THE HIDDEN SPLENDOR OF THE MIDDLE AGES

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LO SPLENDORE NASCOSTO DEL MEDIOEVO


LIANA CASTELFRANCHI

LO SPLENDORE NASCOSTO DEL MEDIOEVO ARTI MINORI V-XIV SECOLO


SOMMARIO i breve storia di un’oscillante terminologia

pag. 7

ii l’eminente ruolo delle arti minori nel medioevo

pag. 15 iii

la crisi del mondo classico e la nascita del medioevo in due secoli d’avori

pag. 23

iv il genio astratto dei barbari nell’oreficeria dei secoli vi-viii

pag. 51

v l’arte del libro, protagonista della rinascita carolingia

International Copyright © 2005 by Editoriale Jaca Book spa, Milano All rights reserved Prima edizione italiana Settembre 2005 Seconda edizione Gennaio 2020

Copertina e grafica Paola Forini Stampa e legatura Tiskarna Vek, Koper Gennaio 2020 isbn

978-88-16-60609-8

Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

pag. 73

vi il predominio delle arti minori nell’europa dell’anno mille

pag. 101

vii i grandi centri delle arti minori nell’età romanica

pag. 155 viii

lo splendido epilogo delle arti minori nell’autunno del medioevo

pag. 193

Note al testo pag. 230 Note bibliografiche pag. 232 Elenco delle tavole pag. 234 Indice dei nomi di persona e di luogo pag. 237


I breve storia di un’oscillante terminologia


Chi cercasse la voce ‘Arti minori’ nella prestigiosa Enciclopedia dell’Arte Medievale della Fondazione Treccani sarà forse sorpreso di non trovarla e magari ricorrerà, poco più avanti, alla voce ‘Artigianato’; ma non tarderà ad accorgersi che questa non si riferisce se non molto lateralmente a quella ricchissima produzione di oggetti di alto valore artistico che come un fiume possente attraversa tutti i secoli medievali, talora sopravanzando in numero e qualità il patrimonio di architetture, sculture e pitture. E dunque l’ipotetico lettore dovrà subito constatare quanto problematico sia ancora quel termine ‘arti minori’ pur entrato nell’uso corrente: un termine, diciamo subito, di per sé limitativo, perché suggerisce un’inferiorità di base rispetto alle tre arti figurative ‘maggiori’. Altrettanto avviene con i termini paralleli in altre lingue, arts décoratifs, decorative arts1, o addirittura, in tedesco, Kunstgewerbe, che potremmo tradurre alla lettera ‘industria artistica’. Perdura dunque una sorta di imbarazzo terminologico o semantico che racchiuda sotto una etichetta comprensiva quella immensa produzione di oggetti – perché si tratta appunto di oggetti d’uso nella quasi totalità dei casi – caratterizzati dall’impiego di tecniche raffinate e complesse e di materiali costosi e preziosi: oggetti insomma di lusso e certamente catalogabili come oggetti d’arte con la ‘A’ maiuscola. Del resto per tutta l’antichità classica e per quasi tutto il Medioevo è estremamente difficile tracciare una precisa linea di demarcazione tra l’attività dell’artista e quella dell’artigiano, perché il concetto di artista sembra formarsi solo in un’ottica rinascimentale; e viceversa lungo tutto il Medioevo anche le cosiddette ‘arti maggiori’, architettura, scultura e pittura, venivano classificate come ‘arti meccaniche’ in quanto richiedevano un’applicazione manuale, a differenza delle più nobili ‘arti liberali’, quelle del ‘trivio’ e del ‘quadrivio’. D’altra parte, per tutto il Quattrocento e ancora nel Cinquecento non vi è traccia nella trattatistica di una distinzione netta tra le molteplici attività artistiche che noi distinguiamo come maggiori e minori. Nel secondo libro Della Pittura, per esempio, l’Alberti fa esplicito cenno a opere di oreficeria:

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“... l’avorio, le gemme e simili care cose per mano del pittore diventano più preziose e anche l’oro lavorato con arte di pittura si contrapesa con molto più oro”². Ancora più significativo è il fatto che per tutto il Quattrocento le botteghe di oreficeria rivestano quasi normalmente un ruolo formativo per l’artista, funzionino spesso come vere e proprie scuole di apprendistato artistico. Brunelleschi, per esempio, nel 1399, a ventidue anni, lavora nella bottega di un orafo, per il quale sbalza alcune figure in argento. E ancora: nell’attività di grandi artisti troviamo opere che facilmente classificheremmo come opere di artigianato artistico. Per esempio, il Desco da parto di Masaccio (Berlino, Staatliche Museen), un grande vassoio, dono lussuoso ad una partoriente, per il suo ritmo compositivo solenne e la splendida indagine si può classificare come alta testimonianza del nuovo corso della pittura del Quattrocento. Oppure, la placchetta in argento, oro e smalto, attribuita al Brunelleschi, Cristo libera un’indemoniata (Parigi, Louvre) è insieme squisita opera d’oreficeria e “mirabile progetto di sistemazione urbanistica” (Longhi). Quanto a lungo si protragga in pieno Rinascimento questa dignità di opere ‘minori’ lo dicono, per esempio, i disegni per ricami del Pollaiuolo o le splendide tarsie dei Lendinara per il Duomo di Modena. Persino nel cuore del Cinquecento, pervaso dallo spirito del ‘paragone delle arti’, sembra che la disputa sulla gerarchia delle arti non coinvolga in realtà la nostra distinzione tra ‘arti maggiori’ e ‘arti minori’. Lo stesso Vasari nel proemio delle Vite, entrando nel dibattito sulla maggiore o minore nobiltà della pittura e della scultura, riferisce gli argomenti di coloro che affermano che “la scultura abbraccia molte più arti come congeneri... come il basso rilievo, il far di terra, di cera o di stucco, di legno, d’avorio, il gettare de’ metalli, ogni ceselamento, il lavorare d’incavo o di rilievo nelle pietre fini e negl’acciai et altre molte...”. E parallelamente Vasari elenca tra le molte varietà di pittura “le finestre di vetro, il musaico d’vetri, il commetter oro alla damaschina... fare ne’ vasi di terra istorie ed altre figure e fiori e la bellissima invenzione degl’arazzi tessuti...”³. Come si vede, una lista ricchissima di quelle produ-

zioni che noi chiameremmo ‘minori’ e che il Vasari chiama “arti congeneri”: un termine significativo simile a quello usato dal Pino nel suo Dialogo della Pittura (Venezia 1548) là dove dice che “la pittura è la più alta invenzione... e tutte le arti mecaniche sono dette arti per partecipazione, come membri dipendenti dalla pittura, la qual è natura dell’arti mecaniche per lo disegno, ch’i fabri artefici non puono formar senza il disegno”4. Dunque, tutte sono ‘arti per partecipazione’ grazie al disegno, somma facoltà operativa propria del pittore. Come si vede, la varietà e la mobilità dei termini, ancora nel Cinquecento, per definire quelle che noi chiamiamo ‘arti minori’ riflettono ad un tempo la difficoltà di racchiudere in un solo termine la straordinaria ricchezza delle tecniche e dei materiali ma anche la loro sostanziale pari dignità con le arti maggiori. Chiuso il Rinascimento, per trovare un nuovo interesse e quindi anche una rivalutazione di questa vasta area di attività artistica dobbiamo attendere il Settecento e quell’evento culturalmente centrale che fu lo spirito della Encyclopédie di Diderot e D’Alembert; in particolare l’importanza fondamentale del rapporto organico esistente tra ricerca teorica e applicazione pratica e quindi la sistematica ricerca condotta sulle varie attività e sugli strumenti usati: il tutto illustrato dalle famose bellissime tavole. Strettamente connessa con lo spirito illuministico è la nascita degli studi storico-eruditi, ai quali si devono tra l’altro anche i primi passi nella riscoperta del passato medievale. Leopoldo Cicognara (1767-1834) afferma a proposito delle scoperte archeologiche di Ercolano che “esse influirono molto di più... su ciò che si chiama oggetti minori delle arti, come le suppellettili, le mobilie, le decorazioni domestiche ed interne degli edifici”, sottolineando così il peso storico di quelli che egli chiama, ma con intento certamente non riduttivo, “oggetti minori delle arti”5. Tutto l’Ottocento è percorso da un vivo interesse per queste attività, tanto che si può dire che da un lato lo spirito erudito illuministico dall’altro la sensibilità romantica verso il Medioevo e infine ancora il principio di siste-

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matizzazione storica comportano un’attenzione intensa alle ‘arti minori’. Avviene così che lo spirito erudito illuministico sia legato alla nascita dei primi musei per la conservazione degli oggetti artistici, come il Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi (1799) e il Musée National de la Céramique a Sèvres (1805); contemporaneamente abbiamo in Inghilterra il movimento Arts and Crafts, di cui William Morris (1834-1895) fu l’animatore, con la sua forte affermazione (alla quale non era estraneo un dibattito sociale e politico di grande interesse) dell’effettiva parità tra il pittore che dipinge un ambiente e il mosaicista, il vetraio, l’ebanista e persino il fabbricante di carte da parato e di tessuti. Infine l’Ottocento è anche il secolo di un rigoglio di studi filologici su singole tecniche e materiali specifici – smalti, avori, ceramiche – con premesse e metodi che hanno come retroterra culturale il metodo positivista, uno spirito classificatore analogo a quello che presiede alle scienze naturali. Si tratta sovente di opere ancora oggi utili per gli studi, che sotto l’apparente modestia dei loro titoli (Histoire… Notices… Manuel…) contengono repertori di oggetti praticamente sepolti nei musei. A partire dal 1864 appaiono i monumentali volumi di Charles Jules Labarte dedicati alla Histoire des arts industriels au Moyen Âge et à l’époque de la Renaissance, che qui ricordiamo anche per quel nuovo termine ‘arti industriali’, destinato ad avere fortuna soprattutto nelle opere di lingua tedesca con il termine Kunstgewerbe, che rivela un abbinamento indicativo tra storia dell’arte e storia della tecnica. Questo abbinamento era già presente nei due volumi dell’opera di Gottfried Semper, Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten, apparsa tra il 1860 e il 1863, che riprende in certo modo l’idea settecentesca della profonda unità operativa tra creazioni architettoniche e tutte le ‘arti applicate’. Attraverso una minuziosa indagine sull’evoluzione tipologica delle arti tessili e della ceramica, Semper arriva quasi a rovesciare la tradizionale graduatoria gerarchica tra arti maggiori e minori, o per lo meno ad affermare la priorità cronologica delle arti applicate nella storia umana.

Il permanere del metodo positivistico si avverte anche nei primi scritti del viennese Alois Riegl, ritenuto ormai stabilmente colui che definitivamente reintegra le arti minori nel contesto della storia generale dell’arte. I suoi rapporti con il metodo positivistico sono evidenti nella sua opera Stilfragen (Problemi di stile) del 1893, nella quale tratta lo sviluppo degli ornati vegetali col metodo della classificazione tipologica. Al “divenire artistico” di Semper (Kunstwerden) Riegl sostituisce quello di Kunstwollen, una “volontà artistica” che impronta di sé tutte le opere d’arte e che presiede all’ininterrotto processo storico dello stile. Di qui deriva il carattere liberamente creativo di ogni forma d’arte indipendentemente da periodi di grandezza o di decadenza. L’opera più nota di Riegl, Spätrömische Kunstindustrie (1901), deve la sua origine, come egli stesso sottolinea nella introduzione, all’invito rivoltogli dal ministero della cultura di pubblicare le opere di “arte industriale” del periodo postcostantiniano esistenti nell’Impero austroungarico. Nasce qui il principio fortemente affermato della reale uguaglianza sul piano estetico di tutte le manifestazioni dell’arte. L’“arte industriale tardoromana” si configura così per il Riegl necessariamente come storia dell’arte tardoromana, e con questo titolo l’opera fu tradotta in italiano6. Negli stessi anni riegliani, in un versante culturale diverso, Benedetto Croce, che pure negava dignità estetica a tutte le opere “pratiche”, in un breve saggio del 1904 arriva esplicitamente ad abolire ogni forma di distinzione tra architettura e arti minori perché “tutte le arti hanno motivi economici”, per cui “tutte sono libere o tutte non libere” ed è quindi vano “stabilire una scala delle opere d’arte”7. Al versante degli studi filologici tedeschi già citati appartiene invece Pietro Toesca, con il quale significativamente si chiude questo breve viaggio nella terminologia difficile delle arti minori. Ancor più significativo ci sembra il fatto che nel suo volume Il Medioevo apparso a puntate tra il 1919 e il 1924 – un testo fondamentale per la ripresa degli studi medievistici – egli abbia riservato una sezione specifica alle ‘arti minori’, anche se inevitabilmente essa appare

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II l’eminente ruolo delle arti minori nel medioevo


Basterebbe l’importante, pacata affermazione del Toesca, che “per molte epoche” le opere delle arti minori sono i soli documenti pervenuti a noi che offrano una chiave di conoscenza che ci risarcisca delle opere ‘maggiori’ scomparse, per conferire ad esse un ruolo centrale nel Medioevo, quasi un ruolo di supplenza. Si tratta, almeno in molti periodi, di un’effettiva preminenza delle arti minori sulle arti maggiori nell’esprimere la sensibilità artistica, la creatività di un’epoca. A questa moltitudine di oggetti giunti fino a noi è affidata in gran parte la nostra conoscenza di quella che il Riegl chiamava la Kunstwollen. Queste opere d’arte minore rappresentano una testimonianza impareggiabile del sentire e della cultura di epoche assai più povere di testimonianze letterarie, sono cioè uno strumento di conoscenza storica più diretto e insostituibile. Si può obiettare che le perdite ingentissime che hanno falcidiato il patrimonio architettonico, scultoreo e pittorico dei primi secoli medievali non ci permettono di stabilire delle preminenze in un senso o nell’altro; tuttavia l’ingente numero di avori, di codici decorati, di oggetti di oreficeria rappresenta pur sempre un patrimonio culturale, oltre che artistico in senso stretto, un mezzo privilegiato di conoscenza di ricchezza pressocché illimitata. Si aggiunga che l’opera d’arte ‘minore’ ha avuto il privilegio, per la sua stessa natura di oggetto, per la solidità del materiale impiegato, di una conservazione spesso ottima, privilegio di cui non godono le opere d’arte ‘maggiore’, che giungono a noi quasi sempre stremate dal tempo. La loro custodia nei grandi armadi dei Tesori delle cattedrali ha permesso a questi oggetti di sopravvivere per secoli. La conoscenza del prezioso Tesoro dell’antica abbazia parigina di Saint-Denis è legata alla creazione dei quasi leggendari armadi che lo contenevano, a noi noti attraverso le precisissime incisioni del Félibien ad ante aperte, che ci tramandano con l’inventario degli oggetti persino la posizione che occupavano negli armadi. Non si può negare che di fronte alla sublime ‘inutilità’ della scultura e della pittura, rivolte al puro godimento estetico, le opere d’arte ‘minore’ siano in genere oggetti funzionali, destinati a un uso reale e specifico e tuttavia con un largo margine di superfluo, di lussuosa inutilità: sono, si può dire, contempora-

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neamente ‘utili’ e ‘inutili’, creati per l’uso ma anche per il godimento estetico. Pensiamo al campo quasi illimitato degli oggetti di uso liturgico, situle, altaroli portatili, reliquiari, incensieri, libri liturgici e tutti quelli che vanno nella categoria, invero abbastanza mobile, degli ornamenta ecclesiae, suppellettili della chiesa; pensiamo ai regalia cioè agli oggetti che devono testimoniare il potere regale, corone, scettri, spade, manti. Riesce difficile pensare che la destinazione concreta di questi oggetti, creati in vista di un loro uso reale, abbia rappresentato una loro posizione di inferiorità. Il loro ruolo eminente nel Medioevo è innanzitutto legato ad una committenza esclusiva di altissimo rango, sovrani, imperatori, tutta la vasta cerchia dell’aristocrazia di corte e di chiesa che esercitava il potere politico nell’ampio scacchiere europeo, vescovi abati e badesse di potenti abbazie, che hanno legato il loro nome a capolavori, tutti amatori d’arte illuminati ed entusiasti committenti, tutti dediti a dotare le loro chiese di preziose suppellettili e di lussuosi libri liturgici. L’altissimo rango si rivela nella gratuità del lusso che trascende immensamente la funzionalità dell’opera, ne consacra il significato simbolico trascendente e la consegna al godimento puro, alla pura fruizione estetica. Non è un caso che, oltre ai nomi dei grandi committenti, i secoli del Medioevo, piuttosto inclini all’anonimato delle botteghe, ci abbiano tramandato abbastanza spesso i nomi degli artefici di opere ‘minori’, orafi e miniatori soprattutto, a cominciare da quel Vuolvinio che ‘firma’ la faccia posteriore dell’altare d’oro di Sant’Ambrogio a Milano fino al grande Nicolas de Verdun. Resta isolata in questo scenario, la voce indignata di Bernardo di Chiaravalle che si era levata contro lo spreco peccaminoso di tanto lusso: la sua famosa lettera a Guglielmo di Saint-Thierry (1125) sulla pericolosità morale di certe immagini scolpite nei chiostri è pesantemente polemica; ma la violenza dell’invettiva contro la deformitas, la superfluitas, la curiositas di quelle immagini sembra rivelare una sottile e quasi sofferta ammirazione. Meno noto è un altro passo della stessa lettera dove Bernardo fa un lungo elenco degli oggetti che rivelano un lusso deprecabilmente inutile; dopo aver appena accennato

ai “bei dipinti” e alle “sculture inutili” egli prosegue con un lungo elenco di oggetti di ‘arte minore’: “abiti belli e preziosi, bei tessuti variopinti, finestre belle e spaziose, coppe di zaffiro, piviali e pianete ricamate d’oro, calici d’oro e di gemme, lettere dorate nei libri; tutte queste cose non servono a necessità pratiche ma alla concupiscenza degli occhi”1. Quanto poi a quella “concupiscenza degli occhi” la ritroviamo, diremmo, quasi allo stato puro in una straordinaria descrizione, riportata da Meyer Schapiro2, di un monaco inglese, Reginaldo di Dur­ham, a proposito di una stoffa. L’occasione di questa descrizione era in realtà abbastanza curiosa, perché si trattava della traslazione dei resti di san Cutberto, avvenuta nel 1104, ben settanta anni prima. La minuta descrizione del tessuto prezioso della dalmatica di cui era rivestito il corpo del santo e delle altre stoffe preziose del catafalco contiene osservazioni entusiastiche e finissime sulle sfumature dei colori, sul disegno dei ricami, sulle tonalità rosso porpora impreziosite da lievi spruzzature di giallo “quasi prodotto goccia a goccia” e persino sulla compattezza del tessuto che produce “un bellissimo scricchiolio a maneggiarlo”. La preziosità della materia nelle opere d’arte minore non è però vuota esibizione di lusso; la profusione di oro e di gemme non vuole essere fine a se stessa ma è legata strettamente al valore simbolico dell’oggetto e al grande ‘valore aggiunto’ rappresentato dalla magistrale manifattura dell’opera. A questo proposito è rivelatrice l’affermazione straordinariamente concisa di Guglielmo di Malmesbury, contemporaneo di Bernardo di Chiaravalle, che nella sua opera De Gestis Pontificum Anglorum, dopo aver parlato delle pitture della cattedrale di Canterbury, passa a descrivere altri ornamenta della cattedrale, abiti e paramenti sacri, nei quali, egli dice, la perizia degli artigiani oltrepassa la preziosità della materia (materiam superabat opus)3: affermazione quanto mai importante, soprattutto se si pensa al profuso valore venale delle materie impiegate nell’oreficeria. Ciò che conta, in ultima istanza, è la qualità del lavoro, l’opus, più che il valore della materia usata.

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Un ulteriore aspetto dell’eminente ruolo storico delle ‘arti minori’ nel Medioevo sta nella loro natura di oggetto facilmente trasportabi­le, quindi viaggiabile. Sono frequenti i casi in cui un oggetto d’arte veniva commissionato ad un artista di un paese lontano o a una bottega remota dal luogo cui era destinato. I codici eseguiti negli scriptoria famosi e destinati a dotare le biblioteche delle nuove abbazie, gli avori delle botteghe lombarde intorno al Mille, gli smalti delle botteghe mosane viaggiavano più facilmente di quanto si possa oggi immaginare e assumevano così una funzione importante di circolazione culturale e di scambi stilistici. Si aggiunga che la preziosità di questi oggetti li favoriva come doni di nozze o di ambascerie, particolarmente frequenti e sontuosi tra Oriente e Occidente. È famoso il caso del cosiddetto ‘tesoro delle imperatrici’, un corredo di gioielleria principesca e di fattura bizantina, scoperto a Magonza nel 1880. Un ultimo aspetto, ma non meno importante, che rivela l’eminente posizione delle arti minori nel Medioevo è il loro spessore culturale; queste opere ‘minori’ sono nate per occhi attenti e fruitori coltivatissimi: le scelte iconografiche, le scritte che spesso le accompagnano rivelano amatori raffinati. Non si esagera dicendo che certe opere richiedono non solo una cultura sottile ma anche una decifrazione paziente, richiedono di essere anche lette materialmente e non solo contemplate. Chi, per esempio, si accosta alla cosiddetta Pala di Klosterneuburg del grande Nicolas de Verdun, dove le formelle smaltate allineano episodi biblici ante Legem, sub Lege e sub Gratia, quindi con una interpretazione ‘tipologica’ dei personaggi, dovrà avere almeno qualche conoscenza della lettura patristica della Bibbia. E ancora: di fronte al crocifisso d’avorio di fattura inglese del xii secolo, il cosiddetto Re dei Confessori, lo spettatore per comprendere il senso dell’opera dovrà cercare di decifrare le scritte profetiche che letteralmente lo percorrono da un capo all’altro. Sono certamente questi dei casi limite, ma non rarissimi, nel panorama affascinante delle arti minori nel Medioevo. Queste pagine non avrebbero assolto il loro compito modesto di i­nvito alle arti minori se non tentassero anche di suggerire qualche traccia di lettura nell’immenso patrimonio di opere prodotto nei secoli del Medioevo. Si dovrà

subito constatare che, a differenza che per le arti maggiori, non esistono manuali o compendi o opere di base che coprano l’intiero ventaglio della produzione medievale di arti minori: la molteplicità delle tecniche e la vastità della produzione hanno sempre favorito, opportunamente del resto, una trattazione specialistica per settori – avori, oreficerie, miniature, vetrate, arazzi, eccetera – o talora per secoli o per singoli territori. Il compito che ci proponiamo qui è modestissimo e audace al tempo stesso e rientra proprio nella stessa ottica di quell’invito alle arti minori che ha guidato queste pagine: vorremmo individuare per ogni grande stagione artistica quale tecnica, quale arte minore sia stata privilegiata e abbia prodotto autentici capolavori e soprattutto abbia espresso maggiormente lo spirito di quell’epoca e le sue scelte estetiche. Si vorrebbe così evitare un doppio scoglio: da un lato fornire aridi elenchi inespressivi di opere, dall’altro scegliere semplicemente un’antologia di capolavori, isolandoli da un contesto storico specifico, dalla storia artistica e culturale di un territorio. Questa scelta dovrà sacrificare singole opere di grande qualità ma che non sono riferibili a un contesto storico specifico, non ‘fanno storia’.

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III la crisi del mondo classico e la nascita del medioevo in due secoli di avori


I secoli v e vi rappresentano in tutta l’ecumene tardo imperiale uno di quei momenti storici di crisi estremamente intricati e affascinanti, tipici dei processi di transizione, che le opere d’arte riescono spesso a captare e ad esprimere con maggiore immediatezza e aderenza di quanto avviene in altri campi culturali. Si tratta del lento processo di crisi del mondo classico e contemporaneamente delle nuove esperienze religiose che si affacciavano non più ai confini dell’Impero ma nel cuore stesso di Roma. Nostalgiche oscillazioni di ritorno verso il passato si susseguono a breve scadenza o addirittura convivono con improvvise, clamorose fratture rispetto al passato o invece con tentativi di sintesi fra l’antico e il nuovo. Fu solo verso la fine del iv secolo che la crescita della committenza cristiana cominciò a portare una vera diversificazione dei soggetti cristiani; solo allora l’arte cominciò, si può dire, a divenire cristiana non solo nei contenuti ma anche nelle sue espressioni stilistiche. In altre parole possiamo affermare con Kitzinger1 che fu tutta l’arte classica a trasformarsi in arte medievale, non fu il Cristianesimo a trasformarla. Per questo lungo processo di transizione è dunque più esatto parlare di arte tardo antica piuttosto che di arte paleocristiana, riservando se mai il termine di arte paleocristiana alla elaborazione dei nuovi contenuti iconografici. A pilotarci in questo intricato laboratorio creativo dalla fine del iv secolo e cioè dal revival classicistico di Teodosio alla sintesi giustinianea del vi secolo ci aiuta un particolare tipo di oggetti in avorio che accompagnano questo periodo in modo apparentemente ‘minore’, in realtà con altrettanta incisività dei grandi cicli musivi – da Santa Maria Maggiore a Roma a San Vitale a Ravenna – e del corpus di sarcofagi. La ricca produzione di avori testimonia quale sia stato il materiale prediletto2 e diventa lo specchio illuminante delle complesse vicende di questi secoli. Naturalmente non mancano in questo periodo altre importanti testimonianze di gusto raffinato in altre tecniche: un piccolo gruppo di scelte opere in argento alla fine del iv secolo si muove nell’area della rinascenza teodosiana, su due di-

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2. Missorio argenteo dell’imperatore Teodosio. Particolare. Madrid, Real Academia de la Historia.

verse sponde culturali, quella imperiale e quella cristiana: per la prima abbiamo il famoso Missorio di Teodosio (Madrid, Real Academia de la Historia) un vero capolavoro splendidamente lavorato a bassorilievo e a incisione che celebra il potere imperiale: Teodosio vi appare al centro di un portico del palazzo imperiale, mentre in basso la personificazione della Terra nel suo ritmo ondulatorio è già sottilmente anticlassica. Su un secondo versante si collocano alcuni oggetti in argento di committenza cristiana ma di iconografia ancora pagana e fattura classicheggiante: la cosiddetta Patera di Parabiago (Milano, Civiche Raccolte Archeologiche) un oggetto adibito al culto, che raffigura il trionfo di Cibele e di Attis su un probabile modello antico, il Cofanetto di Proiecta (Londra, British Museum), dono nuziale alla cristiana Proiecta, che sul coperchio presenta una classicissima Venere, circondata da tritoni e putti. Diverso e molto interessante è il caso della Capsella argentea, proveniente da San Nazaro (Milano, Museo Diocesano) adibita da sant’Ambrogio a custodire le reliquie degli Apostoli inviate da papa Damaso. Le complesse scene religiose sui lati e sul coperchio della cassetta sono lavorate a sbalzo con coltivata maestria da un artista abile ed elegante ma sono di interpretazione talora oscura, mancando una tradizione iconografica specifica3. L’importanza maggiore che rivestono le opere in avorio dipende dal fatto che un certo tipo di oggetti di grande fortuna, i dittici, ci accompagnano praticamente per tutto il periodo tardo antico. L’origine di questo tipo di produzione è ben noto: si tratta dei dittici, due valve o tavolette unite con cerniere metalliche e scolpite sulle facce esterne. La loro lunga presenza nella vita ufficiale del mondo tardo antico ci offe una testimonianza precisa dei problemi, delle contraddizioni e delle novità che in questo secolo si intrecciano; e poiché ci sono giunti in numero rilevante, ci danno la possibilità di ‘seriarli’ in una sequenza stilistica utile per ricostruire il verosimile processo stilistico di questo intricato periodo. Alla fine del iv secolo e all’inizio del v i dittici rivelano una committenza aristocratica e conservatrice, rivolta eroicamente a traghettare il passato verso nuove elaborazioni di linguaggio. È il caso anzitutto del famoso Dittico dei Ni-

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1. Missorio argenteo dell’imperatore Teodosio. Madrid, Real Academia de la Historia.

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3. Patera argentea di Parabiago. Trionfo di Cibele e Attis. Milano, Civiche Raccolte Archeologiche.

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4. Cofanetto nuziale di Proiecta. Particolare del coperchio: toeletta di Venere. Londra, British Museum.

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5. Capsella argentea di San Nazaro. Particolare del coperchio. Milano, Museo Diocesano. 6. Capsella argentea di San Nazaro. Milano, Museo Diocesano.

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comaci e dei Simmaci (ora diviso tra Parigi, Musée National du Moyen Âge, e Londra, Victoria and Albert Museum), opera chiave per capire i gusti dell’aristocrazia romana alla probabile data della sua fattura, alla fine del iv secolo. Su ciascuna delle due valve figura una sacerdotessa in atto di celebrare un rito in onore degli antichi dei pagani. La solennità della scena, l’accuratezza dei dettagli, l’imponenza delle figure concepite come classici bassorilievi, nonostante qualche esitazione quasi impercettibile nella resa dei movimenti e dello spazio, rendono molto bene il clima nostalgicamente retrospettivo dell’opera e lo strenuo impegno culturale di questo periodo. Intorno al 400 le stesse botteghe romane dell’avorio producono un nuovo tipo di oggetto di lusso destinato a grande fortuna, i dittici commissionati dai consoli che li distribuivano ad amici e colleghi come oggetti commemorativi della propria assunzione in carica, dove in genere figurava il console stesso in veste ufficiale, nell’atto di dare con la ‘mappa’ il segnale d’inizio dei giochi. Il Dittico di Probiano, ‘vicarius’ della città di Roma, mostra un analogo clima di nostalgico classicismo ma con uno stile in evoluzione. La perfetta immobile frontalità della figura di Probiano al centro, i pesanti costumi ufficiali e la rigida ufficialità dei funzionari che lo fiancheggiano o lo acclamano, espressa dalla loro diversa statura, rappresentano già una rottura con il passato; tuttavia la naturalezza dei gesti, la realtà dell’ambiente architettonico e la finezza dell’esecuzione tradiscono ancora i forti legami con la tradizione. Altri dittici intorno al 400 affrontano complessi problemi di composizione. In una tavoletta di dittico con una Caccia al cervo nell’anfiteatro (Liverpool, National Museum) l’artista ha sfruttato l’assicella stretta e alta del pannello per raffigurare il tema della ‘venatio’ in piani semplicemente sovrapposti e tuttavia con sicure indicazioni di spazialità (le porte aperte delle gabbie) e di forma (la sapiente anatomia dei cervi). Lo stesso tema del Combattimento con animali in anfiteatro (San Pietroburgo, Ermitage) torna in un altro dittico, privo però della figura del console; ancora più forte qui il contrasto tra il realismo intenso degli animali e la rinuncia a ogni plausibilità spaziale.

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7. Dittico in avorio dei Nicomaci e dei Simmaci. Sinistra: Parigi, Musée National du Moyen Âge-Hôtel de Cluny. Destra: Londra, Victoria and Albert Museum.

8. Dittico in avorio di Probiano. Berlino, Staatsbibliothek, Preussischer Kulturbesitz.

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9. Pannello di dittico in avorio. Caccia al cervo nell’anfiteatro. Liverpool, National Museum.

10. Dittico in avorio. Combattimento con animali in anfiteatro. San Pietroburgo, Ermitage.

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Sempre intorno al 400, dalle stesse botteghe romane o milanesi provengono anche avori di soggetto cristiano. Un bellissimo pannello raffigurante Le Pie Donne al sepolcro (Monaco, Bayerisches Nationalmuseum) ritrae le figure con forme singolarmente pure e precise, elaborando delicatamente i dettagli architettonici del tempietto e quelli dell’albero frondoso mentre a destra in alto appare la scena dell’Ascensione. Si avverte il desiderio di creare l’equivalente cristiano dell’atmosfera elegiaca dei contemporanei esemplari pagani e di condividerne il clima di nostalgico revival. Questo stesso sentimento è presente sia nella letteratura di Giustino o di Macrobio sia negli inni composti da sant’Ambrogio, il quale, sebbene dichiarasse di rifiutare l’artificiosità della scrittura classica, manteneva però come suoi modelli Cicerone, Virgilio e Tacito. Un poco più tardi, ma sempre entro la metà del v secolo si collocano due pannelli eburnei con sei Scene della vita di Cristo, ora divisi tra i musei di Berlino e del Louvre, di grande interesse per la scelta iconografica dei miracoli di Cristo4. Chi ha presente certe iconografie evangeliche contemporanee dei sarcofagi non potrà non notare qui un superiore livello nella padronanza compositiva e nella chiarezza narrativa con le quali l’artista ha tradotto gli episodi evangelici entro le classiche cornici quadrate. Una nuova trattazione delle forme, più semplificate e come arrotondate, rivela che un nuovo linguaggio è in gestazione e non sempre in una unica direzione: in una Coperta libraria, (Milano, Museo del Duomo) del tardo v secolo che comprende una fitta sequenza di scene della vita di Cristo l’intaglio si indurisce e si appiattisce, lo spazio si comprime fortemente. La dominante presenza riservata ai due simboli fondamentali della fede cristiana, l’Agnello sulla faccia anteriore della coperta e la Croce sul retro, segna una svolta culturale già in atto, che accorda ormai la preferenza al simbolo, mentre la presenza dei granati almandini denuncia il contatto con tecniche introdotte dall’oreficeria barbarica. Per tutto il v e il vi secolo sono però ancora alcuni dittici consolari a rivelare chiaramente l’evoluzione dello stile, o meglio, l’insieme di quei processi evolutivi: infatti la varietà delle soluzioni nuove adottate sia in Oriente sia in

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11. Pannello in avorio. Le Pie Donne al sepolcro e l’Ascensione. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum.

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12. Coperta libraria in avorio detta Dittico delle Cinque Parti. Faccia anteriore. Milano, Museo del Duomo.

13. Coperta libraria in avorio detta Dittico delle Cinque Parti. Faccia posteriore. Milano, Museo del Duomo.

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14. Pannelli eburnei con sei scene della vita di Cristo. Sinistra: Parigi, Musée du Louvre. Destra: Berlino, Staatliche Museen, Preussischer Kulturbesitz.

Occidente fa apparire semplicistico il tentativo di riconoscere uno sviluppo stilistico coerente e unitario. Il Dittico di Stilicone (Monza, Museo e Tesoro del Duomo) degli inizi del v secolo, realizzato probabilmente nelle botteghe milanesi dell’avorio, denuncia la preferenza verso una visione sostanzialmente bidimensionale. L’architettura classica incornicia ma non accoglie le tre figure raffigurate: il grande condottiero vandalo, capo dell’esercito all’epoca di Onorio, dalla posa solenne e dal ricco abbigliamento militare, la moglie Serena, elegante come una matrona romana e il figlio Eucherio vestito da giovane retore romano rispecchiano con grande efficacia la realtà storica di questi alti personaggi di provenienza barbarica ma ormai profondamente integrati nella società romana. Nello stesso Museo e Tesoro del Duomo di Monza un altro dittico più tardo di circa mezzo secolo raffigura probabilmente un Poeta e la sua Musa. La posa elegantemente artificiosa della figura maschile, l’esuberanza dei panneggi, la sovrabbondanza della decorazione architettonica e persino i particolari dei libri ai piedi del sedile, tutto rivela un artista desideroso di ostentare una abilità quasi virtuosistica e una nobiltà culturale. Ben più drastico è il messaggio anticlassico del Dittico di Boezio (Brescia, Santa Giulia-Museo della Città), console nel 487 e padre del famoso filosofo Severino, raffigurato nella tradizionale posa del console che presiede ai giochi. Perduto (o intenzionalmente negato?) ogni rapporto tra figura e spazio, smarrita (o abbandonata?) ogni traccia di profondità, la testa enorme di Boezio appare schiacciata dalla trabeazione architettonica e poggia sul busto sottosviluppato. L’intaglio angoloso ‘a scheggia’, di lavorazione germanica, segna l’avvento di una nuova tecnica. Tutto appare in definitiva così coerente stilisticamente in questa figura sgraziata che si esita a parlare sem­plicemente di decadenza e si affaccia l’ipotesi di una polemica in­tenzionale contro gli ideali di raffinatezza della nobiltà romana. Nel vi secolo la serie dei dittici bizantini consolari prosegue autonomamente nelle botteghe orientali di Alessandria, Siria e Costantinopoli, fino a quando sotto Giustiniano non cesserà il conferimento della carica consolare.

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15-16. Dittico in avorio. Stilicone con la moglie e il figlio. Monza, Museo e Tesoro del Duomo.

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17. Dittico in avorio di Boezio. Interno delle valve rielaborate in epoca carolingia. Brescia, Santa Giulia-Museo della CittĂ .

18. Dittico in avorio di Boezio. Brescia, Santa Giulia-Museo della CittĂ .

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19. Dittico in avorio detto del Poeta e la sua Musa. Monza, Museo e Tesoro del Duomo.

20. Dittico imperiale detto Avorio Barberini. Parigi, MusĂŠe du Louvre.

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21. Cattedra eburnea di Massimiano. Ravenna, Museo Arcivescovile.

22. Cattedra eburnea di Massimiano. Particolare. Ravenna, Museo Arcivescovile.

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IV

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A Ravenna, rifugio della corte imperiale e poi sede dei re germanici, al tempo di Giustiniano (527-565) l’arte raggiunge quel felice approdo che Kitzinger chiama “sintesi giustinianea” testimoniata dai superbi mosaici di San Vitale. Due avori, due capolavori celebrano questa sintesi: la Cattedra episcopale di Massimiano e il cosiddetto Avorio Barberini. La Cattedra di Massimiano è certamente il prodotto più lussuoso dell’arte dell’avorio del periodo tardo antico, decorata intieramente in ogni sua parte da 24 lastre d’avorio. Le notevoli differenze stilistiche che postulano la presenza di varie botteghe esecutive non impediscono che il risultato sia ugualmente unitario e che si ravvisi una comune probabile lavorazione orientale. La ricchezza della iconografia che attinge all’Antico e al Nuovo Testamento si arricchisce ancora di più per la lussureggiante cornice decorativa che inquadra tutte le lastre scolpite. È questa cornice che garantisce la grande coerenza strutturale della cattedra nelle sue diverse parti, i quattro montanti, la fronte, i lati e lo schienale ricurvo. La presenza dei rilievi anche all’interno dello schienale ha fatto supporre che la cattedra avesse più una funzione simbolica che un uso pratico, fosse cioè destinata soprattutto a sottolineare il favore imperiale nei confronti del vescovo, come fedele funzionario dell’Impero. L’opera in avorio seconda solo alla Cattedra di Massimiano è un sontuoso dittico imperiale, il cosiddetto Avorio Barberini (Parigi, Musée du Louvre) del tipo a cinque parti in voga dal v secolo, di cui quattro ancora conservate. Domina il pannello centrale lavorato in altorilievo con una scena straordinaria di adventus imperiale, colma di un’azione repentina: l’imperatore irrompe a cavallo con il mantelletto svolazzante per la corsa e imprime con le redini una impennata al cavallo che quasi trabocca diagonalmente fuori dalla cornice. La Terra stessa fa da palafraniere, il barbaro lo acclama e sostiene in segno di ossequio la lancia, la Vittoria vola a incoronarlo. In basso le popolazioni vinte dell’Asia e dell’Africa recano doni; tra questi figura per l’appunto una zanna di elefante, forse segno tangibile dell’offerta di un materiale ormai divenuto raro e quindi prezioso; e segno comunque di una singolare preferenza accordata a questo materiale in tutta l’età tardo antica.

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Il genio astratto dei Barbari nell’oreficeria dei secoli vi-viii


Il termine ‘barbaro’ significava alla lettera ‘colui che balbetta’, lo straniero che non sa parlare la lingua latina, eloquente traccia di un epiteto dispregiativo che dovette essere in uso assai presto presso i Romani, testimoni sin dal secolo iii dell’avanzata vittoriosa dei popoli che dall’Europa orientale si abbatterono a ondate successive per almeno tre secoli su tutti i territori dell’Europa occidentale. È naturalmente impossibile tracciare qui, sia pure per sommi capi, le tappe di questo grandioso processo di migrazioni di popoli e di culture, nel corso del quale varie espressioni artistiche coesistono, si scambiano, si modificano e confluiscono. Nei manufatti delle popolazioni gote, le prime a insediarsi in Italia, componenti dell’arte sarmatica e scitica si giustappongono ad altre componenti bizantine. Motivi anima­listici tipici dell’oreficeria delle popolazioni nordiche si mescolano a­ ll’impianto astrattizzante delle popolazioni germaniche. Non mancano palesi imprestiti decorativi di arte barbarica in opere tardo antiche, come nel caso, già ricordato, dell’Agnello aureolato in granati almandini alveolati1 al centro della Coperta libraria del Museo del Duomo di Milano. L’oreficeria2 rimane il documento principale dell’attività artistica nel periodo delle invasioni barbariche e, per la mobilità dei suoi oggetti, il fattore più importante di scambi culturali. Questa vasta produzione che va sotto il nome di ‘arte barbarica’ è oggi nota a noi – o meno ignota – grazie alla scoperta e agli studi sistematici degli oggetti rinvenuti nelle numerose necropoli e nelle tombe principesche diffuse in tutta Europa, come Castel Trosino e Nocera Umbra in Italia, Sutton Hoo in Gran Bretagna, Pietroasa in Romania, Wittislingen in Germania. E poiché questo patrimonio consiste in modo praticamente esclusivo di oggetti legati direttamente o indirettamente all’autorità e al potere, si constaterà l’assoluto predominio in questi secoli dell’arte minore su quella maggiore, praticamente inesistente. In questa produzione di oggetti che percorre tutta l’Europa tra il vi e l’viii secolo un tipo risulta fra tutti prediletto, abbastanza simile nel gusto e nella lavorazione in vari territori, le fibbie del vestiario, le cosiddette ‘fibule’, tanto

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23. Fibbia aurea del Tesoro di Sutton Hoo. Londra, British Museum.

24. Fibula ad arco dalla necropoli di Nocera Umbra. Roma, Museo dell’Alto Medioevo.

25. Fibula in forma di aquila dal tesoro di Domagnano. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

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28. Fibula a staffa. Torino, Museo Civico di Arte Antica.

26. Fibula rotonda. Parma, Museo Archeologico Nazionale.

27. Fibula a “S”. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.

che questo tipo di oggetti e di lavorazione si presterebbe da solo a testimoniare la potente fantasia astratta delle popolazioni barbariche e fornirebbe il materiale necessario ad uno studio complessivo dell’arte barbarica. Esistono infatti variazioni molteplici di questo unico tema: abbiamo fibule a staffa, ad arco, ad ansa, a disco, a ‘S’; fibule zoomorfe a forma di pesce, di aquila, di ape; fibule fitomorfe. Esse testimoniano la straordinaria coerenza decorativa di questi oggetti, l’affascinante precisione della tecnica dell’intreccio lineare moltiplicato all’infinito e il gusto profuso del colore nella costante presenza di pietre, gemme, paste vitree incastonate, dove trionfano i granati almandini usati addirittura a centinaia per un solo oggetto. L’alto numero di fibule rinvenute nelle necropoli in vari territori è legato probabilmente anche al fatto di essere un oggetto indispensabile per l’abbigliamento maschile e femminile e insieme un oggetto status-symbol. Al di là di questa produzione policentrica di fibule abbiamo alcune testimonianze di attività artistica particolare e di committenza lussuosa, legate a un territorio specifico, per esempio alcune opere di altissimo pregio ritrovate

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29. Fibula in forma di ape dal tesoro di Domagnano. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

nella tomba del re dei Franchi, Childerico, a Tournai (v sec.). Sono oggetti che testimoniano un uso raffinato dello stile policromo, presente in opere di incantevole semplicità come la piccola Patèna d’oro (Parigi, Bibliothèque Nationale) con al centro una croce in pietre rosse; oppure in opere sfarzose, di tecnica complicata come il Cofanetto reliquiario di Saint-Maurice d’Agaune, commissionato nel secolo vii dal prete Teuderico, dove i granati almandini superano la cifra fantastica di mille. Lo sviluppo dello stile policromo nei territori franchi è legato anche alla figura non leggendaria di sant’Eligio (590 ca.-660) ricordato dalle fonti come summus aurifex, vescovo di Noyon e maestro della zecca imperiale. A lui è

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30. Patèna d’oro. Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles.

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31. Cofanetto reliquiario di Teuderico. Abbazia di Saint-Maurice d’Agaune (Svizzera), Tesoro.

attribuito il grande Calice di sant’Eligio, detto di Chelles, un’opera sfarzosa e complessa, purtroppo perduta ma nota attraverso un disegno del Seicento. Anche la Croce monumentale di sant’Eligio è giunta a noi solo in un piccolissimo frammento (Parigi, Bibliothèque Nationale) ma sufficiente a testimoniare il perfetto livello esecutivo di un’opera di calma e semplice geometria3. Infine ricorderemo un’opera squisita presente in Francia in epoca carolingia ma di provenienza più antica, sasanide del vi secolo: una coppa leggermente concava, la cosiddetta Tazza di Salomone (Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles) formata da cerchi concentrici e decrescenti di granati, cristalli di rocca e vetri verdi, con al centro un grande cammeo di cristallo di rocca.

Un’altra raccolta importante di oggetti dei secoli cosiddetti barbarici è rimasta per secoli presso il Tesoro della Basilica di San Giovanni a Monza, legata alla committenza della regina longobarda Teodolinda, morta nel 628 e di suo marito Agilulfo. Ai doni di Teodolinda la tradizione attribuisce ben quattro corone gemmate, due delle quali ancora esistenti, la cosiddetta Corona ferrea e quella detta Corona di Teodolinda; inoltre il celebre, enigmatico gruppo della Chioccia con i pulcini4. Il nome della regina è però soprattutto legato alla splendida Coperta di evangeliario, che un’iscrizione attesta trattarsi di un dono della regina alla basilica di Monza e non identificabile con la Theca persica documentata tra i regali di papa Gregorio Magno. I due pannelli d’oro della

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32. Calice di sant’Eligio. Disegno del 1653.

coperta sono circondati da una raffinata cornice di granati almandini cloisonnés e ciascun pannello è ripartito da una grande croce in quattro campi, che ospitano quattro fascette di granati almandini a forma di ‘L’ e preziosi cammei classici di reimpiego, importante testimonianza di un passato glorioso e ancora vivo da trasmettere. La raffinatezza della esecuzione e il calmo equilibrio compositivo testimoniano a quali livelli poteva giungere l’integrazione di tecniche barbariche con altre forme non germaniche, talora accentuatamente bizantine. Nel 1939 fu scoperta a Sutton Hoo, nel Sussex, una nave-tomba di un re dell’Anglia orientale, priva di cadaveri ma intieramente equipaggiata di un sontuoso corredo funerario, che restituì un ricchissimo patrimonio di oggetti 60

33. Frammento della Croce di sant’Eligio. Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles.

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35. Corona di Teodolinda. Monza, Museo e Tesoro del Duomo. 34. Tazza di Salomone. Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles.

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e monete databili intorno alla metà del secolo vii, legati alla cultura delle popolazioni di stirpe germanica, che all’inizio del vii secolo, provenendo dalla Germania settentrionale, si installarono nella Gran Bretagna meridionale e in Irlanda formando i regni anglosassoni. Gli oggetti di quest’arte insulare in metallo sono quelli presenti nelle tombe barbariche: fibbie, cinture, fermagli vari, decorazioni di scudi e hanno tutti un affascinante ‘tema’ di fondo, l’intreccio di metalli con inesauribili percorsi lineari rettilinei o curvilinei, a spirale o intrecciati. All’intreccio si uniscono elementi zoomorfi di derivazione celtica, come lo stupendo Fermaglio di borsa (Londra, British Museum) dove tra paste vitree, granati cloisonnés, intrecci lineari compare persino la figura di Daniele in mezzo a leoni. Il gusto appassionato per l’intreccio lineare dei metalli è talmente dominante da trasferirsi nella decorazione dei libri e diventare il modello ornamentale che trionfa in un gruppo famoso di Vangeli insulari. Gran parte del 36. Corona ferrea. Monza, Museo e Tesoro del Duomo.

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37-38. Coperta dell’evangeliario di Teodolinda. Monza, Museo e Tesoro del Duomo.

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39. Fermaglio di borsa da Sutton Hoo. Londra, British Museum.

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Libro di Durrow5 (Dublino, Trinity College Library) sembra direttamente copiato dalla coeva produzione in metallo, grazie agli effetti dello smalto e del vetro millefiori riprodotti dagli artisti ed estesi talora a tutta la pagina, sino a formare vere e proprie carpet pages (pagine tappeto), dove non trova posto la parola. Il Libro di Kells (Dublino, Trinity College Library) è una realizzazione eccezionale di vari scribi che vi lavorarono per molti anni, poco prima dell’800, e che riunisce l’intiera gamma dei motivi presenti nell’arte insulare. Secondo molti studiosi i motivi astratti non sono mera decorazione ma possiedono anche una valenza mistica e contemplativa. Nel libro di Kells, come pure nel Vangelo di Lindisfarne (Londra, British Library) la narrazione della genealogia di Cristo (Mt 1,18) è quasi intieramente occupata dal monogramma di Cristo, ‘XR’, esempio raffinato di tradizione celtica precristiana. L’enfatizzazione del monogramma di Cristo, enormemente ingrandito assomiglia a un grande oggetto di oreficeria zoomorfa, mentre le lettere in grafia irlandese

40. Chioccia con i pulcini. Monza, Museo e Tesoro del Duomo.

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42. Libro di Durrow. Pagina d’apertura del Vangelo di Marco. Dublino, Trinity College Library, ms. 57, fol. 84v.

41. Libro di Durrow, “carpet page”. Dublino, Trinity College Library, ms. 57, fol. 3v.

decrescono in grandezza. L’iniziale, osserva acutamente Pächt, si comporta come “un organismo carico di energie latenti”, simile a “un accordo musicale in ‘fortissimo’ che via via si esaurisce in un graduale ‘diminuendo’”. Questa soluzione provoca fatalmente un offuscarsi della leggibilità, in conflitto paradossale con la stessa funzione razionale della lettera. L’intenzione dell’artista sembra quella di “dare espressione visiva all’emozione suscitata dal suono mistico dei ‘nomina sacra’”6.

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43. Libro di Kells. L’evangelista Giovanni. Dublino, Trinity College Library, ms. 58, fol. 291v.

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44. Libro di Lindisfarne. Iniziale “Chi-ro” del Vangelo di Matteo. Londra, British Library, Cotton ms. Nero D. iv, fol. 29r.

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V l’arte del libro, protagonista della rinascita carolingia


Già nell’Ottocento era in uso presso gli storici il termine di ‘rinascenza’ o ‘rinascita carolingia’; ad esso si aggiunse nel Novecento quello altrettanto significativo di ‘renovatio’, a significare non un semplice fenomeno effimero di revival ma l’espressione della pro­fonda riforma culturale promossa da Carlo Magno re dei Franchi, incoronato imperatore nel Natale dell’800. Strumento essenziale di questo grande rinnovamento è il libro, ovvero il grande incremento della produzione libraria destinata alle chiese, ai monasteri, alle scuole e alle biblioteche: libri per la vita pubblica e per quella privata, libri per leggere e libri per pregare. “Studium discendi”, ossia il desiderio, la passione di imparare era il primo comando di Carlo Magno; per quanto leggendario, resta emblematico quel passo della Vita di Carlo Magno, scritta da Eginardo, nel quale si racconta che l’imperatore era solito tenere qualche libro sotto il cuscino e tavolette da scrivere, sempre pronti all’uso anche nel tempo del riposo. Per questa sua opera gigantesca, rivolta anche a unificare un Impero che dopo le successive sconfitte inferte a Longobardi, Sassoni, Bavari e Musulmani si estendeva dall’Elba all’Atlantico, dal Danubio all’Ebro, Carlo si circondò dei migliori ingegni del suo Impero, letterati illustri, dotti scrittori, teologi, bibliofili – una specie, diremmo oggi, di task force culturale: grandi personaggi convocati da vari paesi, tra cui Alcuino di York, Teodulfo, vescovo di Orléans e probabile autore dei Libri Carolini1, Pietro di Pisa, dal quale Carlo stesso in anni avanzati e non più belligeranti prese lezioni di grammatica: consiglieri di fiducia, che poi inviava in posti chiave, in importanti sedi vescovili. Sin dal suo avvio il tratto dominante di questa riforma culturale è la ripresa, anzi la rinascita dell’Antico, intesa soprattutto come ripresa della cultura cristiana tardo antica e quindi anche della cultura patristica. L’aspirazione di Carlo Magno era di stabilire una continuità anche visibile e diretta con il mondo classico: Aquisgrana, sede del palazzo e della cappella imperiale, doveva assumere il nome di ‘Laterano’ e per costruirli Carlo Magno volle servirsi anche di materiali architettonici fatti venire direttamente da Ravenna.

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Le grandi chiese abbaziali che andavano sorgendo nei territori dell’Impero, Saint-Denis, Centula (oggi Saint-Riquier), Fulda venivano costruite con una planimetria ‘romano more’; e il sigillo imperiale recava l’iscrizione Renovatio Romani Imperii. Al di là di queste espressioni più esteriori, l’ambizione riformatrice di Carlo Magno aveva obiettivi assai più seri e intuizioni più vaste di portata storica: l’imperatore esigeva la cultura del clero e si proponeva di ottenerla in primo luogo attraverso la correttezza dei testi e in particolare dei testi liturgici. Per garantire questa correttezza Carlo Magno si rivolse a papa Adriano perché gli fornisse una copia di leggi ecclesiastiche, dalle quali ricavare delle ‘copie-modello’. Altre copie esemplari furono fatte venire da Roma o da Montecassino: i testi in uso nei domini franchi dovevano essere “corretti”, “uniformi”, eseguiti con “ogni possibile cura”. Il famoso attestato “ex authentico libro” o la formula “nostra auctoritate constabilimus” accompagnava e garantiva la produzione di libri liturgici. Questa esigenza di correttezza non si limitava poi ai codici liturgici ma si estendeva anche agli scritti profani, preziosi testi letterari di autori antichi e manuali astronomici. La produzione di una simile massa di libri era affidata, come riferisce Alcuino, a una “turba scriptorum”, capaci di seguire il testo nelle sue varie fasi esecutive, scrittura, impaginazione e decorazione. Fondamentale per questi alti livelli esecutivi fu la riforma della calligrafia, l’adozione di una vera e propria gerarchia grafica, che comprendeva vari caratteri: la lettera capitale libraria antica, l’onciale, ricalcata sui modelli dell’Italia settentrionale e romana, infine la scrittura ‘carolina’, sviluppata dal corsivo del periodo tardo antico. L’elegante alternanza di calligrafie e di caratteri veniva arricchita con altri mezzi grafici, le ricche maiuscole antiche oppure la scrittura aurea o argentea su fondo porpora o nero. La produzione libraria più antica della cosiddetta scuola di corte di Carlo Magno si apre con l’Evangeliario2 di Godescalco (Parigi, Bibliothèque Nationale) redatto nel 781-83 per commemorare il battesimo di Pipino, figlio dell’impe-

ratore, audace esperimento non scevro di imperfezioni e difetti; ma già una generazione dopo, l’Evangeliario di Saint-Médard de Soissons (Parigi, Bibliothèque Nationale) dell’820 circa rivela nelle pagine iniziali una nuova maturità, fermo restando l’impianto iconografico. L’evangelista Marco siede sotto un arco, che suggerisce l’alta dignità del personaggio e alle sue spalle una tenda si apre su uno spazio interno. L’evangelista si volge verso il suo simbolo, il leone, che tiene fra le zampe un volume, e questo volgersi crea una tensione di moti contrapposti che insieme ai complicati panneggi esprime un potente vigore, una emotività sentimentale che resterà caratteristica del linguaggio figurativo carolingio. Lo stesso tema e lo stesso vigore sono anche nel frontespizio del Vangelo di Giovanni. Pur nella frontalità dell’evangelista è il curioso gioco architettonico a suggerire una dinamica astratta dello spazio. È un fenomeno sorprendente e in definitiva inspiegabile che a fianco della scuola di corte del tempo di Carlo Magno si producesse un’opera come i cosiddetti Vangeli dell’Incoronazione3 (Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer). Qui la classicità, ovvero l’antico umanesimo, viene ricuperata nella sua forma più alta, quella di un’eterno ‘Ellenismo’. Solo il grande disco dorato dell’aureola rivela l’identità religiosa delle figure degli evangelisti, dall’aspetto più simile a filosofi o retori antichi; drappeggiati all’antica, essi siedono con i lunghi rotoli o il libro del loro Vangelo sullo sfondo di un paesaggio reso liberamente con una tecnica pittorica soffice e luminosa, quasi macchiata. Anche l’impaginazione è di gusto raffinato: una cornice di classici racemi lascia libero un ampio margine e l’Incipit solenne del testo viene esaltato nel foglio vicino dalla splendida calligrafia romana maiuscola, tracciata in oro su fondo nero. Questi Vangeli dell’Incoronazione rappresentano un apice isolato nel panorama della fine dell’viii secolo, anche se il loro influsso continuerà a farsi sentire per alcuni decenni: nelle pagine iniziali dei Vangeli di Ebbone (Épernay, Bibliothèque Municipale), usciti dallo scriptorium di Hautvilliers fondato da Ebbone, la stessa iconografia degli evangelisti è risolta in modo ben diverso, quasi che una forza irresistibile afferri la figura con un violento linearismo e la

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45. Evangeliario di Saint-Médard de Soissons. L’evangelista Marco. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 8850, fol. 81v.

46. Evangeliario di Saint-Médard de Soissons. L’evangelista Giovanni. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 8850, fol. 180v.

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47. Vangeli dell’Incoronazione. L’evangelista Marco. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer, fol. 76v.

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48. Vangeli dell’Incoronazione. Incipit del Vangelo di Marco. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer, fol. 77r.

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49. Vangeli dell’Incoronazione. L’evangelista Matteo. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer, fol. 15r

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dissolva. Alla personalità di Ebbone viene ricollegata anche la rinascita della cultura greca e latina ma dagli anni trenta in poi del secolo ix tutto l’ambiente di corte diventa il centro di un movimento autenticamen­te umanistico, attento alla trasmissione anche di opere letterarie e dotte dell’antichità. In questi anni il fascino esercitato soprattutto dall’astronomia e dai suoi arcani rapporti con gli aspetti mitologici è testimoniato soprattutto dalle versioni del più importante testo classico, i Phainomena di Arato, o Aratea (Leida, Bibliotheek der Universiteit). In un foglio, le delicate teste delle Pleiadi acconciate all’antica emergono dalle nubi leggere di un cielo turchino, un omaggio squisito allo stile tardo antico. Le scuole di corte di Reims, Tours, Metz rappresentano dagli anni trenta in poi del ix secolo le tre stelle polari del firmamento della miniatura carolingia.

50. Vangeli di Ebbone. L’evangelista Matteo. Épernay, Bibliothèque Municipale, ms. 1, fol. 18v.

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51. Aratea. Le Pleiadi. Leida, Bibliotheek der Universiteit, voss. lat. Q 79, fol. 42v.

52. Sacramentario di Drogone. “Te igitur”. Parigi, Bibliothèque Nationale, lat. 9428, fol. 15v.

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53. Vangeli di Lotario. Lotario in trono. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 266, fol. 1v.

54. Bibbia di Viviano (Prima Bibbia di Carlo il Calvo). Davide e i musici. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 1, fol. 215v.

A Metz l’arcivescovo Drogone, figlio naturale di Carlo Magno, lega il suo nome a un singolare capolavoro, un Sacramentario4 (Parigi, Bibliothèque Nationale), dove le aste delle iniziali formano un delicato traliccio dorato popolato da figurine. Ma è a Tours soprattutto che con la committenza di due vescovi, Adelardo (834-843) e Viviano (844-851), si producono i testi più prestigiosi. Un capolavoro della scuola di corte di Tours sono i Vangeli di Lotario (Parigi, Bibliothèque Nationale) che si aprono con l’immagine solen-

ne dell’imperatore seduto, quasi avvolto dall’alto trono concavo e vegliato da due guardie. La sua presenza vigorosa, il lungo scettro sul quale si appoggia, lo sguardo laterale rivolto alla pagina seguente, occupata da un poema dedicatorio, il piccolo gesto di comando della mano, tutto ci offre un’inedita e viva immagine di un sovrano carolingio. La grande Bibbia di Viviano (detta anche Prima Bibbia di Carlo il Calvo, Parigi, Bibliothèque Nationale) fu dedicata a Carlo il Calvo da Viviano, abate e

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conte di Tours e fu presentata all’imperatore nell’846 con una cerimonia raffigurata su un foglio, affollata di monaci osannanti, personaggi di corte e soldati di guardia. Nella stessa Bibbia il frontespizio dei Salmi crea un’altra immagine geniale: al centro di una mandorla celeste Davide, re e profeta, danza e suona l’arpa, vegliato dalle quattro virtù cardinali (le virtù dei reggitori) e accompagnato dai suoi musici, ciascuno intento a suonare rari strumenti, riprodotti con grande precisione. Uno dei volumi più inconsueti dello scriptorium di Tours è il Sacramentario di Marmoutier (Autun, Bibliothèque de la Ville) che contiene una deliziosa pagina nella quale Raganaldo abate benedice il suo popolo, una folla di piccole figure inginocchiate, delineate in oro su un fondo verde, come in uno squisito vetro tardo antico. La tendenza ormai diffusa intorno alla metà del secolo ix di rappresentare un tipo di adorazione mobile ed emotiva trionfa in un capolavoro della miniatura di tutti i tempi, il Codex Aureus di Saint-Emmeram (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek), un Evangeliario di committenza verosimilmente imperiale intorno all’870. Il codice deve il suo nome al prodigo uso dell’oro che caratterizza le sue pagine, forse collegato all’influsso degli scritti mistici di Dionigi l’Areopagita, tradotti in latino a Saint-Denis tra l’832 e l’835. La scena dell’Adorazione dell’Agnello è una stupefacente interpretazione della visione apocalittica. L’Agnello al centro è adorato dalla folla ondeggiante degli anziani che offrono corone d’oro, tra arditi accostamenti di toni aranciati, porpora e azzurri. Il libro forse più amato e popolare dell’Antico Testamento è il Salterio, la raccolta dei Salmi. Intorno al terzo decennio del secolo ix lo scriptorium di Reims fra l’816 e l’835 ne produce un celebre esemplare integrale, con tutti i 150 Salmi, il cosiddetto Salterio di Utrecht (Utrecht, Universiteitsbibliotheek) scritto e illustrato unicamente a penna, quindi in una veste addirittura povera in confronto ai codici sin qui visti. Ogni Salmo è illustrato da immagini che trascrivono figurativamente le ardenti invocazioni dei Salmi: angeli, profeti, sovrani, peccatori, tutti i protagonisti dei Salmi, resi velocemente con una ‘scrittura’ quasi stenografica, si muovono con un dinamismo vitale che ignora o

55. Sacramentario di Marmoutier. Raganaldo benedice il popolo. Autun, Bibliothèque de la Ville, fol. 173v.

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56. Codex Aureus di Saint-Emmeram. L’adorazione dell’Agnello. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, clm. 14000, fol. 6r.

57. Salterio di Utrecht. Salmo 42. Utrecht, Universiteits-bibliotheek, ms. 32, fol. 25r.

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58. Coperta in avorio del Libro di Preghiere di Carlo il Calvo. Zurigo, Schweizerisches Landesmuseum. 57

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travolge ogni ordine compositivo. Ecco, ad esempio, nel Salmo 42, il “nemico” spirituale evocato dal salmista diventa un esercito che assedia una città murata, il “monte santo” un rialzo del terreno con un tempio, e così via. Il codice ebbe una lunga fortuna, testimoniata, tra l’altro, da numerose affollate placchette d’avorio al centro delle ricche coperte di alcuni codici liturgici, che ne copiano lo stile concitato e gli schemi formali delle figure dinoccolate. Con queste placchette e con queste sontuose coperte di codici siamo, dunque, sempre nel campo prediletto in epoca carolingia della decorazione del libro. Nella Coperta del Codex Aureus di Saint-Emmeram (ca. 870) l’uso prodigo dell’oro si accompagna a bordure di gemme e di perle. Con opere come queste l’imperatore Carlo il Calvo, uno dei monarchi carolingi più splendidi,

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59. Coperta in oro e gemme del Codex Aureus di Saint-Emmeram. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek.

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60. Altare d’oro. Faccia anteriore. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio.

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intendeva rivaleggiare con gli antichi fasti degli imperatori d’Oriente, che egli consapevolmente imitava, giungendo al Concilio di Ponthion (vicino a Chalons, 876) “graecisco more paratus et ornatus”. Purtroppo poco o niente ci è conservato dell’oreficeria carolingia, sebbene le fonti scritte parlino di una vasta produzione di oreficerie delle botteghe imperiali. L’opera più sfarzosa che da sola basterebbe a testimoniare il livello altissimo di questa oreficeria è l’Altare d’oro della basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Si tratta in realtà di un rivestimento d’altare in forma di arca, cioè di

61. Altare d’oro. Faccia anteriore. Particolare. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio.

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62. Altare d’oro. Faccia posteriore. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio.

sarcofago con reliquie, un altare-tomba, che contiene effettivamente le reliquie di sant’Ambrogio e dei martiri Gervasio e Protasio. L’opera ha un sicuro riferimento cronologico perché fu commissionata da Angilberto, vescovo tra l’824 e l’859. La faccia anteriore aurea presenta dodici Scene della vita di Cristo, uno dei più dettagliati cicli iconografici neotestamentari di quel tempo e al centro la figura di Cristo in trono, con uno stile sostanzialmente vicino al fremente dinamismo e all’incessante brulichio luminoso dei rilievi aurei carolingi. Sulla faccia posteriore, in argento dorato, figura il più antico ciclo agiografico ambro-

63. Altare d’oro. Faccia posteriore. Ambrogio incorona Vuolvinio. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio.

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64. Altare d’oro. Faccia posteriore. Iscrizione dedicatoria. Particolare. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio.

65. Altare d’oro. Faccia posteriore. Battesimo di Ambrogio. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio.

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VI siano con dodici Scene della vita del Santo, secondo la biografia di san Paolino. Queste rivelano un artista eccezionale, difficilmente inquadrabile nel suo stile, che si firma “Vuolvinius, magister phaber” (e si noti l’uso nobile del termine ‘phaber’ e la grafia memore della derivazione greca); l’artista stesso compare in un medaglione nell’atto supremamente onorifico di essere consacrato dallo stesso Ambrogio. Il ritmo narrativo più controllato e pur sempre molto espressivo delle storie del Santo, l’equilibrio compositivo, la nitidezza formale basterebbero a riconoscere nell’altare un assoluto capolavoro; a tutto questo si aggiunge ancora l’impareggiabile perfezione delle varie tecniche di oreficeria presenti nell’altare, dalle fasce di smalti policromi alla filigrana, al niello, allo sbalzo, all’incastonatura delle gemme. Sulla faccia posteriore dell’altare si legge una bellissima iscrizione in smalti e nielli con versi latini ed eleganti caratteri romani; essa corre in senso verticale e orizzontale a modo di acrostico ed esalta il carattere raffinatamente colto di tutta l’opera, secondo lo spirito della ‘rinascita’ classica carolingia.

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il predominio delle arti minori nell’europa dell’anno mille


66. Statua di Santa Fede. Conques, Trésor de l’Église abbatiale Sainte-Foy.

L’attività artistica che ‘grosso modo’ occupa il secolo a cavallo dell’Anno Mille, tra il 950 e il 1050 circa, si incunea quasi tra le due grandi rinascite, quella carolingia e quella impetuosa del Romanico, e ha sinora goduto di un’attenzione e osiamo dire di una simpatia e stima minori da parte degli studiosi. L’imponente patrimonio di ‘arti minori’ che ci resta di quel secolo, direttamente legato alla politica imperiale tenacemente perseguita dagli imperatori della dinastia sassone, Ottone i, Ottone ii, Ottone iii ed Enrico ii testimonia invece una vitalità artistica ininterrotta e una qualità culturale raffinata. L’eccezionale durata – 35 anni – del regno di Ottone i, che già i contemporanei

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67. Diploma di matrimonio della principessa Teofano e di Ottone ii. Wolfenbüttel, Niedersächsiches Staatsarchiv, 6 Urk ii.

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chiamavano il Grande, vede consolidato quel grandioso sogno imperiale al limite dell’utopia politica, rivolto non più solo a ovest a unire i territori sassoni e franchi ma, ad est, al contenimento degli Slavi e dei temutissimi Ungari. Di tale portata quantitativa oltre che qualitativa è la produzione di ‘arti minori’, commissionate dagli Ottoni e dai grandi committenti dell’aristocrazia di corte e di chiesa che si può persino affermare che essa sopravanzi quella di altri secoli medievali: la nostra conoscenza dell’arte di quel periodo è affidata quasi esclusivamente alle arti minori più che agli scarsi resti di pittura e scultura. Sembra quindi logico concentrare la nostra attenzione sulla attività artistica che si svolge nel cuore dell’Impero ottoniano – nella Lotaringia e nella Sassonia, nei territori cioè tra Reno e Mosa – là dove si affollano i maggiori centri di produzione di avori, miniature e oreficerie, anche se questa scelta di campo dovrà sacrificare singoli altissimi capolavori al di fuori di queste aree1. Tutta la produzione ottoniana appare profondamente unitaria, segnata da un clima aristocratico quasi sacrale, che si esprime in una raffinata e pervasiva stilizzazione; essa affonda le sue radici, ovviamente, nella precedente tradizione carolingia ma vi aggiunge una inclinazione all’Oriente bizantino, resa più forte e stabile attraverso il matrimonio di Ottone ii con la principessa bizantina Teofano. L’influsso di Bisanzio si accresce anche per i molti manufatti di provenienza bizantina che circolavano nell’Impero – avori soprattutto, costosi reliquiari, gioielli – sia per il tramite romano o dei grandi centri culturali, sia attraverso le incessanti ambascerie politiche o matrimoniali. Un’importante testimonianza di questi legami è il sontuoso Diploma di matrimonio (Wolfenbüttel, Niedersächsiches Staatsarchiv), un foglio purpureo scritto in oro con la lista degli oggetti portati in dote dalla principessa Teofano in occasione delle sue nozze con Ottone ii nel 972. Non sarà difficile per la miniatura riconoscere l’assoluta preminenza di un centro di produzione privilegiato, lo scriptorium di Reichenau, la grande abbazia imperiale sul lago di Costanza, dotata di privilegi altissimi, ricordata dai documenti medievali con il nome di Augia Fausta o Augia Felix. Da tempo

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68. Salterio di Egberto. Davide suona l’arpa. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, ms. 136, fol. 20v.

gli studiosi hanno classificato le varie fasi della produzione miniata di questo scriptorium che copre vari decenni tra il 965 e il 1025, in pratica dunque tutta l’area storica ottoniana. Resta tuttavia qualche dubbio presso alcuni studiosi sulla realtà storica di un’attività così ricca e prolungata in un solo luogo; non si esclude, per esempio, che lo scriptorium di Reichenau potesse esercitare anche un’attività itinerante. Tre sono i gruppi di codici, cronologicamente successivi, assegnati a Reichenau, che vengono ascritti a tre scribi, Eburnant, Ruodprecht e Liuthar. Se il primo gruppo rappresenta una consapevole ripresa di modi della tradizione carolingia, il secondo gruppo dello scriba Ruodprecht è legato al nome di uno dei maggiori committenti e mecenati di tutto il secolo, Egberto, cancelliere dell’Impero e arcivescovo dell’influente diocesi di Treviri dal 977 alla morte nel 993. Da lui commissionato è l’importante Salterio di Egberto, fortunosamente giunto dopo lungo vagare a Cividale del Friuli, dove ora è custodito (Museo Archeologico Nazionale). Lo scriba Ruodprecht in persona, umilmente chinato, nel foglio 16v., offre il suo Salterio all’arcivescovo Egberto in trono, il quale, nel doppio foglio successivo, umilmente chinato, offre a sua volta il Salterio a san Pietro in trono. Ben quattordici fogli del Salterio sono dedicati ai vescovi predecessori di Egberto, oltre all’immagine del creatore dei Salmi, Davide con l’arpa. L’eccellenza e la novità dello stile di Ruodprecht sono evidenti nella rigorosa precisione dei ritmi lineari astratti, negli schemi triangolari e ovoidali delle figure, tracciati con forti segni neri e nelle marcate tipologie dei volti. Un secondo manoscritto di grande qualità e importanza documentaria porta ancora il nome di Egberto: il Codex Egberti della Stadtbibliothek di Treviri. Fatto abbastanza eccezionale, esso reca sul foglio frontespizio di dedica le figure dei due scribi Keraldus e Heribertus e li specifica “augigienses”, cioè di Reichenau. L’importanza straordinaria di questo codice è dovuta, oltre che alla sua grande ricchezza illustrativa – ben 52 scene – alla presenza di un grande miniatore anonimo, autore di sei fogli dello stesso codice, noto con il nome

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69. Salterio di Egberto. Ruodprecht offre il codice all’arcivescovo Egberto. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, ms. 136, fol. 16v.

70. Salterio di Egberto. L’arcivescovo Egberto in trono. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, ms. 136, fol. 17r.

71. Salterio di Egberto. L’arcivescovo Egberto offre il codice a san Pietro. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, ms. 136, fol. 18v.

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73. Codex Egberti. Cristo e il centurione. Treviri, Stadtbibliothek, ms. 24, fol. 22.

72. Codex Egberti. Egberto con gli scribi Keraldus e Heribertus. Treviri, Stadtbibliothek, ms. 24, fol. 2v.

di Maestro del Registrum Gregorii2. La sua grandezza si rivela in una sorta di nobile e spontaneo classicismo, nella elegante misura, nella delicatezza delle tinte e in una narratività che sembra ispirarsi direttamente alla decorazione di qualche codice antico, come il Virgilio della Biblioteca Vaticana. Il Maestro del Registrum Gregorii appare un artista profondamente coltivato, non solo per la sua conoscenza del greco ma anche per i suoi interventi di restauro su codici già esistenti. Sebbene la sua identità resti misteriosa, alcuni studiosi lo identificano con quel “Johannes italicus” o “Johannes pictor” lombardo che le fonti citano come autore di affreschi, ora perduti, nel Duomo di Aquisgrana, e ricordano il suo lamento: “Ottone mi portò lontano dalla mia patria”. Il profondo classicismo del Maestro del Registrum Gregorii permane anche nelle iconografie rivolte alla raffigurazione astratta del potere imperiale, come nella scena dove Ottone ii (o iii) riceve l’omaggio delle quattro province

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74. Registrum Gregorii. San Gregorio Magno e il suo scriba. Treviri, Stadtbibliothek, ms. 171/1626.

75. Registrum Gregorii. L’imperatore Ottone ii (o iii) con le quattro province dell’Impero. Chantilly, Musée Condé, ms. 14bis.

dell’Impero, Germania, Alemannia, Francia e Italia (Chantilly, Musée Condé). La forma, infatti, è ancora percepibile sotto i panneggi e così pure la definizione dei piani e le gradazioni cromatiche. Si veda invece lo stesso tema3, trattato pochi anni più tardi nell’Evangeliario di Ottone iii (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek). La presenza dei due ecclesiastici (la Chiesa) e dei due soldati (l’esercito), la forte schematizzazione lineare e l’accostamento di colori contrastanti accentuano il carattere simbolico della scena.

Un ultimo gruppo di manoscritti attribuito allo scriptorium di Reichenau prende il nome di Liuthar, lo scriba che appare sul frontespizio del cosiddetto Evangeliario di Liuthar, prodotto circa nel 990 per Ottone iii (Aquisgrana, Domschatz). In questo gruppo si manifesta una sorta di radicalizzazione del tipico gusto ottoniano, di quella sacralità che investe i personaggi imperiali e li assimila a personaggi trascendenti. In un foglio di questo evangeliario dedicato all’apoteosi di Ottone iii, l’imperatore è raffigurato come “Chri-

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76. Evangeliario di Ottone iii. Omaggio delle province all’imperatore in trono. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, clm. 4453, fol. 23v-24r.

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77. Evangeliario di Liuthar. Liuthar offre il suo codice a Ottone iii. Aquisgrana, Domschatz, fol. 15v.

78. Evangeliario di Liuthar. Ottone iii raffigurato come “Christomimete”. Aquisgrana, Domschatz, fol. 16r.

stomimete” cioè come immagine reale del Cristo, secondo antiche teorie di matrice orientale4. L’imperatore appare seduto su un trono retto dalla Terra ed è incoronato dalla mano stessa di Dio, mentre re, vescovi e soldati gli rendono omaggio. Lo stile di Liuthar è profondamente suggestivo perché unisce all’astrazione dell’immagine l’accensione fantastica dei colori e l’estro visionario nell’interpretazione dei testi. Si veda, per esempio, sempre nell’Evangeliario di Ottone iii

(Monaco, Bayerische Staatsbibliothek), la pagina iniziale del Vangelo di Luca, nella quale l’Evangelista sostiene il mondo come un novello Atlante tra nubi cariche di profeti; o si veda la genialità delle interpretazioni del testo in qualche pagina dei Commentari (Bamberga, Staatsbibliothek) ai quattro libri dell’Antico Testamento (Isaia, Cantico dei Cantici, Sapienza e Daniele) per esempio il foglio del Commentario al Cantico dei Cantici che illustra le parole “Osculetur me osculo oris sui” (“Mi baci con i baci della sua bocca”).

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79. Evangeliario di Ottone iii. L’evangelista Luca. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, clm. 4453, fol. 139v.

80. Commentario al Cantico dei Cantici. Processione degli eletti. Bamberga, Staatsbibliothek, ms. bibl. 22, fol. 5r.

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Questa accensione fantastica non era destinata a durare nei manoscritti dipinti per Enrico ii, il successore di Ottone iii, l’ultimo degli Ottoni, canonizzato come santo con la moglie Cunegonda, grande mecenate dell’abbazia di Bamberga, alla cui biblioteca egli dona preziosi codici in segno di religioso omaggio. L’estro fantastico di Liuthar si raggela nelle Pericopi di Enrico ii (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek) anche là dove la pagina evangelica descrive azioni realistiche, come l’Obolo della Vedova o la Cena e la Lavanda dei piedi. I personaggi assumono una fissità astratta da cerimoniale liturgico; una sorta di gelida enfasi scaturisce dagli occhi sbarrati dei volti, dalle mani lunghissime e dalla immobilità di gesti veementi. Questo carattere violentemente astratto trova una sua felice espressione nell’Apocalisse (Bamberga, Staatsbibliothek), un testo visionario terribilmente cifrato. Non meno vasta della produzione miniatoria è la produzione ottoniana di avori, che si affolla nei centri di produzione e nelle botteghe nel cuore dell’Impero, a Treviri, Echternach, Magonza, fino a Liegi nel nord e a Milano nel sud, che da secoli vantava botteghe specializzate nella lavorazione dell’avorio. Queste botteghe producevano oggetti spesso commissionati per sedi lontane, oggetti di alta committenza e di raffinato collezionismo; e molti altri avori provenivano da sedi lontane, come è il caso degli avori bizan­tini, detti Romanos e Nikephoros5. La storia degli avori di committenza ottoniana si apre con un’opera di importanza eccezionale, forse insuperata, commissionata da Ottone i alle botteghe milanesi, il cosiddetto Antependio di Magdebur­go, collocabile tra il 962, anno della sua incoronazione e il 973, anno della sua morte. Nel 960 era avvenuta la solenne traslazione da Milano a Magdeburgo delle reliquie di san Maurizio, il santo protettore della casa sassone, traslazione che esprimeva anche geograficamente lo spostamento a oriente, nel cuore della Sassonia, del centro di gravità dell’Impero. L’evento è indirettamente ricordato nella Placchetta dedicatoria (New York, Metropolitan Museum of Art) che raffigura l’imperatore Ottone con la corona imperiale, assistito da san Maurizio,

81. Pericopi di Enrico ii. La Cena. Lavanda dei piedi. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, clm. 4452, fol. 105v.

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82. Apocalisse. La Donna, il Figlio, il Drago. Bamberga, Staatsbibliothek, ms. bibl. 140, fol. 29v.

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83. Apocalisse. Lotta di Michele contro il drago. Bamberga, Staatsbibliothek, ms. bibl. 140, fol. 30v.

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84. Antependio di Magdeburgo. Placchetta dedicatoria in avorio con la “Maiestas Domini”. New York, Metropolitan Museum of Art.

85-86. Antependio di Magdeburgo. Pannelli in avorio. Incredulità di Tommaso. Cristo davanti a Pilato. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum.

mentre offre al Signore dell’universo il modellino del Duomo. La placchetta faceva parte di un’opera grandiosa in avorio, probabilmente un antependio o paliotto di altare, che in origine doveva comprendere forse una cinquantina di placchette quadrate, tutte della stessa ridottissima misura (circa 10-11 cm), di cui solo 18 giunte fino a noi. Sorprende soprattutto la capacità di racchiudere in spazi così limitati un’intiera scena evangelica, talora su fondi elegantemente traforati, attingendo a un repertorio iconografico di icone e codici anche mediobizantini. La cifra stilistica adottata, molto riconoscibile, è una tipiz-

zazione astrattamente monumentale dei personaggi, pur nelle loro minime dimensioni, le loro proporzioni massicce, le teste strette nel casco dei capelli. Le placchette di Magdeburgo si collocano in testa ad un gruppo di altri avori usciti nel giro degli stessi anni da una bottega milanese, forse localizzabile nel palazzo annesso alla basilica di Sant’Ambrogio. La Situla commissionata dall’arcivescovo Gotofredo (Milano, Museo del Duomo) è un secchiello per le benedizioni liturgiche; vi figurano sotto eleganti arcate la Vergine e i quattro evangelisti mentre un’iscrizione testimonia che il secchiello fu commissionato

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per l’arrivo di un imperatore6. Un’altra situla di destinazione imperiale e di provenienza lombarda è nota con il nome del suo primo proprietario, Situla Basilewskij (Londra, Victoria and Albert Museum); essa conferma l’alta capacità di lavorazione che permette di racchiudere negli spazi esigui ben dodici scene della Passione e della Resurrezione, commentate da una citazione latina del Carmen Paschale di Sedulio. Non minore è la qualità del gruppo di avori assegnabile sicuramente a botteghe germaniche. Da Treviri o da Metz proviene una piccola Madonna in trono (Magonza, Landesmuseum) nonostante abbia anche caratteri lombardi7. Di proporzioni ridotte (misura appena 22 centimetri) ma concepita con un’intrinseca monumentalità e una forma semplificata, essa appare quasi costruita in una serie di ovali entro il ricco panneggio schiacciato. Un autentico capolavoro è la Situla esagonale del Tesoro del Duomo di Aquisgrana, del 980 circa; la si direbbe quasi una metafora del potere perché sulle facce superiori allinea un papa, due arcivescovi, due vescovi, mentre, nella fascia inferiore, guardie armate si affacciano alle porte del Palazzo celeste. Sul bordo i due mascheroni classici e il piccolo fregio delicatamente preciso, di gusto quasi anglo insulare, confermano l’alta qualità della situla. Un altro gruppo di avori che per la loro affinità sono stati attribuiti alle botteghe di Treviri, si distinguono per una loro intensa espressività. Il pezzo più antico è forse la placchetta con una Crocifissione collocata al centro della Coperta del Codice Aureo di Echternach, (Norimberga, Germanisches Nationalmuseum) databile fra il 983 e il 991; di qui il nome dato al suo ignoto autore, il Maestro di Echternach. In contrasto con l’eleganza preziosa degli smalti e delle gemme che circondano la Crocifissione, questa ha toni di rude realismo negli sgherri che dirigono verso Cristo la spugna imbevuta di aceto e la lancia. Questo carattere appassionato del Maestro di Echternach si riconosce anche in un dittico del Museo di Berlino che raffigura Mosè che riceve la Legge e l’Incredulità di Tommaso. Ampio spazio è riservato alle cornici di bellissimo

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87. Situla di Gotofredo. Milano, Museo del Duomo.

88. Situla Basilewskij. Londra, Victoria and Albert Museum.

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89-90. Situla esagonale in avorio e gemme. Aquisgrana, Domschatz.

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91. Madonna in trono con il Bambino. Avorio. Magonza, Landesmuseum.

92. Coperta del Codice Aureo di Echternach. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

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93.-94. Dittico in avorio. Mosè riceve la Legge. Incredulità di Tommaso. Berlino, Staatliche Museen, Preussischer Kulturbesitz.

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intaglio, riducendo lo spazio compositivo a due esili assicelle, nelle quali si incuneano le figure sacre dai gesti violenti e dai volti grossolani. Per comprendere la genialità di questo maestro ‘espressionista’ basterà osservare i molti particolari della scena e soprattutto l’espressività delle fisionomie e dei gesti, il gesto di Cristo che scosta la tunica per agevolare l’esame di Tommaso che, inerpicato, si aggrappa alla veste del Cristo. La città di Metz viene riconosciuta con Treviri, dalla quale dista circa 100 km, come un secondo polo di produzione di avori, che da un lato si riallacciano alla tradi­zione carolingia dall’altro anticipano la levigata dolcezza dei centri di Liegi e di Colonia. Appartiene alla produzione di Metz una tavoletta che contiene una scena molto cara alla iconografia ottoniana, San Gregorio nello studio: la colomba dello Spirito bisbiglia all’orecchio di Gregorio e in basso tre scribi si affrettano a copiare le ispirazioni del santo. Spesso in queste gremite tavolette compaiono architetture molto precise: due di esse mostrano l’interno di una chiesa stipata di celebranti e di diaconi e due momenti di celebrazione liturgica, il Sanctus (Francoforte, Stadt- und Universitätsbibliothek) e l’Introito (Cambridge, Fitzwilliam Museum). È facile comprendere come l’oreficeria ottoniana raggiunga un apice di sontuosità e di lusso, quasi identificando il valore venale dell’oggetto con il suo valore sacrale. Ancora più strettamente che nel periodo carolingio, l’oreficeria ottoniana, come pure quella subito successiva del periodo salico, con gli imperatori Enrico ii e Corrado ii, esprime la simbolica reciprocità dell’oro e del potere nella categoria dei regalia, cioè di quegli oggetti che rappresentavano visivamente l’autorità dell’imperatore, la corona, lo scettro, la spada, il manto8 e che non solo adempivano a una funzione nella liturgia del potere ma addirittura lo legittimavano. Due sole corone ci sono state conservate integralmente: la prima e la più importante è la ‘Reichskrone’, la Corona dell’Impero (Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer) che per secoli conservò effettivamente la sua funzione di incoronare sovrani tedeschi. È una corona del tipo a piastre dove si alternano

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95. Pannello in avorio. San Gregorio nello studio. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Kunstkammer.

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96. Pannello in avorio con scena di Introito. Cambridge, Fitzwilliam Museum.


97. Manto di Enrico ii. Bamberga, Diözesanmuseum.

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piastre gemmate e piastre smaltate; queste ultime raffigurano tre re dell’Antico Testamento, Davide, Salomone ed Ezechia. La seconda corona giunta fino a noi è la Corona gigliata (Essen, Domschatz); creata circa nel 980 e in origine forse destinata a un bambino, fu poi a lungo impiegata come corona della Vergine d’oro di Essen (Essen, Domschatz). Ben più numeroso è il capitolo dei crocifissi, anch’essi legati alle liturgie dell’Impero o al lusso collezionistico dei committenti. Non è senza significato che accanto a una Corona dell’Impero esistesse nello stesso giro di anni un Crocifisso dell’Impero (Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer) che faceva strettamente parte dei gioielli imperiali. Rigorosamente aniconico, se-

98. Corona dell’Impero. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer.

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99. Vergine d’oro di Essen. Essen, Domschatz.

100. Corona gigliata della Vergine di Essen. Essen, Domschatz.

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condo la tradizione della ‘crux gemmata’, con i suoi 77 centimetri di altezza il Crocifisso dell’Impero si impone come una delle testimonianze più sontuose di oreficeria ottoniana. Letteralmente gremito di perle in cerchi concentrici e in quadruplici file, oltre che di gemme e di filigrane, il crocifisso non porta l’immagine di Cristo ma, sul retro, quella dell’Agnello incisa sull’oro. Una seconda croce aniconica non meno importante è il cosiddetto Crocifisso di Lotario (Aquisgrana, Domschatz). Il corpo di Cristo è audacemente sostituito da una splendida gemma augustea, mentre in basso nell’asta centrale un prezioso sigillo in cristalli di rocca raffigura l’imperatore Lotario ii (che dà il nome al crocifisso), pronipote di Carlo Magno, come a sottolineare la continuità storica e culturale sia con il passato classico sia con quello carolingio. Altri crocifissi di misure ridotte, forse di devozione privata, ci sono stati conservati e due fra i più belli recano il nome di committenti femminili: a Matilde, badessa del convento di Essen (973-1011) risale un sontuoso crocifisso detto Primo Crocifisso di Matilde (Essen Domschatz) dove la stessa Matilde è raffigurata con smalti policromi accanto al fratello Ottone. Il volto del Cristo umanamente delicato e sensibile, incorniciato da ciocche di capelli e dai lunghi baffi e il suo corpo pateticamente smagrito sembrano anticipare i crocifissi della scultura romanica. Il Crocifisso di Gisela d’Ungheria (Monaco, Residenz Schatzkammer) presenta invece la figura astratta e frontale del Cristo circondata intieramente da piccoli cuori di perle e smalti. L’interesse di questi crocifissi sta anche nell’alternare un simbolismo astratto con una nascente plasticità realistica che fa presagire prossimo l’avvento del Romanico. Il piccolo Crocifisso d’argento commissionato da Bernoardo di Hildesheim (Hildesheim, Dom und Diözesan Museum) e soprattutto il piccolo Crocifisso d’avorio commissionato da Egberto di Treviri (Maastricht, Sint Servaas) di straordinaria pateticità in contrasto con i delicati fiori di smalto che lo circondano, si collocano su un crinale stilistico che denuncia ormai prossimo l’avvento della scultura romanica. Occorre infine ricordare un’ultima commissione di quello straordinario mecenate in ogni campo che fu Egberto di Treviri, perché essa inaugura un

101. Crocifisso dell’Impero. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer.

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102. Crocifisso di Lotario. Aquisgrana, Domschatz.

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103. Crocifisso detto Primo Crocifisso di Matilde. Essen, Domschatz.

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104. Crocifisso detto Primo Crocifisso di Matilde. Particolare: la badessa Matilde con il fratello Ottone. Essen, Domschatz.


105. Crocifisso di Gisela d’Ungheria. Monaco, Residenz Schatzkammer.

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106. Crocifisso d’argento di Bernoardo. Hildesheim, Dom und Diözesan Museum.

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108. Reliquiario detto Piede di sant’Andrea. Treviri, Domschatz.

107. Crocifisso d’avorio. Maastricht, Schatkamer Sint Servaas.

‘genere’ di oggetti del tutto nuovo, destinato a grande fortuna: si tratta di un cosiddetto ‘reliquiario parlante’, il Piede di sant’Andrea (Treviri, Domschatz), un contenitore antropomorfico di reliquie, che suggerisce una presenza reale, operatrice di effetti salvifici. Il piede poggia senza suola sulla cassetta e ha una fattura straordinariamente realistica; solo i lacci che trattengono il piede, gremiti di pietre preziose, denunciano il gusto delle oreficerie ottoniane. Il posto privilegiato che le arti minori occupano intorno al Mille si estende anche agli arredi ecclesiastici, i cosiddetti ornamenta ecclesiae, opere di grandi

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109. Porta bronzea. La creazione di Eva. Hildesheim, Duomo.

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dimensioni e di ricchezza strepitosa. Ci limitiamo a citarne tre: l’Antependio di Basilea in oro (Parigi, Musée National du Moyen Âge) donato da Enrico ii al Duomo quando la città fu incorporata all’Impero, opera di singolare gusto trascendente nelle persone allineate sotto le arcate; le monumentali Porte bronzee del Duomo di Hildesheim, con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, che raggiungono quasi i cinque metri di altezza e che furono incredibilmente realizzate in un solo getto di fusione; e l’Ambone di Enrico ii del Duomo di Aquisgrana, gremito di gemme e persino di avori tardo antichi di ricupero: opere, si può dire, senza precedenti e forse senza paragoni.

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110. Porta bronzea. Hildesheim, Duomo.

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111. Antependium in oro di Basilea. Parigi, Musée National du Moyen Âge-Hôtel de Cluny.

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112. Commentario all’Apocalisse del Beatus di Liébana. Il terzo angelo versa la coppa. Madrid, Biblioteca Nacional, cod. vitr. 14-2, fol. 216v.

113. Commentario all’Apocalisse del Beatus di Liébana. L’adorazione dell’Agnello. Madrid, Biblioteca Nacional, cod. vitr. 14-2, fol. 205r.

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VII i grandi centri delle arti minori nell’età romanica

114. Ambone di Enrico ii. Aquisgrana, Duomo.


L’impetuosa rinascita delle arti maggiori in età romanica toglie alle arti minori quel carattere egemone che avevano intorno al Mille; tuttavia ad uno sguardo più attento non sfuggirà che la creazione di opere d’arte minore continua ad essere intensa nei campi prediletti dell’oreficeria e della miniatura, ed anche in modi largamente indipendenti dalle arti maggiori. Non solo la gloriosa tradizione precedente continua ad esercitare un forte influsso, ma anche si affacciano in questo periodo altre novità e nuovi apporti specifici delle arti minori; notiamo soprattutto una preferenza rivolta alle ‘arti del colore’ come gli smalti e le vetrate e, nello stile, una ripresa matura di quel sotterraneo classicismo presente come aspirazione costante nel corso di tutto il Medioevo. Si mantengono invece uguali e costanti i canali di produzione, il ruolo dei centri di produzione e dei grandi committenti, i vescovi e gli abati delle grandi abbazie. Più che nel passato affiorano nomi di grandi artisti chiamati a lavorare fuori della loro terra d’origine e ai nomi di raffinati committenti si aggiungono quelli di dotti teologi, responsabili di impianti iconografici. Cade nel secolo xii il solo importante trattato medievale sulle tecniche artistiche, la Schedula diversarum artium del monaco Teofilo, divisa in tre libri, dedicati rispettivamente alla pittura, alle vetrate e all’oreficeria. Si può dire dunque che emerge maggiormente in questo periodo il carattere colto degli ambienti in cui nascono le opere d’arte minore; ne è prova anche il vistoso aumento di complesse iconografie che corredano spesso gli oggetti, riflesso della circolazione di una cultura teologica e filosofica1. Reliquiari d’ogni tipo, altaroli portatili, placchette, crocifissi offrono spazio ad una iconografia non solo ricchissima ma spesso inedita, non sempre di facile accesso, basata sul principio fondamentale del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. Rinnovando l’antica tradizione della Patristica, i fatti del Nuovo Testamento sono costantemente letti alla luce dei fatti dell’Antico Testamento; questi prefigurano quelli del Nuovo Testamento, ne sono ‘l’ante-tipo’ o semplicemente il ‘tipo’. Questa iconografia tipologica era già in uso nell’iconografia dei primi secoli e basti pensare ai mosaici di Santa Maria Maggiore a Roma o alla Cattedra eburnea di Massimiano a Ravenna; ma certamente in questo xii secolo i program-

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mi iconografici basati sulla lettura tipologica della Bibbia si fanno più sottili e abbondanti, grazie a quei centri culturali che si dedicavano all’esegesi biblica e all’influsso di eruditi come Rupert di Deutz, teologo e monaco, abate dell’abbazia di Sant’Eriberto a Deutz. Questa dotta ‘lettura’ iconografica era naturalmente accessibile solo a persone colte, agli ‘addetti ai lavori’, diremmo oggi, e arriva a sfiorare l’ermetismo, se non ci fossero spesso ampie scritte che accompagnano fatti e personaggi biblici, ‘tipi’ di Cristo e della Redenzione. Se diamo uno sguardo a una tavola cronologica dell’arte romanica ci accorgeremo di un fatto generalmente poco osservato e cioè che nei decenni centrali del secolo xii abbiamo una straordinaria concentrazione di opere importanti d’arte minore. È in questi decenni che alcuni luoghi di produzione artistica vivono una fase di intensa fioritura ed è da questa mappa artistica del xii secolo che ci lasceremo guidare per segnalare alcuni centri ai quali sono legati i massimi capolavori dell’età romanica. In testa a questa rassegna dei centri maggiori si colloca l’area mosana, che già sotto gli Ottoni si era distinta negli avori di Liegi per un timbro culturale più morbido e naturalistico. Ad una data molto precoce, tra il primo e il secondo decennio del xii secolo, nasce un capolavoro, la Vasca battesimale in metallo fuso (Liegi, chiesa di Saint-Barthélemy) dell’orafo Renier de Huy, che i documenti ricordano come “Renierus, aurifaber Hoyensis”. Nelle scene del Battesimo di Cristo le figure si dispongono contro il liscio cilindro della vasca con morbida naturalezza e il panneggio, abbandonate le cristallizzazioni dello stile ottoniano, ha una fluidità che anticipa di almeno mezzo secolo la stagione del primo ‘Gotico Classico’, le statue di Reims e di Magonza. Il bacino della vasca poggia su dodici buoi, secondo la precisa descrizione di un passo biblico relativo agli arredi del tempio di Gerusalemme (1 Re 7, 23-26). La vasca battesimale di Liegi si colloca cronologicamente in testa alla felice stagione degli smalti della valle mosana che fiorirà soprattutto intorno alla metà del secolo. La lavorazione a smalto era già collaudata in epoca medievale: nella tecnica cloisonné la superficie di base, generalmente in oro, veniva suddivisa da lamine

115. Renier de Huy, Vasca battesimale. Liegi, chiesa di Saint-Barthélemy.

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sottili in alveoli (cloisons) nei quali si versava la pasta vitrea dello smalto; nella tecnica champlevé, diffusa in questo periodo, gli alveoli per la pasta vitrea venivano scavati direttamente dal fondo. Risale a Teofilo la notizia, che pare collaudata, circa il reperimento dello smalto ottenuto macinando gli antichi mosaici. La committenza di grandi opere di smalti champlevés di straordinaria ricchezza iconografica è legata al prestigioso nome di Wibaldo, monaco benedettino e abate coltissimo dell’abbazia di Stavelot tra il 1130 e il 1158, a capo anche di missioni diplomatiche2. Probabilmente nel corso di una di queste missioni, Wibaldo aveva ricevuto dalle mani stesse dell’imperatore d’Oriente Manuele i Comneno due piccoli reliquiari bizantini della Vera Croce. Questi compaiono al centro del Trittico di Stavelot (New York, Pierpont Morgan Library), mentre sulle ali sono collocati sei tondi smaltati di iconografia bizantina con storie di Costantino ovvero della Vera Croce. Si tratta di un’opera tipica della mescolata cultura del mondo bizantino del tempo, presente in Occidente. In questo clima nasce anche un altro trittico famoso in champlevé, il Trittico di Alton Towers (Londra, Victoria and Albert Museum) in ottone dorato con bellissimi toni dominanti azzurri e turchesi degli smalti e con una tipica serie di fatti veterotestamentari allegorici del Cristo e della sua redenzione3. Queste opere mosane, forse perché nate dalla stretta collaborazione tra committenti, teologi e artisti, si caratterizzano anche per la grandiosità del progetto. Il progetto più grandioso doveva essere la Pala di san Remaclo, che misurava circa tre metri per tre metri, eseguita probabilmente sotto la direzione di Wibaldo intorno al 1150, nota a noi solo attraverso un disegno secentesco. Le sole placchette rimasteci raffigurano la Fides (Francoforte, Museum für Angewandte Kunst) e l’Operatio (Berlino, Kunstgewerbe Museum); la loro pensosa bellezza, il loro equilibrio sentimentale e compositivo esprimono bene la tendenza classicheggiante della scuola mosana. Questo importante capitolo mosano si conclude trionfalmente alla fine del secolo xii con la grande personalità di Nicolas de Verdun. Le uniche notizie certe su di lui si desumono dalle iscrizioni apposte alla grande Pala eseguita nel

116. Pala di San Remaclo. Placchetta in smalto con “Fides”. Francoforte, Museum für Angewandte Kunst.

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117. Trittico di Stavelot. New York, Pierpont Morgan Library.

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118. Trittico di Alton Towers. Londra, Victoria and Albert Museum.

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119. Nicolas de Verdun, Pala di Klosterneuburg. Klosterneuburg, Stiftsmuseum.

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1183 per la comunità dei canonici regolari di Klosterneuburg vicino a Vienna. In origine essa doveva rivestire un ambone; poi smontata in seguito a un incendio nel 1330, fu trasformata in un grande trittico d’altare. La grandiosità del progetto non ha paragoni in tutto il secolo. Le placche smaltate sono accompagnate da scritte esplicative di un imponente programma tipologico, suddiviso in tre gruppi: episodi ante Legem, sub Lege e sub Gratia, cioè prima della Legge data a Mosè, sotto la Legge mosaica e sotto la venuta di Cristo, episodi che secondo la lettura tipologica dovevano essere letti in parallelo, con l’aiuto e il commento di numerose scritte. Le cornici degli archetti e le sottili doppie colonne divisorie accrescono il senso di classico equilibrio delle scene e delle singole figure; la rinuncia audace alla policromia nelle scene, sostituita dalla sola raffinata gamma cromatica degli azzurri accostati all’oro, accentua lo splendore dell’insieme. Gli studiosi sono concordi nel riferire a Nicolas de Verdun anche l’Arca dei re Magi (Colonia, Duomo), un sontuoso reliquiario in forma di basilica a tre navi. Numerose placchette cesellate e smaltate ne costituiscono il folgorante apparato decorativo. Le figure di profeti e di santi che si allineano lungo i fianchi di questa

120. Nicolas de Verdun, Pala di Klosterneuburg. Particolare. Klosterneuburg, Stiftsmuseum.

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121. Nicolas de Verdun, Pala di Klosterneuburg. Elia sul carro di fuoco. Klosterneuburg, Stiftsmuseum.

122. Nicolas de Verdun, Pala di Klosterneuburg. Salomone e la regina di Saba. Klosterneuburg, Stiftsmuseum.

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123. Nicolas de Verdun, Arca dei Re Magi. Colonia, Duomo.

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microarchitettura in forma di basilica sono vere e proprie statue in miniatura che si stagliano sul fondo in pose drammaticamente mosse. È questa forse la più alta espressione di quel classicismo quasi istintivo della scuola mosana, che abbiamo già ricordato, in anticipo sulla scultura dei decenni successivi. Non è forse eccessivo individuare nella regione mosana una sorta di area modello per altri campi e per altri territori: per esempio è possibile cogliere un collegamento tra il cromatismo degli smalti della regione mosana e la miniatura anglosassone che fiorisce nei centri abbaziali dell’Inghilterra meridionale, intorno ai medesimi anni centrali del secolo xii: St. Albans, Bury St. Edmunds, Winchester e soprattutto Canterbury4, erano in contatto con le scuole renane e mosane. I codici miniati di questa area, come il Salterio di St. Albans (Hildesheim, St. Godehard), si riconoscono per il tracciato vigoroso dei contorni che dà alle

124. Nicolas de Verdun, Arca dei Re Magi. Un profeta. Colonia, Duomo.

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126. Bibbia di Winchester. Incipit del Libro dell’Esodo. Winchester, Cathedral Library.

125. Nicolas de Verdun, Arca dei Re Magi. Veduta frontale. Colonia, Duomo.

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immagini un tono particolare, diremmo una complessa miscela di stile ottoniano, di influenze mosane e anche di accenti romanici di origine letteraria franco normanna. Anche nella Vita di sant’Edmondo (circa 1130, New York, Pierpont Morgan Library) le reminiscenze iconografiche ottoniane si mescolano a una cromia splendente di azzurri e di verdi negli sfondi, che ricorda gli smalti mosani. Un grande miniatore, Maestro Hugo, ci è noto per un altro capolavoro, la Bibbia di Bury St. Edmunds (Cambridge, Corpus Christi College), la prima delle grandi Bibbie inglesi, eseguita quando l’abbazia di Bury St. Edmunds era guidata da Anselmo, un italiano già abate di San Saba a Roma. Maestro Hugo è noto per

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127. Vita di sant’Edmondo. New York, Pierpont Morgan Library, ms. 736, fol. 22v.

avere introdotto il cosiddetto panneggio clinging curvilinear, tipico dello stile miniatorio degli scriptoria inglesi, forse mutuato dall’eredità bizantina. Con questo tipo di panneggio il corpo risulta come diviso in segmenti curvilinei, che tuttavia suggeriscono una loro tridimensionalità. Di ricordo ancora bizantino sembrano anche le tipologie dei visi, dai lineamenti sottili e dai grandi occhi spalancati5. Gli anni gloriosi dell’abate Anselmo e di Maestro Hugo a Bury St. Edmunds, intorno alla metà del secolo, sono gli stessi, con tutta probabilità, che vedono nascere anche la croce detta Re dei Confessori (New York, Metropolitan Museum, The Cloisters), un grande crocifisso d’avorio, un assoluto capolavoro riferibile all’ambiente artistico della abbazia di Bury St. Edmunds. La grande croce di avorio, alta poco più di mezzo metro, è dedicata al Re dei Confessori, denominazione insolita di Cristo, ed è lavorata su entrambi i lati con oltre 100 figure e una sessantina di iscrizioni che coprono ogni superficie disponibile. La croce aveva probabilmente un uso processionale, legato alla solenne liturgia del Venerdì Santo. Intorno alla figura del Cristo crocifisso, oggi perduta, ruota tutta una iconografia complessa, specialmente nel medaglione centrale, gremito di figure che allu­dono al sacrificio di Cristo. Nel ‘verso’, intorno al medaglione centra­le occupato dall’Agnello, tutti i bracci della croce sono istoriati da figure di profeti in posizioni straordinariamente variate e dinamiche, muniti di lunghi cartigli, che profetizzano il sacrificio di Cristo. Il terzo centro che vogliamo proporre, dopo la regione mosana e le abbazie inglesi, è la chiesa di Saint-Denis a Parigi: non dunque un territorio come nei due casi precedenti ma un’abbazia, retta negli anni 1122-1151 da una straordinaria personalità, quella dell’abate Suger. Rapidamente asceso al ruolo di consigliere e familiare del regno, grande viaggiatore e soprattutto grande e illuminato amatore d’arte, Suger approfitta senza remore moraleggianti della opulenza economica di cui godeva l’abbazia sotto il suo governo per un ideale opposto a quello del suo grande contemporaneo san Bernardo. Un suo scritto De rebus in administratione sua gestis, dedicato ai suoi interventi nell’abbazia, nasconde in realtà una sottile giustificazione del suo mecenatismo grandioso e continuo. Sul piano architet-

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128. Salterio di St. Albans. Il ritorno dei Magi. Hildesheim, St. Godehard.

129. Bibbia di Lambeth Palace. Scene del Libro di Ezechiele. Londra, Lambeth Palace Library, ms. 3, fol. 258r.

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130. Bibbia di Bury St. Edmunds. Mosè spiega la Legge agli Israeliti. Cambridge, Corpus Christi College, ms. 2, fol. 94r.

131. Croce in avorio detta Re dei Confessori, recto. New York, Metropolitan Museum of Art, The Cloisters.

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133-134. Croce in avorio detta Re dei Confessori, verso. Particolari dei bracci. New York, Metropolitan Museum of Art, The Cloisters.

132. Croce in avorio detta Re dei Confessori, recto. Particolare del medaglione centrale. New York, Metropolitan Museum of Art, The Cloisters.

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135. Vetrata delle allegorie di san Paolo. Cristo tra la Chiesa e la Sinagoga. Parigi, Saint-Denis.

tonico è noto il suo intervento di portata addirittura storica, che riguarda la costruzione del nuovo coro di Saint-Denis, a doppio ambulatorio e con cappelle radiali e cripta, destinato a fondare addirittura una nuova interpretazione dello spazio. Il nome di Suger è legato anche alla dotazione di vetrate (le più antiche dopo quelle di Le Mans) delle sette coppie di finestre nelle cappelle dei deambulatori di Saint-Denis, con un programma iconografico tipologico, per realizzare le quali Suger specifica di aver chiamato artisti “de diversis nationibus”. A questa impresa Suger dedica parole ispirate e quasi mistiche sullo splendore irreale delle vetrate, che simili a gemme preziose traggono lo spettatore per “visibilia ad invisibilia”. Si riconosce in queste parole l’influsso delle opere dello pseudo-Dionigi, l’anonimo autore cristiano vissuto nella seconda metà del v secolo, patrono

136. Vetrata con le storie di san Dionigi. Particolare. Parigi, Saint-Denis.

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dell’abbazia parigina. È certo comunque che il pensiero di Suger era legato agli scritti di matrice agostiniana di Ugo di San Vittore, a lui contemporaneo. Le Vetrate di Saint-Denis sono oggi profondamente alterate da restauri e rifacimenti ottocenteschi; ma i frammenti superstiti testimoniano la loro qualità e la loro importanza. La gamma profonda degli azzurri delle vetrate del deambulatorio sembra ricondurci ancora una volta agli smalti mosani e alle miniature anglosassoni. Sebbene la decorazione vetraria nasca anzitutto dalla applicazione di

cartoni pittorici, le vetrate appartengono agli ornamenta ecclesiae più che al campo della pittura, perché la loro esecuzione comporta una tecnica precisa, già descritta da Teofilo nel suo trattato; essa si basa essenzialmente sulla creazione di grandi frammenti di vetro colorato (gli ‘antelli’) legati fra loro da una struttura di piombo a formare composizioni figurate. Nell’instancabile amore di Suger per le cose belle e preziose, non poteva mancare l’acquisizione di oggetti antichi di grande pregio, destinati ad essere custoditi nei famosi armadi fatti costruire appositamente per il Tesoro di Saint-Denis. Su questi oggetti Suger ama intervenire talvolta per impreziosirli: non solo ripara il Trono di Dagoberto, non solo arricchisce di smalti il piede della grande croce d’altare di sant’Egidio ma anche acquisisce al Tesoro quattro preziosi vasi antichi in pietra dura; ad uno di essi, noto come Aquila di Suger (Parigi, Louvre), aggiunge la testa, le ali e le zampe di un’aquila in argento dorato, facendovi incidere in latino: “questa gemma meritava di essere incastonata nell’oro e nelle pietre preziose. Essa era di marmo ma così essa è più preziosa del marmo”. Come ultimo centro di arti minori in epoca romanica proponiamo Venezia, non tanto per una produzione locale di oggetti preziosi, quanto per la sua permanente funzione di porta aperta verso l’Oriente, che in questi decenni intorno al 1200 conosce una stagione particolarmente intensa. Lungo tutto il Medioevo e soprattutto in epoca ottoniana erano giunti da Bisanzio numerosi oggetti preziosi nati nelle botteghe costantinopolitane; questo traffico si intensifica nel tempo delle Crociate, come attestano le collezioni di cimeli bizantini nel Tesoro della basilica di San Marco, programmata su un prototipo costantinopolitano. Questo Tesoro è la viva testimonianza del legame strettissimo tra Venezia e Bisanzio, un legame che viene straordinariamente alimentato dal mecenatismo dei dogi da un lato e dall’altro dalla raffinatezza culturale degli imperatori Comneni. Numerose placchette di smalto su oro della seconda metà del xii secolo hanno una ornamentazione squisita e di grande freschezza cromatica che riveste da capo a piedi esili figurette di santi, come il San Demetrio orante di Berlino, con una profusione di minuscoli motivi floreali stilizzati che ricordano la lavorazione dei

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137. Vaso antico detto Aquila di Suger, dal tesoro di Saint-Denis. Parigi, Musée du Louvre.

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138. Pala d’Oro. Grande placchetta smaltata con l’Anastasis. Venezia, San Marco.

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tappeti. Questa sontuosità decorativa, di straordinaria fattura si concentra in una opera grandiosa, la famosa Pala d’Oro di San Marco a Venezia. Commissionata a Costantinopoli poco prima del Mille, già rifatta nel 1105 sotto il doge Ordelaffo Falier, si arricchisce ulteriormente intorno al 1200, al tempo del doge Pietro Ziani, con materiali predati nel saccheggio di Costantinopoli. Indescrivibile è la ricchezza delle placchette smaltate con figure di arcangeli e di apostoli nella parte inferiore, alle quali si aggiungono sei grandi placchette di un ciclo delle Dodici Feste, rimontate nella parte superiore della Pala.

139. Pala d’Oro. Grande placchetta smaltata con l’Entrata in Gerusalemme. Venezia, San Marco.

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140. Pala d’Oro. Venezia, San Marco.

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141. Tapiz de la Creaciรณn. Gerona, Museo de la Catedral.

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VIII lo splendido epilogo delle arti minori nell’autunno del medioevo

142. Placchetta in oro e smalti con san Demetrio orante. Berlino, Staatliche Museen, Kunstgewerbemuseum.

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Il termine “Autunno del Medioevo”, felicemente coniato dallo storico Huizinga, suggerisce in modo espressivo l’immagine del lento, affascinante tramonto del mondo medievale, di quella cultura che aveva circolato più o meno in tutti i territori europei per quasi dieci secoli e che si era rispecchiata nelle creazioni dell’arte. Alla fine del Trecento l’Europa appare stretta in un raffinato decadentismo che si nutre di scambi culturali intensi, di una circolazione così fitta di opere e di artisti in vari territori da giustificare molto bene il titolo, ormai entrato nell’uso, di Gotico Internazionale. Questa affascinante vicenda internazionale è racchiusa, più o meno ovunque, entro i limiti di mezzo secolo, all’incirca tra il 1380 e il 1420/30. In questo periodo entrano da protagoniste, ancora una volta e forse più che mai, le arti minori. Codici miniati, oreficerie, gioielli, arazzi sono oggetti ambiti dal collezionismo insaziabile dei membri della corte e dei circoli aristocratici, come pure di una classe borghese, gravitante intorno alla corte, in ascesa sociale ed economica competitiva. Figura di spicco di questa borghesia quel Pierre Salmon, consigliere del re Carlo vi e autore dei Dialogues, che vediamo discorrere confidenzialmente con il re nella sua camera da letto. Il collezionismo di questa epoca non è solo l’espressione più immediata di una potenza economica pressocché illimitata; questi oggetti rivelano anche acutamente un clima di evasione che si esprime in una moda sofisticata, capricciosa, ridondante. Una società ancora feudale nel suo inarrestabile declino celebra il proprio stile di vita lussuosamente artificioso, uno stile di vita che sembra sostituirsi alla vita stessa. Sedi privilegiate di questo lungo tramonto e cantieri centrali di questa enorme produzione sono Parigi e le altre città dove risiedeva la corte, Digione, Bourges, Mehun; ma non meno importanti sono i territori della Fiandra e dell’Artois dove regnava per via di matrimonio Filippo l’Ardito, duca di Borgogna; e dalla Fiandra per circa mezzo secolo continueranno ad affluire in terra francese pittori e miniatori a rinsanguare il gusto elegantemente artificioso delle corti francesi. Si aggiungano, infine, i contatti artistici fitti e continui tra le varie corti europee, soprattutto la Praga di Venceslao e la Lombardia dei Visconti, a loro volta fra loro intrecciate per via di una intensa politica di matrimoni.

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143. Arazzo dell’Apocalisse di Angers. San Michele e il drago. Angers, Musée du Château.

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144. Arazzo dell’Apocalisse di Angers. L’angelo misura la Gerusalemme celeste. Angers, Musée du Château.

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La scelta del nostro campo di osservazione cadrà dunque necessariamente sul palcoscenico francese come laboratorio creativo di un collezionismo di ‘arti minori’ senza paragoni. Sebbene la miniatura prodotta in questo epicentro artistico sia da sola largamente sufficiente a darci lo specchio del gusto del Gotico Internazionale, converrà prima fare qualche cenno al campo dell’oreficeria e dell’arazzo perché questi due ‘generi’ assumono in questa epoca un ruolo nuovo, molto rappresentativo. L’arazzo non è che l’equivalente mobile della pittura, così mobile che spesso nei cambi di residenza i loro grandi proprietari li portavano al seguito arrotolati; e impegnava i pittori che ne fornivano i disegni. Citeremo solo l’esemplare più famoso e grandioso, l’Arazzo dell’Apocalisse di Angers, commissionato da Luigi i d’Angiò (che già ne possedeva settantasei) verso il 1373, i cui disegni furono realizzati da Jean Bondol di Bruges, pittore di Carlo v. Questo arazzo spettacolare era in origine composto di sei pezzi, ciascuno dei quali misurava 25 metri di lunghezza e 6 di altezza ed era tessuto in modo che fosse visibile su ambedue i lati, prestandosi dunque a un uso di schermo mobile. Ciò che è giunto fino a noi rappresenta circa i due terzi di tutta l’opera, che conta una ottantina di visioni apocalittiche su un fondo alternativamente rosso e turchino, di uno stile monumentale e drammatico del tutto nuovo. Anche l’oreficeria presenta novità importanti: verso la metà del Trecento fa la sua comparsa una tecnica del tutto nuova, lo smalto sur ronde-bosse d’or, nella quale lo smalto veniva steso direttamente sull’oro senza i cloisons tradizionali. La figura coperta di smalto traslucido veniva così ad acquistare un realismo più forte, assumendo l’aspetto di una vera e propria microscultura. Con questa nuova tecnica vengono creati dei ‘trionfi’ di oreficeria, composizioni in forma di piccole guglie o baldacchini, che ospitano numerose figure in complesse iconografie. È alto poco meno di 50 cm il Tableau de la Trinité (Parigi, Louvre), dono di Jeanne di Navarra al figlio, simile a un pinnacolo architettonico o se vogliamo a un grande ostensorio, eseguito intorno al 138090. Le figure centrali, Dio Padre e la Vergine, sono circondate da altre figure minori di santi; lo smalto bianco delle loro vesti, le perle, gli zaffiri e i rubini,

145. Tableau de la Trinité. Parigi, Musée du Louvre.

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146. Goldenes Rössl. Altötting (Baviera), Kapellstiftung, Schatzkammer der Heiligen Kapelle.

147. Goldenes Rössl. Particolare. Altötting (Baviera), Kapellstiftung, Schatzkammer der Heiligen Kapelle.

i fiorellini di smalto intorno alla base, tutto conferisce all’insieme un tono di raffinata eleganza cromatica. Celebre capolavoro di questa nuova oreficieria è il cosiddetto Goldenes Rössl (Altötting, Kapellstiftung, Schatzkammer) eseguito prima del 1405. Un arioso traliccio d’oro fa da sfondo alla candida figura della Vergine omaggiata da tre santi bambini: Caterina d’Alessandria, Giovanni Battista, Giovanni Evangeli-

sta. Ai piedi della Vergine è inginocchiato il re Carlo vi e in basso, al centro di una sorta di piccolo palcoscenico, un valletto vestito di una stravagante livrea all’ultima moda tiene per le briglie il cavallo: dal mondo trascendente si passa al mondo temporale senza soluzione di continuità, con lievità, con eleganza. Come si diceva, l’espressione più ricca e completa dello stile e della cultura del Gotico Internazionale si trova nei codici miniati in Francia e in modo par-

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148. Bible moralisée. Particolare. Parigi, Bibliothèque Nationale, fr. 166, fol. 18v.

149. Poèmes de Guillaume de Machaut. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 1586, fol. 103r.

ticolare, ma non esclusivo, a Parigi, dove nel giro di circa trenta, quaranta anni viene prodotto un numero quasi incredibile di libri religiosi e profani. Destinati alle biblioteche aristocratiche e oggetto di un collezionismo quasi insaziabile, i libri miniati riflettono anche l’uso del libro stesso, i gusti e le scelte culturali di quella società. Può sorprendere l’alto numero di libri religiosi prodotti, in modo particolare Libri d’Ore lussuosamente decorati. I Libri d’Ore erano compendi di testi di devozione ad uso dei laici, che hanno il loro nucleo centrale nelle ‘Ore’ o Ufficio della Beata Vergine, donde il titolo del libro. Il Libro d’Ore era già in uso nel xiii secolo ma si diffonde in modo enorme soprattutto in Francia e nei Paesi Bassi, fino ad assumere una importanza centrale nelle committenze aristocratiche. La decorazione di un Libro d’Ore, come qualsiasi libro miniato di una certa importanza, comportava interventi diversi: dal semplice copista del testo al decoratore di bordi o dei capilettera, al miniatore maggiore che interveniva nelle scene a piena pagina; richiedeva dunque la presenza di una vera e propria bot-

tega di miniatori e la bottega presuppone l’alternanza di più mani nel singolo libro miniato, per cui l’identificazione delle diverse mani da parte degli studiosi rappresenta un esercizio critico spesso arduo. Accanto ai Libri d’Ore altri libri di soggetto religioso erano i Salteri e le Bibbie, Bibles historiales con illustrazioni di una pagina biblica e Bibles moralisées, nelle quali ad un testo illustrato corrisponde un testo di commento morale o allegorico. Accanto ai libri di religione la biblioteca di un bibliofilo comprendeva anche libri di cultura profana, un buon numero di autori classici e moderni, i cui nomi mostrano preferenze talora curiose, le Decadi di Tito Livio, Terenzio, Plauto, Cicerone; e tra gli autori ‘moderni’ Petrarca e Boccaccio, la poetessa Christine de Pisan, il Livre de chasse di Gaston Phoebus, le opere di Guillaume de Machaut, poeta e musicista, il Livre des Merveilles, quest’ultimo deliziosa compilazione di testi di viaggi. Figura centrale, protagonista sommo dello splendido collezionismo che attraversa tutta la lunga stagione del Gotico Internazionale è Jean de Berry (1340-

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151. Dialogues de Pierre Salmon. Salmon conversa con Carlo vi. Ginevra, Bibliothèque Publique et Universitaire, ms. fr. 165, fol. 4.

150. Très Belles Heures de Notre-Dame. Jean de Berry in preghiera con i santi patroni Andrea e Giovanni Battista. Bruxelles, Bibliothèque Royale, 11060-11061, p. 10.

1416) terzo dei quattro figli di Giovanni ii. Le proporzioni enormi e il livello qualitativo delle sue committenze – già evidenti nel campo dei codici miniati giunti fino a noi, fra i più belli che possediamo in assoluto – appariranno quasi prodigiosi se esaminiamo i due inventari delle sue raccolte, redatti rispettivamente nel 1403 e 1417. Il primo conta 1317 oggetti complessivi con elenchi assai precisi dei libri e degli oggetti d’arte, oreficerie, arazzi, medaglie, cammei. Quanto ai libri miniati non sembri eccessivo dire che sarebbero sufficienti quelli eseguiti per Jean de Berry a darci una conoscenza più che sufficiente,

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152. 153. André Beauneveu, Salterio di Jean de Berry. Il profeta Malachia e l’apostolo Mattia. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 13091, fol. 29v.-30r.

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addirittura quasi completa, della miniatura del Gotico Internazionale francese nelle sue matrici fondamentali e nelle sue tappe nel corso di un trentennio, dal 1380 fino al 1416, anno della morte di Jean de Berry. Verso il 1386 per decorare un Salterio (Parigi, Bibliothèque Nationale) Jean de Berry volle la presenza di un grande artista, André Beauneveu di Valenciennes, scultore architetto e pittore, impegnato in varie imprese di spicco. Il suo intervento è riconoscibile nella splendida serie di Profeti e Apostoli che, seduti su elaborati troni gotici, si fronteggiano in due pagine vicine, secondo il tema tradizionale del confronto fra i due Testamenti. Una grisaille quasi impalpabile modella le figure monumentali, quasi fossero statue. Oltre al Salterio, sono ben quattro i Libri d’Ore che risalgono a Jean de Berry e tutti hanno per noi un valore storico oltre che artistico grandissimo per la presenza dei maggiori talenti miniatori dell’epoca. In uno di questi, le Très Belles Heures de Notre-Dame (Bruxelles, Bibliothèque Royale), Jean de Berry non esita a farsi ritrarre inginocchiato in preghiera. Il maggior miniatore delle Ore di Bruxelles è Jacquemart de Hesdin, il più colto dei miniatori del tempo, aperto alle novità italiane. A lui è assegnato anche uno splendido foglio con la Salita al Calvario (Parigi, Louvre) che gli studiosi ritengono essere l’unico foglio superstite, tra quelli a piena pagina, di un altro Libro d’Ore miniato per Jean de Berry1. Le misure del tutto insolite del foglio, misure massime di un foglio di pergamena (mm 400 per 300), permettono di ambientare la scena con una complessità e un gusto che annullano quasi le distanze tra miniatura e pittura su tavola. Gli echi di Simone Martini sono evidenti ma di Jacquemart è il tono poetico di calma pietà, la tecnica di sottigliezza quasi monocromatica, dove spiccano alti solo gli accenti di un azzurro smaltato. Un solo libro miniato raggiunge l’importanza artistica di quelli di Jean de Berry, le Ore del Maresciallo di Boucicaut (Parigi, Musée Jacquemart-André), il cui autore resta ancora anonimo2. Sorprende che un semplice ufficiale reale di piccola nobiltà abbia commissionato un Libro d’Ore così sontuoso, con una serie così ricca di miniature a piena pagina da pareggiare una committenza regale.

154. Jacquemart de Hesdin, Salita al Calvario. Parigi, Musée du Louvre, RF 2835.

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155. Très Belles Heures de Notre-Dame. Fuga in Egitto. Bruxelles, Bibliothèque Royale, 11060-11061, p. 106.

156. Grandes Heures de Jean de Berry. L’offerta di Gioacchino e Anna. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 919, fol. 8r.

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157. Ore del Maresciallo di Boucicaut. Visitazione. Parigi, Musée Jacquemart-André, ms. 2, fol. 65v.

158. Ore del Maresciallo di Boucicaut. Adorazione del Bambino. Parigi, Musée Jacquemart-André, ms. 2, fol. 73v.

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È possibile che gli anni della sua esecuzione cadano tra il 1401 e il 1409, quando il maresciallo di Boucicaut era stato nominato dal re signore di Genova3. Nelle splendide pagine delle Ore Boucicaut vengono come a maturazione tutte le novità e le conquiste della miniatura del tempo, i cieli illuminano di luce vera i paesaggi, ovunque si avverte un’attenzione nuova alla realtà dell’ambiente, dei personaggi, dei sentimenti, con una rara fusione di naturalezza e di eleganza. Alla bottega del Maestro delle Ore Boucicaut, attivissima circa fino agli anni venti e trenta del Quattrocento, sono legati altri nomi prestigiosi della miniatura franco fiamminga, soprattutto quelli di due grandi anonimi, il Maestro del Duca di Bedford e il Maestro delle Ore di Rohan. Nelle Grandes Heures de Rohan (Parigi, Bibliothèque Nationale) questo straordinario miniatore si differenzia per temperamento sentimentale dal Maestro delle Ore Boucicaut. Poco interessato, anzi quasi trascurato nelle definizioni di spazio e nella regolarità della composizione, il maestro delle Ore di Rohan si riconosce per la sua icastica, spesso violenta espressività, per la potenza delle sue immagini, che non hanno riscontro in alcuno dei codici del tempo. Si veda per esempio il foglio in cui l’Eterno Padre si affaccia da un parapetto di angeli a guardare con tenerezza e pietà un morente nudo sul terreno, oppure il foglio dell’Annuncio ai pastori, dove un pastore di proporzioni gigantesche danza al suono della sua cornamusa; persino la Vergine con il Bambino, pur nella sua eleganza, ha una nuova intimità sentimentale. Questi codici che si spingono fino al terzo decennio del Quattrocento e che accompagnano gli ultimi bagliori di questo ‘Autunno del Medioevo’ finiscono per saldarsi cronologicamente con le strepitose novità che si affacciano in Fiandra negli stessi anni. Ne sono protagonisti i tre fratelli, Jan, Hermann e Pol di Limbourg, provenienti come molti altri miniatori dalla Fiandra e che risultano già nel 1416 tutti e tre morti a Parigi, vittime di pestilenza. Sappiamo che Jan e Hermann erano entrati al servizio di Filippo l’Ardito, duca di Borgogna e signore della Fiandra, attraverso lo zio Jean Malouel, pittore di corte. Morto il duca nel 1404, è possibile che i due fratelli siano allora entrati al servizio del

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159. Grandes Heures de Rohan. L’Eterno Padre e un morente. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 9471, fol. 159r.

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161. Très Riches Heures du Duc de Berry. Mese di Febbraio. Chantilly, Musée Condé, ms. 65, fol. 2v.

160. Grandes Heures de Rohan. Compianto sul Cristo morto. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 9471, fol. 135.

duca di Berry, subentrando come pittori di corte a Jacquemart de Hesdin. Due manoscritti eseguiti consecutivamente tra il 1413 e il 1416 sono ricordati negli inventari del duca, le Belles Heures de Jean de Berry (New York, Metropolitan Museum, The Cloisters) e le celeberrime Très Riches Heures du Duc de Berry (Chantilly, Musée Condé). Precedono queste Ore di Chantilly i famosi dodici fogli del Calendario, ciascuno dei quali ci introduce in paesaggi incantevoli, che mutano secondo la stagione, nei quali si alzano sullo sfondo grandiosi castelli di straordinaria verità topografica. Passatempi aristocratici e duro lavoro contadino, tipi umani agli estremi della scala sociale popolano questi fogli e sono scrutati con impassibile attenzione. Nel Mese di Dicembre4, in un bosco visto come a volo d’uccello, la scena di caccia sostituisce la tradizionale iconografia del mese di dicembre (l’uccisione del porco): al suono del corno dei cacciatori la preda è raggiunta e azzannata dai cani. Ai fogli del

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162. Giovannino de’ Grassi, Taccuino di disegni. Cani che azzannano un cinghiale. Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Maj, ms. D vii.14.

163. Très Riches Heures du Duc de Berry. Mese di Dicembre. Chantilly, Musée Condé, ms. 65, fol. 12v.

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164. Très Riches Heures du Duc de Berry. Mese di Giugno. Chantilly, Musée Condé, ms. 65, fol. 6v.

165. Belles Heures de Jean de Berry. San Nicola salva dalla tempesta. New York, Metropolitan Museum of Art, The Cloisters, ms. 54.1.1, fol. 168.

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Calendario seguono ben 63 grandi miniature, che superano talora le misure dei piccoli dipinti contemporanei su tavola. Questo straordinario capitolo della miniatura del Gotico Internazionale si chiude con le avventurose vicende di un altro Libro d’Ore, ancora una volta commissionato da Jean de Berry, circa il 1409, le Très Riches Heures de Notre-Dame (Parigi, Bibliothèque Nationale), vicende che vale la pena di riassumere per la loro portata storica. Prima ancora della morte del grande mecenate nel 1416, il codice era stato interrotto e diviso in due parti distinte, ciascuna con un proprio Calendario. Una di queste parti, entrata in possesso dell’agente artistico del duca di Berry, Robinet d’Etampes, giunse alla Biblioteca Nazionale di Parigi; la seconda e più ampia sezione entrò in una bottega neerlandese, dove fu oggetto di una seconda campagna decorativa di grande importanza storica. Questa seconda porzione valicò in seguito le Alpi ed entrò in possesso della Biblioteca dei Duchi di Savoia; successivamente fu divisa ancora in due parti, una alla Biblioteca Trivulzio a Milano, l’altra alla Biblioteca di Torino. Quest’ultima andò perduta nel disastroso incendio del 1904. In seguito la porzione di libro della Trivulziana fu donata a Torino, dove è tuttora conservata, nel Museo Civico di Arte Antica, con il nome di Ore Torino-Milano. All’inizio del Novecento, quasi contemporaneamente, due grandi studiosi, il belga Hulin de Loo e il francese Paul Durrieu, analizzando ciascuno per proprio conto queste Ore, riconobbero in sette incantevoli fogli la presenza di un miniatore, battezzato da Hulin de Loo come ‘mano G’, che poi Durrieu propose di identificare con il giovane Jan van Eyck, entrato tra il 1422 e il 1424 alla corte di Giovanni di Baviera-Olanda. Tra quei sette fogli preziosi scegliamo quello dedicato alla Messa dei defunti, tema carissimo alla miniatura franco fiamminga e in particolare al Maestro delle Ore Boucicaut. Un confronto tra una di queste Messe dei defunti nelle Ore del Maresciallo di Boucicaut con lo stesso soggetto miniato da Jan van Eyck nelle Ore Torino-Milano mette in luce la continuità iconografica e al tempo stesso il balzo storico in avanti realizzato da Jan van Eyck. Nell’esemplare eickiano la

166. Michelino da Besozzo, Elogio funebre di Gian Galeazzo Visconti. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 5888, fol. 1r.

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167. Ore del Maresciallo di Boucicaut. La messa dei defunti. Londra, British Museum, add. 16997, fol. 119v.

168. Jan van Eyck, Ore Torino-Milano. La messa dei defunti. Torino, Museo Civico di Arte Antica, ms. 47, fol. 116r.

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splendida navata gotica vista in diagonale ha una nuova nitidezza di particolari architettonici e gotici, una sorta di intensificazione della prospettiva; monaci e dolenti circolano con agio nelle navate, il compianto è reso con un realismo nuovo. Van Eyck ha persino l’ardire di rappresentare alla sommità del foglio una sorta di ‘inganno ottico’, le terminazioni di costoloni e i mattoni di un muro in costruzione, come se vi fossero dei ‘lavori in corso’. Questi fogli furono miniati ad una data incerta ma comunque molto precoce, poiché essi dovrebbero cadere non oltre gli anni tra il 1422 e il 1424, quando il pittore era alla corte di Giovanni di Baviera-Olanda e dunque negli stessi anni in cui dalla bottega del Maestro delle Ore Boucicaut e dei Limbourg uscivano gli ultimi capolavori della miniatura del Gotico Internazionale. Le date comunque confermano la preziosa menzione sull’attività giovanile di Van Eyck dello storico napoletano del Cinquecento, Pietro Summonte: “Il grande maestro Johannes, que prima fe’ l’arte di illuminare, sive ut hodie loquitur miniare”. Che sia proprio la miniatura a inaugurare una svolta, un passaggio epocale in anticipo sulla pittura, ci pare un fatto interessante, ancora poco rilevato e che perciò ci sembra conchiudere degnamente questa breve rassegna, scritta ‘dalla parte delle arti minori’.

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Note al testo Note bibliografiche Elenco delle tavole Indice dei nomi di persona e di luogo


Note al testo

Capitolo I

Capitolo III

1. Anche in italiano abbiamo ‘arti decorative’, e ancora ‘arti applicate’ e ‘arti suntuarie’, tutti termini di per sé limitativi. 2. Leon Battista Alberti, Opere, a cura di Cecil Grayson, Laterza, Bari 1973, p. 522. 3. Giorgio Vasari, Le Vite..., Ed. Club del Libro, Milano 1962, p. 34-35, 37. 4. Paolo Pino, Dialogo della Pittura, Venezia 1548, riedito in Trattati d’arte del Cinquecento. Fra Manierismo e Controriforma, a cura di Paola Barocchi, i, Laterza, Bari 1960, p. 106. 5. Leopoldo Cicognara, Storia della scultura dal risorgimento delle Belle Arti in Italia fino al secolo di Napoleone, Venezia 1813-1818, antologizzato in Paola Barocchi, Testimonianze e polemiche figurative in Italia. L’Ottocento, G. D’Anna, Messina-Firenze 1972, p. 36. 6. Alois Riegl, Spätrömische Kunstindustrie, Wien 1901 (tr. it. Arte tardoromana, Einaudi, Torino 1959, iii ed. 1981). 7. Il concetto di ‘arti non libere’ (Unfreie Künste) viene usato da Benedetto Croce nel saggio Di alcune difficoltà concernenti la storia artistica dell’architettura, 1904, che fu ripubblicato in Problemi di Estetica, Laterza, Bari 1910, nel capitolo “Intorno all’unità delle arti”.

1. Ernst Kitzinger, Byzantine Art in the Making, Faber, London 1977 (tr. it. Alle origini dell’arte bizantina, Jaca Book, Milano 2005). 2. L’avorio negli oggetti d’arte tardo antica è generalmente ricavato dalle zanne dell’elefante. Veniva fatto essiccare, tagliato a pezzi e lavorato con gli stessi strumenti usati per la lavorazione del legno: seghe, lime, sgorbie. 3. Sul coperchio, Cristo in trono con i discepoli e, ai suoi piedi, anfore di vino che alludono alle nozze di Cana. Sui fianchi, Giudizio di Salomone (?) e Vergine in trono con il Bambino e donatori (i pastori? i Magi?). 4. Nel pannello di sinistra, Guarigione dell’emorroissa, Paralitico guarito, Guarigione dell’indemoniato. A destra, Strage degli innocenti, Battesimo di Cristo, Nozze di Cana.

Capitolo II 1. Bernardo di Chiaravalle, Apologia ad Guillelmum abbatem, traduzione italiana con testo latino a fronte in Opere di san Bernardo, i, a cura di Ferruccio Gastaldelli, Scriptorium Claravallense, Milano 1984. 2. Il passaggio del testo di Reginaldo, Libellus de admirandi beati Cuthberti virtutibus, è citato nel saggio di Meyer Schapiro, On the aesthetic attitude in Romanesque Art, 1948, ristampato nel volume Romanesque Art, Chatto & Windus, London 1977 (tr. it. Arte romanica, Einaudi, Torino 1982, p. 15). 3. La definizione di Guglielmo di Malmesbury è contenuta in De Gestis Pontificum Anglorum Libri Quinque, a cura di N.E.S.A. Hamilton, Longman & Co., London-Cambridge 1870, i, 43.

Capitolo IV 1. L’almandino deriva il suo nome da Alabandam nella Turchia sudoccidentale; è un minerale traslucido della famiglia dei granati, già noto e lavorato nell’antichità a cloisonné, la sua lavorazione più pregiata. In questa lavorazione il numero di almandini impiegati è altissimo: una semplice fibula ne porta un centinaio e più. 2. Il termine ‘oreficeria’ si riferisce soprattutto alla lavorazione dell’oro, con le sue caratteristiche di alto valore materiale ed estetico e la sua incorruttibilità, e alle pietre preziose; ma l’oreficeria comprende anche oggetti d’arte in argento o rame e numerose tecniche come la filigrana, lo sbalzo, l’incisione, il niello e così via. 3. Si può avere un’idea della grandiosità della Croce di sant’Eligio perché è riprodotta in un importante dipinto della fine del xv secolo, La Messa di sant’Eligio, di un pittore anonimo provvisoriamente chiamato Maître de Saint Gilles (Londra, National Gallery). 4. Varie le interpretazioni proposte: la Chiesa che protegge i fedeli; un auspicio di fecondità per la regina; un simbolo della continuità della vita. 5. Nella pagina d’apertura del Vangelo di Marco l’aquila, secondo l’interpretazione

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di Ireneo anteriore alla Vulgata, è il simbolo di san Marco. 6. Otto Pächt, Buchmalerei des Mittelalters. Eine Einführung, Prestel Verlag, München 1984 (tr. it. La miniatura medievale. Una introduzione, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 65).

Capitolo V 1. I Libri Carolini, o Capitulare de imaginibus, probabilmente furono scritti nella fase preparatoria del sinodo del 794 per confutare le disposizioni del Concilio di Nicea del 787, ritenute non scevre da iconolatria. 2. Per evangeliario si intende generalmente la raccolta dei testi evangelici. Per evangelistario si intende il libro contenente i brani del Vangelo secondo l’anno liturgico. 3. Sono detti Vangeli dell’Incoronazione perché si riteneva che fossero stati rinvenuti da Ottone iii quando fu aperta la tomba di Carlo Magno nell’Anno Mille. Gli imperatori germanici nel giorno della loro incoronazione giuravano su questo libro, che divenne parte delle insignia imperiali. 4. Sacramentario è il libro che contiene l’insieme delle orazioni che il celebrante pronuncia nell’Eucaristia.

Capitolo VI 1. Tra i ‘capolavori sacrificati’ in questa nostra scelta di concentrarci sulla dominante area ottoniana, ci limitiamo a citarne due. Il primo è una straordinaria opera di oreficeria, la Statua di Santa Fede, conservata ancora oggi nell’abbazia di Conques, a nord di Rodez, in Francia (vedi tavola 66). Per uno studio aggiornato sull’argomento cfr. Danielle Gaborit-Chopin, Il Tesoro di Conques e la Santa Fede, (prima del 1050), in Liana Castelfranchi Vegas, L’arte dell’Anno Mille in Europa (950-1050), Jaca Book, Milano 2000, p. 141-151. In area spagnola, e precisamente nei grandi monasteri del nord della Spagna (Távara, Valeránica), fiorisce intorno al Mille una produzione tutt’affatto ‘locale’ di incomparabile originalità: i manoscritti dei Commentari all’Apocalisse del Beatus di Liébana (vissuto nell’viii secolo) di cui esistono ventisette copie composte in età medievale e illustrate (vedi tavole 112,

113). I cicli di scene di soggetto apocalittico, inserite tra il testo e il commento del Beatus di Liébana, presentano un’interpretazione libera del testo apocalittico e al tempo stesso di un’audacia apparentemente infantile. Questi manoscritti hanno un periodo di massimo fulgore sotto il regno delle Asturie nell’xi secolo, ma proseguiranno fino a un’ultima fioritura nei secoli xii e xiii. 2. Così chiamato per aver illustrato un codice di un epistolario di san Gregorio, commissionato da Egberto dopo il 983, di cui ci rimangono solo due fogli isolati, uno conservato nella Stadtbibliothek di Treviri, l’altro nel Musée Condé di Chantilly (vedi tavole 74, 75). 3. Nell’Evangeliario di Ottone ii le quattro province rappresentate sono Sclavinia, Germania, Gallia e Roma, il codice dovette quindi essere eseguito dopo la vittoria degli Ottoni sugli Slavi (997). 4. L’idea della christomimesis e dell’imperatore Christomimete è bizantina e risale a Eusebio di Cesarea, contemporaneo di Costantino e suo biografo; essa vede nell’imperatore colui che personifica Cristo e agisce come christus, cioè l’unto del Signore; ma la rappresentazione ottoniana dell’imperatore come Cristo supera persino i modelli bizantini. 5. Con questo nome sono indicati due gruppi di avori rispettivamente legati ai due imperatori d’Oriente, Romanos ii (959963) e Nikephoros ii Foca (963-969). 6. Gli studiosi concordano nell’identificare l’imperatore cui è dedicato il secchiello liturgico con Ottone ii, perché a lui Gotofredo doveva la sua rapida carriera, da suddiacono ad arcivescovo nel 974. Tuttavia resta qualche incertezza perché Gotofredo muore nel 979 e la venuta dell’imperatore a Milano cade un anno dopo, nel 980. 7. Per il rapporto della Madonna in trono di Magonza con il Maestro del Registrum Gregorii e per tutti i rapporti tra l’area lombarda e l’arte ottoniana, cfr. Carl Nordenfalk, Milano e l’arte ottoniana. Problemi sinora poco osservati, in Carlo Bertelli (a cura di), Il millennio ambrosiano. La città del vescovo dai Carolingi al Barbarossa, Electa, Milano 1988, p. 102-123. 8. Dei manti di quell’epoca il pù sontuoso è quello di Enrico ii (Bamberga, Diözesanmuseum), ricamato in oro su fondo turchino, costellato come un cielo notturno

di medaglioni e di stelle che inquadrano soggetti religiosi e i segni dello zodiaco; una magnifica iscrizione autentica l’appartenenza a “Caesar Henrico” (vedi tavola 97).

Capitolo VII 1. Si veda per esempio il Tapiz de la Creación (Gerona, Museo de la Catedral, fine xi-inizio xii secolo), un grande ricamo di lana su tessuto di lino raffigurante scene della Genesi e, sulla fascia esterna, i mesi con i lavori agricoli (vedi tavola 141). 2. È probabile che Wibaldo abbia fatto ricorso a orafi stranieri per le sue molteplici commissioni. Una sua lettera di sollecito scritta nel 1148 è diretta a un “aurifaber G.” che si ritiene essere Godefroy de Huy. 3. Questa tipica serie di fatti veterotestamentari riferibili a Cristo comprendeva gli episodi di Giona e la balena, Il sacrificio di Isacco, Mosè e il serpente di bronzo, Sansone svelle le porte di Gaza. 4. Sui centri miniatori di Winchester e Canterbury (vedi tavole 126 e 129) cfr. Richard G. Gameson, L’arte nell’Inghilterra meridionale e in Fiandra, in Liana Castelfranchi Vegas, L’arte nell’Anno Mille in Europa (950-1050), Jaca Book, Milano 2000, p. 161-186. 5. Caratteristica unica della Bibbia di Bury St. Edmunds, le lettere iniziali sono dipinte su pezzi di pergamena indipendenti, applicati alla pagina. La sintesi culturale della Bibbia di Bury si ritrova anche nella grande Bibbia di Winchester della seconda metà del xii secolo, conservata a Winchester, nella Cathedral Library (vedi tavola 126).

Capitolo VIII 1. Di questo Libro d’Ore Grandes Heures de Jean de Berry, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 919 non rimangono che 28 piccole scene miniate da un artista diverso e minore di Jacquemart de Hesdin ma di consumata abilità nell’organizzazione decorativa della pagina, specie nelle bordure affollate di drôleries (vedi tavola 156). 2. Alcuni studiosi ritengono da tempo, ma senza riscontri documentari, che il Maestro delle Ore del Maresciallo di Boucicaut

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possa essere Jacques Coene di Bruges, attivo tra il 1388 e il 1404. L’identificazione del Maestro delle Ore del Maresciallo di Boucicaut con Jacques Coene di Bruges sarebbe assai interessante perché questi è documentato presente a Milano (“Jacobo Cona de Bruges”) nel 1399; si potrebbe anzi scorgere qualche traccia del suo stile nel maggiore miniatore lombardo di quegli anni, Michelino da Besozzo. Nell’Elogio funebre di Gian Galeazzo Visconti – Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 5888, fol. 1r. (vedi tavola 166) – miniato da Michelino nel 1403, la scena della Messa del defunto nel capolettera in basso è nel gusto e nello stile del Maestro delle Ore Boucicaut. 3. La presenza, in uno degli splendidi fogli a piena pagina dedicati ai santi, di santa Brigida, venerata a Genova, potrebbe avvalorare l’ipotesi. 4. Il Mese di Dicembre non è però assegnabile a uno dei fratelli Limbourg ma a un miniatore di una generazione più tarda, come ha chiaramente argomentato Luciano Bellosi, I Limbourg precursori di Van Eyck? Nuove osservazioni sui ‘Mesi’ di Chantilly, in “Prospettiva” i, 1975, p. 2434, ora in Luciano Bellosi, Come un prato fiorito. Studi sull’arte tardogotica, Jaca Book, Milano 2000, p. 111-122. Il Mese di Dicembre, come pure il Mese di Ottobre, sono attribuibili al miniatore Barthélemy d’Eyck verso il 1445-1450. Questa datazione, ben oltre la soglia del Quattrocento, ci interessa anche per il particolare del gruppo di cani intorno al cinghiale: esso è palesemente e strettamente legato a un foglio del Taccuino di disegni di Giovannino de’ Grassi nella Biblioteca Civica Angelo Maj di Bergamo (vedi tavola 162). Giovannino muore nel 1398, perciò la miniatura, certo posteriore, potrebbe, in linea ipotetica, derivare dal disegno, o comunque da una fonte comune.


Note bibliografiche

Opere generali Alcune opere di storia dell’arte medievale nelle quali vengono riservati capitoli specifici dedicati alle arti minori: A. Grabar, L’âge d’or de Justinien, Paris 1966 (tr. it. L’età d’oro di Giustiniano, Milano 1967). J. Hubert, J. Porcher, W.F. Volbach, L’Europe des invasions, Paris 1967 (tr. it. L’Europa delle invasioni barbariche, Milano 1968). L. Grodecki, F. Mütherich, J. Taralon, F. Wormald, Le siècle de l’An Mil, Paris 1973 (tr. it. Il secolo dell’Anno Mille, Milano 1974). F. Avril, X. Barral i Altet, D. Gaborit-Chopin, Les temps des Croisades, Paris 1982 (tr. it. Il tempo delle Crociate, Milano 1983). F. Avril, X. Barral i Altet, D. Gaborit-Chopin, Les royaumes d’Occident, Paris 1983 (tr. it. I regni d’Occidente, Milano 1984). M. Durliat, Dès Barbares à l’An Mil, Paris 1985. A. Erlande Brandenburg, La conquête de l’Europe (1260-1380), Paris 1987 (tr. it. I centri dell’arte gotica, Milano 1988). P. Skubiszewski, L’arte europea dal vi al ix secolo, Torino 1995. L. Castelfranchi Vegas, L’arte dell’Anno Mille in Europa (950-1050), con interventi di R. Cassanelli, D. Gaborit-Chopin, R.G. Gameson, P. Piva, J. Yarza Luaces, Jaca Book, Milano 2000. R. Cassanelli, E. Carbonell (a cura di), L’arte e il Mediterraneo. Da Maometto a Carlomagno, Jaca Book, Milano 2001. L. Castelfranchi Vegas, L’arte ottoniana intorno al Mille, Jaca Book, Milano 2002. E. Castelnuovo e G. Sergi (a cura di), Arti e storia nel medioevo, i-iv, Torino 2002-2004.

Inoltre l’ampio volume Arti minori, Jaca Book, Milano 2000, offre uno strumento assai utile e ampio di consultazione sulle arti minori. Comprende, oltre ai due saggi introduttivi di Liana Castelfranchi Vegas, “Il ruolo delle arti minori nel Medioevo” e di Cinzia Piglione, “Centri di produzione in Italia tra Rinascimento e Manierismo”, ampie voci di dizionario sulle varie tecniche e i diversi materiali. Uno spazio particolare viene dato ai tessili, mentre una scheda di Anna Menichella è riservata al tema della trasformazione dell’oggetto in prodotto industriale (“Arte e industria: la nascita del design”).

Christian Book Illumination, New York 1977. R.G. Gameson, The Role of Art in the late Anglo-Saxon Church, Oxford 1995. J. Yarza Luaces, L’arte della Spagna del nord, in L. Castelfranchi Vegas, L’arte dell’Anno Mille in Europa (9501050), Jaca Book, Milano 2000. R.G. Gameson, L’arte nell’Inghilterra meridionale e in Fiandra, in L. Castelfranchi Vegas, L’arte dell’Anno Mille in Europa (950-1050), Jaca Book, Milano 2000.

Miniatura

I. Belli Barsali, L’oreficeria medievale, Milano 1966. P. Lasko, Ars sacra 800-1200, London 1972; ii ed. New Haven-London 1994. M.M. Gauthier, Emaux du Moyen-Age occidental, Fribourg 1972. F. Röhrig, Der Verduner Altar. Das Emailwerk des Nikolaus von Verdun im Stift Klosterneuburg, Wien 1980. C.R. Dodwell, Anglo-Saxon Art. A new Perspective, Manchester 1982. E. Castelnuovo, “Arte delle città, arte delle corti tra xii e xiv secolo”, in Storia dell’arte italiana, 5, Torino 1983. H. Roth, Kunst und Handwerk im frühen Mittelalter, Stuttgart 1986. H. Fillitz, M. Pippal, Schatzkunst. Die Goldschmiede- und Elfenbeinarbeiten aus österreichischen Schatzkammern des Hochmittelalters, Salzburg-Wien 1987. V.H. Elbern, Die Goldschmiedekunst im frühen Mittelalter, Darmstadt 1988. G. Haseloff, Email im frühen Mittelalter, Marburg a. d. L. 1990. R. Lightbown, Medieval European Jewellery, London 1992. H.R. Hahnloser, R. Polacco (a cura di), La Pala d’oro, Venezia 1994.

Opere generali sulla miniatura medievale: O. Pächt, Buchmalerei des Mittelalters. Eine Einführung, München 1984 (tr. it. La miniatura medievale. Una introduzione, Torino 1987). J.J. Alexander, Medieval Illuminators and Their Methods of Work, New Haven 1992 (tr. it. I miniatori medievali e il loro metodo di lavoro, prefazione di Giordana Mariani Canova, Modena 2003), con ricchissima bibliografia. Su periodi specifici: M. Meiss, French Painting in the Time of Jean de Berry. Late Fourteenth Century and the Patronage of the Duke, London-New Haven 1967. —, French Painting in the Time of Jean de Berry, II, The Boucicaut Master, London 1968. —, French Painting in the Time of Jean de Berry, III, The Limbourgs and their Contemporaries, New York 1974. C. Nordenfalk, Celtic and Anglo-Saxon Painting, New York 1977. F. Mütherich, J. Gaehde, Carolingian Painting, New York, 1977. K. Weitzmann, Late Antique and Early

232

Oreficeria

V.H. Elbern, “Oreficeria”, in Enciclopedia dell’arte medievale, viii, Roma 1997, pp. 833-849. D. Gaborit-Chopin, Il tesoro di Conques e la Santa Fede (prima del 1050), in L. Castelfranchi Vegas, L’arte dell’Anno Mille in Europa (950-1050), Jaca Book, Milano 2000.

Avori J. Natanson, Early Christian Ivoires, London 1953. W.F. Volbach, Elfenbeinarbeiten der Spätantike und des frühen Mittelalters, Mainz 1976, III ed. D. Gaborit-Chopin, Ivoires du Moyen Age, Fribourg 1978. P. Williamson, An Introduction to Medieval Ivory Carving, London 1982. A. Cutler, The Craft of Ivory. Sources, Techniques, and Uses in the Mediterranean World: A.D. 200-1400, Washington 1985. M. Gibson, The Liverpool Ivories. Late Antique and Medieval Ivory and Bone Carving in Liverpool Museum and the Walker Art Gallery, London 1994. A. Cutler, Late Antique and Byzantine Ivory Carving, Aldershot 1998.

Vetrate L. Grodecki, C. Brisac, Le vitrail roman, Fribourg 1977. G. Marchini (a cura di), Le vetrate, tecnica e storia, Novara 1977. E. Castelnuovo, Vetrate medievali. Officine, tecniche, maestri, Torino 1994. F. Dell’Acqua, “Illuminando colorat”. La vetrata tra l’età tardo imperiale e l’alto Medioevo: le fonti, l’archeologia, presentazione di E. Castelnuovo, Spoleto 2003. X. Barral i Altet (a cura di), Vetrate medievali in Europa, Jaca Book, Milano 2003.

Cataloghi di mostre I numerosi cataloghi delle mostre dedicate alle arti minori rappresentano un insostituibile patrimonio di studio e di approfondimento delle arti minori nel Medioevo. Europäische Kunst um 1400, Wien 1962. Les trésors des églises de France, Paris 1965. The Year 1200, New York 1970. Rhein und Maas, Kunst und Kultur, 8001400, 2 voll., Köln 1970. Die Zeit der Staufer, 5 voll., Stuttgart 1977. The Age of Spirituality, New York 1979 (seguito da Age of Spirituality: A Symposium, edited by K. Weitzmann, New York 1980). Les fastes du gothique: le siècle de Charles v, Paris 1984. English Romanesque Art, 1066-1200, London 1984. Il Re dei Confessori: dalla Croce dei Cloisters alle Croci italiane, Milano 1984. The Golden Age of Anglo-Saxon Art (9661066), London 1984. Le Trésor de Saint Marc de Venice, Paris 1984 (ed. it. Venezia 1984). Die Parler und der schöne Stil 1350-1400, 5 voll., Köln 1985. Ornamenta Ecclesiae. Kunst und Künstler der Romanik, 3 voll., Köln 1985. I Longobardi (Cividale del Friuli 1990), Milano 1990. The Making of England. Anglo-Saxon Art and Culture, A.D. 600-900, London 1991. Kaiserin Theophanu. Begegnung des Ostens und Westens um die Wende des ersten Jahrthausends. Gedenkschrift des Kölner Schnütgen-Museums zum 1000. Todesjahr der Kaiserin, 2 voll., hrsg. v. A. von Euw u. P. Schreiner, Köln 1991. Splendori di Bisanzio, Ravenna 1991. Le Trésor de Saint-Denis, Paris 1991. Das Reich der Salier. 1024-1125, Sigmaringen 1992.

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The art of medieval Spain 500-1200, New York 1993. Bernhard von Hildesheim und das Zeitalter der Ottonen, 2 voll., Hildesheim 1993. Egbert Erzbischof von Trier (977-993), Gedenkschrift d. Diözese Trier zum 1000. Todestag, hrsg. v. F. J. Ronig, A. Weiner u. R. Heyen, 2 voll., Trier 1993. 799. Kunst und Kultur der Karolingerzeit, Karl der Grosse und Papst Leo III. in Paderborn, hrsg. v. C. Stiegemann u. M. Wemhoff, 3 voll., Mainz 1999. Maravillas de la España medieval. Tesoro sagrado y monarquía, direzione scientifica di I. Bango Tarviso, 2 voll., León 2000-2001. Le trésor de la Sainte-Chapelle, a c. di J. Durand, M.-P. Laffitte, D. Giovannoni, Paris 2001. Otto der Grosse. Magdeburg und Europa, hrgg. von M. Puhle, 2 voll., Mainz 2001. Le trésor de Conques, a c. di D. Gaborit-Chopin, E. Taburet-Delahaye, Paris 2001-2002. Paris 1400. Les arts sous Charles vi, a c. di E. Taburet-Delahaye, F. Avril, Paris 2004. Les Princes des fleurs de lis. La France et les arts en 1400, Paris 2004. L’art à la cour de Bourgogne. Le mécénat de Philippe le Hardi et de Jean sans Peur (1364-1419), Paris 2004 (Digione-Cleveland 2004-2005).


Elenco delle tavole

1. Missorio argenteo dell’imperatore Teodosio. Madrid, Real Academia de la Historia. Anno 388. 2. Missorio argenteo dell’imperatore Teodosio. Particolare. Madrid, Real Academia de la Historia. 388. 3. Patera argentea di Parabiago. Trionfo di Cibele e Attis. Milano, Civiche Raccolte Archeologiche. Fine iv secolo. 4. Cofanetto nuziale di Proiecta. Particolare del coperchio: toeletta di Venere. Londra, British Museum. Ca. 380. 5. Capsella argentea di San Nazaro. Particolare del coperchio. Milano, Museo Diocesano. Metà iv secolo. 6. Capsella argentea di San Nazaro. Milano, Museo Diocesano. Metà iv secolo. 7. Dittico in avorio dei Nicomaci e dei Simmaci. Sinistra: Parigi, Musée National du Moyen Âge-Hôtel de Cluny. Destra: Londra, Victoria and Albert Museum. Fine iv secolo. 8. Dittico in avorio di Probiano. Berlino, Staatsbibliothek, Preussischer Kulturbesitz. Ca. 400. 9. Pannello di dittico in avorio. Caccia al cervo nell’anfiteatro. Liverpool, National Museum. Ca. 400. 10. Dittico in avorio. Combattimento con animali in anfiteatro. San Pietroburgo, Ermitage. Ca. 400. 11. Pannello in avorio. Le Pie Donne al sepolcro e l’Ascensione. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum. Ca. 400. 12. Coperta libraria in avorio detta Dittico delle Cinque Parti. Faccia anteriore. Milano, Museo del Duomo. Fine v secolo.

Monza, Museo e Tesoro del Duomo. Metà v secolo. 20. Dittico imperiale detto Avorio Barberini. Parigi, Musée du Louvre. Prima metà vi secolo. 21. Cattedra eburnea di Massimiano. Ravenna, Museo Arcivescovile. Ca. 547. 22. Cattedra eburnea di Massimiano. Particolare. Ravenna, Museo Arcivescovile. Ca. 547. 23. Fibbia aurea del Tesoro di Sutton Hoo. Londra, British Museum. vii secolo. 24. Fibula ad arco dalla necropoli di Nocera Umbra. Roma, Museo dell’Alto Medioevo. Inizio vii secolo. 25. Fibula in forma di aquila dal tesoro di Domagnano. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. Inizio vi secolo. 26. Fibula rotonda. Parma, Museo Archeologico Nazionale. vi secolo. 27. Fibula a “S”. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale. Fine vi-inizio vii secolo. 28. Fibula a staffa. Torino, Museo Civico di Arte Antica. Fine v-inizio vi secolo.

42. Libro di Durrow. Pagina d’apertura del Vangelo di Marco. Dublino, Trinity College Library, ms. 57, fol. 84v. Ca. 680.

59. Coperta in oro e gemme del Codex Aureus di Saint-Emmeram. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek. Ca. 870.

76. Evangeliario di Ottone iii. Omaggio delle province all’imperatore in trono. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, clm. 4453, fol. 23v-24r. Fine x secolo.

97. Manto di Enrico ii. Bamberga, Diözesanmuseum. Ca. 1020.

43. Libro di Kells. L’evangelista Giovanni. Dublino, Trinity College Library, ms. 58, fol. 291v. Ca. 800.

60. Altare d’oro. Faccia anteriore. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio. Prima metà ix secolo.

77. Evangeliario di Liuthar. Liuthar offre il suo codice a Ottone iii. Aquisgrana, Domschatz, fol. 15v. Ca. 990.

44. Libro di Lindisfarne. Iniziale “Chi-ro” del Vangelo di Matteo. Londra, British Library, Cotton ms. Nero D. iv, fol. 29r. Fine vii-inizio viii secolo.

61. Altare d’oro. Faccia anteriore. Particolare. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio. Prima metà ix secolo.

78. Evangeliario di Liuthar. Ottone iii raffigurato come “Christomimete”. Aquisgrana, Domschatz, fol. 16r. Ca. 990.

45. Evangeliario di Saint-Médard de Soissons. L’evangelista Marco. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 8850, fol. 81v. Ca. 820. 46. Evangeliario di Saint-Médard de Soissons. L’evangelista Giovanni. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 8850, fol. 180v. Ca. 820. 47. Vangeli dell’Incoronazione. L’evangelista Marco. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer, fol. 76v. Fine viii secolo. 48. Vangeli dell’Incoronazione. Incipit del Vangelo di Marco. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer, fol. 77r. Fine viii secolo.

50. Vangeli di Ebbone. L’evangelista Matteo. Épernay, Bibliothèque Municipale, ms. 1, fol. 18v. Primo quarto ix secolo.

31. Cofanetto reliquiario di Teuderico. Abbazia di Saint-Maurice d’Agaune (Svizzera), Tesoro. vii secolo.

51. Aratea. Le Pleiadi. Leida, Bibliotheek der Universiteit, voss. lat. Q 79, fol. 42v. Secondo quarto ix secolo.

32. Calice di sant’Eligio. Disegno del 1653.

34. Tazza di Salomone. Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles. vi secolo.

19. Dittico in avorio detto del Poeta e la sua Musa.

96. Pannello in avorio con scena di Introito. Cambridge, Fitzwilliam Museum. Fine x secolo.

30. Patèna d’oro. Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles. Inizio vi secolo.

14. Pannelli eburnei con sei scene della vita di Cristo. Sinistra: Parigi, Musée du Louvre. Destra: Berlino, Staatliche Museen, Preussischer Kulturbesitz. Prima metà v secolo.

18. Dittico in avorio di Boezio. Brescia, Santa Giulia-Museo della Città. 487.

con le quattro province dell’Impero. Chantilly, Musée Condé, ms. 14bis. Dopo il 983.

49. Vangeli dell’Incoronazione. L’evangelista Matteo. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer, fol. 15r. Fine viii secolo.

33. Frammento della Croce di sant’Eligio. Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles. Metà vii secolo.

17. Dittico in avorio di Boezio. Interno delle valve rielaborate in epoca carolingia. Brescia, Santa Giulia-Museo della Città.

58. Coperta in avorio del Libro di Preghiere di Carlo il Calvo. Zurigo, Schweizerisches Landesmuseum. Ca. 870.

29. Fibula in forma di ape dal tesoro di Domagnano. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. Inizio vi secolo.

13. Coperta libraria in avorio detta Dittico delle Cinque Parti. Faccia posteriore. Milano, Museo del Duomo. Fine v secolo.

15-16. Dittico in avorio. Stilicone con la moglie e il figlio. Monza, Museo e Tesoro del Duomo. Inizio v secolo.

41. Libro di Durrow, “carpet page”. Dublino, Trinity College Library, ms. 57, fol. 3v. Ca. 680.

35. Corona di Teodolinda. Monza, Museo e Tesoro del Duomo. Inizio vii secolo. 36. Corona ferrea. Monza, Tesoro del Duomo. Inizio ix secolo. 37-38. Coperta dell’evangeliario di Teodolinda. Monza, Museo e Tesoro del Duomo. Inizio vii secolo. 39. Fermaglio di borsa da Sutton Hoo. Londra, British Museum. Metà vii secolo. 40. Chioccia con i pulcini. Monza, Museo e Tesoro del Duomo. vii secolo.

234

52. Sacramentario di Drogone. “Te igitur”. Parigi, Bibliothèque Nationale, lat. 9428, fol. 15v. Tra l’850 e l’855. 53. Vangeli di Lotario. Lotario in trono. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 266, fol. 1v. Tra l’849 e l’851. 54. Bibbia di Viviano (Prima Bibbia di Carlo il Calvo). Davide e i musici. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 1, fol. 215v. 846. 55. Sacramentario di Marmoutier. Raganaldo benedice il popolo. Autun, Bibliothèque de la Ville, fol. 173v. 844-845. 56. Codex Aureus di Saint-Emmeram. L’adorazione dell’Agnello. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, clm. 14000, fol. 6r. Ca. 870. 57. Salterio di Utrecht. Salmo 42. Utrecht, Universiteits-bibliotheek, ms. 32, fol. 25r. Tra l’816 e l’835.

62. Altare d’oro. Faccia posteriore. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio. Prima metà ix secolo. 63. Altare d’oro. Faccia posteriore. Ambrogio incorona Vuolvinio. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio. Prima metà ix secolo. 64. Altare d’oro. Faccia posteriore. Iscrizione dedicatoria. Particolare. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio. Prima metà ix secolo. 65. Altare d’oro. Faccia posteriore. Battesimo di Ambrogio. Milano, Basilica di Sant’Ambrogio. Prima metà ix secolo. 66. Statua di Santa Fede. Conques, Trésor de l’Église abbatiale Sainte-Foy. Fine ix-fine x secolo. 67. Diploma di matrimonio della principessa Teofano e di Ottone ii. Wolfenbüttel, Niedersächsiches Staatsarchiv, 6 Urk ii. 972. 68. Salterio di Egberto. Davide suona l’arpa. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, ms. 136, fol. 20v. Ca. 980. 69. Salterio di Egberto. Ruodprecht offre il codice all’arcivescovo Egberto. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, ms. 136, fol. 16v. Ca. 980. 70. Salterio di Egberto. L’arcivescovo Egberto in trono. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, ms. 136, fol. 17r. Ca. 980. 71. Salterio di Egberto. L’arcivescovo Egberto offre il codice a san Pietro. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, ms. 136, fol. 18v. Ca. 980. 72. Codex Egberti. Egberto con gli scribi Keraldus e Heribertus. Treviri, Stadtbibliothek, ms. 24, fol. 2v. Ca. 983. 73. Codex Egberti. Cristo e il centurione. Treviri, Stadtbibliothek, ms. 24, fol. 22. Ca. 983. 74. Registrum Gregorii. San Gregorio Magno e il suo scriba. Treviri, Stadtbibliothek, ms. 171/1626. Dopo il 983. 75. Registrum Gregorii. L’imperatore Ottone

ii

(o

iii)

79. Evangeliario di Ottone iii. L’evangelista Luca. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, clm. 4453, fol. 139v. Fine x secolo. 80. Commentario al Cantico dei Cantici. Processione degli eletti. Bamberga, Staatsbibliothek, ms. bibl. 22, fol. 5r. Fine x secolo. 81. Pericopi di Enrico ii. La Cena. Lavanda dei piedi. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, clm. 4452, fol. 105v. Ca. 1002-1012. 82. Apocalisse. La Donna, il Figlio, il Drago. Bamberga, Staatsbibliothek, ms. bibl. 140, fol. 29v. Ca. 1010. 83. Apocalisse. Lotta di Michele contro il drago. Bamberga, Staatsbibliothek, ms. bibl. 140, fol. 30v. Ca. 1010. 84. Antependio di Magdeburgo. Placchetta dedicatoria in avorio con la “Maiestas Domini”. New York, Metropolitan Museum of Art. Tra il 962 e il 973. 85-86. Antependio di Magdeburgo. Pannelli in avorio. Incredulità di Tommaso. Cristo davanti a Pilato. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum. Tra il 962 e il 973. 87. Situla di Gotofredo. Milano, Museo del Duomo. 979.

98. Corona dell’Impero. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer. Fine x-inizio xi secolo. 99. Vergine d’oro di Essen. Essen, Domschatz. Ca. 1000. 100. Corona gigliata della Vergine di Essen. Essen, Domschatz. Ca. 980. 101. Crocifisso dell’Impero. Vienna, Hofburg, Weltliche Schatzkammer. Ca. 1030. 102. Crocifisso di Lotario. Aquisgrana, Domschatz. Ca. 1000. 103. Crocifisso detto Primo Crocifisso di Matilde. Essen, Domschatz. Ca. 980. 104. Crocifisso detto Primo Crocifisso di Matilde. Particolare: la badessa Matilde con il fratello Ottone. Essen, Domschatz. Ca. 980. 105. Crocifisso di Gisela d’Ungheria. Monaco, Residenz Schatzkammer. Ca. 1006. 106. Crocifisso d’argento di Bernoardo. Hildesheim, Dom und Diözesan Museum. Inizio xi secolo. 107. Crocifisso d’avorio. Maastricht, Schatkamer Sint Servaas. 977-993. 108. Reliquiario detto Piede di sant’Andrea. Treviri, Domschatz. 977-993. 109. Porta bronzea. La creazione di Eva. Hildesheim, Duomo. 1015. 110. Porta bronzea. Hildesheim, Duomo. 1015.

88. Situla Basilewskij. Londra, Victoria and Albert Museum. 967-983. 89-90. Situla esagonale in avorio e gemme. Aquisgrana, Domschatz. Ca. 980. 91. Madonna in trono con il Bambino. Avorio. Magonza, Landesmuseum. Ca. 1000. 92. Coperta del Codice Aureo di Echternach. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. Tra il 983 e il 991. 93-94. Dittico in avorio. Mosè riceve la Legge. Incredulità di Tommaso. Berlino, Staatliche Museen, Preussischer Kulturbesitz. Ca. 990. 95. Pannello in avorio. San Gregorio nello studio. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Kunstkammer. Fine x secolo.

235

111. Antependium in oro di Basilea. Parigi, Musée National du Moyen Âge-Hôtel de Cluny. 1019. 112. Commentario all’Apocalisse del Beatus di Liébana. Il terzo angelo versa la coppa. Madrid, Biblioteca Nacional, cod. vitr. 14-2, fol. 216v. 1047. 113. Commentario all’Apocalisse del Beatus di Liébana. L’adorazione dell’Agnello. Madrid, Biblioteca Nacional, cod. vitr. 14-2, fol. 205r. 1047. 114. Ambone di Enrico 1024.

ii.

Aquisgrana, Duomo. Ca.

115. Renier de Huy, Vasca battesimale. Liegi, chiesa di Saint-Barthélemy. 1107-1118. 116. Pala di San Remaclo. Placchetta in smalto con


Indice dei nomi di persona e di luogo Il numero in chiaro rinvia alla pagina, il numero in neretto rinvia alla tavola. Per le note si rinvia alla pagina e alla colonna (a, b, c)

“Fides”. Francoforte, Museum für Angewandte Kunst. Ca. 1150.

136. Vetrata con le storie di san Dionigi. Particolare. Parigi, Saint-Denis. Ca. 1145.

117. Trittico di Stavelot. New York, Pierpont Morgan Library. 1154-1158.

137. Vaso antico detto Aquila di Suger, dal tesoro di Saint-Denis. Parigi, Musée du Louvre. Porfido: epoca imperiale; montatura in argento dorato: prima del 1147.

118. Trittico di Alton Towers. Londra, Victoria and Albert Museum. Ca. 1150. 119. Nicolas de Verdun, Pala di Klosterneuburg. Klosterneuburg, Stiftsmuseum. 1183. 120. Nicolas de Verdun, Pala di Klosterneuburg. Particolare. Klosterneuburg, Stiftsmuseum. 1183. 121. Nicolas de Verdun, Pala di Klosterneuburg. Elia sul carro di fuoco. Klosterneuburg, Stiftsmuseum. 1183. 122. Nicolas de Verdun, Pala di Klosterneuburg. Salomone e la regina di Saba. Klosterneuburg, Stiftsmuseum. 1183. 123. Nicolas de Verdun, Arca dei Re Magi. Colonia, Duomo. 1191-1204. 124. Nicolas de Verdun, Arca dei Re Magi. Un profeta. Colonia, Duomo. 1191-1204. 125. Nicolas de Verdun, Arca dei Re Magi. Veduta frontale. Colonia, Duomo. 1191-1204. 126. Bibbia di Winchester. Incipit del Libro dell’Esodo. Winchester, Cathedral Library. Ca. 1150-1180. 127. Vita di sant’Edmondo. New York, Pierpont Morgan Library, ms. 736, fol. 22v. Ca. 1130. 128. Salterio di St. Albans. Il ritorno dei Magi. Hildesheim, St. Godehard. 1120-1130. 129. Bibbia di Lambeth Palace. Scene del Libro di Ezechiele. Londra, Lambeth Palace Library, ms. 3, fol. 258r. Ca. 1150. 130. Bibbia di Bury St. Edmunds. Mosè spiega la Legge agli Israeliti. Cambridge, Corpus Christi College, ms. 2, fol. 94r. 1130-1140. 131. Croce in avorio detta Re dei Confessori, recto. New York, Metropolitan Museum of Art, The Cloisters. Metà xii secolo. 132. Croce in avorio detta Re dei Confessori, recto. Particolare del medaglione centrale. New York, Metropolitan Museum of Art, The Cloisters. Metà xii secolo.

138. Pala d’Oro. Grande placchetta smaltata con l’Anastasis. Venezia, San Marco. Tardo xii secolo. 139. Pala d’Oro. Grande placchetta smaltata con l’Entrata in Gerusalemme. Venezia, San Marco. Tardo xii secolo.

155. Très Belles Heures de Notre-Dame. Fuga in Egitto. Bruxelles, Bibliothèque Royale, 11060-11061, p. 106. Prima del 1402. 156. Grandes Heures de Jean de Berry. L’offerta di Gioacchino e Anna. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 919, fol. 8r. 1409. 157. Ore del Maresciallo di Boucicaut. Visitazione. Parigi, Musée Jacquemart-André, ms. 2, fol. 65v. 1401-1409. 158. Ore del Maresciallo di Boucicaut. Adorazione del Bambino. Parigi, Musée Jacquemart-André, ms. 2, fol. 73v. 1401-1409.

140. Pala d’Oro. Venezia, San Marco. xii-xiv secolo. 141. Tapiz de la Creación. Gerona, Museo de la Catedral. Fine xi-inizio xii secolo.

159. Grandes Heures de Rohan. L’Eterno Padre e un morente. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 9471, fol. 159r. Ca. 1430.

142. Placchetta in oro e smalti con san Demetrio orante. Berlino, Staatliche Museen, Kunstgewerbemuseum. Fine XII secolo.

160. Grandes Heures de Rohan. Compianto sul Cristo morto. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 9471, fol. 135. Ca. 1430.

143. Arazzo dell’Apocalisse di Angers. San Michele e il drago. Angers, Musée du Château. 1373-1387.

161. Très Riches Heures du Duc de Berry. Mese di Febbraio. Chantilly, Musée Condé, ms. 65, fol. 2v. Ca. 1414-1415.

144. Arazzo dell’Apocalisse di Angers. L’angelo misura la Gerusalemme celeste. Angers, Musée du Château. 1373-1387. 145. Tableau de la Trinité. Parigi, Musée du Louvre. 1380-1390.

162. Giovannino de’ Grassi, Taccuino di disegni. Cani che azzannano un cinghiale. Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Maj, ms. D vii.14. Ultimo decennio del XIV secolo.

146. Goldenes Rössl. Altötting (Baviera), Kapellstiftung, Schatzkammer der Heiligen Kapelle. Prima del 1405.

163. Très Riches Heures du Duc de Berry. Mese di Dicembre. Chantilly, Musée Condé, ms. 65, fol. 12v. Ca. 1445-1450.

147. Goldenes Rössl. Particolare. Altötting (Baviera), Kapellstiftung, Schatzkammer der Heiligen Kapelle. Prima del 1405.

164. Très Riches Heures du Duc de Berry. Mese di Giugno. Chantilly, Musée Condé, ms. 65, fol. 6v. Ca. 1414-1415.

148. Bible moralisée. Particolare. Parigi, Bibliothèque Nationale, fr. 166, fol. 18v. Ca. 1402-1404.

165. Belles Heures de Jean de Berry. San Nicola salva dalla tempesta. New York, Metropolitan Museum of Art, The Cloisters, ms. 54.1.1, fol. 168. Ca. 1406-1409.

149. Poèmes de Guillaume de Machaut. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 1586, fol. 103r. Ca. 1350. 150. Très Belles Heures de Notre-Dame. Jean de Berry in preghiera con i suoi santi patroni Andrea e Giovanni Battista. Bruxelles, Bibliothèque Royale, 11060-11061, p. 10. Prima del 1402. 151. Dialogues de Pierre Salmon. Salmon conversa con Carlo vi. Ginevra, Bibliothèque Publique et Universitaire, ms. fr. 165, fol. 4. 1411-1413.

133-134. Croce in avorio detta Re dei Confessori, verso. Particolari dei bracci. New York, Metropolitan Museum of Art, The Cloisters. Metà xii secolo.

152. 153. André Beauneveu, Salterio di Jean de Berry. Il profeta Malachia e l’apostolo Mattia. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 13091, fol. 29v.-30r. Ca. 1386.

135. Vetrata delle allegorie di san Paolo. Cristo tra la Chiesa e la Sinagoga. Parigi, Saint-Denis. xii secolo.

154. Jacquemart de Hesdin, Salita al Calvario. Parigi, Musée du Louvre, RF 2835. Ca. 1405-1410.

236

166. Michelino da Besozzo, Elogio funebre di Gian Galeazzo Visconti. Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 5888, fol. 1r. 1403. 167. Ore del Maresciallo di Boucicaut. La messa dei defunti. Londra, British Museum, add. 16997, fol. 119v. Dopo il 1420. 168. Jan van Eyck, Ore Torino-Milano. La messa dei defunti. Torino, Museo Civico di Arte Antica, ms. 47, fol. 116r. Tra il 1422 e il 1424.

Adelardo, vescovo di Tours, 85

Adriano i, papa, 76 Agilulfo, 62 Alberti, Leon Battista, 10, 230a Alcuino di York, 75, 76 Alemannia, 112 Alessandria, 46 Altötting — Kapellstiftung, Schatzkammer der Heiligen Kapelle, 202; 146, 147 Ambrogio, santo, 27, 36, 94, 100; 63, 65 Andrea, apostolo, 108, 150 Angers, 200 — Musée du Château, 143, 144 Angilberto, vesovo di Milano, 94 Anglia, 66 Anna, santa, 156 Anselmo, abate di Bury St. Edmunds, 175 Aquisgrana, 75 — Domschatz, 112, 116, 126, 140, 148; 77, 78, 89, 90, 102 Arato, 85 Artois, 195 Augia Fausta, o Augia Felix, 107 Autun — Bibliothèque de la Ville, 88; 55

B

amberga — Diözesanmuseum, 231b; 97 — Staatsbibliothek, 120; 80, 82, 83 Barocchi, Paola, 230a Barthélemy d’Eyck, 231c Basilea, 148; 111 Beatus di Liébana, 231a; 112, 113 Beauneveu, André, 207; 152, 153 Bellosi, Luciano, 231c Bergamo — Biblioteca Civica Angelo Maj, 231c; 162 Berlino, 36 — Kunstgewerbemuseum, 166; 142 — Staatliche Museen, 10, 131; 14, 93, 94 — Staatsbibliothek, 8 Bernardo di Chiaravalle, 18, 19, 182, 230a Bernoardo di Hildesheim, 140; 106 Bertelli, Carlo, 231b Bisanzio, vedi Costantinopoli Boccaccio, 205

Boezio, 41; 17, 18 Bondol, Jean, 200 Boucicaut, maresciallo di, 210 Bourges, 195 Brescia — Santa Giulia-Museo della Città, 41; 17, 18 Brigida, santa, 231c Bruges, 200 Brunelleschi, Filippo, 10 Bruxelles — Bibliothèque Royale, 210; 150, 155 Bury St. Edmunds, 173, 175

C

ambridge — Corpus Christi College, 175; 130 — Fitzwilliam Museum, 134; 96 Canterbury, 19, 173, 231b Carlo ii il Calvo, 87, 92; 54, 58 Carlo Magno, 75, 76, 77, 85, 140, 230c Carlo v, 200 Carlo vi, 195, 203; 151 Castel Trosino, 53 Caterina d’Alessandria, santa, 203 Centula, vedi Saint-Riquier Chantilly — Musée Condé, 112, 219, 231a; 75, 161, 163, 164 Childerico i, 58 Christine de Pisan, 205 Cicerone, 36, 205 Cicognara, Leopoldo, 11, 230a Cividale del Friuli — Museo Archeologico Nazionale, 107; 27, 68, 69, 70, 71 Coene, Jacques, 231c Colonia, 134 — Duomo, 170; 123, 124, 125 Comneni (dinastia), 185 Conques, 230c; 66 Corrado ii di Franconia, 136 Costantino i il Grande, 160, 231a Costantinopoli, 46, 185, 186 Croce, Benedetto, 13, 230a Cunegonda, 120 Cutberto, santo, 19

D’Alembert, Jean-Baptiste, 11 Damaso i, papa, 27

237

Davide, 87, 107, 136; 68 De Loo, Hulin, 224 Demetrio, santo, 186; 142 Deutz, abbazia di Sant’Eriberto, 158 Diderot, Denis, 11 Digione, 195 Dionigi Areopagita, 88, 184 Domagnano, 25, 29 Drogone, vescovo di Metz, 85; 52 Dublino — Trinity College Library, 69; 41, 42, 43 Durrieu, Paul, 224

E

bbone, vescovo di Reims, 77, 82; 50 Eburnant, 107 Echternach, 120 Edmondo, santo, 173, 175; 127 Egberto di Treviri, 147, 231a; 68, 69, 70, 71, 72, 73 Eginardo, 75 Elia, profeta, 121 Eligio, santo, 59, 60; 32, 33 Enrico ii, 103, 120, 136, 148, 231b; 81, 97, 114 Épernay — Bibliothèque Municipale, 77; 50 Essen — Domschatz, 136, 140; 99, 100, 103, 104 Eucherio, 41; 15 Eusebio di Cesarea, 231a Ezechia, 136

Falier, Ordelaffo, 186

Félibien, 17 Fiandra, 195, 216 Filippo ii l’Ardito, duca di Borgogna, 195, 216 Francia, 60, 112, 204, 230c Francoforte — Museum für Angewandte Kunst, 160; 116 — Stadt- und Universitätsbibliothek, 134 Fulda, 76

G

aborit-Chopin, Danielle, 230c Gallia, 231a Gameson, Richard G., 231b Gaston Phoebus, 205 Genova, 210, 231c Germania, 53, 66, 112, 231a Gerona


— Museo de la Catedral, 231b; 141 Gerusalemme, 144 Gervasio, santo, 94 Ginevra — Bibliothèque Publique et Universitaire, 151 Gioacchino, santo, 156 Giovanni ii il Buono, 205 Giovanni Battista, 203; 150 Giovanni di Baviera-Olanda, 224, 228 Giovanni, evangelista, 203; 43, 46 Giovannino de’ Grassi, 231c; 162 Giustiniano i, 46 Giustino, santo, 36 Godefroy de Huy, 231b Gotofredo, vescovo di Milano, 126, 231a; 87 Gran Bretagna, 53, 66 Gregorio i Magno, 62, 134, 231a; 74, 95 Guglielmo di Malmesbury, 19, 230a Guglielmo di Saint-Thierry, 18 Guillaume de Machaut, 205; 149

H

autvilliers, 82 Heribertus, 111; 72 Hildesheim, 140 — Dom und Diözesan Museum, 147, 148; 106 — Duomo, 109, 110 — St. Godehard, 173; 128 Huizinga, Johan, 195

I

nghilterra, 12, 173 Ireneo, 230c Irlanda, 66 Italia, 53, 76, 112

Jacquemart de Hesdin, 210, 216, 231c; 154

Jean de Berry, 205, 207, 210, 216, 219, 224; 150, 152, 153, 156, 161, 163, 164 Jeanne di Navarra, 202

Keraldus, 111; 72

Kitzinger, Ernst, 25, 50, 230b Klosterneuburg, 166 — Stiftsmuseum, 119, 120, 121, 122

L

abarte, Charles Jules, 12 Leida — Bibliotheek der Universiteit, 85; 51

Le Mans, 182 Liegi, 120, 134, 160 — Chiesa di Saint-Barthélemy, 158; 115 Limbourg, de (Jan, Hermann, Pol), 216, 228, 231c Liuthar, 107, 116, 120; 77 Liverpool — National Museum, 31; 9 Livio, Tito, 205 Lombardia, 200 Londra — British Library, 72; 44 — British Museum, 27, 69; 4, 23, 39, 167 — Lambeth Palace Library, 129 — National Gallery, 230b — Victoria and Albert Museum, 31, 126, 160; 7, 88, 118 Lotaringia, 105 Lotario i, 86; 53 Lotario ii, 140; 102 Luca, evangelista, 120; 79 Luigi i d’Angiò, 200

Maastricht

— Sint Servaas, 147; 107 Macrobio, Ambrosio Teodosio, 36 Madrid — Biblioteca Nacional, 112, 113 — Real Academia de la Historia, 27; 1, 2 Maestro del Duca di Bedford, 216 Maestro del Registrum Gregorii, 111, 112, 231a Maestro delle Ore Boucicaut, 210, 216, 224, 228, 231c; 157, 158, 167 Maestro delle Ore di Rohan, 216; 159, 160 Maestro di Echternach, 126, 131 Maestro Hugo, 175 Magdeburgo, 124, 125; 84, 85, 86 Magonza, 20, 120, 158 — Landesmuseum 126; 91 Maître de Saint Gilles, 230b Malachia, profeta, 152 Malouel, Jean, 216 Manuele i Comneno, 160 Marco, evangelista, 77, 230b, 230c; 45, 47 Martini, Simone, 210 Masaccio, 10

238

Massimiano, vescovo di Ravenna, 50, 158; 21, 22 Matilde, badessa di Essen, 140; 104 Matteo, evangelista, 49, 50 Mattia, apostolo, 153 Maurizio, santo, 124, 125 Mehun, 195 Metz, 85, 126, 134 Michele, santo, 83, 143 Michelino da Besozzo, 231c; 166 Milano, 120, 124, 231a, 231c — Basilica di Sant’Ambrogio, 18, 94, 126; 60, 61, 62, 63, 64, 65 — Biblioteca Trivulzio, 224 — Chiesa di San Nazaro, 27 — Civiche Raccolte Archeologiche, 27; 3 — Museo del Duomo, 36,53,126; 12,13,87 — Museo Diocesano, 27; 5, 6 Modena, Duomo, 10 Monaco — Bayerische Staatsbibliothek, 88, 112, 120; 56, 59, 76, 79, 81 — Bayerisches Nationalmuseum, 36; 11, 85, 86 — Residenz Schatzkammer, 140; 105 Montecassino, 76 Monza — Basilica di San Giovanni, 62 — Museo e Tesoro del Duomo, 41; 15, 16, 19, 35, 36, 37, 38, 40 Morris, William, 12 Mosè, 131, 166; 93, 130

New York

— Metropolitan Museum of Art, 124, 175, 216; 84, 131, 132, 133, 134, 165 — Pierpont Morgan Library, 160, 173; 117, 127 Nicola, santo, 165 Nicolas de Verdun, 18, 20, 166, 170; 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125 Nikephoros ii Foca, 231a Nocera Umbra, 53; 24 Nordenfalk, Carl, 231a Norimberga — Germanisches Nationalmuseum, 126; 25, 29, 92

Onorio, 41

Ottone i, 103, 105, 124 Ottone ii, 103, 105, 112, 231a; 67, 75, 104 Ottone iii, 103, 112, 116, 117, 120, 140, 230c; 75, 76, 77, 78, 79

Pächt, Otto, 72, 230c

Paesi Bassi, 204 Paolino, santo, 96 Parabiago, 27; 3 Parigi, 175, 195, 204 — Bibliothèque Nationale, 58, 60, 62, 76, 77, 85, 86, 87, 207, 216, 224, 231b, 231c; 30, 33, 34, 45, 46, 52, 53, 54, 148, 149, 152, 153, 156, 159, 160, 166 — Musée du Louvre, 10, 36, 50, 185, 202, 210; 14, 20, 137, 145, 154 — Musée Jacquemart-André, 210; 157, 158 — Musée National du Moyen Âge-Cluny 31, 148; 7, 111 Parma — Museo Archeologico Nazionale, 26 Petrarca, 205 Pietro, apostolo, 71 Pietro di Pisa, 75 Pietroasa, 53 Pino, Paolo, 11, 230a Pipino, figlio di Carlo Magno, 77 Plauto, 205 Pollaiuolo, Antonio, 10 Ponzio Pilato, 86 Praga, 200 Probiano, ‘vicarius’ di Roma, 31; 8 Proiecta, 27; 4 Protasio, santo, 94 Pseudo-Dionigi, vedi Dionigi Aeropagita

R

aganaldo, abate, 88; 55 Ravenna, 46, 76, 158 — Museo Arcivescovile, 21, 22 — San Vitale, 25, 50 Reginaldo di Durham, 19, 230a Reichenau, 107, 111, 116 Reims, 85, 88, 158 Renier de Huy, 158; 115 Riegl, Alois, 13, 17, 230a

Robinet d’Estampes, 224 Rodez, 230c Roma, 31, 76, 175, 231a — Biblioteca Vaticana, 111 — Museo dell’Alto Medioevo, 24 — Santa Maria Maggiore, 25, 158 Romania, 53 Romanos ii, 231a Ruodprecht, 107; 69 Rupert di Deutz, 158

Saba, regina di, 122

Saint-Denis, 17, 76, 88, 175, 182, 184, 185; 135, 136 Saint-Maurice d’Agaune, 59; 31 Saint-Riquier, 76 Salmon, Pierre, 195; 151 Salomone, 136; 34, 122 San Pietroburgo — Ermitage, 35; 10 Sassonia, 105, 124 Schapiro, Meyer, 19, 230a Sclavinia, 231a Sedulio, 126 Semper, Gottfried, 12, 13 Serena, 41; 15 Sèvres, 12 Siria, 46 Spagna, 230c St. Albans, 173; 128 Stavelot, 160 Stilicone, 41; 16 Suger, abate di Saint-Denis, 182, 185; 137 Summonte, Pietro, 228 Sussex, 66 Sutton Hoo, 53, 66; 23, 39 Svizzera, 31

T

acito, 36 Távara, 230c Teodolinda, 62; 35, 37, 38 Teodosio i il Grande, 25, 27; 1, 2 Teodulfo, vescovo di Orléans, 75 Teofano, 105; 67 Teofilo, 157, 160, 185 Terenzio, 205 Teuderico, 59; 31

239

Toesca, Pietro, 13, 14, 17 Tommaso, apostolo, 131; 85, 94 Torino — Museo Civico di Arte Antica, 224; 28, 168 Tournai, 58 Tours, 85, 86, 87, 88 Treviri, 120, 126, 134 — Domschatz, 147; 108 — Stadtbibliothek, 107, 231a; 72, 73, 74

Ugo di San Vittore, 184

Utrecht — Universiteitsbibliotheek, 88; 57

V

alenciennes, 207 Valeránica, 230c Van Eyck, Jan, 224, 228; 168 Vasari, Giorgio, 10, 11, 230a Venceslao i, 200 Venezia, 185 — Basilica di San Marco, 185, 186; 138, 139, 140 Vienna, 166 — Hofburg, Weltliche Schatzkammer, 77, 136, 140; 47, 48, 49, 98, 101 — Kunsthistorisches Museum, 95 Virgilio, 36 Visconti, 200; 166 Viviano, vescovo e conte di Tours, 85, 87; 54 Vuolvinio, 18, 96; 63

W

ibaldo, abate di Stavelot, 160, 231b Winchester, 173 — Cathedral Library, 231b; 126 Wittislingen, 53 Wolfenbüttel — Niedersächsiches Staatsarchiv, 105; 67

York, 75 Ziani, Pietro, 186

Zurigo — Schweizerisches Landesmuseum, 58


Crediti Fotografici Il numero rinvia alla tavola

Abbaye de Saint-Maurice d’Agaune, Chancellerie: 31. Bayerisches National Museum, München: 11. Bibliothèque nationale de France, Paris: 30, 152, 153, 156, 159. Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz: 7, 8, 14 destra, 93, 94. Centre des Monuments Nationaux, Paris/foto Caroline Rose: 143. Civica Biblioteca Angelo Maj, Bergamo: 162. Domkapitel Aachen/foto Ann Münchow: 90, 102. 114. Domschatz Essen: 103, 104. Fitzwilliam Museum, Cambridge: 96. Fondazione Torino Musei, Museo Civico d’Arte Antica e Palazzo Madama: 28, 168. Foto Pierpont Morgan Library/Art Resource/ Scala, Firenze: 117. Foto Scala, Firenze: 18, 60, 62, 63. Fototeca della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano: 12, 13. Lambeth Palace Library, London: 129. Landesmuseum Mainz/foto Ursula Rudischer: 91. Museo del Duomo di Monza e Biblioteca Capitolare: 15, 16, 19, 36, 40. Museo Diocesano di Milano/foto Sandro Scarioni: 5. Museum für Angewandte Kunst, Frankfurt am Main: 116. National Museums Liverpool, Department of Humanities: 9. The Pierpont Morgan Library, New York: 127. RMN/Daniel Arnaudet: 14 sinistra, 137; RMN/Jean-Gilles Berizzi: 145; RMN/Les frères Chuzeville: 20. Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna, Museo Archeologico Nazionale di Parma, su concessione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali: 26. Staatliche Museen zu Berlin – Preussischer Kulturbesitz, Kunstgewerbemuseum/foto Arne Psille: 142. Stichting Schatkamer Sint Servaas te Maastricht: 107. Stift Klosterneuburg/foto Inge Kitlitschka: 119, 120, 121. The Trustees of The British Museum: 4. Universiteitsbibliotheek, Utrecht: 57. V&A Picture Library/Victoria and Albert Museum: 118. Le tavole 64 e 65 sono riprese dal volume L’Altare d’Oro di Sant’Ambrogio, a cura di Carlo Capponi, fotografie di Sandro Scarioni, Silvana Editoriale, Milano 1996, p. 92, 144. Le altre immagini qui non menzionate provengono dall’Archivio Jaca Book.

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