte di Gesù a Pietro. Cristo è stato rifiutato dai costruttori dell’antico tempio; per questo motivo essi volevano lapidarlo. Ma è lui la chiave di volta che trasmette a Pietro la propria capacità di consolidare stabilmente l’edificio. In pratica vediamo qui tradotto in immagini il gioco di parole tra chiave di volta e chiavi. In sostanza, tutto il programma iconografico, quasi in ogni affresco, sembra fare continuamente riferimento ai concetti di pietra e di roccia, associabili al nome di Pietro. Ogni pietra che aveva un significato nella storia di Mosè, come in quella di Gesù, richiama, nascostamente, la costruzione della Chiesa edificata con pietre vive. Ad esempio, i figli di Mosè vengono circoncisi con una pietra (figg. 7, 8). Ricordiamo, poi, il bordo in pietra del pozzo e la costruzione situata sul lato destro dell’affresco dedicato alla Storia della vocazione di Mosè (fig. 6), dove, come già abbiamo potuto osservare, un muratore con una cazzuola infilata nella cintola si rifugia in questo edificio simile a un tempio. La colonna di nubi sul Mar Rosbatio iesu christi legislatoris
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so raffigurata nell’affresco successivo, opera già attribuita a Cosimo Rosselli, presenta con la sua base, il suo fusto e il suo capitello una forma architettonica ben definita (fig. 9). Dopo il passaggio del Mar Rosso gli Israeliti vengono a trovarsi in una regione rocciosa. L’affresco vicino (fig. 16), occupato al centro dal vitello d’oro e la cui origine è dovuta, probabilmente, alla cooperazione di Cosimo Rosselli e di Piero di Cosimo, raffigura Mosè che fa a pezzi le tavole in pietra della Legge (Es 32,19). Allo stesso modo, Gesù viene tentato nel deserto con delle pietre (fig. 10). Egli viene ancora tentato sul pinnacolo del tempio, nel luogo stesso in cui la costruzione ha il suo coronamento ultimo verso il cielo. L’alto monte dell’ultima tentazione è, nell’affresco di Botticelli, una rupe dalla quale il diavolo, una volta cacciato, precipita, mentre sul suo pianoro Cristo viene servito dagli angeli. Sul monte del Discorso della montagna, opera di Cosimo Rosselli e di Piero di Cosimo, si erge una chiesa (fig. 17), mentre Cosimo Rosselli ambienta l’Ultima cena in una sala ottagonale rivestita di marmi (fig. 18). In ognuno dei tre riquadri che si aprono in prospettiva oltre le finestre della sala, si può riconoscere sullo sfondo e ben in evidenza la figura di Pietro: come primo dei tre discepoli addormentati sul monte degli ulivi, quando stacca l’orecchio a Malco e, infine, quando si pente della sua azione, davanti alla scena del Golgota. Diversi sono i temi presenti nel ciclo degli affreschi della Cappella Sistina e, tuttavia, risultano tutti abilmente intrecciati l’uno con l’altro, come in un concerto polifonico. Uno dei motivi è, per esempio, quello di Maria e, strettamente connesso a questo, il tema della Chiesa come sposa. Un altro tema è quello di Pietro e della fede, tema che riecheggia fin nelle rocce e nelle pietre raffigurate. Ma uno dei motivi più importanti riguarda la Chiesa edificata con pietre vive. Soffermandoci sul dipinto che illustra la Consegna delle chiavi, vediamo a destra, accanto ai discepoli, una figura con un compasso ed un’altra con una squadra (fig. 14): in esse riconosciamo due capomastri. Si tratta, forse, dei ritratti di Baccio Pontelli e di Giovanni de’ Dolci, l’architetto della Cappella99. Possiamo individuare questi ritratti di architetti nell’affresco del Perugino perché il pittore volle ricordare che l’edificazione della Chiesa fu fatta con pietre vive, anzi, che questa costruzione prese forma, per la prima volta, con Cristo e gli Apostoli. Il tema dell’edificazione della Chiesa con pietre vive non rimase circoscritto alle pareti della Sistina. Infatti ha fatto sentire il suo influsso anche sugli affreschi della Stan-
15. Parete nord, Pietro Perugino, La consegna delle chiavi, particolare del tentativo di lapidazione di Gesù.
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16. Parete sud, Cosimo Rosselli e Piero di Cosimo, Mosè riceve le tavole della Legge sul monte Sinai, il ballo attorno al vitello d’oro e la punizione dei colpevoli. Alle pagine seguenti: 17. Parete nord, Cosimo Rosselli, Il Discorso della montagna, la guarigione del lebbroso, Gesù in preghiera sul monte e L’elezione dei dodici apostoli.
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18. Parete nord, Cosimo Rosselli, L’Ultima cena, la preghiera nel Getsemani, La cattura di Gesù, il taglio dell’orecchio di Malco, e la morte sul Golgota.
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za della Segnatura e sulla Stanza d’Eliodoro. Come ha mostrato Matthias Winner, i disegni della Disputa, che solo in fase conclusiva presentano l’altare con il sacramento, sono caratterizzati dall’idea della costruzione della Chiesa con pietre vive100. Ho già rilevato in un mio precedente lavoro sulla Disputa che l’affresco stesso rispecchia ancora queste idee101. Per rimanere nello stesso ambito va detto che due affreschi in grisaille, dipinti l’uno di fronte all’altro, nel vano di finestra sul lato nord della Stanza d’Eliodoro, non sono ancora stati interpretati in modo corretto. Uno dei dipinti in grisaille, in basso a sinistra, raffigura Gesù che insegna nel tempio, non il Gesù dodicenne, bensì il maestro ormai adulto nell’ultimo periodo della vita prima del processo e della morte in croce102. Gesù siede sulla cattedra al di sopra dei dottori della Legge che discutono con lui e guardano ai libri aperti. Nell’atrio del tempio, in secondo piano, si riconosce una persona in preghiera con l’aureola: si tratta probabilmente di uno dei discepoli. Di fronte, l’altro affresco della stessa grandezza103, illustra l’episodio in cui i Giudei raccolgono pietre per scagliarle contro Gesù, che, però, non è più visibile. Egli «si nascose» o «venne nascosto», come dice letteralmente il Vangelo di Giovanni (Gv 10,39). Il tutto si svolge davanti alla facciata del tempio. La direzione verso la quale i Giudei vogliono gettare le pietre indica palesemente che Gesù si è dileguato nel sancta sanctorum (Santo dei santi) attraverso la porta aperta e il velo dischiuso del tempio, mentre, al di sopra della porta aperta, si delinea il profilo della croce. Tutto questo richiama le parole della Lettera agli Ebrei: «Cristo, invece, è venuto come sommo sacerdote di beni futuri, e, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questo mondo, è entrato una volta per sempre nel santuario...» (Eb 9,11s.). La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d’angolo nell’edificio formato da pietre vive. Troviamo espressa questa dottrina nella sua forma essenziale nella Prima Lettera di san Pietro: «Stringetevi a lui, la pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta da Dio e preziosa davanti a lui. Lasciatevi impiegare come pietre vive per un edificio spirituale...» (1 Pt 2,4s.). Questa dottrina è stata accolta dal libro diciottesimo de La Città di Dio di Agostino104 e sviluppata nel contesto di una più estesa interpretazione allegorica da parte di Ugo di San Vittore105. Entrambi i concetti, il rifiuto della pietra da parte dei costruttori e l’edificio fatto di pietre vive, trovano ampio sviluppo anche in Pietro Galatino.
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Nella sua opera inedita De Ecclesia restituta il francescano scrive: «Diremo ora qualcosa riguardo alle pietre che compongono la struttura (del tempio). Con esse si intendono designati tutti gli eletti coi quali viene edificata la Chiesa militante»106. Nello stesso brano egli distingue, inoltre, tra le pietre servite all’edificazione del sancta sanctorum – i sommi sacerdoti (Pontifices) – e le pietre con le quali venne eretto il santuario. Ma esiste anche un passo delle opere di Origene con il quale trovano piena corrispondenza gli elementi che compongono la raffigurazione del Perugino, così come è avvenuto per l’affresco del sacrificio di purificazione, cosa che, del resto, abbiamo già avuto modo di constatare. Così, infatti, si esprime il teologo alessandrino: «Entrambi, sia il tempio che il corpo di Gesù, in base alle varie possibilità di interpretazione, a me sembrano, l’uno e l’altro, un’immagine della Chiesa; essa, infatti, è costruita con pietre vive per un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, edificata sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti e avente come pietra angolare Cristo stesso»107. Il tempio raffigurato dal Perugino è ottagonale: ricordiamo che, come già accertato, il numero otto è legato a Cristo. Nell’affresco di Cosimo Rosselli, situato a destra di quello del Perugino, anche la sala dell’Ultima cena ha la forma di un ottagono e addirittura il tavolo è semiottagonale: questa sala, situata al piano superiore, è diventata il nuovo tempio e immagine del corpo di Cristo. Un po’ ovunque nei dipinti murali della Cappella Sistina si trovano raffigurate delle costruzioni e, in special modo, degli edifici ecclesiastici. Anche le città dipinte nei paesaggi sullo sfondo non vengono rappresentate se non con le loro chiese. A queste vanno aggiunti ancora i singoli edifici ecclesiastici che vengono inseriti in affreschi riguardanti episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento. In affreschi come quelli della Punizione della banda di Core o del Discorso della montagna, giustamente, non ci si aspetterebbe di vedere alcuna chiesa, invece, le chiese sono raffigurate come edifici tardogotici con una torre, e, per di più, estranee al contesto cittadino ivi rappresentato (figg. 19, 20, 21). Probabilmente qui si tratta del vocabolo figurato «chiesa» che nei dipinti viene ripreso sulla base di un nesso tipologico con la Tenda dell’Alleanza e il tempio. Mosè vide sul monte il modello della Tenda, così come narra il Libro dell’Esodo (Es 25,40) a cui fa riferimento la Lettera agli Ebrei: «Guarda, disse, di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte» (Eb 8,5). Nel riquadro di Rosselli, Gesù sembra scendere
proprio da questo monte per scegliere i dodici: così come mostra la scena che si svolge sul pendio del monte su cui si erge una chiesa. Per tenere il discorso della montagna Gesù lascia le cime più alte. Il pittore lo raffigura, infatti, in piedi su un basso colle davanti al monte. Tenendo presente tutto questo, notiamo anche che nel riquadro di fronte, dedicato ad un tema veterotestamentario, Cosimo Rosselli ha rappresentato la consegna dei dieci comandamenti a Mosè sul monte Sinai. Stranamente, nell’affresco della Punizione di Core e degli altri ribelli è rappresentata una chiesa tra due strutture architettoniche, cioè tra un accesso e il grande arco di trionfo che ricorda quello di Costantino a Roma (fig. 22); l’accesso, invece, può fare esclusivamente riferimento a quello della Tenda della manifestazione di Dio, ove, secondo il Libro dei Numeri, si erano radunati Mosè, Aronne e i ribelli (Nm 16,18s.). Al di sotto della chiesa, situata sul pendio e con un solo campanile, il pittore ha raffigurato singolari imbarcazioni e relitti di navi. Per sapere che cosa Botticelli volesse esprimere, dobbiamo cercare un suggerimento nell’esegesi biblica allegorizzante. Infatti, troviamo questo dettaglio chiarito in uno scritto di Ugo di San Vittore, vale a dire i quattro libri De bestiis et aliis rebus (Sugli animali e su altre cose), opera di cui ci dovremo occupare approfonditamente più avanti. A proposito, rispetto alla tematica di questo affresco di Botticelli, dobbiamo prima citare l’omelia di Origene che ha per titolo De batillis Core (Gli incensieri di Core) e che costituisce la sua Omelia ix sul Libro dei Numeri. Il dipinto, dunque, risulta ispirato dalle idee di due teologi, Origene e lo Pseudo-Ugo di San Vittore. Per cominciare, osserviamo che Botticelli ha disposto i ribelli con gli incensieri attorno all’altare al centro del dipinto (fig. 23). Ora, l’omelia di Origene si ricollega al passo del Libro dei Numeri in cui si narra che Eleazaro, figlio di Aronne, per ordine di Dio, riduce in lamine gli incensieri dei ribelli divorati dal fuoco e riveste con esse l’altare, affinché, per il futuro, nessuno, non appartenente alla casa di Aronne, presenti incensieri davanti al Signore (cfr. Nm 17,4s.): secondo Origene non solo Core e i suoi compagni sono figure simboliche degli eretici presenti nella Chiesa, ma gli incensieri stessi devono essere interpretati allegoricamente. Il fatto che alcuni di questi incensieri siano in bronzo è un richiamo alla Sacra Scrittura: infatti, il fuoco estraneo che arde nei recipienti degli eretici è un dio che si oppone alla Verità, cioè un senso che gli eretici attribuiscono alla Sacra Scrittura.
Ma, aggiunge Origene, i recipienti in bronzo, argento e oro, che i peccatori hanno utilizzato, possono anche essere interpretati in altro modo. I contenitori in bronzo sono costituiti solo di parole vuote, senza la forza dello Spirito, mentre l’oro allude alla purezza della fede e l’argento purificato nel fuoco indica la parola provata dall’esperienza. Il Libro dei Numeri tuttavia non accenna ad incensieri fabbricati con tre metalli diversi: li troviamo, infatti, solo nell’omelia di Origene108 e nell’affresco di Botticelli della Cappella Sistina. Come per gli incensieri, allo stesso modo possiamo far risalire ad Origene un altro importante particolare dell’affresco che, diversamente, rimarrebbe inspiegabile. La maggior parte degli incensieri raffigurati nel dipinto di Botticelli sono in oro. Essi volano attorno agli orecchi di Core e dei suoi compagni sicuramente per il fatto che essi rappresentano gli eretici: infatti Origene nei rivoltosi ha prefigurato gli eretici che hanno portato nei loro recipienti il fuoco delle loro dottrine estranee. Nella raffigurazione diventa perciò ben visibile il contrasto tra le loro parole, vale a dire il fuoco, e le parole della Scrittura, cioè i recipienti perché Botticelli, nel suo affresco, fa volare gli incensieri contro le teste dei ribelli facendo prendere fuoco ai loro capelli. Un incensiere d’argento giace sul pavimento davanti all’altare ai piedi di uno degli insorti caduto a terra. Lasciamoci ammaestrare da Origene: questo significa che la dottrina degli eretici non regge alla prova del fuoco delle persecuzioni e delle avversità109. Uno dei ribelli, postosi tra Mosè ed Aronne, con un recipiente di ferro cerca di incensare, senza riuscirvi, l’accolta popolare dei rivoltosi intenzionati a lapidare Mosè. Secondo Origene gli incensieri di ferro vengono usati da coloro il cui parlare è vuoto e che sono privi della forza di Dio110. Aronne, rivestito dei paramenti da sommo sacerdote e armato di un incensiere d’oro, posto tra i morti e i vivi, compie il rito espiatorio (cfr. Nm 17,11-13) incensando entrambe le persone dipinte all’ingresso del santuario: una di esse è di età matura e vestita dell’abito da monaco agostiniano, mentre i lineamenti del viso dell’altra persona più giovane ricordano quelli del ritratto di Botticelli111. Ed ora ritorniamo al testo della già citata opera dello Pseudo-Ugo di San Vittore De bestiis et aliis rebus. Lo Pseudo-Ugo, che era un chierico regolare secondo la regola di sant’Agostino, dedica quest’opera ad un laico, un converso. Non si potrebbe vedere un’allusione ad Ugo e a Raynerus nelle persone raffigurate presso il santua-
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19. Parete sud, Sandro Botticelli, La Punizione di Core, Datan e Abiran, le due diverse navi di Salomone e di Giòsafat a Ezion-Gheber in attesa della partenza verso la terra verde di Ofir, e il tentativo di lapidazione di Mosè.
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20. Parete nord, Cosimo Rosselli, Il Discorso della montagna, particolare della discesa di Cristo con qualche discepolo e di Cristo insieme ai dodici apostoli.
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21. Cosimo Rosselli, La Punizione di Core, Datan e Abiran, particolare della terra verde di Ofir.
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22. Parete sud, Sandro Botticelli, La Punizione di Core, Datan e Abiran, particolare dell’arco trionfale con l’iscrizione «Nessuno si assuma l’onore se non chiamato da Dio come Aronne».
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23. Parete sud, Sandro Botticelli, La Punizione di Core, Datan e Abiran, particolare della punizione dei ribelli, con gli incensieri di diversi metalli: oro, argento e ferro.
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rio, oppure addirittura ad una situazione simile esistente tra il pittore Botticelli e il sacrestano della Cappella Sistina, che era un monaco agostiniano112? In ogni caso le due imbarcazioni, sia quella che cade a pezzi, come quella in buone condizioni e con le vele alzate hanno la loro spiegazione nell’opera di Ugo. A questo proposito troviamo un riferimento nel capitolo 54 del Primo Libro dei Re, dove si parla di due flotte, quella di Salomone (1 Re 9,26,28; 10,11) e la flotta di Giòsafat (1 Re 22,49). Nel secondo passo scritturistico leggiamo: «Anche Giòsafat costruì una flotta di Tarsis per andare a cercare l’oro in Ofir; ma non partì, perché le navi si sfasciarono in Ezion-Gheber» (1 Re 22,49). Lo Pseudo-Ugo di San Vittore spiega così questo passo: «Giòsafat è figura di colui che giudica, Ezion-Gheber è figura della voce dell’uomo, dunque, si tratta della confessione... Quando, infatti, il peccatore nella confessione giudica se stesso, allora regna il re Giòsafat in Giuda. Ma Ofir significa ricoperto di erba (herbosum). Viene detta terra ricoperta di erba (herbosa terra) quella che non è coltivata da nessuno e che produce erba in gran quantità, che incanta l’occhio... Gheber, come dice Gerolamo, significa giovane o forte. Non c’è, dunque, da meravigliarsi se l’impeto della gioventù conduce allo sfascio della nave della confessione»113. Ma la flotta di Salomone ogni tre anni raggiungeva Tarsis riportando indietro oro, argento e avorio. A questo proposito, sarebbe fuorviante cercare di seguire tutte le interpretazioni dello Pseudo-Ugo: per noi è sufficiente soffermarci sul fatto che le materie preziose portate in qua da Tarsis vennero usate per il tempio. Secondo Pseudo-Ugo, Tarsis rappresenta «la ricerca esplorativa della gioia (exploratio gaudii)». «La flotta di Salomone è la forza della confessione... Si dice che in Tarsis si trovano oro e argento, cioè uomini famosi per la loro sapienza ed eloquenti, i quali, finché ricercano e domandano la gioia di questo mondo, confessano se stessi. E mentre con la flotta di Salomone raggiungono Gerusalemme portandovi oro puro, attraverso la confessione, nella pace della Chiesa, diventano ancora più puri»114. Se, ora, diamo uno sguardo all’affresco di Botticelli notiamo la seconda nave armata, la quale ha, in effetti, ancora la vela alzata, ma è già orientata verso il litorale opposto dove, in mezzo ad un paesaggio montuoso, scorgiamo la chiesa nascosta dietro degli alberi, chiesa
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di cui abbiamo parlato. La cabina sulla poppa della nave è splendente d’oro. Ma perché Botticelli ha raffigurato due diverse imbarcazioni, una della flotta di Giòsafat proveniente da Tarsis, che si è arenata ed è sfasciata, e una della flotta di Salomone, che ha portato a Gerusalemme l’oro e altre merci (fig. 24)? Si potrebbe trattare di un semplice riferimento che trascende l’affresco di Botticelli per collegarsi ad un altro dipinto del programma generale della Cappella Sistina. Se proprio dobbiamo parlare di navi in relazione all’edificazione della Chiesa, allora non può assolutamente mancare l’accenno all’arca di Noè. Infatti, la troviamo sulla volta della Sistina: sebbene dipinta solo al tempo di papa Giulio ii ad opera di Michelangelo, tuttavia va certamente messa in relazione con il programma originario elaborato sotto Sisto iv. Vedremo in maniera più estesa che l’intera decorazione ad affresco della Cappella si inserisce in un unico e coerente programma il quale è, però, allo stesso tempo e in modo incredibile, riccamente differenziato. La chiave di volta per entrare in questo coerente programma generale la possiamo trovare nella citata opera dello Pseudo-Ugo di San Vittore, poiché si tratta ora di spiegare il significato allegorico della colomba, di altri uccelli, piante e soggetti biblici che ne fanno parte. Il significato allegorico degli uccelli e degli alberi e la sua applicazione agli affreschi della
Cappella Sistina
Nella Sacra Scrittura la colomba è l’uccello più importante. Per esempio, lo Pseudo-Ugo di San Vittore la trova per ben tre volte in contesti significativi: nel Salmo 68 [Vulg. 67], alla fine del diluvio e al battesimo di Cristo. Tra gli affreschi della Cappella Sistina noi scorgiamo una bianca colomba sull’arca dell’affresco del Diluvio universale di Michelangelo e, in forma simile, piccolissima, con le ali spiegate, nell’affresco del Perugino che raffigura il Battesimo di Cristo. Ma, in relazione agli affreschi della Sistina, più importante è la terza colomba, quella del Salmo 68 [67] che lo Pseudo-Ugo di San Vittore descrive e interpreta attentamente. Nel testo della Vulgata il versetto 14 del Salmo 67 così è tradotto: «Si dormiatis inter medios cleros, pennae columbae deargentatae et posteriora dorsi eius in pallore auri» (Mentre voi dormite tra i membri del clero, risplendono d’argento le penne delle ali della colomba e quelle
24. Parete sud, Sandro Botticelli, La Punizione di Core, Datan e Abiran, particolare della nave distrutta di Giòsafat e della nave ben apparecchiata di Salomone.
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25. Parete sud, Luca Signorelli, La Seconda lettura della Legge, la spartizione della terra promessa tra le dodici tribù d’Israele, il passaggio del potere da Mosè a Giosuè, la visione della terra promessa dal monte Nebo e la morte di Mosè.
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del dorso di riflessi d’oro, Sal 68 [Vulg. 67],14). Il nostro teologo dice che la colomba con le penne d’argento è la Chiesa, ma può anche significare l’anima di ogni singolo credente. Lo Pseudo-Ugo di San Vittore mette in relazione il passo inter medios cleros col clero. Infatti, nell’Antico Testamento i figli di Levi non possiedono alcuna parte della terra divisa in eredità fra le tribù d’Israele, e nel Nuovo Testamento che, secondo il teologo vittorino, non ha alcun interesse per le cose terrene, il chierico «dorme nel bel mezzo delle parti di eredità» allorquando, nel disprezzo del mondo, egli attende con pazienza i beni celesti115. Lo Pseudo-Ugo spiega, dunque, i significati di diversi colori, a partire dall’argento e dall’oro. L’argento è riferito alla predicazione, l’oro, invece, al premio finale in cielo. Poi, egli distoglie lo sguardo dalla colomba del versetto salmico per descrivere al suo destinatario i colori della colomba, così come, secondo lui, si possono osservare in natura, e per dare di essi un’interpretazione allegorica. La colomba ha le zampine rosse a causa del sangue dei martiri; le sue ali, così come le ha osservate in natura il teologo, sono azzurre e bianche: l’azzurro è il colore dell’anima che nella contemplazione imita i colori del cielo e assume la sua forma; e che diventa bianca nel chiarore della purezza quando si eleva in cielo alla contemplazione; il colore del resto del corpo della colomba imita quello del mare agitato: è grigio, infatti, come l’uomo che si lascia trasportare dalla sua lascivia116. Questi colori caratterizzano le vesti dei personaggi dell’affresco della banda di Core, di cui abbiamo parlato nell’ultimo capitolo, e, in modo ben più evidente, di quelli dell’affresco attiguo di Signorelli. Il dipinto di Botticelli riproduce sulla sinistra, all’ingresso del santuario, l’apparizione della gloria del Signore: due giovani stanno in piedi su delle nubi; l’uno ha vesti bianche e azzurre, l’altro indossa paramenti sacerdotali dorati sopra una dalmatica che in origine, probabilmente, appariva di un fulgido argento. Che Botticelli abbia poi utilizzato il colore verde in entrambe le figure, è dovuto al fatto che il verde esprime la speranza verso il futuro. L’affresco di Signorelli rappresenta, invece, la Spartizione della terra e, insieme, la Seconda lettura della Legge che è all’origine di quella finzione letteraria che diede il nome di Deuteronomio (Seconda Legge) all’ultimo libro di Mosè (fig. 25). Osservando l’affresco, il nostro sguardo cade subito sulla figura nuda di Levi: tale nudità alluderebbe al fatto che nella spartizione della terra egli non ricevette nulla (fig. 26). Davanti a lui scorgiamo la figura, girata di spalle, di un giovane con stivali rossi, calzoni
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26. Parete sud, Luca Signorelli, La Seconda lettura della Legge, particolare di Levi che non riceve una parte della terra promessa perchè la sua parte è Dio: perciò il pittore lo raffigura nudo.
bianchi117, farsetto azzurro e maniche della camicia dorate. Tramite questo giovane, Levi viene messo in comunicazione con una donna verso la quale volge anche lo sguardo: la donna è incinta ed ha un bimbo sulle sue spalle, mentre la veste è argentea e il mantello risplende d’oro. Sono ancor più evidenti i colori argento e oro nell’uomo che si trova in piedi al di sotto della cattedra di Mosè e che sta in suo attento ascolto appoggiandosi, nel frattempo, ad un bastone. Persino il suo copricapo è d’oro ed è simile a quello di uno dei due giovani dipinti presso il santuario nell’affresco di Core del Botticelli. Se, ora, leggiamo lo Pseudo-Ugo di San Vittore, come abbiamo fatto finora, troviamo sempre più punti di raffronto tra gli affreschi: infatti, il dorso della colomba secondo il Salmo 68 [67] riluce dello splendore dell’oro (in pallore auri) come risplenderà quell’oro allorquando il re apparirà nella sua gloria divina. «Infatti le corone dei re vengono fabbricate con oro purissimo, invece con l’argento le monete sulle quali viene impressa l’effigie dei re (fig. 27)... Se la moneta del discorso divino insegna l’imitazione della vita di Cristo, così la corona insegna l’imitazione della sua vittoria... Ivi, dunque, come sul dorso l’oro, qui sulle penne l’argento della predicazione, poiché, quando la colomba perverrà a quei doni, non avrà più bisogno delle parole della predicazione, ma vivrà senza fine in ciò che avrà ricevuto come ricompensa, nella pura perfezione»118. L’affresco di Signorelli presenta, dunque, Mosè mentre tiene per la seconda volta il discorso della Legge. Infatti, come dice il titulus posto sopra il riquadro, egli compie la replicatio legis scriptae (Replica della legge scritta). Inoltre nell’affresco della Consegna delle chiavi, collocato di fronte in diagonale, è raffigurata la scena del tributo, a sinistra in secondo piano (fig. 27). Noi, ormai istruiti dallo Pseudo-Ugo di San Vittore, sappiamo che si allude all’imitazione della vita di Cristo così come «sulla moneta viene rilevata l’imitazione della figura»119. Il copricapo dorato negli affreschi di Signorelli e di Botticelli, sul quale abbiamo già posto l’attenzione, richiama la ricompensa nella vita eterna (figg. 19, 25) e rappresenta una variante della corona d’oro, pretesto per il teologo per parlare dell’oro che si trova sul dorso della colomba. Di color grigio mare è, invece, il farsetto del ribelle di fronte a Mosè nella raffigurazione di Botticelli: la figura di costui è certamente in riferimento a Core in persona che, come l’erompere del mare, ha oltrepassato i suoi limiti120.
27. Pietro Perugino, La consegna delle chiavi, particolare del tributo della moneta.
Un po’ ovunque negli affreschi delle pareti della Sistina si trovano gli altri colori illustrati dallo Pseudo-Ugo di San Vittore nella sua spiegazione allegorica della colomba. Così, per esempio, abbiamo già incontrato nei due affreschi della Vocazione di Mosè e del sacrificio di purificazione (figg. 6, 10) una figura di donna vestita di azzurro e di bianco – immagine della Chiesa come sposa. Nello stesso riquadro del Discorso della montagna è mostrata questa figura femminile (fig. 17). Anche Cosimo Rosselli raffigura Mirjam dopo il passaggio del Mar Rosso con un mantello azzurro (fig. 9), così come nella scena della danza intorno al vitello d’oro ha dipinto con quel mantello la figura della dama nella coppia di ballerini, collocata sulla destra e ben evidente in primo piano (fig. 16). Signorelli, come già detto, ha invece vestito d’oro e argento la sposa del suo affresco: accanto ad essa sono le sue compagne, anch’esse madri con figli, raffigurate alla maniera di Cosimo Rosselli nel suo riquadro del Discorso della montagna (fig. 17). La Chiesa come sposa è il grande tema della decorazione iconografica della Cappella Sistina, tema al quale si è dato scarso rilievo. Ad esempio, la sposa che indossa vesti dorate e argentate e alla quale il nudo Levi volge lo sguardo, come sopra abbiamo già brevemente accennato, è incinta: ad essa corrisponde, sulla parete opposta, nell’affresco di Cosimo Rosselli, la figura di Maria sotto la croce, dipinta molto in piccolo, ma, evidentemente, gravida (fig. 18). Il Giudizio universale di Michelangelo, eseguito là dove si poteva vedere l’Immacolata sopra l’altare della Cappella, ha fatto passare in secondo piano il motivo iconografico vero e proprio della decorazione nel suo insieme, ma solo apparentemente. Avremo ancora modo di mostrare che i suoi affreschi della volta e persino il Giudizio universale seguono la stessa tematica, alla quale noi qui abbiamo accennato solo di sfuggita: Maria è la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo fino al giorno del giudizio universale e, di conseguenza, archetipo della Chiesa121. Nella sua opera De bestiis et aliis rebus lo Pseudo-Ugo di San Vittore spiega e interpreta in senso allegorizzante molti altri uccelli appoggiandosi sui testi dei Padri della Chiesa e dei teologi del suo tempo, come Beda e Rabano Mauro. Particolarmente importante, ad esempio, è il falco, che spesso confonde con l’astore o lo sparviero, chiamandolo con il nome latino accipiter. Già nell’introduzione al suo scritto qui citato lo mette a confronto con la colomba e dice al suo lettore:
Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
«Non solo la colomba vorrei dipingere per te, ma anche il falco, in modo che tu li abbia sempre presenti davanti agli occhi. Vedi, stanno, infatti, sul medesimo posatoio il falco e la colomba. Vale a dire, io dal clero e tu dalla schiera della gente militare, giungiamo entrambi a conversione per stare nella vita ordinata della regola come su un posatoio, e, dal momento che tu avevi l’abitudine di rubare il pollame da cortile, ora vedi gli uccelli che vivono allo stato selvatico, cioè gli uomini che vivono nel secolo, venire a conversione compiendo le opere buone»122. I falchi sono simbolo della nobiltà. Più avanti il teologo, un tempo identificato con Ugo di San Vittore, distingue due specie di falchi: quelli addomesticati e quelli che vivono allo stato libero. Il falco selvatico è solito cacciare il pollame da cortile, il falcone da caccia addomesticato, invece, gli uccelli che vivono allo stato selvatico. Quest’ultimo è figura del padre spirituale che molto spesso cattura gli uccelli selvatici, vale a dire, induce a conversione uomini di mondo e uccide prigionieri, cioè li spinge a morire al mondo attraverso la mortificazione della carne123. Questi falchi che cacciano pollame selvatico, fagiani e grasse anatre, sono raffigurati ovunque negli affreschi delle pareti della Cappella Sistina. Perugino, ad esempio, mostra questa scena di caccia sopra l’episodio della circoncisione del figlio di Mosè e di Zippora (fig. 8). La stessa scena accompagna nel riquadro del Ghirlandaio, come un segno del cielo, la chiamata degli apostoli Pietro e Andrea da parte di Gesù (fig. 28). Anche nell’affresco di Cosimo Rosselli del Discorso della montagna un falco piomba su una pernice proprio là dove un volto, sospeso nell’aria, soffia respingendo la cortina di nubi e sgombrando il cielo (fig. 17). La pernice è un uccello che rappresenta il diavolo: infatti, la pernice ruba le uova alle altre pernici per covarle lei stessa; ma se i piccoli, una volta usciti dall’uovo, sentono la voce della pernice madre, abbandonano la loro falsa madre e fanno ritorno a quella vera. Tutto questo fa ancora sempre parte del pensiero dello Pseudo-Ugo di San Vittore, che si richiama ad Isidoro di Siviglia. Il teologo vittorino continua ancora nella spiegazione seguendo ora Rabano Mauro: «Ma la pernice, contro le cui uova infierisce il diavolo, significa senza dubbio la Chiesa». Quando, infatti, colui che è soggiogato dal diavolo ascolta la voce della predicazione, fa ritorno da sua madre, la Chiesa124.
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Nell’affresco di Cosimo Rosselli la pernice verrà dunque a significare l’uccello ingannatore, il diavolo, sul quale piomba il falco buono, in modo che egli non possa più compiere la sua opera infame di rubare le uova (fig. 17). Ora bisogna identificare anche gli altri uccelli sul lato sinistro del dipinto: alcuni sono gru, quelle che volano più in alto, poi c’è una rondine, un’upupa e un cardellino. Fatta eccezione per quest’ultimo, lo Pseudo-Ugo di San Vittore dà un’interpretazione di tutti gli altri uccelli. Le gru volano in alto e una segue l’altra: esse sono figura degli uomini che vivono secondo una regola. La rondine annuncia la primavera e non si lascia cacciare da nessun predatore e prende cibo mentre vola: essa è anche l’immagine di colui che è contrito, che cerca sempre la primavera e fa ogni cosa con discernimento e moderazione125. L’upupa, che si trova a suo agio nello sterco, è l’uccello vero e proprio del peccato; inoltre si lamenta anche spesso, poiché la mestizia del mondo procura la morte spirituale126. Nel riquadro di Cosimo Rosselli raffigurante il Discorso della montagna l’upupa sta inseguendo un cardellino. In realtà questo uccello non compare nello scritto dello Pseudo-Ugo di San Vittore, ma, all’epoca in cui videro la luce questi affreschi, esso veniva abbinato molto comunemente alla passione di Cristo. Infatti egli si nutre di cardi e, nondimeno, canta molto bene. Inoltre la chiazza rossa alla radice del suo beccuccio veniva vista come un riferimento al sangue versato da Cristo nella sua passione127. Come già abbiamo detto, lo Pseudo-Ugo di San Vittore scorge il riferimento più importante alla passione di Cristo e al martirio nel colore rosso delle zampine della colomba. Per questo motivo la nostra analisi sugli affreschi della Cappella Sistina deve badare espressamente ai piedi rossi, agli stivali ed alle calze che vi troviamo raffigurati. In questi dipinti, però, abbiamo sempre davanti a noi entrambe le colombe menzionate dal teologo parigino: quella del Salmo 68 [67] con le ali argentate e il dorso dorato, e la colomba con le ali striate di bianco e di azzurro, con il corpo di color grigio mare e con le zampine rosse, proprio come, secondo lui, essa appare in natura. Abbiamo già posto la nostra attenzione sugli stivali rossi del giovane con i calzoni bianchi e il farsetto azzurro del riquadro di Signorelli (fig. 26); aggiungiamo che, a portare stivali rossi, è anche l’ebreo con il volto di Giuliano de’ Medici nell’affresco della Vocazione di Mosè del Botticelli (fig. 6). Anche la donna accanto a lui, che lo abbraccia tenendolo sollevato, indossa scarpe rosse, e porta una calzamaglia rossa pure il cavaliere della coppia
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di ballerini nell’affresco di Rosselli che raffigura la Consegna delle tavole della Legge a Mosè sul monte Sinai (fig. 16). Inoltre il ballerino ha una piuma sul copricapo rosso, ornato da un gioiello cruciforme. La medesima calzamaglia rossa, il medesimo copricapo rosso, questa volta senza piuma, ma con lo stesso gioiello cruciforme, li ritroviamo ancora nel giovane col farsetto azzurro nell’affresco dell’Ultima cena: questi, a destra in primo piano, con la mano destra alzata invita al silenzio l’osservatore (fig. 18). Il prelato che si trova in primo piano sulla sinistra del medesimo riquadro indossa le calze rosse, e porta pure il copricapo rosso, privo però del gioiello cruciforme perché egli, tenuto lontano dal cane delle lusinghe, non accetta di sottoporsi alla fatica della lavanda dei piedi. Si può leggere così il messaggio nascosto nei colori e nelle figure: sebbene i piedi dei prelati della Chiesa siano rossi per il sangue ereditato dai martiri dei primi tempi, coloro che sono a capo della Chiesa esitano a vivere in conformità dell’abito che indossano e della dignità e degli obblighi che loro convengono. Uno dei ribelli nell’affresco della Punizione della banda di Core che, da solo, a destra dell’altare dei sacrifici, agita l’incensiere di bronzo dei discorsi privi della forza di Dio, indossa una calzamaglia rossa (fig. 19). A lui starebbe meglio la veste violetta della penitenza, vuole probabilmente dire il pittore, abbigliandolo in tal modo. Di tutti i rivoltosi, la cui rovina sembra già suggellata dall’affresco, costui è quello che più facilmente, convertendosi, potrebbe salvarsi. Di color giallo croco sono gli occhi della colomba. La colomba è vigile e si posa sempre presso una fonte per riconoscere in tempo, nell’immagine riflessa, il pericoloso sopraggiungere di un uccello rapace e mettersi così al sicuro: per questo motivo, il colore giallo croco degli occhi della colomba esprime il discernimento spirituale attento e assennato128. Dunque, il testo dello Pseudo-Ugo di San Vittore spiega e interpreta nuovamente un colore che compare spesso nell’abbigliamento dei dipinti della Cappella Sistina, finanche negli affreschi di Michelangelo. Lo stesso mantello di Giovanni, nel riquadro del Battesimo di Gesù, è di questo colore (fig. 29). Così pure le maniche della ballerina, che balla eseguendo un girotondo insieme al giovane col copricapo rosso nella danza intorno al vitello d’oro, sono di color zafferano (fig. 16). Abbiamo già osservato che il copricapo rosso del giovane è ornato di un gioiello cruciforme e che questa coppia dovrebbe rappresentare Cristo, lo sposo, e la Chiesa, la sposa. Potrebbe avere ancor più rilievo il riferimento,
qui, all’anima e al suo sposo. Infatti, nonostante l’infedeltà ostentata nell’adorazione dell’idolo del vitello d’oro che ha fatto entrare il diavolo in se stessa, l’anima viene nuovamente accolta come sposa da Dio suo sposo129. Il ballerino, vestito di un prezioso tessuto di broccato sul quale rifulgono le querce dorate dei Della Rovere e cinto con la fascia bianca della castità, è raffigurato in atteggiamento assorto e pensieroso: con questo si allude, di certo, al ruolo del papa come sposo della Chiesa in vece di Cristo. In effetti Pietro, in tutti gli affreschi a tema neotestamentario, indossa parimenti – e proprio in tutti i riquadri – il mantello giallo del discernimento spirituale saggio e avveduto. Con una veloce scorsa all’interpretazione allegorica dei principali alberi raffigurati nella Cappella Sistina acquistiamo maggiore sicurezza per una corretta lettura della teologia per immagini che sin qui abbiamo incontrato. La palma, ad esempio, secondo l’Omelia ix sul Libro dell’Esodo di Origene è segno di vittoria nel combattimento tra spirito e carne130. Scorgiamo, così, dietro la scena della circoncisione del figlio di Mosè, la palma che si leva fino al cielo (fig. 8) e, così pure, la troviamo accanto a Mosè mentre mostra al popolo le due tavole della Legge (fig. 16). La palma cresce alta e la sua cima sembra entrare nel cielo, dice lo Pseudo-Ugo di San Vittore nella sua opera De bestiis et aliis rebus, perché, insieme con il capo vi sono anche i capelli del capo, cioè i polloni più alti delle palme, figura delle anime elette131. Troviamo queste anime elette insieme all’albero di palma all’estrema sinistra del dipinto di Cosimo Rosselli che raffigura la danza intorno al vitello d’oro. Abbiamo già parlato del cedro del Libano rappresentato ovunque negli affreschi della Sistina: questo perché il suo legno, secondo l’opinione degli antichi, non marcisce. Il cipresso, invece, che pure ritorna spesso nei dipinti della Cappella Sistina, può indicare sia gli Apostoli, i martiri e gli uomini che eccellono nella virtù sia le persone eloquenti, come possiamo leggere nella Sylva Allegoriarum132. La maggior parte degli alberi dipinti nella Cappella Sistina con fusti slanciati e rami folti come boscaglia sembrerebbero quei pioppi e quei salici di cui parla Origene nella già citata Omelia ix sul Libro dell’Esodo, che «sia per la loro forza sia per il loro nome sono virgulti della castità»133. Come abbiamo visto, se ci abbandoniamo all’interpretazione delle immagini, per quanto singolari, i dipinti della Cappella Sistina cominciano a parlare. Lo Pseudo-Ugo di San Vittore volle descrivere a Raynerus
uccelli e altri oggetti, mentre i teologi del papa, tramite i pittori, sono riusciti ad annunciare, nella sua Cappella, il mistero della Chiesa. La natura della Chiesa secondo la Rivelazione dell’Antico e del Nuovo Testamento e i tituli degli affreschi delle pareti
L’iscrizione che compare sui due archi trionfali134 dell’affresco della Consegna delle chiavi del potere a Pietro (figg. 15, 22) e le dimensioni e proporzioni della Cappella135 manifestano la volontà di papa Sisto iv di costruire la Cappella Magna del suo palazzo sul modello del tempio salomonico di Gerusalemme che, in realtà, costituisce una delle più importanti prefigurazioni della Chiesa. Il dipinto originario, eseguito dal Perugino sulla parete retrostante l’altare, mostrava il papa in adorazione sotto la Madre di Dio, colei che fu concepita senza peccato, esaltata in cielo dagli angeli, onorata e venerata in terra dagli apostoli insieme a papa Sisto iv: anche Maria in questo affresco veniva indicata ai credenti come modello della Chiesa. La composizione originale di questo dipinto ci è stata tramandata in tutti i particolari da un disegno conservato nell’Albertina di Vienna e attribuito alla mano di un discepolo facente parte della bottega del Perugino. Come è già stato detto in precedenza, questo disegno non deve essere considerato un’Assunzione di Maria in cielo, ma come una presentazione dell’Immacolata nello schema iconografico dell’Assunta (fig. 5). L’insegnamento di tutta la teologia di orientamento mariologico considera Maria, concepita priva di ogni macchia di peccato, come destinata fin dall’eternità ad essere tipo della Chiesa, e precisamente, della Chiesa sposa del suo Figlio136. Il Tempio di Gerusalemme e la vocazione di Maria, immagine della Chiesa, sono le due idee su cui si basa il programma di decorazione ad affresco della Cappella Sistina. Tutti gli altri temi sono subordinati a questi temi fondamentali, persino quello del primato del papa e del ruolo di Pietro, così come esso può essere rilevato dalla lettura del Nuovo Testamento. Certo a noi oggi può apparire sorprendente ricondurre diverse immagini teologiche a un’unica e indubbiamente misteriosa verità; ma se non dessimo credito a queste interpretazioni, gli affreschi della Sistina e il loro programma rimarrebbero per noi come un libro sigillato. Abbiamo già detto che il programma mariologico, ora un po’ ridimensionato dalla perdita degli affreschi sulla parete retrostante l’altare, ha avuto origine certamente
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28. Parete nord, Domenico Ghirlandaio, La chiamata di Pietro e Andrea, e quella, immediatamente successiva, di Giovanni e Giacomo.
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29. Parete nord, Pietro Perugino, La predicazione di Giovanni Battista, il battesimo e la predicazione di GesĂš.
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La Sistina svelata
dalle idee espresse nella Expositio in Apocalypsin, opera di un anonimo autore medievale. I teologi che hanno poi elaborato ulteriormente il programma devono aver certamente consultato soprattutto le opere un tempo attribuite al teologo parigino Ugo di San Vittore e quelle di Origene. Troppi particolari degli affreschi possono essere fatti esclusivamente risalire a questi due autori. Possiamo forse addirittura supporre che tra gli ideatori del programma ci fosse il beato Amadeo. E, forse, addirittura il sacrestano della Cappella Sistina, che certamente aveva avuto voce in capitolo nell’ideazione degli affreschi, per lo meno nei confronti di Botticelli, se non addirittura di tutti i pittori della Sistina, venne a trovarsi nello stesso ruolo avuto dallo Pseudo-Ugo di San Vittore nei confronti del converso Raynerus. Tutti gli affreschi, se spiegati secondo il metodo dell’esegesi scritturistica allegorizzante, come è avvenuto qui finora, concordano pienamente con i loro tituli ora riportati alla luce: tituli formulati da un teologo su incarico papale. Certo, questi non rappresentano il programma, anzi, presuppongono il programma già formulato ed elaborato, dovendo riassumerlo nel modo più coerente possibile e ricondurlo alla forma più concisa. Ci si può immaginare pressappoco che, colui che concepì il programma abbia sempre scelto dall’Antico e dal Nuovo Testamento passi che fossero in corrispondenza reciproca e li abbia ricondotti ad un’unica idea: idea che venne poi formulata nei due tituli riportati sopra gli affreschi disposti simmetricamente l’uno di fronte all’altro. L’idea tematica che raggruppa la prima coppia di immagini tipologiche è regeneratio (rigenerazione) che sta, in entrambi i casi, al centro di ciascuno dei due tituli: observatio antique regenerationis a moise per circoncisionem (Osservanza rispettosa dell’antica rigenerazione compiuta da Mosè per mezzo della circoncisione) e institutio novae regenerationis a christo in baptismo (Istituzione della nuova rigenerazione da parte di Cristo nel battesimo). In tutti gli altri tituli l’idea tematica comune che li lega si trova posta all’inizio del titulus stesso: temptatio (tentazione), congregatio (raduno), promulgatio (promulgazione), conturbatio (turbamento) e replicatio (replica). Ognuna di queste idee tematiche superiori si collega, di volta in volta, con il concetto lex, e precisamente, con la lex scripta (Legge scritta) negli affreschi di Mosè e con la lex evangelica (Legge evangelica) negli affreschi della vita di Gesù. La lex evangelica non è, manifestamente, una lex scripta. Naturalmente, il concetto lex non è qui usato in senso giuridico,
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Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
ma in senso teologico, come nel capitolo secondo della Lettera ai Romani. La già citata Expositio tratta il concetto teologico Lex a proposito della colomba inviata tre volte da Noè dopo il diluvio (cfr. Gn 8,8-12). Infatti questi tre voli della colomba sono figura dei tre principali periodi della storia della salvezza: il tempo ante legem (prima della Legge) fino a Mosè, il tempo sub lege (sotto la Legge) da Mosè fino a Cristo e il tempo sub gratia (sotto la Grazia) a partire da Cristo137. Questa ripartizione si accorda pienamente con la distribuzione degli affreschi sulle pareti e delle nove scene principali sulla volta della Sistina. Guardando dall’altare verso l’ingresso, la parete di destra è dedicata agli avvenimenti sub lege sotto la guida di Mosè, gli affreschi della parete di sinistra sono invece dedicati ai fatti sub gratia della vita di Gesù. Michelangelo, poi, ha dipinto in aggiunta sulla volta nove avvenimenti principali dell’epoca ante legem, perfezionando così il vecchio programma138. Nel medesimo passo della Expositio l’autore dichiara, poi, espressamente che, dalla predicazione del Vangelo, la circoncisione e le molte osservanze prescritte dalla Legge non servono più a nulla139. Si parla, dunque, in questo testo della legis observatio, un concetto che ricorda la observatio antique regenerationis del primo titulus sulla parete destra della Cappella. Nella sua Omelia xi sul Libro dei Numeri Origene parla della circoncisione come di un esempio di Lex che non è più necessario osservare, il cui valore intrinseco essenziale, al contrario del Mandatum – i dieci comandamenti –, si è conservato solo fino a Cristo e che abbozza ciò che è ancora valido, ormai, al modo di una silhouette. Il Mandatum, invece, rimane valido per tutti i tempi, mentre la Lex si realizza come immagine anticipata di futuri valori e contenuti140. Il concetto regeneratio è tratto dalla Lettera a Tito, in cui si parla del battesimo come del lavacrum regenerationis (Tt 3,4). Ma i tituli della prima coppia di affreschi, ancora oggi conservata, non si accordano pienamente l’uno con l’altro. Infatti si percepisce ancora lo sforzo del teologo per trovare una formulazione che fosse breve, si adattasse ad entrambi i riquadri e fosse loro reciprocamente appropriata. Purtroppo ci mancano i tituli degli affreschi situati alla destra e alla sinistra del dipinto che si trovava sulla parete retrostante l’altare, come ci manca il terzo titulus del ciclo di Mosè. Ma a partire dai due riquadri delle Tentazioni la formulazione dei tituli appare così unitaria che essa, composta sempre secondo lo stesso schema, si differenzia ormai quasi solo più per i due diversi nomi iesus christus e moises che si trovano sulle singole cop-
pie di dipinti. Questa circostanza può anche essere valutata come un’indicazione del fatto che il programma fosse stabilito solo a partire dagli affreschi delle Tentazioni. L’idea di fondo che ha determinato la scelta e la successione degli episodi tratti dal Nuovo Testamento proviene dall’opera di Agostino De Civitate Dei (La Città di Dio). Nel libro diciottesimo leggiamo che prima il Battista, poi Gesù stesso ha predicato e invitato alla penitenza, che Gesù ha scelto i suoi discepoli chiamandoli apostoli, che tra questi ultimi vi fu un traditore. L’opera della salvezza fu completata dalla passione di Gesù, dalla sua Risurrezione e Ascensione al cielo, e dalla Pentecoste. Ora ci rendiamo meglio conto che chi elaborò il programma, ha cercato sempre il passo corrispondente dell’Antico Testamento, adoperandosi a ricondurlo sotto un unico concetto comune, che venne poi espresso nei due tituli di ogni coppia di affreschi situati l’uno di fronte all’altro. Il punto di partenza che troviamo nel libro diciottesimo de La Città di Dio e che sta alla base di ulteriori elaborazioni e sviluppi è costituito dal versetto di un salmo. Secondo il testo della Vulgata (Sal 39 [40],6) esso può venire tradotto nel modo seguente: «Ho annunziato ed ho proclamato: sono aumentati al di là di ogni numero»141. In effetti lo sguardo cade immediatamente sulle schiere di popolo radunato, così come sono state raffigurate un po’ ovunque sulle pareti della Cappella Sistina. Poche righe sopra, sempre nel libro diciottesimo de La Città di Dio, Agostino chiarisce l’idea di tempio riprendendo le parole del profeta Aggeo, il quale proclama: «La fama di questa casa nuova sarà più grande della prima» (Ag Vulg. 2,9)142. Con il tempio al quale il Signore dona la pienezza della pace, spiega Agostino, si intende la Chiesa edificata da Cristo143. Finora la critica era concorde nel vedere Mosè e Cristo raffigurati come capi di comunità religiose e come tali, quindi, predecessori del papa, rappresentante di Cristo sulla terra, tesi formulata da Sauer contro Steinmann e ripresa poi da Ettlinger144. Ma questa è una formulazione univoca che si basa solo sulla prima e del tutto superficiale impressione che si può ricavare dalla contemplazione dei dipinti della Cappella. Anche Steinmann potrebbe non aver colpito nel segno nel vedere negli affreschi allusioni elogiative ad atti politici del papa145. Qui il caso, invece, è l’opposto: pittori e teologi intendono far vedere al papa lo specchio della sua coscienza; ma questo specchio è così abilmente incorniciato da una teologia allegorizzante, che l’osservatore estraneo al linguaggio teologico medievale non sarebbe stato in grado di cogliere la critica indi-
rizzata a Sisto iv presente in queste raffigurazioni tipologiche. Critica che il papa avrà certamente capito, sebbene non potesse agire contro pittori e teologi senza compromettersi. In ogni caso papa Sisto iv morì il 12 agosto 1484, poco dopo l’ultimazione degli affreschi. Inoltre, ad avere importanza non sono solo i capi, ma anche il popolo di Dio nel suo insieme, che viene mostrato all’osservatore nei diversi episodi biblici. Il popolo è l’edificio santo, come abbiamo visto, la sposa, il cui modello ultimo è Maria Immacolata, e il cui unico sposo, Cristo, era già presente in modo figurato nella vita e nell’operare di Mosè. Analogamente a Mosè, dopo Cristo, il papa è sposo del popolo di Dio, della Chiesa, diventando, così, la chiave di volta visibile dell’edificio gerarchico. Tuttavia, solo con la venerazione di Maria il popolo di Dio trova la propria immagine riflessa: infatti, lo stesso papa Sisto iv è genuflesso, nel dipinto retrostante l’altare, al di sotto di Maria, elevata in cielo, circondata dagli angeli in festa, destinata ad essere la Madre di Dio, la sposa senza macchia. Il fatto che non un solo titulus si rivolga direttamente a Maria, ma sempre e solo al popolo, rappresenterebbe una obiezione importante alla nostra interpretazione e alla nostra critica verso l’interpretazione degli affreschi accettata finora. I tituli parlano solo del popolo che ha ricevuto la Legge di Mosè, prima, e la Legge del Vangelo, poi. Neppure Pietro viene menzionato nei tituli, ancor meno il papato. Ma il nome Immaculata e la dottrina dell’Immacolata Concezione di Maria, che vede la Madre di Dio esclusa dal peccato originale di Adamo fin dal primo istante della sua esistenza terrena, non poteva ancora apparire come iscrizione nella Cappella papale, poiché all’epoca questa dottrina era ancora discussa dai teologi. In effetti il dipinto del Perugino che si trovava dietro l’altare, fin nelle prime testimonianze, era considerato un’Assunta e non un’Immacolata. Il motivo dello sposo di sangue crea un nesso tra la figura del papa e Cristo. Infatti, come Cristo, ogni papa all’epoca dei primi martiri diventò sposo di sangue della Chiesa. Il tema si intreccia all’interpretazione dello Pseudo-Ugo di San Vittore, che vedeva un richiamo ai martiri della Chiesa – la sposa – nelle zampette rosse della colomba. Vengono qui delineati entrambi i motivi: il tema della Chiesa come sposa, anche dei suoi stessi pastori, e la relazione sposa-sposo tra il popolo e il suo pastore supremo, il papa in carica. Ora, bisogna però dire che questa struttura divina appartiene alla Legge. Infatti la Legge è una legge strutturale perché regolamenta la modalità costruttiva del tempio fatto di pietre vive: la Legge determi-
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na le specifiche e corrette relazioni tra i capi spirituali e il popolo ad essi affidato. Il popolo deve seguire i suoi capi nella terra promessa e non ribellarsi ad essi come Core, Datan e Abiram. Coloro che guidano nella Chiesa devono essere disposti a compiere il servizio della lavanda dei piedi a coloro che sono loro sottomessi e l’ingiunzione a compierlo è illustrata nel riquadro dell’Ultima cena. Con la replicatio della Legge scritta data da Mosè al popolo venne proclamato il comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo, mentre con la replicatio della Legge del Vangelo Cristo esorta i suoi discepoli all’amore reciproco, amando come lui li ha amati fino alla morte in croce. Alla Legge che impartisce le norme per l’edificazione e la strutturazione del popolo di Dio appartiene anche la trasmissione dell’autorità, come Mosè la trasmise a Giosuè e come Gesù stesso la trasmise a Pietro. Il raffronto tipologico di questa scena mette in luce un altro criterio compositivo degli affreschi della Cappella: i temi e i dettagli, cioè, non trovano una reciproca corrispondenza solo con i riquadri dipinti l’uno di fronte all’altro, ma anche con quelli disposti in linea diagonale sulla parete opposta. Infatti Mosè, elevato sulla cattedra, solo con la replicatio della Legge scritta può essere alla pari del Cristo del discorso della montagna, vale a dire, del latore della lex evangelica. La promulgatio della Legge scritta, così come viene illustrata nel riquadro della Sistina, verrebbe quasi ostacolata dal peccato del popolo, se non fosse già presente, in modo allusivo, lo sposo, pronto a fare un girotondo con la sposa. La promulgatio della lex evangelica ha, dunque, possibilità di successo, poiché Cristo stesso purifica dalla lebbra del peccato e in quanto è l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo e insegna con autorevolezza. Il corrispondente affresco di Cosimo Rosselli raffigura non solo il latore della Legge nel discorso della montagna, ma anche nella guarigione del lebbroso. Possiamo inoltre scoprire un’allusione all’Agnello di Dio nel fanciullo che gioca con l’agnellino, in primo piano (fig. 17). Mosè era pronto alla temptatio ed ha perciò scacciato dal pozzo i falsi pastori, poiché Cristo, vincitore delle tentazioni diaboliche, gli ha concesso questa saldezza. La conturbatio di Gesù è nel rifiuto da parte dei suoi, rappresentato dai costruttori che vorrebbero lapidarlo, vorrebbero cioè impedire la costruzione del vero tempio fatto di pietre vive. La conturbatio di Mosè va ravvisata nel rifiuto del popolo che non intende seguirlo nella terra promessa. Allo stesso Mosè, in seguito alla conturbatio, non è però permesso di entrare nella terra promes-
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sa da Dio, ma solo di vederla da un alto monte prima di morire. Anche Cristo muore nel momento in cui viene innalzato, solo dopo sarebbero seguite la resurrectio et ascensio del latore della Legge evangelica, proprio come possiamo leggere nell’ultimo titulus conservato e recentemente scoperto. La replicatio della Legge evangelica viene illustrata nel riquadro di Cosimo Rosselli con molti esempi: troviamo riferimenti infatti nella lavanda dei piedi, nella contemplazione delle cose celesti, come già abbiamo constatato, e, aggiungiamo, nella tacita accettazione del tradimento di Giuda da parte di Gesù. Le tre vedute oltre le finestre si riferiscono al contenuto della nuova Legge: rappresentano le frasi «Padre, non la mia volontà si compia, ma la tua» e «Riponi la tua spada nel fodero» e le parole sulla croce che con queste tre prospettive devono essere fatte conoscere all’osservatore. L’ultima veduta, che abbiamo già esaminato, contiene l’unico riferimento in modo esplicito a Maria, la sposa e la madre della Chiesa. Certo, le molte ghiande dorate che pendono dal soffitto della sala dell’Ultima cena potrebbero aver lusingato papa Sisto iv, ma l’osservatore avrebbe dovuto cogliere la vera tematica di questo affresco, in cui viene ribadito il vero significato della Legge evangelica, in contrasto con l’effettivo agire del papa. L’affresco a riscontro di quello della replicatio della Legge scritta, con la figura nuda di Levi, richiama forse sia il mancato possesso della Terra Santa regolato secondo la Legge divina, che l’amore casto del clero nei confronti della sposa, la Chiesa, il popolo di Dio radunato. Anche in questo affresco di Signorelli si può evitare di scorgere la critica alla politica di potenza del papa fondata su sentimenti e atteggiamenti mondani solo se non si vuole considerare la terza tentazione di Gesù da parte del diavolo dipinta da Botticelli, come espressione dello schieramento di pittori e teologi contro la politica papale. Anche la congregatio del popolo di Dio è possibile dopo che, come nel caso di Mosè, ha già attraversato il Mar Rosso e abbandonato l’Egitto, e, come nel caso di Gesù, dopo che i discepoli, una volta chiamati, abbiano tutto dietro di sé, vale a dire le loro reti, barche e famiglie. Per questo motivo il falco, che induce alla mortificazione, dipinto in alto nell’ultima scena raffigurata dal Ghirlandaio, sta cacciando un grasso uccello acquatico (fig. 28) e, per lo stesso motivo, un uomo, in primo piano sulla destra, sta affogando nel Mar Rosso di Cosimo Rosselli mentre stringe nel pugno destro delle monete d’argento (figg. 9, 30).
30. Biagio d’Antonio Tucci (già attribuito a Cosimo Rosselli), Il passaggio del Mar Rosso, particolare degli egiziani sommersi dalle onde, cavalli e cavalieri; gli uomini sono dominati dai loro demoni.
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I dipinti murali della Cappella Sistina possono venire letti in modo appropriato solo se considerati con i loro tituli. Dunque, il nostro metodo che ha preso le mosse dai dettagli apparentemente discordanti con i racconti dell’Antico e del Nuovo Testamento e che ha portato a ripetere sillabando per apprendere il linguaggio biblico allegorizzante applicato negli affreschi della Sistina, si mostra valido dal momento che le convinzioni raggiunte e i risultati ottenuti concordano pienamente con le formulazioni dei tituli latini sopra i riquadri. Il nostro metodo consiste nel raffronto che va applicato trasversalmente. Abbiamo innanzitutto messo a confronto le particolarità dei dipinti con passi tratti dagli scritti dei Padri della Chiesa e dei teologi medievali; poi abbiamo raffrontato, l’uno con l’altro, i particolari analoghi tra loro, e questo è stato fatto non solo sui singoli riquadri, ma sull’intero programma decorativo delle pareti della Sistina, alla ricerca delle reciproche relazioni esistenti. I risultati ottenuti sono sorprendenti e ci costringono a rimettere ordine in merito alle opinioni formulate finora. Infatti, i pittori ed i teologi dell’epoca di Sisto iv possedevano un linguaggio figurato che ha definito i dipinti murali della Cappella fin nei minimi particolari a partire dal contenuto e non dalla forma. Persino i colori dell’abbigliamento non sono privi di significato. Noi non potremo fare a meno, dopo esserci impossessati di questo linguaggio più precisamente possibile nel suo vocabolario e nella sua grammatica, di commentare e descrivere in modo nuovo tutti gli affreschi delle pareti della Cappella. Si è potuto portare a termine questo lavoro solo nelle sue linee principali. Può darsi che l’uno o l’altro dettaglio debba ancora essere definito, una volta che avremo una conoscenza più profonda del vocabolario espresso nelle immagini. Ma, nel complesso, è possibile che il programma della Cappella sia stato preso qui in considerazione e affrontato nel modo corretto. I pittori hanno lusingato il papa molto meno di quanto si sia ritenuto finora. La musica suonata dai colori degli affreschi della Sistina risuona di timbri decisamente critici nei confronti del papa regnante, anzi, come abbiamo già constatato, l’affresco del Botticelli della Purificazione del lebbroso è una predica penitenziale adatta alla Quaresima. Se i teologi e i pittori hanno voluto alludere agli avvenimenti della loro epoca, allora lo hanno fatto non per celebrare il papa Sisto iv, ma per mettergli davanti uno specchio quale invito alla penitenza e al cambiamento di rotta. Si dovrebbe supporre che questo abbia avuto inizio coi pittori del gruppo fiorentino, dal momento che la
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città sull’Arno e i suoi cittadini, al più tardi a partire dalla congiura dei Pazzi e dall’assassinio di Giuliano de’ Medici, si sono trovati in tensione con papa Sisto iv e la famiglia Della Rovere. Solo l’affresco del Perugino della Consegna delle chiavi e quello del Battesimo di Gesù potrebbero essere del tutto estranei alla critica nei confronti del papato e del clero. Il riquadro della Circoncisione del figlio di Mosè, pure del Perugino, appartiene alla categoria delle prediche quaresimali che, come abbiamo mostrato sopra, risale a Ugo di San Vittore. Il concerto di colori, con i suoi innumerevoli motivi, primo fra tutti quello delle relazioni sponsali tra Cristo e la Chiesa, era certamente noto a Michelangelo o, per lo meno, gli è stato portato a conoscenza, allorché, nel 1508, per incarico di papa Giulio ii, si accinse a decorare la volta della Sistina con affreschi densi di figure: di questo ci occuperemo nella seconda parte della nostra ricerca. Attraverso il confronto tra scene dell’Antico e del Nuovo Testamento da mettere in relazione tra loro, viene reso noto all’osservatore il misterioso e profondo senso della Rivelazione: ciò che Cristo ha fatto e ha detto diventa pienamente comprensibile nel compimento degli eventi dell’Antico Testamento. E questi ultimi risultano leggibili solo se messi in relazione con le parole e le azioni compiute da Cristo. Esse rappresentano rimandi alla pienezza della Rivelazione presente nel mistero della Chiesa fondata sulla Croce e sulla Risurrezione. Maria, l’Immacolata Concezione, ne è il modello: infatti essa è nello stesso tempo madre e vergine sposa. Cristo, lo sposo, è presente nelle guide del popolo, in coloro che insegnano e nei pastori. Maria è figura vera del popolo. Sebbene il Giudizio universale di Michelangelo abbia allontanato l’Immacolata dalla sua posizione centrale, anche i suoi affreschi sono improntati, fin nella composizione del Giudizio universale, sul medesimo mistero dell’incontro della Chiesa con Cristo, lo sposo, dalla creazione di Eva, la madre di tutti i viventi, fino alla nuova Eva. Questa, spaventata dal giudizio dello sposo, si volta verso le travi che, nelle mani della figura collocata alla sua destra, hanno assunto la forma di croce. Nella seconda parte della nostra ricerca impareremo a guardare con occhi nuovi anche gli affreschi di Michelangelo nella Sistina partendo dalle nuove conoscenze acquisite. L’impetuoso e grande toscano si sente vincolato alla teologia biblica allegorizzante dei Padri e dei teologi medievali più di quanto sia stato ammesso finora. Tenendo presente questo contesto potremo riconoscere in modo nuovo il suo personale contributo, che va letto non solo in chiave artistica ma anche teologico-figurativa.
Parte seconda GLI AFFRESCHI DI MICHELANGELO BUONARROTI ESEGUITI AL TEMPO DI GIULIO II
Gli affreschi di Michelangelo
Gli antenati di Gesù e la Concordia Novi ac Veteris Testamenti di Gioacchino da Fiore Il programma iconografico svolto sulle pareti della Cappella Sistina, come già abbiamo esposto nella prima parte di questo nostro saggio1, risale, in ultima analisi, ad un sermone che lo zio di papa Giulio ii, Francesco della Rovere, scrisse nel 1448 per il vescovo di Padova, Fantino Dandolo2. Se mettessimo in relazione questo discorso, tenuto dal vescovo l’8 dicembre dello stesso anno, con gli affreschi della Cappella Sistina, eseguiti da Michelangelo negli anni 1508-1512 sotto il pontificato di papa Giulio ii, emergerebbero innumerevoli dettagli concordanti. Saremmo costretti a concludere che l’Orazione della Immacolata ha addirittura costituito il punto di partenza per il programma di questi dipinti. In effetti tutti i personaggi menzionati sono raffigurati sulle pareti e specialmente sulla volta della Cappella Sistina. Vi troviamo, infatti, i profeti Isaia, Daniele, Ezechiele, Geremia ed Elia espressamente messi in relazione con Maria e l’Immacolata Concezione3. Dagli scritti dei primi tre profeti vengono riportati passi che confermano l’autenticità di questo dogma. Altre figure che, secondo Francesco della Rovere, dovrebbero rinviare all’Immacolata Concezione sono Eva, Noè, Sara, Rebecca, Giacobbe, Rachele, Giuseppe, Davide, Mosè, Gedeone, Giosuè, Giuditta ed Ester, figure che si ritrovano, quasi tutte, nei dipinti della Cappella Sistina. Prendiamo inoltre in considerazione gli avvenimenti ricordati nel sermone: la creazione della luce, la creazione di Eva, il peccato originale, la costruzione dell’arca di Noè e la distruzione dell’altare di Baal da parte di Gedeone. Tutti questi episodi vengono presentati come eventi di rilievo o come vicende degne di essere raffigurate, per lo meno, nei tondi sulla volta della Cappella. A questo proposito, nello scritto si afferma: «Dio in principio creò la luce pura in vista della concezione pura di Maria; Maria ha dovuto essere concepita immacolata, altrimenti Eva, che è stata certo creata come tutta pura, avrebbe avuto in anticipo qualcosa in più prima che lo avesse Maria; ed, infine, Maria è l’arca assolutamente impenetrabile alle acque del peccato». Sono solo due gli episodi dell’Antico Testamento, riportati nel discorso del teologo a sostegno della dottrina dell’Immacolata Concezione di Maria, che, direttamente o indirettamente, non trovano alcun nesso con gli affreschi della Cappella papale. Si tratta di avvenimenti concernenti la figura di Gedeone: il racconto della rugiada
sul vello di pecora e la distruzione della città di Ai. Per il resto, tutti gli avvenimenti tratti dalla Sacra Scrittura e menzionati nell’Orazione della Immacolata sono in relazione con gli affreschi della Cappella. La decorazione della volta della Sistina si articola in nove riquadri: di questi, ben cinque concordano con altrettanti episodi ricordati nel sermone. Dei sette Profeti scelti per decorare la volta, ben quattro vengono citati in quel testo; allo stesso modo, sono menzionati due tra i personaggi e gli episodi raffigurati nei quattro pennacchi. L’Orazione della Immacolata fa riferimento, dunque, a ben più della metà dei temi illustrati da Michelangelo. Se i dipinti della volta sono la realizzazione di un programma elaborato sul piano ideale, è pur vero che si è dovuto tenere conto dei dati architettonici, quali la bombatura e le sue dimensioni. La proporzione dell’intera superficie della volta corrisponde alle dimensioni interne del tempio di Salomone a Gerusalemme e presenta, quindi, una lunghezza tre volte superiore alla larghezza. Lo spazio a disposizione dei dipinti poteva, perciò, venire facilmente articolato in tre grandi settori, ognuno dei quali era, a sua volta, suddiviso in tre riquadri destinati alle scene principali. I quattro spicchi posti ai due estremi della bombatura della volta, al di sopra delle ultime finestre sui lati lunghi, originano quattro pennacchi triangolari. Anche i rimanenti quattro spicchi sui due lati più lunghi della Cappella, che penetrano nell’imponente volta a botte perpendicolarmente al suo asse longitudinale, generano otto settori triangolari curvati sulla volta, o vele. Dal momento che tutti questi settori triangolari, tanto i pennacchi che le vele, con i loro bordi curvi disegnano linee di colmo prominenti rispetto al resto della volta, si potrebbero considerare composizioni a sé stanti, così come di fatto sono. Gli affreschi sulla rimanente area della volta hanno dovuto, per motivi estetici, tenere conto delle punte delle vele e delle loro linee di colmo oblique. La ripartizione dei riquadri di forma rettangolare seguì questo principio: ciascuno di quelli più grandi si trova esattamente chiuso tra le punte degli spicchi, e ognuno di quelli più piccoli si trova sempre tra due spicchi della volta. Finti archi di volta dipinti sul soffitto separano, poi, l’uno dall’altro questi riquadri rettangolari. Tutti i nove riquadri vengono riuniti, tramite un finto cornicione, o cornice, in un unico grande rettangolo longitudinale. Agli archi di volta dipinti corrispondono finti pilastri di basamento, sui quali quelli sembrano poggiare. Questi basamenti si intersecano con le linee di colmo oblique degli spicchi, mentre tra due spicchi sono abbozzati, di volta
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La Sistina svelata
in volta, seggi di marmo sui quali siedono Profeti e Sibille. Sui pilastri Michelangelo ha dipinto i suoi splendidi ignudi, precisamente in dieci coppie, seduti al di sopra del punto in cui il cornicione è spezzato. Ha posto, poi, tra ognuna di queste coppie, un tondo in bronzo. Inoltre, in una sequenza alternante, ai cinque Profeti raffigurati sulla parete longitudinale corrisponde, per ognuno, una Sibilla; di queste Sibille, però, non viene fatta menzione nella succitata Orazione della Immacolata di Francesco della Rovere. Occorre, probabilmente, considerare, come ulteriore principio del programma generale, l’accostamento del sesso maschile a quello femminile. La supposizione è convalidata dai due fanciulli che sono raffigurati come finte sculture di Atlanti in marmo. Questi, alla base dei pilastri, sotto i punti in cui il cornicione è spezzato, sono sempre coppie formate da un fanciullo e da una fanciulla. Unica eccezione è il trono di Isaia, che mostra in questo luogo solo quattro fanciulle. Possiamo cogliere il medesimo principio dell’accostamento dei sessi nei quattro pennacchi a sostegno della volta. Se le due figure femminili di Giuditta ed Ester, secondo il sermone sull’Immacolata Concezione, possono essere accostate alla Madre di Dio, allora trovano un nesso con Gesù, suo Figlio, anche negli episodi dipinti negli altri due pennacchi: Davide che stacca la testa a Golia e gli Israeliti salvati nel deserto dalla morte per il tramite del serpente di bronzo. L’immagine di Maria offerta dalla tradizione teologica come una sposa immacolata, in quanto modello della Chiesa, trova ancora più forza se si considera suo Figlio come sposo di essa. Questa relazione sposa-sposo può avere in sé, per l’uomo moderno, qualcosa di sorprendente. Fu infatti Gioacchino da Fiore che già poco prima del 1200 pose la questione nella sua opera Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Quest’opera è stata recentemente messa in correlazione con il programma degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina4: «Forse il mistero della sposa ci dà un motivo per riflettere sul perché Cristo è il figlio della Vergine-Madre. Io non voglio con questo costringerti a lambiccarti il cervello: Cristo è, nello stesso tempo, figlio e sposo. In fondo Abramo è figura del Padre, Isacco quella del Figlio, lo sposo di Rebecca, ma Rebecca stessa è figura della Chiesa madre. Le cose sono diverse per quanto riguarda il mistero di Adamo. Adamo... è figura del Padre, Eva della Chiesa, Abele di Cristo. Se però Adamo ed Eva vengono considerati a sé, soli, allora essi designano Cristo e la
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Gli affreschi di Michelangelo
Chiesa. La Chiesa è, dunque, madre di Cristo e, nondimeno, sposa di Cristo»5. Nella relazione sposa-sposo, che trova un’eco molteplice in tutti gli affreschi della volta della Sistina, è possibile, dunque, scorgere uno dei principi integrativi applicato nella strutturazione del programma degli affreschi stessi. Abbiamo qui, perciò, un’ulteriore dimostrazione dell’influsso determinante che Gioacchino da Fiore esercitò sul programma degli affreschi della Cappella Sistina con la sua opera Concordia Novi ac Veteris Testamenti. L’opera non può assolutamente essere annoverata tra i libri ortodossi della teologia cattolica, dal momento che il suo autore, già morto, venne condannato nel Concilio Lateranense iv nel 1215 a causa della sua presunta falsa dottrina sulla Trinità. Teniamo a mente che la Concordia venne scritta dal visionario abate cistercense calabrese proprio su incarico di un papa, e cioè Clemente iii (1187-1191)6. La Concordia deve essere stata un’importante fonte d’i spirazione perlomeno per un affresco del tempo di papa Sisto iv, vale a dire il riquadro della temptatio moisi, del Botticelli. Infatti in Gioacchino da Fiore possiamo leggere: «Mosè... rappresenta Cristo. Dopo aver lasciato l’Egitto, egli va nel deserto e, proprio come viene testimoniato, dopo aver colpito a morte l’egiziano: (e) questo va messo in relazione con la passione del Dio incarnato e con l’ora della sua morte nella quale egli passa da questo mondo al Padre»7. È sorprendente che proprio il passo citato della Concordia segua quasi immediatamente quello riportato poco sopra; occorre tuttavia richiamare alla memoria che Botticelli sul suo dipinto murale, come abbiamo esposto nella prima parte del nostro lavoro, ha raffigurato la scena in cui Mosè colpisce a morte l’egiziano, e quella successiva, che vede Mosè nel deserto portare sulle spalle un bastone, come Cristo porta la croce8. Non rimane che concludere che Botticelli o, perlomeno, il suo consulente di teologia conosceva la Concordia. Ma, dal momento che gli altri affreschi eseguiti all’epoca di papa Sisto iv non sembrano rivelare paralleli con i passi della Concordia, non bisogna attribuire eccessiva notorietà a tale scritto nell’ambiente dei pittori e dei loro consulenti dell’epoca. Le circostanze cambiano sostanzialmente con i dipinti di Michelangelo. Nessuno come Michelangelo, in tutta l’arte cristiana figurativa, ha mai rappresentato in modo così ampio e particolareggiato gli antenati di Gesù, stirpe per stirpe. In alcun testo della letteratura cristiana la successione genealogica degli antenati di Gesù gioca un
ruolo così importante come nella Concordia di Gioacchino da Fiore. È merito di Malcom Bull l’aver fatto notare questo nesso, alcuni anni fa, in una sua pubblicazione9. Le sue osservazioni e riflessioni devono, però, essere ancora completate. Lo studioso inglese vorrebbe vedere l’influsso delle opere di Gioacchino da Fiore nella specie e nel modo in cui è stato composto, nel suo insieme, il programma iconografico della volta della Sistina. Egli pensa infatti, in maniera certo semplicistica e ingenua, che non sia necessaria alcuna nuova interpretazione degli affreschi perché ciò che è raffigurato sulla volta è quite clear, ad eccezione di piccoli dettagli sulla cui interpretazione si può essere di opinioni diverse10. Bull è stato colpito, soprattutto, dalle figure schematiche che illustrano in uno schizzo le idee di Gioacchino. Queste, nel loro genere, possono aver fornito la base per raffigurazioni analoghe, che mostrerebbero l’impianto compositivo del programma di affreschi. Tra i teologi vissuti a Roma all’epoca dell’esecuzione dei dipinti della Sistina fu soprattutto Pietro Colonna ad essere interessato alle idee di Gioacchino: infatti, nei suoi scritti si richiama frequentemente all’abate calabrese11. Potrebbe, allora, essere stato lui a dirigere l’attenzione di Michelangelo sulle idee di Gioacchino, a meno che l’artista fiorentino non le avesse già conosciute dalle prediche del Savonarola. Gioacchino suddivide la storia in sei epoche e ripartisce gli antenati di Gesù in base alla loro relazione, da lui immaginata, con queste sei epoche12. Così gli antenati di Gesù sono stati dipinti nei sei spicchi delle arcate della volta e nelle arcate della volta ad essi relative. Come nel Vangelo di Matteo, nel programma degli affreschi non figurano nella sequenza delle generazioni Acazia, Ioas e Amasia. Inoltre, nella Concordia, sei antenati di Gesù vengono messi in relazione, di volta in volta, con l’apertura di uno dei sette sigilli dell’Apocalisse di Giovanni. Si delineano così per Gioacchino sette età. Nelle sei arcate della Cappella Sistina si trovano, invece, ripartiti con sequenza regolare, sei antenati di Gesù, che rappresentano le prime sei epoche. La serie inizia con Giacobbe, Giuda e Fares, raffigurati nelle due lunette a coronamento della parete retrostante l’altare prima che Michelangelo stesso intervenisse. L’artista le staccò guadagnando più spazio per il suo gigantesco Giudizio universale. Fortunatamente traccia di entrambe le composizioni di Michelangelo, ora perdute, è conservata in incisioni posteriori13. Da queste sappiamo che sul riquadro con iscrizione della lunetta di sini-
stra si poteva leggere abraam isaac iacob iudas, mentre su quello relativo alla sezione ad arco di destra stava scritto phares esrom aram. Se un tempo si potevano vedere le prime cinque figure della serie di generazioni sulle lunette della parete retrostante l’altare, oggi si conserva il nome dell’ultima tra le prime sei che, secondo Gioacchino, sono in correlazione con l’apertura del primo sigillo dell’Apocalisse. Questo nome ritorna anche nella lunetta della prima arcata a partire dalla parete retrostante l’altare. Lì, infatti, sopra la finestra di destra, si legge l’unico nome aminadab. L’ordine di lettura delle generazioni procede dalla parete retrostante l’altare per passare, poi, sulla parete con le scene della Vita di Mosè. Da lì il filo del discorso continua sulla parete di fronte, sulla quale è raffigurato il Battesimo di Gesù. Nella lunetta delle generazioni, collocata al di sopra di quest’ultimo riquadro, si legge il nome di naasson: questi è il primo della successiva serie di sei figure che vengono associate da Gioacchino all’apertura del secondo sigillo. Naasson fu uno dei comandanti dei figli di Giuda nei giorni di Mosè, al tempo in cui il popolo uscì dall’Egitto. Nella lunetta sopra l’affresco di Botticelli con l’Uscita dall’Egitto, sulla sinistra, si possono leggere sul riquadro i nomi degli antenati delle tre successive generazioni: salmon booz obeth. Insieme con Naasson, che sta di fronte, e con Iesse e Davide, che le seguono, queste sono le sei persone raggruppate e messe in relazione da Gioacchino con l’apertura del secondo sigillo dell’Apocalisse. Ci troviamo ora nella seconda arcata della Cappella. Sulla lunetta della parete con scene neotestamentarie compaiono tre nomi: iesse david salomon. Quest’ultimo è tra i capostipiti che Gioacchino da Fiore associa all’apertura del terzo sigillo. I restanti cinque nomi del gruppo si trovano tutti nell’area della terza arcata. Sulla parete con scene veterotestamentarie si legge roboam abias, mentre su quella di fronte asa iosaphat ioram. Diventa quindi molto evidente che il pittore si è premurato di adattare alle condizioni architettoniche della Cappella Sistina la ripartizione della serie di generazioni, seguendo le indicazioni di Gioacchino. Acazia, Ioas e Amasia, che avrebbero potuto trovare il loro posto nella quarta arcata della Cappella, come abbiamo già spiegato sopra, sono stati invece omessi. La serie continua con il riquadro, collocato nella lunetta sopra l’affresco della Danza attorno al vitello d’oro: su di esso leggiamo ozias ioatham achaz. Ora, teniamo presente che la ripartizione della Cappella sul modello del tempio di Gerusalemme prevedeva il Santo dei santi e il Santua-
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rio. Questo riquadro, situato nella quarta arcata, si trovava, quindi, a ridosso della cancellata che, occupando qui la sua posizione originaria, separava le due aree. Solo più tardi, in seguito alla discussione sulla conservazione o distruzione dell’affresco del Giudizio universale, questa inferriata venne spostata all’ingresso, cosicché l’area riservata al Santo dei santi fosse ampliata, mentre quella del Santuario fosse ridotta. Perciò, proprio a ridosso del Santo dei santi, quella zona della Cappella destinata esclusivamente ai chierici, trovavano posto gli ultimi tre antenati di Gesù sopracitati. Malcom Bull ha già richiamato l’attenzione sul ruolo di Ozia nel complesso delle generazioni previsto da Gioacchino da Fiore e sulla sua collocazione coerente al programma iconografico14. Ozia è raffigurato con la moglie e il figlio nello spicchio la cui punta sembra indicare il dipinto del Peccato originale15. Giustamente lo studioso cita in proposito la Concordia, tuttavia omette i passi più significativi, richiamando l’attenzione solo sull’appello alla cacciata degli Ebrei dalla Terra Santa. Quanto segue riporta una sua citazione: «Il fatto che, tanto Adamo dal Paradiso, quanto Ozia dal tempio vengano cacciati a causa dei loro peccati, significa che, al di fuori di quanto abbiamo detto del Signore Gesù il quale è stato annoverato tra gli empi per la somiglianza della carne del peccato, il popolo ebraico doveva essere cacciato dalla Terra Santa a causa del suo crimine»16. Ma qui, come suggerisce la traduzione di Bull, non si parla di questo appello. Si tratta, infatti, solo di un richiamo al pensiero di Gioacchino da Fiore, le cui predizioni espresse negli avvenimenti illustrati si sono nel frattempo adempiute. Se, dunque, Michelangelo ha assegnato ad Ozia il suo posto nell’area che precede il Santo dei santi, chiunque avesse conosciuto la Concordia avrebbe, invece, colto un ironico ammonimento al papa e ai cardinali che reclamavano il proprio posto nel Santo dei santi. Dato che, secondo Gioacchino, come avremo ancora modo di vedere, tutti gli avvenimenti veterotestamentari si ripetono nel tempo futuro, gli affreschi sembravano dire al papa e ai cardinali: «Fate attenzione che non avvenga anche a voi come un tempo è avvenuto ad Ozia». Nel sistema previsto da Gioacchino da Fiore, Ozia si pone tra Adamo e Cristo. Con Adamo inizia l’ordo coniugatorum (ordine degli sposati), con lui è cioè iniziato (initiatus) il primo dei tre ordines esistenti in base al triplice schema elaborato dall’abate calabrese. Dopo questo egli indica l’ordo clericorum (ordine dei chierici) e, al terzo posto, l’ordo monachorum (ordine dei monaci). I tre ordines estrinsecano tre livelli che Gioacchino distingue con
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i concetti initiatus, confirmatus e consumatus. Ozia ha dato inizio (initiatum) all’ordo clericorum e, con questo, al Nuovo Testamento. Con Cristo l’ordo clericorum e il Nuovo Testamento hanno ricevuto la loro piena forza operativa (confirmatum)17. Per quanto riguarda la successione delle generazioni, Ozia, avendo ventuno generazioni che lo precedono e altrettante che lo seguono, si trova esattamente al centro tra Giacobbe e Cristo. Ciò corrisponde, d’altro canto, alla sua posizione nel complesso degli affreschi della Cappella. A stento si sarebbe potuta trovare una posizione migliore per questa figura nella successione dei dipinti della Cappella Sistina, data la sua posizione centrale in un complesso di relazioni nel sistema previsto da Gioacchino da Fiore. Nella quarta arcata, dal lato della parete con le scene neotestamentarie, in relazione con l’apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse, sono dipinti gli antenati di Cristo successivi ad Ozia, presentati come ezechias manasses amon. Nella quinta arcata, sempre sulla medesima parete neotestamentaria, sono dipinti gli antenati di Gesù che l’iscrizione indica come iosias iechonias salathiel. Come anche Bull aveva giustamente colto18, l’ultimo, Salatiel, è per Gioacchino particolarmente importante perché padre di Zorobabele; questo primato non è dovuto solo alla relazione costruita dalla Concordia con Sem, ma soprattutto perché Zorobabele fu il costruttore del secondo tempio di Gerusalemme. Ora, esattamente in linea verticale, più in basso, sotto il riquadro col nome di Salathiel, troviamo l’affresco del Perugino con il tempio di Gerusalemme. Zorobabele dovrebbe essere uno dei due fanciulli raffigurati nella lunetta relativa a questo riquadro, il cui nome può essere letto sul riquadro della parete opposta insieme ad abiud eliachim. Insieme a questi ultimi, Zorobabele viene messo in relazione con l’apertura del sesto sigillo dell’Apocalisse da Gioacchino. Nella sesta ed ultima arcata Michelangelo riporta per ciascuna delle lunette delle pareti laterali due soli nomi, precisamente azor sadoch, sulla parete neotestamentaria, e achim eliud, sulla parete dell’Antico Testamento. L’arco di tempo relativo all’apertura del sesto sigillo si conclude con Achim. Solo Eliud, sebbene raffigurato nella sesta arcata, appartiene già all’epoca che, secondo la Concordia di Gioacchino, va associata all’apertura del settimo sigillo. A questo periodo appartengono ancora altre persone che vengono menzionate sui due tituli della parete d’ingresso: eleazar mathan iacob ioseph. Dalla parete d’ingresso Michelangelo ha iniziato a dipingere l’ampio programma degli affreschi, in senso in-
verso all’ordine delle generazioni raffigurate. Infatti, come avremo ancora modo di trattare più avanti, dopo aver dipinto il pennacchio triangolare della volta con la scena in cui Davide stacca la testa a Golia, si dedicò probabilmente alla lunetta sottostante che, in base all’iscrizione, presenta le figure di iacob e ioseph. Per questioni tecniche, dato che i colori che gocciolavano dalla volta avrebbero potuto imbrattare gli affreschi delle pareti, si suppone che l’artista abbia prima dipinto tutta la volta soprastante, il che significa qui la figura del profeta Zaccaria, il pennacchio con Giuditta e la scena dell’Ebbrezza di Noè, e che solo in seguito si sia dedicato alle sottostanti lunette delle pareti19. Infatti i colori delle lunette e degli spicchi, al contrario dei riquadri della volta, sono stati stesi direttamente sull’intonaco a calce con pennellate veloci, alla maniera di un abbozzo, senza alcun cartone preparatorio. Seguendo il medesimo ordine scelto da Michelangelo, noi, facendo qualche passo indietro nel tempo, ci accingiamo a parlare dei progenitori di Gesù, che solo adesso possono nuovamente essere apprezzati nella loro cromia originaria. Se cerchiamo di identificare correttamente i singoli personaggi raffigurati, ci imbattiamo in non poche difficoltà. Infatti, così come è avvenuto abitualmente anche in tempi recenti, le lunette e i pennacchi della volta non sembrano svelarsi pienamente all’osservatore. Iacob e Ioseph (supplantans e augmentum o crescens: chi soppianta e chi aumenta o fa crescere) Si ritiene comunemente che la lunetta situata sul lato destro della parete d’ingresso raffiguri Giacobbe, il padre di Giuseppe, a sua volta padre putativo di Gesù20 (fig. 31). Giuseppe sarebbe allora raffigurato sull’estrema sinistra con il bambino. Ma questo significherebbe che la figura femminile sulla destra, che copre quasi del tutto Giuseppe, rappresenterebbe Maria, la madre di Gesù. In tale contesto i due fanciulli potrebbero essere solo Giovanni Battista e Gesù: quello più grande, seduto sul ginocchio della figura femminile sarebbe il Battista, mentre il più piccolo, immediatamente dietro a Giuseppe, sarebbe Gesù. Si è mai raffigurata Maria con un’acconciatura tripartita così singolare come quella portata dalla donna che, nell’affresco, siede davanti a Giuseppe (fig. 32)? Salta inoltre agli occhi come le due donne, quella di Giacobbe e quella di Giuseppe, formino una coppia, alla destra
e alla sinistra del cartiglio relativo alla lunetta. In realtà si è inteso qui raffigurare il capostipite Giacobbe, che si trova all’inizio della sequenza delle generazioni, e le sue due mogli, Lia e Rachele. È questa l’unica lettura possibile della lunetta. Il fanciullo all’estrema sinistra, accanto a Giacobbe, può essere solo Giuda, figura con la quale prosegue la sequenza delle generazioni, sequenza che termina col padre putativo di Gesù. Giuda è, però, un figlio di Lia: perciò, se la persona a destra della lunetta è il Giuseppe del Libro della Genesi, i due fanciulli saranno Efraim e Manasse, generati dalla figlia del sacerdote di On, Asenat (Gn 46,20). La figura femminile sulla destra deve, dunque, rappresentare contemporaneamente due persone: Rachele e Asenat. Raccogliamo insieme, ora, ulteriori osservazioni, mentre cerchiamo di leggere attentamente quanto raffigurato nel dipinto della lunetta. Grazie al recente restauro adesso si leggono con esattezza anche i colori. Se alla base della nostra descrizione e interpretazione ipotizziamo che questi colori abbiano lo stesso significato di quello accertato nei colori dei dipinti sulle pareti risalenti all’epoca di papa Sisto iv21, scopriamo, allora, un contenuto strabiliante di cui ora parleremo. La figura, che noi, in base ad una possibile interpretazione, abbiamo considerato come Lia, indossa una veste verde e porta una fascia violacea intorno al capo. Il verde è il colore della speranza e della promessa, mentre il viola è quello della penitenza. Giacobbe indossa un mantello giallo oro. Se il celeste è il colore della contemplazione, secondo la dottrina sul significato dei colori dello Pseudo-Ugo di San Vittore, il giallo oro è, invece, il colore dell’adempimento della promessa o il color croco degli occhi delle colombe e significa, in questo caso, il discernimento spirituale. Ora, la moglie di Giacobbe volge la sua attenzione verso la spalla del marito, coperta dal mantello giallo oro. A questo corrisponde, sul lato destro della lunetta, un mantello celeste consunto e delineato con pochi tratti audaci, posato sulla spalla della donna più giovane ivi raffigurata. A sua volta essa guarda verso l’osservatore, dandogli l’impressione di essere seguito dai suoi occhi ovunque si sposti nella Cappella. L’osservatore è poi attirato dallo splendido manto celeste posato sulla sua spalla: in altre parole, egli viene invitato alla contemplazione delle cose celesti. Ora, Lia, stando all’interpretazione allegorica, è la personificazione della vita attiva, mentre Rachele, rappresenta, invece, la visione contemplativa. Da una lettura ancora più accurata, possiamo dire che Lia, personificazione della
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31. Lunetta a destra della parete d’ingresso, Giacobbe e Giuseppe, Lia (allegoria della vita attiva) e Rachele (allegoria della vita contemplativa), Efraim e Manasse.
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32. Particolare di Rachele, Giuseppe, Efraim e Manasse.
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speranza e della penitenza, indirizza lo sguardo sul discernimento spirituale. Questo discernimento accorda la preferenza alla contemplazione, così come Giacobbe ha preferito Rachele a Lia. Tutti i particolari coincidono a tal punto con il carattere allegorico di Lia e di Rachele da indurci a riconoscere nelle due donne raffigurate le mogli di Giacobbe poste all’inizio della sequenza delle generazioni. Queste sono le personificazioni della vita attiva e di quella contemplativa. Con ciò, però, possiamo concludere che con un’unica e medesima persona si intende rappresentare personaggi diversi, secondo i diversi livelli di interpretazione. Un modo di procedere simile, per cui la medesima figura si offre a vari livelli di interpretazione, si trova anche nella Concordia di Gioacchino da Fiore, oltre a tutto riguardo al più profondo dei possibili livelli interpretativi, quello attinente alla rivelazione del Dio uno e trino in rapporto alla concezione della Chiesa come madre e sposa. Così, l’abate scrive nelle prime pagine della sua opera rivelandoci subito uno dei suoi principi: «Che, pertanto, si debbano considerare tre generazioni come un unico principio, questo corrisponde al mistero della santa e indivisa Trinità»22. Gioacchino è in grado di descrivere accuratamente altri particolari riguardanti il Giuseppe dell’Antico Testamento e i suoi due figli, così che oggi possiamo comprendere ancora meglio di un tempo la lunetta di Michelangelo che qui abbiamo commentato. A questo proposito il capitolo quattordicesimo del terzo libro della Concordia si apre con significative affermazioni: «Per riassumere, pertanto, gli ampi misteri dei figli di Giacobbe: Giuseppe, colui che, come abbiamo detto, indica lo Spirito Santo, scese in Egitto: infatti, lo Spirito Santo discese nella Vergine che apparteneva al popolo ebraico. Nel medesimo paese a Giuseppe nacque Manasse: infatti per opera dello Spirito Santo il Figlio di Dio è stato generato dalla Vergine Maria ed è diventato uomo nello Spirito che dà la vita»23. Nella stessa pagina dalla quale proviene l’ultima citazione Gioacchino riprende il medesimo tema, associando, però, i suoi concetti a Lia e Rachele: «Giuseppe scese in Egitto, poiché, infatti, lo Spirito Santo discese sul popolo ebraico e parlò per lungo tempo per mezzo dei profeti. Manasse, suo figlio, è nato in Egitto, poiché l’uomo Gesù Cristo nel popolo ebraico
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(scil. è nato). Mosè, il servo del Signore, che allo stesso modo rappresenta Cristo, è uscito dall’Egitto ed è andato nel deserto, poiché Cristo, dopo aver lasciato nei suoi membri (cioè negli Apostoli) la Giudea, si recò dalle popolazioni pagane. I quarant’anni in cui Mosè è rimasto nel deserto designano il tempo del compimento per i popoli pagani. Mosè morì nel quarantesimo anno e venne sostituito da Giosuè: infatti, per toccare un altro mistero, dopo che ebbe fine la quarantesima generazione, di cui qui ora si tratta, questa situazione della Chiesa deve mutare da Lia in Rachele, dall’eloquenza della parola al senso spirituale, dalla bellezza delle foglie al buon sapore delle mele»24. A questo punto dobbiamo fermarci un attimo, per mettere ordine nella gran quantità di idee a nostra disposizione. In primo luogo notiamo che la scena della morte di Mosè e della successione nella carica da parte di Giosuè si può rintracciare nel riquadro affrescato dal Signorelli che si trova in prossimità della lunetta di cui abbiamo appena parlato. Ma il disegno generale indicato da Gioacchino, che andiamo a nostra volta scoprendo a poco a poco, non potrebbe in parte aver costituito la base per gli affreschi dell’epoca di papa Sisto iv? I parallelismi profetici tra le persone dell’Antico e del Nuovo Testamento e gli avvenimenti loro connessi, presenti nella Concordia, fanno riferimento al periodo di transizione dalla sesta alla settima epoca previsto da Gioacchino. Questa settima ed ultima epoca è contraddistinta dalla quiete della contemplazione. Ma il periodo di transizione, negli affreschi della Cappella Sistina, viene associato apertamente all’avvicendarsi dei papi Della Rovere; in altre parole, ciò che non è stato realizzato da Sisto iv si attende e si spera sia fatto da Giulio ii. Giuseppe, così siamo stati edotti da Gioacchino, indica, dunque, lo Spirito Santo, mentre Manasse, il figlio di Giuseppe, viene accomunato a Gesù Cristo dall’autore della Concordia. L’abate dedica estrema cura anche ai due figli di Giuseppe, Efraim e Manasse. Come racconta il Libro della Genesi, Giuseppe portò i suoi due figli dall’anziano padre perché questi li benedicesse, così Giacobbe incrociò le braccia sui suoi nipoti, in modo da stendere la destra sul capo del più giovane, Efraim, e la sinistra sul capo di Manasse, il primogenito (cfr. Gn 48,13s.). In questo Gioacchino non vede solo un unico grande mistero, ma tutta una serie di misteri. Infatti, come osserva Gioacchino, prima fu data la Legge, poi la Gra-
zia, che è da anteporre per dignità alla Legge. A questo punto, non viene subito in mente la ripartizione degli affreschi sulle due pareti longitudinali della Cappella eseguiti al tempo di papa Sisto iv? Una delle pareti è dedicata agli avvenimenti veterotestamentari, del tempo della Legge, l’altra, invece, è dedicata agli avvenimenti del tempo della Grazia. Ma proseguiamo ancora nella lettura di Gioacchino. In alcune delle più belle e più profonde pagine della Concordia l’autore, in una serie di riflessioni teologiche, si sofferma sul significato spirituale dei due figli di Giuseppe e della preferenza di Giacobbe per il più giovane. Ad esempio, il figlio maggiore, Manasse, che, al momento della benedizione, venne toccato dal padre solo con la mano sinistra, è figura di Cristo, «poiché egli volle stare sotto la Legge, volle nascere da una donna e venire battezzato da Giovanni e servire coloro che erano suoi subalterni. Egli, infatti, si è fatto servo, per liberarli con la Grazia dalla schiavitù della Legge. Egli è nato dalla donna per poter fare di noi dei figli generati da Dio... Egli unì a sé la carne, perché noi ci potessimo unire spiritualmente allo Spirito Santo. Egli abbassò se stesso fino a terra perché noi ci potessimo elevare fino al cielo... Nella sua passione egli ha, per così dire, preso su di sé la mano sinistra del Padre, perché noi fossimo salvati dalla passione e venissimo toccati dalla mano destra di Dio... Nostro Signore è, dunque, diventato ciò che fu Manasse nel popolo ebraico, affinché Efraim, cioè la grazia dello Spirito Santo, diventasse efficace, poiché senza che la Legge della carne cadesse in oblio per la morte del Signore, non avrebbe potuto regnare in noi la Grazia, né avrebbe potuto operare in noi il frutto della Giustizia e la Legge della vita»25. Solo ora siamo in grado di riconoscere i due fanciulli sulla destra della lunetta. Quello che siede sul ginocchio della figura femminile rappresenta Manasse ovverosia Cristo, la consegna al fratello minore dell’oggetto a forma di piccola botte rappresenta, invece, il dono dello Spirito Santo che è causa della figliolanza divina tra i popoli pagani. Per rendere ancora più complesso il discorso, Gioacchino da Fiore raffronta i due figli di Giuseppe con Cristo e Giovanni Battista. Quello maggiore viene prima, secondo l’ordinamento della Legge, tuttavia alla Grazia appartiene una maggiore dignità e Cristo è esistito già prima del suo precursore. I due fanciulli della lunetta rappresenta-
no dunque Giovanni Battista e Cristo. A questo livello di interpretazione spirituale Manasse rappresenta, dunque, Giovanni Battista ed Efraim Cristo. Così, nell’affresco di Michelangelo, Asenat diventa Maria, la madre di Gesù, e Giuseppe, padre di Manasse ed Efraim, diventa Giuseppe, il padre putativo di Gesù26. Le precedenti interpretazioni dell’affresco, estranee alla conoscenza del passo sopracitato della Concordia, hanno rinunciato all’esatta determinazione del significato di quella sorta di piccola botte e con difficoltà hanno spiegato il senso della raffigurazione di Michelangelo della madre Maria. Ma i pensieri di Gioacchino si incrociano, se così si può dire, come le braccia di Giacobbe nella benedizione dei figli di Giuseppe: se ad una prima interpretazione è il figlio maggiore, Manasse, a significare Cristo, ad un altro livello interpretativo più profondo lo è il minore, Efraim. Ciò che Michelangelo ha dipinto in questa prima lunetta può, dunque, essere considerato in sottile accordo con il programma già eseguito in precedenza nella Cappella Sistina. «Cosa possiamo cogliere di più degno in Efraim, colui che è figlio di Giuseppe», prosegue Gioacchino nelle sue considerazioni, «del fatto che in lui riconosciamo non tanto la persona dello Spirito Santo, quanto lo spirito che, conformemente all’infusione dello Spirito Santo, viene generato nella mente degli eletti. Il medesimo Spirito che ha generato il frutto visibile nel grembo, genera, dove vuole, il frutto invisibile della mente. Colui che, infatti, ha potuto rendere fecondo il grembo di Maria, mentre ispira le anime dei suoi eletti, mediante i doni della Grazia, le rende anche feconde»27. Secondo Gioacchino, Giuseppe, il padre dei due figli, designa lo Spirito Santo stesso. Per questo egli, poco dopo, cita la Prima Lettera ai Corinzi: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito» (1 Cor 12,4). Nell’affresco di Michelangelo possiamo riconoscere la testa di Giuseppe accanto a quella del figlio più giovane. È un tentativo di rappresentare la fecondazione della mente degli uomini da parte dello Spirito Santo, una fecondazione che li rende figli di Dio. Grazie ai concetti latini usati da Gioacchino questa fecondazione viene formulata con grande chiarezza: infatti, essa passa dallo Spiritus Sanctus alla mens. La grazia di Dio viene anche paragonata all’eucaristia. Così scrive l’abate nella Concordia: «Era, infatti, anche quello espressione della grazia di Dio nella quale il Figlio di Dio, diventato uomo, ci ha dato come cibo la sua carne. Ma se nel fare questo manca l’amore che, come testimonia Paolo, è un frutto del-
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33. Lunetta a sinistra della parete d’ingresso, Eleazaro e Matan: la Chiesa che esclude, giocando con il bambino, il marito geloso, e la Chiesa abbandonata, con il bambino, dal giovane sposo.
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lo Spirito, uno prende questo cibo a sua condanna piuttosto che a sua salvezza eterna». Nel leggere questo non viene istintivo volgere lo sguardo verso l’affresco dell’Ultima cena di Rosselli nella Cappella Sistina, affresco in cui Giuda viene messo in rilievo in un modo così particolare? Tentiamo ora una descrizione sintetica della lunetta considerando tutti i possibili livelli interpretativi. A sinistra della lunetta, riguardante l’Antico Testamento, riconosciamo il patriarca Giacobbe con la sua prima moglie Lia e il figlio Giuda col quale continua la discendenza che conduce a Giuseppe e, da lui, a Gesù. Il mantello verde di Lia ricorda il mantello verde di Mosè degli affreschi eseguiti sulla parete della Cappella dedicata all’Antico Testamento. Il mantello giallo oro di Giacobbe può trovare un nesso con l’oro della promessa, il colore delle vesti di Mosè, o con il color croco del discernimento spirituale. In questo affresco di Michelangelo io propenderei piuttosto per l’ultimo colore e per l’interpretazione ad esso legata. Il mantello del capostipite copre ancora il colore celeste della contemplazione che, però, risalta pienamente sulla spalla di Rachele, nella zona neotestamentaria della lunetta. Con Giuseppe ed i suoi due figli, Manasse ed Efraim, i personaggi e gli avvenimenti veterotestamentari fanno trasparire pienamente l’opera salvifica di Dio, che giunge alla sua pienezza con il Nuovo Testamento e si riverbera di volta in volta fino ai giorni nostri. Sulle vesti di Rachele i diversi colori cangiano dall’uno all’altro. Particolarmente intenso è lo splendido color lapislazzuli del mantello sulla sua spalla. Lo stesso mantello nell’avvolgere le sue gambe ha il colore viola della penitenza, mentre sulla sua spalla esso acquista una tonalità rosata come riferimento alla tenerezza dell’amore. Oltretutto il fianco di Rachele nell’affresco è rivolto verso Giacobbe. Il suo braccio sinistro che trae il mantello sulla spalla, su cui risplende il tessuto celeste, varia tra il verde e il rosso, tra speranza e amore, come mostrano i colori della manica del camiciotto. Tuttavia, intorno al suo grembo, la stessa porzione di veste, che in quel punto non è coperta dal mantello, risplende del colore giallo. Potremmo dire che la fecondazione del grembo di Maria per opera dello Spirito Santo fu il presupposto per il discernimento spirituale tra divino ed umano. E il copricapo suddiviso in tre parti è riferimento alla Trinità dell’unico Dio rivelata solo ora? Con questa interpretazione esso conserva tutta la sua importanza. Diversamente, partendo da un presupposto puramente formale, potremmo ravvisare in esso solo un’acconciatura particolarmente esotica. Ora, guidati sempre da Gioacchino da Fiore, prose-
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Gli affreschi di Michelangelo
guiamo dicendo che la giovane madre a destra di questa lunetta raffigura dunque tre persone: Rachele, preferita alla sorella Lia e moglie più giovane di Giacobbe; Asenat, la figlia del sacerdote egiziano, moglie di Giuseppe dell’Antico Testamento e madre di Manasse e di Efraim; infine Maria, sposa del Giuseppe neotestamentario e madre di Gesù. Solo un buon conoscitore del libro della Concordia ha potuto cogliere le più profonde relazioni e allusioni esistenti nell’affresco di Michelangelo. L’artista stesso aveva molta familiarità con il patrimonio di idee di Gioacchino da Fiore. Questa parziale conclusione della nostra ricerca ci rivela un lato completamente nuovo ed ancora sconosciuto della personalità di Michelangelo. Il grande fiorentino dà anche libero corso al suo estro artistico, senza risparmiare alcuna critica alla condizione della Chiesa e, come già il suo conterraneo Botticelli, sapendo abilmente mettere uno specchio di fronte al papa e alla curia romana, la cui superficie piana è levigata con lo strumento dell’ironia. Eleazar e Mathan (deliciosus e donatus: delizioso e donato) Nella successiva lunetta, a sinistra sulla porta d’accesso alla Cappella, il colore celeste manca del tutto. L’area del mezzo arco è dedicata al nonno e al bisnonno di Giuseppe, Eleazaro e Matan; due personaggi di cui la Sacra Scrittura non ha tramandato null’altro al di fuori del nome (fig. 33). Michelangelo si serve del cartiglio per separare l’uno dall’altro i due capostipiti insieme alle loro famiglie. Mattan, dipinto vicino ai fiocchi dorati dello stemma papale con la quercia dei Della Rovere, appare come un giovane, mentre dietro la sua spalla è raffigurata la moglie un po’ più anziana di lui con il figlio piccolo. Eleazaro, invece, guarda con occhi gelosi verso sua moglie, che è impegnata a giocare con il fanciullo sulle sue ginocchia. Sul lato destro viene messo in evidenza lo sposo, il giovane, mentre sulla sinistra, la sposa, cioè la madre col suo piccolo. Michelangelo dipinge le due scene quali esempi delle principali difficoltà tra marito e moglie in una relazione matrimoniale turbata. A questo proposito non si può, però, dimenticare che con la raffigurazione di una madre e di una sposa nella Cappella presenta un riferimento allegorico alla Chiesa e con la raffigurazione dello sposo, qui nelle immediate vicinanze dello stemma papale, un rimando al papa regnan-
te. Osservando con più attenzione i particolari, possiamo constatare come l’artista qui abbia espresso con molta audacia la sua critica nei confronti della Chiesa. Se nella lunetta, prima esaminata, egli può essere stato ancora fortemente influenzato da un consulente di teologia, sempre che non abbia fatto affidamento solo sulle proprie conoscenze della Concordia di Gioacchino da Fiore, a questo punto si è reso chiaramente indipendente. Il significato dei singoli colori era per lui certamente cosa ben nota. Descriviamo, dunque, i due gruppi sempre secondo gli abituali criteri dell’iconografia cromatica. Mattan indossa il camiciotto bianco della fede, il cui colletto mostra il colore verde della speranza. Il camiciotto è aperto sul fianco e non è ben infilato nei pantaloni di color grigio chiaro: la fede e la speranza troppo debole non si legano bene in questo giovane sposo. Il mantello rosso dell’amore minaccerebbe, addirittura, di scivolare giù dalla spalla, se non fosse tenuto insieme da un nastro dello stesso colore che passa obliquamente sul petto. Il mantello rosso copre anche il ginocchio sinistro su cui poggia la gamba destra. L’amore e la speranza ancora debole possono legarsi solo a formare la croce. Il fazzoletto sul capo della donna, che guarda nella medesima direzione del marito, il quale, però, non si cura affatto di lei, è viola, colore della penitenza e del digiuno. Intorno ai fianchi dell’uomo è annodato un po’ di tessuto giallo, mentre egli siede su un cuscino del medesimo colore, quasi a indicare come gli sia ormai estraneo il discernimento spirituale. Può darsi che a qualcuno l’interpretazione data appaia troppo fantasiosa, tuttavia lo stesso metodo trova ulteriore conferma nel gruppo di Eleazaro sulla sinistra. In questo caso la madre indossa le calze della penitenza, il farsetto rosso dell’amore, mentre il suo bianco camiciotto ha un risvolto giallo sulla parte superiore della manica. Questo gioco di giallo e di bianco ricorda apertamente gli attuali colori della Chiesa. Ma l’elemento allusivo di una particolare situazione del tempo di Michelangelo sta nel fatto che questa donna siede su delle corde alle quali sono sospesi una chiave ed un borsellino. Achim ed Eliud Tornando ancora indietro nelle generazioni ci imbattiamo in Achim ed Eliud (fig. 34). Trattiamo, ora, la lunetta dipinta sulla parete laterale dedicata all’Antico Testamento e collocata immediatamente sotto il pennacchio della volta con la raffigurazione della Decapitazione di
Golia. Qui l’artista si accontenta di ritrarre una sola famiglia presentando contemporaneamente due generazioni. Il padre, Achim, guarda pensieroso verso una bambina che si trova in piedi sul bordo sinistro della lunetta e che, ad eccezione di un panno che le avvolge la spalla sinistra, è completamente nuda. La madre stringe col braccio sinistro il piccolo Eliud, anch’egli nudo mentre, con la destra, gli porge del cibo già pronto sul tavolo. I colori delle vesti sono rosso, verde e giallo. Azor e Sadoch (adiutor e iustificatus siue iustus: aiutante e giustificato o giusto) La lunetta che sta di fronte rappresenta una sola famiglia, vale a dire Azor, il padre, la madre, di cui ignoriamo il nome, e Sadoc, il figlio (fig. 35). A protezione dell’acconciatura, la madre, ancora una volta, ha sulla fronte il colore celeste della contemplazione. Costei, con l’indice teso, indica a Sadoc, vestito poveramente solo di un camiciotto bianco, le dinastie più remote nel tempo. Nel punto indicato dalla madre, vale a dire nell’arcata successiva della Cappella, si trovano dipinti, infatti, i capostipiti nati ancora durante la cattività babilonese e che presero parte al ritorno da Babilonia. Zorobabel (ipse magister Babylonis, id est confusionis: maestro di Babilone, cioè della confusione) Prima degli antenati, mostrati a Sadoc dalla madre, nella sequenza delle generazioni vengono ricordati Zorobabele, Abiud ed Eliacim. Trovano posto nella medesima arcata, entro la relativa vela situata sopra le scene dedicate a Mosè (fig. 36). Da questo punto l’iscrizione nel cartiglio riporta sempre tre nomi. La prima delle vele mostra Zorobabele e la sua famiglia (fig. 36). La sposa è contraddistinta dai colori della colomba del Salmo 68 [67]: si tratta, infatti, dei medesimi colori dell’affresco di Signorelli. Anche lì la veste, come già visto nella prima parte della nostra ricerca, si tinge di argento: con tanta ampiezza può essere raggiunto un simile effetto cromatico in un affresco! È dunque qui presente il riferimento alle pennae columbae deargentatae del salmo (Sal 68 [Vulg. 67],14b). Michelangelo raffigura la sposa di Zorobabele con un’acconciatura che, in lontananza, appare
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34. Parete sud, Achim e Eliud.
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35. Parete nord, Azor e Sadoc.
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36. Parete sud, vela sopra la lunetta di Abiud e Eliacim, La famiglia di Zorobabele
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37. Parete nord, vela sopra la lunetta di Ieconia e Salatiel, La famiglia di Giosia.
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come una piuma argentata sulla capigliatura. Il mantello giallo oro fa apparire qui, come nell’affresco di Signorelli, le posteriora dorsi in pallore auri (Sal 68 [Vulg. 67],14c). Così come Levi, nel riquadro della Ripartizione della terra sulla parete della Sistina, è quasi completamente nudo e coperto solo di un perizoma rosso, allo stesso modo Zorobabele è vestito solo di un mantello rosso, che lascia scoperti il petto e le braccia e che avvolge l’addome e le gambe, a significare che egli è rivestito solo di amore. È infatti rivolto verso la sposa e il loro figlio. Michelangelo fa indossare alla sposa perfetta, che forma una cosa sola con lo sposo e col figlio, gli stessi vestiti, o, perlomeno, vestiti molto simili a quelli fatti indossare da Signorelli alla Chiesa dipinta insieme a Levi come «sposa del clero». Questo perché Michelangelo, seguendo l’interpretazione allegorizzante che si rifaceva ad Ugo di San Vittore, conosceva con precisione il significato dell’affresco della Lettura della Legge e della ripartizione della terra alle dodici tribù. Una conoscenza simile può essergli stata fornita solo da un teologo. Ci è permesso di supporre che questo teologo fosse il sacrista della Cappella, vale a dire il monaco agostiniano Magister Frater Nicolaus Acquapendentanus che, secondo le informazioni del suo confratello Angelus Rocca Camers, assunse questo incarico affidatogli da Giulio ii l’1 settembre 1505, morendo in età avanzata il 25 ottobre 151128. In base alle stesse fonti sappiamo che costui era un eminente teologo. Il versetto 14 del Salmo citato, nella versione della Vulgata, inizia così: «Si dormiatis inter medios cleros... », che significa: «Se volete dormire tra le porzioni di eredità». Tra le ginocchia della sposa avvolte da un mantello giallo oro dorme un bambino, un fanciullo tutto nudo, con una fascia bianca attorno al collo, che abbraccia con la sinistra il polpaccio della gamba destra della madre. Ora, il mantello significa certamente che qui le posteriora dorsi sono nel «lucente splendore dell’oro». Quindi, secondo l’interpretazione allegorizzante di Ugo di San Vittore, viene prefigurata l’eterna beatitudine della Chiesa. Un fanciullo dalla pelle scura, riconoscibile ancora dietro le spalle di Zorobabele, non è probabilmente uno dei suoi figli, perché, in effetti, egli è escluso dalla meravigliosa armonia regnante in questa famiglia. La sposa con i colori argento ed oro rappresenta la Chiesa. È vero che Zorobabele non appartiene alla tribù di Levi, ma alla tribù di Giuda, tuttavia egli è l’edificatore del secondo tempio. Il tempio si trova proprio nell’affresco del Perugino che è sulla parete di fronte allo spicchio che racchiude la famiglia di Zorobabele, la quale è incastonata in modo del
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Gli affreschi di Michelangelo
tutto armonico nel triangolo che la incornicia. Le stesse teste del padre, della madre e del bambino formano un triangolo regolare il cui vertice è rivolto verso il basso, in senso contrario allo spicchio che lo racchiude. Tutto questo non può essere casuale: infatti si può ipotizzare, qui, un riferimento alla Trinità divina. Può questa ipotesi trovare fondamento da ulteriori osservazioni? Il modo in cui il padre Zorobabele si volge alla moglie e il modo in cui questa è intenta ad ascoltarlo, mette in luce come costei provenga da lui. Questo corrisponde alla processio del Figlio dal Padre nella Trinità. Ed il bambino, nel movimento rotatorio del corpo nudo, raffigurato così che le sue spalle e il panno bianco che le avvolge creino un legame con i genitori, procede chiaramente dalla coppia. Se fosse possibile, in qualche modo, un confronto, si tratta qui di una raffigurazione della processio dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Così si muove la dottrina della Trinità elaborata da sant’Agostino che, ancora una volta, nella Concordia è stata presa da Gioacchino da Fiore a fondamento di ogni articolazione tripartita. Solo il demonio resta escluso da questa armonia trinitaria: Michelangelo, infatti, lo ha raffigurato nel fanciullo dalla pelle scura, appena dietro la spalla sinistra di Zorobabele. Vedremo ancora che tutte le figure nude con la pelle scura e dipinte al di fuori delle linee oblique di cornice degli spicchi, come rinchiuse in settori angusti, rappresentano i demoni. Josias (ubi est incensum domini uel salus domini: dove è l’incenso del Signore o la salvezza del Signore) Prima di soffermarci sulle raffigurazioni di Abiud ed Eliacim, che seguono immediatamente quella di Zorobabele, parliamo della vela che sta di fronte (fig. 37) e che comprende un gruppo di tre persone: si tratta di Giosia con la moglie ed il bambino. Il padre indossa calzoni bianchi che, secondo Ugo di San Vittore, indicano la purezza, la munditia carnis. Ma intorno ai suoi fianchi è avvolto strettamente un panno grigio-blu che, come osserva il teologo vittorino nello stesso passo, ricorda il colore del mare agitato: ciò simboleggia le passioni e non l’amore puro. Egli dorme, giacendo disteso sul pavimento. Se di Zorobabele sappiamo solo che fu governatore della Giudea sotto il dominio persiano intorno al 520 a.C., che portò avanti la costruzione del tempio, sprona-
to dai profeti Aggeo e Zaccaria, e che, per questo e per la sua discendenza dalla tribù di Giuda, fu considerato figura del Messia, riguardo a Giosia le nostre conoscenze sono, invece, molto più cospicue29. Egli fu il sedicesimo re di Giuda (639-609 a.C.) e venne annoverato tra i migliori e più devoti re di Giuda accanto a Davide ed Ezechia. Sradicò, infatti, il culto delle divinità e provvide a rinnovare il tempio di Gerusalemme. Durante questi lavori di restauro fu nuovamente ritrovato il libro della Legge. Venne così indotto a disporre un nuovo ordinamento della liturgia e a rinnovare l’Alleanza del Sinai. Nel dipinto sua moglie siede su un giaciglio verde, indossa una veste viola ed un velo bianco e tiene il suo figlioletto tra le braccia coccolandolo, guancia a guancia. Il bambino, intanto, volge il viso al padre che sta dormendo. La trama trinitaria qui non è del tutto perfetta. La sposa, nel modo in cui è raffigurata, procede dal coniuge e, allo stesso tempo, si volge ancora verso di lui. Il bambino è però più vicino alla madre che al padre. Sappiamo, infine, che Giosia venne sconfitto e ferito a morte dal re d’Egitto Necao a Meghiddo, ma che poté tuttavia far ritorno a Gerusalemme, dove morì poco dopo. Per questa ragione, probabilmente, egli viene raffigurato da Michelangelo nel sonno e per questo motivo sua moglie porta la veste viola del digiuno e della penitenza. Abiud e Eliachim (pater meus iste uel pater meus est e resurrectio: colui è mio padre e risurrezione di Dio) Sotto la vela con la famiglia di Zorobabele, Michelangelo ha dipinto sulla destra della lunetta il figlio Abiud con la veste viola della penitenza e, sulla sinistra, la moglie che indossa un abito bianco ed un mantello giallo oro mentre tiene in braccio il figlioletto Eliacim (fig. 38). Sebbene vengano presentati schiena contro schiena e separati dal cartiglio, i due coniugi sono rivolti con lo sguardo l’uno verso l’altro: è come se stessero in reciproco ascolto. Il piccolo Eliacim è avvolto, come fosse un pacchetto ricoperto di tessuto rosso legato da cordoncini bianchi, così strettamente da lasciar libero solo il suo piccolo braccio destro: qui il riferimento è alla Chiesa madre e sposa nello stesso tempo, mentre il fanciullo è un preannuncio di Gesù, figlio di Maria; e se Maria è figura della Chiesa, Gesù ne è lo sposo. Dietro al padre si trova un secondo bambino, anche lui vestito di rosso. Viene qui ripreso, in modo sottile, il motivo dei due figli presente nella lunet-
ta della parete d’ingresso che abbiamo commentato per primo, motivo che ritorna come un tema musicale in una sinfonia. Così risuona ancora una volta il tema Manasse-Efraim di Gioacchino da Fiore. Iechonias e Salathiel (praeparans e petitio mea deus: chi prepara e Dio è la mia preghiera) La lunetta che sta di fronte e che, come indica il cartiglio, rappresenta Ieconia e Salatiel – per la precisione, la madre, il padre e due figli, uno dei quali è Salatiel – mostra con evidenza lo stretto legame esistente tra i due gruppetti che vengono separati dal cartiglio (fig. 39). La madre è seduta con il figlio più giovane alla sinistra della lunetta. Anche se dà le spalle a Ieconia, tuttavia essa volge la testa e gli occhi strabici il più in là possibile, verso suo marito che, tutto vestito di verde, torce il busto e il capo più di quanto faccia sua moglie, cosicché egli può comodamente guardare verso di lei e verso il figlio più giovane. Quest’ultimo sta in piedi sul grembo della madre e protende il braccio sinistro al fratellino più grande, che si accinge a salire in grembo al padre con il braccio sinistro completamente teso verso il fratellino più piccolo nell’atto di porgergli una pietra. Riecheggia così, ancora una volta, il tema del dono – con riferimento a Manasse ed Efraim – che viene ceduto dal più vecchio al più giovane, insieme ad altri temi paralleli ancora presenti nel gruppo di Giuseppe situato nella lunetta della parete d’ingresso. Il mantello giallo della sposa è ancora una volta un’allusione alle posteriora dorsi eius in pallore auri del Salmo (Sal [Vulg. 67],14c). Il vestito rosso simboleggia l’amore. Esso viene cinto dalla sciarpa verde della speranza, mentre bianca come la fede è la manica del camiciotto: o il colore bianco indica qui la purezza? In ogni tentativo di determinare il significato dei colori rimane sempre aperto un ristretto margine di libertà. Manasses e Amon (obliviosus e fidelis uel nutricius: dimentico e fedele o fratello di latte) Il contrasto tra uomo e donna viene raffrontato con Manasse ed Amon, raffigurati schiena contro schiena nella lunetta successiva (fig. 40). Manasse, sulla destra, siede stanco e ricurvo, ha le mani incrociate e le gambe accaval-
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38. Parete sud, lunetta con La famiglia di Abiud ed il figlio Eliacim.
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39. Parete nord, lunetta con La famiglia di Ieconia e il figlio Salatiel.
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40. Parete sud, lunetta con La famiglia di Manasse e il figlio Amon.
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41. Parete sud, vela sopra la lunetta di Manasse e Amon, La famiglia di Ezechia.
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late e porta una calzamaglia verde, una veste di color giallo oro e un camiciotto bianco, sopra il quale sta un farsetto rosso violetto e, sopra ancora, un mantello viola penitenziale il cui cappuccio è tirato sul capo. Di Amon la Scrittura conosce anche la madre: si chiamava Meshullemet (2 Re 21,19-26) ed è raffigurata sul lato sinistro della lunetta. Amon regnò solo due anni, seguì il cattivo comportamento di suo padre Manasse e perì a causa di una congiura di palazzo. A lui seguì come re il pio Giosia. Manasse divenne sovrano a dodici anni (2 Re 21,1-18). Regnò in Gerusalemme cinquantacinque anni e accondiscese all’idolatria; sembra, addirittura, che egli abbia offerto in sacrificio a Moloch uno dei suoi figli e, forse, sotto di lui abbia subito il martirio il profeta Isaia che, sulla volta della Sistina, si trova dipinto immediatamente sopra di lui, sulla destra. Che lo sguardo malinconico di Meshullemet posato sul suo bambino avvolto completamente in fasce bianche alluda alla sua possibile morte sacrificale? Ezechias (adprehendens dominum uel fortitudo domini: chi prende il Signore o fortezza del Signore) Il padre di Manasse fu Ezechia, di cui l’Antico Testamento narra le vicende in parecchi capitoli (2 Re 18-20). Nella vela sovrastante la lunetta, di cui abbiamo parlato prima, possiamo riconoscere la madre di Manasse, Chefziba (2 Re 21,1), vestita di bianco e di verde (fig. 41). Il figlioletto di Manasse tira la barba al padre, ormai bianca per l’età, cosa che il padre, da re paziente, lascia fare. Ezechia viene ritratto nella Bibbia come un buon re, che ordinò la distruzione dei monumenti all’idolatria in Giuda e altrove. Il profeta Isaia era in relazione con lui e fu spesso incaricato da Dio di portargli dei messaggi. Come già detto, Michelangelo ha dipinto il profeta a destra, sul suo trono, accanto al re e alla sua consorte. Non è necessario sottolineare espressamente che la famiglia di Ezechia nello spicchio non rappresenta un’immagine del mistero trinitario, proprio per la presenza del figlio Manasse. Ioatham e Achaz (consummatus siue perfectus e adprehendens: adempiuto o perfetto e chi prende) Nella lunetta di fronte possiamo riconoscere la famiglia di Iotam; quest’ultimo sulla sinistra, poi il figlio Acazia
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con la madre, di cui non conosciamo il nome, sulla destra (fig. 42). Un fanciullo, probabilmente un angelo, richiama l’attenzione del re sulle generazioni future, che sono raffigurate nell’arcata antecedente, vale a dire su Zorobabele, colui che ricostruì il tempio, e sui suoi discendenti. Iotam, avendo fatto costruire la porta superiore del tempio (2 Re 15,35), viene giudicato positivamente dalla Scrittura – che ricorda appena come egli non distrusse i luoghi elevati destinati al culto idolatrico –, mentre Acazia fu un re devoto ai falsi dei, che offrì addirittura in sacrificio a Moloch il proprio figlio (2 Re 16,3). Troviamo però anche qui il verde della speranza, fondata sulla promessa, nel colore della manica della madre e del mantello del padre. Ozias (robustus domini: il forte del Signore) Iotam fu il figlio di Ozia e di Ierusa. Tutti e tre sono riconoscibili nella vela al di sopra della lunetta (fig. 43). Michelangelo dipinge il suo luminoso volto di bambino vicinissimo al viso del padre, guancia a guancia. Ierusa tiene nella mano sinistra un gomitolo di lana e porge il seno al figlioletto più grande: è lui che, con maggiore probabilità, potrebbe rappresentare Iotam. Talvolta è difficile identificare con certezza tutte le persone raffigurate in questi affreschi che presentano la sequenza delle generazioni. Per quanto riguarda Ozia, abbiamo già visto quale importanza gli spetti nel complesso della Concordia di Gioacchino da Fiore. Con lui ha inizio l’ordo clericorum, sebbene egli appartenga alla tribù di Giuda: è questo il pensiero dell’abate calabrese. Sappiamo che Ozia volle innalzare sacrifici nel tempio, ma fu cacciato e colpito dalla lebbra (2 Cr 26,16-19). Come Adamo dal Paradiso Terrestre, così Ozia venne cacciato dal tempio a causa dei suoi peccati, osserva Gioacchino da Fiore, cosa vista in precedenza. Asaf, Iosaphat e Ioram (tollens, ipse iudicans e qui est excelsus: chi toglie, chi giudica da se stesso e chi è sublime) Incontriamo, per la prima volta, delle difficoltà nell’interpretazione dei particolari dell’affresco dedicato ai re Asaf, Giòsafat e Ioram, nominati nel riquadro successivo. Nell’affresco dello spicchio si deve, innanzitutto, riconoscere la famiglia di Asaf (fig. 44). Lo si identifica chiaramente insieme alla moglie Azuba e al figlioletto Giòsaf-
at. Secondo le interpretazioni fino ad oggi condivise, Michelangelo avrebbe raffigurato nella lunetta Giòsafat e la moglie con il figlio Ioram (fig. 45). Ma la persona sulla sinistra della lunetta, che in base a questo schema dovremmo interpretare come il re Giòsafat, è presentata nell’atto di scrivere un lettera. Nella Scrittura si parla della lettera ammonitrice che il profeta Elia avrebbe scritto al figlio di Giòsafat, il quale, al contrario del padre, favorì l’idolatria (2 Cr 21,12-15). Ma, difficilmente, la figura dipinta nella lunetta nell’atto di scrivere una lettera può raffigurare il profeta – così almeno sembra. Che Michelangelo abbia scambiato l’uno con l’altro, lo scrivente con il destinatario? In questo caso avremmo davanti il re Ioram. A destra sarebbe allora raffigurata la famigerata Atalia. Ma anche questo difficilmente corrisponderebbe al vero. In questa figura vedremmo piuttosto la moglie di Giòsafat, il cui nome è rimasto sconosciuto. Resta solo da concludere che Michelangelo deve aver prestato poca attenzione al suo consulente di teologia, dal momento che fa compilare da Giòsafat la lettera scritta dal profeta Elia; o forse, niente di tutto questo, come ancora avremo modo di constatare. La madre raffigurata con i tre bambini, il più piccolo dei quali le getta le braccia al collo, quello di mezzo preme per succhiare al seno e quello maggiore viene sorretto dal suo braccio sinistro, rappresenta, in quest’immagine, la classica personificazione della Charitas. Cosa su cui è già stata richiamata puntualmente l’attenzione30. È poi evidente che negli affreschi degli spicchi e delle lunette della Cappella papale dipinti all’interno dello spazio riservato al clero, il Sancta Sanctorum, sia posto l’accento sulle figure femminili piuttosto che su quelle maschili. Probabilmente perché sia la madre che la sposa sono sempre viste come immagine della Chiesa. Tuttavia potrebbe anche darsi che, a questo punto della sua attività nella Cappella, Michelangelo abbia preso le distanze dai suoi consulenti di teologia più di quanto non avesse fatto all’inizio. Roboam e Abias (impetus populi e pater dominus: impeto del popolo e il Signore è padre) Nella lunetta successiva, posta di fronte e dedicata a Roboamo e ad Abia, è raffigurata una donna incinta (fig. 46). Anche in questo caso non è facile la lettura corretta della composizione e l’individuazione esatta degli antenati di Gesù nelle figure rappresentate nello spicchio e nella lunetta. Michelangelo ha dipinto nello spicchio solo la
madre con il bambino tra Ezechiele e la Persica (fig. 47). Queste figure rappresentano sicuramente Roboamo e sua madre Naama. L’anziano nel buio dietro Naama deve essere Salomone. Nella lunetta è raffigurata Maaca, la madre di Abia, o la moglie di Roboamo, che si chiamava anche Maaca (1 Re 15,10)? Probabilmente, anche la figura sulla destra della lunetta è una donna. Dato che il bambino dietro di lei col mantello rosso sulla spalla è certamente Abia, la donna dipinta sulla sinistra è allora la madre incinta di Asaf. Nella lunetta vengono così unite insieme le due donne che portano il nome Maaca. David e Salomon (desiderabilis aut fortis manu e pacificus: desiderabile o forte con la mano e pacifico) Roboamo era appena diventato re quando le tribù del regno del Nord lo abbandonarono, sicché egli rimase a capo solo del regno del Sud, costituito dalle tribù di Beniamino e di Giuda, mentre sotto Davide e Salomone il regno era ancora unito. Questi due re vengono raffigurati con chiarezza nella lunetta di fronte, insieme a Betsabea, la madre di Salomone (fig. 48). Questa porta le scarpe rosse della colomba, secondo il pensiero di Ugo di San Vittore, il che costituisce un riferimento alla primavera della Chiesa, tempo in cui è scorso molto sangue dei martiri. Inoltre indossa un mantello viola penitenziale ed è seduta su un tessuto giallo oro, che intende ricordare lo splendore della ricompensa finale in cielo. Ha in mano una sfera bianca avvolta intorno a un’asta: probabilmente sta filando. Betsabea nella Concordia è considerata un allegoria dell’Ordine benedettino, Davide del papa e Uria, il marito di Betsabea, del monaco. La comunità monastica, cioè Betsabea, si purificava nella preghiera e nelle lacrime della compunzione attirando l’attenzione di Davide. I papi, rappresentanti di Cristo, volgevano, perciò, lo sguardo verso questa donna che si lavava bramandone ardentemente la bellezza. Gioacchino da Fiore inizia la sua spiegazione allegorizzante con l’episodio poco edificante descritto nel secondo Libro dei Re. Va detto che il papa, quando siede sul suo trono nella Sistina e guarda in alto a destra, ha davanti agli occhi la lunetta di Davide e Betsabea. Papa Giulio ii si sarà forse chiesto perché Michelangelo l’abbia raffigurata come donna anziana e non nella sua bellezza giovanile. La stessa domanda se la saranno posta probabilmente i non pochi teologi dell’epoca che potevano partecipare ad una solenne liturgia papale. Ma chi tra loro conosceva la Con-
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42. Parete nord, lunetta con La famiglia di Iotam e il figlio Acazia.
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43. Parete nord, vela sopra la lunetta di Iotam e Acazia, La famiglia di Ozia.
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44. Parete nord, vela sopra la lunetta di Giòsafat e Ioram, La famiglia di Asaf.
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45. Parete nord, lunetta con La famiglia di Giòsafat e il figlio Ioram.
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46. Parete sud, lunetta con la moglie di Roboamo e la madre di Abia con suo figlio.
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47. Parete sud, vela sopra la lunetta con la moglie di Roboamo e la madre di Abia, La famiglia di Roboamo.
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48. Parete nord, lunetta con Davide, Salomone e Betsabea: allegoria della Chiesa, invecchiata perchĂŠ ha perso il dono della contemplazione.
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49. Parete nord, vela sopra la lunetta con Davide, Salomone e Betsabea, La famiglia di Iesse.
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cordia di Gioacchino, avrà capito subito l’allusione. Infatti, in questa raffigurazione non è rappresentata Betsabea, ma l’ormai vetusto Ordine dei Benedettini. Qualcuno di questi teologi avrà ricordato gli altri particolari ai quali Gioacchino è ricorso nel leggere, con il suo particolare metodo, questa storia di adulterio narrata nell’Antico Testamento. Gioacchino interpreta il fatto che Davide abbia avuto un figlio da Betsabea in questo senso: i papi si servirono molto presto dei membri dell’Ordine benedettino nominandoli vescovi e cardinali. Questo, pericoloso per la vita monastica, indusse perciò i papi a ricondurre i membri dell’Ordine alla quiete della preghiera. Così Gioacchino interpreta così l’ordine di Davide, il quale allontana Uria dall’accampamento militare perché vada a casa da sua moglie per passare la notte con lei. Il rifiuto di Uria viene biasimato da Gioacchino e viene visto come immagine del monaco che, quantunque destinato alla quiete della preghiera e al silenzio, preferisce il servizio militare del chierico che combatte con le parole per la causa di Dio. Come è noto a Davide non resta nient’altro che inviare la lettera fatale tramite Uria stesso che fa ritorno all’accampamento al comandante dell’esercito. Ma cosa viene detto in proposito nella Concordia? Uria, lasciato solo in battaglia, cade. Secondo l’interpretazione, moltissimi abati, a causa dei loro privilegi e nell’eccessiva dedizione verso i compiti ecclesiastici e le occupazioni mondane, hanno sprecato del tutto il dono della contemplazione delle cose del cielo31. Siamo ora in grado di comprendere il motivo per cui il piccolo Salomone nell’affresco porta una lettera su un vassoio e per cui l’attempata Betsabea viene mostrata nell’atto di filare. Questa lettera tuttavia non allude solo alla missiva di Uria, ma anche ai privilegi ecclesiastici. E Betsabea, pur impersonando la comunità monastica dei Benedettini, come mostra l’affresco, non si dedica alla vita contemplativa ma a quella attiva. È seduta di fronte alla figura maschile, raffigurata nell’atto di scrivere nella lunetta precedente: i due, così, formano una coppia. Nel contesto divenuto chiaro solo ora è possibile identificare quest’ultima figura maschile come Elia, poiché, secondo Gioacchino, con Elia avviene la initiatio dell’ordo monachorum, con Benedetto la fructificatio. In tal modo, Michelangelo dipinge nella Cappella Sistina il profeta Elia e la personificazione dell’Ordine benedettino in queste due figure, che siedono l’una di fronte all’altra come una coppia, come la initiatio e la fructificatio dell’ordo monachorum. In ogni caso, la figura che scrive potrebbe anche essere il re Davide davanti alla missiva riguardante Uria. Come abbiamo già detto, secondo il sistema di Gioacchino, alla fructificatio segue la
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consumatio. Solo nell’ordo coniugatorum questa consumatio è già stata raggiunta. Precisamente, tramite Cristo, attraverso la croce e la risurrezione, si è consumato il vero matrimonio con la sua sposa, la Chiesa. Nella Concordia la consumatio dell’ordo clericorum e dell’ordo monachorum, invece, si realizzerà nel futuro, allo stesso modo di quella. In questo, Gioacchino si attiene sempre al triplice schema: l’ordo coniugatorum designa il Padre, l’ordo clericorum il Figlio e l’ordo monachorum lo Spirito. Allo stesso modo, la initiatio indica il Padre, la fructificatio il Figlio e la consumatio lo Spirito. Spesso abbiamo già anche avuto l’opportunità di rilevare che il triplice schema si può applicare al programma generale della volta della Sistina e che il mistero della Trinità viene richiamato alla memoria dell’osservatore mediante le raffigurazioni degli antenati di Cristo. Le scarpe di Betsabea sono colorate di rosso: questo è un chiaro riferimento alla primavera della Chiesa nel corso della quale la santità giunse a compimento nel martirio. Ci ritorna in mente, così, la descrizione e l’interpretazione delle zampine della colomba da parte di Ugo di San Vittore. Scuro, nella penombra della penitenza, l’abito viola penitenziale avvolge le gambe accavallate della donna. Al fondo del petto la veste è cinta da una fascia verde, mentre le maniche del camiciotto risplendono di un celeste molto chiaro. Ugo ha osservato, infatti, il riflesso bianco azzurro sulle ali della colomba. Betsabea è seduta su un tessuto giallo oro, vale a dire sulla promessa della futura beatitudine, mentre il capo è ornato da un’acconciatura grigio argentea che significa l’eloquenza. Il color celeste del camiciotto è sbiadito e la madre del re è tutta dedita alla sua attività di filatrice. Tutto questo corrisponde, ora, in modo molto preciso all’allegoresi, sopra illustrata, dell’abate calabrese. Confermato da privilegi papali, l’ordo monachorum corre il pericolo di essere assorbito dell’apostolato, di perdere il dono della contemplazione e, con ciò, la sua freschezza giovanile. Iesse (incensum: incenso) Nello spicchio a volta sopra Davide e Salomone riconosciamo la madre di Davide e, dietro le sue spalle, a destra, il piccolo Booz (fig. 49). La madre indossa una veste verde e una gonna viola chiaro. Come assente, nell’atteggiamento di dormire, la guancia appoggiata sulla mano, il suo sguardo è proiettato nel futuro. Così, anche il barbuto Iesse, con la veste rossa e collocato dietro di lei, ha gli occhi
chiusi. Come a voler dire che tutto quanto raffigurato nella sottostante lunetta si compirà solo in un lontano futuro. Booz e Obeth (in quo robur e serviens: nel quale è la forza e servo) L’anziana Betsabea è raffigurata nella lunetta di Davide, mentre Booz, dipinto nel settore di fronte, è presentato nelle sembianze di un vecchio gobbo e brutto, che guarda il suo ritratto intagliato nell’estremità superiore del suo bastone a gruccia (fig. 50). Rut, sull’altro lato della lunetta, sta dormendo e tiene tra le braccia il suo Obed, addormentato subito dopo essere stato allattato, come dimostra il seno ancora scoperto della madre. Rut è giovanile e bella e, nel suo genere, rimanda alle raffigurazioni di Maria. Solo la sua veste è di color rosso-arancio, il mantello, invece, è dipinto di un rosa violaceo. Bianco è il suo velo e bianche sono le fasce che avvolgono il piccolo Obed, che è ulteriormente avvolto da una coperta verde. Il vecchio Booz ha un grembiule di un brutto colore giallo grigio (fig. 51). Quando il giallo non è vivace e tende all’oro, allora assume un significato negativo e richiama abitualmente il peccato. Dal momento che la Sacra Scrittura non descrive Booz né come un peccatore né come un vecchio e brutto, è necessario tener presente dove è collocato questo affresco nell’ambito della Cappella Sistina, vale a dire sulla sinistra, immediatamente al di sopra del trono papale. Possiamo concludere che Michelangelo ha inteso fare, in modo temerario, la caricatura di papa Giulio ii. In effetti a quel tempo il papa era ormai un vegliardo. Nude sono le gambe di Booz: papa Giulio ii visse, infatti, nella povertà come novizio francescano. I pantaloni sono tinti di rosa perché egli venne creato cardinale quando era novizio francescano: le speranze riposte in lui non vennero confermate. Il verde della speranza si è, dunque, mischiato col giallo peccaminoso. Salomon (sensibilis: sensibile) Volgendo lo sguardo in alto, scorgiamo nuovamente il mantello giallo oro della santità32 sullo spicchio dedicato a Obed e alla sua famiglia (fig. 52). La madre è seduta in terra come una Madonna dell’Umiltà e sta tagliando ed aggiustando una veste bianca per il figlioletto che, nudo, sta lì accanto a lei. Grigio argenteo è il velo della spo-
sa. Salmon, subito dietro di lei, porta un berretto rosso ed una veste verde. Sul petto della sposa, a somiglianza della Madonna della Pietà nella basilica di S. Pietro, scorre trasversalmente una fascia rossa. Le teste del padre, della madre e del figlio sono così strettamente unite a definire un triangolo, che ancora una volta fa tornare alla mente, con forza, il pensiero della Trinità. Nella successione, a partire dal fondo, troviamo la madre al secondo posto, il figlio al terzo, cosicché, in base all’ordine esistente nella Trinità, la madre corrisponde al Figlio e il bambino corrisponde allo Spirito. Il bambino guarda verso la mano della madre nell’atto di tagliare, ma anche il padre e la madre guardano nella stessa direzione. In tal modo si concentrano tutti e tre su un’opera comune: si potrebbe dire, come la Trinità divina al momento della creazione. In effetti Michelangelo ha dipinto proprio sulla medesima arcata della volta la creazione del sole, della luna e delle piante. Naason (serpentinus uel augurium: come un serpente o augurio) Le due lunette dell’ultima arcata mostrano ognuna due figure a cui corrisponde un solo nome scritto nel riquadro inerente ciascuna di esse. Nella sequenza delle generazioni bibliche, procedendo all’indietro, compaiono Salmon, Naasson e, prima di questi, Aminadab. Naasson, collocato al di sotto del settore della volta dedicato al Serpente di bronzo, viene presentato come un ragazzo di cattivo umore, mal diposto ad adempiere con solerzia il compito di leggere il libro aperto su un leggio di legno (fig. 53): il suo sguardo è, infatti, tetro e caparbio. Se, dunque, suo padre Aminadab, secondo il Libro dei Numeri (Nm 7,12), faceva parte dei capi di Israele durante l’uscita dall’Egitto, la vita di Naasson avrebbe coinciso con la peregrinazione degli Israeliti nel deserto. La madre, sull’altro lato della lunetta, si guarda nello specchio, perché, come già è stato giustamente notato, è una raffigurazione della vanità. Con queste due figure Michelangelo cerca apertamente di rappresentare il popolo di Israele che non ubbidisce a Dio e alla sua Legge e si preoccupa presuntuosamente di se stesso. Aminadab (pater meus spontaneus: il mio padre è spontaneo) Scorgiamo ora la stessa madre raffigurata come sposa sulla lunetta di fronte apparire come una delle figure più
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50. Parete sud, lunetta con La famiglia di Booz e il figlio Obed.
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51. Particolare di Booz, rappresentato come caricatura di papa Giulio ii che guarda il proprio volto intagliato in un bastone di legno.
52. Parete sud, vela sopra la lunetta della famiglia di Booz, La famiglia di Salmon.
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53. Parete nord, lunetta con Naasson e sua madre.
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54. Parete sud, lunetta con Aminadab e la sua sposa.
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belle di tutto il ciclo (fig. 54). Vestita con calze gialle e veste rossa, essa pettina i suoi biondi e lunghi capelli. Sulle sue ginocchia è posato un asciugamano candido. Sull’altro lato della lunetta, lo sposo tiene le mani incrociate tra le sue ginocchia e, come pieno di gelosia o addirittura di bramosia, guarda di sottecchi la sua sposa. Nella Cappella Sistina egli viene a trovarsi sulla destra, proprio sopra il trono papale. Tutti i colori della veste di Aminadab sono screziati. Le sue maniche sono di un giallo chiaro, che allude al suo modo di agire peccaminoso. Le calze della sposa sono colorate di giallo oro. Questo significa che la Chiesa in se stessa è santa fin dalle origini. Essa, poi, è vestita interamente del colore rosso dell’amore. Il nome di Aminadab compare nella Sacra Scrittura in passi importanti, vale a dire nel Cantico dei cantici dell’amore, in cui possiamo leggere, secondo la traduzione della Vulgata: «Io non sapevo. La mia anima era turbata a causa dei carri di Aminadab» (Ct Vulg. 6,11). L’Aminadab dipinto da Michelangelo non appare con lo sguardo turbato e come un cocchiere sulla sua cassetta? A questo versetto di difficile comprensione nel Cantico dei cantici segue poi: «Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti» (Ct Vulg. 6,12). La sposa che è raffigurata nella lunetta mentre si pettina i capelli non rappresenta la Sulammita, la sposa del Cantico dei cantici? Abraam, Isaac e Iacob (pater uidens populum, risus e supplantans: il padre che vede un popolo, riso e chi si mette al posto di un altro) Possiamo conoscere il soggetto delle ultime due lunette, che Michelangelo stesso ha sacrificato per il suo Giudizio universale, solo grazie alle incisioni, contenute nel libro di Ottley, che riproducono gli affreschi di Michelangelo. Queste un tempo dovevano mostrare abraam, isaac, iacob, iudas e phares, esron, aran, come risulta dalle iscrizioni relative riportate nelle medesime incisioni, da noi già menzionate all’inizio del nostro capitolo33. Ora dobbiamo aggiungere una descrizione dettagliata della loro composizione, cosicché i personaggi menzionati e le due donne raffigurate possano venire identificati in modo corretto. Purtroppo non sapremo mai nulla a proposito dei colori degli abiti. Nella lunetta di sinistra possiamo riconoscere Abramo, raffigurato sul lato destro, il quale, con la sinistra ben tesa, indica al figlio Isacco le chiavi incrociate dello stemma
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55. La lunetta originale a sinistra della parete dell’altare, prima del Giudizio universale, con Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuda e Rebecca; da W.Y. Ottley: “The Italian Schools of Design”.
papale, ricordando che per mezzo di queste chiavi, e non tramite il papa Della Rovere, il cui stemma è riconoscibile sotto di esse, giungeranno a compimento le promesse di Dio (fig. 55). Per quanto riguarda la metà sinistra della lunetta, restano ancora da presentare Giacobbe e Giuda, individuabili nel ragazzo e nel bambino alle sue spalle. Entrambi guardano, pieni di zelo, un libro aperto. Dietro la spalla di Giacobbe fa capolino una donna velata, sporgendo al di fuori del bordo finto della lunetta. Chi rappresenta? Dal momento che Giacobbe, nel modo in cui è raffigurato, sembra procedere da lei, andiamo certamente nella giusta direzione con la nostra interpretazione, vedendo in questa donna sua madre Rebecca. Phares, Esron e Aran (divisio, sagittam uidit siue atrium eorum e excelsus: separazione, ha visto una freccia o il loro atrio e sublime) La figura maschile raffigurata nella lunetta di destra sulla parete retrostante l’altare, è contraddistinta chiaramente dal bastone e dall’anello (fig. 56). Ancora una volta è rappresentato, qui, Giuda che tiene in mano i due pegni dati alla nuora per il rapporto sessuale consumato con lei, dal momento che non l’aveva riconosciuta perché travestita da prostituta (Gn 38,18). Ma anello e bastone sono anche simboli dell’episcopato. La figura femminile che, spaventata, guarda verso la parte sinistra della lunetta e che è raffigurata appena dietro Giuda, non può che essere Tamar che, alla pari di Rut e Betsabea, viene di pro-
56. La lunetta originale a destra della parete dell’altare, prima del Giudizio universale, con Giuda, Tamar, Er/Fares, Onan/Esrom e Sela/Aram; da W.Y. Ottley: “The Italian Schools of Design”.
posito menzionata nella genealogia di Gesù nel Vangelo secondo Matteo. I tre personaggi maschili sul lato sinistro della lunetta sono, allora, Fares, Esrom e Aram, ma, a giudicare dal modo in cui sono presentati, l’artista ha voluto assegnare loro un’ulteriore funzione, facendo impersonare a ciascuno un’altra figura biblica, vale a dire: Er, il figlio primogenito di Giuda e primo uomo di Tamar, poi Onan, suo fratello, e, infine, Sela, il più giovane della stirpe di Giuda. Ora, come racconta il Libro della Genesi (Gn 38,6-11), Er morì presto, senza una discendenza e Onan, che, secondo la Legge veterotestamentaria, avrebbe dovuto generare questa discendenza da Tamar per conto di suo fratello, faceva cadere il suo seme a terra. Egli subì perciò, come punizione, la morte immediata. Giuda, allora, non volle più dare in sposo a Tamar neppure il figlio più giovane, Sela. Tamar si servì del noto stratagemma per rimanere incinta del suocero. Michelangelo intese presentare Er, morto prematuramente, nella figura addormentata, Onan nella figura che volge altrove la testa, e Sela in quella del bambino. È dunque facilmente comprensibile il motivo per cui un papa venuto dopo, in questo caso Clemente vii o Paolo iii, abbia ordinato ancora una volta a Michelangelo di staccare questo affresco dalla lunetta. Questa allusione risultava troppo equivoca. Volendo identificare tutte le figure di questa lunetta, ci accorgiamo che i conti non tornano del tutto34. La figura che, secondariamente, potrebbe ricordare Onan, è anzitutto da interpretare probabilmente come una figura femminile e come madre del bambino che tiene in braccio, pur se rappresentata a capo scoperto: un particolare, questo, che nel nostro ciclo si addice generalmente alle fi-
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gure maschili. Il bambino sarebbe, allora, Aram, mentre quello che dorme sarebbe Esrom. A rappresentare Fares rimarrebbe, allora, la figura a destra della lunetta, che noi abbiamo riconosciuto come Giuda. Non potrebbe darsi che Michelangelo abbia messo nelle mani del figlio il bastone e l’anello del padre ricordandogli la sua ingloriosa origine? Probabilmente, un testo per il momento ancora sconosciuto potrebbe risolvere questo enigma. I dipinti dei quattro pennacchi della volta Davide e Golia Sopra la porta d’ingresso, sulla sinistra, Michelangelo ha ritratto la famosa scena in cui il giovane Davide stacca la testa al grande Golia (figg. 57, 58). In primo piano scorgiamo a terra la bianca fionda che avvolge una pietra. Lo stesso Golia è stramazzato in terra, davanti ad una tenda. Davide, con un ampio gesto, alza il braccio nell’atto di colpire con la spada ben evidente davanti alla sezione superiore della tenda giallo dorato. La tenda è, dunque, ripartita in due settori, quello superiore giallo oro e quello inferiore bianco argenteo. Supponiamo, allora, che la tenda sia qui presentata come immagine del cielo. Investigando sul significato della fionda nella Sylva Allegoriarum, opera spesso citata nella prima parte del nostro studio, troviamo che con «Funda David» si fa talvolta riferimento alla Sacra Scrittura, con la quale si combatte contro Golia, ovvero il diavolo. Ma essa è anche figura della Croce sulla quale è stata posta la pietra, cioè Cristo, che ha colpito il diavolo35. A destra e a sinistra della tenda si possono riconoscere altri personaggi. Dietro le gambe di Golia sono raffigurati, probabilmente, i Filistei, suoi commilitoni; in alto, a destra del pennacchio, il re Saul con uno dei suoi condottieri. Tuttavia quest’ultima figura potrebbe rappresentare uno dei fratelli di Davide. Per quanto riguarda i colori delle vesti, l’uniforme di Golia è verde. Egli aveva dunque riposto nel suo armamento speranze che sarebbero state disilluse. Le strisce del suo camiciotto sono di un giallo oro sporco e i suoi pantaloni grigio scuro. Davide, invece, indossa una camicia celeste ed un farsetto verde chiaro. In lui si legano la speranza e la contemplazione. La spada è la parola di Dio che discende dal cielo e taglia la testa al diavolo. La spada di Golia designa l’autorità della Sacra Scrittura, nella quale gli eretici cercano protezione per i lo-
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57. Pennacchio tra la parete d’ingresso e la parete sud, con Davide che uccide Golia; particolare della scena centrale.
58. Pennacchio tra la parete d’ingresso e la parete sud, con i Filistei, Davide e Golia, Abner e Saul.
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ro errori. Ma se Davide, cioè il forte predicatore, al quale questa spada ben si addice, colpisce proprio lo stesso Golia, l’eresiarca, allora la sua figura rimanda alle verità contenute nei libri dei pagani, per convincere l’eresiarca dei suoi errori. Giuditta e Oloferne Il pennacchio all’ingresso, sopra la raffigurazione dell’Ultima cena, presenta Giuditta e Oloferne (fig. 59). Ancora una volta, Michelangelo per procedere nella sua narrazione dovette adattare abilmente alla rappresentazione una superficie triangolare, nonostante fosse poco idonea poiché aveva un vertice rivolto verso il basso. La parte inferiore dello spicchio viene allora utilizzata per creare una certa distanza tra la scena e l’osservatore, ottenuta illusoriamente dipingendo un pavimento di color marrone, terrigno. Michelangelo riprende il motivo della punta del triangolo nell’edificio disposto diagonalmente che, privo di luci, si perde in profondità sulla sinistra e ha sul lato destro un’apertura nella quale è riconoscibile il cadavere di Oloferne disteso sul letto tra le cortine sollevate. Giuditta, che è sul punto di abbandonare questo luogo, guarda verso l’edificio, di cui è difficile riconoscere il materiale: non sappiamo, cioè, se sia costruito con tavole di legno o se si tratti di una tenda. Giuditta copre con un panno la testa mozzata di Oloferne, che la sua serva porta su un piatto poggiato sul proprio capo. All’estrema sinistra è abbozzata la figura di una sentinella che dorme appoggiata sul suo scudo. Due cose saltano all’occhio: la pacifica, nobile ed enorme testa di Oloferne e la curiosa acconciatura di Giuditta, guarnita di perle. L’unico volto visibile, oltre a quello di Oloferne, è il profilo rigoroso della serva, quasi forzatamente incastonato tra il suo avambraccio destro e quello sinistro di Giuditta. La testa di Oloferne ricorda quella di Michelangelo. La veste della serva cangia dal giallo al verde sporco, colore che abitualmente indica il peccato. Il rosso arancio della sopravveste simile ad una pianeta è smorto e la fodera interna, che si può intravvedere, è color viola della penitenza. La sciarpa azzurra che cinge questa sopravveste appena sotto il petto è di una lucentezza opaca. In tutt’altro modo risplende la sopravveste di Giuditta, che cangia dal bianco al verde. Il suo camiciotto di seta è azzurro, retto da una spallina che brilla di un giallo intenso. La cuffia ben aderente ai capelli è azzurra come il camiciotto. Giuditta è cinta da una sciarpa rossa, mentre
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un’altra sciarpa attraversa diagonalmente la sua schiena e la sua spalla destra, come la stola di un diacono. Una fascia simile, di color rosa, interseca orizzontalmente la collana di perle della sua cuffia intrecciata a nastro. Con la sua acconciatura e con l’azzurro e il bianco come colori dominanti della veste, essa viene caratterizzata come sposa. In tal modo, nel complesso generale degli affreschi della Cappella, le due donne fanno da riscontro alle due figlie di Ietro, il suocero di Mosè, già dipinte da Botticelli all’epoca di papa Sisto iv. Nella prima parte del nostro studio abbiamo considerato queste due donne come la sposa peccaminosa e la sposa pura del Cantico dei cantici. L’osservatore non può vedere il volto della sposa pura, la quale rappresenta la Chiesa e rimanda a Maria e alla sua Immacolata Concezione, così come previsto dal piano di Dio, perché ciò che è più bello rimane nascosto all’interno (cfr. Ct 4,1). Nella teologia medievale Oloferne è tipo del diavolo vinto dall’Immacolata Vergine Maria, la nuova Giuditta. Che Michelangelo sia stato così audace da caratterizzare con i suoi colori la serva come la compagna peccaminosa della sposa e da identificare se stesso con Oloferne, cioè con il diavolo? Abitualmente sul piatto portato sul capo viene riconosciuta la testa mozzata di Giovanni Battista. Che si voglia alludere ad entrambi gli episodi contemporaneamente? Esiste un’ambiguità nella rappresentazione, poiché, secondo il Libro di Giuditta, la serva riceve la testa staccata e la infila nella bisaccia (cfr. Gdt 13,11). Invece, la testa del Battista viene consegnata su un piatto a Salomè e, da questa, a Erodiade (cfr. Mc 6,25-28). Abbiamo così un fatto curioso in questo pennacchio: il cadavere nel cubiculo è quello di Oloferne, la testa sul piatto è quella del Battista. Nel quinto libro della Concordia Gioacchino da Fiore si occupa ampiamente di Giuditta, da lui considerata immagine anticipata della risurrezione di Cristo36. Tra le altre cose egli osserva che Giuditta ha staccato la testa di Oloferne dal corpo perché il genere umano, il cui capo è il diavolo, non avrebbe potuto essere salvato dai suoi peccati se non separandolo dal suo capo malvagio e, di conseguenza, facendolo morire nel battesimo perché potesse vivere con Cristo37. Nella composizione dell’affresco di Michelangelo di questo pennacchio rileviamo l’applicazione di un nuovo principio strutturale: principio che consiste nel presentare motivi iconografici formalmente simili, ma antitetici sul piano del contenuto. In altre parole: Giuditta appartiene ancora ad Oloferne, la serva è già Salomè con
59. Pennacchio tra la parete d’ingresso e la parete nord, con il Custode dormiente, Giuditta e la sua serva (nella posa di Salomè) che porta la testa di Oloferne su un piatto poggiato sul proprio capo, il corpo di Oloferne.
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60. Pennacchio tra la parete sud e la parete dell’altare, La cena di Ester, Assuero e Aman, la crocifissione di Aman, Ester e Mardocheo alla porta del palazzo del re, Mardocheo legge al re, in presenza di Ester, la relazione, contenuta negli annali, sui due eunuchi (raffigurati alla sinistra di Ester) che avevano tramato contro la vita del re.
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la testa di Giovanni Battista. Questo principio compositivo trova la sua giustificazione nei raffronti analoghi di tipo strutturale che si trovano nella letteratura di Gioacchino da Fiore. Nello strettissimo e reciproco intreccio tra motivi opposti, l’osservatore viene, così, stimolato alla riflessione. Nel quinto libro della Concordia non si parla di Giovanni Battista in relazione a Giuditta, ma nel contesto della storia di Ester. Nell’ultimo libro della Concordia, infatti, vengono messe a confronto quattro figure veterotestamentarie con i quattro Evangelisti e con avvenimenti chiave del Vangelo di Gesù Cristo. Giuditta diventa, così, tipo del Vangelo secondo Marco e figura che rimanda alla risurrezione di Cristo dai morti. Il Libro di Ester corrisponde al quarto Vangelo secondo Giovanni e rimanda all’ascensione di Gesù in cielo. Ma dai giorni di Giovanni il regno dei cieli patisce violenza38, e Giovanni fu il precursore, prima di essere invitato da Cristo al banchetto39. Ester e Mardocheo La storia di Ester, così come viene interpretata nella Concordia, concorre a spiegare importanti particolari che ritroviamo nei quattro affreschi dei pennacchi e dei quali, a poco a poco, parleremo in queste pagine. Infatti, la storia di Ester dipinta da Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina (fig. 60) segue fin nei minimi dettagli le corrispettive pagine del libro dell’abate calabrese40. L’affresco del pennacchio si trova tra i profeti Geremia e Giona, dunque proprio in linea diagonale rispetto a quello di Giuditta. Per Gioacchino tutte le persone della storia di Ester devono essere interpretate allegoricamente in base alla concezione espressa nella Concordia, cioè secondo l’analogia esistente tra l’Antico Testamento e l’epoca iniziata con la venuta di Gesù Cristo nella carne. Il re Assuero, dunque, è Cristo, Ester, la sposa e la regina, è la Chiesa romana. Essa fu condotta a Cristo da Mardocheo, cioè da Pietro, dopo che questi l’ebbe ricevuta e fatta crescere. Aman è il figlio della perdizione, l’anticristo di cui parla la Seconda Lettera ai Tessalonicesi (2 Ts 2,3), mediante il quale Mardocheo, il papa e, quindi, il rappresentante di Cristo, verrà messo alla prova per un certo periodo, finché non verrà portato a compimento il giusto giudizio nei confronti di questo figlio di Satana. Attendiamo ancora il tempo della prova che Gioacchino prevede si realizzi in futuro. Se teniamo presen-
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te che per Michelangelo ed i suoi contemporanei queste predizioni erano di grande attualità, risulta comprensibile perché nell’affresco del pennacchio egli abbia ritratto la storia di Ester con ogni cura. Al centro dell’affresco non sta l’episodio, solitamente raffigurato, della regina che, pur rischiando la condanna a morte, entrata dal re Assuero, chiede di intercedere per il proprio popolo minacciato di morte. Al centro qui sta, invece, la scena della punizione di Aman, il figlio della perdizione. Mai, in tutta la storia dell’arte, un libro intero della Sacra Scrittura è stato riassunto così bene in un unico affresco come in questo dipinto di Michelangelo che mostra, in tal modo, tutta la capacità di sintesi dell’arte figurativa, capacità insostituibile. Per la comprensione dell’affresco del pennacchio, che viene sistematicamente interpretato in modo errato, è importante tener conto della parete divisoria che, aperta da una porta, divide il dipinto in due zone. A sinistra una veduta esterna, a destra un ambiente interno. Il giovane con una veste giallo oro non può che essere Mardocheo, il custode della porta. Alle sue spalle è rannicchiata una figura femminile, vestita di bianco e di rosso: in lei si può vedere esclusivamente Ester, alla quale Mardocheo indica il letto del re Assuero. Siamo già a conoscenza del significato delle persone indicatoci da Gioacchino: Ester è la Chiesa romana, Mardocheo è Pietro e Assuero è Cristo. I valori cromatici si accordano con grande precisione. La sposa è vestita di rosso, il colore dell’amore, mentre la sua spallina è bianca, colore che designa la fede. È cinta di una sciarpa verde, la speranza, ed ha levato il mantello grigio bruno olivastro a ricordo della croce di Aman. Con questa scelta cromatica si vuole probabilmente alludere al passato pagano e peccaminoso di Roma, al tempo anteriore alla consegna di questa città, Chiesa-sposa, ad Assuero-Cristo da parte di Mardocheo-Pietro, che indossa la veste giallo oro della santità. Così, alla sciarpa verde usata come cintura corrisponde il mantello verde di Assuero. Questo accordo cromatico della speranza costituisce un riferimento alla speranza celeste. Le maniche di Ester non a caso sono argentate, poiché con l’eloquenza la Chiesa romana annuncia il Vangelo. Assuero, con la destra tesa, traccia una linea in direzione opposta al braccio di Mardocheo indicando Aman in croce. Dietro al suo letto riconosciamo il custode della porta insieme ad Ester e a due figure scure che si stanno allontanando verso sinistra uscendo dalla camera nuziale (fig. 61). Viene, dunque, presentata la notte in cui, secondo il sesto capitolo del Libro di Ester, il re Assuero,
61. Particolare del pennacchio tra la parete sud e la parete dell’altare, con i due eunuchi, Ester, Mardocheo e il re sul letto.
Alle pagine seguenti: 62. Pennacchio tra la parete dell’altare e la parete nord, con gli Israeliti salvati dallo sguardo del serpente di bronzo e il popolo attaccato dai serpenti che si attorcigliano nell’aria (simbolo delle suggestioni demoniache).
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non riuscendo a prendere sonno, si fece leggere da Mardocheo gli annali del regno. In questa occasione il re ricordò la benemerenza di Mardocheo registrata negli annali. Mardocheo infatti scoprì la congiura dei due eunuchi Bigtan e Teres contro il re. Per Gioacchino sventare la congiura degli eunuchi è immagine della fede in Dio dei papi romani ed anche del fatto che «essi non hanno potuto sopportare gli eretici». Il tutto riportato negli annali «affinché a Pietro, il rappresentante del tempo non buono, venga invece dato in contraccambio un tempo favorevole41» conformemente al merito che egli si è acquistato. E, come dice il Salmo 77 [78] e come pensa pure Gioacchino, il Signore si è destato dal sonno come uno assopito dal vino (cfr. Sal 77 [78], 65). «Allora Assuero, che alle preghiere della consorte si era mostrato mansueto, diede libero sfogo alla sua ira, perché Cristo Gesù, che sopporterà per un po’ di tempo il male, per le suppliche dei suoi eletti svelerà chiaramente i segni del suo giudizio. Ma cosa vi è di più? Aman, per ordine del re, alla fine è stato appeso alla croce che era straordinariamente alta e che egli stesso aveva preparato per Mardocheo»42. Il dipinto di Michelangelo è una precisa illustrazione di questo passo della Concordia, sul quale il pittore deve aver meditato profondamente, prima di accingersi a concepire e ad eseguire il dipinto. Nel corso del banchetto, descritto nel capitolo settimo del Libro di Ester, la regina svelò il complotto di Aman, presente in quella stessa occasione, ordito contro il popolo ebraico, ottenendo ciò che sempre aveva richiesto «poiché, ivi, la Chiesa si volge con tutte le sue forze alle opere di pietà e chiama il Signore verso di sé attraverso l’osservanza dei due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo»43. Durante il banchetto Aman indossa ancora la veste gialla del discernimento, la stessa che ritroviamo nella scena principale, inserita tra il legno della croce e il suo corpo nudo e sofferente: è di color giallo arancio come gli occhi delle tortore secondo l’iconografia cromatica di Ugo di San Vittore. Abbiamo già visto, a proposito dell’affresco di Giuditta, come Michelangelo abbia diviso il dipinto in due parti uguali, vale a dire il settore di Oloferne, da un lato, e quello di Giovanni Battista, dall’altro. Questa scelta potrebbe derivare dalla meditazione profonda sui testi della Concordia. Due volte, infatti, nella Scrittura un re risponde alle preghiere di una donna con la frase: «e se fosse anche la metà del mio regno, io te la darò». Si tratta del re Assuero nel Libro di Ester (Est 5,3) e del re Erode
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63. Il gruppo del Laocoonte nel Belvedere dei Musei Vaticani, modello per la parte destra dell’affresco con la scena del serpente di bronzo.
nel Vangelo secondo Marco (Mc 6,23). La testa di Giovanni Battista su un piatto posato sul capo di Salomè diventerà allora l’Aman crocifisso, la figura di Salomè sarà quella di Ester in una relazione antitetica escogitata così da percorrere diagonalmente tutta la volta della Sistina. Il serpente di bronzo Nell’ultimo affresco su pennacchio, situato sulla destra e al di sopra della parete retrostante l’altare, Michelangelo ha rappresentato quanto narrato dal Libro dei Numeri (Nm 21,9), che descrive come gli Israeliti, il popolo di Dio, si fossero salvati fissando lo sguardo sul serpente di bronzo (fig. 62). Anche ad una semplice occhiata di sfuggita all’affresco, salta subito agli occhi dell’osservatore il fatto che, accanto al serpente giallo attaccato al palo, si attorcigliano nell’aria dei serpenti di color verde brillante, pronti ad aggredire i tormentati Ebrei. Nel loro modo di attaccare e uccidere ricordano il gruppo di Laocoonte con i suoi figli (fig. 63). Ma cosa vorrà significare il
Gli affreschi di Michelangelo
particolare antinaturalistico, per cui i serpenti, senza alcun ausilio di ali, possono muoversi nell’aria? Per spiegare perché questi serpenti si attorciglino nell’aria, ci viene in aiuto un’opera letteraria probabilmente sconosciuta a Michelangelo. Si tratta della Vitis mystica, un tempo attribuita erroneamente a san Bernardo, il cui capitolo quarantacinquesimo verte sull’episodio del serpente di bronzo. «Cosa possiamo intendere di meglio con i serpenti se non le suggestioni diaboliche?», si domanda l’anonimo autore di quest’opera spirituale44. Infatti, come dei serpenti, esse si insinuano strisciando attraverso le menti (mentes) degli uomini e, se non vengono riconosciute come tali, danno subito loro un morso letale. Così sono periti i figli di Israele nel deserto. Ma il deserto è questo mondo nel quale andiamo errando e dal quale, però, siamo stati liberati dal nostro Legislatore, il Signore Gesù Cristo, mediante il battesimo. La mancanza di fede è l’origine di quasi tutti i vizi, dice l’autore. Per questo gli uomini diventano preda dei serpenti, vale a dire dei demoni. Il vizio della mancanza di fede è stato però guarito mediante l’innalzamento del serpente di bronzo. Lo scrittore spirituale si occupa in modo approfondito di Cristo in croce, di cui il serpente di bronzo rappresenta l’immagine, allo stesso modo in cui viene visto nel Vangelo secondo Giovanni. «Alziamo, dunque, anche noi lo sguardo verso il volto del serpente di bronzo innalzato, verso Cristo, se vogliamo venire liberati dalle malvage e avvincenti suggestioni dei demoni»45. Sul lato sinistro dell’affresco sul pennacchio troviamo i figli di Israele che alzano lo sguardo al serpente di bronzo. Proprio in primo piano, un giovane, con il farsetto rosso e con i calzoni che cangiano dal verde al rosso, solleva la sposa che indossa la veste bianca della fede. Un nastro verde gli attraversa il petto, come verde è il turbante dell’uomo con la barba subito dietro di lui. La veste di quest’uomo è giallo oro e sulle sue spalle è seduto un bambino nudo che protende la manina verso la testa del serpente di bronzo, come per accarezzarla. Sul lato destro del pennacchio i serpenti, sospesi nell’aria, attaccano le teste di bambini e adulti. Tre tra queste figure lottano contro grossi serpenti che, avvinghiati, cercano di strozzarli. Come nel gruppo del Laocoonte, uno è stato ucciso dal morso del serpente. Sull’estrema destra un serpente verde brillante sta entrando nella bocca di un giovane. Un altro serpente dalle avide fauci spalancate afferra all’occipite un uomo più anziano per divorarlo dalla testa. Di questo gruppo, nel quale ritornano i sentimenti espressi nel gruppo del Laocoonte, colui che giace
esanime indossa un camiciotto giallo chiaro, colore che ricorda quello del peccato. La figura principale, che sta lottando con un serpente, indossa brache grigio violaceo, mentre la manica destra del farsetto luccica come nella brace accesa. I demoni, dice il nostro autore, in questa vita conducono alla rovina gli uomini privi di fede «con l’incendio delle loro malvage ispirazioni»46. La scena in cui la sposa, morsa più volte all’avambraccio destro, viene sollevata, è in pieno accordo con l’esortazione del nostro testo: «alziamo gli occhi... verso il volto del serpente di bronzo innalzato...»47. Conclusioni La ripulitura degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina è stata definita il restauro del xx secolo. Rendere di dominio pubblico gli affreschi nei loro sfarzosi colori permette uno studio sul loro significato prima d’ora inimmaginabile. Con il raffronto delle composizioni e i testi letterari che hanno costituito la fonte originaria d’ispirazione, la Concordia Novi ac Veteris Testamenti di Gioacchino da Fiore in primo luogo, se ne è potuto appurare il vero contenuto. Solo così si sono apprezzate, sotto questo nuovo aspetto, le reali capacità artistiche di Michelangelo. In proposito si sono rivelati di particolare interesse i quattro affreschi dei pennacchi che testimoniano il programma unitario di tutta la volta della Sistina. Certamente i due dipinti sopra la parete d’ingresso, che raffigurano Davide e Giuditta, sono stati realizzati proprio all’inizio dell’attività di Michelangelo nella Cappella Sistina, mentre quelli sopra la parete retrostante l’altare, che raffigurano la Storia di Ester e quella del Serpente di bronzo, sono stati eseguiti solo alla fine. In proposito, l’arco di tempo compreso tra il principio e la conclusione del lavoro va dagli ultimi mesi del 1507, quando Michelangelo iniziò ad occuparsi dell’imponente opera, fino al 14 agosto 1512, giorno in cui questa venne terminata. Sul piano del contenuto, abbiamo rilevato che nei settori delle lunette e degli spicchi Michelangelo applica propri principi compositivi fino ad allora sconosciuti. Nella lunetta di Giacobbe-Giuseppe, sopra la parete d’ingresso, ha lavorato seguendo il principio delle molteplici interpretazioni di un’unica figura, a seconda che essa venga posta o meno in correlazione con le altre figure rappresentate nella medesima lunetta. Ad esempio, la stessa figura femminile potrebbe essere interpretata sia come
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La Sistina svelata
Rachele, moglie di Giuseppe l’egiziano, che come Maria di Nazareth. Inoltre, come attestano i singoli dipinti qui esaminati, il valore iconografico del colore, già definito per gli affreschi quattrocenteschi della Cappella, rimane ancora in vigore. Le caratteristiche cromatiche, la gestualità e il significato degli antenati di Gesù, così come sono stati presentati da Gioacchino da Fiore, hanno permesso a Michelangelo di esprimere costantemente nei suoi affreschi opinioni critiche nei confronti della Chiesa e del pontefice. Nei pennacchi della Cappella il pittore ha, poi, dispiegato tutta la sua abilità artistica, che si coglie pienamente a partire dalle interpretazioni allegorizzanti delle storie bibliche ivi rappresentate. Il pittore non ha raffigurato i singoli episodi, ma ha fornito la chiave interpretativa appoggiandosi ai Padri e ai teologi medievali. In tutto questo giocano sempre un ruolo importante le scelte cromatiche, la gestualità e la relazione reciproca tra le persone e gli oggetti. Così, ad esempio, la spada con la quale Davide taglia la testa a Golia sembra calare dalla parte superiore della tenda che costituisce lo sfondo della scena e che ricorda, se non altro per il colore giallo oro della sua zona superiore, la tenda celeste. La compagna di Giuditta rammenta piuttosto la fisionomia di Salomè e la testa staccata sul piatto fa pensare ad un osservatore attento alla testa di Giovanni Battista. Motivi simili, da interpretarsi in maniera antitetica, si intrecciano l’uno con l’altro seguendo questo principio compositivo, al punto che l’osservatore è spinto a chiedersi cosa effettivamente si esprima con una simile composizione. Viene, perciò, stimolato a meditare su ciò che è raffigurato e nello stesso tempo è invitato a cogliere un nesso tra la decapitazione di Oloferne e quella del Battista, e tra la persona di Giuditta e quella di Salomè. Nell’affresco del pennacchio sulla Storia di Ester, Ester è raffigurata tre volte, mentre Mardocheo, Aman e il re Assuero vengono raffigurati ciascuno due volte. Viene, così, concentrato nel più piccolo spazio ciò che, diversamente, si sarebbe potuto presentare in una sequenza com-
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pleta: Ester richiamata da Mardocheo sul suo destino di sposa del re, la notte insonne del re Assuero e la lettura di Mardocheo degli annali unitamente al loro contenuto – vale a dire il complotto dei due eunuchi sventato da Mardocheo –, il banchetto con Aman e la sua punizione con la croce. Infine Michelangelo abbandona la rappresentazione realistico-imitativa per raffigurare nel suo ultimo affresco su pennacchio i serpenti che uccidono i figli di Israele nel deserto non più strisciando sulla terra, ma attorcigliandosi nell’aria: infatti questi serpenti, secondo l’anonimo autore medievale della Vitis mystica, non sono altro che suggestioni di spiriti malvagi capaci di sviare gli uomini dalla fede e farli invischiare in ogni genere di vizi. Sebbene Michelangelo avesse una buona conoscenza delle opere di Gioacchino da Fiore e delle idee in esse formulate, non è possibile abbia concepito gli affreschi della Sistina, qui esaminati, senza l’aiuto di un consulente per il programma teologico. L’artista è stato però in grado di apprendere moltissimo in un brevissimo arco di tempo, cosicché, nelle sue composizioni ha potuto ricorrere, con grande libertà, all’apparato interpretativo allegorizzante della Scrittura con cui sicuramente ha preso confidenza tramite un teologo. L’accento critico nei confronti della Chiesa e del papa, che noi abbiamo continuamente riscontrato, potrebbe essere un contributo personale di Michelangelo stesso. Inoltre si sono presi in considerazione i semplici racconti dell’Antico Testamento nella loro molteplice stratificazione grazie all’interpretazione allegorizzante. Questo significò per l’artista un ampliamento delle possibilità espressive della sua capacità artistica, che egli ha reso duttile al fine di una pluralità di significati. Secondo il metodo, costantemente applicato, del raffronto dei dipinti con le fonti che li hanno ispirati, e tramite il quale si sono ricavate molte nuove conclusioni, dobbiamo ora esaminare i grandi affreschi principali, che hanno come tema la Creazione e la prima storia dell’umanità, e il rapporto con le raffigurazioni dei Profeti e delle Sibille, degli ignudi e dei tondi dipinti accanto a loro.
Parte terza LE SIBILLE E I PROFETI
Le Sibille e i Profeti
Ancora oggi si dà credito all’opinione, diffusa da Michelangelo stesso, secondo la quale il programma che avrebbe dovuto eseguire originariamente prevedeva la raffigurazione dei dodici Apostoli1. Ad un tale progetto si opponevano, però, non poche difficoltà. Infatti, Pietro e Paolo, i prìncipi degli Apostoli, i primi della serie dei papi, con tutta probabilità erano già stati raffigurati all’epoca di papa Sisto iv, sulla parete retrostante l’altare, alla destra e alla sinistra del Cristo. Naturalmente non disponiamo di alcuna informazione su come dovesse apparire la zona superiore della parete retrostante l’altare prima che venisse modificata dall’affresco del Giudizio universale. Possiamo avere un’idea molto precisa solo della pala dell’altare, che ritraeva Maria come una giovane in cielo tra angeli musicanti e al di sopra dei dodici Apostoli, grazie ad un disegno conservato nell’Albertina di Vienna (fig. 5)2. Come mostra uno schizzo custodito al British Museum, in un primo tempo, nelle porzioni della volta esistenti tra le lunette, era prevista la raffigurazione di dodici grandi figure sedute (fig. 64)3. Se queste figure intendevano realmente rappresentare i dodici Apostoli, essi, quali pilastri della Chiesa, avrebbero, allora, dovuto sostenere il peso della volta. Tuttavia, in questo caso, l’Apostolo, eventualmente raffigurato sopra il Cristo della parete retrostante l’altare, si sarebbe trovato in una inopportuna contrapposizione, sia dal punto di vista estetico sia sul piano simbolico, con il Signore ritratto in piedi in una nicchia. Sarebbe stato, certamente, poco indicato rappresentare un Pietro in trono sopra Cristo in piedi. Giona4 ha trovato 64. Michelangelo, schizzo preparatorio dello schema decorativo per la distribuzione delle figure sulla volta, Londra, British Museum.
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a pieno titolo il suo posto sopra Cristo, senza per questo costituire un disturbo per il Giudice universale raffigurato successivamente sotto di lui. Giona, in quanto profeta, appartiene ad un’altra epoca, occupa una diversa posizione nella storia della Salvezza costituendo, inoltre, un riferimento alla Risurrezione di Cristo. Dal momento che gli Apostoli sono coevi di Cristo e seguono il medesimo ordine nella storia della Salvezza, nessuno di essi poteva figurare sopra il suo Signore tra le due lunette della parete retrostante l’altare. Questo fu, probabilmente, il vero motivo per cui il progetto degli Apostoli, appena preso in considerazione, venne subito abbandonato. Inoltre non è facile capire perché la raffigurazione degli Apostoli – contrariamente al pensiero di Michelangelo succitato – avrebbe dovuto essere una «cosa povera». L’idea secondo cui le dodici figure in trono degli Apostoli sulla volta della Cappella Sistina fossero sostituite da Profeti e Sibille può essere stata concepita esclusivamente dai teologi competenti e responsabili dell’elaborazione del programma e non da parte dell’artista stesso. Michelangelo, al posto dei dodici Apostoli, si accinse così a dipingere sette Profeti e cinque Sibille. Michelangelo in realtà non voleva accettare l’incarico di papa Giulio ii, incarico che consisteva nel dipingere dapprima la Cappella papale e nel portare a termine, solo in un secondo momento, il già iniziato monumento funerario del papa5. Ora, osservando la copia di Jacopo Rocchetti dello schizzo del monumento funerario di papa Giulio ii tracciato da Michelangelo, attualmente in possesso dei Musei Statali di Berlino, vi si potrà notare, come di consueto, una disposizione molto simile a quella degli affreschi della Cappella Sistina (fig. 65)6. Come gli imponenti Profeti e Sibille, separati da un cornicione, erano dipinti sopra i papi in piedi nelle nicchie (fig. 66), anche nel monumento papale erano previste quattro figure veterotestamentarie sedute in trono, al di sopra di figure più piccole in piedi nelle nicchie sottostanti. Michelangelo ha potuto dire la sua nel programma per il monumento funerario di papa Giulio ii, così come ci è stato dettagliatamente tramandato nell’esposizione di Ascanio Condivi7 e di Giorgio Vasari8. Si trattava semplicemente di scegliere quali persone e quali allegorie si dovessero rappresentare e come si dovessero ripartire nel complesso architettonico del monumento; la questione riguardante il pluristratificato programma previsto per la Cappella Sistina era molto diversa. Come già esposto dettagliatamente, negli affreschi realizzati all’epoca di Sisto iv erano stati definiti i singoli colori nel loro significato. Ma,
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65. Jacopo Rocchetti, copia di un disegno di Michelangelo con lo schizzo del monumento funerario di Giulio ii, Berlino, Kunstbibliothek. 66. Angolo nord-est della Cappella durante il restauro, la Sibilla Delfica in trono, sopra la nicchia con un papa già dipinto all’epoca di Sisto iv.
poiché Michelangelo, fino ad allora, non aveva mai creato nulla di simile con un contenuto così complesso, dovette in questo ambito imparare qualcosa in più9. Fu forse per questo motivo che egli, in quanto scultore, mostrò sempre una certa resistenza ad accettare l’incarico degli affreschi. In effetti rinunciò quasi del tutto ad alcuni dettagli significativi nell’ambito del linguaggio figurativo, come esempio la rappresentazione di uccelli e di alberi diversi10. Questa iniziazione alla dottrina del linguaggio figurativo, dottrina per lui nuova, e con essa, la dipendenza dai teologi incaricati di delineare il programma degli affreschi, devono aver rappresentato per Michelangelo una cosa poco piacevole. Fu così indotto, più tardi, probabilmente durante l’esecuzione della seconda parte degli affreschi della volta, a liberarsi di costoro, e, in seguito, a negare che egli fosse stato introdotto al contenuto dei suoi dipinti per merito di questi teologi11. Per quanto gli fu possibile, anche nei dipinti della Cappella ricorse ai concetti formali sviluppati nella realizzazione del monumento funerario del papa. Ma il passaggio dall’esteriore all’interiore, dalla piena plasticità della scultura al mondo fenomenico puramente bidimensionale della pittura, dalla dimensione di significato facilmente intuibile delle statue ad una struttura relazionale contenutisticamente complessa, non deve essere avvenuto con faci-
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67. Stanza della Segnatura, intradosso della finestra sotto la lunetta del Parnaso, Raffaello, Il giudizio di Paride: esempio di psicologia trinitaria attraverso un mito antico, chiaroscuro.
Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
lità. Nello stesso tempo questo cambiamento rappresentò anche il distacco da una cultura espressiva che dà vita solo alla materia, secondo il modello dell’antichità, e l’orientamento a lasciar penetrare il proprio mondo artistico dal contenuto cristiano che gli veniva proposto. Se si prende in considerazione il principio compositivo applicato a tutti i Profeti e le Sibille, si constata che le figure in trono vengono affiancate da due figure più piccole, per lo più nude. Inoltre, sotto il piedestallo del trono, ad eccezione di quello di Zaccaria, Michelangelo ha dipinto un fanciullo nudo in piedi che regge sul capo il riquadro scritto con il nome di ogni rispettiva persona seduta in trono. Sotto la figura del profeta Zaccaria, sul lato dell’ingresso, si trova lo stemma di papa Sisto iv risalente al tempo del pontefice, mentre il fanciullo reggente il riquadro col nome di Giona, nella porzione superiore della parete retrostante l’altare, fu sacrificato per la realizzazione del Giudizio universale. Ciascuno dei semipilastri che sorreggono il finto cornicione formano, nello stesso tempo, una sorta di sponda del trono. Come già ricordato nella seconda parte della nostra ricerca, sono abbelliti da una coppia di putti nudi, quasi sempre un fanciullo e una fanciulla in finta scultura marmorea, con una funzione estetica, quasi fossero Atlanti col compito di sorreggere il cornicione12. Inoltre, nel pas-
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La Sistina svelata
68. Il profeta Zaccaria, schema delle giornate dell’affresco. 69. Porzione centrale della volta sovrastante la parete d’ingresso, Il profeta Zaccaria, immagine allegorica della volontà, insieme alle raffigurazioni della memoria e dell’intelletto. Il profeta, ritratto di Giulio ii, indossa la veste e il manto del Mosè degli affreschi quattrocenteschi.
so suddetto, abbiamo espressamente richiamato l’attenzione sulle coppie di fanciulli, caratterizzati sessualmente, che sono in correlazione con la tematica «sposo-sposa» della Cappella. Bisognerebbe chiedersi quale sia il significato delle figure che accompagnano le Sibille e i Profeti in trono ritratte alle loro spalle. La chiave interpretativa di queste figure, le cui teste sono presentate quasi sempre alla medesima altezza di quelle dei Profeti e delle Sibille, si ricaverebbe dalla speculazione psicologica sulla Trinità. La dottrina sviluppata da sant’Agostino nella sua opera De Trinitate afferma che non può esistere immagine migliore di Dio di quella dell’anima umana, poiché Dio è puro spirito13. Dio è trino e uno nello stesso tempo. L’anima dell’uomo è totalmente spirito ed è una. Ma come Dio è Padre, Figlio e Spirito, così nell’anima si riconoscono tre facoltà distinte, vale a dire memoria, intelletto e volontà. Come nella Trinità tutto ha origine dal Padre, cioè il Figlio e lo Spirito, così ogni azione umana ha origine dalla memoria, in primo luogo gli atti completamente spirituali, quali quelli dell’intelletto e della volontà. Come il Figlio procede solo dal Padre, lo Spirito dal Padre e dal Figlio, così l’intelletto procede dalla memoria e la volontà dalla memoria e dall’intelletto. Uno, dunque, non proviene da nessun altro, un altro dal primo, ed un terzo dal primo e dal secondo. Questa struttura trinitaria è considerata da Gioacchino da Fiore fondamento costitutivo di tutto il suo sistema14. Michelangelo attraverso le prediche del Savonarola ebbe la possibilità, già a Firenze, di venire a conoscenza di questo sistema trinitario15. A Roma all’epoca dell’artista era soprattutto il francescano Pietro Galatino ad interessarsi di Gioacchino da Fiore16. Nella Roma del primo decennio del xvi secolo, la riflessione psicologica sulla Trinità viene condotta soprattutto dal monaco agostiniano Egidio da Viterbo nelle sue lezioni e nelle sue prediche, adattandola addirittura a soggetti della mitologia pagana: ad esempio, alle tre dee del giudizio di Paride, Giunone, Minerva e Venere (fig. 67)17. Dopo queste considerazioni semplici e fondamentali sulla teologia trinitaria di sant’Agostino e sulla possibilità che Michelangelo le abbia conosciute, volgiamo nuovamente la nostra attenzione sulle sue Sibille e sui suoi Profeti. Una delle due figure che li accompagna è sempre alle loro spalle e solitamente ha la schiena rivolta verso la parete vuota di marmo sullo sfondo del trono. L’altra, a volte un profeta – per esempio Daniele –, è sempre rappresentata in stretta relazione con la prima, come derivasse
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da essa; mentre la terza figura, che ha origine dalle prime due, è quasi sempre la sibilla, sebbene talvolta sia sostituita dal profeta, per esempio Zaccaria. Analizzando ogni singolo profeta o ogni singola sibilla, insieme alle due figure che li accompagnano, secondo lo schema trinitario appena abbozzato, si delinea non solo una modalità di raffigurazione psicologica, finora sconosciuta all’arte, ma anche possibilità espressive di natura teologica tali da permettere a Michelangelo una ricca differenziazione dei singoli portatori della Rivelazione. Solo a questo punto le nostre considerazioni e osservazioni nella descrizione dei singoli affreschi di Profeti e Sibille ci permette di riconoscere il contenuto illustrato nella sua completezza. Zacherias Il trono del penultimo tra i cosiddetti dodici Profeti minori dell’Antico Testamento sembra ergersi come un unico pezzo al di sopra della volta (fig. 69) che, in quel punto, presenta i due pennacchi con le scene di Giuditta e di Davide. Tramite l’illusione prospettica, la parete d’ingresso, sopra la porta, appare più alta di quanto sia effettivamente. Lo stesso si può dire per i lati lunghi e per la parete retrostante l’altare, ma solo nella parete d’ingresso l’effetto illusionistico della sopraelevazione del muro rispetto alla volta riesce in modo persuasivo. Nella parete retrostante l’altare, con il trono di Giona, questo effetto è oggi attenuato poiché la superficie con l’enorme affresco
Alle pagine seguenti: 70. La Sibilla Delfica, personificazione della volontà, con le raffigurazioni della memoria e dell’intelletto. La doppia coppia di fanciulli in finto marmo indica il tema della Chiesa sposa che imita il suo sposo Cristo.
La Sistina svelata
del Giudizio universale manca completamente di articolazioni architettoniche, annullando la parete come tale. Per i troni dei Profeti e delle Sibille Michelangelo non ha scelto un unico punto di vista, di conseguenza l’armonica e illusoria sopraelevazione della parete, che giunge fino a un falso cornicione, è nell’insieme meno appariscente, tanto più che la striscia di cielo azzurro al di sopra di questo cornicione riesce a mettere in risalto solo sul lato dell’ingresso e su quello dell’altare, amplificandolo, l’effetto della sopraelevazione della retrostante parete dipinta. La parete d’ingresso ricorda una controfacciata coronata da un monumento dalla notevole rilevanza plastica, vale a dire il trono del profeta Zaccaria, che sembra stagliarsi contro il cielo. All’effetto facciata contribuiscono anche la finte nicchie dipinte dei quattro papi, risalenti al tempo di papa Sisto iv, unitamente ai finti vani di finestre profondamente incavati e affiancati dalle figure dei papi. In nessun altro posto della Cappella come in questo viene richiamato alla memoria con tale vividezza il monumento funebre di papa Giulio ii. Abbiamo già accennato alle analogie con la struttura del monumento, così come lo raffigura il disegno di Berlino. Ma si colgono reminiscenze non solo nei troni dei Profeti previsti sopra il cornicione del monumento funerario. Il volto di Zaccaria, infatti, poteva perfettamente ricordare quello di papa Giulio ii ai contemporanei. Se confrontiamo il viso del profeta, ritratto di profilo, con quello di papa Giulio ii dipinto allo stesso modo da Raffaello nella sua Messa di Bolsena, non possiamo fare a meno di constatare una notevole somiglianza18. Risalta la stessa forma ovale della calotta cranica completamente calva. Il papa si riconosceva certamente nel profeta Zaccaria come sposo della Chiesa. Nel libro di questo profeta troviamo, infatti, i seguenti passi: «Gioisci, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te – oracolo del Signore» (Zc 2,14) e «Esulta grandemente, figlia di Sion. Giubila, figlia di Gerusalemme. Ecco, a te viene il tuo re» (Zc 9,9). Il papa entrando solennemente nella sua Chiesa completamente decorata, avrebbe dovuto ricordarsi di questi versetti. Papa Giulio ii non era certamente un erudito. In proposito, è rimasto famoso l’episodio tramandato dal Condivi: quando si trovava a Bologna per la creazione della monumentale figura bronzea del papa, Michelangelo chiese al pontefice se dovesse mettere un libro nella mano sinistra della sua statua; al che il papa rispose: «Mettimi una spada»19. Il profeta Zaccaria non è dipinto da Michelangelo nell’atto di leggere, ma in quello di sfogliare un libro, co-
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me sono soliti fare gli analfabeti. Inoltre il suo volto è scuro, nascosto dall’ombra, al pari di quelli del ragazzo e della ragazza che si trovano accanto a lui in piedi e dietro le sue spalle. Come accade solitamente in una coppia di fratelli, la giovinetta tiene il braccio posato sulle spalle del ragazzo. In proposito, abbiamo detto che queste figure, accanto ad un profeta o ad una sibilla, alludevano alle facoltà dell’anima. Avvicinandole al personaggio principale si raggiunge sempre il necessario numero tre. La fanciulla, che si trova più vicina alla parete di fondo, rappresenta la facoltà dell’anima della memoria, il ragazzo l’intelletto, in latino intellectus. Zaccaria, nel gioco tripartito, prende il posto della voluntas, la volontà. Ma tutti e tre vengono raffigurati con i loro volti nell’ombra e con il mantello rosso gettato sulla spalla sinistra che separa i due fanciulli dal profeta. Michelangelo ci trasmette così un preciso messaggio riguardo allo stato delle facoltà e al loro reciproco rapporto nell’anima della figura principale rappresentata. La memoria, il passato è oscuro. Anche l’intelletto si è oscurato e tutt’e due insieme non hanno alcun influsso sulla volontà che, separandosi, si è resa indipendente. Solo la volontà di questa persona è messa in risalto, per cui l’equilibrio armonico nella sua anima è turbato. Tutto questo non trova effettivo riscontro in Giulio ii? Egidio da Viterbo, nel testo dottrinale sopracitato, ha rimproverato Paride per aver scelto in modo unilaterale Venere, che per i teologi rappresenta la voluntas e per aver, così, gettato scompiglio nell’armonia dell’anima20. In questo testo la trinità presente nell’animo umano viene, per la prima volta, scissa e ascritta alle tre Persone. Michelangelo ha così tratto vantaggio da questa interpretazione. La veste ed il mantello del profeta corrispondono sul piano cromatico alle vesti di Mosè degli affreschi quattrocenteschi della Cappella. Il verde chiaro del mantello è lo stesso del mantello di Mosè; il significato potrebbe infatti essere il medesimo. In entrambi i casi si rimanda alla speranza: per Mosè la speranza nella terra promessa, per lo Zaccaria di Michelangelo probabilmente la speranza in una riappacificazione nella Chiesa, forse, addirittura, la speranza in un papa simile ad un angelo, tanto atteso fin dall’epoca di Gioacchino da Fiore. La veste dorata della santità con la funzione profetica o papale viene ornata dal colletto celeste della contemplazione. La parte superiore del mantello, e precisamente la fodera, è colorata con il rosso dell’amore; tuttavia questo colore rimane opaco perché è mischiato al marrone. Desta interesse una precisa descrizione delle due coppie di fanciulli dipinte a rilievo marmoreo ai lati del trono.
Questi fanciulli, che sorreggono il cornicione sopra il quale è dipinto il cielo azzurro, sono evidentemente gli Atlanti della volta celeste. Le loro braccia sinistre sono incrociate l’una con l’altra ed essi puntellano, così, il cornicione solo con la loro rispettiva destra. Entrambe le fanciulle respingono con la coscia quella del loro compagno, mentre i due fanciulli poggiano il loro braccio sinistro sulla spalla delle due fanciulle. In un gioco innocente si atteggiano, così, a coppia di sposi. Dopo il recente restauro e la registrazione dei risultati raggiunti, con l’ausilio di un computer installato sull’impalcatura, possiamo seguire in modo preciso il processo del lavoro compiuto dall’artista e dai suoi aiutanti21. Per prima cosa fu dipinto il riquadro col nome del profeta (fig. 68). Poi, in un giorno, venne compiuta la struttura del trono, compreso il piede sinistro di Zaccaria. Dopo di che si dipinse la porzione inferiore del mantello verde. Poi, in altri quattro giorni di lavoro, venne ultimata la figura del profeta, partendo dal basso verso l’alto. Dopo questo Michelangelo dipinse i due pennacchi triangolari con le storie di Giuditta e di Davide e, solo in seguito, il trompe l’oeil che incornicia la figura del profeta; di qui, in ultimo, i due semipilastri con le coppie di fanciulli. Quelle di destra sono certamente di Michelangelo, quelle di sinistra sono dovute ad un aiutante. Particolare cura fu necessaria per il cornicione spezzato sopra i semipilastri in scorcio: da questo scorcio, infatti, dipende, in gran parte, l’illusoria profondità spaziale e il rilievo plastico del profeta e delle figure che l’accompagnano. Delphica La prima sibilla dipinta da Michelangelo è anche la più conosciuta: si tratta, infatti, della sibilla dell’oracolo di Delfi (fig. 70). Nessuna delle veggenti dello scultore fiorentino è dotata di attributi diversi da quelli consueti22. Ma, affinché ognuna sia chiaramente identificabile, Michelangelo dipinge un fanciullo nudo che regge un riquadro con il nome della sibilla, come fa anche per i Profeti. La Delfica è accompagnata da una fanciulla dipinta esattamente nel pennacchio compreso tra le lunette sovrastanti le finestre. La troneggiante sibilla collocata sopra la fanciulla nuda va messa in correlazione con due dei grandi affreschi quattrocenteschi, vale a dire la Consegna delle chiavi del Perugino – o meglio, come detto nella prima parte della nostra ricerca, l’Edificazione della Chiesa con pietre vive23 – e l’Ultima cena di Cosimo Rosselli, con i tre scorci
71. Il Profeta Gioele, ritratto di Bramante, personificazione dell’intelletto, con le raffigurazioni della memoria a sinistra e della volontà a destra.
prospettici sulle scene della Passione. Forse, proprio per questa correlazione con i sottostanti affreschi della Passione, la testa della Delfica ricorda la scultura che è considerata più significativa di Michelangelo, il volto della Vergine Madre di Dio della Pietà. I due fanciulli sui semipilastri, a destra e a sinistra della sibilla, rappresentano due Atlanti in piedi l’uno accanto all’altro nell’atto di sorreggere con le loro braccine il cornicione spezzato. Questo grava pesantemente sui semipilastri addossati alla parete. In ciascuna delle coppie, la ragazza guarda verso il ragazzo che le sta accanto in piedi. Per chi è capace di avere uno sguardo d’insieme contemplativo riecheggia, qui, il tema della Chiesa come sposa che guarda verso il suo sposo crocifisso, la cui Passione è raffigurata sul lato destro al di sotto della Delfica. Anche la veggente, mossa dallo spirito, si volge al profeta Zaccaria il quale, come si è detto, celebra la venuta dello sposo dalla sua sposa Sion, figura della Chiesa. Osservando con più attenzione, notiamo che la veggente indirizza il suo sguardo allo stemma di Sisto iv, che si trova ai piedi del profeta. Dal momento che questo è simile allo stemma di Giulio ii, è evidente qui l’allusione al papa regnante come sposo della Chiesa. Il viso della Delfica è, a sua volta, presentato insieme a quello di due fanciulli. Queste due persone che l’accompagnano, probabilmente una ragazza ed un ragazzo, sono totalmente nudi, come quelli accostati alla figura di Zaccaria. Stanno in piedi sul sedile del trono sul quale siede la sibilla. La figura, che riteniamo sia una ragazza, volge la schiena alla parete e tiene un libro aperto davanti al ragazzo intento a leggerlo. Il volto della prima persona, ad eccezione di una piccola macchia luminosa sulla fronte, si trova totalmente nell’ombra, come è altrettanto scuro il viso del ragazzo che legge. Colui che legge un libro può rappresentare solo l’intelletto, l’intellectus; «intellegere» significa, infatti, «leggere dentro ad una cosa». La persona che regge il libro rappresenta, a sua volta, la memoria, il ricordo. La stessa veggente, nel suo movimento, con la pergamena nella destra, proviene dai due fanciulli. Come nella visione agostiniana dell’anima, la volontà ha origine dalla memoria e dall’intelletto; qui si tratta dunque della voluntas. Con la sinistra essa tiene un pezzetto di carta ripiegato alludendo all’oracolo delfico. I capelli della Delfica sono mossi dal vento, mentre il suo mantello, celeste sul lato esterno, li copre come un velo all’altezza dell’attaccatura. Dal capo della sibilla il mantello scende fin sulla sua spalla destra: di qui, passando di traverso sul petto, giunge a coprire la spalla sinistra
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72. La Sibilla Eritrea, sposa di Iafet, partecipa, grazie al suo matrimonio, alla rivelazione veterotestamentria; essa rappresenta l’intelletto ed è illuminata dalla personificazione della volontà, mentre la figura della memoria nella penombra si sta svegliando.
La Sistina svelata
e a gonfiarsi, poi, dietro la schiena, in modo da rendere visibile la fodera color croco. Il colore giallo croco avvolge le terga, i fianchi e le ginocchia, lasciando apparire attorno alla vita e alle gambe la veste verde chiaro stretta da una cintura subito sotto il seno. Sotto l’ascella la cintura è chiusa da una fibbia rotonda e dorata. La bocca della sibilla è socchiusa, come fosse sul punto di pronunciare la parola misteriosa e profetica; quella stessa parola alla quale allude con la pergamena bianca e col pezzetto di carta ripiegato. Sia il rotolo che l’oracolo sfiorano la fodera del mantello color croco, colore degli occhi della colomba che, secondo lo scritto attribuito a Ugo di San Vittore sopra citato, simboleggia il discernimento spirituale24. Tentiamo ora l’interpretazione delle vesti. La parola pronunciata dalla sibilla Delfica è avvolta nel verde della speranza, che ha solidità nella promessa di un futuro divino e dorato. Solamente chi ha il dono del discernimento spirituale e quello della contemplazione celeste, insieme al frontale bianco della fede, potrà comprendere questa parola. Né la memoria né l’intelletto sono più offuscati, sicché la volontà può indirizzare lo sguardo verso lo sposo celeste. A questo punto qualcuno potrebbe nutrire dei dubbi nei confronti di una tale interpretazione dei colori e dei gesti, non potendo tuttavia negare che approdi ad un senso. Ioel Il profeta Gioele è seduto dirimpetto alla sibilla Delfica e indossa una veste penitenziale viola che tocca il pavimento, mentre il mantello rosso è posato sulle spalle e copre le ginocchia (fig. 71). La veste ha un colletto verde; una stola azzurra è stesa dalla spalla destra al fianco sinistro, mentre una sciarpa bianca funge da cintura. Il profeta sta leggendo in una pergamena in buona parte srotolata: possiamo supporre che la sua persona rappresenti l’intelletto, l’intellectus. Se osserviamo l’affresco da sinistra a destra, troviamo dietro la sua spalla destra, all’estrema sinistra, la figura nuda di fanciullo. Costui è stato finora interpretato come rappresentazione della memoria, ritratto in piedi con la schiena rivolta alla parete. All’estrema destra, immediatamente dietro la spalla sinistra di Gioele, si trova una seconda figura che, con il braccio e l’indice tesi, si volge verso il primo fanciullo, oltre le spalle e la nuca del profeta. Ambedue sono certamente dei ragazzi. Il vento che soffia da destra verso sinistra muove i capelli delle tre persone. Il
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ragazzo all’estrema destra che simboleggia, probabimente, la volontà, tiene sotto il braccio sinistro un grosso libro con la copertina verde, volgendosi, nello stesso tempo, alla figura della memoria. I due Atlanti fanciulli sono in piedi l’uno accanto all’altro, quasi puntellassero il cornicione con le due mani, come i fanciulli della Delfica da cui si differenziano solo perché, qui, le due ragazze all’interno guardano in basso, alla pergamena che il profeta sta leggendo, mentre i ragazzi volgono gli occhi altrove. Cosa starà leggendo il profeta Gioele nel rotolo? Probabilmente quel passo del suo Libro a cui si riferisce lo stesso Pietro nel discorso del mattino di Pentecoste: «Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni carne e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie...» (Gl 3,1; cfr. At 2,17s.). Gioele aveva spiccate doti oratorie e predicava la penitenza: «Or dunque – parola del Signore – ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti, con lamenti.» (Gl 2,12). Michelangelo potrebbe, perciò, avergli assegnato la veste viola della penitenza, così come gli ha assegnato il mantello rosso, colore che rimanda allo Spirito dell’amore. Il colletto e la copertina del libro, verdi come la speranza, sono a contatto con questo mantello. Come nel ritratto di Zaccaria, il volto del profeta ha la verosimiglianza di un ritratto del Bramante. La testa rotonda, la fronte alta, i capelli bianchi attorno alle tempia ci permettono di riconoscere il suo ritratto anche nell’Euclide della Scuola di Atene di Raffaello nella Stanza della Segnatura. Bramante, in quanto architetto pontificio, era il diretto committente di Michelangelo. Sappiamo che Bramante leggeva dei passi della Divina Commedia di Dante a papa Giulio ii quando era a letto ammalato senza trovar pace25. Al contrario del profeta Zaccaria, Michelangelo ha raffigurato Gioele nell’atto di leggere il suo messaggio dal proprio rotolo. Egli non solo sfoglia il libro, ma non dà segno di non comprenderne il messaggio. L’artista indica così, nel gioco tripartito delle forze dell’anima, che esse sono rinchiuse nel loro movimento circolare. Solo gli occhi del fanciullo, che rappresenta la memoria, sono appena velati dall’ombra. In tal modo rimane conservato il carattere misterioso del messaggio. Erithraea Secondo la tradizione dei Libri sibillini giudaici, una delle nuore di Noè salvate dal diluvio si chiamava Eritrea26. Per questo motivo la troviamo nella Sistina sotto il
La Sistina svelata
Sacrificio di Noè (fig. 72). Secondo la tradizione derivante dagli oracoli sibillini giudaici costei era pagana e divenne partecipe della rivelazione del vero Dio grazie al matrimonio con uno dei figli di Noè. Le due coppie di fanciulli simili ad Atlanti addossati ai semipilastri alludono, non senza una dose di arguzia e una certa impudenza, alla parentela acquisita tramite il matrimonio con un portatore della Rivelazione. Infatti, su ambedue i lati, la ragazza urta con il ginocchio contro la coscia del ragazzo e sembra guardare giù nella Cappella verso l’osservatore come per chiedere candidamente se le sia permesso farlo. Ma ancor più sollecitano il nostro interesse le due figure che accompagnano la sibilla poste dietro il leggio ricoperto di un tessuto celeste. Il fanciullo alle spalle sembra essersi appena svegliato e si stropiccia ancora gli occhi. L’altro, invece, accende con una torcia una lampada ad olio appesa ad un portalampade ricurvo collocato sopra il leggio su cui è posto un grande libro aperto nel quale la sibilla sta leggendo. Il fanciullo soffia con forza in direzione del fuoco, cosicché la fiamma guizza orizzontalmente sopra la testa della Eritrea: come se, con la lampada ad olio, anche lo spirito della veggente venisse acceso da questa torcia. Interpretiamo sempre la lettura come un riferimento all’intellectus, l’intelletto. Ai due fanciulli possiamo così attribuire le altre due restanti facoltà dell’anima: al fanciullo che si stropiccia gli occhi per svegliarsi la memoria, a quello che accende la lampada la volontà. Ma la lettura e la comprensione del libro si fondano anche sulla contemplazione: infatti, il libro è su un supporto ricoperto da tessuto celeste. Ha, invece, i colori celeste, verde e rosso il prezioso fazzoletto intrecciato nella capigliatura dell’Erithraea. La capigliatura intrecciata, come abbiamo visto, rimanda alla condizione di sposa27. Celeste è, poi, la pettorina che continua nel colletto ed appartiene ad un corpetto, verde sulle spalle, verde e giallo nella parte che copre il petto, e rosso chiaro tra i seni e nella regione addominale. Esso stringe a sua volta l’ampia tunica senza maniche, cinta da una sciarpa verde sotto il petto. Il mantello è verde, mentre la fodera è giallo oro. Sotto il leggio di legno marrone si intravvede un tessuto violaceo che pende dal sedile marmoreo fino al pavimento. Intorno ai fianchi della sibilla è annodata una sciarpa azzurra, mentre il suo mantello verde tende alle tonalità giallo chiare. Nella raffigurazione di questa sibilla Michelangelo dispiega tutta la ricchezza della sua tavolozza. Cerchiamo almeno di leggere alcuni particolari. La sibilla è colta proprio nel momento in cui sta iniziando a
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73. Il Profeta Isaia, rappresentazione dell’intelletto, con Emmanuele, personificazione della volontà, e la Vergine, personificazione della memoria. Il profeta, meditando, comprende ciò che si legge nel suo Libro: «Ecco, la vergine concepirà...».
presentire il senso del messaggio che legge nel suo libro: infatti la nuova luce della rivelazione divina si accende nel suo intelletto. Contemplazione, speranza e amore sono ben presenti nel suo spirito: ad esse alludono, infatti, i colori del fazzoletto sul capo, di cui un lembo azzurro giunge fino al suo orecchio, terminando con tre nodi bianchi. Con questo particolare all’apparenza insignificante il pittore sottolinea come la contemplazione conduca all’ascolto della fede. La veggente è completamente avvolta nella tunica bianca della fede che, nonostante le screziature di giallo chiaro peccaminoso28 sul petto, nasconde il corpetto del colore dell’amore come seconda virtù di colei che si è dapprima rivestita completamente della fede. Sebbene il mantello verde si muti nel giallo chiaro del peccato, esso lambisce il tessuto celeste del supporto che sta sotto il libro e il viola che si intravvede sotto il mantello stesso: la contemplazione e la penitenza. In tal modo il giallo oro della santità posto sulle gambe accavallate a forma di croce colora la fodera dal mantello. Michelangelo ha deliberatamente scelto gli accordi cromatici secondo la nostra lettura? Noi non lo sappiamo. Non si può, però, assolutamente negare che questa lettura e l’interpretazione concordino pienamente con i dipinti di Noè della volta. Esaias Di fronte all’Eritrea, su un trono di marmo, siede Isaia (fig. 73). Qui sono le fanciulle a formare le due coppie di finti Atlanti (fig. 74) e la figura situata all’interno guarda verso quella dipinta all’esterno del finto semipilastro; quest’ultima volge completamente lo sguardo verso l’interno, come in una visione interiore. Anche l’altra figura infantile collocata più indietro, sul sedile del trono, è una ragazza avvolta da una veste color croco. Tra lei e il profeta sta, invece, un ragazzo: il suo mantello verde chiaro, gonfiato dal vento, svolazza vistosamente, mentre egli, tendendo la destra e l’indice, richiama l’attenzione del profeta verso un punto situato sulla sinistra, oltre la parete retrostante. Lo stesso vento gonfia il mantello celeste di Isaia, raccolto sulla spalla da una fibbia rotonda rossa, lasciando scorgere, così, la sua fodera. Il profeta, ancora giovane, con i capelli crespi e argentati, ha appena letto un libro, che stringe nella sinistra tenendo, con il dito mignolo tra le pagine, il segno di un passo che lo scuote visibilmente nell’intimo. È difficile che possa trattarsi di un passo diverso da questo: «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele
Le Sibille e i Profeti
74. Il profeta Isaia, con le due coppie di fanciulle in finto marmo, e la Delfica con le coppie di sposini.
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(Dio con noi)» (Is 7,14). Probabilmente, il mignolo, a giudicare dal numero delle pagine che separa, indica proprio questo passo del Libro del profeta Isaia. Fino a che punto Michelangelo ha curato questo particolare nel dettaglio! Ma come si deve, ora, interpretare la disposizione delle tre teste? A questo proposito occorre distinguere due piani: uno filosofico ed uno teologico. La ragazza sullo sfondo non può che rappresentare la facoltà dell’anima della memoria. Essa non procede da alcun’altra persona. Da essa, invece, provengono tanto il profeta con il suo mantello gonfio, quanto il fanciullo con il suo gesto di richiamo, esibito con estrema vivacità. Questi è al centro tra il profeta e la ragazza. Dal momento che il ragazzo non si cura del libro ed è rappresentato in movimento, è più facile che egli simboleggi la volontà. Non resta che attribuire al profeta la facoltà dell’intelletto. Nella rappresentazione delle persone è attribuito un primato alla seconda dimensione, quella teologica. Infatti, la ragazza rimanda alla vergine che concepirà un figlio, mentre il ragazzo richiama il bambino stesso: in lui e nel suo sguardo è presente lo Spirito di Dio che ispira il profeta. Gli occhi di Isaia, dipinti con le palpebre socchiuse, sembrano misurare di sottecchi tutta la Cappella, verso la parete retrostante l’altare, nel punto in cui, un tempo, si poteva ammirare l’Immacolata del Perugino (fig. 5). Francesco della Rovere, dalla cui Orazione della Immacolata prende le mosse tutto il programma degli affreschi della Sistina – come già esaminato nella seconda parte di questa ricerca – nel discorso in onore di Maria ha espressamente menzionato il passo sopracitato tratto dal capitolo settimo del Libro di Isaia29. La tunica giallo chiaro del profeta potrebbe far riferimento ai peccati del popolo di Dio e dei suoi re, condannati da Isaia in modo del tutto particolare. La sua sopravveste è viola purpureo, come le vesti che avrebbero avvolto il Dio Creatore nella più tarda Creazione del mondo di Michelangelo. Una sciarpa bianca gli cinge i fianchi. La manica sinistra della tunica nell’ombra ha la medesima colorazione viola purpurea della sopravveste. Questo viola purpureo freddo e lucente è tra i colori caratteristici di Michelangelo: ricorda la tonalità della pietra, non del tessuto. Esso allontana dall’osservatore colui che ne è rivestito: infatti, nella sua freddezza ha qualcosa di inaccessibile, come l’espressione del volto di Isaia strappa il profeta a colui che l’osserva. Il mantello celeste avvolge il profeta nella contemplazione. La sua fodera, color verde speranza, come il mantello rigonfio del fanciullo ispiratore, rimanda al futuro, al
tempo in cui la parola del profeta, custodita nel libro con la copertina azzurra, giungerà a compimento: «Ecco, la vergine concepirà un figlio». È possibile che il giallo croco del mantello della ragazza sullo sfondo sia un riferimento a quella nascita verginale diversa da tutte le altre nascite? Si tratta del mistero fondamentale della fede cristiana, che la differenzia dalle altre religioni e secondo cui il Figlio di Dio si sarebbe rivestito di carne nascendo dalla Vergine. Cumaea Come i due Atlanti che, accanto alla figura di Isaia, guardano l’uno in lontananza, l’altro, invece, verso l’interno, allo stesso modo fanno anche le due coppie di fanciulli formate da un ragazzo e da una ragazza che accompagnano la figura della sibilla Cumana (fig. 75). Lo sguardo delle ragazze è rivolto verso l’interno, mentre i ragazzi guardano alle figure adiacenti, poste rispettivamente a destra e a sinistra dell’imposta della volta e negli spicchi triangolari. La veggente, in età avanzata ma con le braccia muscolose come quelle di un eroe, è rivolta verso destra e sta leggendo un grosso libro in folio con la legatura verde. Muove le labbra, tuttavia sembra comprendere a fatica il messaggio profetico (il futuro è richiamato dal colore verde della legatura del volume). Inoltre le manca il libro dell’amore con la legatura rossa che il ragazzo nudo, in prima fila e in piedi sul sedile del trono, tiene sotto il suo braccio destro. Il secondo fanciullo, che indossa il mantello verde della speranza, sta dietro di lui abbracciandolo. La coppia di fratelli guarda in silenzio lo sforzo della veggente. Memoria e intelletto abbandonano alla propria attività la volontà, rappresentata nuovamente dalla figura della sibilla. La sibilla ha il dono della contemplazione, come lascia intendere la sua tunica celeste senza maniche, e quello del discernimento spirituale, come appare dal suo mantello color croco. Il profilo sottile della scollatura sul petto è tuttavia di un giallo chiaro peccaminoso, mischiato col verde. La sua cuffia e la sua sciarpa sono di un bianco luminoso, colore della fede. Come la legatura del librone in folio, è verde anche la borsa che contiene le pergamene e che, con le sue frange rosse, pende dal cuscino rosso sangue. Su questo è posato il libro letto dalla sibilla. Inoltre, a sinistra, accanto alla borsa, è appeso un pugnale. Cosa vorrà significare? La Cumana prevede eventi sanguinosi. Già Botticelli alluse ad uno di questi fatti cruenti con i suoi primi due affreschi della Cappella, vale a dire l’assassinio di Giuliano de’ Medici durante la congiura dei Paz-
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75. La sibilla Cumana, rappresentazione della volontà, cerca di decifrare il futuro cruento, indicato da un pugnale. Memoria e intelletto, abbracciati tra loro, l’accompagnano nel faticoso intento.
zi a Firenze. Nella prima parte della nostra ricerca abbiamo mostrato il nesso tra gli affreschi e quell’avvenimento30. Sull’estrema sinistra del dipinto, che ha per tema il sacrificio di purificazione veterotestamentario insieme a quello delle Tentazioni di Gesù, è ben riconoscibile uno dei congiurati con il pugnale in mano. Come Botticelli, anche Michelangelo era un sostenitore del partito dei Medici, dal momento che Lorenzo de’ Medici fu il suo primo mecenate, avendolo accolto in giovane età in casa sua e nella sua cerchia di artisti. Insieme con l’Eritrea, la Cumana era la più apprezzata tra le Sibille, e nella Cappella Sistina essa rappresenta la penisola italica. Secondo il libro sesto dell’Eneide di Virgilio, questa sibilla ha aperto al troiano Enea l’accesso agli inferi, luogo in cui gli venne predetto il futuro di Roma. Virgilio è considerato tra i maggiori autori da Egidio da Viterbo, che conobbe questo poeta durante il suo periodo napoletano all’Accademia del Pontano, prima di venire chiamato a Roma da papa Giulio ii e prima di diventare il più eminente predicatore tra gli intellettuali della corte papale31. Del resto, non si può escludere che il profeta raffigurato dalla parte opposta della Cumana dovesse ricordare proprio questo predicatore. Ezechiel Il profeta, discendente da una stirpe di sacerdoti, tiene posato sul capo e sulle spalle il «tallit», lo scialle della preghiera proprio degli ebrei (fig. 76). Una delle due figure di fanciulli che lo accompagnano, vestita solo di un leggero mantello verde chiaro che svolazza scendendo dalle spalle, indica verso l’alto con entrambe le mani. Sembra sfiorare il finto Atlante sulla sinistra, e allo stesso tempo guarda negli occhi di Ezechiele, come volesse ispirarlo. Il profeta, a sua volta, fissa le mani del fanciullo. La mano destra dell’uomo di Dio è aperta nel tipico atteggiamento oratorio, mentre nella sinistra tiene un rotolo ancora semisrotolato, in parte coperto da segni grafici indecifrabili. Per le due coppie di finti Atlanti questa volta si tratta probabilmente solo di ragazzi. Davanti al tessuto che costituisce, come sempre, lo sfondo della coppia, sono collocati i due fanciulli messi di spalle e di sbieco. Quello in posizione esterna appoggia una mano sulle spalle di quello all’interno. La muscolatura decisamente sviluppata induce a concludere che si tratti di figure maschili. Dietro la testa del profeta, Michelangelo ha dipinto il viso di un fanciullo che guarda all’indietro, verso lo spa-
Le Sibille e i Profeti
zio anteriore della Cappella. Ezechiele guarda, infatti, in direzione dell’ingresso, dato che gli occhi sono rivolti alle mani dell’altro fanciullo che indicano verso l’alto. È proprio il profeta che cantò l’ingresso della Gloria di Dio nel tempio attraverso la porta orientale (cfr. Ez 43,2). Infatti, come nella basilica di S. Pietro, nella Cappella Sistina, eretta in posizione parallela ad essa, l’ingresso è situato ad oriente. Nella Cappella, Ezechiele è dipinto all’altezza della transenna in pietra che separava il Santuario dal Santo dei Santi; ancora oggi sotto il profeta si trova il pulpito. Ma se Ezechiele seguisse con lo sguardo l’indice dell’infante dal mantello verde chiaro – si tratta qui probabilmente di una fanciulla – scoprirebbe la scena della Creazione di Eva, che Michelangelo ha dipinto sulla volta, proprio al centro della Cappella. Francesco della Rovere nella sua Orazione della Immacolata cita il passo del Libro di Ezechiele a cui i mariologi accostano la figura della Vergine Madre di Dio: «Mi condusse, poi, alla porta esterna del santuario dalla parte di oriente: essa era chiusa. E il Signore mi disse: questa porta rimarrà chiusa e non verrà aperta, nessuno vi passerà, perché vi è passato il Signore, Dio d’Israele...» (Ez 44,1s.)32. Lo stesso Francesco della Rovere parla anche di Eva creata come prototipo dell’Immacolata; se Adamo ed Eva sono stati creati senza peccato originale, allora «era cosa conveniente» che la «Vergine, che portò nel suo grembo Dio e l’uomo e per mezzo della quale pervenne nuovamente la salvezza al mondo e che, a causa della sua indicibile umiltà, meritò di diventare madre di Dio, avesse, però, qualcosa di più eminente di quanto era stato dato ad Adamo ed Eva, coi quali ebbe inizio la colpa originale»33. Eva, creata senza peccato, è dunque prototipo di Maria, concepita senza peccato affinché, senza conoscere uomo, potesse diventare madre dell’Uomo-Dio. Per il teologo francescano e futuro papa Sisto iv Maria è anche quella porta d’ingresso che, secondo la profezia di Ezechiele, era chiusa. Ezechiele è raffigurato sopra la porta che solo il papa, in sostituzione di Cristo, avrebbe potuto varcare entrando nel Santo dei Santi della Cappella, insieme con i suoi chierici. I laici dovevano accontentarsi di stare nel Santuario, vale a dire lo spazio antecedente la transenna: proprio in questo punto Michelangelo ha dipinto la Creazione di Eva, al culmine della volta. La rappresentazione delle tre teste va, probabilmente, letta secondo l’interpretazione trinitaria enunciata da Agostino sull’animo umano. La testa del fanciullo dipinto dietro la nuca del profeta è simbolo della facoltà della memoria, Ezechiele stesso dell’intelletto e il fanciullo nu-
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76. Il profeta Ezechiele, rappresentazione dell’intelletto, davanti alle personificazioni della volontà e della memoria, ha una visione che si traduce nell’annuncio della Parola. Gli sposini in finto marmo si guardano a vicenda.
La Sistina svelata
do della voluntas, la volontà. Quest’ultimo, a sua volta, è in piedi sul libro posato sul sedile del trono. Egli, dunque, non procede solo dal fanciullo dipinto dietro il profeta, ma anche da questo libro e, in tal modo, dal profeta stesso. Una tale composizione sta a significare che Ezechiele comprende pienamente ciò che vede e lo traduce in parole con la sua oratoria. Egli è totalmente investito dall’ispirazione, dal vento che accarezza anche i capelli dei due fanciulli e muove il piccolo mantello verde chiaro della voluntas. Michelangelo sembrerebbe riferirsi al passo del sesto libro dell’Eneide, che descrive come la Cumana venne investita dallo spirito divino: «adflata est numine»34. Ezechiele è vestito del colore rosso dell’amore. Lo scialle della preghiera, blu chiaro, allude alla contemplazione delle cose celesti, alle quali richiama l’attenzione, con entrambe le mani, il fanciullo, possibile immagine della volontà. Il mantello ha la tonalità viola della penitenza: Ezechiele ha infatti richiamato insistentemente i suoi conterranei alla penitenza, come fece anche Egidio da Viterbo. Rimanendo in questo ambito, notiamo che, a lato dei finti Atlanti, un demonio dal colore del bronzo spinge col piede, con tutta la forza possibile, il semipilastro, come volesse far crollare la divina architettura. In una delle nostre analisi parleremo approfonditamente di questi demoni. Al lato del demonio, in direzione dell’altare, il suo compagno si appoggia con tutto il peso contro l’altro finto semipilastro. I due nudi bronzei, uniti dal bucranio di un ariete, si trovano in corrispondenza della Creazione di Adamo sulla volta della Cappella. Ad essi segue una coppia di fanciulli-Atlanti e, nuovamente, una sibilla. Persicha Le vesti della sibilla Persica hanno i colori dell’amore, della speranza e della fede. Nella Cappella la sibilla siede di fronte al profeta Daniele, vissuto nel regno dei Persiani (fig. 77). La fodera del mantello della Persica è rosso fuoco, mentre la stoffa è rosso chiaro, cangiando sul suo ginocchio in un viola chiaro. Il vestito senza maniche è verde chiaro, con la cintura dorata. Bianco è il camiciotto, mentre è di un tenue verde il velo che avvolge i capelli della veggente miope per l’età avanzata. Girata verso la parete, sta leggendo un libro che avvicina esageratamente agli occhi. Alla sua destra, disposti sullo sfondo, stanno in piedi i fanciulli che accompagnano ogni sibilla nella Cappella. Un ragazzo si avvolge in un mantello rosso; dietro le sue spalle, il volto di una ragazza, definito da poche pen-
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nellate, non può che rappresentare la memoria; il fanciullo è probabilmente l’intellectus, l’intelletto, i cui pensieri sono completamente avvolti nel mantello rosso dell’amore. Egli procede pienamente dalla ragazza. La Persica è rivolta indietro verso tutt’e due, trasportata completamente dalla lettura del libro. La copertina è di un rosso più scuro di quello del mantello del ragazzo, la cui tonalità rimanda alla fodera del manto della sibilla. Sebbene la sibilla comprenda con più fatica il messaggio del libro, è avvolta totalmente dalle tre virtù teologali che la uniscono a Dio: fede, speranza e amore. I fanciulli-Atlanti, alla destra e alla sinistra del suo seggio, sono ancora coppie di sesso diverso. Gli Atlanti hanno un braccio intrecciato l’uno con l’altro e si coprono l’un l’altro con un unico velo tirando sulle testoline il tessuto che pende dietro di loro (fig. 78). Michelangelo probabilmente faceva mimare alle coppiette il loro matrimonio, come fosse un gioco. Daniel Di fronte alla Persica, sopra la parete con gli affreschi neotestamentari, è seduto il profeta Daniele, mentre scrive, con un gesto energico, usando un carboncino su un foglio posato su uno scrittoio inclinato (fig. 79). I due fanciulli nudi a finto rilievo marmoreo accanto a lui danzano tra loro: si tratta, probabilmente, della danza nuziale che segue al rito del matrimonio. Uno dei due fanciulli, non si trova più con l’altro fanciullo sul sedile, ma sta davanti, sul piedestallo, tra le ginocchia del profeta. Questo ragazzo, completamente nudo, sorregge un grande libro dalla legatura rosso scura e aperto sulle sue spalle. Perché Michelangelo ha scelto una composizione così diversa dalle altre configurazioni tripartite? Un’occhiata all’Orazione della Immacolata di Francesco della Rovere ci rende più facilmente comprensibile questa soluzione. Il passo del libro del profeta Daniele citato dal teologo francescano, futuro papa Sisto iv, riguarda la pietra che, senza intervento umano, si staccò dal monte mandando in frantumi la statua che re Nabucodonosor vide in sogno. Senza alcuna indicazione di riferimento, egli lo collega immediatamente con altri passi profetici, il primo dei quali è rintracciabile nel capitolo nono del Libro del profeta Isaia. Poiché il profeta Daniele era l’unico ed il solo ad essere citato espressamente dal teologo, poté sembrare che anche la seconda allusione ad un passo profetico, quella al «Liberatore..., il cui regno poggia
77. La sibilla Persica, rappresentazione della volontà , davanti alle personificazioni dell’intelletto e della memoria, si affatica nel decifrare un testo.
78. Particolare di una delle due coppie di fanciulli accanto alla Persica. Giocano al matrimonio (matrimonium ratum) mettendosi sotto lo stesso velo. Il demonio tenta d’impedirlo con tutte le sue forze.
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79. Il profeta Daniele, rappresentazione dell’intelletto, disegna su un foglio, con un carboncino, ciò che comprende. La personificazione della volontà porta il libro, dietro la spalla del profeta è raffigurata la memoria. I fanciulli in finto marmo eseguono la danza nuziale.
sulle sue spalle», si trovasse parimenti in Daniele35. Forse Michelangelo ha intenzionalmente raffigurato in primo piano la voluntas, una delle tre figure che rappresentano le facoltà dell’anima umana. La voluntas procederebbe dalle altre due, come portatrice del libro, legandosi così a quest’ultimo passo profetico che allude a Cristo. Dietro le spalle del profeta si scorge il fanciullo che rappresenta la memoria, avvolto nello stesso mantello che, tirato sul capo, copre anche lo schienale del trono del profeta. Dal momento che Daniele procede per primo da questa figura di fanciullo, egli rappresenta l’intellectus, sebbene dipinto nell’atto di scrivere. Al mantello viola della figura identificata come la memoria, si contrappone il colore del mantello di Daniele, colore che deriva dalla mescolanza di toni rossi chiari e violacei, mentre la fodera interna del mantello del profeta, dal bordo guarnito di frange dorate, cangia dal giallo chiaro al verde. Il fanciullo che sorregge il libro si appoggia col gomito destro sulla fodera giallo chiaro gettata sul ginocchio destro del profeta. La restante fodera del mantello, colorata di verde, orlata di frange dorate, si stende dietro le spalle del fanciullo completamente nudo che sorregge un libro così grosso da coprire anche il ginocchio destro di Daniele. Nella Cappella il giallo chiaro è il colore del peccato, soprattutto quando la tonalità è abbinata al verde o cangia in questo colore. La fodera del mantello avvolge le terga del ragazzo nudo. Leggiamo, così, questo particolare alla luce dell’interpretazione cromatica: mentre il ragazzo regge sulle spalle il pesante libro dalla legatura rossa dell’amore, è sfiorato sulla destra dal mantello del peccato, mantello che nei colori ricorderebbe la porpora regale già vista nella figura del profeta Isaia. Con questo fancillo che sorregge il libro si vuole, forse, alludere a Cristo che ha preso sulle sue spalle il peso della croce e «il cui regno poggia sulle sue spalle»? Sopra un corpetto bianco chiuso sulla spalla destra da una fibbia rotonda e dorata a mo’ di bottone, Daniele indossa una tunica celeste lunga fino ai piedi e il cui bavero, nell’impetuoso gesto della scrittura, scivola giù dalla spalla e si ripiega su se stesso. In tal modo è possibile vedere solo la fodera bianca della tunica e ben poco della guarnizione giallo chiara del bavero. Se cerchiamo di leggere i colori e la disposizione della figura del profeta e dei suoi due accompagnatori, approdiamo all’incirca a quest’interpretazione: penitente, rivestito della fede e della contemplazione celeste, al pieno servizio della parola messa per iscritto, egli riconosce la faccia peccaminosa del potere regale,
Le Sibille e i Profeti
simboleggiato dal mantello, il cui peso effettivo, insieme a quello dell’amore, sarà sostenuto da un altro che si sottometterà docilmente a questo compito. Il libro che, con la sua coperta rossa e il profilo dorato, non era ancora stato consegnato alla Cumana, significa, probabilmente, la rivelazione divina. Con la morte in croce di Cristo si sarebbe compiuta la Scrittura. Tra gli altri particolari, la matita corta in mano a Daniele è più idonea al disegno che alla scrittura. È lo stesso strumento usato da Michelangelo per trasporre immediatamente sulla carta la sua ispirazione. Accenniamo al fatto che, nel corso dell’ultimo restauro, è emerso lo stato di degrado della superficie dipinta di questa figura in particolare, dovuto alle infiltrazioni di acqua piovana e alle macchie causate da un silicato scuro attaccato tenacemente al pigmento. In passato si resero così necessari parecchi ritocchi. I migliori ritocchi, vale a dire il restauro generale del mantello rosso violaceo sopra il ginocchio sinistro, sono merito della mano di Annibale Mazzuoli che, per ordine di papa Clemente xi, negli anni 1710-1712 lavorò nella Cappella come restauratore36. Libica L’ultima delle Sibille rappresenta il continente Africa, così come la sorella, Persica, rappresenta l’Asia (figg. 77, 80, 81). Le altre tre, la Delfica, l’Eritrea e la Cumana (figg. 70, 72, 75), appartengono alla cultura mediterranea improntata dalla grecità. Tali concetti tuttavia non hanno avuto influssi di alcun tipo sulla creazione artistica: si possono solo dedurre dal programma, in base alla scelta dei nomi delle Sibille. L’idea fondamentale espressa dalle immagini riguarda sempre la relazione sposo-sposa, come già enunciato nella seconda parte del nostro studio. Le fanciulle e i fanciulli del finto rilievo marmoreo esibiscono qui il tema nuziale con un movimento del passo estremamente audace: il gesto del ragazzo che inserisce il ginocchio tra le cosce della ragazza. Anche il trono, rivestito di un tessuto verde damascato, ricorda un talamo: il damasco verde ricopriva i posti a sedere dei cardinali durante le funzioni religiose solenni, in particolare durante i concili. Così come in ogni occasione in cui una figura femminile ricorda la Chiesa come sposa, questa sibilla ha una corona di capelli intrecciati nella quale, sulla testa e sulla fronte, è infilato il fazzoletto rilucente d’argento. La Libica guardava, un tempo, alla pala d’altare dell’Immacolata, il prototipo della sposa. La sua figura e le sue vesti richiameranno chiaramente
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80. Michelangelo, disegno per lo studio della posizione delle braccia e del volto della sibilla Libica; Londra, British Museum.
alla memoria dell’osservatore il versetto del Salmo 68 nella versione della Vulgata (Sal [Vulg. 67],14). Israele, il popolo di Dio, è la colomba dalle penne ricoperte d’argento («pennae columbae deargentatae») e dal dorso splendente dell’oro («et posteriora dorsi eius in pallore auri»). Nella prima parte del nostro lavoro abbiamo visto che Signorelli, nel suo affresco sulla «replicatio» della Legge scritta da parte di Mosè (fig. 25), ha raffigurato questa colomba del salmo come sposa coperta da un mantello dorato37. In proposito avevamo poi detto che questa raffigurazione risale all’interpretazione del salmo nel De bestiis et aliis rebus, opera attribuita ad Ugo di San Vittore. Nella seconda parte del nostro studio abbiamo ritrovato una prima raffigurazione della colomba in una figura femminile di Michelangelo. Si tratta della sposa nell’affresco dello spicchio dedicato alla famiglia di Zorobabele, uno degli antenati di Gesù38. Il bordo dell’abito senza spalline della Libica è guarnito di una cimosa rilucente d’argento e, dove esso ricopre le sue «posteriora dorsi», brilla di riflessi dorati, mentre sopra le ginocchia si nota la sua fodera rossa, colore dell’amore. La sottoveste viola chiaro ricorda la penitenza. Il modo con cui essa, tendendo le braccia, prende il libro appoggiato aperto sullo schienale, sostenendolo al di sopra di esso da entrambi i lati, ricorda il battito d’ali di un uccello. La legatura del libro è verde, come il tessuto damascato che ricopre il trono. Dietro il libro si trova un calamaio d’argento completo di penna: in base al testo attribuito ad Ugo di San Vittore il color argento indica l’eloquenza, l’arte oratoria del predicatore. L’oro, nell’interpretazione del medesimo testo, richiama la gloria futura, promessa in cielo39. Ancora una volta ricordiamo che, proprio per questo motivo, Mosè negli affreschi dell’epoca di papa Sisto iv viene raffigurato sempre con le vesti dorate. Alla gloria futura fa riferimento, infatti, il suo mantello verde che ora, dopo il restauro della serie degli affreschi dedicati a Mosè nella Cappella, ha acquisito la medesima tonalità verde del tessuto damascato del trono e della legatura del libro della sibilla. I due fanciulli che accompagnano la Libica sono dipinti all’altezza del sedile del trono. Ancora una volta Michelangelo tenta di stabilire un nesso tra il livello psicologico e quello teologico. Il ragazzo in posizione arretrata riconoscibile sulla sinistra, accanto ai piedi dei fanciulli in finto marmo, è rivestito di un mantello regale color porpora. Regale è pure lo scettro dorato che tiene nella mano destra. Con questi non si allude solo alla memoria, ma anche alla prima persona, al Padre nella Trinità. Il secon-
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81. La sibilla Libica, rappresentazione della volontà, ricorda la colomba, simbolo dello Spirito Santo, ed è anche sposa della Parola, sopra il trono apparecchiato come talamo; il fanciullo nella culla rappresenta tanto l’intelletto quanto il Figlio che, nella Trinità, proviene dal Padre come l’intelletto dalla memoria.
do ragazzo, con un rotolo sotto il braccio sinistro, volge lo sguardo verso di lui: egli rappresenta tanto l’intelletto, che procede dalla memoria, quanto il Figlio che proviene dal Padre. Dal petto in giù è legato come stretto in fasce; con la destra indica la sibilla, quasi a dire al Padre: è la mia sposa, la sposa della Parola. La bocca del ragazzo, che rappresenta il Padre, è aperta. Egli pronuncia la Parola, che è il Figlio; anzi, la bocca del secondo ragazzo è così vicina a quella dell’altro da ricordare, qui, la verità teologica soffio dello Spirito che procede dal Padre e dal Figlio. Hieremias Direttamente sopra il trono papale siede il profeta Geremia che, ricurvo nella sua afflizione, sorregge il mento con la destra, nascondendo così la bocca (fig. 82). I suoi capelli grigi sono spettinati e la lunga barba bianca scende dividendosi in ciocche. Il volto ricorda il ritratto di Mi-
Le Sibille e i Profeti
chelangelo. Indossa poi lunghi stivali di pelle grezza, simili a quelli portati dallo scultore fiorentino. La sottoveste bianca spunta da ogni parte sotto la veste dalla fodera di un regale viola purpureo che avvolge le ginocchia; la veste, visibile solo all’altezza del busto e sulle braccia, trascolora dal viola purpureo al giallo oro. La cimosa del colletto è dorata, mentre la cucitura e il bordo della veste che copre le ginocchia sono verdi. Dietro il profeta due figure femminili stanno in piedi sul sedile del trono. La prima, dietro la sua spalla destra, ha il viso rivolto da un lato, immerso in un profondo dolore. I biondi capelli le scendono davanti alla fronte, fin sulle spalle. Questa donna, vestita di una tunica bianca e di un mantello dal verde-azzurro chiaro, rappresenta la memoria nella configurazione trinitaria dell’anima. La seconda figura femminile, dietro la spalla sinistra di Geremia, è ritratta di profilo e si volge verso la prima. Indossa un mantello rosso all’esterno e dalla fodera verde. Purtroppo, a seguito di infiltrazioni di acqua piovana e dei restauri resisi allora necessari, l’espressione del viso sembra ormai priva di vita40. Questa figura, rappresentazione di una facoltà dell’anima, è l’immagine della volontà. Il profeta è in relazione esclusiva con la prima figura, mentre la seconda si muove tra il profeta e la prima. Essa incede alle spalle di Geremia verso la donna bionda dall’aria afflitta, il cui piede nudo poggia in parte su una pergamena e in parte su un tessuto viola, che pendono entrambi dal sedile di marmo. Sulla spalla sinistra del profeta si intravvede una sottile striscia di tessuto viola, che dovrebbe essere il mantello. Nella parte superiore della pergamena, tra segni indecifrabili, si possono leggere le lettere latine alef, che insieme costituiscono la prima lettera dell’alfabeto ebraico. Ora che, nella descrizione, abbiamo raccolto tutti questi elementi, possiamo tentare di interpretare l’intera composizione. La figura chiave è la donna bionda che, nell’ambito della strutturazione triangolare, occupa la posizione solitamente assegnata alla memoria. La sua veste bianca e il suo mantello, tendenti all’azzurro chiaro più che al verde, la identificano come la sposa Israele; infatti, come già abbiamo mostrato nella prima parte, i colori bianco e celeste sono propri del popolo eletto e della sposa di Dio41. Nell’affresco di Michelangelo l’immagine del popolo di Israele si trova nelle parole del profeta e nel velo violaceo penitenziale che la donna bionda non vorrebbe accettare. La seconda figura femminile, rivestita del colore rosso dell’amore e del colore verde della speranza, incede verso la prima quasi a volerla soccorrere: è come se il cele-
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82. Il profeta Geremia, autoritratto di Michelangelo, e alle sue spalle le personificazioni della memoria e della volontà. Le coppie di fanciulli in finto marmo danzano.
ste trascolorasse in un verde-azzurro, dunque, è come se un barlume di speranza si riversasse sul popolo d’Israele. Le due figure feminili dietro il profeta costituiscono anche una letterale interpretazione di un passo dell’Orazione della Immacolata di Francesco della Rovere, passo che cita il capitolo trentunesimo del Libro del profeta Geremia: «Io avrò pietà di te, dice il Signore. Ritorna, vergine di Israele, ritorna a queste tue città. Fino a quando andrai vagando con le tue voglie, figlia ribelle? Poiché il Signore crea una cosa nuova sulla terra: una donna cingerà un uomo» (Ger 31,20-22)42. La donna che indossa il mantello verde e rosso esorta chiaramente alla conversione la donna che nella sua afflizione volge altrove lo sguardo. All’invito fa seguito la profezia veterotestamentaria interpretata da tutta la tradizione medievale come pure da Francesco della Rovere quale allusione alla concezione verginale e alla nascita di Gesù da Maria. Il teologo francescano richiama espressamente l’attenzione sulle frasi che seguono alla sua citazione di Geremia. Non si tratterebbe solo del concepimento di un bambino nel seno della madre, ma di un «uomo di virtù, di forza e di grande potenza, poiché egli venne generato con le proprie forze e divenne uomo sotto la legge per redimere coloro che vivevano sotto la legge del peccato»43. Nei due finti rilievi dei semipilastri la ragazza ha annodato strettamente sotto i seni e attorno alla vita un’estremità del tessuto che fa generalmente da sfondo alla coppia di fanciulli, ed ha utilizzato l’altra estremità come copricapo del ragazzo; copricapo su cui essa poggia la mano destra. Anche il ragazzo ha posto una mano sulla fronte della ragazza, tracciando col pollice un segno di croce, come fanno abitualmente i genitori cristiani con il loro figli. Nel posarsi reciprocamente le mani sulla fronte e sul capo i due fanciulli arrivano così ad incrociare le loro braccia. «Foemina circumdabit virum» sta scritto nel testo di Geremia: in effetti, la ragazza ha cinto il capo del ragazzo con il tessuto, mentre questi, intanto, con occhi spalancati guarda in lontananza, oltre la ragazza. Si vuole qui alludere alla Passione che opera la redenzione della sposa? Con la lettera alef, che, translitterata in latino, si trova sia sulla pergamena di Geremia sia nel relativo passo della Vulgata, ha inizio il Libro delle Lamentazioni di Geremia. Prorompe in un canto di lamentazione anche il profeta Giona nel ventre del pesce che l’ha inghiottito per volere di Dio. Giona infatti voleva fuggire da Tarsis: «Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito. Dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del ma-
83. Porzione centrale della volta sovrastante la parete dell’altare, Il profeta Giona si converte alla luce, guardando verso la volta dove Dio separa la luce dalle tenebre, e conta con le dita i tre giorni ai quali segue la risurrezione. La personificazione della volontà è accerchiata dal grande pesce. Sullo sfondo la figura infantile che rappresenta sia la memoria sia Emmanuele, leva la mano sinistra. Alle pagine seguenti: 84. Veduta d’insieme dell’ultima campata della volta; i particolari della metà del cranio dell’ariete e di una delle fanciulle in finto marmo mostrano lo stato degli affreschi prima del restauro. La sibilla Libica guarda in basso, verso la parete dove era dipinta Maria.
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re e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde sono passati sopra di me...» (Gn 2,3s.). E così, l’ultimo dei Profeti della Cappella chiude il ciclo con il richiamo alla Redenzione e alla Risurrezione. Ionas Il profeta, fuggito davanti a Dio e davanti all’incarico assegnatogli, fin dai tempi del Vasari ha suscitato l’ammirazione di tutti gli osservatori con il suo scorcio prospettico (fig. 83). Ma ciò che Michelangelo ha voluto veramente intendere con questa figura è caduto nell’oblio. Ancora una volta, Gioacchino da Fiore ci aiuta a comprendere la composizione. Infatti, in una delle prime pagine della sua introduzione alla Concordia, rammenta al lettore la sorte di Giona, citando, innanzitutto, un passo del Salmo 139[138]: «Dove potrei andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?» Gioacchino prosegue accennando alla storia di Giona: «Se fuggiamo a Tarsis, troviamo un ostacolo lungo la via, ed un’impetuosa tempesta si gonfia contro di noi. Se ci affidiamo alle onde, affondiamo nella melma delle profondità, e già il mostro marino è pronto ad accorrere ed a divorare la preda»44. Torcendosi all’indietro, il profeta guarda in alto, verso la volta, precisamente verso il punto in cui Michelangelo ha raffigurato Dio Creatore nell’atto di separare la luce dalle tenebre (fig. 84). Nel muoversi il profeta sembra quasi urtare con la testa contro il finto rilievo marmoreo dove un ragazzo danza con una fanciulla stringendola alla vita e coinvolgendola in un girotondo. Non si può, guardando questo, non pensare al passo del Cantico dei cantici: «Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti. Che ammirate nella Sulammita durante la danza a due schiere?» (Ct 7,1). Nella Vulgata al posto della parola «volgiti» si trova un altro termine che ricorda il «ritorno»: «Revertere, revertere, Sulamitis, revertere, revertere, ut intueamur te» (Ct Vulg. 6,12). Sullo sfondo, al centro della parete-schienale del trono, scorgiamo una figura infantile, dietro cui si muove, svolazzando sulle spalle nude, un mantello viola purpureo: questa leva la mano sinistra come formulasse un giuramento, mentre guarda il profeta. Quanto più gli è possibile, Giona si volge lontano da Dio, tuttavia, è costretto ad alzare lo sguardo al Creatore che nel firmamento separa la luce dalle tenebre. L’altra figura, che indossa la veste color croco del discernimento spirituale e che nella dimensione filosofica e psicologica rappresenta la volontà, è avvin-
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ghiata al corpo del grosso pesce. La testa di Giona ricorda quella di Adamo nel riquadro della volta con la Creazione dell’uomo. Il profeta appare nell’atto di parlare con eccitazione con Dio Creatore. Dietro di lui si erge la pianta di ricino, le cui foglie più esterne stanno appassendo, piegandosi verso la figura infantile dello sfondo. Questa, sul piano dell’interpretazione psicologica, rappresenta la memoria, mentre, su quello dell’interpretazione teologica, rappresenta il Figlio di Dio con il suo silenzio nel sepolcro durato tre giorni, a cui segue la Risurrezione. I tre giorni trascorsi da Giona nel ventre del mostro marino divennero, allora, realtà, come «segno» per «questa generazione perversa e adultera» (Mt 12,39). Il dipinto di Giona costituisce il grandioso accordo finale di tutto l’insieme degli affreschi della volta della Sistina. Vengono qui rievocate le tre virtù teologali: la sua sottoveste, infatti, è bianca come la fede, il corpetto trascolora nel verde, colore della speranza, e il tessuto steso sul sedile di marmo muta nel rosso dell’amore. Dialogando con Dio il profeta muove le dita, non certo in un gesto apotropaico – quello «delle corna» –, come si è pensato recentemente45, ma per conteggiare e, precisamente, per indicare il numero tre, vale a dire i tre giorni e le tre notti durante i quali il profeta rimase nel ventre del mostro marino. Se pure la posizione delle dita delle mani dovesse esprimere un gesto di scongiuro, la magia apotropaica sarebbe allora diretta contro Mardocheo ed Ester raffigurati nell’affresco attiguo. In questo caso si tratterebbe di un atto di cattiveria nei confronti del papa: infatti, come abbiamo avuto modo di esporre nella seconda parte della nostra serie di saggi, secondo Gioacchino da Fiore Mardocheo simboleggia il papa ed Ester la Chiesa romana46. Le gambe nude di Giona a penzoloni dal sedile di marmo ricordano, tra l’altro, il cadavere di Oloferne decapitato, che Michelangelo ha raffigurato in uno dei due pennacchi triangolari della parete d’ingresso. L’affresco di Giona riprende, nel suo insieme, molti particolari dell’intera volta della Sistina, non solo, quindi, il dettaglio delle gambe restie a compiere la volontà di Dio. Infatti, nella volta si trova più volte ripetuto il particolare di un albero o di una pianta che crescendo si piegano da sinistra verso destra: nell’affresco del Diluvio universale, nella raffigurazione della Creazione di Eva, nel riquadro del Peccato originale. Gli stessi capelli ondulati della figura avvinghiata al pesce ricordano la donna cinta dal braccio di Dio Creatore nella Creazione di Adamo. Queste corrispondenze nei dettagli ci conducono, dunque, ai grandi riquadri della volta che verranno trattati nella quarta parte.
Parte quarta I NOVE RIQUADRI DELLA VOLTA E I TONDI CON GLI IGNUDI
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I riquadri e i tondi della volta
I nove riquadri della volta Libro della Genesi
con le scene tratte dal
I dipinti di Michelangelo più significativi dal punto di vista teologico sono i nove riquadri della volta che illustrano scene tratte dal primo capitolo del Libro della Genesi, il primo libro dell’Antico Testamento. Di queste scene, tre sono tratte dalla storia della Creazione del mondo, tre da quelle della Creazione dell’uomo e tre dalla Storia di Noè, alternando regolarmente uno specchio più grande con uno più piccolo. Tra le prime tre scene, dedicate alla Creazione del mondo, la posizione centrale spetta al riquadro rettangolare più grande, così come avviene per i tre episodi tratti dalla Vita di Noè. Nelle tre scene dedicate alla Creazione della prima coppia umana e della Cacciata dal Paradiso, quella relativa alla Creazione di Eva dalla costola di Adamo occupa, invece, il riquadro mediano più piccolo che, come già abbiamo visto, non solo sta al centro di queste tre scene, ma contrassegna esattamente il centro di tutta la Cappella. I nove riquadri della volta si inseriscono nel programma generale della Cappella che, sul piano dell’organizzazione del dipinto, segue lo schema teologico paolino sia per quanto riguarda gli affreschi risalenti al tempo di papa Sisto iv sia per quelli eseguiti sotto suo nipote Giulio ii, disponendoli in tre zone diverse, e cioè sul soffitto a volta e sulle due pareti longitudinali. Sono dipinti dedicati ad avvenimenti accaduti prima della Legge mosaica, al tempo della Legge mosaica e risalenti alla vita terrena di Gesù (figg. 85, 86, 87, 88). Nella prima parte della nostra ricerca1 si è detto che questa suddivisione della storia della Salvezza in tre ere, ante legem, sub lege e sub gratia, è già presente nell’Expositio super septem visiones libri Apocalypsis, attribuita un tempo ad Ambrogio e rivelatasi molto importante nel compimento del programma iconografico generale. Una seconda concezione, risalente a Gioacchino da Fiore, risulterà ugualmente molto importante nell’impostazione complessiva del programma della volta. Nel libro Concordia Novi ac Veteris Testamenti l’abate calabrese non vede più il rapporto del Nuovo Testamento con l’Antico secondo uno schema binario, ma secondo una ripartizione ternaria sul modello della Santissima Trinità: come il Figlio proviene dal Padre, così il Nuovo Testamento dall’Antico e come lo Spirito procede da entrambi, dal Padre e dal Figlio, così anche la retta interpretazione della Scrittura si ottiene solo partendo dai due Testamenti. In questo modo bisogna leggere, secondo Gio-
acchino, il rapimento di Paolo fino al terzo cielo (cfr. 2 Cor 12,2): in questo modo si fa un esplicito riferimento al vero senso spirituale nell’interpretazione della Scrittura2. Vedremo ancora come Michelangelo nell’esecuzione dei riquadri della volta non solo si sia preoccupato di illustrare la storia in senso letterale, ma abbia inteso aggiungere sempre nuovi particolari, tali da permettere l’autentica comprensione spirituale delle scene rappresentate. L’ebbrezza di Noè Il primo riquadro della volta presenta L’ebbrezza di Noè (fig. 89). Questo dipinto, dalle dimensioni più modeste, è, insieme al Sacrificio di Noè, uno degli affreschi che accompagnano il riquadro centrale del Diluvio universale. L’episodio dell’ebbrezza di Noè, come si vede, apre il ciclo di dipinti della Cappella. Il motivo di fondo dell’episodio è il rimando anticipato a Cristo in croce. Lo stesso Agostino presenta la similitudine nella sua opera De Civitate Dei3. Nella Cappella questo affresco viene, dunque, messo in relazione con quello sottostante di Cosimo Rosselli che, con le vedute dipinte oltre false finestre, ha creato un nesso tra la sua Ultima cena e le scene della Passione, in particolare la rappresentazione dell’angoscia mortale di Gesù nel Getsemani e la sua crocifissione sul Golgota (fig. 18). Nonostante l’ebbrezza di Noè sia indicata dalla Sacra Scrittura come avvenimento successivo al diluvio, nella Cappella il dipinto su questo tema anticipa quello del Diluvio universale. Volendo considerare i precedenti letterari a fondamento di questo affresco, dobbiamo leggere il capitolo nono del Libro della Genesi, nel quale Noè, dopo il diluvio, iniziò a coltivare la terra e piantò pure una vigna. Il lavoro della terra (exercere terram), di cui parla il versetto 20 del medesimo capitolo, viene trasposto letteralmente nell’uomo vestito di rosso che, sullo sfondo a sinistra, affonda una vanga nella terra per rivoltarla. Ritratto in primo piano in grandi dimensioni, il vecchio Noè dalla barba bianca giace, ora, completamente nudo e profondamente addormentato sotto una tettoia di legno, con la schiena appoggiata contro un cuscino. Il suo capo è chino. Dietro di lui, e posata su una lastra in pietra, si trova la grande tinozza di legno, alla sinistra del cuscino sta la brocca e, davanti a lui, sul pavimento, la ciotola svuotata del contenuto, bevuto da Noè. Dal lato destro fanno la loro comparsa i tre figli, che Michelangelo ha dipinto nudi, con le spalle coperte dai loro mantelli
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85. Veduta d’insieme della volta, con i nove riquadri delle storie della Genesi come cielo allegorico. A fronte: 86. Veduta d’insieme della seconda campata della volta, con le tre scene della vita di Noè: Il diluvio, Il sacrificio e L’ebbrezza. Le ultime due scene, successive alla principale, l’accompagnano in riquadri più piccoli.
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Alle pagine seguenti: 87. Veduta d’insieme della terza e quarta campata della volta, con le tre scene di Adamo ed Eva: Il peccato originale e la cacciata dal Paradiso Terrestre, La creazione di Eva (in un piccolo riquadro, ma al centro di tutta la volta), e La creazione di Adamo. 88. Veduta d’insieme della quinta campata della volta, con tre scene della creazione: La separazione delle acque sopra il cielo dalle acque sotto il cielo, La creazione delle piante, del sole e della luna e La separazione delle tenebre dalla luce.
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89. Riquadro della volta, L’ebbrezza di Noè, con la piantagione della vigna. Iafet, rappresentazione dell’intelletto, si rivolge al fratello Cam, rappresentazione della memoria, indicandogli la nudità del padre. Sem, provenendo dai due fratelli, rappresenta la volontà, e copre il padre nudo.
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sollevati. Michelangelo si è preso la libertà di raffigurare nudi anche i tre figli di Noè, nonostante ciò non concordi, in ogni dettaglio, con quanto narrato nel Libro della Genesi, mentre trova piena rispondenza, invece, il particolare del padre nudo che viene di nuovo coperto. Nel versetto 23 della Scrittura si parla espressamente dei due figli, Sem e Iafet, ai quali il fratello Cam fa notare la nudità del padre. I due portano un mantello sulle spalle, si sono avvicinati al padre addormentato procedendo a ritroso, coprendo la sua nudità senza vederla. Per questo motivo essi saranno benedetti dal padre, mentre Cam verrà maledetto. Michelangelo, invece, rappresenta solo Sem nell’atto di coprire il padre con un mantello azzurro. Nel fare questo il figlio volge la testa all’indietro, guardando verso Cam, e Iafet fa lo stesso. Anch’egli volge la testa e, inoltre, con la mano destra tesa, addita il padre che dorme. Cam, in piedi dietro Iafet – che si riconosce per la carnagione più chiara di quella dei fratelli – con la sinistra ha afferrato Iafet sotto l’ascella e, con la bocca attaccata all’orecchio del fratello, gli bisbiglia alcune parole. Il suo occhio sinistro, che si intravvede appena dietro la testa di Iafet, esprime nello stesso tempo cattiveria e sgomento. Con il braccio destro ben teso, il cui movimento sembra continuare nel braccio di Sem, richiama l’attenzione sul padre nudo e addormentato. Anche Sem ha la bocca aperta, quasi stesse parlando, anche nei suoi occhi è riconoscibile sgomento, ma sembrano come velati, non si vede infatti la pupilla scura nel bianco bulbo oculare, come accade invece per Cam. I fratelli sono ritratti entro un sistema triangolare di relazioni molto intense e coinvolti in un movimento che da Cam, passando attraverso le mani che sostengono il mantello, conduce al gesto della vestizione del nudo e addormentato Noè, e trova infine pace nel nudo e atletico corpo del patriarca giacente sulla sua lettiera di legno come un’antica divinità fluviale sul frontone di un tempio. Da questo punto il movimento, passando dall’angolo definito dal ginocchio sinistro sollevato di Noè, ritorna a Sem e di lì a Iafet e a Cam: possiamo, dunque, constatare che la raffigurazione dei fratelli, in particolare quella di Sem e di Iafet, non coincide pienamente con il racconto biblico. Agostino, come già abbiamo accennato, in due capitoli del sedicesimo libro del suo De Civitate Dei tratta dello stato di ubriachezza e di nudità di Noè e delle differenti reazioni dei suoi figli a questa situazione imprevista. È soprattutto il secondo capitolo a presentare un’interpre-
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tazione degli episodi narrati nella Scrittura a partire dalla Passione di Cristo. In primo luogo il Padre della Chiesa ricorda al lettore che Cristo, secondo la carne, è nato dalla discendenza di Sem, mentre Cam è l’immagine degli eretici e dei peccatori che sono nella Chiesa. Questi ultimi disonorano la Passione di Gesù preconizzata dalla nudità di Noè. Ma, sostiene Agostino, coloro che agiscono a rovescio si riconoscono dalle loro opere, che non sono altro che i gesti. Sem e Iafet rappresentano, invece, la «circoncisione» e il «prepuzio», cioè gli Ebrei e i Greci, come dice Paolo. Essi sono figura dei «chiamati e giustificati i quali, non appena sono venuti a conoscenza della nudità del loro padre – nudità con la quale è rappresentata la Passione del Salvatore – hanno preso un manto, l’hanno posato sulle loro spalle e, procedendo a ritroso, sono entrati da lui e hanno coperto la nudità del loro padre... Il manto indica il Mistero (Sacramentum), le spalle la memoria delle cose passate»4. Ma prima di soffermarci sulle relazioni esistenti tra queste idee e il dipinto di Michelangelo, dobbiamo ancora enunciare brevemente gli altri pensieri di Agostino che illustrano il mistero dell’ebbrezza e della nudità di Noè. Come abbiamo visto, Noè, nel suo stato di nudità completa, è un’immagine anticipata della Passione di Gesù in croce. Noè ha piantato una vigna. Ma la vera vigna è la casa d’Israele (Is 5,7). Il calice, che è ricolmo del vino di questa vigna, è il calice di cui parla Gesù nel Getsemani quando prega il Padre: «se possibile, passi lontano da me questo calice» (Mt 26,39). L’ebbrezza indica la Passione, la nudità esprime la sua debolezza umana. L’atto di coprire il padre nudo è simbolo della Passione di Gesù quale grande Mistero da custodire gelosamente nel proprio cuore. Volgendoci nuovamente all’affresco di Michelangelo, mettendolo in relazione con il sottostante riquadro di Cosimo Rosselli sulla parete dedicata al Nuovo Testamento, ci rendiamo conto, prima di tutto, che l’opera di Michelangelo andrebbe considerata nel contesto generale di un unico e ricco programma. L’affresco dell’Ebbrezza di Noè e della reazione dei suoi figli è fin nei minimi particolari pregno di riferimenti al passo, appena citato, del De Civitate Dei agostiniano. Senza alcuna remora Michelangelo mostra il membro maschile circonciso di Sem diverso da quello dei fratelli Iafet e Cam; ricorderemo in proposito le parole di Agostino che attribuisce a Sem la circoncisione. Il mantello che Sem usa per coprire il padre nudo è azzurro, a indicare l’atteggiamento contemplativo con il quale colui che
osserva deve rendere onore alla Passione di Cristo, come sostiene il Padre della Chiesa. Alla luce dei confronti fatti finora non riusciamo tuttavia a chiarire due particolari dell’affresco. A noi sembra strano che solo Sem, e non Iafet, come espressamente narrato dalla Sacra Scrittura, tenga il mantello con cui coprire la nudità di Noè. Inoltre, non comprendiamo perché Cam afferri sotto l’ascella Iafet, il fratello più giovane. Con quest’ultimo gesto i due fratelli appaiono qui più legati tra loro di quanto lo siano nel Libro della Genesi, che unisce piuttosto Sem a Iafet e allontana i due fratelli da Cam, il fratello mezzano. A questo punto sarà opportuno ricordare che, secondo Agostino, le spalle di Sem e di Iafet rappresentano la memoria. Ora, nell’altro capolavoro del teologo, De Trinitate, vengono descritti la memoria insieme all’intelletto e alla volontà nella loro «unità trinitaria». È possibile che anche Michelangelo abbia voluto mostrare i tre fratelli quali rappresentanti delle tre facoltà dell’anima umana, così come ha espresso la medesima «unità trinitaria» dipingendo Profeti e Sibille accostati sempre a due persone5? Se interpretiamo in questo modo la raffigurazione dei tre fratelli, Cam rappresenta la memoria, Iafet l’intelletto e Sem la volontà. Infatti, Iafet si volge indietro verso Cam con sguardo interrogativo, come l’intelletto si rivolge alla memoria, quasi a domandare al fratello: «È proprio vero ciò che tu dici di nostro padre?». Questa domanda viene pure sottolineata dall’indice di Iafet teso verso il padre. Porre interrogativi è sempre compito dell’intelletto, che procede, dunque, dalla memoria. Nell’atto di procedere da Cam e da Iafet, Sem viene mostrato all’osservatore nella posizione della volontà. Sem proviene dalla memoria e dall’intelletto, e impartisce l’ordine di eseguire ciò che l’intelletto considera opportuno. A questo punto si può comprendere il significato delle vesti colorate. Noè, che sta vangando il campo per piantarvi una vite, indossa la veste rossa con le maniche, cinta ai fianchi e simbolo dell’amore che Dio ha dimostrato verso il suo popolo, la vite. Denudatosi, Noè giace su un tessuto di una tinta che cangia dal giallo al verde, che per Michelangelo costituisce sempre un riferimento al peccato. Con questo colore peccaminoso che, dunque, rimanda chiaramente alla Passione di Gesù – così come la posizione dell’affresco, che è dipinto sopra la Passione di Cosimo Rosselli – lo sguardo sale verso l’alto, al mantello azzurro col quale verrà coperta la nudità di Noè, cioè al colore azzurro della contemplazione. Intorno alle spalle di Sem ondeggia un mantello grigio
chiaro, poiché la fede non si è ancora manifestata con piena limpidezza non essendosi resa nota la rivelazione della morte redentrice di Cristo. Iafet porta raccolto sulla spalla destra un mantello dal colore giallo croco scuro. Questo colore fu accostato al dono del discernimento spirituale da un teologo medievale identificato al tempo di Michelangelo con Ugo di San Vittore. Costui fornì l’interpretazione allegorica di quasi tutti i colori che compaiono nella Sistina6. Le spalle di Cam sono strettamente avvolte da un mantello verde chiaro che, dietro alla sua schiena, scende fino a terra. Il verde è il colore della speranza e della promessa7 e caratterizza lo stesso mantello di Mosè negli affreschi dell’epoca di Sisto iv. Il verde nel riquadro dell’Ebbrezza di Noè diventa un chiaro riferimento alla futura Redenzione attuata per mezzo della morte in croce di Gesù. Due dei particolari di questo affresco saranno ripresi in una scena della volta dipinta solo molto più tardi, quella della Creazione di Adamo. Il primo è il robusto e pesante corpo di Noè con il ginocchio alzato, che può essere messo a confronto con il corpo, appena creato, di Adamo, il progenitore di tutta l’umanità; l’altro particolare è costituito dalla mano di Iafet nell’atto di indicare. Questo gesto, che con l’indice teso ha lo scopo di richiamare l’attenzione, si ritrova nella mano destra del Creatore: gesto che è espressione dell’ordine di Dio capace di destare Adamo alla vita. Ritroviamo ancora lo stesso gesto nella volta della Cappella Sistina e precisamente nel pennacchio triangolare dedicato alla Storia di Ester: qui Artaserse (Vulg. = Assuerus) impartisce dal letto regale l’ordine di crocifiggere Aman8. Il gesto di Iafet va ancora rapportato alla concezione figurativa delle facoltà dell’anima. Ci si domanda in quale occasione Michelangelo si sia appropriato dell’idea del triplice schema delle tre facoltà dell’anima – memoria, intelletto e volontà – nella rappresentazione delle tre persone. Ho già richiamato in precedenza l’attenzione a questo proposito su Gioacchino da Fiore ed Egidio da Viterbo quali fonti d’ispirazione9. La Sacra Famiglia sul Tondo Doni agli Uffizi di Firenze Michelangelo, nel suo tondo dipinto per Angelo Doni e Maddalena Strozzi, ha inserito un gruppo molto simile a quello dei tre ignudi; questo dipinto, che rappresenta la Sacra Famiglia (fig. 90), viene abitualmente da-
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tato all’epoca fiorentina, tra il 1503 e il 1504, precedente agli affreschi della Sistina. Alcuni, tuttavia, ritengono che il tondo risalga all’anno 150710. La datazione posticipata del tondo, considerate le corrispondenze di stile e di significato, coinciderebbe con la realizzazione dei primi due affreschi della volta della Cappella Sistina. Per quanto riguarda il contenuto, tra i particolari comuni va ricordato quello dei tre ignudi, sulla destra del tondo e in secondo piano, disposti chiaramente secondo una struttura «trinitaria». Qual è il significato di questo gruppo? Tentiamone una descrizione più precisa possibile. Su di un banco roccioso, che, come fosse un’abside, si allunga a disegnare un leggero arco da un’estremità all’altra della cornice, sono seduti due giovani, a destra rispetto all’osservatore. Uno di essi è completamente nudo e l’altro è vestito di un mantello olivastro. Davanti a quest’ultimo, in piedi e tra le sue ginocchia, è ritratto un terzo ignudo a gambe incrociate. Il giovane seduto, che indossa il mantello, cinge il proprio braccio sinistro attorno al suo petto. Il primo giovane presentato ha afferrato un tessuto bianco togliendolo evidentemente dalle spalle dell’ignudo in piedi. Il suo sguardo, appena visibile dietro le spalle di Giuseppe ricoperte da una veste nerazzurra, è fisso sul tessuto e, di conseguenza, anche sugli altri
90. Michelangelo, Tondo Doni, la Sacra Famiglia in una struttura «trinitaria»: Giuseppe corrisponde al Padre, Gesù al Figlio, Maria, che proviene da entrambi, allo Spirito Santo. Gli ignudi sullo sfondo giocano: a sinistra Adamo ed Eva richiamano l’aiuto del Figlio, il quale si trova a destra, in seno al Padre, con lo Spirito che tira Gesù verso i protoparenti afferrandogli il manto; Firenze, Uffizi.
due giovani, cioè su quello in piedi e su quello seduto alle spalle di quest’ultimo. Anche qui ci troviamo senza dubbio di fronte ad uno schema «trinitario»: infatti il giovane in piedi, cinto da quello seduto, procede da quest’ultimo. Dunque, il giovane seduto con il mantello olivastro viene presentato come il Padre, l’altro, in piedi, come il Figlio; il terzo giovane, che siede all’interno, procede dagli altri due ed è nello stesso tempo rivolto verso di essi, proprio come lo Spirito. Il Tondo Doni probabilmente ha avuto origine contemporaneamente alla prima parte degli affreschi della volta della Sistina e rispecchia le nuove conoscenze acquisite da Michelangelo a contatto con i teologi pontifici di Roma. Il teologo che, su incarico papale, ha presentato a Michelangelo la speculazione trinitaria di Agostino, è stato con ogni probabilità Pietro Galatino, che nella sua opera De arcanis catholicae veritatis espone questa dottrina con assoluta pregnanza11. Come già abbiamo visto in precedenza, Egidio da Viterbo, che ha certamente rivestito un importante ruolo di intermediario nella concezione figurativa di Michelangelo, ha applicato la speculazione trinitaria di Agostino ai temi dell’antica mitologia, associando per la prima volta le facoltà dell’anima, memoria, intelletto e volontà, a tre persone, Giunone, Minerva e Venere12. Il diluvio universale Il primo grande settore della volta rappresenta la salvezza del genere umano attraverso l’arca di Noè (fig. 91). Anche qui Michelangelo procede secondo i sensi molteplici della Scrittura. In base al senso letterale del racconto tratto dal Libro della Genesi, egli mostra l’arca galleggiare sulle acque del diluvio che non hanno ancora raggiunto la vetta più alta, sicché alcuni superstiti sperano ancora di salvarsi e sopravvivere. Infatti, in primo piano si vedono uomini, donne e bambini con i loro beni salire aggirandola la sommità di quel monte. In secondo piano, a destra, si trova una seconda cima rocciosa tondeggiante, trasformatasi in un isolotto su cui sorge un’abitazione ricoperta da una tenda, dove alcuni cercano scampo davanti alla marea che sale. Inoltre, è dipinta una navicella su cui tenta di salire un gran numero di persone a nuoto, rischiando di farla capovolgere. Altri poi cercano di arrampicarsi faticosamente sull’arca dall’esterno e di salirvi in cima con una scala. Se a un primo sguardo sembra sia stata la fantasia artistica a creare questa varietà di scene, emergono tutta-
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via non pochi indizi che attestano la conoscenza di Michelangelo degli altri sensi della Scrittura, la gioachimita intelligentia spiritualis. Per prima cosa, confrontiamo di nuovo le pitture con i capitoli sesto e settimo del Genesi. In base a Gn 6,16 l’arca era costruita a tre piani. Se, d’accordo con Michelangelo, accettiamo che il piano inferiore dell’arca galleggiante rimanesse sotto il livello dell’acqua, allora concorda con il racconto biblico il dettaglio dei due piani che, ben distinti l’uno dall’altro, emergono dalla superficie. Naturalmente il pittore non riporta fedelmente le dimensioni, in particolare quella di trecento cubiti di lunghezza dell’arca. Così pure non dipinge la pioggia che, secondo Gn 7,19s., cessò una volta superate di quindici cubiti le cime dei monti più alti. Ma nei capelli e nelle estremità dei mantelli svolazzanti è chiaramente avvertibile il vento che, secondo Gn 8,1, avviò la conclusione del diluvio, durato centocinquanta giorni, come dice Gn 7,24. È possibile riconoscere una colomba bianca sull’arca e, se dotati di vista molto acuta, parecchi uccelli, abbozzati col colore marrone, che volano verso l’arca; si riconosce anche Noè che, da una finestra, indica l’ammasso di nubi, con il braccio sinistro teso. Certamente Michelangelo ha pensato ai versetti 8-11 del capitolo ottavo, nei quali si racconta che Noè, allorché l’arca si era ormai posata sul suolo e le acque erano defluite dalla terra, fece uscire prima un corvo e poi, più volte, un colomba per esplorare la terra dopo il diluvio. Nell’affresco di Michelangelo il diluvio non è ancora finito, sembra addirittura in pieno svolgimento, dal momento che non tutti gli uomini fuori dell’arca sono periti nella piena delle acque. Il pittore ripartisce queste figure in quattro gruppi, ne rappresenta alcune in lotta contro le acque, mentre altre sembrano essere al sicuro: in questo modo attribuisce alla rappresentazione non solo un senso letterale ma anche un senso spirituale. Prima di volgerci ai testi della teologia medievale che interpretano l’arca e il diluvio universale come la Chiesa che in quest’epoca galleggia sulle acque delle tentazioni e delle persecuzioni, iniziamo ad orientarci aiutandoci con l’interpretazione dei colori appresa da Ugo di San Vittore. Per esempio, il giallo croco, che simboleggia il discernimento spirituale, è il colore delle vesti delle figure femminili, così importanti nell’affresco. All’estrema sinistra del dipinto, nel punto in cui un asino si affaccia sulla scena con la testa, si trova una donna, in piedi, che indossa una veste di quel colore giallo croco (fig. 92). Sull’asino sono seduti un uomo barbuto e un bambino che cinge i capelli di questa donna con una fa-
scia grigio-azzurra. Sulla stretta sporgenza dell’arca fuori dall’acqua, sulla quale alcune figure nude tentano di salire arrampicandosi, si trova un’altra figura femminile che indossa vesti color croco e ha il capo e il viso coperti da un velo bianco, quasi non dovesse vedere il panico scatenato dalla marea montante. Anche sulla piccola isola rocciosa, all’estrema destra del riquadro, possiamo riconoscere ancora una volta, sotto la tenda viola, una donna che si avvolge in un mantello color croco scuro e nel frattempo si copre un occhio con la destra velata. È vestita color croco anche una delle due figure dipinte dietro la tenda all’estrema destra, che guardano piene di spavento verso i flutti. Coprirsi uno degli occhi è un gesto di particolare importanza, ripetuto, sull’estrema sinistra dell’affresco, dal fanciullo vestito di verde dietro la figura femminile. Quest’ultima è seduta in primo piano e ritratta quasi completamente nuda, con i seni in particolare evidenza. Un mantello azzurro, stretto intorno al ventre, forma un cappuccio sulla sua testa, avvolgendola tutta. L’azzurro del mantello rappresenta abitualmente la contemplazione delle cose celesti, eppure questa donna volge lo sguardo alla terra. Con i suoi due seni turgidi potrebbe raffigurare la personificazione della sapienza terrena. Il suo bambino, che si copre un occhio ed è vestito di verde, costituisce un richiamo alla speranza terrena, la speranza che si dirige cioè solo sulle cose terrene. Il motivo dell’occhio coperto concorderebbe perfettamente con questa interpretazione. Ma, per comprenderlo appieno, dobbiamo andare a scuola da Egidio da Viterbo, il grande teologo agostiniano e contemporaneo di Michelangelo. Nelle sue Sententiae ad mentem Platonis si legge che Omero definì empio il ciclope con un occhio solo «perché egli, pago di un occhio solo, non possedeva alcun strumento per riconoscere le cose divine, mentre quest’unico occhio non aveva alcun’altra luce al di fuori di quella sola proveniente dalla capacità visiva dei sensi»13. Chi, dunque, tiene chiuso un occhio, guarda solo alle cose terrene come l’empio ciclope. È questa, sostanzialmente, la situazione comune a coloro che si trovano sulla piccola isola rocciosa, alla destra dell’affresco. Infatti guardano pieni di spavento la marea che sale, mentre chi alza gli occhi verso l’alto, potendo contemplare solo il tessuto violaceo della tenda, non ha la possibilità di vedere il cielo azzurro. Anche il fanciullo vestito di verde al margine sinistro del dipinto, come già abbiamo notato, tiene chiuso un occhio: questo fanciullo rappresenta, dunque, la speranza nelle cose terrene, speranza destinata a naufragare con il diluvio. Anche nella Glossa ordinaria, il commentario alla Scrit-
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91. Riquadro della volta, Il diluvio universale. Sono raffigurati la Chiesa e la Sinagoga, l’albero senza fronde, l’arca con gli eretici, la nave dei pagani, il padre con il figlio morto nella forma di una Pietà del Padre, e l’isola di Adamo, Eva, e dei loro figli.
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tura più diffuso al tempo di Michelangelo, in relazione al testo di Gn 5,18-21 che si trova immediatamente prima del racconto del diluvio, si legge che gli empi, contrariamente al giusto Enoch, radicano la loro speranza nella vita presente e così, lontani dall’amore per l’eredità che non appassisce, si disseccano14. Sull’isola rocciosa al margine destro del riquadro è riconoscibile una giovane donna vestita di verde, che ha posto sul ciglio del piano roccioso un ignudo spossato o addirittura morto, il cui braccio sinistro cinge le spalle della donna. Le due figure, strettamente legate l’una all’altra e di certo non ancora ben riuscite da un punto di vista tecnico, vennero eseguite nell’estate del 1508 come prima giornata di tutto l’affresco del Diluvio e, probabilmente, di tutta la volta della Sistina15. La figura rivestita del colore della speranza ha lo sguardo rivolto ai flutti delle acque che quasi le lambiscono il piede, proprio nel punto in cui, sull’estremo lato destro del dipinto, un nuotatore nudo si aggrappa alle radici di un albero tagliato e guarda in su, verso la donna vestita di verde. Troviamo qui la precisa trasposizione in immagini del testo sopracitato della Glossa ordinaria. Una terza volta ancora, Michelangelo adopera il colore verde speranza in una delle figure maschili che, con una scala, cerca di salire sull’arca. Quest’uomo indossa una camicia verde, troppo corta però per coprire la nudità delle sue terga e delle sue gambe. Ciò vuole significare, probabilmente, che la speranza nella salvezza non è sufficiente per gli uomini e per le donne che dall’esterno cercano scampo al diluvio rifugiandosi sull’arca. Il colore verde manca nel gruppo di persone che, al centro del riquadro, si trovano sulla piccola barca, priva di timone e di remi, che sta per capovolgersi a causa del violento litigio scoppiato tra i passeggeri ed un intruso, e a causa della spinta di un nuotatore agganciatosi al natante: per costoro, intende dire l’affresco, non sussiste assolutamente alcuna speranza di salvezza. Che significato può avere la disposizione intenzionale dei personaggi in quattro luoghi e in quattro gruppi diversi? Le persone che, sulla sinistra in primo piano, stanno salendo sulla sommità della vetta, non sembrano subire la paura del diluvio, ad eccezione della donna portata sulle spalle come un fardello dal proprio marito e che, piena di sgomento, guarda a destra, in direzione dell’isola rocciosa più bassa. Sulla sommità della vetta, poi, le persone si separano in altri tre gruppi: le due figure già da noi individuate come personificazioni della sapienza e della speranza terrene, le tre figure accanto all’asino e, infine,
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92. Il diluvio universale, particolare della parte sinistra: il Figlio si sposa con la Chiesa, la Sinagoga contempla la terra e suo figlio è disperato, la carità, l’amore e la speranza si rivolgono e si aggrappano all’albero senza fronde, simbolo della Croce, che protende i suoi rami verso l’arca.
quelle che circondano il tronco dell’albero senza foglie, il cui fusto e i cui rami si protendono in là, verso l’arca. Si può facilmente determinare il significato di queste ultime persone. La prima, che sta per salire sull’albero, indossa un mantello verde-azzurro che si agita nel vento. Ricordiamo, qui, che il verde è simbolo della speranza e l’azzurro esprime la contemplazione celeste. La donna che si sta arrampicando sull’albero guarda in direzione di una coppia che, rivolta verso di lei, si abbraccia. Sulle spalle dell’uomo è gettato un mantello rosso violaceo, mentre la donna ha una benda bianca attorno alla testa ed è seduta su un tessuto bianco. Con il colore bianco e con quello rosso si intende sempre simboleggiare l’amore e la fede. Interpretando letteralmente questo gruppo di tre persone, scopriamo che esso intende esprimere quanto segue: la fede, che si unisce all’amore disposto alla penitenza (color rosso violaceo), guarda verso la speranza contemplativa (color verde-azzurro) che si aggrappa al fusto senza fronde, simbolo della Croce. Alle tre persone si aggiunge anche una madre con due fanciulli: figura che, nel linguaggio artistico, è personificazione dell’amore. Il suo mantello verde, dai riflessi rossi nell’ombra delle pieghe, è gonfiato dal vento. Questa figura materna ha la capigliatura intrecciata caratteristica della sposa; il fazzoletto celeste inserito nella treccia di capelli rinvia alla contemplazione celeste. Michelangelo vuol forse intendere che anche costoro verranno raggiunti dalle acque del diluvio? Probabilmente no: infatti, qui non si tratta più del senso letterale, ma di quello figurato del racconto biblico. Ugo di San Vittore, un teologo il cui pensiero, come abbiamo visto in più occasioni, ebbe un grande influsso sugli affreschi della Cappella Sistina, nelle sue Allegoriae in Vetus Testamentum scrive che il diluvio universale è simbolo dei disordini, dell’instabilità e delle persecuzioni del tempo presente. Noè rappresenta Cristo o un’autorità ecclesiastica la quale, per quanto possibile, costruisce l’arca, la Chiesa, affinché lei stessa e i suoi figli, cioè coloro che le sono sottomessi, possano trovarvi la salvezza. Il teologo spiega ogni particolare nella descrizione dell’arca. Per esempio, la pece con cui viene resa impermeabile è simbolo dell’amore. I diversi scompartimenti (mansiunculae) significano i diversi maestri e i diversi meriti di quanti vivono nella Chiesa in modo retto. Che, poi, l’arca sia suddivisa in tre piani (tricamerata) ricorda che la Chiesa è costituita da tre classi di persone: gli sposati, coloro che vivono nel celibato e le vergini. Conformemente, poi, ai loro nomi e
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alle loro opere, ad ognuno viene attribuita una localizzazione diversa. La ripartizione dell’arca in due piani (bicamerata) richiama, invece, la divisione tra le persone di vita attiva, che si trovano nel piano inferiore e che sono destinate ad operare nel mondo, e quelle di vita contemplativa, che sono insediate nel piano superiore e il cui sguardo è rivolto verso il cielo. L’arca ha la lunghezza di trecento cubiti: valore che ricorda le tre epoche – prima della Legge, sotto la Legge e sotto la Grazia – e il mistero della Trinità. I trenta cubiti di altezza dell’arca simboleggiano le tre principali virtù: fede, speranza e carità16. Il brano che abbiamo tratto dall’opera di Ugo di San Vittore chiarisce il significato dei molti particolari presenti nella raffigurazione del monte in primo piano, sulla sinistra dell’affresco. Possiamo riconoscere le tre virtù teologali, fede, speranza e carità, nei colori dei mantelli delle figure. La carità è rappresentata una seconda volta come una madre con due fanciulli. Il gruppo di persone che salgono sul monte è costituito da una famiglia – il giovane padre con una grande padella, la madre con il tavolo e le suppellettili sul suo capo e, tenuto per mano, il bambino –, da un ecclesiastico calvo situato tra il padre e la madre e da una monaca con un velo bianco. La sommità del monte rappresenta, in realtà, la pienezza del tempo della Chiesa che, secondo Paolo, si trova sotto la Grazia. Tra le persone che si arrampicano sul monte è possibile riconoscere, inoltre, un volto un po’ nascosto che, con la sua lunga barba e con la capigliatura diradatasi fino alle tempie rimanda al modello iconografico di san Paolo. Questa persona guarda in alto verso destra ed è significativamente vestita di verde speranza. Gli uomini e le donne che si trovano su questo monte rappresentano, dunque, i diversi membri della Chiesa che vivono nel tempo sub gratia. Ma essi non sono ancora tutti salvi: un chiaro riferimento è in questo senso costituito dalla personificazione della sapienza terrena e soprattutto dal suo bambino, la speranza terrena, che si copre l’occhio e guarda tristemente l’osservatore con il destro. Infatti la salvezza si raggiunge tenendosi saldamente all’albero spoglio della Croce. A questo punto possiamo interpretare il gruppo con l’asino, al margine sinistro del riquadro. Si tratta, qui, del Padre celeste con il Figlio, raffigurato come un bambino che si unisce in matrimonio con la sua sposa, la Chiesa. L’asino spesso simboleggia il corpo umano, quel corpo che il Figlio ha assunto nella sua Incarnazione17. Il fanciullo scruta l’osservatore e lo segue con lo sguardo ovunque questi si sposti nella Cappella, quasi a dirgli: questo
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ho fatto io per te; tu appartieni alla Chiesa che io ho preso in sposa con la mia Incarnazione. Il tavolo sulla testa della madre, che ascende al monte col bambino per mano, trova la sua spiegazione nella Glossa ordinaria al passo relativo a Gn 6,14. Secondo Isidoro di Siviglia, in quel passo viene detto che l’arca fu costruita con legni squadrati in forma cubica. Allo stesso modo la Chiesa è fatta di santi, la cui vita ben fortificata è pronta ad ogni opera buona, come ben fermo da ogni lato sta un legno squadrato18. Solo ora diventa comprensibile il particolare del tavolo sul capo della madre, dalle quattro gambe ben evidenti, la cui solidità contrasta con l’instabilità della piccola barca sul punto di cavolgersi raffigurata in secondo piano. La forma cubica ritorna con forza accentuata nell’arca stessa raffigurata da Michelangelo. Le persone sulla sommità del monte in primo piano, in base al significato allegorico della Scrittura, indicano i membri della Chiesa nel tempo della Grazia. Come devono allora essere interpretati gli altri tre gruppi di figure, vale a dire coloro che, dall’esterno, sono entrati nell’arca, salvandosi, le persone sulla navicella che sta per capovolgersi e il gruppo di persone che si trovano sull’isola rocciosa? Probabilmente costoro appartengono tutti al tempo prima della Grazia (ante legem). La figura riconosciuta come quella di Paolo guarda verso la piccola isola rocciosa, e precisamente là dove un uomo anziano, tutto nudo, sorreggendo il cadavere di un uomo, sale i tre gradini in pietra verso il piano dell’isola ormai angusto. Il corpo del morto è ben più giovane di colui che lo porta. A buon diritto possiamo considerare il gruppo come espressione del Padre con il Figlio morto; l’intera raffigurazione ricorda allora quella della cosiddetta «Pietà del Padre», in cui Dio Padre presenta all’umanità il proprio Figlio morto. Inoltre, un uomo ancora più anziano, con una lunghissima barba, che, tra l’altro, è ritratto specularmente alla figura del profeta Zaccaria e somigliante al ritratto di papa Giulio ii19, protende la sua destra verso i due, cioè il Padre e il Figlio morto. Davanti a lui è riconoscibile una donna un po’ più giovane di lui ma in età comunque avanzata, che tende le braccia verso il Padre con il Figlio morto. Chi sono, dunque, questi due anziani che tendono le braccia in modo così appassionato? L’uomo è rivestito del peccaminoso miscuglio dei colori verde e giallo, mentre la donna indossa la veste azzurra della contemplazione ed una fascia bianca attorno al capo poggia sulla sua capigliatura. Quasi senza ombra di dubbio i due rappresentano Adamo ed Eva, la pri-
ma coppia umana, invecchiata dopo il peccato originale. Se questa interpretazione colpisce nel segno, allora diventa facile riconoscere le altre tre figure nude e più giovani, accanto ai progentori. Il maggiore dei tre che, rannicchiato in primo piano, si appoggia ad una botticella, è Caino, il primo figlio di Adamo ed Eva. Osservando l’affresco da vicino si può addirittura riconoscere sulla sua fronte il «segno di Caino», col quale Dio lo contrassegnò perché nessuno potesse ucciderlo (Gn 4,15). Sulla destra, accanto a Caino, è raffigurato il fratello Abele assassinato, che, ormai morto, lascia ciondolare la testa. Il braccio senza vita è gettato intorno alle spalle della giovane donna vestita di verde già menzionata. Al centro, dietro la donna individuata come Eva e dietro le figure interpretate come Caino e Abele, si trova il più giovane di tutto il gruppo, anch’egli nudo. Si tratta certamente di Set, il quale guarda pensieroso suo fratello Abele. A questo punto si potrebbe obiettare che la prima famiglia umana non ha nulla a che spartire con il diluvio. Ci può essere di ulteriore aiuto un testo di Beda il Venerabile. Infatti, nel primo libro del suo Hexaemeron egli dice espressamente che tutta la discendenza di Caino è perita nel diluvio universale20. Dunque ci è permesso di concludere che le persone sull’isola rocciosa rappresentano coloro che, a seguito del peccato originale commesso dai progenitori, sono bisognosi della Redenzione mediante la morte in croce di Gesù Cristo. Appartengono cioè all’epoca salvifica precedente la Legge (ante legem). Alcuni di loro, in primo luogo i progenitori, verranno anch’essi liberati dall’inferno ad opera di Cristo. Accade, invece, diversamente per coloro i quali, al centro dell’affresco, cercano di salvarsi sulla piccola barca. Quasi tutte le figure sono completamente nude; solo la donna, che percuote impietosamente con una clava l’intruso che cerca di salire sulla barca, ha sul capo un fazzoletto bianco-grigio che rimanda al color argento dell’eloquenza21. La seconda figura femminile che, in un disperato tentativo di salvare l’equilibrio della barca che sta per rovesciarsi, si getta all’indietro, indossa, invece, la veste rossa dell’amore. Ma i suoi sforzi sono inutili: infatti, un uomo, avvicinatosi a nuoto, si è aggrappato al natante e l’ha gravato così tanto col suo peso che l’acqua, superando la sponda, l’ha allagato. L’amore da solo non riesce a salvare l’umanità dal diluvio, se ognuno pensa alla propria sopravvivenza. Il gruppo a bordo della barca rappresenta, probabilmente, quelle persone che, abbandonate al loro istinto, non hanno alcuna speranza. È questo, forse, il motivo per cui nemmeno una tra loro indossa anche
solo una pezza verde. Così pure manca del tutto il giallo croco del discernimento spirituale. Verosimilmente, mai in un dipinto è stata resa così efficacemente l’idea che al di fuori dell’arca della Chiesa non esista alcuna salvezza. A costoro mancano totalmente la fede e la speranza. Anche le persone che cercano di salvarsi salendo sull’arca dall’esterno sono prive di fede. Una di queste figure, come già abbiamo visto, porta la veste giallo croco del discernimento spirituale, ma il suo fazzoletto bianco sul capo, che simboleggia la fede, copre del tutto il suo volto, sicché questa donna non vede assolutamente nulla. Questa figura sembra rappresentare la fede cieca e non illuminata delle persone che non si salveranno non trovando più l’entrata dell’arca. Il gruppo dei tre che ricorrono ad una scala per salire compie il disperato tentativo, destinato al fallimento, di raggiungere la salvezza nell’arca. La figura femminile quasi completamente nuda che sorregge la scala porta sul capo il fazzoletto rosso dell’amore. Un uomo dal biondo ciuffo di capelli che si agitano al vento, vestito di un camiciotto verde troppo corto e di un mantello rosso, sta posizionando attentamente la scala. Un’altra figura, probabilmente un uomo, con le braccia tese, cerca di puntellare la scala, stando, però, ad una certa distanza, temendo si ribalti. Anche quest’uomo è nudo e veste solo di un tessuto grigio chiaro che, buttato sulle sue spalle, batte attorno al suo corpo. Il grigio chiaro ricorda l’argento dell’eloquenza. I tentativi di entrare nell’arca tuttavia sono vani, perché, non visto, si avvicina da destra un uomo nudo che, dietro di loro, leva in aria una zappa per ucciderli. Quantunque la zappa possa ricordare il primo omicida, l’agricoltore Caino, in realtà vuole qui fare riferimento alla morte. Chi nell’ultimo giorno non si trova ancora nell’arca protettrice, verrà sorpreso dalla morte. Tutti i tentativi di aiutarsi reciprocamente non giovano a nulla. Il particolare degli uomini e delle donne che si avvicinano all’arca per cercare salvezza costituisce, in realtà, un riferimento alla fine della storia, di cui il diluvio universale è l’immagine. Constatiamo così che epoche del tutto diverse vengono accostate nell’affresco del Diluvio universale di Michelangelo: il tempo prima della Legge, rappresentato dalle persone che si trovano sull’isola rocciosa; il tempo della Grazia, cioè della Chiesa, i cui membri salgono sulla sommità del monte coronato dall’albero spoglio segno di speranza; il tempo al di fuori della Grazia che, instabile nella sua continuità, non conosce alcuna legge illuminante e che trova atroce raffigurazione nelle persone sul-
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93. Riquadro della volta, Il sacrificio di Noè dopo il diluvio. I cinque animali mondi, cavallo, asino, bue, ariete e forse un elefante, aspettano di essere sacrificati. Un ariete è tirato da Cam, un altro è già stato ammazzato da Sem, la cui moglie porta la legna. Iafet soffia sul fuoco sotto l’altare, e sua moglie lo accende sulla tavola per offrire il sacrificio.
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la barca la quale, essendo troppo piccola, è una trappola mortale per i passeggeri che litigano tra loro; e, da ultimo, la fine del tempo come morte di ogni essere umano. È stata proposta anche l’ipotesi secondo cui i quattro gruppi rappresenterebbero la suddivisione in quattro categorie di persone: i pagani, che non hanno udito la Parola di Dio; gli ebrei, che l’hanno udita senza seguirla; gli eretici, che non la vogliono udire; infine, i cristiani ipocriti e falsi22. Tuttavia non possiamo accettare questa lettura, in base alla nostra precisa analisi coloristica del significato delle singole figure. Forse, colui che ha concertato il programma con Michelangelo, ha ripreso e adeguatamente modulato l’idea dei quattro gruppi a partire dalla Postilla del francescano Nicola di Lyra, un erudito in Sacra Scrittura. Egli voleva soprattutto indicare quanti si trovano in modo spirituale nell’arca, cioè nella Chiesa, e vengono così salvati dal diluvio del giudizio finale. Primi tra tutti, nelle donne e negli uomini della barca si possono riconoscere i pagani che non hanno udito la Parola di Dio. Con coloro che si sono salvati sul bordo stretto dell’arca Michelangelo pensava forse di presentare gli eretici, mentre, invece, gli altri due gruppi non possono venire identificati con i restanti gruppi dell’affresco. Le persone sull’isola rocciosa non sono gli ebrei che non seguono la Parola di Dio, come pure coloro che si trovano sulla sommità del monte in primo piano a sinistra non sono i cristiani falsi e ipocriti, ma i membri della Chiesa in genere, i quali non si salvano guardando verso il basso – come fa invece la personificazione della sapienza terrena – e neppure tenendo un occhio chiuso – come pure fa la speranza terrena –, ma si salvano solo aggrappandosi all’albero senza foglie, cioè alla Croce che dona loro lo Spirito Santo. Il particolare della donna dai seni rigonfi, a sinistra in primo piano, potrebbe invece rappresentare la Sinagoga, la quale, quantunque abbia tirato sul suo capo il mantello blu della contemplazione delle cose celesti, dirige lo sguardo verso la terra, come a terra è seduta, accanto ad un ceppo d’albero tagliato. Dal punto di vista formale questa donna è presentata, in modo evidente, come l’antitesi di quella che si trova in piedi accanto all’asino e con la quale si sposa il fanciullo, ovvero il Figlio di Dio. Questa donna è, dunque, la Chiesa, ecco perchè l’altra non può che essere considerata la Sinagoga. Il suo bambino, come già abbiamo visto, è figura della speranza terrena il cui unico occhio scoperto è capace di vedere solo le cose sensibili, poiché sua madre, la Sinagoga, non ha riconosciuto il Messia, il suo sposo.
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In alto, sulla sommità dell’arca trovano spazio i nidi per gli uccelli. Nella terza finestra dell’arca è riconoscibile una colomba bianca che, con le sue ali spiegate, assomiglia alla colomba che nel Battesimo di Gesù del Perugino scende sul Signore. Gli uccelli, tra i quali alcuni planano sulla sommità dell’arca, secondo il testo sopracitato di Ugo di San Vittore, sono simbolo delle anime contemplative. Essi sono incapaci di trovare rifugio sulla terra e ritornano sempre all’arca, vale a dire, alla Chiesa come luogo di riposo23. Il particolare degli uccelli di ritorno all’arca è, purtroppo, riconoscibile a stento guardando da terra verso la volta della Cappella: infatti la distanza tra il pavimento e il culmine della volta raggiunge l’altezza di venti metri e settanta centimetri. Come abbiamo ripetuto spesso, il Diluvio universale rappresenta il primo affresco di Michelangelo nella Cappella. Ciò significa che nella raffigurazione prospettica dei corpi umani in un’illusionistica profondità diversificata, egli ha collaudato le dimensioni delle figure rispetto a chi osserva dal basso. In seguito egli rinuncerà a simili effetti di profondità nella raffigurazione dello spazio vuoto degli altri affreschi della Cappella. Sembra che nell’affresco manchi un uccello che riveste un ruolo importante nel racconto del diluvio: il corvo. Questo, inviato da Noè, non fece più ritorno all’arca. Forse era appollaiato sull’albero che stende i suoi rami verso destra, sopra l’isola rocciosa, ma i cui rami di sinistra sono andati perduti insieme a buona parte di cielo allorché, con l’esplosione del magazzino delle polveri in Castel Sant’Angelo il 28 giugno 1797, l’intonaco dell’affresco cadde insieme a quello di altri dipinti situati in questo punto della volta. Il sacrificio di Noè Il terzo settore della volta presenta il sacrificio della famiglia di Noè preservata dal diluvio (fig. 93). L’atto sacrificale viene compiuto dai tre figli e dalle loro mogli. Il patriarca sta in piedi davanti all’arca e dietro l’altare con la propria moglie e con una delle nuore che sta accendendo il fuoco per il sacrificio. Come sua moglie, anch’egli si appoggia con una mano al piano dell’altare. La moglie, ritratta rigorosamente di profilo, si china verso Noè e, standogli vicinissima, ne scruta il volto. Noè, al contrario, guarda in basso verso il fuoco del sacrificio e con il dito indica il cielo. La sua bianca e lunga barba mette in evidenza l’età. Egli indossa una veste dal colo-
re rosso dell’amore, mentre il suo mantello, gettato sulla spalla destra, è di colore azzurro, alludendo così alla contemplazione del cielo. Noè, con il suo gesto, la direzione dello sguardo e i colori delle vesti assume il ruolo di intermediario tra cielo e terra. Sua moglie indossa il vestito color croco del discernimento spirituale e il mantello bianco della fede che le copre anche il capo. Con lo sguardo e con l’atteggiamento è tutta rivolta al marito, vivendo nella fede e nel discernimento, come la Chiesa segue Cristo. I tre figli di Noè sono tutti completamente nudi. Solo il più vecchio di loro ha un mantello violaceo posato sulla parte alta del suo braccio destro, mantello che, scendendo dietro la schiena arriva fino al ginocchio sinistro. Lo stesso telo avvolge il collo dell’ariete morto dalla gola squarciata dal figlio di Noè che siede a cavalcioni su di esso. Il mantello scende sotto il suo ginocchio sinistro per coprire la pancia e il dorso dell’ariete. In tal modo l’animale destinato al sacrificio e colui che lo immola sono avvolti col medesimo tessuto viola della penitenza. Dietro il figlio più vecchio, Sem, sta la moglie, vestita del mantello bianco della fede e con un fascio di grossi legni tra le braccia destinati ad alimentare il fuoco sull’altare dell’olocausto. Il secondogenito si sta prendendo cura del fuoco, che già fiammeggia dentro l’apertura dell’altare. Egli si è avvicinato da sinistra all’altare procedendo carponi. Sua moglie è, probabilmente, la figura con l’abito verde in piedi alla destra di Noè: con la sinistra tiene la torcia accesa sopra il sangue versato sull’altare e solleva la destra in una specie di gesto di invocazione al cielo. Dal momento che il secondo figlio è visibile solo di spalle e ha la stessa capigliatura della figura dell’Ebbrezza di Noè, difficilmente possiamo sbagliare riconoscendo in lui Iafet. Una delle due persone che si occupano del fuoco sull’altare dell’olocausto potrebbe essere la sua consorte che regge la torcia. A questo punto per identificare Cam e la moglie ci rimangono solo due personaggi. Purtroppo non sono più conservati nella forma originale di Michelangelo, poiché questo frammento dell’affresco venne restaurato, o meglio ampiamente ridipinto, intorno al 1568, da Domenico Carnevali24. La donna che riceve dalla mano di Sem le viscere dell’ariete sacrificato un tempo era vestita di azzurro, il colore della contemplazione celeste. È cinta attorno alle tempie di un frontale bianco e da una corona di alloro. L’azzurro della veste, di cui si sono conservate tracce minime – ancora visibili sul dorso di Iafet – deve aver creato, un tempo, un meraviglioso contrasto con il viola del mantello di Sem.
Davanti a lei è riconoscibile Cam, che ha portato il secondo ariete per il sacrificio, mentre dietro a Cam si intravvede poco più che le teste di tre altri animali domestici: un bue, un cavallo e un asino. Dietro la testa dell’asino e del cavallo è dipinto il lungo dorso di un secondo cavallo (o si tratta della testa di un elefante di cui non si vede l’occhio?). Le tre teste di animali chiaramente individuabili sono poste in relazione tra loro in modo singolare: innanzitutto mediante le corna del bue e poi tramite un giogo (sempre che non sia la proboscide di un elefante disegnata sommariamente) che dalla testa dell’asino si protende verso l’arca, così che, in prospettiva, esso sembra gravare sulle spalle di Cam e di sua moglie. È difficile che il giogo poggi sulla testa del bue, dal momento che l’animale è volto verso chi osserva e il suo capo si protende a sinistra. Il giogo, invece, posto sul dorso di un animale non visibile e che si troverebbe dietro la testa dell’asino, continua in direzione dell’arca, così che il capo dell’asino appare come stretto tra le corna del bue e il giogo. Dell’animale, al quale appartiene il giogo, è ancora riconoscibile quello che sembra un occhio, probabilmente dipinto ex novo da Domenico Carnevali. Solo guardando con molta attenzione lo si intravvede tra il ciuffo di capelli di Cam e la sua nuca. Se il giogo è stato inserito nella composizione come un elemento estraneo, ma efficace dal punto di vista figurativo, tanto più a qualcuno potrà sembrare singolare la testa dell’asino rivolta al cielo. In una chiesa in provincia di Siena sono dipinti un bue marrone simile a quello del dipinto di Michelangelo ed un asino grigio che, in modo analogo, si rivolge di sbieco verso l’alto, dove si trova l’affresco della Natività. Fu Biagio di Goro Ghezzi, un contemporaneo di Bartolo di Fredi, anch’egli senese, a dipingere nel 1368 questo affresco nell’ambito di un ciclo nella chiesa di S. Michele Arcangelo in Paganico25. Bue e asino presso la mangiatoia richiamano il versetto di apertura al Libro del profeta Isaia: «Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone...» (Is 1,3). Tuttavia, il bue che guardando il Bambino Gesù e l’asino dirige la testa verso il cielo ed apre la bocca, al punto che se ne possono vedere i denti, e lancia un mugghio, richiama il diavolo. Come gli asini selvatici che, secondo il Physiologus, nella notte del solstizio d’inverno lanciano due volte un forte grido, anch’egli va in collera con versi assordanti contro il neonato Bambino Gesù per opera del quale la notte finisce e sorge il nuovo giorno26. Nell’opera di Michelangelo, invece, il diavolo, adombrato nella figura dell’asino, va in collera contro il sacri-
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94. Disegno schematico della pianta e dell’alzato delle pareti perimetrali, con l’indicazione del percorso del papa attraverso lo spazio riservato ai laici e della «quadratura» con i seggi dei cardinali, il trono del papa e l’altare (da Ettlinger).
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ficio di riconciliazione compiuto da Noè. Come nell’affresco natalizio di Paganico, anche in quello di Michelangelo le corna del bue sono ornate di bende intrecciate. Nella Cappella Sistina il bue non guarda in direzione del Bambino Gesù, ma scruta con grandi occhi l’osservatore, inducendo a guardare la testa dell’asino. Può anche darsi, tuttavia, che qui non sia raffigurato alcun bue, ma la «giovenca rosso-bruna» (vacca rufa) che, secondo il Libro dei Numeri (Nm 19,2), deve essere senza macchia e non avere ancora mai portato un giogo per essere immolata nell’olocausto a Dio e venire consumata totalmente dal fuoco, così che di essa non resti più nulla. Questa «giovenca rosso-bruna» rappresenta un riferimento alla carne mortale di Cristo27. I due cavalli (o si tratta di un cavallo e di un elefante?) sull’estrema sinistra in alto costituiscono, forse, per la loro «obbedienza e natura docile» un riferimento agli angeli. Questi, secondo la descrizione fatta dall’autore dell’opera La gerarchia celeste dello Pseudo-Dionigi, sono ubbidienti a Dio e quando «sono di colore bianco misto al nero, grazie alla loro cogente forza di trazione, congiungono insieme gli estremi opposti, sia nella maniera di un volgere indietro, sia nella previdente prudenza, riuscendo così a far incontrare i primi con i secondi e i secondi con i primi». (Se qui fosse rappresentato un elefante quasi totalmente nascosto dagli altri tre animali, secondo l’interpretazione di Edgar Wind, la nostra spiegazione che prende le mosse dallo Pseudo-Dionigi perderebbe il suo valore)28. Questi due cavalli, uno dei quali è visibile solo parzialmente, rappresentano un tentativo di mischiare bianco con nero e di unire insieme i primi con i secondi. Nel contesto immediato del racconto del sacrificio offerto dopo il diluvio non viene menzionato nemmeno uno dei quattro animali di cui abbiamo appena parlato. Infatti, come olocausto, sull’altare costruito da Noè vengono offerti in modo del tutto generico alcuni uccelli ed alcuni animali domestici mondi (cfr. Gn 8,20). Tra gli animali tradizionalmente offerti non figurano i cavalli, tantomeno gli asini, vanno invece menzionati il toro, il bue o la giovenca. Con la raffigurazione di questi tre animali Michelangelo deve aver perseguito un intento particolare. Abbiamo già considerato il bovino come la «giovenca rosso-bruna», cioè come l’animale destinato al sacrificio di cui parla il Libro dei Numeri: infatti con questo animale viene richiamato il sacrificio di Cristo sul Golgota. I cavalli, invece, vengono visti come un riferimento agli angeli, capaci di unire l’uno con l’altro gli estremi opposti, mentre l’asino, che lancia un grido contro il
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cielo, è simbolo del diavolo che si ribella contro Dio e la sua azione salvifica. Se leggiamo queste tre (o quattro?) specie a partire da simili presupposti, si crea, allora, una correlazione tra il sacrificio di Noè e il sacrificio della Croce sul Golgota. Con un espediente formale Michelangelo indica una relazione che lega insieme la bocca aperta dell’asino, in cui si vedono i denti, con quella dell’ariete sgozzato, che è, parimenti, a denti scoperti. La figura considerata come la moglie di Sem tiene tra le braccia un fascio di legname esageratamente grande; questo fascio è quasi dello stesso colore delle tavole che compongono l’arca. Il legno dell’arca rappresenta la Croce di Cristo, e la fascina disegna una specie di croce con le tavole dell’arca. La moglie di Sem, dall’aspetto vagamente mascolino, ricorda, come l’ariete con le corna attorcigliate, un altro sacrificio, quello di Isacco che, a sua volta, è una prefigurazione di quello del Golgota. Il demonio, nella testa dell’asino, protesta contro questo sacrificio, per mezzo del quale tutti gli opposti vengono conciliati l’uno con l’altro e dalla morte nasce la vita. L’interpretazione allegorica dei singoli animali può essere stata suggerita a Michelangelo solo da un teologo. Ma l’associazione tra idee ed immagini è opera del tutto originale dell’artista. Il giogo, che non è posato sulla nuca del bovino di cui vediamo la testa, potrebbe condurre l’interpretazione in tutt’altra direzione. La vacca rufa, di cui parla il Libro dei Numeri non può aver portato alcun giogo, dato che era destinata al sacrificio – in effetti nell’affresco non viene soggiogato l’animale che rappresenta questa «giovenca rosso-bruna» –, ma il giogo, in latino iugum, ricorda i coniugati, lo stato di coloro che sono sposati. È la condizione che Gioacchino da Fiore inserisce in una triplice relazione con le altre due condizioni dei membri della Chiesa, quella dei chierici e quella dei monaci29. Infatti il giogo dell’affresco grava su Cam e su sua moglie. Se questa interpretazione centra il bersaglio, dobbiamo allora chiederci come le tre teste di animali possano rimandare alla triplice relazione dei tre stati della Chiesa. Il primo animale è la «giovenca rosso-bruna», il secondo il cavallo, il terzo l’asino. Il primo stato nella Chiesa, simbolo del Padre secondo Gioacchino da Fiore, è quello delle persone sposate raffigurate, probabilmente, nel bovino. Il secondo stato, da collegare col Figlio, è quello dei chierici, che nel riquadro sono rappresentati dai due cavalli. Per lo stato dei monaci rimane, allora, solo l’asino. Il consulente di teologia di Michelangelo doveva forse
far parte di quest’ultimo stato. Dal momento che proprio l’asino, lanciando un grido contro il cielo diventa figura del diavolo, siamo di fronte probabilmente – così intendiamo affermare con una certa audacia – ad un brutto tiro giocato dall’artista al suo consulente proveniente dallo stato monastico e sicuramente persona fastidiosa. Il peccato di Adamo ed Eva e la cacciata dal Paradiso La scena è ridotta all’essenzialità essendo occupata a tutta altezza dalle importantissime figure di Adamo ed Eva, del serpente, e dal cherubino (fig. 95). L’albero della conoscenza è una pianta di fico attorno al quale si inanella il serpente, che nella parte superiore del corpo muta in una donna nuda come Eva e a lei così somigliante da sembrarne sorella. L’albero divide in due lo svolgimento della scena: il peccato originale e la cacciata. Tutto è ridotto all’essenziale. Salta agli occhi l’assenza di Dio dalla
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rappresentazione. Il quarto settore della volta, nella Cappella, è ancora compreso nello spazio riservato ai laici, che corrisponde al Santo dell’antico tempio di Gerusalemme; il Santo dei Santi custodisce l’altare, il trono del papa e tre file di seggi cardinalizi sistemati nella cosiddetta «quadratura» (fig. 94). A cominciare da questo affresco Michelangelo ha lavorato quasi senza aiutanti, da lui in gran parte licenziati. Questo accadde all’incirca nel settembre del 150930. In effetti l’affresco fu eseguito di suo pugno in ogni particolare e, per di più, dopo essersi affrancato dalle istruzioni di un teologo papale. Il soggetto dell’affresco, fatta eccezione dei due puri spiriti, è la nuda natura. Il demonio è un’ibridazione tra un corpo di donna e una gigantesca coda di serpente. Il cherubino indossa una veste rossa, sebbene non i cherubini bensì i serafini ardano dell’amore puro per Dio e vengano dunque generalmente rivestiti di rosso. Michelangelo vuole forse attribuire tutte le qualità angeliche alla figura incaricata di cacciare la coppia peccatrice. E la cacciata ha l’ardore del fuoco: per questo, probabilmente, il cherubino è vestito di rosso. Inoltre il rosso della veste dell’angelo corrisponde alla tradizione iconografica. Infatti, è ugualmente vestito di rosso l’angelo che scaccia Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre dipinto da Masaccio nella Cappella Brancacci di S. Maria in Carmine a Firenze. La spada, con cui l’angelo di Michelangelo scaccia la prima coppia umana dal Paradiso Terrestre, non ha alcuna impugnatura, come quella del Masaccio. Michelangelo ha, probabilmente, pensato agli angeli come esseri puramente spirituali che, perciò, non possono tagliarsi con la lama. Tuttavia la spada grava pesantemente sulla nuca di Adamo: infatti, da questo momento, il progenitore ed i suoi discendenti sono condannati a morte sicura, simboleggiata dalla spada retta dalla mano sinistra dell’angelo. Il fatto che ciò avvenga tramite il braccio sinistro ha una connotazione negativa: qui, in particolare, si tratta di una punizione. È con la mano sinistra che il serpente dall’albero porge il frutto proibito ad Eva, ed è sempre con la mano sinistra che questa lo accoglie. Eva tende la mano verso l’alto, ma non raccoglie personalmente il frutto, come fa invece Adamo che, con la mano sinistra, piega il ramo dell’albero della conoscenza e, con la destra, afferra con avidità i frutti. È con la mano sinistra che si compie il male. Probabilmente Michelangelo ha ricordato quanto appreso da Gioacchino da Fiore allorché dipinse l’affresco della lunetta che, tra gli antenati di Gesù, mostra la famiglia
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95. Riquadro della volta, Il peccato di Adamo ed Eva e la cacciata dal Paradiso Terrestre.
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96. Il peccato di Adamo ed Eva, particolare: Adamo non si fa dare il frutto da Eva, ma lo coglie con le propri mani. Il ceppo con rami senza foglie indica l’albero della vita, la Croce.
di Giacobbe e di Giuseppe. Quando il patriarca Giacobbe benedisse i suoi nipoti, Giuseppe, il padre, incrociò le mani di Giacobbe, cosicché Efraim, il più giovane, fu benedetto con la destra del nonno, mentre il più grande, Manasse, fu benedetto con la sinistra (cfr. Gn 48,13s.). Gioacchino da Fiore ha interpretato Efraim come dono di Dio e Manasse come prefigurazione di Gesù Cristo, che a suo detrimento e a nostro favore sperimenta la sinistra del Padre attraverso la Passione31. La pelle di Adamo è del tutto glabra, senza alcun pelo: l’artista non si perde in simili dettagli. A Michelangelo, infatti, interessa prima di tutto la plasticità dei corpi ben fatti e il loro dialogo entro uno spazio tridimensionale. Il fatto che i corpi siano rivolti l’uno verso l’altro lascia trasparire un rapporto armonico nella scena del peccato originale: il corpo di Eva si conforma a quello di Adamo, in modo che il corpo di Adamo occupi il lato esterno a mo’ di protezione, mentre ad Eva spetti lo spazio interno (fig. 96). Totalmente diverso è il rapporto reciproco tra i due corpi nella scena della cacciata dal Paradiso: qui Adamo urta duramente contro la spalla di Eva. Il ventre e le gambe dei due che si allontanano dal Paradiso sono accostati l’uno alle altre ed i loro profili, da un punto di vista puramente estetico, appaiono in una dissonanza stridente. Adamo oscura Eva, il cui corpo appare in ombra rispetto a quello di Adamo. Anche l’angelo che scaccia dal Paradiso i progenitori ha il viso in ombra poiché la luce scende dall’alto verso sinistra. Tra l’altro, secondo Gn 3,23, è Dio stesso che scaccia Adamo ed Eva dal Paradiso, dopo aver fatto loro delle tuniche di pelli. Il cherubino a cui non spetta solo il ruolo di sorvegliante del Paradiso, ma anche di colui che scaccia i progenitori, è un’invenzione artistica dei pittori. A partire dagli affreschi della navata della basilica di S. Paolo fuori le mura, restaurati da Pietro Cavallini, gli artisti rappresentano l’angelo della cacciata mentre si libra nell’aria o è in piedi davanti alla porta del Paradiso. È cosa nota che, per queste scene e per quelle che seguono, Michelangelo non abbia preso a modello solo le sculture di Jacopo della Quercia sul portale della facciata di S. Petronio a Bologna, ma anche i succitati affreschi in S. Paolo fuori le mura a Roma32. Dall’affresco del Peccato di Adamo ed Eva e della cacciata dei progenitori dal Paradiso Michelangelo non solo si è affrancato ampiamente dai teologi vaticani, ma ha trovato, proprio nel modo giusto, il suo stile personale. Nell’affresco del Diluvio universale sono rappresentate
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molte figure in scala tanto ridotta che l’osservatore vi riconosce a stento i singoli particolari. Ora invece le grandi figure, che occupano il riquadro quasi a tutta altezza, sono adatte alla grande distanza che le separa da chi osserva dal basso la volta della Sistina. L’unità del racconto non viene più così interrotta da troppi particolari che, per di più, sono difficilmente riconoscibili. Tuttavia bisogna almeno prendere in considerazione uno di questi particolari: il nudo ceppo che emerge dietro la figura di Eva. Esso non può che simboleggiare l’albero della vita. Inoltre, due dei suoi polloni sono rivolti contro il serpente, ricordando così la promessa di Dio a lui indirizzata: «Porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua discendenza e la sua discendenza. Essa ti schiaccerà il capo e tu le insidierai il calcagno» (Gn 3,15). Abbiamo già visto l’albero spoglio nell’affresco del Diluvio universale, in cui la figura della speranza si aggrappa ad esso che si protende in là verso l’arca. Incontreremo nuovamente un ceppo simile, pure senza foglie, nella raffigurazione della Creazione di Eva. La creazione di Eva Esattamente al centro dell’intera volta della Sistina, in uno dei cinque settori più piccoli, Michelangelo ha dipinto la scena in cui Dio forma Eva dalla costola di Adamo (fig. 97)33. Adamo sta dormendo, appoggiato ad un ceppo spoglio. Eva è già uscita dal fianco di Adamo e si volge a mani giunte in atteggiamento di preghiera verso il Creatore, che col braccio destro la chiama all’esistenza, come fosse un invito. L’artista evita ogni interpretazione troppo realistica dell’avvenimento. Egli ha scelto a modello per la raffigurazione di questa scena le sculture di Jacopo della Quercia sul portale di S. Petronio a Bologna e il ciclo di affreschi di S. Paolo fuori le mura34. Il terreno, appena accennato, è dipinto in parte come suolo roccioso e collinare, in parte come prato verde. Sullo sfondo si stende un’azzurra superficie d’acqua che giunge fino all’orizzonte chiaro, che, probabilmente, evoca il mare. Vengono, così, presentati i tre elementi: terra, acqua e aria. Il quarto elemento, il fuoco, si trova nel colore della veste di Dio Creatore e, come nascosto, nell’alito vitale dei corpi nudi e rosei di Adamo e di Eva. Mescolandolo ad una punta di azzurro, Michelangelo ha dipinto di grigio chiaro il pesante mantello di Dio, la cui figura paterna occupa tutta l’altezza del dipinto. Serio e raccolto in se stesso, nel suo atto creatore, Dio di-
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97. Riquadro della volta, La creazione di Eva. Adamo dorme appoggiato all’albero della vita; Eva, immagine dell’anima, è in adorazione del suo Creatore.
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La Sistina svelata
Le Sibille e i Profeti
rige il suo sguardo sulla compagna di Adamo. La lunga barba fluisce abbondantemente sul petto. L’espressione della figura unisce dignità e forza creatrice. Adamo, nel sonno, ha i polsi accostati alla corta propaggine del ramo tagliato alla base del ceppo, mentre si appoggia con petto e guancia al fusto. Distoglie il viso da Eva e dal Creatore volgendosi a sinistra, verso il basso. Eva spunta da dietro, dalla schiena di Adamo più che dal suo fianco. Tra Adamo ed Eva Michelangelo ha dipinto un masso roccioso scuro che mette in relazione le due figure nude, ma allo stesso tempo le separa, dato il colore scuro della pietra. Sopra la testa di Adamo addormentato spunta dal ceppo un lungo ramo che si protende in alto verso destra, ma che non può crescere oltre poiché è spezzato come i due rami da esso generati. Questo fusto spoglio con il ramo spezzato riprende il medesimo motivo presente negli affreschi del Diluvio universale e del Peccato originale. Questo particolare dell’albero morto e spezzato sembrerebbe ricordare, nel riquadro della Creazione di Eva, il peccato originale che sarebbe presto seguito. Rimanderebbe, nello stesso tempo, all’autentico albero della vita, il legno della Croce su cui il secondo Adamo, Cristo, avrebbe dovuto morire per redimere la sua sposa, la Chiesa. Quella Eva, creata pura e senza peccato, deve essere vista come prototipo della seconda Eva, che fu concepita senza peccato e rimase sempre pura, quale casta sposa. La questione fu trattata diffusamente a suo tempo da Francesco della Rovere nell’Orazione della Immacolata, da lui scritta nel 1458 per il vescovo Dandolo di Padova35. A Eva, in quanto figura dell’Immacolata, che fu dipinta precedentemente sulla parete retrostante l’altare, spetta la posizione esattamente centrale nel programma iconografico della volta della Sistina. Con lo sguardo rivolto ad Eva, ancora pura al momento della sua creazione, i chierici accedevano al Santo dei Santi della Cappella papale attraverso la cancellata un tempo eretta. Solo in questo momento l’artista fa vedere la figura di Dio. Eva è la creatura intenta nell’adorazione del suo Creatore, la Chiesa-sposa e l’anima-sposa di ogni singolo membro della Chiesa, il quale, una volta perfetto, secondo il disegno di Dio, è simile alla Vergine Madre tutta pura. La creazione di Adamo Certamente il più importante e più conosciuto riquadro della volta è quello che presenta la Creazione di Ada-
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mo (fig. 98). Dio Creatore non si trova più sulla terra, come nelle scene precedenti, ma si libra, nel mugghio della tempesta, muovendo da destra, dallo spazio concepito dall’artista come profondo e vuoto nella sua infinità, avvicinandosi al nudo Adamo, che giace su un altrettanto spoglio angolo della terra (fig. 99). Questo pezzo di terra, un pendio, che digrada delineando una leggera curva discendente dall’alto a sinistra fino in basso a destra, è colorato di verde, come ricoperto di erba. Il pendio è costeggiato dall’acqua azzurra, come nella precedente scena della Creazione di Eva. Anche qui, dunque, sono raffigurati i tre elementi: terra, acqua e aria. Il quarto elemento, il fuoco, rimane nascosto nel corpo di Adamo. Il colore del fuoco risalta notevolmente nel mantello di Dio, nel quale sono avvolte le figure nude che lo accompagnano (fig. 100). Chi rappresentano queste figure accanto a Dio? Esse sono suddivise in gruppi che si rapportano diversamente sia con Dio Creatore che con Adamo appena nato alla vita. Tre creature si librano al di sotto del Creatore. A queste si aggiunge un fanciullo, strettamente unito a lui dietro la sua spalla destra, poi altre tre creature dietro la sua spalla sinistra, e poi ancora un altro gruppo di tre dietro il suo braccio sinistro, col quale Dio tiene stretta una giovane donna nuda, mentre con la mano sinistra grava sulla spalla di un fanciullo. La figura collocata al centro del gruppo di creature che si librano sotto il Creatore ha la pelle scura, è dipinta totalmente all’ombra di Dio e della figura di fanciullo che gli si aggrappa e, inoltre, distoglie il volto da Adamo per guardare nell’oscurità. Sembra che questa figura scura non trovi alcun sostegno in Dio. Il suo ginocchio destro è piegato ad angolo contro la terra sulla quale giace Adamo, che a sua volta piega ad angolo il ginocchio sinistro. Dietro di lei è riconoscibile la testa di una seconda figura che chiude gli occhi. Una terza figura, facente parte di questo gruppo, è visibile di spalle, dalle quali scende un mantello verde che ondeggia verso destra. Dio poggia la sua coscia destra sul petto e sul braccio destro della figura. Come bisogna interpretare, dunque, queste tre creature? Il colore scuro della pelle, lo scrutare nelle tenebre caratterizza in modo evidente la figura centrale come quella di un demonio. Lo stesso si può dire per la seconda, i cui occhi sono chiusi: gli esseri demoniaci non vogliono, infatti, avere nulla a che fare con la creazione dell’uomo. Più difficile è la spiegazione della terza figura, quella con il mantello verde ondeggiante. Con il verde, colore del suolo sul lato sinistro del riquadro, Michelangelo ha forse pensato all’elemento terra come forza spiri-
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99. La creazione di Adamo, particolare: Adamo e i quattro elementi, la terra verde e l’acqua azzurra, l’aria celeste e il fuoco nel corpo vivo di Adamo.
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100. La creazione di Adamo, particolare: Dio Padre con il Figlio aggrappato a lui, gli angeli delle prime tre giornate della creazione e Lucifero. Sono qui rappresentate le idee dell’Anticristo, della donna e del suo matrimonio con l’uomo.
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Alle pagine precedenti: 101. La creazione di Adamo, particolare: il momento divino in cui la scintilla della vita paassa dalla mano del Creatore alla mano dell’uomo senza un contatto materiale.
tuale che accompagna Dio? Il medesimo mantello passa poi sopra il ginocchio sinistro della donna che Dio porta con sé sotto il suo braccio sinistro. Mediante questo nesso tra la figura maschile e quella femminile creato dallo stesso tessuto verde si vuole, forse, alludere immediatamente all’idea della coppia umana in Dio, di cui Adamo ed Eva rappresentano la prima realizzazione. Il tessuto forse indica l’elemento terra da cui proviene Adamo e, tramite lui, Eva. Le figure sopra la spalla sinistra di Dio e dietro al suo braccio sinistro, tre per parte, e, quindi, sei in totale, significano, probabilmente, i sei angeli, le forze spirituali che presiedono ai sei giorni della creazione. Resta da interpretare ancora il significato dei due fanciulli: uno si trova a stretto contatto con il fianco destro di Dio; l’altro, all’estrema destra, stringe il ginocchio sinistro della figura femminile e contemporaneamente si volge verso destra in uno stato di sofferenza. Dio ha un volto paterno con la barba lunga e con i capelli grigi. Il ragazzo che si trova vicinissimo a lui raffigura forse il Figlio. È qui presente la Trinità al completo perché quel soffiare del vento all’interno del mantello rosso scuro, che abbraccia alle spalle tutto il gruppo libratosi nell’aria, rappresenta certamente lo Spirito Santo. Secondo la dottrina tradizionale della creazione, nell’unico e medesimo atto creativo operano tutte e tre le persone del Dio uno e trino. Questa rappresentazione totalmente nuova della Trinità eseguita da Michelangelo non è stata certamente accolta senza critiche, ma queste si espressero con un eloquente silenzio. Probabilmente si lasciò operare Michelangelo liberamente. Ma chi è il secondo fanciullo, qualificato dal legame con la figura femminile che, come abbiamo visto, rappresenta contemporaneamente l’idea di donna e di sposa in Dio? Attraverso il legame con il ragazzo a questa figura femminile è associata l’idea di maternità. La figura maschile sotto la gamba destra di Dio, la donna cinta dal suo braccio sinistro ed il fanciullo insieme simboleggiano l’idea di famiglia. L’uomo, o meglio, l’idea di uomo non è messa solo in relazione con la donna tramite il tessuto verde. Il suo piede destro, che passa sotto le gambe della figura di Dio, sfiora il fanciullo, unendo anche questa terza persona, necessaria per la completezza della famiglia. Michelangelo ci presenta altri due particolari che vanno necessariamente illustrati. Con la sua mano sinistra, e precisamente con il pollice e l’indice coi quali disegna una figura simile a quella dei polloni dell’albero della vita nel Peccato originale, Dio grava sulla spalla del ragaz-
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I riquadri e i tondi della volta
zo, il quale distoglie lo sguardo da lui con espressione di dolore. Questi due particolari devono essere interpretati da un punto di vista teologico. La mano sinistra di Dio si riferisce ad un testo di Gioacchino da Fiore, che abbiamo citato nella parte concernente gli affreschi degli antenati di Gesù36 e in cui si legge: «Nella sua Passione egli ha in un certo modo preso su di sé la sinistra del Padre, affinché noi venissimo salvati dalla Passione e non venissimo toccati dalla destra di Dio»37. Michelangelo ha, dunque, letteralmente illustrato quel testo nel suo affresco. Il primo fanciullo rappresenta la seconda Persona della Trinità, il secondo l’Incarnazione del Figlio e la Redenzione dell’umanità per mezzo di lui. Si può dare un’ulteriore interpretazione della figura di donna cinta dal braccio sinistro di Dio Padre. Nell’idea di donna non solo è racchiusa Eva, ma, in primo luogo, Maria, la quale è l’unica realizzazione veramente pura dell’idea di donna in Dio. Questo era l’autentico significato originario di immaculata conceptio attuata, innanzitutto, in Dio e solo dopo nel grembo di Anna, la madre di Maria. Per gli stessi teologi odierni la teologia espressa negli affreschi di Michelangelo potrebbe rivelarsi illuminante. L’artista riesce ad immaginare intuitivamente la verità più di quanto, spesso, sia capace di ritrarla in pensiero deduttivo. Ci si potrebbe addirittura spingere oltre: nell’idea divina di famiglia l’uomo e la donna sono uniti solo attraverso la fascia verde, i loro corpi non si toccano. Michelangelo vuole mostrare, probabilmente, che anche la Sacra Famiglia, Maria, Gesù e Giuseppe, erano sempre insieme nei pensieri di Dio. Dirigiamo ancora una volta lo sguardo sulla figura scura che rappresenterebbe il demonio. Essa sembra volgersi all’oscurità, ma, seguendo i suoi occhi, notiamo che scruta, sotto la figura di Dio Padre, in direzione della donna che in Maria ha trovato piena realizzazione. È come se il demonio la volesse insidiare. Essa, però, si tiene stretta al braccio sinistro del Padre, al doloroso disegno di Redenzione nel quale rimane racchiusa. Il disegno della Passione grava sul Figlio fatto uomo che, nell’affresco, si stringe al ginocchio sinistro della madre. La destra di Dio, piena di energia dispensatrice di vita, sfiora la mano sinistra rilassata di Adamo (fig. 101). Col medesimo gesto viene espressa non solo l’idea della prima creazione, ma anche quella di una nuova creazione attraverso la Redenzione. Questo secondo aspetto dell’affresco più famoso di Michelangelo era sinora sfuggito agli interpreti. Invece il testo di Gioacchino da Fiore, a proposito della mano sinistra del Padre, che nell’incrocio delle mani da par-
te di Giacobbe benedicente, grava su Manasse, il figlio maggiore, a favore di tutti noi tramite Efraim, era rimasto bene impresso nell’eccellente memoria dell’artista. Michelangelo era venuto a conoscenza del testo sicuramente tramite un teologo pontificio, allorché egli dovette dipingere i figli del Giuseppe dell’Antico Testamento nella lunetta di destra della parete d’ingresso della Cappella. La separazione delle acque sopra il cielo dalle acque sotto il cielo Il titolo del primo riquadro dell’ultima terna di dipinti della volta viene per lo più indicato in modo impreciso. Non si tratta, infatti, della separazione della terra dalle acque, così come è narrato in Gn 1,938. Non è neppure rappresentato lo spirito di Dio che aleggia sulle acque, come descritto in Gn 1,239. Michelangelo mostra, invece, Dio Creatore nell’atto di separare le acque dalle acque. Dato che Dio potrebbe essere considerato il primo architetto, come dice Gn 1,7s., crea il firmamento, la volta del cielo, sicché una metà delle acque rimane al di sopra della cappa celeste e l’altra metà si raccoglie al di sotto (fig. 102). Sulla sinistra dell’affresco si vedono con chiarezza le acque, dal colore azzurro, che iniziano a raccogliersi sopra il mantello rosso di Dio e raggiungono quasi il dito mignolo della sua mano destra. Anche con questo dipinto Michelangelo evita ogni forma di realismo troppo crudo. Come nella Creazione di Adamo egli presenta Dio che si libra orizzontalmente. È cosa nota che per dipingere questo riquadro l’artista abbia preso a modello l’antica raffigurazione di una divinità fluviale. Ma nel suo modo di protendere il corpo, raffigurato in scorcio prospettico inclinato all’indietro, egli toglie alla figura ogni sensazione di pesantezza fisica, rendendo il suo volo con grande realismo. Le dita della mano destra sono rivolte verso l’alto. La sinistra, invece, è abbassata sopra le acque inferiori. Come nella Creazione di Adamo, Dio è coperto di una veste viola chiaro ed è avvolto in un mantello rosso, che gli cinge l’addome e si gonfia a formare un secondo rivestimento che delimita, così, uno spazio occupato dalle altre tre figure nude. Nella figura di fanciullo accanto al Padre e dietro alla sua spalla e al suo braccio sinistro, che si libra nell’aria, possiamo riconoscere, ancora una volta, un riferimento alla seconda Persona della Trinità, al Figlio di Dio. Il vento, che gonfia il mantello rosso come
fosse un involucro che definisce uno spazio, allude, invece, alla presenza della terza Persona, lo Spirito Santo. Le due persone dietro la schiena di Dio Padre appaiono enigmatiche. Si tratta di una giovane fanciulla che guarda verso sinistra al di fuori del riquadro e di un ragazzo, il cui volto, sebbene nascosto nella cavità creata dal mantello, è ancora riconoscibile dietro la figura di Dio. La fanciulla rappresenta, probabilmente, la medesima persona che si trova nell’affresco della Creazione di Adamo, vale a dire l’idea divina di donna in Dio, in modo particolare l’Immacolata. Con il ragazzo si allude, probabilmente, all’idea di uomo e, contemporaneamente, a quella del futuro Figlio dell’Immacolata. Come già abbiamo detto, lo sguardo della ragazza porta fuori dallo spazio dipinto e dall’ambito del riquadro e conduce direttamente al tondo che due ignudi sostengono con una striscia di tessuto. Di questi giovani, dei loro compagni e delle raffigurazioni sui relativi tondi ci occuperemo in seguito. Ciò che qui veramente interessa è constatare che tra tutti i tondi solo questo non presenta la riproduzione di alcuna figura: esso, infatti, è totalmente vuoto. La curvatura della volta è utilizzata per raffigurarne la superficie in modo concavo; può essere che in questo modo Michelangelo abbia presentato un simbolico richiamo al firmamento, alla volta del cielo, nella cui creazione Dio si è impegnato proprio come nella scena del riquadro principale. Inoltre, il vuoto potrebbe essere un’immagine simbolo della purezza dell’Immacolata. La figura femminile ha l’aspetto di una ragazza, ad indicare che, come in tutta la creazione, la sua realizzazione si compie gradualmente. Ancora una volta Michelangelo elabora pensieri originali che egli traspone immediatamente in forma e colore, nell’illusione dello spazio tridimensionale e delle possibilità di relazioni che esso apre e che, attraverso il dialogo degli sguardi, possono addirittura estendersi da una zona all’altra dell’affresco. La creazione del sole, della luna e delle piante L’ultimo tra i riquadri maggiori della volta è dedicato da Michelangelo al quarto giorno della creazione (figg. 103, 104, 105). Dio Creatore viene presentato due volte: prima frontalmente, nell’atto di creare i grandi lumi del cielo, e poi di spalle, mentre fa germogliare la vegetazione. Nella scena della creazione del mondo vegetale egli è da solo, in quella in cui fa sorgere il sole e la luna è, invece, accompagnato da quattro figure: due si trovano
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102. Riquadro della volta, La separazione delle acque sopra il cielo dalle acque sotto il cielo. Dio Padre crea, senza toccarlo, il firmamento blu, la volta del cielo visibile. Egli è accompagnato dal Figlio; il manto gonfio allude alla presenza dello Spirito Santo e la figura femminile all’Immacolata. Nel buio all’interno del manto lo spirito maligno.
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103. Riquadro della volta, La terza e la quarta giornata della creazione: Dio, di spalle, crea e fa germogliare le piante. Dio Padre, accompagnato dal Figlio e dalla figura femminile dello Spirito, crea il sole e la luna.
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104. La quarta giornata della creazione, particolare: il Figlio è anche personificazione del mattino, lo Spirito del giorno, gli altri due fanciulli accanto alla luna rappresentano la sera e la notte.
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105. La quarta giornata della creazione, particolare della testa di Dio Padre.
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vicino al suo petto, sul suo fianco destro e presso il sole, due si trovano, invece, dietro di lui, sotto il suo braccio sinistro, presso la luna. Il fanciullo nudo, che spunta dal fianco destro di Dio e che urta con la testa contro il disco solare, non può che simboleggiare il Figlio di Dio, il sol iustitiae (Ml Vulg. 4,2). La seconda figura, collocata tra Dio Padre e il Figlio, che sembra una donna, può essere vista come la terza Persona della Trinità, lo Spirito Santo, tanto più che in ebraico lo Spirito di Dio è di genere femminile. Chiaramente questa terza Persona, così come Michelangelo l’ha dipinta, procede dalle altre due, dal Padre e dal Figlio. Il Figlio guarda verso il Padre. Egli non fa nulla di ciò che egli non veda compiere dal Padre, così dice Cristo nell’Evangelo (Gv 5,19), mentre lo Spirito scruta le profondità di Dio (1 Cor 2,10). Questa terza figura, che si fa ombra agli occhi col braccio e guarda in profondità imperscrutabili, richiama alla mente proprio il passo della lettera paolina da noi sopra citato. Di tutt’altro genere sono i due fanciulli che si trovano sotto il braccio destro del Padre. Quello più vicino alla luna si avvolge in un tessuto grigio-azzurro coprendosi anche le orecchie. A costui si accompagna una seconda figura, di cui è visibile solo il volto, che volge lo sguardo al cielo. Si troverà a stento un’attendibile spiegazione di questi fanciulli senza associarli agli altri due che si trovano sotto il braccio destro di Dio, con i quali costituiscono un quartetto. Come già visto riguardo ai dipinti degli antenati di Gesù, la medesima figura può rappresentare, in Gioacchino da Fiore come nel Michelangelo della Sistina, persone diverse a seconda dei diversi sistemi di relazione40. La creazione dell’astro diurno e di quello notturno permette di segnare lo scorrere del tempo. La Scrittura in questo passo non accenna solo al giorno e alla notte, ma, come avviene ogni volta alla fine di ogni giorno della creazione, dice: «e fu sera e fu mattina...» (Gn 1,19). Così, le quattro figure di fanciulli che circondano Dio Creatore sono delle personificazioni. Da sinistra procedendo verso destra, individuiamo personificazioni del mattino, del mezzogiorno, della sera e della notte. Il mattino nasce da Dio per primo; il mezzogiorno protegge gli occhi con la mano contro la luce abbagliante del sole; la sera, volgendo lo sguardo al cielo, si inclina verso la notte che, infreddolita, è avvolta in un grigio mantello. Probabilmente proprio nel momento in cui doveva raffigurare il quarto giorno della creazione, Michelangelo venne a conoscenza di quei contenuti tematici che avrebbe
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poi sviluppato in modo inimitabile scolpendo le tombe dei Medici. In ogni caso, possiamo nuovamente supporre che un teologo pontificio abbia concorso alla realizzazione dell’affresco. Possiamo dubitare che tale consulente fosse d’accordo con l’audace presentazione di Dio Creatore di tergo nella scena della creazione delle piante. Qui la fantasia creatrice di Michelangelo è all’opera. L’artista prova l’impulso verso questo tipo di raffigurazione leggendo un passo della Scrittura. Nel Libro dell’Esodo Dio dice a Mosè che vuole vedere il suo volto: «Tu non potrai vedere il mio volto. Nessun uomo che mi veda, può rimanere in vita... quando la mia Gloria passerà davanti a te, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mia destra, finché sarò passato. Poi toglierò la mano e tu vedrai le mie spalle» (Es 33,20-23). Il testo latino della Vulgata dice letteralmente: «tu vedrai le mie posteriora». Le posteriora significano chiaramente le terga del corpo umano. Michelangelo ha così presentato, con evidenza plastica, la figura di Dio nell’atto di creare le piante nel quarto giorno. Ma nell’interpretazione allegorizzante della Scrittura, così come appare nel tredicesimo libro delle Confessioni di Agostino, le piante vengono identificate con le buone opere (fig. 106)41. Lo stesso vale per il sole e la luna, come per il firmamento, mentre, sempre secondo questo libro di sant’Agostino, la volta del cielo nel suo insieme simboleggia la Sacra Scrittura. Il sole rappresenta il sermo sapientiae, la parola che indaga le verità eterne, mentre la luna simboleggia il sermo scientiae, la parola legata alle cose sensibili42. Il sole e la luna vennero interpretati in senso allegorizzante in diversi altri modi. Così, ad esempio, il sole è figura di Cristo, la luna della Chiesa. Egidio da Viterbo, in una predica del 1512 in S. Maria del Popolo a Roma davanti ai legati imperiali, paragonò il potere secolare dell’imperatore Massimiliano alla luna e il potere spirituale del papa Giulio ii al sole: la sua abilità diplomatica gli permise di parlare delle due luci principali del cielo create da Dio nel quarto giorno, senza riferire espressamente la figura della luna a quella dell’imperatore43. La separazione tra luce e tenebre L’ultimo tra i riquadri minori della volta che, insieme a quello della separazione delle acque sopra il cielo da quelle sotto il cielo, accompagna il settore principale dedicato al quarto giorno della creazione, raffigura nuova-
106. Parete sud, vela con la famiglia di Salmon. Il senso allegorico morale della creazione delle piante con le quali Dio veste la terra è vestire gli ignudi. La vela accanto alla creazione delle piante mostra la madre che taglia la veste per il figlio nudo Booz.
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107. Riquadro della volta, La separazione della luce dalle tenebre. Dio plasma una figura corporea nella luce: la separazione della luce dalle tenebre è realizzata in vista dell’Immacolata Concezione, Maria è già nella mente di Dio.
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108. Tondo che accompagna la scena della separazione della luce dalle tenebre. Si tratta del medaglione tra i giovani nudi che raffigurano la sera e il giorno: il profeta Elia è rapito al cielo in un carro di fuoco.
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mente Dio in solitudine (fig. 107). Come già detto, Michelangelo ha dipinto le figure divine con dimensioni via via crescenti da un settore all’altro del soffitto per contrastare la riduzione e il rimpicciolimento prospettico delle persone ivi raffigurate e per non far apparire, così, la Cappella troppo allungata. Con la figura di Dio che separa la luce dalle tenebre Michelangelo ha perseguito quanto sarebbe stato eguagliato solo in età barocca. Rappresenta, cioè, la figura in modo che essa possa essere vista da tutti e quattro i lati. Inoltre il ginocchio destro evidenziato in modo così marcato può far apparire la cornice come linea di demarcazione inferiore. In tal modo, Dio si inginocchia sul tratto di cornice compreso tra le due figure di giovani che reggono il medaglione che mostra il Rapimento di Elia in cielo (fig. 108). Nel dipingere la volta della Sistina Michelangelo avrà spesso sperimentato personalmente la posizione di alcune sue figure, che sovente non erano inginocchiate ma in piedi e spesso curvate indietro così come la figura di Dio. Se si guarda Dio Creatore ponendolo sulla medesima linea delle altre figure degli ultimi tre settori della volta, allora lo si vede avanzare dalla sinistra librandosi nel campo dell’immagine e volgersi con tutto il suo corpo verso l’angolo destro superiore. È una zona che noi abbiamo descritto come secondaria, mentre il pittore la ha probabilmente intesa come veduta principale. In questo caso, allora, la nuvolaglia scura si troverebbe in alto nel campo dell’immagine, mentre la formazione di nubi chiare occuperebbe lo spazio inferiore. Le tenebre, come ogni cosa non buona, non dovrebbero, però, venire raffigurate in alto, ma piuttosto nella parte inferiore. Se, però, si guarda Dio da un terzo punto di vista si nota che la sua figura non preme sulle tenebre solo con la mano sinistra, ma con tutto il suo corpo e con il mantello rosso chiaro gonfiato dal vento. Ponendosi in linea con lo stesso Dio, guardando il campo dell’immagine, si viene come trascinati nel vortice dello svolgimento stesso della creazione. Lo sguardo si concentra, allora, sul capo e sulle mani creatrici. Si intravvede la sinistra che sospinge verso un lato la cupa cortina di nubi, mentre la destra plasma una forma, intervenendo con tocco leggero sulla nuvolaglia bianca. Secondo Francesco della Rovere nel suo sermone, Dio ha compiuto la separazione di luce e tenebre in vista della Immaculata Conceptio44. Pietro Galatino, istruito dalla cabala, dice che Dio, nel creare Adamo, isolò nel suo seme una materia particolarmente pregiata, conservando-
la intatta nonostante il peccato originale. Questa materia propria del tempo della creazione e non corrotta dal peccato, preservatasi attraverso i secoli, servì a formare la madre del Messia45. Aumentano, così, gli indizi che rimandano a Pietro Galatino. Probabilmente è per questo che Michelangelo, illuminato dal suo consulente di teologia, raffigura la separazione della luce dalle tenebre in modo del tutto inusuale. Dio spinge con la sinistra la massa scura e contemporaneamente modella con la destra una forma luminosa, come fosse un artista. La figura corporea è di una grazia femminea, mentre la testa, di cui si intravvedono la barba ed i baffi, è ritratta in un ardito scorcio ed è visibile solo in parte. Dio è presentato nell’atto di modellare una forma chiara di nubi, come la accarezzasse delicatamente. I suoi pensieri vanno certamente alla sposa senza macchia che troverà piena realizzazione in Maria. Gli ignudi e i loro tondi Gli ignudi Ciascuno dei cinque riquadri più piccoli del soffitto viene singolarmente attorniato da quattro ignudi. Essi, disposti a due a due sopra i Profeti e le Sibille, trattengono per mezzo di tessuti dei tondi in finto bronzo, sui quali, ad eccezione di uno, sono illustrate scene dell’Antico Testamento. Abbiamo detto che uno dei tondi è vuoto, non presentando alcun finto rilievo: si tratta di quello inserito tra i giovani che accompagnano la scena della separazione delle acque sopra il firmamento da quelle sotto il firmamento. Ma, prima di occuparci delle scene raffigurate sui tondi, dobbiamo occuparci direttamente degli ignudi46. In tutto sono venti. Dal momento che sono disposti in gruppi di quattro, si può supporre che il numero quattro abbia un preciso significato. Ora, già nella prima pagina della Sacra Scrittura vengono presentate quattro «potenze» che Michelangelo, in seguito impegnato con le Tombe dei Medici, dispose a coppie, a formare comunque un gruppo di quattro soggetti: il mattino, la sera, il giorno e la notte. Se applichiamo questo principio all’ultimo gruppo di quattro ignudi dipinti dal toscano nella Cappella Sistina, scopriremo il significato delle singole figure. Uno dei giovani che accompagnano la scena della separazione della luce dalle tenebre, seduto su un tessuto rosa, è sdraiato scompostamente e si sta stiracchiando co-
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me appena svegliato dal sonno: rappresenta certamente il mattino (fig. 109). Dalla parte opposta in linea diagonale si trova un giovane che si affanna con un pesante festone di quercia, di cui tiene un’estremità sulle spalle: chi non penserebbe qui ai travagli del giorno (fig. 110)? Il giovane dall’aspetto distinto che, seduto di fronte a lui, si sta riposando è la sera (fig. 110). L’ultima delle quattro figure nude, dipinta con colori freddi e sbiaditi, presta attenzione a un tessuto azzurro freddo: come dubitare non rappresenti la notte (fig. 111)? Infatti essa è seduta dalla parte opposta al giovane che rappresenta il mattino. Se la nostra interpretazione è corretta, la figura maschile della notte contravviene ad una legge fondamentale riguardante la rappresentazione di potenze spirituali e astratte, non immediatamente percepibili, tramite personificazioni concrete. Fin dall’antichità si è sempre osservata la legge della concordanza del genere grammaticale di un concetto con la sua rappresentazione tramite una persona del medesimo genere biologico: un concetto femminile viene raffigurato con una persona di genere femminile ed un concetto maschile con una persona di genere maschile. «Notte» (in latino nox) è di genere femminile. Michelangelo ha voluto rappresentare tutte e venti le figure nude di accompagnamento come giovani. Questa circostanza sarà allora da mettere in relazione con il loro significato fondamentale. I giovani, portatori di altrettanti episodi della Rivelazione – in senso letterale – non possono che rappresentare degli angeli, poiché mediano la Rivelazione di Dio così come è scritta nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Per la teologia del Rinascimento, in verità, gli angeli di Dio sono tutte potenze spirituali. Ora, tutte le cose percettibili, le sensibilia, vengono raffigurate tramite il corpo femminile nudo, mentre le potenze puramente spirituali, le intelligibilia, tramite quello maschile. Torneremo ancora su questo concetto quando ci occuperemo delle figure nude, talvolta di genere femminile, dal colore bronzeo. Se, passo dopo passo, cerchiamo di determinare il significato dei quattro gruppi restanti, abbiamo a nostra disposizione un numero sostanzialmente limitato di possibili interpretazioni: i quattro elementi, le quattro virtù cardinali, i temperamenti e le quattro ere. Vedremo di seguito che Michelangelo con i suoi giovani ha rappresentato tutte le possibili combinazioni menzionate. I quattro ignudi che circondano il riquadro della volta che rappresenta la Separazione delle acque al di sopra del cielo da quelle al di sotto rappresentano i quattro ele-
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109. Uno dei quattro ignudi che attorniano la scena della separazione della luce dalle tenebre: raffigura il mattino delle giornate della creazione.
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menti nella posizione e nella mimica. Il più facile da riconoscere è il fuoco, rappresentato dalla mimica del giovane collocato sulla destra, al di sopra del profeta Daniele, e seduto su un tessuto rosso (fig. 112). Il mantello bianco del giovane che siede di fronte a lui dalla parte opposta della volta è gonfiato dal vento: questo particolare costituisce un evidente riferimento all’aria (fig. 113). Ricordano delle vere onde le pieghe del mantello azzurro chiaro e il lungo cuscino verde del giovane seduto a destra del tondo vuoto con il quale Michelangelo, come abbiamo visto, ha voluto alludere alla volta del firmamento (fig. 114). Non fu facile, ricorrendo alla posizione e alla mimica, illustrare l’elemento terra con un ignudo. Infatti, il giovane dalla parte opposta del fuoco puntella il piede destro su un tessuto di color bruno e allunga il piede sinistro il più possibile, ricordando che la terra si trova totalmente in basso (fig. 115). Il giovane scruta l’osservatore con sguardo eloquente, forse per dire: «Anche tu sei fatto di terra». I giovani del settore centrale della volta, che raffigura la Creazione di Eva, siedono tutti su tessuti e cuscini color giallo oro (figg. 85, 116, 117). Qui si allude, probabilmente, all’età dell’oro all’inizio della storia dell’umanità47. Se così fosse, alle restanti tre età sarebbero destinati solo due settori e non ci sarebbe stata l’intenzione di far corrispondere le quattro ere ad ognuno dei quattro giovani. Da un lato, in quest’ultimo caso essi avrebbero dovuto sedere su tessuti di colore diverso, dall’altro abbiamo a che fare con la prima fra tutte le età dell’uomo, quella che precedette il peccato originale e ogni fenomeno di caduta, mentre questi stati meno felici dell’umanità vengono considerati nelle restanti epoche. In tal modo Michelangelo ha probabilmente pensato di associare i restanti otto giovani a due età della decadenza. Egli dovette rinunciare alla raffigurazione della terza, dal momento che non c’era sufficiente spazio sulla volta. Vedremo ancora che egli scelse di non dedicare alcun settore all’età dell’argento e di raffigurare, invece, quella del ferro e quella del piombo. I quattro ignudi seduti sui loro tessuti giallo oro al centro della volta sono raffigurati in modo differenziato, nella loro gestualità e nella loro mimica. Cosa rappresentano, dunque, le singole figure? Il primo posto nell’età dell’oro si addice alle quattro virtù cardinali che hanno valore per la terra, cioè prudenza, temperanza, fortezza e giustizia. Ma quali appigli possiamo trovare per riuscire ad associare queste quattro virtù a quattro figure nude?
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110. Personificazioni della sera e del giorno che affiancano il tondo con Elia rapito al cielo sul carro di fuoco.
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111. Personificazioni della notte e del mattino; tra loro il tondo con il finto rilievo del sacrificio di Isacco.
Alle pagine seguenti: 112. Gli ignudi che attorniano la scena della separazione delle acque sopra il cielo dalle acque sotto il cielo raffigurano i quattro elementi. Con viva mimica questo giovane rappresenta il fuoco. 113. Il manto gonfio del giovane rappresenta l’elemento dell’aria.
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114. Gli ignudi che raffigurano gli elementi dell’aria e dell’acqua accompagnano uno scudo vuoto e concavo che allude alla volta del cielo.
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115. I due ignudi che rappresentano la terra e il fuoco tengono in mezzo a loro uno scudo con la raffigurazione della morte di Assalonne, rimasto sospeso tra terra e cielo.
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116. Gli ignudi attorno alla scena della creazione di Eva raffigurano le virtù cardinali. La temperanza e la prudenza accompagnano lo scudo con la rappresentazione del capo e delle mani mozzate di Nicanore appesi alle mura di Gerusalemme.
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117. La giustizia e la fortezza, entrambe virtù dell’età dell’oro, antecedente il peccato di Adamo e Eva, presentano lo scudo con l’omaggio di Alessandro Magno al sommo sacerdote.
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Il giovane sulla destra sopra la Cumana è il più facile da individuare. Stringe con impeto l’estremità del festone con le ghiande e può essere identificato con la fortezza, in latino detta fortitudo. In questa parola, infatti, è contenuta la radice fortis, che significa forte. Il giovane che è seduto sulla sinistra di fronte a lui, al confronto con la potenza muscolare ostentata dalla fortitudo, sembra possedere una conformazione muscolare quasi femminile. Con la sua sinistra tocca il tondo su cui è raffigurato il re Alessandro Magno che rende omaggio al sommo sacerdote in Gerusalemme. Con lo sguardo, da destra, egli scorre tutta la volta sulla quale si dispiega l’opera creatrice di Dio. Con queste due attribuzioni non si accordano né la temperanza né la prudenza ma solo la giustizia che, secondo la sua definizione, distribuisce a ciascuno il suo. Il giovane che rappresenta la temperanza siede, in una postura raccolta, con le ginocchia strettamente avvicinate. Il nastro dorato, che passa tra gli occhielli del tondo in rilievo, sul quale siede il giovane, è trattenuto da questi con l’indice della mano sinistra. L’altro giovane, seduto di fronte, ferma con il piede e la mano destra il medesimo nastro e, con la sinistra, lo solleva tenendolo sopra il capo. È facile che questa figura rappresenti la previdente prudenza. Gli altri quattro ignudi a seguire hanno a che fare con l’età del ferro. Infatti, Michelangelo o, meglio, colui che stese il programma, per motivi di spazio non prese in considerazione l’età dell’argento. Le quattro figure appaiono così differenti da far supporre che esse siano ancora espressione di quattro potenze spirituali. Michelangelo ha pensato, probabilmente, ai quattro temperamenti che distinguono gli uomini nei tratti fondamentali del loro carattere. Abbiamo i flemmatici, i sanguigni, i collerici e quelli dal temperamento melanconico. Il giovane che siede sulla sinistra sopra l’Eritrea guarda l’osservatore come spaventato. In lui si può individuare il malinconico (fig. 118). Il giovane a lui corrispondente, sulla volta, è inarcato all’indietro e alza la destra come per colpire: potrebbe essere il collerico (fig. 119). Quello che siede di fronte a lui si agita sprizzando energia: davanti a noi abbiamo, dunque, un sanguigno. Non ci rimane che identificare come flemmatico il giovane seduto calmo e tranquillo sulla destra, al di sopra dell’Eritrea. Nel quartetto, che Michelangelo ha dipinto per primo e che noi consideriamo per ultimo, poco è rimasto del giovane che siede a sinistra sopra la Delfica: la testa, la spalla e la mano sinistra, le gambe dalle ginocchia in giù. A seguito delle forti scosse provocate dall’esplosione
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I riquadri e i tondi della volta
del magazzino delle polveri di Castel Sant’Angelo il 28 giugno 1797, è crollata una considerevole porzione della volta affrescata da Michelangelo. Si è venuto a creare, così, un vuoto che, dal riquadro del Diluvio universale, passa attraverso il corpo di questo giovane e giunge fino al tondo a finto rilievo (fig. 74). Tutti e quattro gli ignudi mostrano la medesima espressione un po’ triste (figg. 122, 123). Nella postura rivelano un po’ meno differenze rispetto a quelli dipinti in seguito da Michelangelo. I corpi ai lati del tondo sono disposti così da corrispondere l’un l’altro quasi specularmente. È difficile, perciò, che Michelangelo abbia inteso raffigurare un gruppo di quattro persone. Ha piuttosto voluto presentare l’età del piombo. La conferma la troviamo nella raffigurazione del dileggio di Noè nudo da parte di Cam e nei temi del tondo a finto rilievo che adesso dovremo illustrare. Lo faremo procedendo dall’ingresso della Cappella fino all’altare, seguendo, cioè, la successione cronologica definita da Michelangelo. I tondi con le scene a finto rilievo All’interno del tondo, sorretto dagli ignudi sopra il trono della sibilla Delphica, sono rappresentate due figure separate da un muro e da una finestra, rivelatasi fatale per una di queste (figg. 74, 123). Come racconta il Secondo Libro di Samuele (2 Sam 3,26s.), Abner, il generale del re Saul, venne ucciso a tradimento, attraverso questo varco, da Joab, generale di Davide. Il tema del finto rilievo del tondo dipinto sopra il profeta Gioele è tratto dal Secondo Libro dei Re (2 Re 9,2326) ed illustra la vicenda in cui il cadavere del re Ioram, per ordine di Ieu, venne gettato dal carro di guerra dallo scudiero di Ieu dopo che quest’ultimo lo aveva colpito mortalmente alle spalle con una freccia (fig. 122). Anche in questo secondo finto rilievo viene rappresentato un assassinio proditorio. Entrambi i temi si adattano bene alla peggiore di tutte le ere, quella del piombo. Nel primo settore e nei primi quattro ignudi dipinti sulla volta della Sistina trova giustificazione l’ipotesi secondo cui Michelangelo ha trasposto in immagine il pensiero dell’antica teoria delle età. Il tondo a finto rilievo, sostenuto da due giovani, dipinto sopra il trono di Isaia, illustra quanto narrato dal Secondo Libro dei Maccabei (2 Mac 3,23-30) per cui Eliodoro, penetrato nel tempio di Gerusalemme per rubarne il tesoro, venne cacciato dal Santo con violente scudiscia-
te da un prodigioso cavaliere celeste e da due accompagnatori (figg. 119, 121). Il finto rilievo bronzeo sopra la sibilla Eritrea proviene, forse, dal Primo Libro dei Re (1 Re 15,12b) oppure dal Secondo (2 Re 10,26s. o 23,8). Nel Primo Libro dei Re si racconta che il re Asa, giusto agli occhi di Dio, ridusse in macerie gli idoli che suo padre aveva eretto. Gli altri passi plausibili, quelli del Secondo Libro dei Re, trattano l’azione di Ieu, che abbatté la statua del Baal dopo averne fatto trucidare tutti i servi, e la riforma religiosa attuata da re Giosia (figg. 118, 120). Le tre scene in relazione a questo tondo riguardano l’uso della violenza nella difesa del retto culto di Dio. Il tempio del vero Dio viene difeso dai suoi angeli e i falsi devono essere eliminati. Difficilmente troviamo nella storia dell’arte esempi migliori che identifichino l’età del ferro. I due successivi finti rilievi sui tondi del riquadro della Creazione di Eva rappresentano episodi accaduti nell’era descritta dal Primo e dal Secondo Libro dei Maccabei. Sul primo tondo viene raffigurato il fatto narrato in 1 Mac 10,59-65 concernente l’omaggio prestato da Alessandro Magno nei confronti del sommo sacerdote a Gerusalemme (figg. 117, 124), mentre sull’altro tondo viene illustrato l’episodio tratto da 1 Mac 7,39-47 secondo cui la testa e le mani mozzate a Nicanore, generale e condottiero del re Antioco Epifane, vennero portate a Gerusalemme per ordine di Giuda Maccabeo dopo una battaglia vittoriosa (figg. 116, 125). È chiaro che con l’omaggio di Alessandro Magno al sommo sacerdote si vuole alludere alla preminenza del potere spirituale su quello secolare. Alessandro, sceso da cavallo, si inginocchia umilmente davanti al sommo sacerdote, audace richiamo ad Eva che, al momento della creazione, china e con le mani giunte, rende omaggio al suo Creatore. La raffigurazione del capo e delle mani mozzate di Nicanore appesi alle mura di Gerusalemme andrebbe vista in parallelo alla primitiva promessa, fatta da Dio ad Eva dopo il peccato originale, nel Libro della Genesi: «Porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe; questa ti schiaccerà il capo e tu le insidierai il calcagno» (Gn 3,15). Nicanore, il nemico del popolo di Dio, è allegoricamente figura di satana. Il tondo situato tra gli ignudi dipinti sopra la sibilla Persica è rimasto vuoto e va messo in relazione con la creazione del firmamento e la separazione delle acque al di sopra del cielo da quelle al di sotto del cielo (fig. 126). A questo avvenimento fa riferimento quel piccolo
settore del soffitto compreso nel tondo vuoto: infatti, il firmamento non è che una volta, intende dire Michelangelo, e il tondo vuoto è arcuato a disegnare la concavità. Di fronte, il finto rilievo del tondo mostra Assalonne sospeso tra cielo e terra: infatti, secondo 2 Sam 18,9-15, fuggendo davanti ai guerrieri di Davide, egli rimase impigliato con la lunga capigliatura nei rami di un grande terebinto, cosicché il mulo, su cui era seduto, fuggì da solo (figg. 115, 127). Ioab, il generale di Davide a cui venne comunicato questo fatto, prese allora tre dardi e li ficcò nel cuore di Assalonne. È cosa evidente che il versetto 9, nella versione latina della Vulgata, «illo suspenso inter caelum et terram», condizionò la scelta di questi episodi da raffigurare nella Cappella in stretta connessione con l’affresco della Creazione del firmamento, firmamento che, allo stesso modo, si trova tra uno spazio vuoto sopra ed un’altro sotto. Abbiamo precedentemente identificato nel giovane a sinistra del tondo una personificazione dell’elemento terra e in quello a lui diagonalmente contrapposto l’elemento aria. Inoltre bisogna mettere in correlazione la quercia con lo stemma del papa Della Rovere. Gli ultimi due tondi illustrano con il loro fondo a finto rilievo il Sacrificio di Isacco (fig. 111) e il Rapimento di Elia in cielo su un carro di fuoco (fig. 110). Secondo il capitolo ventiduesimo del Libro della Genesi Dio ha richiesto ad Abramo il sacrificio del figlio per mettere alla prova la sua obbedienza. Questo tondo con il Sacrificio di Isacco si trova proprio sopra la Libica, la sibilla che, come già detto, rappresenta la sposa, la Chiesa. Nella teologia dei Padri della Chiesa, fin dai tempi di Origene Isacco, prossimo al sacrificio, venne visto come prototipo di Cristo, il Figlio che il Padre celeste non risparmiò, al contrario di Isacco. Cristo, infatti, morì in croce per obbedienza al Padre, per lavare la Chiesa, sua sposa, dai peccati. Secondo un’antica tradizione, il sacrificio di Isacco ebbe luogo sul monte su cui, più tardi, venne edificato il tempio di Gerusalemme. La Cappella Sistina, come già detto, ha preso a modello le proporzioni interne del tempio. Oltre a ciò l’altare del sacrificio costruito da Abramo per Isacco è figura dell’altare sul quale viene offerto il sacrificio incruento della Nuova Alleanza e Michelangelo ha dipinto questo tondo proprio nelle immediate vicinanze dell’altare della Cappella. L’obbedienza di Abramo è in contrapposizione alla disobbedienza degli angeli malvagi i quali, secondo un’antica tradizione, al momento della separazione della luce dalle tenebre, si separarono dagli altri. Isacco è sull’alta-
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118. Le personificazioni dei quattro temperamenti attorniano la scena del sacrificio di Noè. La melanconia e il temperamento flemmatico tengono lo scudo con la rappresentazione della distruzione di un idolo.
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119. Nell’età del ferro, la personificazione del temperamento sanguigno e il suo compagno collerico assistono alla scena dell’espulsione di Eliodoro dal tempio.
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120. Particolare della figura 118: Re Asa abbatte la statua di Baal.
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121. Particolare della figura 119: un cavaliere, angelo celeste, e due accompagnatori percuotono Eliodoro e lo espellono dal tempio di Gerusalemme.
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122. Nell’età del piombo, i quattro ignudi attorno alla scena dell’Ebbrezza di Noè assistono con volti mesti alle scene di tradimento. Nel tondo il cadavere del re Ioram è gettato dal carro di guerra.
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123. Con tristezza gli ignudi guardano come Ioab uccide a tradimento Abner.
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124. La scena dell’omaggio di Alessandro Magno si inserisce sotto la Creazione di Eva e rappresenta la subordinazione del potere temporale dell’imperatore e dei re al potere spirituale del papa.
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125. Particolare della figura 116: la battaglia vittoriosa di Giuda Maccabeo contro Nicanore indica la vittoria della stirpe della donna su Satana.
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126. Particolare della figura 114: la concavitĂ dello scudo vuoto indica il firmamento, la cupola celeste.
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127. Particolare della figura 115: il fuggitivo Assalonne, rimasto impigliato nei rami di un albero, viene ucciso da Ioab, il generale di Davide.
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re del sacrificio nelle immediate vicinanze delle mani di Dio Creatore che nel riquadro centrale della volta separa la luce dalle tenebre, e in vista della figura luminosa della sposa immacolata, concepita in Dio e realizzata in Maria. L’ascesa al cielo di Elia viene narrata nel Secondo Libro dei Re (2 Re 2,1-11). Dio stesso, alla fine della vita di Elia, volle rapirlo in cielo in un turbine (fig. 110). Per questo motivo Elia fece capire al suo discepolo Eliseo che avrebbe potuto ancora chiedergli tutto ciò che desiderava prima di venirgli sottratto. Secondo la versione latina della Vulgata Eliseo chiese: «ut fiat in me duplex spiritus tuus» (che sia in me il doppio del tuo spirito, 2 Re 2,9), vale a dire il doppio dello spirito profetico che compì in Elia grandiosi prodigi. Nella Glossa ordinaria la preghiera venne così interpretata: la Chiesa di Cristo implora dal Signore un «doppio spirito», quello del perdono dei peccati e quello del compimento dei miracoli. Elia rispose ad Eliseo: «Se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso» (2 Re 2,10). La Glossa ordinaria dice in proposito: se la Chiesa apre gli occhi della fede, essa accetta fiduciosamente la Passione, la Risurrezione e l’Ascensione al cielo sperimentando, allora, l’effetto di questa preghiera. Nel contesto degli affreschi della Cappella il Rapimento di Elia in cielo, rappresentato in uno degli ultimi tondi, realizza quanto individuato in questa promessa della Glossa ordinaria. Infatti: i due pennacchi dedicati all’Esecuzione capitale di Aman e all’erezione del serpente di bronzo su un palo presentano due racconti veterotestamentari che richiamano la Passione di Cristo; l’ultimo dei Profeti raffigurati nella Cappella, Giona, rimanda alla Risurrezione del Figlio di Dio; il rapimento di Elia in cielo è un riferimento anticipato all’Assunzione di Maria in cielo, così come è interpretata nell’affresco del Perugino sopra l’altare. Questo affresco avrebbe dovuto raffigurare l’Immacolata e fu cancellato da Michelangelo quando dipinse il suo Giudizio universale sulla medesima parete. Ma, di questo si tratterà nell’ultimo capitolo. Dobbiamo ancora occuparci brevemente dell’ultimo gruppo di figure rappresentate. Le figure nude in finto bronzo Non è cosa facile interpretare le figure nude che giacciono a coppie sugli spicchi e sui pennacchi triangolari
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senza metterle in relazione con gli adiacenti dipinti del programma. Esse sono dipinte col colore del bronzo e tra ciascuno dei due componenti della coppia si trova un cranio di ariete. Tutte queste figure che si stagliano sul fondo di una superficie violacea sono strette da ogni lato: Michelangelo le ha, infatti, incassate tra la finta cornice architettonica e la finta trabeazione. Ora, abbiamo visto che gli splendidi ignudi rappresentano le potenze spirituali, dunque gli angeli; possiamo, perciò, supporre che le figure scure incassate raffigurino gli angeli caduti, vale a dire i demoni48. Verifichiamo questa ipotesi, facendo attenzione all’atteggiamento e ai gesti delle figure in relazione alle scene dei settori della volta. Nella prima sezione della volta, dedicata alle età del piombo e del ferro e in cui sono rappresentati il Dileggio di Noè nudo e il Diluvio universale, le figure in finto bronzo sono ritratte in posizione di riposo (fig. 74), mentre le altre figure bronzee, alla sinistra del Peccato originale, si guardano reciprocamente in viso. I loro compagni, dipinti sul lato destro accanto alla Cacciata di Adamo e di Eva dal Paradiso, si riposano come spossati da un pesante lavoro. Sorprende l’atteggiamento dei due uomini nudi ritratti a sinistra di Adamo accanto alla scena della sua creazione: infatti, puntando con forza le gambe cercano di far crollare i semipilastri dipinti con le coppiette di putti (figg. 128, 129). Le due figure in finto bronzo del lato opposto, là dove Dio Padre cinge col braccio la donna, sono di genere femminile: le loro braccia sembrano serrate al cranio dell’ariete, e cercando di liberarsi da queste costrizioni sporgono violentemente il corpo in avanti. In forma sempre più evidente si delineano gli antagonisti di Dio che tentano invano di rendere inefficace il suo disegno salvifico. Essi non riescono a staccarsi dal simbolo della morte senza riuscire a far crollare l’edificio della Chiesa. Accanto al riquadro della Creazione delle luci del firmamento (il sole e la luna) i demoni – così possiamo chiamarli –, ritratti sui lati del dipinto, sembrano accecati e volgono lo sguardo verso la parete violacea del loro tassello. Anche le ultime due coppie, al di sopra della raffigurazione della Morte di Aman e della Guarigione del popolo dal morso dei serpenti (fig. 84), ai due lati del trono del profeta Giona, sono quasi imprigionate in celle anguste. Sono presenti quando Dio opera la salvezza del suo popolo senza, tuttavia, poterne impedire l’azione, resa attuale tramite il contenuto delle promesse racchiuse nell’Antico Testamento.
128. Tutti gli ignudi di colore bronzeo, incastrati tra le vele e il cornicione, raffigurano demoni; in mezzo a loro il cranio d’un ariete, simbolo della morte e del peccato.
Alla pagina seguente: 129. Con tutte le sue forze il demone tenta di far crollare l’edificio della Chiesa e di distruggere l’unione tra Dio e l’uomo, rappresentata dal matrimonio tra i fanciulli di finto marmo accanto a Daniele.
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Parte quinta IL GIUDIZIO UNIVERSALE DI MICHELANGELO
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Il Giudizio universale
Riguardo alla genesi, le successive vicende e l’interpretazione del Giudizio universale di Michelangelo, disponiamo di un maggior numero di notizie rispetto ad ogni altro affresco della Cappella Sistina. Tuttavia è bene considerare attentamente questo dipinto con occhi totalmente nuovi1. Fu già papa Clemente vii, della famiglia dei Medici, a commissionare la realizzazione di questo dipinto, il più ampio di quelli realizzati su parete. Ciò avvenne probabilmente poco prima della sua morte, vale a dire nel settembre del 15342, ma solo con l’ascesa al trono del successore, papa Paolo iii, che confermò l’incarico affidato a Michelangelo, si pose mano alla monumentale opera, nel novembre del 1536. Questa volta fu Pietro Aretino che propose a Michelangelo di ideare egli stesso il programma iconografico3, ma Michelangelo volle affrancarsi una buona volta da ogni premessa tematica. È cosa risaputa che l’Aretino, la peggiore linguaccia del secolo, sentitosi offeso, accusò l’artista di omosessualità. Vedremo poi come il toscano reagì a questa calunnia con la riproposizione di un particolare al centro del suo affresco. I disegni preparatori Il processo di chiarificazione del contenuto e della forma del dipinto può essere seguito facilmente analizzandone i disegni preparatori ancora oggi conservati. Più ancora dei disegni di Michelangelo relativi al programma degli affreschi della volta, giunti a noi in numero esiguo, almeno quattro degli schizzi del Giudizio universale risultano di particolare importanza per quanto riguarda la definizione del contenuto e lo sviluppo del dipinto stesso. Questi sono conservati al Musée Bonnat di Bayonne, nella Casa Buonarroti a Firenze e nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi4. Uno dei due fogli di Bayonne (fig. 130) mostra la prima fase di approccio al nuovo incarico5. A sinistra, in basso, esso presenta ancora la finestra originaria, abbozzata per metà con una linea, e, partendo dall’altezza del cornicione superiore, mostra quella linea arcuata di nuvole che trova la sua parallela all’altezza del davanzale delle finestre e rimarrà caratteristica dell’affresco realizzato in seguito, venendo più volte riproposta soprattutto nel definire lo stacco tra le lunette e la parte principale del dipinto. Se prendiamo queste linee formate dalle nuvole come punto di riferimento per le figure nude abbozzate al di sopra di esse con tratti più marcati, allora queste appaio-
no come collocate nella metà destra di un’abside, tanto più che a destra in alto una linea arcuata e debolmente accennata indica la delimitazione superiore. In questo disegno non doveva avere molta importanza creare un rapporto armonico tra i tre gruppi di figure radunate attorno al Cristo nell’atto di condanna e una delle due finestre sulla parete retrostante l’altare della Cappella. All’artista importava piuttosto trovare una proporzione equilibrata tra le figure e quella parete. Sicuramente lo aiutò a chiarirsi le idee per la composizone del gruppo superiore del Giudizio universale. Nonostante le piccole dimensioni, siamo in grado di identificare sul foglio almeno cinque persone: due con tutta sicurezza, tre con ampio margine di probabilità. A sinistra, al di sotto del Giudice universale con il braccio destro alzato nella condanna dei malvagi, riconosciamo la figura di Maria che protende le mani giunte in preghiera per intercedere presso suo Figlio. A destra, di fronte a lei, sul banco di nuvole, è seduta una coppia di uomini che appoggiano la schiena l’uno contro l’altro. Quello che siede più vicino al Cristo e gli rivolge lo sguardo ha una muscolatura particolarmente sviluppata. L’altro protende la destra verso un masso che, a giudicare dal coronamento superiore a semicerchio, sembrerebbe una tavola della Legge di Mosè. Il primo rappresenta certamente Giosuè, che viene spesso accompagnato a Mosè e costituisce la più importante figura veterotestamentaria di Cristo: egli ha, infatti, lo stesso nome del Giudice universale, poiché in greco Giosuè equivale a Gesù. Ancor più a destra si vede chiaramente una figura che, con le braccia alzate, regge due oggetti appuntiti. Ha la barba e, dal momento che offre a Cristo quelle che sembrerebbero chiavi, rappresenta Pietro. Con la sinistra, la persona che abbiamo interpretato come Mosè indica Cristo. Solo Mosè e Giosuè, rappresentati in modo così attendibile dal punto di vista formale, possono reggere all’impetuoso gesto di condanna senza tremare. Sin da questo primo foglio è stata fissata l’idea di fondo del successivo affresco: il Giudice universale che condanna i peccatori, e i santi che in cielo reagiscono in vario modo al suo gesto di ricusazione espresso con energia (fig. 131). Le figure subiranno comunque modifiche successive. Mosè e Giosuè nell’affresco si trovano sulla destra, costretti dietro al Giudice universale e del tutto in secondo piano. Altri santi occuperanno, invece, la posizione a questi assegnata nel disegno. Maria non sarà più in fiduciosa preghiera, ma, come spaventata, distoglierà lo
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130. Michelangelo, disegno preparatorio per la parte superiore del Giudizio universale; Bayonne, Musée Bonnat.
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131. Veduta complessiva del Giudizio universale: l’intera parete dell’altare sembra un’enorme finestra aperta sullo spettacolo dell’ultimo giorno.
sguardo dal Figlio. Tuttavia, in questo abbozzo, il gruppo superiore, raffigurato nella successiva esecuzione dell’affresco, è già presente nelle sue linee essenziali. Nel disegno, la figura di Cristo è giovanile e imberbe, così come sarebbe apparso nel dipinto definitivo. Se il disegno appena esaminato aveva come punto di riferimento le finestre della parete retrostante l’altare, ed era limitato ad un primo schizzo del gruppo superiore radunato attorno al Giudice universale, il foglio che si trova in Casa Buonarroti a Firenze lascia intravvedere il tentativo di estendere la composizione verso il basso6. Innanzitutto, ben al di sotto di Cristo sono abbozzati molto lievemente gli angeli in volo con le loro trombe (fig. 132). Sul lato sinistro del foglio, poi, i santi aiutano gli eletti che ascendono a raggiungere i posti sulle nuvole a loro destinati. La penna mette in rilievo alcuni dei corpi in ascesa nella plasticità della loro forma fisica in pieno movimento. Sotto di loro si vedono già i morti che, chiamati alla vita eterna, escono dai loro sepolcri terreni. Proseguendo verso destra, Michelangelo ha disegnato l’angolo destro superiore della cornice in stucco dell’affresco dell’altare del Perugino. Ancora una volta, egli ha cercato anzitutto di inserirsi nella situazione preesistente sulla parete retrostante l’altare. All’angolo della cornice in stucco l’artista sviluppa un secondo tema: il combattimento di Michele con Lucifero e la caduta degli spiriti malvagi. Il braccio destro di Michele che si alza per colpire costituisce, in tal modo, l’eco del gesto di condanna del Giudice universale il quale, parimenti, tiene levato il braccio destro. Ma, forse, la figura di Michele abbozzata dietro di lui avrebbe dovuto rappresentare il pesatore delle anime. Il dipinto completato dalla cornice in stucco e la pala d’altare dell’Immacolata hanno ceduto il posto al gruppo degli angeli tubicini, ora inserito più in basso nell’affresco. Anche il gruppo del combattimento tra gli angeli, mutato essenzialmente quanto a contenuto, si è dovuto adattare a uno spazio ridotto, spinto sul margine destro, come fosse un avvenimento secondario nell’ambito del Giudizio. Il terzo disegno, conservato agli Uffizi, è soprattutto dedicato al gruppo alla sinistra di Cristo (fig. 133)7. Così come è ritratta nel foglio di Casa Buonarroti, di cui abbiamo appena parlato, in questo studio preliminare Maria tiene spalancate le braccia, come volesse abbracciare il proprio Figlio impedendo così la dannazione dei malvagi. Come nel secondo abbozzo ancora conservato, an-
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che nel terzo disegno Cristo ha una corta barba e la forma ovale della testa si richiama all’iconografia tradizionale. Nell’affresco l’artista ritornerà, invece, al modello giovanile e senza barba. L’abbraccio di Maria ha trovato la sua eco nei due eletti a destra del disegno sullo sfondo, che si salutano abbracciandosi reciprocamente. Al centro del foglio e a breve distanza da Cristo riconosciamo, invece, due persone che si inchinano sottraendosi al suo gesto di condanna. Si può riconoscere la seconda figura dalla graticola che porta sulla schiena, allo stesso modo del paralitico evangelico che portava il lettuccio sulle spalle: infatti, può solo trattarsi del diacono e martire Lorenzo. Dietro di lui, una figura piegata in avanti regge una croce in modo che la sua parte superiore sia rivolta verso il basso: è difficile sbagliare supponendo si tratti di san Pietro. Il motivo della croce ritorna anche nel quarto schizzo tuttora conservato, dedicato alla composizione del Giudizio universale. Anche questo foglio si trova al Musée Bonnat di Bayonne (fig. 134), insieme al primo dei disegni di cui abbiamo parlato8. La figura principale nel disegno è un uomo nudo di spalle. Abitualmente viene riconosciuto come Andrea, poiché si trova davanti al braccio verticale mentre regge la trave orizzontale della croce. Questa figura è stata poi inserita nell’affresco definitivo. Avremo modo di vedere come questi in realtà non
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132. Michelangelo, disegno preparatorio per la parte sinistra superiore del Giudizio universale e per la lotta tra gli angeli; Firenze, Casa Buonarroti.
sia Andrea, ma Giuseppe, il falegname, lo sposo di Maria. Accanto a lui è già riconoscibile la figura spaventata che striscia carponi a terra e che nell’affresco identificheremo con Zaccaria, il padre di Giovanni Battista. Considerando gli abbozzi del Giudizio universale finora esaminati, non sembra affatto che Michelangelo avesse intenzione di sacrificare i propri affreschi situati nelle lunette a favore del nuovo grande dipinto sulla parete. Solo uno studio dedicato ad un angelo in volo, facente parte del gruppo degli esseri celesti presso la colonna della flagellazione, potrebbe rappresentare un indizio. Questo disegno, conservato al British Museum di Londra9, costituiva un semplice studio sulla figura che, senza ali, avrebbe dovuto muoversi nell’aria in maniera esteticamente credibile (fig. 142), ma non ci fornisce ulteriori delucidazioni per quanto riguarda l’elaborazione del contenuto dell’affresco nel suo insieme. Aiutandoci col raffronto tra la composizione murale ultimata e i primi quattro fogli trattati (figg. 130, 132, 133, 134), possiamo, al contrario, seguire passo passo
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133. Michelangelo, disegno preparatorio per la parte destra superiore, il Giudice e san Pietro; Firenze, Uffizi. 134. Michelangelo, disegno preparatorio per il gruppo alla sinistra del Giudice, tra cui san Giuseppe ed Elisabetta; Bayonne, Musée Bonnat.
buona parte dell’evolversi dell’affresco e vedere come i personaggi cambino la loro collocazione e le loro caratteristiche. Va detto, in primo luogo, che Michelangelo fin dall’inizio aveva destinato tanto a Maria quanto a Pietro un ruolo rilevante nell’evento del Giudizio universale. In particolare, intervenne due volte sul gesto della Madre di Dio: la prima variazione si rivela già nei disegni, la seconda è evidente, invece, solo nel dipinto ultimato. Infatti, in un primo tempo, Maria ha le mani giunte protese in una preghiera d’intercessione verso il proprio Figlio nell’atto di giudicare. In seguito, invece, essa tiene le braccia aperte come per abbracciare il Figlio, mentre in ultimo le chiude sul petto, si raccoglie vicino al Giudice e nello stesso tempo distoglie il suo sguardo da lui per rivolgerlo alla croce, formata da due travi e presentata dal suo sposo, il falegname Giuseppe. Come Maria nell’affresco, anche nel disegno degli Uffizi una figura spaventata è rannicchiata accanto a Lorenzo. Come Lorenzo nel disegno tiene sulla schiena la sua graticola, nella lunetta di sinistra del dipinto appare un angelo caricato della croce di Cristo. La figura collocata all’estrema destra del medesimo disegno, che si sporge un po’ in avanti, potrebbe rappresentare uno studio preliminare di Giovanni Battista, che nel dipinto appare dritto come una colonna e dalle proporzioni gigantesche. In generale solo l’affresco ultimato, non i singoli disegni preparatori, rende del tutto chiaro, in modo sostanziale, che Michelangelo vorrebbe offrire allo spettatore un’architettura formata di corpi nudi: è probabile che con questo egli faccia riferimento alla Chiesa composta di membra vive. In particolare il semicerchio che cinge il Giudice universale e Maria richiama alla mente l’abside di una chiesa iniziata e non del tutto conclusa.
135. Schema delle modifiche apportate alla parete dell’affresco, prima dell’esecuzione del Giudizio universale (da Loren Partridge). La parete dell’altare è divisa in tre zone verticali da sinistra a destra: i) la situazione originaria della cappella di papa Sisto iv; ii) l’asportazione di materiale per 15 cm in cima e per 59 cm alla base, per creare una parete inclinata in avanti; iii) la parete definitiva, dopo le modifiche, aggettante e intonacata (spessore dei mattoni
senza intonaco 14 cm, con intonaco 15 cm, sporgenza 30 cm); a-b) spessore dell’incavo al punto più alto della parete; c-d) spessore dell’incavo alla base della parete; e-f) copertura della parete inclinata con mattoni; 1) asse verticale; 2) piano originale della parete; 3) limite originale del pavimento; 4) piano della parete dopo la modifica; 5) materiale asportato; 6) attuale superficie della parete; 7) rivestimento in mattoni; 8) base dell’affresco.
La croce lignea, da noi già incontrata nel disegno degli Uffizi, compare quattro volte nell’affresco. Nella lunetta di sinistra alcuni angeli sono raggruppati attorno alla croce di Cristo come i compagni sulla destra lo sono intorno alla colonna della flagellazione. Trasportare questi due massicci strumenti di tortura esige sforzo e potenza: in tal modo essi imitano la sopportazione delle sofferenze di Cristo. Accanto a Maria, sulla sinistra, possiamo vedere il suo sposo Giuseppe, con le travi che rimandano alla croce. Nel dipinto Andrea si trova dietro al fratello Pietro: la sua capigliatura grigia e folta è caratteristica, infatti, della sua iconografia. A destra, al di sotto di Pietro, presso un gruppo di martiri con gli strumenti della loro passione, è collocata una figura che, ancora una volta, sorregge una croce. È probabile che si tratti del buon ladrone, il quale secondo la tradizione porta il nome di Disma e ricevette dal Cristo in croce la certezza del paradiso. Alla stessa altezza, verso il margine estremo sulla destra del dipinto del Giudizio, un colosso ha preso sulle spalle un’altra croce. Qui si presentano due proposte interpretative: Michelangelo può aver pensato a Simone di Cirene oppure all’apostolo Filippo. Occupandoci dei particolari del dipinto ritorneremo ancora sulla questione, optando per la prima delle due. Per il momento sottolineiamo la presenza reiterata della croce nell’affresco.
136)10. In essa si possono riconoscere le caratteristiche essenziali del monumentale dipinto della Cappella Sistina. Nella fascia superiore è il Giudice universale circondato da angeli. Alla sua destra e alla sua sinistra stanno gli angeli che si occupano della croce e della colonna della flagellazione: strumenti dalle forme simili a quelle dipinte nelle due lunette della Cappella. Al di sotto di Cristo, a destra e a sinistra, alcuni angeli in volo suonano le trombe; sotto di essi, al centro della medaglia e in posizione elevata su un colle, due angeli separano i risorti usciti dai sepolcri dividendo gli eletti dai dannati. Un primo angelo aiuta gli uni a salire, mentre un secondo allontana gli altri con la spada affilata. L’iscrizione nella parte inferiore della medaglia – et in carne mea video deum salvatorem meum (Gb Vulg. 19,26) – richiama la risurrezione dei corpi nell’ultimo giorno. Molti particolari della medaglia possono essere raffrontati con i disegni di cui abbiamo parlato e dimostra-
Un importante modello per la composizione: una medaglia di Bertoldo di Giovanni Al Metropolitan Museum of Art di New York è custodita una medaglia di Bertoldo di Giovanni, maestro di Michelangelo, realizzata intorno agli anni 1468-1469 (fig.
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no come essi dipendano direttamente dalla medaglia. Si può confrontare soprattutto la figura di Cristo, collocata sempre nella parte superiore, con il braccio alzato nell’atto di condannare. Nella parte superiore del disegno di Bayonne, il primo di cui abbiamo parlato, la linea arcuata e definita delicatamente ricorderebbe più il bordo superiore della medaglia che la delimitazione delle lunette della Cappella. L’angelo che, sul foglio di Casa Buonarroti, si trova sopra la cornice in stucco originariamente parte dell’affresco del Perugino dietro l’altare – qui ancora presente nel disegno – e alza il braccio destro per colpire respingendo una figura che cerca di salire, ha il suo precedente nell’angelo che si trova sulla medaglia, intento a respingere i dannati con la spada sguainata in cima ad un colle. I diversi corpi nudi che, uscendo dai sepolcri, si elevano al suono delle trombe, definiscono sulla medaglia una fascia orizzontale sopra l’iscrizione che, in tutta la sua ampiezza, occupa circa un sesto dello spazio. A proposito di coloro che salgono dai sepolcri e degli angeli che li soccorrono, al Windsor Castle è ancora conservato un foglio con molti studi preparatori elaborati da Michelangelo, di cui non abbiamo ancora parlato e che si può datare intorno agli anni 1538-154011. Avremo modo di ritornare ancora su questo disegno quando prenderemo in considerazione, in ogni singolo particolare, la corrispondente porzione dell’affresco. Nel portare a compimento la composizione, Michelangelo tenne continuamente presente la medaglia del maestro scultore Bertoldo di Giovanni, rinunciando unicamente a dipingere i ceppi riconoscibili sul lato sinistro di questa. Gli elementi che, invece, mancano completamente nella composizione della medaglia riguardano le teorie di santi in cielo, la raffigurazione del fuoco dell’inferno con il diavolo, della barca di Caronte e del giudice Minosse, come pure, sul lato destro dell’affresco, gli angeli che sferrano pugni a coloro che non sono ancora pronti per il paradiso. Le lunette con le Arma Christi Allorché Michelangelo terminò il suo primo disegno, conservato oggi a Bayonne (fig. 130), si rese conto che la nuova composizione di un Giudizio universale desiderata da papa Clemente vii non avrebbe potuto armonizzarsi con le finestre e con i suoi affreschi nelle lunette. Il nuovo tema propostogli richiedeva troppe figure, cosicché esse,
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136. Medaglia attribuita a Bertoldo di Giovanni, dove sono raffigurati il Giudizio universale e la Risurrezione dei morti (da Loren Partridge); New York, Metropolitan Museum.
in proporzione, sarebbero risultate molto più piccole dei pochi Antenati di Cristo da lui dipinti in precedenza nelle lunette: egli decise, perciò, ben presto di murare le finestre della parete retrostante l’altare e di sacrificare i propri dipinti a favore della nuova composizione (fig. 135). Se, dunque, probabilmente nell’autunno del 1534, l’artista si dedicò ai primi abbozzi del Giudizio universale, fu solo nell’aprile del 1536 che si accinse ad eseguire il dipinto sulla parete retrostante l’altare. Come suo solito, iniziò il lavoro dall’alto, vale a dire dai settori delle lunette. I particolari da lui scelti, e cioè la croce accanto all’affresco di Aman, la colonna della flagellazione accanto all’affresco del Serpente di bronzo, trovano riscontro nei pennacchi triangolari e ne riprendono la tematica tramite gli strumenti di tortura che sono abilmente raffigurati in posizione diagonale. Nella lunetta di sinistra si vedono angeli nudi e vestiti che, come sempre nei dipinti e nei disegni di Michelangelo, sono ritratti senz’ali. Essi si adoperano energicamente per far intendere i singoli momenti della crocifissione (fig. 139). Un angelo vestito di verde abbraccia l’albero della croce per indicare che si può sfuggire al Giudizio orientando la speranza verso la croce di Cristo. Il verde è il colore della speranza, e l’angelo che abbraccia
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l’estremità inferiore dell’albero della croce, come a rizzarlo, è stato rivestito da Michelangelo con delle brache viola chiaro: la mescolanza di bianco e di viola esprime la fede e la penitenza. Un angelo dallo svolazzante mantello giallo croco sta alle spalle di quello vestito di verde. Nei precedenti capitoli abbiamo appreso che il giallo croco indica il discernimento spirituale che fa avvicinare gli uomini alla croce. Gli ultimi due angeli, sul margine di sinistra, indossano un camiciotto bianco e un mantello rosso-verde: colori che caratterizzano la fede e la carità mescolata alla speranza, virtù necessarie perché la croce possa essere abbracciata diventando strumento di salvezza. Un tempo erano completamente nudi i due angeli che si addossano alla croce davanti e dietro, nello sforzo di rendere comprensibile la sospensione da essa. Il lembo scuro del mantello che copre i genitali dell’angelo davanti alla croce è risultato dei noti provvedimenti che, a seguito del Concilio di Trento e solo dopo la morte di Michelangelo, avvenuta nel 1564, deturparono tutto l’affresco con questi lembi di stoffa che non si è voluto rimuovere. Gli angeli sicuramente non sono nudi: Michelangelo sapeva bene che essi non hanno un corpo e perciò non possono essere nudi. Ma se, ciò nonostante, volle dipingerne alcuni, questo ha certamente un significato. Abbiamo già visto che i colori dei tessuti che coprono il corpo nudo dei suoi angeli richiamano sempre le virtù, quali la fede, la carità e così via. Il corpo nudo, qui, diventa, invece, immagine dell’esposizione senza alcuna protezione allo strumento della passione. Ciò vale soprattutto per i due angeli che sperimentano il legno della croce addossandosi al suo lato anteriore e a quello posteriore. Un secondo gruppo di angeli, situato nella metà di destra della lunetta, è in volo verso il centro, contrassegnato dalla pietra della cornice su cui poggia l’imposta della volta. Il primo angelo guarda indietro verso quello con le brache viola chiaro che tenta di rizzare la croce, e tiene tra le mani la corona di spine come per farla ruotare. La corona è formata dall’intreccio di due rami verdi di rovo spinoso. Le spine possono essere viste solo da un’immediata vicinanza: l’artista non si è sforzato a dipingerne il più possibile, lunghe e appuntite. Seguendo lo stesso principio, vediamo l’unico chiodo nella mano destra dell’angelo in volo dietro quello che regge la corona di spine, che ha il ventre e le gambe avvolti in un mantello giallo croco. Un altro angelo, dal mantello splendente di un cangiare peccaminoso dal verde al giallo, sta prendendo il chiodo con la destra, mentre con la
sinistra blocca l’avambraccio sinistro di un terzo angelo, come a fissare il chiodo nella sua mano. Con la destra il terzo angelo enfatizza il gesto di porgere la mano sinistra perché venga inchiodata (figg. 140, 141). Dietro a questo gruppo, costituito dall’angelo con la corona di spine e dai tre con il chiodo, lo spettatore scorge tre teste scure molto vicine, e una quarta affondata nel bianco dell’innocenza; alle spalle si trova un altro angelo vestito di viola, che stende le braccia inchiodate alla croce. Con queste tre teste scure Michelangelo ha, forse, voluto alludere alle capocchie dei chiodi? Se così fosse, l’avvenimento della croce risulterebbe trasposto nella lirica dei colori. Tutta la composizione della lunetta è, in tal modo, da considerarsi un sonetto colorato, come i non pochi sonetti che Michelangelo compose con le parole. Dirigendo lo sguardo a destra, verso l’imposta del cornicione su cui poggia la volta a crociera della Cappella, sono visibili dei piccoli angeli, con vesti dai colori verde, rosso e brunastro, che contribuiscono a reggere il peso della volta. L’artista ha, probabilmente, pensato che il blocco su cui poggia la volta non avrebbe retto, dal punto di vista estetico, quel cielo dipinto di azzurro e che, allo sguardo dello spettatore, tutta la volta minacciava di crollare direttamente sopra il Giudice universale. Il secondo arco di lunetta è gremito di angeli che attorniano la colonna della flagellazione inserita, come la croce, in posizione obliqua nello spazio celeste (fig. 138). Anche qui cinque angeli la circondano con le braccia. Tra essi, il giovane angelo che puntella la base della colonna con la testa e le braccia, posto alla base resa tagliente dagli spigoli, è esposto col corpo completamente nudo alla pressione del peso della colonna. Subito dietro di lui è riconoscibile una figura dalla pelle scura e dallo sguardo pensieroso, che tocca la colonna della flagellazione: è completamente rivestita del mantello verde della speranza. Che Michelangelo abbia pensato, qui, a Cam che irrise la nudità del padre Noè e dal quale discendono tutti gli africani? Ritorneremo ancora sulla questione occupandoci degli eletti che si trovano nell’adiacente metà destra superiore. A destra un angelo, dai fianchi avvolti nel mantello rosso dell’amore, abbraccia, da dietro, la colonna: tuttavia non ne stringe direttamente il fusto, ma getta su di esso un tessuto violaceo che ricorda la penitenza e la preziosità della reliquia della Passione. Certo Michelangelo nel suo dipinto non si è preoccupato di imitare la colonna della flagellazione venerata nella cappella di S. Zenone della basilica di S. Prassede.
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137. Parte superiore sinistra, con la lunetta, della parete dell’altare: gli angeli intorno alla croce e alla corona di spine, il cielo delle donne, la famiglia e gli antenati di Gesù.
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138. Lunetta di destra della parete dell’altare: gli angeli intorno alla colonna, Mosè e Davide, il cielo dei profeti con Natan, Paolo e Tecla, Scolastica e Benedetto, Noè e i suoi figli, Agostino e Monica.
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139. Lunetta di sinistra: gli angeli con la croce e la corona di spine, la parte superiore del Cielo delle donne con la vecchia Eva, la moglie di Noè e le mogli dei figli di Noè, Rachele e Lia, l’angelo che ha lottato con Giacobbe, Giacobbe e Giuda. Alle pagine seguenti: 140. Particolare della lunetta di sinistra: angeli mimano l’atto della crocifissione.
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141. Particolare della figura 140: uno degli angeli in volo. Sono ben visibili le pennellate di Michelangelo e la nuova cromia appresa dal maestro durante il suo soggiorno veneziano.
In effetti, la sua colonna di marmo col fusto liscio ed il capitello dorico è più simile ad un elemento architettonico che a uno strumento di tortura. Sembra che gli angeli siano in procinto di erigere un edificio. L’angelo completamente nudo sopra di lui si regge con la destra alla coscia ricoperta di un mantello verde dell’angelo più vicino che, stando in ginocchio un po’ più in alto, tocca il fusto della colonna mentre, a sua volta, abbraccia un messaggero di Dio avvolto in una veste rossa. Ne risulta, così, una specie di intreccio allentato costituito dal legame tra l’essere esposto nudo alla pena, la speranza e l’amore. Al British Museum di Londra si è conservato lo studio del corpo dell’angelo totalmente nudo che si regge alla coscia di quello vestito di verde, già ricordato. Michelangelo fa muovere l’angelo attraverso lo spazio vuoto come se stesse nuotando nell’acqua (fig. 142). In alto, tre giovani angeli, poco vestiti, stringono il fusto della colonna: uno ha le terga avvolte in un tessuto viola chiaro; dalla coscia sinistra del secondo pende un lembo di veste, mentre il terzo del gruppo si inginocchia sul bordo di un mantello violaceo la cui fodera ha il color croco del discernimento spirituale. Il brutto lembo di stoffa scura davanti ai genitali è dovuto ai ritocchi a secco eseguiti poi. Qui si incontrano in modo significativo il viola chiaro della penitenza accostato alle strisce bianche, il colore della fede, insieme al verde della speranza e al colore del discernimento spirituale, sullo sfondo della penitenza. Per amore, per espiazione e per la speranza degli uomini disposti a fare penitenza, il Figlio di Dio si sottopose alla flagellazione. Questo è il significato dei colori sulle diverse vesti. Fin dall’inizio della sua attività, Michelangelo applica con sicurezza quanto appreso da un consulente di teologia in merito al significato dei colori. La genuflessione è un gesto importante, che ritorna in più occasioni su entrambe le lunette. Mentre gli angeli della speranza e della penitenza si sono avvicinati in ginocchio all’albero della croce per abbracciarlo, uno dei compagni è dipinto nella parte più alta nello stesso atteggiamento presso il fusto della colonna della flagellazione. L’angelo sottostante si inginocchia con la gamba destra su una nuvola, così come si inginocchia sul fusto della colonna quello accanto con la gamba avvolta nel tessuto verde. Al di sotto e come richiamo all’angelo svestito, che è disceso reggendosi al mantello verde della speranza, è dipinto un altro angelo il quale, sulla destra, vola dall’esterno in direzione della colonna reggendo in mano il bastone con la spugna imbevuta di aceto: il suo mantello gial-
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142. Michelangelo, studio del movimento dei corpi sospesi in aria per un angelo della lunetta destra; Londra, British Museum.
lo croco svolazza nel vento, creando uno splendido contrasto con il colore azzurro del cielo (fig. 143). Questo azzurro era particolarmente importante per Michelangelo: infatti iniziò l’affresco una volta giunta da Venezia la spedizione con l’azzurro lapislazzuli proveniente dalla Persia. Il pittore è riuscito ad ottenere l’effetto del giallo croco accostando pennellate parallele di giallo e di rosso. Gli sguardi dei singoli angeli sono decisamente divergenti. Tra la colonna e l’angelo vestito di rosso nella zona superiore, è incastonata una testa dalla pelle scura che guarda verso l’alto. Anche mediante un tale orientamento dello sguardo può venire indicata la virtù della speranza. Una testa scura simile nella lunetta di sinistra, collocata subito accanto alla coscia sinistra dell’angelo che sta davanti alla croce quasi come se vi scivolasse giù, trami-
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143. Parte destra della lunetta di destra: gli angeli con la colonna e la spugna, Cam si aggrappa alla colonna, Noè e Sem (nell’angolo destro inferiore).
te lo sguardo entra in contatto con chi osserva, allo stesso modo dell’angelo inginocchiato all’estremità inferiore dell’albero della croce. Attraverso queste direzioni continuamente incrociate degli sguardi degli angeli lo spazio vuoto e tridimensionale del cielo viene riempito da una grande tensione, accresciuta ulteriormente dal movimento dei corpi. Gli strumenti della passione di Cristo sono limitati alla croce, a un chiodo, alla corona di spine, alla colonna della flagellazione e al bastone con la spugna. A questi va aggiunta una scala appena visibile sullo sfondo della lunetta di destra insieme a tre teste di angeli. Mancano, invece, i due flagelli, i dadi e soprattutto la lancia. Ad eccezione della corona di spine dovevano essenzialmente venire mostrate solo le arma Christi che potevano venire utilizzate per la costruzione di un’architettura? L’ipotesi è plausibile. Gli angeli che, di certo, non sono fatti di carne ed ossa e che perciò non possono soffrire, sono occupati con gli strumenti della passione di Cristo, volendo mostrare agli uomini come avrebbero dovuto utilizzarli per sfuggire alla condanna del giudizio. Ma che gli angeli non possano effettivamente soffrire è evidente nella figura del giovane angelo che scivola giù dal legno della croce. Che essi possano provare afflizione, appare però nella coppia di angeli che si libra sulle nuvole nell’oscurità dell’ombra: gli occhi di questi messaggeri di Dio esprimono un dolore contenuto, una mestizia ed un’intensa serietà. Il Giudice universale Le due lunette con le arma Christi sono separate dal resto del dipinto murale mediante nastri di nuvole. La figura di Cristo, insieme a quella di Maria, è isolata dalle altre figure da un coro semicircolare di eletti a destra e a sinistra e di angeli in volo verso l’alto, ed è delimitata da una stretta striscia di cielo azzurro e da un lucente nimbo giallo di sole (fig. 144). Maria, in posizione raccolta e vicinissima a Cristo (figg. 145, 146), non ha, chiaramente, la stessa importanza di suo Figlio: tramite il suo sguardo è in comunicazione con il gruppo di anime che si trovano alla sua destra più intensamente di quanto non lo sia suo Figlio con quelle alla sua sinistra. L’articolazione dei muscoli impegna la figura del Figlio in un’unica azione, che culmina nel braccio destro alzato nell’atto di condannare. Lo stesso braccio che scaraventerà nell’istante successivo, senza differenze, tutti i malvagi nella profondità dell’inferno.
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Questo Cristo, benché adorno di un mantello violaceo gettato sulla coscia, ha suscitato ben presto la riprovazione di molti critici. La sua testa ricorda quella dell’Apollo del Belvedere (figg. 147, 148)12: la concezione del divino che lo contraddistingue è, dunque, modellata su una matrice pagana. Il suo volto non riproduce il modello tradizionale che noi conosciamo delle icone della Chiesa orientale, riconoscibile in ogni affresco absidale delle chiese di Roma, nella Disputa come nella Trasfigurazione di Raffaello. È la prima volta che a Roma, nell’ambito dell’incarico ufficiale di un papa, l’immagine di Cristo differisce dal modello abituale, offrendo allo sguardo dello spettatore un’immagine in piena corrispondenza con una divinità pagana. Per la prima volta un artista incaricato dal papa si è azzardato a dipingere un volto di Cristo indistinto anziché il suo ritratto. In tal modo in ambito religioso viene attribuito un carattere del tutto diverso all’immagine. Infatti, essa non vorrebbe riprodurre la figura divina di Cristo così come appare, ma un’immagine che le subentri trasmettendo allo spettatore alcune caratteristiche e alcuni tratti spirituali e non fisici. Come questo sia potuto accadere a un centinaio di metri dalla Cappella nella quale si venerava l’autentica immagine di Cristo impressa sul velo della Veronica, non siamo in grado di mettere in luce con chiarezza. Il Giudice universale di Michelangelo sottintende lo scetticismo dell’artista nei confronti dell’autenticità della «Veronica», un’immagine di Cristo impressa sul telo presso il quale i credenti di tutto il mondo si sono recati in pellegrinaggio13. La somiglianza con una tra le più belle immagini di divinità dell’antichità ed a lui note fu per Michelangelo più importante della conformità con la reliquia del ritratto di Cristo. Questa è una delle caratteristiche principali dell’età moderna confrontata con il Medioevo: l’arte non si orienta più verso la reliquia ma verso i reperti archeologici dell’antichità, considerati come esemplari per ogni forma di espressione artistica. Dipingere un Cristo giovanile e senza barba trova facilmente una giustificazione nell’arte cristiana della tarda antichità. In particolare, sui sarcofagi della metà del iv secolo appare sempre un Cristo ancora giovane e imberbe, così come nei mosaici di Sant’Apollinare a Ravenna e in non poche miniature e dipinti murali medievali. Il gesto di condanna di Cristo non solo scuote tutto il suo corpo muscoloso, ma costituisce l’autentico elemento vivificatore dell’affresco. È come se esso facesse tremare tutto il dipinto fin nei suoi angoli più riposti (fig.
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144. Il Giudice universale. A sinistra: Maria, Giuseppe, Elisabetta, Zaccaria ed Isacco, presso i piedi di Maria e di GesÚ le teste di Anna e di Gioacchino, san Lorenzo e san Bartolomeo. A destra: Giovanni evangelista, Andrea, Pietro e Giacomo. Alle pagine seguenti: 145. Il Giudice e Maria, la mano di Giuseppe con le travi incrociate, Anna, il coltello di Bartolomeo e Gioacchino. 146. La testa di Maria mostra la tecnica del passaggio della composizione dal cartone con lo spolvero attraverso i fori, lungo le linee del disegno. Si vedono i puntini lasciati dallo spolvero, per esempio lungo le labbra. 147. La testa dell’Apollo del Belvedere, modello del Cristo Giudice; Musei Vaticani, Cortile del Belvedere. 148. La testa del Cristo Giudice.
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149. Parte destra del Giudizio universale, fotografata prima del restauro dal punto di vista del visitatore della Cappella; si vedono le singole figure nella loro giusta proporzione secondo il calcolo dell’artista e la conseguente dinamica vitale dei corpi in movimento.
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149). Non può, infatti, persistere alcun dubbio circa l’interpretazione del gesto di Cristo. Persino Maria non si rivolge più al Figlio nell’atto di intercedere, come appare, invece, nei disegni preparatori. Ora dirige lo sguardo verso le due travi disposte a forma di croce che una figura, restituita alla sua nudità dopo l’ultimo restauro, preme con la destra contro il proprio corpo. Cristo indossa un mantello violaceo che copre la sua schiena, gettato liberamente intorno alla sua spalla sinistra e intorno alle cosce. Con il colore viola Michelangelo ha pensato alla porpora regale oppure al colore della penitenza. Appena accennate, poi, sono le ferite ancora aperte sulle mani, sui piedi e sul fianco. Il gruppo di sinistra La figura nuda, che preme contro il corpo le travi disposte a forma di croce a destra di Maria, non può che rappresentare il suo sposo terreno, Giuseppe il falegname (figg. 150, 151). Vedere in questa figura, come spesso avviene, l’apostolo Andrea è una spudorata invenzione: Andrea è raffigurato accanto al fratello Pietro nel gruppo a sinistra del Cristo. Le altre figure alla destra di Cristo, accanto a colui che abbiamo interpretato come Giuseppe, sono senza dubbio membri della famiglia di Maria conosciuti dal Vangelo. Il possente gigante che guarda verso il Giudice universale può essere solamente Giovanni Battista (fig. 150). In direzione obliqua, sulla destra e sopra di lui, scorgiamo sua madre Elisabetta con una veste verde e, nascosto dietro alle sue gambe, suo padre Zaccaria, avvolto in una veste rossa (fig. 152). Maria in relazione con questo gruppo guarda alle travi disposte a forma di croce. Indossa un vestito viola chiaro che, per la delicatezza dei toni, si armonizza bene col viola purpureo scuro del mantello del Figlio (fig. 145). Il suo mantello, invece, è del medesimo e rilucente colore azzurro lapislazzuli del cielo dell’affresco. Se il viola rosato del suo vestito è il colore della penitenza, così l’azzurro del cielo indica la contemplazione. Maria è completamente rapita nella contemplazione dei due legni della croce e là, dove il suo sguardo incontra i legni che si incrociano, appare la fodera verde del mantello: si vuole probabilmente dire che, nello sgomento suscitato dal giudizio finale, la croce sarà l’unica sorgente di speranza. La figura di Maria è quella di una donna incinta. Dunque, ancora una volta, l’artista percorre del tutto la propria strada presentandoci un simbolo e non un ritratto
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di colei che è raffigurata: Maria è simbolo della Chiesa e, come tale, è incinta fino a che, nello sgomento del giudizio, siano stati generati al paradiso tutti i credenti. Giuseppe afferra con la sinistra il fianco di Elisabetta vestita di verde, mentre, come abbiamo visto, Zaccaria è vestito di rosso. Il precursore di Gesù ha avuto origine, per così dire, dal matrimonio tra amore e speranza. Ma chi è quel ragazzo sulla sinistra, accanto al Battista, che con la sinistra afferra il braccio destro dell’ultimo profeta? Qui ci viene in aiuto ancora una volta un passo teologico tratto dalla Concordia Veteris ac Novi Testamenti di Gioacchino da Fiore14. Tale testo, infatti, si fonda sul confronto allegorico di ciò che è piccolo con un qualcosa di molto più grande: «Abramo è una persona e rappresenta tutto l’Ordine dei Patriarchi in cui sono raggruppate molte persone. Zaccaria è una persona, ma rappresenta solo se stesso»15. In altre parole, nella persona di Abramo vediamo lui stesso
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oppure, in modo allegorico, tutto l’Ordine dei Patriarchi. Tra Abramo e Zaccaria non sussiste, dunque, una relazione allegorica, ma, come dichiara ancora sempre Gioacchino, si realizza la relazione esistente tra l’Antico e il Nuovo Testamento. La stessa cosa vale per Sara ed Elisabetta: «Sara è figura della Sinagoga, non la Chiesa rifiutata – significata da Agar –, ma la Chiesa sterile dei giusti... Il figlio di Sara non è figlio della carne, ma della promessa ricevuta nella sua vecchiaia... allo stesso modo di Elisabetta, poiché anch’essa, quando ormai era divenuta sterile, ha generato un figlio durante la sua vecchiaia»16. Considerando questo testo, a sinistra, accanto al gruppo di Elisabetta, Zaccaria e Giovanni Battista, troviamo un altro gruppo di tre persone. Certo non sbagliamo vedendo in esse Isacco, Sara e Abramo. Anche Agar e Ismaele sono a sinistra, dietro la gamba destra di Isacco. La figura che riconosciamo come Agar è completamente avvolta in una veste bianca fin sopra la testa ed è ritratta come fosse caduta sul banco di nuvole. Dietro alla sua testa si riconosce quella del figlio. Abramo ha sul capo una cuffia color croco, che conosciamo già come il colore del discernimento spirituale. Sara è avvolta, invece, nel mantello viola della penitenza. Dietro a Giovanni Battista, ritratta nell’atto di indicarlo, ha trovato il suo posto Rebecca, la moglie di Isacco, che appoggia la sua mano sinistra sulla spalla di Elisabetta, la cui veste, come il velo gettato sul capo, cangia dal celeste al rosso, dalla contemplazione all’amore. Anche Gioacchino da Fiore parla di Rebecca come prototipo di Maria, vale a dire, quindi, prototipo della Chiesa, mentre Isacco è prototipo di Cristo17. In un altro passo l’abate calabrese dice che Abramo occupa il posto del Padre celeste, Isacco quello del Figlio e Giacobbe quello dello Spirito18. Nel Nuovo Testamento a queste figure corrispondono Zaccaria, Giovanni e Cristo. Così, nella Concordia, a Giovanni spetta il posto del Figlio, e a Cristo quello dello Spirito. Solo ora comprendiamo il motivo per cui Rebecca, in quanto prototipo della Chiesa, indica il Battista. Secondo il complesso schema «trinitario» di Gioacchino da Fiore, questi, come Isacco, occupa il posto del Figlio. Così, nel Giudizio universale di Michelangelo si presenta agli occhi dello spettatore una Trinità gioachimita celata in modo curioso, che procede da Abramo/Zaccaria, prosegue con Isacco/Giovanni e giunge a Giacobbe/Cristo. Ora comprendiamo perché, al di sopra di Rebecca, suo figlio Giacobbe, al centro dell’affresco, si pieghi ver-
so Cristo, guardandolo da sotto con intensità. Con la sua destra egli richiama l’attenzione su una figura nuda, dietro di lui, potentemente carica di energia: si tratta, certamente, dell’angelo con il quale lottò al guado del torrente Jabbok (cfr. Gn 32,25-29). Proprio da quel combattimento viene il nome di Israele, che significa «colui che ha lottato con Dio». Se ora ci mettiamo ancora una volta a considerare le singole persone e gruppi, riconosciamo in essi molteplici correlazioni. Così, per esempio, troviamo quattro donne legate l’una all’altra dall’invisibile linea che da Maria conduce in là verso Elisabetta, e, passando attraverso Rebecca, giunge fino a Sara. Elisabetta guarda apertamente Sara, la quale con un’espressione impaurita tiene la mano all’altezza dell’orecchio, come se avesse udito le parole di condanna pronunciate da Gesù, parole che anticipano il gesto con cui scaglia in basso i dannati. Come già abbiamo detto, Michelangelo dipinge Maria incinta. Maria, infatti, è la Chiesa nelle doglie del parto di tutta l’umanità. Giuseppe, suo sposo, preme sul proprio corpo completamente nudo le travi disposte a croce verso le quali sta guardando Maria. Egli, pur procedendo da lei, si volge verso Elisabetta (fig. 151). Maria, quantunque dipinta vicinissima al Giudice universale, attraverso Giuseppe trova un legame con la cugina che procede sia da Maria che da Giuseppe. Si delinea così, nuovamente, una prima relazione «trinitaria» nella composizione di Michelangelo. La successiva relazione a tre compare insieme alla duplice correlazione intrattenuta da Rebecca: con Elisabetta, sulle cui spalle essa poggia il braccio, e con Giovanni, che costei indica. Dietro a Giovanni si riconoscono le teste di Sara, Abramo e Isacco in una composizione triangolare. Salta agli occhi, poi, il movimento che da Isacco passa attraverso il Battista e giunge fino a Cristo, verso il quale sta guardando il Battista. Si tratta qui di un legame continuo e reciproco, realizzato in una forma «trinitaria», che opera attraverso i gesti e la direzione degli sguardi. Tre sono anche le figure che sembrano cadute sul banco di nuvole; si tratta qui, nuovamente, di un padre, di una madre e di un figlio, i quali, però, per quanto riguarda la paternità, non sono direttamente legati l’uno all’altro: i tre sono Ismaele, Agar e Zaccaria. Sembra che essi giacciano sulla nuvola poiché hanno udito il giudizio di condanna, per quanto esso non sia stato rivolto a loro. Rimane di fondamentale importanza in questo rapporto tra l’Antico e il Nuovo Testamento ciò che possiamo leggere in Gioacchino da Fiore a proposito della Concor-
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150. Gruppo di sinistra: la famiglia di Zaccaria in rapporto di «concordia» con la famiglia di Abramo, secondo i passi teologici di Gioacchino da Fiore. Da sinistra a destra: Agar, Isacco, Sara, Abramo, Rebecca, Giovanni Battista, Elisabetta, Zaccaria, Giuseppe, Maria.
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151. Gruppo di sinistra, Elisabetta e Giuseppe.
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152. Gruppo di sinistra, particolare di Zaccaria tra una gamba di Giovanni Battista ed una di Giuseppe.
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dia. Si tratta di «una somiglianza di proporzione equivalente tra l’Antico e il Nuovo Testamento, equivalente per quanto riguarda il numero, non la dignità, poiché... persona e persona, ordine e ordine, guerra e guerra, procedendo da una certa uguaglianza, si guardano in viso reciprocamente, come Abramo e Zaccaria, Sara ed Elisabetta, Isacco e Giovanni Battista, Gesù e Giacobbe»19. Anche se Michelangelo è evidentemente influenzato da questo pensiero di Gioacchino da Fiore, lo ha, però, adottato e sviluppato ulteriormente. Elisabetta guarda in là verso Sara, ma con il suo gesto eloquente trasmette fino a lei, per così dire, la notizia del giudizio di condanna pronunciato da Gesù. Sara, da parte sua l’ascolta, ma il suo sguardo sfiora appena Elisabetta e giunge sino al Giudice universale; con il suo braccio sinistro Giuseppe è sul punto di far volgere nuovamente verso il centro la sua parente acquisita Elisabetta. Abramo guarda verso Cristo, in sottile relazione con Zaccaria seminascosto dietro le gambe di suo figlio Giovanni. Zaccaria, con la barba bianca come Abramo, entra in contatto con lo sguardo con lo spettatore dell’affresco. Isacco, accanto a Giovanni Battista, guarda come lui verso il centro, verso Cristo. Così, per mezzo degli sguardi, il dipinto è animato da un movimento in più direzioni, e sono sempre tre le persone coinvolte nel gioco delle relazioni, nel quale è a volte chiamato lo stesso spettatore. Procedendo all’indietro, chiude l’intero gruppo di questa Concordia Rebecca, situata tra i Patriarchi dell’Antico Testamento e i parenti di Gesù e Maria. Con un braccio poggiato sulla spalla di Elisabetta mentre l’altra mano indica Giovanni, essa procede dalla cugina di Maria e richiama l’attenzione sul precursore di Gesù. Giovanni, a sua volta, per movimento e posizione, con tutta evidenza procede da Rebecca e da Elisabetta. Il sistema «trinitario» viene chiuso e poi nuovamente aperto, poiché Giovanni stesso guarda a sua volta verso Cristo. Michelangelo studia, dunque, una disposizione sempre nuova delle sue figure agli occhi dello spettatore, come in un gioco che riproduce la processione della Trinità, in una struttura di relazioni che si conclude sempre nella figura di Cristo, per ripartire poi nuovamente da questa. La figura nuda che si trova dietro Rebecca e porta un mantello rosso attorno ai fianchi è Giacobbe. Lo insegue l’angelo pieno di energia che balza fuori dal gruppo attiguo di donne sulla sinistra e su cui abbiamo già richiamato l’attenzione. Giacobbe con il braccio destro indica l’angelo e con il sinistro sfiora il capo di Rebecca mentre, piegandosi verso il centro, tiene fisso il suo sguardo su Cristo (fig. 150). 282
153. Michelangelo, disegno preparatorio per le teste di Giuda (sopra) e di Giacobbe (sotto); Londra, British Museum.
A un’osservazione successiva, tra l’angelo e Giacobbe e tra Giacobbe e Cristo sarà riconoscibile un ritmo che si rispecchia allo stesso modo tra la figura di Giuda, uno dei figli di Giacobbe e uno degli antenati di Gesù, il quale è dipinto, anch’esso, nudo e muscoloso mentre volge lo sguardo al Giudice degli uomini. Per le teste di Giacobbe e di Giuda, esiste un disegno preparatorio al British Museum (fig. 153). Con tutti questi Patriarchi l’artista ha ritratto le figure che, in precedenza, aveva dipinto sulla medesima parete, in alto, nella sequenza degli Antenati di Cristo della lunetta di sinistra, e che egli stesso aveva dovuto sacrificare a favore del nuovo affresco. Secondo l’iscrizione esistente sulla copia ancora conservata, di cui ci siamo occupati nella seconda parte, nella prima lunetta di sinistra erano raffigurati Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuda, tutti e quattro presenti nel dipinto del Giudizio universale. Ma Michelangelo ha ritratto ancora le figure un tempo dipinte nella lunetta di destra della parete retrostante l’altare? Abbiamo già visto che in questa lunetta erano raffigurati Giuda e la nuora Tamar, insieme con i suoi due mariti morti l’uno dopo l’altro, vale a dire Er e Onan, notando come questa raffigurazione contraddicesse quanto indicato dall’iscrizione. Ora Tamar è riconoscibile sullo sfondo nella donna vestita di verde e completamente velata (fig. 137). Davanti a lei e subito accanto a Giacobbe sono raffigurati i suoi due mariti con le palpebre abbassate, come richiamo alla loro morte precoce, e accanto a loro spunta, piegato verso Cristo, Giuda, il suocero, per mezzo del quale Tamar generò la tanto desiderata discendenza (cfr. Gn 38,6-18) dalla quale proviene anche Gesù di Nazareth (cfr. Mt 1,3). La figura dalla pelle scura accanto a Giacobbe può essere solo suo fratello Esaù. A destra, accanto a Giuda si
Il Giudizio universale
vede nell’ombra una donna, anch’essa vestita di verde e, sopra di lei, due figure maschili. Se cerchiamo di identificarle aiutandoci con la storia dei Patriarchi, il Libro della Genesi ci presenta l’episodio di Dina, figlia di Lia e sorella dei dodici figli di Giacobbe, la quale fu violentata da Sichem scatenando la cruenta vendetta dei fratelli Simeone e Levi contro di lui e il suo clan (cfr. Gn 34). Il gruppo dei Patriarchi si chiude, così, con queste tre figure. Il gruppo raffigurato dietro il Cristo: giudici e re La conca absidale costituita da membra vive è formata da tre angeli e da figure tratte dai libri storici dell’Antico Testamento, con una particolare attenzione agli antenati femminili di Gesù (figg. 154, 155). L’angelo, che si libra sopra il braccio di Gesù nel suo gesto di condanna, porta il mantello viola della penitenza attorno alle gambe e come copricapo una cuffia celeste, colore che nell’affresco del Giudizio universale rimanda sempre alla contemplazione. Un angelo vestito di rosso indica Mosè, mentre sopra di lui si leva dal banco di nuvole un messaggero non alato con una veste grigio chiaro. Sopra l’angelo col vestito penitenziale e con la cuffia azzurra è dipinta una coppia di innamorati che si abbraccia (fig. 154). La donna, nella quale riconosciamo Raab, la prostituta di Gerico che accolse le spie di Giosuè in ricognizione (cfr. Gs 2,1-6), è vestita completamente di rosso. Infatti, ella aveva contrassegnato la sua casa con una cordicella di filo scarlatto, per preservare la sua famiglia dalla morte alla conquista della città (cfr. Gs 2,18-21). Come Tamar, anche Raab fa parte di quelle donne che vengono menzionate espressamente tra gli antenati di Cristo dal Vangelo secondo Matteo (Cfr. Mt 1,5). Dal momento che il suo consorte Salmon è vestito di bianco, è possibile che Michelangelo intenda richiamare il legame tra fede e amore. Con le altre figure presenti nel semicerchio dietro a Cristo la lista degli antenati viene a includere Davide, Betsabea e Salomone. Una persona in verde, riconoscibile come Mosè dalle corna sul capo, occupa, per così dire, il posto del profeta Natan. Infatti, vicinissimo al re Davide, con l’indice teso verso l’alto, lo ammonisce, anche in quest’occasione, per il suo adulterio con Betsabea (cfr. 2 Sam 12,1-9; fig. 155). Vedremo poi che Natan, raffigurato più avanti sulla destra, con il gruppo dei Profeti, come Mosè richiama con l’indice teso l’espisodio dell’adulterio.
All’ombra del braccio dell’angelo con il mantello rosso, che indica Mosè con il braccio teso, si può vedere Noemi con suo marito Elimelech e, soprattutto, Rut, la moabita, con Chilion, figlio di Noemi e primo marito di Rut, morto prematuramente (cfr. Rt 1,2-5). Anche la terza tra le donne presenti nella successione delle generazioni precedenti la famiglia di Gesù (cfr. Mt 1,5), vale a dire la bisnonna di Davide, ha trovato il suo posto nel dipinto. Dietro alla coppia formata da Raab e Salmon sono riconoscibili, probabilmente, altri antenati di Gesù, quali Aminadab e Naasson (cfr. Mt 1,4) e, dietro all’angelo dal vestito grigio chiaro, i genitori di Iesse, il padre di Davide. Iesse stesso è ritratto sulla destra dietro a Mosè e accanto ai suoi genitori. Davide è identificabile chiaramente da un copricapo regale e da una specie di corona. Betsabea, che porta una corona simile, ha trovato posto davanti a Davide insieme al figlio Salomone, il quale volge lo sguardo al Giudice universale. Anche un uomo con la veste rossa e una specie di tonsura sta guardando verso Cristo. La ragazza che sta accanto a lui, lo guarda e porta una corona di fiori sul capo, può essere solo la figlia di Iefte la quale, in verità, venne offerta in sacrificio cruento a Dio dal proprio padre in seguito a un voto pronunciato in modo sconsiderato (cfr. Gdc 11,30-39). La figura di Iefte, che indossa una veste rossa, introduce un nuovo gruppo dell’Antico Testamento, i Giudici, particolarmente appropriati nel Giudizio universale. Nella figura barbuta situata sotto Iefte è difficile non riconoscere il giudice Samuele, l’ultimo e, forse, il più significativo rappresentante di questo gruppo. Accanto a Samuele, quasi come antagonista di Cristo, in posizione di rilievo e con una veste dai medesimi colori attorno ai fianchi, riconosciamo Giosuè, dal quale Gesù ha preso il nome, colui che condusse gli Israeliti nella Terra promessa. Il gruppo di destra: apostoli e discepole Il pittore pone davanti agli occhi dello spettatore un altro gruppo, un po’ distante dalla figura di Giosuè: gli apostoli e le discepole del Signore (fig. 156). Anche costoro possono essere riconosciuti sulla base di brevi considerazioni. Innanzitutto stupisce che non esista unanimità nell’identificazione della gigantesca figura dietro a Pietro. Infatti, accanto a Pietro non può che esserci suo fratello Andrea, mentre l’atletico giovane di fianco sulla sinistra è certamente Giovanni, il discepolo prediletto di
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Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
154. Gruppo dietro il Cristo Giudice, gli antenati di Gesù. Da sinistra a destra: Giacobbe, Er, Tamar, Sela, Esaù, Giuda, Dina, Simeone, Levi, Salmon e Raab.
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155. Gruppo dietro il Cristo Giudice, da sinistra a destra: angeli, Obed e sua moglie, Iesse, Mosè, Davide Betsabea, Salomone. Seconda fila: Elimelech, Noemi, Rut, Iefte, Giosuè. Terza fila: Chilion, figlia di Iefte, Samuele, Maddalena, Petronilla.
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156. Gruppo di destra, da sinistra a destra: Samuele, Petronilla, Andrea, la suocera di Pietro, Maddalena, la madre dei figli di Zebedeo, Giovanni evangelista, Pietro con le due chiavi spezzate, senza gli anelli, Giacomo maggiore, Gioacchino, Bartolomeo.
Gesù. La donna che si trova alle sue spalle con la veste violacea è la madre Salomè che chiese a Gesù il particolare privilegio per cui i suoi figli, Giovanni e Giacomo, avrebbero potuto sedersi alla destra e alla sinistra del Signore nel regno dei cieli (cfr. Mt 20,20-23). Il Giovanni di Michelangelo non si lascia intimidire dalla tremenda condanna, come invece accade per la madre e per il fratello Giacomo che, pieno di paura e dipinto nella stessa posizione di Zaccaria dietro al Battista, si è nascosto dietro le gambe di Pietro e di Andrea. La donna più giovane con la veste verde-gialla del peccato, parimenti spaventata dal giudizio di condanna, è probabilmente Maria di Magdala. Le altre due figure femminili non sono facilmente identificabili. La testa di ragazza dietro ad Andrea può forse raffigurare Petronilla, la figlia di Pietro, che noi conosciamo dalla tradizione. La donna in piedi nell’ombra, il cui capo è riconoscibile dietro ad Andrea ed a Pietro, è probabilmente la suocera di questi guarita da Gesù (cfr. Mt 8,14s.). Pietro consegna al Giudice le sue autorevoli chiavi, quella d’argento nella mano destra, quella d’oro nella sinistra. Da questo momento esse non serviranno più a nulla20. Giovanni, poi, non indietreggia davanti al braccio del Signore levato nella condanna: infatti, nella prima delle sue Lettere egli scrisse: «...nell’amore non esiste timore...» (1 Gv 4,18). Davanti a Giovanni l’Evangelista, su una nuvola è seduto Bartolomeo, che con la mano destra tende verso Cristo il coltello del proprio martirio e con la sinistra regge la propria pelle scorticata (fig. 144, 145, 168). È noto che il volto rappresentato in questa pelle non è altro che un autoritratto di Michelangelo. Discussa è, invece, l’interpretazione del volto del martire stesso. Molti hanno immaginato, forse sulla scorta di una tradizione orale, che Michelangelo abbia attribuito all’apostolo i tratti del suo avversario Pietro Aretino21. Sappiamo, infatti, che questi si era offerto all’artista come ideatore del programma del dipinto e che Michelangelo aveva rifiutato22, poiché volle ideare e stabilire autonomamente il contenuto stesso del suo affresco. Stizzito e deluso, l’Aretino lo accusò di omosessualità. Non si può, perciò, escludere che Michelangelo, per vendicarsi, abbia dato a Bartolomeo il volto di quella linguaccia dell’Aretino. Rappresentare il proprio viso sulla pelle scorticata allude alla condizione di Michelangelo, quasi l’artista si sentisse scorticato dall’Aretino. Questo modo tutto personale di procedere poteva essere peculiare solo di Michelangelo.
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Alle pagine seguenti: 157. Il cielo delle donne, Eva, le figlie di Eva, le mogli di Noè, Sem, Iafet, e di Cam, Chiara (?), Ester (?), Rachele, Lia, le Sibille, Giuditta, la vedova e la vergine, Agar e Ismaele.
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158. La sibilla Libica, la Delfica (?) e la Cumana (?), la vedova e la vergine.
Tra Bartolomeo e Giovanni Evangelista si trova la testa di un uomo che guarda oltre, verso i parenti di Gesù. Egli indossa il mantello giallo croco del discernimento spirituale e si trova vicinissimo ai piedi del Giudice universale. Dietro a Lorenzo con la graticola, fa da pendant una figura femminile, ai piedi di Maria, vestita anch’essa di color croco. L’identico colore della veste fa riconoscere l’uomo e la donna come appartenenti l’uno all’altro; la posizione di entrambi vicinissimi a Cristo e a Maria porta senz’altro a concludere che siano i genitori di Maria, Gioacchino ed Anna. Secondo la tradizione riferita anche nella Legenda Aurea essi, giunti in età molto avanzata, erano ancora senza figli, quando ricevettero il buon consiglio di dividere in tre parti il loro patrimonio, darne un terzo al tempio, un altro terzo ai poveri e di tenerne per sé solo un terzo: proprio in seguito ad un atto così generoso avvenne il concepimento di Maria23. Per questo motivo, forse, Michelangelo ha attribuito ad entrambi il vestito color croco del discernimento spirituale. Il gruppo delle sante donne Le donne che, sul lato sinistro dell’affresco, si aiutano a vicenda nell’ascesa alla sommità del cielo pieno di nuvole, compaiono tra un’anziana, con la veste viola della penitenza, situata in alto a sinistra, e un gruppo formato da due persone al centro (fig. 157). Si può riconoscere nella donna molto anziana con la veste penitenziale Eva, la madre di tutti i viventi. Il gruppo di due persone ricorda Niobe e la figlia più giovane così come erano rappresentate nella scultura classica (fig. 158). La più giovane si è avvicinata all’anziana abbracciandone la coscia. Indossa la veste rossa dell’amore, mentre la più anziana è vestita di verde e sotto i suoi seni scoperti, che ne sottolineano il ruolo di madre, è cinta da una fascia azzurra. La veste verde della speranza indica, probabilmente, che si tratta di una vedova. Essa guarda verso Cristo. Forse Michelangelo con queste due donne ha inteso accostare le due principali tipologie di sante: le vergini e le vedove. La donna vicina, facilmente identificabile se raffrontata con precedenti dipinti dell’artista nella Cappella, è Giuditta. La sua acconciatura, con la cuffia rivestita di un motivo ornamentale cruciforme, corrisponde a quella di Giuditta sul pennacchio all’ingresso della Cappella, dove questa eroina è raffigurata insieme al corpo decapi-
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Alle pagine seguenti: 159. Giuditta e le Sibille.
La Sistina svelata
160. Volta, angolo nord-est, Giudittacon la sua serva.
tato di Oloferne (figg. 159, 160, 161). Come quella Giuditta, anche questa figura è volta all’indietro, cosicché il suo volto non è visibile. Essa indossa una veste verde e gialla che lascia scoperta la schiena e le spalle. Intorno alle gambe è gettato il mantello violaceo della penitenza, poiché essa prima della sua coraggiosa azione pregò e digiunò con la veste penitenziale, per poi vestirsi a festa, così da ingannare Oloferne (cfr. Gdt 9,1 e 10,3). Che la veste verde e gialla, i colori del peccato, intenda ricordare tale raggiro ingannatore? Giuditta ora tende il braccio sinistro verso una figura a torso nudo ed è riconoscibile come sposa per la sua corona di capelli. Un’altra donna con la veste rossa e il velo bianco si piega verso di lei. Questi colori solitamente caratterizzano la personificazione della Chiesa, il giallo chiaro peccaminoso, invece, quella della Sinagoga. Abbiamo già visto che Michelangelo ha scelto come colore del peccato un giallo che tende a mutarsi in verde. Dobbiamo, forse, vedere in questa sua Giuditta una personificazione della Sinagoga soccorsa dalla Chiesa? Tra Giuditta e la donna che, per i colori della veste che richiamano la fede e l’amore, simboleggerebbe la Chiesa, se ne inserisce da sinistra un’altra genuflessa, che porta la corona di capelli della sposa. Il suo vestito riluce come l’argento e il mantello che avvolge le sue terga risplende del colore dell’oro: essa è, dunque, la colomba con le ali d’argento e il dorso dorato, le «posteriora dorsi in pallore auri» del Salmo 67[68],14 secondo la formulazione della Vulgata. La sua veste è simile a quella della sposa raffigurata nell’affresco di Signorelli e della sibilla Libica (fig. 162) sulla volta della Cappella. Il suo sguardo fissa lo spettatore oltre la spalla di Giuditta. Costei ha posato il braccio destro sulla spalla di una compagna le cui gambe sono avvolte dal mantello azzurro della contemplazione. Quest’ultima, a sua volta, tende le braccia verso l’alto, verso un altro gruppo di donne che si trovano su un livello più alto di nuvole. Da lì una compagna si protende verso le sue braccia, soccorrendola (fig. 163). Anche questa figura porta la corona di capelli della sposa e potrebbe far pensare ad Ester che, con la sua intercessione, venne in aiuto al suo popolo in pericolo mortale. La donna anziana con la veste grigia che guarda in alto verso di lei potrebbe essere la sibilla del popolo persico. Tuttavia la fisionomia del volto la fa riconoscere come la Cumana, se la si confronta con la medesima figura sulla volta della Cappella. A sinistra, accanto alla persona da noi interpretata come Ester, si trova una donna con i seni scoperti, dunque
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una madre, intenta con la sinistra a richiamare l’attenzione dell’intero gruppo di donne che cercano di ascendere al seguito di Giuditta. Il suo sguardo si volge a destra, verso Cristo. Con questa figura Michelangelo ha pensato, forse, alla sibilla Eritrea? Se le cose stanno così, allora possiamo riconoscere tre delle Sibille dipinte sulla volta della Cappella. Se consideriamo tutte le donne, ad eccezione delle due che assomigliano a Niobe e alla sua figlia più giovane e ad eccezione di Giuditta, contiamo in questa zona dell’affresco dieci persone, numero corrispondente a quello delle Sibille. Sulla destra, in prossimità di questa zona, viene dato particolare rilievo alla figura di una donna quasi completamente nuda, dal cui capo scende fino al banco di nuvole un lungo velo azzurro. Si tratta di Rachele, rivolta alla sua compagna Lia che le porge la mano sinistra come se ricevesse un dono. Ciò significa che nell’eternità, alla quale dà inizio il giudizio finale, la vita attiva rimane accogliente e riceve dalla contemplazione tutto ciò che costituisce il suo vivere. Il dono di Rachele consiste nel dedicarsi pienamente alla compagna. Questo dare e ricevere coinvolge una donna africana dalla pelle scura, il cui capo sporge dietro la spalla di Rachele. Si tratta, forse, della moglie di Cam, il figlio di Noè, così come, secondo la tradizione dei Libri sibillini, la sibilla Eritrea è diventata moglie di Iafet? Dietro alla figura, che potremmo interpretare come Eritrea, scopriamo una donna completamente velata di bianco in atteggiamento di preghiera. Con lei Michelangelo ha, probabilmente, pensato ad una personificazione della fede. Una striscia di tessuto giallo croco sulla sua spalla sinistra rimanda al dono del discernimento spirituale. A sinistra, accanto a lei, si trova una figura completamente vestita di rosso, la personificazione dell’amore. A destra, arretrata, una figura con un mantello verde a coprire i seni è in posizione di rilievo e guarda in alto in direzione della volta, verso il punto in cui l’artista ha dipinto la Separazione della luce dalle tenebre. Tale figura, probabilmente l’immagine della speranza, rappresenterebbe la moglie di Noè, madre di tutti i viventi dopo il diluvio universale. Sopra il capo della donna africana è riconoscibile un volto particolarmente bello, con capelli d’un biondo dorato e una fascia intorno al capo di colore azzurro. Se la donna africana è la moglie di Cam, questa sarà, certamente, la moglie di Sem. Tuttavia la sua capigliatura e la sua pelle chiara possono genericamente richiamare l’imma-
gine di una donna europea. A sinistra, accanto alla moglie di Noè, un’altra donna vestita di rosso indica verso l’alto, in direzione della volta della Cappella, vale a dire nella medesima direzione in cui guarda la figura vestita di bianco dipinta davanti a lei. Entrambe fissano il punto della volta su cui è ritratto Geremia, il profeta che, per quanto inutilmente, non cessò mai di esortare gli abitanti di Gerusalemme alla conversione finché non sopraggiunse la catastrofe con la presa e la distruzione della città da parte dei Babilonesi. Che questo riferimento al profeta intenda ricordare l’occasione immediata dell’affresco, cioè il Sacco di Roma, la presa di Roma da parte dei popoli nordici nell’anno 1527, preannunciata secoli prima da Gioacchino da Fiore24? Noi immaginiamo che, ancora una volta, un’idea gioachimita possa aver esercitato un influsso sul dipinto. Sull’estrema sinistra, in alto, all’imposta dell’arco, è seduta un’anziana madre, bruciata dal sole e con i seni scoperti. Il suo velo è di color bianco-grigio e opaco, mentre il suo mantello gettato sul ginocchio ha il color viola della penitenza: si tratta qui di Eva, la madre di tutti i viventi che, dopo il peccato originale, ha passato tutta la vita nella fatica e nella condizione di penitente. Con la figura vestita di rosso che indica in direzione della volta, Michelangelo ha, probabilmente, pensato ad una delle sue figlie. Soprattutto queste, con le donne poste nella zona superiore, rappresentano le primissime dei giusti, che vissero ancora prima del diluvio ma sono rimaste tutte sconosciute. Esse sono in compagnia degli angeli da cui è difficile distinguerle, poiché i giusti in cielo saranno come angeli (cfr. Mt 22,30). Il gruppo al margine superiore destro: i santi uomini e i Profeti In posizione diagonale nello spazio rispetto alle Sibille, Michelangelo ha dipinto i Profeti, collocandoli sullo sfondo e sotto gli angeli con la colonna della flagellazione (fig. 164). Mentre è praticamente impossibile individuare un solo uomo nella zona delle nuvole occupata dalle donne, i santi uomini situati nella metà destra del paradiso, invece, sono in compagnia di figure femminili. Il primo dei Profeti, dai capelli scuri, sullo sfondo, all’estremità della schiera e alla destra rispetto al giovane Salomone, è accompagnato da una donna che indossa una veste verde e lo nasconde quasi del tutto. Un profeta, per ordine di
Dio, prese in moglie una prostituta, Gomer, per richiamare in modo esemplare al popolo la relazione adultera esistente tra Israele e Dio. Il suo nome è Osea (cfr. Os 1,2-9). Un altro profeta dai capelli bianchi, nel quale possiamo riconoscere Natan, con l’indice teso richiama l’attenzione, in modo particolarmente energico, sulla coppia adultera costituita da Davide e Betsabea, situata nel semicerchio dietro al Giudice universale. Sotto il profeta è riconoscibile un re con la corona. Oltre a Davide e a Salomone nell’Antico Testamento viene ricordato solamente un altro sovrano buono, Asa, il quale «fece ciò che è giusto agli occhi del Signore» (1 Re 15,11). Esclusivamente lui, quindi, può aver trovato posto tra i Profeti. Ma chi sono gli altri uomini di Dio che hanno richiamato il popolo preannunciando il futuro giudizio divino su di esso? Primo tra tutti risalta agli occhi un re con la veste viola della penitenza e con l’ornamento regale del capo. La sua testa è riconoscibile davanti a Gomer. Egli guarda il profeta che gli sta accanto: questi ha un mantello verde attorno alle ginocchia e alza entrambe le braccia come segno di intercessione. Un profeta completamente nudo sembra voler fermare col braccio teso il gesto di condanna compiuto da Gesù. Uno di questi rappresenta, probabilmente, Giona, che preannunciò ai Niniviti il minaccioso giudizio di Dio. Tra i due è forse quello vicino al re con le braccia alzate in preghiera. Tra i testimoni dell’Antico Testamento collocati sotto Pietro, vedremo poi Isaia, ritratto con la sega, strumento del suo martirio, di cui siamo a conoscenza tramite il Commentario di Girolamo al suo libro25. Nel gruppo di Profeti possiamo contare altre dieci teste, che arrivano a undici se aggiungiamo quella del compagno nudo di Giona. L’Antico Testamento conosce gli scritti di sedici Profeti. Ne abbiamo già incontrati tre, a cui si aggiungono gli altri Profeti e i loro discepoli, menzionati nei libri storici dell’Antico Testamento. I più importanti di essi sono Elia ed Eliseo. Questi ultimi andrebbero raffigurati insieme al re Asa, potrebbero dunque essere le due persone che si trovano alla sua destra e alla sua sinistra. Anche per Gioacchino da Fiore il profeta Elia ebbe particolare rilievo, perché da lui inizierebbe l’Ordo dei monaci. Il fatto che Elia fosse un contemporaneo di Asa si può facilmente dedurre dai capitoli 16 e 17 del Primo Libro dei Re. Probabilmente a destra di Asa possiamo riconoscere Eliseo; Elia è, invece, alla sua sinistra, con la veste viola della penitenza. Dove, però, si nascondano Ezechiele e Geremia non è facile stabilirlo. Forse è Geremia l’uomo con il mantel-
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161. Il cielo delle donne, le teste di Giuditta, della Libica e di altre due Sibille.
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162. Volta, la sibilla Libica. I fanciulli in finto marmo giocano alla consumazione delle nozze («matrimonium consumatum»).
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163. Il cielo delle donne, parte superiore.
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164. Il cielo degli uomini, particolare: Paolo e Tecla, un padre abbraccia il figlio (abbraccio tra un rappresentante dell’Antico e del Nuovo Testamento?), Scolastica e Benedetto, Iafet e Ambrogio, Agostino e Monica, Gregorio Magno, Girolamo e Eustochio, il buon ladrone, Biagio, Caterina, Sebastiano.
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165. Schizzo schematico delle correzioni successive: Biagio e Caterina, a destra nell’affresco, con i veli sulle nudità applicati con tecnica a secco.
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lo viola rivolto al gruppo in cui due uomini si abbracciano in segno di saluto. Gli altri profeti compaiono tra le molte teste sullo sfondo. Isaia e Daniele sono stati assegnati da Michelangelo al gruppo dei testimoni dell’Antico Testamento. Di Isaia, forse il più importante autore di un libro profetico, sappiamo dal Commentario di Girolamo al libro stesso che morì martire segato in due; lo troviamo, dunque, nel gruppo dei testimoni della fede che si offre allo spettatore sulla destra in primo piano, al centro della cortina di nuvole (figg. 167, 169)26. Egli porge la sega, lo strumento del suo crudele martirio, agli uomini destinati alla purificazione, quasi che uno strumento a denti così affilati possa servire alla loro salvezza e all’ascesa al paradiso. Daniele, chino su di lui, ha ricevuto le sue brache bianche già dallo stesso Michelangelo. Ma, prima di guardarlo da vicino insieme ai suoi compagni, prendiamo in considerazione una figura che salta agli occhi nella sua completa nudità e che Michelangelo ha collocato nel gruppo dei Profeti, davanti ad Asa e ai suoi due compagni. Uno dei «braghettoni», dopo la morte di Michelangelo, lo ha coperto con un brutto perizoma, lasciato anche dopo l’ultima campagna di restauri. Una discepola, che gli sta letteralmente alle calcagna, indossa la veste violacea della penitenza, una sciarpa bianca e una cuffia celeste. Dal momento che l’uomo nudo, che sta avanzando in tutta libertà, segue immediatamente Pietro, possiamo vedere in lui Paolo, e, quindi nella sua discepola, Tecla. I Martiri La serie di coloro che hanno testimoniato col sangue si apre con san Lorenzo che regge la sua graticola: egli è seduto su una nuvola sotto Maria (fig. 167). Lo segue l’apostolo Bartolomeo con il coltello e la sua pelle scorticata, che Michelangelo ha caratterizzato con il proprio autoritratto sofferente e deformato (fig. 168). Sulla nuvola adiacente a destra sono radunati sei uomini e una donna. Di questo gruppo, abbiamo visto, fa parte anche Isaia. La donna sull’estrema sinistra e quasi nascosta tiene la guancia appoggiata al braccio avvolto da un tessuto violaceo e guarda in alto verso le brache bianche dell’uomo identificato con Daniele. Dietro a quest’ultimo riconosciamo altri tre uomini. Il primo di essi è vestito di verde, il secondo di rosso. L’uomo con il mantello rosso sulla spalla destra indica verso Caterina, che tiene in mano una grande ruota spezzata.
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Tra questi e il giovane con la croce si intravvede solo il capo, come incastrato, di un altro giovane uomo. Non c’è alcun tessuto colorato a identificarlo. Dal momento che abbiamo riconosciuto Daniele nella figura con le brache bianche, chi saranno questi tre giovani? Si tratta dei tre giovani compagni di Daniele salvati dalla fornace ardente (cfr. Dn 3). Come racconta il Libro di Daniele, costoro, sebbene innocenti, furono accusati ma un angelo li salvò dai tormenti. Per questo motivo uno di essi richiama l’attenzione sulla ruota di Caterina, il suo primo strumento di martirio che, secondo la leggenda, venne distrutto da un angelo. Anche la donna con la veste viola è menzionata nel libro di Daniele: si tratta, infatti, di Susanna che, innocente, venne condannata in base a testmonianze false e la cui innocenza venne riconosciuta da Daniele quando, illuminato dallo Spirito di Dio, la salvò dalla morte (cfr. Dn 13,44-47). La dichiarata innocenza di Susanna è richiamata dalle brache bianche del profeta che attirano lo sguardo della giovane donna vestita di viola, come già abbiamo osservato in precedenza. Il giovane uomo con la croce porta il mantello color croco del discernimento spirituale, ecco perché questa figura può essere associata solo al buon ladrone che, al contrario del suo compagno in croce, vide l’innocenza di
166. Marcello Venusti, copia del Giudizio universale, 1549: quest’opera testimonia lo stato prima delle correzioni; Napoli, Capodimonte.
Gesù: per questo motivo Gesù dalla croce gli promise il paradiso (cfr. Lc 23,43). Il tema dell’innocenza e del Giudice salvatore, attraverso la relazione tra Susanna e Daniele, riecheggia ancora una volta in un gioco di rimandi: il ladrone crocifisso insieme a Cristo ne riconosce l’innocenza e il potere salvifico. Nelle sette persone di questa nuvola, Michelangelo propone tutto il suo canone cromatico, così come l’ha elaborato ed utilizzato per caratterizzare e identificare i propri personaggi. Susanna appoggia la guancia sul suo braccio completamente avvolto da un tessuto violaceo. La sentenza ingiusta comporta in lei afflizione e volontà di espiazione. Essa guarda verso Daniele, che indossa le brache bianche e proverà la sua innocenza. Il bianco indica la purezza della fede: questo colore, che indica anche la purezza della sposa, è da mettere, però, in correlazione con l’azzurro della contemplazione. Isaia è chinato in avanti su un mantello di questo colore. Il bianco delle brache di Daniele va anche associato al verde e al rosso della veste indossata da due dei suoi compagni, i colori della speranza e dell’amore. Infine, il giallo croco del discernimento spirituale caratterizza il buon ladrone.
Il Giudizio universale
I martiri della Nuova Alleanza che lo seguono sono san Biagio e santa Caterina di Alessandria (fig. 169). Quest’ultima in origine era completamente nuda, come mostrano chiaramente tutte le copie antiche prodotte prima dei deturpanti provvedimenti presi dai «braghettoni» ancor prima della morte del maestro (fig. 166). Caterina porge la ruota spezzata ad alcuni uomini che da questa parte vorrebbero ascendere al cielo, ma sono respinti dai pugni sferrati dagli angeli. La santa ruota il capo in senso contrario a quello del Giudice universale. Questo splendido doppio e contrastante orientamento del suo corpo ora non è più evidente a causa della veste verde che lo confonde. È stata addirittura cambiata la posizione della testa di san Biagio, con i pettini che lo hanno dilaniato (fig. 165). Certo, è rimasto il colore rosso della sua veste, però egli non guarda più in basso verso l’angelo che infligge la pena, cioè in direzione degli strumenti del suo martirio. San Sebastiano, con le frecce in un fascio stretto nella mano sinistra, è rimasto nudo. Solo un lembo della veste, dipinto con la tecnica a secco, ne copre i genitali. In compagnia delle tre donne egli guarda dalla nuvola verso gli uomini ai quali è ancora preclusa l’ascesa al paradiso (fig. 167). Chi sono le tre donne? Sono vestite di verde, di azzurro e di rosso. L’ultima e la più giovane tra loro ha i capelli acconciati come una sposa. Le altre due, dietro a Sebastiano, sono velate. Muovendosi parallelamente allo spettatore, esse hanno l’aspetto di due sorelle, una più giovane e l’altra più anziana. La più giovane, che indossa un vestito verde, indica col braccio destro in direzione dei pettini di ferro di san Biagio, mentre guarda oltre il braccio sinistro di san Sebastiano. La più anziana, sotto il braccio di quest’ultimo, guarda verso il basso. Nella tradizione romana le sante sorelle Prassede e Pudenziana sono poste in relazione con il martirio. Secondo la leggenda, esse erano figlie di Pudenzio, che avrebbe accolto san Pietro nella sua abitazione all’Esquilino e, sempre secondo la stessa tradizione, entrambe hanno segretamente nascosto e sepolto i corpi dei martiri. La donna vestita di verde può indicare Pudenziana, quella col vestito celeste Prassede. La terza figura, vestita di rosso, che si regge alla cornice, è completamente adombrata dal robusto portacroce, al punto che si riconosce a stento la sua veste rossa. Questa raffigura, forse, la più nota martire romana, sant’Agnese. Rimanendo sempre nell’ambito romano, si potrebbe pensare anche a santa Bibiana, oppure ad una delle altre vergini martiri, sant’Agata, Lucia o Dorotea, ma non se ne può stabilire con certezza l’identità. Questa figura
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167. I martiri Lorenzo, Bartolomeo, Susanna, Daniele con i tre compagni, Isaia (o l’apostolo Simone?) con la sega, il buon ladrone, Biagio, Caterina, Sebastiano, Prassede (?) e Pudenziana(?).
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A fronte: 168. La pelle di Bartolomeo con il volto di Michelangelo, Susanna, e un lembo delle brache bianche del profeta Daniele. Alle pagine seguenti: 169. Susanna, Daniele e i tre giovani nella fornace ardente, Isaia, il buon ladrone, Biagio, Caterina, Sebastiano.
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Alle pagine seguenti: 170. Il gruppo dei Confessori: Agostino e Monica, Gregorio Magno, Girolamo, Eustochio, Simone di Cirene; sopra la mano destra di Simone, Michelangelo (?), angolo destro superiore Vittoria Colonna (?).
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all’ombra della croce vuole forse caratterizzare le martiri come tali. Solo descrivendo la scena sottostante potremo finalmente individuare chi sia. Michelangelo, con il gruppo dei Martiri che porgono gli strumenti del loro martirio a coloro che sono ancora in preda ai tormenti, ha forse inteso richiamare il passo dell’Apocalisse secondo cui coloro che furono immolati a causa della parola di Dio gridano a gran voce: «Fino a quando, o Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?» (Ap 6,10)? Dunque, quest’ora è giunta. I Confessori Un imponente portacroce dipinto sul margine destro mette in relazione il gruppo dei Martiri con quello dei Confessori (fig. 170). In un primo tempo Michelangelo ha pensato, probabilmente, a Simone di Cirene, il quale venne costretto dai soldati a portare la croce di Gesù (cfr. Mt 27,32). Ha poi sviluppato ulteriormente questo motivo. Infatti, una donna ritratta sul margine destro col vestito color croco del discernimento bacia il legno della croce. Due mani provenienti da destra si protendono verso l’albero della croce per afferrarla. Più in alto, un uomo anziano vestito di bianco, con la barba e la testa calva, avvicinatosi alla croce guarda pensoso la trave di legno. Sopra di lui un uomo atletico con la veste rossa è sul punto di prendere la croce dalle spalle di Simone di Cirene. La croce costituisce l’oggetto del desiderio dei santi e l’artista ha, probabilmente, fatto allusione al versetto della lettera di san Paolo ai Galati: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). I colori si armonizzano bene tra loro: la fede contempla la croce, l’amore, invece, toglie all’altro la croce. Sulla sinistra, dietro a colui che porta la croce, fa capolino una donna con lo sguardo fisso sullo spettatore. La sua veste è verde ombrata di rosso, il suo velo è bianco: è la personificazione della speranza, che invita colui che osserva ad affidarsi ad essa guardando alla croce, ovvero ad indirizzare verso la croce la speranza con amore e con animo fiducioso. Un uomo dalla barba bianca, sulla sinistra, accanto alla donna appena ricordata, ha un ginocchio avvolto da un mantello rosso fatto risaltare dal colore bianco. Egli indica con la destra il portatore della croce, mentre guarda fiducioso verso Gesù. La direzione del suo sguardo viene sottolineata dal dito di un altro confessore che, allo stesso modo, guarda Cristo.
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Attraverso l’invisibile linea tracciata dallo sguardo e dalla mano si crea un legame tra il Giudice, al centro, e il portatore della croce, al margine. A sinistra, all’estremità della croce fa capolino un uomo dagli occhi messi in ombra da un cappuccio rosso-verde, molto simile al ritratto di Michelangelo. L’artista era consapevole della somiglianza col proprio ritratto quando dipinse questa figura? Non lo sappiamo ma, se le cose stessero veramente così, allora egli avrebbe rappresentato nella figura vicina a lui in piena ombra il discepolo Tommaso Cavalieri, al quale l’artista era legato da profonda amicizia. La donna che si trova dietro colui che prende la croce dalle spalle di Simone sarà forse Vittoria Colonna27? Ella guarda fissamente verso Gesù mentre indossa l’abito della fede, ombreggiato col violetto. Tutte le figure di cui abbiamo parlato finora si dispongono intorno al portacroce. Dall’uomo completamente nudo che siede in primo piano al centro del gruppo prende, invece, le mosse un movimento centrifugo. Egli guarda verso una donna velata di bianco che, piena di dolore e con la bocca schiusa, guarda fisso lo spettatore. Un giovane proveniente da dietro si china su di lei abbracciandola con la sinistra e sfiorando con la destra la guancia del giovane nudo che siede in prima fila all’estrema sinistra (fig. 171). Il mantello nel giallo oro della santità si gonfia dietro la schiena del giovane che abbraccia la donna velata di bianco. Certamente Michelangelo pensa, qui, ad una santa madre con il proprio figlio; la coppia richiama santa Monica con il padre della Chiesa, Agostino. Se questa interpretazione è valida, allora l’altro giovane, la cui guancia viene toccata da quest’ultimo, può essere solo sant’Ambrogio e, se ci avviciniamo, troviamo anche gli altri due santi Padri della Chiesa latina, Gregorio e Girolamo. Quest’ultimo è certamente quello che ha la barba grigia – secondo l’iconografia tradizionale – e guarda a Cristo indicando allo stesso tempo il portacroce. Così Gregorio non può che essere la figura che volge lo sguardo al gruppo madre e figlio, tendendo in modo espressivo la mano destra verso lo spettatore, come volesse comunicare. Si chiarirebbe allora chi è la donna che abbiamo inteso come personificazione della speranza: si tratta di Eustochio, la discepola di Girolamo, che trascorse con lui la propria vita monastica a Betlemme e alla quale egli dedicò la sua traduzione dell’Antico Testamento. Eustochio è seduta proprio davanti al Padre della Chiesa, mentre la vicinanza al portacroce alluderebbe alla sua vita ascetica in Terra Santa.
Dietro ad Ambrogio, una donna completamente vestita di verde guarda verso la madre sofferente e leva le mani in preghiera: è proprio accanto a Tecla, la discepola di san Paolo. Dietro di lei, un uomo anziano guarda nella sua direzione. Potrebbe trattarsi di santa Scolastica e del fratello san Benedetto. Tra le loro teste e dietro di esse si deve localizzare un giovane in cui possiamo vedere uno dei primi discepoli del padre del monachesimo occidentale: san Mauro o san Placido. Abbiamo così la madre con il figlio, la santa sorella con il fratello, il quale era, al tempo stesso, suo pedagogo e maestro. Colui in cui pensiamo di riconoscere sant’Ambrogio tende verso l’alto il suo braccio destro, che viene afferrato da un giovane ben visibile con un turbante ed un mantello bianco. Quest’ultimo beato non fa più parte del gruppo dei Padri della Chiesa, ma del gruppo di uomini che si abbracciano e si salutano baciandosi. In questo settore posteriore riconosciamo, innanzitutto, un vecchio con una lunga barba bianca. Il suo sguardo trascende l’affresco per raggiungere le donne dell’Antico Testamento che, sul bordo estremo di sinistra, vengono sovrastate da Eva. In quell’uomo, dunque, possiamo riconoscere Adamo, il capostipite del genere umano. Abbiamo, così, trovato un aiuto per orientarci nell’identificazione delle altre persone che ora possiamo chiamare con il loro nome. Dietro le spalle di Adamo c’è suo figlio, il giusto Abele. Il panciuto portatore di speranza, vestito di verde e toccato da Adamo, potrebbe essere Set, il figlio generato da Eva dopo che Abele fu colpito a morte da Caino (cfr. Gn 4,25). Set guarda intensamente il suo discendente Enoch, al tempo del quale fu invocato per la prima volta il nome del Signore (cfr. Gn 4,26). Il mantello di Set è screziato di giallo peccaminoso, poiché la colpa primitiva di Adamo ed Eva si trasmise di generazione in generazione. Dietro ad Enoch si erge un uomo che tiene le braccia incrociate sul petto e guarda in basso verso Pietro; il suo mantello rosso gli avvolge il capo. Accanto a lui un uomo più anziano, con la barba bianca, la veste verde e le mani giunte in preghiera sta guardando in alto. Il suo sguardo si dirige su una figura giovane e dalla pelle scura che, pur non essendo un angelo, si trova presso il basamento della colonna della flagellazione. Chi sono questi tre uomini? La figura più importante nella sequenza delle generazioni dopo Adamo è senza dubbio Noè, qui raffigurato nell’uomo vestito di verde. Dal momento che uno dei suoi tre figli, per il quale sta pregando, è il capostipite degli Africani, l’uomo con la pelle scura presso la colonna della flagellazione potrebbe essere Cam. A questo
171. Il padre abbraccia il figlio, Scolastica e Benedetto, Iafet porge la mano ad Ambrogio, Agostino e Monica, Gregorio Magno, Girolamo, Eustochio.
punto possiamo identificare suo fratello Sem in colui che guarda in direzione di Pietro. Ci manca solo Iafet, il terzo figlio di Noè, dal quale hanno origine gli Indoeuropei e, quindi, la popolazione italiana. Difficilmente sbaglieremo vedendo in Iafet il giovane con il turbante bianco, posto davanti alle coppie che si abbracciano, che afferra la destra del vescovo di Milano Ambrogio. Si chiudono, così, in modo convincente tutti i gruppi. Dietro a Rachele, sul lato sinistro, abbiamo già individuato le tre mogli dei figli di Noè. Nell’angolo destro, in alto, sono riconoscibili il volto di san Francesco e due uomini che indossano il vestito verde col cappuccio. Sono, forse, questi ultimi, membri di una confraternita fiorentina che ancora oggi si occupa del servizio agli ammalati e alle vittime di infortuni? In ogni caso Michelangelo ha riservato questo tassello del paradiso ai santi del suo tempo e a quelli delle epoche immediatamente precedenti. Il motivo degli eletti che si abbracciano e si salutano con il bacio fraterno ricorda che persone vissute in epoche molto distanti tra loro possono finalmente incontrarsi fisicamente. Gli angeli tubicini Al centro della metà inferiore dell’affresco Michelangelo ha dipinto su tre banchi di nuvole undici angeli che sono discesi molto in basso per suonare le trombe e destare i morti alla risurrezione: gli uni alla vita eterna nel paradiso celeste, gli altri alla dannazione eterna (fig. 172). Il libro in cui sono registrati i dannati è grosso e pesante, al punto che sono necessari due angeli per aprirlo di fronte agli sventurati che vi sono iscritti. Il libro degli eletti, al contrario, è un quarto di quello dei dannati. Dalle spalle dell’angelo con il libro dei dannati cade un mantello verde chiaro. Questo colore richiama la condizione che permette l’ammissione al paradiso, la fede intrisa di speranza. Uno degli angeli è vestito col mantello verde della speranza, l’altro con quello giallo croco del discernimento spirituale. Questo indica che i dannati nella loro vita terrena non hanno mai esercitato la virtù della fiducia nel cielo e che il discernimento spirituale, di cui ancor meno si sono curati, si ripercuote ora definitivamente contro di loro. Tra i dannati quattro angeli suonano quattro trombe d’oro. Un piccolo musico con la veste rossa suona rivolgendosi diagonalmente verso l’alto, in direzione degli eletti e in senso contrario allo spettatore. Rappresenta la
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172. Gli angeli tubicini; due resti rettangolari di ferro mostrano i punti dove veniva agganciato il baldacchino dell’altare durante le maggiori cerimonie. Alle pagine seguenti: 173. Michelangelo, studio della lotta tra angeli e demoni per un uomo che risorge; Windsor, Royal Library. 174. Parte inferiore del Giudizio universale: i corpi risorgono e ascendono in cielo, la lotta degli angeli con i demoni per salvare qualche uomo, gli angeli tubicini, la personificazione della disperazione, il purgatorio e l’inferno. 175. I corpi risorgono e gli angeli lottano per salvare uomini che stanno per essere trascinati nella gola infernale. Al margine sinistro un confessore (il fratello domenicano di Michelangelo?) con i suoi penitenti. Al centro la morte, piena di stupore per la risurrezione della carne. 176. I corpi redivivi ascendono in cielo; tra questi vi sono uomini e donne dalla pelle bruna, riconoscibili come indigeni d’America. A destra, una coppia di figure, anch’esse dalla pelle scura, si aggrappa ad un rosario musulmano porto loro da un angelo. 177. Particolare del rosario musulmano. 178. Parte destra del Giudizio universale: il cielo degli Apostoli e delle discepole di Cristo, dei Profeti, dei Confessori, dei Martiri, gli angeli tubicini, la disperazione, il purgatorio dei vizi capitali, l’inferno, Caronte e i condannati, Minosse e Lucifero.
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virtù dell’amore. Davanti a lui un messaggero dalla pelle scura con il mantello violaceo suona il suo strumento rivolgendosi ai dannati: questo significa che essi sono rimasti impenitenti sino alla fine della loro vita. L’angelo vestito del color croco del discernimento spirituale dipinto sopra quello che regge il libro ha ancora la sua tromba posata sulle spalle. Un messaggero vestito di verde, accanto ai due che tengono il libro dei dannati, ha il suo strumento già pronto e volge indietro la testa ascoltando l’angelo vestito del colore giallo croco per subentrare al momento opportuno e, seguendo l’indicazione della mano del suo compagno, suonare nella giusta direzione. Sembra che i dannati debbano sentire esclusivamente i suoni della penitenza. Infatti, il suono della tromba dell’amore sfugge loro completamente. Tra l’altro uno dei musici è un bambino. Nelle loro orecchie deve rintronare il timbro penitenziale, non quello della speranza da essi disprezzata, ma in verità giungerà anche il suono inappellabile del discernimento. Un suonatore di tromba particolarmente robusto e totalmente nudo separa i due angeli con il libro dei dannati da quello che sostiene il libro degli eletti. Altri tre messaggeri celesti suonano con le guance gonfie per destare dal sonno della morte gli uomini buoni. I colori dei loro mantelli sono celeste, verde e rosso: infatti contemplazione, speranza e amore hanno il compito di preparare all’ascesa verso il paradiso coloro che risorgono. I risorti da morte L’artista toscano ha rappresentato in modo personale e con toni estremamente drammatici il tema tradizionale del combattimento degli angeli con i demoni per il possesso dei corpi di coloro che risorgono. Su un foglio della Royal Library a Windsor (fig. 173) questa e le scene seguenti sono state abbozzate con figure molto piccole28. Michelangelo è ormai così sicuro della sua mano che nell’affresco non ha quasi più variato le figure disegnate in scala ridottissima (fig. 174). Un diavolo con le corna di un caprone ha afferrato per i capelli un risorto trascinandolo giù verso le fauci dell’inferno. Due angeli sono accorsi in aiuto dell’uomo tutto nudo. Un angelo vestito di verde ha preso sulle sue spalle le gambe dell’uomo, mentre un altro con il mantello rosso sta per afferrare queste gambe con una salda presa. Il momento è drammatico. Il volto contratto di quell’uomo
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lascia trasparire la tensione per l’esito ancora incerto del combattimento tra gli angeli e il demonio. Con l’uso dei colori il pittore, ancora una volta, rimanda chiaramente alle virtù dell’amore e della speranza. Avvolto nella veste violacea della penitenza, un angelo trascina un uomo rivestito di teli di lino bianco-grigio, che appare ancora come morto: lo ha afferrato di dietro e lo trascina, in direzione obliqua, verso l’alto come se stesse soccorrendo un annegato nuotando sul dorso. Quest’uomo, rigido come fosse morto, è stretto ai piedi da una diabolica vipera verde. La mano di un demonio, uscita dagli inferi, ha legato il serpente in un cappio e l’ha stretto attorno al calcagno dell’uomo, che è seriamente in pericolo poiché essa tenta di trascinarlo nel fuoco infernale. La vittima, a sua volta, fissa l’angelo della speranza vestito di verde impegnato nell’opera di salvezza, che cerca di sottrarre a un diavolo i suoi compagni, insieme con l’angelo dell’amore (fig. 175). Altre figure appena risorte stanno per essere trascinate nella gola infernale. Due mani diaboliche che spuntano dalla bocca infuocata della terra hanno, infatti, afferrato i lini funebri di due infelici e li trascinano entrambi con forza irresistibile nella spelonca. La prima figura, al culmine del travaglio, cerca di opporsi a questo risucchio, tentando con tutto se stesso di raggiungere la salvezza. Quella retrostante, volgendo in alto la testa, sembra gridare aiuto amplificando la voce con la sinistra. L’artista ha distribuito le forze e le masse in modo che lo spettatore sia indotto a pensare che entrambi gli uomini verranno trascinati nel fuoco dell’inferno.
Incerto è l’esito per quelli che alla loro destra e alla loro sinistra stanno uscendo dalla terra. Probabilmente l’ascesa al paradiso celeste sarà possibile per la donna ancora totalmente avvolta nel suo sudario e i cui occhi guardano in alto fiduciosi. Dietro di lei lo spettatore scorge il volto terreo mummificato di una figura che sta risorgendo. In primissimo piano un’altra fuoriesce da una fenditura della terra: il suo volto è ancora grigio e nella rigidità della morte, e i suoi occhi chiusi. Il gruppo attiguo sulla sinistra è disposto a formare una straordinaria piramide. Colui che sta emergendo dalla tomba guarda, come estraniato, le due figure trascinate all’inferno da mani diaboliche. Accanto, la figura particolarmente impressionante di un risorto ritratto come uno scheletro è la personificazione della morte. In queste due figure, semplicemente, si traspone in immagine il verso «mors stupebit et natura» tratto dall’inno Dies irae29. Se è valida l’ipotesi di una rappresentazione della morte, piena di stupore, non sembra aver fondamento l’ipotesi di una personificazione della natura nell’uomo che esce dal sepolcro. Infatti, una personificazione accorda il genere biologico al genere grammaticale del concetto trasposto in immagine. La natura dovrebbe, dunque, essere raffigurata come una donna. Sotto il sudario della personificazione della morte emerge un volto, ancora una volta simile al ritratto di Michelangelo, che guarda verso lo spettatore. Le stesse orbite vuote dell’imponente scheletro puntano verso di lui. Sulla sinistra, dietro a colui che esce dal sepolcro, un altro uomo dai denti sporgenti e ancora nell’immobilità della morte viene sollevato da una donna completamente avvolta nei teli di lino: incontriamo, qui, un’immagine dell’amore verso il prossimo. Dietro la donna, uno scheletro, la cui testa si è già ricoperta di carne, guarda in linea obliqua, verso il cielo, in direzione degli angeli che suonano le trombe. Un’altra donna, avvolta completamente nelle bende, guarda, diagonalmente, in direzione opposta, al cielo delle sante donne, verso cui si elevano alcune figure ormai senza peso. In basso a sinistra un uomo esce dal sepolcro strisciando, mentre una figura solleva la pesante lastra di pietra che lo imprigiona. Sopra, quattro persone sono radunate intorno a un monaco tonsurato, con un vestito violaceo. Questi con un gesto di protezione stende la mano sopra una monaca che sta uscendo dal sepolcro, mentre solleva la destra come fosse un’invocazione. È caratterizzato dalla veste violacea della penitenza, come un confessore intorno al quale si raccolgono i penitenti risorti.
Accanto a questo un’altro gruppo è composto di persone che risorgono, i cui sguardi sono sempre rivolti obliquamente in alto. La figura di spicco tra queste sei persone, probabilmente una donna, stende la mano in cerca di aiuto verso l’angelo della penitenza. Al di sopra di questo gruppo un uomo completamente nudo guarda angosciosamente verso destra, totalmente vinto dallo sforzo dei due angeli che, come già detto, cercano di strappare un risorto dalle mani del suo diavolo. Un altro, risvegliandosi dai morti, giace come ancora dormiente, pur dirigendo già il proprio sguardo verso l’alto. Dietro di lui appaiono, rivestiti del sudario e sul punto di rizzarsi, due scheletri che sembrano rivolgere le loro orbite vuote agli angeli tubicini. All’orizzonte Michelangelo ha dipinto una striscia azzurra, così come noi la conosciamo dall’affresco della Creazione di Adamo; anche da quella lontananza azzurrina emergono due esseri umani, uno dei quali, con le braccia sollevate, si eleva al cielo. Il volto di un monaco avvolto in un vestito grigio scuro guarda al cielo attraverso il cappuccio, librandosi già, sopra la linea d’orizzonte, nell’azzurro della volta celeste. Quelli che sono dietro di lui sulla sinistra, usciti dai sepolcri, spiccano subito il volo. Come molti di coloro che stanno risorgendo, sono avvolti in teli di lino bianco-grigio. Nessuno di essi, infatti, ad eccezione del confessore al margine sinistro, indossa una veste colorata. Ancora una volta, questo rappresenta un richiamo al significato dei vestiti colorati che alludono alle rispettive virtù, esercitate dagli uomini nella vita terrena e serbate dagli angeli per i morti al momento della risurrezione. I risorti che ascendono al paradiso Sul margine di sinistra dell’affresco, all’altezza del capitello dorato del pilastro che delimita l’affresco del Perugino, si scorgono due figure: una indossa ancora il camiciotto bianco-grigio dei morti, mentre l’altra, caratterizzata come sposa dalla capigliatura, ha già ricevuto la veste nuova del paradiso, color verde speranza. La prima persona menzionata viene afferrata al braccio sinistro da una mano che, sporgendo da una nuvola, la soccorre per portarla in alto (fig. 176). Un altro giovane viene trascinato verso l’alto. Un tempo era completamente nudo, ma i «braghettoni» lo hanno coperto con un brutto lembo di tessuto, scurito nell’ultimo restauro. Egli guarda fiducioso in alto alzando la destra verso la nuvola. Da questa si protende il suo soccor-
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Alle pagine seguenti: 182. La barca di Caronte, i lussuriosi e i violenti, diavoli con la testa di gatto e altri con la testa di ariete; un condannato indica il foro per la catena dell’ancora che, tuttavia, manca; Minosse e Lucifero.
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Alle pagine precedenti: 179. Il purgatorio, particolare: l’angelo della penitenza percuote vigorosamente sulle terga un uomo. Il collerico e il lussurioso. 180. Il papa avaro. L’angelo della carità sostiene un penitente che riceve percosse da un altro angelo. Il goloso e il collerico.
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181. La testa di Caronte, alla luce radente, mostra le incisioni indirette che fanno passare le linee dal cartone all’intonaco: ciò testimonia che Michelangelo, alla fine, dovette lavorare più in fretta.
ritore, inginocchiato su un mantello verde-azzurro: come a significare che l’ascesa è resa possibile dalla contemplazione che si è fusa alla virtù della speranza. Inoltre tra le sue gambe si intravvede una figura dalla veste viola chiaro. La penitenza lo conduce al paradiso celeste. Accanto a questa figura, se ne eleva un’altra in estasi che, in questo volo di ascesa, è dimentica dei teli funebri e della sua nudità abbronzata dal sole. Che Michelangelo sia, forse, già venuto a conoscenza degli indigeni d’America, da poco scoperta, ai quali gli Europei portarono i vestiti? Di nuovo un «braghettone» pensò di rimediare, qui, a questa beata noncuranza. Sopra questa figura, una donna dalla pelle più chiara si libra verso la nuvola più vicina: è ancora vestita del camiciotto funebre bianco-grigio con il cappuccio. In essa si intende, probabilmente, rappresentare una donna europea. Verso destra segue nuovamente un uomo nudo dalla pelle chiara: anche costui è vissuto sicuramente nel vecchio continente. Inginocchiato su una nuvola, vuole dirigersi verso quella dipinta più in alto, che ha già quasi afferrato. Ma il suo soccorritore, un angelo con la veste violacea della penitenza, sembra voltargli le spalle e non accorgersi di lui, dal momento che è rivolto da un’altra parte, dove una figura, liberatasi del suo camiciotto funebre col cappuccio, si dirige verso due angeli che si trovano su una nuvola e indossano vesti di color verde e rosso, a cui si aggiunge una sciarpa violacea ed un foulard color croco sul capo di quello in verde. Sotto questa figura che ascende in cielo, un angelo vestito di scuro, con il foulard color croco del discernimento spirituale cangiante in verde e rosso, ha afferrato per l’ascella un uomo con la pelle bruna, nel quale possiamo riconoscere un nativo del Nuovo Mondo, un indigeno d’America. Il soccorritore dell’uomo bianco, che non si è ancora liberato del camiciotto col cappuccio, viene indirizzato da un altro angelo in rosso verso il banco di nubi dove sono già sul loro posto di soccorso due altri angeli, abbigliati di rosso e di verde. Sulla sinistra, accanto a questi, un’eletta vestita di viola con i capelli adorni si appoggia sulle braccia e tiene gli occhi chiusi, dedita com’è alla contemplazione interiore. Accanto a lei un angelo in verde ed un altro al di sopra in rosso osservano l’avvincente processo della risurrezione dei morti e della loro elevazione al cielo. Nella cerchia di coloro che stanno ascendendo al cielo, spicca una coppia di due figure dalla pelle scura aggrappate ad una corona del rosario loro porta dalle mani
di un giovane angelo in piedi su una nuvola soprastante. I grani del rosario sono del color croco del discernimento spirituale. Qui non si tratta del rosario cristiano, piuttosto di un rosario musulmano (fig. 177), che ricorda nella preghiera i novantanove nomi di Allah: la serie di grani è continua e supera ampiamente il numero di dieci. La corona per la preghiera, poggiata su uno stretto sostegno di tessuto bianco, abbraccia con i suoi grani il petto e la schiena dell’uomo, mentre la donna si regge con la destra alla corona, bacia i grani e li conta con la sinistra. Tra questa coppia con la corona del rosario e l’uomo dalla pelle scura, riconosciuto come un indio d’America, si intravvedono due figure, avvolte in vestiti grigi col cappuccio, che salgono in direzione obliqua verso il cielo. Sopra di loro è dipinta una nuvola, sulla quale, in primissimo piano, è seduto un uomo nudo dalla pelle chiara sorretto da una figura vestita di azzurro. Dietro a questa è seduta una donna con la veste rossa. Tutti e tre, l’uomo nudo e le due donne vestite di blu e di rosso, guardano fissi in alto a sinistra, verso il prossimo banco di nuvole, dipinto più in alto, come ad esprimere il vivo desiderio di arrivare in quel punto. Dalla loro nuvola, accanto all’angelo con la corona del rosario, emerge una persona in rosso con le mani sollevate e giunte come in preghiera. L’artista spiega così che chi è rivestito dell’amore non ha più bisogno di alcun aiuto per ascendere alle più alte sfere del paradiso. Sul banco di nuvole, chiaramente pensato come stazione intermedia per coloro che ascensono al paradiso, si possono riconoscere altre figure. Una persona dal saio grigio alza le mani giunte in preghiera e guarda a sinistra, verso gli eletti che approdano alle nuvole più alte. Accanto a queste si vedono solo le gambe avvolte nel tessuto grigio e le terga di una figura che cerca di farsi strada tra la persona vestita di blu e quella vestita di rosso. Dietro di lei, una donna in grigio guarda pensierosa verso l’alto. Dietro alla donna più anziana con la veste rossa ed un po’ discosta, possiamo scorgere una figura rivestita completamente di bianco che tende verso il banco di nuvole adiacente e sovrastante, sorretta da una persona nuda in ombra, probabilmente un angelo. Del resto, anche sul margine posteriore della nuvola si possono localizzare nell’ombra altri volti violacei. Nella metà inferiore destra dell’affresco (fig. 178), due delle figure abbandonate ai demoni e all’inferno sono dipinte proprio accanto agli angeli con il grosso libro dei dannati. Salta agli occhi una robusta figura femminile che copre
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183. Minosse (ritratto di Biagio da Cesena).
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184. Demoni all’ingresso dell’inferno.
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Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento
185. Il crocifisso dell’altare, opera toscana del 1480 circa, davanti all’ingresso dell’inferno.
con la mano l’occhio sinistro, mentre col destro guarda nel vuoto pur fissando contemporaneamente lo spettatore. L’ultimo restauro ha tolto il lembo di tessuto dipintole successivamente sul pube con la tecnica a secco. Una figura simile presente nell’affresco del Diluvio universale sulla volta della Cappella ci ha già istruito sul significato dell’oscuramento di uno dei due occhi. Come il monocolo Polifemo vedeva solo le cose del mondo materiale, così i due occhi indicano la natura umana, capace di indirizzare lo sguardo verso ciò che è visibile ed effimero, ma anche sulle cose invisibili tuttavia eterne. Questo era l’insegnamento del teologo rinascimentale Egidio da Viterbo30. Chi, dunque, durante la sua vita terrena ha riposto la sua fiducia nelle cose del mondo, alla fine di tutti i tempi non troverà null’altro e cadrà vittima della disperazione. La speranza orientata alla terra si è trasformata nel dipinto di Michelangelo in un demonio verde, un drago che morde alla coscia la figura immagine della disperazione. Altri due diavoli – uno dei quali ha la pelle di un disgustoso colore grigioverde e le zampe artigliate – hanno afferrato l’infelice alle gambe e la trascinano verso il basso. Un’altra brutta testa di diavolo, sulla destra accanto al drago verde, fu abbozzata a suo tempo, ma poi venne cancellata dal cielo con l’azzurro lapislazzuli. L’ultimo restauro l’ha nuovamente messa a nudo. Sotto il gruppo della disperazione un diavolo in volo, oltrepassando la barca di Caronte e dirigendosi verso l’inferno, è cavalcato da un uomo con un paio di brache grigie. Egli guarda attonito in alto, a destra e in direzione obliqua, verso un gruppo il cui vero significato, a causa della descrizione superficiale dei primi detrattori dell’affresco, rimase sempre oscuro. Il purgatorio Immediatamente accanto alla figura che tiene chiuso un occhio e che, messa in relazione con il gruppo con la corona del rosario, fa da contrappeso alla bilancia delle anime, Michelangelo ha inserito nel suo affresco alcuni particolari curiosi, che suscitarono la critica più violenta dei suoi avversari. Si disse, infatti, che fosse stato rappresentato il combattimento degli angeli con i dannati che cercano invano di salire in cielo. Le cose stanno proprio così? Osserviamo con attenzione ogni singolo dettaglio (figg. 179, 180, 182). Se, per esempio, esaminiamo alcuni angeli della schiera superiore, ci accorgiamo che non
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Il Giudizio universale
solo si accaniscono con i pugni contro alcune figure che stanno risorgendo, ma addirittura le trattengono. All’estrema destra, verso l’esterno, l’angelo che indossa la veste violacea della penitenza stringe un uomo intorno al ventre col braccio sinistro e lo batte sulle terga col pugno destro, come un tempo i genitori facevano con i figli che si meritavano una punizione. La successiva grande figura sulla sinistra, di spalle, si aggrappa col braccio destro all’angelo vestito di verde che le tappa la bocca con la sinistra e la percuote sulla testa con il pugno destro. L’angelo che segue, sulla sinistra, vestito tutto di rosso, lo sorregge e lo tiene fermo, guardandolo preoccupato perché non abbia a ricadere in basso. Questa persona nella sua vita terrena non si è molto curata della virtù della speranza ma, probabilmente, ha elargito molte dimostrazioni di amore: così potremmo leggere, quanto al significato, un tale abbinamento di colori. Procedendo sempre da destra verso sinistra, scorgiamo un diavolo dalla pelle scura che vuole trascinare giù a capofitto un uomo che, data la raffigurazione del borsello, mostra apertamente di esser schiavo del vizio dell’avarizia. Le due chiavi che pendono accanto al borsellino lo fanno riconoscere addirittura come un papa. Al colore giallo croco del borsellino corrisponde quello della veste dell’angelo che sferra pugni sulle terga nude dell’infelice e lo volge con la sinistra nella giusta posizione. Un altro angelo, vestito di rosso, sorregge il papa impedendo al diavolo di trascinarlo all’inferno. Sul capo e sulla spalla dell’ultimo uomo all’estrema sinistra, dal dorso nudo e muscoloso, è inginocchiato un angelo della speranza vestito di verde che, dall’alto, lo percuote con forza sul volto. Colui che viene picchiato è genuflesso col ginocchio destro su un banco di nuvole e si tiene stretto alla veste dell’angelo. Procedendo verso sinistra e in posizione più arretrata, una donna avvolta nelle bende di lino bianco-grigio va girovagando nell’aria come un sughero galleggiante sull’acqua. Tra le gambe dell’uomo di spalle, si libra una donna completamente velata, forse una monaca, che un angelo sospeso sopra di lei, vestito di azzurro chiaro, cerca di afferrare con le braccia distese. Il colore azzurro chiaro richiama la contemplazione: questa donna viene dunque salvata perché, sulla terra, ha praticato la preghiera contemplativa. Tutto ciò che abbiamo osservato finora indica chiaramente che queste persone, pur cercate e punite dai loro angeli, non cadono vittime dell’inferno. Questo interregno, che Michelangelo ritrae in modo così singolare, può
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La Sistina svelata
essere solo il purgatorio, luogo dove, come Michelangelo avrà appreso dal Purgatorio del suo famoso compatriota Dante, vengono espiati soprattutto i sette vizi capitali: accidia, invidia, superbia, avarizia, gola, ira e lussuria. Abbiamo già incontrato l’avarizia: il borsellino del papa raffigurato in questa zona dell’affresco rimanda chiaramente all’abbandono al vizio. Così, l’uomo alla sinistra del papa e sul cui capo è inginocchiato l’angelo della speranza può essere la rappresentazione della superbia e della sua stessa punizione. La donna che vaga per la volta celeste come senza meta rimanda al vizio dell’accidia, mentre colei che si lascia afferrare dall’angelo della contemplazione sarà con probabilità una donna piena d’invidia. La radice della parola latina invidia è videre, vedere. Ma la contemplazione consiste nel vedere in modo giusto, con gli occhi della fede. Cosa che avrà modo di imparare chi, invece, pieno di invidia, dirige il suo sguardo bieco al prossimo. Accanto al papa col borsellino, si può vedere il viso smunto e terreo di un uomo affamato con la bocca aperta: costui viene punito per il vizio della gola. Accanto all’uomo che riceve pugni dall’angelo della speranza possiamo riconoscere il volto scuro e incollerito di un uomo adirato. Come ultimo, un dissoluto viene tormentato da un diavolo che, afferratolo per i genitali, cerca di trascinarlo all’inferno. Il dolore è così forte che il povero uomo si morde le dita. Già il Vasari aveva rilevato che Michelangelo aveva rappresentato qui i sette vizi capitali, visti però in relazione alla conseguente pena infernale31. Solo scrutando attentamente le singole particolarità diventa chiaro che, nonostante tutta la sofferenza degli uomini, quest’area del Giudizio universale non raffigura la punizione definitiva. A destra, accanto al lussurioso, una figura rivestita del grigio camiciotto funebre cerca di salire incontrastata verso l’alto. Invece, come allontanata dall’affamato, una donna coperta fino alle braccia e al viso fluttua nell’aria scivolando obliquamente verso il basso, in direzione dello spettatore e con le mani intrecciate come in preghiera. Costei non è disperata, ma è sofferente dal punto di vista spirituale ed esprime al tempo stesso il grande desiderio di porre fine alle proprie sofferenze, così da trovare presto via libera verso l’alto, verso il paradiso. La navicella di Caronte e l’inferno Nell’angolo inferiore di destra del suo affresco, attingendo dalla Divina Commedia dantesca, Michelangelo
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Il Giudizio universale
ha dipinto la barca di Caronte che traghetta al di là dello Stige e conduce al luogo di pena i dannati. Caronte (figg. 181, 182) qui non sospinge le persone dentro la barca percuotendole con la pala del remo, come nell’opera di Dante, ma le caccia fuori del natante, incontro ai demoni che già aspettano le loro vittime e con lunghe stanghe di ferro le traggono fuori dalla navicella. All’estrema destra in basso è raffigurato Minosse, il giudice infernale (figg. 182, 183), che ha già avvinghiato due volte la sua coda di serpente intorno al corpo per indicare al nuovo arrivato il secondo girone infernale. Costui è già atteso a braccia spalancate anche da una diavolessa con la testa di gatto, pronta a giacere nel letto di fuoco dell’inferno. Minosse stesso, con le grandi orecchie d’asino, viene tormentato da un serpente che è salito strisciando tra le sue gambe e morde il suo pene (fig. 183). Il suo volto è un ritratto del maestro di cerimonie di papa Paolo iii, Biagio da Cesena. Come ci racconta il Vasari, quando gli fu chiesto un parere riguardo al nuovo affresco, rispose al papa di aver già detto all’artista che a lui spiacevano oltremodo le molte figure nude in un luogo così santo. Michelangelo, allora, si vendicò tramandandolo ai posteri come il Minosse del Giudizio universale32. Accanto a Minosse, un dannato con occhi terrificati indica la prua della barca, proprio nel punto in cui è visibile un foro per la catena dell’ancora, che tuttavia manca. In linguaggio allegorico ciò indica l’assenza di speranza. Probabilmente, prima di pensare alla barca di Caronte, Michelangelo aveva previsto delle Arpie con ali gigantesche: ne è stata eseguita una sola, con un’ala. Essa trasporta una donna nuda, le cui gambe si è gettata sulle spalle e con denti aguzzi morde il polpaccio dell’infelice. La proporzione del corpo della donna non si accorda del tutto con i massicci e muscolosi uomini che si trovano nella barca: infatti la metà del natante è il risultato della sovrapposizione dell’ala destra dell’arpia e di quella di un essere demoniaco immaginario. La donna, poi, è così serrata tra due corpi di uomini nudi che il suo braccio destro non trova più alcun posto. L’uomo muscoloso di spalle accanto a lei, sulla sinistra, si è aggrappato con la destra ad un ferro con il quale un demonio dalla testa di leone lo tira, facendogli scavalcare la sponda della barca. Un altro diavolo sulla sinistra, sotto il giudice infernale Minosse, con gli artigli appuntiti, tiene come un pugnale nella sua mano sinistra un ferro privo di manico. Nei capitoli precedenti abbiamo già imparato che la mano sinistra è quella della pena e della sventura e che cre-
ature angeliche come gli stessi demoni, essendo privi di corpo, non possono tagliarsi. Se dunque la destra di un dannato è come incollata a un pezzo di ferro e ciò diventa per lui causa di disgrazia, possiamo concludere che il pittore ha inteso presentarci un criminale e un assassino. L’altro uomo, alla sinistra dell’infelice donna, sembra addirittura che senta il desiderio di scendere dalla barca e porsi dietro di essa, a cavalcioni sulla schiena del demonio alato. Al contrario, un’altra donna, abbracciando all’ultimo momento con le braccia muscolose le gambe del marito, cerca di trattenerlo sull’imbarcazione, mentre egli con la destra chiusa si tiene stretto al ferro ma è già ribaltato sul bordo della navicella. Un altro, mosso a ciò da una misteriosa forza interiore, con i piedi uniti e le braccia tese, è sul punto di saltare con un balzo giù dalla barca. Davanti a lui, l’uomo nudo atteso a braccia aperte dalla diavolessa dalla testa di gatto viene fatto scendere dal natante da due demoni dalle corna di montone, che si aiutano con un uncino di ferro. Egli è così adirato che, con i pugni serrati, vorrebbe gettarsi sui due diavoli. Un altro uomo giovane e nudo, seduto a cavalcioni sul bordo della barca, sta perdendo l’equilibrio, così da cadere dalla navicella senza opporre resistenza. Sopra la prua un uomo scuro, afferrato alla gola da una stanga falcata, viene trascinato direttamente agli inferi a testa in giù da un diavolo di cui sono visibili solo le mani che trattengono l’atroce ferro, spuntando fuori dalle fauci infuocate dell’inferno. Intorno al giudice Minosse si radunano ceffi diabolici di ogni specie. Sullo sfondo è riconoscibile, probabilmente, la testa di Lucifero, che sovrasta
tutti i diavoli nell’aria rossa e sulfurea pervasa dal fuoco. Sulla barca, a sinistra, nel punto in cui Caronte percuote col remo la massa dei dannati, gli infelici si piegano per sfuggire ai colpi. Gli uomini, dipinti quasi sempre nudi, guardano spaventati nel vuoto, mentre le donne, che indossano ancora la grigia veste funebre tirandola sul capo, si nascondono dietro e tra i corpi degli uomini. Alla sinistra della barca di Caronte, al centro del margine inferiore del dipinto, l’artista apre alla vista dello spettatore le spelonche infuocate dalle quali lo scrutano ceffi diabolici, dove uno dei dannati nudi, di schiena, si immerge nel mare di fuoco (fig. 184). Michelangelo offre questo sguardo diretto sull’inferno soprattutto al cardinale che celebra la santa Messa sull’altare della Cappella. L’inferno fa da sfondo al crocifisso dell’altare (fig. 185), al quale non si presta generalmente attenzione, pur essendo di qualità pregiata e risalente alla stessa epoca degli affreschi alle pareti della Cappella, eseguiti sotto il pontificato di papa Sisto iv. Il suo esecutore è probabilmente un maestro fiorentino; potrebbe trattarsi, addirittura, di un’opera tarda del grande Donatello, che continuò a operare in quest’epoca. La questione andrebbe studiata approfonditamente ma non c’è spazio in questa sede. È particolarmente significativo il fatto che Michelangelo abbia voluto creare un collegamento tra il crocifisso dell’altare e lo sguardo sull’inferno: solo nell’esperienza della Passione di Gesù in croce, che lo ha portato fin nella notte dell’abbandono di Dio, è possibile scandagliare e vincere l’inferno passando attraverso ogni sgomento.
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Epilogo
Mi auguro che questo studio possa costituire un aiuto prezioso per guardare con occhi nuovi la Cappella Sistina e i suoi affreschi. La decorazione della Cappella non costituisce una musica strumentale, ma vocale. La suggestione e l’emozione prodotte dalla Cappella sono così arricchite e pienamente completate dal suono della voce umana. Il termine «cappella pontificia» assume così un triplice significato: di cappella formata da persone (chierici e laici) ammesse a partecipare alle solenni funzioni celebrate dal papa; di cappella edificata con pietre e decorata con molteplici colori; infine di cappella che ospita i cantori della corte pontificia. Tutto in questa «triplice» cappella racchiude un significato; la musica dei colori si rivela come un bel canto, una grande opera che narra in modo drammatico i temi della storia biblica e contemporanea, cioè rinascimentale, e si conclude con la grandiosa visione della fine dei tempi. Due sono state le generazioni che hanno assistito al graduale arricchimento della Cappella, prima con le opere dei pittori umbri e toscani del tardo Quattrocento, poi con gli affreschi di Michelangelo, unico e irripetibile genio; mentre ad elaborare le tematiche affidate al pennello degli artisti sono stati gli stessi teologi che partecipavano alle solenni funzioni celebrate dai papi. Da parte loro, poi, gli artisti, una volta appreso il linguaggio figurativo degli scritti patristici e medievali, hanno saputo esprimersi con molta franchezza e, spesso, con spirito critico nei confronti degli stessi pontefici. In più occasioni si è potuto constatare che teologi e pittori si sono mostrati concordi in questo atteggiamento franco e libero. Il linguaggio figurativo degli artisti è stato rivisitato attraverso la conoscenza degli scritti a disposizione dei teologi che elaborarono il programma pittorico della Cappella. Questo linguaggio è di una tale ricchezza che gli osservatori di oggi stentano a penetrarlo. Se si affronta questa fatica, si viene però abbondantemente ripagati. I grandi temi teologici, quasi dimenticati dall’odierna scienza teologica, possono in tal modo ridiventare palesi: 1) il rapporto tra Cristo e la sua Chiesa nell’immagine del rapporto tra la sposa e lo sposo; 2) la sposa vista come la colomba del Salmo 67, nel quale la parola «clero» esprime, col suo significato originario, l’appartenenza esclusiva a Dio, mentre la colomba con i posteriora dorsi in pallore auri ricorda la promessa fatta al popolo di Dio di entrare un giorno futuro nel paradiso celeste; 3) il rapporto trinitario espresso dagli affreschi michelangioleschi nelle varie forme che presentano le relazioni fra tre esseri umani. Il programma pittorico della Cappella Sistina offre anche uno stimolo a riflettere ancora una volta sul vero significato dell’Immacolata Concezione di Maria, nel suo misterioso rapporto tra il concepimento immacolato nella mente di Dio e quello avvenuto nel seno di sua madre Anna. Non da ultimo, poi, la nuova interpretazione dei dipinti ci ha messo in contatto con l’opera del grande abate calabrese, Gioacchino da Fiore, che meriterebbe forse una rivalutazione da parte della teologia contemporanea. Mentre, dunque, con questi pochi cenni vorrei suscitare da un lato l’interesse dei teologi per i valori spirituali degli affreschi della Cappella, dall’altro vorrei invitare gli studiosi di storia dell’arte ad affinare e integrare i loro metodi, spesso basati, in modo troppo unilaterale, esclusivamente sullo studio delle tecniche e dei materiali e sul linguaggio stilistico e formale (cosa che d’altra parte accade sin dai tempi di Giorgio Vasari). Penso anche che, grazie ad una motivazione più forte che non in passato, sia forse giunto il momento di considerare le opere d’arte come il risultato di molteplici fattori e di numerosi influssi. Infatti non si deve prendere in considerazione solo l’artista e il committente, ma anche chi ha elaborato i soggetti e il programma, cose entrambe che richiedono conoscenze che trascendono di molto l’orizzonte intellettuale degli artisti. In
Note Parte prima Su questa iscrizione v. O. Fischel, Raphael, London 1948, p. 148, e M. Putscher, Raphaels Sixtinische Madonna, Tübingen 1955, p. 32 e n. 226, le cui battute conclusive non convincono per nulla. 2 Su questa costruzione v. S. Valtieri, in Raffaello Architetto, Milano 1984, pp. 143-156 e ill. a p. 156; Ead., in Raffaello a Roma. Il Convegno del 1983, Roma 1986, pp. 323-330. 3 Il disegno preparatorio realizzato da Pier Matteo d’Amelia (Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, dis. di arch. n. 711) mostra l’aspetto originario del soffitto. In proposito v. E. Steinmann, Die Sixtinische Kapelle, i, München 1901, pp. 191s., ill. 92; L.D. Ettlinger, The Sistine Chapel before Michelangelo, Oxford 1965, pp. 15s., tav. 34a; R. Salvini, La Cappella Sistina in Vaticano, con un’appendice di E. Camesasca, Milano 1965, pp. 152s., ill. 171. 4 Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti Pittori, Scultori et Architetti, iv, a cura di G. Milanesi, Firenze 1879, pp. 335s. In proposito v. H.W. Pfeiffer, Zur Ikonographie von Raffaels Disputa Roma 1975 («Miscellanea Historiae Pontificiae, 37»), pp. 46s.; M. Winner, «Disputa und Schule von Athen», in Raffaello a Roma 1986 (cit. a n. 2), pp. 29s. 5 Pfeiffer 1975 (cit. a n. 4), pp. 162-208; da ultimo Id., «Die drei Tügenden und die Übergabe der Dekretalen in der Stanza della Segnatura», in Raffaello a Roma 1986 (cit. a n. 2), pp. 51-57. 6 Ad esempio nella porzione sinistra della Disputa non è raffigurato alcun edificio ecclesiastico. Cfr. Ch.L. Frommel, «Eine Darstellung der ‘Loggien’‚ in Raffaels ‘Disputa?», in Festschrift für Eduard Trier zum 60. Geburtstag, Berlin 1981, pp. 103ss. Anche l’espressione «päpstliches Gerichtszimmer» da me usata per la Stanza della Segnatura deve essere sostituita dall’espressione «un tribunale papale». 7 Petrus Galatinus (Pietro Colonna) nacque a Galatina (Puglia) tra il 1454 e il 1460, dove entrò nell’Ordine dei Minori ancora in giovane età. Nel 1480 si trovava a Otranto all’epoca dell’occupazione da parte dei Turchi. Venne poi mandato a Roma a studiare e da allora vi dimorò abitualmente. Nel 1492 fu a Taranto, nel 1506 a Napoli e nel 1518 a Bari. Dal 1524 al 1536 fu ministro della sua provincia a Galatina. Morì a Roma poco dopo il 1539 e venne sepolto in Santa Maria in Aracoeli. Conosceva perfettamente il latino, il greco e l’ebraico e fu professore di filosofia, di teologia e di greco nell’università di Roma, oltre che penitenziere apostolico in San Pietro in Vaticano. Riguardo a Petrus Galatinus e ai suoi scritti v. A. Kleinhans, «De Vita et Operibus Petri Galatini o.f.m.», Antonianum, i (1926), 1, pp. 145-179, 327-356; A. Morisi, Apocalypsis Nova, Roma 1970 («Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Studi storici, 77»), pp. 35s. e n. 60; C. Vasoli, Profezia e ragione, Napoli 1974, pp. 43, 119 e n. 181; C. Colombero, s.v. «Colonna, Pietro», in Dizionario biografico degli Italiani, 27, Roma 1982, pp. 402ss. 8 Su Giorgio Benigno Salviati cfr. Morisi 1970 (cit. a n. 7), pp. 37s. e n. 67; Vasoli 1974 (cit. a n. 7), pp. 15126 e in special modo n. 9 a p. 21. 9 Cristoforo Marcello ha dedicato a papa Giulio ii la sua opera Universalis de anima traditionis opus, Venetiis, impressum per Gregorium de Gregoriis, Anno Domini mdviii, Kalendas februarii, fol. 291v, che presenta l’idea fondamentale della Scuola di Atene di Raffaello. V. in proposito Winner 1986 (cit. a n. 4), pp. 39s. Sulla figura di Cristoforo Marcello v. N.H. Minnich, «Concepts of Reform Proposed at the Fifth Lateran Council», in Archivum Historiae Pontificiae, 7 (1960), pp. 181ss. e n. 61. 10 Amadeo, Joao da Silva e Menezes, è il fondatore degli Amadeiti all’interno dell’Ordine dei Minori. Nato in Spagna intorno al 1420, nel 1452 divenne francescano ad Assisi. Secondo un’altra tradizione Amadeo sarebbe nato nel 1431 a Ceuta in Marocco e sua sorella sarebbe stata Beatrice de Silva, fondatrice dell’Ordine delle Concezioniste. L’unica cosa certa è che sotto il 1
tal modo, forse, le diverse discipline, invece di allontanarsi sempre più l’una dall’altra, troverebbero la possibilità di riavvicinarsi in un comune sforzo di comprensione sempre più approfondita dei tesori artistici del passato. L’obiettivo di questa ricerca sulla Cappella Sistina è stato, infatti, proprio quello di mostrare come il riavvicinamento tra teologia e storia dell’arte possa portare frutti del tutto insperati. Così, anche la parola e l’immagine vengono a loro volta riavvicinate e divengono capaci di dimostrare come si completino a vicenda. Infatti la parola trova nuovamente un corpo da animare e la veste adatta, mentre l’immagine non diletta più solo gli occhi, ma si fa portatrice delle grandi idee che hanno animato la storia dell’umanità, come pure della fede in Dio e nella sua azione a favore del creato.
Ministro Generale Giacomo Bassolini da Mozzanica (1454-1457) venne mandato a Milano, dove godette del favore di Francesco Sforza, così come godette del favore di papa Pio ii e soprattutto di Sisto iv, il quale lo sottrasse ai continui litigi con gli Osservanti scoppiati dopo la morte di Francesco Sforza e lo nominò suo confessore personale. Il papa gli assegnò la dimora di San Pietro in Montorio. Trascorse gli ultimi anni di vita nella solitudine, in una grotta del Gianicolo e nei boschi dei monti Sabini, finché nel 1482 ricevette dal papa il permesso di visitare i conventi della sua Congregazione da lui fondati in Lombardia. Morì a Milano nello stesso anno, il 10 agosto, nel convento accanto a Santa Maria della Pace. Sulla biografia di Amadeo v. Morisi 1970 (cit. a n. 7), pp. 1-4; Vasoli 1974 (cit. a n. 7), p. 24; B. Pandzic, «Amadeo», in Dizionario degli Istituti di Perfezione, Roma 1975, pp. 503s. Cfr. H. Pfeiffer, «La Disputa di Raffaello, il Beato Amadeo e gli Amadeiti, il ‘Pastor Angelicus’ e Giulio ii», in Giulio ii papa, politico, mecenate (atti del convegno, Savona 25-27 marzo 2004), a cura di G. Rotondi Terminiello e G. Nepi, Genova 2005, pp. 61-67. 11 Cfr. F. Navarro, «Lo Pseudo-Bramantino: proposta per la ricostruzione di una vicenda artistica», in Bollettino d’Arte, lxvii (1982), 14, pp. 42-46. Il dipinto, che originariamente si trovava nella chiesa di uno sperduto eremo appartenente al movimento fondato da Amadeo a Montorio Romano (Rieti) e che oggi è custodito nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma, riproduce perfettamente la prima visione, detta «raptus», così come descritta nella Apocalypsis Nova (Vat. Lat. 3825, foll. 1r e 2r): «Ego Amadeus fui raptus ex spelunca mea ubi orabam in monticulum quendam et in rota ubi Deo astabant angeli et animae sanctorum... antiqui patres: Adam... Abel... Noe, Abraham, Moyses, Samuel, David Rex, Esaias, Hieremia, Daniel: Ab illo latere quasi dextro est Petrus cum reliquis Apostolis. Ille qui inter hos et illos quasi in medio sedet est Ioannis praecursor domini... et qui iuxta illum sedet est Joseph... Suspexi et vidi scalam cuius cacumen videbantur caelum tangere et cum fulgenti diademate vidi Christum Dominum scalae innixum» (Io Amadeo fui rapito dalla mia spelonca situata su un monticello e nella quale mi trovavo in preghiera e [portato] in una grande ruota nella quale accanto a Dio stavano angeli e anime di santi... antichi Padri: Adamo... Abele... Noè, Abramo, Mosè, Samuele, re David, Isaia, Geremia, Daniele: da quel lato, come alla destra, sta Pietro con gli altri Apostoli. Colui che siede per così dire al centro tra questi e quelli è Giovanni, il precursore del Signore... quello che siede accanto a lui è Giuseppe... Guardai in alto e vidi una scala la cui cima sembrava toccare il cielo e vidi Cristo Signore, con un fulgido diadema, che poggiava sulla scala). Cfr. anche Morisi 1970 (cit. a n. 7), pp. 7 e 47; Vasoli 1974 (cit. a n. 7), pp. 85ss. 12 È probabile che Raffaello abbia conosciuto il pittore del dipinto dei Misteri della Galleria Barberini che F. Navarro presenta sotto il nome di Pseudo-Bramantino, e di cui ha collocato il soggiorno a Roma all’epoca in cui Raffaello dipingeva nella Stanza della Segnatura. Cfr. Navarro 1982 (cit. a n. 11), p. 47. 13 V. in proposito Morisi 1970 (cit. a n. 7), p. 35. 14 È stato N.H. Minnich a richiamare cortesemente la mia attenzione sulla miniatura. Cfr. anche Morisi 1970 (cit. a n. 7), pp. 38-41 e n. 69; Vasoli 1974 (cit. a n. 7), pp. 102-105. 15 Cfr. Pfeiffer 1975 (cit. a n. 4), p. 61. La teologia corrispondente ai raggi aurei della disputa è formulata da Georgius Benignus in Vexillum christianae fidei: «Lux deitatis... est profecto essentia seu usia, ipsa natura divina, que est spiritus incircumscriptus et origo radiorum, ac fundamentum omnium divinorum...» (la luce della divinità... è di certo essenza o sostanza, la stessa natura divina, la quale è spirito senza confini e origine dei raggi, e fondamento di tutte le cose divine) (Cod. Pal. 4797 [Theol. 28], fol. 7r); «... Lux deitatis equiva-
let omni processioni vel productioni divine» («la luce della divinità equivale a ogni processione o produzione divina») (fol. 20r). 16 Cfr. Morisi 1970 (cit. a n.. 7), pp. 27-83. 17 Cfr. n. 7. 18 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica, Vat. Lat. 5568, 5569, 5576. 19 Vat. Lat. 5578. 20 De vera Scriptura (Vat. Lat. 5580). 21 «...sub coeli nomine multa continentur mysteria, prout scripturarum exposcit diversitas. Quia et si anagogice quidem ecclesia triumphans, allegorice vero ecclesia militans, quae instar triumphantis instituta est,... per coelum hoc loco designetur. Tropologice tamen, prout (scilicet) scriptura in se ipsam per reflexionem convertitur, per coelum hic aliud quam sacrae scripturae sacramentum, non intelligitur» (sotto il termine cielo sono contenuti molti misteri, così come lo esige la varietà delle Scritture. Poiché se infatti anagogicamente è simboleggiata la Chiesa trionfante, in verità allegoricamente è simboleggiata la Chiesa militante che è costituita a guisa di quella trionfante,... in questo passo si allude a ciò per mezzo del cielo. Tuttavia, topologicamente, in quanto la Scrittura si volge verso se stessa mediante la riflessione, qui, con il cielo non si intende altro che il sacramento della Sacra Scrittura) (Vat. Lat. 5580, fol. 34r). 22 Sylva Allegoriarum Totius Sacrae Scripturae Mysticos eius sensus, et magna etiam ex parte literales complectens, syncerae Theologiae candidatis perutilis, ac necessaria. Auctore F. Hieronymus Lauretus Ceruariensi, Monacho Benedictino in Coenobio Montisserrati, et Abbate Monasterii S. Foelicis Guixolensis, 2 voll, Venetiis, Apud Gasparem Bindonum, mdlxxv. 23 «Coelum, ex quo loquitur Dominus, dici potest sacra scriptura: de qua nobis et Sol sapientiae, et Luna scientiae, et ex antiquis patribus stellae exemplorum atque virtutum, lucent» (Sylva Allegoriarum [come in nota 22], i, fol. 218r). 24 Cfr. Pfeiffer 1975 (cit. a n. 4), pp. 60-63, 196s.; Id., «Raffael und die Theologie», in Raffael in seiner Zeit. Sechs Vorträge, herausgegeben von V. Hoffmann, Nürnberg 1987, p. 111. 25 «Qui vult ergo Dei arcana inspicere, ac coelestia contemplari: relictis inferius carnis operibus, debet in spiritu ad huiusce scripturae caelum ascendere: ut cum Paulo usque ad tertium caelum raptus, ostiumque hoc ipsius scripturae apertum ingressus, videat arcana verba: quae prae eorum excellentia, non licet homini loqui» (Vat. Lat. 5580, fol. 35v). 26 Cfr. Pfeiffer 1975 (cit. a n. 4), p. 255. 27 Spero di aver mostrato chiaramente nell’ultimo capitolo del mio libro sulla Disputa (v. n. 4) che queste poesie non erano indirizzate a una presunta amante dell’artista fatta risalire al primo periodo romano, cosa che, invece, sostengono R. e M. Wittkover, Born under Saturn. The Character and Conduct of Artists: A Documented History from Antiquity to the French Revolution, London 1963, pp.153s., continuando ad attenersi alla leggenda corrente. 28 Cfr. V. Golzio, Raffaello nei documenti, nelle testimonianze dei contemporanei e nella letteratura del suo secolo, Città del Vaticano 1936, p. 192. 29 Cfr. D. Redig de Campos, «I ‘tituli’ degli affreschi del Quattrocento nella Cappella Sistina», in Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia. Rendiconti, 42 (1969-1970), pp. 299-314. 30 Steinmann vede in quegli affreschi prima di tutto, e a ragione, la riproduzione di importanti avvenimenti tratti dalla vita di Mosè e di Cristo, e questo in uno stretto intreccio tipologico, in cui Mosè rimanda a Cristo. L’erudito si è però spinto troppo lontano nelle sue interpretazioni di alcuni particolari che dovrebbero fare riferimento a eventi reali e importanti per il papa: in questo è stato criticato da Ettlinger 1965 (cit. a n. 3), pp. 4s. Ettlinger interpreta gli affreschi come diretta espressione della concezione politica e teologica di
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papa Sisto iv, in particolare della sua esaltazione del primato papale rispetto alle tendenze conciliariste di quel tempo. Questo nostro testo mostrerà che questa visione è valida esclusivamente per il Perugino e non per i pittori fiorentini, del Botticelli in particolare. Al riguardo v. più oltre la Parte ii. M. Calvesi, in Le Arti in Vaticano, Milano 1980, pp. 55-86, vedrebbe nel programma degli affreschi un influsso della cabala. Il più recente contributo di J. Shearman, in La Cappella Sistina. I primi restauri: la scoperta del colore, Novara 1986, pp. 22-87, fornisce nell’interpretazione del programma degli affreschi semplicemente un riassunto delle conclusioni delle pubblicazioni di Steinmann ed Ettlinger sopra citate. Solo E. Wind ha cercato di risolvere il problema del reale contenuto degli affreschi muovendosi nella giusta direzione. Le sue ricerche sono state pubblicate in gran parte postume e presentate da E. Sears. Cfr. E. Wind, The religious Symbolism of Michelangelo. The Sistine Ceiling, Oxford 2000. L’ultima opera, Vaticano. La Cappella Sistina. Il Quattrocento, a cura di A. Nesselrath, Città del Vaticano-Milano 2004, presenta interessanti osservazioni su molti nuovi particolari, ma, in generale, si limita alle interpretazioni note del contenuto degli affreschi. 31 Riguardo all’esegesi allegorizzante v. H. de Lubac, Exégèse Médiévale. Les quatre sens de l’Ecriture, 3 voll., Paris 1959-1964. 32 Francesco della Rovere, il futuro papa Sisto iv, dedica la sua opera Quaestiones de Christi sanguine, redatta tra il 1462 e il 1472, a papa Paolo ii, stampandola più tardi a Roma presso Lignamine (è conservata in un prezioso volume manoscritto del 1471 o ‘72, in Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Urb. Lat. 151, fol. 6r-132r). Egli cita tra gli altri Ugo di San Vittore, uno dei più grandi maestri medievali del metodo allegorizzante (v. Cod. Urb. Lat. 151, fol. 78r). Riguardo alla disputa sul sangue di Cristo e la presa di posizione di Francesco della Rovere v. L. v. Pastor, Geschichte der Päpste, ii, Freiburg im Breisgau 1926, pp. 458s.; E. Lee, Sixtus iv and Men of Letters, Roma 1978 («Temi e testi, 26»), pp. 19s. e da ultimo C. Vasoli, «Sisto iv professore di teologia e teologo», in L’età dei Della Rovere, v Convegno storico savonese, Savona 7-10 novembre 1985, Atti e Memorie della Società Savonese di Storia Patria, n. s., xxiv, 1988, pp. 182-191. Il Sermone sull’Immacolata Concezione di Maria, steso probabilmente da lui per Fantino Dandolo, vescovo di Padova, e pronunciato a Padova l’8 dicembre 1448 dal Dandolo stesso, è conservato ancora, forse, nel manoscritto originale di Francesco della Rovere (Padova, Biblioteca Capitolare, Cod. C. 46, fol. 265r-272r). Tale sermone è stato pubblicato in Francesco della Rovere, L’Orazione della Immacolata, a cura di D. Cortese, Padova 1985. Cfr. anche Vasoli 1988, p. 207, nota 87. In questa orazione Francesco della Rovere si dimostra un teologo che conosce e applica perfettamente il metodo allegorizzante (cfr. ivi pp. 76-95). V. anche più oltre n. 36. 33 Il documento pubblicato da: Ettlinger 1965 (cit. a n. 3), pp. 122s., menziona i «venerabiles et egregios ac honorabiles viros dominos magistrum Antonium de Pinerolo in sacra pagina magistrum ord. fratrum minorum Bartholomeum de Bollis canonicum basilice principis apostolorum de Urbe, Laurum de Sancto Johanne de Padua, Johannem Aloysium de Mantua, Ladislaum de Padua depictores et magistrum Johannem Petri de Dulcibus de Florentia Rome habitatorem tamquam arbitros et arbitratores ac judices ad taxandum et judicandum picturam per dictos Cosmam Alexandrum Dominicum et Petrum Christofori in capella maiori sanctissimi domini nostri pape factam in quatuor primis istoriis finitis cum cortinis cornicibus et pontificibus,...» (i venerabili, egregi e onorevoli signori: Antonio da Pinerolo, maestro nella sacra pagina e maestro dell’Ordine dei Frati Minori, Bartolomeo de Bollis canonico della basilica del principe degli Apostoli in Roma, Lauro da San Giovanni in Padova, Giovanni Luigi da Mantova, Ladislao da Padova pittore e maestro di Giovanni Pietro de’ Dolci da Firenze residente a Roma, come arbitri, estimatori e giudici (deputati) a valutare e giudicare i dipinti a opera dei detti Cosma, Alessandro, Domenico e Pietro Cristofori nella Cappella maggiore di Nostro Signore Santissimo eseguiti per il papa nelle prime quattro storie terminate insieme a cortinaggio, cornici e pontefici...). 34 «... liber vero scriptus intus et foris non solum vetus Testamentum, sed et novum significat, qui intus
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scriptus est secundum allegoriam, foris secundum historiam. Hic igitur liber vetus et novum Testamentum in se continet; quia spiritualis intelligentia in veteri Testamenti nihil est aliud, quam novum Testamentum» (... in verità il libro scritto all’interno e all’esterno significa non solo l’Antico Testamento, ma anche il Nuovo: quello scritto all’interno è secondo l’allegoria, quello all’esterno è secondo la storia. Dunque questo libro contiene l’Antico e il Nuovo Testamento; infatti l’intelligenza spirituale nell’antico Testamento non è altro che il Nuovo Testamento) (Migne, pl 17, col. 807). 35 V. più oltre n. 38. 36 V. in proposito l’introduzione di D. Cortese a L’Orazione della Immacolata (cit. a n. 32), pp. 11ss., 27, 30, 57-63. Cfr. anche: A. Mathani/, «Xystus pp. iv scripsitne librum ‘De conceptione beatae Virginis Mariae’?», in Antonianum, 29 (1954), pp. 573-578, il quale però nega che Sisto iv abbia scritto un trattato con questo titolo. Cfr. da ultimo V. Francia, Splendore di Bellezza. L’iconografia dell’Immacolata Concezione nella pittura rinascimentale italiana, Città del Vaticano 2004. 37 Il foglio, «forse un modelletto proveniente dalla bottega e destinato al committente», si trova all’Albertina di Vienna. Cfr. A. Stix, L. Fröhlich-Bum, Beschreibender Katalog der Handzeichnungen in der Graphischen Sammlung Albertina, iii, n. 41, Wien 1932, p. 8 (Sc. R. Inv. n. 4861). In merito v. anche Salvini 1965 (cit. a n. 3), p. 174 e ill. 174 a p. 177; E. Camesasca, L’opera completa del Perugino, Milano 1969 («Classici dell’Arte, 30»), pp. 90s. A questo disegno viene ancora erroneamente attribuito il titolo «Assunzione di Maria in cielo» oppure «Assunta», come ultimamente ancora in Shearman 1986 (cit. a n. 30), pp. 47s. Se si trattasse di una «Assunta» sarebbe stato raffigurato, insieme agli Apostoli, anche il sepolcro vuoto di Maria. Vasari 1879 (cit. a n. 4), iii, p. 579 descrive il dipinto di Perugino situato dietro l’altare come una «tavola in muro con l’Assunzione della Madonna». Vedi in proposito Redig De Campos 1969-70 (cit. a n. 29), p. 300. Che allora la cappella non fosse ancora stata dedicata all’Immacolata, ma all’Assunta, potrebbe essere spiegato con la resistenza dei Domenicani, che designavano il teologo di corte, il cosiddetto «Magister Palatii». 38 «... per menses autem tres quibus absconditus est Moyses, tria tempora designantur: unum ante diluvium: secundum post diluvium usque ad Moysen: tertium a Moyse usque ad adventum Domini... Per fiscellam vero scirpeam beata virgo Maria designata est: mater ergo fiscellam scirpeam, in qua Moyses poneretur, praeparavit; quia sapientia Dei, quae est Filius Dei, beatam et gloriosam Mariam semper virginem elegit, in cujus intemerato utero hominem, cui per unitatem personae conjungeretur, formaret. Per bitumen vero quod ab aquis solvi non potest, virginitatem Mariae, quae nullo aestu carnali violari potuit, intelligere possumus; per picem autem, quae custos est vini, humilitatem custodem caeterarum virtutum» (Migne, pl 17, col. 823). 39 «Possumus per rubum qui flammas ex se producedat, et non comburebatur, beatam virginem Mariam intelligere, quae Filium Dei ex suo utero protulit, et virginitatem non amisit...» (Migne, pl 17, col. 824). 40 «Rubus ergo ardebat, et non comburebatur; quia Filius Dei hominem assumens, sicut ejus divinitas non est mutata in humanitatem, ut amitteret quod erat; sic nec ejus humanitas per divinitatem ardens, non est absumpta ita a divinitate, ut amitteret humanitatem: sed ex duabus substantiis humanitatis atque deitatis unus Christus permansit et permanet...» («Il roveto ardeva e non si consumava; così è avvenuto per il Figlio di Dio: infatti, diventando uomo, la sua divinità non si è trasformata in umanità e non ha perso ciò che era; così pure la sua umanità la quale, cominciando ad ardere per mezzo della divinità, non è stata assorbita dalla divinità e non ha perso la sua umanità: e dalle due sostanze, umana e divina, rimase e rimane formato un unico Cristo...») (Migne, pl 17, col. 824). 41 «Quamvis mortuos suscites, quamvis umbra corporis tui aegrotos sanes; in nullo tamen te mihi comparare audeas: quia magna quae agis, non sunt de te, sed ego operor per te. Calceamenta autem pedes muniunt, ne terram tangant: per terram vero gentes designantur» (Migne, pl 17, col. 825). 42 Secondo Es 2,16 sarebbero propriamente sette sorelle. Botticelli ne raffigura, però, solo due. Cfr. più oltre la Parte ii e n. 60.
43 «Album», in Sylva Allegoriarum (cit. a n. 22), i, fol. 73v. Qui e in seguito utilizziamo la Sylva Allegoriarum come lessico del linguaggio biblico figurato che è andato perduto, senza, però, richiamare espressamente i passi patristici di riferimento. 44 Cfr. R. Lightbown, Sandro Botticelli. Leben und Werk, München 1989, p. 102. L’autore, senza immaginare un significato più profondo, ha così descritto questo particolare: «Dietro di lui (scil. Mosè) una donna inorridita si ritira verso un tempio sontuoso, stendendo il braccio attorno al giovane ebreo che era stato colpito dall’egiziano». Vedremo più avanti che proprio questo dettaglio rappresenta una delle chiavi interpretative di tutti gli affreschi del Botticelli nella Cappella Sistina. 45 «Tota Aegyptus sepulcris plena est... In talibus sepulcris noluit mortuum suum sepelire Sanctissimus Patriarcha sed ubi? In spelunca duplici ubi spes bonorum operum et amor contemplative requiescit... activa finem habet, contemplativa semper parit... Sara et Rachel numquam parere cessabunt...» (Tutto l’Egitto è pieno di sepolcri... In tali sepolcri il santissimo Patriarca non volle seppellire il suo corpo morto. E dove, allora? Nella doppia caverna dove riposa la speranza delle opere buone e dove l’amore riposa nella contemplazione... le attività hanno una fine, la contemplazione genera sempre... Sara e Rachele non cesseranno mai di generare) (Migne, pl 184, col. 755). 46 Ettlinger 1965 (cit. a n. 3), p. 50. 47 «Quem et sponsum sanguinum vocat; qui Christi sanguine est redempta. Filii ergo Ecclesiae post circumcisionem vitiorum, et in bonis operibus vitae consummationem jam non filii, sed sponsi vocantur; quia illi conjuncti sunt in coelis per copulationem membrorum, qui sponsus Ecclesiae in terra vocatur et est» (Migne, pl 17, col. 827). 48 «Tardat quoque Sephora mater circumcidere primogenitum suum, timendumque ne Dominus veniat, et eum interficiat, Sephora Ecclesia, primogenitus ejus clerus, secundus natu populus, petra acutissima fides Christiana, sponsus sanguinum Christus, qui non venit pacem mittere in terram, sed gladium» (Migne, pl 177, col. 1037). 49 «... quia quum sit Christi vicarius, qui naturam sibi humanam in virginis utero desponsavit: totius dubio procul universalis ecclesiae sponsus est» (... poiché è vicario di Cristo, il quale ha sposato la natura umana nel grembo della Vergine, egli è senza dubbio sposo della Chiesa universale) (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 5569, fol. 164v). 50 «Reuel», in Sylva Allegoriarum (cit. a n. 22), ii, fol. 748v. 51 «Ietro», in Sylva Allegoriarum (cit. a n. 22), i, fol. 472r. 52 «Et qui antea erant filii diaboli, ex aqua et Spiritu sancto, qui per columnam ignis designabatur, renati effecti sunt filii Dei» (Coloro che prima erano figli del diavolo, sono rinati da acqua e da Spirito Santo, che era indicato dalla colonna di fuoco, e sono resi figli di Dio) (Migne, pl 17, col. 827). 53 «Per sacerdotem Christus intelligitur, per lignum vero cedrinum Pater, per hyssopum Filius: per lanam autem coccineam, quae fulgorem ignis habet, Spiritus sanctus designatur... (Christus) a peccatis nostris, qui per leprosum designamur, per eorum (Pater, Filius, Spiritus) invocationem, et per aquam baptismatis ablutis» (Migne, pl 17, col. 829). L’interpretazione generale della scena come illustrazione del sacrificio di purificazione per la guarigione di un lebbroso viene confermata da Steinmann 1901 (cit. a n. 3), p. 236. 54 «Propter quod nec sanguis gallinae offertur ad altare, sed dicit quia occidetur gallina in vasculo fictili, in quo vase aqua viva sit missa, ut et aqua assumatur ad purificationem, et compleatur plenitudo mysterii in aqua et sanguine, quod dicitur exisse de latere Salvatoris, et illlud nihilominus quod Joannes ponit in Epistola sua, et dicit purificationem fieri in aqua, et sanguine et spiritu» (Origenes, Homélies sur le Lévitique, ed. M. Borret s.j., ii, Paris 1981[«Sources Chrétiennes, 287»], pp. 46s.). L’influsso degli scritti di Origene sull’affresco della purificazione del lebbroso aveva già richiamato l’attenzione di E. Wind, «The Revival of Origen», in Studies in Art and Literature for Bella da Costa Greene, ed. D. Miner, Princeton 1954, pp. 419s. Oltre a Origene, anche Girolamo chiama galline questi due uccelli nella sua trentaquattresima lettera De diversis generibus leprarum (Migne, pl 30,
col. 248): «Duae gallinae animam indicare videntur et carnem. Sed unam, inquit, gallinam occides, alteram aqua ablues. Caro utique in passione iubetur occidi: anima vero quae per naturam aeternae morti videtur esse subiecta, abluta aqua baptismatis a criminibus relaxari» (Le due galline sembrano indicare l’anima e la carne. Ma, dice, uccidi una sola gallina, l’altra lavala con l’acqua. Si comanda senz’altro che la carne venga uccisa nella passione: invece, l’anima che per natura sembra essere soggetta alla morte eterna, lavata nell’acqua del battesimo, viene sciolta dalle colpe). Del tutto errato è il pensiero di Lightbown 1989 (cit. a n. 44), p. 99, secondo il quale non si tratterebbe del sacrificio di purificazione del lebbroso descritto nel Levitico. 55 Cfr. Ettlinger 1965 (cit. a n. 3), p. 6. 56 Cfr. il commentario del figlio di Dante, Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris comoediam commentarium, a cura di V. Nannucci, Firenze 1845, pp. 299s. Cfr. anche Dante Alighieri, Die Göttliche Komödie, herausgegeben von H. Gmelin, Kommentar, ii. Teil, Stuttgart 1955, pp. 40, 43s. e l’articolo «giunco» nell’Enciclopedia Dantesca, iii, Roma 1971, pp. 228s. 57 Steinmann 1901 (cit. a n. 3), pp. 251ss. In proposito v. anche la critica di Ettlinger 1965 (cit. a n. 3), p. 4. 58 Questa è raffigurata come donna incinta. Il rilevante significato proprio di questa figura non è mai stato preso in considerazione dalla critica. 59 Su questa tematica v. H. Riedlinger, Die Makellosigkeit der Kirche in den lateinischen Hohenliedkommentaren des Mittelalters, Münster 1958 («Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, 38/3»). In proposito cfr. anche F. Ohly, Hoheliedstudien. Grundzüge der Hoheliedauslegung des Abendlandes bis um 1200, Wiesbaden 1958. 60 «Origenis Homiliae in Canticum Canticorum», in Origenes Werke, ed. W.A. Baehrens, 8, Leipzig 1925 («gcs 33»), pp. 35-41. Cfr., in proposito, del medesimo autore, Commentarium in Canticum Canticorum, ed. W.A. Baehrens, ibid., pp. 113-150. 61 «Puteus», in Sylva Allegoriarum (cit. a n. 22), ii, fol. 741r.; cfr. in proposito l’introduzione di M. Simonetti alla traduzione italiana di Origene, Commento al Cantico dei Cantici, Roma 1982, p. 61, n. 130. 62 «Aegyptus, Aegyptius», in Sylva Allegoriarum (cit. a n. 22), i, fol. 62r. Cfr. Simonetti 1982 (cit. a n. 61), p. 61, n. 128. 63 «Per hyacinthum, quem Philo Iudaeorum disertissimus, in vestibus Aharon aeri comparat, ac coelestia significare putat, coelestium contemplatio designatur» (Con il color giacinto, che è presente nelle vesti di Aronne e che Filone, il più eloquente degli Ebrei, paragona all’aere e al quale attribuisce il significato delle cose celesti, si designa la contemplazione delle cose celesti) (Vat. Lat. 5568, fol. 305r). 64 «Templum», in Sylva Allegoriarum, ii, fol. 857. 65 «Fructus», in Sylva Allegoriarum, i, fol. 417r. 66 «Per legem omnes tamquam oves erravimus: per Christum... diriguntur pedes nostri in viam pacis: A lege, unde iniquitates nostrae sicut onus grave graventur super nos; in Christo vero posuit Pater iniquitates omnium... Per legem vulneratur et infirmatur anima: Christi autem livore sanati sumus» (Sylva Allegoriarum, i, fol. 417rv). 67 «Agnus», in Sylva Allegoriarum, i, fol. 71v. 68 «Canis», in Sylva Allegoriarum, i, fol. 183v. 69 «Vas», in Sylva Allegoriarum i, fol. 891v. 70 «Egredi, Exire, Prodire», in Sylva Allegoriarum, i, fol. 331v. 71 «Octonarius», in Sylva Allegoriarum, ii, fol. 950r. Cfr. anche H. Meyer, R. Süntrup, Lexikon der mittelalterlichen Zahlenbedeutungen, München 1987 («Münstersche Mittelalter-Schriften, 56»), col. 566. 72 «... lapis sub quercu, est Christus in cruce» (Sylva Allegoriarum, i, fol. 529v). 73 «Lapides aut petrae fixae sunt angeli in bono firmati... qui... cadente cum suis angelis diabolo, remanserunt» (Sylva Allegoriarum, i, fol. 530r). 74 Vedi i molti ternari nella Sacra Scrittura che fanno pensare alla Trinità in Sylva Allegoriarum, ii, fol. 942rv; Meyer, Süntrup 1987 (cit. a n. 71), coll. 214-221. 75 «Salomon», in Sylva Allegoriarum (come in nota 22), ii, fol. 781r. 76 «Deus igitur, conditor noster, ut nos probaret... apparuit nobis in forma talis hominis qualem postea assumpsit... Tunc dixit nobis: Audite me, angeli mei... Numquid nostis formam et naturam in qua vobis appareo? Nos diximus: Novimus te esse Deum, condi-
torem nostrum; novimus et formam illam esse formam hominis qui nondum creatus est, et miramur de tam stupendo commertio... neque intelligimus quid sibi velit ista apparitio. Dixit Deus: ut sciatis et agnoscatis me decrevisse et magno consilio firmasse hominis naturam assumere velle; voloque homo esse et in utero unius mulieris concipi et ex ea nasci. Et aperuit nobis mentem, quod percepimus quae nobis dicebat, sed mirabamur quare id facere vellet. Subdidit: Ero homo ego, et homo erit Deus, et si Deus, ergo et vester dominus, vester rex, vester princeps, et vos omnes subiciemini potestati eius. Coletis eum et adorabitis sicut me, quia ipse et ego una persona erimus, unica adoratione adorabimur a vobis: Illamque mulierem, quam in matrem elegi, praeponam omnibus vobis: erit regina vestra, honorabitis et coletis eam tamquam genitricem Dei et domini vestri» (Morisi 1970 [cit. a n. 7], p. 52). 77 «Ego Deus esse cupio, valde maior sum homine, volo ut homo me adoret, non ego hominem» (Morisi 1970 [cit. a n. 7], p. 53). 78 Petrus Galatinus ofm, De Arcanis Catholicae Veritatis, Romae 1518, fol. 202. 79 Morisi 1970 (cit. a n. 7), p. 4. 80 Cfr. più sopra n. 53. 81 Origenes (cit. a n. 54), p. 44. 82 Pastor 1926 (cit. a n. 32), p. 557. Steinmann 1901 (cit. a n. 3), p. 367, descrive accuratamente questo avvenimento, ma gli sfugge il fatto che Botticelli vi abbia alluso nel suo affresco; e lo stesso si può dire per le ricerche condotte fino a oggi. 83 Lightbown 1989 (cit. a n. 44), p. 17, scrive che Botticelli fu, «nella sua predilezione per l’arguzia pungente e i tiri pesanti a spese degli altri,... un fiorentino autentico». L’autore rileva pure (p. 56) che egli era tra «gli artisti preferiti dai Medici e dal loro partito». 84 «Offendere», in Sylva Allegoriarum (come in nota 22), ii, fol. 650v. 85 Cfr. in proposito «Botrus cypri dilectus meus mihi...» (Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra) (Ct 1,13). 86 In proposito si deve concordare decisamente con Steinmann 1901 (cit. a n. 3), p. 236, contro Ettlinger 1965 (cit. a n. 3), pp. 4, 78s., e contro Lightbown 1989 (cit. a n. 44), pp. 99s. Però occorre muovere anche a Steinmann una critica, quando egli interpreta in modo del tutto errato i particolari delle scene e scrive: «un ragazzo a servizio nel tempio porge al sommo sacerdote, su un piatto dorato, il sangue dell’uccello immolato in cui questi ha già immerso i ramoscelli di issopo affinché asperga colui che diventato mondo dalla lebbra...». In realtà nel piatto non si può scorgere affatto del sangue. 87 Riguardo alla congiura dei Pazzi v. Pastor 1926 (cit. a n. 32), pp. 532-541. Per un giudizio equilibrato v. da ultimo G. Pistarino, «Elogio di Papa Sisto iv», in L’età dei Della Rovere 1988 (cit. a n. 32), p. 44. 88 Cfr. Lightbown 1989 (cit. a n. 44), p. 72. 89 Cfr. il ritratto di Lorenzo de’ Medici nell’Adorazione dei Magi di Botticelli agli Uffizi di Firenze, che egli dipinse verso il 1475. Lightbown 1989 (cit. a n. 44), p. 66 e illustrazione del particolare a p. 68. 90 Steinmann 1901 (cit. a n. 3), p. 245, e ill. 109. 91 Riguardo al contratto e alla valutazione v. Ettlinger 1965 (cit. a 3), pp. 17-21. Il testo del contratto e della valutazione è pubblicato alle pp. 120-123. 92 In proposito v. Steinmann 1901 (cit. a n. 3), pp. 278s. 93 J. Burckhardt, Der Cicerone, iii, Leipzig-Berlin 19018, p. 660. 94 Tale attribuzione è sostenuta già da Vasari 1878 (cit. a n. 4), iii, p. 187s. In proposito v. Steinmann 1901 (cit. a n. 3), p. 393. 95 Lightbown 1989 (cit. a n. 44), pp. 58s. e tav. 24. 96 Steinmann 1901 (cit. a n. 3), p. 129. 97 Lightbown 1989 (cit. a n. 44), p. 92. 98 V. in proposito Lightbown 1989 (cit. a n. 44), p. 94s. È stata pubblicata da D.A. Covi, con il troppo promettente titolo «Botticelli and Pope Sixtus iv», in The Burlington Magazine, 111 (1969), pp. 616s., una delega di Botticelli a suo nipote Giovanni di Mariano Filipepi, che abitava a Roma, con la quale questo veniva autorizzato a ricevere da papa Sisto iv il denaro non ancora riscosso dal pittore. Possiamo leggere tale delega nel «Notarile antecosimiano», V. 300 (Ser Antonio Vespucci, Atti dal 1478 al 1485), inserto 2, foll. 132r-32v, Firenze, Archivio di Stato. 99 Giovanni de’ Dolci, nel contratto del 27 ottobre
1481, viene nominato come colui che ha assunto i quattro pittori per l’esecuzione di dieci affreschi nella Cappella Sistina. V. Ettlinger 1965 (cit. a n. 3), p. 120. Nella valutazione dei primi quattro affreschi del 17 gennaio 1482 egli compare tra gli «arbitres». Cfr. più sopra n. 33. Secondo Vasari 1878 (cit. a n. 4), ii, p. 647, sarebbe stato Baccio Pontelli l’architetto della Cappella. 100 M. Winner, «Disputa und Schule von Athen», in Raffaello a Roma 1986 (cit. a n. 2), pp. 32-36. A p. 36 l’autore precisa, in modo corretto, le mie osservazioni in tal senso, che cioè: «il pensiero immaginativo originale di Raffaello dell’edificio della Chiesa fatta di pietre vive in cielo si trasformò in un’allegoria dell’edificazione del Corpus Domini, precisamente della Chiesa, il Corpus mysticum costituito da membra vive». «Il Corpus Domini, il pane vivo sull’altare e il corpo divino di Cristo come immagine dell’uomo perfetto in cielo dominano la composizione definitiva, sospingendo, così, l’allegoria architettonica sullo sfondo». 101 Pfeiffer 1875 (cit. a n. 4), pp. 57s., 198. 102 Del tutto fuorviante è il tentativo di interpretazione di una disputa davanti all’imperatrice Elena sostenuto da J. Traeger, «Raffaels Stanza d’Eliodoro und ihr Bildprogramm», in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte, 13 (1971), p. 76 e fig. 36. 103 Ancora una volta risulta errata l’interpretazione come «Profanazione di una chiesa?» di Traeger 1971 (cit. a n. 102), p. 76 e fig. 37. 104 Il Dottore della Chiesa scrive partendo da un passo del Libro del profeta Aggeo (Ag Vulg 2,10): «Haec domus Dei maioris est gloriae, quam fuerat illa prima lignis et lapidibus ceterisque pretiosis rebus metallisque constructa. Non itaque Aggaei prophetia in templi illius instauratione completa est. Ex quo enim est instauratum, numquam ostenditur habuisse tantam gloriam, quantam habuit tempore Salomonis; immo potius ostenditur primum cessatione prophetiae fuisse domus illius gloriam diminutam, deinde ipsis gentis cladibus tantis usque ad ultimum excidium, quod factum est a Romanis, sicut ea, quae supra sunt commemorata testantur. Haec autem domus ad Novum pertinens Testamentum tanto utique maioris est gloriae, quanto meliores sunt lapides vivi, quibus credentibus renovatisque construitur» (Questa casa di Dio ha maggior gloria della prima, costruita con legno, pietre, con altri materiali e metalli preziosi. Quindi la profezia di Aggeo non si è adempiuta con la ricostruzione del tempio. Si rileva che mai, da quando è stato ricostruito, ebbe tanta gloria quanta ne ebbe al tempo di Salomone. Si rileva piuttosto che dapprima la gloria di quella casa diminuì con il cessare della profezia, poi con le grandi sconfitte del popolo giudaico fino all’ultimo sterminio perpetrato dai Romani, come documentano gli avvenimenti sopra ricordati. Invece questa casa, che appartiene alla Nuova Alleanza, è di tanto maggior gloria quanto migliori sono le pietre vive con cui è costruita, cioè uomini nuovi perché hanno la fede) (De Civitate Dei 18,48, in La Città di Dio, ii, intr. A. Trapé, R. Russell, S. Cotta, tr. it. D. Gentili, Roma 1988, p. 746). 105 Vedi le prime tre omelie dei Sermones centum (Migne, pl 177, coll. 901-907): «Singuli lapides sunt singuli fideles, quadri et firmi, quadri stabilitate fidei, firmi virtute patiendi. Caementum est charitas, quae singulos coaptat, conjungit et vivificat; et ne per aliquam discordiam invicem discrepent, uniformiter aequat. Fundamentum sunt prophetae et apostoli... Parietes sunt contemplativi, Christi fundamento, quod superius est, vicini, terrena deserentes, caelestibus adhaerentes. Tectum in hoc spirituali aedificio non sursum eminet, sed deorsum pendet: in hoc ab aedificio materiali diversum, et ab ipso talis dispositionis dissimili modo remotum. Tectum sunt activi, terrenis actionibus proximi, propter suam imperfectionem minus coelestibus intendentes, et necessitati proximorum res terrenas administrantes» (Le singole pietre sono i singoli fedeli, squadrati e ben fermi, squadrati per la stabilità della fede, fermi per la virtù della sopportazione. Il cemento è la carità che adatta insieme i singoli, li unisce e li vivifica; e perché non vi sia dissenso per una qualche discordia, li uguaglia. Le fondamenta sono i profeti e gli apostoli... Le pareti sono i contemplativi, prossimi al fondamento di Cristo, fondamento che è più elevato; essi abbandonano le cose terrene per attaccarsi fortemente alle cose celesti. Il tetto in questo edificio spirituale non sporge sopra, ma pende verso il basso: diverso in questo dall’edificio materiale e lonta-
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no da esso per il modo di questa diversa disposizione. Il tetto sono gli attivi, rivolti alle azioni terrene e, per l’imperfezione della cosa in se stessa, meno dediti alle cose celesti e amministratori delle cose terrene a causa del bisogno dei loro prossimi) (Sermo, i, col. 901). «Habet ergo Ecclesia ista, id est anima, lapides per virtutes, caementum per charitatem, fundamentum per Christum, parietes per contemplationem, tectum per bonam actionem,...» (Questa Chiesa, cioè l’anima, ha, dunque, le pietre per mezzo delle virtù, il cemento per mezzo della carità, le fondamenta per mezzo di Cristo, le pareti per mezzo della contemplazione, il tetto per mezzo delle buone azioni) (Sermo, ii, col. 905). «Habet haec civitas sancta, id est Ecclesia, lapides suos, murum suum, turres suas, aedificia sua, portas suas. Habet lapides, scilicet fideles, qui sicut per caementum lapis jungitur lapidi, sic per charitatem junguntur sibi. Habet murum per munimen virtutum, quibus ipsa contra vitia firmatur, ne vitia irruentia auferant illi spiritualia bona. Habet turres per illos qui sunt in contemplatione sublimes. Quasi namque turres in sancta Ecclesia levantur, dum perfecti quique, relictis terrenis, ad coelestia per contemplationem sublimantur. Habet aedificia minora, habet majora, habet maxima. Minora habet aedificia per vitam conjugatorum, majora per vitam continentium, maxima per vitam virginum...» (Questa santa città, cioè la Chiesa, ha le sue pietre, le sue mura, le sue torri, i suoi edifici, le sue porte. Ha le pietre, vale a dire i fedeli, i quali, come ogni pietra è unita a un’altra pietra per mezzo del cemento, allo stesso modo sono uniti l’uno all’altro per mezzo della carità. Ha le mura a causa della protezione procurata dalle virtù, da cui essa è difesa contro i vizi, affinché i vizi non si introducano dentro e le portino via i beni spirituali. Ha le torri per coloro che si elevano nella contemplazione. Si direbbe infatti che nella santa Chiesa si ergono le torri fintantoché i perfetti, abbandonate le cose terrene, si elevano per mezzo della contemplazione alle cose celesti. Ha edifici più piccoli, più grandi e grandissimi. Ha edifici più piccoli per la vita degli sposati, più grandi per la vita dei temperanti, e grandissimi per la vita delle vergini) (Sermo, iii, coll. 905s.). 106 «... nunc de iis lapidibus qui ad eius structuram pertinebant nonnihil dicamus. Per quos electi omnes, ex quibus militans ecclesia construitur significati sunt: iuxta illud, tamquam lapides vivi superaedificamini in domos spirituales...» (Vat. Lat. 5568, fol. 230r). 107 «Attamen utraque, tum templum, tum corpus Jesu, juxta unam intelligentiam, figura mihi esse videntur Ecclesiae; eo quod haec aedificata sit ex viventibus lapidibus; facta domus spiritualis in sacerdotium sanctum; superaedificata supra fundamentum apostolorum et prophetarum, summo angulari lapide Christo Jesu, revera templum exsistente» (Commentarium in Joannem, 10,20, Migne, pg 14, coll. 369ss.). 108 «Hoc ergo mihi per hanc figuram videtur ostendi quod batilla ista, quae Scriptura nominat aerea, figuram teneant Scripturae divinae. Cui Scripturae haeretici ignem alienum imponentes, hoc est sensum et intelligentiam alienam a Deo et veritati contrariam introducentes, incensum Domino non suave, sed exsecrabile offerunt... Potest autem et alio adhuc modo intelligi, quod de batillis praecipitur peccatorum, ut iungantur et socientur altari. Et primo hoc ipsum, quod aerea dicuntur, non otiosum videbitur. Ubi enim vera fides est et integra verbi Dei praedicatio, aut argentea dicuntur aut aurea, ut fulgor auri declaret fidei puritatem et argentum igni probatum eloquia examinata significet» (Questa figura mi pare che mostri che questi incensieri, che la Scrittura dice essere di bronzo, rappresentano la Scrittura divina. Quando gli eretici immettono nella Scrittura un fuoco estraneo, vale a dire quando introducono un senso e una intelligenza estranea a Dio e contraria alla verità, offrono al Signore un incenso non soave, ma abominevole... Però può anche essere inteso in altro modo il comando di unire e associare all’altare gli incensieri dei peccatori. In primo luogo non sembrerà cosa oziosa il fatto che siano detti di bronzo. Ove, infatti, c’è la vera fede e l’annuncio integro della parola di Dio, vengono detti di argento e di oro, in modo che lo splendore dell’oro manifesta la purezza della fede e l’argento purificato dal fuoco designa i discorsi provati) (Origenes, In Numeros Homilia, ix, ed. W.A. Baehrens, Leipzig 1921[«GCS, 30»], pp. 54s.). 109 «Si enim, ut verbi gratia dicam, ponam dicta Marcionis aut Basilidis aut alterius cuiuslibet haeretici et haec sermonibus veritatis ac scripturarum divinarum
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testimoniis velut divini altaris igne confutem, nonne evidentior eorum ex ipsa comparatione apparebit impietas?... Sed idcirco doctrinam catholicam contradicentium obsidet impugnatio, ut fides nostra non otio torpescat, sed exercitiis elimetur... oportet haereticorum batillis altare circumdari ut certa et manifesta omnibus fiat fidelium atque infidelium differentia. Cum enim fides ecclesiastica velut aurum coeperit refulgere et praedicatio eius ut argentum igni probatum intuentibus resplenderit, tunc maiore cum turpitudine et dedecore haereticorum voces obscuri aeris vilitate sordebunt» (Se infatti, per fare un esempio, vi porrò le parole di Marcione, di Basilide o di qualunque altro eretico e le confuterò con le parole della verità e le testimonianze delle divine Scritture come con il fuoco dell’altare divino, la loro empietà non apparirà, forse, ancora più evidente dello stesso confronto?... Ma l’assalto di coloro che contraddicono stringe d’assedio la dottrina cattolica, proprio perché la nostra fede non si intorpidisca per l’ozio, ma si affini per mezzo dell’esercizio... è necessario che l’altare sia circondato dagli incensieri degli eretici affinché sia certa e manifesta a tutti la differenza tra fedeli e infedeli. Quando dunque la fede della Chiesa comincerà a brillare come oro e la sua predicazione risplenderà agli sguardi come argento provato al fuoco, allora le voci degli eretici appariranno ancora più brutte e vergognose nella poca dignità di un bronzo senza luce) (Origenes, cit. a n. 108, p. 55). 110 «Ista vero, quae dicuntur aerea, in sono tantum vocis consistunt, non in virtute spiritus,...» (Origenes, cit. a n. 109). 111 Non è certo che si conosca il vero ritratto di Botticelli. La maggior parte degli studiosi suppone di scorgere il più prossimo autoritratto del pittore nella persona che sta in piedi, all’esterno, sull’estrema destra nell’Adorazione dei Magi: in tale dipinto sono raffigurati anche i membri della famiglia de’ Medici. Al riguardo v. Lightbown 1989 (cit. a n. 44), p. 69 e la tavola a p. 59. Cfr. anche L’opera completa del Botticelli, a cura di G. Mandel, Milano 1967 («Classici dell’arte, 5»), 83s. e n. 50 a pp. 90s. Si è già supposto di vedere Botticelli anche nella seconda persona da destra nell’affresco della Punizione della banda di Core. In modo ancora più plausibile si può supporre di vedere l’autoritratto del pittore nel giovane che si trova all’estrema destra dell’affresco del Sacrificio di purificazione, dietro a Girolamo Riario. In ogni caso il volto, di profilo, del giovane in piedi sul lato sinistro del dipinto che raffigura la Punizione della banda di Core, corrisponde in modo abbastanza preciso al presunto autoritratto del Botticelli nella citata Adorazione dei Magi. In questa, però, il giovane, in cui viene visto il pittore, guarda fuori dal dipinto. Cfr. anche la n. seguente 112. 112 All’epoca della realizzazione degli affreschi della Cappella era sacrestano Magister Johannes Castellanus, in carica dal 1460. Fino al 1475 a quest’ultimo ufficio era unito anche l’incarico di bibliotecario che allora, per la prima volta, venne affidato da Sisto iv a un laico, e precisamente al Platina. Cfr. A. Rocca Camers, Chronhistoria de Apostolico Sacrario, Romae, apud Guillelmum Faciottum, mdcv, pp. 59, 72-75. Dopo la morte di Johannes Castellanus gli succedette nel 1483 Johannes Paulus Bossius. Steinmann 1901 (cit. a n. 3), pp. 510s., ha ipotizzato di vedere in quella raffigurata un’altra persona, e cioè Pomponius Laetus, mentre nel giovane accanto a lui a sinistra, ha scorto la figura di Alessandro Farnese, suo discepolo, divenuto più tardi papa Paolo iii. R. Harprath, «La formazione umanistica di papa Paolo iii e le sue conseguenze nell’arte romana della metà del Cinquecento», in Roma e l’antico nell’arte e nella cultura del Cinqucento, a cura di M. Fagiolo, Roma 1985, p. 65 e fig. 1 a p. 64, segue ancora questa supposizione. Che non possa trattarsi del maestro di greco del futuro papa, cioè Pomponius Laetus, ma solo di un monaco agostiniano, dunque del sacrestano della Cappella, lo dimostra chiaramente la veste nera, abito dei monaci agostiniani e del sacrestano: «Vestes igitur Sacristae extra divina officia sunt nigri coloris... cum capitio rotundum» («Pertanto, le vesti del sacrestano, fuori degli uffici divini, sono di colore nero... con cappuccio rotondo») (A. Rocca Camers, p. 16). 113 «... Josaphat judicans, Asiongaber lingua viri, id est confessio interpretatur... Cum enim peccator in confessione seipsum judicat, tunc rex Josaphat in Judaea regnat. Ophir vero herbosum interpretatur, herbosa
terra dicitur quae ab aliquo non elaboratur, in qua nascitur abundantia graminis, ut moveat affectum delectationis... Gaber, sicut dicit Hieronymus, juvenis sive fortis interpretatur. Non est igitur mirum si classem confessionis frangat impetus juventutis» (De bestiis et aliis rebus, 1,54, Migne, pl 177, col. 52). 114 «Tharsis interpretatur exploratio gaudii... Classis Salomonis est virtus confessionis... Aurum et argentum in Tharsis esse dicitur, id est viri sapientia clari, eloquentia praediti, qui dum praesentis saeculi gaudium explorant et exquirunt, seipsos cognoscunt. Et dum per classem Salomonis de Tharsis ad Jerusalem veniunt, et aurum purum advehunt, in pace Ecclesiae per confessionem puriores fiunt» (come in nota 113, coll. 51s.). 115 «Columba deargentata est absque felle malitiae quaelibet adhuc vivens praelatorum persona, quae inter medios cleros dormit. Cleros Graece, Latine sors. Unde et cleronomia proprie vocatur haereditas quae defertur ex testamento. Inde contingit ut filii Levi, inter filios Israel non haberent sortem, id est haereditatis partem, sed ex decimis viverent. Duae autem sunt haereditates, terrena Veteris Testamenti, et aeterna Novi. In medio igitur istarum dormit, qui in contemptu terrenorum, et ipse coelestium vitam finit, dum nec nimis ardenter praesentibus inhiat, et futura patienter expectat. Et posteriora ejus in pallore auri» (La colomba argentata è la persona dei prelati priva di ogni fiele di malizia e ancora vivente, la quale dorme tra i chierici. Chierici in greco, parte [sorte] in latino. Donde viene detta anche cleronomia propriamente l’eredità che è trasferita per testamento. Avvenne così che i figli di Levi, tra i figli di Israele, non ebbero alcuna sorte, cioè alcuna parte di eredità, ma vivevano delle decime. Due sono pertanto le eredità: le cose terrene nell’Antico Testamento, quelle eterne nel Nuovo. Dunque, dorme in mezzo a queste colui che, nel disprezzo delle cose terrene, limita la sua vita alle cose celesti, mentre non aspira con troppo ardore alle cose presenti e aspetta pazientemente le cose future, che rifulgono del chiarore dell’oro) (De bestiis et aliis rebus, 1,4, come cit. a n. 113, col. 17). 116 «De qua columba hic agitur, rubros pedes habere perhibetur. Haec columba est Ecclesia, quae pedes ha buit, quibus totius mundi spatium perambulavit. Pedes sunt martyres... Alarum colorem non reperi scriptum, sed ex similitudine materialis columbae potest assignari, ut si columbam pictam respicias, colorem materialis columbae eam habere non contradicas. Alarum enim superficies sapphirino colore superfunditur, quia coeli speciem animus contemplantis imitatur. Sed color sapphirinus candidis lineis distinguitur, ut sapphirino colore niveus misceatur. Color enim niveus sapphirino mistus designat munditiam carnis et amorem contemplationis... Color reliqui corporis imitatur colorem turbati maris. Mare motu fluctuum saeviens ebullit. Caro motu sensuum ebulliens saevit. Mare perturbationis suis arenas movet et sublevat... Marinus igitur color in pectore columbae tribulationem designat in humana mente» (Si tratta qui della colomba che si dice che abbia i piedi rossi. Questa colomba è la Chiesa: suoi furono i piedi coi quali essa ha camminato attraverso tutto lo spazio del mondo. I suoi piedi sono i martiri... Non si trova scritto il colore delle ali, ma esso può venire attribuito dal confronto con la colomba naturale, in modo che se tu guardi una colomba dipinta, non abbia a contraddire dicendo che essa non ha il colore della colomba naturale. Infatti la superficie delle ali è ricoperta del colore dello zaffiro, poiché l’anima di colui che contempla uguaglia l’aspetto del cielo. Ma il colore dello zaffiro si distingue per le linee candide, in modo che il colore bianco niveo si mescola con il colore dello zaffiro. Infatti il colore niveo mescolato con quello dello zaffiro indica la purezza della carne e l’amore della contemplazione... Il colore del resto del corpo imita il colore del mare agitato: il mare che ribolle e infuria per il moto dei flutti. La carne, per l’impulso dei sensi, infuria come in ebollizione. Il mare in tempesta smuove e solleva la sabbia... Dunque il colore del mare sul petto della colomba indica il tormento della mente umana) (De bestiis et aliis rebus, 1,7,10, come cit. a n. 113, coll. 18s.). 117 Su una gamba dei calzoni si può leggere il motto «tout à droit». Al riguardo v. Steinmann 1901 (cit. a n. 3), p. 530 e fig. 243. 118 «Oculi enim justorum videbunt regem in decore suo. Tunc enim aurum in posterioribus habebis, cum apparuerit in futuro gloria divinae majestatis. Coro-
nae siquidem regum ex auro purissimo fabricantur, ex argento vero monetae fiunt, quibus imagines regum imprimuntur. In moneta notatur imitatio formae, in corona signum victoriae. Moneta siquidem divini eloquii docet imitatione vitae Christi, corona vero victoriae... Ibi igitur quasi in posterioribus aurum, hic in pennis praedicationis argentum, quia cum ad illa dona columba pervenerit, jam praedicationis eloquio non indigebit, sed in eo quod pro retributione percipiet, in puritate perfectionis sine fine vivet» (come cit. a n. 115, coll. 17s.). 119 «In moneta notatur imitatio formae...» (come cit. a n. 118). 120 «Mare terminos suos egrediens...» (come cit. a n. 116, col. 19). 121 Maria, nell’affresco del Giudizio Universale, si volge a Cristo come Eva nei confronti del suo Creatore nel dipinto della volta di Michelangelo, dipinto che, del resto, occupa esattamente il centro della volta della Sistina. Maria come nuova Eva, come nuova Madre di tutti i viventi e sposa: questa tematica può trovare il suo punto di appoggio nel sermone dell’Immacolata di Francesco della Rovere, da noi citato precedentemente (cfr. n. 32), nel quale possiamo leggere: «Nonne Genesis capitulo primo dictum est ‘Fiat lux’, et facta est lux illa sancta et immaculata que lucet in tenebris, sine qua factum est nihil, que divinum illum solem nobis peperit in terris a quo salvatum fuit genus humanum? Hec est illa Eva que de viri costa assumpta fuit. Nam Eva vita interpretatur, ut viventium mater, gloriosa domina sancta Maria vere vita est peccatorum, et omnium sperantium in ea pia auxiliatrix mater...» (Non è forse detto nel primo capitolo della Genesi ‘Sia la luce’ e non venne forse creata così quella luce santa e immacolata che splende nelle tenebre, senza la quale nulla è stato fatto e che ha generato a noi quel sole divino in terra dal quale il genere umano fu salvato? Essa è quella Eva che fu tratta dal costato dell’uomo: infatti, Eva significa vita, come madre dei viventi, la gloriosa signora santa Maria è veramente vita per i peccatori, e pia madre ausiliatrice di tutti coloro che sperano in lei...) (Francesco della Rovere, L’Orazione della Immacolata, come cit. a n. 32, pp. 77ss.). A proposito di Eva come «tipo» di Maria nella Cappella Sistina v. E. Guldan, Eva und Maria, Graz-Köln 1966, pp. 53ss. 122 «... tibi, inquam, non tantum ad praesens columbam, sed etiam accipitrem pingam. Ecce in eadem pertica sedent accipiter et columba. Ego enim de clero, tu de militia ad conversionem venimus, ut in regulari vita quasi in pertica sedeamus, et qui rapere consueveras domesticas aves, nunc bonae operationis manu silvestres ad conversionem trahas, id est saeculares» (De bestiis et aliis rebus, «Prologus», come cit. a n. 113, coll. 13s.). 123 «Duae sunt species accipitrum, domesticus scilicet et silvester, iidem tamen sunt. Sed diversis temporibus potest esse silvester et domesticus. Silvester rapere consuevit domesticas volucres, et domesticus silvestres. Silvester quas rapit continuo devorat, domesticus captas domino suo relinquendas servat... Domesticus vero accipiter est spiritualis pater, qui toties silvestres volucres rapit, quoties saeculares ad conversionem praedicando trahit. Captas occidit, dum saeculares mundo mori per carnis mortificationem cogit» (Due sono le specie di falchi: quello domestico e quello selvatico. Tuttavia essi sono i medesimi, anche se in momenti diversi uno può essere selvatico e poi domestico. Quello selvaggio è solito rapire i volatili domestici, e quello domestico i selvatici. Quello selvatico divora subito ciò che ha rapito, quello domestico conserva nella sua casa parte di ciò che ha preso... In verità il falco domestico è il padre spirituale che quante volte rapisce uccelli selvatici, altrettante volte con la predicazione trae a conversione uomini mondani. Egli uccide le prede, inducendo gli uomini mondani a morire al mondo attraverso la mortificazione della carne) (De bestiis et aliis rebus, 1,14, come cit. a n. 113, coll. 21s.). 124 «... perdix... avis est dolosa, adeo autem fraudulenta, ut alterius ova diripiens foveat. Sed fraus fructum non habet. Nam cum pulli vocem proprie genitricis audierint, naturali quodam instinctu hanc, quae eos fovit relinquunt, et ad eam, quae genuit, revertuntur... Perdix vero illa cujus ova diabolus furatur, Ecclesia procul dubio intelligitur... cum aliquis diabolo subjectus fuerit, et vocem ecclesiasticae praedicationis audit, ad Ecclesiam quasi ad genitricem propriam relicto diabolo transvolat...» (... la pernice... è un uccel-
lo ingannatore, così tanto fraudolento che cova le uova di un altro dopo averle rubate. Ma la frode non porta frutto. Infatti quando i piccoli hanno udito la voce della loro madre per un certo istinto naturale abbandonano colei che li ha covati e fanno ritorno a quella che li ha generati.... In verità con quella pernice alla quale il diavolo ruba le uova si intende senza dubbio la Chiesa... quando qualcuno è soggetto al diavolo e sente la voce della predicazione della Chiesa, abbandonato il diavolo, come volando passa rapidamente alla Chiesa come alla propria genitrice…) (De bestiis et aliis rebus, 1,50, come cit. a n. 113, col. 49). 125 «Hirundo cibos residens non sumit, sed in aere haerens escas edit... Hirundo ab aliis avibus non impetitur, nec unquam praeda est; rapaces enim aves nunquam hirundinem rapiunt, quia contriti corde nunquam daemonibus praeda fiunt... Revertitur hirundo post frigus hiemis, ut annuntiet initium veris. Similiter justus post frigus nimiae tentationis revertitur ad temperantiam moderatae mentis, ut qui frigus tentationis evaserat, ad aestatem, id est dilectionis calorem moderate per ascensus boni operis accedat. Haec est igitur natura hirundinis, id est animae poenitentis, quae semper quaerit veris initium, quia in omnibus tenet discretionis et temperantiae modum» (La rondine non prende cibo stando ferma, ma assume gli alimenti rimanendo in aria... La rondine non viene assalita dagli altri uccelli, né è mai preda degli altri; gli uccelli rapaci infatti non ghermiscono mai la rondine, poiché coloro che sono contriti nel cuore non diventano mai preda dei demoni... La rondine ritorna dopo il freddo dell’inverno, per annunziare l’inizio della primavera. In modo simile il giusto, dopo il rigore di una tentazione troppo forte, ritorna alla temperanza propria di una mente ferma e saggia, in modo che colui che è uscito dal freddo della tentazione giunga all’estate, cioè al calore dell’amore con moderazione, salendo i gradini delle buone opere. Questa è, dunque, la natura della rondine, cioè dell’anima penitente, che cerca in continuazione l’inizio della primavera, poiché in ogni cosa non oltrepassa il confine della discrezione e della temperanza) (De bestiis et aliis rebus, 1,41, come cit. a n. 113, coll. 42s.). 126 «Avis est spurcissima... semper in sepulcris, et humano stercore commorans. Unde Rabanus: ‘Haec avis sceleratos peccatores significat homines, scilicet qui sordibus peccatorum assidue delectantur’. Upupa etiam luctum amare dicitur, quia saeculi tristitia mortem spiritus operatur» (Questo uccello è immondo... dimora nei sepolcri e nello sterco umano. Per cui Rabano dice: ‘Questo uccello è simbolo degli uomini empi e peccatori, che cioè trovano piacere assiduamente nelle sozzure dei peccati’. Si dice che l’upupa ami anche il pianto del lutto, poiché la tristezza del mondo produce la morte spirituale) (De bestiis et aliis rebus, 1,52, come cit. a n. 113, col. 50). 127 H. e M. Schmidt, Die vergessene Bildersprache christlicher Kunst, München 1981, p. 33. In un manoscritto della Germania meridionale il cardellino viene messo a paragone con il vecchio Simeone che preannunzia a Maria la sua condivisione dolorosa della passione di suo figlio: «hie singet auch ein vogelin genant ein distelfinck. Daz war der liebe alte her Symeon do im daz heile aller der welt bracht wart in den tempel» (Qui canta anche un uccellino chiamato cardellino. Esso è come l’amore del vecchio Simeone che aspettava nel tempio colui che era la salvezza di tutto il mondo) (Der lüstliche Würtzgarte, ms. Germ. Oct. 515, fol. 6r). A proposito di questo manoscritto v. H. Dedering, Kurzes Verzeichnis der germanischen Handschriften in Oktavformat, Leipzig 1932 (ristampa, Graz 1970), p. 176. 128 «Columba super aquas sedere saepissime solet, ut cum viderit umbram supervenientis accipitris fugiens declinet. Ecclesia vero scripturis se munit, ut insidiantis diaboli fraudes evitare possit. Haec igitur columba croceos oculos habet, quia Ecclesia matura consideratione futuros casus ostendit, et providet. Color itaque croceus in oculis discretionem designat maturae considerationis, dum enim aliquis agat, vel quid cogitet mature considerat, quasi croceo spirituales oculos adornat. Habet enim crocus colorem maturi fructus. Croceus igitur oculus est maturitas sensus» (La colomba è solita posarsi presso delle fonti d’acqua, in modo che può fuggire non appena ha visto l’ombra di un falco che sta sopraggiungendo. Anche la Chiesa si premunisce con le Scritture per poter evitare gli inganni del diavolo che tende insidie. Dunque questa colomba ha occhi color croco, perché la Chiesa con matu-
ra ponderazione ha davanti agli occhi gli eventi futuri e vi provvede. Il color croco agli occhi indica, pertanto, la distinzione proveniente da matura considerazione: infatti, quando qualcuno agisce o pensa qualcosa con una matura ponderazione, questi adorna come di croco gli occhi spirituali. Infatti il croco ha il colore del frutto maturo. Dunque l’occhio color croco è la maturità di pensiero e di giudizio) (De bestiis et aliis rebus, 1,9, come cit. a n. 113, col. 19). 129 Riguardo a questa tematica cfr. il cap. 3 del Libro del profeta Osea. 130 «Palma victoriae signum est illius belli, quod inter se caro et spiritus gerit» (Origenes, In Exodum Homilia, ix, Leipzig 1920 [«GCS, 29»], p. 244). 131 «Jam palma crevit in altum. Jam cacumen illius penetravit coelum. Jam cum capite comae, quae sunt elatae palmarum, id est electae animarum» (De bestiis et aliis rebus, 1,22, come cit. a n. 113, col. 24). 132 «Cypressus», in Sylva Allegoriarum (come cit. a n. 22), i, fol. 267r. 133 «... arbor autem populus et salix tam virtute quam nomine virgulta sunt castitatis» (Origenes, come in nota 130). Su questa tematica v. H. Rahner, «Die Weide als Symbol der Keuschheit in der Antike und im Christentum», in Zeitschrift für katholische Theologie, 56 (1932), pp. 231-253. 134 Immensu(m) Salomo templum tu hoc quarte sacrasti sixte opibus dispar religione prior. (Tu, Sisto iv, inferiore a Salomone in quanto a ricchezze, ma superiore a lui in quanto a religiosità, consacrasti questo tempio immenso). Su questa iscrizione v. Steinmann 1901 (cit. a n. 3), p. 333; Ettlinger 1965 (cit. a n. 3), p. 91. 135 Cfr. Calvesi 1980 (cit. a n. 30), p. 58. 136 Questa comparazione viene fatta espressamente nell’Orazione della Immacolata: «Salamon, Regum lib. 3° cap. 5°, rex ille magnus et sapiens (fecit) templum magnum et speciosum de lapidibus dolatis atque perfectis, habens fenestras obliquas, tabulatum per gyrum cum laquearibus cedrinis; quod cum edificaretur maleus et securis et alia ferramenta non sunt audita. Quis dubitat verum templum Domini esse solam Virginem gloriosam? In cuius carne sanctissima et vase Domini purissimo et preparato Dei habitaculo non adfuisse opus malleorum, id est contagio peccatorum, firmiter tenendum est» (Salomone, terzo Libro dei Re, cap. 5, quel re grande e sapiente, costruì un grande tempio e magnifico con pietre ben sgrossate e perfette; esso aveva finestre oblique, attorno un tavolato fatto con assi di cedro; mentre veniva edificato non si udì colpo di martello o di scure o di altre arnesi di ferro. Chi dubita che vero tempio del Signore sia la sola Vergine gloriosa? Si deve ritenere in modo fermo che nella sua carne santissima, vaso purissimo del Signore e dimora preparata per Dio, non comparve opera di martelli, cioè, non vi fu alcun contatto con peccati) (come cit. a n. 32), p. 85. 137 «... quaerendum nobis est quid significet trina emissio columbae et bina reversio. Tres emissiones tria tempora significant: primum ante Legem, secundum sub Lege, tertium sub gratia. In hoc vero loco Noe Deum, arca autem coelestem Dei habitationem designat. Noe primo columbam ex arca emisit; quia Deus omnipotens sanctis viris, qui ante Legem fuerunt, gratiam Spiritus Sancti dedit: et qui Legem non habebant, divina praecepta, quae postea data sunt, per donum Spiritus Sancti impleverunt. Sed columba non invenit ubi pes eius requiesceret; quia non solum caetere gentes, sed et ipsi Judaei in Aegypto positi in tantum culturam Dei reliquierunt, ut eo tempore quo Moyses natus est, pene nullus inveniretur in quem Spiritus Sanctus habitare dignaretur: et quodammodo gratia Spiritus Sancti ad eum rediit, a quo missa est, cum homines peccatores deseruit. Secundo emisit Noe columbam ex arca; quia Deus gratiam Spiritus Sancti hominibus Legem puro corde servantibus dedit. Vespere autem quo columba ad Noe rediit, tempus quo Christus natus est designat... Tertio Noe columbam ex arca emisit, quando fidem Evangelii servantibus gratiam Spiritus Sancti dedit. Quae non est reversa ultra ad eum; quia fides Evangelii tamdiu cum electis manebit, usque dum veniente Domino ad judiciam, electi qui in hoc mundo invenientur, rapientur coram Domino in aëra, et sic semper cum Domino erunt» (... dobbiamo cercare cosa significhi il triplice invio della colomba e il duplice ritorno. I tre invii significano tre epoche: la prima è quella prima della Legge, la seconda sotto la Legge, la terza sotto la Grazia. In verità, in questo passo Noè significa Dio, l’arca, invece, designa
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l’abitazione celeste di Dio. Noè inviò una prima volta la colomba dall’arca, come Dio onnipotente diede lo Spirito Santo a uomini santi che vissero prima della Legge, e, per dono dello Spirito Santo, coloro che non avevano la legge adempirono i precetti divini, che furono poi dati in seguito. Ma la colomba non trovò un posto dove il suo piede potesse posarsi; infatti non solo gli altri popoli, ma gli stessi Ebrei, sistematisi in Egitto, abbandonarono così tanto il culto di Dio che, al tempo in cui nacque Mosè, non si trovava quasi nessuno che fosse degno di essere abitato dallo Spirito Santo, e in un certo modo la grazia dello Spirito Santo fece ritorno a colui dal quale essa era stata inviata, poiché essa abbandonò gli uomini peccatori. Noè inviò la colomba una seconda volta dall’arca: infatti Dio diede la grazia dello Spirito Santo a coloro che osservavano la Legge con cuore puro. Noè inviò ancora la colomba verso sera, cioè, quando Dio diede la grazia dello Spirito Santo a coloro che osservavano la fede del Vangelo. Questa volta essa non ritornò più da lui: infatti la fede evangelica perdurerà tanto a lungo con gli eletti fino alla venuta del Signore per il giudizio: in quel momento gli eletti che verranno trovati in questo mondo saranno rapiti e portati in cielo alla presenza del Signore e rimarranno con lui per sempre) (come cit. a n. 34, coll. 815s.). 138 Tra l’altro la colomba con le ali spiegate dipinta da Michelangelo nell’affresco del Diluvio Universale corrisponde perfettamente alla colomba dell’affresco del Battesimo di Gesù di mano del Perugino. 139 «De hoc tempore Dominus dicit in Evangelio: ‘Lex et prophetae usque ad Joannem (Lc 16,16)’; quia postquam Evangelium coepit praedicari, circumcisio et multae observationes legales nihil profuerunt. Quamdiu Legis observatio Deo placuit, tamdiu homines Legem servantes Spiritus Sancti gratia comitavit: et sicut columba ad vesperam ad Noe rediit, ita et Spiritus Sancti gratia Judaeos infideles deserens, quodammodo ad eum a quo fuerat missa reversa est» (Riguardo a questo tempo il Signore dice: ‘La Legge e i Profeti fino a Giovanni [Lc 16,16]’; infatti dopo che il Vangelo ha cominciato a essere predicato, la circoncisione e le molte prescrizioni della Legge non giovarono più a nulla. Fin quando l’osservanza della Legge piacque a Dio, la grazia dello Spirito Santo accompagnò gli uomini che osservavano la Legge; e come la colomba tornò verso sera da Noè, così anche la grazia dello Spirito Santo, abbandonando gli Ebrei infedeli, in un certo modo fece ritorno a colui dal quale era stata mandata) (come cit. a n. 34, col. 816). 140 «... docemur ex lege quia nemo licite nec legitime utatur fructibus, quos terra produxit, nec animantibus, quae pecudum protulit partus, nisi ex singulis quibusque Deo primitiae, id est sacerdotibus, offerantur. Hanc ergo legem observari etiam secundum litteram, sicut et alia nonnulla, necessarium puto; sunt enim aliquanta legis mandata, quae etiam novi testamenti discipuli necessaria observatione custodiunt. Et si videtur, prius de his ipsis, quae in lege quidem scripta, sed tamquam in evangeliis observanda sint, sermo moveatur, et cum haec patuerit, tunc iam quid in his etiam spiritualiter sentiri debeat, requirimus... Quia
ergo et circumcisio sub legis titulo censetur, lex autem ‘umbra’ est, quaero, quid circumcisionis ‘umbra bonorum’ contineat ‘futurorum’, ne forte dicat mihi in umbra circumcisionis posito Paulus: ‘quia, si circumcidamini, Christus vobis nihil proderit’ et ‘non enim, quae in manifesto in carne est circumcisio, illa circumcisio est; neque qui in manifesto in carne Iudaeus est, sed qui in occulto Iudaeus, et circumcisio cordis in spiritu, non littera, cuius laus non ab hominibus, sed ex Deo est’. Haec ergo singula, quae nequaquam penitus secundum litteram observanda dicit Apostolus, invenies omnia fere apud Moysen sub legis titulo designari. Iam vero in eo, ubi dicit: ‘non occides, non adulterium facies,...’ magis haec mandata videntur; et ideo non exinanitur... quia, ut dixi, non mandatum, sed ‘lex habere’ dicitur ‘umbram futurorum bonorum’... Ostendimus ergo esse quaedam, quae omnino non sunt servanda secundum litteram legis et esse quaedam, quae allegoria penitus immutare non debet...» (... la legge ci insegna che nessuno fruisce in maniera lecita e legittima dei frutti della terra, né degli animali generati dal parto del bestiame se di tutto questo non offre a Dio, cioè ai sacerdoti, le primizie. Io ritengo, pertanto, che sia necessario osservare queste prescrizioni anche secondo la lettera, come avviene per parecchie altre; ci sono infatti dei comandamenti della Legge che i discepoli del Nuovo Testamento custodiscono con la necessaria osservanza. E se sembra bene, teniamo prima il discorso riguardo alle cose che sono scritte nella Legge, ma che sono da osservarsi anche secondo gli Evangeli, e quando questo sia stato chiarito, ricercheremo anche quale senso spirituale sia da trovare in esse... Poiché la circoncisione è posta sotto il titolo di legge, mentre la Legge, poi, è ‘ombra’, io mi domando quale ‘ombra dei beni futuri’ sia contenuta nella circoncisione, affinché, per caso, a me posto nell’ombra della circoncisione, Paolo non dica: ‘Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla’ e ‘La circoncisione non è quella visibile, nella carne, né è Giudeo chi lo è visibilmente nella carne, ma colui che lo è nel segreto è Giudeo, e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera, alla quale la lode non proviene dagli uomini, ma da Dio’. Queste singole disposizioni, che l’Apostolo dice che non devono essere osservate neppure secondo la lettera, le troverai quasi tutte designate da Mosè sotto il titolo di legge. Ma quando qui dice: ‘non uccidere, non commettere adulterio, non rubare...’ sembrano piuttosto comandamenti; dunque non è annullata... poiché, come ho detto, non il comandamento, ma si dice che ‘la Legge possieda l’ombra dei beni futuri...’ Abbiamo dunque mostrato che ci sono prescrizioni che non devono affatto essere osservate secondo la lettera della Legge e che ce ne sono altre che l’allegoria non deve mutare del tutto...) (Origenes, come cit. a n. 108, pp. 75-77). 141 «Proinde vocem nunc agnoscimus eius impleri, qui loquebatur in Psalmo atque dicebat: ‘Annuntiavit et locutus sum, multiplicati sunt super numerum (Ps. 39,6)’. Hoc fit nunc, ex quo primum per os praecursoris sui Ioannis, deinde per os proprium annuntiavit et locutus est dicens: ‘Agite paenitentiam, appropinquavit enim regnum caelorum’ (Mt 3,2; 4,17). Elegit
discipulos, quos et Apostolos nominavit, humiliter natos, inhonoratos, illetteratos, ut, quidquid magnum essent et facerent, ipse in eis esset et faceret. Habuit inter eos unum, quo malo utens bene et suae passionis impleret dispositum et Ecclesiae suae tolerandorum malorum praeberet exemplum. Seminato, quantum per eius oportebat praesentiam corporalem, sancto Evangelio passus est, mortuus est, resurrexit, passione ostendens quid sustinere pro veritate, resurrectione quid sperare in aeternitate debeamus, excepta altitudine sacramenti, qua sanguis eius in remissionem fusus est peccatorum. Conversatus est in terra quadraginta dies cum discipulis suis atque ipsis videntibus ascendit in caelum et post dies decem misit promissum Spiritum Sanctum...» (Perciò avvertiamo che si adempie la parola del salmista il quale diceva: ‘Ho annunziato e proclamato: sono aumentati al di là di ogni numero’, Sal 39[40],6. Questo avviene ora, da quando, prima con la parola del suo precursore Giovanni, poi con la sua parola, annunziò e proclamò: ‘Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino’ Mt 3,2; 4,17. Elesse Discepoli che denominò anche Apostoli, nati da umile gente, senza cariche, senza cultura, affinché tutto ciò che fossero e operassero di grande, egli stesso lo fosse e lo operasse in loro. Fra di essi ve ne fu uno cattivo affinché egli, usandone bene, raggiungesse quanto era disposto per la sua passione e offrisse alla sua Chiesa l’esempio di sopportare i malvagi. Sparso il seme del Vangelo mediante la sua presenza corporale, subì la passione e la morte e risuscitò, mostrando con la passione ciò che dobbiamo sopportare per la verità, con la risurrezione ciò che dobbiamo sperare nell’eternità, a parte la sublimità del mistero del suo sangue sparso per la remissione dei peccati. Si trattenne con i suoi discepoli per quaranta giorni, alla loro presenza salì al cielo e dopo dieci giorni mandò lo Spirito Santo che aveva promesso...) (De Civitate Dei, come cit. a n. 104, p. 748). 142 Cfr. più sopra n. 104. 143 «Sed ideo per instaurationem templi illius significata est, quia ipsa renovatio illius aedificii significat eloquio prophetico alterum Testamentum, quod appellatur Novum. Quod ergo Deus dixit per memoratum prophetam: Et dabo pacem in loco isto [Ag Vulg 2,10], per significantem locum ille, qui eo significatur, intelligendus est; ut quia illo loco instaurato significata est Ecclesia, quae fuerat aedificanda per Christum,...» (Per questo è stata simboleggiata con la ricostruzione del tempio, perché la rimessa a nuovo di quell’edificio simboleggia nel linguaggio profetico l’altra Alleanza che è detta nuova. Dunque, nelle parole che Dio rivolge mediante il Profeta citato: Darò la pace in questo luogo [Ag Vulg 2,10], mediante il luogo che simboleggia si deve intendere il luogo che ne è simboleggiato. E poiché nel tempio ricostruito è stata simboleggiata la Chiesa, che doveva essere costruita da Cristo...) (come cit. a n. 104). 144 Cfr. Ettlinger 1965 (cit. a n. 3), pp. 5s. e n. 2. 145 Cfr. più sopra le nn. 30 e 57.
Parte seconda Questa parte corrisponde a un ciclo di lezioni che ho tenuto, nel secondo semestre del 1987, alla Facoltà Teologica della Pontificia Università Gregoriana. Ho esposto i medesimi concetti e idee in una serie conferenze tenute agli Istituti di Storia dell’Arte delle Università di Heidelberg e di Francoforte sul Meno nell’estate dello stesso anno, sottolineando in modo particolare quanto mi sembra rilevante riguardo al nesso tra gli affreschi di Michelangelo e il patrimonio di idee e di concetti risalenti a Gioacchino da Fiore. I recenti volumi La Cappella Sistina. i: La preistoria della Bibbia; ii: Gli antenati di Cristo; iii: La storia della creazione; iv: Il Giudizio Universale, intr. di F. Hartt, comm. di G. Colalucci, note sul restauro di F. Mancinelli, fotogr. di T. Okamura, Milano-Tokyo 1989-1995, riproducono gli affreschi di Michelangelo nel loro originario sfarzo cromatico riportato alla luce dalla recente pulitura e dal restauro, che hanno reso possibile in modo specifico la descrizione e l’indagine sul contenuto e su tutti i particolari dei dipinti. D’ora in poi mi riferisco a essi con l’abbreviazione Sistina i, ii, iii, iv. Cfr. anche R. Richmond, Michelangelo und die Sixtinische 1
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Kapelle, Freiburg im Breisgau 1993. Francesco della Rovere 1985 (cit. a n. 32 parte i). 3 Per i nomi biblici viene qui usata la grafia della traduzione latina Vulgata in ampia concordanza con i «tituli» riportati nella Cappella. 4 Malcolm Bull, «The Iconography of the Sistine Chapel Ceiling», in The Burlington Magazine, 130 (1988), pp. 597-605. 5 «Sed forte mouet sponse mysterium, cum Christus filius sit uirginis matris? Nolo (ut) te istud moueat: filius Christus et sponsus est. In isto denique mysterio typum patris gerit Habraam: typum filii Isaac sponsus Rebecche, Rebecca ipsa matris ecclesie. In altero uero hoc est in mysterio Ade. Adam ipse typum patris, Eua ecclesie, Abel Christi. Si autem accipiuntur soli Adam scilicet et Eua, Christum significant et ecclesiam. Mater ergo Christi ecclesia: et nihilominus sponsa Christi ecclesia» (Joachim von Fiore, Concordia Novi ac Veteris Testamenti, Venetiis, Per Simonem de Luere, 1519 [st. anast. Frankfurt am Main 1964], fol. 31r). Le citazioni sono tratte da questa edizione, poiché l’edizione critica dei primi quattro libri della 2
Concordia in E.R. Daniel, Abbot Joachim of Fiore. Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti, Philadelphia 1983 («Transactions of the American Philosophical Society 73 [1983], part. 8»), non mi è stata accessibile. Cfr. Bull (cit. a n. 4 parte ii), n. 12. 6 Riguardo la Concordia Novi ac Veteris Testamenti v. Johannes Chrysosthomus Huck, Joachim von Floris und die joachitische Literatur, Freiburg im Breisgau 1938, pp. 133-144. Cfr. anche H. Grundmann, Ausgewählte Aufsätze. Teil 2. Joachim von Fiore, Stuttgart 1977, («Schriften der Monumenta Germaniae Historica, 25,2»), pp. 403-420. 7 «Moyses... significat Christum, relicta terra Egypti transiit in desertum: et utique ut testatur ipsemet interfecto Egyptio ad passionem unigeniti Dei referendum est, et horam mortis eius qua transiit ex hoc mundo ad patrem» (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii], fol. 31v). 8 Cfr. «La teologia espressa negli affreschi della Sistina», i (come cit. a n. 1 parte ii), p. 28. 9 Cfr. Bull 1988 (cfr. n. 4 parte ii), pp. 599s. Il contributo più importante sulla geneologia di Gesù nella
Cappella Sistina è in E. Wind, The religious symbolism of Michelangelo.The Sistine Ceiling, ed. by E. Sears, Oxford 2002, pp. 90-112. L’autore tuttavia non riconosce ancora l’influsso di Gioacchino da Fiore. 10 Cfr. Bull 1988 (cfr. n. 4 parte ii), p. 599. 11 V. «Petri Galatini Minoritae... de ecclesia destituta, opus...», Bibliotheca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 5568, fol. 9vf., 19r. Su Pietro Galatino v. Sistina i, n. 7. Consigliere teologico di Michelangelo viene considerato questo francescano, piuttosto che il domenicano Sante Pagnini, come riteneva Wind. Cfr. da ultimo Wind 2002 (cfr. n. 9 parte ii), pp. 6-22. 12 Sulla teoria delle diverse epoche cfr. Huck 1938 (cfr. n. 6 parte ii), pp. 232-241, e soprattutto B. McGinn, The Calabrian Abbot. Joachim of Fiore in the History of Western Thought, New York 1985, pp. 108, 112s., 147-153. 13 Illustrazione in Sistina ii, pp. 22s. Queste copie degli affreschi delle lunette distrutte nel 1535-1536, vennero incise per iniziativa di W.Y. Ottley per il volume Italian School of Design, London 1823. I modelli originali per le incisioni, che riproducono gli affreschi con molta precisione, sono andati perduti. Cfr. infra. 14 Cfr. Bull 1988 (cfr. n. 4 parte ii), p. 600. 15 Illustrazioni in Sistina i, pp. 205, 207; A. von Euw, «Das Programm der Sixtina», in Michelangelo und die Sixtina, Kommentarheft zur Faksimileausstellung der Schweizerischen Kreditanstalt, Zürich 1992, p. 20 e schema a p. 34. 16 «Quod vel Adam expulsus est de paradiso, vel Ozias de templo pro peccatis suis: preter illud quod diximus de domino Iesu, qui reputatus est cum iniquis pro similitudine carnis peccati, significabat Iudeorum populum expellendum de loco sancto pro reatibus suis» (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii], fol. 24v). Cfr. Bull 1988 (cfr. n. 4 parte ii), p. 599. 17 Concordia (come cit. a n. 5 parte ii), fol. 8v. Cfr. in proposito McGinn 1985 (cfr. n. 12 p. II), p. 113. 18 Cfr. Bull 1988 (cfr. n. 4 parte ii), pp. 599s. 19 Cfr. F. Mancinelli, in Sistina ii, p. 223: «Michelangelo... disegnò – dipingendo o meglio dipinse – disegnando, usando il colore con la stessa abilità con cui maneggiava i suoi attrezzi da scultore». 20 Cfr. F. Hartt, in Sistina ii, pp. 6, 42-46, ill. a pp. 43s. Le traduzioni latine dei nomi ebraici si trovano in Hieronymus, Liber interpretationis hebraicorum nominum, ed. P. de Lagarde, ccsl, lxxii, p. 59-161. Cfr. Wind 2002 (cfr. n. 9 parte ii), pp. 93s. e n. 11. 21 Cfr. Sistina i, pp. 144s. 22 «Quod autem tres generationes pro uno accipiendas esse dicimus, non discordat a sacro mysterio sancte et indiuidue Trinitatis» (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii], fol. 8v). 23 «Ut autem larga mysteria filiorum Jacob reducamus ad summam. Joseph quem designare dicimus Spiritum Sanctum, descendit in Egyptum: quoniam Spiritus Sanctus supervenit in Uirginem que erat de populo Iudeorum. Natus est in eadem terra Manasses ex Ioseph: quoniam conceptus est Filius Dei de Spiritu Sancto ex Maria Uirgine, et factus est homo in spiritu uiuificante» (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii], fol. 31v.). 24 «Joseph descendit in Egyptum, quoniam Spiritus Sanctus descendit in populo Iudeorum, loquens multo tempore per prophetas. Manasses filius eius natus est in Egypto: quoniam homo Christus Iesus in popolo Iudeorum. Moyses famulus Domini, qui pari mo-
do significat Christum, egressus de terra Egypti, ingressus in desertum: quoniam Christus relicta Iudea in membris suis pervenit ad gentes. Quadraginta anni quibus moratus est in deserto, tempus designant, plenitudinis gentium. Anno quadragesimo defecit Moyses, et substitutus est Iosue: quoniam ut alterum tangam mysterium, completa generatione hac quadragesima, que agitur nunc, commutandus est status iste ecclesie de Lya in Rachel, de uerbi eloquentia ad spiritualem intellectum: de frondium pulchritudine ad suauitatem pomorum». (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii], fol. 31v). 25 «Nam et sub lege fieri uoluit et ex femina nasci, et a Joanne baptizari, et propriis subditis ministrare. Factus est enim seruus, ut eos per gratiam suam a legis redimeret servitute. Natus est ex muliere, ut nos efficeret natos Dei. Baptizatus est aqua, ut nos renasceremur ex spiritu. Sibi ipsi carnem uniuit, ut nos Sancto Spiritu spiritualiter uniremur. Humiliavit semetipsum usque ad terram: ut nos exaltatos sublevaret ad celos... Suscepit in passione quasi manum patris sinistram: ut nos ereptos a passione, Dei tangeret dextera... Factus est ergo Dominus noster quasi Manasses in populo iudeorum: ut donum Sancti Spiritus efficeretur in gentibus Effraim: quoniam nisi moriente Domino obliuioni traderetur lex carnis, non posset in nobis regnare gratia, nec perficere in nobis fructum iustitie, donum Spiritus et lex vite» (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii], fol. 27v.). 26 Cfr. Concordia (come cit. a n. 5 parte ii), fol. 27v. 27 «Quid dignius sentire possumus, quam ut in eo non tam personam Spiritus Sancti quam spiritum intelligamus: eum secundum fructum qui per infusionem Sancti Spiritus in electorum mentibus generatur. Qui verum idem Spiritus qui operatus est uisibilem fructum uentris, ipse operatur ubi vult inuisibilem fructum mentis. Qui enim uentrem potuit fecundare Marie, ipse per gratiarum dona electorum suorum animas inspirando fecundat» (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii], fol. 28r). 28 V. Rocca Camers 1605 (cfr. n. 112 parte i), pp. 80-88. 29 S. v. «Josia», in Bibel-Lexikon, ed. H. Haag, Einsiedeln-Zürich-Köln 1956, coll. 856s. 30 Cfr. F. Hartt, in Sistina ii, p. 143. 31 Cfr. Concordia (come cit. a n. 5 parte ii), fol. 92v-94r. 32 Questo venne riconosciuto in modo molto preciso da von Euw 1992 (cfr. n. 15 parte ii), pp. 18s. 33 Cfr. n. 13 parte ii. 34 Certamente il pegno del bastone e dell’anello può figurare esclusivamente nelle mani di Tamar o di Giuda. Perciò è del tutto errata l’interpretazione di Frederick Hartt in Sistina ii, p. 23, il quale nelle due persone ritratte nella metà di destra della lunetta vedrebbe Aram con il bastone e l’anello e, dietro di lui, il figlioletto Esrom. 35 «Funda», in Sylva Allegoriarum Totius Sacrae Scripturae Mysticos eius sensus, et magna etiam ex parte literales complectens, syncerae Theologiae candidatis perutilis, ac necessaria. Auctore F. Hieronymo Laureto Ceruariensi, Monacho Benedictino in Coenobio Montisserati, et Abbate Monasterii S. Foelicis Guixolensis, i, Venetiis, Apud Gasparem Bindonum, mdlxxv, fol. 422v. 36 A ciò ha già fatto riferimento Bull 1988 (cfr. n. 4 parte ii), p. 601. 37 Cfr. Concordia (come cit. a n. 5 parte ii), fol. 119r. 38 Cfr. Concordia (come cit. a n. 5 parte ii), fol. 119v.
Cfr. ibid., fol. 120r. Cfr. ibid., fol. 119r-122v. Cfr. anche Bull 1988 (cfr. n. 4 parte ii), p. 601. 41 «Mardochaeus propalauit insidias duorum Eunuchorum, quod querebant interficere regem, significat fidem Romanorum pontificum quam habuerunt in Deum suum, et quia non potuerunt sustinere hereticos... Scriptum est autem hoc in libro monimenti coram Domino et repositum est in memoria eterna: ut retribuatur Petri in tempore malo: immo in tempore opportuno» (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii], fol. 121v). 42 «Et excitatus est tamquam dormiens Dominus: tamquam potens crapulatus a vino... Igitur Assuerus Rex qui se prius ostenderat mansuetum pulsatus prece uxoris iratus est nimis: quoniam Christus Iesus qui aliquamdiu sustinebit iniquum, ad preces electorum suorum signa iudicii sui manifeste ostendet. Quid plura? suspensus est tandem Aman iubente rege in excelsa cruce quam ipse preparaverat Mardocheo» (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii ], fol. 122rv). 43 «Igitur cum Rex esset hylarior iterato conuiuio promisit se daturum Regine quicquid ipsa petere uoluisset. Quia ibi se totis uiribus conuertet Ecclesia, ad opera pietatis aduocans ad se Dominum suum per obseruationem duorum preceptorum charitatis, Dei scilicet amoris ac proximi» (Concordia [come cit. a n. 5 parte ii], fol. 122r). 44 «Quid autem melius per serpentes, quam diabolicas suggestiones accipiamus? Ad similitudinem enim serpentum reptant occulte per mentes hominum; sed subito, nisi agnoscantur, morsus mortales incautis affigunt: quod praefiguratum accipimus in filiis Israel in deserto a serpentibus miserabiliter interemptis» (Cosa possiamo intendere di meglio nei serpenti se non le suggestioni diaboliche? Infatti a somiglianza dei serpenti esse strisciano in modo occulto nelle menti degli uomini; e, se non vengono riconosciute, infiggono repentinamente morsi mortali agli incauti: questo abbiamo inteso come prefigurato nei figli di Israele uccisi miseramente nel deserto da parte dei serpenti) (Migne, pl 184, coll. 728s.). 45 «Respiciamus igitur et nos in faciem serpentis aenei elevati, Christi, si volumus a pravorum daemonum suggestionibus serpentinis liberari» (Migne, pl 184, col. 730). 46 «Propter ergo incredulitatem suam dantur, non solum vulnerandi per tentationes, sed etiam occidendi per veneni sui infusionem serpentibus ignitis, id est, daemonibus illius maximi et tortuosi serpentis primi perversoris ministris, qui illos secum pervertunt, et incendiis aeternis addicunt, quos in hac vita incendio suarum pravarum suggestionum corrumpunt» (Dunque, a causa della loro mancanza di fede, si rendono non solo vulnerabili attraverso le tentazioni, ma si espongono anche all’occasione di venire uccisi mediante l’infusione del veleno proprio dei serpenti infuocati, cioè, i demoni, ministri di quel grandissimo e tortuoso serpente che fu il primo corruttore, i quali li mandano in perdizione insieme a loro stessi e li abbandonano ai fuochi eterni, mentre li corrompono in questa vita con l’incendio delle loro malvage suggestioni) (Migne, pl 184, col. 729). 47 Cfr. n. 45 parte ii. 39 40
Parte terza In due lettere scritte da Michelangelo a Firenze alla fine del dicembre 1523 per Giovan Francesco Fattucci, che si trovava a Roma, l’artista parla dell’originaria concezione degli affreschi che avrebbe dovuto eseguire. Nella prima lettera si sofferma su dettagli molto precisi: «e ‘l disegnio primo di decta opera furono dodici Apostoli nelle lunecte, e ‘l resto un certo partimento ripieno d’ornamenti, chome s’usa. Dipoi, cominciata decta opera, mi parve riuscissi cosa povera, e dissi al Papa chome, facendovi gli Apostoli soli, mi parea che riuscissi cosa povera. Mi domandò perché: io gli dissi: ‘Perché furon poveri anche loro’. Allora mi decte nuova chommissione che io facessi ciò che io volevo, e che mi chontenterebbe, che io dipigniessi insino alle storie di socto» (Il carteggio di Michelangelo, a cu1
ra di P. Barocchi e R. Ristori, iii, Firenze 1973, p. 8). Nella seconda lettera riepiloga più brevemente le modalità dell’incarico: «Poi che io ebi fatto certi disegni mi parve che riuscissi cosa povera, onde lui mi rifece un’altra allogagione insino alle storie di socto, e che io facessi nella volta quello che io volevo, che montava circha altrettanto...» (ibid., p. 11). In realtà in entrambe le lettere non si parla del programma, quanto del denaro dovuto all’artista. Dato che il papa concesse a Michelangelo la libertà di dipingere più di quanto stabilito in origine, sarebbe perciò spettato all’artista anche il doppio del compenso. Del resto è evidente che la rappresentazione dei dodici apostoli nelle lunette delle pareti laterali, scandite dalle finestre, poteva realizzarsi solo con estrema difficoltà. Per ogni apostolo, che egli
poteva rappresentare solo come figura seduta («nelle lunecte»), Michelangelo doveva trovare altri personaggi. In effetti queste porzioni di parete, non ancora decorate ad affresco, sarebbero state più idonee alla raffigurazione delle famiglie degli antenati di Cristo. 2 Cfr. p. 20 e n. 37 parte i. 3 V. M. Hirst, «I disegni preparatori», in La Cappella Sistina. La volta restaurata: il trionfo del colore, Novara 1992, pp. 9, 266, n. 4 e fig. a p. 12 in alto. 4 V. soprattutto M. Rohlmann, Michelangelos ‘Jonas’: zum Programm der Sixtinischen Kapelle, Weimar 1955, in particolare l’estesa bibliografia commentata brevemente alle pp. 39-56. Per comodità, per i nomi dei Profeti e delle Sibille conservo la grafia che Michelangelo ha utilizzato nella Sistina. Gli altri nomi biblici ven-
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gono riportati nella forma latina della Vulgata, a meno che si tratti di citazioni tratte dalla traduzione italiana della Sacra Scrittura. 5 Riguardo alle riserve di Michelangelo nei confronti dell’incarico affidatogli dal papa per la decorazione della cappella pontificia, attingiamo a fonti indirette, ovvero a una lettera di Pietro Roselli inviata in data 10 maggio 1506 da Roma a Michelangelo, allora a Firenze. Essa riporta un dialogo avvenuto tra l’autore della lettera, Bramante e il papa: «... rispose Bramante a’ papa e dise: Sa(n)to padre... io òne praticho Mic(h) ela(g)nolo asai e àmi deto piue e piue vote none volere atendere a la capela, e che voi li volevi dare cotesto caricho; e che per tanto voi no’ volevi atendere se none a la sipultura e none a la pitura...» (A.M. de Strobel, F. Mancinelli, «Documenti relativi ai lavori michelangioleschi nella Cappella Sistina», in Michelangelo e la Sistina: la tecnica, il restauro, il mito, Roma 1990, p. 272). Cfr. anche F. Mancinelli, R. Bellini, Michelangiolo, Firenze 1992, p. 27. 6 Cfr. A. von Euw, in Michelangelo und die Sixtina, Ausstellungskommentarheft der Schweizerischen Kredit anstalt, Zürich 1992, p. 47 e ill.. 7 V. Michelangelo. La vita raccolta dal suo discepolo Ascanio Condivi, a cura di P. D’Ancona, Milano 1928, pp. 88ss. 8 V. da ultimo l’edizione critica della Vita di Michelangelo dell’anno 1568 con le annotazioni di R. Bellini in Mancinelli, Bellini, Michelangiolo 1992 (cfr. n. 5 p. iii), pp. 86s. Cfr. anche Bellini, ibidem, pp. 259s. 9 Cfr. pp. 21, 68, 70s e 76. 10 Nei dipinti della volta Michelangelo non poté rinunciare alla raffigurazione di piante in funzione del soggetto rappresentato, come nel caso del Peccato originale o di Giona, dal momento che il libro di questo profeta fa espressamente riferimento a una pianta di ricino. Michelangelo, però, rappresenta un ceppo o un albero completamente spoglio, che può essere allora considerato un riferimento al legno della croce: così come si può vedere, per esempio, nei riquadri del Diluvio Universale e della Creazione di Eva. 11 In base alla prima lettera a Giovanni Fattucci della fine del 1523, concernente le piene libertà concesse dal papa a Michelangelo nella scelta dei soggetti dei dipinti, non si può certamente concludere che il programma teologico sia stato elaborato da lui stesso. In proposito cfr. la n. 1 parte iii. Anche von Euw 1992 (cfr. n. 6 p. iii), p. 57, è del parere che, sebbene l’ideazione generale della volta spetti a Michelangelo, egli «non avrà disdegnato il sostegno dei teologi, tra i quali in Vaticano se ne trovavano di eminenti». Riguardo all’influsso dei diversi teologi sugli affreschi di Michelangelo nella Sistina vedi da ultimo Mancinelli, Bellini 1992 (cfr. n. 5 parte iii), pp. 30s. 12 Cfr. pp. 85-86. 13 «Nam si nos referamus ad interiorem mentis memoriam qua sibi meminit, et interiorem intelligentiam qua se intelligit, et interiorem voluntatem qua se diligit...» (Se infatti ci riferiamo alla memoria interiore con cui lo spirito si ricorda di sé, all’intelligenza interiore con cui comprende se stesso, alla volontà interiore con cui ama se stesso...) (De Trinitate 14,7,10, in Opere di Sant’Agostino, i/iv, intr. di A. Trapé e M.F. Sciacca, Roma 1973, p. 580). «... Ecce ergo mens meminit sui, intelligit se, diligit se. Hoc si cernimus, cernimus trinitatem; nondum quidem Deum, sed iam imaginem Dei» (Ecco dunque che lo spirito si ricorda di sé, si comprende, si ama: se contempliamo ciò, vediamo una trinità, che non è certo ancora Dio, ma già è immagine di Dio) (De Trinitate 14,8,11, in Opere, p. 582). 14 In proposito v. p. 92 e n. 22 parte ii. 15 In proposito v. Mancinelli, Bellini 1992 (cfr. n. 5 parte iii), p. 30 e n. 37 a p. 60.
Cfr. p. 13 e n. 7 parte i; p. 87 e n. 11 parte ii. «Paris... Veneri uni studens alias reiecit, hoc est, amori dans operam, notitiam intelligentiamque post habuit: quare similitudinem divinam, quasi Iovis filiam, violavit, cum a trium partium aequalitate descivit, uni haerens Veneri, inaequalis factus... Paride miseriores sunt qui Iunone non fabulosa sed divina cognita, in veterum patrum coniunctione, amore, consuetudine cum Deo, Minerva visa in Christi nostri prodigiis, Venere suscepta in adventu Spiritus, perstant tamen in sententia et Paridis iudicium vitae imparitate, seu potius impuritate, sectantur; quod ideo eis usu venit, non quidem quia amant, sed quia et id quod est amandum et qua amandum est aequalitate non amant» (Paride... scelse la sola Venere e rigettò le altre, cioè, occupandosi dell’amore, tenne in minor conto la conoscenza e l’intelligenza: per questo fatto profanò la somiglianza divina, per così dire, la figlia di Giove, quando si allontanò dall’uguaglianza delle tre parti, aderendo a Venere sola, divenuto diseguale... Più miseri di Paride sono coloro che, pur avendo conosciuto Giunone, non quella dei miti, ma quella divina, attraverso il rapporto con i padri antichi, l’amore, la familiarità con Dio e, pur essendo Minerva apparsa nelle opere prodigiose del nostro Cristo, e Venere accolta nella venuta dello Spirito, si ostinano nella sentenza di Paride e ne seguono assiduamente il giudizio non solo con una vita mancante di armonia, ma, anche con l’impurità; e questo accade loro non perché amano, ma proprio perché non amano ciò che si deve amare e non amano con la misura con cui si deve amare)(Aegidius a Viterbo, «Sententiae ad mentem Platonis», in E. Massa, I fondamenti metafisici della ‘dignitas hominis’ e testi di Egidio da Viterbo, Torino 1954, p. 95 [Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 6325, fol. 77r]). 18 Probabilmente Giulio ii si lasciò crescere la barba solo tra i mesi di ottobre e novembre dell’anno 1510, barba che, da questo momento, divenne sua caratteristica. In proposito cfr. H.W. Pfeiffer, «Die drei Tugenden und die Übergabe der Dekretalen in der Stanza della Segnatura», in Raffaello a Roma, Roma 1986, p. 47 e n. 5. 19 Cfr. Michelangelo. La vita... 1928 (cit. a n. 7 parte iii), p. 103. 20 V. n. 17. Cfr. anche Pfeiffer 1986 (cit. a n. 18 parte iii), p. 53 e n. 29. 21 Cfr. F. Mancinelli, G. Colalucci, N. Gabrielli, «Il restauro della Cappella Sistina», in Scienza e Tecnica, 87/88 (1987), p. 348s. con lo schizzo schematico dei lavori secondo le giornate. 22 Per l’iconografia delle Sibille v. G. Seib «Sybillen», in Lexikon der christlichen Ikonographie, ed. E. Kirschbaum, iv, Rom-Freiburg-Basel-Wien 1972, coll. 150-153. Cfr. anche G.M. Lechner, W. Telesko, Das Wort ward Bild. Quellen der Ikonographie, catalogo della mostra (Graphisches Kabinett des Stiftes Göttweig), Göttweig 1991, pp. 141-150; come pure D. Estivill, «Profeti e Sibille nell’Oratorio del Gonfalone a Roma», in Arte Cristiana, 81 (1993), pp. 357-366 (pubblicazione parziale della Tesi di Licenza relativa al Corso superiore per i Beni Culturali della Chiesa). 23 Cfr. p. 48 e 56. 24 Cfr. p. 71. 25 Cfr. von Pastor 1926, iii, p. 912 e n. 1. 26 Questa tradizione è rintracciabile negli Oracula Sibyllina. V. in proposito Pauly-Wissowa, Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, 2ª serie, ii/2, Stuttgart 1923, coll. 2120, 2148. 27 Cfr. p. 134. 28 Del medesimo colore giallo chiaro sono, per esempio, le strisce dipinte sulle maniche di Golia. Cfr. p. 131 parte ii. Cfr. anche il mio articolo «Un Michelangelo nuovo. I restauri degli affreschi della Cappella 16
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Sistina», in La Civiltà Cattolica, ii, 146 (1995), p. 382. 29 V. Francesco della Rovere, L’Orazione della Immacolata, a cura di D. Cortese, Padova 1985, p. 87. 30 Cfr. pp. 40-44. 31 Per Egidio da Viterbo v. Massa 1954 (cit. a n. 17 parte iii); J.W. O’Malley, Giles of Viterbo on Church and Reform: A Study in Renaissance Thought, Leiden 1968; Egidio da Viterbo, o.s.a., e il suo tempo, atti del v Convegno dell’Istituto Storico Agostiniano (Roma-Viterbo 20-23 ottobre 1982), Roma 1983 («Studia Augustiniana Historica, 9»). 32 V. della Rovere (cit. a n. 29 parte iii), pp. 87s. 33 «Item dicitur: si Adam et Eva humani generis parentes primi in Paradiso deliciarum ex limo terre creati sunt absque peccato originali, Virgo que Deum et hominem in utero gestavit, per quam salus mundo redita est, que ex eius inennarabili humilitate Dei mater esse meruit, nonne aliquid excellentius eam habere decuit quam Ade et Eve originalis culpe principiis primis attributum sit?» (Della Rovere [cit. a n. 29 parte iii], p. 95). 34 V. P. Vergilius Maro, Aeneis, vi, edd. Ribbeck und Ianell, Leipzig 1920, p. 50. In proposito cfr. il mio libro sull’iconografia della Disputa di Raffaello: Zur Ikonographie von Raffaels Disputa. Egidio da Viterbo und die christlich-platonische Konzeption der Stanza della Segnatura, Roma 1975 («Miscellanea Historiae Pontificiae, 37»), pp. 158ss. 35 «Per hanc Virginem verificatum est quod Nabucodonosor... Danielis 2 ca, nocte vidit lapidem exorsum de monte sine manibus percutientem statuam ipsamque comminuentem. Hec Virgo puerpera nobis illud lapidem salvatorem genuit, cuius imperium super humerum eius,...» (Per mezzo della Vergine si è realizzato ciò che Nabucodonosor vide nel secondo capitolo del Libro di Daniele, e cioè, la pietra che, uscita dal monte, colpì la statua senza l’aiuto di alcuna mano e la mandò in pezzi. Questa Vergine ha concepito e generato per noi quella pietra, il Salvatore, sulle cui spalle sta il suo dominio...)(della Rovere [cit. a n. 29 parte iii], p. 87). 36 Cfr. G. Colalucci, in Cappella Sistina, iii, p. 134. Cfr. anche F. Mancinelli, La Cappella Sistina, Città del Vaticano 1993, p. 95; v. da ultimo H. Pfeiffer, «Die libysche Sibylle in der Sixtinischen Kapelle, eine Personifikation der Kirche», in Haec sacrosancta synodus, Festschrift für Bernhard Kriegbaum sj, Konzils- und Kirchengeschichtliche Beiträge, herausgegeben von R. Messner, R. Pranzl, Regensburg 2006, pp. 121-129. 37 Cfr. p. 68. 38 Cfr. p. 104. 39 Cfr. pp. 64, 68. 40 Cfr. in proposito Colalucci (cit. a n. 36 parte iii), p. 180. 41 Cfr. pp. 36 e 68. 42 «Miserans miserebor, dicit Dominus. Revertere virgo Israel, revertere ad civitates tuas istas. Usquequo dissolveris deliciis, filia vaga? Quia creavit Dominus novum super terram, foemina circumdabit virum» (della Rovere [cit. a n. 29 parte iii], p. 87). 43 «... non enim dicit puerum, sed virum a virtute et vigore, ac potestate magna, quia propria virtute natus, et factus homo sub lege, ut eos qui sub lege peccati erant redimeret» (della Rovere [comea nota precedente]). 44 «Si fugimus in Tharsis: prepedimur in via et mota contra nos intumescit tempesta. Si nos undis committimus infigimur in limo profundi: et presto est maris belua que captos absorbere festinat» (Gioacchino da Fiore, «Praefatio», in Concordia Novi ac Veteris Testamenti, Venetiis, per Simonem de Luere, 1519 [rist. anast., Frankfurt am Main 1964], fol. 3r). 45 Cfr. M. Winner, «Giona: il linguaggio del corpo», in La Cappella Sistina 1992 (cit. a n. 3 parte iii), p. 112. 46 Cfr. p. 138.
potentiae, memoria, intelligentia et voluntas. Nam in memoria quidem imago Patris relucet, quia memoria foecunda cum actu dicendi producit verbum. In intelligentia vero exprimitur imago Filii, quia Filius per modum intellectus et naturae gignitur (...). In voluntate autem imago Spiritus Sancti insinuatur, quia Spiritus Sanctus per modum voluntatis a Patre et Filio, tamquam ab uno principio, et uno spiratore procedit»(Come in Dio sono tre le persone, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, così nell’anima sono tre le facoltà, la memoria, l’intelletto e la volontà. Infatti nella memoria riluce l’immagine del Padre, poiché la memoria, per la sua fecondità, con l’atto di parlare genera la parola. Nell’intelletto, in verità, si esprime l’immagine del Figlio, poiché il Figlio è generato allo stesso modo dall’intelletto e dalla natura (...). La volontà suscita, invece, l’immagine dello Spirito Santo, poiché lo Spirito Santo procede, allo stesso modo della volontà, dal Padre e dal Figlio, come da un unico principio e da un’unica persona che dà loro origine) (Petrus Galatinus, De arcanis catholicae veritatis [1518], col. 69, citato in M. Insolera, La transmutazione dell’uomo in Cristo nella mistica, nella cabala e nell’alchimia, Roma 1996, p. 98 n. 5). 12 Cfr. parte iii, p. 150 e n. 17. 13 «... quia instrumentum divinorum cernendorum non habebat, uno dumtaxat oculo contentus, qui lucem aliam haberet, nisi quae de solo sensu originem duceret», Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 6325, fol. 33v. 14 «... reprobi in praesenti vita spei sue radicem figunt, et ab amore immarcessibilis hereditatis arescunt...» (Liber uite. Biblia cum glosis ordinariis: et interlinearibus: excerptis ex omnibus ferme Ecclesie sancte doctoribus: simulque cum expositione Nicolai de lyra: et cum concordantiis in margine, 3 voll. con numerazione progressiva dei fogli: all’ultimo foglio, fol. 1398r, si trova l’annotazione finale: «Glosa ordinaria una cum postillis venerabilis fratris Nicolai de lyra...», Venetiis impressa per Paganinum de Paganinis, mcccclxxxxv, fol. 15r. 15 In proposito v. G. Colalucci, «La preistoria della Bibbia», in Cappella Sistina, i, p. 140 e soprattutto Mancinelli, Bellini 1992 (cit. a n. 10 parte iv), p. 38: «... il Diluvio... – come indica la sequenza delle giornate – fu certamente il primo affresco eseguito sulla volta». 16 Hugo de S. Victore, Allegoriae in Vetus testamentum, i, xiii (Migne, pl 175, col. 641). In proposito v. anche H.M. von Erffa, Ikonologie der Genesis, i, München 1989, pp. 451-454. 17 In proposito v. «Asinus», in Lauretus, Sylva 1575 (cfr. n. 22 parte i), fol. 130r. 18 «Arca de lignis quadratis, ecclesia de sanctis quorum stabilis vita ad omne opus bonum parata sicut lignum quadratum ab omni parte firmum stat» (Liber uite [cfr. n 14 parte iv], fol. 16rv). 19 In proposito cfr. parte iii, p. 152. 20 V. Beda Venerabilis, Hexaemeron (Migne, pl 91, col. 73). 21 In proposito v. parte i, p. 68. 22 È di questo parere H.B. Gutmann, «Religiöser Symbolismus in Michelangelos Sintflutfresco», in Zeitschrift für Kunstgeschichte, 18 (1955), pp. 74ss. Secondo l’autore questi quattro gruppi di persone rappresenterebbero i dannati del Giudizio Universale. In proposito cfr. von Erffa 1989 (cit. a n. 16 parte iv), p. 471. 23 V. Hugo de S. Victore, Allegoriae (cit. a n. 16 parte iv), col. 642. 24 In proposito vedi Colalucci in Cappella Sistina, i, pp. 167, 171, 179 e le figg. di pp. 177s. 25 V. P. Torriti (a cura di), Il Comune di Civitella Paga-
nico. Guida storico-artistica del territorio, Civitella Paganico 1995, pp. 37-39, ill. alle pp. 40s. 26 In proposito vedi H. und M. Schmidt, Die vergessene Bildersprache christlicher Kunst. Ein Führer zum Verständnis der Tier-, Engel- und Mariensymbolik, Mün chen 1981, p. 93. 27 V. «bos», in Lauretus, Sylva 1575 (cfr. n. 22 parte i), fol. 164r. 28 V. Dionysius Areopagita, La hiérarchie céleste, Paris 1970 («Sources Chrétiennes, 58bis»), p. 187. Cfr.: «equus», in Lauretus, Sylva 1575 (cfr. n. 22 parte i), fol. 346v: «Equi etiam ipsi angeli dicuntur, propter obedientiam, qua divinis obtemperant iussis... quod si ex albo nigroque permisti, vis illa signatur, qua traducente nectuntur extrema, et prima secundis, ac secunda primis, conuersione ac prudentiae ratione iunguntur». Potrebbe darsi, come ritiene Edgar Wind, 2002 (cfr. n. 9 parte ii), p. 53, che sia rappresentato un elefante, la cui fronte non possiede un occhio e la linea della proboscide non armonizza bene con quella della fronte. Forse si trattò di un cambiamento del programma, come farebbe supporre il frammento d’occhio sotto il corno sinistro della vacca. O si tratta solo del suo orecchio teso verso l’alto? In ogni caso questo frammento è stato rivelato nei successivi restauri. Verosimilmente questo angolo dell’affresco non è stato dipinto dal maestro, ma da un aiuto, poco capace di trasformare esattamente i pensieri del maestro in forme definite. Così rimane tuttora aperta la questione se vie è rappresentato un elefante con la sua proboscide o un giogo bovino, oppure se Michelangelo o, meglio, un suo aiuto, abbia voluto dapprima raffigurare l’elefante solo con il suo alto dorso grigio e solamente in seguito abbia aggiunto l’estremità della proboscide, reinterpretando il dorso come fronte. Ma la pennellata, che restituisce il profilo della proboscide in modo molto debole, in contrasto con la rotondità che caratterizza il corno della vacca, non consente l’ultima delle tre possibilità di interpretazione. 29 V. Gioacchino da Fiore (cit. a n. 2 parte iv), fol. 8v. In proposito cfr. parte ii, p. 88. 30 In proposito v. Mancinelli 1993 (cit. a n. 36 parte iii), pp. 39, 42. 31 V. Gioacchino da Fiore (cit. a n. 2 parte iv), fol. 27vs. Cfr. parte ii, p. 93. 32 V. H. Fillitz, «Michelangelos Genesis-Darstellung in der Sixtinischen Kapelle und die Fresken von S. Paolo fuori le mura», in Römische historische Mitteilungen, 23 (1981), pp. 329-334. Riguardo agli affreschi di San Paolo fuori le mura tramandati solamente da disegni v. S. Waetzoldt, Die Kopien des 17. Jahrhunderts nach Mosaiken und Wandmalereien in Rom, Wien-München 1964 («Römische Forschungen der Bibliotheca Hertziana, 18»), pp. 55ss., nn. 593-696, figg. 332-334. 33 In proposito v. parte iii, p. 163. 34 In proposito v. Fillitz 1981 (cit. a n. 32 parte iv), pp. 329-331. 35 In proposito v. n. 33 parte iv. 36 Cfr. parte ii, p. 93. 37 V. Gioacchino da Fiore 1519 [cit. a n. 44 parte iii], fol. 27v. 38 Così, per esempio, la guida di Mancinelli 1993 (cit. a n. 36 parte iii), in cui è riassunta tutta la precedente bibliografia importante, a p. 33 affronta ancora in modo errato l’affresco. 39 È di questa opinione A. von Euw, «Das Programm der Sixtina», in Michelangelo und die Sixtina, Kommentarheft zur Faksimileausstellung der Schweizerischen Kreditanstalt, Zürich 1992, p. 35.
Ci facilitano in questo compito i seguenti volumi illustrati: La Cappella Sistina iv; L. Partridge, F. Mancinelli, G. Colalucci, Michelangelo. The Last Judgement. A Glorious Restoration, fotogr. di T. Okamura, New York 1997. M. Rohlmann 1995 (cit. a n. 4 parte iii), pp. 205-234, ha raccolto alcune idee non sempre convincenti elaborate dalla ricerca precedente, accanto a una ricca letteratura nelle note. Né lui né gli studiosi precedenti avevano a disposizione la chiave iconografica decisiva per la lettura dell’affresco. 2 In proposito v. F. Mancinelli, in Michelangelo. The Last Judgement 1997 (cit. a n. 1 parte v), p. 157. 3 V. la lettera di Pietro Aretino a Michelangelo del 16 settembre 1537 (Il carteggio di Michelangelo, iv, 1979,
pp. 82ss.) e la risposta di Michelangelo del 20 novembre 1537 (Carteggio, iv, pp. 87s.). In proposito v. Mancinelli in Michelangelo. The Last Judgement 1997 (cit. a n. 1 parte v), p. 171. 4 Riguardo a questi disegni sono ancora valide le analisi fondamentali di L. Dussler, Die Zeichnungen des Michelangelo. Kritischer Katalog, Berlin 1959, ill. 8991, 94, 96s. Cfr. anche Mancinelli in Michelangelo. The Last Judgement 1997 (cit. a n. 1 parte v), p. 157s, figg. 1 e 2; Michelangelo. Zeichnungen und Dichtungen, H. Keller (ausgewählt und kommentiert), Frankfurt am Main 1975, pp. 85s., ill. a pp. 54s.; M. Hirst, Michelangelo and his Drawings, New Haven-London 1988, pp.123s.; Id., «Giudizio», in Michelangelo e la
Parte quarta V. p. 78 e n. 137 parte i. «Restat ergo ut in tertio celo finem perfectionis nostre positum esse intelligamus: celo utique spiritualis intelligentie, que de utroque testamento procedit...» (Rimane fermo, dunque, il fatto che noi comprendiamo che il fine della nostra perfezione spirituale è posto nel terzo cielo: il cielo, in particolare, dell’intelligenza spirituale che procede dall’uno e dall’altro Testamento) (Gioacchino da Fiore, Concordia... 1519 [cit. a n. 44 parte iii], fol. 6v). 2
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V. De Civitate Dei 16,2, in La Città di Dio, ii, a cura di D. Gentili, A. Trapé, tr. it. di D. Gentili, Roma 1988, p. 464. Per questa tipologia già familiare ai primi Padri della Chiesa sin da Cipriano di Cartagin, v. Wind 2002 (cfr. n. 9 parte ii) p. 49, e nn. 5-6. Per l’interpretazione di questo riquadro accogliamo un altro punto di vista, secondo cui Noè rappresenterebbe il prototipo del papa, illustrato da M. Rohlmann, Michelangelos ‘Jonas’: zum Programm der Sixtinischen Decke, Weimar 1995, pp. 29s. 3
V. Agostino (come a n. 3 parte iv), p. 462. Cfr. parte iii, p. 150. Cfr. parte i, p. 68. 7 Cfr. parte i, p. 21s. 8 Cfr. parte ii, p. 142. 9 Cfr. parte iii, p. 150. 10 Vedi in proposito Mancinelli, Bellini 1992 (cfr. n. 5 parte iii), p. 23. 11 «Quemadmodum in Deo tres sunt personae, Pater, Filius, et Spiritus Sanctus, ita in anima tres sunt 4 5 6
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Parte quinta 1
1
V. parte ii, p. 92. V. Aurelius Augustinus, Confessiones, xiii, xviiii («CSEL, xxxiii, i, i»), rec. P. Knöll, pp. 363s. 42 V. Augustinus (cit. a n. prec.), xviii, pp. 361s. 43 V. C. O’Reilly, «‘Maximus Caesar et Pontifex Maximus’. Giles of Viterbo proclaims the Alliance between Emperor Maximilian i and Pope Julius ii», in Augustiniana, 22 (1972), 1-2, p. 107. È interessante mettere a confronto la volta della Sistina, completata pochi mesi prima, con il passo seguente: «... ad quartum usque diem eumdum est nobis, in quo solem mundo primum apparuisse legimus. Nam primo constat lucem progenitam esse, die altero aquas ab aquis seiunctas fuisse, tertio e terra subpullulasse omnia, quarto e caelo solem emicuisse» (... dobbiamo andare fino al quarto giorno, in cui leggiamo che apparve nel mondo per la prima volta il sole. Infatti risulta che nel primo giorno vi fu la luce primigenia, nel secondo avvenne la separazione delle acque, nel terzo germogliò dalla terra ogni cosa, nel quarto risplendette il sole nel cielo) (p. 102). 44 V. della Rovere 1985 (cit. a n. 32 parte i), p. 77: «Nonne Genesis cap pr dictum est ‘Fiat lux’ et facta est lux illa sancta et immaculata que lucet in tenebris, sine qua factum est nihil, que divinum illum solem nobis peperit in terris a quo salvatum fuit genus humanum?» (Non è forse detto al capitolo primo della Genesi ‘Fiat lux’, e venne, così, creata quella luce santa e immacolata che risplende nelle tenebre, senza la quale nulla è stato fatto e che ha generato per noi in terra quel sole divino dal quale venne salvato il genere umano?). 45 V. Petrus Galatinus (cit. a n. 11 parte iv), p. 60, nota 1: «Nam cum Deus Adam plasmaret, fecit quasi massam, ex cui parte nobiliori accepit intemeratae matris Messiae materiam, ex residuo vero eius et superfluitate Adam formavit» (Infatti, quando Dio plasmò Adamo, fece come una massa, dalla cui parte più nobile prese la materia con cui formò la madre intemerata del Messia, mentre con il rimanente e col superfluo di essa formò Adamo). 46 Giorgio Vasari, Vita di Michelagnolo Buonarroti Fiorentino, ristampata in Mancinelli, Bellini 1992 (cfr. n. 5 parte iii), pp. 93s., inizia a descrivere gli affreschi della Cappella con questi giovani: «Ma stupisca ora ogni uomo che in quella sa scorger la bontà delle figure, la perfezzione degli scórti, la stupendissima rotondità d’i contorni, cha hanno in sé grazia e sveltezza, girati con quella bella proporzione che nei belli ignudi si vede...». 47 Egidio da Viterbo il 21 dicembre 1507 tenne nella chiesa di San Pietro in Roma un importante discorso sull’età dell’oro conservato ancora nel suo testo e pubblicato da John W. O’ Malley, sj. Il discorso concerne i quattro elementi di cui è composto tutto ciò che è corporeo. Dal momento che gli elementi sono in opposizione l’uno con l’altro, l’autore distingue, come quadruplice gruppo più prossimo, quattro «affectus», vale a dire, il timore che proviene dalla terra, la brama che deriva dall’acqua, la malattia che ha origine dall’aria, e la voluttà che è da connettersi con l’elemento fuoco. Cfr. J.W. O’Malley, «Fulfillment of the Christian Golden Age under Pope Jiulius ii: Text of a Discourse of Giles of Viterbo, 1507», in Traditio. Studies in Ancient and Medieval History, Thought and Religion, xxv (1969), pp. 282s. 48 È di questo parere anche E. Gordon Dotson, «An Augustinian Interpretation of Michelangelo’s Sistine Ceiling», Part i, in The Art Bulletin, lxi (1979), pp. 230s. 40
Sistina: la tecnica, il restauro, il mito, Roma 1990, pp. 47-49; P. de Vecchi, Michelangelo. Der Maler, Stuttgart-Zürich 1988, pp. 128s. 5 Cfr. Dussler 1959 (cit. a n. 4 parte v), p. 150, cat. n. 246, ill. 89. 6 Cfr. Dussler 1959 (cit. a n. 4 parte v), p. 64, cat. n. 55, ill. 94; Hirst, Giudizio (cit. a n. 4 parte v), pp. 47s. Cfr. anche Rohlmann 1995 (cit. a n 4 parte iii), pp. 214ss. Non è da escludere che su questo foglio di Casa Buonarroti si trovino in realtà gli abbozzi di due diverse composizioni, a sinistra in alto il Giudizio Universale, e a destra in basso la Caduta degli angeli. Secondo Vasari quest’ultima scena sarebbe stata originariamente progettata da Clemente vii per la parete dell’entra-
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ta della Cappella. V. al riguardo Rohlmann 1995, pp. 231s., note 19s. In questo caso sul foglio potrebbe essere rappresentata non la cornice dell’affresco della parete dell’altare, ma quella della porta principale della Cappella sulla parete opposta. 7 Cfr. Dussler 1959 (cit. a n. 4 parte v), pp. 163s., cat. n. 294, fig. 90; Hirst, Giudizio (cit. a n. 4 parte v), p. 49. 8 Cfr. Dussler 1959 (cit. a n. 4 parte v), p. 149, cat. n. 245, fig. 91; De Vecchi 1988 (cit.a n. 4 parte v), fig. 105. 9 Cfr. Dussler 1959 (cit. a n. 4 parte v), pp. 181s., cat. n. 333, ill. 96s.; De Vecchi cit.a n. 4 parte v),), fig. 109 F. Mancinelli, in Michelangelo. The Last Judgement 1997 (cit. a n. 1 parte v), fig. 3. 10 V. L. Partridge, «Michelangelo’s Last Judgement: An Interpretation», in Michelangelo. The Last Judgement (cit. a n. 1 parte v), p. 16, fig. 9. 11 Cfr. Dussler 1959 (cit. a n. 4 parte v), p. 198, cat. n. 364; Hirst, Giudizio (cit. a n. 4 parte v), p. 38, ill. 58. 12 V. Patridge, in Michelangelo. The Last Judgement (cit. a n. 1 parte v), pp. 143s., figg. 124s., che fa un confronto tra la testa del Giudice Universale di Michelangelo e quella dell’Apollo del Belvedere, trovandovi, in modo convincente, una reciproca correlazione. 13 L’immagine sul velo, la «Veronica», non si trova più nella basilica di San Pietro, ma a Manoppello negli Abruzzi, presso il Santuario del Volto Santo. In proposito v. W. Bulst, H.W. Pfeiffer, Das Turiner Grabtuch und das Christusbild, Band 2: Das echte Christusbild, Frankfurt am Main 1991, pp. 65-72 e figg. 25-30; H.W. Pfeiffer, «La Veronica romana e i suoi riflessi nell’arte», in Il Volto dei volti Cristo, ed. Istituto Internazionale di Ricerca sul Volto di Cristo, Gorle (Bergamo) 1997, pp. 189-195; Id., Il Volto Santo di Manoppello, Pescara 2000, pp. 20-31, figg. 4-6. 14 «Concordiam proprie esse dicimus similitudinem eque proportionis novi ac veteris testamenti: eque dico quoad numerum, non quoad dignitatem, cum vero persona et persona, ordo et ordo, bellum et bellum ex parilitate quadam mutuis se vultibus intuentur: utpote Habraam et Zacharias, Sarra et Helisabeth, Isaac et Ioannes baptista et homo Jesus et Jacob» (Concordanza significa propriamente una somiglianza di propor-
zione equivalente tra l’Antico e il Nuovo Testamento, equivalente per quanto riguarda il numero, non la dignità, poiché persona e persona, ordine e ordine, guerra e guerra, procedendo da una certa uguaglianza, si guardano in viso reciprocamente, allo stesso modo di Abramo e Zaccaria, Sara ed Elisabetta, Isacco e Giovanni Battista, l’uomo Gesù e Giacobbe) (Gioacchino da Fiore, Concordia 1519 [cfr. n. 44 parte iii], fol. 7rv). Recentemente H. Fillitz, Papst Clemens vii. und Michelangelo. Das jüngste Gericht in der Sixtinischen Kapelle, Wien 2005 («Österreichische Akademie der Wissenschaften, Veröffentlichungen der Kommission für Kunstgeschichte, 6»), p. 16, 35, figg. 16, 17, ha interpretato con buone ragioni come ritratto di Carlo v il volto che Condivi e chi scrive avevano identificato come Giovanni Battista. 15 «Habraam unus est homo, et significat ordinem patriarcharum, in quo multi sunt homines. Zacharias unus est homo et hoc ipsum significat» (Gioacchino da Fiore [Concordia 1519, cfr. n. 44 parte iii], fol. 8r). 16 «Sarra una est femina, et significat synagogam. Synagogam dico non reprobam quam designat Agar, sed sterilem iustorum ecclesiam... Sarre, filius non carnis, sed promissionis tempori senectutis sue... et Helisabeth illud idem significat: quod et ipsa cum esset sterilis, in senectute genuit filium: ambo in senectute matrum orti sunt» (Gioacchino da Fiore [Concordia 1519, cfr. n. 44 parte iii], fol. 8r). 17 Cfr. Gioacchino da Fiore [Concordia 1519, cfr. n. 44 parte iii], fol. 18v, 31r. 18 Cfr. Gioacchino da Fiore [Concordia 1519, cfr. n. 44 parte iii], fol. 9v. 19 Cfr. n. 14 parte v. 20 Fillitz 2005 (cfr. n. 14 parte v), p. 20, osserva che le chiavi non hanno alcun anello e così non sono più utilizzabili per chiudere e aprire. Identifica inoltre, p. 35, figg. 14 e 15, il volto di Pietro con il ritratto di Clemente vii. 21 In ogni caso la testa di Bartolomeo si accorda bene con quella di Pietro Aretino, così come la presentano i famosi ritratti di Tiziano nella Galleria di Palazzo Pitti a Firenze e nella Frick Collection di New York. V. H.E. Wethey, The paintings of Titian, ii, The
portraits, London-New York 1971, n. 5s., pp. 75-77, figg. 96 e 99. 22 V. lo scambio epistolare tra Pietro Aretino e Michelangelo del 1537 in Il carteggio di Michelangelo, iv, 1979, pp. 82-84, 87s., 90s. 23 In proposito v. Jacobi a Voragine Legenda Aurea, rec. Th. Graesse, Osnabrück 1969 (riproduzione fotostatica della terza edizione, 1890), pp. 187s. 24 «Ut enim... percussa est illa vetus babylon... ita... percutienda est nova... » (Gioacchino da Fiore [Concordia 1519, cfr. n. 44 parte iii], fol. 24r). 25 V. Hieronymus, In Isaiam Prophetam, 15,57 (Migne, pl 24, coll. 546s). In proposito cfr. Scripturae Sacrae Cursus completus, 18, Paris 1840, coll. 783s. 26 Gioacchino (cfr. n. 24 parte v) richiama a questo proposito la Lettera agli Ebrei (Eb 11,37) che parla dei martiri dell’Antico Testamento che vennero segati. 27 Su Vittoria Colonna e al suo rapporto con Michelangelo, e sul suo ritratto, v. E. Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna. Un dialogo artistico teologico ispirato da Bernardino Ochino, Torino 1994, fig. 3, 5. 28 V. n. 11 parte v. 29 Cfr. D. Redig De Campos, B. Biagetti, Il Giudizio Universale di Michelangelo, Milano 1944, pp. 47-50. 30 Nelle sue Sententiae ad mentem Platonis, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 6325, fol. 33v., il dotto teologo scrive che Omero definì empio il ciclope con un occhio solo «quia instrumentum divinorum cernendorum non habebat, uno dumtaxat oculo contentus, qui lucem aliam non haberet, nisi quae de solo sensu originem duceret» (perché egli, pago di un occhio solo, non possedeva alcun strumento per riconoscere le cose divine, mentre quest’unico occhio non aveva alcun’altra luce al di fuori di quella sola proveniente dalla capacità visiva dei sensi). 31 «... si veggono i sette Peccati mortali da una banda combattere in forma di Diavoli e tirar giù allo inferno l’anime che volano al cielo, con attitudini bellissime e scorti molto mirabili» (Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo Buonarroti Fiorentino [cit. in Mancinelli, Bellini, 1992, p. 113]). 32 Cfr. Giorgio Vasari (come a n. prec.), p. 113.
Bibliografia
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Indice dei Nomi di Luogo e di Persona i numeri in tondo si riferiscono alle pagine del testo, quelli in corsivo alle immagini
Abele 84, 195, 305 Abia 111; 46, 47 Abiran 77; 19, 21, 22, 23, 24 Abiud 95, 103; 36, 38 Abner 236; 58, 123 Abramo 84, 128, 237, 277, 282; 55, 150 Acazia 85, 110; 42, 43 Accademia del Pontano 161 Achim 86, 95; 34 Acquapendentanus Nicolaus 102 Adamo 36, 69, 77, 84, 86, 110, 161, 176, 187, 194, 195, 201, 205, 208, 214, 225, 248, 305; 87, 90, 91, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 117 Africa 167 Agar 277, 282; 150, 157 Agata, santa 304 Aggeo, profeta 77, 102 Agnese, santa 304 Agostino di Ippona, santo 55, 76, 77, 102, 148, 161, 179, 186, 188, 220, 305; 138, 164, 170, 171 Ai, città 83 Alessandro Magno 236, 237; 117, 124 Alighieri Dante 31, 32, 154, 330 Alighieri Pietro 31 Allah 323 Amadeo, beato 11, 12, 13, 36, 37, 71 Aman 136, 140, 142, 187, 258; 60 Amasia 85 Ambrogio di Milano, santo 16, 179, 305; 164, 171 Amelia, Pier Matteo d’ 1 America 323; 176 Aminadab 121, 128, 283; 54 Amon 103; 40, 41 Andrea, apostolo 69, 254, 256, 257, 276, 286; 28, 144, 156 Angelus Camers Rocca v. Rocca Camers Angelus Anna 214, 286, 333; 144, 145 Anticristo 100 Antioco Epifane 237 Antonio da Pinerolo 16 Apostoli 19, 145 Aram 129; 56 Aretino Pietro v. Pietro Aretino Arno 80 Aronne 19, 41, 55; 22 Arpie 330 Artaserse 187 Asa 236, 291, 298; 120 Asaf 110, 111; 44 Asenat 87, 91, 94 Asia 167 Assalonne 237; 115, 127 Assuero 136, 140, 142; 60 Atalia 111 Atlanti 84, 146, 151, 154, 156, 159, 161, 162 Austria 13 Azor 95; 35 Azuba 110 Baal 83, 237; 120 Babilonia 95 Baccio Pontelli v. Pontelli Baccio Bartolo di Fredi 197 Bartolomeo, apostolo 286, 298; 144, 145, 156, 167, 168
Bayonne, Musée Bonnat 253, 254, 258; 130, 134 Beda il Venerabile, santo 69, 195 Belvedere, cortile del v. Città del Vaticano Benedettini 120 Benedetto da Norcia, santo 120, 305; 138, 164, 171 Beniamino, tribù 111 Berlino Kunstbibliothek 150; 65 Musei Statali 145 Bernardino Betti v. Pinturicchio Bernardo di Clairvaux, santo 22, 141 Bertoldo di Giovanni 257, 258; 136 Betlemme 305 Betsabea 111, 120, 121, 129, 283, 291; 48, 49, 155 Betti Bernardino v. Pinturicchio Biagio, santo 299, 304; 164, 165, 167, 169 Biagio da Cesena 330; 183 Biagio di Goro Ghezzi 197 Bibiana, santa 304 Bigordi Domenico v. Ghirlandaio Bigtan 140 Bollis Bartolomeo de 16 Bologna 150 basilica di S. Petronio 205 Booz 120, 121; 50, 51, 52, 106 Botticelli, Filipepi Sandro detto il 16, 18, 19, 22, 30, 31, 32, 34, 35, 36, 37, 38, 40, 41, 42, 46, 55, 62, 66, 69, 70, 71, 78, 80, 84, 85, 94, 132, 159, 161; 6, 10, 11, 12, 19, 22, 23, 24 Bracciolini Jacopo 38 Bramante, Donato di Pascuccio d’Antonio detto il 154; 71 Bull Malcolm 85, 86 Burckhardt Jacob 41 Cagli 12 Caino 195, 305 Cam 184, 186, 187, 197, 200, 236, 259, 290, 291, 305; 89, 93, 143, 157 Camers Rocca Angelus v. Rocca Camers Angelus Cappella Brancacci v. Firenze, S. Maria in Carmine Cappella di S. Zenone v. Roma, basilica di S. Prassede Cappella Sistina v. Città del Vaticano Carnevali Domenico 197 Caronte 258, 329, 330, 331; 178, 181, 182 Caterina di Alessandria, santa 298, 299; 164, 165, 167, 169 Cavalieri Tommaso 304 Cavallini Pietro 205 Cesarea di Filippi 46 Chefziba 110 Chiara 157 Chilion 283; 155 Cristoforo Marcello v. Marcello Cristoforo Ciclope v. Polifemo Città del Vaticano Cappella Sistina Aula Secunda v. Scala Ducale Cappella Magna 3 Cappella Paolina p. 10 Cortile Borgia p. 10 Cortile della Sentinella p. 10 Sala Regia p. 10
Scala Ducale p. 10 Scala Regia p. 10 Musei Vaticani, cortile del Belvedere 269; 63, 147 Clemente iii, papa 84 Clemente vii, papa 84, 129, 253, 258 Clemente xi, papa 167 Colonna Pietro 11, 12, 13, 14, 30, 34, 36, 54, 85, 148, 188, 225 Colonna Vittoria 304; 170 Condivi Ascanio 145, 150 Core 55, 66, 77; 19, 21, 22, 23, 24 Cosimo Rosselli v. Rosselli Cosimo Curtius Ludwig 11 Dandolo Fantino 83, 208 Daniele, profeta 83, 148, 162, 167, 226, 249, 298, 299; 79, 129, 167, 168, 169 Datan 77; 19, 21, 22, 23, 24 Davide 83, 84, 85, 87, 103, 111, 120, 121, 129, 132, 141, 142, 148, 151, 236, 237, 283, 291; 48, 49, 57, 58, 127, 138, 155 Delfi 151 Della Rovere 90 Della Rovere, cardinali 41 Della Rovere, casato o famiglia 32, 36, 37, 38, 41, 70, 80, 94 Della Rovere, papa v. Giulio ii Della Rovere Francesco 83, 84, 159, 161, 162, 170, 208, 225 Della Rovere Giuliano 32 Dina 283; 154 Disma 257 Dolci Giovanni de’ 16, 46; 3 Donatello, Donato di Niccolò di Betto Bardi detto 331 Donato di Pascuccio d’Antonio v. Bramante Doni Angelo 187 Dorotea, santa 304 Dragisic Juraj v. Salviati Giorgio Benigno Duns Scoto Giovanni 18 Ebron 22 Efraim 87, 90, 91, 94, 103, 201, 205, 214; 31, 32 Egidio da Viterbo 11, 148, 150, 161, 162, 187, 188, 189, 220, 329 Egitto 19, 22, 31, 84, 85, 90, 103, 121; 6, 7, 8 esodo dall’ 34, 35, 78 Eleazaro 55, 94, 95; 33 Elia, profeta 83, 111, 120, 237, 248, 291, 298; 108, 110 Eliacim 95, 103; 36, 38 Elimelech 283; 155 Eliodoro 236; 119, 121 Elisabetta 276, 277, 282; 134, 144, 150, 151 Eliseo 248, 291, 298 Eliud 86, 95; 34 Enea 161 Enoch 192, 305 Er 129, 282; 56, 154 Erode 140 Erodiade 132 Esaù 283; 154 Esquilino 304 Esrom 129; 56 Ester 83, 84, 136, 140, 141, 142, 176, 290; 60, 61, 157
349
Indice dei nomi di Luogo e di Persona
Ettlinger Leopold David 16, 31, 77; 2, 94 Euclide 154 Eustochio, santo 305; 164, 170, 171 Eva 69, 80, 83, 84, 161, 194, 195, 201, 205, 208, 214, 237, 286, 291, 305; 87, 90, 91, 95, 96, 97, 116, 117, 124, 139, 157 Ezechia 103, 110; 41 Ezechiele, profeta 83, 111, 161, 162, 298; 76 Ezion Gheber 62; 19 Fantino Dandolo v. Dandolo Fantino Fares 85, 129; 56 Ferdinando i d’Aragona re di Napoli (Ferrante i) 40, 41 Filipepi Sandro v. Botticelli Filippo, apostolo 257 Filone 34 Firenze 37, 38, 40, 42, 148, 161 Casa Buonarroti 253, 254, 258; 132 Duomo 40 Galleria degli Uffizi 187, 253, 254, 256, 257; 1, 90, 133 S. Maria in Carmine, Cappella Brancacci 201 Francesco d’Assisi, santo 305 Gabriele, arcangelo 36 Galatino Pietro o Galatinus Petrus v. Colonna Pietro Galeazzo Maria Sforza v. Sforza Galeazzo Maria Gedeone 83 Geremia, profeta 83, 136, 168, 170, 291, 298; 82 Gerico 283 Germania 13 Gerolamo Laureto v. Laureto Gerolamo Gerusalemme 35, 62, 103, 110, 150, 236, 237, 291 mura 237; 116 Tempio 11, 35, 37, 71, 83, 85, 86, 103, 201, 236, 237; 14, 121 Getsemani 179, 186; 18 Ghersom 34 Ghirlandaio, Bigordi Domenico detto il 16, 41, 42, 69, 78; 28 Giacobbe 22, 83, 85, 86, 87, 90, 91, 94, 128, 141, 201, 214, 277, 282, 283; 31, 55, 139, 153, 154 Giacomo, apostolo 286; 28, 144, 156 Gioacchino 286, 298; 144, 145, 156 Gioacchino da Fiore 13, 84, 85, 86, 90, 91, 94, 95, 102, 103, 110, 111, 120, 132, 136, 140, 141, 142, 148, 150, 176, 179, 187, 200, 201, 205, 214, 220, 277, 282, 291, 333; 150 Gioele, profeta 154, 236; 71 Giona, profeta 136, 145, 146, 148, 170, 176, 248, 291; 83 Giòsafat 62, 110, 111; 19, 24, 44, 45 Giosia 102, 103, 110, 237; 37 Giosuè 78, 83, 90, 253, 283, 286; 25, 155 Giovanni, apostolo, evangelista 31, 54, 70, 85, 136, 141, 286; 28, 144, 156 Giovanni Battista, santo 76, 87, 91, 132, 136, 140, 142, 256, 276, 277, 282, 286; 29, 150, 152 Girolamo, santo 62, 291, 298, 305; 164, 170, 171
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Indice dei nomi di Luogo e di Persona
Giuda (figlio di Giacobbe) 85, 87, 94, 128, 129, 282, 283; 56, 139, 153, 154 Girolamo Riario v. Riario Girolamo Girolamo Savonarola v. Savonarola Girolamo Giuda, regno 62, 110 Giuda, tribù 102, 103, 110, 111 Giuda Iscariota, apostolo 78 Giuda Maccabeo 237; 125 Giudea 90, 102 Giudici 283 Giuditta 83, 84, 87, 132, 136, 140, 141, 142, 148, 151, 290; 59, 157, 159, 160, 161 Giulio ii, papa 11, 14, 32, 42, 62, 80, 83, 90, 102, 111, 121, 128, 145, 150, 151, 154, 161, 179, 194, 220, 237; 4, 51, 65, 69 Giunone 148, 188 Giuseppe, santo (sposo di Maria e padre putativo di Gesù) 83, 87, 90, 91, 94, 103, 141, 188, 201, 214, 215, 256, 276, 277, 282; 31, 32, 90, 134, 144, 145, 150, 151, 152 Giuseppe l’egiziano 142 Golgota 35, 37, 46, 179, 200; 18 Golia 84, 87, 95, 129, 132, 142; 57, 58 Gomer 291 Goro Ghezzi, Biagio di v. Biagio di Goro Ghezzi Gregorio i Magno, papa 305; 164, 170, 171 Hadarsan Rabbi Mosè 36 Iafet 186, 187, 197, 290, 305; 72, 89, 93, 157, 164, 171 Ieconia 103; 37, 39 Iefte 283; 155 Ierusa 110 Iesse 85, 121, 283; 49, 155 Ietro 19, 32, 132; 8, 11 Ieu 236, 237 Imola 40 Innsbruck 12 Ioab 236, 237; 123, 127 Ioas 85 Ioram 110, 111, 236; 44, 45, 122 Iotam 110; 42, 43 Isacco 84, 200, 237, 277, 282; 55, 111, 144, 150 Isaia, profeta 83, 84, 110, 156, 159, 167, 236, 291, 298, 299; 73, 74, 167, 169 Isidoro di Siviglia, santo 69, 194 Ismaele 277, 282; 157 Israele 19, 121, 141, 142, 168, 170, 186, 277, 291 Regno del Nord 111 Regno del Sud 111 tribù 62; 25 Jabbok, torrente 277 Jacopo della Quercia 205 Jahvè 19 Laocoonte 141; 63 Laureto Gerolamo 13, 14, 34 Levi 62, 66, 69, 102, 283; 26, 154 tribù 102 Lia 87, 90, 94, 283, 290; 31, 139, 157 Lippi Filippino 10 Londra, British Museum 145, 256, 267, 282; 64, 80, 142, 153
Lorenzo, martire 254, 256, 286, 298; 144, 167 Luca Signorelli v. Signorelli Luca Lucia, santa 304 Lucifero 36, 254, 331; 100, 178, 182
188, 189, 192, 196, 197, 200, 236, 259, 290, 291, 305; 86, 89, 93, 118, 122, 242, 138, 139, 143, 157 Noemi 283; 155
Maaca 111 Maddalena v. Maria di Magdala Madian 19, 22, 32 Malco 46; 18 Manasse 87, 90, 91, 94, 103, 110, 205, 214; 31, 32, 40, 41 Mar Rosso 46 passaggio del 16, 19, 30, 46, 69, 78; 9, 30 Marcello Cristoforo 11 Marco, santo, evangelista 41, 136, 140 Mardocheo 136, 140, 142, 176; 60, 61 Maria di Magdala 286; 155, 156 Maria di Nazareth (madre di Gesù) 18, 19, 36, 46, 69, 71, 77, 78, 80, 83, 84, 87, 90, 91, 94, 103, 121, 132, 142, 145, 159, 161, 170, 214, 225, 237, 248, 253, 254, 256, 257, 269, 276, 277, 282, 298, 333; 84, 90, 107, 144, 145, 146, 150 Masaccio, Tommaso di ser Giovanni Cassai detto 201 Massimiliano, imperatore 12, 220 Matan 94; 33 Matteo, santo, evangelista 85, 129, 283 Mauro, santo 305 Mauro Rabano v. Rabano Mauro Mazzuoli Annibale 167 Medici, famiglia 40, 253 Medici, partito 38, 42, 161 Medici, Tombe 220, 225 Medici Giuliano de’ 38, 40, 42, 70, 80, 161 Medici Lorenzo de’ 38, 40, 41, 161 Meghiddo 103 Meini Bruno 333 Meshullemet 103, 110 Michele, arcangelo 36, 254 Milano 37, 305 Minerva 148, 188 Minosse 258, 330, 331; 178, 182, 183 Mirjam 18, 30, 41, 66 Moloch 110 Monica, santa 304; 138, 164, 170, 171 Mosè 16, 18, 19, 22, 30, 31, 32, 34, 41, 42, 46, 54, 55, 66, 69, 71, 76, 77, 78, 83, 84, 85, 90, 94, 95, 132, 150, 168, 220, 253, 283; 6, 7, 8, 11, 16, 19, 25, 69, 138, 155
Obed 121; 50, 155 Ofir, terra verde di 62; 19, 21 Oloferne 132, 136, 140, 142, 176, 290; 59 Omero 189 On 87 Onan 129, 282; 56 Oreb, monte 19 Origene 30, 31, 32, 37, 54, 55, 71, 76, 237 Osea 291 Otranto 40 Ottley Walter Yates 128; 55, 56 Ozia 86, 110; 43
Naama 111 Naasson 85, 121, 283; 53 Nabucodonosor 162 Napoli 40 Museo di Capodimonte 166 Natan, profeta 283, 291; 138 Navarro Fausta 11 Nazareth 36, 142 Nebo, monte 25 Necao 103 New York, The Metropolitan Museum of Art, 257; 136 Nicanore 234, 237; 116, 125 Nicola di Lyra 196 Nilo 16 Niobe 286, 290 Noè 62, 76, 83, 87, 154, 156, 179, 186, 187,
Padova 83, 208 Padri della Chiesa 14, 16, 31, 69, 78, 80, 142, 237, 305 Paganico, S. Michele Arcangelo 197 Paolo di Tarso, santo 14, 91, 145, 179, 186, 194, 298, 304, 305; 138, 164 Paolo iii, papa 129, 253, 330; 4 Paride 148, 150; 67 Partridge Loren 135, 136 Patriarchi 16, 42, 282, 283 Pazzi, congiura 37, 38, 42, 80, 161 Pazzi, famiglia 40 Pazzi, partito dei 40 Pazzi Francesco de’ 38 Persia 162, 267 Perugino, Pietro Vannucci detto il 16, 18, 19, 22, 30, 42, 46, 54, 62, 69, 71, 77, 80, 86, 102, 151, 159, 196, 248, 254, 258, 323; 5, 7, 8, 14, 15, 27, 29 Petronilla, santa 286; 155, 156 Pietro, apostolo 19, 46, 69, 70, 71, 77, 136, 140, 145, 154, 253, 254, 256, 257, 276, 286, 291, 298, 304, 305; 28, 133, 144, 156, 167 Piero di Cosimo 42, 46; 16 Pietro Aretino 253, 286 Pietro Vannucci v. Perugino Pinturicchio, Bernardino Betti detto il 5, 8 Pisa 38, 40 Placido, santo 305 Polifemo 189, 329 Pontelli Baccio 46 Prassede, santa 304; 167 Profeti 84, 145ss., 187, 225, 283, 291, 298; 178 Pseudo-Dionigi l’Areopagita 200 Pseudo-Ugo di San Vittore 55, 62, 66, 69, 70, 71, 77, 87 Pudenziana, santa 304; 167 Pudenzio 304 Quercia, Jacopo di Pietro d’Agnolo della v. Jacopo della Quercia
Raab 283; 154 Rabano Mauro 69 Rachele 83, 87, 90, 94, 142, 290, 305; 31, 32, 139, 157 Raffaello Sanzio 11, 14, 41, 150, 269; 67 Stanza d’Eliodoro 46 Stanza della Segnatura 11, 13, 14, 46, 154 Ravenna, basilica di S. Apollinare 276 Raynerus 55, 71 Rebecca 83, 84, 128, 277, 282; 150 Reuel 19, 22, 30, 32 Riario Girolamo 32, 38, 40 Riario Pietro 40 Roboamo 111; 46, 47 Rocca Camers Angelus 102 Rocchetti Jacopo 145; 65 Roma 11, 13, 37, 38, 40, 42, 85, 136, 148, 161, 188, 269 arco di Costantino 55 basilica di S. Paolo fuori le mura 205 basilica di S. Pietro 16, 37, 121, 161 basilica di S. Prassede, cappella di S. Zenone 267 Castel Sant’Angelo 196, 236 chiesa di S. Maria del Popolo 220 chiesa di S. Eligio degli Orefici 11, 13 Concilio Lateranense iv 84 Galleria Barberini 11, 13 ospedale di S. Spirito in Sassia 37 Sacco di (1527) 291 Rosselli Cosimo 16, 30, 41, 42, 46, 54, 55, 66, 69, 70, 71, 78, 91, 151, 179, 186, 187; 9, 13, 16, 17, 18, 20, 21, 30 Rut 121, 129, 283; 155 Sadoc 95; 35 Salatiel 86, 103; 37, 39 Salmon 121, 283; 52, 106, 154 Salomè 132, 136, 140, 142, 286; 59 Salomone 11, 35, 40, 41, 62, 83, 111, 120, 283, 291; 19, 24, 48, 49, 155 Salviati Francesco 38, 40 Salviati Giorgio Benigno (Salviatis Georgius Benignus de) 11, 12, 13 Samuele 283; 155, 156 Sansoni-Riario Raffaele 40 Sanzio Raffaello v. Raffaello Sanzio Sara 83, 277, 282; 150 Sauer 77 Saul 129, 236; 58 Savona 32 Savonarola Girolamo 85, 148 Scolastica, santa 305; 138, 164, 171 Sebastiano, santo 299, 304; 164, 167, 169 Sela 129; 56, 154 Sem 86, 186, 187, 197, 200, 291, 305; 89, 93, 143, 157 Set 195, 305 Sforza Galeazzo Maria 40 Shearman John 14 Sibilla Cumana 159, 161, 162, 167, 226, 290; 75, 158 Sibilla Delfica 151, 154, 167, 236; 66, 70, 74, 158 Sibilla Eritrea 154, 156, 161, 167, 236, 290; 72
Sibilla Libica 167, 168, 237, 290; 80, 81, 84, 158, 161, 162 Sibilla Persica 111, 162, 167, 237; 77, 78 Sibille 84, 145ss., 187, 225, 290, 291; 157, 159 Sichem 283 Siena 197 Signorelli Luca 42, 66, 69, 70, 78, 90, 95, 102, 168, 290; 25, 26 Simeone 283; 154 Simon Pietro v. Pietro, apostolo Simone di Cirene 257, 304; 170 Sinai, monte 55, 103; 16 Sion 150, 151 Sisto iv, papa 11, 14, 16, 18, 19, 22, 32, 37, 40, 42, 62, 71, 77, 78, 80, 84, 87, 90, 91, 132, 145, 146, 150, 151, 161, 162, 168, 179, 187, 331; 4, 66, 135 Stato della Chiesa 40 Steinmann Ernst 16, 32, 42, 77 Strozzi Maddalena 187 Sulammita 128, 176 Susanna, santa 299; 167, 168, 169 Tamar 129, 282, 283; 56, 154 Tarsis 62, 170, 176 Tecla, santa 298, 305; 138, 164 Teres 140 Terra Santa 86 Tolfa 40 Tommaso di ser Giovanni Cassai v. Masaccio Trento, Concilio di 259 Tucci Biagio d’Antonio 9, 30 Ugo di San Vittore 22, 30, 54, 55, 69, 70, 71, 80, 102, 111, 120, 140, 154, 168, 187, 189, 192, 194, 196 Urbino 12 Uria 111, 120 Vannucci Pietro v. Perugino Vasari Giorgio 11, 41, 42, 145, 176, 330, 333 Venere 148, 150, 188 Venezia 14, 267 Venusti Marcello 166 Veronica 269 Vienna Albertina 71, 145; 5 Biblioteca Nazionale Austriaca 12 Virgilio 161 Washington, The National Gallery 42 Wind Edgar 200 Windsor Castle 258 Royal Library 310; 173 Winner Matthias 46 Zaccaria (padre di Giovanni Battista) 256, 276, 277, 282, 286; 144, 150, 152 Zaccaria, profeta 87, 102, 146, 148, 150, 151, 154, 194; 68 Zebedeo 156 Zippora 18, 19, 22, 30, 31, 32, 69 Zorobabele 86, 95, 102, 103, 110, 168; 36
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Crediti Fotografici il numero rinvia all’immagine © Musei Vaticani, Foto Archivio Fotografico Musei Vaticani, A. Bracchetti – P. Zigrossi a eccezione delle seguenti: Archivio dell’Arte – Luciano Pedicini: 166; Archivio Jaca Book: 64, 80, 90, 130, 132, 134, 142, 153, 173; Daniela Blandino: 135; Graphische Sammlung Albertina, Vienna: 5; Heinrich W. Pfeiffer: 2, 55, 56, 63, 65, 66, 68, 94, 133, 136, 149, 165; Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino: 1.