SAINT PETER'S BASILICA

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SAN PIETRO S TO R I A D I U N M O N U M E N TO

HUGO BRANDENBURG ANTONELLA BALLARDINI CHRISTOF THOENES Introduzione di FRANCESCO BURANELLI

Fabbrica di San Pietro in Vaticano

Musei Vaticani


MONUMENTA VATICANA SELECTA


MONUMENTA VATICANA SELECTA

Forse nessun luogo al mondo, in un ambito territoriale così limitato, evidenzia un Patrimonio Artistico tanto differenziato ed alto nei suoi raggiungimenti espressivi. Il sito, dai suoi livelli archeologici precristiani e cristiani del primo S. Pietro al S. Pietro attuale con la piazza, i palazzi e i giardini, è stato luogo di impressionanti risultati in architettura, affresco, scultura e arti decorative; ma il Vaticano è parimenti il contenitore di raccolte archeologiche, artistiche e librarie che coprono migliaia di anni di storia dell’umanità, dagli Egizi all’arte dei nostri giorni. Dei volumi che affrontino il Patrimonio Artistico del Vaticano dovranno di volta in volta darsi dei limiti precisi e congrui. Non la scelta antologica di capolavori, ma l’affondo su importanti episodi artistico-culturali anche con diverse chiavi di lettura, con l’intento di costituire un ponte tra il contesto e i suoi raggiungimenti artistici. Patrimonio Artistico Vaticano perciò come lettura del manufatto, della fabbrica e dell’opera d’arte, contestualizzati o, se vogliamo, in reciproco scambio con la cultura, la teologia, la fede, le riforme, ma anche la politica e le ragioni di stato o, infine, la curiosità per altre culture del presente o del passato. Monumenta Vaticana Selecta è un’iniziativa editoriale nata in accordo tra Editoriale Jaca Book, la Libreria Editrice Vaticana e la direzione dei Musei Vaticani. La curatela è affidata a Francesco Buranelli e Antonio Paolucci.

HUGO BRANDENBURG, ANTONELLA BALLARDINI, CHRISTOF THOENES

SAN PIETRO Storia di un monumento

Introduzione di FRANCESCO BURANELLI

Volumi pubblicati Heinrich W. Pfeiffer, S.J. LA SISTINA SVELATA

Iconografia di un capolavoro Nicole Dacos LE LOGGE DI RAFFAELLO L’antico, la Bibbia, la bottega, la fortuna Alberta Campitelli GLI HORTI DEI PAPI I giardini Vaticani dal Medioevo al Novecento Paolo Liverani, Giandomenico Spinola con un contributo di Pietro Zander LE NECROPOLI VATICANE La città dei morti di Roma Christof Thoenes, Vittorio Lanzani, Gabriele Mattiacci, Assunta Di Sante, Simona Turriziani, Pietro Zander, Antonio Grimaldi Introduzione di Sua Eminenza Card. Angelo Comastri SAN PIETRO IN VATICANO I mosaici e lo spazio sacro Ambrogio M. Piazzoni, Antonio Manfredi, Dalma Frascarelli, Alessandro Zuccari, Paolo Vian LA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA Hugo Brandenburg LE PRIME CHIESE DI ROMA iv-vii secolo Martine Boiteux, Alberta Campitelli, Nicoletta Marconi, Lucia Simonato, Gerhard Wiedmann VATICANO BAROCCO Arte, architettura e cerimoniale

Fabbrica di San Pietro in Vaticano

Musei Vaticani


Copyright © 2015 by Editoriale Jaca Book SpA, Milano Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano Musei Vaticani, Città del Vaticano All rights reserved International copyright handled by Editoriale Jaca Book SpA, Milano Prima edizione italiana settembre 2015

Indice

Capitolo primo L’antica basilica vaticana costantiniana di S. Pietro Hugo Brandenburg Pag. 9 Capitolo secondo La basilica di S. Pietro nel Medioevo Antonella Ballardini Pag. 35 S. Pietro: una storia attraverso le immagini Pag. 77

Redazione dei testi Elisabetta Gioanola/Jaca Book La carta alla pagina 40 è di Manuela Viscontini La carta alla pagina 305 è di Daniela Blandino Copertina, grafica e impaginazione Break Point/Jaca Book Selezione delle immagini The Good Company, Milano

Capitolo terzo Il nuovo S. Pietro Christof Thoenes Pag. 165 In S. Pietro oggi Pag. 304

Note Pag. 324 Bibliografia di riferimento Pag. 333 Indice dei nomi di luogo e di persona Pag. 347

Stampa e legatura Elcograf SpA agosto 2015 ISBN 978-88-16-60509-1

Per informazioni: Editoriale Jaca Book – Servizio Lettori via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48.56.15.20; fax 02 48.19.33.61 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it


Introduzione Francesco Buranelli

Nell’ottobre del 2007, con un breve, direi quasi lapidario, editoriale presentavo, insieme a Roberto Cassanelli, il volume di Padre Heinrich W. Pfeiffer: La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro inaugurando così la collana, da me fortemente voluta insieme con Jaca Book, Monumenta Vaticana Selecta. L’intera opera oggi – a distanza di otto intensi anni di lavoro – vanta già, incredibilmente, nove splendidi volumi che hanno saputo riportare all’attenzione della cultura mondiale i molti e diversi aspetti dell’incommensurabile patrimonio storico artistico conservato nello Stato della Città del Vaticano e nelle aree extraterritoriali. Un patrimonio unico al mondo che, come indicavamo in quel primo editoriale, ha permesso di focalizzare nei nostri volumi “importanti episodi artistico-culturali anche con diverse chiavi di lettura con l’intento di costruire un ponte tra il contesto e i suoi raggiungimenti artistici”. Se dovessimo stilare un primo bilancio sui testi fino a oggi pubblicati direi che l’obiettivo allora prefissato è stato ampiamente raggiunto. Sono state presentate con una visione unitaria ed esaustiva complessi monumentali antichi di primaria importanza quali le necropoli romane riportate alla luce sotto la Basilica Vaticana e l’Autoparco e le prime chiese della Roma cristiana dal iv al vii secolo; sono stati illustrati con una nuova e aggiornata lettura iconografica e iconologica topoi del patrimonio artistico, librario e architettonico di età moderna come la Cappella Sistina, le Logge di Raffaello, la Biblioteca Apostolica Vaticana, nonché i celeberrimi Giardini. Oggi, scorrendo i bei volumi della collana, ci rendiamo conto che la Basilica di S. Pietro, con i suoi molteplici aspetti, ha costituito una presenza quasi costante, apparendo in molti degli scritti già editi (o in corso di preparazione). E certo, non per caso: la Basilica Papale, cuore del culto cristiano e simbolo stesso della Chiesa Cattolica e della Città Eterna, è il luogo dove i più grandi artisti di tutti i tempi si sono cimentati nel “creare” capolavori assoluti, che hanno scandito i cambiamenti epocali della storia della Chiesa e di Roma dal iv secolo a oggi. Tuttavia è solo con questo volume, il nono della collana, che viene affrontata con una visione unitaria e in continuità storica la vita cultuale, architettonica ed artistica della Basilica: ancora una volta i più qualificati studiosi del tardo

antico, del medioevo e dell’età moderna si cimentano nel proporci uno straordinario affresco della vita della Basilica Petrina tale da far assaporare al lettore l’emozione di “entrare” in una irripetibile e, per le fasi più antiche, non più esistente realtà monumentale. Tale impostazione a tutto tondo affronta con una nuova e più ampia visione i temi propri della collana editoriale, con un approccio che si era già manifestato nel precedente volume Vaticano Barocco. Arte, architettura e cerimoniale. Il respiro di un’opera come questa, che ha l’ambizione di far rivivere le fasi fondamentali di un complesso monumentale gigantesco, portatore – da oltre sedici secoli – di una profonda valenza sacra per molti milioni di persone, al punto di diventare il simbolo stesso della Chiesa Cattolica, deve essere necessariamente ampio e, nello stesso tempo, attento ai dettagli. Dalla nascita, nella piana del Tevere alle falde delle pendici dei montes Vaticani, il luogo che aveva visto l’abbandonato circo di Caligola coprirsi delle sepolture di un’estesa necropoli di età imperiale ospiterà il luogo del martirio di Pietro, e il Tropaion sulla tomba dell’Apostolo costituisce da allora la “pietra angolare” su cui poggia il complesso basilicale, e ne costituisce ancora oggi il cuore. La grande Basilica Costantiniana, fino al Rinascimento, sarà il luogo dell’incoronazione degli imperatori e, contemporaneamente, la meta di moltitudini di pellegrini e fedeli richiamati a Roma dalla santità delle reliquie apostoliche. Il Rinascimento toscano troverà a Roma la sua seconda patria, proprio tra quanti – famosi architetti, insigni scultori ed eccellenti pittori – sperimentando nuovi linguaggi e nuove tecniche si cimenteranno nella Fabbrica di S. Pietro. Il Barocco nascerà, proprio tra queste pietre, e il 18 novembre del 1593, giorno in cui venne issata la croce sulla sommità della lanterna della cupola michelangiolesca, ne rappresenta simbolicamente la data di nascita. Così, nel volume, grandi studiosi affrontano l’intero complesso petrino, dalla sua nascita ai nostri giorni, rendendoci spettatori dello sviluppo lento, costante e non privo di momenti oscuri, di quella montagna di travertino, marmi, ori e bronzi scolpita dal genio e dalla fede che chiamiamo “San Pietro”, la cui sagoma inconfondibile rappresenta ovunque nel mondo «quella Roma onde Cristo è romano» (Dante, Pg xxxii 101-102).

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Capitolo primo

L’antica basilica vaticana costantiniana di S. Pietro Hugo Brandenburg

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Assonometria della basilica costantiniana (K. Brandenburg).

Nota per il lettore: i numeri di pagina posti a margine del testo rinviano alle immagini a corredo del volume

In seguito alla sconfitta del suo rivale Massenzio presso il pons Milvius (l’odierno ponte Milvio, nella zona nord di Roma) nel 312, l’imperatore Costantino, in linea con la tradizione, fondò degli edifici sacri in segno di lealtà e riconoscenza verso la divinità che aveva propiziato la vittoria. Il primo fu la basilica del Laterano, la Chiesa episcopale di Roma, monumento alla vittoria, omaggio e celebrazione per il Salvatore, garante della prosperità, della stabilità e della pace dell’impero e fautore dei trionfi dell’imperator invictus. Costantino fece edificare inoltre numerose basiliche dedicate ai martiri della fede alle porte della città, luogo della celebrazione della commemorazione eucaristica e delle sepolture dei fedeli, che sceglievano le chiese memoriali come eterna dimora, beneficiando dell’effetto salvifico del culto e dell’intercessione dei martiri. L’imperatore e i suoi familiari, per alcuni dei quali furono costruiti imponenti mausolei in posizione privilegiata presso queste chiese, partecipavano al culto della commemorazione eucaristica quale nuova forma, cristianizzata, del culto imperiale1. Contrariamente alle fondazioni imperiali di chiese nei territori orientali dell’impero, di cui ci parla dettagliatamente il vescovo Eusebio di Cesarea (in Palestina), sulla chiesa di S. Pietro così come sulla chiesa del Laterano non ci sono pervenuti dati precisi: sappiamo solamente, dalla cronaca papale, il Liber Pontificalis, che Costantino fondò la chiesa sotto papa Silvestro (314-335). La cronaca papale aggiunge che la tomba dell’apostolo Pietro si trovava iuxta Palatium Neronianum, in Vaticano2. I dati storici e archeologici consentono di proporre datazioni più precise per la costruzione della basilica. Tra le sepolture della necropoli pagana presso il Vaticano sottostante la chiesa di S. Pietro (1940-1950), sopra cui Costantino fece edificare la basilica per inglobare il monumento

funerario di Pietro e renderlo accessibile al culto, fu rinvenuta entro un’urna cineraria una moneta datata al 318, attestando l’uso della necropoli ancora in questa data3: la basilica deve essere stata quindi eretta successivamente. Il Liber Pontificalis elenca inoltre i terreni e gli immobili che Costantino lasciò alla Chiesa per il mantenimento della basilica e per garantire l’esercizio del culto. È da sottolineare come tutti questi fondi si trovassero nei territori orientali dell’impero, sui quali regnava Licinio, sconfitto da Costantino nel 324: la basilica di S. Pietro dovrebbe essere stata dunque consegnata al culto dopo questa data. Sulla base della lista dei beni assegnati alla Chiesa si è tuttavia sostenuto che la basilica fosse stata terminata appena negli ultimi decenni del iv secolo, cosicché anche l’inizio della costruzione, difficilmente riferibile a Costantino e papa Silvestro, sarebbe da postdatare attorno al 337, anno di morte dell’imperatore4. Il palazzo urbano di Daziano ad Antiochia, il primo nella lista delle donazioni, sarebbe la prova della conclusione dei lavori nel tardo iv secolo, poiché il senatore Daziano, alto funzionario dell’amministrazione imperiale a Costantinopoli, console nel 358, era ancora in vita nel 3655: questo argomento tuttavia non è dirimente, dal momento che i fondi di Daziano non confluirono nelle casse del fisco solo dopo la sua morte, e dunque poterono essere utilizzati per la manutenzione della basilica solo nel tardo iv secolo. Piuttosto Daziano, che prestò servizio come notarius sotto l’imperatore al tempo della fondazione della nuova capitale Costantinopoli, nel 326, o al più tardi dopo la sua consacrazione ufficiale, nel 330, ed era cristiano, avrebbe devoluto come alto funzionario dell’imperatore il suo patrimonio alla manutenzione della basilica, come molti altri membri della classe senatoria del tempo, che mettevano ancora in vita i propri beni a disposizione

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Capitolo primo

1. Memoria costantiniana, la colonnina dell’edicola del tropaion di Pietro e i resti del muro rosso inglobati, visti da sud. Necropoli vaticana.

L’antica basilica vaticana costantiniana di S. Pietro

2. Graffito proveniente dal muro rosso vicino al tropaion di Pietro con una probabile acclamazione a Pietro. Fabbrica di S. Pietro.

4. Sezione longitudinale da sud a nord sotto il pavimento della basilica di Costantino all’altezza del Mausoleo f o «dei Caetenni» nella necropoli vaticana (da Apollonj Ghetti et al. 1951).

3. Muro di sostegno vicino al tropaion di Pietro coperto di graffiti dei pellegrini. Necropoli vaticana.

5. Spaccato della basilica moderna e della necropoli sotto la basilica e pianta della medesima necropoli.

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della Chiesa, come Paolino di Nola, Melania la Giovane e altri nobili fondatori di chiese e istituzioni caritative6. La data del completamento o della consacrazione dell’edificio cadrebbe così tra 326 e 337, anno della morte dell’imperatore. Analizzeremo ulteriori indizi utili per la datazione della chiesa di S. Pietro durante l’analisi dell’architettura dell’edificio e del suo apparato decorativo. La costruzione di S. Pietro sul pendio del colle vaticano al di sopra di una vasta necropoli di età imperiale, ancora in uso agli inizi del iv secolo, fu un’impresa audace ed estremamente onerosa. La posizione doveva offrire, a un’opera monumentale lunga oltre 214 m, un terreno inadeguato, non soltanto per la necessità di pareggiare il forte dislivello, ma anche di colmare il piano della necropoli, con i suoi monumenti funerari, che fungesse da piattaforma per la costruzione della nuova basilica, un edificio dalle misure impegnative. Peraltro tombe e necropoli venivano preservate fin dall’antichità da distruzioni e riedificazioni in virtù della loro sacralità. La necropoli non poteva dunque venire distrutta e l’area riedificata senza valida motivazione. Come sappiamo dagli scavi promossi da Pio xii tra 1940 e 1950, fu un piccolo, modesto monumento alto appena più di 1 m a portare Costantino a innalzare qui la grande

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6. La necropoli, la basilica costantiniana (in nero i tratti di muratura accertati) e il profilo dell’attuale basilica di S. Pietro (da Krautheimer 1977).

basilica. Tale monumento poggiava su un muro, chiamato dagli scavatori “muro rosso”, che sosteneva una serie di tombe di ii-iii secolo sulla pendice della collina. Bolli laterizi datano il monumento al 160. In seguito fu costantemente oggetto di manutenzione, preservato dai fenomeni di dilavamento del fianco della collina, e di abbellimento mediante colonnine, un semplice pavimento a mosaico e alcune lastre di marmo. I graffiti dei visitatori, tra cui uno letto come invocazione a Pietro, testimoniano la frequentazione da parte di fedeli e pellegrini nel iii e agli inizi del iv secolo. Il monumento, probabilmente eretto dalla comunità cristiana di Roma, fu così conservato fino all’età costantiniana, e con esso la secolare tradizione che lo considerava la

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tomba dell’apostolo Pietro. Per questo motivo, Costantino fece rivestire il monumento di marmi preziosi e collocare in questa sede, sopra la necropoli pagana, la monumentale chiesa memoriale dell’Apostolo, dove celebrarne la commemorazione eucaristica e rendere visibile ai fedeli la tomba sontuosamente decorata. All’incirca nello stesso periodo o pochi anni più tardi l’imperatore dispose la fondazione di chiese memoriali, cosiddetti memoriae o martyria, in Palestina, nei siti in cui operò il Cristo, a Gerusalemme sopra la sua tomba, a Betlemme sopra la grotta della natività, sul Monte degli Ulivi e a Mamre. Come riferisce il suo biografo Eusebio7, nelle intenzioni dell’imperatore il Santo Sepolcro doveva «essere un monumento eterno che contiene il segno della vittoria del grande Redentore sulla morte», e quindi «manifestare a tutti la fama e la venerabilità del luogo più santo della Resurrezione del Redentore a Gerusalemme»8. Questi edifici memoriali sorti sui luoghi sacri del Signore in Terrasanta, che Eusebio definisce «monumenti dell’immortalità», annunciano la Reden-

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Capitolo primo

L’antica basilica vaticana costantiniana di S. Pietro

7. Edifici tombali romani attorno al campo p, con la memoria del monumento tombale di Pietro (edicola) nell’abside della basilica costantiniana (da Apollonj Ghetti et al. 1951).

zione del Cristo e la promessa della vittoria sulla morte9. Ma nella capitale, Roma, non vi erano luoghi memoriali di Cristo, che rendessero tangibili le verità fondamentali della fede cristiana, il superamento della morte, la salvezza e la promessa della beatitudine eterna. Qui erano i martiri i testimoni del culto di Cristo, a cui l’imperatore partecipava significativamente e in modo privilegiato, prendendo parte alle benedizioni impartite sui credenti nell’esercizio del culto. Fu in qualità di culto garante della salute e dell’incolumità dell’impero (salus imperii) che la venerazione dei due principi degli apostoli (principes apostolorum) Pietro e Paolo, primi araldi dell’insegnamento di Cristo, acquisì rilievo. In particolare Pietro, che aveva promesso a Cristo di «stabilire la sua chiesa su questa roccia»10, fu venerato da Costantino come vicario di Cristo, testimone dell’opera di salvezza del Signore. In questo modo Roma, la capitale dell’impero, otteneva un culto di poco inferiore per importanza ai luoghi della Terrasanta, risaltando come centro della cristianità. La fondazione della basilica di S. Pietro era dunque un evento di straordinaria importanza ideologica. Le fondazioni costantiniane in onore del Salvatore e dei due principi degli apostoli a Roma sono i segni del nuovo culto che unisce l’impero, il culto del Cristo Pantocratore portatore di vittoria, promessa per l’impero di una nuova era, di un futuro beato di pace, come afferma Eusebio nella biografia di Costantino11. La tradizione secondo la quale Pietro si sarebbe trattenuto a Roma come rappresentante della comunità cristiana, impartendone l’insegnamento, e sia stato martirizzato sotto Nerone, nel ix secolo è stata fortemente contestata nei dibattiti tra le confessioni, e di nuovo è stata recentemente confutata in base ad argomentazioni storico-filologiche12. Le attestazioni tra i e iv secolo sulla presenza e sul martirio di Pietro a Roma sono in effetti piuttosto laconiche13. Nessuna di esse concorda nel riportare il momento in cui Pietro sarebbe giunto a Roma proclamando la fede cristiana in qualità di rappresentante della comunità, e sul suo martirio assieme ad altri membri nel 64 o nel 68, sotto Nerone, nel circo della villa imperiale, nei pressi della quale avrebbe trovato sepoltura. Soltanto alcune di queste informazioni coincidono nelle differenti fonti: dando infatti per certo e incontestabile il soggiorno di Pietro a Roma, gli autori si soffermano solo su episodi cardine della sua biografia, a sostegno delle proprie argomentazioni. A tale proposito è di particolare rilievo la polemica dello scrittore cristiano Gaio, attorno al 200, contro la setta dei Montanisti in Asia Minore su questioni di fede. Lo storico della Chiesa Eusebio ne riporta un estratto: al suo interlocutore, che le-

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8. Ricostruzione delle facciate delle tombe romane (a-i) della necropoli (da A. Mielsch, H. von Hesberg, K. Gärtner, Die heidinische Nekropole unter S. Peter in Rom: Rendiconti Pontificia Accademia di Archeologia, Serie 3, Memorie 16 1-2, Roma 1986/1995).

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gittimava la propria fede attraverso la tomba dell’apostolo Filippo a Hierapolis, in Frigia, Gaio impose di recarsi presso il Vaticano e la via Ostiense a visitare i tropaia, letteralmente monumenti della vittoria, le tombe di Pietro e Paolo, segno tangibile della loro permanenza a Roma e dei loro insegnamenti. L’indicazione “presso il vaticano” può riferirsi soltanto al monumento emerso dagli scavi sotto la basilica di S. Pietro, mentre la tomba originaria di Paolo si trova ancora al di sotto della basilica eretta da Costantino sulla via Ostiense, ampliata e monumentalizzata alla fine del iv secolo dall’imperatore Teodosio e dai suoi coreggenti14. Il monumento funerario di Pietro a Roma, confermato dalle fonti, fu dunque ritrovato nel corso degli scavi. La sua datazione al 160 d.C., appena tre generazioni dopo il martirio di Pietro, fa risalire questa tradizione fino al tardo i secolo, ricollegandosi agli eventi attorno alla morte dell’Apostolo. La tradizione orale e la testimonianza di fatti e persone, di primaria importanza nelle società antiche, si sono mantenute per lunghi periodi, senza contare che a metà del ii secolo era ancora in vita la seconda generazione, cui le vicende della persecuzione neroniana erano state tramandate direttamente da testimoni oculari. Inoltre, la presenza di Pietro a Roma non è mai stata messa in discussione nei dibattiti politico-ecclesiastici condotti nei secoli successivi attorno al primato preteso dal vescovo di Roma dagli arcivescovi metropoliti delle maggiori città del distretto orientale dell’impero, Alessandria, Antiochia e, soprattutto, Costantinopoli.

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Costantino ha dunque eretto la sua grande basilica memoriale al Vaticano sopra il monumento, memoria, che dalla metà del ii secolo doveva mantenere vivo il ricordo del luogo di sepoltura di Pietro sul colle, venerato nella necropoli ancora fino alla costruzione della chiesa nei primi decenni del iv secolo. Dell’adiacente circo, secondo la tradizione luogo del martirio di Pietro, fatto costruire già da Caligola nella villa imperiale presso il Vaticano, restano solo poche tracce. La sua posizione, appena a sud della basilica, è testimoniata dal rinvenimento nel corso degli scavi della fondazione dell’obelisco che Caligola fece portare nel 37 a Roma da Alessandria come ornamento della spina del suo circo. Quella fu la sua sede fino a quando nel 1586 Domenico Fontana, con un’impresa azzardata, lo fece trasferire al centro della piazza di S. Pietro. La vicinanza del circo alla necropoli che accoglieva la sepoltura di Pietro è attestata inoltre da un’iscrizione posta sopra le porte del monumento funerario di Popilio Eracla, di età adrianea, sito nella necropoli: si tratta di una disposizione testamentaria che stabilisce la costruzione della tomba di famiglia in Vatic[ano] ad Circum (presso il circo del Vaticano)15. Poco dopo gli edifici sepolcrali della necropoli obliterarono il circo, già allora in disuso. Questo territorio situato nell’Oltre Tevere, appena fuori dalla città in cui Costantino fece costruire la chiesa memoriale in onore di Pietro, fu anche sede di un importante santuario per il culto misterico della dea frigia Cibele, che doveva trovarsi nelle immediate vicinanze della basilica. Diverse iscrizioni attestano il culto in questo famoso santuario frigio, di cui tuttavia non sono noti resti. Le iscrizioni dedicatorie documentano tuttavia la pratica di sacrifici cultuali presso il Vaticano fino alla fine del iv secolo, con una probabile tra il 319 e il 350. Questa cesura della pratica cultuale si potrebbe correlare con la costruzione della chiesa di S. Pietro, che probabilmente ostacolava l’esercizio del culto nel vicino santuario: una possibile conferma dell’avvio del cantiere della basilica poco dopo il 318, mentre già a metà del secolo ripresero le pratiche cultuali, fino a quando, nel 391, Teodosio proibì l’esercizio di culti pagani16. Ritornando alla costruzione della basilica, l’edificio costantiniano, definito fatiscente già all’epoca di Niccolò v (1447-1455) e il cui cleristorio, riferisce Leon Battista Alberti, era spiombato nel corso dei secoli di oltre un metro, non rispondeva più nella sua architettura ai canoni rinascimentali e, nella concezione dell’epoca, non era considerato restaurabile17. Eloquente in tal senso la dichiarazione di Sigismondo Conti, umanista folignate, che loda la maestosità dell’edificio di S. Pietro pur definendola espressione di

un’epoca rozza, ignara di «un’architettura elegante»18. Così, papa Niccolò v incaricò l’architetto Bernardo Rossellino, allievo di Alberti, di elaborare un progetto per la ricostruzione dell’edificio. Tale progetto prevedeva la sostituzione del transetto dell’antica basilica e l’aggiunta di un coro al posto dell’antica abside, a includere il monumento funerario di Pietro, che in tal modo veniva spostato più al centro della pianta. Veniva per la prima volta formulata l’idea di demolire parti dell’antica, venerabile basilica costantiniana, progetto che non fu esente da critiche. La morte del pontefice pose fine al nuovo cantiere. Solo Giulio ii (1503-1513), il cui amore per il fasto non era appagato dall’antica basilica, decise di sostituirla con l’odierna chiesa di S. Pietro19. I lavori cominciarono nel 1506. In oltre cento anni di lavori ininterrotti l’antica basilica fu smantellata partendo dal lato occidentale, e sostituita da un nuovo edificio. In assenza di documenti o planimetrie riferibili all’architettura della basilica anteriori al xv secolo, nella ricostruzione dell’edificio costantiniano la ricerca moderna si avvale, accanto ai dati degli scavi tra 1940 e 1950, di diverse fonti, per lo più dell’epoca del nuovo edificio20. Progetti degli architetti responsabili, come Bramante o Peruzzi, che illustrano le condizioni del vecchio edificio accanto al nuovo piano, o i disegni con le dimensioni di parti della struttura, come le colonne costantiniane, riportate soprattutto da Baldassarre Peruzzi e Giovanni Battista da Sangallo, forniscono preziose informazioni sull’edificio paleocristiano. Accanto ai disegni di artisti come Dosio, Tasselli, G.B. da Sangallo e Francisco de Hollanda abbiamo soprattutto le vedute di Maarten van Heemskerck, che soggiornò a Roma tra 1532 e 1536, e della sua cerchia, che ci hanno fornito preziose informazioni per la ricostruzione dell’antica basilica21. Del xvi secolo, quando durante la costruzione del nuovo edificio si risvegliò l’interesso antiquario per quanto ancora visibile della vecchia basilica, abbiamo nell’impresa di Tiberio Alfarano degli anni 1571-1582 di S. Pietro e nella documentazione grafica relativa all’architettura della chiesa dati e informazioni affidabili seppur incompleti per quel che riguarda la parte occidentale, area che aveva già lasciato il posto al grande edificio centrale della nuova basilica. Informazioni e descrizioni preziose provengono dalle iscrizioni, come ad esempio dall’abside e dall’arco trionfale della basilica registrate da collezioni medievali d’iscrizioni e dal mausoleo degli Anicii presso l’abside di S. Pietro, demolito sotto Niccolò v per la ricostruzione del transetto e dell’abside stessa, trascritte dall’umanista Maffeo Vegio. Giacomo Grimaldi, archivista di S. Pietro, come Alfarano, rac-

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Capitolo primo

L’antica basilica vaticana costantiniana di S. Pietro

9. Il muro di fondazione del muro esterno meridionale della basilica costantiniana. Necropoli vaticana. 10. Veduta dall’iter che attraversa la necropoli vaticana in senso est-ovest con la tomba f in primo piano. Necropoli vaticana.

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colse ulteriori notizie sull’architettura della basilica antica22. La costruzione dell’edificio costantiniano cominciò dal lato occidentale. Il sepolcro di S. Pietro necessitava per primo di un involucro protettivo. Il monumento, sito nella parte alta della necropoli sulla collina, fu isolato, e il muro rosso fu dismesso su entrambi i lati. La pendenza fu parzialmente colmata a ovest e a nord e i mausolei adiacenti furono smantellati per consentire al monumento funerario di Pietro di emergere dal piano di calpestio della basilica. A sud e a est nella necropoli sulla collina dovettero essere costruite poderose mura di sostruzione per la futura basilica; anche i mausolei furono colmati e stabilizzati con murature. Le mura di fondazione della parete esterna meridionale della basilica, realizzate con la migliore tecnica al margine della necropoli, raggiungono un’altezza di oltre 9,20 m. Queste misure e il poderoso movimento di terra, circa 40.000 m³, necessari per creare una piattaforma per la basilica, lunga in tutto con l’atrio 214 m, mostrano la determinazione di Costantino di inserire e valorizzare la tomba di Pietro all’interno di un degno edificio di culto monumentale. È proprio questa determinazione dell’imperatore la caratteristica che la storiografia a lui contemporanea gli riconosceva: «Costantino, uomo di grandi capacità, che si adoperò per realizzare qualsiasi cosa gli venisse in mente, cercò di ottenere altresì il dominio su tutto il mondo...»23. La pretesa formulata dall’imperatore nella lettera al vescovo Macario sulla costruzione del Santo Sepolcro a Gerusalemme vale anche per la basilica di S. Pietro, edificio programmatico di proporzioni monumentali: questa chiesa memoriale avrebbe dovuto mettere in ombra tutti gli altri edifici pubblici nelle città dell’impero per dimensioni e splendore, eloquente testimonianza dell’importanza del culto memoriale dell’apostolo e martire Pietro nella politica edilizia costantiniana. Il monumento funerario di Pietro, liberato dalle strutture circostanti, emergeva, impressionante, sulla corda dell’abside, posto in evidenza come centro del culto. I bolli laterizi rinvenuti durante la demolizione dell’abside riportano la sigla del nome Costantino: lo scioglimento dell’abbreviazione rispetto a quella del figlio, Costanzo ii, è inequivocabile. Il più recente tentativo di datare l’inizio del cantiere sotto quest’ultimo perde così consistenza. Come di consueto in quest’epoca, l’abside era situata a ovest e la facciata a est, un orientamento che ricalcava quello dei templi antichi. Anche le comunità cristiane durante la preghiera si rivolgevano verso est, da dove secondo la Bibbia il Signore sarebbe ritornato e da dove era partito per ascendere al cielo dal Monte Oliveto24. Venne eretta una

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struttura trasversale all’abside, un transetto, per dividere il venerato monumento funerario adornato con preziosi marmi policromi dall’adiacente basilica a cinque navate e allo stesso tempo racchiudere il mausoleo in un monumentale scrigno. Per le differenze tra le fondazioni delle pareti del transetto e dell’abside si è pensato a varianti progettuali e alla dilazione temporale nella costruzione dell’edificio25. Tuttavia, quest’ipotesi non è fondata: i grandi edifici di età imperiale presentano sempre differenze nelle fondazioni e nelle tecniche murarie, a seconda della natura del terreno, della funzione e della struttura degli edifici o di porzioni di essi. Le diverse tecniche murarie impiegate nella basilica di S. Pietro trovano corrispondenza negli altri edifici di età costantiniana. La basilica con transetto e atrio è da considerare un progetto unitario, come indicano le sostruzioni della piattaforma sovrastante la necropoli: sopra questa grande piattaforma unitaria fu costruita la basilica secondo il progetto originario. Il transetto si dispiega per l’intera larghezza delle cinque navate della basilica, 63 m esatti. Le navate laterali consentono l’accesso al transetto attraverso un’apertura con due colonne e un architrave ciascuna; queste colonne, trasversali rispetto alla direttrice del percorso, fungono da schermo, che divide il transetto dalla basilica. Al contrario, la navata centrale si spalanca con un arco di trionfo sul monumento funerario di fronte all’abside: è la mèta della devozione dei fedeli e dei pellegrini a determinare l’architettura dell’edificio. Anche in questo caso, le dimensioni coincidono: larghezza e altezza dell’arco di trionfo corrispondono, nei loro 17 × 22 m, all’ampiezza dell’apertura dell’abside e all’altezza al vertice della calotta absidale. Arco trionfale e abside incorniciavano in armoniosa linea con i volumi il venerato monumento, obiettivo del lungo percorso attraverso la basilica. Questa sintonia dell’articolazione strutturale dell’edificio mediante corrispondenze dimensionali esprime un’unità progettuale, concertata in tutti i suoi aspetti. Il transetto era alto 25 m, dunque sensibilmente più basso rispetto ai 32 m della navata centrale della basilica26. Il colmo del tetto, con i suoi 30 m, era di poco inferiore alla base del tetto della navata centrale27: il transetto costituiva così un vero e proprio edificio separato dal corpo centrale. Come riferisce Alfarano, era dotato in tutto di sedici finestre. Questo numero sorprendentemente alto di finestre di circa 3 × 5m è difficile da distribuire sulle pareti dell’edificio. Dando per certo il numero totale, se ne possono collocare due gruppi di tre ai lati dell’abside, tre su ciascun lato breve e una coppia su ciascuna delle pareti orientali al di

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sopra delle navate laterali, il cui tetto verrebbe però a intersecare le due finestre interne. Questa insolita disposizione trova tuttavia un corrispettivo nel transetto della basilica di S. Paolo della fine del iv secolo, il cui modello è S. Pietro28. La spiegazione per una tale abbondanza di finestre in posizione inusuale è ovviamente la necessità della maggior illuminazione possibile dell’ambiente attorno al sepolcro di Pietro. Tre ulteriori finestre appena più piccole si aprivano nell’abside, così da illuminarlo tutt’intorno. In questo modo il transetto diviene lo scrigno del luogo di devozione. Il transetto, elemento perpendicolare nella parte occidentale della basilica, è da considerare come l’ulteriore sviluppo a edificio a sé stante dell’asse trasversale prima del presbiterio della basilica del Laterano, sottolineato dall’architettura trionfale del fastigium e da due cappelle. In S. Pietro l’arco trionfale segnava il confine tra aula e transetto, sopra la venerabile tomba. Come le cappelle annesse nella basilica del Laterano, affacciate lungo la linea di fuga dell’aula, a conclusione delle navate laterali, nella basilica di S. Pietro emergono oltre la linea di fuga le basse esedre affacciate sul transetto, sul quale si aprivano con due colonne con capitelli corinzi e un architrave. Considerando le finestre sovrastanti, la copertura delle esedre era probabilmente un tetto a una falda, connesso al muro del transetto a circa 15 m di altezza. Il transetto-scrigno per la sacra tomba venne ripreso

nella basilica teodosiana di S. Paolo alla fine del iv secolo, con varianti dovute ai mutamenti e ai progressi nella liturgia e nel culto dei martiri29. Successivamente anche chiese maggiori hanno recepito in forme diverse l’idea del transetto come spazio riservato al presbiterio, elemento concluso annesso all’aula, come nell’architettura medievale, ad esempio nella basilica del monastero di Fulda in Germania dei primi del ix secolo: la forma della basilica di S. Pietro, la chiesa di pellegrinaggio più illustre della cristianità, diventa un modello more romano, come citato nelle fonti, per chiese di una certa importanza del Medioevo30. Sopra la tomba di Pietro, rivestita con preziosi marmi, porfido e pavonazzetto, Costantino fece erigere un baldacchino che valorizzasse il sepolcro come oggetto della devozione all’interno del vasto transetto31. Sopra un podio leggermente rialzato in lastre marmoree si trovavano quattro colonne tortili e riccamente decorate, distanti 6 m l’una dall’altra, alte 4,75 m su basi di circa 60 cm, a sostegno di una trabeazione ad archi, come illustra la capsella eburnea di Samagher di Pola, un cofanetto-reliquiario, i cui rilievi sono tradizionalmente interpretati come la raffigurazione dell’area circostante la tomba di S. Pietro. Dall’incrocio degli archi pendeva un lampadario a corona. Complessivamente questa struttura, che sottolineava lo spazio attorno alla tomba di Pietro, doveva avere un’al-

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11. Capsella di Samagher, v secolo, il lato che mostra l’allestimento dell’area absidale della basilica costantiniana con il ciborio di S. Pietro. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

12. Ricostruzione della memoria della tomba con baldacchino davanti all’abside (da Kirschbaum 1974).

13. Spaccato dell’altare papale attuale e la sottostante memoria. 14. Ricostruzione dell’area absidale nel transetto della basilica. Fabbrica di S. Pietro. 15. Urna di Trebellena nella tomba n della necropoli vaticana. Fabbrica di S. Pietro.

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tezza di circa 10,5 m. Le preziose colonne tortili di marmo bianco, della prima metà del ii secolo d.C. e provenienti dalle cave microasiatiche di Dokimeion, sono decorate da solcature spiraliformi e tralci di vite. Secondo il Liber Pontificalis, Costantino avrebbe portato queste colonne dalla parte orientale dell’impero grecofono, della quale avrebbe potuto disporre non prima del 324. La notizia del Liber Pontificalis sulla loro provenienza è avvalorata dal rinvenimento di colonne simili a Efeso. Le colonne del baldacchino costantiniano, senza dubbio di produzione microasiatica, prelevate probabilmente dai depositi pubblici di marmo e ritenute nel Medioevo provenienti dal tempio di Salomone, sono conservate nelle edicole della crociera dell’edificio moderno, dove sono state collocate a ornamento speciale e a memoria all’antica basilica. Tra le colonne, la cui base è segnata sul podio, si trovano i segni delle transenne, verosimilmente bronzee, che delimitavano lo spazio sotto il baldacchino attorno alla tomba. Altre due di queste colonne, connesse alla trabeazione del baldacchino, poggiano alla parete dell’abside. L’area circoscritta dal baldacchino antistante il monumento funerario misurava all’incirca 5 × 6 m. Complessivamente, con i suoi oltre 10 m di altezza e 6 di larghezza, il baldacchino era una costruzione notevole, che, insistendo sull’asse dell’arco trionfale e dell’aula, divideva il transetto esattamente a metà. Purtroppo non abbiamo alcuna notizia sulle cerimonie che si svolgevano presso la tomba di Pietro. È plausibile che i pellegrini accedessero al baldacchino dalle navate laterali per venerare la tomba sotto l’egida del vescovo con canti e preghiere collettive, come narrato, alla fine del iv secolo, dalla pellegrina Egeria per l’Anastasi, la rotonda costantiniana sopra la tomba di Cristo a Gerusalemme32. A mio avviso, il transetto con la tomba di Pietro fu consacrato immediatamente dopo il suo completamento e subito destinato al culto: così almeno per la basilica teodosiana di S. Paolo nel 390, la cui prima colonna del colonnato della navata laterale sinistra del transetto reca sull’ipotrachelio l’iscrizione dedicatoria del vescovo Siricio (384-399), mentre l’iscrizione frammentaria alla base della colonna cita l’amministratore imperiale responsabile del cantiere. Le navate e gli apparati decorativi della basilica furono completati sotto l’imperatore Onorio (393-425), figlio di Teodosio33. Queste iscrizioni con i nomi del vescovo e del curatore imperiale testimoniano non solo la consacrazione, ma anche il termine ufficiale del completamento dei lavori per il transetto. Casi simili sono noti per le cattedrali medievali, consacrate e rese fruibili per l’esercizio del culto

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subito dopo il completamento di abside e transetto34. Le donazioni imperiali elencate dal Liber Pontificalis per il mantenimento della chiesa e del culto sono connesse con la dedica del transetto di S. Pietro. Abbiamo visto come tutte le proprietà si trovino nei territori dell’impero orientale, sottomesso da Costantino in seguito alla sconfitta su Licinio nel 324: dobbiamo perciò supporre che il transetto della basilica fu completato e dedicato alcuni anni dopo questa data. Anche le donazioni di elementi architettonici per la basilica, come le preziose colonne del baldacchino della tomba di Pietro, poterono essere acquistate in Asia Minore solo dopo il 324. Gli immobili e i terreni messi a disposizione al momento del completamento del transetto e della sua consacrazione indicano il 326 come termine post quem, perciò la consacrazione deve essere avvenuta alcuni anni dopo, di certo prima del 330, come vedremo. Il cantiere fu aperto probabilmente nel 320, quando, a parte il mausoleo dei Giuli, con i suoi affreschi a tema cristiano, degli inizi del iv secolo, così come la coeva lastra funeraria cristiana di Aemilia Gorgonia, con motivi decorativi incisi, e l’urna di Trebellena Facilla, sepolta intorno al 318, cessa l’utilizzo dell’area come necropoli, di lì a poco riedificata. Queste considerazioni trovano probabilmente conferma nelle iscrizioni dedicatorie del Taurobolium del Frigiano, che documentano la possibile sospensione del culto nell’anno 319, per l’avvio della costruzione della basilica cristiana35. Anche le iscrizioni, tramandate nelle raccolte medievali o nelle descrizioni della basilica coeve alla costruzione del nuovo edificio, e le rappresentazioni musive

nell’abside, nell’arco absidale e nell’arco trionfale sono da associare alla dedica del transetto. Il Liber Pontificalis riferisce che Costantino «fece rivestire d’oro» anche la calotta dell’abside36. Da questa menzione, che non descrive il materiale usato né la decorazione della calotta absidale, si desume l’assenza in origine di decorazione figurata. Questa interpretazione non è convin-

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16. Disegno del mosaico dell’antica basilica di S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 4410, fol. 26r.

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cente, dal momento che sia il Liber Pontificalis sia Eusebio e il poeta Prudenzio, nelle loro menzioni o descrizioni di chiese, lodano sempre soltanto il fasto dell’architettura, i preziosi allestimenti marmorei e aurei e le mirabili dimensioni dell’edificio, senza accennare a decorazioni figurate dipinte o a mosaico37. Un acquerello del 1592, che riprende uno schizzo di G. Grimaldi dell’inizio del xvi secolo, che ne documenta le condizioni prima della demolizione, riproduce un’immagine figurata nell’abside di Cristo assiso in trono, la mano destra nel gesto dell’oratore, il libro aperto nella sinistra, le Sacre Scritture, in grembo, tra Pietro e Paolo apostoli acclamanti. Nel registro inferiore vi sono le rappresentazioni simboliche di Gerusalemme e Betlemme e il Cristo Agnello fra i dodici agnelli sulla montagna e i torrenti del Paradiso. Ai lati dell’Agnello si trovano una figura femminile, indicata da un’iscrizione come «Ecclesia Romana», e papa Innocenzo iii38. Entrambe le figure datano il mosaico all’età di quest’ultimo (1198-1216). Dal momento che l’immagine dell’abside mostra un’iconografia paleocristiana, il disegno potrebbe riprendere un mosaico absidale di iv secolo, restaurato e rielaborato sotto Innocenzo iii e altri papi precedenti39. Una simile rappresentazione musiva si trova nella chiesa romana di S. Pudenziana, degli inizi del v secolo, dove Cristo è di nuovo raffigurato in trono vestito con uno sfolgorante pallium dorato, tra Pietro, Paolo e gli altri apostoli40. Anche la cosiddetta traditio legis, la consegna della legge, un’altra tra le più comuni e diffuse illustrazioni create dall’arte paleocristiana del iv-v secolo, è stata proposta quale rappresentazione originaria. Questa scena, dai molteplici livelli interpretativi, illustra la consegna del rotolo che riporta le Sacre Scritture, la Legge della Fede, e raffigura Cristo stante alla presenza degli apostoli Pietro e Paolo: presupposto biblico è la consegna delle leggi a Mosè, che viene visto come il predecessore di Pietro, mentre la struttura della composizione riprende le rappresentazioni cerimoniali imperiali. Questa scena si trova già nel 350 nella calotta di una nicchia del mausoleo di Costantina, figlia dell’imperatore, così come sui rilievi dei sarcofagi cristiani, espressione della nuova concezione cristiana dell’impero, già dagli anni ’60 del iv secolo.41 Si ritrova, infine, anche sulla capsella eburnea di Samagher, le cui immagini sono considerate una riproduzione dell’aspetto dell’area della tomba dell’Apostolo in S. Pietro. Inoltre, si trova anche su lastre funerarie e vetri dorati del iv secolo.42 Queste immagini devono necessariamente fare riferimento a un modello monumentale quale solo il mosaico absidale di S. Pietro poteva essere, e che pertanto è databile all’età costantinia-

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na. L’origine costantiniana della decorazione è confermata dall’iscrizione dedicatoria a mosaico che si trovava nell’abside, sotto il mosaico stesso, tramandata dalle collezioni di iscrizioni medievali, e che recita «sede della giustizia, casa della fede, aula del pudore, / tale è quel che vedi, che ogni pietà possiede, / che nella sua gloria si rallegra delle virtù del Padre e del Figlio, / e rende pari il suo autore alle lodi del Padre»43. Questa dedica in versi di non chiara lettura ha avuto diverse interpretazioni: secondo l’esegesi teologica, la dedica si riferisce a Dio Padre e al Figlio o al Concilio di Nicea del 32544. Secondo altri studiosi, si tratta di un’allusione alla controversia con gli ariani, che datano quindi l’iscrizione e il mosaico alla seconda metà del iv secolo45, cronologia sostenuta anche da quegli autori che mettono in relazione la menzione di padre e figlio con Costantino e uno dei suoi figli, relazione problematica, in quanto il figlio, che ha soltanto portato a compimento la basilica, sarebbe equiparato al padre come auctor, fondatore46. Un’ulteriore interpretazione identifica padre e figlio con Costantino e suo padre Costanzo, offrendo il vantaggio di designare Costantino come fondatore della basilica, auctor, come viene chiamato nell’iscrizione, e che eguaglia il padre Costanzo nella virtù47. Inoltre, le grandi virtù di Costanzo sono espressamente elogiate nella letteratura storica contemporanea: il compendio ab Urbe condita di Eutropio, magister memoriae dell’imperatore Valente (364-378), loda in tal modo Costanzo, il padre di Costantino, ovviamente nella versione ufficiale, un sovrano esemplare, pieno di virtù48. Inoltre, le definizioni sedes, domus, aula utilizzate nell’iscrizione alludono alla basilica, pertanto questa interpretazione sarebbe preferibile alle altre. Entrambe, quella teologica così come quella storica, che identifica padre e figlio con Costantino e Costanzo i, ascrivono la dedica e il mosaico a cui appartiene a epoca costantiniana; tuttavia, recentemente è stata proposta una datazione dell’iscrizione alla metà del v secolo, sotto papa Leone i (440-461)49. La scelta lessicale (fides, iustitia, pudor, domus, sedes), la struttura del testo e il concetto espresso dall’iscrizione, lasciano in effetti intravvedere evidenti consonanze con un passo del poema polemico del poeta cristiano Prudenzio contro il senatore pagano e prefetto urbano Simmaco, scritta poco dopo il 40050. Di qui la postdatazione dell’iscrizione, per cui sia questa sia la decorazione dell’abside sarebbero da attribuire a papa Leone i, il quale, come attesta il Liber Pontificalis, contribuì generosamente al restauro della basilica51. Dal momento che all’iscrizione dell’abside, come dedica, era demandato il compito di citare il committente della basilica, richiamando concetti ideologici specifici e ufficiali, bisogna, a mio

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avviso, dare la precedenza all’iscrizione dedicatoria. Essa esprime a livello spirituale il concetto dell’edificio ecclesiastico quale sede di Cristo, e attraverso un’attenta selezione lessicale, che di certo rispecchia l’impiego ufficiale, ne determina e fissa il contenuto, denso di significato52. Bisogna altresì ricordare anche che la decorazione dell’abside, non scindibile dall’iscrizione di dedica e ad essa coeva e complementare, è databile a età costantiniana, come visto sopra. Attorno al 1450 l’iscrizione sotto la decorazione musiva dell’arco absidale era conservata in maniera molto frammentaria e di difficile lettura, come ci riporta l’umanista Maffeo Vegio nelle sue note: … Constanini… expiata… hostili excursione…53 («… di Costantino… dopo la liberazione… dall’incursione nemica…»). Il testo risulta di difficile interpretazione: expiata, «espiato», deriva dal gergo religioso, ma può significare anche «liberato», scelta lessicale che potrebbe esprimere l’aiuto divino nella difesa dall’invasione nemica54. L’iscrizione viene correlata alla vittoria di Costantino sui Sarmati del 322. In tal modo la basilica viene intesa come un ex voto, monumento alla vittoria e segno di gratitudine dell’imperatore nei confronti di Cristo per il successo ottenuto55. Della relativa decorazione musiva, già al tempo di Maffeo Vegio fortemente compromessa, non abbiamo notizie. Dal momento che l’etimasia, il trono vuoto con le insegne di Cristo acclamato dagli apostoli, è rappresentata anche sul cofanetto-reliquiario di Samagher,

che riproduce l’allestimento architettonico e la decorazione della tomba di S. Pietro, è probabile che fosse questo il tema del mosaico originale dell’arco dell’abside56. Degli inizi del xvi secolo, vergata dalla mano del cardinale Giacobacci, che era stato canonico di S. Pietro, è la descrizione del mosaico sull’arco trionfale, con la rappresentazione di Cristo, Pietro e l’imperatore Costantino: litteris aurei sostendens Salvatori et beato Apostolo ecclesiam ipsam a se aedificatam vide licet ecclesiam sancti Petri57 («con lettere auree offre al Salvatore e al beato apostolo Pietro la chiesa da lui edificata, la chiesa di S. Pietro»). L’iscrizione dell’arco trionfale cui allude Giacobacci è stata a sua volta tramandata nelle collezioni medievali: «Poiché sotto la Tua guida il mondo si è innalzato, trionfante, fino alle stelle, Costantino, il vincitore, ha costruito per Te questa Chiesa»58. L’iscrizione testimonia quindi la costruzione della chiesa da parte dell’imperatore come ringraziamento per l’intercessione divina nella vittoria. In questo caso si ritiene, giustamente, che per vittoria si intenda quella, decisiva, su Licinio, del 324, presso Crisopoli, che rese l’imperatore unico sovrano di tutto il regno59. Dalla descrizione di Giacobacci, l’iscrizione viene universalmente letta in ambito scientifico come didascalia al mosaico che raffigura la consegna del modello della chiesa da parte di Costantino a Cristo e Pietro. Una simile iconografia si incontra tuttavia solo dal vi secolo nelle decorazioni absidali, pertanto la rappresenta-

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17. Un disegno di due basi dei colonnati, una colonna con capitello e un tronco di trabeazione della vecchia basilica di S. Pietro probabilmente di Alberto Alberti. Roma, Istituto Nazionale della Grafica, n. 2402 fol. 9r.

zione dell’imperatore come offerente con il modello della chiesa sull’arco trionfale viene datata alla metà del v secolo, sotto Leone i, o successivamente60. Il supposto problema iconografico secondo me non sussiste: Giacobacci dice chiaramente che erano rappresentati Cristo, Pietro e l’imperatore, quest’ultimo indicato con caratteri dorati (litteris aureis), mentre consegna la basilica a Cristo e all’apostolo Pietro. Sulla base dell’iscrizione è stata ipotizzata un’immagine raffigurante Cristo sul globo terrestre come sovrano del mondo davanti al cielo stellato, e al suo fianco Pietro e Costantino. Questa proposta sintetizza in un’unica iconografia i diversi messaggi espressi nell’iscrizione, come nel catino absidale di una delle principali nicchie del mausoleo di Costantina, della metà del iv secolo61. Le absidiole del mausoleo della figlia dell’imperatore riprendono quindi l’iconografia dei mosaici sia dell’abside sia dell’arco trionfale della basilica di S. Pietro. L’immagine del Pantocratore sul globo, che assieme all’iscrizione allude alla gloria di Costantino sovrano del mondo, troverà ampia diffusione; allo stesso modo l’iscrizione dedicatoria dell’arco di trionfo sarà il modello per diverse iscrizioni absidali fino al Medioevo, e anche il poeta Prudenzio esprime questo concetto nel suo poema contro il senatore Simmaco, capo dell’opposizione pagana, alludendo ancora una volta a una delle iscrizioni nel transetto sopra la tomba dell’apostolo62. Nello stesso poema, come abbiamo visto, aveva già fatto proprie queste idee programmatiche, con chiare allusioni all’iscrizione dedicatoria dell’abside di S. Pietro. Ciò dimostra chiaramente quali affermazioni fondamentali per la fede e per il programma politico contenga questa dedica di Costantino posta nei pressi della tomba dell’apostolo. Il mosaico, assieme all’iscrizione dedicatoria, è ascrivibile a età costantiniana, considerando la chiara connotazione imperiale di entrambi, che definiscono la basilica come monumento per la vittoria su Licinio del 324, con la quale Costantino fu consacrato unico sovrano dell’impero (mundus) in via di cristianizzazione63. Un donario di Costantino e della madre Elena Augusta contrassegna il transetto e la tomba di Pietro con il suo baldacchino in maniera particolare. Secondo il Liber Pontificalis, si trattava di una croce in oro puro, che riportava un’iscrizione dedicatoria a caratteri neri, sicuramente d’argento: «Costantino Augusto e Elena Augusta [ornano] la casa (la tomba) di splendore regale [d’oro], circondata dall’aula che brilla dello stesso fulgore»64. L’iscrizione nel Liber Pontificalis è incompleta: le integrazioni dell’epigrafista De Rossi, in parentesi quadre, colmano le lacune. Vi si dichiara che l’imperatore e la madre avevano dotato di costosi apparati decorativi la tomba di Pietro, circondata

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da un’aula (il transetto) di eguale splendore. Subito prima della menzione della croce, il Liber Pontificalis cita la doratura della calotta absidale donata dall’imperatore e la decorazione della tomba sopra cui fu appesa la croce, come espressamente indicato. Nell’iscrizione della croce, la tomba è citata con la denominazione di domus, comune per le tombe65. Costantino nel 325 aveva innalzato la madre Elena ad Augusta, che l’anno successivo visitò la Terrasanta in pellegrinaggio. Durante il suo soggiorno a Gerusalemme, venne rinvenuta la croce di Cristo. Certamente la donazione della croce aurea si riferisce a questo ritrovamento, a cui Costantino consacrò pure la chiesa di S. Croce in Gerusalemme, nel palazzo sessoriano66. Con questa donazione di Costantino assieme alla madre siamo ancora una volta negli anni attorno al 326, quando furono completati i lavori e gli apparati decorativi del transetto. Si chiude così il cerchio. Il transetto, che custodiva il luogo dell’adorazione, il monumento funerario di Pietro, deve essere stato completato anche nel suo apparato decorativo poco dopo il 326, consacrato e quindi consegnato al culto, che fu garantito attraverso le donazioni di Costantino. Secondo il Liber Pontificalis, l’imperatore donò pure un altare d’argento del peso di 750 libbre67. Dobbiamo supporre che l’altare si trovasse nel transetto davanti al baldacchino, per potervi celebrare il culto. L’area racchiusa dal baldacchino offriva certamente poco spazio per la celebrazione eucaristica condotta dal vescovo con il suo seguito; tuttavia mancano i documenti scritti e i reperti archeologici che possano aiutare a indicare con certezza il luogo del culto eucaristico a S. Pietro. Il fatto che a quell’epoca l’altare non fosse ancora connesso alla tomba del martire esclude ugualmente una sua collocazione sotto il baldacchino68. La successiva fase edilizia riguarda l’erezione dell’aula a cinque navate. Anche la basilica Ulpia del foro traianeo, degli inizi del ii secolo, aveva cinque navate. La prodigiosa forma dell’edificio fondato da Traiano fu considerata adeguata dagli architetti della basilica di S. Pietro, dopo l’esperienza della basilica del Laterano, anche nelle proporzioni monumentali e negli arredi, adatti alle esigenze liturgiche del culto cristiano. Le mura di fondazione dei colonnati e le mura perimetrali meridionali e settentrionali, parzialmente messe in luce nel corso degli scavi, ci forniscono dati sulla capienza delle navate e sulla larghezza totale dell’aula69 di 66 m, di 23 m di luce trasversale della navata centrale e di oltre 9 m di luce trasversale di quelle laterali. La navata centrale era alta 32 m, il colmo del tetto era di quasi 39 m; la lunghezza dell’aula basilicale era di ca. 91 m. Secondo le informazioni di Alfarano, la facciata della basilica aveva tre

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finestre una sopra l’altra e in cima una finestra rotonda. Le ventidue grandi finestre del cleristorio dell’aula, di ca. 3 × 5 m, illuminavano la navata centrale come sala cerimoniale. Al contrario, le navate laterali erano più buie: undici finestre più piccole, alte 2,70 m, si aprivano sui muri esterni delle navate laterali. Il cleristorio della navata centrale era sostenuto da colonnati architravati di ventidue colonne ciascuno, e le navate laterali erano divise da colonnati ad archi di ventidue colonne. L’uso del colonnato ad archi costituiva una necessità tecnica. L’architrave sopra il colonnato della navata centrale, con un interasse di ca. 3,90 m, era realizzato con blocchi diversi in forma e misure, come osservato dai contemporanei nel xvi secolo. I blocchi della trabeazione non erano quindi stati lavorati per questo edificio, provenienti probabilmente dai depositi di marmo imperiali70. Uno di questi blocchi conservava le tracce di un’iscrizione traianea, che indica la provenienza del blocco da un monumento coevo le cui componenti dopo lo smantellamento, come testimoniato anche in altri casi, dovevano essere immagazzinati in depositi di marmi per il riutilizzo nei progetti di edilizia

pubblica71. La trabeazione del colonnato architravato della navata centrale aveva la considerevole altezza di 2,80 m: la cornice si trovava a circa 11 m dal piano di calpestio. La cornice aggettava di circa 70 cm, ed era dotata di una ringhiera, come illustrano quadri e disegni dell’era moderna, per essere utilizzata per il mantenimento delle numerose lampade. Gli intercolumni delle navate laterali corrispondenti nelle misure a quelli della navata centrale non potevano sostenere una trabeazione altrettanto massiccia, così da dover utilizzare delle arcate dalle ampie aperture. Queste ampie e trasparenti arcate riunivano le navate laterali quasi in un corpo unico. In questo modo tale disposizione tecnica assolveva a una funzionalità sia estetica sia logistica degli spazi. I colonnati architravati della navata centrale conducono i fedeli attraverso la suggestiva fuga delle monumentali colonne al transetto e al baldacchino posto sulla tomba, incorniciato dall’arco trionfale e dall’abside, mèta di questa scenografia architettonica. Allo stesso tempo, i colonnati racchiudono la navata centrale con la densa sfilata di colonne di fronte alle navate laterali, che fungono da ambienti secondari di movimento, offrendo l’accesso al transetto e alla tomba durante le processioni e le oblazioni alle mense di offertorio del presbiterio. Complessivamente l’aula e il transetto della basilica erano dotati di cento colonne, un eccezionale sfoggio dal momento che i fusti di colonne di differenti varietà di graniti e marmi, provenienti dalla Grecia, dall’Asia minore e dall’Egitto, sono stati selezionati fra gli elementi architettonici più preziosi e costosi. Proprio a questo si riferisce l’imperatore nelle lettere ai vescovi e ai governatori delle province tramandateci da Eusebio, quando sollecita all’amministrazione imperiale la fornitura di colonne secondo le specifiche richieste del vescovo incaricato della pianificazione della costruzione. Per i fusti delle colonne della basilica di S. Pietro abbiamo i disegni con le misure e l’indicazione del tipo di marmo vergati da Peruzzi e Sangallo, che restituiscono un quadro abbastanza attendibile della distribuzione delle colonne. I fusti di granito rosso e grigio e quelli dei variopinti marmi delle diverse qualità e misure erano disposti a coppie sull’asse della navata centrale72. Meno affidabili sono i disegni e le riproduzioni dei fusti di colonne delle navate laterali, dove pure si trovano colonne in granito rosso e grigio e in marmo bianco: accanto a fusti in granito trovano posto fusti marmorei scanalati, senza un ordine preciso, a eccezione di pochi pezzi appaiati. Le dimensioni dei fusti variano maggior-

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Capitolo primo

L’antica basilica vaticana costantiniana di S. Pietro

18. Baldassarre Peruzzi, disegno delle colonne della basilica costantiniana. Firenze, gdsu ua 108r. 19. Antonio da Sangallo il Giovane, disegno delle colonne della basilica costantiniana. Firenze, gdsu ua 1079r.

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mente rispetto a quelle dei colonnati della navata centrale. La minore cura evidente nell’impiego dei colonnati delle navate minori era ovviamente dovuta alla mancanza di pezzi adeguati e omogenei nei magazzini. Trattandosi fondamentalmente di materiale eterogeneo per dimensioni e colore, anche per i fusti delle colonne come per i blocchi dell’architrave della navata centrale, nonché per le soglie marmoree delle porte della basilica, non ci troviamo di fronte a commissioni specifiche per l’edificio quanto a prelievi dai ben forniti depositi di marmo pubblici73. Anche i capitelli e le basi della basilica costantiniana potrebbero venire dai medesimi depositi. Sia Alfarano sia un’anonima descrizione degli inizi del xvi secolo concordano nell’attribuire i capitelli all’ordine corinzio. Grimaldi precisa che nei colonnati erano impiegati capitelli finiti e pezzi non finiti, e lo storico della chiesa Baronio alla fine del Cinquecento annota che i capitelli appartenevano a diversi ordini74. Le discrepanze nelle descrizioni, se i capitelli fossero sia di ordine corinzio o non finiti sia di ordini differenti, possono trovare una spiegazione nel fatto che capitelli con foglie lavorate, con foglie liscie e compositi appartengono tutti all’ordine corinzio. I tre tipi erano probabilmente impiegati gli uni accanto agli altri, abbinati a coppie, come i fusti del colonnato nella navata centrale. Anche per le navate laterali dobbiamo ipotizzare un simile assortimento. Questi tipi di capitelli, quello corinzio a

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20. Base dell’undicesima colonna del colonnato settentrionale della navata mediana in situ. Grotte vaticane (Fabbrica di S. Pietro, foto degli scavi). 21. Base dell’undicesima colonna del colonnato delle navate secondarie settentrionali in situ. Grotte vaticane (Fabbrica di S. Pietro, foto degli scavi).

foglie lavorate o a foglie lisce così come quello composito, erano prediletti nell’architettura romana, e si trovavano a disposizione in quantità probabilmente sufficiente seppur in differenti dimensioni ed eventualmente anche a diversi stadi di lavorazione nei depositi di materiali. Un’ulteriore prova del ricorso a materiali di magazzino nella decorazione architettonica della basilica viene offerta dalla base dell’undicesima colonna del colonnato di destra della navata centrale, conservata in situ, che si presenta appena sbozzata, nello stato di lavorazione usuale nelle cave per essere prelevata e immagazzinata per un eventuale impiego e una lavorazione definitiva. Pezzi con queste caratteristiche provenienti dai magazzini portuali di Ostia e Porto si trovano oggi fuori dal Museo di Ostia Antica, così come al Museo di Carrara, provenienti dai depositi delle cave locali. La fattura approssimativa e i profili non ben curati di due basi delle colonne tortili vitinee che sostenevano il baldacchino, rinvenute nel corso degli scavi, sono ovviamente stati lavorati per questo impiego. Anche il basamento dell’undicesima colonna del colonnato delle navate laterali settentrionali, rinvenuta in situ, mostra un’esecuzione sbozzata e trascurata, ed è stato quindi lavorato nel cantiere della basilica. Lo stesso vale probabilmente anche per alcuni dei blocchi impiegati per l’architrave della navata centrale, ricavati da blocchi grezzi nello stesso cantiere e impiegati nella trabeazione dei colonnati centrali insieme a pezzi più antichi. Infine vi è una serie di basi attiche dal profilo irregolare e impreciso provenienti dagli scavi del 1940-1950 e da attribuire forse ai colonnati delle navate laterali, la cui rifinitura approssimativa indica una produzione tardoantica. Si tratta dunque di materiale eterogeneo, corrispondente alla descrizione di Grimaldi, il quale annota che i capitelli erano in parte non finiti (o del tipo liscio), che le basi non erano adatte a molti dei fusti, mentre altri pezzi recavano iscrizioni più antiche. La decorazione architettonica della basilica constava dunque di pezzi più antichi, finiti, e di materiali grezzi, di cava, di blocchi marmorei provenienti dai magazzini, appena sbozzati per l’utilizzo, e di altri complementi appositamente realizzati per impieghi secondari nella basilica. All’inizio del secolo era stato appositamente realizzato l’apparato ornamentale per le grandi terme di Diocleziano. Lo stesso vale per la grande basilica presso il foro, fatta costruire da Massenzio nel 306. I monumentali fusti delle colonne di questa basilica sono stati procurati dalle cave di Proconneso nel mare di Marmara75. Pertanto, deve essere stata la fretta a indurre gli archi-

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22. Rota porfiretica del pavimento dell’antica basilica riutilizzata nel pavimento della nuova basilica. Basilica vaticana.

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tetti a servirsi in gran parte delle cospicue forniture dei magazzini imperiali per l’apparato decorativo delle prime fondazioni costantiniane, la basilica del Laterano e la basilica di S. Pietro. Difficilmente in questa situazione fu possibile l’approvvigionamento di abbondante materiale dalle cave, dal momento che la loro attività già dal iii secolo era stata fortemente ridotta. Fasto e monumentalità in un’impressionante visione d’insieme erano i requisiti chiave di una fondazione imperiale, qualità che le fonti documentano anche per i grandi edifici ecclesiastici costantiniani, che, come afferma espressamente Eusebio, dovevano concorrere, superandoli, con gli edifici pubblici dell’impero76. Queste caratteristiche comprendevano, accanto alla ricchezza di forme della decorazione architettonica tradizionale, lo splendore ripetutamente evocato dei marmi colorati, come si addice ai grandi edifici pubblici. Il fasto notevole delle basiliche è determinato anche da cassettoni e travi dorate, elogiati dalle fonti, che dobbiamo ipotizzare anche per la basilica di S. Pietro. Dettagli formali della costruzione e dell’allestimento dell’edificio risultano, dal punto di vista del fasto architettonico, meno importanti. ll quadro che emerge dall’analisi della decorazione architettonica di S. Pietro trova conferma nel confronto con la basilica teodosiana di S. Paolo sulla via Ostiense, edificata sopra la tomba dell’apostolo sul modello della basilica di S. Pietro77. Questo monumentale edificio ecclesiastico degli ultimi decenni del iv secolo fu dotato di un apparato decorativo architettonico di colonne, basi e capitelli prodotti nella fabbrica della basilica allestita in loco78. Lo straordinario impegno nel realizzare gli arredi architettonici presso un apposito cantiere, ritornando dunque alle consuete pratiche edilizie imperiali per i grandi edifici antecedenti Costantino, dipese probabilmente dall’esaurimento delle scorte dei magazzini urbani per i cantieri delle grandi fondazioni costantiniane, la basilica del Laterano, la basilica di S. Pietro e la basilica di S. Lorenzo nel suburbio. Non fu possibile l’impiego di materiale di spoliazione di grandi edifici pubblici del periodo imperiale, di misura e qualità adeguate a coprire l’enorme richiesta di elementi architettonici e di decorazione architettonica per la basilica cristiana: tali edifici, inclusi i templi pagani chiusi ufficialmente nel 346, furono infatti posti sotto tutela attraverso diversi decreti imperiali nel corso del iv secolo, e ancora sotto l’imperatore Maiorano, nel 45879. Anche sulla base di queste considerazioni, che avvalorano l’attribuzione della basilica di S. Pietro ancora a epoca costantiniana, non è pensabile una postdatazione alla se-

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conda metà del iv secolo80. L’abbinamento di capitelli di differente ordine nella navata centrale della basilica di S. Paolo, in cui si alternano capitelli corinzi e compositi, così come l’equivalente disposizione dei capitelli delle navate laterali, suggeriscono un simile assetto delle colonne anche nella basilica di S. Pietro, a conferma della nostra ipotesi circa l’alternanza tra capitelli corinzi e compositi. Questa disposizione degli elementi architettonici, imitata nella basilica di S. Paolo, è da leggersi come il tentativo di organizzare in maniera ragionata elementi eterogenei nei colonnati. Spicca in primo piano nell’architettura tardoantica della basilica di S. Pietro l’assortimento della decorazione architettonica determinata da colori e forme variegate, di grandioso splendore, mentre il coordinamento degli elementi architettonici, i dettagli delle forme, la qualità e la cura stessa nell’esecuzione passano in secondo piano. Accanto ai colonnati, che dominano la dimensione spaziale della navata centrale enfatizzandone lo splendore, anche il resto dell’apparato decorativo della basilica fu selezionato con cura, soprattutto quello della navata centrale, la sala principale. Al di là dell’apparato decorativo musivo programmatico dell’abside, dell’arco absidale e dell’arco trionfale, sopra la tomba dell’apostolo, su cui era orientata l’intera aula81, l’architrave del colonnato della navata centrale era dotato di un fregio mosaicato con tralci di vite e fiori, che rafforzava ulteriormente il cromatismo e lo splendore dello spazio interno82. Una simile fascia mosaicata con identici motivi decorativi è conservata tuttora sull’architrave del colonnato della navata centrale della chiesa di S. Maria Maggiore, a Roma, degli anni ’30 del v secolo. Come nel caso dell’etimasia sull’arco dell’abside, possiamo supporre che il prototipo per questa decorazione a S. Maria Maggiore si trovasse nella basilica vaticana di S. Pietro. L’eterogeneità di forme e dimensione dei blocchi della trabeazione del colonnato di S. Pietro veniva così sintetizzata in una decorazione musiva unitaria orientata in profondità verso l’arco trionfale e l’abside, accentuando in questo modo l’orientamento della navata verso il santuario. Sulla decorazione degli alzati della basilica abbiamo scarse informazioni. L’erudito rinascimentale Panvinio e altri suoi contemporanei osservavano i fulgidi rivestimenti marmorei sia delle pareti sopra i colonnati sia dell’interno delle mura perimetrali. La basilica era dunque dotata di un prezioso e variopinto rivestimento marmoreo, come di consueto per i grandi edifici pubblici e le splendide case dei maggiorenti romani. L’iscrizione dedicatoria sulla croce dorata donata da Costantino ed Elena, posta sopra la tomba di Pietro, menziona esplicitamente il particolare splendore

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della sala, in particolare il prezioso rivestimento marmoreo del transetto accanto alla trabeazione dorata del tetto. Il pavimento del transetto era in lastre di marmo bianco, mentre per il pavimento dell’aula basilicale Alfarano descrive lastre circolari e quadrate e altri pezzi più piccoli di diverse forme e colori. Il variopinto e variegato pavimento in opus vermiculatum, menzionato da Alfarano, risulta probabilmente un restauro medievale del pavimento alla maniera dei maestri marmorari romani, i Cosmati, mentre il motivo a grandi cerchi e quadrati di diversi tipi di marmo, soprattutto porfido, è noto dai pavimenti dei grandi edifici del periodo imperiale e tardoantico83. Una di queste lastre circolari di porfido, su cui, secondo la tradizione, Carlo Magno fu incoronato nel dicembre dell’800 da papa Leone iii, è stato trasferito vicino all’ingresso nella nuova basilica84. Per le pareti della navata centrale Alfarano parla di affreschi con scene dell’Antico e Nuovo Testamento, immortalati nello stato coevo dai disegni a colori del pittore Domenico Tasselli e dalle descrizioni di Grimaldi commissionati per volontà di papa Paolo v (1605-1621) in occasione della ricostruzione del nuovo edificio. Scene dell’Antico e Nuovo Testamento si susseguono l’una di fronte all’altra lungo le pareti, in una sequenza esegetica di personaggi ed eventi dell’Antico Testamento intesi come preludio agli eventi del Nuovo. La grande scena della Crocifissione sul lato sud è un’aggiunta medievale, uno dei numerosi interventi di restauro cominciati già a partire dal ix secolo. Grimaldi poté vedere solamente le scene sopra undici degli intercolumni: la parte occidentale dell’edificio era infatti già stata demolita. A nord, sotto le finestre, si trovavano scene dell’Antico Testamento disposte su due registri e, al di sopra, tra le finestre stesse, le figure dei profeti, mentre sul

muro sottostante a sud le scene del Nuovo Testamento. Al di sopra dell’architrave figurava una sfilata di ritratti di papi disposta su due file. Le descrizioni di Grimaldi e i disegni a colori di Tasselli permettono di ricostruire la sequenza originaria delle scene della parete nord: si cominciava con l’ingresso delle fiere nell’arca di Noè, per proseguire con gli eventi dei libri di Mosè. Sul registro inferiore la narrazione riprendeva con Mosè e Aronne al cospetto del faraone, e proseguiva con ulteriori episodi quali il passaggio degli israeliti attraverso il Mar Rosso. Il lato sud con le scene del Nuovo Testamento iniziava con il battesimo di Cristo, proseguendo con la vita e le opere di Gesù. In tutto la sequenza del lato nord doveva comprendere quarantasei scene, mentre quella del lato sud quarantatré85. Sulla base dell’iscrizione di papa Leone i sulla facciata della basilica di S. Pietro, che dobbiamo ancora trattare, e di un’iscrizione dello stesso papa sull’arco trionfale di S. Paolo, che ne rivendica il restauro del mosaico, a questo papa vengono generalmente attribuiti i fregi su due registri con scene vetero- e neotestamentarie in S. Paolo, nei quali Paolo viene assimilato all’Aronne veterotestamentario. Anche il ciclo di S. Pietro, che mostra grandi affinità nell’impianto espositivo con il ciclo di S. Paolo, viene attribuito a papa Leone i. Questa interpretazione non è però sufficientemente fondata. Certamente papa Leone i restaurò il mosaico dell’arco trionfale di S. Paolo, come attesta l’iscrizione, tuttavia l’iconografia del mosaico rimanda sicuramente all’epoca della costruzione della basilica, completata, come documentato dalle iscrizioni dell’arco trionfale, sotto Onorio. Recenti studi hanno dimostrato che l’arco trionfale e le monumentali colonne su cui poggia sono senz’ombra di dubbio da riferire all’epoca della costruzione della basilica di S. Paolo86. Papa Leone i, in seguito a un incendio, dovette restaurare i cicli pittorici del cleristorio, risalenti probabilmente all’epoca della costruzione: mentre in S. Paolo le scene bibliche della parete nord istituiscono un confronto tipologico tra l’Aronne veterotestamentario e la vita dell’apostolo Paolo, illustrata nella parete sud, la parete meridionale di S. Pietro illustrava probabilmente una sequenza di scene cristologiche87. Il ciclo di S. Pietro, solo parzialmente ricostruibile, può essere visto come un primo tentativo di un confronto tipologico di scene e figure dei due testamenti in una rappresentazione per cicli, che troverà una struttura compiuta alla fine del iv secolo nella basilica di S. Paolo, nel confronto tra l’apostolo e la sua attività missionaria e Aronne nella storia di salvezza, raccontato dal Vecchio Testamento.

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23. Anonimo, disegno a penna raffigurante la facciata della basilica costantiniana prima del rifacimento di Gregorio ix, ultimo quarto dell’xi secolo. Windsor, Eton College, Cod. Farf. 124, f. 122r.

24. Antica croce di marmo sulla sommità della facciata di S. Pietro oggi nella cripta anulare della basilica.

Paolino di Nola, che agli inizi del v secolo a Cimitile, presso Nola, ampliò il santuario di pellegrinaggio di Felice Confessore dotandolo di cicli pittorici il cui contenuto teologico era sottolineato da tituli, didascalie in versi, esternò in una lettera che questo tipo di decorazione parietale era raro more, ossia rara88. Pertanto se ne dedusse la rarità di questi cicli pittorici, circoscritti per lo più a grandi basiliche romane o importanti chiese episcopali. Mi pare tuttavia che Paolino intendesse, giustamente orgoglioso, che la sua composizione della sequenza narrativa, con la sua ponderata concezione teologica ulteriormente sottolineata da tituli, era rara. Allo stesso tempo, la descrizione di Paolino presuppone l’utilizzo dei cicli pittorici come decorazione dei cleristori delle basiliche cristiane. Dobbiamo dunque supporre che i cicli di S. Paolo e ancor più quelli di S. Pietro siano da riferire ancora al iv secolo. Alle stesse conclusioni rimandano sia i tituli di Prudenzio sia quelli tramandati sotto il nome di Ambrogio, invenzione letteraria del tardo iv secolo o del 400, che presuppongono l’esistenza di cicli narrativi nelle chiese già a quell’epoca. Un ciclo pittorico dai tratti monumentali in un oratorio rurale nei pressi di Verona, la cui decorazione richiama in maniera evidente la basilica di fine iv secolo del vescovo Zenone di Verona, dimostra la diffusione di questi cicli negli edifici ecclesiastici entro la fine del iv secolo, soprattutto nelle città vescovili. Fonti scritte confermano la diffusione di questo tipo di decoratione almeno a partire dalla seconda metà del iv secolo. Così, in un trattato del 381, Gregorio di Nissa parla di un ciclo con le storie del martire nella chiesa memoriale di S. Teodoro, e Agostino ricorda parietes pictae, ovvero affreschi, nelle chiese. I cicli delle grandi basiliche romane devono esserne state i modelli; in particolare, si può supporre che il fregio di S. Pietro avrebbe ispirato la decorazione parietale degli edifici ecclesiastici con sequenze tratte dalle Sacre Scritture. Su tali presupposti è possibile datare anche la decorazione del cleristorio di S. Pietro all’età costantiniana. Dal Tardoantico in poi la decorazione parietale di S. Pietro, mèta principale del pellegrinaggio cristiano occidentale, ha avuto il ruolo di modello. Numerosi cicli nelle chiese medievali italiane dall’xi al xiii secolo discendono dai fregi di S. Pietro, come attestano scelta, disposizione e iconografia delle immagini89. Un disegno contenuto in un manoscritto dell’xi secolo, oggi a Windsor, riproduce la facciata e il nartece della basilica, sfondo della rappresentazione delle esequie di Gregorio i (590-604) svoltesi nell’atrio90. Una raccolta di iscrizioni altomedievali ha riportato la dedica di Marianus, ex prefetto del pretorio e console, le cariche più prestigio-

che Eusebio ci parla di una simile fontana nell’atrio della chiesa episcopale a Tiro fondata nello stesso periodo99. Nell’iscrizione frammentaria di papa Damaso (366-384) rinvenuta nei pressi della basilica di S. Pietro, in cui si attribuiscono le operazioni idrauliche di canalizzazione delle acque piovane dalla collina Vaticana e il rinvenimento di una fons, una fonte di acqua salutifera, il papa difficilmente si riferiva al cantharus dell’atrio, del quale potrebbe comunque aver regolato o ripristinato l’approvvigionamento idrico100. Disegni di Cronaca (1470) e di Tasselli (1605) mostrano al centro dell’atrio un baldacchino sostenuto da otto colonne, sotto cui si trova una fontana a forma di grossa pigna. Il Liber Pontificalis attribuisce a papa Simmaco (498514) diversi interventi di restauro, come la ripavimentazione dell’atrio ad cantharum: dobbiamo perciò presumere che all’epoca il vecchio impianto esistesse ancora. La fontana con la pigna e il baldacchino ottastilo, realizzati e decorati, come illustrano le riproduzioni rinascimentali e barocche, con pregevoli materiali di spoglio antichi, devono aver sostituito il cantharus in epoca altomedievale. Fu probabilmente papa Stefano ii (752-757), che secondo il Liber Pontificalis costruì un baldacchino su otto colonne nell’atrio, a sostituire la vecchia fontana, ampliandola e impreziosendola, oltre che con la pigna, con altri cimeli, ora disponibile negli antichi monumenti ormai dismessi101. Il cosiddetto Pignone è oggi collocato in uno dei cortili del Palazzo Vaticano. Davanti alla scalinata di accesso all’atrio, papa Simmaco dispose un’altra fontana, assieme a una latrina, parte del suo progetto di erigere un edificio residenziale, un palazzo episcopale, e attrezzature di assistenza per i pellegrini e i visitatori102. L’iscrizione damasiana sopra citata ci riporta anche alla questione della localizzazione del battistero di S. Pietro103. In origine la basilica, che non era una chiesa parrocchiale, non aveva un battistero, a differenza della basilica vescovile del Laterano e delle altre chiese parrocchiali che sorsero tra iv e v secolo. Tuttavia, i flussi di pellegrini che si recavano presso le chiese memoriali dei martiri e che volevano essere battezzati in occasione della visita alla tomba del martire per condividerne la salvezza dell’anima resero necessaria la fondazione di un battistero. Nella biografia di papa Simplicio, il Liber Pontificalis menziona battisteri sia in S. Pietro sia in S. Paolo104. L’iscrizione di papa Damaso, rinvenuta accanto al transetto nord, segnala importanti opere di drenaggio sull’adiacente colle. L’iscrizione viene spesso riferita a un battistero di fondazione damasiana, documentato da un’altra fonte scritta105, per la citazione di una fons salutifera, interpretata come fonte battesimale. Il poeta cristiano

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se dell’impero, che assieme alla moglie Anastasia onorò un voto al beato Pietro, promosso e completato su istanza di papa Leone i91. Su richiesta del papa, Marianus commissionò il mosaico riprodotto nel disegno del codice, raffigurante i ventiquattro anziani dell’Apocalisse in adorazione dell’Agnello di Cristo circondato dai quattro animali apocalittici92. In età costantiniana e probabilmente fino a papa Leone i, la facciata era di colore azzurro ceruleo, come ci lascia intendere Paolino di Nola in una lettera93. Sul frontone della facciata si stagliava una croce marmorea, salvata nel 1606 dalla demolizione e attualmente murata nella cripta anulare presso la tomba di S. Pietro. La forma a estremità espanse (i dischi sono un’aggiunta successiva) suggerisce una datazione a età costantiniana. Davanti alla facciata della basilica si trovava un atrio delle stesse misure dell’aula94, ulteriore esempio delle dimensioni armoniose ed equilibrate dell’edificio. In questo modo la basilica misurava in tutto 214 m di lunghezza: una struttura monumentale, in grado di competere, nelle sue impressionanti dimensioni, con i grandi complessi imperiali romani, come i Fori. Gli stessi contemporanei ne ammiravano la monumentalità95. La stessa imponenza dell’edificio costantiniano sollecitava i committenti papali e gli architetti nel xvi e nel xvii secolo a superare le dimensioni della vecchia basilica con il nuovo edificio. I disegni dell’epoca della ricostruzione della chiesa ripro-

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ducono un nartece con arcata colonnata e tetto a una falda davanti alla facciata dell’antica basilica. Il livello del pavimento dell’atrio era appena inferiore rispetto a quello della basilica, ed era composto da lastre in marmo bianco. L’edificio con la porta d’ingresso all’atrio riprodotto su alcune rappresentazioni dell’epoca fu realizzato solo in epoca altomedievale. Una scalinata di trenta gradini conduceva all’atrio96, che probabilmente in origine era privo di porticati laterali; in ogni caso mancano gli elementi per stabilirlo. Sotto papa Simplicio (468-483), l’atrio fu dotato di colonnati laterali, come illustra la planimetria di Alfarano97. La parte centrale già nel iv secolo era adornata da una fontana, un cantharus, che serviva anche per le abluzioni. Paolino di Nola, che visitò la basilica alla fine del iv secolo, la descrive nelle sue parti essenziali98. Fontane con bacino configurato a grande vaso marmoreo, il cosidetto cantharus, si sono conservate negli atri delle chiese paleocristiane di S. Cecilia e dei SS. Apostoli a Roma: quella di S. Pietro era sormontata da un baldacchino bronzeo su quattro colonne. Queste fontane, levate da giardini e parchi del periodo imperiale, fungevano negli atri da ornamento e venivano utilizzate per le abluzioni prima di entrare nel luogo sacro, simbolo della remissione dei peccati, come ci insegnano le iscrizioni e i padri della Chiesa. Un cantharus per le abluzioni rituali doveva ornare già il centro dell’atrio di epoca costantiniana, tanto più

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L’antica basilica vaticana costantiniana di S. Pietro

27. Francesco Cancellieri, pianta dell’antica basilica di S. Pietro. Fabbrica di S. Pietro.

25. Giovanni Antonio Dosio, Costruzione della cupola della basilica di S. Pietro; di fronte a essa il corpo longitudinale della chiesa costantiniana e l’atrio. Firenze, gdsu. 26. Il cantharus del ii secolo nell’atrio di S. Cecilia a Roma. Probabilmente un cantharus dello stesso tipo era collocato nell’atrio della basilica vaticana.

Prudenzio, che visitò Roma nel 402, quando descrive, nel suo inno a Pietro e Paolo, la raccolta delle acque piovane dal colle mediante canali marmorei in una cisterna (colymbus) entro una grotta dal soffitto mosaicato, si riferisce alle opere idrauliche di Damaso. A questo proposito parla in uno dei versi del sacramento del battesimo, testimoniando così probabilmente, seppur in maniera indiretta, la presenza a S. Pietro di un battistero, alimentato dalle condutture e dal bacino con acqua corrente106. Ulteriori notizie nella biografia di papa Simmaco del Liber Pontificalis e una testimonianza di inizio vi secolo sembrano concordare con la planimetria di Alfarano nella localizzazione del battistero attribuito a Damaso nell’esedra settentrionale del transetto della basilica. D’altra parte si sostiene, a ragione, che una tale collocazione sarebbe inusuale per quest’epoca: i battisteri, in particolare quelli afferenti alle chiese episcopali, erano infatti edifici monumentali a pianta centrale. Per questo motivo è stata recentemente scartata l’ipotesi che il battistero si trovasse eccezionalmente inserito nel transetto settentrionale; piuttosto, doveva trovarsi a nord del transetto. Supportano questa ipotesi anche l’impianto di canalizzazione idrica sul colle e la raccolta delle acque entro un bacino, testimoniati dall’iscrizione damasiana e da Prudenzio, che in questa sede potevano alimentare anche un battistero indipendente. Anche le attività costruttive di papa Simmaco, che aveva residenza in S. Pietro, portano in questa direzione. Tra le altre iniziative, dotò il battistero di S. Pietro di oratori simili a quelli della basilica del Laterano, che sembrano presupporre un edificio monumentale

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autonomo107. Bisogna comunque sottolineare che il terreno sul pendio del colle Vaticano immediatamente a nord del transetto era poco adatto alla costruzione di un battistero monumentale, che peraltro doveva essere già da tempo in stato di abbandono prima della metà del xv secolo, dal momento che non ne abbiamo notizia. La questione della localizzazione del battistero in S. Pietro è destinata dunque a rimanere insoluta. Tre monumentali mausolei erano collocati lungo il lato meridionale e presso l’abside della basilica: il mausoleo orientale, consacrato come chiesa di S. Andrea da papa Simmaco e collegato alla basilica da una scalinata, aveva un podio rotondo in laterizio del diametro notevole di ben 34 m, pertinente a una precedente struttura tombale. I bolli, del primo quarto del iii secolo, datano l’edificio a età severiana, eretto alle spalle dell’obelisco sopra l’antica spina del circo, ormai in disuso. In origine il mausoleo doveva avere un’altezza di circa 27 m, che corrispondeva al suo diametro interno, ed era coperto da una cupola108. La posizione di rilievo, la tipologia e le ragguardevoli dimensioni suggeriscono una fondazione imperiale, anche se non abbiamo notizie del titolare del mausoleo. Gli imperatori della dinastia severiana furono infatti tumulati nel mausoleo di Adriano:

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solamente Severo Alessandro doveva avere un proprio monumento funerario a Roma109, ma non abbiamo elementi per identificarlo con il nostro mausoleo. Nel iv secolo, in seguito alla costituzione della basilica, l’edificio fu ribassato di 7,5 m all’altezza del livello pavimentale della basilica stessa, e rialzato con un cleristorio a pianta circolare, e così convertito in un tipo usato di frequente dall’età costantiniana per i mausolei imperiali, ad esempio per il mausoleo di Elena (Tor Pignattara) a Roma. Anche in questo caso, non conosciamo il proprietario, che risiedeva in posizione privilegiata accanto alla basilica dedicata all’apostolo110. I successori di Costantino non furono sepolti a Roma. Il figlio Costanzo ii è stato tumulato a Costantinopoli e l’altro, Costante, forse a Centcelles in Spagna. Teodosio i (379395) fu sepolto a Costantinopoli, Graziano e Valentiniano ii, sovrani dell’impero d’Occidente, nel mausoleo imperiale di S. Aquilino a S. Lorenzo, a Milano. Un edificio simile, coevo, presso Tivoli, la cosiddetta Torre della Tosse, che fungeva da accesso al grande complesso di una villa, potrebbe suggerire un’analoga funzione per la struttura in S. Pietro. Tuttavia a S. Pietro questa ipotesi è da scartare per le dimensioni monumentali dell’edificio, che peraltro non disponeva di un passaggio adatto per il flusso di visitatori e pellegrini. Lo scalone e l’atrio monumentale costituivano già un ingresso adeguato e degno alla basilica. Fu Onorio, figlio di Teodosio i, a fondare nuovamente, attorno al 400, presso S. Pietro, un mausoleo dinastico per il ramo teodosiano della famiglia imperiale d’Occidente, dopo la fondazione alla metà del iv secolo del mausoleo romano di Costantina a S. Agnese, in cui fu sepolta attorno al 360 anche Elena, un’altra figlia di Costantino, moglie dell’imperatore Giuliano. Si tratta di un processo politico della massima importanza, che conferisce a S. Pietro il rango di santuario principale dell’impero d’Occidente, innalzando Roma a capitale spirituale e religiosa dell’impero stesso. Il mausoleo, addossato con un portico all’esedra meridionale del transetto, aveva quindi un accesso privilegiato al santuario e alla tomba di Pietro. Qui, rispettivamente nel 407 e nel 415, furono sepolte Maria, la prima moglie dell’imperatore, e Termanzia, la seconda, con un ricco corredo in un sarcofago in porfido che ne permise l’attribuzione in occasione della demolizione del 1544. Lo stesso Onorio vi fu tumulato nel 423, seguito dall’Augusta Galla Placidia nel 450 e forse pure dall’imperatore Valentiniano iii, figlio di Galla Placidia, nel 455, e infine da Teodosio iii, nato dal primo matrimonio di Galla Placidia111. Un altro mausoleo dell’influente famiglia senatoria cri-

stiana degli Anicii Probi, in posizione privilegiata presso l’abside della chiesa, ribadisce l’importanza della basilica di S. Pietro come principale edificio di culto dei martiri. L’edificio, dall’inusuale forma di una piccola basilica a tre navate, fu costruito per il console Sesto Petronio Probo, morto nel 393, da sua moglie Anicia Proba, morta prima del 423. Due lunghe iscrizioni in versi sull’architrave sono dedicate a Petronio Probo. L’umanista Matteo Vegio ne offre una breve descrizione poco prima della demolizione, nel 1450112. Con i suoi 18,5 × 11,5 m, l’edificio aveva piuttosto le misure di un oratorio, tuttavia, secondo Vegio, con il suo colonnato interno, doveva dare un’impressione nobile. Sotto il pavimento del mausoleo furono rinvenuti, durante la demolizione dell’edificio, due grandi sarcofagi marmorei cristiani riccamente decorati a rilievo113. Queste sepolture emergenti all’interno del mausoleo a S. Pietro dimostrano il forte desiderio dei membri della classe dirigente e della famiglia imperiale di farsi seppellire in posizione privilegiata vicino alla tomba del martire Apostolo, cercando di assicurarsene l’intercessione e l’effetto salvifico attraverso la celebrazione eucaristica in suo onore. Fu lo stesso Costantino il modello, con il suo mausoleo a Costantinopoli, dove il suo sarcofago fu collocato tra quelli degli apostoli attorno

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Capitolo primo

L’antica basilica vaticana costantiniana di S. Pietro

28. Grande sarcofago, decorato su tutti i lati. Sul fronte Cristo trionfante sul monte del Paradiso, accompagnato da Pietro e Paolo, e acclamato dagli apostoli. Sul lato posteriore gli sposi nell’atto della coniunctio manum. Dal mausoleo degli Anicii dietro l’abside della basilica costantiniana. Fine iv secolo. Grotte vaticane, sala vi.

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all’altare, a beneficio della sua anima, come ricorda Eusebio114. La basilica di S. Pietro, con la tomba dell’Apostolo, non fu concepita originariamente come chiesa cimiteriale (coemeterium), come le basiliche a deambulatorio costantiniane; al contrario, il progetto non prevedeva spazi per sepolture, che avrebbero ricoperto fittamente il piano sotto il pavimento. Tuttavia numerose sono le sepolture venute alla luce soprattutto durante la costruzione della basilica moderna. I sarcofagi erano disposti senza apprestamenti sotto il pavimento della chiesa e anche semplici sepolture con coperture in laterizi, dove le mura degli edifici sepolcrali dell’antica necropoli colmati per la costruzione della basilica lo consentivano115. Espressione questa, ancora una volta, del forte desiderio di vicinanza alla tomba del martire, attraverso la sepoltura nel terreno consacrato dalla liturgia, estendendo così la funzione originaria della chiesa nella veste di basilica memoriale, memoria, luogo di commemorazione liturgica presso la tomba dell’Apostolo a quella di chiesa cimiteriale, sulla scia del culto dei martiri, in rapida evoluzione. I sarcofagi più antichi sono del secondo quarto del iv secolo, ad esempio quello decorato con un fregio con i miracoli di Cristo, databile agli anni ’30 del iv secolo, o un altro più grande, con un fregio a rilievo su due registri, dello stesso periodo116. Questi e altri pezzi simili, come quello nelle immediate vicinanze della tomba di Pietro, sono dun-

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que stati sepolti sotto il pavimento a edificio ultimato, negli anni ’30 del iv secolo, appunto117. Ne possiamo altresì dedurre che la basilica non fu soltanto cominciata sotto Costantino, ma anche terminata e consacrata: le sepolture all’interno della chiesa furono realizzate non solo per la vicinanza alla tomba del martire, ma anche per la partecipazione al culto nell’edificio consacrato. Il grande sarcofago, opera di particolare ricchezza e qualità, tomba secondo l’iscrizione del prefetto della città Giunio Basso, morto nel 359 d.C., fu rinvenuto in posizione privilegiata sotto il pavimento dell’abside della chiesa costantiniana, direttamente dietro la tomba di Pietro118. Il desiderio di vicinanza alla tomba del martire sembra addirittura preludere all’inizio dei lavori di costruzione dell’edificio, come suggeriscono le ricche sepolture fuori dall’area della futura basilica, ad esempio il grande sarcofago decorato con il rilievo su due registri raffigurante la storia di Giona, rinvenuto sul colle Vaticano, uno dei primi sarcofagi cristiani, databile attorno al 300 d.C., quindi ancora in età precostantiniana119. Come nelle basiliche costantiniane a deambulatorio, anche in S. Pietro si tenevano cerimonie funebri private, chiamate laetitia (gioia). Derivate dai culti pagani dei morti, queste cerimonie degeneravano facilmente in libagioni smodate. Per questo motivo, nel tardo iv secolo, fu posto il veto dai vescovi, in particolare dall’influente vescovo di

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29. Sarcofago paleocristiano a rilievo con scene bibliche, miracoli di Cristo e scene dalla vita di Pietro. Nel centro la defunta in atteggiamento di orante. Ritrovato sotto il pavimento della basilica costantiniana. Grotte vaticane, sala vi. 30. Grande sarcofago decorato. Nel centro Cristo sul trono sopra il Caelus, accompagnato dagli apostoli. Negli intercolumni agli angoli Cristo davanti a Pilato e il sacrificio di Isacco. Sul lato sinistro il rinnegamento di Pietro e sul lato destro il miracolo della fonte di Pietro e Cristo e l’emorroissa. Terzo quarto del iv secolo. Ritrovato sotto il pavimento della basilica costantiniana. Grotte vaticane, sala vi. 31. Particolare di un sarcofago con la defunta nell’atteggiamento dell’orante al centro. Ultimo quarto del iv secolo. Ritrovato sotto il pavimento della basilica costantiniana. Grotte vaticane, sala vi.

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Capitolo primo

L’antica basilica vaticana costantiniana di S. Pietro

32. Sarcofago di Giunio Basso, praefectus urbi come riferisce l’iscrizione, seppellito in questo sarcofago riccamente decorato nell’anno 359. Il sarcofago è stato ritrovato in un luogo privilegiato sotto il pavimento dell’abside della basilica costantiniana nelle immediate vicinanze del tropaion di Pietro. Sagrestia vaticana, Museo Tesoro di S. Pietro.

Milano, Ambrogio, come ci racconta Agostino: quando sua madre, che voleva visitare la basilica di S. Pietro per una cerimonia in memoria dei morti, si presentò con un cestino contenente zuppa, vino e pane, secondo l’uso ancora comune in Africa per questa occasione, il portiere le proibì l’accesso120. Di un particolare evento svoltosi in S. Pietro ci racconta Paolino di Nola121. Il senatore Pammachio, suo amico e coscritto, per celebrare le esequie della moglie Paolina nel 397, allestì un ricco banchetto funebre in chiesa aperto ai poveri della città, dandogli così un’ulteriore connotazione cristiana. I poveri riempirono la chiesa e il grande atrio fino alla scalinata di accesso, come testimonia Paolino, che era presente. Lo spazio dell’atrio non era dunque funzionale solo ad accogliere fedeli e pellegrini, che qui potevano riunirsi e detergersi presso il cantharus prima di accedere al santuario, ma anche alla mensa dei poveri. Altre fonti concorrono a delineare questo quadro: S. Pietro divenne ben presto il centro delle opere di carità della chiesa e dei nobili romani cristiani122. È un esempio del sostanziale mutamento sociale e istituzionale portato dalla diffusione del cristianesimo: l’annona infatti, il mezzo di approvvigionamento alimentare pubblico, era destinata ai membri delle classi inferiori, purché di cittadinanza romana. La caritas cristiana, invece, includeva tutti i poveri e i bisognosi della città, indiscriminatamente, come esemplificato da un episodio tramandato dallo storico contemporaneo Ammiano Marcellino123, che taccia il pretore pagano Lampadio di opportunismo per aver istituito in S. Pietro una distribuzione di elemosine rivolta ai poveri. A prescindere dalla lettura di questo fatto, apprendiamo che già attorno al 335 l’assistenza ai poveri in S. Pietro era ormai un’istituzione, tanto che persino un pretore pagano si vide spinto a consentirla per favorire la propria carriera. Il sostegno ai poveri in S. Pietro poteva avvenire solo a lavori già completati, nel terzo decennio del iv secolo, altro indizio per il compimento della basilica ancora in età costantiniana. L’atrio, nel v secolo, aggiunse un’ulteriore funzione. Nel secretarium, una sorta di sagrestia che si trovava a sinistra del nartece, nella quale il vescovo si preparava per l’ingresso nella basilica, venne sepolto papa Leone i, mentre i papi predecessori si erano fatti tumulare nelle catacombe e nelle chiese cimiteriali. Con Leone i cominciano le sepolture dei papi a S. Pietro. Nello stesso luogo sono stati sepolti Benedetto i (575-579) e Gregorio i (590-604), e probabilmente anche altri papi di v e vi secolo, di cui non abbiamo notizie. Accanto all’aspetto religioso e socio-politico, la basilica di S. Pietro, monumento alle vittorie di Costantino, ebbe

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una grande importanza dal punto di vista della politica imperiale, ulteriormente sottolineata nel tardo iv secolo dai mausolei imperiali sulla fiancata meridionale della basilica. Non deve perciò sorprendere che proprio in epoca postcostantiniana si sviluppi un nuovo cerimoniale di rappresentanza imperiale intorno alla basilica124. Già Costantino, entrato a Roma in trionfo, non si recò in visita presso il Campidoglio per assistere al sacrificio nel tempio di Giove Ottimo Massimo. L’entrata solenne nella vecchia capitale, sede delle tombe dei due Apostoli, e di Pietro in particolare, eletto capo della Chiesa da Cristo, sostituisce il vecchio trionfo dai successori di Costantino. La basilica, mèta del solenne ingresso (adventus), divenne così santuario ufficiale dell’impero. Anche Onorio, al suo ingresso in città, durante la visita a S. Pietro depose le sue insegne davanti alla tomba dell’Apostolo. Non si tratta certo solo di un atto di umiltà, ma di legittimazione divina del proprio potere. Il re goto Teodorico visitò la basilica nel 500 prima di entrare in città, sottolineando così la sua particolare devozione all’Apostolo. Segue Carlo Magno, che nel 774 visitò la tomba di Pietro dopo aver conquistato i territori longobardi italiani, e nell’800 si fece incoronare imperatore dal papa Leone iii proprio nella basilica. Le vie di accesso al ponte Adriano e alla basilica furono approntate per i flussi di pellegrini e per le visite ufficiali: dalla fine del iv secolo l’adito alla basilica divenne una sorta di strada trionfale. Le odierne vie dei Banchi Vecchi e di Banco di S. Spirito, attraverso cui si arriva al ponte di Adriano, furono ricostruite come strade colonnate, la Via Tecta e la Porticus Maximae. Lungo questa strada, si trovavano due archi trionfali, uno sul ponte, donato dagli imperatori Graziano, Valentiniano ii e Teodosio nel 379, in occasione di una vittoria, l’altro verso la città, su iniziativa di Arcadio, Onorio e Teodosio ii, agli inizi del v secolo. Sul lato opposto del Tevere, partiva dal ponte una strada colonnata che conduceva alla basilica, sormontata su entrambi i lati da un arco monumentale. Questa strada viene menzionata per la prima volta da Procopio nel vi secolo, ma dovette essere costruita già contestualmente ai lavori della basilica e dell’adiacente residenza papale sotto papa Simmaco125. Tale nuova via trionfale incise profondamente sull’aspetto della città tardoantica, preludio allo spostamento del fulcro urbanistico nel quartiere entro l’ansa tiberina in epoca medievale. Mentre gli imperatori passati e ancora Costantino stesso fecero erigere i propri archi trionfali sopra l’antica Via Triumphalis, i sovrani dotarono di archi monumentali la nuova via trionfale, diretta a S. Pietro, testimonianza tangibile dei radicali mutamenti sociali, religiosi e politici

avvenuti dopo Costantino. Il pellegrino veniva condotto al santuario, in nulla inferiore per ricchezza, splendore e dimensioni ai templi e ai fori imperiali, percorrendo strade colonnate, archi trionfali e la grande scalinata d’accesso all’atrio, attraversando la basilica in una crescente scenografia architettonica fino alla tomba dell’Apostolo, nel transetto, culmine di questo imponente percorso processionale. Un richiamo alla nostra epoca: Mussolini ripropose la scenografia architettonica imperiale con l’apertura attraverso il vecchio Borgo, di via della Conciliazione, dotandola di simboli imperiali da piazza S. Pietro fino a Castel S. Angelo. Nessuna fonte ci segnala la posizione dell’altare all’interno della chiesa126: dopo la consacrazione e la consegna del transetto al culto, ancora in età costantiniana, veniva probabilmente collocato l’altare a una certa distanza dal baldacchino, lungo l’asse dell’abside e dell’arco trionfale. A lavori ultimati, l’altare fu probabilmente spostato, poiché il transetto/sacrario – come l’Anastasis a Gerusalemme, l’edificio sopra la tomba di Cristo accanto alla basilica (martyrium) – fu riservato al passaggio dei pellegrini che venivano in adorazione della tomba dell’Apostolo recitando inni, salmi e preghiere accompagnati dal vescovo127. La celebrazione eucaristica del vescovo avveniva presumibilmente nella navata centrale dell’aula all’altare accanto all’arco trionfale, dove la comunità si riuniva. Inizialmente solo il vescovo poteva celebrare messa nella basilica128; con

lo sviluppo del culto dei martiri, che già dall’epoca costantiniana si concretizzò nella ricerca della propria sepoltura vicino alla tomba del martire, nell’ambiente consacrato dalla liturgia, si articolò gradualmente la necessità di una connessione spaziale tra l’altare e la tomba di Pietro, per potenziarne l’effetto salvifico129. Così, alla fine anche l’altare e la tomba furono correlati l’un all’altra130: secondo il Liber Pontificalis, papa Simmaco donò oggetti preziosi presso l’altare vicino al baldacchino e alla tomba131. Un secolo dopo papa Gregorio i spostò l’altare in S. Pietro e in S. Paolo sopra le loro tombe, racchiuse entro un podio che fungeva da base per l’altare stesso, conservando tuttavia in S. Pietro l’accesso per i pellegrini al sepolcro attraverso un passaggio semicircolare ricavato nel podio lungo la parete absidale132. Tale disposizione con l’altare sopra la tomba si è conservata fino a oggi. Un leggio su colonne, donato da papa Pelagio ii (579-590), completò nel vi secolo l’arredo liturgico accanto a lampadari, vasi liturgici e altri oggetti in metalli preziosi donati da papi e altri personaggi eminenti, come il generale bizantino Belisario nel vi secolo. Infine, papa Gregorio iii (731-741) aggiunse alle sei colonne tortili vitinee del baldacchino costantiniano, che adornavano il podio gregoriano, altre sei simili colonne antiche, provenienti dalla parte est dell’impero, donate dall’esarca di Ravenna, il prefetto imperiale bizantino in Italia133. Giungiamo così al Medioevo, cui è dedicato il prossimo contributo di questo volume.

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo Antonella Ballardini

per Rosanna D’Amore

«Sol, luna deficit...»

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Nel 1506, l’avvio del cantiere del nuovo S. Pietro ad opera di Giulio ii e, nel 1605, la decisione di Paolo v di atterrare quanto dell’antica basilica rimaneva ancora in piedi hanno segnato il passo della lenta trasformazione dell’edificio costantiniano nel simbolo architettonico della Chiesa Apostolica che conosciamo. Dopo la ruina della parte occidentale dell’aula nei primi anni del Cinquecento, quel che rimaneva dell’edificio medievale continuò ad accompagnare il travaglio della fabbrica nuova quasi che, dopo l’avvio impetuoso del nuovo corso, il fiume avesse ripreso a scorrere nel suo antico alveo1. La gradinata di accesso al complesso basilicale, l’atrio con il celebre cantaro e la parte orientale dell’aula sopravvissero a lungo. Allo stesso modo, nel cuore del cantiere nuovo, fu risparmiato l’altare dell’Apostolo che, ancora al riparo dell’abside costantiniana ma inglobato in una sorta di tabernacolo di peperino – il tegurium bramantesco – seguitò a essere officiato secondo l’antico calendario stazionale dell’Urbe2. È così che, con un corpo diviso e nel soqquadro dalla fabbrica rinascimentale, la basilica che custodiva la tomba di Pietro rimase la principale meta devozionale dei pellegrini, il teatro delle incoronazioni imperiali e della celebrazione del Giubileo, infine l’antichissimo luogo di sepoltura dei pontefici e di pochi privilegiati che aspiravano alla pace ultraterrena e a una memoria imperitura. A fronte di un organismo architettonico del quale oggi restano solo disiecta membra, un profilo storico-architettonico di S. Pietro nel Medioevo richiede di avvicinare il monumento con un approccio innanzitutto archeologico. A partire dalle campagne di scavo effettuate negli anni ’40 del xx secolo, l’archeologia ha infatti permesso di ricomporre la

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Capitolo secondo

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La basilica di S. Pietro nel Medioevo

Pagine precedenti: 1. Tiberio Alfarano e Natale Bonifacio da Sebenico, Almae Urbis Divi Petri Veteris Novique Templi Descriptio, 1590.

3. Domenico Tasselli da Lugo, Sezione dell’aula dell’antico S. Pietro fino al «muro divisorio» di Paolo iii. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 12.

2. Pianta della basilica di S. Pietro intorno al 1600 (da Thoenes 1992b).

4. Domenico Tasselli da Lugo, Il «muro divisorio» di Paolo iii eretto nel 1538 tra l’antico S. Pietro e il cantiere nuovo. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 17.

forma dell’edificio paleocristiano che i pontefici dei “secoli di mezzo” ereditarono, conservarono e, nel tempo, aggiornarono alle necessità liturgiche e devozionali3. Non meno importante per conoscere l’aspetto della basilica tra il vii e il xiv secolo si rivela lo scandaglio delle fonti scritte medievali, primo tra tutti il Liber Pontificalis, e moderne, quest’ultime comprensive di documenti grafici che hanno trasmesso l’immagine dell’antico S. Pietro alla vigilia del suo definitivo atterramento4. A tale riguardo, siamo debitori dei canonici e dei chierici della basilica che, a partire dalla metà del xii secolo con Pietro Mallio, nel xv secolo con Maffeo Vegio, infine con Tiberio Alfarano († 1596) e Giacomo Grimaldi (1568-1623) hanno messo in salvo un patrimonio memoriale della fabbrica antica di inestimabile valore5. È per noi una vera fortuna che Alfarano e Grimaldi abbiano «servito san Pietro» nei cinquant’anni che videro l’antica basilica venir meno al sorgere della nuova6. Rivelando a tratti una sensibilità archeologica moderna, i due chierici contribuirono a contrastare la perdita del ricordo dell’antico edificio e del millenario tesoro monumentale e devozionale custodito al suo interno. In effetti, rispetto all’epoca dell’ambiziosa Templi Petri Instauracio di Giulio ii, protesa a realizzare gli ideali architettonici del Rinascimento senza curarsi di ciò che veniva via via demolito, la Chiesa post-tridentina aveva maturato una diversa sensibilità ai venerandi monumenti del cristianesimo delle origini. Nella grande machina della Fabbrica petrina, il segno di un mutato orientamento si riconosce già nel cosiddetto «muro divisorio» di Paolo iii che, nel 1538, Antonio da Sangallo eresse all’altezza dell’undicesima colonna della

vecchia navata centrale7. Emergenze di questo muro sono ancora visibili nelle Grotte Vaticane, mentre l’aspetto della parete che separava il cantiere del nuovo S. Pietro dalla chiesa vecchia è noto dagli acquerelli di un disegnatore professionista, Domenico Tasselli da Lugo. Nell’imminenza dell’atterramento dell’ultimo tratto dell’edificio medievale, Tasselli fu incaricato dai canonici di S. Pietro di eseguire una serie di vedute dell’antica basilica, oggi riunite in un Album conservato presso la Biblioteca Vaticana8. Comparando tra loro le tavole che illustrano la sezione dell’aula si ricava che, nella parete di Paolo iii, furono ricollocati un tratto di trabeazione e una coppia di colonne prelevati dal settore occidentale della basilica ormai in demolizione9. Tasselli descrive in modo essenziale, ma con precisione, le affinità strutturali e decorative tra la membratura orizzontale del «muro divisorio» e quella dei colonnati maggiori. In entrambi i casi sono identificabili segmenti di trabeazioni antiche di spoglio impiegati nel iv secolo nell’edificio costantiniano tal quali compaiono nelle vedute di Marteen van Heemskerck (1532-1536) e in una celebre tavola quotata di Cherubino Alberti (tardo xvi secolo)10. La scelta per così dire antiquaria operata da Antonio da Sangallo nell’allestire il «muro divisorio» è in sé degna di nota e trova conferma nelle parole di Giacomo Grimaldi che, rievocando l’abbattimento della parete-diaframma, lamentava che con essa fosse venuto meno «un gran frammento» del muro del colonnato della chiesa vecchia clusum muro dividente novam a veteri basilica11. Da un punto di vista statico, la parete nuova consolidava l’edificio antico contrastando la pericolosa inclinazione dei muri di navata e isolava la chiesa vecchia dal caos del cantiere, assicurando un passaggio verso l’altare dell’Apo-

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5. Domenico Tasselli da Lugo, Segmenti dell’antica trabeazione con il fregio musivo e i ritratti papali. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter f. 14. 6. Domenico Tasselli da Lugo, Particolari della trabeazione e dell’arco del «muro divisorio». Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter f. 11.

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stolo rimasto “oltrecortina”. Nel tempo, tuttavia, la paretediaframma avrebbe visto affievolire la sua originaria funzione di «cerniera» tra i due edifici, funzione definitivamente negata dalla chiusura dell’arcus magnus di Paolo iii con una porta dotata di serratura. In effetti la stessa definizione di «muro divisorio» con la quale ancora oggi ricordiamo la parete di Paolo iii ha per così dire sedimentato il senso di gra-

duale chiusura in se stessa che l’antica basilica e il suo clero opposero all’avanzamento della nuova fabbrica. È così che, al di qua del muro, trovarono posto gli altari e i monumenti funebri smantellati nella pars occupata dal cantiere rinascimentale, mentre sotto l’arcus magnus di Paolo iii furono sistemati i lampadari di metallo a forma di croce e di chiavi che, prima della ruina di Giulio ii, pendevano sotto l’arco trionfale della basilica antica12. Dalla sezione dell’aula disegnata da Tasselli, nella quale un ballatoio corre su tre lati all’altezza dell’architrave dei colonnati, si ricava inoltre che l’agibilità della trabeazione del «muro divisorio» aveva ripristinato la funzione assolta dalla trave massima dell’arco trionfale demolito nel 1506. La trave, incastrata a un’altezza di circa quattordici metri tra i grandi pilastri a T conclusivi della navata, era usata

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

7. Ichnographia dell’antica basilica disegnata nel 1571 da Tiberio Alfarano sopra la pianta michelangiolesca del nuovo S. Pietro edita nel 1569 da E. Dupérac. Archivio Storico della Fabbrica di S. Pietro (foto Sansaini ca. 1914).

infatti come ponte per raggiungere i camminamenti sopra i colonnati e, almeno dall’alto Medioevo, per esporre lampade, immagini sacre, croci dipinte e reliquie venerate13. Dunque, dal tempo di Paolo iii e ancora per molti decenni, l’aula della basilica antica, sebbene ridotta alla metà e a poco a poco privata della relazione visiva con l’altare dell’Apostolo, aveva nondimeno recuperato uno spazio compiuto nel quale, tra gli antichi altari secondari, i loro tesori di reliquie e di immagini venerate, la vita liturgica e devozionale della chiesa vecchia continuava quasi indisturbata.

«La pianta della chiesa vecchia di S. Pietro»

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La storia della documentazione in pianta dell’antico S. Pietro non si distingue da quella della nuova fabbrica. Anche il celebre disegno a sanguigna di Donato Bramante (gdsu, cat. A, n. 20r), di poco anteriore al primo intervento di demolizione, mostra quasi intera l’aula costantiniana nella sovraimpressione delle proposte per il nuovo edificio14. In una scala di circa 1:300, esso ha trasmesso un’immagine nitida dell’antica planimetria di S. Pietro, oltre che l’unica descrizione a noi pervenuta del transetto costantiniano alla vigilia della distruzione. Di quest’ultimo si distinguono le esedre colonnate; i passaggi verso le navate laterali dell’aula dove i pilastri si alternano a coppie di colonne; l’abside stretta tra contrafforti; l’altare dell’Apostolo tangente alla corda dell’abside e i pilastri a T dell’arco trionfale privi di colonne. Relativamente al settore occidentale della basilica, il disegno di Bramante permette una revisione della più nota planimetria dell’antico S. Pietro che, sul finire del 1589, il chierico Tiberio Alfarano consegnò all’incisore Natale Bonifacio perché la trasferisse su lastra di rame15. In effetti al tempo di Alfarano il transetto e il tratto occidentale dell’aula erano già stati demoliti, salvo l’abside e il suo prospetto che egli vedeva chiusi nel tegurium bramantesco. Per questa parte della basilica, la ricostruzione del chierico era dunque congetturale, anche se non necessariamente arbitraria. Sappiamo infatti che, aggirandosi nell’area del cantiere nuovo, il chierico aveva potuto osservare tratti dell’antico pavimento e, allo stesso modo, avrebbe potuto scorgere e rilevare qualche lacerto dell’antico alzato. La pianta a stampa, pubblicata nel 1590, era l’esito di uno studio, iniziato molti anni prima, del quale resta suggestiva testimonianza in un documento oggi conservato presso l’Archivio Storico della Fabbrica di S. Pietro.

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Si tratta di una planimetria dell’antica basilica che il chierico disegnò, probabilmente entro il 1571, in un foglio di grandi dimensioni sul quale aveva incollato il progetto della chiesa nuova «ex esemplari Michaelis Angeli Bonaroti» stampato da Dupérac (1569)16. Correlando tra loro le note manoscritte di Alfarano e l’insolito assemblaggio, si è accertato che la scala proporzionale dell’incisione di Dupérac servì di riferimento per riportarvi il disegno della chiesa vecchia. Pertanto questa rappresentazione grafica dell’antico S. Pietro non fu la prima realizzata dal chierico; lo prova tra i suoi appunti di lavoro l’occorrenza di un diagramma di comparazione tra la scala della pianta michelagiolesca di Dupérac e quella di un Urplan (perduto) della chiesa vecchia17. Già al tempo di Michele Cerrati (1914) che ne pubblicò la riproduzione in fototipia, la pianta disegnata da Alfarano era in cattive condizioni. Il suo stato conservativo era d’altra parte pregiudicato dalla sua natura di papier collé assemblato con carte di qualità e di grammatura diversa e, non ultimo, dal gran numero di annotazioni tracciate con inchiostri a base di composti ferrosi altamente corrosivi. Per incorporare il disegno della chiesa vecchia a quello della chiesa nuova, Alfarano ricorse a un procedimento ingegnoso ma rudimentale che sortì in un’originalissima planimetria palinsesta: egli ridusse i toni della pianta michelangiolesca coprendo il tratteggio obliquo delle murature nuove con biacca e tempera magra; con la stessa tecnica cancellò titolo e cornice dell’incisione di Dupérac e appose numerose correzioni durante e dopo la stesura del disegno. Forse raschiando l’inchiostro della stampa, il chierico emendò la posizione dell’altare-confessione che nell’incisione di Dupérac era stata fatta coincidere con il centro geometrico del progetto michelangiolesco. Finalmente, in sovraimpressione alla fabbrica nuova, Alfarano disegnò a inchiostro rosso e color seppia le strutture dell’antica basilica: quelle ormai scomparse, ma integrabili sulla testimonianza di Pietro Mallio e di Maffeo Vegio, quelle che esistevano ancora e quelle che erano rilevabili qua e là dalle emergenze in vista. Infine, con un “tocco” che ancora colpisce chi osservi da vicino questo straordinario documento, per dare risalto allo spessore dei muri perimetrali della basilica antica, il chierico applicò oro in foglia «con un procedimento analogo a quello usato per le miniature degli antichi codici»18. Che questa pianta sia da identificare con quella che sappiamo realizzata nel 1571, sembra plausibile alla luce del titolo composto per essa; eccolo in traduzione: «Questa è la pianta corretta e completa dell’antichissimo Tempio di S.

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

8. Pianta di S. Pietro (secc. vi-xv), elaborazione da Alfarano 1590 e De Blaauw 1994 a cura di M. Viscontini.

M N O 80

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I

A. Gradinata B. Piattaforma C. Chiesa di S. Apollinare (Onorio i)

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D. Edificio di ingresso; oratorio di S. Maria in Turri (al piano superiore) 1. Tre porte tra colonne di granito 2. Altare di S. Maria in Turri (iscr. 1130-1143) 3. Torre campanaria 4. Casa dell’Arciprete (sec. xvi)

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G S

Q

E. Atrio porticato (quadriporticus) 5. Portico orientale 6. Portico meridionale 7. Portico settentrionale 8. Tre varchi; Navicella di Giotto (parete superiore) 9. Sepolcro di Ottone ii 10. Edicola multorum sanctorum 11. Fontana (cantharus) 12. Protiro («san Pietro di marmo») 13. Casa dell’altarista sec. xv (vi abitò T. Alfarano)

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R

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P

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Z

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E

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Pianta di S. Pietro (secc. vi-xv)

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U 73

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H

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V

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E

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F. Nartece 14. Prima sepoltura di Gregorio Magno 15. Porta Argentea con rota porfiretica 16. Porta Ravenniana (poi di S. Bonifacio) 17. Porta Guidonea 18. Porta del Giudizio 19. Porta Romana 20. Porta Aurea del Giubileo (sec. xv) G. Rotae nel pavimento della navata maggiore 21. Rota di marmo egizio 22. Rota porfiretica magna 23. Rota di marmo egizio

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5 4

C

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2

D 1

B

A 0 5

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30 m

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H. Disposizione liturgica 24. Altare dell’Apostolo con confessione 25. Cattedra; tre rotae di granito e una minore 26. Subsellia 27. Cripta (scale) 28. Pergola 29. Ambone del Vangelo (doc. dal vi secolo) 30. Candelabro del cero pasquale (1220-1230 ca.) 31. Ambone dell’Epistola (?) 32. Presbyterium (recinto del basso coro) I. Battistero 33. Fonte battesimale 34. S. Giovanni Ev. (tra Simmaco e Leone iii) 35. S. Giovanni Batt. (tra Simmaco e Leone iii) 36. S. Giovanni in Fonte (da Leone iii) J. Altari e oratori secondari 37. Oratorio della S. Croce (Simmaco) 38. Oratorio di S. Leone (da Sergio i, poi dei “quattro Leoni”) 39. Oratorio della Theotokos (Giovanni vii); rota

40. Oratorio del Salvatore, della Madre di Dio e di tutti i Santi (Gregorio iii) 41. Coro dei canonici 42. Altare di S. Pastore (viii-ix secolo) 43. Oratorio S. Maria (Paolo i) 44. Oratorio S. Adriano (Adriano i) 45. Oratorio Ss. Sisto e Fabiano (Pasquale i) 46. Oratorio Ss. Processo e Martiniano (Pasquale i) 47. Oratorio di S. Gregorio (Gregorio iv) 48. Altare di S. Sebastiano (?) 49. Altare Ss. Gorgonio e Tiburzio (?) 50. Altare de Ossibus Apostolorum (doc. 1058) 51. Altare di S. Bartolomeo (dbv) 52. Altare di S. Lucia (dbv) 53. Altare di S. Silvestro (dbv) 54. Altare di S. Maurizio (dbv), rotae in quincunx 55. Altare di S. Alessio 56. Altare di S. Caterina (la 1383) 57. Altare di S. Giacomo (tomba di I. Stefaneschi) 58. Altare di S. Maria Maddalena (doc. 1319) 59. Altare dei Ss. Simone e Giuda (del SS. Sacramento) 60. Altare dei Ss. Filippo e Giacomo (dbv) 61. Altare di S. Nicola (di Niccolò iii) 62. Altare di S. Bonifacio (Bonifacio viii) 63. Altare della Veronica (dbv) 64. Altare di S. Abondio (dbv) 65. Altare di S. Antonino (dbv) 66. Altare di S. Tridenzio (dbv) 67. Altare di S. Biagio (la 1305) 68. Altare di S. Marziale (doc. 1031) 69. Altare di S. Egidio (dbv) K. Mausoleo poi rotonda di S. Andrea 70. Altare di S. Andrea 71. Altare di S. Tommaso 72. Altare di S. Apollinare 73. Altare di S. Sossio 74. Altare di S. Cassiano 75. Altare di S. Vito 76. Altare di S. Lorenzo 77. Altare di S. Martino (?) 78. Altare di S. Giovanni Crisostomo (?) L. Mausoleo poi rotonda di S. Petronilla 79. Altare di S. Petronilla 80. Altare di S. Maria 81. Altare di S. Anastasia 82. Altare di S. Salvatore 83. Altare di S. Salvatore 84. Altare di S. Teodoro 85. Altare di S. Michele M. Oratorio di S. Martino («san Pietro di bronzo») N. Sacrestia ausiliaria (sec. xiv) O. Canonica P. Secretarium antiquum Q. Secretarium novellum R. Oratorio di S. Tommaso poi battistero (sec. xv) S. Cappella di Sisto iv e nuovo coro dei canonici T. Coro d’inverno (sec. xv) U. Sacrestia maggiore (sec. xv) V. Biblioteca (sec. xv) Z. Palazzo papale (doc. 1151)

Pietro principe degli Apostoli edificato a Roma in Vaticano dal piissimo imperatore Costantino, consacrato dal beato papa Silvestro e da molti sommi Pontefici ampliato con la costruzione di bellissimi oratori, poi demolito da Giulio ii Pontefice Massimo perchè in procinto di rovinare; in ricordo perpetuo di esso, Tiberio Alfarano, chierico dello stesso Tempio, ha delineato, come era stato in antico, in questa forma, con cura e in modo proporzionato, e lo ha riportato sulla pianta nel nuovo Tempio del fiorentino Michelangelo Buonarroti, mdlxxi»19. Purtroppo il fragile palinsesto della pianta disegnata da Alfarano conserva solo le prime righe di testo impedendo di verificarne la completa corrispondenza, tuttavia un’altra nota autografa di Alfarano puntualizza che il medesimo titolo era destinato all’icnografia del tempio del Principe degli Apostoli in tabella magna descripta20. Ora, il riferimento alla tabella magna sembra convenire alla pianta conservata presso l’Archivio Storico della Fabbrica, non solo per le dimesioni considerevoli (1172 × 666 mm) ma anche perché, in un momento imprecisato, essa fu incollata a un supporto di legno di abete tal quale è giunta fino a noi. Di un’ulteriore planimetria dell’antico S. Pietro messa a punto da Alfarano nel 1576, resta purtroppo solo il titolo e la dedicatoria al cardinale Alessandro Farnese, arciprete di S. Pietro dal 1543 al 158921. Quest’ultima attesta che nella nuova pianta il chierico aveva contrassegnato «i luoghi celebri con lettere dell’alfabeto e numeri affinchè ciascuno li possa individuare». A corredo della planimetria fu steso ad hoc un opuscoletto che allo sciogliemento della legenda aggiungeva brevi notizie storiche. Scorrendone il testo, si desume che la pianta del 1576, aggiornata ai numerosi cambiamenti intervenuti in basilica per il Giubileo di papa Gregorio xiii Buoncompagni (1575), mostrava di nuovo la forma congiunta delle due basiliche; ignoriamo però se alla pianta della chiesa antica fosse già stata conferita la perspiquità che avrebbe caratterizzato la definitiva ichnographia stampata da Natale Bonifacio22. Dal 1590, anno della sua pubblicazione e – a fortiori – dopo l’atterramento dell’ultimo tratto della chiesa vecchia, questa incisione della pianta dell’antico S. Pietro, con la sua fitta legenda, sarebbe diventata lo specimen di riferimento per tutti coloro che, a vario titolo, si fossero accostati allo studio della storia architettonica del tempio Vaticano. Almeno sulla carta, nella Descriptio Divi Petri Veteris et Novi Templi – questo il titolo che si legge nel frontespizio dell’incisione –, l’icnografia della basilica antica spiccava in tutta la sua coerente monumentalità, relegando il progetto di Michelangelo a un’impronta marginale che

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non intersecava mai il corpo dell’edificio costantiniano23. Se riportata allo stato della Fabbrica nuova, una tale rappresentazione doveva apparire agli occhi dei contemporanei per lo meno in controtendenza. Il pontificato di Sisto v (1585-1590) coincise infatti con una rinnovata accelerazione del cantiere: già dal settembre 1586, con il riposizionamento dell’obelisco egizio nella platea antica, la basilica di S. Pietro venne incardinata nel piano urbanistico di papa Peretti, mentre il ritmo di lavoro impresso alla Fabbrica permise di ultimare, entro la primavera 1590, l’anello alla base della lanterna della cupola24. C’è da chiedersi se proprio quegli anni di imprese formidabili non avessero accresciuto la preoccupazione di Alfarano per le sorti di quel che restava della basilica antica, inducendolo a commissionare sua cura et pecunia il rame della Descriptio a un incisore abile e accreditato come Natale Bonifacio25. La descrizione in pianta dell’antico S. Pietro, perfezionata da Alfarano nell’arco di almeno vent’anni, era d’altra parte il corrispettivo di un’inchiesta intorno alla chiesa vecchia iniziata al tempo in cui, approdato a Roma da Gerace, Tiberio Alfarano era stato affiancato al canonico Giacomo Ercolano (1495-1573), altarista di S. Pietro e «padron suo carissimo». Studi recenti hanno chiarito il ruolo di Ercolano nell’orientare gli interessi antiquari del geracense. Sappiamo infatti che, nel solco della tradizione memoriale coltivata in seno al Capitolo della basilica, l’Ercolano trascrisse di suo pugno (dopo il 1543) il De rebus antiquis memorabilibus Basilicae S. Petri di Maffeo Vegio (1407-1458)26. A sua volta Alfarano, su richiesta del canonico, nel 1558 copiò la più antica Descriptio Basilicae Vaticanae di Pietro Mallio (ca. 1160) traendola da un esemplare, se non originale, certamente non interpolato dalla revisione del canonico Romano (ca. 1192)27. Lo studio dei libri di Mallio e di Vegio e le memorie raccolte dalla viva voce degli anziani della basilica indussero Alfarano ad annotare, ordinare e di volta in volta emendare notizie e «recordi degni» relativi all’ultimo turbolento secolo di vita dell’antica basilica. Dell’originario progetto per un additamentum o supplemento ai libri di Mallio e di Vegio, è conservata ampia traccia in un codice della Biblioteca Vaticana (Arch. di S. Pietro, G.5) che di Alfarano riunisce un florilegio di scritti di varia natura: abbozzi in prima e seconda stesura; appunti per le ichnographiae e i rispettivi titoli e dedicatorie; un questionario sulla basilica inviatogli da Alfonso Ciacconio; tabulae in italiano e in latino per l’istruzione dei pellegrini; note di «recordi degni»; estratti da libri; liste di reliquie; appunti sul modo di prendere le misurazioni a S. Pietro e a S. Paolo e molto altro28. Nell’insieme l’esame della raccolta permette di scorge-

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re il graduale sviluppo di una ricerca perenne che sortirà da una parte nella composizione del De Basilicae Vaticanae antiquissima et nova structura (1582) e dall’altra nell’edizione a stampa dell’ichnographia (1589-1590). Come nel caso della perduta pianta del 1576 e del conservato opuscolo che ne illustrava la legenda, anche in questo caso si tratta di esiti tra loro interrelati poiché il De Basilicae Vaticanae è della planimetria a stampa un robusto commento che riordina in forma narrativa e topografica la ricca congerie di informazioni raccolte in decenni di indagini e di osservazioni29. L’indubbio pregio documentario dell’opera non deve però indurre a considerare marginali le ragioni pratiche e ideali che la determinarono. È lo stesso Alfarano a dichiararle nella prefazione. Egli intendeva dimostrare, attraverso la puntigliosa collazione tra i loca sancta dell’antica e della nuova basilica, che nulla dell’immenso patrimonio devozionale di S. Pietro era venuto meno o era stato in qualche modo danneggiato30. Nel De Basilicae Vaticanae i richiami alfabetici alla pianta permettevano in effetti di individuare gli spazi cultuali, di conoscere la dedicazione degli altari e i rispettivi depositi di reliquie, di ubicare i monumenti sepolcrali (sacelli, pili, lastre terragne), i documenti epigrafici, le vestigia più antiche del tempio costantiniano e tutti quei monumenta che nel corso di oltre un millennio la devozione dei più grandi (pontefici e cardinali, nobili, re e imperatori) aveva lasciato ad Petrum: di ogni cosa Alfarano menzionava i reiterati spostamenti avvenuti in quegli anni cruciali. Se dunque la pianta e il suo commentario appaiono un prodotto culturale complesso sia per la trattazione sistematica di innumerevoli informazioni sia per la visione compositiva che le organizza, sarebbe riduttivo considerarli una mera descrizione della basilica antica. Mitigando il giudizio di Krautheimer e di Frazer, potremmo affermare che nell’indagine di Alfarano il dato architettonico non fosse meno importante di quello liturgicodevozionale e che dell’antico S. Pietro egli non separasse il “prodotto materiale” dalla tradizione liturgica che per secoli ne aveva adempiuto la forma31. Sotto questo aspetto, l’esame del voluminoso scartafaccio che raccoglie le note e gli appunti di Alfarano pone nella giusta luce l’opera del chierico. La varietà degli scritti conservati nel codice dimostra l’uso multiforme delle informazioni raccolte che, in decenni di servizio alla basilica, Alfarano utilizzò anche per comporre testi semplici e chiari (in italiano e in latino) ad uso dei pellegrini e «tavole» esposte ai cancelli degli altari della basilica32. In questi opuscoli didascalico-devozionali Alfarano mostra di essere capace di adeguare l’esposizione ai suoi fruitori, mescolando nella

giusta misura il dato storico e quello leggendario, senza indulgere nelle favole inverosimili trasmesse dalla tradizione dei Mirabilia. Il Giubileo indetto da Gregorio xiii Buoncompagni (1575) fu certo un evento che richiese al clero di S. Pietro un impegno supplementare per fare fronte al flusso dei pellegrini; in effetti, come ricorda lo stesso Alfarano «tutti li populi venevano in S. Pietro per li sacramenti et se non si confessavano in S. Pietro non li pareva di andar contenti»33. Forse, proprio in occasione di quell’evento giubilare, la pianta del 1571 fu incollata al supporto di legno, mentre il suo frontespizio, aggiornato con le insegne di Gregorio xiii, fu ornato con le xilografie devozionali del Volto Santo e degli apostoli Pietro e Paolo. Ma con l’intento di mostrarla a chi? Ai pellegrini penitenti che «… si buttavano inginocchioni… et dicevano alta voce io ho fatto questo peccato assolvetime per amor di Dio»? In quanti sarebbero stati in grado di comprendere un documento così pregevole, ma anche così sofisticato? Considerando la lunga parabola che dall’ichnographia del 1571 giunge alla Descriptio a stampa del 1590, l’unico dato valutabile per accertare i beneficiari delle planimetrie disegnate da Alfarano sono le lettere dedicatorie: se per sua ammissione è la fidelium commoditas ad aver ispirato il suo operato, l’unico destinatario delle sue fatiche è in realtà l’arciprete della basilica e con esso il Capitolo dei canonici che presiedeva: lo dichiara nell’incisione della Descriptio Divi Petri Veteris et Novi Templi (1590) il divario tra la fluente e ossequiosa dedica al cardinale arciprete Evangelista Pallotta e i versi, quattro in tutto, in lode di Sisto v, il pontefice che aveva «innalzato al cielo il tempio di Pietro»34.

Dal campo o Cortina al nartece della basilica

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Dalla gradinata che raggiungeva la piattaforma artificiale dove era sorta la basilica fino al «muro divisorio» di Paolo iii all’interno della chiesa vecchia, la planimetria di Alfarano (1590) fissa numerosi particolari dell’aspetto architettonico dell’antico S. Pietro che sono confrontabili con vedute prese da diverse angolazioni nel corso del Cinquecento e nel primo decennio del Seicento. Le conoscenze di Alfarano di questo settore del complesso basilicale furono senza dubbio circostanziate e di prima mano; esse tuttavia servirono al chierico per ricomporre idealmente la forma di alcuni assetti della chiesa antica che nei secoli erano stati modificati. Pertanto la lettura della sua rappresentazione grafica della basilica richiede alcune precauzioni per valutare nella giusta

luce ciò che è frutto di una ragionata ricostruzione e ciò che è stato descritto a partire da un rilevamento dell’esistente. È sufficiente confrontare la pianta dell’antico quadriportico di S. Pietro e la veduta dello stesso disegnata sedici anni più tardi da Domenico Tasselli per accorgersi come, in questo caso, la restituzione di Alfarano fosse congetturale. In effetti, quello che in antico era stato l’atrio porticato della basilica, nel tempo si era trasformato in una piazza circondata da edifici di varia epoca che sopravanzavano di diversi metri da sud e da nord l’allineamento dei portici medievali. Lo stesso Alfarano racconta di aver abitato a lungo nelle stanze a disposizione del clero di S. Pietro ubicate in corrispondenza dell’antico portico meridionale. Su questo stesso lato erano sorti gli ambienti della Cappella Giulia, mentre – dirimpetto – il portico settentrionale era stato sostituito dal palazzo apostolico edificato da Sisto iv (1471-1484) e da Innocenzo viii (1484-1492) e dai magna cubicola degli Uditori di Rota e della Dataria35. Un altro esempio delle congetturali restituzioni in pristinum di Alfarano è offerto dal prospetto dell’abside antica che egli vedeva racchiusa nel tegurium bramantesco. Nella pianta del 1590, infatti, ritroviamo allineate davanti alle rampe del podio tutte le dodici colonne vitinee dell’antica pergula. Sappiamo in realtà che, già prima del 1514, la pergula era stata privata della fila più esterna di colonne. La stessa pianta di Alfarano ne dà prova, dislocando la «colonna santa» (che era una delle dodici) in un’area prossima al pilastro settentrionale dell’arco trionfale36. Questo non significa che il documento di Alfarano sia «meno attendibile di altri», come affermarono Krautheimer e Frazer, ma solo che, come qualsiasi altro testo in pictura o in scriptura, esso va esaminato ripercorrendo i passi della sua elaborazione. La natura di documento complesso e stratificato dell’ichnographia di Alfarano dimostra come il chierico avesse cercato di rispondere a una questione che ancora oggi – ben oltre «l’epoca della riproducibilità tecnica» dell’opera d’arte (W. Benjamin) – non ha trovato una soluzione soddisfacente, ovvero la modellizzazione integrata di un monumento che ne includa anche i mutamenti diacronici. Con questa avvertenza, con un occhio alla pianta di Tiberio Alfarano e uno alle vedute di Domenico Tasselli, è giunto il momento di salire la gradinata dell’antica basilica. Dal campo o Cortina, il piazzale irregolare che nelle vedute cinquecentesche è delimitato a nord dalle mura della città Leonina, una gradinata di marmo superava il dislivello colmato e spianato nel iv secolo per erigere la basilica (Pianta A). Della rampa è tramandato il ricordo di pellegrini e di viaggiatori che la percorsero contandone i gradini: alla

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

9. A. Tempesta e M. Bril, La traslazione di san Gregorio Nazianzeno, 1580 ca. Palazzo Apostolico Vaticano, iii Loggia Nord.

metà del xv secolo, l’inglese John Capgrave (a Roma dopo il 1447) menziona ventinove gradini «larghi alcuni passi», mentre il bavarese Nicolaus Muffel (a Roma nel 1452) ne ricorda ventotto37. Il restauro promosso da Pio ii (1458-1464) ampliò il fronte della gradinata e la rese più comoda, visto che Alfarano parla di cinque ordini di sette scalini intervallati da un piano più profondo. Le vedute cinquecentesche confermano il ritmo tranquillo e pausato della rampa la cui ascesa doveva essere agevole anche a cavallo38. Il più antico intervento di risistemazione di questa monumentale gradinata è documentato al principio del vi secolo e si deve a papa Simmaco (498-514). Nel quadro di un più ampio programma di lavori nell’area della basilica, Simmaco fece apprestare altre due scale laterali di accesso all’atrio riparate da tettoie di legno39. Oltre due secoli e mezzo più tardi, tra il 774 e il 776, si ha notizia di un restauro della rampa principale promosso da papa Adriano i40. In cima alla gradinata, un’ampia piattaforma si allargava davanti ai varchi di accesso all’atrio (Pianta B). Quest’area segnava la prima tappa di avvicinamento alla basilica e per

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10. Giacomo Grimaldi, La fronte di S. Maria in Turri e i varchi di accesso all’atrio di S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro, H. 2, f. 62r.

la sua posizione, dominante e ben visibile dalla Cortina, fu sempre un luogo rituale di sosta e di accoglienza. Qui nel Medioevo il clero della basilica si faceva incontro al papa quando dal Laterano veniva a celebrare la messa a S. Pietro; qui il pontefice attendeva i sovrani giunti in pellegrinaggio ad limina Petri o per essere incoronati imperatori; qui, infine, il papa neoeletto, dopo la cerimonia di ordinazione e prima di lasciare S. Pietro, riceveva pubblicamente il phrygium, il berretto a punta di lana bianca che in antico era l’insegna del suo potere temporale41. La scenografia di questi eventi richiedeva un’adeguata monumentalità e ben prima della costruzione della moderna loggia delle benedizioni avviata da Pio ii, il prospetto aveva le caratteristiche di un’architettura trionfale. Secondo Krautheimer e Frazer, la pianta di Alfarano è la fonte più attendibile per farsi un’idea di questa costruzione42. Essa era parte delle strutture che concludevano a oriente l’atrio della basilica e si configurava come un edificio ancipite, su due piani, attraversato da tre fornici su pilastri (Pianta D nn. 1-4).

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Come in effetti si vede in un disegno di Heemskerck (Vienna, Albertina, ca. 1532/6) che illustra la gradinata e il prospetto orientale dell’atrio, sopra i varchi d’ingresso e tra i lacerti di un antico mosaico, è riconoscibile il parziale tamponamento di tre grandi archi della stessa altezza. Stando alla pianta di Alfarano, la profondità dell’edificio d’ingresso era dimezzata da un grande arco diaframmatico impostato su pilastri mentre, a suo dire, l’interno del sottoportico era «tutto... depento con più sorte de figure del Salvatore de s. Pietro et S. Paulo»43. A ridosso del pilastro meridionale c’era l’altare di S. Maria in Turri, presso il quale, il giorno dell’incoronazione, l’imperatore riceveva dal clero della basilica il titolo di canonico. A questo altare, sulla mensa del quale Giacomo Grimaldi aveva letto un’iscrizione del tempo di Innocenzo ii (1130-1143), erano state trasferite le prerogative e la dedicazione di un più antico oratorio dedicato a Maria, posto al piano superiore dell’edificio d’ingresso44. Da quanto detto fin qui, potremmo concludere che l’assetto originario dell’edificio d’ingresso all’atrio di S. Pietro

– sopraelevato rispetto alle ali laterali, con un monumentale accesso a tre fornici e un oratorio al piano superiore – abbia precorso una serie di soluzioni architettoniche messe in campo, nell’alto Medioevo, all’ingresso di importanti complessi ecclesiastici45. Degli ambienti adiacenti al corpo d’ingresso, già nell’viii secolo, quello settentrionale fu usato come basamento per innalzare un campanile del quale, nel corso del Medioevo, furono più volte riparate o ricostruite le celle sommitali e la cuspide46. Non è escluso tuttavia che, almeno fino al xii secolo, le torri campanarie che fiancheggiavano l’edificio d’ingresso fossero due e che solo la maggiore (quella settentrionale) sopravvivesse fino all’ottobre 1610, quando fu gettata a terra47. Dobbiamo in particolare a Giacomo Grimaldi un’atten- 45 ta descrizione del prospetto e degli accessi all’atrio. I tre portali, dei quali quello centrale più alto e largo, erano stati restaurati nel 1449 in vista del Giubileo di Niccolo v. Essi erano affiancati da colonne di granito che, dismesse dopo la distruzione dell’atrio, furono prontamente reimpiegate

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Capitolo secondo

11. Domenico Tasselli da Lugo, Atrio e facciata dell’antico S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 10.

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

12. Il cantharus di S. Pietro in un disegno di Simone del Pollaiolo detto il Cronaca, 1480. Firenze, gdsu Santarelli, 157v.

13. La pigna già parte del cantaro nell’atrio di S. Pietro. Musei Vaticani, Cortile della Pigna.

costruire «davanti alla torre di S. Maria ad Grada» un oratorio magnificamente decorato53, tuttavia l’ampia integrazione del testo epigrafico non era stata proposta senza criterio. Come dichiara Grimaldi, si era tenuto conto sia dello spazio delle lettere mancanti, sia della paleografia dei caratteri: lettere capitali ma di forma maldestra (ineptae). Il soggetto iconografico di ispirazione apocalittica è consono alla datazione altomedievale proposta da Ugonio e da Grimaldi e significativa pare anche la contiguità dell’oratorio e della torre campanaria che il Liber Pontificalis ricorda abbellita e dotata di campane dal fratello e predecessore di Paolo i, papa Stefano ii (752-757)54. Della decorazione altomedievale della fronte interna all’atrio non abbiamo invece che un labile indizio. Il biografo di Paolo i, riferendo del nuovo oratorio di S. Maria ad Grada, lo dice allestito ante Salvatorem55. Dobbiamo dedurre che la “controfacciata” dell’atrio fosse anch’essa ornata con un’immagine cristologica? Se fosse così, il Salvatore era parte di una decorazione figurativa ancora più antica dei mosaici di Paolo i. Da un punto di vista architettonico, alla metà dell’viii secolo, l’atrio di S. Pietro doveva avere raggiunto già da lungo tempo l’assetto di una piazza circondata da portici. Il quadriportico fu tuttavia l’esito di un cantiere protrattosi per alcuni secoli. È indubbio che la sua costruzione fosse in programma già in età costantiniana: lo dimostrano l’immensa piattaforma artificiale predisposta ad accogliere il complesso basilicale e le corrispondenze proporzionali tra l’atrio e la chiesa. Ma qual era la sua forma originaria? La restituzione congetturale che del quadriportico fornisce la pianta di Alfarano suggerisce l’idea – accolta da alcuni

studiosi – che il perimetro esterno dell’atrio si configurasse in antico non chiuso da un muro continuo, ma aperto da arcate su pilastri (Pianta E nn. 5-13)56. È plausibile che Alfarano basasse la sua ricostruzione sull’osservazione diretta di elementi architettonici inglobati negli edifici che avevano sostituito i portici, come sembra indicare anche l’acquerello di Tasselli dove, in corrispondenza della «casa dell’altarista» (tra gli edifici di sinistra), si nota il tamponamento di tre archi. Quale che fosse in antico l’aspetto delle ali porticate settentrionali e meridionali, l’atrio di S. Pietro acquistò una forma definitiva tra il pontificato di Simplicio (468-483) e quello di Simmaco (498-514). Un’iscrizione letta a S. Pietro e tràdita da silloge attribuirebbe infatti a Simplicio la costruzione delle due ali laterali57, mentre una seconda iscrizione, posta sul lato meridionale dell’atrio, celebrava l’impegno profuso nella sua decorazione da Simmaco58. È proprio nella biografia di questo pontefice che, per la prima volta, l’atrio viene chiamato quadriporticus, un termine che finalmente autorizza a immaginarlo come uno spazio sub divo coelo delimitato sui quattro lati da porticati59. Oltre all’ampliamento della gradinata principale e alla costruzione di scale secondarie, gli interventi nell’atrio-quadriportico ascritti all’iniziativa di Simmaco comprendevano una decorazione a opus sectile e, nei pennacchi degli archi, figurazioni simboliche a mosaico (agnelli, palme e croci). Il redattore ricorda infine che Simmaco fece compaginare tutto l’atrio. Il verbo potrebbe alludere alla commettitura di pietre o di lastre di un pavimento60, oppure a una più generale riqualificazione dell’atrio e delle sue immediate adiacenze61. Stando al racconto, l’allestimento di scale laterali di accesso all’atrio aveva infatti una qualche relazione con le residenze (episcopia) costruite dal papa «nello stesso luogo a destra e a sinistra». Se la lettura è corretta, l’intervento di Simmaco avrebbe dunque comportato un riordino degli accessi al complesso basilicale in funzione di edifici residenziali che possiamo considerare il nucleo più antico del palazzo del pontefice al Vaticano62. Di una pavimentazione di grandi lastre marmoree nell’area del nartece (Pianta F) abbiamo notizia al tempo di Dono (676-678)63. L’espressione usata dal biografo del papa per indicare l’ubicazione del nuovo piancito (atrium superiorem) suggerisce che il nartece si trovasse a una quota più alta rispetto al resto del pavimento del quadriportico. Sappiamo in effetti che, fino al pontificato di Adriano i, si accedeva al nartece salendo alcuni gradini64. Nel tempo questo dislivello sarebbe stato pareggiato, creando nell’atrio-quadriportico un lastricato continuo alla quota del pavimento della basilica.

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nella mostra dell’Acqua Paola al Gianicolo (1612)48. Non è noto quando i portali architravati avessero sostituito gli originari fornici a tutto sesto, sappiamo però che al tempo di Adriano i (772-795) furono trasferite da Perugia e incardinate ad turrem delle porte di bronzo che il biografo del papa definisce maiores et mire magnitudinis decoratas49. Di queste valve bronzee, che ancora al principio del xiii secolo immettevano nel quadriportico della basilica, Pietro Mallio descrive un dettaglio: su di esse si leggeva un’epigrafe in lettere d’argento che, secondo la sua interpretazione, elencava le donazioni di Carlo Magno alla Chiesa nei distretti dell’Umbria e dell’Alto Lazio50. Al di sopra delle tre porte, il prospetto esterno dell’edificio d’ingresso era ornato da un mosaico figurato. Al tempo di Alfarano e di Grimaldi esso era ormai in pessime condizioni: oltre ai danni provocati dalla continua esposizione agli agenti atmosferici, nuove cadute del tessuto musivo si erano verificate in occasione della fabbrica della loggia delle benedizioni51. Nonostante il mediocre stato di conservazione, Grimaldi ha descritto con precisione il soggetto iconografico del mosaico e ha rilevato i resti dell’iscrizione che lo accompagnava: sullo sfondo di un cielo al crepuscolo, quattro vegliardi, due per parte, innalzavano le corone verso il clipeo stellato sorretto da angeli che racchiudeva il Salvatore52. Accogliendo la proposta d’integrazione suggerita dall’amico Pompeo Ugonio, Grimaldi ricompose nel modo seguente l’iscrizione del mosaico: Chr(ist)e ti[bi] sit [honor / Pavlvs] qv[od / decor[at opvs]. Certo, la lectio veniva incontro al dettato dal Liber Pontificalis secondo il quale fu Paolo i (757-767) a

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Quando l’atrio fu distrutto (1608), il suo aspetto era quello di una piazza lastricata di marmo e Grimaldi, durante i lavori di smantellamento, poté osservarne le caratteristiche in profondità: sotto un riempimento di alcuni palmi egli vide un modesto litostrato di pietruzze bianche. L’informazione è insufficiente per stabilire una plausibile stratigrafia. Ad ogni modo il chierico fornisce almeno tre riferimenti: 1) la terra battuta su cui poggiava il litostrato 2) il litostrato 3) il riempimento e le lastre di marmo65. Certo, sarebbe stato di vivo interesse se Grimaldi avesse riferito della stratigrafia in prossimità del cantaro, l’antichissima fontana che, al centro dell’atrio, dispensava acqua corrente ai pellegrini ad limina Petri (Pianta E n. 11). Nota già dalla seconda metà del iv secolo, essa fu restaurata e abbellita nel corso dell’alto Medioevo, ma la peculiarità del suo sistema idraulico di alimentazione e il fatto di essere la combinazione di elementi di spoglio (specie di bronzo) divenuti nel tempo una rarità, ne confermano il precoce allestimento66. Fu probabilmente Stefano ii a conferire al cantaro l’aspetto che i disegni del Cronaca e di Francisco de Hollanda hanno tramandato67. La fontana era coperta da un fantasioso padiglione di bronzo, coronato da cristogrammi e sorretto da otto colonne di porfido, due delle quali con un busto imperiale a rilievo68. Assemblato con antiche grate semicircolari fissate a trabeazioni di marmo, il padiglione era ornato da foglie, delfini e una coppia di pavoni di bronzo dorato69. Al di sotto, la fontana vera e propria comprendeva la grande pigna di bronzo (alta 4 m ca) e la vasca di raccolta delimitata da antiche lastre scolpite con grifi affrontati70. L’acqua sgorgava dal pinnacolo della pigna

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

14. Ritratto di papa Gregorio ix dal mosaico di facciata dell’antico S. Pietro. Roma, Museo di Roma.

15. La Vergine dal mosaico di facciata dell’antico S. Pietro. Mosca, Museo Puškin.

e, come riferisce John Capgrave (dopo 1447), anche dalla punta delle sue squame71. Egli scrive infatti che «un tempo» la pigna era dotata di «tubicini di piombo, attraverso i quali l’acqua arrivava in zampilli sottili a tutti quelli che ne avevano bisogno»72. Grimaldi, che fin da bambino visse presso la basilica sperimentandone quotidianamente ogni meraviglia, ricorda invece che dai rostri dei delfini posti agli angoli del padiglione defluiva l’acqua piovana. Essendo inoltre presente quando la pigna fu rimossa per essere trasferita nei giardini Vaticani, egli constatò che subito al di sotto c’erano tres magni tubones plumbei identificabili, a suo parere, con i terminali della condotta acquaria restaurata da Adriano i73. Fu questo papa infatti a ripristinare la portata dell’acquedotto Sabbatino (l’antica Aqua Traiana), del quale una derivazione secondaria serviva gli impianti idrici situati a S. Pietro e, tra essi, i bagni destinati ai chierici e ai poveri, il battistero della basilica e appunto il cantaro dell’atrio74. Sollevando lo sguardo dalla fontana e dai suoi giochi d’acqua, in alto, oltre il tetto del nartece, i mosaici della facciata si dispiegavano in tutto il loro splendore. È assai probabile che, nella primavera del 1606, Domenico Tasselli, per restituire una veduta completa e armonio-

sa del prospetto della basilica e della sua decorazione, si fosse affacciato dalla finestra della residenza dell’arciprete, al tempo ubicata subito a sud dell’oratorio di S. Maria in Turri (Pianta D n. 4)75. Alla vigilia della demolizione, la facciata di S. Pietro gli apparve con tratti ancora schiettamente medievali, solo aggiornati nel tardo Cinquecento da un paio di grandi volute che ne puntellavano la parte superiore. La fronte della basilica, sormontata da una grande croce marmorea che la tradizione riteneva di età costantiniana, era conclusa da un timpano con rosone76. È plausibile che al principio del xiii secolo, il timpano fosse stato rifatto per apprestare, sotto l’aggetto della cornice, un profondo «cavetto» a protezione dei mosaici. Sulla parete di facciata, finestre a tutto sesto, ornate da trafori gotici, si disponevano su due ordini: il primo al colmo del tetto del nartece e il secondo alla stessa quota delle finestre che sui fianchi dell’aula davano luce alla navata centrale. Un disegno di anonimo della metà del xvi secolo (Gabinetto Nazionale delle Stampe, vol. 2502) ne registra una particolarità costruttiva. Una doppia ghiera infatti ne definiva l’estradosso, palesandone l’adattamento di età medievale77. I

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16. Francesco Beretta, copia del mosaico della Navicella di Giotto un tempo nell’atrio dell’antico S. Pietro, 1628. Basilica vaticana, Ottagono di S. Gregorio.

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trafori gotici furono dunque il risultato di un aggiornamento duecentesco in linea con il restyling della basilica avviato da Innocenzo iii (1198-2016) nell’area absidale e proseguito da Gregorio ix (1227-1241) nell’aula e nella facciata78. La decorazione musiva documentata da Tasselli e da Grimaldi risaliva appunto a questo papa che, prima della sua elezione, fu arciprete della basilica per sette anni79. Il soggetto iconografico del mosaico, nel quale era ritratto lo stesso Gregorio ix inginocchiato ai piedi del Salvatore, sostituiva e aggiornava una più antica teofania apocalittica del tempo di Leone Magno (440-461)80. Oltre alla sostituzione del simbolo dell’Agnello con il Cristo in maestà, la novità iconografica di spicco introdotta nel mosaico duecentesco è la comparsa della Madre di Dio e di san Pietro rispettivamente alla destra e alla sinistra del Salvatore: una sorta di reinvenzione romana e petrina del tema della Deesis. A tale proposito, il mosaico di Gregorio ix conferma su scala monumentale un orientamento iconografico che

nell’atrio di S. Pietro, dal x secolo in avanti, sembra ispirare le scelte figurative del patronato papale e non solo81. La marca cristologica e apocalittica “delle origini” sembra per così dire affievolirsi a vantaggio di una celebrazione sempre più diffusa e narrativa del principe degli Apostoli. È così che, mentre in facciata l’adorazione dell’Agnello lascia il campo all’omaggio “feudale” del papa a Cristo in maestà tra Pietro e la Vergine, nel quadriportico, alla cifra simbolica dei mosaici simmachiani (agnelli, palme e croci), si aggiunge sulla fronte del nartece e al tempo di Niccolò iii (1277-1280), un intero ciclo pittorico dedicato alle gesta degli apostoli Pietro e Paolo82; infine nella “controfacciata” dell’edificio d’ingresso, sopra le porte che immettevano nell’atrio, un’antica immagine del Salvatore viene sostituita, nel primo decennio del 1300, dal celeberrimo mosaico della Navicella (Pianta E n. 8). Come a dire che le ragioni devozionali e quelle storiche avevano avuto il sopravvento su un immaginario paleocristiano e altomedievale che per secoli

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

17. Arnolfo di Cambio, Il san Pietro di marmo, un tempo nel protiro di accesso al nartece della basilica e poi nelle Grotte vaticane, oggi nel corridoio di uscita dalle Grotte.

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aveva inteso l’atrio della basilica e il suo magnifico cantaro con un luogo paradisiaco (Paradisus)83. Commissionata a Giotto da Jacopo Stefaneschi, cardinale di S. Giorgio al Velabro e canonico di S. Pietro, la Navicella, ispirata all’episodio narrato in Mt 14,22-32, metteva in scena il salvataggio di Pietro e della barca degli Apostoli sospinta dalla tempesta84. In una congiuntura storica critica (dal 1309 il papa risiedette ad Avignone), il dubbio di Pietro e il suo grido «Signore salvami!», la reazione fisica e concitata degli Apostoli, infine l’eloquente gesto di soccorso del Cristo sceneggiavano in dimensioni monumentali e con accenti drammatici l’antico simbolo ecclesiologico della Nave. Nel turbolento avvio del nuovo secolo, il titulus di commento al mosaico, composto dal cardinal Stefaneschi, «storico e decoratore di avvenimenti straordinari» (A. Frugoni), suona come una rassicurazione alla Chiesa di Roma: «Quando hai ordinato a Pietro di camminare sui liquidi flutti / lo hai esortato ad avere fede, e quando ha cominciato a peccare lo hai risollevato / Gli hai restituito la fama e la grazia delle sue virtù / Così possiamo anche noi pregando te, o Dio, giungere al nostro porto»85. Nell’atrio medievale della basilica, dove l’apostolo Pietro veniva elevato a comprimario di scene teofaniche (l’episodio evangelico della Navicella è innanzitutto una teofania!), non sorprenderebbe se, alla fine del Duecento o nei primi anni del secolo successivo, anche la statua del «san Pietro di marmo», innalzata all’altezza degli archi del nartece, avesse trovato lì la sua collocazione86. Come è noto, il «san Pietro di marmo» è l’adattamento arnolfiano di una statua antica di filosofo acefala alla quale sono state aggiunte la testa, «che ripete una iconografia dell’Apostolo diffusa ab antiquo in Occidente», e le mani intente a benedire e a stringere le simboliche chiavi87. Stando alla descrizione di Alfarano e di Grimaldi, la scultura occupava una posizione elevata nel protiro del nartece, allineandosi con l’ingresso nell’atrio, con l’ingresso alla basilica (porta Argentea) e – quando questo era aperto – con l’altare dell’Apostolo (Pianta E n. 12). Il protiro – che Grimaldi definisce ripetutamente «tabernacolo» – era un arredo architettonico davvero singolare che, al pari del cantaro, reimpiegava spolia di grandissimo pregio. Due colonne di marmo rosso sostenevano il padiglione cuspidato che sporgeva sull’atrio; all’interno, tra le colonne di marmo bianco del nartece e sopra una soglia di marmo africano, era apparecchiato un portale con stipiti e architrave di spoglio ornati di fregio a intreccio di fiori e di fronde88. Ad esso erano incardinati due battenti di bronzo che, considerata la fattura, provenivano da un edificio anti-

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18. Giacomo Grimaldi, Il protiro con la porta bronzea e il san Pietro di marmo. Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2733, f. 145r.

co. Si trattava infatti di valve di bronzo massiccio nella parte inferiore e traforate a pelte nella parte superiore89. Il «san Pietro di marmo» era collocato in cima all’architrave del portale e pertanto sotto l’arco mediano del nartece90. Il fatto che il protiro si addossasse all’arco schermato dai battenti di bronzo indusse forse Grimaldi a descriverlo come una sorta di tabernacolo (instar tabernaculi fabrefactum). Del resto anche la decorazione del padiglione rendeva il protiro più simile a un ciborio d’altare: esso infatti aveva la fronte cuspidata ornata da una rota con il busto del Salvatore tra Pietro e Paolo e il fornice interno (forse una crociera) ornato con i simboli degli Evangelisti. Ai piedi delle colonne c’erano inoltre due «antichissime» statue marmoree degli Apostoli «ormai in procinto di rovinare». Queste sculture sono state riconosciute in una coppia di mensole figurate tardomedievali che dall’atrio furono riparate nelle Grotte Vaticane e poi trasferite, nel secolo scorso, nel Palazzo Apostolico. Quale che sia l’inquadramento cronologico degli Apostoli-mensola, la loro funzione architettonica indica che in origine essi ebbero una diversa collocazione rispetto

a quella documentata da Grimaldi91. Sembra dunque plausibile che – in un tempo imprecisabile – le mensole siano state collocate alla base del protiro, spiegando il motivo dell’aspetto consunto delle sculture che si trovarono alla portata di chi entrava in basilica. Per approssimare la cronologia del «tabernacolo» disponiamo di un unico indizio. Grimaldi osservò che il padiglione appoggiava, con effetti rovinosi, a una delle scene dipinte sulla fronte del nartece – del tempo di Niccolò iii (v. sopra) – e ne concluse opportunamente che la struttura era stata costruita dopo il ciclo pittorico dedicato agli Apostoli. Ma dopo quanto? Se nel 1462, al tempo di Pio ii, la statua arnolfiana di Pietro era già al suo posto e assai venerata, non abbiamo elementi per precisare la cronologia del protiro, che resta ancorata a un generico terminus post quem (dopo il 1280). Alcuni tratti iconografici ridondanti e posticci del «tabernacolo» descritto da Grimaldi inducono d’altro canto a non trascurare la possibilità di un attardamento cronologico del protiro rispetto alla «porta del san Pietro di marmo»: nulla osterebbe in termini strutturali. Inoltre im-

maginare come un monumento a sé il portale, la porta di bronzo e il san Pietro “filosofo” restituirebbe coerenza a un ensemble «all’antica» che, in autonomia e senza intaccare il ciclo pittorico di Niccolò iii, segnava emblematicamente l’accesso al tempio di Pietro, l’Apostolo ianitor caeli92. Superata anche questa soglia, si accedeva al nartece della basilica (Pianta F nn. 14-20). Il suo pavimento di marmo bianco giaceva allo stesso livello di quello dell’aula e, in prossimità del varco maggiore (la porta Argentea), una rota porfiretica indicava un luogo di sosta rituale93. Il pavimento marmoreo insieme con il soffitto ornato di lacunari conferiva al monumentale vestibolo un decoro simile a quello dell’aula basilicale. All’estremità meridionale del portico, si accedeva al secretarium (sacrestia), dove in occasione delle celebrazioni liturgiche il pontefice, coadiuvato dai suoi accoliti, indossava i paramenti e si preparava al solenne introito. Cinque erano le porte della basilica, tre delle quali si aprivano in corrispondenza della navata centrale e due in corrispondenza delle navate mediane; in origine infatti le estreme navate nord e sud erano cieche (Pianta F nn. 15-19)94. Nel Medioevo le porte di S. Pietro avevano un nome definitosi in ragione di consuetudini e di rituali liturgici secolari: la porta della navata mediana settentrionale si chiamava Guidonea, dal nome di coloro che conducevano i pellegrini ad limina Petri e che erano soliti entrare in basilica di qui; delle tre porte che si aprivano sulla nave maggiore – più ampie e uguali tra loro per dimensioni – la Romana era così denominata perché romanae mulieres frequenter per eam intrant, in conformità con l’antichissima tradizione per la quale le donne potevano accedere alle sole navate settentrionali; la porta principale era chiamata Argentea per il prezioso rivestimento metallico che la distingueva; la porta Ravenniana (in seguito «di S. Bonifacio») si chiamava così perché vi facevano ingresso Ravennates et omnes Lombardi et Tusci; infine, nella navata mediana meridionale, la porta Iudicii (in seguito «di S. Andrea»), di dimensioni minori e analoghe a quelle della porta Guidonea, era così denominata in quanto accesso alla cosiddetta porticus Pontificum, ovvero alla navata meridionale della basilica che, a partire dall’alto Medioevo, accolse numerose deposizioni dei pontefici95. A tale riguardo, con un «atto pubblico» che ai contemporanei doveva apparire l’ultima espressione del magistero del loro vescovo, la basilica fu precocemente eletta dai pontefici romani come ultima dimora96. Ad esclusione della leggendaria deposizione dei primi successori di Pietro nell’area dell’antica necropoli più prossima alla tomba dell’Apostolo, è dal v secolo che i pontefici romani iniziarono a farsi seppellire in Vaticano. È così che nel

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

19. Domenico Tasselli da Lugo, La controfacciata dell’antico S. Pietro con le cinque porte della basilica. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 18.

secretarium della basilica fu inumato papa Leone i e nell’area meridionale del nartece fu deposto Gregorio Magno (Pianta P e F n. 14)97. Gli epitaffi tramandati da antiche sillogi, da rari frammenti epigrafici e dalla ricognizione effettuata nel xii secolo dal canonico Pietro Mallio permettono di farsi un’idea dell’intenso sfruttamento del vestibolo della basilica come luogo privilegiato di sepolture di papi e non solo. Sulle sue pareti trovarono precoce esposizione i documenti epigrafici che sancivano i diritti e i possedimenti di S. Pietro e nei secoli si stratificarono immagini dottrinali e devozionali d’ogni tipo. Sopra le porte della basilica furono infatti dipinte le figurazioni simboliche dei concili universali e furono appese icone su tavola; le immagini sacre dipinte sulle colonne del portico moltiplicarono i luoghi di devozione e, nel Duecento, fu realizzato un intero ciclo di storie apostoliche in corrispondenza dei varchi di accesso alla basilica98.

Dalla porta Argentea verso l’altare dell’Apostolo Lo storico incontro tra papa Adriano i e Carlo Magno, re dei Franchi, è narrato dal Liber Pontificalis con grande solennità: giunto ai piedi della basilica di S. Pietro, re Carlo salì la scalinata baciando ogni gradino e, raggiunta la piattaforma davanti alle porte dell’atrio, trovò ad attenderlo il papa, lo abbracciò, gli prese la mano destra e finalmente, tra le lodi e i canti di tutto il clero, il re e il pontefice entrarono nella «veneranda aula del beato Pietro»99. Un identico protocollo ma un’atmosfera più carica di suspense ricorrono, settant’anni più tardi, in occasione della visita di Ludovico a papa Sergio ii (844-847). Il racconto ripete le parole del biografo di Adriano, ma

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20. Grotte Vaticane, Iscrizione commemorativa del restauro delle coperture al tempo di Benedetto xii, 1341. † benedictvs pp xii tholosanvs fecit fieri de novo tecta hvivs basilice sub anno domini mcccxli magister pavlvs de senis me fecit.

poiché papa Sergio non conosceva ancora le intenzioni pacifiche del suo ospite, l’accesso alla basilica viene descritto con ritmo più lento100. Dopo l’incontro e l’abbraccio in cima alla gradinata, Sergio e Ludovico entrarono nell’atrio e raggiunsero la porta principale (ad portas argenteas) lasciata deliberatamente chiusa affinché il pontefice-ianitor la spalancasse con le proprie mani. Dalla fine del vii secolo, la porta mediana della basilica doveva il nome a uno splendente rivestimento d’argento (Pianta F n. 15)101. Fatta realizzare da papa Onorio i (625638)102, le sue dimensioni dovevano essere analoghe a quelle della porta del Filarete, in opera nello stesso varco dal 1445103. I lunghi carmi che si leggevano sbalzati sui battenti celebravano gli apostoli Pietro e Paolo, richiamando altresì l’attenzione sulle eccezionali caratteristiche della preziosa manifattura. La porta di legno infatti era rivestita con 975 libbre di metallo (poco più di 319 kg) ridotte in lamina e in formelle figurate fissate con chiodi ai battenti104. Potendo stimare con buona approssimazione la superficie della porta (22,5 mq circa), il rivestimento doveva avere uno spessore di 1,3 mm. La porta Argentea era dunque un’opera esemplare degli elevati standard qualitativi che distinsero il patronato di Onorio i. Una committenza a tal punto ambiziosa da far correre la voce che il papa avesse stornato, con la frode e a vantaggio dell’amministrazione ecclesiastica, il soldo destinato alle truppe bizantine di stanza a Roma105. Gravemente danneggiato dai Saraceni nell’846, il rivestimento metallico della porta fu ripristinato ai tempi di Leone iv (847-855) probabilmente integrando e rilavorando l’argento rimasto inchiodato ai battenti dopo lo scempio della razzia106. Insieme con il restauro della porta Argentea, Leone iv promosse anche quello del soffitto del nartece107. Il risalto dato alla notizia del rinnovamento dei lacunari del soffitto conferma l’alto valore attribuito a questa finitura architettonica «all’antica»108. Nei casi più lussuosi, infatti, a ornamento dei soffitti delle aule basilicali, si impiegavano quantitativi d’oro in foglia che potevano essere ragguardevoli. Si pensi che, al tempo di papa Silvestro, furono destinate 500 libbre d’oro (163,5 kg) per rendere fulgens il soffitto della navata centrale della basilica Salvatoris al Laterano109. Per celare l’incastellatura delle capriate del tetto, anche l’aula di S. Pietro fu dotata in antico di un soffitto del genere; il biografo di papa Silvestro riferisce infatti di una camera basilicae (camera = soffitto) ex trimma auri, cioè rivestita d’oro in foglia110. La conferma che il soffitto fosse ornato da lacunari intagliati nel legno si ha al tempo di papa Adriano, quando

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l’antico soffitto di S. Pietro che versava ormai in pessime condizioni fu rifatto «scolpendolo» e «dipingendolo di vari colori» sull’esempio di quello antico (exemplo olitano)111. La citazione permette di capire come il pregio di tali soffitti consistesse, specie durante l’alto Medioevo, nella sfida che la manutenzione delle immense fabbriche ereditate dall’età antica poneva alle competenze tecniche delle maestranze e per il reperimento dei materiali da costruzione112. A tale proposito sappiamo che a S. Pietro, in occasione del restauro delle capriate, fu necessario sostituire travi che raggiungevano la lunghezza anche di 80 p. r. (circa 24 metri!), e che Adriano i si rivolse a Carlo Magno perché inviasse a Roma un magister in grado di stimare il materiale necessario all’intervento113. È tuttavia il biografo di Benedetto iii, con l’accento enfatico che gli è proprio, a richiamare l’attenzione sull’audacia tecnica richiesta dalla manutenzione straordinaria delle capriate (procaci artificio luciflue renovavit), in occasione della sostituzione a S. Pietro di sette grandi travi in corrispondenza della navata maggiore e del transetto114. Lo stesso ammirato stupore ispira all’Anonimo romano (1357-1358) un racconto che all’immaginazione dei lettori moderni restituisce non solo la perduta scala dimensionale delle basiliche tardoantiche, ma anche la concreta difficoltà tecnica e l’arditezza di certe operazioni. Nel capitolo che tratta del restauro delle capriate di S. Pietro patrocinato da papa Benedetto xii (1335-1342), l’Anonimo ricorda infatti i carpentieri a cavalcioni delle travi da sostituire, così pericolosamente sospesi che non può fare a meno di dichiarare: «Io non vòizera essere stato uno di quelli» e insieme descrive un’immensa trave, ancora dell’età

21. Le tegole con il bollo del re Teodorico rinvenute sul tetto dell’antica basilica. Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2733, f. 101v.

di Costantino, ormai fradicia a causa delle «caverne e cupaine, fatte sì per l’antiquitate sì per fere [cioè da animali] le quale avevano rosicato e fatta drento avitazione; ca ce fuorno trovati drento sorici esmesuratissimi e... martore e... golpi colli loro nidi. Chi lo vidde non lo poteva credere...»115. Un rilievo non minore è riservato al ricordo della messa in opera sul tetto di S. Pietro di tegole bronzee (tegulae aereae) prelevate da edifici di età imperiale. Fu papa Onorio i, con l’autorizzazione dell’imperatore Eraclio, a spogliare il Tempio di Venere e Roma delle sue tegole di bronzo dorato perché fossero trasferite al Vaticano per «coprire tutta la chiesa»: un’impresa certo ben pianificata che, per soddisfare le necessità dell’antico S. Pietro, aveva tenuto conto dell’estensione delle coperture del più grande santuario pagano della Roma antica116. Nel corso del Medioevo furono numerosi gli interventi di manutenzione riservati alle immense falde a spiovente che coprivano la basilica. Come ricorda Grimaldi, al momento dello smantellamento del tetto, furono trovate tegole di piombo iscritte con i nomi di papa

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

24. La Cathedra Sancti Petri (trono di Carlo il Calvo),

22. Ricostruzione del presbiterio rialzato e della cripta anulare di Gregorio Magno secondo Apolloni Ghetti, Ferrua, Josi, Kirschbaum 1951.

Basilica vaticana.

23. Assetto liturgico dell’emiciclo absidale nell’antico S. Pietro al tempo del pellegrinaggio di Sebastian Werro, 1581. Fribourg, Bibliothèque Cantonale et Universitaire.

L’altare dell’Apostolo, la pergola e il recinto presbiteriale

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Innocenzo ii (1130-1143); di Alessandro iii (1159-1181), di Innocenzo iii (1198-1216) e di Benedetto xii (1335-1342). Oltre a numerosi embrici di bronzo, furono inoltre rinvenute, negli spioventi laterali, tegole di laterizio con iscrizioni in lettere greche e tegole con il nome del re Teodorico (493-526), un paio delle quali Grimaldi fece depositare nell’archivio della basilica perché ne rimanesse memoria117. Più che in ogni altro luogo, i segni dei cambiamenti intervenuti nel corso millenario della basilica dovevano palesarsi nel suo pavimento. Grimaldi lo ricorda «tutto di marmo», ma in uno stato molto frammentato. In alcuni punti gli parve di scorgere i resti del primo piancito «forse costantiniano», sebbene l’aspetto colorato e vermiculatum di cui parla si attagli meglio all’opera di marmorari medievali118. Ai suoi tempi, l’antico pavimento doveva apparire scompaginato non solo da innumerevoli sepolture ma anche dalla costruzione di decine di altari secondari delimitati da recinti o sormontati da cibori. La «frammentazione liturgica» (F.A. Bauer) che nel corso del Medioevo interessò la basilica Vaticana, al pari delle altre grandi aule paleocristiane dell’Urbe, vide infatti il moltiplicarsi degli spazi devozionali e di quelli consacrati a specifici usi liturgici119. Non pare tuttavia che sepolture e monumenti secondari avessero in alcun modo interferito con una topografia rituale che per secoli rimase riconoscibile nel pavimento della navata maggiore (Pianta F n. 15 e G nn. 21-23)120. In asse con la rota porfiretica che giaceva davanti alla porta Argentea, nella navata centrale si disponevano, in linea retta, alcune rotae di colore e di diametro diverso. Dall’ingresso fino al «muro divisorio», Panvinio e Grimaldi ne contarono tre: la prima, posta poco oltre la soglia, era di marmo egizio; la seconda, all’altezza dell’altare del Santissimo Sacramento, era di porfido e di grandi dimensioni; la

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terza, di nuovo di marmo egizio, era posta all’altezza dell’altare dell’Organo121. Purtroppo non si ha alcun notizia dell’esistenza di rotae nel tratto occidentale della navata maggiore, precocemente invaso dalla Fabbrica nuova122. Grimaldi tuttavia, prima che l’abside antica venisse demolita (1592), non mancò di rilevare, tra il trono papale e l’altare dell’Apostolo, la presenza di altre quattro rotae di granito grigio: tre di esse, grandi e integre, erano poste davanti al trono mentre la quarta era un poco discosta (Pianta H n. 25)123. Il collegamento delle rotae con le celebrazioni più solenni che avevano la basilica di S. Pietro come scenario e la loro menzione nei rituali altomedievali sono solo un indicatore della lunga permanenza dei grandi dischi marmorei nel pavimento della basilica124. Non si ha tuttavia nessun elemento per ritenere (ma neanche per escludere) che nella navata maggiore le rotae avessero quella collocazione già in età costantiniana. Se così fosse, occorrerebbe chiedersi se la loro presenza ab antiquo avesse in qualche modo contribuito a orientare alcuni rituali liturgici medievali di ispirazione aulica125. Quanto alle rotae di granito poste davanti al trono papale, è certo che esse non potessero risalire alla fondazione della basilica, considerata la radicale trasformazione che investì, tra la fine del vi secolo e l’inizio del vii, l’area absidale e il suo fulcro: la tomba dell’Apostolo.

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Nel corso del Medioevo e fino alla sua completa demolizione nei primi anni del xvii secolo, l’antico S. Pietro fu «un grande organismo votato all’autoconservazione»126. Se si esclude il sopraelevamento dell’esedra settentrionale del transetto al tempo di papa Adriano iv (1154-1159)127, l’unica significativa trasformazione architettonica che modificò l’edificio costantiniano riguardò, tra il pontificato di Pelagio ii (579-590) e quello di Gregorio Magno (590-604), la disposizione dell’area attorno alla memoria dell’Apostolo (Pianta H nn. 24-28). In quanto martyrium di Pietro, la basilica acquistò precocemente una posizione di prestigio nel calendario delle celebrazioni liturgiche pontificali, anche se l’originaria vocazione commemorativa e sepolcrale la rendeva poco adatta a una pratica liturgica regolare. Per la celebrazione della messa si era ricorsi fin lì a un altare mobile che doveva ormai apparire inadeguato all’adempimento di rituali sempre più improntati a una concezione ordinata e gerarchica della scaena liturgica. Sullo scorcio del vi secolo fu pertanto indispensabile un intervento di adeguamento dell’area absidale128. Agli architetti del tempo si richiese una soluzione originale che, rispettando l’inamovibilità della memoria apostolica, non penalizzasse né l’intensa devozione che attirava la tomba di Pietro né lo svolgimento ordinato delle celebrazioni liturgiche. Il risultato fu un’idea tanto brillante quanto semplice129. Mantenendo il fuoco prospettico nella memoria apostolica, l’area inscritta nell’emiciclo absidale fu raddoppiata abbassandone il pavimento (– 0,64 m) e creando un podio sopraelevato (+ 1,45 m) che abbracciava su tre lati l’edicola costantiniana. Dell’edicola la parte superiore che emergeva dal pavimento del podio divenne l’altare fisso (2,60 × 1,50 × 1,25 m), mentre la fronte orientale (verso la navata) fu lasciata libera e accessibile attraverso una fenestella confessionis alla quota del pavimento antico. Sotto il podio, anche la fronte occidentale dell’edicola restò raggiungibile grazie a un deambulatorio semianulare interrotto, a metà della curva dell’abside, da un corridoio rettilineo che puntava al retro dell’edicola. L’accesso al deambulatorio della cripta era assicurato da rampe discendenti ubicate nel punto di innesto dell’abside con i bracci del transetto, al podio invece si ascendeva attraverso scale poste alla sinistra e alla destra della fenestella confessionis. L’intervento architettonico comportò, come ovvio, il

parziale smontaggio del baldacchino costantiniano, le cui colonne vitinee furono tutte allineate sulla fronte del podio e coronate da una trave. Nella cripta fu inoltre costruito un piccolo altare addossato al piede della memoria costantiniana mentre, sopra il podio, l’altare maggiore, ormai inamovibile e compenetrato con la tomba dell’Apostolo, fu protetto da un ciborio sorretto su quattro colonne porfiretiche130. Infine, forse già al tempo di Pelagio ii o di Gregorio Magno, in asse con il nuovo altare e addossata all’apex dell’abside, trovò posto la cattedra del pontefice, affiancata, lungo l’emiciclo, dai sedili per il clero (Pianta H nn. 25-26)131. Le necessità specifiche sopravvenute in un grande santuario martiriale ereditato dall’antichità avevano dunque inventato una soluzione architettonica che nel corso del Medioevo ebbe grande fortuna e fu adottata a Roma (e non solo) come modello costruttivo di edifici di culto con analoghe esigenze funzionali132. A tale riguardo è indubitabile come, dalla sua fondazione e in particolari circostante storiche, quello della basilica di S. Pietro sia stato un cantiere di sperimentazioni architettoniche e iconografiche divenute esemplari. Tra le altre, vale la pena ricordare l’invenzione della pergola (pergula): un arredo liturgico che discende, per nome e per funzione, dall’allineamento sulla fronte del podio delle colonne vitinee coronate da una trave. Con un diaframma

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

25. Scuola di Raffaello, La donazione di Costantino, 1520-1524. Musei Vaticani, Sala di Costantino.

26. La Colonna santa, già nell’antica pergula di S. Pietro. Sagrestia vaticana, Museo Tesoro di S. Pietro.

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architettonico che tuttavia non precludeva la vista, essa indicava quale fosse lo spazio riservato al clero officiante. Nelle sue attestazioni nel Liber Pontificalis, il termine si qualifica infatti come un vero e proprio neologismo nato in seno alla basilica di S. Pietro133. Da un punto di vista strettamente lessicale, l’origine della parola si fa risalire al mondo agrario, che in gergo tecnico indicava con pergula «l’impalcatura lignea a sostegno delle viti»134. Nella lingua volgare «pergola» ha mantenuto in effetti, come primo significato, proprio quello di impalcatura per le viti e per le piante rampicanti135. Nel Liber Pontificalis il termine fa la sua comparsa durante il pontificato di Gregorio iii (731-741) a proposito di un oratorio dedicato al Salvatore, alla Madre di Dio e a tutti i santi che questo papa consacrò a ridosso del pilastro meridionale dell’arco trionfale della basilica (Pianta n. 40)136. Di questo oratorio si nomina appunto la pergula senza altre

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precisazioni, segno che il termine aveva già un significato specifico e una consuetudine d’uso. Ci si limita a riferire che la «pergola» veniva messa in opera (faciens pergulam) e che le erano destinati gli ornamenti consueti e appropriati. Potremmo pensare che proprio gli oggetti appesi all’impalcatura (lampade, turiboli, ecc.) abbiano suggerito il paragone con un traliccio per le piante rampicanti. Il fatto però che la prima occorrenza del termine nel Liber Pontificalis indichi un arredo di S. Pietro induce a considerare un’altra possibilità. Proprio a Gregorio iii dobbiamo il raddoppio delle sei colonne vitinee costantiniane che Gregorio Magno aveva allineato davanti al podio (Pianta H n. 28)137. A ben vedere, nelle rispettive varianti, già in età costantiniana (si veda la celebre figurazione nella capsella di Samagher) e poi con Gregorio Magno, il coronamento di architravi delle prime sei colonne vitinee aveva creato avant la lettre una «pergola»138.

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A sua volta Gregorio iii, con un’iniziativa degna del suo illustre eponimo, era riuscito a ottenere dall’esarca Eutichio altre sei colonne di analoga fattura che il pontefice fece disporre a est delle prime sei colonne vitinee, coronandole con una trave rivestita in lamina d’argento con figure cesellate139. Per le loro peculiari caratteristiche, attorno alle dodici colonne vitinee è nei secoli cresciuto un vero e proprio mito. Nella basilica esse hanno sempre occupato un posto d’onore e la loro specialissima forma è divenuta quasi l’emblema della vicenda millenaria di S. Pietro, al punto da ispirare la “macchina” barocca del baldacchino berniniano140. Basta leggere la descrizione che delle colonne vitinee ha lasciato il Filarete per cogliere, nel suo tono ammirato, il carattere di eccezionalità di queste opere scultoree e per riconoscere le ragioni di un ampliamento semantico del termine «pergola» che, ancora oggi, è il più appropriato per designare, in un edificio di culto medievale d’Occidente, la trabeazione sorretta da montanti verticali che delimita il santuario141. Queste le parole del Filarete: «Se mai v’andate [a S. Pietro di Roma], guardate quelle [colonne]…che son fatte in strana forma. Credo che colui che le fe’ le traesse da qualche arbore che lui forse vidde, che su per lo pie’ andava ellera, la quale forma prese e adattolla a quelle colonne. E forse c’era su uccelli e altri animali, come che molte volte se ne vede…. Sí che piacendo a colui, l’adattò, come ho detto a queste colonne, le quali stanno molto bene; e fu vantaggiato maestro colui che le fe’. Dicono alcuni che vennono di Gerusalem»142. È nella biografia di Leone iii che il termine pergula è finalmente impiegato per designare l’insieme delle colonne vitinee e delle rispettive travi. Alla pergula più interna Leone assegna diciotto lampade d’oro zecchino e gemme143. Anche questo preziosissimo corredo di lumi ribadisce come i dodici fusti elicoidali percorsi dai racemi di vite segnalassero ad limina Petri la soglia paradisiaca del santuario144. Quanto all’idea di Gregorio Magno di disporre le prime sei colonne vitinee su un’unica fila davanti al podio absidale, è stata avanzata

l’ipotesi che il pontefice si fosse ispirato non solo al monumentale fastigium donato da Costantino alla basilica Lateranese, ma anche al templon che a S. Sofia e negli edifici di culto della prima età bizantina segnava su tre lati il perimetro del santuario145. In effetti, prima di diventare papa, nella sua prolungata permanenza a Costantinopoli in qualità di apocrisario, Gregorio doveva aver maturato una certa familiarità con i dispositivi liturgici in auge in età giustinianea146. In ben altra congiuntura storica, segnata dal deflagrare in Oriente della prima crisi iconoclasta, Gregorio iii conferma di seguire deliberatamente (e forse provocatoriamente) lo stesso modello: come nel rivestimento d’argento della trave del templon della S. Sofia giustinianea, infatti, egli fa cesellare nella trave della pergula di S. Pietro, «da un lato e dall’altro», le immagini di Cristo, degli apostoli, della Madre di Dio e delle sante vergini, ponendovi al di sopra numerose lampade147. Di queste, alcune vengono chiamate lilia, termine che suggestivamente evoca le lampade ad albero che, secondo la descrizione di Paolo Silenziario, coronavano il templon della S. Sofia148. Il passo della vita di Gregorio iii che descrive l’allestimento in S. Pietro della seconda fila di colonne vitinee della pergula è importante anche per un’altra occorrenza lessicale: quella di presbyterium, con il significato di area recintata riservata al basso coro ovvero al basso clero e ai cantores149. Spesso per indicare luoghi, oggetti e arredi dell’aula di culto, i redattori del Liber Pontificalis (che erano dei funzionari della Chiesa) seguono un ordine descrittivo che corrisponde al punto di vista del clero che guarda verso la navata150. Poiché è storicamente documentato che le “nuove” colonne di Gregorio iii raddoppiarono il numero delle costantiniane allineate ai piedi del podio, è possibile mettere a confronto quel che sappiamo con le parole del redattore151. Il biografo di Gregorio iii indica il luogo della messa in opera della nuova serie di colonne nel modo seguente: «le quali [colonne] fece collocare di fronte al presbiterio, davanti alla confessione, tre da destra e tre da sinistra, accanto alle altre antiche della stessa fattura». Per i motivi sopra indicati (e come in altri passi del Liber Pontificalis), «destra» e «sinistra»

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

27. Otto delle dodici colonne vitinee in opera nella pergula della basilica antica, oggi nelle Logge delle Reliquie della basilica nuova. Indichiamo per ciascuna coppia di colonne (da sinistra), la Loggia corrispondente: S. Andrea, S. Veronica. S. Elena, S. Longino.

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Capitolo secondo

Da sinistra a destra: 28. Pluteo del tempo di Gregorio Magno, 590-604. Grotte vaticane. 30. Frammenti di plutei del tempo di Leone iii, ca. 800. Grotte vaticane.

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

29. Pluteo del tempo di Gregorio iii, 731-741. Grotte vaticane (da Russo 1985).

32. Stratigrafia dell’altare dell’Apostolo (da Apollonj Ghetti 1951).

31. Foto di scavo della fronte del podio con impronta di un pluteo di Gregorio iii reimpiegato a rovescio (da Apolloni Ghetti, Ferrua, Josi, Kirschbaum 1951).

Altare di Clemente vii

Fenestella confessionis nell’altare del secolo vi-vii

Arco di accesso alla confessione scoperta

Altare di Callisto ii

Pilastrini cosmateschi Muro costantiniano Parete graffita Pavimento della basilica costantiniana Base di pavonazzetto del monumento costantiniano

Altare della confessione

Pavimento della basilica costantiniana

Pavimento della cripta semianulare

Pavimento cappella clementina

sono da intendere secondo il punto di vista di chi guarda verso la navata. Il redattore inoltre, indicando esattamente l’ubicazione delle nuove colonne vitinee (tra presbyterium e confessione e a ridosso della prima pergola), mette in risalto l’arditezza dell’operazione. Tecnicamente si trattava infatti di una movimentazione complessa che, a causa dello stretto spazio di manovra e delle dimensioni delle colonne (alte circa 4,75 m), aveva certo richiesto cautela e precisione152. Il presbyterium che si nomina qui non ha dunque nulla a che fare con l’area dell’altare nell’emiciclo dell’abside, come si aspetterebbe un lettore moderno153. Pare evidente – e non solo perché ci è nota la collocazione delle colonne vitinee – che l’area «riservata al clero» qui menzionata si estendesse ai piedi del podio e oltre la pergula in direzione della navata. Pertanto, secondo le intenzioni del redattore, la parola presbyterium designava il recinto presbiteriale dove, durante le funzioni liturgiche, prendevano posto i cantores e il basso clero. A S. Pietro tale recinto si inoltrava dal transetto nella navata forse inglobando sul lato meridionale l’ambone per il canto del Vangelo costruito ai tempi di Pelagio ii (Pianta H nn. 29 e 32)154.

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Spesso si è richiamata l’attenzione sull’impegno speso da Gregorio iii per dare alla basilica vaticana un’efficiente organizzazione liturgica; a questo papa dobbiamo infatti il più antico documento pervenuto che regolava l’ufficio quotidiano ad confessionem155 e alcuni frammenti di plutei per recinzioni con il motivo di palme dattirifere entro arcate che, per caratteristiche formali ed esecutive, sono tra i primi esempi di scultura schiettamente altomedievale individuabili a Roma. È plausibile che questi fossero i plutei del presbyterium nominato dal biografo del papa, frutto di un riassetto complessivo dell’arredo liturgico ereditato da Pelagio ii e Gregorio Magno156. Un importante dato archeologico è inoltre legato a questo gruppo di marmi: l’impronta di una lastra con palme entro arcate (del tutto simile ma non identica ai pezzi pervenuti) è stata documentata durante le esplorazioni archeologiche del secolo scorso nel segmento m-n del muro di contenimento del podio presbiteriale157. L’impronta nella malta prova la rimessa in opera a rovescio del pluteo in occasione di un ampliamento dell’area del podio realizzato verosimilmente nell’anno 800 da papa Leone iii (795-816). In questa occasione vennero modificati gli accessi al podio eliminando le rampe sulla fronte e

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costruendo delle scale perpendicolari all’asse della confessione. È in effetti documentato che, alla vigilia dell’incoronazione di Carlo Magno, Leone iii intervenne nell’area del podio e in quella antistante la fenestella confessionis con una straordinaria profusione di porfido e di metalli preziosi e, nell’area oltre la pergola, rinnovando il recinto presbiteriale con nuovi plutei dalla composizione spaziata ed elegante158. L’assetto raggiunto tra i pontificati di Pelagio ii/Gregorio Magno e di Leone iii nella disposizione del podio (altare con ciborio, cattedra e subsellia), della pergula e del recinto presbiteriale (con l’ambone), salvo alcuni interventi di aggiornamento stilistico degli arredi, si sarebbe conservato pressoché inalterato lungo tutto il Medioevo159. Tra questi interventi fu di rilievo quello promosso da papa Callisto ii (1119-1124). Egli rivestì con nuove lastre di pavonazzetto l’altare dell’Apostolo che, privato delle preziose coperture metalliche altomedievali, appariva a tal punto malconcio «da indurre il pensiero che fosse stato violato»160. Di dimensioni appena più grandi dell’altare gregoriano, esso rimaneva inquadrato tra le colonne porfiretiche del ciborio altomedievale, dotato in quell’occasione di cancelli metallici161.

La notizia, annotata dal biografo di Callisto, di un non meglio precisato rifacimento di pavimenti nella basilica potrebbe forse alludere alla messa in opera delle quattro rotae di granito grigio viste da Grimaldi tra l’altare e la cattedra (Pianta H n. 25)162. Se così fosse, avrebbe senso ascrivere a questo papa anche l’ammodernamento della cattedra che, seppur tardivamente, viene descritta come un trono su sei gradini ornato con tavole di porfido e appoggi laterali a forma di protomi leonine163. Si configurerebbe così un intervento complessivo nell’area del podio absidale di S. Pietro (alto coro) consono alle ideali prerogative del papa che aveva siglato il concordato di Worms (1122)164. D’altro canto, l’iniziativa callistina non pregiudica la possibilità che, entro il 1216 e dopo il restauro del mosaico del catino absidale, papa Innocenzo iii avesse nuovamente messo mano all’arredo liturgico della basilica, conferendo al trono papale il caratteristico coronamento cuspidato (ispirato al cimelio della cathedra Petri) che da allora in poi avrebbe rappresentato simbolicamente la «pienezza del potere» del romano pontefice165. Lo stesso titulus innocenziano che si leggeva in calce alla figurazione musiva dell’abside esaltava la «sede» di Pietro

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

33. Il mosaico absidale di S. Pietro prima della sua distruzione nella pergamena sottoscritta dal notaio Quintiliano Gargario, 1592. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 50.

«madre di tutte le chiese», indicando nel pontefice il «sacerdote del tempio» che avrebbe colto «i fiori della virtù e i frutti della salvezza»166.

Del mosaico absidale e di altre pitture

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Da un punto di vista iconografico il mosaico absidale innocenziano è ben documentato dalla descrizione illustrata e autenticata da un notaio capitolino prima che l’abside venisse abbattuta (1592)167. Dell’antico tessuto musivo sono pervenuti solo tre frammenti dal fascione absidale (i busti di Innocenzo iii e dell’Ecclesia Romana e la Fenice), mentre nulla è rimasto della teofania del catino che rappresentava la Maiestas Domini tra Paolo e Pietro168.

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Non abbiamo dunque alcuna traccia materiale per accertare se l’intervento di restauro di papa Innocenzo iii si fosse limitato a un rifacimento del solo registro inferiore del mosaico e del relativo titulus oppure (e in che misura) si fosse esteso all’intera decorazione169. Al pari della teofania apocalittica aggiornata di lì a poco da Gregorio ix sulla facciata della basilica, anche il catino absidale innocenziano mostrava degli arcaismi e una singolare aderenza al più antico impianto iconografico che, per via indiretta, conosciamo come una Traditio legis (cfr. la cosiddetta lastrina di Anagni, 390 ca. e la capsella eburnea di Samagher del v secolo)170. Si badi che, prima di Innocenzo iii, il Liber Pontificalis menziona un solo intervento conservativo sul mosaico e lo riferisce a papa Severino (640). A tale proposito, il biografo

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34. Ritratto di papa Innocenzo iii dal mosaico absidale dell’antico S. Pietro. Roma, Museo di Roma.

36. La Fenice dal mosaico absidale dell’antico S. Pietro. Roma, Museo di Roma.

35. L’Ecclesia Romana dal mosaico absidale dell’antico S. Pietro. Roma, Museo di Roma.

37. Anagni, lastrina incisa con Traditio legis dal cimitero dei Giordani.

di questo papa si esprime in termini piuttosto impegnativi, poiché afferma che Severino «rinnovò l’abside di mosaico del beato apostolo Pietro perché era rovinata»171. Chi conosce i fatti che funestarono il brevissimo pontificato di questo papa (due mesi di regno effettivi) stenta a credere che Severino si fosse sobbarcato un’impresa decorativa così onerosa dopo il drammatico saccheggio del tesoro del Laterano perpetrato dai bizantini dopo la morte di Onorio i (625-638)172. In effetti la relazione storica che occupa, quasi per intero, la vita di Severino non è che un supplemento post mortem della biografia del suo predecessore. Riterrei pertanto di ascrivere il rinnovamento del mosaico absidale di S. Pietro agli anni conclusivi del pontificato di papa Onorio, che forse morì prima di vedere terminata la sua opera. L’intervento sulla decorazione dell’abside della basi-

lica da parte di questo papa pare coerente con il grandioso restauro delle coperture della basilica e con il rivestimento prezioso della porta Argentea che si devono al suo patronato (v. sopra). Peraltro proprio nelle iscrizioni della porta Argentea si coglie un’allusione – a questo punto non generica – ai soffitti dorati e alla decorazione musiva dell’aula173. Come ovvio, è impossibile stimare se il rinnovamento del mosaico promosso da Onorio i avesse comportato un aggiornamento iconografico; parrebbe di no, se il titulus del fascione absidale, della seconda metà del iv secolo, venne citato tal quale in una lettera di Adriano i a Carlo Magno174. È certo invece che al tempo di Innocenzo iii, nel fuoco dell’abside, al posto dell’immagine del Cristo trionfante della Traditio vi fosse il Salvatore assiso sul trono da cui sgorgavano i quattro fiumi paradisiaci.

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

38. Domenico Tasselli da Lugo, Il ciborio dell’oratorio funebre di Bonifacio viii. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 24.

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Se resta materialmente imponderabile a chi si debba questa sostituzione, è certo che la riorganizzazione di nuovi elementi iconografici in un tessuto ereditato dalla tradizione più antica fissasse per sempre in un palinsesto figurativo la concezione ecclesiologica e dell’autorità pontificia di Innocenzo iii. In particolare, l’inserzione al centro del fascione absidale del ritratto del pontefice e della personificazione della Ecclesia Romana rompeva la convenzione, consolidata nelle teofanie absidali, che ammetteva il committente al cospetto della divinità solo in una posizione marginale175. La postazione guadagnata da Innocenzo iii nel fuoco compositivo intendeva dunque manifestare visivamente l’ideologia teocratica del pontefice-vicarius Christi che, con phrygium e pallio, si attribuiva non solo il simbolo cristologico della Fenice, ma anche la mistica relazione nuziale con la Ecclesia Romana che incedeva verso di lui con il vessillo petrino176. Più incerte sono le notizie sul ciclo a mosaico che ornava le pareti del braccio settentrionale del transetto, ciclo del quale si scorgono vaghissime tracce in un disegno di Heemskerck (Stoccolma, Museo Nazionale; Coll. Anckarsvärd 637). Quel che ne restava e che Grimaldi vide in gioventù era ormai pressoché illeggibile a causa del dilavamento dei ruderi del transetto rimasti esposti per quasi un secolo alle intemperie. Non è nemmeno chiaro se Grimaldi avesse personalmente riconosciuto il soggetto della decorazione – «numerose storie di Pietro a mosaico» – o se semplicemente avesse riferito quel che aveva letto in Maffeo Vegio177. Quanto ai vasti cicli pittorici vetero e neotestamentari della navata centrale, Grimaldi aveva memoria solo delle scene parzialmente conservate nel settore orientale dell’aula fino al «muro divisorio» di Paolo iii178. Il chierico ricorda come, sopra i magnifici architravi dei colonnati, si impostassero le altissime pareti della navata ornate da pitture murali, e come più in alto, tra le finestre del cleristorio, fossero dipinte figure di santi e di profeti. Le pitture parietali, ormai gravemente frammentarie, in origine dovevano comprendere 46 quadri per ciascun ciclo ordinati in un doppio registro entro cornici architettoniche a stucco. Le sequenze narrative avevano il loro attacco in corripondenza dell’arco trionfale e procedevano in direzione della controfacciata. Le scene veterotestamentarie (dalla Creazione all’Esodo) si disponevano lungo la parete settentrionale che, al tempo della documentazione grafica di Tasselli (1605), era la meglio conservata; le scene neotestamentarie occupavano invece la parete meridionale, le cui precarie condizioni statiche avevano gravemente compromesso la conservazione

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degli intonaci dipinti. La disposizione delle scene su questo lato presentava inoltre una particolarità: in corrispondenza del sesto intercolunnio, la sequenza delle pitture su doppio registro era interrotta dallo sviluppo di una grande crocifissione che occupava la superficie di quattro quadri179. Nell’annotare il soggetto iconografico delle scene ancora riconoscibili, Grimaldi ricorse a frasi lapidarie (Animalia ingredientur in arcam... Abraham tre vidit et unum adoravit, ecc.) che inducono a ritenere che egli avesse letto delle iscrizioni pictae a corredo delle immagini180. L’ipotesi è plausibile quando si pensi che sopra la grande trabeazione dei colonnati correva un ballatoio agibile che avrebbe permesso al chierico un’osservazione ravvicinata delle antiche pitture. Forse a questa ricognizione autoscopica dobbiamo il maggiore dettaglio degli acquerelli di Grimaldi che integrano i prospetti dei cicli iconografici della navata documentati da Domenico Tasselli. L’originaria invenzione iconografica di queste pitture che, insieme con quelle della navata della basilica di S. Paolo, ispirarono importanti cicli decorativi realizzati tra i secoli xi e xiii, è fissata all’altezza cronologica del pontificato di Leone Magno (440-461), come suggeriscono la peculiare mise en page delle scene entro cornici di stucco e alcuni arcaismi iconografici documentati negli acquerelli seicenteschi181. Tuttavia, anche in questo caso, le pitture che sopravvissero fino ai primi anni del xvii secolo erano l’esito di restauri e di vaste ridipinture delle quali abbiamo traccia nelle fonti182. In particolare a papa Nicolò iii si deve il raddoppio dell’antica teoria dei ritratti papali clipeati che, a S. Pietro come a S. Paolo, dalla metà del v secolo si disponevano in fila sopra il colonnato183. I clipei aggiunti al tempo di Niccolò iii erano dipinti sulla parete di navata alla base del primo ordine di scene narrative e si estendevano, in parallelo con la teoria più antica, anche nella parete della controfacciata. La serie originaria dei papi occupava invece il piano liscio della trabeazione del colonnato e, a differenza della serie duecentesca, era eseguita a mosaico: lo suggerisce indirettamente Grimaldi che parla di uno zophoro musiveo e anche il buon senso che sconsiglierebbe la stesura di una pittura murale su una superficie di marmo184. Né va trascurato, per l’interesse squisitamente architettonico, il fatto che, anche nella controfacciata, i clipei papali a mosaico ornassero un segmento di trabeazione di spoglio murato nella parete in continuum con le trabeazioni del colonnato185. La stima approssimativa della superfice liscia delle trabeazioni (h. oltre 90 cm) e del rapporto proporzionale tra i racemi e i clipei del fregio che si riscontra negli acquerelli di Tas-

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selli permette di avere un’idea delle dimensioni dei ritratti papali a mosaico dei colonnati di S. Pietro, che dovevano equiparare il diametro dei clipei della basilica Ostiense186. Quanto al resto della decorazione della controfacciata, essa, all’altezza del cleristorio di navata, presentava tra le finestre le immagini dei quattro evangelisti e nel registro superiore quattro figure di santi, tra i quali Vasari riconobbe gli apostoli Pietro e Paolo. Inginocchiato a lato di un santo (Pietro?), che affiancava da destra la finestra mediana, c’era la figura genuflessa di un papa. Infine, in asse con il rosone del timpano, un’immagine clipeta di Cristo, con il globo nella sinistra e benedicente, interrompeva il marcapiano prospettico e la cornice della finestra sottostante. Questa decorazione, che Grimaldi attribuisce alla committenza di papa Gregorio ix, secondo Lorenzo Ghiberti e Giorgio Vasari era invece più tarda e opera di Pietro Cavallini, con figure «di bonissimo fresco» (Vasari) e «... di grandissima forma, molto maggiore che el naturale; ed due... molto ecellentemente fatte e di grandissimo rilievo» (Ghiberti)187. Nella stessa controfacciata della basilica, ma a un altro protagonista della pittura a Roma di fine Duecento, si doveva invece il mosaico del sacello funebre di Bonifacio viii eretto, nel 1296, accanto alla porta Ravenniana (Pianta n. 62)188. La descrizione del monumento di Grimaldi letta a commento del disegno di Tasselli ha fornito molti elementi per ricostruire l’aspetto del sacello di papa Caetani189. L’arca di

Bonifacio viii era alta da terra 10 palmi, in modo tale che il sacerdote, celebrando sull’altare (dedicato all’eponimo san Bonifacio), levando lo sguardo, mirasse il sepolcro del pontefice. Grimaldi attribuisce l’architettura del sacello ad Arnolfo di Cambio cuius nomen inibi incisum erat e il mosaico a Iacopo Torriti. È probabile che l’epigrafe della quale il chierico aveva memoria non fosse più in situ al momento della ricognizione del sepolcro. Essa tuttavia è pervenuta attraverso una silloge della fine del xvi secolo ed è stata pubblicata da Giovanni Battista de Rossi190. L’arca fingeva un letto funebre drappeggiato con stoffa damascata con l’arme dei Caetani, la quale era replicata anche in una serie di stemmi posti nel bordo inferiore del sarcofago. Il giacente portava la tiara ornata del regnum e aveva il volto incorniciato dalle infulae. Il fondo della nicchia era rivestito da una cortina trattenuta da accoliti dei quali nel disegno è appena distinguibile il profilo scorciato alle estremità destra e sinistra del giacente. Sormontava il letto funebre del pontefice il mosaico di Torriti191. L’immagine rappresentava Bonifacio viii, con le chiavi petrine e con il capo coperto dal triregno, genuflesso davanti alla Vergine e il bambino e introdotto in arce coeli da san Pietro e da san Paolo. Le lettere abbreviate ai lati dell’immagine della Vergine la identificavano come la Madre di Dio, mentre il sottostante emblema del trono con la croce gemmata aggiornava il trono simbolico alla tipologia della cattedra pontificale cuspidata di Innocenzo iii. Quanto all’aspetto del ciborio, Grimaldi lo descrive cuspidatum Germanici opere e marmore e poco oltre musiveis lapidibus minutis mira diligentia elaboratum restituendo a parole l’impronta “modernamente” gotica che conosciamo dai cibori arnolfiani di S. Paolo fuori le mura e di S. Cecilia in Trastevere. Tiberio Alfarano informa invece che fino al 1574 il sacello era circondato da inferriate che, in vista del Giubileo, durante i restauri straordinari promossi da Gregorio xiii, furono prima ridotte e poi levate. L’inferriata palesa come gli oratori che nel corso del Medioevo si moltiplicarono in seno alla basilica fossero custoditi come spazi riservati e forse privati192. Un ultimo dettaglio: al tempo di Grimaldi sulla parete a destra del sacello c’era un ritratto a rilievo di papa Bonifacio viii: un busto di sicura autografia arnolfiana la cui originaria pertinenza al sacello è tuttavia discussa193. È stato osservato come esso non solo sia il primo ritratto scultoreo di un papa vivente posto in una chiesa, ma anche il primo caso iconografico di un pontefice che benedice con la destra, stringendo le chiavi nella mano sinistra. Bonifacio viii si fece dunque rappresentare intento negli stessi gesti del san Pietro di mar-

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Capitolo secondo

39. Domenico Tasselli da Lugo, L’altare e il monumento funebre di Bonifacio viii. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter f. 25.

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

40. Arnolfo di Cambio, Bonifacio viii benedicente, un tempo nella controfacciata dell’antica basilica, oggi presso il Palazzo Apostolico.

42. Il rinvenimento del corpo di papa Leone i. Roma, Biblioteca Vallicelliana, G. 4, p. 1164.

41. Arnolfo di Cambio, Bonifacio viii giacente dal suo oratorio funebre, un tempo nella controfacciata dell’antica basilica, oggi nelle Grotte vaticane.

mo che, forse per suo volere, dominava il varco di ingresso al nartece della basilica (v. sopra)194.

Oratori e altari secondari 68-69

Già con papa Simmaco, la basilica S. Pietro era avviata a diventare un santuario con un «memoriale» principale dedicato all’Apostolo e un numero di «memoriali» secondari dedicati ad altri santi195. A Simmaco si deve infatti il potenziamento di S. Pietro come polo cultuale e come luogo di importanti funzioni di carattere liturgico. Per meglio comprendere le ragioni di un patronato tanto favorevole alla basilica, occorre ricordare come il mandato di questo papa sia coinciso con un periodo doloroso per la città causato dal cosiddetto «scisma laurenziano». Per molti anni, infatti, il clero e l’aristocrazia restarono divisi da una parte a sostegno di Simmaco e dall’altra del suo antagonista Lorenzo. Nel corso di questo lungo contrasto, la residenza presso S. Pietro divenne per

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Simmaco una necessità indotta, nel 502, dall’occupazione dell’episcopio Lateranense da parte della fazione avversa196. Non fu dunque un caso se, all’interno della basilica, le cure del papa si rivolsero alla valorizzazione del battistero che, almeno dal tempo di Damaso (366-384), occupava l’esedra del braccio settentrionale del transetto (Pianta I). Verosimilmente nell’area circostante al Fonte furono consacrati gli oratori di san Giovanni Evangelista e di san Giovanni Battista mentre, a ridosso della parete occidentale del transetto, un terzo oratorio fu dedicato al culto della Croce (Pianta nn. 33-37)197. L’assetto topografico dei tre altari, che richiama manifestamente quello del battistero al Laterano, adeguava il Fonte battesimale di S. Pietro alla solenne som-

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ministrazione collettiva del sacramento che si effettuava a Pasqua e a Pentecoste e che, in quegli anni, Simmaco era impedito a celebrare presso l’episcopio Lateranense198. Sempre a questo papa si deve la consacrazione al culto di sant’Andrea (il fratello di Pietro) del più orientale dei due mausolei imperiali che affiancavano a sud la basilica. Le nicchie interne alla rotonda accolsero altari secondari consacrati al culto di numerosi martiri (Pianta K nn. 70-76)199. Questa iniziativa fu d’incentivo a un altro fenomeno destinato a svilupparsi nei secoli a venire, ovvero il progressivo ampliamento della Memorialkirkenfamilie che gravitava attorno al santuario di Pietro200. Tra il pontificato di Stefano ii e di Paolo i anche il secondo mausoleo imperiale adiacente alla basilica fu consacrato traslandovi le spoglie di Petronilla, la leggendaria figlia di san Pietro (Pianta L nn. 79-84)201. In tal modo la rotonda di S. Andrea e la nuova chiesa di S. Petronilla amplificavano e diversificavano il culto primario della basilica dell’Apostolo. Quanto agli spazi liturgici secondari interni all’aula costantiniana, essi iniziarono a moltiplicarsi dando seguito alla vocazione funeraria e pontificale della basilica. Purtroppo mancano informazioni circostanziate sull’effettiva accessibilità di questi sacelli alla comunità dei fedeli o ai pellegrini202. È certo però che, nella vastità dell’aula costantiniana, oratori e altari secondari con la loro varia morfologia di spazi chiusi (da veri e propri muri) o semichiusi (col sussidio di recinzioni, inferriate, pergole e cibori) rispettassero la rigida separazione tra laici e religiosi e tra uomini e donne che vigeva all’interno dell’edificio di culto. Come ha osservato Judson J. Emerick, proprio i dispositivi di arredo garantivano al clero uno stretto controllo del culto e al sacerdote un ruolo primario di mediatore tra il fedele e Dio «or rather, between them (the faithful) and the saints who sponsored them in God’s heavenly court»203. Il fenomeno degli altari secondari in S. Pietro trovò inoltre impulso nel nuovo atteggiamento assunto dalla Chiesa di Roma nei confronti del culto delle reliquie. Tra la metà del vii e l’viii secolo, infatti, venne meno il principio dell’intangibilità dei sepolcri martiriali e fu inaugurata la pratica delle traslazioni che, secondo il parere di alcuni studiosi, fu agevolata in quegli anni dalla presenza ai vertici della Chiesa di papi «quasi tutti di origine siro-greca»204. A tale proposito papa Sergio i (687-701), natione syrus, compì una traslazione a tutti gli effetti quando trasferì il corpo del «beato» Leone Magno dalla sacrestia di S. Pietro all’interno dell’aula, fondando nel braccio meridionale del transetto uno dei sacelli papali più longevi della basilica (Pianta n. 38)205. In questa parte del transetto, così prossima alla tomba di

Pietro, trovarono posto altri oratori papali, tra questi il sacello di S. Maria (Paolo i, 757-767); di S. Adriano (Adriano i, 772-795); dei SS. Processo e Martiniano (Pasquale i, 817824) e dei SS. Sisto e Fabiano (fondato da Pasquale i, ma utilizzato da Sergio ii, 844-847) (Pianta nn. 43-46). La navata meridionale – la cosiddetta porticus Pontificum – accolse sepolture illustri e sante come quella di Gregorio Magno, le cui spoglie furono traslate dal nartece per iniziativa del suo eponimo Gregorio iv (827-844) (Pianta n. 47). Allo scopo fu creato un sacello che, estendendosi dalla controfacciata ai primi cinque intercolunni interni, permise l’allestimento di ben tre altari206. Ornati di marmi, di mosaici e di metalli preziosi, questi sacelli funebri apparivano come altari schermati da pergole o coperti da cibori monumentali, oppure delimitati da recinti e con un’abside scavata nello spessore dei muri della basilica. Con la loro dedicazione, i pontefici chiedevano per sé il patrocinio dei santi, mentre le reliquie deposte negli altari, assicurando suffragi duraturi, introducevano nella basilica nuovi culti207. È a Giovanni vii (705-707) e al suo oratorio che si deve un’introduzione solenne e quasi trionfale del culto alla Ver-

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

43. Domenico Tasselli da Lugo, La navata di «S. Andrea», ovvero il primo tratto della navatella meridionale. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 21.

gine all’interno della basilica. A S. Pietro la devozione alla Madre di Dio (Theotokos/Deipara) nel corso del Medioevo crebbe straordinariamente: è sufficiente enumerare le immagini della Vergine traslate dalla basilica vecchia alla nuova per avere un’idea, sia pure per frammenti, dell’intensità e della diffusione del culto mariano nella basilica Vaticana208. Giovanni vii fu anche il primo papa che scelse deliberatamente di farsi seppellire all’interno di S. Pietro eleggendo, per l’allestimento del suo oratorio, il tratto iniziale dell’estrema navata settentrionale della basilica (Pianta n. 39)209. Del sacello consacrato alla Madre di Dio (Theotokos), notissimo per i cicli musivi che lo decoravano, è stata proposta di recente una ricostruzione architettonica basata sulla documentazione seicentesca, sui frammenti superstiti della decorazione scultorea (comprensivi di spolia di età severia-

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44. Domenico Tasselli da Lugo, La navata del «Volto Santo», ovvero il primo tratto della navatella settentrionale. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 20.

na e di una coppia di colonne vitinee); su alcune iscrizioni frammentarie o note dalle fonti, infine sul testo dell’epitaffio del pontefice tramandato da un’antica silloge210. La ricostruzione tridimensionale digitale del monumento offre un esempio delle soluzioni architettoniche che potevano originare dalla «frammentazione liturgica» di un’immensa basilica ereditata dall’antichità. Il sacello, lungo circa 12,20 m e largo circa 8,70 m, era delimitato a sud dal tamponamento dei primi tre intercolunni della navata con muri alti circa 3,20 m e a occidente da una parete di prospetto nella quale si apriva la porta di accesso. Sopra l’ingresso, una tabula ansata scolpita a grandi caratteri palesava «all’antica» di chi fosse l’oratorio funebre: «di Giovanni servo della Santa Maria»211. All’interno i muri erano rivestiti di crustae marmoree alternate a lesene con tralcio abitato di età severiana, imitate

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da altre lastre scolpite ad hoc nelle officine di Giovanni vii. L’altare, dedicato alla Theotokos, era addossato alla parete orientale e cioè alla controfacciata della basilica. Di esso resta un frammento nelle Grotte che, ai suoi tempi, Grimaldi ricordava ancora affisso a una parete dell’oratorio. Di pavonazzetto e su due lati finemente modanato, il frammento reca un’iscrizione dell’anno 783, aggiunta probabilmente a lato della fenestella confessionis dell’altare in occasione di una ricognizione delle reliquie della Vergine in esso contenute. L’epigrafe nomina Maria secondo un epiteto veterotestamentario che, nell’innografia bizantina, definisce colei che ha portato in grembo il Salvatore «Tempio di Dio» e «Santo dei Santi»212. Al di sopra dell’altare, un archivolto era retto da una coppia di colonne vitinee simili a quelle dell’altare dell’Apostolo. Sopra l’edicola monumentale e fino alle capriate del

tetto (cioè fino alla quota di 13,83 m) si estendeva su tre registri la decorazione musiva che ripercorreva la storia della salvezza dall’Annunciazione fino alla morte e alla resurrezione di Cristo213. Fuoco del ciclo figurativo era una nicchia ricavata nello spessore della controfacciata che, tra una coppia di colonne di marmo nero, accoglieva l’icona musiva della Theotokos e il ritratto del papa donatore. Sulla parola di Grimaldi, sappiamo che l’icona della Vergine, una Blachernitissa regina con il grembo arrotondato di una donna in attesa, veniva ritualmente nascosta da cortine. Collazionando i disegni di Grimaldi, conoscendo le misure delle colonne vitinee e dell’immagine della Theotokos (tuttora esistenti) e tenendo conto delle dimensioni della Porta Santa, aperta in età moderna in corrispondenza dell’antico altare, ricaviamo una serie di rapporti dimen-

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Capitolo secondo

45. Giacomo Grimaldi, I mosaici dell’oratorio di Giovanni vii con la nicchia della Theotokos. Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2732, ff. 76-77.

sionali che permettono di valutare meglio l’impatto visivo degli apparati decorativi. La quota ragguardevole dei mosaici, posti a oltre 8 m dal pavimento, si spiega volendo assicurare la visibilità del ciclo musivo (e in particolare della Theotokos) da un punto di vista che coincideva con la tomba di Giovanni vii. Essa era una sepoltura a tumulo posta a una certa distanza dall’altare e segnalata dall’epitaffio del pontefice che, in distici elegiaci, esprimeva la devozione di Giovanni in una lingua intessuta di occorrenze virgiliane, ma anche di rinvii all’Akathistos, il più celebre inno bizantino dedicato alla Madre di Dio. Eccone i primi quattro versi: «Qui il presule Giovanni stabilì di essere sepolto e prescrisse di essere deposto sotto i piedi della domina, affidando l’anima alla protezione della santa Madre che come Vergine, non sposata, ha partorito generando Dio»214. Il ruolo tutelare di Maria evocato nell’epitaffio (sub tegmine matris) spiega la scelta del pontefice di farsi tumulare ai piedi dell’altare che doveva custodire una reliquia prestigiosa, forse un frammento del veneratissimo Maphorion, il velo della Vergine. Un deposito del genere chiarirebbe anche l’iscrizione che a mosaico si leggeva lungo l’archivolto sostenuto dalle colonne vitinee Domus Sanctae Dei Genitricis Mariae, che

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La basilica di S. Pietro nel Medioevo

46. La Theotokos dall’oratorio di Giovanni vii, dopo il restauro. Firenze, Chiesa di San Marco (foto Opificio delle Pietre Dure).

48. L’iscrizione di Giovanni vii dal suo oratorio funebre. Grotte vaticane.

47. L’oratorio di Giovanni vii. Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2733, ff. 94v-95r.

49. Lesena di viii secolo, già in opera nell’oratorio di Giovanni vii. Grotte vaticane.

già Carlo Bertelli ha messo in relazione con l’oikos costantinopolitano eretto, alla metà del v secolo, alle Blacherne per custodire il velo della Vergine215. Alcune suggestive analogie con il sacello di Giovanni vii sembra tradire un altro antico oratorio mariano: quello edificato da Gregorio iii presso il pilastro meridionale dell’arco trionfale (Pianta n. 40)216. Dalla sua fondazione, il sacello avrebbe sempre assolto una funzione importante nella ba-

silica. Il suo prestigio si accrebbe nel tempo, accogliendo diverse sepolture papali e divenendo, almeno dalla metà del xii secolo, il coro del capitolo dei canonici. Sempre in questo sacello, secondo un’ipotesi di Kempers e di De Blaauw, sul finire del Duecento, avrebbe trovato posto come ancona d’altare il polittico Stefaneschi217. Fondandolo, Gregorio iii dedicò l’oratorio al Salvatore, alla Madre di Dio e a tutti i santi, ma dopo la sua morte le fonti lo ricordano dedicato semplicemente a Maria218. Purtroppo pochi sono gli indizi di cui disponiamo per ricostruirne l’aspetto. La vicenda plurisecolare dell’oratorio è inoltre complessa e stratificata e seguirla fino al suo smantellamento, avvenuto nel 1507, richiede una lettura attenta delle fonti sia medievali sia di età moderna219. Tuttavia un’idea di come fosse organizzato lo spazio liturgico dell’oratorio, al tempo della sua fondazione, la si può ricavare dal Liber Pontificalis. Il biografo menziona infatti una pergula davanti all’altare con confessione, lampade e suppellettili ed enumera gli ornamenta che il papa aveva offerto all’immagine della Madre di Dio. Dunque l’immagine della Vergine non era stata fatta realizzare dal papa, che si era limitato a

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Pagina seguente: 50. Le colonne vitinee un tempo presso l’altare di Giovanni vii (705-707) e oggi nella cappella del Ss. Sacramento della basilica nuova.

trasformarla in una Maria Regina donandole una parure di veri gioielli: lo stephanos, gli orecchini e il maniakion con gli amandilia, ovvero gli ornamenti regali esibiti, per fare un esempio, dalla Madonna della Clemenza venerata in S. Maria in Trastevere220. Ma dov’era dipinta l’icona venerata? Tra le lampade donate al sacello da Gregorio ce n’era una destinata ad essere appesa nell’«abside»221. Il significato devozionale della lampada permette di ritenere che l’immagine della Madre di Dio si trovasse lì e l’adiacenza dell’oratorio all’arco trionfale non lascia margini di scelta per ubicare la nicchia dell’icona. Essa doveva trovarsi ab antiquo in corrispondenza del grande pilastro dell’arco trionfale. Per quanto tarda, vale la pena ricordare la testimonianza del canonico Maffeo Vegio (ca. 1452), il quale menziona «nella parete dell’oratorio un’immagine dipinta della Vergine con il Bambino tra le braccia». Non è chiaro se Vegio avesse visto con i suoi occhi l’immagine e se essa fosse la stessa venerata al tempo di Gregorio iii, tuttavia un altro documento, in questo caso figurativo, sembra dare credito alle sue parole.

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Capitolo secondo

La basilica di S. Pietro nel Medioevo

51. Giotto e aiuti, Polittico Stefaneschi, particolare (Tavola con san Pietro), 1320 ca. Musei Vaticani, Pinacoteca. 52. Iniziale istoriata, Edicola con Madonna e il Bambino. Museo Sacro della basilica Vaticana, Cappella Giulia xiv.5, Antifonario, f. 150r, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Si tratta di un’iniziale istoriata di un antifonario tardoduecentesco ad uso dei canonici di S. Pietro che segna l’incipit della domenica delle calende di agosto. Essa rappresenta, dentro a una nicchia e su uno sfondo d’oro, la Vergine a piena figura con in braccio il Bambino. Tra le immagini superstiti dell’Antifonario, questa è l’unica per la quale venga impiegata la foglia d’oro a denotare l’importanza del soggetto e forse il suo peculiare status di icona. Inoltre, come rileva con finezza Francesca Manzari, la fisionomia del Bambino in braccio a Maria sembra tradire nell’aspetto «di Cristo adulto in piccole dimensioni» un possibile modello antico, seppur mediato da immagini intermedie222. Si è detto come l’oratorio fondato da Gregorio iii fosse diventato nel corso del Medioevo il coro del Capitolo; pare dunque plausibile che l’immagine della Madre di Dio nella nicchia, da secoli venerata nel sacello, tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 del xiii secolo (secondo la cronologia dell’Antifonario proposta dalla Manzari) fosse stata riprodotta nel codice musicale ad uso dei canonici.

A Roma nell’alto Medioevo la soluzione di un arco (o di un fastigio) sostenuto da colonne e addossato a una parete per onorare un’immagine venerata non era inusuale. Un caso particolarmente interessante che risale ai primi anni dell’viii secolo è segnalato da Bauer nella parete sud del cosiddetto presbiterio di S. Maria Antiqua, dove attorno a un’immagine della Vergine era stata creata un’edicola con queste caratteristiche223. Come si è visto, nella basilica di S. Pietro il precedente più monumentale era offerto dall’oratorio della Theotokos di Giovanni vii. Il fatto poi che questo papa si fosse fatto seppellire ai piedi della Vergine (sub pedibus dominae), cioè idealmente sotto lo sguardo della Theotokos, non doveva essere passato inosservato a Gregorio iii. Se infatti coglie nel segno Sible de Blaauw, secondo il quale Gregorio si era fatto tumulare ai piedi del pilastro meridionale dell’arcus maior (lato est), anche questo papa aveva scelto di riposare sotto lo sguardo della Theotokos qui effigiata224.

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Capitolo secondo

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53. Domenico Tasselli da Lugo, Il ciborio del Volto Santo. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 30.

55. Hans Burgkmair, Pietro in abiti pontificali e sullo sfondo la basilica con la Porta Santa aperta, 1501. Augsburg, Staatsgalerie Altdeutsche Meister.

54. Ugo da Carpi, Veronica mostra il sudario del Santo Volto tra gli apostoli Pietro e Paolo, 1525 ca. Fabbrica di S. Pietro.

Dal Volto Santo alla Porta Santa

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Già al tempo di Pietro Mallio (1160 ca.), l’epitaffio di Giovanni vii non era più visibile nel suo oratorio funebre. Lo stesso Grimaldi, descrivendo il pavimento del sacello, ricorda marmi bianchi, una rota di porfido e tavole di serpentino verde, dando l’impressione di aver avuto sotto gli occhi un piancito medievale rifatto, forse, quando nell’oratorio si costruì un secondo altare dedicato al «Volto Santo» (Pianta nn. 39 e 63). È con l’arrivo del misterioso Sudario che inizia infatti la seconda fase di vita dell’oratorio della Theotokos225. La «Veronica» si palesa in basilica intorno alla fine del x secolo, ma il suo culto a S. Pietro si intensifica nel corso del xii. Al principio del Duecento, nel sacello della Theotokos viene aggiunta una nuova decorazione musiva (un ciclo petrino), mentre, già da qualche tempo, a metà dell’oratorio sorgeva il ciborio con repositorio sopraelevato su sei colonne per custodire il Sudario226. Un’iscrizione sulle porte di bronzo che blindavano il repositorio era datata al tempo di Celestino iii (1197)227. Ancora una volta dobbiamo a Grimaldi non solo la trascrizione dell’epigrafe, ma anche le misure della porta aenea «alta tre palmi e larga due» che il chierico temeva finisse (come finì!) fusa ad usum Fabricae228. Attraverso i disegni acquerellati, la descrizione di Gri-

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maldi e grazie all’individuazione nelle Grotte Vaticane di alcune colonnine erratiche del monumento, Claussen ha concluso che il «ciborio venne realizzato nel tardo xii secolo, anche se risulta chiaro che la parte inferiore subì degli ammodernamenti durante il Rinascimento»229. Le dieci lampade che illuminavano perennemente il monumento-reliquiario e l’importanza crescente del suo altare nelle processioni interne alla basilica sono sufficienti per ritenere che la particolarità del suo repositorio sopraelevato fosse una risposta architettonica adeguata all’intesa devozione dei pellegrini. Lo prova la longevità del suo modello che in basilica, ancora nel Rinascimento, fu adottato per i cibori che custodivano il capo di sant’Andrea (di Pio ii, 1458-1464) e la reliquia della Sacra Lancia (di Innocenzo viii, 1484-1492)230. Ormai il sudario della Veronica contendeva al sepolcro dell’Apostolo il primato di devozione in basilica e di lì a poco, quel tratto della navata Nord, che nella sua storia millenaria aveva accumulato una formidabile memoria cultuale, sarebbe stato eletto come il luogo dell’apertura del Giubileo e della Porta Santa. Dalla metà del xv secolo, le bolle d’indizione del Giubileo ribadiscono infatti il fondamento cristologico del perdono sotteso all’evento, pertanto la scelta di ubicare la Porta Santa in corrispondenza del ciborio del «volto di Cristo» ebbe un preciso significato231. Fu dunque tra le colonne viti-

nee e al posto dell’altare della Theotokos che, nel corso del xv secolo, venne aperta la Porta del Giubileo. Purtroppo l’esatta cronologia di quest’ultimo intervento architettonico nell’antica basilica non è mai stata accertata con sicurezza. Già ai suoi tempi, Giacomo Grimaldi lamentava di non avere trovato in archivio alcun documento che attribuisse l’iniziativa ai pontefici che egli riteneva più probabili: Niccolo v (1447-1455) e Sisto iv (1471-1484)232. Un indizio suggestivo induce tuttavia a ritenere che sia stato Sisto iv Della Rovere il responsabile dell’iniziativa. Proveniente dall’Ordine francescano, papa Sisto si distinse per una speciale devozione alla Vergine. Egli introdusse a Roma la festa della Concezione (8 settembre) e all’Immacolata consacrò anche una cappella edificata sul fianco meridionale della basilica dove prescrisse di essere inumato. Come Giovanni vii nei primi anni dell’viii secolo, anche Sisto iv diede disposizione di essere sepolto ai piedi dell’altare e in vista dell’abside affrescata da Pietro Perugino con l’immagine della Vergine «in gloria angelica»233. Al tempo di Alfarano, durante la ricognizione dell’altare della cappella di Sisto iv, fu rinvenuto con il deposito delle reliquie anche il loro elenco stilato, nel 1479, in occasione della consacrazione dell’altare. La prima reliquia nominata è un frammento del velo della Vergine: il venerato Maphorion234. Viene dunque da chiedersi se, alla vigilia del Giubileo 1475, Sisto iv, facendo rimuovere l’antico altare dell’oratorio di Giovanni vii per far posto alla Porta Santa, non avesse prelevato di lì la preziosa reliquia per destinarla all’altare della propria cappella funeraria.

Se, come osserva Jacques Le Goff, «il sacro è tenace» e un luogo consacrato conserva la propria aura attraverso ogni tipo di mutamento sociale e culturale, la storia della basilica costantiniana di S. Pietro, proseguita vitalissima nel corso di tutto il Medioevo, conferma la tenuta di un codice antico e di una tradizione di modelli irrinunciabili anche alle soglie del Rinascimento.

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S. PIETRO: UNA STORIA ATTRAVERSO LE IMMAGINI


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Origini

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L’antica necropoli sotto l’autoparco della Città del Vaticano. Accanto ai monumenti di famiglie abbienti si trovano povere sepolture coperte con tegole: una situazione che dobbiamo

presupporre anche per la tomba di Pietro (nell’ambito del Campo P, vedi pp. 82-83). La basilica fu costruita sopra la tomba dell’Apostolo.

Pagine seguenti: Necropoli romana sotto la basilica, veduta dell’iter che la attraversa in senso est-ovest. In primo piano il sepolcro f (vedi pp. 82-83).

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Spaccato della navata maggiore dell’attuale basilica e delle grotte, e alzato e pianta della necropoli romana sottostante: in corrispondenza del Campo P il monumento sepolcrale di Pietro su cui sono collocati gli altari pontifici medievali e moderni (elaboraz. e dis. K. Gärtner).

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Assonometria dell’area circostante al Campo p che mostra il monumento sepolcrale (edicola) di Pietro nell’abside della basilica costantiniana (da Apollonj Ghetti et al.1951). Ricostruzione della memoria della tomba con baldacchino davanti all’abside.

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A fronte: Pianta della basilica con i tratti dei muri originali rilevati dagli scavi (K. Brandenburg da Apollonj Ghetti et al.1951).

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In questa pagina: Spaccato longitudinale della basilica con il mausoleo degli Anicii accanto all’abside (K. Brandenburg).

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Assonometria della basilica costantiniana (K. Brandenburg).

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Veduta della basilica dal lato sinistro rispetto all’ingresso. Sul lato meridionale erano collocati tre monumentali mausolei: il mausoleo degli Anicii, il mausoleo della dinastia teodosiana e S. Andrea (mausoleo severiano) (K. Brandenburg).

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Assonometria del transetto della basilica. In grigio l’indicazione dei mosaici (K. Brandenburg).

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Spaccato della basilica verso ovest (all’altezza dell’abside) con S. Andrea (mausoleo severiano) e obelisco (K. Brandenburg, Überarbeitung und Ergänzung von Biering-Liverani).

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Spaccato della basilica e della necropoli sottostante verso ovest con indicazione del mosaico dell’arco trionfale (in grigio) e dell’abside (in nero). Spaccato del mausoleo severiano (S. Andrea), collocato a fianco all’abside e collegato alla basilica da una scalinata. Il mausoleo era eretto alle spalle

dell’obelisco che Caligola fece portare nel 37 a Roma da Alessandria come ornamento della spina del suo circo. Sottostanti la basilica sono visibili i resti della necropoli. (K. Brandenburg, Überarbeitung und Ergänzung von Biering-Liverani).

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La basilica costantiniana con indicazione del mosaico dell’arco trionfale e del mosaico della facciata (in grigio) (K. Brandenburg).

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Prospettiva dell’interno della basilica con indicazione dei mosaici dell’arco trionfale, dell’arco dell’abside (in grigio chiaro) e dell’abside (in grigio scuro) (K. Brandenburg).

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Medioevo

Domenico Tasselli da Lugo, Atrio e facciata dell’antico S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 10. Davanti alla basilica si trovava un atrio di dimensioni monumentali. Al centro, già dal iv secolo, un cantharus (fontana) utilizzato per le abluzioni prima dell’ingresso.

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Domenico Tasselli da Lugo, Sezione dell’aula dell’antico S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 12.

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Domenico Tasselli da Lugo, Il colonnato settentrionale dall’undicesima colonna fino alla controfacciata; il fregio con i ritratti clipeati dei papi; le pitture dell’Antico Testamento; l’angelo di Giotto e le figure di profeti tra le finestre con i trafori gotici. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 13.

Domenico Tasselli da Lugo, La controfacciata dell’antico S. Pietro con le cinque porte della basilica. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 18.

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Domenico Tasselli da Lugo, Il colonnato meridionale fino all’undicesima colonna con gli altari della Madonna della Colonna e del Ss. Sacramento; il fregio con i ritratti clipeati dei papi; la grande Crocifissione; le perdute pitture del Nuovo Testamento; le finestre con i trafori gotici. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 15.

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Restituzione 3d della parete nord della navata centrale di S. Pietro. La decorazione pittorica è visualizzata sulla base dei disegni acquerellati del codice Barb. lat. 2733 di Giacomo Grimaldi (da Andaloro 2006). Per la forma e le dimensioni dell’arco trionfale e del transetto fanno fede i disegni alle pagine precedenti (84-93).

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Restituzione 3 d della parete sud della navata centrale di S. Pietro. La decorazione pittorica è visualizzata sulla base dei disegni acquerellati del codice Barb. lat. 2733 di Giacomo Grimaldi (da Andaloro 2006).

Pagine seguenti: Scuola di Raffaello, La donazione di Costantino, 1520-1524. Musei Vaticani, Sala di Costantino. In questa opera è riprodotta la basilica nel vi secolo circa, in cui è visibile la trasformazione dell’altare dell’Apostolo, che venne parzialmente smontato e le cui colonne vitinee furono allineate sulla fronte del podio e coronate da una trave.

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Jean Fouquet, L’incoronazione di Carlo Magno in S. Pietro nelle Grandes chroniques de France, 1455-60. Bibliothèque Nationale de France, Fr. 6465, f. 89v. Nella conformazione medievale della basilica sono visibili le rotae che adornavano il pavimento.

Pagine seguenti: Restituzione 3d dell’oratorio funebre di Giovanni vii, 705707 (elaborazione a cura di M. Carpiceci e G. Dibenedetto). Alla destra dell’entrata in basilica (nella ricostruzione di pag. 107) è visibile il quadriportico antistante.

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Maarten van Heemskerck, Veduta di piazza S. Pietro. Vienna, Albertina. L’opera mostra la conformazione della piazza e della costruzione antistante il grande atrio dell’antica basilica in rapporto al Palazzo Vaticano. Sulla sinistra, dietro la facciata, una piccola porzione del nuovo edificio bramantesco all’inizio della sua costruzione.

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Rinascimento e Barocco

Pieter Coecke van Aelst, Veduta della basilica da sud-ovest (dall’abside). Biblioteca Apostolica Vaticana, coll. Ashby 329. Sulla sinistra è visibile il coro di Giulio ii costruito da Bramante. Attraverso le finestre ad arco si riconosce, all’interno, una delle grandi paraste bramantesche dei pilastri della cupola. All’esterno

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l’edificio è suddiviso dalle coppie di paraste sottilissime, sempre bramantesche. Tra i pilastri della cupola è bramantesca anche la cassetonatura dell’arcone trasversale. Visibili ancora, sulla destra, l’antico corpo longitudinale della basilica, l’antico mausoleo di S. Andrea e il campanile medievale.

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Maarten van Heemskerck, Veduta della basilica dal fianco sinistro. Sono ancora presenti l’antico obelisco e il mausoleo di S. Andrea. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben.

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Maarten van Heemskerck, Veduta dell’interno verso il transetto sinistro. Stoccolma, Nationalmuseum. Nel cuore dell’edificio bramantesco (al centro il tegurio sopra la tomba di Pietro) sopravvivono ancora parti del vecchio edificio.

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Maarten van Heemskerck (o seguace?), Veduta dell’interno verso l’abside. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben, ii, 52 recto. L’antico corpo longitudinale è sgomberato. Al centro, il fronte del tegurio di Bramante a copertura della tomba di Pietro.

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Anonimo, veduta della tribuna nord (l’attuale termine del transetto destro) in costruzione. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemsckerck-Alben, ii, 60 verso.

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Maarten van Heemskerck, Veduta dell’esterno verso nord (l’attuale termine del transetto destro). Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben, i, 13 recto. Il disegno inquadra il cantiere dal coro di Giulio ii fino all’antico obelisco e al mausoleo di S. Andrea. Dietro compare ancora l’amalgama tra le parti ancora in piedi dell’antica basilica e il nuovo edificio in costruzione.

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Pagine seguenti: Maarten van Heemskerck, Veduta della basilica di S. Pietro dal fianco sinistro. Berlino, Stiftung Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Berliner Skizzenbücher, ii, 51 recto.

È visibile, sulla destra, l’ingresso del vecchio edificio. Al centro, dopo l’atrio, il corpo longitudinale. In fondo, sulla sinistra, il blocco della nuova basilica di fronte al quale sono ancora visibili l’antico mausoleo di S. Andrea e l’obelisco.

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Etienne Dupérac, Alzato laterale del S. Pietro michelangiolesco, incisione, 1569. Fino al Seicento sopravvive un edificio ibrido: l’antica facciata e l’atrio da un lato, dall’altro le nuove tribune, abside e cupola in costruzione.

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Etienne Dupérac, Pianta del S. Pietro michelangiolesco, incisione, 1569.

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S. Pietro, Tribuna di Michelangelo, incisione V. Lucchini, 1564. Michelangelo imposta le tribune esterne della basilica secondo il modello parasta-nicchia-parasta che recupera l’impostazione bramantesca.

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Giambattista Naldini, Veduta dell’interno verso ovest. Amburgo, Kunsthalle, Kupferstichkabinett, 21311. È visibile il tamburo della cupola in costruzione.

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Anonimo, Veduta dell’esterno da sud-est. Francoforte, Staedelsches Kunstinstitut, 814. Il tamburo è ormai costruito.

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Cerimonia di incoronazione di papa Sisto v Peretti, 1585. Palazzo Apostolico Vaticano, Salone Sistino. Nell’immagine, che mostra il fianco sinistro della basilica, è visibile l’obelisco che verrà lentamente trasportato verso il davanti per volere di papa Sisto v.

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Pagine seguenti: Veduta della Fabbrica nuova e dell’antico S. Pietro al tempo del trasferimento dell’obelisco, 1586. Palazzo Apostolico Vaticano, Biblioteca Sistina, ii sala. Dietro il corpo antistante l’atrio dell’antica basilica incombe il tamburo della cupola.

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Michelangelo, Studio per la cupola. Lille, Musée d’Art et d’Histoire, inv. 93-94.

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Michelangelo, Studio per la cupola. Haarlem, Teylers Museum, inv. a29.

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Modello ligneo del progetto di Michelangelo per la cupola, basilica di S. Pietro, Ottagono di S. Basilio.

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Modello ligneo del progetto di Michelangelo per la cupola, basilica di S. Pietro, Ottagono di S. Basilio.

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A fronte: La cupola con la lanterna, la cui costruzione fu portata a termine da Giacomo della Porta.

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Carlo Maderno, Progetto per S. Pietro. Firenze, 264a. All’inizio del Seicento viene avviata la costruzione del nuovo corpo longitudinale e della facciata. gdsu

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Anonimo, Veduta di S. Pietro in costruzione. WolfenbĂźttel, Herzog-August-Bibliothek, cod. Guelf. Ăˆ visibile la costruzione della nuova facciata progettata da Maderno.

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Giovanni Maggi e Jacopo Mascardi, Veduta del Vaticano, dettaglio, incisione, 1615.

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Due dettagli della costruzione dell’interno raffigurato tramite il grande modello ligneo di Antonio da Sangallo, oggi collocato all’interno dell’Ottagono di S. Girolamo.

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Carlo Gilio, Interno della basilica di S. Pietro, incisione, 1841 ca. Londra, coll. privata.

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Isaac van Swanenburgh (attr.), Processione papale in piazza S. Pietro, olio su tela, 1628. Copenhagen, Staten Museum for Kunst, kms sp 366.

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Di fronte alla nuova basilica, con la facciata ultimata, è visibile anche l’obelisco portato al centro della piazza. Non furono invece realizzati i campanili.

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Carlo Fontana, Pianta di S. Pietro finito (da Templum Vaticanum, 1694). La piazza viene completata dal progetto del grandioso colonnato di Bernini.

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Anonimo, xvii secolo, Veduta di piazza S. Pietro con il colonnato, 1665. Torino, Galleria Sabauda.

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Giovanni Paolo Pannini, L’uscita del Duca di Choiseul in piazza S. Pietro a Roma, olio su tela, 1754. Berlino, Gemaeldegalerie, Staatliche Museen zu Berlin. Pagine seguenti: La basilica di S. Pietro, la piazza e il colonnato in una veduta aerea da est. Il colonnato berniniano in due vedute, dall’interno della piazza e dall’esterno. Veduta d’insieme della facciata. Veduta d’insieme dell’interno della basilica dalla navata centrale. Il baldacchino di Bernini. Sullo sfondo, la Cathedra Petri. La cupola centrale soprastante il baldacchino. Veduta della cupola dall’esterno. La basilica di S. Pietro in una veduta aerea da nord. Sono visibili la cupola centrale, le cupole minori, la tribuna nord e l’abside nell’impianto michelangiolesco. Veduta aerea della piazza e del colonnato in rapporto con la basilica e il Palazzo Apostolico Vaticano.

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Introduzione La chiesa di S. Pietro nel suo aspetto attuale fu in costruzione per un arco di tempo di oltre duecento anni. In questo periodo la sua forma – quella progettata così come quella effettivamente realizzata a poco a poco – fu soggetta a un mutare continuo. Ciò non stupisce se si tiene presente con quanta rapidità, in quei duecento anni, sia cambiato il mondo e, con esso, il rapporto tra Chiesa e mondo. Il percorso che partì dalla visione di Niccolò v per arrivare all’edificio provvisoriamente concluso da Alessandro vii fu lungo e tortuoso1. Il visitatore odierno compie tale percorso per così dire a ritroso. Viene accolto dalle «braccia aperte» del colonnato del Bernini e della basilica scorge innanzitutto la facciata del Maderno. Soltanto dietro di essa, seminascosta, emerge la cupola di Michelangelo e anche all’interno si raggiunge il centro dell’edificio soltanto dopo aver attraversato il corpo longitudinale. Chi non sa che i pilastri e gli archi che sostengono la cupola di Michelangelo siano opera di Bramante non lo vedrebbe affatto; già nel Cinquecento la memoria di questa circostanza minacciava di andare perduta2. Da tutto ciò deriva, per lo storico, l’obbligo di opporsi alla dimenticanza e di narrare la storia dell’edificio dai suoi inizi. L’architettura di S. Pietro si può comprendere soltanto sulla base di una logica di sviluppo da ovest a est: passando dalla cupola sopra la tomba fino alla piazza antistante. Procedendo così, però, ci si imbatte in tre peculiari difficoltà. La prima sta nel fatto che è l’edificio stesso a negare la sua genesi. La sua tematica è di una natura sovratemporale: il «Templum Petri», come Giulio ii definisce la nuova basilica nella sua medaglia di fondazione,

si erge sul luogo e sopra l’antica memoria dell’Apostolo, destinata a testimoniare nei secoli il primato del vescovo di Roma. Questo rimase il pattern fondamentale, che si delineò con tanta maggiore evidenza quanto più proseguirono i lavori per la nuova costruzione. Gli ideologi della Controriforma arrivarono al punto di negare ogni differenza essenziale tra vecchio e nuovo edificio: sarebbe cambiata la «struttura», ma non la sostanza della basilica3. Ogni nuovo progetto, quindi, ebbe come obiettivo la costruzione nella sua interezza; le concezioni dell’edificio non derivarono le une dalle altre, ma si sovrapposero cancellandosi a vicenda, fino ad arrivare alla distruzione fisica di parti già completate4. Soltanto un’architettura omogenea in se stessa sarebbe stata in grado di far percepire il potere della Chiesa di Roma, condensato nella persona del papa. Pertanto la cronologia della costruzione di S. Pietro non si può illustrare in base a un’evoluzione della forma, come quella di un albero con i suoi anelli annuali. La descrizione resta correlata alla narrazione, e viceversa. La seconda difficoltà è connessa alla lunghezza del periodo di esecuzione. Mentre l’enorme edificio procedeva soltanto a piccoli passi5, si susseguivano progettisti sempre nuovi, ciascuno con le proprie idee. Una conseguenza fu quella che si potrebbe definire l’«eccedenza d’idee» in questo processo: progettazione e costruzione si staccano l’una dall’altra. Da ciò deriva quell’architettura «virtuale» di S. Pietro, di fronte alla quale l’edificio stesso, in certi momenti, appare come un’immagine debole, contenente soltanto una frazione dell’architettura che avevano avuto in mente i suoi ideatori. In certe fasi (ad esempio mentre Sangallo lavorava al suo ultimo modello ligneo), il legame tra progettazione e attività edile sembra essersi interrotto completamente. Di contro, però, le parti già realizzate

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Capitolo terzo

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Niccolò v, 1450 ca.

Fra Giocondo, 1505-06

Giuliano da Sangallo, 1505-06, gdsu 8a

gdsu

Antonio da Sangallo, 1516 (?), 254a

gdsu

Antonio da Sangallo, 1517-19, 34a

Baldassarre Peruzzi, dopo 1534 (?), gdsu 16a

Antonio da Sangallo, 1539-46 (Bufalini, 1551)

Michelangelo, 1546 (Dupérac, 1569)

Giacomo della Porta (?), dopo 1573 (?), già a New York, aar

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Bramante, 1505-06, gdsu 20a

Giuliano da Sangallo (?), 1506, Londra, Soane’s Museum

Bramante, 1506 (Serlio, 1540)

Baldassarre Peruzzi, dopo 1513 (?) (Serlio, 1540)

(Anonimo), dopo 1534 (?), Vienna, Albertina

Antonio da Sangallo, (1538), gdsu 256a

Antonio da Sangallo, 1538 (Letarouilly, 1882)

Antonio da Sangallo, 1538-39, gdsu 41a (det.)

Antonio da Sangallo, 1539 (Labacco, 1549)

Alfarano (?), dopo 1582 (Bonanni, 1696)

Rughesi, 1606 (?), bav, Arch. Cap. S. Pietro

Cigoli, 1606, gdsu 2635a

Maderno, 1607, gdsu 264a

Bernini, 1665 (C. Fontana, 1694)

Bramante, 1505-06, gdsu 1a

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dell’edificio ponevano dei confini alla fantasia, che furono talora rispettati, talora non lo furono, come in alcuni progetti di Peruzzi. In ogni caso, chi vuole scrivere la storia dell’edificio di S. Pietro deve tenere conto di entrambi i piani. Soltanto dal loro esame congiunto deriva il quadro completo. La grande architettura nasce dall’interazione di architetti e committenti. Il rapporto tra loro, però, può essere molto diverso e nel caso di S. Pietro si è rovesciato varie volte. Qui emerge la terza difficoltà: il problema di individuare, di volta in volta, l’istanza decisionale determinante. Gli storici dell’architettura sono propensi a interpretare i fatti nell’ottica di alcune tendenze di sviluppo generali: in una certa epoca «si» voleva questo o quello. In verità, però, i momenti di unanimità tra le persone e gli organismi coinvolti in un’impresa edile sono piuttosto rari; laddove le fonti scritte permettono di sbirciare dietro le quinte, ci imbattiamo di norma in antagonismi, se non addirittura in conflitti aperti, le cui tracce si ritrovano poi nelle storie della costruzione. A S. Pietro abbiamo a che fare in primo luogo con pontefici politicamente attivi e dotati di grande determinazione, che indicavano la direzione da seguire: Niccolò v, Giulio ii, Paolo iii, Sisto v, Paolo v, Urbano viii, Alessandro vii. Anche nei «pontificati intermedi», però, ci furono fatti che si rivelarono di grande importanza per il futuro della costruzione: ad esempio, sotto i successori di Giulio, il compromesso raggiunto tra gli innovatori e i conservatori, tra i desideri e il principio di realtà; dopo Paolo iii, il ritorno alla tradizione ecclesiastica e al culto della memoria. Sull’altro fronte stanno architetti che, nel corso di un pontificato, balzarono in primo piano, anzi, pretesero il comando: Bramante, Michelangelo, Bernini. Essi sottomisero la costruzione alla legge della loro arte. Altri invece reagirono, in maniera più o meno creativa, alle direttive dei loro committenti: Sangallo, Maderno. Tutti, però, papi e architetti, si videro coinvolti in un’impresa, la cui mole spaziale e temporale andava ben oltre le loro capacità personali, ma anche oltre le risorse economiche a loro disposizione. Si trattava di una battaglia, in ultima analisi, impossibile da vincere; già il papa fondatore, Giulio ii, se ne era reso conto nei suoi ultimi anni di vita6. Di fatto, nel Cinquecento nessuno dei protagonisti di questa storia era destinato a raggiungere il proprio traguardo. Soltanto il secolo successivo trovò i mezzi per portare a compimento l’edificio secondo il suo concetto. Forse non a caso ciò coincise con il momento in cui un architetto e un pontefice – Bernini e Alessandro vii – riuscirono a collaborare nella pianificazione.

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Niccolò v Nell’edificio attuale l’intenzione di Niccolò v non ha lasciato tracce visibili. Dalle testimonianze dell’epoca sappiamo che tra il 1452 e il 1454 erano in corso dei lavori a una «Tribuna di S. Pietro». Il risultato fu una fundamenta altissima a ovest dell’abside del vecchio edificio; la sua esistenza è attestata ancora da Michelangelo, che nel 1505 la visitò insieme a Giulio ii. Questa visita sta all’inizio della storia reale dell’edificio nuovo, sotto il quale scomparvero le fondamenta di Niccolò7. Una nuova chiesa di S. Pietro Tommaso Parentuccelli di Sarzana, che ascese al soglio pontificio con il nome di Niccolò v nel 1447, fu un autentico «papa del Rinascimento»; sotto molti aspetti lo si potrebbe considerare il fondatore del mecenatismo papale dell’età moderna. Gli restava però poco tempo per realizzare i suoi progetti. Li conosciamo grazie a una sorta di testamento che il biografo di Niccolò, l’umanista fiorentino Gianozzo Manetti, stilizzò come discorso rivolto dal papa ai cardinali sul letto di morte. In seguito esso divenne una sorta di Magna Charta della politica edilizia e artistica dei pontefici per i secoli a venire8. In questo testo giocano una parte fondamentale i progetti di Niccolò per la Città Leonina, il palazzo del Vaticano e la chiesa di S. Pietro. Se si legge la descrizione per intero, si ricava facilmente l’impressione di un «progetto ideale» più o meno fantastico, la cui realizzazione non era seriamente pensabile né allora né in seguito. Ma Niccolò incominciò effettivamente i lavori di costruzione, sia per il palazzo, sia per la basilica, e, con una salute migliore e una vita più lunga, avrebbe certo raggiunto risultati maggiori. Tuttavia, anche in questo caso, rimarrebbe la sproporzione tra la grandezza del compito e l’arco della vita di un individuo, o più precisamente la durata media di un papato: una problematica che accompagnerà per due secoli la storia della costruzione del nuovo S. Pietro. Manetti tratta ampiamente i moventi del suo eroe. Niccolò sarebbe stato spinto ai suoi progetti costruttivi non da ambizioni personali, da sete di gloria o vanità, bensì unicamente dal desiderio di rafforzare l’autorità della Chiesa romana e accrescere il prestigio del soglio apostolico. Il modo più efficace di raggiungere questo obiettivo,

però, era la grande architettura. Secondo Manetti, infatti, il popolo rimane facilmente confuso dalla fede fondata soltanto sulle parole, se non ha davanti agli occhi dei monumenti quasi eterni, anzi, come fabbricati da Dio stesso (monumenta paene sempiternas, quasi a Dio fabricata)9.

con nostalgia, ma che allora doveva possedere anche un carattere soffocante e opprimente. Quanto poco piacesse a Niccolò risulta chiaro dal suo desiderio, trasmesso da Manetti, di mantenere il nuovo edificio completamente libero da tombe12.

La basilica vaticana continuava a essere la chiesa più grande e più riccamente dotata della cristianità. Se tuttavia non soddisfaceva più le esigenze di Niccolò, ciò dipendeva dalle sue condizioni di allora. Dopo molti anni di esilio dei papi ad Avignone, l’edificio era stato trascurato fino alla fatiscenza. Nel 1451, Niccolò stesso dichiarò in una bolla che la basilica minacciava di crollare (ut ruinam minetur)10. Lo si può considerare un pretesto trovato da un papa smanioso di costruire, o per lo meno un’esagerazione. Il vecchio corpo longitudinale, infatti, non crollò – né allora, né in seguito – anzi, dovette essere smantellato da Bramante, e la sua metà orientale è sopravvissuta persino a questo intervento, di certo non realizzato con riguardo; rimase in piedi fino al Seicento avanzato, venendo utilizzata per le messe. Anche un architetto come Alberti, però, affermava che la parte superiore del muro, aggettante verso sud, del corpo longitudinale era mantenuta in posizione soltanto dalle travi del tetto; la minima pressione o il minimo colpo avrebbe potuto far rovinare l’edificio11. Il pericolo era indubbiamente reale, ma per evitarlo, si sarebbero dovute adottare altre misure che non la costruzione di un nuovo braccio del coro. Se si diede la priorità a tale lavoro, questa è una chiara dimostrazione del fatto che l’interesse al mantenimento della struttura originaria era passato in secondo piano rispetto alla volontà di costruire qualcosa di nuovo.

Il problema fondamentale dell’edificio, tuttavia, non stava nel suo allestimento interno, bensì in una sorta di anomalia strutturale: il suo centro sacrale, transetto e abside, di per sé enorme, era però più piccolo e soprattutto più basso del corpo longitudinale. Questo rapporto andava rovesciato. Secondo la liturgia occidentale, infatti, il corpo longitudinale – la basilica di Costantino – era il luogo destinato alla comunità, mentre la parte occidentale dell’edificio era quella destinata al papa e ai suoi sacerdoti; doveva perciò dominare anche dal punto di vista architettonico. Qui bisognava costruire ex novo. E la funzione di committente – a differenza di quanto avvenuto all’epoca di Costantino – sarebbe stata rivestita dal papa stesso, nel suo nuovo ruolo di «sovrano pontefice»13.

Anche all’interno la basilica non offriva un aspetto convincente. Inserti, annessi, rimaneggiamenti di ogni tipo nel corso dei secoli avevano sfumato i contorni dell’architettura di età imperiale; l’orientamento alla tomba dell’Apostolo si era smarrito in un campo con i più disparati reliquiari. All’estremità ovest della navata centrale il coro del capitolo si era allargato e impediva la vista del presbiterio, di fronte al quale c’erano la statua in bronzo di S. Pietro seduto e il grande organo; nelle navate laterali ci si imbatteva in nuovi altari, sepolcri, memoriali di ogni tipo; nelle mura esterne si aprivano cappelle e locali attigui dalle destinazioni più disparate. Tutto ciò costituiva un repertorio enorme di storia della Chiesa e della fede, che gli storiografi di epoca posteriore rievocano

Il progetto Due fonti ci forniscono informazioni sulla forma dell’edificio progettato: una pianta disegnata da Bramante e la descrizione di Manetti. Il disegno di Bramante si trova nella «grande pianta sanguigna» del 1505-06, in cui si sovrappongono le planimetrie della basilica vecchia, del progetto di Niccolò e della nuova progettazione di Bramante. Un elemento a favore dell’esattezza della riproduzione del progetto di Niccolò è il fatto che Bramante se ne servì come base di partenza per la propria progettazione14. La scala di riproduzione è 1:300, l’unità di misura (come in tutti i progetti successivi) è il «palmo romano» (= 0,2234 m); a differenza del «braccio fiorentino», usato a Firenze, è commensurabile con il piede romano, l’unità di misura dell’edificio costantiniano (4 palmi ≈ 3 pedes). Il foglio mostra il perimetro non soltanto del coro di Niccolò, ma anche del transetto, che ancora non era stato nemmeno incominciato; probabilmente Bramante aveva a disposizione un piano quattrocentesco15. Manetti descrive l’intero progetto in maniera molto dettagliata, ma non sempre facilmente comprensibile, essendo l’autore un letterato, non un architetto. Il tono che usa è innodico-panegirico; le indicazioni delle dimensioni che fornisce corrispondono soltanto all’incirca al disegno

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1. Bramante, Studi di progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 20a. 2. Martino Ferrabosco, Ricostruzione del progetto di Niccolò v, 1619. Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2733.

di Bramante, talvolta si contraddicono anche in se stesse. Evidentemente per Manetti contava di più dimostrare la presenza di rapporti armonici che fornire informazioni esatte. Le due fonti, comunque, presentano sufficienti coincidenze perché le numerose proposte di ricostruzione elaborate dalla ricerca (a partire da Ferrabosco, 1619!) forniscano un quadro più o meno coerente16. Lo si può riassumere come segue. Il transetto e l’abside dell’antica basilica erano destinati a essere demoliti e sostituiti da un quadrato di incrocio con tre bracci della croce di uguale lunghezza. La lunghezza dei lati del quadrato corrispondeva alla larghezza dell’antica navata centrale; il quadrato, quindi, si estendeva verso ovest di un buon tratto oltre l’antico muro del transetto e in tal modo l’altare sopra la tomba

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3. Torgil Magnuson, Ricostruzione del progetto di Niccolò v (da Magnuson 1958).

perdeva la sua posizione dominante al centro dell’abside, finendo sotto la cupola; non però al centro di essa, bensì nella posizione leggermente eccentrica che occupa ancora oggi. La lunghezza interna dei bracci della croce era pari, rispettivamente, a 200 palmi; nel braccio occidentale un quarto era occupato dalla curvatura dell’abside. In quest’area non erano previste cappelle laterali o altri vani secondari. Le mura perimetrali erano eccezionalmente robuste, in parte forse per considerazioni di tipo fortificatorio, in parte perché i rispettivi ambienti avrebbero dovuto essere sormontati da volte. Sopra il quadrato di incrocio si sarebbe dovuta ergere una cupola semisferica; i bracci della croce avrebbero dovuto essere sormontati da volte a crociera che avrebbero poggiato sulle colonne colossali, disposte davanti alla parete, come nelle terme imperiali o

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nella basilica di Massenzio (la descrizione di Manetti qui non è del tutto chiara). Nell’area del corpo longitudinale si sarebbe dovuta mantenere la configurazione di fondo della basilica a colonne a cinque navate, benché consolidata dal punto di vista strutturale e accompagnata da serie di cappelle uniformi. Le navate laterali avrebbero dovuto essere sormontate da volte a crociera, nei claristori si sarebbero dovuti aprire dei grandi oculi. Il vestibolo avrebbe dovuto essere affiancato da due campanili, l’atrio rimaneggiato in forma regolata. Conflitti Manetti loda l’edificio progettato come opera d’arte sui generis, senza affrontare la tematica di quanto fosse dipendente dalla vecchia basilica. In realtà il progetto si divideva in due parti chiaramente distinte: il corpo longitudinale a carattere basilicale e il corpo occidentale, raggruppato intorno a un centro. Le tensioni tra pianta longitudinale e pianta centrale, più navate o una navata sola, che attraverseranno la storia della progettazione dei secoli successivi, hanno qui la loro radice. In tutto ciò non entrò in gioco alcun motivo realmente nuovo, nemmeno attraverso il rimaneggiamento delle parti occidentali: quest’ultimo recuperava soltanto ciò che, a partire dal Medioevo, era diventata una forma dominante dell’architettura sacra occidentale. Così anche il paragone di Manetti tra il progetto di Niccolò e un uomo disteso a terra con le braccia spalancate – immagine del crocifisso – non fa che riprendere una tradizione interpretativa medievale; Manetti, tra parentesi, alcuni anni prima aveva descritto la pianta del Duomo di Firenze quasi con le stesse parole. Anche la cupola che sormontava il quadrato di incrocio tra navata e transetto era un’eredità del Medioevo e, soprattutto in Italia, costituiva un elemento fisso dell’architettura sacra monumentale; non vi aveva rinunciato neppure Brunelleschi, che intorno al 1420 aveva ridato vita alla tipologia della basilica paleocristiana (arcate a colonne, soffittatura in legno). Per quanto riguarda la forma architettonica, quindi, il progetto per il nuovo edificio di Niccolò si muoveva in un’orbita piuttosto tradizionale. La sua modernità stava piuttosto nell’idea stessa della nuova progettazione17: non si trattava di «rinnovare» l’antico, ma di sostituirlo con qualcosa di nuovo. L’organizzazione razionale doveva trionfare sulla varietà della struttura che si era venuta a creare in passato, tutte le dimensioni e le proporzioni dovevano obbedire a un sistema unico. Allo stesso

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tempo si allentò il legame con i contenuti commemorativi dell’edificio. La tomba di Pietro non appare più come il centro prestabilito della basilica; Manetti non la nomina neppure, Bramante la considererà un pezzo d’arredo spostabile a piacimento all’interno del nuovo edificio. Se Niccolò, come suggerisce Manetti, aveva in mente il rinnovamento dell’intera costruzione, doveva però essere consapevole del fatto che egli non ne avrebbe visto altro che gli inizi. Qui si delinea una seconda linea conflittuale: la discrepanza tra le ambizioni dei progettisti – committenti e architetti – e i mezzi che avevano a disposizione. Secondo la concezione di Niccolò, le dimensioni della nuova basilica avrebbero dovuto corrispondere a quelle dell’edificio imperiale, anzi, avrebbero dovuto superarle. Tuttavia, con i presupposti dell’età moderna, ciò era realizzabile soltanto in forma di una lunga storia costruttiva e, a questo scopo, era necessario stabilire delle priorità. Niccolò scelse di incominciare i lavori all’estremità occidentale del complesso, con il coro, quadrato di incrocio e transetto, dando così la direzione in cui era destinato a svilupparsi l’edificio; del corpo longitudinale, del vestibolo e della facciata si sarebbero dovuti occupare i successori. Anche qui l’episodio di Niccolò appare come un preludio della storia costruttiva successiva. Un tentativo in senso opposto del papa Piccolomini Pio ii (1458-64) di cominciare il rifacimento dal lato dell’ingresso rimase senza conseguenze. L’inizio dei lavori all’estremità occidentale – dietro l’abside costantiniana – presentava un vantaggio da non sottovalutare; non era ancora necessario intervenire sulla sostanza edile dell’antica basilica. Soltanto due edifici satelliti del iv e del vii secolo, il mausoleo di Probo e l’oratorio di S. Martino, dovettero cedere il posto al coro di Niccolò. Nella sua descrizione dell’edificio redatta poco dopo la morte di Niccolò, un canonico della basilica, Maffeo Vegio, fa sentire le sue vibrate proteste per queste demolizioni, ma non affronta il tema delle distruzioni che erano da aspettarsi e che sarebbero state decisamente più radicali; forse riteneva che si sarebbe sospeso il progetto, visto che il successore di Niccolò, Callisto iii, non aveva proseguito i lavori. L’entusiasmo di Manetti per il progetto di Niccolò, tra l’altro, non era condiviso da tutti i contemporanei. Così il cancelliere fiorentino Poggio Bracciolini cercò di spingere il papa a utilizzare il denaro della chiesa per respingere la minaccia dei Turchi invece che per opere architettoniche dispendiose; nell’anno della morte di Niccolò, la stessa richiesta fu avanzata dal celebre predicatore francescano Giovanni da Capestrano. Era un an-

ticipo dell’indignazione che cinquant’anni dopo avrebbe suscitato il modo di procedere di Bramante e di Giulio ii18. La questione della paternità Dietro il termine che abbiamo utilizzato, il «progetto di Niccolò», si cela un imbarazzo: non sappiamo chi lo abbia effettivamente ideato. Nella bibliografia più antica in materia domina l’opinione che un progetto di questa portata debba essere ricondotto a Leon Battista Alberti19. Tra il 1443 e il 1452 Alberti era residente a Roma, faceva parte della corte papale ed era familiaris di Niccolò v, che conosceva dall’epoca degli studi comuni a Bologna. Nel 1452, l’anno dell’inizio dei lavori alla nuova tribuna, consegnò al papa la prima versione del suo trattato De re aedificatoria. Né Manetti, né altri autori dell’epoca lo mettono tuttavia in relazione con il progetto di S. Pietro di Niccolò, a eccezione del cronista Mattia Palmieri, la cui testimonianza va però in senso negativo: Alberti, quell’uomo acuto e sapiente in tutte le arti, avrebbe sconsigliato al papa la prosecuzione dell’edificio20. Nel trattato di Alberti si parla più volte della basilica, ma soltanto secondo aspetti di tecnica costruttiva. Alberti critica la costruzione del corpo longitudinale (secondo lui il colonnato architravato è inadatto a reggere il peso dell’alto muro che poggia su di esso), descrive le condizioni precarie dell’edificio causate da questa circostanza e, verso la fine dell’opera, avanza delle proposte per il suo consolidamento; in un altro passo, analizza la funzione delle cappelle laterali tenendo conto della stabilità del corpo longitudinale21. Da queste considerazioni non si può dedurre un rapporto positivo con l’edificio costantiniano, né ce lo si può aspettare: poco interessato ai valori della tradizione, Alberti, in generale, considerava la forma basilicale una strada sbagliata nell’evoluzione dell’architettura sacra22. Questo potrebbe spiegare le sue riserve verso l’intenzione del papa: l’antico edificio non poteva essere migliorato mediante un parziale rimaneggiamento, non sarebbe comunque sorto un templum conforme alla teoria radicalmente umanistica di Alberti. Un secondo motivo potrebbe essere il rifiuto, più volte espresso da Alberti, di edifici di grandi dimensioni, che sfuggono al controllo di un solo architetto. Sembra proprio contenere un’allusione ai progetti di Niccolò un passo nel secondo libro del trattato, in cui Alberti si prende gioco di coloro che, sventatamente e precipitosamente (inconsiderati et praecipites), demoliscono antichi edifici, ponendo enor-

mi nuove fondamenta23. Un buon architetto, infatti, non deve prefiggersi di realizzare nulla che non possa portare a termine lui stesso; niente nuoce di più alla sua fama di un edificio che resta incompiuto per mancanza di fondi o che viene deturpato dai successori24. Tra gli altri nomi che si possono ricollegare al progetto di Niccolò per S. Pietro, al primo posto c’è quello dell’architetto fiorentino Bernardo Rossellino (1409-1464). Chiamato a Roma dal papa nel 1451, sembra che abbia operato come una sorta di architetto in capo degli edifici vaticani25. Nella biografia di Rossellino, Vasari tratta i progetti costruttivi di Niccolò v come creazioni di quest’architetto. Ma, proprio in riferimento a S. Pietro, quanto espone resta vago, anzi, criptico; i disegni sarebbero stati indicibilmente magnifici, ma il modello sarebbe «andato male» e altri «architettori» ne avrebbero realizzati di nuovi. Vasari non ne cita i nomi; la questione se si possa prendere in considerazione una delle persone che compaiono negli atti della costruzione (Beltrame di Martino, Amadei, Nello, Spinelli) deve restare aperta, finché non ci sarà chiara la suddivisione di ruoli tra il committente papale e i suoi consulenti, architetti, mastri costruttori e imprenditori edili. Ciascuno di loro potrebbe, a suo modo, aver influenzato il progetto; la figura dell’«architetto autore», come la immaginava Alberti e come la proiettava nel passato Vasari, partendo dai presupposti della propria epoca, sembra non essere esistita nell’edilizia di Niccolò v. Storia successiva Non sappiamo se fu l’obiezione di Alberti a causare la diminuzione dell’attività edilizia al coro di Niccolò, osservabile nel 1454. Ad ogni modo, dopo la morte del papa, i lavori non vennero proseguiti. Il suo successore Callisto iii (1455-58), della casa Borgia, impedì qualsiasi attività edile; investì i fondi così sbloccatisi negli armamenti contro i Turchi, che, dalla conquista di Costantinopoli realizzata per opera del sultano Maometto ii nel 1453, minacciavano direttamente l’Europa. Il pontefice seguente fu Pio ii (1458-64), Enea Silvio Piccolomini, grande amante delle arti. Tornò a rivolgere il suo interesse a S. Pietro, ponendosi però un obiettivo molto diverso: l’ingresso alla basilica da piazza S. Pietro doveva assumere un volto nuovo. Fece quindi erigere dal suo architetto di corte Francesco del Borgo un fronte con logge a tre piani, che, con undici assi, si sarebbe esteso per tutta la larghezza dell’edificio26. Quando Pio morì, tuttavia, erano stati in-

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Capitolo terzo

4. Maarten van Heemskerck, Il Vaticano visto da piazza S. Pietro, dettaglio. Vienna, Albertina.

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5. Medaglia di Paolo ii. Biblioteca Apostolica Vaticana, Medagliere Vaticano.

so complesso, un elemento del progetto di Niccolò riuscì dopotutto a sopravvivere nel nuovo edificio29. Giulio ii e Bramante Durante il pontificato del papa Della Rovere Giulio ii (1505-1513), ebbe inizio la storia della costruzione della nuova basilica, durata centovent’anni. All’epoca sorsero parti considerevoli dell’edificio che vediamo tuttora: i quattro possenti pilastri che ancora oggi sostengono la cupola, gli arconi trasversali che li collegano e le basi dei pennacchi che si ergono tra loro; si iniziarono i contropilastri dei bracci trasversali, fissando così le dimensioni del gruppo di cinque cupole dell’impianto centrale. Questi elementi costituirono il cuore dell’edificio, che tutte le modifiche successive del progetto non riuscirono a modificare. Il braccio del coro eretto da Bramante su desiderio del papa fu in parte rimaneggiato, in parte demolito tra il 1585 e il 158730. cominciati soltanto i quattro assi settentrionali, contigui al Palazzo; negli anni ’70 del Quattrocento furono terminati, fungendo, per i pontefici che seguirono, da loggia delle benedizioni, finché, all’inizio del xvii secolo, Paolo v fece erigere il nuovo corpo longitudinale e abbattere l’antico fronte dell’atrio. Il successore di Pio, Paolo ii (1464-1471), Pietro Barbo di Venezia, intraprese ancora un tentativo di riprendere l’edificio di Niccolò27. L’impulso fu dato probabilmente dall’Anno Santo del 1457, proclamato da Paolo nel 1470. In quell’anno incominciano nuovi pagamenti per i lavori alla Tribuna Sancti Petri; sono menzionati come architetti Giuliano da Sangallo e Meo da Caprina. Il papa potrebbe aver sperato di realizzare almeno questa parte del nuovo edificio entro il giubileo, riuscendo a collegarlo in qualche modo alla basilica. Qui si manifesta per la prima volta quella scollatura tra progetto e realtà destinata a diventare tipica della storia della costruzione del nuovo S. Pietro: i progetti d’insieme restano sulla carta, quello che si può mettere in pratica sono soltanto dei frammenti, costretti a coesistere con il vecchio edificio fino a nuovo ordine. Paolo era abbastanza ottimista da far coniare una medaglia che rappresenta l’interno del nuovo braccio del coro. Ma già sotto il suo successore Sisto iv (1471-1484) i lavori si arrestano nuovamente. Il primo intervento del papa Della Rovere consistette nell’aggiunta di un’ulterio-

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re cappella annessa alla navata laterale sud del vecchio corpo longitudinale, che avrebbe dovuto accogliere il coro del capitolo e contemporaneamente servire a Sisto stesso come sepolcro. Così si poteva considerare fallito il primo tentativo per un nuovo S. Pietro. Si potrebbe dire che i tempi non erano ancora maturi, che le forze non erano sufficienti a dare l’avvio a quell’opera immane. Nel xvi secolo, le cose in fondo non stavano diversamente. Ciò che si aggiunse, a quell’epoca, fu il progetto di Bramante: soltanto con lui l’idea di una nuova chiesa di S. Pietro sviluppò una forza duratura nel tempo. L’impresa di Niccolò v, invece, mostra i limiti di quanto potesse raggiungere un committente da solo, senza un partner dotato di creatività artistica. Come traccia dell’attività di Niccolò, restava il muro di fondazione del suo coro. Nella storia della costruzione successiva esso ha avuto un ruolo ambivalente. Nel 1506ss, Bramante vi eresse sopra il «coro di Giulio»28, che però nel suo progetto rimase un corpo estraneo; nel 1585 fu rigettato e sostituito con un braccio occidentale conforme al progetto complessivo. Fino a quel momento, però, il coro di Giulio rimase in piedi e Michelangelo, chiamato alla guida dell’impresa nel 1546, lo considerò un resto del progetto bramantesco originario, scegliendolo come modello per la sua nuova tribuna. Attraverso questo percor-

La decisione di erigere il nuovo edificio Il pontificato di Giulio ii durò soltanto due anni in più di quello di Niccolò v. Se però Giulio ebbe successo dove Niccolò aveva fallito, non fu perché avesse progettato in maniera più realistica del suo predecessore, ma perché ebbe meno scrupoli nel negare la realtà. Come il suo azionismo politico, anche il suo mecenatismo reca l’impronta della sua personalità: saldo nella fede, assetato di potere, impulsivo e collerico, «terribile» e «magnanimo», fu tanto criticato quanto ammirato dai contemporanei, tanto accusato di essere il distruttore della basilica quanto celebrato come il fondatore del nuovo tempio. Tuttavia anche Giulio avrebbe potuto fallire – e per un periodo sembrò avesse fallito – se non avesse trovato un architetto disposto e capace di prendere in mano la grande idea, dandole forma concreta. In ultima analisi, fu la visione bramantesca di un’architettura nuova, mai vista prima, ad avere il suo effetto duraturo per generazioni, consentendo all’impresa di attraversare tutte le crisi economiche e ideologiche. Come Niccolò v, durante la progettazione anche Giulio ii aveva in mente l’intero complesso degli edifici vaticani. La sua prima preoccupazione fu l’ampliamento del Palazzo papale per trasformarlo in una residenza principesca

moderna; soltanto quando qui si furono realizzati i passi essenziali, con l’impostazione del cortile del Belvedere, Giulio dedicò la sua attenzione alla basilica. L’impulso fu dato, in maniera significativa, dalla ricerca di un posto per la propria tomba, della quale il papa aveva affidato l’incarico a Michelangelo all’inizio del 150531. Doveva superare tutti gli esempi precedenti per dimensioni e sfoggio di sfarzo. Dato che nella basilica stracolma di monumenti di ogni sorta non si riusciva più a trovare un luogo adatto, Michelangelo (secondo il suo biografo Condivi) avrebbe proposto di riprendere la costruzione del coro di Niccolò, idea che convinse subito il papa. Con prontezza e determinazione concesse i fondi necessari. Non possediamo notizie autentiche sulle tappe del processo di progettazione che si mise in moto, ma, grazie allo zelo nel raccogliere documenti del collaboratore di Bramante, Antonio da Sangallo, si sono conservati alcuni schizzi e disegni di Bramante stesso, che ci restituiscono parte dei suoi ragionamenti. Emergono qui tre diverse concezioni, sviluppate da Bramante in quei mesi, senza portarne nessuna a una conclusione definitiva; fino all’inizio dei lavori nell’aprile 1506 il suo pensiero rimase fluido, senza condensarsi in progetti elaborati nel dettaglio. È soltanto in questo senso limitato che, qui di seguito, si parla dei «progetti» di Bramante32. I tre progetti di Bramante È probabile che l’architetto si rendesse conto, prima del suo committente, che l’ampliamento del coro di Niccolò avrebbe avuto come conseguenza la riedificazione per lo meno del transetto della basilica. Alla base del suo primo progetto, perciò, Bramante mise sia la planimetria del vecchio edificio, sia il progetto di Niccolò, di cui disponeva presumibilmente sotto forma di un disegno della pianta più o meno schematico, ma in scala («disegno proporzionato», secondo la terminologia dell’epoca)33. Due rapidi schizzi sul retro di uno dei fogli da disegno34 mostrano come pensasse di modernizzare il progetto quattrocentesco: anche le ali del transetto, come il braccio del coro, dovevano essere chiuse da absidi; la cupola avrebbe dovuto estendersi oltre il quadrato di incrocio di Niccolò e venire dotata di un tamburo; sarebbe stata necessaria una nuova struttura portante; è accennata una sottostruttura quadrata con scale a chiocciola che salgono negli angoli, coronate da torrette. Non ancora contenuta negli schizzi è l’idea successiva di Bramante: negli angoli delle braccia della croce dovevano sorgere quattro vani a

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6. Bramante, Studi per S. Pietro. Firenze, gdsu 20a verso (da Geymüller 1875-80).

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cupola più piccoli, che insieme alla cupola centrale avrebbero costituito una «quincunx», contribuendo a neutralizzare la spinta in diagonale. Questa rimase l’idea guida dei progetti successivi35. Emergeva così il conflitto – già presente nel progetto di Niccolò – tra un corpo occidentale a pianta centrale e un corpo longitudinale di impianto basilicale; il compito principale degli architetti stava ora nell’armonizzazione delle due strutture. Bramante fece applicare al suo foglio di lavoro (gdsu 20a) un reticolo di quadrati; le linee sottili, tracciate con la penna, distano l’una dall’altra 1 «minuto», la sessantesima parte del palmo36. Grazie a questo reticolato, Bramante era in grado di disegnare liberamente, rimanendo sempre, tuttavia, nelle giuste misure. Si possono distinguere tre stadi: prima di tutto furono riportati i contorni del progetto di Niccolò e dell’antica basilica; in un secondo momento Bramante disegnò una parte del suo i progetto nel quadrante in basso a destra; in seguito il ii progetto riempì il resto del foglio. Il punto focale era il lavoro al pilastro della cupola come snodo tra cupola principale, cupole secondarie37 e il corpo longitudinale, che andava pensato anch’esso come edificio

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7. Il primo progetto di Bramante per S. Pietro (Thoenes 1994 da gdsu 20a).

gdsu

8. Il piano di pergamena e la vecchia basilica (Thoenes 1994, da 20a e 1a).

9. Medaglia di Giulio ii. Biblioteca Apostolica Vaticana, Medagliere Vaticano. .

a pilastri e a volte. Qui, nello sperimentare con superfici di pareti diritte e oblique, con nicchie e pilastri colossali, si costituisce lo stile della nuova architettura di S. Pietro. A questo punto, per conquistare il papa all’intento costruttivo, bisognava realizzare un disegno di presentazione: come tale consideriamo il celeberrimo «piano pergamena», ammirato già da Vasari come «mirabile disegno», il n. 1a della collezione di disegni di architettura degli Uffizi. Rispetto al foglio di lavoro, la scala di riproduzione è stata raddoppiata (nel primo era 1:300, qui 1:150); forse questa era la scala di quell’antico piano della costruzione che, come supponiamo, era a disposizione di Bramante e sul quale il pergamena poteva essere sovrapposto. Grazie alla coincidenza dei sistemi degli assi dell’edificio vecchio e nuovo, diventa comprensibile la configurazione dei vani principali e secondari del disegno bramantesco. Il progetto di Bramante appare ora in forma matura; il pilastro della cupola è approdato alla sua forma definitiva, dalle cupole secondarie sono derivati sistemi secondari a pianta centrale. La quincunx si è evoluta come figura «frattale» (simile a se stessa), nel piccolo si riflette nuovamente l’in-

tera struttura. Agli angoli del blocco si trovano delle sacrestie ottagonali (della tipologia della sacrestia di S. Maria presso S. Satiro a Milano). La massa muraria appare come puro negativo della forma dello spazio; i vani principali e secondari sono circondati da concavità, la forma semicircolare dell’abside è ripresa da absidiole e nicchie di varie dimensioni. Il disegno di Bramante – che ne sia proprio lui l’autore è espressamente confermato da una scritta di Sangallo sul retro del foglio38 –, tracciato con lucido nero di seppia, possiede una forza suggestiva irresistibile e non stupisce che papa Giulio facesse proprio il progetto. Nel 1506 rese nota la decisione della Templi Petri Instauracio con una medaglia commemorativa39. Essa raffigura ciò a cui aveva intenzione di mettere mano, ovvero il centro sacrale dell’edificio, con la sua cappella funeraria, il transetto e la cupola – ossia la veduta dal Vaticanus mons, accennato in primo piano. Il disegno preparatorio per il coniatore della medaglia sarà stato verosimilmente fornito da Bramante; la veduta leggermente prospettica corrisponde all’incirca al primo schizzo sul retro del foglio di lavoro di Bramante che, a giudicare dal relativo schizzo della pianta, mostra anch’essa la veduta da ovest. Nel confronto si nota che la cupola sulla medaglia ha guadagnato in volume; è cresciuta al di là delle dimensioni indicate sul piano pergamena. Soltanto qui sembra affiorare l’idea di una competizione con la cupola del Pantheon40. Non sappiamo perché questo i progetto «non ebbe effetto», come recita la laconica nota di Sangallo sul retro

del piano pergamena, ovvero non fu realizzato. Forse non era ancora stato pensato in ogni sua parte, il difficile problema del passaggio dalla parte occidentale dell’edificio al corpo longitudinale non era ancora stato realmente risolto; forse Bramante si era reso conto che una cupola grande e massiccia come quella del Pantheon necessitava di una sottostruttura più solida dell’esile sistema di sostegno del suo primo abbozzo. Un’eventuale alternativa fu sperimentata di nuovo su un foglio quadrettato: si potevano rafforzare i pilastri con coppie di colonne, che avrebbero sostenuto dal suolo l’anello della base del tamburo e reso superflui i pennacchi aggettanti verso l’interno e spingenti verso l’esterno41. La sezione trasversale delle masse dei pilastri avrebbe potuto essere ridotta, le cupole secondarie avrebbero potuto essere ampliate in proporzione. Un’ulteriore idea, schizzata solo superficialmente, era quella di integrare i quattro gruppi di due colonne fino a formare un anello di sedici o ventiquattro colonne, che corresse lungo tutto il vano della cupola; in questo caso il tamburo sarebbe stato sostenuto totalmente dalle colonne. Bramante lasciò in sospeso queste idee azzardate – le colonne avrebbero raggiunto un’altezza superiore ai 50 m, gli architravi avrebbero dovuto superare degli intervalli di più di 10 m –, ritornando al suo primo foglio di lavoro. Lì sorse a questo punto, cominciando dal quadrante sinistro inferiore e proseguendo in senso orario, il secondo progetto. È tipico della mentalità di Bramante che a quel punto, invece di migliorare il suo progetto nel dettaglio, tornasse a

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10. Bramante, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 1a.

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prendere in considerazione la situazione nel suo complesso. Il risultato fu una nuova rete di assi: Bramante si stacca dal vincolo del vecchio corpo longitudinale, orientandosi unicamente al progetto di Niccolò. Una conseguenza fu un ampliamento di tutte le dimensioni e proporzioni42. Fu mantenuto il programma spaziale del i progetto, ma la sostanza muraria, nel piano pergamena distribuita sulla superficie come su una scacchiera, si concentra ora nei quattro pilastri della cupola; essi appaiono ora come corpi autonomi, centrati in se stessi, in grado di sorreggere il peso della cupola anche senza sostegni laterali. Al loro interno salgono verso l’alto delle scale a chiocciola, adatte al trasporto del materiale durante la costruzione della cupola. I fianchi dei pilastri rivolti verso le braccia della croce presentano enormi nicchie, il loro diametro di 40 palmi (quasi 9 m) corrisponde alla larghezza interna delle navate laterali. Se si applica la consueta proporzione di 1:2, l’altezza complessiva delle nicchie sarebbe pari a 80 palmi, l’altezza dell’imposta pari a 60 palmi. Questa è la dimensione dei colonnati della navata centrale della vecchia basilica. Poiché le sue colonne avevano un ruolo nel sistema bramantesco dell’alzato interno, questa coincidenza forse non è un caso43. L’innovazione più importante sta nei deambulatori realizzati intorno alle absidi44. La parete dell’abside si dissolve in un semicerchio di sostegni isolati; Bramante sperimenta qui con diverse forme – colonne o pilastri cuneiformi –, alla fine elaborerà per questa parte una struttura del tutto nuova. Il significato del motivo non è tanto funzionale quanto di natura estetico-formale: anche i bracci della croce del corpo occidentale ottenevano così una struttura a più navate. Si trattò di un passo determinante in direzione dell’integrazione tra pianta centrale e basilicale. È in sintonia con questo che il termine «deambulatori», per quanto possiamo vedere, non compaia nei testi contemporanei. Sangallo chiama le absidi «navi grandi», i deambulatori «navi piccole» o anche «le navette tonde»45. Come nel i progetto, resta aperta la questione su come dovesse chiudersi la basilica ad est. Evidentemente non era considerata urgente. Ancora nel 1516 il satirico Andrea Guarna scriveva con scherno che Bramante probabilmente voleva riflettere soltanto nella tomba su dove collocare la facciata d’ingresso (ubi templi ipsius ianuae poni) e annunciare dopo la resurrezione quanto aveva deciso46. Nel frattempo l’antico rivale di Bramante, Giuliano da Sangallo, si era fatto avanti con un contro-progetto. Con tutta probabilità aveva avuto modo di vedere il piano pergamena bramantesco e forniva a quel punto una

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11. Bramante, Studi per S. Pietro. Firenze, gdsu 7945a recto e verso.

12. Giuliano da Sangallo, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 8a recto.

13. Bramante, Schizzi per S. Pietro. Firenze, gdsu 8a verso (in parte calco dal recto).

versione della bozza del progetto migliorata secondo il proprio concetto47. Non è rimasto nulla dell’appello estetico del modello di partenza: le navate principali e laterali, tracciate con la riga a t, costituiscono una rigida griglia di corridori che si incrociano; le cupole, le absidi e le nicchie

riempiono correttamente i campi a loro destinati. Nella cupola principale è inscritta la dimensione ideale della cupola del Pantheon («canne 20»), ma la calotta, evidentemente, era concepita come volta a padiglione ottagonale con archi a sesto acuto, secondo il modello collaudato della cupola del Duomo di Firenze. Dal contesto del progetto complessivo, Giuliano ha estrapolato la quincunx della cupola, inserendola in un blocco architettonico quadrato, libero su ogni lato; una suddivisione parietale di aggettanze allineate in maniera uniforme (oltre 150 piccoli quadrati) si estende senza interruzioni su tutti e quattro i lati. Non era questa l’intenzione di Bramante. Forse invitato dal papa a una presa di posizione, tenne il foglio di Giuliano in controluce, ne ricalcò i contorni e accennò con alcune linee come immaginasse la prosecuzione nel corpo longitudinale48. Da due piccoli schizzi di planimetrie sul bordo del foglio si deducono le argomentazioni da lui usate: sono prese ad esempio due chiese milanesi, S. Lorenzo Maggiore e il Duomo – un edificio a pianta centrale e uno a pianta longitudinale, entrambi a più navate. Il progetto di Bramante stesso, nel frattempo, si era sviluppato ulteriormente: le colonne colossali nel vano della cupola principale sono scomparse, in compenso, nell’abside del braccio del transetto destro (quello settentrionale), Bramante schizza, con energici tratti di sanguigna, un nuovo sistema di suddivisione più differenziato, che si basa sulla combinazione di pilastri e paraste colossali e

colonne più piccole, che reggono degli architravi. Fu una delle invenzioni bramantesche più dense di conseguenze; Michelangelo la riprese nel Palazzo dei Conservatori, Vignola nel cortile di Villa Giulia. Anche qui restò senza risposta la questione della chiusura orientale dell’edificio. Sul bordo del suo controprogetto, Giuliano scrisse le parole: «In tutto canne 70»; probabilmente voleva indicare che il suo progetto non andava oltre le dimensioni complessive del piano pergamena49. In effetti il progetto di Bramante, da allora, si era ampliato sempre di più e si può ipotizzare (anche se non provare) che Giulio avesse sollevato obiezioni. Ciò che voleva era la sua cappella funeraria, il più in fretta possibile, ossia costruendola sui muri di fondazione già esistenti del coro di Niccolò. Se il papa e il suo architetto erano concordi nella volontà di una instauracio dell’edificio, le loro visioni per il futuro si trovavano su piani diversi: per Bramante si trattava della realizzazione di un’idea architettonica che aveva un significato soltanto nel suo complesso; per Giulio in primo piano c’era la cappella del coro, della cui liturgia e iconografia continuò a occuparsi finché, nel 1513, due giorni prima della sua morte, diede la forma definitiva alla fondazione della «Cappella Giulia»50. Bramante reagisce a suo modo: sviluppa il iii progetto, che tiene conto del desiderio del papa e, allo stesso tempo, porta a completa maturazione la sua propria concezione. Di questo progetto non esistono disegni delle

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14. Giuliano da Sangallo, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 9a.

17. Bernardo della Volpaia, Pianta di S. Pietro. Londra, Sir John Soane’s Museum, Cod. Coner.

15. Giuliano da Sangallo, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 7a. 16. Bramante e Raffaello, Progetto per S. Pietro (da Serlio 1540).

bozze, ma se ne può ricavare un’immagine soddisfacente dalle testimonianze successive. Si tratta da un lato di tre grandi progetti di Giuliano da Sangallo, probabilmente risalenti al primo anno di pontificato di Leone x, quando il fiorentino potrebbe aver sperato nuovamente di ottenere la carica di architetto di S. Pietro; dall’altro una xilografia di Sebastiano Serlio, pubblicata nel 154051. I disegni meticolosamente dettagliati di Giuliano si riallacciano evidentemente ai progetti di Bramante, ma ne offuscano l’immagine attraverso alcune varianti, con cui Sangallo aspirava di nuovo a «migliorare» l’opera del concorrente. La xilografia tratta dal «Terzo libro» di Serlio è schematizzata dal punto di vista grafico e grossolanamente semplificata nei dettagli, ma da essa emerge in maniera pura l’idea del progetto di Bramante (senza il «coro di Giulio»). Saltano all’occhio tre innovazioni: 1) le cupole secondarie sono state rimpicciolite in modo che, ormai, possono essere proseguite come serie sulle navate laterali del corpo longitudinale; 2) le navate laterali interne del corpo longitudinale sono ora bloccate dai contropilastri;

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in compenso, sui lati esterni, si aggiunge una successione di cappelle secondarie; 3) le pareti del braccio del coro, dei bracci del transetto e del corpo longitudinale sono ora suddivise ininterrottamente secondo il principio della «travata ritmica», ovvero lo schema dell’arco di trionfo. Tutte e tre le innovazioni sono contenute nella planimetria del nucleo dell’edificio, iniziato nel 1506, e quindi risalgono ancora a Bramante. Caratterizzano il suo iii progetto come sintesi felicemente riuscita delle due parti della costruzione: l’obiettivo era che sorgesse un edificio longitudinale che accogliesse in sé la struttura dell’edificio a pianta centrale con la quincunx. Si potrebbe parlare di una basilica con chiesa a croce inscritta integrata. Il piano di esecuzione e il progetto della cupola Va distinto da tutto ciò il «piano di esecuzione», secondo il quale si incominciò a costruire nel 1506. Possiamo desumere come fosse da un’istantanea della pianta

sorta con tutta probabilità poco dopo la morte di Bramante52. Mostra un «pasticcio» composto dal iii progetto e dal coro di Giulio, eretto su ordine del papa, che turba sensibilmente l’armonia dell’insieme; non resta posto per le due cupole laterali occidentali. Bramante, però, aveva strutturato il braccio del coro in modo tale che, fino al punto in cui comincia l’abside, le sue misurazioni coincidevano con quelle degli altri bracci della croce; le aperture laterali delle finestre corrispondevano alle arcate tra pilastri della cupola e contropilastri. L’abside, quindi, offriva la possibilità di essere prima o poi demolita e ricostruita nell’ottica del grande progetto (cosa che effettivamente avvenne nel 1585ss), senza dover intervenire sulla struttura portante del nucleo dell’edificio. Nel modello in legno che, secondo l’informazione fornita da Serlio, Bramante lasciò incompiuto («imperfetto»), questa sembra non essere stata realizzata; i successori di Bramante erano indecisi su come procedere. Non sappiamo nemmeno come Bramante immaginasse l’aspetto esterno della sua costruzione: se come un blocco cinto tutt’intorno da un

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18. Bramante, Progetto per la cupola di S. Pietro (da Serlio 1540).

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19. Bramante, Progetto per la cupola di S. Pietro (da Serlio 1540).

appare un guscio omogeneo come quello del Pantheon, il cui spessore diminuisce in maniera continuativa dalla base al vertice. Al vertice, però, non doveva restare aperta, bensì sorreggere una massiccia lanterna. Come avrebbe funzionato tutto ciò è una questione che resta aperta. Serlio stesso commenta la sua illustrazione, volgendo lo sguardo dall’epoca dopo il Sacco di Roma a ritroso, come esempio di inopportuna temerarietà costruttiva. Tuttavia, attraverso tutte le metamorfosi della storia successiva della progettazione – da Sangallo, passando per Michelangelo, per arrivare a Giacomo Della Porta –, resta viva l’idea di fondo di Bramante: la cupola del Pantheon posta su un tamburo circondato da colonne, dalle cui aperture fiotti di luce dall’alto si riversano all’interno dell’edificio. La costruzione (i)

ordine colossale (come si ricostruisce per lo più oggi) o se con forma digradante secondo la tipologia basilicale, in modo analogo all’immagine dell’edificio sulla medaglia di fondazione53. Dal passo di Guarna sopra citato, si può desumere inoltre che, nel modello, il corpo longitudinale fosse soltanto accennato; del resto, una volta individuato il sistema, esso poteva essere ripetuto con la frequenza desiderata. Anche il fronte porticato abbozzato nella pianta di Serlio, quindi, nella migliore delle ipotesi, può rifarsi a uno schizzo dell’idea di Bramante. Il suo colonnato andrebbe visto in analogia a quello del tamburo della cupola: un’idea che sarà ripresa da Michelangelo. L’ultimo oggetto del lavoro di progettazione di Bramante fu la cupola. Già nel progetto di Niccolò essa aveva costituito, in senso letterale, il motivo centrale del nuovo edificio. La sua emancipazione dallo schematismo della pianta quattrocentesca era stato il tema principale dei primi schizzi di Bramante. Nella veduta della medaglia di fondazione appare come simbolo di dominio che riunisce in sé tutte le linee della sottostruttura molteplicemente suddi-

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visa; i tre anelli della calotta potrebbero essere interpretati come allusione alla tiara papale. Nella versione definitiva di Bramante la cupola costituisce un pezzo di architettura spettacolare dotata di una sua legittimità intrinseca, che avrebbe segnalato già da lontano la basilica Petri ai pellegrini diretti a Roma. Quest’architettura ci è nota grazie a due xilografie di Serlio, una pianta e un prospetto suddiviso in veduta dell’interno e dell’esterno. Serlio non dice nulla a proposito delle sue fonti; se queste fossero state costituite da disegni di Bramante (o copie successive), saremmo di fronte a una delle testimonianze più precoci di rappresentazione di un progetto con una proiezione ortogonale coerente. Mostra una sintesi di elementi eterogenei – semisfera, tholos, periptero – che era già stata sperimentata in piccolo da Bramante nel suo Tempietto di S. Pietro in Montorio. Qui, però, il tutto non avrebbe poggiato sul terreno, ma sarebbe stato, per così dire, sospeso in aria su pilastri, archi e pennacchi, come la cupola della Hagia Sophia. Il tamburo avrebbe dovuto consistere in otto blocchi murari portanti e in otto luci. La calotta, invece,

Il 18 aprile 1506, sotto il pilastro sud-occidentale che sostiene la cupola – il «pilastro della Veronica» dell’edificio odierno – si pose la prima pietra del nuovo edificio; recava l’iscrizione «Aedem principis Apostolorum in Vaticano vetustate ac situ squalentem a fundamentis restituit Julius Ligurus pontifex maximus anno mdvi»54. Fu una grande cerimonia: il papa stesso scese nello scavo di fondazione e recitò la benedizione, e si seppellì un recipiente in terracotta con dodici esemplari della medaglia di fondazione. La scelta del luogo testimonia il doppio carattere dell’impresa: il pilastro era una componente sia del coro di Giulio, sia dell’area della cupola. Era ancora al di fuori dal perimetro della vecchia basilica; l’antico oratorio di S. Martino, di cui prendeva il posto, era già stato demolito da Niccolò v. Ma già un anno dopo, il 16 aprile 1507, seguì la fondazione dei «pilastri della basilica», cioè dei due pilastri orientali della cupola; le iscrizioni questa volta promettevano un nuovo edificio in digniorem amplioremque formam, facendo così esplicito riferimento al grande progetto di Bramante55. Questi pilastri si trovavano all’estremità occidentale del corpo longitudinale della vecchia basilica. Si era quindi già effettuato un intervento sulla sostanza del vecchio edificio. Da quel momento in poi, la demolizione e la nuova costruzione confluirono progressivamente l’una nell’altra. L’abside e l’altare della tomba, insieme a grandi porzioni della parete occidentale del vecchio transetto, furono momentaneamente risparmiati, così che il papa potesse continuare a dir messa in quel punto. Anche i frammenti dei muri di testa del transetto permangono ancora a lungo

nelle vedute, ma non quella occidentale delle due rotonde tardo-antiche, al cui posto doveva poi sorgere la nuova tribuna meridionale; l’antico nome di «Cappella del Re di Francia» passò poi a quest’ultima. L’intera metà occidentale del corpo longitudinale (undici di ventidue file di colonne) scomparve progressivamente, ma parti degli antichi colonnati con le pareti che li sormontavano erano ancora in piedi tra i pilastri in costruzione del nuovo edificio all’epoca di Heemskerck. Critica Il vecchio S. Pietro non faceva parte dei monumenti per i quali gli architetti del Rinascimento intraprendevano il viaggio a Roma. Era sì un edificio di epoca imperiale, ma gli esperti dell’architettura avevano da tempo imparato a vederla in maniera storicamente differenziata. Così il segretario papale Sigismondo dei Conti, nella sua cronaca del 1512, ripete sì il titolo elogiativo tradizionale di «basilica augustissima», aggiungendo però che era stata eretta in un secolo rozzo e non più esperto della nobile architettura (rudi saeculo et politioris architecturae ignaro)56. E quando Giulio ii dichiara di voler rimaneggiare la costruzione in digniorem formam, ciò implica la sua critica (o quella di Bramante) all’architettura di Costantino. Per molti contemporanei, però, l’energia con cui si attaccava l’antico edificio aveva anche qualcosa di spaventoso57. Sembrava che il papa stesso si accingesse a distruggere il monumento principale della tradizione petrina a Roma. Panvinio (che, nella seconda metà del secolo, volge lo sguardo al passato) elogia l’iniziativa di Giulio, ma aggiunge che esponenti di tutti i ceti sociali e anche alcuni cardinali le si erano opposti. Paolo Cortesi rimprovera i critici: si sarebbero comportati «come se la chiesa di S. Pietro fosse stata data alle fiamme di proposito», alimentando così l’agitazione generale. Era un momento critico per Roma e per la Curia: nella discussione sul nuovo edificio confluiva la critica, accumulatasi da tempo soprattutto nei Paesi a nord delle Alpi, nei confronti della mondanizzazione della Chiesa. Così Giulio ii, le cui attività politico-belliche erano contestabili sotto diversi punti di vista, divenne il bersaglio di violenti attacchi come quello del dialogo anonimo Julius exclusus e coelis (probabilmente riconducibile a Erasmo da Rotterdam). Per opporsi a questi attacchi, gli autori vicini a Giulio cercarono di addossare la responsabilità della distruzione del vecchio edificio all’architetto, che avrebbe persuaso il papa a compiere questo passo. I

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Capitolo terzo

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20. Bramante (?), Impalcatura per S. Pietro. Firenze, gdsu 226a.

22. Antonio da Sangallo, Coro di Giulio ii. Firenze, gdsu 44a.

21. Domenico Aymo da Varignana (?), Impalcatura per S. Pietro. New York, Pierpont Morgan Library, cod. Mellon.

23. A. Bruschi / S. Guidi, Ricostruzione del coro di Giulio (da Bruschi 1987). 24. A. Bruschi / S. Guidi, Ricostruzione del coro di Giulio (da Bruschi 1987).

nemici più acerrimi di Bramante erano da cercare tra il clero della basilica (le cui entrate erano vincolate al vecchio edificio). Il maestro di cerimonie Paride de Grassis ribattezzò Bramante «Ruinante»58 – un soprannome che rimase perché offriva agli storici della Chiesa della Controriforma un appiglio per discolpare il papa. Dopo la morte di Bramante, Andrea Guarna da Salerno discusse la questione sotto forma di un dialogo (ispirato da Erasmo) davanti alle porte del Paradiso: Bramante desidera entrare, ma Pietro respinge il distruttore della sua chiesa; questi reclama per sé il ruolo di un tecnico, che esegue soltanto ciò che gli viene ordinato (pur rivendicando per questo la libertà decisionale dell’artista). Alla fine Pietro promette di accoglierlo, ma soltanto dopo il completamento del nuovo edificio59. Nel complesso, prevalsero però – per lo meno in Italia – le voci positive. Teologi e umanisti della Curia, come Egidio da Viterbo, Francesco Albertini, Andrea Fulvio e Cornelius de Fine, furono entusiasti sostenitori del nuovo edificio; se ne ammiravano la grandezza, bellezza, «magnificenza», se ne motivava la necessità. Un principe deve lavorare per il suo onore e per la sua memoria attraverso l’attività costruttiva, come «or fa papa Iulio nel tempio di S. Pietro», scrisse Baldassar Castiglione nel Cortegiano; Egidio paragonò Giulio ii al re Salomone, fornendo così (ex post) una giustificazione dell’impresa basata su passi biblici. L’idea della chiesa come istituzione di questo mondo, che doveva dispiegare potere e sfarzo, non era in discussione. La costruzione (ii) Nei primi anni la costruzione era proceduta rapidamente60. Già nel 1507 si erano assegnati i lavori degli scalpellini per i capitelli delle grandi paraste dell’interno; nel 1509, si posarono i primi capitelli e parti della trabeazione. Allo stesso tempo si lavorò alle centine per gli archi portanti della cupola, già un anno prima si erano messe le basi per il rifornimento di travi61. Le larghezze delle navate da coprire, pari a quasi 24 m, sollevarono problemi costruttivi. Un disegno, forse di mano di Bramante, illustra il complesso incastro delle travi delle impalcature. Fu pubblicato come incisione da Jacob Bos: anche come campo sperimentale in ambito tecnico il cantiere di S. Pietro suscitava largo interesse. Una costruzione analoga compare in un foglio del taccuino di schizzi della collezione Mellon. Mirava evidentemente a far risparmiare tempo l’invenzione bramantesca, celebrata da Vasari, di

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fabbricare volte con il loro ornato a cassettoni attraverso casseforme in legno, con un procedimento a colata di calcestruzzo, come negli edifici di epoca imperiale62. Di Antonio da Sangallo si sono conservati dei disegni per i necessari moduli in legno (capsae). A partire dal 1510-11 nel cantiere cominciarono a verificarsi dei ritardi e il flusso di denaro iniziò a bloccarsi. Alla morte del papa, nel febbraio 1513, la costruzione grezza del coro di Giulio era stata completata, ma mancava ancora la volta. Siamo ben informati sul suo aspetto grazie ai rilievi e alle vedute contemporanee. La pianta era formata dalle fondamenta di Niccolò, con l’antecoro rettangolare e l’abside semicircolare, con rivestimento poligonale. Attraverso cinque finestre ad arco alte e larghe, che dove-

vano essere sbarrate da colonnati architravati, la luce si riversava all’interno. Le volte erano cassettonate, la calotta dell’abside era riempita da una gigantesca conchiglia. Le vedute mostrano anche lo stadio raggiunto dalla costruzione nel vano centrale: i quattro pilastri erano in piedi, nelle loro parti superiori era già impostato l’ottagono che doveva servire come sottostruttura del tamburo della cupola. Tra di loro erano tesi i quattro arconi trasversali. Se si considerano le dimensioni dell’insieme, questo era un risultato stupefacente. Nasceva dallo stile di lavoro personale di Bramante; Vasari affermava che voleva vedere i suoi edifici «non murat[i], ma veramente nat[i]»63. Il detto, inteso più che altro in senso ironico, coglie con precisione sia lo stile di progettazione, sia la prassi costruttiva: già i primi inizi frammentari dovrebbero dare vita all’idea dell’insieme. Già durante il lavoro sulla planimetria vengono schizzati degli interni, sullo stesso foglio. L’altro lato della medaglia di questa impazienza creativa

erano i difetti tecnici che emersero ben presto e motivarono la «cattiva fama» di Bramante come costruttore64. I quatto grandi pilastri avevano fondazioni insufficienti; la loro sottostruttura dovette essere rettificata più volte, prima di poter sostenere il peso della cupola. Nel coro di Giulio si manifestarono dei danni quando era ancora in costruzione. Quando, nel 1585, fu demolita, la grande conchiglia della calotta dell’abside era spaccata in due parti da una crepa65. L’obiettivo che Bramante voleva raggiungere era la costruzione della grande cupola: avrebbe coronato la sua

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25. Antonio di Pellegrino, Studio per i pennacchi di S. Pietro. Firenze, gdsu 124a recto. 26. Antonio di Pellegrino, Studio per i pennacchi di S. Pietro. Firenze, gdsu 124a verso.

opera e l’avrebbe resa sicura da interventi successivi per tutti i tempi a venire. «Prima ch’ei morisse», Bramante avrebbe elaborato il suo progetto, scrive Serlio. Sotto la sua guida, l’edificio progredì fino al punto in cui cominciavano i pennacchi, che dovevano effettuare il passaggio dall’ottagono irregolare del vano della cupola alla base circolare del tamburo. Già qui sorsero dei problemi, che resero necessari procedimenti nuovi, non ancora sperimentati. La distanza interna tra due fronti dei pilastri disposti dirimpetto l’uno all’altro era pari a 48 m; su una distanza del genere era impossibile tendere delle corde che partissero da un punto centrale per il controllo dei profili di curvatura. Un disegno della collezione degli Uffizi si occupa di tale questione. Il suo autore è Antonio di Pellegrino, un carpentiere che in quegli anni lavorava per Bramante; lo vediamo qui nel ruolo di un ingegnere edile che, al tavolo da disegno, cerca di calcolare che cosa deve accadere al cantiere66. Tratta i pennacchi, in maniera stereometricamente corretta, come sezioni trapezoidali di una semisfera, che poggia sulla travatura dei pilastri della cupola. Il recto del foglio mostra una planimetria misurata esattamente del vano della cupola, il verso una sezione del pennacchio. Lì, in intervalli di 10 palmi, viene misurata la distanza dalla curva ascendente della volta da un’immaginaria verticale; nella pianta la curvatura si mostra sotto forma di isoipse, come quelle che oggi sono usate in cartografia. Nella pratica le condizioni si dimostrarono ancora più complicate. Così, in un primo momento, le parti iniziali dei pennacchi furono costruite come volte a botte; avrebbero dovuto confluire in superfici incurvate in modo sferico solo più in alto. L’architettura di Bramante Il S. Pietro di Bramante indirizzò su un corso nuovo l’architettura sacra d’Occidente. Bramante collegò lo strumentario di articolazione tettonica «all’antica», elaborato da Brunelleschi e Alberti, a una struttura di pilastri e volte di dimensioni inaudite, caricandolo così di un pathos destinato ad agire per secoli. Secondo la testimonianza di Egidio da Viterbo, durante una discussione con il papa Bramante aveva formulato, in maniera sorprendentemente chiara, il programma di un’«estetica dello sconvolgimento» (R. Preimesberger): il visitatore di S. Pietro sarebbe stato scosso e reso attonito dallo spettacolo dell’enorme edificio (templum ingressurus […] commotus attonitusque novae molis aspectu ingrediatur) e portato

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così a uno stato d’animo ricettivo alle verità della fede cristiana. Infatti: «La pietra attaccata alla roccia può essere smossa soltanto a fatica, mentre quella che si è staccata dal suolo si può rivoltare facilmente. Allo stesso modo chi è diventato insensibile ed è pietrificato nell’animo, una volta che una forte emozione lo abbia scosso, si prostrerà spontaneamente nei templi e davanti agli altari»67. Il discorso di Bramante, semmai avvenuto, documenterebbe quanto meno l’eloquenza che l’architetto seppe impiegare davanti al suo committente. Papa Giulio condivideva con i suoi predecessori il proposito di costruire in grande e impressionare così i contemporanei e i posteri; anche Niccolò v e Costantino

la pensavano in questo modo68. Tuttavia per loro il concetto di grandezza era sostanzialmente quantitativo: ciò che distingueva i loro progetti da altri erano le dimensioni eccezionali. L’edificio di S. Pietro che Bramante aveva in mente e che prese forma nei suoi disegni a sanguigna era qualcosa di più di un edificio enormemente grande: rappresentava l’enormità stessa. Le premesse oggettive – di carattere topografico, tipologico, formale – confluite nel lavoro di progettazione furono tradotte in invenzione, ritornando come espressione della soggettività artistica. A Milano, ignorando sovranamente la ristrettezza dello spazio per costruire, Bramante aveva immaginato il coro di S. Maria presso S. Satiro come bassorilievo: a S. Pietro fu l’edificio stesso, nella sua totale e immensa tridimensionalità, ad assumere carattere immaginativo. Non conosciamo disegni di Bramante che riproducano monumenti dell’antichità, né dichiarazioni in cui si parli di modelli. Soltanto i suoi schizzi sul margine del verso della prima bozza di Giuliano fanno riconoscere in quali orizzonti si muovesse la sua fantasia: erano quelli di una storia architettonica mondiale. A Milano il Duomo gotico ne faceva parte quanto l’edificio tardo antico a pianta centrale di S. Lorenzo Maggiore. Il paradigma storico di un tempio cristiano di rango imperiale era considerata l’Hagia Sophia; a Bramante essa doveva essere probabilmente nota, anche se non l’aveva vista di persona. Ciò che aveva davanti agli occhi a Roma era il Pantheon: uno spazio sacrale pagano di dignità incontestabile, ineguagliato per dimensioni e allo stesso tempo – a differenza delle basiliche cristiane imperiali – un esempio di un’architettura grande nel significato più eccelso, perfetta sia dal punto di vista estetico, sia da quello tecnico, sfida permanente per gli architetti del tempo. Questo era l’edificio a cui anche Bramante sempre ritornò. Era cosa nota che la cupola di S. Pietro dovesse eguagliare quella del tempio antico romano, anzi, dovesse superarla. Ma Bramante sembra aver studiato anche il tessuto murario della sottostruttura, che all’epoca era in parte allo scoperto, con le sue strutture di alleggerimento. Già Alberti (e prima di lui forse Brunelleschi) aveva riconosciuto che la cupola del Pantheon non è sorretta da pareti omogenee, ma da un’impalcatura di sostegni (solis ossibus) nei cui interstizi si aprono nicchie e vani secondari; questa soluzione era considerata più elegante, leggera ed economicamente conveniente della costruzione a muri pieni69. Il Pantheon offriva l’esempio più grandioso della tecnica praticata da Bramante di costruzione delle volte con il procedimento della colata di cal-

cestruzzo; anche questo era già stato analizzato da Alberti70. Le paraste colossali all’interno di S. Pietro furono a imitazione di quelle del pronao del Pantheon; Bramante istruì i suoi scalpellini a prendere a modello i loro capitelli («quelli di Sancta Maria Ritonda nel portico di fora [...] cusi bene cavati»)71. Un disegno di lavoro pervenutoci di questi capitelli, meravigliosamente vivace, è forse di sua mano72. Anche le rispettive trabeazioni seguono il modello del Pantheon. Nel pronao del Pantheon si può vedere la combinazione di paraste colossali corinzie e nicchie monumentali che caratterizza i pilastri della cupola bramanteschi. All’interno della rotonda, le colonne stanno isolate davanti allo sfondo semibuio dell’ambiente; lo stesso effetto si sarebbe presentato nelle tribune dotate di deambulatori di Bramante. Le «nicchie di 40 palmi» sul retro dei pilastri della cupola di S. Pietro corrispondono, con stupefacente esattezza, per dimensioni e proporzioni, alla nicchia dell’abside del Pantheon73; con la loro altezza d’imposta di 60 palmi (≈ 45 piedi romani), che ritorna nel colonnato della navata centrale della vecchia basilica, forse nel sistema dell’alzato bramantesco confluì una norma edile dell’architettura romana antica. Infine, anche l’idea di una facciata di ingresso sotto forma di un portico a colonne colossali sembra ispirata dal Pantheon; lì contrasta con un corpo di fabbrica in laterizio semplice, non intonacato, analogo a quello del coro bramantesco di Giulio. Nel S. Pietro di Bramante tutto ciò si condensa in un’architettura di grande impatto, ma caratterizzata in ogni sua parte da un’organizzazione razionale. Qui sta un punto fondamentale per la comprensione dell’edificio: la retorica della membratura, per quanto potente fosse il suo effetto, restò inserita nella logica della struttura complessiva spaziale-corporea. Non esistevano aggettanze e rientranze non motivate da una funzionalità strutturale, né elementi solo aggiuntivi, né ambivalenze pittoresche, non c’era posto per accessori plastico-decorativi. A quanto pare, Bramante non volle nemmeno gareggiare con l’opulenza materiale dell’interno dell’antichità (mentre, per la sua Cappella Giulia, il papa intendeva usare l’ornato più prezioso). L’immagine dell’interno, quindi, va pensata come piuttosto sobria: predominante era il colore del travertino romano, le forme architettoniche sarebbero risaltate con lo stesso nitore e la stessa purezza di quelle del Tempietto o del coro di S. Maria del Popolo. L’ornato barocco, che fa sfoggio di marmi e mosaici in oro, nel cui contesto percepiamo oggi l’architettura bramantesca di S. Pietro, è fuorviante.

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27. Bramante (?), Studio per un capitello di S. Pietro. Firenze, gdsu 6770a.

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28. S. Pietro, Capitello dell’ordine gigante interno.

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29. S. Pietro, Pilone della cupola.

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30. S. Pietro, Pennacchio della cupola.

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31. Alzato del tegurio di Bramante (da Apollonj Ghetti 1951).

33. Leone x offre il tegurio a san Pietro (Moneta di Leone x).

32. S. Pietro, Grotte vecchie, avanzo dello zoccolo del tegurio.

I papi Medici Negli anni dei papi Medici la costruzione crebbe soltanto a rilento. Sotto Leone x (1513-1521) fu realizzato il «tegurio» (edificio protettivo) di Bramante sopra la tomba, sotto Clemente vii (1523-1534) il deambulatorio della tribuna meridionale; entrambi oggi non esistono più. Nell’edificio odierno risalgono a quell’epoca le volte a botte sfarzosamente decorate sui passaggi tra pilastri della cupola e contropilastri meridionali. Progettate da Raffaello e da Sangallo, esalano ancora lo spirito del pontificato leonino, benché fossero realizzate soltanto sotto Adriano vi (1522-23) e Clemente vii74. Leone x Già Giulio ii aveva avuto il presagio che il «suo» S. Pietro si sarebbe inceppato in una crisi. L’euforia dei primi anni, che si sente nella medaglia di fondazione di Giulio, verso la fine del suo pontificato si era convertita nel pessimismo più cupo: il papa si era reso conto che ciò che gli aveva suggerito Bramante non si poteva realizzare d’un colpo solo. Già nel 1508, in un breve indirizzato al re di Polonia, prorompeva in autoaccuse: «Per nostra vergogna la Basilica del Principe degli Apostoli è ridotta in gran parte ad un cumulo di macerie e il suo rinnovamento (instauracio) richiede somme incredibili»75. Gli appelli per ottenere offerte rivolti ai sovrani cristiani d’Europa minacciavano di gravare ulteriormente sul rapporto già teso delle varie potenze con la Santa Sede; Giulio, inoltre, con lo scopo dichiarato di procurarsi i mezzi per realizzare la costruzione, aveva forzato la vendita delle indulgenze nelle province ecclesiastiche al di fuori dell’Italia e Leone proseguì su questa strada76. Vi si oppose Martin Lutero, aiutando in questo modo il rancore contro Roma, accumulatosi in Germania da generazioni, ad esplodere. Così l’edificio, concepito come simbolo dell’unità della Chiesa sotto il primato del papa, divenne uno dei fattori scatenanti della Riforma protestante, che spezzò quest’unità. Giovanni de’ Medici, che successe al papa Della Rovere con il nome di Leone x, prestò scarsa attenzione a questi processi. Mentre a Wittemberg Lutero formulava le sue tesi, a Roma ci si beava in visioni artistiche. Raffaello, nominato da Leone nuovo mastro costruttore di S. Pietro, scrive a casa che S. Pietro era la più grande impresa edile del mondo, sarebbe costata più di un milione di ducati d’oro e il papa non pensava ad altro; lo faceva convocare

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ogni giorno per discutere con lui della costruzione77. Le condizioni in cui Giulio aveva lasciato l’impresa, intanto, erano parecchio problematiche. Mezza rovina, mezza cantiere, la basilica di S. Pietro, ciononostante, era la chiesa del papa e la meta di pellegrinaggio più importante per la cristianità occidentale. Al successore, quindi, spettava un doppio compito: doveva provvedere alla prosecuzione del nuovo edificio, ma allo stesso tempo creare condizioni degne per la prassi di culto attuale. Il problema più urgente era costituito dall’accesso alla tomba di Pietro con l’altare del papa. Al centro del cantiere si erano conservate l’antica abside con la sua dotazione e una parte della parete del transetto che la circondava, che ora però erano abbandonate alla rovina, ritrovandosi a cielo aperto. Leone, perciò, diede disposizione di racchiudere l’intero complesso, come una sorta di monumentale reliquia, in un edificio protettivo fisso («tegurio»)78. Questo fu il primo e il più importante proposito edilizio del nuovo papa e, al contempo, l’ultimo contributo di Bramante alla storia della basilica di S. Pietro. L’anziano maestro si mise al lavoro con la consueta tempestività. La costruzione iniziata per la Pentecoste del 1513 e terminata alla meno peggio dopo la morte di Bramante assolse il suo scopo fino alla fine del secolo; poi cadde vittima del progredire del nuovo edificio, come già il bramantesco coro di Giulio. Si è conservato lo zoccolo della parte anteriore del tegurio; alcune parti si possono vedere ancora oggi nelle Grotte della basilica79. Conosciamo il prospetto dell’edificio grazie a varie vedute, oltre a riproduzioni di dettagli di architetti contemporanei, che studiavano le opere romane di Bramante. Secondo questi documenti, si trattava di un’architettura in peperino priva di ornato, suddivisa da arcate a pilastri (tre nella parte anteriore e una ciascuna sui due lati) con un ordine di semicolonne doriche. Le dimensioni dell’edificio – che, nelle rispettive occasioni, doveva essere in grado di accogliere tutta la cappella papalis comprendente il collegio dei cardinali e i legati degli stati cristiani – erano notevoli: era largo 22 m e profondo (fino all’antico muro del transetto) 10 m. Sopra l’attico eretto soltanto nel 1523-24 da Peruzzi, le vedute mostrano delle mura lisce e un semplice tetto a due spioventi, una soluzione di ripiego improvvisata nel 1526. Probabilmente sopra la tomba era invece progettata una cupola: il tegurio di Leone, in questo caso, avrebbe rappresentato una sorta di chiesa nella chiesa. Una moneta di Leone x mostra il papa che presenta un modello della sua costruzione al Principe degli Apostoli in trono; l’iscrizione recita: «Petre ecce templum tuum». Per lo meno in questa forma,

Leone voleva soddisfare i suoi obblighi nei confronti del patrono dell’edificio80. Gli architetti Se sotto Leone il nuovo edificio stesso procedeva soltanto a fatica, i motivi non vanno ricercati solo nel committente. Pare invece che la morte di Bramante l’11 marzo 1514 abbia suscitato una sorta di crisi di leadership tra gli architetti della Fabbrica. La situazione del personale era comunque complicata. Bramante aveva formato un team di abili collaboratori (Antonio da Sangallo, Antonio di Pellegrino), ma aveva preso in prima persona tutte le decisioni legate alla progettazione. Ora Leone ritenne di affiancare al vecchio maestro due altri anziani, il settantenne Giuliano da Sangallo e l’ultraottantenne Fra’ Giocondo. Giuliano era l’architetto di casa Medici e presumibilmente il papa sentiva nei suoi confronti una sorta di dovere personale. Fra’ Giocondo all’epoca soggiornava a Venezia e arrivò a Roma soltanto dopo la morte di Bramante. Il «frate doctissimo» era celebre come esperto di Vitruvio (il giovane Raffaello sperava di apprendere da lui un qualche «bel segreto» dell’architettura)81, ma anche come pratico, soprattutto in questioni di edilizia sotterranea; probabilmente il suo primo compito fu quello di occuparsi dei problemi tecnici dell’edificio bramantesco. Entrambi erano fuori discussione come successori

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dell’architetto in capo. Bramante stesso prediligeva come successore l’allora trentenne Raffaello e Leone, evidentemente, non vide alcun motivo per non dar seguito a questo desiderio. Il 1° aprile 1514 Raffaello ricevette la direzione dei lavori e il 1° agosto fu insediato ufficialmente in carica come magister operis82. Fra’ Giocondo ottenne lo stesso titolo, mentre Giuliano fu nominato administrator et coadiutor operis. Tutti e tre ricevevano lo stesso salario83. In tal modo si instaurò il principio della «direzione collegiale» dell’edificio. I problemi non si sarebbero fatti attendere. Raffaello si guadagnò i suoi primi allori con l’integrazione e il completamento del modello dell’edificio di Bramante, semplicemente ignorando il problema del coro di Giulio, ormai costruito; diede al corpo longitudinale la sua lunghezza completa di cinque campate. Al cantiere, invece, il comando spettava a Fra’ Giocondo. Doveva fare i conti con il braccio del coro di Bramante. La sua decisione sembra essere stata quella di rinunciare alle cupole secondarie occidentali, facendo terminare le navate laterali con nicchie dotate di passaggi ai vani secondari. In tal modo si bloccava la prosecuzione dell’edificio nell’ottica del grande progetto84. Il frate morì nel 1515; nello stesso anno Giuliano, che non aveva potuto imporsi nella progettazione dell’edificio nemmeno dopo la morte di Bramante, rassegnò le dimissioni e ritornò a Firenze, dove morì nel 1516. A questo punto Raffaello, pieno di incarichi pittorici, aveva davvero bisogno di aiuto. La scelta cadde sul nipote di Giuliano, Antonio da Sangallo. Formatosi come architetto «venendo dalla gavetta» e avendo dimestichezza con l’edificio di S. Pietro fin dal periodo di Bramante, era l’uomo giusto per riportare sotto controllo il colossale cantiere. Nessuno gli stava alla pari per professionalità e ingegno analitico dell’architettura. Il 1° dicembre 1516 fu nominato «coadiutore» dell’architetto in capo. Ufficialmente subordinato a questi – riceveva soltanto la metà del salario – entrò subito nella progettazione dell’edificio; di sua mano è la maggior parte delle bozze di progetti per l’edificio nel suo complesso e per tanti particolari, preparati con studi e schizzi sempre nuovi, degli anni successivi. Il loro primo risultato fu un modello fabbricato tra il 1518 e il 1519, che ridefiniva la struttura dell’edificio nel suo complesso e, con il corpo longitudinale e la facciata, le cupole e i campanili, deve aver rappresentato un sontuoso «castello in aria»; non si è conservato, ma i disegni che lo riproducono, ad opera di un architetto dell’epoca – probabilmente Domenico Aymo da

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34. Domenico Aymo da Varignana (?), Alzato del modello di Raffaello / Antonio da Sangallo del 1518-19. New York, Pierpont Morgan Library, Cod. Mellon.

35. Jean de Chenevières, Pianta del modello di Antonio da Sangallo del 1521. Monaco di Baviera, Staatsbibliothek, Cod. icon. 195.

36. Antonio da Sangallo, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 254a.

Varignana – ce ne danno un’immagine chiara85. Poi, nel 1519, si avviò la costruzione della tribuna meridionale. Una nuova crisi minacciò di esplodere nel 1520, a causa della morte improvvisa di Raffaello. A quanto pare, fu risolta senza grandi discussioni con la promozione di Sangallo ad architetto in capo. La carica di secondo architetto andò a Baldassare Peruzzi, di certo la mente più interessante tra gli architetti attivi a Roma in quel periodo. Sangallo, però, mantenne saldamente in mano la costruzione. Nel 1521 fece realizzare un nuovo modello, probabilmente più piccolo; anche questo ci è noto soltanto da disegni frammentari di un architetto francese, Jean de Chenevières. Rimase valido sino alla fine degli anni dei Medici86.

de ora dei progettisti: oltre cinquanta bozze di progetto per S. Pietro conservate agli Uffizi risalgono all’epoca dei papi Medici. Ma soltanto una parte di esse servì direttamente alla prosecuzione della costruzione, un’altra, altrettanto grande, si riferisce all’edificio nella sua totalità, con corpo longitudinale, atrio, facciate e campanili – uno stadio, quindi, che all’epoca nessuno poteva sperare di raggiungere. In questa circostanza si potrebbe riconoscere – come nel tegurio di Leone – un tratto compensatorio: il completamento del nuovo edificio, per il momento irraggiungibile nella realtà, venne anticipato sulla carta87. Qui non c’erano limiti alla fantasia. Anche un progettista che pensava in maniera tanto realistica come Antonio da Sangallo appena entrato in carica – o forse anche prima – produceva un «piano ideale», che dimostrava come, secondo lui, si dovessero sviluppare ulteriormente, in maniera sensata, gli inizi stabiliti da Bramante (gdsu 254a). Il fatto che le dimensioni del suo progetto avrebbero superato qualsiasi misura ragionevole – la lunghezza

dalla testata del coro fino alla facciata sarebbe stata pari a 420 m – non lo turbava minimamente: con meticolosità indicava il punto in cui, secondo i suoi calcoli, si doveva trovare l’ingresso al Palazzo Vaticano («porte vecchie»). Da sogni del genere vanno distinte progettazioni utopiche, ovvero non legate a presupposti topografici, come ad esempio l’«opinione» di Fra’ Giocondo, databile ancora all’epoca di Giulio ii e nata ovviamente lontano da Roma88. Esempi più tardi furono forniti soprattutto da Peruzzi. Presentano ciò che era ipotizzabile, ma non fattibile nelle circostanze date. La creatività che emerge in questi progetti colpisce, ma sa anche un po’ di accademismo. Staccatasi dalla storia concreta dell’edificio, la progettazione di S. Pietro si era trasformata nell’«alta scuola» dell’architettura rinascimentale. Sulle idee degli architetti che allora lavoravano a S. Pietro siamo informati in maniera non uniforme. Non ci sono pervenuti disegni di Fra’ Giocondo risalenti all’epoca della sua attività come magister operis; non possiamo

Progettazioni Mentre la situazione in loco era bloccata, la nuova basilica cresceva sulle tavolette da disegno. Questa fu la gran-

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Capitolo terzo

Il nuovo S. Pietro

37. Fra’ Giocondo, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 6a. 38. Raffaello, Studi per gli affreschi della Stanza d’Eliodoro, con schizzo per S. Pietro. Firenze, gdsu 1973f. 39. Volta a botte tra pilone e contropilone sotto l’Ottagono di Simon Mago.

quindi supporre come pensasse di proseguire la costruzione di Bramante. Stranamente lo stesso vale per Raffaello: nonostante fosse responsabile dei destini dell’edificio per sei anni, non conosciamo progetti di sua mano89. Sicuramente dobbiamo a lui la volta a botte cassettonata, secondo il modello della basilica di Massenzio, eseguita dopo la sua morte, tra i pilastri della cupola e i contropilastri del braccio meridionale del transetto; Bramante lì aveva previsto delle volte a crociera. Non si può nemmeno dubitare della presenza di idee raffaellesche nelle parti allora iniziate della tribuna meridionale, così come anche nel modello del 1518-19; l’abbondanza di elementi decorativi di membratura e la sua composizione «densa» sono caratteristiche tipiche delle sue architetture. La loro elaborazione per arrivare a un progetto pronto per la costruzione, però, si può seguire soltanto nei disegni e negli schizzi di Antonio da Sangallo. Questo rende difficile delineare un’immagine sufficientemente nitida del ruolo di Raffaello in questo processo.

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Capitolo terzo

40. Antonio da Sangallo, Progetti per S. Pietro. Firenze, gdsu 255a.

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41. Antonio da Sangallo, Profilo di base dell’ordine gigante nell’interno. Firenze, gdsu 7976a verso.

42. Antonio da Sangallo, Studi per S. Pietro. Firenze, gdsu 35a. 43. Antonio da Sangallo, Studi per S. Pietro. Firenze, gdsu 37a. 44. Antonio da Sangallo, Studi per la tribuna sud. Firenze, gdsu 45a.

Di Giuliano da Sangallo non abbiamo bozze di progetti, ma tre grandi planimetrie dell’intero edificio, che si discostano le une dalle altre soltanto per alcuni dettagli. La prima non è completata del tutto, la seconda è completa, la terza, forse disegnata da suo figlio Francesco, era destinata al «Libro» di Giuliano stesso. Non ci sono appigli per la loro datazione, ma la data più probabile è l’anno dell’ascesa al soglio pontificio di Leone x, il 1514. Alla base delle planimetrie c’è comunque il piano di esecuzione di Bramante, con il coro di Giulio e il corpo longitudinale che comprende cinque campate. Come all’epo-

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45. Antonio da Sangallo, Studi per la tribuna sud. Firenze, gdsu 46a. 46. Antonio da Sangallo, Studi per S. Pietro. Firenze, gdsu 54a. 47. Antonio da Sangallo, Studi per S. Pietro. Firenze, gdsu 70a.

ca per il «piano pergamena», anche qui Giuliano avanza le sue proposte di miglioramento. La più importante sta nell’allungare i bracci del transetto di una campata intermedia; così i deambulatori delle tribune, che in Bramante sporgono all’esterno dell’edificio soltanto come segmenti, formano qui semicerchi completi. Non ne risulta un’idea nuova dell’insieme; non emerge nemmeno l’impressione che Giuliano abbia ancora pensato seriamente di intervenire nel processo di costruzione in corso. Sembra che gli importasse più che altro di fissare la sua versione del piano, conservandola per se stesso e per i posteri.

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Capitolo terzo

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48. Antonio da Sangallo, Progetti per l’esterno della tribuna sud. Firenze, gdsu 122a.

49. Antonio da Sangallo, Memoriale per la progettazione di S. Pietro (inizio). Firenze, gdsu 33a recto. 50. Antonio da Sangallo, Memoriale per la progettazione di S. Pietro (fine). Firenze, gdsu 33a verso.

Anche il nipote di Giuliano, Antonio, all’inizio della sua attività per S. Pietro si occupò di elaborare e perfezionare le idee di altri – prima di Bramante e poi di Raffaello. In generale, era un perfezionista, che disegnò persino una versione migliorata del Pantheon. La gamma dei suoi fogli, di cui molti si sono conservati e che furono raccolti e ordinati da lui stesso, parte dal piano di presentazione dell’intero edificio per scendere fino ai disegni di cantiere per gli scalpellini. I suoi fogli di lavoro sono protocolli di sforzi infiniti: con acribia, con l’ossessione per il dettaglio, si sperimenta, si rettifica, si rivede, fino a raggiungere la soluzione giusta. Il tratteggio e l’ombreggiatura, talvolta anche una marcatura in gesso o a sanguigna, devono essere d’aiuto per orientarsi nel labirinto dei «pentimenti». Accanto alla versione finale c’è la parola «questo»; il disegno non viene elaborato oltre, ma riportato su un nuovo foglio. Le parti più difficili vengono esplicitate e chiarite in schizzi ai margini.

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Della tribuna meridionale, di cui avrebbe poi dovuto dirigere la costruzione, Antonio disegna studi planimetrici sempre nuovi, finché sono definite le dimensioni di ogni angolo di muro. Altri disegni sono dedicati all’alzato; soltanto qui diventa chiaro quali problemi Bramante avesse lasciato ai suoi successori. Bisognava pensare tutta l’area periferica dell’edificio – deambulatori delle tribune, navate laterali, cappelle secondarie – e chiarire la questione dell’illuminazione dell’interno. Sangallo disegna una sezione della tribuna e poi anche sezioni dell’intero edificio ed elabora piante e prospetti dettagliati dell’atrio e della facciata. Evidentemente si prefigge di pianificare fino in fondo l’intero progetto, di risolvere al tavolo da disegno tutti i suoi problemi (come cercherà di nuovo di fare in seguito nel suo grande modello per Paolo iii). Per il deambulatorio della tribuna meridionale sviluppa insieme a Raffaello quella sontuosa architettura esterna che traspo-

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ne poi in bella copia in due varianti. Fu eseguita quella di destra; come mostrano progetti successivi, doveva correre senza interruzioni intorno all’intero edificio. Nel corso del tempo, però, Sangallo aveva preso un po’ le distanze dal progetto, sui cui dettagli stava lavorando. Lo apprendiamo dalla minuta di un «memoriale» indirizzato al papa, che si trova su uno dei suoi fogli degli studi90. Il testo fu probabilmente formulato dopo la sua nomina a secondo architetto e integrato nuovamente dopo la morte di Raffaello; non sappiamo se sia mai stato trasposto in bella copia e consegnato al papa. Sangallo formula la sua critica in undici punti; negli ultimi due si attribuisce a Raffaello personalmente la responsabilità di dettagli non corretti (mentre non compare il nome di Bramante). Dopo che Sangallo era stato promosso a sua volta architetto in capo, presentò, come già menzionato, un suo modello – non però come controproposta, bensì una versione migliorata, secondo le sue idee, del progetto vigente. Per quanto riguarda il coro, non è chiaro se accettasse l’esistenza di quello di Giulio o se mettesse in conto il suo rimaneggiamento e il ritorno alla quincunx delle cupole; su questo punto i disegni sono contraddittori. Forse il modello prevedeva entrambe le possibilità. Come novità nella parte occidentale dell’edificio, saltano all’occhio delle

sacrestie d’angolo, che sporgono all’esterno con soltanto cinque dei lati dell’ottagono91. Sangallo progettava però delle modifiche sostanziali per il corpo longitudinale. Già nel suo memoriale aveva messo in guardia da una eventualità: se si fosse continuato a costruire secondo il progetto allora in vigore, la navata centrale sarebbe risultata simile a una «strada lunga, stretta e alta»92. Nella sua bozza di progetto di epoca precedente, quella dalla lunghezza eccessiva, lui stesso aveva contrastato questa tendenza, prevedendo tre cupole (probabilmente piatte, senza tamburo) al posto della volta a botte disposta longitudinalmente. Anche il piano più realistico (gdsu 255a) propone una serie di cupole sopra la navata centrale. Il passo successivo era la riduzione del corpo longitudinale a tre campate; grazie a una cupola centrale, esso viene ritmato in maniera energica. Questo fu l’approccio di Sangallo per affrontare il problema dell’integrazione tra pianta centrale e corpo longitudinale; nel suo grande modello per Paolo iii riprenderà nuovamente l’idea. Anche il modello del 1521 presentava una cupola sul corpo longitudinale. Progettista più audace e inventivo di tutti – e allo stesso tempo disegnatore più brillante – appare Baldassare Peruzzi. Il suo ruolo in questo gioco era quello dell’ispiratore di nuove idee. Con esse non contribuì a far procedere

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Capitolo terzo

51. Baldassarre Peruzzi, Studio per S. Pietro. Firenze, gdsu 38a.

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52. Baldassarre Peruzzi, Schizzo per S. Pietro. Firenze, gdsu 21a.

54. Baldassarre Peruzzi, Studio per S. Pietro. Firenze, gdsu 2a.

53. Baldassarre Peruzzi, Schizzo per S. Pietro. Firenze, gdsu 27a.

la costruzione e i suoi disegni quasi mai suscitano l’impressione che egli ci abbia seriamente provato. Peruzzi ignora tranquillamente le premesse create da Bramante, con cui si cimentava invece Sangallo; ciò che obbligava quest’ultimo a un accanito lavoro sui dettagli stimolava invece la sua fantasia. Le conquiste del concorrente vengono recepite o parafrasate con mano leggera. Le proprie creazioni compaiono spesso in schizzi prospettici, senza che si arrivi a un’elaborazione progettuale. Con pochi tratti di penna o anche di pennello si suggeriscono alla mente immagini di interni, come ad esempio lo scorcio di una navata laterale, fissato su un foglietto di soli 9 × 6 cm. Alcune vedute complessive del futuro edificio appaiono in una prospettiva a volo d’uccello; anche lo schizzo dell’edificio intero visto dall’esterno, in passato attribuito spesso a Bramante, misura soltanto 9 × 12 cm. Al di fuori di tutti i generi consueti si trova il grande piano prospettico di Peruzzi93 (gdsu 2a). Il disegno, probabilmente realizzato soltanto all’epoca di Paolo iii, forse concepito come presentazione, ma incompiuto, unisce pianta e veduta di prospetto in un’immagine di singola-

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re suggestività: l’edificio «cresce» davanti ai nostri occhi, dall’atrio accennato soltanto in pianta, passando per i contropilastri e i pilastri della cupola orientali, che arrivano solo a mezza altezza, fino ad arrivare alla sezione prospettica della parte del coro, con scorci esattamente costruiti

in tutti i vani principali e secondari che diventano visibili. Ciò che viene evocato non è uno stadio intermedio della costruzione raggiunto in un determinato momento, bensì l’idea del formarsi di un’architettura durante il processo di progettazione. Per l’atrio e la facciata, Peruzzi produce invenzioni in abbondanza, con e senza campanili. Per il corpo longitudinale sperimenta diverse varianti, tra cui una con sette navate complessive. Il numero delle colonne da disporre tra i pilastri aumentò così a più di duecento (ovvero più del doppio che nell’antica basilica). Per l’alzato, le sale delle terme e la basilica di Massenzio costituivano degli apprezzati modelli. D’altra parte Peruzzi, al contrario di Sangallo, non vedeva affatto il corpo longitudinale come parte irrinunciabile dell’edificio nel suo complesso. Ipo-

tizzabile, e forse particolarmente stimolante per lui dal punto di vista estetico, come a suo tempo per Giuliano da Sangallo, era anche un edificio a pianta centrale. Nei suoi schizzi compaiono più volte figure a quincunx senza corpo longitudinale. Secondo Serlio, già al iii progetto di Bramante egli aveva sviluppato un’alternativa a pianta centrale94. Nella xilografia Serlio mette i due piani l’uno accanto all’altro. E nella sua vita di Peruzzi, Vasari riferisce che l’architetto avrebbe presentato un «modello» in questo senso a papa Leone, che trovava il progetto di Bramante «troppo grande edifizio e da reggersi poco insieme»95 (ovvero troppo disomogeneo). Di fatto era proprio il corpo longitudinale che – nella forma proposta da Bramante – doveva causare incubi a ogni committente che pensasse in modo realistico. L’iniziativa di Peruzzi rimase

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55. Baldassarre Peruzzi, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 14a.

56. Baldassarre Peruzzi, Progetto per S. Pietro (da Serlio 1540).

57. Pieter Coecke van Aelst (attr.), Veduta da sud-ovest. Biblioteca Apostolica Vaticana, coll. Ashby 329. 58. Antonio da Sangallo, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 256a.

in un primo momento senza effetti, per poi però ritornare in seguito di sorprendente attualità96. Adriano vi Inaspettata quanto la morte di Raffaello un anno prima, nel 1521 si verificò quella di Leone x. Aveva soltanto quarantasei anni. Il suo successore fu Adriano vi, nato Adriaan Florensz d’Edel di Utrecht, precettore di Carlo v e maestro di Erasmo da Rotterdam. Era estraneo alla scena artistica e architettonica romana, invece che nella fabbrica di S. Pietro si impegnò nella riforma della Curia, da tempo necessaria, senza però ottenere grandi risultati. È dimostrato che sotto il suo pontificato l’attività edile proseguì, ma non sono riconoscibili impulsi di progettazione di un qualche tipo. Un disegno anonimo della collezione Ashby, oggi nel-

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la Biblioteca Vaticana, mostra le condizioni del cantiere all’epoca97. È il primo (e forse il più bello) di quella serie di vedute architettoniche dalla fedeltà fotografica, opera di artisti dei Paesi Bassi, che proseguirà poi nei disegni di Maarten van Heemskerck e senza la quale sarebbe quasi impossibile scrivere una storia della costruzione di S. Pietro. Un documento di recente pubblicazione suggerisce la datazione del nostro foglio al pontificato di Adriano. A giudicare dallo stile del disegno, l’autore più probabile è Pieter Coecke van Aelst, che verosimilmente soggiornò a Roma tra il 1521 e il 1524-2598. Il disegnatore ha scelto il suo punto di osservazione sul terreno in leggera salita nei pressi dell’odierna piazza S. Marta, per cui le parti del nuovo edificio in cui i lavori sono più avanti si trovano in primo piano. Sulla sinistra si innalza, piuttosto vicino, il coro di Giulio, come l’aveva lasciato Bramante. Attraverso tre grandi finestre ad arco si guarda all’interno, riconoscendo, nell’arco centrale, appena accennata, una delle grandi paraste del pilastro nordoccidentale della cupola. Le luci delle finestre non sono ancora sbarrate dalle colonne, ma mostrano già la forma grezza della cassettonatura delle loro strombature. L’esterno dell’edificio è suddiviso dalle coppie e dai gruppi di paraste sottilissime bramantesche; sostengono una trabeazione dorica, a cui manca ancora la cornice. La volta dell’abside è coperta con un tetto temporaneo che poggia su sostegni provvisori; sulla campata del coro compare un

pezzo dell’attico ancora privo di rivestimento, con un’ampia luce, sopra di esso c’è un tetto a piramide. I pilastri della cupola sono completati, l’arcone trasversale che li collega presenta la cassettonatura bramantesca; di scorcio appare il pennacchio sudorientale della cupola. Il muro di testa meridionale del transetto dell’antica basilica è ancora in piedi e nasconde la base del pilastro sudorientale della cupola. Compaiono inoltre la metà rimasta in piedi dell’antico corpo longitudinale, il campanile medievale all’angolo nordorientale della fronte dell’atrio e, dietro a destra, ancora un pezzo del retro della loggia delle benedizioni di Pio ii. Tutto ciò è schizzato in una tonalità atmosferica delicatamente graduata, così che diventano percettibili le diverse distanze. Fino a questo punto lo stadio della costruzione corrisponde a quello all’inizio del pontificato di Leone. Che l’attività edile si fosse ormai rimessa in movimento è testimoniato dalla grande ruota in legno per sollevare i pesi ai piedi del pilastro sudoccidentale. La volta a botte sull’ambiente di passaggio tra pilastro della cupola e contropilastro poggia ancora su una centina (su questo si basa la datazione del disegno al pontificato di Adriano vi). La porzione di muro antistante, suddivisa da nicchie, fa parte del vano secondario iniziato in questo punto da Fra’ Giocondo. Ancora più a destra la massa muraria del contropilastro; si guarda nella nicchia che si apre verso il deambulatorio della tribuna. La nicchia corrispondente sul contropilastro sudorientale è ancora circondata da impalcature. Il deambulatorio è in costruzione, si riconoscono le gobbe delle nicchie delle cappelle e, più a destra, gli inizi dell’articolazione esterna. Sopra di esso svetta l’antica Rotonda di S. Andrea, al di sopra del suo tetto conico fa capolino la punta dell’obelisco. La strada in discesa sulla destra gira intorno al cantiere e sbocca più in basso nel Borgo vecchio; i passanti che camminano su di essa forniscono un termine di paragone per le dimensioni enormi del nuovo edificio. Sullo sfondo le case del Borgo, Castel Sant’Angelo, la sagoma del Pincio e i lontani Monti Sabini.

Clemente vii Adriano morì nel settembre 1523, dopo un pontificato di nemmeno due anni. Come successore il Conclave elesse il cugino di Leone x, Giulio de’ Medici. Da cardinale aveva seguito le imprese artistiche della sua famiglia a Firenze – la facciata di S. Lorenzo, la Sacristia Nuova, la Biblioteca Laurenziana – manifestando un’autentica passione per l’architettura. Con lo stesso spirito si dedicò ora a proseguire la costruzione di S. Pietro. Già nel primo anno del suo pontificato diede vita al «Collegium fabricae basilicae Beati Petri», un organo di sessanta deputati della Curia che dovevano sorvegliare la gestione degli affari dell’ente preposto alla costruzione, la «Fabbrica»99. Sotto la direzione di Sangallo, la costruzione della tribuna meridionale procedette ormai rapidamente. Intanto, però, al papa si richiedevano decisioni di ben altra natura. Da anni la politica europea era agitata da movimenti bellici e l’Italia non ne fu più risparmiata. Si venne quindi a creare una situazione in cui anche il soglio papale era costretto a definire la propria posizione politica. In questo campo le mosse di Clemente non furono felici. Come risultato

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Capitolo terzo

Il nuovo S. Pietro

59. Baldassarre Peruzzi, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 16a.

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della sua diplomazia altalenante tra il re di Francia e la casata degli Asburgo, nel 1527 sulla città si abbatté la catastrofe del «sacco di Roma». Le truppe di Carlo v, fuori controllo, composte in prevalenza da Spagnoli e Tedeschi, devastarono ampie zone di Roma, papa Clemente si asserragliò a Castel Sant’Angelo e nel cantiere di S. Pietro si fermò qualsiasi attività. L’uso liturgico che si poteva fare dei resti ancora in piedi dell’antica basilica, però, era anch’esso assai limitato. Roma, quindi, non costituiva uno scenario adatto quando, nel 1530, emerse l’idea di far incoronare imperatore Carlo v dal papa, alla vecchia maniera. Ci si accordò per celebrare la cerimonia a Bologna, dove, con S. Petronio, c’era a disposizione un edificio che, per tipologia e dimensioni, per lo meno si avvicinava all’antica basilica di S. Pietro100. Tra l’altro, già Giulio ii, al suo ingresso a Bologna, aveva reso noto che voleva rendere S. Petronio «la prima e più importante chiesa d’Italia» e pare che Bramante avesse realizzato dei progetti per un rimaneggiamento dell’edificio (allora ancora a capriate in legno) in una basilica a volte con quincunx di cupole; in seguito Peruzzi riprese quest’idea101. Ora, dopo il Sacco, lo sguardo era rivolto al passato e, per le festività dell’incoronazione, ci si accinse a sistemare l’edificio come una sorta di nuovo vecchio S. Pietro. Nessuno voleva più credere a un futuro del nuovo edificio romano e papa Clemente sembra non aver preso nessuna nuova iniziativa nei sette anni di pontificato che gli restavano. Una questione è se, all’epoca, gli architetti avessero continuato autonomamente a riflettere sul proseguimento della costruzione. Tra i disegni della collezione degli Uffizi si trova un gruppo di «progetti di riduzione», in cui vengono proposte soluzioni «di minima» per il completamento dell’edificio. Il progetto di Sangallo (gdsu 256a) è elaborato meticolosamente, ma può essere datato con certezza al periodo della nuova progettazione sotto Paolo iii. I piani di Peruzzi102 sono schizzi a mano libera e non riportano data; oggi sono collocati per lo più nel periodo successivo al Sacco di Roma, ma anch’essi potrebbero essere stati realizzati solo sotto Paolo iii. In essi l’edificio viene ridotto al vano della cupola con il coro di Giulio e con bracci del transetto corti, oltre che a un corpo longitudinale di tre navate e tre campate; due delle planimetrie sono accompagnate da preventivi. Se dal periodo successivo al Sacco si guarda indietro agli anni dei papi Medici, S. Pietro mostra un’immagine vaga. In essa i contorni del grande progetto di Bramante cominciano a confondersi. Forse questo sarebbe stato il

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momento di contrapporre alla visione dell’inizio del secolo un’altra, più al passo con i tempi. Ma Peruzzi, a cui le idee non mancavano, non era uomo da impadronirsi della direzione dell’impresa in un momento di crisi, mentre Sangallo era un abilissimo architetto, ma non un visionario. E nessuno dei papi allora in carica pose un nuovo obiettivo ai progettisti. Nella storia di S. Pietro, perciò, gli anni dei Medici costituiscono una fase non di stallo, ma di marcia in folle: ben poche delle cose che allora vennero ponderate, ideate ed elaborate portarono seriamente avanti la costruzione. La progettazione dell’edificio era diventata fine a se stessa, le esigenze di un mondo in cambiamento vennero rimosse, finché non si fecero valere con violenza, mettendo in discussione l’intera impresa. Le vedute di Heemskerck Tra il 1532 e il 1536 soggiornò a Roma il pittore fiammingo Maarten van Heemskerck. A quell’epoca nacquero i suoi «taccuini di schizzi»103, oggi conservati a Berlino,

60. Baldassarre Peruzzi, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 18a.

che ci trasmettono un’immagine unica della Roma di quegli anni. In essi l’accento è posto sulle antichità della città, le collezioni di oggetti antichi e le rovine degli edifici romani. E, agli occhi di Heemskerck, di questo mondo di rovine fa parte il cantiere di S. Pietro: l’epoca della ripresa dei lavori sotto Paolo iii, infatti, è successiva alla partenza del pittore da Roma104. Con una mano meravigliosamente fluida, ma con incorruttibile senso della realtà, Heemskerck ha disegnato ciò che vedeva; all’occhio del pittore univa il dono di comprendere anche circostanze architettoniche complesse e di riprodurle con esattezza. Gli

61. Maarten van Heemskerck, Veduta dell’interno verso sud. Stoccolma, Nationalmuseum.

dobbiamo quindi un’immagine fedele delle condizioni dell’edificio di S. Pietro al declinare dell’epoca medicea. Le sei vedute dedicate alla basilica mostrano il complesso del vecchio e nuovo edificio da diversi punti di vista, che si integrano a vicenda; come settima si dovrebbe aggiungere la celebre veduta del fronte dell’atrio (Vienna, Albertina), in cui una piccola porzione dell’edificio bramantesco si fa visibile sopra il frontone dell’antica basilica. La «veduta di Stoccolma»105 riproduce lo scorcio che si aveva verso sud dall’annesso settentrionale, ancora intatto, dell’antico transetto. È il cuore dell’edificio bramantesco, ma Heemskerck mostra come in esso sopravvivano molte parti del vecchio edificio. Sono ancora in piedi grandi porzioni della parete occidentale del transetto, con il loro ornato. È in piedi anche la parte dell’antico colonnato della navata centrale, che sconfina nel vano centrale da est, così come la fila di colonne all’estremità meridionale del transetto. Al centro dell’immagine si erge il tegurio di Bramante, il cui fianco nord è riprodotto in tutti i suoi dettagli. A sinistra compare, un po’ arretrato, il pilastro sudorientale della cupola; il suo grande ordine di paraste è completato, e sulla trabeazione si vede ancora il punto in cui comincia il pennacchio della cupola. Heemskerck ha riprodotto coscienziosamente le sottili aperture che diventano visibili nella nicchia del pilastro e illuminano la rampa a chiocciola che sale al suo interno. È accennato anche l’ordine di paraste della parete orientale del transetto. Tutto ciò appare mescolato in un groviglio inestricabile con i resti dell’antica basilica; vegetazione, cumuli di detriti e parti di macerie e di conci che giacciono al suolo contendono lo spazio al nuovo edificio. Sembra quasi impossibile riuscire a liberarlo da questa stretta.

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Capitolo terzo

Il nuovo S. Pietro

62. Maarten van Heemskerck (o seguace?), Veduta dell’interno verso ovest. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben, ii, 52 recto.

63. Maarten van Heemskerck, Veduta della tribuna sud dall’interno. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben, i, 8 recto.

64. Maarten van Heemskerck, Veduta della tribuna sud dall’esterno. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben, ii, 54 recto.

La veduta interna del corpo longitudinale non è qualitativamente del tutto all’altezza degli altri fogli, potrebbe essere di mano di un garzone o di un copista, ma per il suo contenuto si inserisce senza fratture nella serie di Heemskerck. Se il tema della veduta di Stoccolma era il caos che regnava nel cantiere, qui l’accento cade su quanto esso fosse vuoto. L’antico corpo longitudinale è sgomberato, ad eccezione dell’organo posto davanti al colonnato destro; sotto di esso si trova ancora la statua in bronzo di S. Pietro seduto. Sullo sfondo è sparso del materiale da costruzione; niente indica che tornerà mai ad essere utilizzato. I colonnati che accompagnano la navata centrale sono interrotti soltanto dove dovranno sorgere i pilastri e i contropilastri. Tra di loro si estende la vastità dello spazio. Al centro lo sguardo incontra il fronte anteriore del tegurio di Bramante. Sopra di esso si incurva l’arco portante orientale della cupola; si distingue la cassettonatura del lato interno, così come le «morse» che sporgono dal muro di testa per ricollegarsi alle volte del corpo longitudinale. Sullo sfondo appare la zona delle volte del coro di Giulio con il suo rilievo a cassettoni, la lunetta delle finestre dell’attico e l’enorme conchiglia della calotta. La veduta successiva mostra soltanto dei frammenti del nuovo edificio, per la precisione della tribuna meridionale, alla quale si era lavorato fino al 1527. L’occhio fotografico di Heemskerck lavora con la consueta precisione, ma il particolare è scelto in modo tale che emerge un quadro complessivo piuttosto erratico. Dalla nicchia di 40 palmi del pilastro sudoccidentale della cupola, lo sguardo si dirige nella nicchia corrispondente del contropilastro; al suo centro si apre il passaggio alto e stretto (nel suo memoriale Sangallo lo paragona a una feritoia)106 che porta al deambulatorio della tribuna. Nell’apertura appare una

delle nicchie del muro perimetrale del deambulatorio. La nicchia del contropilastro è suddivisa da lesene e piccole nicchie; la calotta è rimasta priva di ornato, ma sopra di essa diventa visibile l’inizio della volta a botte di Raffaello con i cassettoni ottagonali della basilica di Massenzio. Sul bordo destro della veduta si può ancora scorgere l’infausta nicchia di Fra’ Giocondo107. A sinistra c’è il frammento di un pilastro della parete dell’abside, sullo sfondo appare di nuovo la successione di nicchie dell’interno del muro perimetrale del deambulatorio. I mucchi di detriti in primo piano e la vegetazione leggermente accennata sulla struttura muraria segnalano anche qui la condizione di abbandono. La prospettiva della prossima veduta è la stessa di quella colta circa dieci anni prima da Pieter Coecke. L’impresa, però, che là stava avanzando, sia pur lentamente, qui sembra essere stata definitivamente abbandonata. Il disegnatore si è avvicinato un po’ di più all’edificio; per inquadrare il cantiere dal coro di Giulio fino all’obelisco, doveva utilizzare una sorta di prospettiva grandangolare. Così però si perde la panoramica complessiva, mentre in primo piano domina l’architettura dei deambulatori, iniziata in maniera grandiosa, ma non completata. Dietro appare il noto amalgama tra parti ancora in piedi dell’antica basilica e frammenti del nuovo edificio. Le grosse coppie di paraste del braccio meridionale sono completate, anche le porzioni corrispondenti delle trabeazioni sono già state posate, ma qui appaiono più che altro come vestigia di uno sfarzo passato; si teme di veder crollare ben presto anch’esse, come il capitello che, davanti a sinistra, sprofonda nei detriti. L’impressione di un’impresa fallita è suggerita nella maniera più persuasiva dalla veduta da nord (fig. grande). Il punto in cui si trovava il disegnatore era esattamente

dirimpetto a quello della fig. 64; l’obelisco e il coro di Giulio delimitano di nuovo il campo visivo. Anche qui Heemskerck dovette avvicinarsi molto all’edificio (c’era poco spazio tra di lui e il palazzo del Vaticano); si verificano quindi notevoli distorsioni vicino ai margini dell’immagine. D’altro canto, però, la veduta da vicino accresce l’effetto drammatico della prospettiva. Anche qui l’orizzonte è basso, così che il quadrilatero bramantesco composto dai pilastri e dagli archi si staglia con grande pathos contro il cielo. Le sue enormi dimensioni sono accentua-

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65. Maarten van Heemskerck, Veduta dell’esterno verso nord. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben, ii, 51 recto. 66. Maarten van Heemskerck, Veduta dell’esterno verso sud. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben, i, 13 recto.

te da un paio di minuscole figurette in primo piano. Il vecchio e il nuovo edificio appaiono altrettanto in rovina: dappertutto spigoli che si staccano, struttura muraria che si sgretola, rovinata dalle intemperie, percorsa da solchi e fenditure. A nessuno verrebbe in mente che da queste mura avrebbe potuto tornare a rifiorire nuova vita. Come uno sguardo di commiato appare la veduta del-l’edificio da sud-est, schizzata in fretta, ma osservata minuziosamente. Per ottenere una distanza maggiore, Heemskerck è salito in cima al colle che sovrasta piazza

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Capitolo terzo

Il nuovo S. Pietro

67. Francesco Salviati, Paolo iii ordina la ripresa dei lavori. Roma, Palazzo Farnese.

S. Pietro. Il complesso del vecchio edificio si estende così in tutta la sua lunghezza nella parte centrale della veduta: il corpo longitudinale della basilica con i suoi vari annessi, l’atrio, il campanile e il tratto della facciata con la loggia delle benedizioni, il portone del palazzo e la scalinata; da qui si scorge anche la Cappella Sistina e, a destra in lontananza, il cortile del Belvedere con il teatro a gradinate di Bramante e il Belvedere merlato di Innocenzo viii. Gli inizi del nuovo edificio si sono spostati al margine del disegno; lì appaiono come un blocco compatto, colossale, ma svuotato e abbandonato ovunque, come un frammento di architettura delle terme, memoria di ambizioni di epoche passate. Paolo iii e Antonio da Sangallo Nel periodo intercorso tra l’elezione di Paolo iii, nel 1534, e la morte di Antonio da Sangallo, nel 1546, sorsero grandi porzioni dell’edificio odierno: nel braccio meridionale del transetto, le parti ancora mancanti dell’alzato dei muri, la grande volta e il piano terra dell’abside (in seguito modificato); nel braccio settentrionale del transetto, l’alzato dei muri e la volta sopra il vano di passaggio alla Cappella gregoriana; nel braccio orientale l’alzato dei muri e la grande volta; inoltre una o due delle sale ottagonali sopra le volte dei vani di passaggio. Si avviò l’innalzamento del pavimento al livello odierno108. Un nuovo “papa di S. Pietro” Per rimettere in moto la costruzione della basilica di S. Pietro dopo il Sacco di Roma era necessario di nuovo qualcuno con l’indole del fondatore. Questa personalità si trovò in Alessandro Farnese, asceso al soglio pontificio nell’ottobre 1534 come Paolo iii. Nato nel 1468 e nominato cardinale a soli venticinque anni, aveva seguito sin dall’inizio i destini di S. Pietro. Non ci sono indizi che abbia mostrato particolare interesse per i loro aspetti architettonici. Aveva però ben chiaro il significato politico dell’edificio. Gli doveva stare a cuore, quindi, mettere fine a una condizione molto dannosa per il prestigio della Santa Sede. Paolo proclama la sua decisione di riprendere la costruzione in due affreschi; ciò dimostra quanto peso le desse109. Il primo, di Francesco Salviati, si trova nella «Sala dei fasti Farnesiani» al piano nobile del palazzo di

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famiglia; è parte di un ciclo con le gesta del papa. Questi siede con tutte le insegne del suo potere, la tiara in capo, sul faldistorio; di fronte a lui c’è una figura femminile, che ha svolto un piano di costruzione con linee non più distinguibili, probabilmente un progetto di Sangallo. Paolo la guarda con insistenza e, con il braccio teso in segno di comando, indica il cantiere. Lì compare il vano della cupola come lo aveva lasciato Bramante; sullo sfondo sembra di riconoscere il fronte del tegurio. A destra è ancora in piedi (non proprio nella giusta ubicazione) un resto dell’annesso del transetto dell’antica basilica, riconoscibilmente presso una delle colonne composite riprodotte anche da Heemskerck, ricoperta di vegetazione. Davanti ad esso delle figurette nude o seminude sono impegnate a preparare del materiale per il nuovo edificio. Il margine destro dell’immagine è costituito dalla silhouette del pilastro nordoccidentale della cupola, in basso ancora allo stadio di costruzione grezza, prima del rivestimento in travertino del piedistallo. Il secondo affresco ha un carattere più ufficiale: fa parte del noto ciclo di Vasari nella «Sala dei cento giorni» nel Palazzo della Cancelleria. Qui Paolo indossa vesti da sacerdote dell’Antico Testamento, come il sommo sacerdote per la riedificazione del Tempio dopo la distruzione di Gerusalemme: una sublimazione biblico-teologica della decisione di costruire, come quella fornita a suo tempo da Egidio da Viterbo per l’inizio dei lavori sotto Giulio ii. Davanti al papa, tre figure femminili dispiegano un piano di costruzione, in cui si possono riconoscere frammenti di un progetto di Sangallo. Il papa tende la mano destra per prendere il piano, mentre la sinistra indica di nuovo il cantiere con energico gesto di comando. Lì i lavori sono già avviati: sono state tirate su delle impalcature, innalzate delle rampe, le colonne e altri conci sono già stati approntati. Non si può dubitare della volontà costruttiva di Paolo. Ciò che ha in mente, però, non è un nuovo inizio, bensì una prosecuzione di ciò che aveva incominciato Giulio ii. Così, nell’affresco della Cancelleria, la costruzione dal coro di Giulio al corpo longitudinale sembra continuare a svilupparsi senza interruzioni; la crisi degli anni dei Medici è ignorata. Non compare un nuovo architetto, anche perché non ne esisteva uno: la carica di architetto in capo della fabbrica veniva assegnata a vita e Paolo non desiderava interrompere questa consuetudine; inoltre riponeva una fiducia incondizionata in Sangallo come architetto del suo palazzo di famiglia romano (dal 1514!) e di altri edifici dei Farnese. Nello stile della progettazione, quindi, in un primo momento non cambia nulla. Al cantiere, in-

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vece, era necessario agire tempestivamente: la situazione non poteva restare così com’era. In questo modo Sangallo, devoto al papa Farnese, si ritrovò in una situazione di necessità particolare: non poteva ancora costruire ciò che progettava, ma ciò che doveva costruire era in contrasto con i suoi progetti futuri. Non sembra che papa Paolo avesse avuto idee proprie in materia di progettazione, a parte una: «vedere S. Pietro finito»110. Questo, però, finiva per significare una riduzione delle dimensioni e la strada più semplice per arrivarci era la rinuncia al corpo longitudinale. Probabilmente era questo il senso di una decisione presa da Paolo già nel suo primo anno di pontificato: raddoppiò il soldo del secondo architetto, Baldassare Peruzzi – che già sotto Leone x aveva sostenuto l’opzione di una pura pianta centrale –, così che questi, da quel momento, era alla pari con Sangallo111. Un’altra misura adottata dal papa neoeletto a un primo sguardo non aveva nulla a che fare con S. Pietro, ma era destinata a influenzarne fortemente la storia della costruzione. Con un’analogia peculiare, ma forse non casuale, con Giulio ii, Paolo si dedicò prima di tutto all’ampliamento del Palazzo del Vaticano. Nel 1537 incaricò Sangallo dell’erezione della Cappella Paolina, in un certo senso la sua «Sistina», con cui poteva esaudire il proprio desiderio, a lungo covato, di diventare committente di Michelangelo112. La cappella, un edificio ad aula semplice, ma alto e ampio, si estende verso sud sull’asse della Sala Regia, invadendo così un bel pezzo dell’areale della basilica e dando notevoli grattacapi ai suoi progettisti a venire, da Sangallo stesso fino a Maderno e Bernini. Sangallo avrà cercato di spiegarlo al papa; evidentemente senza successo. I progetti di Sangallo

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Il problema della «doppia leadership» Sangallo-Peruzzi si risolse con la morte di Peruzzi nel 1536, prima ancora che si fossero prese nuove decisioni progettuali. Da quel momento in poi Sangallo ebbe mano libera nel mostrare ciò che voleva e che sapeva fare. Per prima cosa andava discussa la questione del corpo longitudinale. Il disegno di Sangallo (gdsu 39a) si può interpretare come base di una discussione in questo senso; non sappiamo se sia stato realizzato prima o, ipotesi più probabile, dopo la morte di Peruzzi. Nelle due metà della pianta, Sangallo mette a confronto in maniera paradigmatica le tipologie

su cui vertevano le trattative: a sinistra un edificio a pianta centrale, a destra uno a croce latina. La variante di sinistra ha un impianto strettamente improntato a una simmetria centrale, si rinuncia anche a un vestibolo sul lato d’ingresso. Sangallo si basa sui disegni a pianta centrale di Peruzzi, ma tratta il dettaglio secondo il proprio concetto; lo rivediamo qui, perciò, nel ruolo del critico e del revisore che elabora e perfeziona progetti già esistenti. Nella metà destra la pianta centrale viene riflessa con tutti i suoi particolari, ma proseguita come pianta longitudinale sul lato est; si forma un corpo longitudinale a tre campate, con un tratto di vestibolo profondo altre due campate. In basso a destra sono schizzati gli allineamenti della Scala Regia e dell’antica basilica, un paio di misure indicano le distanze: con tutta probabilità Sangallo voleva dimostrare che solo questa soluzione sarebbe stata all’altezza della situazione data. In questo disegno la cappella Paolina non compare – stava parecchio più in alto del livello della planimetria della basilica – ma probabilmente ebbe un suo ruolo nell’argomentazione di Sangallo. Se c’era un’obiezione da fare contro le sue proposte, questa verosimilmente riguardava la mole ancora eccessiva dell’edificio. Forse era questo il motivo per cui nel disegno il coro di Giulio è inserito nell’abside occidentale: se lo si manteneva, tutto il corpo occidentale sarebbe stato ridotto. Anche per la navata laterale del suo corpo longitudinale Sangallo sviluppò una variante leggermente ridotta. Questa fu la base del progetto di riduzione elaborato a quel punto da Sangallo. In gdsu 40 verso ripete lo schema del suo corpo longitudinale, schizzando inoltre un prospetto di facciata. Sul recto dello stesso foglio sperimenta con diversi sistemi di corpo longitudinale e cerca anche di

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Capitolo terzo

68. Giorgio Vasari, Paolo iii ordina la ripresa dei lavori. Roma, Palazzo della Cancelleria.

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69. Situazione della cappella Paolina tra la basilica e il Palazzo Vaticano (da Letarouilly 1882). Pagine seguenti 70. Palazzo Vaticano, Cappella Paolina.

comprimere ulteriormente l’atrio. Il coro di Giulio è ora parte della bozza del progetto, la quincunx delle cupole e i deambulatori delle tribune sono stati eliminati. «Questo saria bello e breve», ovvero realizzabile in poco tempo, scrisse come commento Sangallo. Il condizionale suscita l’impressione che ciò non fosse per forza quello che gli stava a cuore. In seguito, comunque, sviluppa ulteriormente il progetto – lo chiamiamo il «piccolo progetto longitudinale» – fino a renderlo maturo per la costruzione, disegnandolo poi in bella copia su pergamena (gdsu 256a). Il foglio con tutta probabilità era pensato a fini di presentazione, ma fu nuovamente sottoposto a un processo approfondito di rettifica. Le modifiche si manifestano soprattutto nel tratto della facciata: la cappella Paolina e il ricongiungimento al Palazzo sono di nuovo al centro dell’attenzione. Le indicazioni delle distanze vengono ora rettificate: Sangallo nel frattempo ha effettuato una misurazione del cantiere ampia, ma estremamente precisa113 (gdsu 119a). Sul verso

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71. Antonio da Sangallo, Progetti per S. Pietro. Firenze, gdsu 39a.

dello stesso foglio si trovano degli appunti relativi alla situazione sul fianco nord della facciata. Fanno riferimento alla cappella Paolina, che nel 1537-38 era in costruzione, come anche al «muro divisorio» con cui Sangallo consolidò il corpo longitudinale dell’antica basilica. Questo muro fu completato nell’autunno del 1538. Dato che le nuove misurazioni di Sangallo confluirono nelle rettifiche del piccolo progetto longitudinale, questo – perlomeno nella sua versione finale – può essere datato alla seconda metà del 1538114. Con il suo piccolo progetto longitudinale Sangallo aveva risolto uno dei maggiori problemi della precedente epoca di progettazione: l’integrazione del coro di Giulio nel complesso di un edificio dall’organizzazione unitaria. Anche questo è un «progetto di riduzione», ma gli interventi sono abilmente nascosti. È stata salvata la quincunx delle cupole, pur avendo perso la sua forza radiale e rimanendo inserita in un sistema di assi longitudinali e trasversali che si incrociano (come in passato nel controprogetto di Giuliano da Sangallo al «piano pergamena» di Bramante). Le

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sacrestie d’angolo sono sparite, così come i deambulatori delle tribune; al loro posto ci sono tutt’intorno absidi e absidiole uniformi; il corpo longitudinale ha tre campate e cinque navate; vi si collega un atrio con tre cupole. Questa volta Sangallo ha rinunciato a una «controcupola» sulla navata centrale. Tutto deve avere un aspetto il più slanciato possibile; le dimensioni continuano a essere enormi, ma sembrano dominabili. Dopo vent’anni di lavoro di progettazione, questa era un’autentica – benché non molto entusiasmante – alternativa al progetto di Bramante. Non sappiano se Sangallo ebbe occasione di presentare il suo progetto al papa; non ci sono noti nemmeno corrispondenti disegni del prospetto115. Segue invece un nuovo gruppo di bozze di progetti che puntano nella direzione opposta: Sangallo volta le spalle al progetto di riduzione e prepara, con visibile zelo, un «grande progetto longitudinale» (gdsu 66a, 67a, 259a). Dopo accurati studi dei particolari, esso viene raffigurato su tre grandi fogli di presentazione: una sezione del transetto, una sezione del corpo longitudinale e un prospetto esterno del lato settentrionale. La pianta corrispondente è andata perduta, ma può essere ricostruita in maniera affidabile grazie ai prospetti; lo ha fatto Letarouilly. La prima modifica che balza all’occhio è la nuova espansione della parte occidentale dell’edificio. Il coro di Giulio è stato eliminato (e anche nei progetti futuri non avrà più alcun ruolo), tutte e tre le tribune sono complete e dotate di deambulatori, dalle quattro cupole secondarie si dipartono di nuovo bracci propri. Ci sono di nuovo anche le sacrestie d’angolo. Il corpo longitudinale continua a essere quello del «piccolo» progetto, ma ha acquistato volume grazie alle profonde cappelle laterali e ai vani secondari; il tratto della facciata ha ottenuto un nuovo peso. Il tutto è iscritto in un compatto blocco rettangolare. Una seconda innovazione riguarda l’interno: Sangallo decide di innalzare il pavimento dell’edificio di circa 2,50 m (l’innalzamento realizzato in seguito sarà pari a circa 3,70 m)116. L’idea era già emersa in studi per il piccolo progetto del corpo longitudinale, per poi essere di nuovo abbandonata. Ora è ponderata e calcolata con la massima cura. Sangallo non si esprime riguardo ai propri motivi, ma di sicuro erano collegati alla critica nei confronti delle proporzioni del corpo longitudinale di Bramante, formulata nel suo «Memoriale». Le conseguenze furono drastiche. Le «nicchie di 40 palmi» dei pilastri della cupola non erano più conformi alle proporzioni del resto dell’edificio e dovettero essere colmate. La struttura delle tribune andava rivista. Delle pareti chiuse sostituirono i passaggi

72. Antonio da Sangallo, Studi per S. Pietro. Firenze, gdsu 40a verso.

73. Antonio da Sangallo, Studi per S. Pietro. Firenze, gdsu 40a recto.

aperti tra absidi e deambulatori. In tal modo sorsero problemi di illuminazione; dovevano porvi rimedio finestre a lunetta ricavate nella calotta dell’abside. Il sistema degli ordini ancora risalente a Bramante fu riorganizzato a fondo. Scomparvero i piedistalli sotto le grandi paraste; in tutto l’interno ora gli ordini piccoli e grandi partivano dallo stesso livello. Di conseguenza i cornicioni e le trabeazioni ora correvano ininterrotti ovunque; costituivano uno schema prestabilito in cui dovevano inserirsi i singoli elementi di articolazione (nicchie, edicole, cornici). Lo stesso si può osservare nella veduta esterna. L’enorme massa del corpo di fabbrica rischiava di disgregarsi in singoli compartimenti, coronati da torri e cupole. Sangallo cercò di contrastare questa tendenza realizzando il suo ideale di suddivisioni orizzontali eseguite in maniera coerente (ordini) anche sull’esterno dell’edificio. L’intera costruzione poggia su uno zoccolo a gradini, delle scalinate che aggettano in forma semicircolare salgono ai portali d’ingresso. Il piano dorico in basso è seguito da una zona intermedia suddivisa da pilastri ad erma, poi da un primo

piano corinzio. Il tamburo della cupola e i campanili presentano un ordine composito. Per la prima volta da questa serie di disegni apprendiamo quali fossero le riflessioni di Sangallo sulla cupola117. Il suo aspetto esterno, a prima vista, è simile a quello della cupola di Bramante: una calotta semisferica, destinata con tutta probabilità a sorreggere una grande lanterna, circondata alla base dai tre gradini anulari del Pantheon. Il tamburo, però, è notevolmente più basso e il colonnato aperto di Bramante si è trasformato in un cilindro massiccio, articolato da semicolonne e nicchie, in cui si aprono soltanto otto luci assai strette. La sezione mostra un’immagine un po’ diversa: all’interno il tamburo si è ridotto a una semplice zona intermedia; il guscio interno della volta – determinante dal punto di vista statico – inizia dunque un po’ più in basso e sale in un arco a sesto acuto. Qui il modello è la cupola del Duomo di Firenze di Brunelleschi, l’unica costruzione dell’età moderna di dimensioni paragonabili, che evidentemente a Sangallo ispirava più fiducia della cupola fantomatica di Bramante. Sangallo

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74. Antonio da Sangallo, Rilievi dell’antica basilica. Firenze, gdsu 119a recto.

76. Antonio da Sangallo, Progetto per S. Pietro, interno verso ovest. Firenze, gdsu 66a.

75. Antonio da Sangallo, Schizzi di rilievo. Firenze, gdsu 119a verso.

77. Antonio da Sangallo, Progetto per S. Pietro, interno verso sud. Firenze, gdsu 67a.

studia intensamente il problema; nella sua analisi della cupola fiorentina sviluppa metodi che oggi definiremmo di «statica grafica» (gdsu 87a). Così facendo, emerge che la stabilità di una cupola di questo tipo dipende da due parametri: la geometria dell’arco a sesto acuto, con il suo rapporto liberamente variabile tra diametro e altezza, e la larghezza dell’apertura della lanterna. Di fatto Sangallo, nei progetti successivi per la cupola, cerca di manipolare queste due grandezze in modo che il loro prodotto resti più o meno costante. Nuovo è anche il prospetto del campanile; culmina in una struttura che sale sopra una pianta ottagonale, ornata da coni decorativi, la cui suddivisione orizzontale coincide esattamente con la cupola centrale. Le piccole cupole sulle navate laterali non hanno né tamburi, né lanterne, ma prendono luce dalle finestra a lunetta tagliate nella volta; queste, all’esterno, appaiono come edicole sormontate da frontoni. Il numero dei frontoni che compaiono in questa versione sale così a oltre cinquanta. Già qui vale ciò che Vasari criticherà nel grande modello ligneo di Sangallo: l’insieme è un «componimento troppo sminuzzato»118. Il «grande progetto longitudinale» di Sangallo, come tutti i precedenti progetti per S. Pietro, era un compromesso tra le premesse già esistenti e gli obiettivi ambiti dall’architetto progettista. Ora, però, Sangallo agì con più autonomia che in passato. Così le due costanti che fin dall’inizio avevano caratterizzato la sua progettazione di S. Pietro emergono qui chiaramente: da un lato la tendenza alla megalomania, dall’altro l’aspirazione a tenere sotto controllo con schemi razionali la massa debordante dell’edificio. Ciò che gli mancava era il senso del tempo, ossia la comprensione per l’interesse del papa a una pronta conclusione dell’impresa. Può darsi che lo spettacolo dell’ultimo elaborato di Sangallo abbia spinto Paolo a ritornare ancora una volta al suo desiderio di

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78. Antonio da Sangallo, Progetto per S. Pietro, esterno verso sud. Firenze, gdsu 259a.

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79. Antonio da Sangallo, Progetto per S. Pietro, ricostruzione della pianta (da Letarouilly 1882).

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80. Antonio da Sangallo, Studio per S. Pietro. Firenze, gdsu 64a recto. 81. Antonio da Sangallo, Studio per la cupola di S. Pietro. Firenze, gdsu 87a recto.

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una pianta centrale. Ciò non è documentato, ma esiste un gruppo di progetti di Sangallo che mirano a collegare la parte occidentale dell’edificio completamente elaborata, dotata di quincunx di cupole e tribune con deambulatori, al tratto d’ingresso – senza inserire in mezzo un corpo longitudinale119. Sangallo schizza lo schema di un progetto del genere, in maniera genialmente abbreviata, sul margine inferiore di gdsu 41a; viene elaborato e dettagliato in una serie di schizzi della pianta e del prospetto rapidamente tracciati. Il primo pensiero è forse quello che abbiamo illustrato in gdsu 110a sopra: il deambulatorio intorno all’abside orientale sparisce, sostituito da vestiboli ottagonali, da cui si accede direttamente all’abside o ai vani di passaggio tra contropilastri e pilastri della cupola. Tra di loro si apre un atrio di accesso con volta a botte, affiancato da campanili. In seguito Sangallo ritorna al motivo di un tratto di ingresso antistante alla pianta centrale, ritmato da cupole. I campanili, per cui esistono anche bozze del prospetto, stanno quali corpi autonomi accanto a questo blocco.

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Il grande modello La mutevole storia dei progetti per S. Pietro di Sangallo si può seguire passo dopo passo per mezzo dei suoi disegni. Questo, però, non vale per il suo ultimo e più sorprendente colpo di scena: il passaggio dal progetto di una pianta centrale al modello. Questa svolta non è preparata da nessuno degli schizzi pervenutici120. La sorpresa sta nel fatto che il corpo occidentale e il tratto d’ingresso, prima strettamente concatenati, ora vengono separati di ca. 30 m; soltanto un vestibolo aperto su tutti i lati mantiene il collegamento. In tal modo nasce una struttura senza esempi precedenti né seguenti nella progettazione di S. Pietro. Non abbiamo un commento di Sangallo a questa sintesi singolare. Si può quindi soltanto supporre che qui si trattasse ancora una volta della questione della coordinazione tra chiesa e palazzo del Vaticano. Nessuno degli schizzi e dei disegni realizzati dopo, tuttavia, fa desumere che Sangallo abbia continuato a occuparsi del problema; non sappiamo come pensasse di risolverlo in pratica121.

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82. Antonio da Sangallo, Studio per S. Pietro. Firenze, gdsu 41a.

83. Antonio da Sangallo, Studio per S. Pietro. Firenze, gdsu 110a.

Anche il modello non fornisce alcun appiglio: presenta il nuovo edificio in ideale autonomia, senza il minimo riferimento alla situazione esistente. Con il nuovo progetto, l’auspicato risparmio di tempo e di costi era diventato illusorio. Sembra però che il papa si fosse rassegnato. La progettazione di S. Pietro doveva giungere a un punto fermo; in questo senso va intesa anche la richiesta dei deputati per la Fabbrica della Curia di un nuovo modello complessivo, che chiudesse una volta per tutte la discussione sull’edificio. Sangallo vi aderì prontamente; da sempre i suoi progetti miravano a condizioni finali, senza tener conto dei tempi necessari alla loro realizzazione. Nel modello, quindi, vide l’occasione di anticipare tale realizzazione e di lasciare ai posteri il suo progetto perfetto in ogni dettaglio. Per raggiungere quest’obiettivo, le dimensioni del modello dovevano essere le più grandi possibili. Sangallo scelse la scala 1:30 – 1 m del modello doveva corrispondere a 30 m della costruzione. Il modello raggiunse così le misure di 7,36 m (lunghezza) × 6,02 m (larghezza) × 4,48 m (altezza), un’ultima manifestazione, non più superabile, della «megalomania» del suo autore. All’inizio

del 1539, una schiera di falegnami, sotto la guida del collaboratore di Sangallo, Antonio Labacco, cominciò la costruzione. Nel coro di Giulio del nuovo edificio, che era vuoto, fu installata un’officina. Si può seguire il corso dei lavori per mezzo di documenti sulla fornitura di diversi tipi di legno122. Nella seconda metà del 1544 si verificò un’interruzione, forse a causa di una modifica ai progetti relativa alla zona della cupola intrapresa da Sangallo. Dopodiché l’attività riprese con accelerazione; nelle prime ore del mattino si lavorava a lume di candela. I costi per il materiale e i salari ammontarono a circa 4.800 scudi, a cui si aggiungevano i 1.500 scudi dell’onorario di Sangallo. I critici affermavano che, per somme del genere, si sarebbe potuta erigere una chiesa intera. Sangallo non riscosse più l’ultima rata del suo compenso, «essendo poco dopo tal opera», come scrive Vasari, «passato all’altra vita»123. Ciò avvenne nell’agosto 1546; il lavoro sul modello, in quel momento, stava ancora procedendo. Per tutte le parti Sangallo aveva realizzato o fatto realizzare dei disegni esecutivi nella stessa scala del modello; se ne sono conservati undici, probabilmente perché, nel procedere della progettazione, furono scartati e non raggiunsero la botte-

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84-86. Antonio da Sangallo / Antonio Labacco, Grande modello ligneo per S. Pietro, basilica di S. Pietro, Ottagono di S. Girolamo.

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ga dei falegnami. Sono fogli di carta robusta e talvolta di imponenti dimensioni; una sezione del tamburo e della cupola, disegnata su sette fogli singoli incollati tra di loro, misura 1,96 × 1,19 m (gdsu 267a). Modelli di costruzioni che non erano più attuali – o che non lo divennero mai – di solito venivano distrutti o andavano persi in altro modo. Il modello di Sangallo è sfuggito a questo destino, probabilmente perché, già per le sue dimensioni mostruose, costituiva una curiosità. La sua mole, però, causò anche dei problemi; fu trasportato più volte da un luogo all’altro, fu danneggiato e poi riparato, riverniciato, ecc124. Un restauro radicale avvenne nel 1991-92; con l’aiuto di tecniche modernissime, il modello fu scomposto nei suoi singoli elementi, sistemato pezzo per pezzo e montato su una struttura di tubi d’acciaio, per essere esposto in una mostra itinerante a Venezia, Wa-

shington, Parigi e Berlino. Oggi si trova a S. Pietro, in una delle «sale ottagonali» di Sangallo, sopra il passaggio dal corpo longitudinale alla Cappella Gregoriana. Per ricostruire la forma originaria del modello si può far riferimento a due fonti. La prima è una serie di incisioni di grande formato fatte realizzare da Labacco tra il 1546 e il 1549; comprende una pianta, una sezione longitudinale e prospetti del lato settentrionale e orientale del modello125. La seconda fonte consiste in una serie di quattordici disegni che raffigurano il modello. Sono contenuti in un codice di centoventi riproduzioni di architetture dell’antichità e dell’età moderna, di mano di un anonimo francofono e conservata oggi nella Berliner Kunstbibliothek («Codex Destailleur D»)126. Alcuni fogli mostrano dei particolari che oggi mancano nel modello o non sono accessibili; il disegnatore potrebbe essere stato a sua vol-

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89. Cupola del grande modello ligneo. 88. Antonio da Sangallo (e aiuti?), Disegno per la cupola del grande modello ligneo. Firenze, gdsu 267a.

ta un membro del team che aveva costruito il modello127. Dell’ultimo progetto di Sangallo per S. Pietro vale ciò che egli aveva affermato del primo progetto di Bramante: «non ebbe effetto». Ciononostante, fece parte della storia dell’edificio: un vicolo cieco, certo, ma con un risultato del tutto singolare. Un’immagine sorprendente è offerta dalla pianta del modello come tramandata nell’incisione di Labacco (e soltanto lì). Libera dallo stigma del compromesso, si presenta come figura di bellezza ornamentale che nessuna delle piante precedenti di Sangallo poteva dimostrare. Dal iii progetto di Bramante Sangallo estrae la perfetta pianta centrale. I tre elementi principali si delineano con grande chiarezza: il nucleo costituito dai quattro pilastri della cupola, il quadrato esterno in cui è iscritta la pianta e i bracci della croce che, con il trifoglio delle tribune dei deambulatori, pervadono e trascendono il quadrato. Quattro piccoli quadrati segnano gli angoli del corpo occidentale; vi corrispondono i due quadrati dei campanili. Con il vestibolo inserito tra corpo occidentale e tratto della facciata, Sangallo ritorna alla sua vecchia

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idea di una «controcupola» sull’asse centrale dell’edificio, che aveva già sostenuto con il suo modello del 1521. È circondata da quattro vani di passaggio esagonali (ispirati da Peruzzi)128; insieme formano una specie di quincunx secondaria o – per chi entra – una sorta del preludio della pianta centrale vera e propria, bramantesca. Saltano all’occhio le strutture aperte su tutti i lati e quindi inutilizzabili dal punto di vista liturgico; vagando tra di esse ci si sarebbe ritrovati in una sorta di labirinto di specchi di mura perimetrali con semicolonne doriche. Ma, per l’appunto, non c’è (e non doveva esserci) una navata. Nell’alzato compaiono con più chiarezza i momenti eterogenei dell’insieme. La sezione longitudinale mostra quanto la struttura del tratto della facciata si discosti da quella del corpo centrale; soltanto nell’esterno viene adattata ad essa. Anche i piani della cupola e dei campanili sono coordinati soltanto nell’esterno; il cono a punta che corona la lanterna della cupola sovrasta le cime dei campanili di 12 cm (nel modello). Per la questione della copertura dei deambulatori delle tribune, che nel grande

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Capitolo terzo

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89. Antonio Labacco, Pianta del grande modello ligneo di Sangallo (incisione, ed. A. Salamanca, 1549). 90. Antonio Labacco, Sezione longitudinale del grande modello ligneo di Sangallo (incisione, ed. A. Salamanca, 1546). 91. Antonio Labacco, Alzato laterale del grande modello ligneo di Sangallo (incisione, ed. A. Salamanca, 1546). 92. Antonio Labacco, Alzato frontale del grande modello ligneo di Sangallo (incisione, ed. A. Salamanca, 1549).

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93. Anonimo Destailleur, Sezione di un vano angolare del grande modello ligneo di Sangallo. Berlino, Kunstbibliothek, Cod. Destailleur d1 (Hdz. 4151).

progetto del corpo longitudinale era rimasta aperta, Sangallo individua una soluzione del tutto nuova: i deambulatori sono alzati di mezzo piano e sopra di essi è posto un piano intero. Così sorgono le enormi esedre rievocative del Colosseo, con la loro articolazione di semicolonne, che dominano l’aspetto esterno del modello. Per l’interno sorsero problemi di illuminazione, la cui soluzione richiese un notevole sforzo costruttivo. Dei pozzetti inclinati verso il basso attraversano la zona dei deambulatori. Le cupole secondarie, che contribuivano in maniera determinante a formare l’immagine dell’esterno dell’edificio, spariscono dietro le quinte alzate delle pareti laterali. Alle cupole secondarie stesse sono stati aggiunti dei tamburi, che però non ricevono più luce diretta. Nella zona tra il nuovo livello del tetto e le volte a botte dei bracci secondari del transetto dovevano trovare posto

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Il nuovo S. Pietro

94. S. Pietro, Ottagono di S. Gregorio.

gli «ottogonj» o «stanze ottangoli»129: vaste sale ottagonali ben proporzionate, coperte da cupole semisferiche. Nel modello non si trovano, dato che in esso manca l’intera zona del tetto. Nella costruzione reale nel 1542-44, ancora sotto Sangallo, sorsero gli ottagoni del braccio orientale, nel 1544-46 probabilmente anche quelli del braccio meridionale (nella veduta di Francoforte si può vedere l’ottagono sudorientale ancora come costruzione grezza); le altre due coppie furono erette in seguito da Giacomo della Porta. Sangallo aveva previsto sedici di queste stanze: in gruppi di quattro dovevano raggrupparsi, come dei satelliti di secondo grado, intorno alle quattro cupole secondarie. Le otto più esterne furono vittima della riduzione del progetto effettuata da Michelangelo. Nei quattro vani d’angolo del quadrato del corpo centrale, Sangallo progettava di far salire delle rampe a chiocciola, che sarebbero potute servire per il trasporto di materiali con animali da soma fino al livello del tetto. Nel modello mancano anche queste, ma la loro esistenza è tramandata grazie a un disegno dell’«anonimo Destailleur»130. Le loro aperture superiori sono rivestite da mozziconi di torri, che conferiscono alla silhouette del modello una nota bizzarra. Soltanto nel modello di Sangallo la grande cupola riacquista un po’ di quell’importanza che aveva avuto per Bramante: non doveva servire soltanto alla copertura dell’ambiente centrale, ma ergersi isolata e immensa sul tetto dell’edificio, come un esempio di architettura spettacolare dotata di una sua legittimità intrinseca. Dal punto di vista formale, la cupola del modello di Sangallo deriva da quella del grande progetto del corpo longitudinale, ma la supera significativamente in altezza. Al tamburo è stato aggiunto uno zoccolo e, sia all’interno che all’esterno, viene trattato come un piano a parte. Non appare però libero, ma viene circondato e puntellato da un portico ad anello con arcate sorrette da semicolonne, che corre all’esterno; nella versione finale rappresentata nel modello si aggiunge un secondo anello di arcate, che protegge anche l’inizio della volta (il punto sottoposto all’attacco della spinta laterale), sottraendolo allo sguardo. Così Sangallo riesce a reinserire la cupola nello schematismo delle sue suddivisioni orizzontali. Anche dal punto di vista costruttivo, Sangallo, in un primo momento, restò fedele alla concezione sviluppata nei progetti preliminari. Ancora nel disegno esecutivo pensato come base per i costruttori del modello (gdsu 267a) compare un profilo della volta che all’esterno è semicircolare e all’interno a sesto acuto. Sullo stesso foglio, però, c’è una nota di Sangallo, che critica proprio questo

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95. S. Pietro, Ottagono di S. Gregorio, cupola.

arco acuto: sarebbe «todescho» (ovvero tedesco, gotico) e perciò da rifiutare131. In seguito Sangallo propone un complesso procedimento con cui si potrebbe costruire un arco a tutto sesto leggermente rialzato («aovato»). Nel modello, però, neanche questa curva fu realizzata. Il profilo interno della volta lì ha invece la forma di una semiellisse in verticale. Si può interpretarla come un semicerchio continuamente deformato e, pertanto, «antico buono» nell’ottica di Sangallo. Il suo diametro è pari a 196 palmi, la sua altezza a 147 palmi; questi numeri sono stati appuntati da Sangallo in un’aggiunta alla nota di cui sopra. La sua ellissi si avvicinava molto alla linea statica ideale – la «catenaria» – individuata come tale soltanto nel Settecento.

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96. Profilo della cupola del grande modello ligneo di Sangallo (disegno computerizzato W. Boehm, Braunschweig).

Quest’invenzione notevole, però, rimase nascosta all’interno del modello; in seguito non fu presa in considerazione, né, per quanto vediamo, imitata da nessuna parte. Nel suo modello, Sangallo aveva ceduto senza remore alla sua tendenza al gigantismo. Se Bramante si era ispirato al Pantheon, uno sguardo al modello evoca l’immagine del Colosseo: una struttura imponente, omogenea, rivolta verso l’esterno, che avvolge e nasconde un interno invisibile. In peculiare contrasto con essa c’è la tendenza di Sangallo a parcellizzare, per così dire, l’interno, staccandone vani parziali. Sotto il pavimento da innalzare si forma così un mondo sotterraneo simile a una cripta, le (in seguito così chiamate) «Grotte». I deambulatori del-

le tribune sono stati isolati dai bracci della croce, su entrambi i piani; non appaiono più come parti dell’interno. Anche i vani d’angolo con le loro rampe non comunicano con l’ambiente centrale. Totalmente isolate rimangono le sale ottagonali: non visibili né dall’interno, né dall’esterno; sono raggiungibili soltanto mediante scale e corridoi nascosti nella muratura. Il tutto assume così tratti alquanto labirintici, assomiglia più alla tana di una volpe che a un progetto unitario, pensato in grande. Forse anche Sangallo ha avuto questa sensazione, cercando a suo modo di porvi rimedio. Nelle misure che compaiono nella costruzione della cupola si nota che sono tutte divisibili per 7; il prodotto 7 × 7 = 49 appare diverse volte. Non sembra escluso che alla base di esso ci sia un sistema modulare consapevolmente scelto, determinante per il prospetto dell’intero edificio132. Per la cupola si ha un rapporto tra diametro e altezza di 4:3 (4 × 49: 3 × 49), per il vano centrale, nel complesso, un rapporto di 4:9 (4 × 49 : 9 × 49); i tre punti principali di suddivisione del prospetto interno – il cornicione dell’ordine del piano terra, quello del tamburo e il vertice della curvatura della cupola – distano quasi esattamente 147 palmi (3 × 49) l’uno dall’altro. In ogni caso il modello di Sangallo era il più perfetto di tutti i progetti per S. Pietro; lo conosciamo meglio della costruzione stessa. Passando però gli ultimi sette anni della sua vita ad analizzare fino in fondo tutti i problemi del nuovo edificio da costruire, a stabilire in anticipo ogni particolare, Sangallo in qualche modo perse il controllo sull’insieme; ciò che emerse alla fine era una struttura il cui aspetto fantastico, sovrastato da torri, tronchi di piramide ed elementi decorativi ricordava ai contemporanei più una cattedrale gotica («opera tedesca», Vasari)133 che l’architettura classica. A ciò corrisponde il carattere «senza tempo» dell’intero progetto. Se ci si basava su quanto si era costruito fino alla metà del Cinquecento, ci sarebbero volute almeno altre due generazioni per completarne la costruzione. Mentre la Chiesa cercava la strada del rinnovamento, i mastri costruttori di S. Pietro avrebbero dovuto continuare a impilare colonne e archi, cupole e campanili secondo le regole di Vitruvio – un’idea la cui irrealtà risulta evidente. La costruzione Il lavoro dell’architetto in capo della Fabbrica si svolgeva in parte al tavolo da disegno, in parte al cantiere. Sotto

i papi Medici, tra questi due piani si era aperto un abisso, che all’epoca di Paolo iii raggiunse dimensioni sconcertanti. Mentre Sangallo si scervellava su particolari del progetto del modello la cui realizzazione nell’edificio reale si trovava in un futuro impossibile da prevedere (come ad esempio il posizionamento di un cornicione sul portale d’ingresso)134, al cantiere c’erano decisioni da prendere che non tolleravano dilazioni. La rovina del nuovo edificio, abbandonata da dieci anni, andava liberata dalla vegetazione, i danni venutisi a formare nella muratura andavano riparati, le parti scoperte dotate di tetti provvisori. Anche le parti ancora in piedi dell’antico corpo longitudinale destavano preoccupazione; la parte superiore dei loro muri si era inclinata ulteriormente verso sud135. Anche se destinato, sul lungo periodo, alla demolizione, il vecchio S. Pietro rimaneva per il momento irrinunciabile per la pratica cultuale della basilica e doveva essere messo in sicurezza. Sangallo decise di erigere un muro trasversale che

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Capitolo terzo

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97. Anonimo, Veduta di S. Pietro in costruzione. Biblioteca Apostolica Vaticana, coll. Ashby 330.

99. Leonardo Bufalini, Pianta di Roma (1551), dettaglio.

100. Etienne Dupérac, Pianta di Roma (1577), dettaglio.

te appare più basso (o più largo), le forme dei corpi più schiacciate di come le avesse concepite Bramante. Chi oggi si avvicina all’ambiente centrale dal corpo longitudinale non percepisce più affatto come tali i pilastri della cupola; i fianchi sono più larghi che alti, per cui non vengono percepiti come corpi murari in piedi, bensì coricati138. Sono scomparsi i piedistalli dei grandi ordini; quelle enormi paraste a cui Bramante voleva levare lo sguardo ora poggiano sullo stesso pavimento su cui stiamo noi. Una conseguenza indiretta fu la chiusura delle «nicchie di 40 palmi»: essa interruppe il continuum delle concavità, che era tanto importante per l’immagine dello spazio di Bramante. Davanti alle superfici lisce delle pareti, Sangallo dispose ventiquattro edicole corinzie, che costituiscono il suo contributo più visibile all’edificio odierno139. Assolutamente uniformi (a parte l’alternarsi d’obbligo tra i frontoni semicircolari e triangolari), conformi alle regole quanto poco espressive, ma di formato colossale,

dominano ovunque l’immagine dello spazio dell’edificio, distogliendo la percezione dell’osservatore dalla forma architettonica per dirigerla verso i contenuti incorniciati, gli altari, le loro immagini e le funzioni che lì si svolgono. L’impulso alla regolamentazione di Sangallo, quindi, in ultima analisi venne incontro agli interessi del clero della basilica.

98. Antonio da Sangallo, Progetto per il “muro divisorio”. Firenze, gdsu 121a.

consolidasse la struttura per tutta la sua larghezza; come mostrano diverse vedute, fu alzato con inclinazione fino al tetto della navata centrale. Pochi mesi estivi del 1538 furono sufficienti per ultimare il muro, largo alla base più di 65 m e alto, fino alla linea di colmo, quasi 40 m136. Per la parte in corrispondenza della navata centrale del «muro divisorio» (così chiamato in seguito), si è conservato un disegno progettuale di Sangallo. Esso dimostra che non si trattava di una semplice costruzione di ripiego, ma di un esemplare di architettura meticolosamente pianificato, a cui era destinato un determinato ruolo nel nuovo edificio, sia pur limitato nel tempo. Entrambi i lati del muro presentavano delle articolazioni. La veduta da est, riprodotta nel disegno, mostra nella parte inferiore i colonnati della navata centrale dell’antica basilica; le loro trabeazioni proseguono lungo il muro, incorniciando al centro un passaggio ad arco in forma di «serliana». Nella zona superiore si aprono tre finestre a tutto sesto, prive di cornice. Anche il passaggio centrale è rappresentato come aperto e così fu infatti anche eseguito, come mostra la figura a lato. L’apertura, però, fu murata già all’inizio del 1546 e sostituita da una porta chiudibile; probabilmente fu la ripresa dell’attività edile ad ovest del muro a rendere necessaria questa misura. Ciò non modifica per nulla il fatto che Sangallo avesse in mente di unire il vecchio e il nuovo edificio in un complesso unico. Nel 1544-45 fu chiusa, con un elemento intermedio coperto, la breccia tra il muro divisorio e il braccio aperto del nuovo edificio; nelle piante di Roma di Bufalini (1551) e Dupérac (1573), di fatto, S. Pietro appare come un unico edificio composto da parti vecchie superstiti e nuove ancora incomplete, per così dire in bilico tra passato e futuro. Da questo punto di vista, il muro divisorio di Sangallo costituisce una sorta di cerniera, la serliana è una formula per armonizzare entrambe le strutture: la sua apertura ripete esattamente le dimensioni e le proporzioni delle «nicchie di 40 palmi» di Bramante137. Supposta qualche capacità di astrazione, il nuovo edificio potrebbe essere inteso come una prosecuzione del vecchio. Come visione per il futuro ciò era poco meno utopico del progetto di Sangallo per la basilica. E infatti fu l’edificio ibrido a sopravvivere fino nel Seicento (e a trovare dei difensori persino al momento della demolizione), mentre il modello, con la morte del suo autore, scomparve dalla storia della costruzione di S. Pietro. Dov’è presente Sangallo nell’edificio odierno? Una parte quantitativamente significativa del corpo occidentale sorse sotto la sua direzione, ma non reca la sua «firma». La sua architettura delle tribune, sviluppata insieme

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a Raffaello (o per lui), è scomparsa; le sale ottagonali sono puro Sangallo, ma restano invisibili. Soltanto un intervento apparentemente marginale, di cui il normale visitatore non si rende neanche conto, ha cambiato in maniera durevole l’immagine dell’interno: l’innalzamento del pavimento. Il suo effetto diretto è chiaro: l’ambien-

Storia successiva L’era Sangallo si concluse con la nomina di Michelangelo ad architetto della Fabbrica. I collaboratori e i discepoli del maestro, però, chiamati da Michelangelo, con cupa ironia, con l’appellativo di setta («setta sangallesca»), non si dettero subito per vinti. Tra il 1546 e il 1549 l’editore Antonio Salamanca fece uscire quella serie di incisioni di Labacco che riproducevano il grande modello in pianta, prospetto e sezione, per «mostrare», come scrive

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Capitolo terzo

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101. Medaglia di Paolo iii, 1546-47. Biblioteca Apostolica Vaticana, Medagliere Vaticano.

fu costruita la volta a botte principale. Furono completati i pennacchi della cupola e fu alzato il tamburo. I suoi successori, fino alla fine del secolo, portarono avanti l’edificio secondo il suo progetto, modificato solo in alcuni dettagli. Verso il 1600 il corpo occidentale aveva raggiunto la sua forma odierna, restava irrisolta soltanto la questione della chiusura orientale141. Passaggio di potere

Vasari, «quanta fusse la virtù del Sangallo, e che si conosca da ogni uomo il parere di quell’architetto, essendo stati dati nuovi ordini in contrario da Michelagnolo Buonarroti»140. Le incisioni, inoltre, mettevano nella giusta luce anche il merito di Labacco stesso come effector del modello. In seguito furono inserite nello Speculum Romanae Magnificentiae di Antoine Lafréry. Il S. Pietro di Sangallo rimase così presente alla coscienza degli esperti di architettura. Anche Paolo iii contribuì ad onorare la memoria di Sangallo: fece eternare il modello in una medaglia. Per l’anno giubilare 1550 fu coniata nuovamente la stessa medaglia e anche il successore di Paolo, Giulio iii, la riprese per la sua medaglia dell’Anno Santo. Ciò di sicuro non va inteso come presa di posizione in favore del progetto di Sangallo e contro quello di Michelangelo. La situazione era piuttosto che Michelangelo non aveva ancora elaborato un suo progetto per la facciata e si rifiutava di farlo per amore di una moneta celebrativa. Michelangelo La basilica odierna ha poco in comune con l’edificio che voleva Michelangelo. Eppure egli ne ha plasmato la fisionomia architettonica più di qualunque altro. Sotto di lui i contropilastri e le absidi dei bracci del transetto assunsero la loro forma odierna, nel braccio settentrionale

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Con la morte di Sangallo nell’agosto 1546, l’anziano papa Farnese ottenne la seconda opportunità di rovesciare le sorti dell’impresa. I deputati della Fabbrica trattarono in un primo momento con Giulio Romano, l’ultimo erede della tradizione bramantesca romana. Questi, però, morì in quello stesso anno. La strada così era sgombra per Michelangelo, favorito dal papa: Paolo lo riteneva in grado di riuscire a rimettere in moto la nave arenata. Dopo qualche resistenza (le cui motivazioni sono difficili da valutare), Michelangelo accettò. Soltanto pochi anni più giovane di papa Paolo – e più vecchio di tutti i potenziali concorrenti, persino del suo predecessore Sangallo – dopo il fallimento del suo progetto per la tomba di Giulio si era tenuto lontano dalla costruzione; ora si accinse a liquidare le utopie dell’era di Bramante e di Raffaello. I deputati della Fabbrica non ne furono felici142. L’uomo nuovo, fino a quel momento, aveva lavorato come architetto soltanto a Firenze; sul piano personale era considerato difficile. Paolo, però, si richiamò a un’ispirazione divina: ciò garantì al suo candidato l’intoccabilità di un inviato di Dio143. Nella Fabbrica Michelangelo provocò uno scandalo, criticò da cima a fondo il modello di Sangallo e sostituì gli uomini di Sangallo con persone di propria fiducia144. Ai deputati spiegò che il loro compito era procurare il denaro necessario e salvaguardarlo dai «ladri» (impiegati e operai disonesti); la progettazione dell’edificio era cosa sua e la discuteva soltanto con il papa. Ci furono proteste indignate, ma Paolo sostenne senza esitazioni l’uomo di sua scelta, dandogli ragione in tutti i punti controversi. Per assicurarsi che la sua decisione sarebbe sopravvissuta alla sua morte (che sentiva vicina), nel 1549 la mise per iscritto in un motuproprio, a cui i suoi successori potevano richiamarsi145. Il singolare documento fa luce sul sottofondo politico-sociale di questa storia edilizia: la sostituzione graduale della società tardomedievale a ordinamento corporativo con lo Stato moderno, a governo centrale 146.

A ciò corrispose un mutamento di paradigmi storicoarchitettonici. Dalla morte dei suoi creatori, il progetto di Bramante e di Giulio ii aveva subito varie modifiche, ma non era mai stato abolito. Adesso Michelangelo gli contrappose l’idea di una pianta centrale pura, «chiara e schietta, luminosa e isolata attorno», come formula in una lettera147. Era la visione di una nuova chiesa. Michelangelo vedeva come suo dovere verso Dio e verso S. Pietro realizzarla; se fosse fallito, si sarebbe trattato di «una gran rovina per la fabbrica di S. Pietro, d’una gran vergogna e d’un grandissimo peccato»148. La progettazione C’è una certa ironia nel fatto che Michelangelo assumesse la carica con il proposito di ritornare al piano originario di Bramante. «Egli mi disse parechie volte», scrive Vasari, «che era esecutore del disegno et ordine di Bramante, atteso che coloro che piantano la prima volta uno edifizio grande, sono quegli gli autori»149. L’equivoco si spiega con la mancanza di dimestichezza di Michelangelo con gli inizi della storia della progettazione. La sua idea del progetto di Bramante si orientava a ciò che, all’epoca, era stato eseguito e da allora era visibile («come ancora è manifesto», si dice nella lettera ad Ammanati sopra citata), ovvero i quattro pilastri della cupola e il coro di Giulio; essi si potevano interpretare senza sforzo come inizi di una pianta centrale a croce greca. Poi, sotto la direzione di Sangallo, crebbe il deambulatorio della tribuna meridionale, quella «giunta» che, agli occhi di Michelangelo, minacciava di adulterare l’opera di Bramante150. Gli sembrò che fosse la sua missione liberarla da quella stretta. Contro la resistenza dei deputati, che temevano che l’edificio si sarebbe ridotto a un «San Pietrino»151, impose la demolizione del deambulatorio cominciato da Sangallo. L’azione fu spettacolare, ma era soltanto il segnale visibile della riduzione del progetto intero che Michelangelo aveva in mente. Riguardava l’intero programma spaziale, nella misura in cui non era stato fissato già da Bramante: vennero eliminati non soltanto i deambulatori delle tribune, ma anche i bracci esterni della croce dei centri secondari, così come i vani d’angolo con le loro torri. Ne risultò una nuova geometria della pianta: la lunghezza dei lati del quadrato di base in cui era inscritto il corpo di fabbrica centrale si ridusse da 600 palmi in Sangallo a circa 460 palmi in Michelangelo (secondo le incisioni della pianta

di Labacco e Ferrabosco). Le cupole secondarie vennero a trovarsi quindi negli angoli del blocco, i centri di secondo ordine si trasformarono in cappelle d’angolo e la struttura «frattale» del progetto di Bramante fu sostituita da una semplice figura a cinque cupole. Quell’equilibrio sospeso tra diversi gruppi di ambienti, che era riecheggiato ancora una volta nel piano del modello di Sangallo, cedette il posto a un unico, persuasivo effetto d’insieme. La formula per esprimerlo fu trovata da Vasari, quando attribuì al S. Pietro di Michelangelo «minor forma, ma sì bene maggior grandezza» »152. Con la svolta tipologica coincise un cambiamento nello stile di progettazione. Sia Michelangelo che Sangallo erano consapevoli della brevità della loro vita in confronto alla durata della storia della costruzione, ma ne trassero conseguenze opposte. Sangallo voleva portare a termine l’impresa per lo meno a livello progettuale; perciò, per lui, negli ultimi anni il grande modello sostituì l’edificio reale. In esso ogni struttura era pianificata fino in fondo, ogni dettaglio studiato con precisione, ogni problema di forma risolto; ciò che restava da fare ai successori era la realizzazione in pietra – per trecento anni, secondo la profezia sarcastica di Michelangelo153. Ora, invece, la progettazione e l’esecuzione edile dovevano tornare a procedere fianco a fianco. Come Bramante prima di lui, Michelangelo lasciò in sospeso l’idea del tutto, concentrandosi su ciò che c’era da fare nell’edificio e fornendo proprio così un contributo decisivo al completamento dell’impresa. Quando i deputati vollero vedere un nuovo modello, ne fece uno; fu pronto in due settimane e costò venticinque scudi. Un anno dopo fu realizzato un modello grande, ma pure questo non si riferiva all’intera costruzione, bensì alla sezione su cui aveva iniziato a lavorare: la nuova tribuna meridionale154. Il compito era più difficile di quanto sembra. La demolizione del deambulatorio, infatti, non bastava; bisognava invece sviluppare una nuova struttura per il muro perimetrale e quello interno dell’abside, che tenesse conto dei primi elementi già stabiliti da Bramante. Purtroppo i disegni progettuali di Michelangelo sono andati perduti (probabilmente distrutti da lui stesso). Il suo ragionamento, quindi, si può seguire soltanto in via ipotetica. Pressante era il problema delle rampe a chiocciola («lumache piene»), necessarie per il trasporto del materiale nella costruzione della cupola. Audace come sempre, Bramante voleva farle salire all’interno dei suoi pilastri della cupola, Sangallo prevedeva rampe doppie nei vani d’angolo del suo progetto del modello155. Dato che queste ora erano

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Capitolo terzo

102. S. Pietro, Tribuna di Sangallo (incisione Labacco / Salamanca, 1546, dettaglio).

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104. Palazzo Vaticano, Cappella Paolina.

105. Michelangelo, Studio per la cupola. Lille, Musée d’Art et d’Histoire, inv. 93-94.

106. Michelangelo, Studio per la cupola. Haarlem, Teylers Museum, inv. a 29.

modello di Sangallo. A guidare Michelangelo era probabilmente anche qui l’idea di riprendere il «progetto originario» di Bramante: il tholos circondato da colonne, coronato dalla semisfera della cupola del Pantheon. Andava liberato dall’involucro di strutture secondarie di sostegno con cui voleva avvolgerlo Sangallo. Così facendo, sarebbero sorti problemi tecnici e Michelangelo non esitò a metterci mano. Già nel luglio 1547, ancor prima dell’inizio dei lavori alla nuova tribuna meridionale, pregò suo nipote, che viveva a Firenze, di fornirgli alcune misure della cupola del Duomo locale159; essa era il grande esempio di una cupola moderna di queste dimensioni. Negli anni seguenti Michelangelo realizzò i due fogli di lavoro che oggi si trovano a Lille e ad Haarlem, che ci permettono di seguire fino a un certo punto il suo ragionamento. Il progetto definitivo dev’essere stato pronto nel gennaio 1554; in quella data si iniziò a costruire il tamburo. Nel 1555 Michelangelo sperava di poter «presto» involtare la cupola160, ma nell’anno seguente il papa Ghislieri, Pio v, ordinò uno stop dei fondi per la costruzione. L’ottantunenne Michelangelo decise di fissare il suo progetto in un modello, probabilmente su pressione di amici preoccupati. Nel 1557 fu pagato un modello in terracotta, nel 1558-59 era in costruzione il grande modello in legno che si è conservato fino ad oggi (con alcune modifiche effettuate in un secondo tempo).

Il progetto della cupola di Michelangelo contiene due grandi novità; riguardano il tamburo e la calotta. La sua concezione del tamburo si riallaccia, in un primo momento, alla cupola fiorentina (per la cui articolazione lui stesso, trent’anni prima, aveva presentato un progetto). Come a Firenze, all’inizio prevede dodici oculi; nel progetto del modello, essi si trasformano in sedici finestre rettangolari verticali, coronate da frontoni, con un effetto magnificamente solenne. Michelangelo affronta il problema della spinta laterale della volta della cupola con sedici possenti contrafforti che sporgono dalla parete del tamburo. I loro spigoli sono occupati da colonne a tre quarti, sopra le quali aggettano i risalti della trabeazione, in modo tale che, da lontano, la curva della cupola sembra emergere

103. S. Pietro, Tribuna di Michelangelo (incisione V. Lucchini, 1564).

state eliminate, Michelangelo spostò le rampe nei contropilastri delle tribune settentrionale e meridionale. Eliminò, con un taglio diagonale, gli spigoli esterni di questi pilastri; si vennero così a creare gli «smussi», brevi porzioni di parete messe di traverso tra le absidi e le cappelle d’angolo, che danno alla massa del corpo occidentale il suo aspetto singolarmente «poligonale». Per l’articolazione delle pareti Michelangelo si orientò di nuovo al coro di Giulio: le arcate impilate le une sulle altre di Sangallo («archi sopra archi, e colonne sopra colonne», Michelangelo, secondo Vasari)156 furono sostituite da paraste colossali binate, tra le quali si trovavano nicchie e, negli intervalli maggiori, ampie aperture. È evidente l’intenzione di un ritorno alla «verità» di Bramante157: i gruppi di parasta-nicchia-parasta riflettono l’articolazione bramantesca dell’interno; emerge con chiarezza la

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struttura verticale delle tribune, che Sangallo aveva fatto sparire dietro le sue arcate da Colosseo con allineamento paratattico. Già al primo sguardo si coglie l’«organismo» dell’edificio. Le volte a botte dei bracci della croce sono mascherate all’esterno da un attico, come previsto anche da Bramante. Tre aperture, che incidono la superficie liscia delle sue pareti e che si restringono dall’esterno all’interno in forma di imbuto, sboccano nelle lunette della calotta dell’abside. È così che, all’inizio degli anni ’60 del Cinquecento, fu realizzata la tribuna meridionale. Pare però che Michelangelo, ancora poco prima della sua morte, progettasse l’articolazione dell’attico con cornici delle finestre in forma di rettangoli orizzontali, visibili ancora oggi in tutte e tre le tribune del corpo occidentale158. Il prospetto interno delle absidi includeva i grandi pilastri con paraste ordinati ancora da Bramante. Già Sangallo aveva bloccato i passaggi tra di essi con tabernacoli d’altare. Michelangelo ne sostituì i frontoni con una trabeazione che correva tutt’intorno, ripiegata a risalto sulle colonne dei tabernacoli. La struttura aperta di pilastri e colonne di Bramante si trasformò quindi in una parete articolata in profondità, che delimitava però chiaramente lo spazio. Nella zona superiore si aprono le enormi superfici di vetro delle finestre, attraverso le quali cade all’interno la luce solare. Dopo che il progetto della tribuna era stato chiarito, Michelangelo si dedicò alla cupola. Qui c’erano due presupposti già esistenti: la forma di base della cupola circolare sull’ottagono irregolare del vano centrale e il diametro interno di circa 42 m. Esistevano inoltre due progetti precedenti, con cui Michelangelo doveva confrontarsi: il progetto di Bramante, pubblicato da Serlio nel 1540, e il

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Capitolo terzo

107. Modello ligneo del progetto di Michelangelo per la cupola, basilica di S. Pietro, Ottagono di S. Basilio.

Il nuovo S. Pietro

108. Modello ligneo del progetto di Michelangelo per la cupola, basilica di S. Pietro, Ottagono di S. Basilio.

110. Anonimo, Veduta della tribuna sud. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben, ii, 60 recto.

109. Anonimo, Schizzo della cupola. Archivio della Fabbrica di S. Pietro.

111. Anonimo, Veduta della tribuna nord. Berlino, Kupferstichkabinett, Heemskerck-Alben, ii, 60 verso.

tre, con la sua ellisse, Sangallo si era avvicinato parecchio alla linea statica ideale). In ogni caso, l’aspetto esterno della cupola di Michelangelo era più vicino al progetto di Bramante di quanto lo sarebbe stata l’esecuzione successiva da parte di Giacomo della Porta. La costruzione

da un cratere. Statue colossali avrebbero dovuto fermare i contrafforti con il loro peso, accrescendone la stabilità. Per quanto riguarda il profilo della calotta, nei disegni preliminari (Lille e Haarlem) Michelangelo oscilla tra curve semicircolari e leggermente appuntite. In questo contesto si delinea un nuovo concetto costruttivo: la volta consiste di due gusci che verso l’alto si allontanano l’uno dall’altro; sul dorso del guscio interno salgono dei gradini161. Federico Bellini ha potuto dimostrare che Michelangelo qui riprende alcune cupole fiorentine di Giuliano da Sangallo. Nel progetto del modello entrambi i gusci hanno un profilo semicircolare, ma i rispettivi centri sono disposti in maniera piuttosto complicata; Michelangelo lo spiegò con precisione a Vasari162. Sarebbe stata una costruzione al limite di quanto tecnicamente possibile (men-

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Quando Michelangelo assunse la carica, il cantiere era in piena attività e i deputati si rifiutarono di assecondare il suo desiderio e di ordinare un arresto immediato dei lavori163. Non immaginavano che Michelangelo si proponesse di riorganizzare da cima a fondo l’attività del cantiere, che aveva una sua routine dai tempi di Bramante. Già a Firenze aveva concepito le sue architetture nelle cave di pietra; vedeva l’opera architettonica come un insieme di blocchi di marmo, non diversamente da un gruppo scultoreo. Ora, quindi, anche le tribune di S. Pietro dovevano essere costruite in gran parte con blocchi in travertino, «cosa non usata a Roma», come scrive Michelangelo stesso a Vasari164. Siamo ben informati sullo stadio raggiunto dalla costruzione nel 1546165. Il braccio meridionale del transetto era quasi terminato, la sua volta a botte poté essere chiusa nel dicembre 1547 ed era in corso di realizzazione il piano terra dell’abside con il deambulatorio. Il braccio settentrionale del transetto era un po’ indietro, lì, nel 1549, si stava ancora lavorando alla volta. Uno o due degli «ottogoni» di Sangallo erano finiti o in costruzione. Era così che, secondo Sangallo, avrebbero dovuto procedere i lavori, come processo di crescita costante, per così dire al di fuori del tempo. Ma lo sguardo di Michelangelo si rivolse a un obiettivo tutto nuovo: la cupola. I pennacchi lasciati incompiuti da Bramante furono ora completati e rafforzati con una muratura di ridosso; dal 1547 erano in costruzione le rampe a chiocciola del braccio meridionale del transetto, contemporaneamente cominciarono i lavori per la cornice interna del basamento del tamburo. Nel 1548-49 fu abbattuto il deambulatorio della tribuna meridionale, dal 1549 crebbe la nuova abside di Michelangelo, un po’ più tardi anche quella della tribuna settentrionale. Nel 1557 l’abside meridionale fu involtata, ma in modo diverso dal progetto di Michelangelo; egli riuscì a imporre che la volta già realizzata fosse smantellata e ricostruita come la immaginava lui (ovvero non come un quarto di sfera con lunette, bensì con tre vele realizzate ciascuna sin-

golarmente tra i costoloni che salivano sopra le paraste; un modello in legno realizzato appositamente fu inserito nel grande modello di Sangallo)166. Nel 1548-52 fu realizzato lo zoccolo del tamburo della cupola, dal 1555 si lavorava alle colonne per i suoi contrafforti, nel 1555 ai capitelli per le paraste all’interno. Nel 1556 iniziarono lavori di scavo a nordovest del nucleo dell’edificio, verosimilmente per la cappella d’angolo da erigere in quel punto. Nell’anno della morte di Michelangelo, nel 1564, la tribuna meridionale con gli adiacenti «smussi» era stata completata, la tribuna settentrionale era finita fino alla calotta dell’abside non ancora chiusa, il tamburo era finito ad eccezione dei capitelli dell’ordine esterno, la trabeazione dell’interno (che avrebbe dovuto sorreggere l’impalcatura per la volta della cupola) era in costruzione. Nel braccio occidentale e in quello orientale (coro di Giulio e lato d’ingresso) non era successo nulla.

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Capitolo terzo

112. Michelangelo, Lettera a Vasari sulla calotta dell’abside sud del 1 luglio 1557. Arezzo, Casa Vasari, cod. 12 (46).

L’architettura di Michelangelo L’impressione che oggi accoglie il visitatore di S. Pietro si basa, in non piccola parte, sull’incontro con l’opera e la personalità di Michelangelo. Bramante aveva creato la forma di base dell’edificio, ma soltanto l’esperto della storia della costruzione è consapevole del suo operato; Michelangelo, invece, è direttamente presente all’esterno e all’interno, le forme parlano il suo linguaggio. Questo linguaggio era accordato a un tono più alto di quello dei lunghi anni dei Medici precedenti; al pubblico romano, abituato al classicismo della scuola di Raffaello e di Sangallo, doveva apparire come efflusso di puro arbitrio. Michelangelo liquidò un prelato di cui non si fa il nome – probabilmente un membro della Congregazione della Fabbrica che aveva criticato il suo modello della tribuna – spiegando che aveva dovuto ridisegnare gli «adornamenti» perché aveva modificato la pianta dell’edificio; le due cose erano collegate tra di esse come le membra del corpo e chi non aveva studiato anatomia non poteva capirlo167. Michelangelo era consapevole che l’architettura che

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113. Michelangelo, Lettera a Vasari sulla calotta dell’abside sud del 17 agosto 1557. Arezzo, Casa Vasari, cod. 12 (46).

114. Modello ligneo per la calotta michelangiolesca della tribuna sud, basilica di S. Pietro, Ottagono di S. Girolamo.

aveva in mente non si poteva comunicare sul piano della «ragione e regola». Un esempio sono gli «smussi», quelle porzioni di muro che si piegano diagonalmente, comprese tra absidi e cappelle d’angolo, tanto essenziali per l’aspetto esterno del corpo occidentale. Li si può interpretare come un riflesso dei pilastri della cupola di Bramante, le cui superfici interne inclinate costituiscono l’ottagono del vano della cupola; gli smussi, però, tagliano il sistema di assi dell’edificio in rifrazioni che variano tra i 36° e i 54°, violando così un principio fondamentale di tutta l’architettura occidentale: la supremazia dell’angolo retto. E proprio così la massa dell’edificio, tanto estesa e tanto variamente articolata, viene percepita come un organismo mosso, organico in se stesso, inconcepibilmente grande eppure ideato come un insieme. L’immedesimazione sostituisce il calcolo della regola. Ma non genera dimestichezza, bensì una specie di angoscia di fronte alle forze sovrumane che hanno messo in moto tali masse. Qui S. Pietro riconquista qualcosa di ciò che doveva aver avuto in mente Bramante. Anche dalla suddivisione interna delle tribune, dove bisognava includere parti già costruite, Michelangelo ha

plasmato un insieme drammaticamente mosso. Ai lati dei grandi pilastri con paraste di Bramante, la parete dell’abside si ritrae in profondità e al suo interno diventa visibile una struttura in conci; le finestre, dal basso, spingono contro la trabeazione principale, i loro frontoni vengono spezzati. Ciò spiega l’esasperazione di Michelangelo di fronte a quella calotta dell’abside eseguita nel modo sbagliato: interrompeva il nesso voluto tra parete e volta, ignorava l’«anatomia» dell’edificio, alla cui rappresentazione tutto era mirato. In questo – bisogna sottolinearlo – ciò che contava non era l’effettivo percorso delle forze all’interno della struttura muraria, bensì l’impressione di dispiegamento di forza che l’apparato di elementi michelangiolesco suscita nel visitatore. La dinamica è di natura estetica, non tecnicocostruttiva. Ciò risulta evidente, di nuovo, soprattutto nell’esterno. Il suo aspetto complessivo appare segnato da «linee di forza» che si dipartono dalle grandi coppie di paraste delle tribune, proseguono nelle colonne binate del tamburo e, attraverso i costoloni della cupola (che nell’incisione di Dupérac sono chiaramente bipartiti), salgono

fino alla lanterna, dove tornano a essere raccolti e riuniti in un fascio. Questa è l’«azione» che viene suggerita, ma non corrisponde alla struttura materiale: il tamburo della cupola, infatti, poggia su uno zoccolo ottagonale omogeneo in se stesso (il cui impianto risale già a Bramante), la sua statica è autonoma. Non sussiste un nesso costruttivo tra l’ossatura di pilastri della sottostruttura e il sistema di costoloni della calotta. Resta da notare che l’esperienza dell’architettura esterna michelangiolesca si può vivere soltanto guardando direttamente il corpo occidentale, cosa che di norma è preclusa al visitatore odierno di S. Pietro. Dalla terrazza sul tetto del corpo longitudinale (e in molti punti della città, dove fa inaspettatamente capolino sopra i tetti), la cupola si mostra nella sua piena maestà, ma come elemento spettacolare singolo, isolato dalla membratura delle tribune, che in realtà doveva dominare. L’architettura dell’interno si vede meglio, ma il suo effetto originario le viene sottratto dalle dorature troppo ricche dei fregi e della cupola, aggiunte in seguito. Bisogna immaginare l’insieme in puro colore travertino.

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115. Etienne Dupérac, Pianta del S. Pietro michelangiolesco (incisione, 1569).

116. Etienne Dupérac, Alzato laterale del S. Pietro michelangiolesco (incisione, 1569).

118. Anonimo, Sezione e alzato del S. Pietro michelangiolesco. Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. xii d 74.

117. Etienne Dupérac, Sezione longitudinale del S. Pietro michelangiolesco (incisione, 1569).

Storia successiva Michelangelo morì il 18 febbraio 1564. Come successori, nel luglio dello stesso anno, furono nominati Pirro Ligorio e, come secondo architetto, Jacopo Barozzi da Vignola168. Per motivi oscuri, nell’ottobre del 1565 furono entrambi licenziati; poi Vignola assunse la funzione di architetto con competenze direzionali, ma restò senza salario fisso, dato che papa Pio v, pieno di fervore religioso, voleva impiegare tutti i fondi disponibili per la lotta contro i Turchi. Come successo della sua politica, nel 1571 poté festeggiare la vittoria sul mare di Lepanto. Vignola morì nel 1573; nell’anno successivo Gregorio xiii nominò Giacomo Della Porta architetto in capo della Fabbrica.

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Diversamente dalle nomine precedenti, Ligorio e Vignola erano stati vincolati a non discostarsi dal progetto del loro predecessore. Il problema era che un progetto del genere non esisteva, o che, appunto, non lo si aveva. Michelangelo aveva sì fatto realizzare un modello per la cupola, non però per l’intero edificio. Non si trovarono nemmeno disegni progettuali in questo senso. Come tentativi di creare un progetto michelangiolesco vincolante si possono interpretare la descrizione insolitamente dettagliata di Vasari nella seconda edizione delle sue Vite (1568) e tre incisioni in grande formato di Etienne Dupérac (1569)169. Queste ultime costituiscono una sorta di pendant della serie di incisioni di Labacco del 1546-49, che avevano come oggetto il grande modello di Sangallo. Esistevano però anche proposte che divergevano nei dettagli, come una perizia sulla costruzione della cupola di Guglielmo Della Porta, da datare a prima del 1565170, e un disegno della sezione e del prospetto del progetto di Michelangelo, di ignoto, oggi conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli171. Restavano aperte due grandi questioni: quella della soluzione michelangiolesca per la facciata e quella delle cupole secondarie. Come Michelangelo immaginasse l’accesso al suo tempio a pianta centrale si può desumere da uno schizzo di sua mano, risalente ai primi tempi della progettazione172. Mostra un portico a colonne, della tipologia del pronao del Pantheon. Il fronte ha cinque colonne, probabilmente ne erano previste sei. Il modo in cui è realizzato il disegno è estremamente sommario; non si tratta di un progetto, ma di un primo tentativo (fallito) di richiamarsi alla mente la topografia del sito. Non abbiamo altre fonti e sembra che non le avesse nemmeno Dupérac: nella sua serie di incisioni lasciò da parte

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il prospetto di fronte. Con l’aiuto delle altre incisioni si può ricostruire una facciata, ma ciò non avviene senza contraddizioni (ci sono conflitti nella zona dell’attico) e il risultato appare ben poco convincente: invece di un atrio risulta una fila di dieci colonne, davanti ad essa una seconda di quattro colonne che reggono un frontone, costituendo così un gruppo centrale dalle proporzioni molto infelici nell’alzato173. Potrebbe trattarsi di un’idea del tardo Michelangelo, ma più probabile sembra una soluzione di ripiego sviluppata dopo la sua morte, suggerita forse da Vasari o da Vignola. Michelangelo non sembra essersi più occupato della chiusura orientale del suo edificio, la cui realizzazione richiedeva interventi notevoli sulle parti superstiti del vecchio edificio e comunque apparteneva a un futuro remoto. Le incisioni di Dupérac mostrano la cupola di Michelangelo circondata da quattro satelliti che si alzano sopra le cappelle d’angolo174. In esse rivive l’idea della quincunx, che era contenuta nel progetto di Bramante, ma non si era mai davvero manifestata nell’esterno, dato che l’altezza delle cupole secondarie era sempre rimasta inferiore a quella delle volte dei bracci della croce. Nei prospetti di Dupérac, invece, le cupole secondarie partono dallo stesso livello della cupola principale, influenzando così la sagoma dell’intero edificio, non però come cupole

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119. Giovanni Antonio Dosio, Veduta dell’interno verso nord. Firenze, gdsu 91a.

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120. Giambattista Naldini, Veduta dell’interno verso ovest. Amburgo, Kunsthalle, Kupferstichkabinett, 21311.

121. Monogrammista hcb, Torneo nel Cortile del Belvedere, dettaglio (incisione, 1565).

123. Anonimo Fabriczy, Veduta dell’esterno da ovest. Stoccarda, Kupferstichkabinett, Sammelband f.131, n. 392.

122. Anonimo, Veduta dell’esterno da sud-est. Francoforte, Staedelsches Kunstinstitut, 814.

reali, ma come strutture aperte simili a padiglioni, che poggiano sulle vere cupole delle cappelle d’angolo. Come ha dimostrato John Coolidge, nella forma che appare nelle incisioni esse si possono attribuire a Vignola. Non si può provare che Michelangelo se ne sia occupato. Così – finché non emerge nuovo materiale – dobbiamo mettere in conto la possibilità che Michelangelo abbia immaginato il suo S. Pietro senza padiglioni sul tetto, dominato soltanto dalla grande cupola centrale. Nei vent’anni successivi alla morte di Michelangelo, i lavori al cantiere proseguirono in maniera relativamente costante, ma lentamente. Una serie di diverse vedute ci permette di seguire il corso dei lavori. Sotto la direzione di Vignola, la volta del braccio settentrionale del transetto fu chiusa e si completò la trabeazione del tamburo della cupola. La cappella d’angolo nordorientale (in seguito chiamata «Cappella Gregoriana») fu iniziata sotto Vignola e involtata nel 1578, quando era ancora una costruzione grezza, sotto Della Porta; la cappella sudorien-

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tale («Clementina») fu iniziata nel 1578 e involtata nel 1585. Soltanto sopra queste due cappelle si edificarono i nuovi padiglioni ideati da Giacomo Della Porta. Quello sopra la Cappella Gregoriana fu eretto nel 1578-84 e fu rimaneggiato ancora nel 1596-97, l’altro sorse nel 159396. Per un periodo funsero da campanili, dato che nel progetto di Michelangelo questi elementi non erano previsti175. In nessun periodo si progettarono dei padiglioni sopra le cappelle occidentali. Sarebbero stati privi di funzione e inoltre difficilmente visibili dalla piazza: un sintomo del graduale sbiadire dell’idea della pianta centrale, a vantaggio di un orientamento alla facciata176. Nel 1585 con Sisto v, Felice Peretti, ascese al soglio un nuovo «papa di S. Pietro». Fece raffigurare ciò che si era proposto di fare in un affresco nel «Salone Sistino» dell’ala della biblioteca di nuova costruzione: il completamento della chiesa di S. Pietro secondo il progetto di Michelangelo, così com’era stato definito nelle incisioni di Dupérac. Durante il suo pontificato, durato

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124. Sezione e alzato della cappella Gregoriana, incisione (da Carlo Fontana 1694).

125. Paris Nogari (attr.), Il S. Pietro michelangiolesco da est. Palazzo Apostolico Vaticano, Biblioteca di Sisto v, Sala ii.

Pagine seguenti: 127-128. Veduta d’insieme dell’interno e dell’esterno della tribuna sud.

126. La trasportazione dell’obelisco vaticano (incisione di Natale Bonifacio / Giovanni Guerra, 1586).

129-130. Veduta d’insieme dell’esterno (prima del restauro) e dell’interno della tribuna nord. 131. Veduta d’insieme della cupola.

soltanto cinque anni, si intrapresero tre grandi passi: il rimaneggiamento del braccio occidentale, l’innalzamento dell’obelisco e la realizzazione della volta della cupola. La parziale demolizione del coro di Giulio di Bramante e l’edificazione di un nuovo braccio del coro secondo il modello delle tribune del transetto erano misure decise da tempo e probabilmente già avviate sotto Gregorio xiii, ma furono messe in pratica soltanto nel 1585-87; la volta del nuovo braccio del coro fu completata nel 1589. La demolizione e la ricostruzione avvennero in un colpo solo, un procedimento tecnicamente complesso che (secondo uno scrivano della Fabbrica) causò «molte spese e gran fatica»177. Il trasporto e la ricollocazione dell’obelisco vaticano da parte di Domenico Fontana178 riguardavano la basilica in quanto segnavano il punto di vista ideale per osservare l’edificio di Michelangelo, fornendo inoltre l’elemento

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determinante per l’assetto futuro della piazza. L’impresa ingegneristica di Fontana suscitò scalpore in tutta Europa, non da ultimo perché dimostrò che l’età moderna aveva recuperato lo stato della tecnica dell’antichità. Lo stesso valeva per la cupola di Della Porta: non era seconda in nulla all’opera dei costruttori del Pantheon, anzi, la superava, dal momento che la cupola di S. Pietro si ergeva su una sottostruttura di sostegni verticali non addossati e di archi («il Pantheon sulle volte del Tempio della Pace», ovvero della basilica di Massenzio)179. Purtroppo non conosciamo disegni di Della Porta, né vedute dell’epoca di costruzione della cupola. Il suo sorgere è ampiamente documentato nei documenti della Fabbrica; soltanto da poco Federico Bellini li ha analizzati in maniera completa, illustrando il processo in tutta la sua drammaticità180. La costruzione – dopo lunghi preparativi organizzativi – cominciò nel dicembre 1588. Nel terzo inferiore della volta il guscio esterno e quello interno sono strettamente uniti; questa parte fu eseguita «a mano libera», ovvero senza centine, e nel 1589 era pronta. Per il procedere della costruzione si eresse un’impalcatura in legno che poggiava sulla trabeazione del tamburo. Il lavoro di muratura procedette rapidamente. Nel maggio del 1590 si era raggiunto il vertice della volta e l’anello interno del basamento della lanterna era stato chiuso. Da giugno a settembre si lavorò al corpo della lanterna. Il 27 agosto era morto papa Sisto, nella certezza che la grande opera era riuscita. Nel marzo del 1591 si smantellò l’impalcatura della cupola, a settembre-ottobre anche quella della lanterna. Dall’analisi di Bellini emergono due fatti: il ruolo chiave di Sisto v e la prestazione eccezionale di Della Porta. Fu Sisto ad assicurare il finanziamento dell’impresa togliendola alla Fabbrica e passandola alla Camera Apostolica181. Soltanto così fu garantito il flusso continuo di denaro richiesto dal procedimento della costruzione della volta, da eseguire in un colpo solo. Della Porta si dimostrò completamente all’altezza del compito che si trovò ad affrontare (e senza l’aiuto di Domenico Fontana, come spesso invece si suppone nella bibliografia in materia)182. Tipico della sua soluzione dei numerosi problemi tecnici che si posero nel corso della costruzione fu l’uso abbondante di ferro, ovvero la combinazione di materiali resistenti alla pressione e alla trazione (pietra e metallo)183. In questo modo si mosse seguendo una linea intrapresa soprattutto dagli architetti italiani a partire dal Medioevo e che, alla fine, sarebbe sfociata nell’ingegneria moderna.

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132-133. Dettagli architettonici della cupola.

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Pagine seguenti: 134. La cupola della cappella Gregoriana. 135. La cupola della cappella Clementina.

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136. Dettagli architettonici della cupola della cappella Clementina.

Della Porta intervenne anche sull’aspetto esterno della cupola di Michelangelo. Le forme decorative nelle cornici delle finestre e soprattutto nella lanterna furono adattate al mutato gusto dei tempi. La differenza più vistosa riguardava il profilo della calotta: Della Porta sostituì il semicerchio di Michelangelo con un arco a sesto acuto, il cui vertice si trova 7 m abbondanti sopra quello del progetto michelangiolesco184. Sul motivo che lo spinse a farlo si possono soltanto avanzare delle ipotesi. Forse diffidava del sistema di contrafforti di Michelangelo e voleva ridurre preventivamente la spinta laterale della volta (che non si sapeva ancora calcolare). Anche Brunelleschi, del resto, aveva dato alla sua cupola a tamburo una sezione a sesto acuto e anche Sangallo, nei suoi progetti per S. Pietro, aveva sperimentato con profili a sesto rialzato. Un’altra riflessione riguardava le condizioni di visuale in cui sarebbe stata percepita la cupola. Nella prospettiva dalla piazza – il cui livello era ancora 6 m sotto il terreno di fondazione – il vertice della cupola semicircolare di Michelangelo non sarebbe stato visibile, il basamento della lanterna sarebbe affondato nella calotta, un effetto che si poteva simulare nel modello di legno. In questo punto Della Porta ha senza dubbio migliorato il progetto del suo predecessore, allo stesso tempo, però, ne ha modificato il carattere. Invece di pesare sul tamburo, la cupola di Della Porta si slancia libera e leggera al di sopra di esso, dando così alla silhouette di Roma il suo accento «barocco». Con il completamento della lanterna della cupola sotto Gregorio xiv, nel 1591185, terminò la supremazia di Michelangelo su S. Pietro e si confermò la regola della storia di quest’edificio: nessun singolo individuo – né architetto, né committente – era in grado di portare alla meta il processo costruttivo secondo la sua volontà. Sisto v aveva fatto di tutto per riuscire comunque a realizzare l’edificio di Michelangelo. Ma la sua concezione risaliva a quarant’anni prima e in quell’arco di tempo il mondo era andato avanti. Quella visione del papa Peretti anticipata nell’affresco, quindi, senza tener conto di tutta la fedeltà ai dettagli, appare stranamente senza tempo, anzi anacronistica – mentre una rappresentazione realistica della situazione dell’epoca ne mostra la problematica allora d’attualità: l’antico corpo longitudinale continuava ad esistere, con tutti i suoi annessi e avancorpi, sia come complesso edile che come luogo di culto. L’edificio a pianta centrale era appunto soltanto una parte del tutto. La storia della costruzione della basilica doveva andare avanti.

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Paolo v Nei quindici anni del pontificato di Paolo v, l’edificio crebbe di più di un terzo del suo volume totale: sorsero il corpo longitudinale con i suoi vani secondari (cappella del coro e del Santissimo Sacramento), l’atrio e la facciata. Nel corpo occidentale assunse la sua forma la Confessione davanti alla tomba dell’Apostolo186. Antefatto: la questione del corpo longitudinale Quando, nel 1605, Camillo Borghese ascese al soglio pontificio come Paolo v, la storia della costruzione del nuovo S. Pietro entrava nel suo centesimo anno. In questo lasso di tempo lo sguardo all’edificio era mutato. All’inizio era rivolto al futuro: il nuovo, ciò che veniva, doveva sostituire l’antico, l’edificio costantiniano doveva cedere il posto a un tempio più grande, più bello, più sublime; il principio guida era la ratio dei progettisti. Già all’epoca di Leone x, però, c’erano dei primi sguardi al passato: la basilica, sia come edificio commemorativo, sia come luogo di culto, rivendicava i suoi diritti. Nella seconda parte del secolo, da qui si sviluppò quella «rivolta della memoria»187 che, infine, avrebbe fatto crollare il progetto rinascimentale. Il nuovo andava inteso come un antico che tornava, l’esecuzione stessa andava intesa come una sorta atto di ricordanza storica, di memoria del passato che cercava un legame con il presente. Per Tiberio Alfarano il vecchio e il nuovo edificio non erano altro che «strutture» diverse del medesimo tempio: la basilica vaticana188. Dopo il completamento dell’impresa i canonici – al cospetto dei pilastri di Bramante e della cupola di Michelangelo – affermarono senz’altro: Haec non est novi templi constructio sed veteris redificatio et renovatio189. Il criterio era la questione del corpo longitudinale. Come l’antica basilica, anche il nuovo edificio, dalla fondazione, era stato concepito come impianto longitudinale; proposte divergenti, come quelle di Giuliano da Sangallo o di Peruzzi, rimasero prive di influenza sulla progettazione. Soltanto dopo il Sacco di Roma si prese seriamente in considerazione una rinuncia al corpo longitudinale, e Michelangelo innalzò la pianta centrale a ideale artistico. Intanto le parti superstiti dell’antica navata, che continuavano a essere sotto la giurisdizione del Capitolo190, si trasformarono invece nella cittadella dell’opposizione. Dopo il loro restauro offrivano di nuovo spazio per il culto (garantendo così anche la base ma-

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137. La basilica verso il 1600, pianta schematica (da Thoenes 1992b).

138. Tiberio Alfarano, Pianta della basilica. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro.

teriale per l’esistenza degli ecclesiastici); ora divennero inoltre oggetti di ricerca storica. Provocato dalla critica protestante alla tradizione petrina romana, l’interesse dei teologi romani si rivolse alla storia degli inizi della basilica191. Tra il 1558 e il 1568 fu redatto il manoscritto del dotto eremita agostiniano Onofrio Panvinio De rebus antiquis memorabilibus Basilicae Sancti Petri Apostolorum Principis Vaticane libri vii, poco più tardi il già citato trattato di Alfarano. Panvinio dichiarò la scelta della tipologia basilicale un’alternativa deliberata ai «templi circolari o quadrati dei pagani». Alfarano la mise in relazione alla visione della croce di Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio. Alfarano disegnò il suo piano dell’antica basilica su un esemplare della pianta di Dupérac192: poté così dimostrare che la realizzazione del progetto di Michelangelo avrebbe portato a rinunciare a gran parte del terreno antico consacrato e occupato da tombe di martiri. Aven-

do studiato la storia dell’antica basilica, ma non quella della nuova costruzione, ritenne Michelangelo l’autore del progetto originario, dato che l’associazione Michelangelo-Giulio ii era sin troppo ovvia. L’idea della pianta centrale fu dunque proiettata, in retrospettiva, nella fase della fondazione, mentre l’opera e il nome di Bramante cominciarono a sbiadire193. La critica non si fermò più nemmeno davanti al papa. Lo stimatissimo studioso di storia contemporanea Paolo Emilio Santoro affermò che Giulio ii fosse interessato più alla fama mondana che alla gloria di Dio, e quindi si fosse macchiato del grave peccato della demolizione dell’antica basilica194. Gli ecclesiastici criticavano i deficit funzionali dell’edificio michelangiolesco; Alfarano li elencò scrupolosamente e il maestro di cerimonie di Clemente viii, Giovanni Paolo Mucante, trasse la conclusione: «La nuova Basilica di S. Pietro è poco adatta alle messe e non conforme alle esigenze della Chiesa»195.

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139. Anonimo (T. Alfarano ?), Progetto per S. Pietro, incisione (da Buonanni 1696).

Progetti Mentre il progetto di Michelangelo rimase ufficialmente in vigore fino al volgere del secolo, spuntarono da tutte le parti dei progetti alternativi. Si possono dividere in due gruppi. Il primo cerca di combinare il corpo occidentale, così com’era, con un corpo longitudinale. La soluzione più semplice è mostrata da una pianta anonima, pubblicata nel 1696 in incisione da Buonanni: una lunga navata centrale, con tre vaste cappelle laterali rettangolari per lato, è inserita tra l’edificio a pianta centrale di Michelangelo/Dupérac e il suo tratto della facciata. Probabilmente l’autore ha tagliato un esemplare della pianta di Dupérac, incollandolo insieme al suo schema del corpo longitudinale196. In questo modo di procedere non vedeva un problema formale: è probabile che si trattasse più di un dilettante erudito del tipo di Alfarano che non di un architetto. Un progetto elaborato meticolosamente di Ot-

140. Ottavio Mascherino, Progetto per S. Pietro. Roma, Accademia Nazionale di S. Luca, Fondo Mascherino, n. 2352.

tavio Mascherino197 si è conservato in originale: prolunga l’edificio michelangiolesco aggiungendovi una cappella del Coro e un’altra del Santissimo Sacramento, poi seguono un corpo longitudinale a tre campate con cappelle laterali, un nartece, un atrio aperto a colonne e un’imponente scalinata. Sarebbe diventato un colosso di più di 300 m di lunghezza (a fronte dei circa 220 m dell’edificio odierno). Una proposta realistica fu avanzata da Carlo Maderno, che nel 1603 succedette al defunto Giacomo Della Porta come architetto in capo della Fabbrica (gdsu 101a): ciascuna delle cappelle d’angolo dell’edificio michelangiolesco (Cappella Gregoriana e Clementina) doveva essere ripetuta due volte, dal braccio orientale della croce si sarebbe dipartito un corpo longitudinale a tre campate198. Né Maderno né Mascherino si preoccuparono dell’architettura della facciata di Michelangelo. L’altro gruppo mira a salvare, in linea di principio, il progetto di Michelangelo e a renderlo accettabile al clero

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141. Carlo Maderno, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 101a.

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142. Anonimo (Giacomo della Porta?), Progetto per S. Pietro. Roma/New York, American Avademy (disperso).

143. Fausto Rughesi, Progetto per S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro. 144. Carlo Maderno, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 100a. 145. Lodovico Cigoli, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 2635a. 146. Lodovico Cigoli, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 2633a. 147. Carlo Maderno, Progetto per S. Pietro. Firenze, gdsu 264a.

con diversi annessi e rimaneggiamenti. Un disegno anonimo, databile al 1589, forse di mano di Della Porta o di uno dei suoi collaboratori, propone di prolungare il braccio orientale della pianta centrale in modo che trovino posto i vestiboli laterali dell’ingresso e alcuni ambienti secondari; viene mantenuta la soluzione della facciata delle incisioni di Dupérac199. Maderno combina un braccio orientale ampliato solo di poco con un nartece e una versione ridotta della facciata di Dupérac (gdsu 100a). In grande stile si interessò al problema il pittore fiorentino Lodovico Cingoli che, come architetto, era discepolo di Buontalenti200. Di lui ci sono noti circa venti schizzi e grandi progetti. La loro tendenza è quella di mantenere l’abside orientale di Michelangelo (oppure di ampliarla soltanto di poco) facendola precedere da portici colossali a colonne e pilastri. Sono variazioni di grande inventiva, che però si allontanano molto dal linguaggio delle forme di Michelangelo, soprattutto attraverso la numerosa presenza di archi. Il dispendio di architettura «pura» (non funzionale) ricorda il modello di Sangallo, soltanto che la pedanteria vitruviana è stata sostituita da un accademismo fiorentino-mediceo. Una proposta originale fu avanzata da Fausto Rughesi201: un atrio ovale, incorniciato da portici colonnati, avrebbe dovuto sostituire il corpo longitudinale. Il progetto è pianificato con cura, anche per quanto riguarda le differenze di livello che erano da aspettarsi; viene accompagnato da una dissertazione dotta sugli atri presso gli antichi Greci, Troiani, Romani, Ebrei e primi cristiani. Se tutte queste erano proposte di compromesso, Maderno riuscì infine nel compromesso dei compromessi

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(gdsu 264a): la figura a pianta centrale è perfettamente conservata, anche il braccio orientale ha un’abside; quest’ultima è fiancheggiata (come già in gdsu 100a) dalla cappella del coro e da quella del Santissimo Sacramento. Ad est si collega una sorta di corpo longitudinale miniaturizzato, a tre navate e a tre campate; ha tre cappelle laterali per lato, un nartece e una facciata che conserva il ricordo del colonnato di Michelangelo/Dupérac almeno come bassorilievo. Evidentemente Maderno cercava di prevenire tutte le possibili obiezioni e in effetti fu questo progetto a procurargli l’incarico. La nuova basilica Il fatto che il primo papa del nuovo secolo fosse determinato a portare a compimento la chiesa di S. Pietro era riconosciuto da tutti. «Il Santo Padre ha dei grandi progetti per la costruzione, così come si addicono ad un prin-

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Capitolo terzo

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148. Anonimo, Veduta di S. Pietro in costruzione. Wolfenbüttel, Herzog-August-Bibliothek, cod. Guelf.

cipe che unisce il massimo potere spirituale a quello temporale», riferisce nel 1605 il legato mantovano a Roma202. Al desiderio di «magnificenza» tipico dell’epoca, Paolo univa l’ambizione di lasciare ai posteri un documento architettonico della sua attività sul trono di Pietro. L’edificio di S. Pietro, quindi, dovette in fondo il suo completamento a un rivivere dello spirito del Rinascimento203. Nuova, al contrario, fu la forma del discorso pubblico in cui ora fu dibattuta la questione dell’edificio. Dall’epoca di Clemente viii in poi, il posto dell’antica deputazione addetta alla Fabbrica era stato preso da una congregazione di tre cardinali (il cui numero in seguito crebbe)204. La cerchia di coloro che si intromettevano, però, andò ben oltre quest’organo. Ciò che passò in secondo piano fu la voce degli architetti: erano ormai finiti i tempi dei progetti per S. Pietro pensati in grande, destinati poi a fallire in modo più o meno tragico. Furono sostituiti da processi di appianamento dei contrasti tra gruppi d’interesse diversi. Il papa incontrò una seria resistenza da due lati. Contro la demolizione del vecchio edificio protestò il cardinale e storico della Chiesa Cesare Baronio, rispettato da tutti205. Paolo gli venne incontro incaricando il bibliotecario e archivista del capitolo, Giacomo Grimaldi, di redigere una descrizione esatta ed esaustiva di tutte le parti del vecchio edificio e della sua dotazione; il pittore Domenico Tasselli doveva fornire le necessarie illustrazioni206. Da vero storico Grimaldi effettuò studi approfonditi sulle fonti, inserendo nelle sue considerazioni anche argomenti storico-artistici (confronti tra stili differenti). Nel 1620 consegnò al papa il suo opus imponente; il titolo Instrumenta autentica rimanda alla sua funzione giuridica come registro ufficiale di tutti gli oggetti sacri della basilica. Il nuovo edificio, tra l’altro, avrebbe racchiuso e conservato la superficie di quello vecchio, come un reliquiario: una richiesta già avanzata da Alfarano e ora rafforzata con fervore da papa Paolo207. Dall’altra parte c’era la «fazione toscana» con Maffeo Barberini (il futuro papa Urbano viii) come portavoce e Cigoli come protagonista architettonico. La sua lotta era rivolta a salvare la «gloria di Michelangelo Buonarroti». Non era però una presa di posizione per una nuova Chiesa (e contro la renovatio di quella antica), bensì per un ideale estetico che ormai apparteneva al passato – mentre il papa agiva in sintonia con lo spirito del tempo. Così nemmeno Barberini poté fare più nulla contro il progetto del corpo longitudinale, tanto più che entrò in scena soltanto quando la decisione era già stata presa208. Finché indossò la porpora cardinalizia, rimase però un nemico

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inconciliabile dell’edificio, un nemico che, anche dopo il suo completamento, ricoprì Maderno di amare accuse. Contraddistingue la situazione complicata il fatto che i lavori si mettessero in moto soltanto con esitazione. Eletto il 16 maggio 1605, Paolo annunciò durante il concistoro del 19 settembre la sua decisione di demolire il vecchio edificio. Cinque giorni dopo il Sacramento lì conservato fu traslato, con una processione solenne, nella Cappella Gregoriana del nuovo edificio. Così incominciò la demolizione dei resti della vecchia basilica, ancora prima che ci fosse un accordo su che cosa dovesse sostituirla. Nel maggio 1606 presso la Congregazione della Fabbrica ebbe luogo una consultazione, in occasione della quale Maderno, Cigoli e altri otto architetti presentarono le bozze dei loro progetti. Dopo di che Maderno e Cigoli furono invitati a elaborare dei modelli. Com’era da aspettarsi, la vittoria andò al progetto dell’architetto in capo della Fabbrica. Nel marzo 1607 iniziarono gli scavi nella zona della Cappella del Santissimo Sacramento, il 7 maggio ci fu la posa della prima pietra e si incominciò a costruire. Già in autunno, però, Paolo ordinò di dare la precedenza alla facciata209 – forse perché era impaziente di vedersi eternato come committente di S. Pietro (con rabbia del Barberini) con la scritta sul frontone Paulus Burghesius Romanus, forse anche su desiderio di Maderno, che voleva mettere mano per prima cosa a questa parte, la più difficile dal punto di vista progettuale. A partire dall’ottobre 1607, così, per prima cosa si smantellò l’atrio, posandovi una nuova prima pietra il 10 febbraio 1608. Nell’aprile di quell’anno, tuttavia, la Congregazione della Fabbrica si riunì nuovamente e decise di sostituire la chiesa anti-

149. Mattheus Greuter, Pianta di S. Pietro (incisione, 1613).

150. Mattheus Greuter, Facciata di S. Pietro (incisione, 1613).

stante di Maderno con un corpo longitudinale in tutta la larghezza del braccio della croce. L’edificio a pianta centrale doveva confluire nel corpo longitudinale senza abside orientale. Fu la sconfitta definitiva del partito di Michelangelo. Per Maderno significò modificare ancora una volta i progetti, con la massima pressione per le scadenze e all’interno di confini molto ristretti. Dal giugno 1608, però, la costruzione procedette, con un ritmo stupefacente. Il numero degli operai al cantiere crebbe di colpo210, si svilupparono e sperimentarono nuove tecnologie211. Il papa fece più volte la sua comparsa al cantiere, spronando a fare in fretta. Una veduta anonima mostra la facciata in costruzione, l’intera piazza antistante serve da officina212. Nella primavera del 1612 la facciata era pronta, a settembre Paolo ordinò di ampliarla con due annessi che avrebbero dovuto sorreggere dei campanili213. La

grande volta a botte sopra la navata centrale del corpo longitudinale fu completata alla fine del 1614. Nella primavera del 1616 cadde finalmente il muro divisorio di Sangallo; la domenica delle Palme si poté passeggiare da una parte all’altra dell’edificio214. Lo scisma architettonico dei decenni precedenti era stato superato. L’interesse del pubblico per tutti questi processi è documentato nelle stampe che accompagnarono la costruzione. Nel 1613 Mattheus Greuter pubblicò due incisioni in grande formato: la prima mostra la pianta dell’edificio che stava avviandosi al completamento, la seconda la facciata con i campanili di Maderno, non più eseguiti. Nella pianta appare, come annotazione, una lettera dedicatoria di Maderno a Paolo v, in cui le motivazioni per il nuovo edificio sono esposte dettagliatamente e si spiegano le misure costruttive adottate da Maderno stesso. Ciò conferisce alle incisioni di Greuter un carattere pressoché ufficiale. Due anni dopo esce la veduta panoramica monumentale di G.P. Maggi, stampata con due lastre di rame, di S. Pietro e del palazzo Vaticano. È interessante soprattutto come fonte per la progettazione della piazza. La facciata della basilica corrisponde in gran parte all’incisione di Greuter. La pubblicazione storicamente più importante si deve all’architetto ticinese Martino Ferrabosco215. La sua serie di incisioni mostra per pri-

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151. Giovanni Maggi / Jacopo Mascardi, Veduta del Vaticano, dettaglio (incisione, 1615).

152. Martino Ferrabosco, Alzato e sezione di una parte di S. Pietro (fotomontaggio) (da Ferrabosco 1620). 153. Martino Ferrabosco, Sezione e pianta di una parte di S. Pietro (fotomontaggio) (da Ferrabosco 1620).

ma l’antica basilica (da Alfarano, Grimaldi, Tasselli), poi l’edificio di Paolo v con alcune integrazioni e proposte di miglioramento di Ferrabosco stesso, relative alla piazza e al resto dei dintorni, ai campanili e all’assetto del coro e delle Grotte; e in terzo luogo quindici rilievi delle parti più importanti dell’edificio nel suo complesso. Si tratta di sezioni orizzontali e verticali fino a sei piani differenti, in scala 1:100; disposte l’una accanto all’altra, danno una radiografia della costruzione (purtroppo non completa) in tutta la sua complessità. Le tavole ancora non numerate furono pubblicate per la prima volta nel 1620 con il titolo L’architettura di S. Pietro in Vaticano; in seguito uscirono diverse edizioni in volume. L’architettura di Maderno Tra tutti gli architetti di S. Pietro, Maderno ha il ruolo maggiore nell’edificio odierno ed è l’unico ad aver potuto realizzare interamente il suo progetto. D’altro canto, il suo spazio di progettazione fu quello più limitato, a causa delle strutture realizzate nel corso del Cinquecento, ma anche delle direttive rigide, eppure spesso mutevoli del

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committente. Ciò rende difficile valutare il suo contributo personale all’opera216. Il primo e più importante problema che Maderno dovette risolvere fu la forma da dare alla facciata. Fino a quel momento essa aveva avuto un ruolo marginale nella storia delle progettazioni e nessuno in quella della costruzione. Anche Sangallo, di cui ci sono noti diversi disegni per la facciata, nel suo progetto del modello tornò ad accostare le diverse parti del corpo di fabbrica l’una vicino all’altra, senza collegamenti tra di loro. E l’atrio a colonne di Michelangelo, qualunque ne dovesse essere l’aspetto, sarebbe comunque stato il contrario di una facciata. Con la costruzione del corpo longitudinale, però, la basilica avrebbe rivolto alla piazza una parete da decorare, mentre la cupola di Michelangelo spariva dal campo visivo. Inoltre la nuova fronte avrebbe anche dovuto soddisfare le esigenze del cerimoniale papale (sovranamente ignorate da Michelangelo): bisognava creare un collegamento con il palazzo e incorporare un nartece e una loggia delle benedizioni. Nei suoi progetti Maderno ha percorso tre vie diverse. In gdsu 101a dispone un portico a pilastri davanti a tutto il fronte del corpo longitudinale; esso è articolato soltanto

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154. Carlo Maderno, Progetto per la sistemazione di piazza S. Pietro. Firenze, gdsu 263a.

dall’alternarsi ritmico, finemente bilanciato, dei sostegni e delle aperture. Le colonne colossali di Michelangelo sono sostituite da paraste. Forse le quattro centrali avrebbero dovuto reggere un frontone. Restano però tutte sullo stesso piano. Nel complesso, sarebbe emersa l’immagine di una parete prospettica di enorme larghezza, non tanto diversa, quindi, dall’aspetto odierno della basilica. In gdsu 100a Maderno cerca di imitare i risalti del corpo di fabbrica di Michelangelo. L’atrio è compresso su soli cinque assi; quattro delle colonne colossali erette davanti alla facciata riprendono il motivo centrale della pianta di Michelangelo/Dupérac. Nel progetto concorrente di gdsu 264a l’atrio è di nuovo leggermente allargato. Questa volta Maderno dedica particolare cura a strutturarne il lato esterno. Per questo ricorre al sistema della facciata a rilievo, che aveva sviluppato con un così bel successo quattro anni prima per il fronte di S. Susanna: il sistema del portico di Michelangelo/Dupérac viene proiettato sulla superficie della parete, facendo diminuire il grado del rilievo da colonne a tre quarti a semicolonne e a paraste. L’idea di fondo è quella di un effetto-eco; il motivo centrale più aggettante riecheggia nei campi laterali, due volte smorzato. Era un primo passo che si discostava dalla strada dell’architettura «assoluta» di Michelangelo o di Sangallo in direzione di una nuova estetica degli effetti. Nella facciata effettivamente realizzata, estesa alla larghezza del corpo longitudinale, quest’idea appare già diluita. A ciò si unisce l’aggiunta, voluta dal papa, degli annessi dei campanili; le loro parti inferiori (i campanili stessi rimasero incompiuti) ora appaiono come componenti della facciata, facendo crollare tutto il calcolo di Maderno. Sorse un blocco massiccio, disposto in larghezza, in cui il fronte porticato di Michelangelo, con il suo motivo del tempio, appare soltanto più come suddivisione interna. Ciò che domina l’aspetto della facciata è l’attico, che si estende sopra tutto il blocco, con la sua balaustra di statue, un motivo che – in sintonia con le finestre dei balconi munite di vetri del primo piano e l’opulenza delle singole forme – risveglia nel visitatore odierno soprattutto l’associazione con la facciata di un palazzo. Quanto Maderno fosse disposto a muoversi in questa direzione è dimostrato da un progetto non più realizzato per il regolamento della piazza antistante (gdsu 263a – il primo di tutti i piani conservatisi che tratti la basilica e la residenza papale come un’unità): il fronte della chiesa doveva essere incorniciato da due ali di palazzo più o meno della stessa altezza, aggettanti verso la piazza217. L’impressione di S. Pietro come chiesa di palazzo del papa sarebbe stata innegabile.

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155. Carlo Maderno, Progetto per una parte del Palazzo Vaticano. Firenze, giunta a gdsu 263as.

Il progetto per il corpo longitudinale richiedeva la soluzione di due problemi. Il primo era costituito dalla Cappella Paolina218; essa doveva in qualche modo essere inglobata nel corpo longitudinale, senza però danneggiarne l’aspetto dell’interno. Maderno aveva studiato a fondo questo problema già nel suo progetto concorrente e poté trasporre, senza grande fatica, sul grande corpo longitudinale la soluzione che aveva trovato. Essa consisteva nel mantenere la prima cappella laterale sulla destra così bassa che sopra di essa trovasse posto l’area presbiteriale della Paolina. Nel grande corpo longitudinale, con le sue ampie cappelle, ciò produsse una simmetria discreta, in cui riecheggia la forma di croce del corpo occidentale. Per realizzarla nel 1611-12 Maderno dovette demolire l’area presbiteriale della Paolina, riedificandola in una posizione e in dimensioni leggermente modificate; allo stesso tempo provvide a un comodo collegamento fra le sale cerimoniali del Palazzo e l’aula dell’incoronazione collocata sopra il nartece con la loggia delle benedizioni. Quest’ultima fu utilizzabile per la prima volta il giorno dell’Ascensione del 1611219. Il secondo problema si poneva con il collegamento del corpo longitudinale all’edificio a pianta centrale. Nella navata centrale non c’erano difficoltà: lì era semplice portare avanti il sistema dell’edificio rinascimentale. Il fatto che la navata di Maderno presenti una larghezza interna superiore di circa 2 m rispetto al braccio della croce dipende probabilmente dalla suddivisione della parete d’ingresso interna220. Le navate laterali corrispondono alle navatelle laterali interne dei grandi progetti rinascimentali a cinque navate, i loro assi sono quelli delle nicchie di 40 palmi dei pilastri della cupola, o meglio, delle edicole degli altari che Sangallo aveva sostituito alle prime. Già nei suoi primi disegni Maderno aveva seguito questa soluzione prefigurata nella pianta di Dupérac. D’altra parte, un corpo longitudinale a più navate era pensabile soltanto con una sezione trasversale digradante, di tipo basilicale, cosa che però contrastava in maniera incresciosa con il grande ordine esterno che rivestiva l’edificio a pianta centrale di Michelangelo. A Maderno non restava altro che proseguirlo sui fianchi del suo corpo longitudinale; sorsero così quelle pareti «vuote» simili a quinte teatrali che oggi sono visibili dal tetto del corpo longitudinale. Era una violazione palese del principio della «verità» architettonica che Michelangelo aveva elogiato nel S. Pietro di Bramante, rivendicandolo per sé221. Sorprendente è l’aspetto interno delle navate laterali. Relativamente strette e alte, le tre campate sostengono

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156. La facciata della basilica. Pagine seguenti: 157. Un dettaglio della facciata. 158. La loggia delle benedizioni.

cupole a tamburo di forma ovale longitudinale. I passaggi tra di loro, però, sono piuttosto bassi. Sono incorniciate da edicole con frontoni ad arco ribassato aperti verso il basso; Maderno aveva già avuto in mente una soluzione simile in uno dei suoi primi disegni preliminari. Il suo significato è di natura costruttiva: bisognava puntellare i pilastri della navata centrale contro la spinta laterale della grande volta a botte. Di fatto, dietro i frontoni delle edicole, si nascondono massicce volte a botte ad arco ribassato, tese tra i pilastri della navata e il muro perimetrale. La struttura del corpo longitudinale, se considerata nel suo complesso, è più simile a quella di una chiesa a pilastri laterali che di una basilica. Sopra le edicole di passaggio delle navate laterali si scorgono mura trasversali con grandi finestre munite di vetri; sono un richiamo ai problemi di illuminazione che risultavano per forza di cose dall’architettura michelangiolesca degli esterni con le sue finestre disposte in maniera del tutto diversa. Le cupole ovali hanno alti tamburi, le loro lanterne, che si tendono come colli di giraffa, raggiungono la luce del giorno grazie ad aperture circolari nel tetto a terrazza. Anche gli spazi vuoti sopra le volte a botte ad arco ribassato dei passaggi avrebbero dovuto essere illuminate da aperture nel tetto, che però in seguito furono murate, probabilmente perché era impossibile mantenerle impermeabili alla pioggia. Da allora le finestre dei muri trasversali sono cieche, i passaggi bui. Un effetto collaterale, forse casuale, forse voluto, di questa struttura complessa stava nel fatto che la navata laterale, se guardata nel senso della lunghezza, appariva come affiancata da file di colonne. Ciò si poteva intendere come reminiscenza dell’antica basilica222. Il vecchio edificio era presente nel nuovo anche fisicamente, sotto forma di materiale di recupero che Maderno aveva a disposizione in abbondanza dopo la demolizione dell’antico corpo longitudinale223. Già Bramante e Sangallo avevano utilizzato alcune colonne dell’antica basilica; esse influivano sul sistema dell’alzato del nuovo edificio, ma senza essere percepite come materiale storico. Ora Maderno voleva dimostrare soprattutto a chi entrava nell’edificio che la basilica costantiniana continuava a esistere. Inserì quindi le antiche colonne nella facciata e nell’atrio del suo corpo longitudinale in maniera vistosa. I due eccezionali pezzi di marmo africano, che fiancheggiano l’ingresso centrale della facciata, avevano aperto le file di colonne della navata centrale anche nel corpo longitudinale dell’edificio antico. L’architettura del vano centrale sotto la grande cupola

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continuava a essere quella di Bramante; ora Maderno doveva sistemarla per le esigenze cultuali del momento. Tre delle sue scelte hanno lasciato la loro impronta sull’aspetto odierno224. Era previsto che i pilastri della cupola accogliessero le reliquie più importanti della basilica; davanti alle nicchie superiori dei loro lati interni, Maderno fece apporre dei balconi, dai quali le reliquie potevano essere mostrate ai fedeli. La Confessione davanti alla tomba dell’Apostolo restò esclusa dall’innalzamento del pavimento realizzato in tutto l’edificio; Maderno le diede la forma a ferro di cavallo ancora esistente, progettandone il rivestimento in marmo225. Tra il pavimento dell’antica basilica e quello del nuovo edificio era sorta una specie di cripta, in un primo momento sotto il corpo longitudinale («Grotte vecchie»), poi anche sotto parti del corpo occidentale («Grotte nuove»). A questo punto essa fu usata per accogliere oggetti dell’antica basilica226. Maderno sistemò gli ambienti per questo scopo e inserì delle scale davanti ai pilastri orientali della cupola che li collegavano al vano della cupola. Nel 1618 uscì a Viterbo la prima guida di questo pezzetto di «Roma sotterranea» creato artificialmente227. Nello sguardo retrospettivo all’attività ampiamente ramificata di Maderno risulta evidente il suo legame con i tempi: il suo S. Pietro appare come manifesto architettonico di una Chiesa che stava per superare la sua crisi. Consolidata dal punto di vista economico, con una struttura interna e una posizione verso il mondo esterno più solida, trovò un rapporto nuovo anche con la propria tradizione. Le concezioni radicalmente innovative del secolo passato furono quindi sostituite da una sorta di pragmatismo storico-utilitaristico: si cercò l’equilibrio tra memoria e progettazione, tra interessi religiosi e mondani, tra spirito e potere, anche al prezzo di una certa perdita del livello artistico. Ciò che caratterizzò Maderno, oltre alla sua abilità nel pianificare, fu la sua elevata sensibilità per l’elemento decorativo. Qui, dopo la soluzione adeguata di tutti i problemi strutturali, egli trovò il suo vero campo d’azione; l’interno dell’atrio ne offre l’esempio più bello. Era una sorta di ritorno ai primissimi inizi della storia di questo edificio: come la basilica di Costantino, anche il corpo longitudinale di Maderno era in fondo una costruzione funzionale eretta in fretta, più o meno convenzionalmente stilizzata, che spiccava sulla produzione contemporanea soprattutto per le sue dimensioni, così come per la sfarzosità della sua dotazione. In questa forma, però, ora fu effettivamente portato a termine.

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159. La navata laterale sinistra.

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160. La navata laterale destra.

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161. La Confessio.

162. Le Grotte Nuove. Pagine seguenti: 163. L’apparato decorativo nell’atrio della basilica.

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164. Il baldacchino di Gian Lorenzo Bernini. Pagine seguenti: 165. Dettaglio della parte superiore del baldacchino.

Bernini Nei cinquant’anni in cui Bernini detenne la carica di mastro costruttore di S. Pietro, sorsero il ciborio di bronzo sopra l’altare della tomba, la decorazione dei pilastri della cupola, il campanile meridionale della facciata, in seguito di nuovo demolito, piazza S. Pietro e la Scala Regia del Palazzo del Vaticano228. L’architetto e i suoi committenti Gian Lorenzo Bernini fu il terzo architetto di rango storico universale a dare la sua impronta all’edificio di S. Pietro. Nominato successore di Maderno nel 1629, detenne la carica di primo architetto della Fabbrica fino alla morte, avvenuta nel 1680. In quest’arco di tempo fu al servizio di sette papi229, rimanendo però sempre la figura in primo piano, come lo erano stati, ai loro tempi, Bramante e Michelangelo. Nel momento in cui entrò in scena, però, la storia della costruzione della basilica in quanto tale si era già conclusa. Vide dunque l’edificio da un nuovo punto di vista: bisognava trasmettere alla sua architettura, così com’era cresciuta nel corso del secolo precedente, nuovi contenuti di attualità. Il primo «papa di S. Pietro» di Bernini fu Urbano viii, Maffeo Barberini. Già da cardinale aveva eletto il suo compatriota toscano (da parte di padre) Bernini il «Michelangelo del suo secolo»230; ciò che aveva in mente era il rapporto di Giulio ii con Michelangelo, come descritto da Vasari. Dopo aver combattuto accanitamente231, sotto Paolo v, contro il progetto per il corpo longitudinale di Maderno – che sottraeva alla vista la cupola di Michelangelo – nel 1626, milletrecento anni dopo la consacrazione della basilica costantiniana, gli spettò il compito di consacrare il nuovo edificio. In questo modo la prospettiva cambiò: il papa era intenzionato a trasformare S. Pietro nel palcoscenico dell’autorappresentazione dell’Ecclesia triumphans. In tutto ciò non sarebbe mancato spazio per la glorificazione della propria persona e del proprio casato; la massa dei fedeli si sarebbe trasformata in pubblico, che avrebbe seguito pieno di ammirazione le «meraviglie» messe in scena da Bernini. Non tutti i romani erano disposti a recitare questa parte; la celebre pasquinata dei Barberini che (nel Pantheon) proseguono l’opera di distruzione dei barbari (quod non fecerunt Barbari, faciunt Barberini) esprime il risentimento di parte della cittadinanza, che temeva le conseguenze della cattiva ammini-

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strazione sfrenata di Urbano. Anche la posizione di monopolio di Bernini chiamò in campo degli invidiosi. Dopo il fallimento del suo progetto dei campanili, la sua stella tramontò rapidamente. Sotto il successore di Urbano, Innocenzo x, il grande rivale Borromini presentò, per il rifacimento della basilica laterana, un contro-esempio al barocco del S. Pietro berniniano. Bernini riuscì prodigiosamente a riacquistare il favore del papa Pamphili eccellendo in altri campi. Ma la sua seconda grande ora come architetto di S. Pietro venne solo sotto il successore di Innocenzo, Alessandro vii, al secolo Fabio Chigi. L’atmosfera dei tempi, però, era ora di segno opposto: la sfrenata autoglorificazione del Barberini – tendenzialmente conservatrice, aspirante al mantenimento del potere – era stata sostituita, in Alessandro, dalla consapevolezza dell’effettiva perdita di potere che il soglio papale aveva subìto. Come nunzio durante le trattative di pace a Münster, nel 1648, Chigi aveva vissuto – e compreso – che gli equilibri della politica europea stavano per spostarsi: le antiche potenze coloniali della Spagna e del Portogallo passavano in secondo piano rispetto a quelle protestanti in ascesa di Olanda e Inghilterra. Come sovrano cattolico con posizione predominante sul continente si era affermato il re di Francia. Con zelo tanto maggiore il papa ora aspirava a glorificare il ruolo di Roma come storico centro della cristianità occidentale. Il fatto che Bernini, attraversando tutte queste turbolenze, rimanesse la figura artistica guida può trarre facilmente in inganno sul suo ruolo: si potrebbe pensare che fosse stato un grande ispiratore di nuove idee poi elaborate ed eseguite dai suoi numerosi collaboratori. A un esame più attento, però, emerge che quello che a posteriori appare come intuizione spontanea del maestro non di rado era stato ispirato, prescritto o integrato da terzi, e che la massima prestazione di Bernini stava nello sforzo del lavoro sintetico di progettazione su lunghi periodi. Era così che erano sorte quelle strutture «tutte d’un pezzo» – il ciborio, i colonnati, nonché tante composizioni figurative – davanti alle quali ben presto tutte le critiche ammutolirono. Il ciborio-baldacchino Il lavoro di Bernini per S. Pietro era destinato prima di tutto alla decorazione interna dell’edificio, ma c’erano tre compiti che richiedevano un intervento architettonico. Il più urgente riguardava il centro liturgico della basilica232. Dalla demolizione del tegurio di Bramante sotto Clemen-

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166. Gian Lorenzo Bernini, Studi per il ciborio. Vienna, Albertina, Arch. Hde Rom xxx, viii.

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167. Gian Lorenzo Bernini, Schizzo per il ciborio. Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 9900.

168. Ciborio sull’altare papale, primo progetto, incisione (da Buonanni 1696).

170. Francesco Borromini, Disegno per il ciborio. Vienna, Albertina, It. az, Rom, 762.

169. Ciborio sull’altare papale, secondo progetto, incisione (da Buonanni 1696).

te viii (1529) la tomba di Pietro e l’altare del papa erano privi di copertura, in mezzo all’enorme spazio del vano della cupola. Paolo v aveva dato direttive per separare l’altare dalla tomba, spostandolo nell’abside del braccio occidentale; lì fu coronato da un ciborio e incorniciato da un’architettura a recinto che riprendeva la pergola a colonne tortili di Costantino (nota attraverso delle monete)233. Sopra la tomba, Maderno eresse un baldacchino colossale, sorretto da quattro angeli; l’esecuzione provvisoria, in materiale effimero, fu sostituita sotto Gregorio xv da una struttura permanente. Per Urbano invece era ovvio che l’altare dovesse tornare al suo posto tradizionale sopra la tomba dell’Apostolo. Nacque così l’idea di una sintesi (per gli esperti dell’architettura dell’epoca: «chimera») di ciborio e baldacchino. Benché Maderno detenesse ancora la carica di architetto in capo della Fabbrica, Urbano affidò l’incarico di erigere la nuova struttura al suo favorito Bernini. L’assistente di Maderno, Borromini, continuò a collabora-

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re all’impresa in qualità di disegnatore. Nello sfarzo di travertino e di marmo dell’interno della chiesa il ciborio dell’altare doveva spiccare per il suo materiale: bronzo

dorato. Come noto Urbano, ignorando le proteste indignate di parte dei cittadini, fece a questo scopo smontare e fondere la decorazione in bronzo delle travature del pronao del Pantheon234. La colata del monumento, alto 29 m, fu un’impresa mai più tentata dall’antichità in poi. A partire dal 1624 si lavorò alle fondamenta dei quattro zoccoli di marmo che avrebbero dovuto reggere l’enorme peso. Gli scavi di fondazione furono realizzati nelle immediate vicinanze della memoria dell’Apostolo, senza che questa ne fosse toccata. Nel 1625 le colonne di bronzo erano state erette. Successivamente la loro copertura fu ripensata da capo, come si può ripercorrere nei disegni e in una serie di incisioni e medaglie. Nella versione definitiva, gli archetti incrociati del ciborio costantiniano furono sostituiti da un fascio di quattro volute ascendenti. Sorreggono un globo sul quale, in un primo momento, doveva esserci una statua del Risorto; essa fu poi sostituita dalla croce. L’intero vano centrale, quindi, divenne il luogo della Resurrezione, una tematica che era già stata intonata nei mosaici della cupola di Clemente viii. Anche la ridecorazione dei pilastri della cupola ad opera di Bernini tenne conto di quest’idea. Come già nel baldacchino di Maderno, anche nella

creazione di Bernini architettura e scultura si fondono in modo indissolubile. I quattro angeli che sorreggono il baldacchino sono ora posti all’estremità delle trabeazioni del ciborio; maneggiano delle corde, come se stessero svolgendo il baldacchino all’interno del ciborio. Così Bernini chiarisce all’osservatore attento il rapporto tra le due strutture. Quattro coppie di putti che giocano presentano le insegne dei due principi degli Apostoli, tiara e chiavi, spada e libro. Ovunque compaiono gli emblemi dei Barberini – soli e api in ogni grandezza, in color oro o bronzo. Nel 1635 la gigantesca opera era conclusa. Da allora essa indirizza lo sguardo di chi entra nella basilica – su una distanza di oltre 120 m – subito sul centro sacrale dell’edificio. I campanili I campanili erano l’unica parte dell’esterno che Maderno aveva lasciato incompiuta235. Nei grandi progetti del corpo longitudinale cinquecenteschi erano sempre previsti dei campanili e Raffaello, Sangallo, Peruzzi si superarono a vicenda con progetti sempre più magnifici. Il S. Pietro di Michelangelo, però, da tutto ciò che sappia-

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171. Israel Silvestre, Veduta di piazza S. Pietro (incisione, ca. 1643-44).

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mo, era concepito senza campanili ed essi non compaiono nemmeno nei progetti per il corpo longitudinale di Maderno. Soltanto dopo il completamento della facciata di Maderno e il collocamento della grande iscrizione del fregio (1612), Paolo ordinò che fossero eretti due campanili sui fianchi della facciata. Secondo il progetto di Maderno, dovevano sorreggere delle sottili strutture per le campane, alte un piano e mezzo. La costruzione, iniziata nel 1618, procedette soltanto a fatica, dato che sul lato meridionale emersero notevoli problemi con le fondamenta. Nel 1637 Urbano incaricò Bernini di occuparsi della cosa. Naturalmente il progetto di Bernini mise in ombra quello del predecessore: sulla facciata avrebbero dovuto elevarsi due interi piani e una struttura per le campane. A differenza dei «capricci» di Maderno, i campanili di Bernini avrebbero avviato un dialogo con la cupola di Michelangelo e si può interpretare la severa e magnifica architettura di pilastri e di colonne del Bernini, che ammette il motivo dell’arco soltanto all’ultimo piano, come arguta replica al tamburo della cupola di Michelangelo. Nel 1638 furono eretti i due piani interi del campanile meridionale. Del terzo piano Bernini fece fabbricare un modello in legno 1:1; al papa sembrò ancora troppo piccolo, mentre a Bernini premeva soprattutto la riduzione

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del peso complessivo. Nella sostruzione, infatti, si erano mostrate delle crepe e nel 1641 ci si vide costretti a smantellare i due piani già costruiti. I motivi del disastro furono esaminati in una serie di sedute di una commissione, dedicate ai problemi di fondazione (che riguardavano già la sostruzione di Maderno). Lo stesso Bernini, però, aveva commesso un errore basilare: non aveva tenuto conto del fatto che le sostruzioni di Maderno erano state aggiunte in un secondo tempo al blocco della facciata e perciò erano state fondate a parte. Saggiamente Maderno aveva limitato le sue strutture per le campane alla larghezza di queste aggiunte236; Bernini, invece, fece poggiare lo spigolo interno del suo campanile sul pilastro esterno della facciata originaria di Maderno. Così, sotto i nuovi carichi, entrambe le fondamenta si abbassarono in maniera diversa. L’intero progetto era perduto. Il successore di Urbano, l’inflessibile papa Pamphili Innocenzo x – lo conosciamo grazie al ritratto di Velázquez alla Galleria Doria Pamphili – diede disposizione di liquidare i resti dell’impresa e di confiscare il patrimonio privato di Bernini in favore della Fabbrica di S. Pietro. Il problema dei campanili non dette requie a Bernini nemmeno in seguito. Esistono bozze di progetti per un frazionamento della parete della facciata in un bloc-

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172. Progetto di Bernini per il campanile sud, incisione (da C. Fontana 1694).

173. Pietro Paolo Drei, Pianta e sezione del campanile sud. Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 11257.

co centrale a cinque assi e due campanili separati (non del tutto dissimile al grande modello di Sangallo), altre per portici a colonne in stile michelangiolesco davanti al fronte di Maderno237. Si trattava, però, più di contributi al vasto campo dell’architettura «virtuale» di S. Pietro che di progetti concepiti seriamente per una realizzazione. Di fatto la cupola di Michelangelo restò regina dell’esterno dell’edificio, limitata nella sua visibilità, ma splendidamente isolata, non parte di un insieme barocco.

architetto si offriva la possibilità di lavare l’onta subita nella costruzione dei campanili e allo stesso tempo di correggere i «difetti» della facciata di Maderno, non con il rimaneggiamento, bensì con una nuova contestualizzazione239. La situazione urbanistica davanti alla quale si trovarono Bernini e Alessandro sembrava senza sbocchi. C’era una superficie per la piazza ampia, ma delimitata in modo asimmetrico; c’era il sistema viario del Borgo non orientato all’asse della basilica. D’altra parte quest’ultima doveva costituire l’asse di simmetria della piazza, il cui centro era fissato, in maniera irrevocabile, con l’obelisco di Sisto v. Inoltre il terreno non era in piano, ma in salita da est a ovest; il dislivello tra il Borgo e la basilica è pari a circa 6 m. Queste erano le condizioni per l’impianto di una piazza che doveva essere adatta ad accogliere grandi folle e permettere una vista ottimale sulla loggia delle benedizioni nel fronte della chiesa, così come sulla finestra dell’appartamento papale nel palazzo di Sisto v; inoltre

Le «braccia della Chiesa» C’è una sorta di logica storica nel fatto che, alla fine della storia della costruzione di S. Pietro, stia ancora una prestazione architettonica singolare: piazza S. Pietro238. Per Alessandro vii si trattava di un elemento centrale della sua visione di Roma come capitale della cristianità occidentale; al suo

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174. Gian Lorenzo Bernini, Progetto per la facciata. Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 13442. 175. Martino Ferrabosco, Progetto per la sistemazione di piazza S. Pietro, incisione (da Ferrabosco 1620).

bisognava creare un accesso degno e comodo, protetto dalla pioggia e dal sole, sia alla basilica, sia al Palazzo Vaticano. Era un compito che richiedeva il massimo dalle capacità intellettuali, dal senso della storia, dalla fantasia e dall’abilità tecnica di tutti gli interessati. Nel giorno stesso della sua elezione, il 7 aprile 1655, Alessandro convocò Bernini per discutere la questione della piazza; nel 1656 rese nota la sua decisione di dare allo spazio antistante alla basilica una struttura architettonica. Nel settembre dello stesso anno ebbero luogo dei sondaggi del terreno di fondazione, a dicembre furono acquistate certe case destinate alla demolizione. Il 28 agosto 1657 si passò alla posa della prima pietra. In brevissimo tempo sorse un enorme cantiere. Sulle rive del Tevere si costituì un porto per scaricare i blocchi di travertino trasportati a Roma da Tivoli e Monterotondo. Di numerosi dettagli si occupò personalmente Alessandro, evidentemente spinto dal presagio che il tempo disponibile per la costruzione stesse scadendo (a ragione, come si sarebbe dimostrato). Si potrebbe pensare che tutto ciò presupponesse un progetto elaborato rapidamente, deciso e messo in pratica

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176. Pietro Paolo Drei, Progetti diversi per la sistemazione di piazza S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Chigi p vii 9.

con risolutezza. In verità, per tutto il tempo della sua costruzione, l’architettura della piazza rimase oggetto di un lavoro di progettazione continuo, con approcci sempre nuovi, ossessionato dai dettagli. All’inizio c’era ancora l’idea dominante dai tempi di Paolo v di una piazza trapezoidale circondata da portici e da sviluppare a partire dalla rete viaria del Borgo. Ad essa Alessandro contrappose il desiderio di un impianto simmetrico, chiuso in se stesso. Una piazza del genere era stata progettata da Carlo Rainaldi, forse già per Innocenzo x, ma forse anche soltanto ora. Bernini (nell’agosto 1656) pensava a una piazza rettangolare cinta da arcate a pilastri dorici; ne fu fabbricato un grande modello. Nella discussione su di esso emerse l’idea, probabilmente da parte del papa, di una piazza ovale disposta trasversalmente. Nel marzo 1657 era pronto un nuovo progetto di Bernini in questo senso. Una voce importante nella Congregazione della Fabbrica era quella di Virgilio Spada, a cui stava a cuore soprattutto la funzionalità della struttura: i portici dovevano essere dimensionati in modo che potessero incontrarsi due carrozze. Ciò suggerì l’idea di colonnati aperti, che si

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177. Carlo Rainaldi, Progetto per piazza S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Chigi p vii 9.

179. Medaglia di Alessandro vii, 1657. Biblioteca Apostolica Vaticana, Medagliere Vaticano.

178. Lieven Cruyl, Veduta di piazza S. Pietro, incisione 1666.

180. Gian Lorenzo Bernini e aiuti, Studio per il colonnato di piazza S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 13442.

potevano anche adattare meglio alla forma ovale di base. Dotti consulenti fornirono informazioni su strade fiancheggiate da colonne aperte, a più navate, dell’antichità. Il risultato della nuova fase di progettazione fu una piazza ovale con un colonnato di colonne binate; fu riprodotto su una medaglia coniata per la posa della prima pietra nell’agosto 1657 (sarebbero seguite altre cinque medaglie, ciascuna con i nuovi elementi del progetto). Di un nuovo progetto con colonne singole, ma più grandi, si realizzò di nuovo un grande modello, ma Alessandro ci trovò sempre «molti errori». Nel 1658, quando erano già state erette ventiquattro colonne dell’ala settentrionale, Bernini lavorò al progetto dei gruppi di pilastri da collocare nei punti di ingresso e di passaggio dei colonnati: un compito di estrema difficoltà, perché le strutture, già di per sé molto complesse, dovevano essere adattate alla geometria della pianta dell’ovale (in tutta la pianta non c’è nemmeno un angolo retto). Nel luglio 1659 uscì un’incisione in grande formato che presentava al pubblico il progetto del fabbricato in costruzione. Era ben lontano dall’essere concluso. Il lavoro di progettazione di Bernini ora era dedicato ai bracci dei corridoi, in collegamento con la Scala Regia del Palazzo Vaticano, la cui costruzione fu avviata poi nel 1663. Soltanto così divenne riconoscibile l’idea dell’insieme. Fino all’ultimo rimase in evoluzione la forma che avrebbe dovuto assumere la chiusura orientale: il «terzo braccio» avrebbe dovuto essere dotato di una torre dell’orologio, poi spostato ancora un po’ di

più nel Borgo. Tutto ciò rimase però sulla carta240. Alla morte di Alessandro, il 22 maggio 1667, la costruzione aveva raggiunto lo stadio attuale e nessuno dei successori era intenzionato a continuarla. Soltanto alla serie di statue della balaustrata si lavorò ancora fino al Settecento241. Dagli sforzi dei progettisti per la «sistemazione» ottimale della situazione esistente, durati anni, derivò infine un nuovo concetto di architettura di piazza. Ben presto i colonnati di Bernini apparvero ai contemporanei, come a noi oggi, la forma pressoché «naturale» della piazza davanti alla chiesa di S. Pietro; le loro forme entrarono nell’arsenale dei prototipi «classici» della storia dell’architettura. Ciò che non risulta evidente a un primo sguardo è la soluzione geniale della secolare dicotomia tra chiesa e palazzo dei papi qui trovata da Bernini. Egli definì i corridoi tra colonnati e basilica – appartenenti al palazzo sia dal punto di vista funzionale, sia da quello amministrativo – come le braccia della chiesa tese al mondo, che avrebbero dovuto accogliere maternamente tutti i visitatori della piazza: «i cattolici per confermarli nella fede, gli eretici per ricondurli alla Chiesa,

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181. Gian Lorenzo Bernini, Studi per piazza S. Pietro. Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Chigi a i 19.

184. G.B. Bonacina, Il colonnato di piazza S. Pietro (incisione, 1659).

Pagine seguenti: 187-188. Il colonnato, dettagli.

185. Il corridoio nord e la Scala Regia nel Palazzo Vaticano (da Letarouilly 1882).

189. Veduta d’insieme della basilica, della piazza e del colonnato.

182. Gian Lorenzo Bernini, Schizzo per il “terzo braccio” del colonnato. Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Chigi a i 19. 183. Alessandro Schizzo per il colonnato. Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Chigi r viii c.

vii,

gli infedeli per illuminarli alla vera fede»242. Quindi, per il pellegrino che andava alla tomba di Pietro era stato stabilito una volta per tutte il carattere sacrale della piazza. Per quelli, invece, che si recavano dal papa nella sua qualità di sovrano temporale – come gli inviati delle varie potenze arrivati a giurare obbedienza al pontefice – Bernini riprese il motivo della lunga strada di arrivo che incuteva rispetto, qui installato già da Alessandro vi per l’anno giubilare 1500 con la sua «Via Alessandrina» (il futuro Borgo Nuovo). Invece di nasconderne la divergenza dal

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sistema assiale obelisco-basilica, la proseguì nelle ali dei corridoi e, con la Scala Regia, la prolungò fino al piano nobile del Palazzo243. Si soddisfecero così tutte le tradizioni del cerimoniale diplomatico (che Alessandro amava), benché nello stratagemma illusionistico a cui Bernini si vide costretto a ricorrere nella costruzione della scala sia implicitamente presente il suo carattere di «come se». La critica ai progetti del papa non mancò, anzi, arrivò fino alle cerchie più intime della Curia244. Il tenore delle discussioni nella Congregazione della Fabbrica era aper-

tamente critico. Esistevano numerose obiezioni pratiche contro la soluzione definitiva di Bernini e di Alessandro e non erano affatto immotivate. Gli intenditori di architettura si scandalizzavano dell’approccio lassista di Bernini al canone degli «ordini», così come del dominio assoluto degli angoli obliqui dell’intera struttura; d’altra parte, i teorici con una propensione per la matematica avrebbero preferito un’«architectura obliqua»245 costruita in maniera coerente ai compromessi abilmente ponderati tra geometria e common sense estetico di Bernini. I resoconti dei legati a Roma insistono sul palese squilibrio tra spesa e risultato ottenuto. Non erano tempi per un’architettura di lusso, commentano. I sostenitori del papa replicavano sullo stesso piano: era meglio dare lavoro e pane alla popolazione indigente invece di metterla a tacere con delle elemosine. Stranamente queste discussioni scemarono assai presto. Era chiaro, però, che qui si stava annunciando la fine di un’epoca. Di quell’epoca iniziata con il proposito proclamato da Niccolò v di fondare l’autorità del papa e della sua chiesa sull’architettura monumentale. Questo era il consenso di fondo che aveva sorretto la costruzione del nuovo S. Pietro e che ora cominciava a mancare. Forse, però, fu proprio a questo sciogliersi dei legami – richiesto dai tempi – tra il potere temporale e quello spirituale che l’opera tarda di Bernini deve il suo effetto perdurante nel tempo: come se il papa e il suo architetto avessero salvato per il futuro l’essenza spirituale di 200 anni di costruzione. 186. Juan Caramuel de Lobkowitz, Variante teoretica del colonnato di Bernini, incisione (da Caramuel de Lobkowitz 1679).

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5 B

A 3

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F 1

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7

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8 25

9 H

cupola maggiore

G

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11

D

Piloni E. F. G. H. Vestiboli I. L. M. N. O. P.

Cappella della Madonna della Colonna Cappella dei Ss. Michele e Petronilla Cappella Gregoriana Cappella Clementina

Pilone di S. Veronica Pilone di S. Elena Pilone di S. Longino Pilone di S. Andrea

Cappella del Coro Cappella della Presentazione della Vergine Cappella del Fonte Battesimale Cappella del Sacramento Cappella di S. Sebastiano Cappella della Pietà

C

23 20

Legenda Cupole A. B. C. D.

12

10

Altari 1. Confessione; 2. Cattedra di S. Pietro; 3. Resurrezione di Tàbita; 4. S. Petronilla; 5. S. Michele Arcangelo; 6. Navicella; 7. S. Erasmo; 8. Ss. Processo e Martiniano; 9. S. Venceslao di Boemia; 10. S. Basilio; 11. S. Girolamo; 12. Madonna del Soccorso; 13. SS. Sacramento; 14. S. Francesco d’Assisi; 15. S. Sebastiano; 16. S. Nicola; 17. S. Giuseppe; 18. Pietà; 19. Fonte Battesimale; 20. Presentazione; 21. Coro; 22. Trasfigurazione; 23. S. Gregorio; 24. Bugia; 25. Crocifissione di san Pietro; 26. S. Giuseppe; 27. S. Tommaso; 28. S. Cuore; 29. Guarigione dello storpio; 30. Madonna della Colonna; 31. S. Leone Magno

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10-9

I

N

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7-8

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14

25 20

6 L

O

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Monumenti (I numeri sono indicati entro cornice) 1. Monumento equestre a Carlo Magno; 2. Monumento equestre a Costantino; 3. Cristina di Svezia; 4. Leone xii; 5. Pio xi; 6. Pio xii; 7. Matilde di Canossa; 8. Innocenzo xii; 9. Gregorio xiii; 10. Gregorio xiv; 11. Gregorio xvi; 12. Benedetto xiv; 13. Clemente xiii; 14. Clemente x; 15. Urbano viii; 16. Paolo iii; 17. Alessandro viii; 18. Alessandro vii; 19. Pio viii; 20. Pio vii; 21. Leone xi; 22. Innocenzo xi; 23. Pio x; 24. Innocenzo viii; 25. Giovanni xxiii; 26. Benedetto xv; 27. Maria Clementina Sobieski; 28. Stele degli Stuart

15 5

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M

P 16

1

2

Pagine seguenti: La trabeazione al di sopra della navata centrale della basilica.

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Pagine seguenti (310-317): L’insieme delle cappelle laterali nelle navate settentrionale e meridionale. Il pilone di S. Longino. In primo piano, la statua in bronzo di S. Pietro. Un dettaglio della navata settentrionale e del grande decoro barocco. Sullo sfondo, le cappelle di S. Sebastiano e della Pietà. Dettaglio della trabeazione e delle statue delle Virtù della Prudenza e della Speranza. A fronte: La Cathedra Petri e la decorazione della calotta dell’abside.

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La cappella di Gregorio xiii e l’altare della Madonna del Soccorso. Un dettaglio della cappella del Ss. Sacramento. Il pilone di S. Longino con gli altari di S. Basilio e S. Girolamo.

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Veduta della navata settentrionale: 1. Cappella Gregoriana 2. Cappella del Ss. Sacramento 3. Cappella di S. Sebastiano 4. Cappella della PietĂ

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Veduta della navata meridionale: 1. Cappella del Fonte Battesimale 2. Cappella della Presentazione della Vergine 3. Cappella del Coro 4. Cappella Clementina

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Il pilone sud-ovest (S. Veronica) visto dalla cappella della Madonna della Colonna. Pagine seguenti: Vestibolo della cappella della PietĂ , scorcio prospettico della navata settentrionale verso la Porta Santa. Vestibolo della cappella della Presentazione della Vergine, scorcio prospettico della grande decorazione musiva nella cupola e nella navata centrale. Vestibolo della cappella del Coro, i mosaici della cupola.

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Note

NOTE

Capitolo primo La descrizione dell’antica Basilica di S. Pietro, qui tracciata nello spazio ridotto assegnatole, oltre a un quadro il più ampio possibile di ciò che già sappiamo in proposito, offre soprattutto una revisione critica delle date relative alla sua costruzione e al suo allestimento, tanto più che negli ultimi dieci anni si sono fatte sentire sempre più voci che vogliono collocarne l’edificazione non più sotto Costantino, bensì sotto i figli dell’imperatore o nella seconda metà del iv secolo, anzi, si sforzano di attribuire l’epigramma absidale di consacrazione e, insieme ad esso, la decorazione dell’abside, alla metà del v secolo, sotto Leone I. L’autore, tuttavia, si è sforzato di mantenere il testo scorrevole e leggibile, in quanto il libro, pur con una solida base scientifica, deve soprattutto risultare accessibile ad un’ampia cerchia di lettori interessati. Ciò ha comportato una rigida limitazione delle note con i necessari rimandi e attestazioni. Si menzionano così soltanto i testi fondamentali e le pubblicazioni più recenti, che possono aiutare il lettore a formarsi, eventualmente, una propria idea in materia. Desidero rimandare le stimate colleghe e gli stimati colleghi, che forse non troveranno citata una determinata pubblicazione, alla più dettagliata bibliografia conclusiva, la quale contiene opere che ho analizzato ma che, per i motivi elencati, non ho potuto citare. A fronte dell’ormai sterminata miriade di pubblicazioni su S. Pietro, anche questa bibliografia è destinata a rimanere incompleta. I miei ringraziamenti vanno ai collaboratori della casa editrice, per come hanno seguito, con la consueta professionalità, la genesi del libro. Ho un debito di riconoscenza altrettanto grande con i direttori e i responsabili dei musei e delle collezioni, per la loro grande liberalità nell’aiuto a procurare il materiale illustrativo. Qui il mio ringraziamento va in particolare al dott. Pietro Zander, responsabile della Fabbrica di S. Pietro, che ha generosamente messo a disposizione il ricco materiale dell’archivio, ha avanzato sue proposte per la scelta delle illustrazioni e, soprattutto, su desiderio dell’autore, ha anche disposto la realizzazione di nuove riproduzioni fotografiche. Per finire, ringrazio mio figlio, il Dr. arch. Konstantin Brandenburg, per le feconde discussioni sull’architettura della Basilica e per i nuovi disegni che ne sono risultati, nella consueta ottima qualità. H. Brandenburg Roma, giugno 2014

1 Cfr. Brandenburg 2013, pp. 11-93. 2 Lib. Pontif. i, 176-177; d’ora in poi lp. 3 Esplorazioni, vol. 1, pp. 55-148. 4 Barnes 2011, pp. 86-89. 5 Libanius, ep. 1488. 6 Brandenburg 2012, p. 258. Cfr. Ambrogio, Epist. 58 (pl 16, 1178). 7 Eusebio, V. Const. 3, 25; 3, 33, 3. 8 Eusebio, V. Const. 3, 25; 3, 33, 3. 9 Eusebio, V. Const. 3, 26, 1. 10 Matteo 16,18. 11 Ad esempio Eusebio, V. Const. 2, 55; 2-59.

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12 Brandenburg 2011, pp. 351-382; Heid et alii 2011, passim; Heid, Gnilka 2013, passim. 13 Clemente 5, 4-7; Ireneo 3,1,1; Tertulliano, De praescriptione 36 (csel 70, 45f.); Dionigi Cor., Ap.; Eusebio, Hist. Eccl. 225,8 (gcs 178); Gerolamo, Chron. ad A. 2084 (gcs 7, 185). 14 Brandenburg 2005/6, pp. 237-275 con bibliografia precedente. 15 ae 1945, p. 146; Zander 2007. 16 P. Liverani, s.v. Phrygianum: ltur, Suburbium, 2006, pp. 201-203. Sulla cronologia della basilica in generale cfr. Liverani 2006, pp. 238-242. 17 Bredekamp 2000, pp. 21-58. 18 Sigismondo de Conti, Historiarum sui temporibus libri, Firenze 1888. Boccardi Storoni 1988, pp. 81 ss. 19 Cfr. G. Vasari, Vite iv, p. 282 (ed. G. Milanesi). 20 Christern 1967, pp. 293-311; Id. 1969, pp. 133183; Krautheimer cbcr v, pp. 165-279; Arbeiter 1988, passim. 21 Christern 1967, 1969; Krautheimer cbcr v, pp. 166-170, 214-239; Arbeiter 1988, passim. Su Maarten van Heemskerck si veda Filippi 1990, pp. 9-36. 22 Krautheimer cbcr v, pp. 206-214; Arbeiter 1988, pp. 66-74. 23 Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, 10, 5. 24 Acta Apost. 1, 9-12. Cfr. Paolino di Nola, Epist. 32,13. Lang 2005, pp. 33-58. 25 Sulle fondazioni si vedano Krautheimer cbcr v, 186-190; Esplorazioni i, pp. 155ss.; Arbeiter 1988, pp. 63-66. Per le diverse fasi di costruzione si veda Gem in McKitterick et alii 2013, pp. 46-61, in particolare pp. 56ss. 26 Christern, Thiersch 1967; Krautheimer cbcr v, pp. 251-256; Arbeiter 1988, pp. 144-166. 27 Christern, Thiersch 1969, pp. 1-34: Krautheimer cbcr v, 251-263; Arbeiter 1988, pp. 144-154. 28 N.M. Nicolai, Della Basilica di S. Paolo, Roma 1815, tav. ii; Krautheimer cbcr v, 108. 158 ; Brandenburg 2005/6, p. 240, fig. 2; Brandenburg 2013, p. 313 fig. 9, p. 314, figg. 12-14. 29 Brandenburg 2005/6, pp. 237-275. 30 Su questo cfr. anche Arbeiter 1988, pp. 228-234. 31 Esplorazioni, vol. 1, pp. 167ss.; Arbeiter 1988, pp. 173-181. 32 Egeria (Aetheria), itinerarium 2, 24, 1-9. 33 icur ii 4778; ilcv 1857; icur ii 4778c; ilcv 1857c; Brandenburg 2005/6, p. 242, nota 16. 34 Cfr. nota precedente. 35 Cfr. supra, p. 5. P. Liverani, Phrygianum: ltur, Suburbium 2006, p. 252; Krautheimer 1989, pp. 3-22. 36 lp i, p. 176; Liverani (2006, p. 242, n. 42) riferisce questa notizia al cassettonato della navata. 37 Ad esempio Eusebio, V. Const., 3, 34.36, 1.44, 1-4. 45.47, 4.50, 2; Hist. Eccl. 10, 42ss., soprattutto 42-65 (basilica di Tiro); Prudenzio, Perist. xii, pp. 1-58; Brandenburg 2004, pp. 59-76. 38 bav, Barb. Lat., pp. 2733ss., 158v-159r. F.R. Moretti in Andaloro 2006b, pp. 87-90. 39 Papa Severino (840), cfr. lp i, p. 329: renovavit absidem beati Petri Apostoli ex musivo, quod dirutum erat. 40 Mosaico di S. Pudenziana: Andaloro 2006b, pp. 114-124; Brandenburg 2013, pp. 145-151. 41 Mausoleo di Costanza: S. Piazza Andaloro

2006b, pp. 81-86, figg. 32 e 36-39; Brandenburg 2013, pp. 86-87, figg. 50-51. Sarcofago di S. Sebastiano: Bovini, Brandenburg in Repertorium i, 1967, n. 200, tav. 47. 42 Cfr. F.R. Moretti in Andaloro 2006b, pp. 78-90; Longhi 2006, pp. 35-43; D. Cascianelli in Bisconti, Braconi 2013, pp. 623-646. Di parere diverso Brenk 2010, pp. 55ss. 43 icur ii, p. 55; icur ii, 4094. 44 Ruischaert 1967-1968, pp. 171-190; Brandenburg 2013, p. 98. 45 Ruischaert 1967-1968, p. 189. 46 Cfr. F.R. Moretti in Andaloro 2006b, p. 89. 47 Liverani 2000-2001, pp. 177-193. 48 Eutropio, Breviarium ab urbe condita, 10, 1, 1-3: … hic non modo amabilis sed etiam venerabilis… 49 Gnilka 2012, pp. 75-86. 50 Prudenzio, Contra Symmachum ii, pp. 249-255. 51 lp i, pp. 239-240. 52 Per le analogie con l’iscrizione dedicatoria dell’arco trionfale in un altro passo della stessa poesia di Prudenzio si veda ultra. 53 Vegio, Cod. Vat. 3750; Grimaldi, Cod. Vat. Barb. 2733, 164v; icur ii, p. 345, nr. 2; icur ii 4095. 54 Per la semantica del termine si veda Thesaurus Linguae Latinae s.v. expiare. 55 Krautheimer 1989, pp. 7-9. 56 Guarducci (1978, pp. 58-66) ascrive invece la scena alla zona inferiore del mosaico absidale senza valida argomentazione. 57 Frothingham 1883, pp. 68-72 58 icur ii, 4092; ilcv 1752. 59 Krautheimer 1989, pp. 7-9; Liverani 2008, pp. 155-172. 60 Per queste datazioni cfr. P. Liverani in Andaloro 2006b, p. 90. 61 P. Liverani in Andaloro 2006b, pp. 90-91; Brandenburg 2013, pp. 86-87, figg. 50-51. 62 Prudenzio, Contra Symmachum ii, 758-9; Wilpert, Schumacher 1976, p. 61. 63 Secondo il Thesaurus Linguae Latinae s.v. mundus il termine designa l’orbis terrarum in generale. Sul mosaico absidale e il mosaico dell’arco absidale Andaloro 2006a, pp. 24-25, con datazioni e interpretazioni diverse. Sull’arco trionfale ibid., p. 24. Per i mosaici e le iscrizioni Liverani 2008, pp. 155-172. 64 lp i, 176; icur ii, 4093: Constantinus Aug. et Helena Aug. hanc domum regalem [auro decorant quam] simili fulgore coruscans aula circumdat. 65 Domus = tomba, ad esempio Tibullo 3,2,22; cil xiii 2104.7; Stazio, Silvae 5, 1, 237. Iscrizione cristiana iciur i 1965; ilcv 3546: domus aeternalis. 66 Brandenburg 2013, pp. 108-113. 67 lp i, 177. 68 Brandenburg 2005/6, pp. 264-265. 69 Esplorazioni, vol. 1, pp. 147-160; Arbeiter 1988, pp. 90-141; Krautheimer cbcr v, pp. 246-251; 264267; Brandenburg 2013, pp. 96-106. 70 Maischberger 1997, passim; Pensabene 2013, pp. 113-141; Brandenburg 2007/8, pp. 109-189, in particolare pp. 176-178. 71 Brandenburg 2007/8, pp. 186-187. 72 Per le colonne in generale si veda Krautheimer, cbcr v, 232-239; Arbeiter 1988, 114-135. Cfr. Bosman in McKitterick et alii 2013, pp. 65-80.

73 L. Bosman (2004) per primo ha ipotizzato la provenienza delle colonne dai magazzini. 74 Fantozzi 1994, p. 15; Bosman in McKitterick et alii 2013, pp. 65ss. 75 J. Delaine, Le thermae imperiali, in von Hesberg, Zanker 2009, pp. 250-267; H. Brandenburg, La basilica di Massenzio, ibid., pp. 110-119; Pensabene 2013, p. 327. 76 Eusebio, V. Const., 3, 31, 1. 77 Brandenburg 2005/6, pp. 137-275: Id. 2009, pp. 143-201; Id. 2013, pp. 121-138. 78 Brandenburg 2005/6, pp. 237-275; Id. 2009, pp. 143-201. 79 Cfr. Geyer 1993, pp. 63-77; E. Morvillez in Kaderka 2013, pp. 55-72. 80 Come in Bowersock 2002, pp. 209- 217 e Barnes 2011, pp. 85-89. 81 Paolino di Nola, Epist. 13, 13: vel qua (sc. basilica) sub alto sui culminis mediis ampla laquearibus longum patet et apostolico eminus solio (i.e sepulcro) coruscans ingredientium lumina stringit et corda laetificat. 82 Alfarano, Cod. Barb. 2733, fol. 107. 83 Brandenburg, Pàl 2000, pp. 46-51, tavv. 5-7; Pensabene 2013, p. 76. 84 Guidobaldi, Guiglia Guidobaldi 1983, p. 40. 85 Cfr. Andaloro 2006a, pp. 24-25, figg. v-vi, con datazioni e interpretazioni in parte diverse, e una rappresentazione schematica dei cicli sui muri della navata. 86 Brandenburg 2005/6, pp. 237-274; Brandenburg 2009, pp. 143-199. 87 Si vedano le ricostruzioni schematiche dei cicli di S. Paolo e di S. Pietro, rispettivamente in Andaloro 2006a, pp.104-112, pp. 32-34, figg. v-vi. 88 Paolino di Nola, Carm. 27, v. 544. Cfr. Brandenburg 2014, pp. 248-251. 89 Kessler 2002. 90 G. Bordi in Andaloro 2006b, pp. 416-418. 91 icur ii, p. 10; icur ii, 4102. 92 Andaloro 2006a, p. 24; Liverani 2008, pp. 170172. 93 Paolino di Nola, Epist. 13, 11: … in amplissimam gloriosi Petri basilicam per illam venerabilem regiam cerulae minus fronte ridentem. 94 Krautheimer cbcr v, 262-67; Arbeiter 1988, pp. 186-191; De Blaauw 2004, pp. 463-470; Brandenburg 2003, pp. 55-71. 95 Paolino di Nola, Epist. 13. 11: amplissima basilica. 96 Paolino di Nola, Epist. 13, 11. 97 Cfr. l’iscrizione in icur ii, 4104; Krautheimer cbcr v, pp. 267ss. 98 Paolino di Nola, Epist. 13, 13; Brandenburg 2003, pp. 55-71. 99 Eusebio, Hist. Eccl. 10, 4, 40; Brandenburg 2003, pp. 55-71. 100 icur ii, p. 349; icur ii 4098; Epigrammata Damasiana, pp. 93ss., n. 4 (Ferrua). 101 lp i, 455. 102 lp i, 262. 103 Cfr. Brandenburg 2003, pp. 55-71; Gnilka 2005, pp. 61-87; Brandt 2013, pp. 81-94. 104 lp i, 249. 105 Gesta Liberii 1391-1392; Liber Pontificalis, Duchesne cxxii; De Blaauw, p. 489. 106 Prudenzio, Perist. xii, 31-43, v. 34. Si veda anche Gnilka 2005, pp. 61-87. 107 lp i, 261; Brandt in McKitterick 2013, pp. 81-94. 108 lp i, 261; Biering, von Hesberg 1987, pp. 145182; Niebaum 2007, pp. 101-161; Rasch 1990, pp. 1-18. 109 Hist. Aug., Sev. Alex. 63, 3.

110 Brandenburg 2006, p. 193. 111 Dresken-Weiland 2003, pp. 114-120; Johnson 2009, pp. 167-173; McEvoy in McKitterick et alii 2013, pp. 123-136. 112 Iscrizione: icur ii 4219. Bartolozzi Casti 2011, pp. 427-455; Dresken-Weiland 2003, pp. 118-121. 113 Bovini, Brandenburg 1976, n. 829, tav. 133 e n. 678, tav. 107. 114 Eusebio, V. Const. 4, 60, 2-4: «Egli credeva che la commemorazione degli apostoli (ossia il culto presso l’altare del sacrificio, ibid., 3, 60, 2) avrebbe portato alla salvazione della sua stessa anima». 115 Cfr. Esplorazioni, vol. 1, p. 59, fig. 38, p. 84, fig. 58. 116 Bovini, Brandenburg 1976, n. 674 e 681; Dresken-Weilamd 2003, pp. 114-117, cat. E 4 tra gli altri; Lanza 2010, pp. 229-274. 117 Bovini, Brandenburg 1976, n. 681. 118 Bovini, Brandenburg 1976, n. 680. 119 Bovini, Brandenburg 1976, n. 35. 120 Brandenburg 2013, p. 104; Aug. Conf. 6, 2, 1. 121 Paolino di Nola, Epist. 13, 11-13. 122 Gerolamo, Epist. 22, 32. Cfr. anche Liverani 2013, pp. 21-25. 123 Ammiano Marcellino 27, 3, 6; Brandenburg 2004, p. 94. 124 Cfr. Liverani 2013, pp. 28-31. 125 Brandenburg 1979, p. 153. 126 Cfr. Arbeiter 1988, pp. 181-184. 127 Egeria (Aetheria), Itinerarium 24-25.43; 7-8.44; 3.46; 1.47; 1. 128 Gerolamo, Contra Vigilantium, 8 (pl 23, 361/2), attorno al 400. 129 Brandenburg 1995, pp. 71-98. 130 Ibid. 131 De Blaauw 1994, pp. 482ss. 132 Si vedano Krautheimer cbcr v, pp. 276ss.; de Blaauw, 1994, pp. 530-539; Brandenburg 2013, pp. 104-105, 306, fig. xi, 17. 133 lp i, 417. Capitolo secondo *Un vivo ringraziamento a S.E.R. Monsignor Vittorio Lanzani, delegato della Fabbrica di S. Pietro; alla dott.ssa Simona Turriziani, alla dott.ssa Assunta Di Sante dell’Archivio Storico della Fabbrica e al dott. Pietro Zander, responsabile della Necropoli Vaticana e delle Antichità Classiche presso l’Ufficio tecnico della Fabbrica di S. Pietro. Grazie infine a Giovanna Sapori. 1 Rice 1997, pp. 255-260. 2 Tronzo 1997, pp. 161-166; Ballardini 2004, pp. 9-11. 3 Apollonj Ghetti, Ferrua, Josi, Kirschbaum 1951; Krautheimer, Frazer 1980, pp. 171-285; Arbeiter 1988; De Blaauw 1994, pp. 455-492; Brandenburg 2013, pp. 92-103 e Brandenburg in questo stesso volume. Dall’archeologia prende avvio anche il racconto di Antonio Pinelli, v. Pinelli 2000, pp. 9-51; all’antico S. Pietro nel 2010 è stato dedicato un convegno internazionale promosso dalla British School at Rome che ha avuto come esito il volume Old Saint Peter’s, Rome 2013. 4 Liber Pontificalis (ed. Duchesne i-ii, 1886-1892; Vogel iii, 1957); Geertman 2004 (biografie da Silvestro a Silverio), pp. 169-235; d’ora in poi lp; da ultimo McKitterick 2013, pp. 95-118. 5 Mallii Descriptio basilicae Vaticanae (ed. Valentini, Zucchetti 1946); Vegii De rebus antiquis memorabilibus basilicae S. Petri Romae (ed. Janningo 1717); Alpharani De Basilicae Vaticanae antiquissima et nova structura (ed. Cerrati 1914); Grimaldi, Descrizione

della basilica antica di S. Pietro in Vaticano. Codice Barberini latino 2733 (ed. Niggl 1972). 6 Un profilo di Tiberio Alfarano († 1596) si deve a Michele Cerrati, v. Cerrati 1914, pp. xi-xiv; da ultimo v. anche Della Schiava 2007, p. 258 nota 2; Lucherini 2012, pp. 62-63; a Reto Niggl si deve la biografia di Giacomo Grimaldi più documentata e il catalogo completo delle opere, v. Niggl 1971; da ultimo v. anche Heid 2012, pp. 610-611. 7 Thoenes 1992, pp. 51-61 e in questo stesso volume. Krautheimer e Frazer considerano il disegno di Antonio da Sangallo dell’alzato del «muro divisorio» (Firenze, Uffizi, g.f.s.g., ua 121) un progetto di studio non corrispondente alle emergenze archeologiche accertate, v. in Krautheimer, Frazer 1980, pp. 225-226, fig. 196. 8 bav, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, la raccolta è nota come Album di San Pietro o Album del Grimaldi per le annotazioni che nel tempo il chierico vi aggiunse; il contratto tra il Capitolo e il disegnatore fu stipulato il 18 marzo 1606 (asr, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 9, notaio Quintilianus Gargarius). 9 bav, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, ff. 12; 11; 17; 14; 16, 18; 19. 10 Un’ampia raccolta di disegni e di vedute della basilica antica è pubblicata e commentata in Carpiceci-Krautheimer 1995, pp. 21-128. 11 Il «muro divisorio» di Paolo iii fu abbattuto tra il 23 e il 24 marzo 1615, v. bav, Arch. Cap. S. Pietro G. 13, f. 183r, cit. in Niggl 1972, p. 153 e 283. 12 Grimaldi metteva in relazione questa lampada metallica con un lampadario in typum crucis del tempo di Adriano i (772-795), v. bav, Barb. lat. 2733, f. 117v (ed. Niggl 1972, p. 153 e lp 97 c. 46. 13 V. Alfarano in bav, Barb. lat. 2362, f. 11r-v. 14 Thoenes 2002 (i ed. 1994), pp. 381-416 e da ultimo Thoenes, Aggujaro 2014, https://www.youtube.com/watch?v=qAwuZBRlkCw#t=22 nell’ambito della mostra: Donato Bramante e l’arte della progettazione (Vicenza, Palladio Museum, 9 novembre 2014-8 febbraio 2015), Vicenza 2014. 15 Nel 1914 la lastra di rame era ancora conservata presso l’Archivio dei Canonici di S. Pietro, Alpharani De Basilicae Vaticanae (ed. Cerrati 1914), p. xv, nota 1. 16 Attualmente conservata nell’ambulacro dell’Archivio Storico della Fabbrica di S. Pietro. Sulla pianta del 1571: Zander 1988; Silvan 1992, pp. 3-23; Bentivoglio 1997, pp. 247-254. 17 Ibid., p. 248 e la fig. 5 a p. 252. 18 Silvan 1992, pp. 4-5 nota 5. 19 bav, Arch. Cap. S. Pietro G.5, p. 119 («Titulo del sito di S. Pietro desegnato da Tiberio Alfarano l’anno 1571»). 20 Cerrati 1914, p. 161, n. 20. 21 Ibid., pp. 161-161, n. 21; per l’arcipresbiterato di Alessandro Farnese (1543-1589), v. Rezza, Stocchi 2008, pp. 220-222. 22 Cerrati 1914, pp. 179-199, n. 39. 23 Bredekamp 2005, pp. 124-136. 24 Nel cartiglio sotto lo stemma Peretti, Alfarano, ispirandosi liberamente a un’iscrizione costantiniana della basilica, ricorda come Sisto v avesse «innalzato al cielo il tempio di Pietro»: cfr. ilcv 1752 e De Santis 2010, pp. 193, n. 1. 25 In quegli stessi anni, Natale Bonifacio (15381592) stava largamente contribuendo alla fama delle imprese sistine: a lui si devono l’illustrazione del trasporto dell’obelisco (1586); sei grandi incisioni che servirono di modello agli affreschi sistini di Giovanni Guerra nella Biblioteca Vaticana e, nel 1589, le trentanove incisioni di corredo a Domenico Fontana, Della trasportazione dell’obelisco, v. Borroni 1971, pp. 201-204.

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Note

26 Fabio Della Schiava ha reso nota una silloge di Tiberio Alfarano (Biblioteca Civica Ursino Recupero di Catania, Fondo Civico B 20), comprensiva dell’opera del Vegio nella trascrizione autografa di Giacomo Ercolano. Lo studioso ha dimostrato come il Vegio copiato da Ercolano sia affiliato della lectio (con finale interpolato) del Vat. lat. 3750, copia del 1543 offerta dallo scriptor Ferdinando Ruano a papa Paolo iii, v. Della Schiava 2007, pp. 262; 269-271. A Della Schiava dobbiamo un inquadramento filologico e una rilettura complessiva del De rebus antiquis memorabilibus di Maffeo Vegio nell’orizzonte della contemporanea «storiografia pontificia», v. in part. Della Schiava 2011. 27 Della Schiava 2007, pp. 261-262 e 265-269. 28 La composizione di un additamentum a Mallio e a Vegio fu suggerita ad Alfarano dal canonico Ercolano «il quale m’ha insegnato tutte le antiquità memorabili in ante fussero difatte per cagione di far la nova chiesa che se vede ai tempi nostri», v. bav, Arch. del Cap. di S. Pietro G. 5, p. 147. Una descrizione del manoscritto e alcuni stralci si leggono in Cerrati 1914, pp. xxlviii-l e Appendice nn. 1-36; v. inoltre Della Schiava 2007, pp. 259-260, nota 6. 29 Alpharani De basilicae Vaticanae (ed. Cerrati 1914), pp. 3-145. 30 Ibid., p. 3. 31 V. Krautheimer, Frazer 1980, pp. 224-225. 32 bav, Arch. Cap. S. Pietro G. 5, pp. 373-389: «Tavola magiore sopra la cassa della Fabbrica transcritta ancora nell’altro mio libro con l’altre memorie degne de tutta la chiesa de S. Pietro. Breve istruttione per i peregrini che vengono ad limina Apostolorum per visitar la chiesa di S. Pietro, delle cose notabili che in essa sacrosancta basilica si contengono»; e a p. 443: «Originale copia della tavola grande latina da mettere nella chiesa di S. Pietro». 33 bav, Arch. Cap. S. Pietro G. 5, p. 207. 34 Sulla storia del Capitolo di S. Pietro v. ora Rezza, Stocchi, 2008; per l’arcipresbiterato di Giovanni Evangelista Pallotta (1620-1633), Ibid., pp. 223-224. 35 Cerrati 1914, p. 15 e p. 123. John Capgrave (dopo il 1447) ricorda già l’area del quadriportico come «una piazza circondata da abitazioni...», v. Capgrave, Ye Solace of Pilgrimes (ed. Giosuè 1995), p. 79. 36 Dal 1548, almeno due colonne vitinee dell’antica pergula erano in opera nell’altare del Sacramento e dei SS. Simone e Giuda, nel disegno di Grimaldi se ne notano tre, bav, Barb. lat. 2733, ff. 113v-114r (ed. Niggl 1972, pp. 148-149), discussione in Zampa 1997, pp. 167-174; nella pianta di Alfarano (1590) il sacello è disegnato al n. 44 e la Colonna santa al n. 25; sulla Colonna santa e il suo recente restauro v. La Colonna santa 2015, con i contributi di A. Gauvain, O. Bucarelli, M. Falcioni e D. D’Errico. 37 Capgrave, Ye Solace of Pilgrimes (ed. Giosuè 1995), p. 100; Muffel, Descrizione della città di Roma nel 1452 (ed. Wiedmann 1999), p. 47. 38 Alpharani De Basilicae Vaticanae (ed. Cerrati 1914), p. 22. Giovanni Dondi in visita a Roma nel 1375 circa, contò ventisei gradini, v. Codice Topografico iv (ed. Valentini, Zucchetti 1953), p. 69. 39 lp 53, c. 7, Krautheimer e Frazer si chiesero se le due scale laterali di Simmaco fossero da identificare con quelle segnate in pianta da Alfarano: «l’una che da sud saliva alla piattaforma che precedeva l’atrio, l’altra che proseguiva da lì verso nord e sulla collina», v. Krautheimer, Frazer 1980, p. 285. 40 lp 97, c. 57. 41 Una sintesi del rituale della ordinatio si legge in De Blaauw 1994, pp. 608-611; 725-732; Paravicini Bagliani 2013, pp. 88-100.

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Note

42 Krautheimer, Frazer 1980, p. 225. 43 bav, Arch. Cap. S. Pietro G. 5, p. 147. L’unico dato associabile alla testimonianza di Alfarano è la notizia di pitture murali realizzate in S. Maria in Gradibus al tempo di papa Giovanni xv (985-996), v. lp ii 260 (interpolazione). 44 bav, Barb. lat. 2733, f. 154v (ed. Niggl 1972, p. 190, fig. 79). 45 Cfr. Picard 1971, pp. 171-172. Facendo le debite differenze, l’edificio di ingresso all’atrio di S. Pietro ricorda la porta-torre del complesso dei SS. Quattro Coronati (847-855) e, per la spiccata connotazione trionfale, anche la celebre Torhalle di Lorsch, cfr. D’Onofrio 1976, pp. 128-138 e Jacobsen 1985, pp. 9-75 (datazione alla tarda età carolingia). 46 lp 94 c. 47. 47 È Grimaldi a ricordarne l’epoca di demolizione. Tra le macerie del campanile furono trovate monete di età imperiale e di età medievale (vii e x secolo), v. bav, Barb. lat. 2733, f. 269v, (ed. Niggl 1972, p. 308); per i toponimi inter Turres / in Turribus / inter nolaria e le fasi costruttive della torre campanaria di S. Pietro, v. De Blaauw 1994, p. 526 e pp. 641-642. 48 bav, Barb. lat. 2733, ff. 152v-155r e 157v. Il prospetto di S. Maria in Turri fu riprodotto da Grimaldi in numerosi manoscritti. Anche Alfarano descrisse il mosaico e i portali d’ingresso: «In capo al piano de dette schale sono tre porte che si entra nel p(rimo) portico de Santo Pietro chiamato Sancta Maria in Turre ratione turris campanarie, quale tre porte essendo ruinate et anticamente erano de metallo, finalmente Nicolao pp. v le fece rifare de legname e de marmo fino e di sopra dette porte è scritto Nicolavs pp. v mccccxlix. Alla medesima facciata, sopra detta porta, vi è bellissimo musaico, ma per l’antichità ruinato la magior parte et in mezo vi è una imagine del Salvatore et de qua et de la l’imagine de s. Pietro et de s. Paolo a piede a li quali è questo scritto xpe tibi sit honor et decor» v. bav, Arch. Cap. S. Pietro G. 5, p. 147; v. anche Alfarano, De Basilicae Vaticanae (ed. Cerrati 1914), pp. 127-128 e p. 151. 49 lp 97 c. 96. 50 La porta di bronzo era stata danneggiata nel 1167 durante un’incursione del Barbarossa e Innocenzo iii ne impose il restauro ai Viterbesi v. lp ii, 416 e Gesta di Innocenzo iii (ed. Barone, Paravicini Bagliani 2011), p. 265. Per l’iscrizione, realizzata plausibilmente con la tecnica dell’ageminatura, v. Mallii Descriptio Basilicae Vaticanae, in Codice topografico iii (ed. Valentini-Zucchetti 1946) p. 433 e il commento in Alpharani De basilicae Vaticanae (ed. Cerrati 1914), p. 19, nota 1. 51 bav, Barb. lat. 2733, f. 155r (ed. Niggl 1972, p. 191, nota 2). 52 La descrizione iconografica del mosaico di Grimaldi pare più coerente di quella di Alfarano, cfr. qui alla nota 48. 53 lp 95 c. 6 (interpolazione). 54 lp 94, c. 47, a Stefano ii si deve anche un abbellimento del cantaro (infra). 55 lp 95 c. 6 (interpolazione); il punto di vista del biografo parrebbe all’interno dell’atrio: in atrium... ante turrem sancte Mariae ad Grada, quod vocatur Paradiso, oraculum ante Salvatorem, in honore sanctae Dei Genitricis Mariae miro opere et decoravit magnifice. 56 Picard 1974, pp. 875-876; lo studio di Picard propone un riesame critico e una comparazione tra le piante di Alfarano, un disegno di B. Peruzzi (Firenze, Uffizi, g.f.s.g., ua 11r) e gli acquerelli di Tasselli e di Grimaldi. 57 ilcv 1755; icvr ii, 4104; v. De Santis 2010, p. 171 e p. 195, n. 10.

58 ilcv 1756; icvr ii, 4105; sempre nell’atrio ma sul lato settentrionale, si aggiunse l’iscrizione di Giovanni i (523-526) che aveva proseguito la campagna decorativa, v. ilcv 1757; icvr ii, 4116 e De Santis 2010, p. 110 e p. 198, n. 22. 59 lp 53 c. 7. 60 a.v. compages, is in ThLL, iii, coll. 1997-1999. 61 Picard 1974, p. 858. 62 Sulla commitenza di papa Simmaco v. Cecchelli 2000, pp. 111-128 e Janssens 2000, pp. 265-275. Per la genesi del palazzo apostolico al Vaticano, v. Monciatti 2005, pp. 91-96. 63 lp 80, c. 1. 64 lp 97, c. 57. 65 bav, Barb. lat. 2733, f. 149v (ed. Niggl. 1972, p. 185), secondo Grimaldi il litostrato era costantiniano. Per le quote pavimentali, i gradini tra atrio e nartece e la messa in posa del cantaro, v. Krautheimer, Frazer 1980, pp. 276-277; per una tipizzazione del piancito osservato da Grimaldi, v. GuidobaldiGuiglia 1983, pp. 199-201, con proposta di datazione del litostrato al pontificato di Simplicio (468-483) o di Simmaco (498-514). 66 Paulinus Nolanus Epist. xiii (ed. Hartell 1894, p. 94); Liverani 1986, p. 51-63. 67 lp 94, c. 52; per il disegno di Simone del Pollaiolo detto il Cronaca (1457-1508), v. Hülsen 1904, tav. V.1 e per il disegno di Francisco de Hollanda (1517-1585) v. Tormo 1940, f. 26v; commenta entrambi Finch 1991, pp. 16-26. 68 Grimaldi ricorda che da una delle due colonne scolpite il busto era stato asportato v. bav, Barb. lat. 2733, f. 151r (ed. Niggl 1972, p. 187), v. Bergmann, Liverani 2000, pp. 563-564. 69 Si tratta di elementi di bronzo tutti di spoglio, v. Angelucci, Liverani 1994, pp 5-38. 70 Alfarano scrive che nel 1574 la vasca di raccolta fu smantellata e le lastre con i grifi riutilizzate a rovescio nel pavimento della basilica: grifones e vetustate collabentes sublati positi sunt in pavimento navis porte Iudicii anno 1574 versa facie in terra ante crucifixum, v. bav, Arch. Cap. di S. Pietro G. 5, p. 149, la rimozione delle lastre con i grifoni è confermata dalle riproduzioni dell’atrio successive al 1574, si vedano per es. i disegni e le incisioni di Dosio e gli acquerelli di Tasselli. 71 I restauri effettuati nel 1982 hanno accertato che i piccoli fori presenti sulle squame, non previsti al momento della fusione, sono stati eseguiti a trapano. Esempio di macrobronzistica antica (fine i secoloii secolo a.C.), la pigna è firmata sulla superficie dell’anello di appoggio: P(ublius). Cincius. P(ublii) L(inertus) Salvivs fecit. Il primo a rilevare l’iscrizione fu Giacomo Grimaldi, bav, Barb. lat. 2733, f. 151v (ed. Niggl 1974, p. 187); v. Liverani 1986, pp. 51-63; Di Stefano Manzella 1986, pp. 65-78. 72 Capgrave, Ye Solace of Pilgrimes (ed. Giosuè 1995), p. 79. 73 Illustrando il restauro della Forma Sabbatina, il Liber Pontificalis fa esplicito riferimento alle antiche fistulae di piombo (rubate) che Adriano i reintegrò, v. lp 97 c. 59; di una fistula plumbea del cantaro riferisce la Graphia Aureae Urbis (xiii secolo), v. Codice Topografico iii (ed. Valentini, Zucchetti 1946), p. 86. 74 V. Coates-Stephens 2003, pp. 135-137 (con commento a lp 97 c. 59 e c. 81). 75 E di lì che anche Giacomo Grimaldi il 3 aprile 1606 stilerà la descrizione del mosaico di facciata, in camera... archipresbyteri... in atrio dictae basilicae ac in opposito dicti operis musivi, bav, Barb. lat. 2733, f.173r (ed. Niggl 1972, p. 210). 76 Oggi murata nelle Grotte Vaticane, la croce di marmo fu calata il 16 febbraio 1606; Grimaldi la

descrive come una crux octangularis... antiquissimo graeco more... cum tribus pallis sive pomis, v. bav, Barb. lat. 2733, f. 101r (ed. Niggl 1972, p. 134). 77 Cfr. Krautheimer, Frazer 1980, p. 255. Il disegno descrive altrettanto bene, sotto lo spiovente, l’incastro delle doppie testate delle travi di capriata e la curva del cavetto di facciata; purtroppo il disegno, pubblicato da Carpiceci, Krautheimer 1995, p. 55, al momento non è reperibile. 78 Riterrei che il restauro delle finestre al tempo di Niccolò v (anni 1449-1450) si fosse limitato alla messa in opera di vetri a rulli, cioè vetri “a fondo di bottiglia”, v. Müntz 1878 (ed. 1983), pp. 112-114; già in antico le finestre della basilica erano schermate da vetri, v. lp 86 c. 11; lp 98 c. 34 e c. 82 (restauri di Sergio i e Leone iii). 79 Per l’arcipresbiterato di Ugo dei Conti di Segni (1199-1206), v. Rezza, Stocchi 2008, pp. 173-174 80 Sul mosaico di v secolo, v. Bordi 2006, pp. 416-418; sul mosaico di Gregorio ix da ultimo v. Romano 2012, pp. 16-17 e Queijo 2012, pp. 113-116. Del mosaico di facciata di S. Pietro si conservano tre frammenti: la testa del pontefice (Roma, Museo di Roma); la testa dell’evangelista Luca (Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana); la testa della Vergine (Mosca, Museo Pushkin); per il ritratto di Gregorio ix «inventato per la facciata di S. Pietro», Gandolfo 1989, pp. 131-134; Id. 2004, pp. 38-40; per la testa di san Luca, Ghidoli 1989, pp. 135-138; per la testa della Vergine, Andaloro 1989, pp. 139-140. 81 Si veda il mosaico un tempo presso il sepolcro di Ottone ii (955 ca.-983) con Cristo tra Pietro e Paolo (ora nelle Grotte Vaticane) (Pianta E n. 9) e le pitture nel sottoportico dell’edificio di ingresso all’atrio che, sulla parola di Alfarano, illustravano storie di Cristo, Pietro e Paolo, v. sopra alla nota 43. 82 Tomei 1989, pp. 141-146; da ultimo Pogliani 2006, p. 24 e p. 26 (3D del prospetto ovest della basilica con ubicazione delle pitture) e Quadri 2012, pp. 316-320. Di questo ciclo, di cui sono noti i soggetti di almeno sedici scene, sono conservati presso la Fabbrica di S. Pietro solo i volti di Pietro e Paolo tratti dall’Apparizione dei due Apostoli a Costantino. 83 Dal vii secolo, l’atrio-quadriportico era chiamato Paradisus, v. Picard 1971, pp. 159-186; secondo De Blaauw, l’atrio della basilica paleocristiana come separazione tra il mondo esterno e lo spazio sacro fu una potente metafora e per questo si può considerare «the most innovative creations by patrons and architects of the first generation of public Christian church building» v. De Blaauw 2011, pp. 38-43. 84 Köhren-Jansen 1993; Schwarz 1995, pp. 129165; Leuker 2001, pp. 101-108. La datazione del mosaico della Navicella è molto discussa e condivide l’incertezza che avvolge l’operato di Giotto a Roma. Da ultimo, Kessler ha riepilogato la questione, ritenendo plausibile il suggerimento di Serena Romano che colloca il mosaico dell’atrio alla fine del primo decennio del Trecento, v. Kessler 2009, pp. 85-99 e Romano 2008, pp. 139-140. 85 Il titulus è nella traduzione pubblicata da Kessler 2009, p. 146. Grimaldi sulla Navicella e su Stefaneschi, v. bav, Barb. lat. 2733, ff. 154v-156r (ed. Niggl 1972, pp. 181-184, fig. 75). Del tessuto musivo della Navicella si conservano due frammenti con busti di Angeli che si ritiene affiancassero il testo dell’iscrizione. Il primo Angelo è nelle Grotte Vaticane, il secondo nella chiesa di S. Pietro Ispano a Boville Ernica (prov. di Frosinone), Tomei 1989, pp. 153-161; da ultimo in Frammenti di Memoria 2009, si vedano i contributi di Andaloro; Sansone-Maddalo; Pogliani e Zander; sul rifacimento seicentesco del

mosaico nel portico della basilica nuova, v. Zander 2011, pp. 247-251. 86 Nella storia degli studi la designazione «san Pietro di marmo» è divenuta consueta per distinguere la statua marmorea dell’Apostolo dal «san Pietro di bronzo». Quest’ultima nel Medioevo era esposta nell’oratorio del monastero di S. Martino a sud-ovest dell’abside dell’antica basilica (Pianta M). Il dibattito storico artistico sul «san Pietro di marmo» è stato lungo e complicato da reiterati fraintendimenti, lo riepiloga Caglioti 1997, nota 54, v. inoltre la bibliografia in D’Achille, Pomarici 2006, p. 346. 87 Romanini 1989, pp. 57-89 e Ead. 1990, pp. 47-50; nella forma attuale, le mani si devono a un restauro del xviii secolo e a ulteriori rifacimenti, ma l’attitudine dell’Apostolo è documentata sia da Alfarano, v. Alpharani De basilicae Vaticanae (ed. Cerrati 1914), p. 195, n. 131, sia da Grimaldi, bav, Barb. lat. 2733, f. 144v (ed. Niggl 1972, p. 180). 88 Altrove Grimaldi ricorda che, dopo lo smatellamento del protiro, le due colonne rosse furono reimpiegate in porticu nimphei palatii cardinalis Bentivoli in monte Quirinali ad Thermas Constantinianas v. bav, Vat. lat. 6437, f. 101r (cit. Niggl 1972, p. 180, nota 2). Nella descrizione del protiro di Alfarano si legge che le colonne anteriori erano di porfido e il portale scolpito di marmo pario, v. Alpharani De Basilicae Vaticanae (ed. Cerrati 1914), p. 116. 89 Di valvae aeneae antiquissimae parla Alfarano, Ibid., p. 116 e p. 18 e nota 1. Grimaldi annota che il 15 luglio 1588 Sisto v diede l’ordine di prelevare dall’atrio le valve di bronzo che vennero fuse per forgiare la statua di san Paolo destinata alla colonna Antonina, bav, Barb. lat. 2733, f. 144v-145r (ed. Niggl 1972, p. 180, fig. 73). 90 Prendendo come riferimento approssimativo il disegno di Grimaldi e conoscendo l’altezza delle colonne del nartece è plausibile che la statua si trovasse a 5 m circa dal suolo. 91 Non mi esprimo sulla datazione perché non ho esaminato gli Apostoli-mensola che sono reimpiegati in un trono papale all’interno del Palazzo Apostolico; della coppia di mensole hanno scritto Cagiano de Azevedo 1968, pp. 52-59, che le attribuisce a seguaci di Arnolfo (fine xiii secolo) e Caglioti 2000, p. 880, che le colloca non oltre il xiii secolo. 92 Francesco Caglioti ritiene che non ci sia motivo di pensare «che l’immagine di san Pietro venisse commissionata ad Arnolfo con una destinazione diversa da quella, così appropriata, ch’essa manteneva nel Cinquecento», Caglioti 2000, p. 881; Id. 1997, pp. 37-70. 93 Dall’alto Medioevo, la rota porfiretica dell’atrio indicava il punto di avvio della cerimonia di incornazione imperiale, v. Andrieu 1954, pp. 198-199; De Blaauw 1994, pp. 612-616. Un’antica tradizione riferita da Pietro Mallio voleva che sotto la rota del nartece fosse sepolto il venerabile Beda, Mallii Descriptio basilicae in Codice topografico iii (ed. Valentini, Zucchetti 1946), p. 419. 94 Solo nell’estrema navata settentrionale fu in seguito aperto un sesto varco: la porta Aurea del Giubileo (Pianta F n. 20). 95 La toponomastica delle porte di S. Pietro è già illustrata nella descrizione della basilica di Pietro Mallio (ca. 1160) ed è confermata in quella del Vegio, di Alfarano e di Grimaldi. 96 Picard 1969, pp. 725-782; da ultimo McKitterick 2013, pp. 105-114. 97 Le tombe di Leone i e di Gregorio Magno furono molto venerate; in particolare quest’ultima, nell’826, fu oggetto di un clamoroso trafugamento di reliquie, v. Geary 2000, p. 160.

98 Fu papa Costantino i (708-715) a far «erigere» nel portico di S. Pietro l’immagine dei concili, rispondendo al gesto blasfemo dell’imperatore Filippico Bardane che a Costantipoli l’aveva fatta distruggere, v. lp 90 c. 8; il biografo di papa Benedetto iii (855-858) ricorda anche la figurazione di sinodi più recenti e, in cima alle porte della basilica, l’esposizione di una tavola dipinta di Cristo e della Madre di Dio, v. lp 106 c. 12. Per la precoce esposizione di pubblici decreti nell’atrio di S. Pietro v. Liverani 2013, pp. 32-33. Per le storie apostoliche che ornavano le pareti del nartece, forse al tempo di Niccolò iii (1277-1280), v. da ultimo Quadri 2012, p. 318, Alfarano ne documenta l’ubicazione («sopra le porte») e la distruzione avvenuta in occasione del restauro promosso da Gregorio xiii (1574). Il chierico riferisce altresì di un pregevole rivestimento marmoreo che ornava in antico le pareti del vestibolo: «Nell’anno del Signore 1574, Gregorio xiii... fece ancora accomodare dette tavule de marmo de s. Gregorio primo; et allora per la grande antiquità è cascato quelle belle reliquie de incrostaure de bellissimi porfidi et marmi che demostravano detto portico et tutta la facciata esser stata de quel modo; ad esso solamente l’architetto fece salvare una gabbia col pappagallo pro memoria de posteri de si bella opera. Furno anco coperti tutti li vestigii delli sepolcri delli pontifici che se vedevano infra una porta et l’altra: anco fu transferita in questo tempo quella petra numidia de titulo del sepolcro d’Adriano prima et posta infra la porta Argentea et Raviniana per memoria eterna de Adriano primo et Carlo magno», v. bav, Arch. del Cap. di S. Pietro G. 5, p. 152. 99 lp 97 cc. 37-38. 100 lp 104 cc. 9-11. 101 Si parla di regiae argenteae dalla biografia di Sergio i (687-701), lp 86 c. 11. 102 lp 72 c. 2. 103 Da ultimo sulla porta Aenea del Filarete nella sua originaria collocazione, v. Glass 2013, pp. 348370. 104 Per le iscrizioni della porta Argentea di Onorio i, v. icvr-ns ii, nn. 4119-4120; la silloge Cantabrigense che trascrive i lunghi carmi della porta li accompagna con il lemma topografico in lammina argentea regiae sancti Petri...; per la silloge Cantabrigense che trascrive un apografo di viii secolo v. Silvagni 1943, pp. 49-112, in part. pp. 62-64. 105 Per vendicare il comportamento del pontefice, alla sua morte, i bizantini perpetrarono un vero e proprio saccheggio dell’episcopio Lateranense v. lp 73 c. 1 e Delogu 1988, pp. 273-293, in part. p. 280. 106 lp 105 c. 84; le libbre di metallo destinate ex novo al restauro furono infatti solo 70. 107 lp 105 c. 84-85 e De Blaauw 1994, p. 525. 108 V. Liverani 2003, pp. 17-19. 109 lp 34 c. 10. 110 Dal greco τριµµα che indica «ciò che è logorato e battuto», anticamente la riduzione dell’oro in sottilissime lamine si eseguiva infatti per battitura a caldo con il martello o malleus, da cui il termine malleabilità che definisce una proprietà fisica distintiva dei metalli nobili, v. Pacini 2004, pp. 59-73. Intorno al significato del termine camera che ricorre a più riprese nel Liber Pontificalis si è creato un ampio dibattito. Paolo Liverani ha puntualizzato la questione, mettendo in chiaro che camera nel Liber Pontificalis non significa abside, ma semplicemente soffitto, v. Liverani 2003, pp. 13-27. 111 lp 97 c. 74. 112 Papa Onorio (625-638) fu il primo ad avviare questo tipo di interventi a vantaggio della basilica di S. Pietro dove furono levatae (cioè innalzate) sedici travi, lp 72 c. 2.

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Note

113 lp 97 c. 64; v. De Blaauw, pp. 521-522; per l’epistola di Adriano a Carlo Magno v. Codex Carolinus (ed. Gundlach 1892) in mgh, Epistulae, iii, n. 65; v. Pani Ermini 1992, pp. 485-530, in part. 485-507. 114 lp 106 c. 29. 115 Anonimo romano, Cronica (ed. Porta 1981), pp. 22-23; come documenta un’iscrizione coeva messa in salvo nelle Grotte Vaticane da Giacomo Grimaldi, il restauro di Benedetto xii fu terminato l’anno 1341, ma non previde il ripristino del soffitto a lacunari; le incavallature guaste furono sostituite con travi inviate dall’Umbria e dalla Sicilia e l’impresa fu finanziata con l’obolo dell’altare maggiore della basilica, v. bav, Barb. lat. 2733, ff. 12r-v e 102v (ed. Niggl 1972, p. 49 e 137); v. Cerrati 1915, pp. 81-117 e De Blaauw 1994, p. 634. 116 lp 72 c. 2; Grimaldi trascrive anche il bollo di una tegola di laterizio del tempo di M. Aurelio Antonino (121-180) «effossa anno 1607 in veteri Vaticana basilica» v. bav, Barb. lat. 2733, f. 280v (ed. Niggl 1972, p. 324, fig. 184), v. cil 15.1.424. 117 bav, Barb. lat. 2733, f. 101v (ed. Niggl 1972, p. 135), v. cil 15.1.1665a, 1669. Sulla cura di Teoderico per le chiese dell’Urbe da ultimo ha scritto Westall 2014, pp. 119-137, in part. pp. 119-122. 118 «... vermiculato opere phrigiato ex albis porphyretis serpentinisque lapillis», v. bav, Barb. lat. 2733, f. 107r (ed. Niggl 172, p. 141), v. Glass 1980, pp. 121-122; per i tratti del pavimento costantiniano rinvenuti nel corso degli scavi del secolo scorso v. Apollonj Ghetti, Ferrua, Josi, Kirschbaum 1951, p. 150 e 167. 119 Bauer 1999, pp. 385-446, Emerick 2005, pp. 50-57. 120 Andrieu 1954, pp. 189-218. 121 Panvinii De rebus antiquis memorabilibus in Spicilegium Romanum ix (ed. Mai 1843) p. 370; v. bav, Barb. lat. 2733, f. 107r (ed. Niggl 172, p. 141). Salvo per il colore di una pietra, le relazioni di Panvinio e di Grimaldi corrispondono e si integrano. Nella basilica nuova, la grande rota di porfido rimase a lungo sepolta sotto il pavimento, finché nel 1649 non fu recuperata, rifilata ai margini e collocata nel primo tratto della navata nuova dove, come ha scritto Andrieu, «... parlera toujour à l’imagination des visitateurs de Saint-Pierre», v. Andrieu 1954, p. 218. 122 Durante la costruzione della basilica nuova il pavimento antico subì maltrattamenti d’ogni genere v. Lanzani 2010, p. 15; in una lettera a Paolo v abbozzata nel 1605, i canonici chiesero che, prima di metter mano alla demolizione dell’ultimo tratto della basilica, si avesse cura di coprire «in qualche maniera con legname» il pavimento della chiesa «tanto celebre e devoto... che per ciò dove sono certe pietre porfiretiche si dicono pozzi di Martiri, Confessori, e Vergini», v. Richardson, Story 2013, pp. 404-415, in part. p. 413. 123 Non senza risentimento Grimaldi ricorda, come Giacomo della Porta, sollecitato da molti a levare di lì le rotae tutte intere, non si curasse affatto delle pietre che si spezzarono sotto il crollo delle macerie, v. bav, Barb. lat. 2733, f. 107r (ed. Niggl 172, p. 141). 124 Guidobaldi, Guiglia 1983, p. 40. 125 Schreiner 1979, pp. 401-410 e Guidobaldi, Guiglia 1983, p. 55 nota 93. 126 Iacobini 1997, p. 91. 127 lp ii, p. 395, il significato di questo intervento non è chiaro, v. De Blaauw 1994, pp. 632-633. 128 Per il ruolo primario giocato da Pelagio ii nell’adeguamento liturgico-cultuale della memoria di Pietro v. in particolare Lanzani 1999, pp. 22-25, con commento a Mallii Descriptio Basilicae Vaticanae in Codice Topografico iii (ed. Valentini, Zucchetti

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Note

1946), p. 403 e a documenti epigrafici pelagiani editi in icvr-ns ii, nn. 4117 e 4118). Sulla cronologia dell’intervento, condotto a termine tra il 588 e il 604, v. inoltre De Blaauw 1994, pp. 480-481 e 533-534 (fonti: Gregorii Turonesis De Gloria Martyrum ed. Arndt, Krusch 1884, pp. 503-504 e lp 66 c. 4); lo studioso osserva come nel Liber Pontificalis il termine altare attribuito alla basilica Vaticana compaia per la prima volta nella biografia di Gregorio Magno e come solo da allora esso si incontri con regolarità v. De Blaauw 1994, pp. 480-481 e 533-534. 129 V. Apollonj Ghetti, Ferrua, Josi, Kirschbaum 1951, pp. 173-193; Marcos Pous 1957, pp. 147-165; e inoltre De Blaauw 1994, p. 531-548 (con fasi decorative fino al ix secolo). 130 Il ciborio di Gregorio Magno fu prima restaurato e poi sostituito da Leone iii, che lo fece più imponente, v. De Blaauw 1994, pp. 543-544. 131 La prima notizia di una cattedra in questa posizione risale a papa Sergio i (687-701), che ornò la «sede» con un baldacchino rivestito con 120 libbre d’argento, segno che l’arredo esisteva già ed era tenuto in gran conto v. lp 86 c. 11. 132 Limitatamente a Roma si pensi a S. Pancrazio (Onorio i 625-638) e a S. Crisogono (Gregorio iii 731-741); sull’argomento da ultimo Trinci Cecchelli 2007, pp. 105-120. 133 Per l’esame del termine pergula e di altri lemmi storico-artistici usati nel Liber Pontificalis, v. Ballardini in c. di st. 134 Cfr. Walde 1906 p. 461, cit. in de Blaauw 1994, p. 554, nota 220; con il significato di loggia ricorre invece in un episodio narrato da Plinio che ha per protagonista il pittore Apelle, v. C. Plinii Secundi Nat. Hist., 35, 84. 135 V. alle voci «pergola» e «pergolato» in Battaglia 1986, xiii, p. 22; nel lessico botanico antico ricorre persino una varietà di uva pergolese http://ducange. enc.sorbonne.fr/PERGULA3; cfr. Targioni Tozzetti 1809, ii, p. 105. 136 lp 92 c. 7. 137 lp 34 c. 16; nella biografia di Gregorio iii le colonne vitinee sono definite onychinae volutiles, v. lp 92 c. 5, per la qualifica di onychinae v. Liverani 2011, pp. 669-704; la foggia ad asse elicoidale del fusto di queste colonne, frutto di una notevole perizia tecnica, era di per sé una caratteristica eccezionale v. Nobiloni 1997, pp. 81-142, in part. pp. 126-127, figg. 71 e 72. 138 In realtà nessuna fonte contemporanea a Gregorio Magno riferisce di questa trave, tuttavia nella biografia di Sergio i (687-701) si nomina come già esistente una trabes ad ingressum confessionis, v. lp 86 c. 11, cfr. de Blaauw 1994, pp 553-555; per il più antico assetto costantiniano, ibid., pp. 475-477. 139 lp 92 c. 5. 140 Nobiloni 1997; Ward Perkins 1952, pp. 21-33 e da ultimo Kinney 2005, pp. 16-47, in part. pp. 23-24 e pp. 30-31; per il mito v. Tuzi 2002. 141 Si osservi che il termine «iconostasi» indica in contesti storici e culturali peculiari (i.e. la chiesa ortodossa russa del xvi secolo) una barriera presbiteriale con funzioni distinte, v. Walter 1971, pp. 251-267. 142 Il Filarete descrive la coppia di colonne vitinee in opera nell’oratorio di Giovanni vii Averlino detto il Filarete, Trattato di Architettura, ed. Finoli, Grassi 1972, p. 219. Per questa coppia di colonne vitinee in opera dall’inizio dell’viii secolo nell’oratorio di Giovanni vii, v. Ballardini 2010, pp. 99-100. 143 lp 98 c. 34. 144 Lanzani 1999, pp. 26-27. 145 In questo senso la pergula tradisce un «influsso bizantino», v. De Blaauw 1994, pp. 554-555 e p. 617.

146 Boesch Gajano 2004, pp. 44-48. 147 Per le imagines clipeatae cesellate nell’argento che rivestiva la trave del templon di S. Sofia nel vi secolo, v. Xydis 1947, pp.1-24, in part. p. 9 e le precisazioni di Fobelli 2005, pp. 181-183. 148 Le lampade della recinzione presbiteriale di S. Sofia sono paragonate da Paolo Silenziario a «luminose infiorescenze... si potrebbero chiamare alberi...», v. Paolo Silenziario, Descrizione della Santa Sofia, vv. 871-883 (ed. Fobelli 2005, pp. 89 e 163, figg. 28 e 38). 149 lp 92 c. 5; per le distinte accezioni con le quali la parola presbyterium è usata nel Liber Pontificalis, v. Ballardini in c. di st. 150 Se la prospettiva è diversa, viene dichiarato, per es. lp 105 c. 88: crocifixum... qui in laeva introitus parte inter columnas magnas positus (sic!). 151 «Nel 1492-1499 le colonne erano ancora tutte al loro posto, perché Arnoldo di Harff... accenna ad esse come facenti parte di un complesso unitario», v. Apollonj Ghetti, Ferrua, Josi, Kirschbaum 1951, pp. 185-186, e fig. 141. 152 La distanza tra la prima e la seconda fila di colonne vitinee è stata stimata di circa 3 m, v. De Blaauw 1994, p. 553. Considerata la profondità del transetto, la distanza tra il podio e il presbyterium poteva aggirarsi intorno ai 6,60 m. 153 Modernamente in una basilica cristiana con «presbiterio» si designa l’area riservata al clero officiante prossima all’altare e comprensiva della cattedra e dei subsellia; tuttavia nel Liber Pontificalis il termine non viene mai usato in questa accezione. 154 L’ambone di S. Pietro viene citato per la prima volta nella biografia di Pelagio i (556-561) v. lp 62 c. 2; un’iscrizione ne attribuisce uno, verosimilmente di marmo, a Pelagio ii (iunior) v. icvr-ns ii, n. 4118 e De Blaauw 1994, pp. 484-485. 155 L’ufficio era garantito a turno da quattro monasteri adiacenti alla basilica e da un sacerdote ebdomadario, v. de Blaauw 1994, pp. 596-598; Bauer 2004 pp. 54-56. 156 A Eugenio Russo si deve un fondamentale studio dedicato ai marmi paleocristiani e altomedievali della basilica vaticana che lo studioso raggruppa in due fasi cronologiche principali, a suo avviso da ascrivere a Gregorio Magno e a Gregorio iii, v. Russo 1985, pp. 3-33; Id. 2000, pp. 92-199, in part. pp. 195197 e p. 645 n. 349. Un parere diverso sui marmi da attribuire all’età di Gregorio Magno hanno espresso Claudia Barsanti e Alessandra Guiglia Guidobaldi, v. Barsanti, Guiglia Guidobaldi 1992, pp. 130-132 e Guiglia Guidobaldi 2002, pp. 1512-1524. I marmi dell’antico S. Pietro non sono stati mai censiti in modo sistematico e manca una catalogazione che tenga conto delle effettive provenienze e del luogo di rinvenimento dei frammenti; si tratta il più delle volte di informazioni difficili da ricostruire. Tra il xvi e il xvii secolo, le serie documentarie dell’Archivio della Fabbrica di S. Pietro attestano infatti un vivace commercio di marmi sia in entrata sia in uscita dalla basilica, da ultimo v. Ballardini 2008, pp. 229-236 ed Ead. 2010, pp. 141-148. 157 Krautheimer, Frazer 1980, pp. 204-205, fig. 174; De Blaauw 1994 pp. 548-551 e fig. 23 (pianta degli scavi del podio gregoriano con indicazione del muro m-n). 158 lp 98 c. 28; sui plutei di Leone iii, oggi nelle Grotte Vaticane, v. Ballardini 2008, pp. 235-237; sulla vicenda decorativa della Confessio «da Costantino al Rinascimento» da ultimo v. Lanzani 1999, pp. 11-41. 159 Lo scompaginamento della recinzione presbiteriale medievale avvenne per volere di Pio ii (145864); questo papa mise anche un po’ d’ordine tra le

innumerevoli sepolture che lastricavano il pavimento della basilica, De Blaauw 1994 p. 579 e p. 659 (con fonti); in effetti gli epitaffi trascritti da Alfarano in bav, Arch. di S. Pietro G. 5 sono quasi esclusivamente posteriori al xv secolo. 160 L’altare fu riconsacrato il 25 marzo 1123, domenica e festa dell’Annunciazione, Mallii Descriptio Basilicae Vaticanae in Codice Topografico iii (ed. Valentini, Zucchetti 1946), p. 435; prima dell’ultimo rifacimento, promosso da Clemente viii, Giacomo Grimaldi annotò l’iscrizione Callixtus ii papa che vide sulla fronte dell’altare medievale. v. bav, Barb. lat. 2733, f. 166r (ed. Niggl 1972, p. 205), v. Lanzani 1999, p. 31-32 (con riferimento alle spoliazioni occorse nel 1130 durante il contrasto tra Anacleto ii e Innocenzo ii); sull’altare di S. Pietro fino all’età moderna, v. De Blaauw 2008, pp. 227-241. 161 Il ciborio era verosimilmente ancora quello di Leone iv (847-855); esso fu sostituito da Onorio iii (1216-1227) che ne rivestì d’argento il padiglione (lp ii, p. 453); l’ultimo ciborio dell’antico altare dell’Apostolo fu il ciborio scolpito al tempo di Paolo ii e di Sisto iv, v. Silvan 1984, pp. 87-98 e Gallo 2000, pp. 342-351 e Roser 2005, pp. 103-118. L’altare, stretto tra le quattro colonne, si riconosce nell’affresco della Libreria Piccolomini di Siena (Pinturicchio, 1507); nell’affresco della Sala di Costantino (Scuola di Raffaello, 1520-11524) e nel disegno di Sebastian Werro (1581); Giacomo Grimaldi (1619) ne ha dato una rappresentazione diversa, ovvero con le quattro colonne appoggiate sopra la mensa, v. bav, Barb. lat. 2733, 169v (ed. Niggl 1972, p. 199, fig. 85). 162 lp ii, p. 323 (dono di tendaggi e paramenti, candelabri d’argento, campane e pavimenta). 163 De Blaauw 1994, pp. 562-563 (con ampio commento al passo del Caeremonialium opuculum di Paris de Grassi). Sulle cattedre papali e il loro simbolismo antiquario, v. Gandolfo 1980, pp. 339366; Id. 1981, pp. 11-28. 164 Sulla partecipazione all’impresa callistina del maestro Paolo v. Claussen 1987, pp. 10-12; De Blaauw ritiene che l’aggiornamento dell’arredo liturgico nello stile dei marmorai romani si fosse esteso anche al recinto presbiteriale (basso coro), De Blaauw 1994, pp. 658-659 e di nuovo Claussen 2002 p. 161 (che accoglie l’ipotesi di De Blaauw). Sul pontificato di Callisto ii da ultimo Stroll 2004. 165 L’invezione del trono papale cuspidato risponde alla definitiva consacrazione del mito della cathedra Petri, il trono di legno e avorio conservato in basilica dal 875, v. Gandolfo 1983, pp. 112-113; Maccarrone 1985, pp. 349-447; da ultimo Paravicini Bagliani, pp. 13-19. Per l’attribuzione a Innocenzo iii di un nuovo ambone (del maestro Lorenzo e figlio) e a Onorio iii (1216-1227) di un monumentale cero pasquale (del maestro Vassalletto), v. Claussen 1987, pp. 64-65 e Abb. 72 e 111-112. 166 Summa Petri sedes est h(a)ec sacra principis aedes mater cunctar(um) decor et decus ecclesiar(um) / devotus Chr(ist)o qui tenplo servit in isto flores virtutis capiet fructusq(ue) salutis. Il testo dell’iscrizione musiva è tradita in bav, Arch. Cap. S. Pietro A 64 ter, f. 50. 167 Il primo testimone a sottoscrivere il documento fu Tiberio Alfarano; sulla genesi del documento e la sua fortunata tradizione v. Ballardini 2004, pp. 7-80. 168 Sul mosaico absidale di S. Pietro nell’edizione innocenziana, v. Iacobini 1989, pp. 119-129; Pace 2003, pp. 1226-1235; Iacobini 2004, pp. 38-41; Casartelli, Ballardini 2005, pp. 155-160; Romano 2005, pp. 555-556; Ballardini 2009, pp. 242-243; Queijo 2012, pp. 62-66.

169 Di restauro «con mosaici» parlano i Gesta Innocentii iii, v. Queijo 2012, p. 63; cfr. Gesta di Innocenzo iii (ed. Barone, Paravicini Bagliani 2011), p. 275. 170 Sulla Traditio Legis della prima figurazione absidale di S. Pietro v. Schumacher 1959, pp. 1-39; Christe 1976, pp. 42-55; Spera 2000, pp. 288-293; Bisconti 2002, pp. 1633-1658, in part. pp. 1643-1646. 171 lp 73 cc. 1-4. 172 V. qui a nota 105 e Ballardini 2015, pp. 899-900. 173 «... aditus interior gazarum estuat opus /depicta nitent cumulis ipsa suis / aureis, in metalis gemmarum clauditur ordo / et superba teget blattea palla fanum...» v. icvr-ns ii, nn. 4119-4120 cit. in Krautheimer, Frazer 1980, p. 180. 174 v. Maccarrone 1991, pp. 517-519; questo il titulus della seconda metà del iv secolo: Iustitiae sedes fidei domus aula pudoris / haec est quam cernis pietas quam possidet omnis / quae patris et filii virtutibus inclyta gaudet / auctoremque suum genitoris laudibus aequat, v. ilcv i, n. 1753 e De Santis 2010, pp. 193194, n. 3. 175 Gandolfo 2004, pp. 30-32. 176 Per lo spirituale conjugium del pontefice con la Ecclesia Romana, v. Iacobini 1989, p. 126. 177 bav, Vat. lat. 2733, f. 164v (ed. Niggl 1972, p. 203) e Vegii De rebus antiquis memorabilibus basilicae S. Petri Romae (ed. Janningo 1717), p. 62; per una proposta di datazione del ciclo petrino nel transetto settentrionale v. Tronzo 1985, pp. 105-106 (vii secolo) e Kessler 1999, p. 265 (ix secolo); il dibattito critico è riferito e discusso da Viscontini 2006, pp. 412-413. 178 Viscontini 2006, pp. 411-415 e Pogliani 2006, pp. 24-25 con la visualizzazione degli acquerelli Grimaldi (1619) (bav, Vat. lat. 2733) nella ricostruzione 3D delle pareti nord e sud. 179 Tronzo ritiene che la Crocifissione ampliata fosse il frutto di un aggiornamento (tra il vii e il ix secolo) indotto, come già suggeriva Andrieu, dalla creazione in corrispondenza del sesto intercolunnio di un altare dedicato al culto della Croce, Tronzo 1985, p. 98 e Andrieu 1936, pp. 95-95. Kessler è più incline a una datazione della grande Crocifissione al pieno ix secolo, v. Kessler 1989, p. 49. 180 Kessler 1999, p. 266. 181 Tronzo 1985, pp. 93-112; Id. 1994, pp. 355-368; Kessler 2002 (capitoli i-iv). 182 Si ha notizia di una generale ridipintura della chiesa patrocinata da papa Formoso (891-896), v. lp ii, p. 227. 183 La notizia del restauro di Niccolò iii si deve a Tolomeo da Lucca (Historia ecclesiastica, ed. 1727, ris, xi, coll. 1180-1181); Bordi 2006, pp. 378-397 (per la dazione al pontificato di Leone Magno dei ritratti papali di S. Paolo). 184 La presenza di un cantiere musivo all’opera nella facciata di S. Pietro al tempo di Leone Magno (v. sopra) conforta una datazione alla metà del v secolo del fregio musivo con i clipei papali della navata. 185 Negli acquerelli che illustrano la controfacciata, Tasselli e Grimaldi descrivono accuratamente la trabeazione e il suo cornicione aggettante su mensoloni distinguendola dalle altre cornici marcapiano della parete, v. bav, Arch. Cap. S. Pietro A. 64 ter, f. 18 e bav, Barb. lat. 2733, ff. 116v, 118r e 120v-121r (ed. Niggl 1972, p. 152, fig. 57; p. 154, fig. 58; pp. 156157, fig. 59); questo dettaglio costruttivo permette di comprendere meglio la scelta operata da Antonio da Sangallo nell’allestimento del «muro divisorio» (v. sopra). 186 Krautheimer, Frazer 1980, pp. 253-254; l’altezza del piano liscio della trabeazione si ricava dal disegno quotato di Cherubino Alberti (Roma, Gabinetto Na-

zionale delle Stampe, vol. 2502), che fissa «... l’altezza di tutta la trabeazione a m. 2,88, cioè un’altezza equivalente a circa 1/3 della colonna completa di capitello e base», v. Carpiceci, Krautheimer 1996, p. 30 e fig. 34. 187 Ghiberti, I Commentari (ed. Morisani 1947), p. 36; Vasari, Le vite (ed. Barocchi, Bettarini, 1967), p. 186; Hetherington, 1979, pp. 122-123; Gandolfo 1988, p. 333 (sulla committenza Orsini); da ultimo Tomei 2000, pp. 13-14. 188 Tomei 2000, pp. 50-51. 189 Del monumento funebre di Bonifacio viii si conservano: il sarcofago con il giacente, due problematiche figure di angeli, alcuni frammenti architettonici (Grotte Vaticane) e due frammenti del mosaico torritiano (Mosca, Museo Statale delle Belle Arti Puškin e New York, The Brooklyn Museum). Il busto-ritratto di papa Caetani è invece conservato nel Palazzo Apostolico; bibliografia in D’Achille, Pomarici 2006, pp. 345-346. 190 L’iscrizione comprendeva anche la firma di Torriti, v. De Rossi 1891 pp. 73-100; Tomei 2000, p. 161, nota 53. 191 Tomei, 1990, pp. 127-129; Id. 2000, pp. 50-151. 192 Così Alfarano: «Di sopra il deposito de Bonifacio viii vi è l’immagine della Beata Vergine et del papa in genocchione con questa inscriptione Bonifatius pp viii [e nel margine]: fu restretta (et levata) l’inferriata di detta cappella nell’anno 1574», bav, Arch. del Cap. di S. Pietro G. 5, p. 173. 193 D’Arrigo 1980, pp. 373-378; Gardner 1983, pp. 513-515; Rash, 1987, pp. 47-58; Romanini 1983, pp. 43-45; Ead., 1986, pp. 203-209. 194 Lo stesso gesto è attribuito al celebre S. Pietro di bronzo, anch’esso di Arnolfo, che oggi si trova in basilica, ma che proviene dalla chiesa del monastero di S. Martino, adiacente all’abside della basilica antica; bibliografia in D’Achille, Pomarici 2006, p. 349; sulla «creatività e inventività» dei ritratti di Bonifacio viii, v. Paravicini Bagliani 2003, pp. 222-235. 195 Emerick 2005, p. 50 e p. 55. 196 Wirbelauer 2000, pp. 39-51; Sardella 2000, pp. 11-37 e Carmassi 2003, pp. 235-266. 197 lp 53 c. 7; da ultimo v. Brandt 2013, pp. 81-94 198 Sul significato di oratorium/oraculum nel Liber Pontificalis, v. Ballardini in c. di s.; sul precoce sviluppo degli oratoria in Occidente v. Mackie 2003. 199 lp 53 c. 6: gli altari erano dedicati ai santi Tommaso; Cassiano, Proto e Giacinto; Apollinare e Sossio (Pianta K nn. 70-74); sul mausoleo v. Gem 2005, pp. 1-45. 200 De Blaauw 1994, p. 567 e p. 596. 201 lp 94 c. 52 (interpolazione) e lp 95 c. 3 (interpolazione); sul mausoleo di Onorio, da ultimo McEvoy 2013, pp. 119-136 e sulla consacrazione della rotonda a S. Petronilla «monumento simbolo dell’alleanza tra il papato e la casa reale franca», v. De Blaauw 1994, pp. 576-577. 202 È certo tuttavia che i pellegrini sostassero in corrispondenza di alcuni luoghi di culto secondari della basilica, a questo proposito v. Bauer 2004, pp. 154-159, fig. 73 e Story 2013, pp. 261-266. 203 Emerick 2005, p. 55. 204 Canetti 2002, pp. 44-45. 205 lp 86 c. 12, in questo oratorio detto «dei quattro Leoni» si fecero seppellire anche Leone ii, Leone iii e Leone iv; per la vicenda moderna di questo sacello nell’area delle Grotte v. Lanzani 2010, pp. 47-52. 206 Oltre all’altare di Gregorio Magno erano stati dedicati altari secondari a san Sebastiano e ai santi Gorgonio e Tiburzio (Pianta nn. 48-49); questo oratorio fu incluso nei rituali preliminari all’incoronazione degli imperatori, v. Andrieu 1936, pp. 61-99;

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Note

De Blaauw 1994, pp. 574-575 e p. 735. 207 Picard 1969, p. 774. 208 Prima tra tutte la Madonna del Soccorso (dal sacello dei «quattro Leoni»); la Madonna della Colonna (dal colonnato settentrionale della navata maggiore); la Madonna della Bocciata (dal nartece della basilica); la Madonna della Febbre (dalla rotonda di S. Andrea) e, ovviamente, la Madonna Regina dell’Oratorio di Giovanni vii, v. Lanzani 2011, pp. 69-72 e 82-90; Turriziani 2011, pp. 207-233. 209 La scelta della porticus settentrionale (alla quale accedevano liberamente le donne) fu ignorata dai successori di Giovanni vii, che preferirono per i loro sacelli il transetto e la porticus meridionale. 210 Ballardini 2011, pp. 94-116 e Ballardini, Pogliani 2013, pp. 190-213, a questi testi si rinvia per ogni approfondimento (fonti e bibliografia). 211 Iohannis servi s(an)c(t)ae Mariae, v. Silvagni 1944, i, tav. xii, 6; Gray 1948, p. 49, n. 3; dopo alcuni spostamenti, l’epigrafe è oggi nelle Grotte Vaticane. Nordhagen ne ha sottolineato la fattura bizantina: «a feature almost unique in early medieval inscriptions from the West», v. Nordhagen 1969, pp. 113-119. 212 Sull’iscrizione dell’altare, v. Ballardini 2011, pp. 105-109 e pp. 114-115, nota 78. 213 Andaloro 1989, pp. 169-177; da ultimo Pogliani 2013, pp. 204-213; Ead. 2014, pp. 443-450. 214 Ballardini 2011, p. 110. 215 Bertelli 1961, p. 121, nota 11. 216 lp 92 c. 7; v. de Blaauw 1994, pp. 571-572; 596597; 661-664; Bauer 1999, pp. 385-446, in part. pp. 425-432; e Id. 2004, pp. 53-58. 217 Mallii Descriptio Basilicae Vaticanae Codice Topografico iii (ed. Valentini, Zucchetti 1946), pp. 387-388; Kempers, De Blaauw 1987, pp. 83-113. 218 De Blaauw 1994, p. 597. 219 Id., pp. 571-572; 661-664 e 702-705. 220 Per gli insigna v. Bertelli 1961, pp. 66-70. 221 Sul significato del termine absida nel Liber Pontificalis, v. De Blaauw 2003, pp. 105-114. 222 Manzari 2004, pp. 74, 77 e 84. 223 Bauer 1999, pp. 410-411. 224 de Blaauw 1994, pp. 663-664. 225 Il nome più popolare del Volto Santo, quello di Veronica, designa «con eloquente ambiguità» sia il Sudario con impresso il volto di Cristo, sia la sua originaria proprietaria, la santa Veronica, che una tarda leggenda riteneva addirittura sepolta nel medesimo oratorio v. Wolf 2000, pp. 103-114; sulla leggenda antica (vi secolo) e recente (dall’xi secolo) della Veronica v. Dobschütz 2006 (prima ed. 1899), pp. 149-189; sul culto del Volto Santo nell’oratorio di Giovanni vii, v. in part. le pp. 162-165; da ultimo Van Dijk 2013, pp. 229-256. Nella prospettiva di una Bildwissenschaft, v. Belting 2001 (prima ed. 1990), pp. 255-277 e Id. 2007, pp. 51-146. 226 Tronzo 1987, pp. 477-492 (con attribuzione dei mosaici a Celestino iii) e Pogliani 2001, pp. 505-523 (con attribuzione dei mosaici a Innocenzo iii). 227 Per le prime attestazioni del toponimo ubi dicitur a Veronice o in Beronica, v. De Blaauw 1994, p. 669; sul tipo, squisitamente romano, del ciborio con repositorio «per reliquie o per icone» v. Claussen 2001, pp. 229-249 in part. 229-234. 228 Celestinus pp iii fecit fieri / hoc opus pontificatus sui anno / vii Ubert(us) Placenti(ae) fecit as ianuas, v. bav, Barb. lat. 2733, f. 75r e 91v (ed. Niggl 1972 p. 107 e p. 122); sulle porte bronze Uberto per il palazzo del Laterano e per il ciborio del Volto Santo e sulla provenienza del maestro fonditore, v. Iacobini 1990, pp. 76-95. 229 Claussen 2001, p. 233. 230 bav, Arch. Cap. di S. Pietro H. 3, cc. 34v-35r.

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Note

231 Cfr. Manfredi 2009, pp. 63-87, in part. pp. 78-82. 232 Di norma la prima porta del Giubileo o porta Aurea si attribuisce ad Alessandro vi (1492-1503), insieme con la definizione del suo rito di apertura e di chiusura, v. Abbamondi 1997, pp. 51-54. 233 Contrariamente all’uso degli ecclesiastici, Sisto iv si fece seppellire con i piedi verso l’altare e cioè idealmente con il viso rivolto all’immagine della Vergine nell’abside. Iohannes Burckardus fornisce alcuni dettagli sulle disposizioni del papa, v. Burckardus, Liber notarum i (ed. Celani 1943), p. 16; anche l’iscrizione ai piedi del monumento bronzeo del Pollaiolo puntualizza la volontà del pontefice cum modice ad plano solo condi mandavisset, v. Gallo 2000, pp. 927-932; Roser 2005, pp. 188-197. 234 Nel verbale di sconsacrazione dell’altare di Sisto iv (16 novembre 1609), Grimaldi descrive dettagliatamente il deposito delle reliquie: sotto la mensa, in un labrum di porfido e dentro una cassetta di legno di cipresso, era custodito un reliquiario di avorio delle dimensioni di un palmo. La capsella, di raffinata fattura, era sigillata e conservava ancora su lamina di piombo l’iscrizione del tempo di Sisto iv. In essa si ricordava che l’8 dicembre 1479 «in conceptionis Beatae Mariae Virginis» l’arcivescovo di Salerno, Pietro Guglielmo de Rocha, aveva consacrato l’altare deponendo un cospicuo numero di reliquie. La prima menzionata nell’elenco era un frammento del velo della Vergine: «... et in hoc altare reliquias sanctorum infrascriptas recondidit de velo B. Virginis; de spatula s. Stephani protomartiris etc...», cfr. bav, Barb. lat. 2733, ff. 224v-225r (ed. Niggl 1972, p. 261). Circa trent’anni prima, nel 1577, l’altare della cappella aveva subito delle modifiche e in quell’occasione Tiberio Alfarano fu testimone dello stato inviolato delle reliquie, confermato nel 1609 da Grimaldi, v. Alpharani De basilicae Vaticanae (ed. Cerrati 1914), pp. 165-166. L’ipotesi che Sisto iv abbia rimosso l’altare dell’oratorio di Giovanni vii per aprirvi in corrispondenza la Porta Santa attende tuttavia una prova decisiva. Capitolo terzo 1 La costruzione del Nuovo S. Pietro fu commentata sin dall’inizio in testi letterari (Serlio, Vasari, Panvinio, Alfarano, Grimaldi, Ferrabosco/Costaguti, Carlo Fontana, Buonanni, Poleni). La letteratura di ricerca storico-artistica, che incomincia a partire dall’Ottocento, non può essere riassunta in questa sede; delle panoramiche sono proposte in opere collettive e in atti di congressi recenti (Spagnesi 1997, Petros Eni 2006, Satzinger/Schütze 2008). Come monografie citiamo: Rocchi Coopmans de Yoldi 1996, Satzinger 2006 e 2008, Frommel 1994a e 2008; inoltre i capitoli dedicati nella storia complessiva della basilica: Contardi 1998, Casalino 1999, Pinelli 2000, Tronzo 2005, Thoenes 2011; cfr. anche Thoenes 2013. 2 A questo proposito Thoenes 2009b. 3 T. Alfarano, De Basilicae Vaticanae antiquissima et nova structura. 4 A questo proposito Bredekamp 2000. 5 Per il xvi secolo si può calcolare una crescita in media della lunghezza (seguendo l’asse ovest-est) di circa 1,40 m per anno. 6 Cfr. n. 75. 7 Studio di base di Magnuson 1958; contributi più recenti: Burroughs 1990, Curti 1995, Frommel 1997, 2005 e 2006, Satzinger 2004, Thoenes 2005 e 2011, Niebaum 2007, Roser 2009; cfr. anche Bonatti/ Manfredi 2000.

8 Parte del testo in Magnuson 1958, pp. 351-362; testo completo in traduzione italiana in Modigliani 1999. 9 Modigliani 1999, p. 179. 10 Pastor, i, p. 428 n. 2. 11 Alberti, i, p. 75. 12 Magnuson 1958, p. 206. 13 Prodi 1982. 14 Cfr. pp. 175 ss. 15 Hubert 1988. 16 Compendio in Curti 1995; a tale proposito, di recente Satzinger 2005, Frommel 2005 e 2006. 17 Thoenes 2005, pp. 69s. 18 A questo proposito Günther 1997. 19 Per la prima volta probabilmente Dehio 1880. Sulla critica ora Massimo Miglio, in Modigliani 1999, pp. 13-18 e passim. 20 Urban 1963, p. 133; Tafuri 1992, pp. 63s. Interpretazione divergente in Frommel 1997. 21 Alberti, i, p. 75; ii, p. 999; i, p. 63. 22 Krautheimer 1961. 23 Alberti, i, p. 101. 24 Cfr. Thoenes 1999. 25 Anche Manetti menziona Rossellino (Bernardum nostrum florentinum): Magnuson 1958, p. 360. 26 Frommel 1983. L’occasione probabilmente fu data dalla reliquia di sant’Andrea donata al papa dall’ultimo imperatore di Bisanzio, che fu portata in processione solenne dal ponte Milvio a S. Pietro. 27 Cantatore 1997. 28 N. 50. 29 P. 241. 30 I progetti di Giulio ii e di Bramante sono oggetto sin dalla metà dell’Ottocento di controverse discussioni. Una panoramica delle posizioni sostenute oggi è proposta da Tessari 1996. Bibliografie recenti si trovano in cataloghi di mostre e atti di convegni (Petros Eni 2006, Barock im Vatikan 2006, Satzinger/Schütze 2008). Studi monografici (selezione): Frommel 1984, 2006 e 2008, Thoenes 1994b e 2005, Günther 1995, Kempers 1996, Shearman 2001, Bruschi 2003, Niebaum 2004 e 2008 (ultimo studio dettagliato), Satzinger 2004 e 2006, Bosman 2004, Klodt 2007, Brodini 2009, Tanner 2010, Bellini 2011. La raccolta di fonti Frommel 1976 rimane fondamentale per il seguente capitolo. 31 Condivi, 25; Vasari, vii, p. 163. 32 Cfr. Thoenes 1990/92. Il criterio per distinguere i tre progetti sono i rispettivi «schemi delle dimensioni», illustrati in Thoenes 2002, pp. 408-414. Sui disegni di Bramante menzionati in quanto segue, cfr. le singole analisi in Wolff Metternich/Thoenes. 33 Ipotesi di Hubert 1988. 34 Ridisegnato da Geymüller; cfr. ora Niebaum 2004. 35 Esempi precedenti in piante di edifici a croce latina a più navate: Duomo di Pavia, Loreto, progetti teorici di Francesco di Giorgio. Wolff Metternich/ Thoenes 1987, p. 22. 36 Thoenes 1982. 37 In gdsu 20 l’esistenza di una cupola secondaria si può dedurre dalle forme dei pilastri; il suo centro si trova sul margine del foglio. L’idea della «quincunx» quindi emerge nel contesto di un piano longitudinale. 38 «Sto. pietro di mano di Bramante» e «pianta di Sto. pietro di mano di Bramante che non ebbe effetto». Frommel/Adams, p. 64. 39 In ultimo Frommel 2006, pp. 42s.; Satzinger 2006, pp. 75s. 40 Krauss/Thoenes 1991/92. La medaglia, perciò, viene realizzata nel momento di passaggio dal i al ii progetto.

41 Wolff Metternich/Thoenes 1987, pp. 94-99. L’intero anello di colonne compare prima sul verso; sul recto fu schizzato rapidamente in un secondo tempo. 42 V. sopra, n. 32. 43 V. sotto, n. 73; cfr. anche Kinney 2005, p. 39. 44 Thoenes 2001. 45 gdsu 51a, 55a, 57a, 1542a (r. e v.); cfr. le relative schede in Frommel/Adams. 46 Guarna 1970, p. 58. 47 Wolff Metternich/Thoenes 1987, pp. 69-73. 48 Ibid., pp. 73-80 (lì ancora considerato come stadio preliminare di gdsu 20a). 49 Cfr. la cifra «72» sul margine sinistro di gdsu 20a (indicazione in Hubert 1988). 50 Bolla del 19 febbraio 1513; Frommel 1976, p. 126. 51 Giuliano da Sangallo, gdsu 7a, 9a e Cod. Barb. lat. 4424. Serlio presenta la sua pianta come progetto di Bramante completato da Raffaello dopo la morte di questi. A differenza che nella bibliografia più antica (Panvinio, Grimaldi, Buonanni), ciò, a partire da Geymüller, fu interpretato come se Raffaello fosse stato il primo ad aggiungere il corpo longitudinale. Cfr. Thoenes 1990/92. 52 Wolff Metternich/Thoenes 1987, pp. 105-108. 53 Cfr. le sezioni trasversali di Sangallo gdsu 54a e 70a. 54 Frommel 1976, p. 95, n. 26. Per quanto segue ibid., pp. 59-72. 55 Ibid., p. 100, n. 69. 56 Ibid., p. 127, n. 73. Per le affermazioni critiche di Alberti, cfr. cap. i, n. 15. Secondo Condivi 1998, p. 26, Giulio voleva rinnovare la basilica «con più bello e più magno disegno». 57 Per quanto segue, Günther 1997 e Miarelli Mariani 1997. 58 A questo proposito Ackerman 1974. De Grassis aveva perso anche le sue entrate provenienti dalla basilica dei SS. Celso e Giuliano demolita da Bramante. 59 V. sopra n. 46. 60 Per quanto segue, di nuovo Frommel 1976, pp. 59-72. 61 Sulla costruzione delle impalcature inoltre Wolff Metternich/Thones 1987, pp. 188-193. 62 Vasari, iv, p. 162; Wolff Metternich/Thoenes 1987, p. 188. 63 Vasari, iv, p. 157. 64 Ackerman 1974. 65 Wolff Metternich/Thoenes 1987, p. 127; Thoenes 1990/92, p. 159. 66 Wollf Metternich/Thoenes 1987, pp. 164-169; leggermente diverso Frommel 1994, p. 610. 67 Frommel 1976, pp. 98s., n. 8; Wolff Metternich/Thoenes 1987, p. 45. 68 A questo proposito Thoenes 2008a. 69 Alberti, ii, pp. 604s. 70 Ibid., ii, pp. 614s. 71 Frommel 1976, p. 105, n. 121. 72 Wolff Metternich/Thoenes 1987, p. 118; Denker-Nesselrath 1990, pp. 79-90. 73 40 palmi ≈ 30 piedi romani, v. sopra, n. 14. 74 Su disegni di Antonio da Sangallo trattato in quanto segue cfr. Frommel/Adams (testi A. Bruschi), inoltre Bruschi 1992, Frommel 1994a, Niebaum 2011; su Peruzzi, Bruschi 1990/92 e Hubert 2005. 75 Frommel 1976, pp. 82 e 109, n. 175. 76 Ibid., pp. 81s. e 101; cfr. anche Thoenes 1997b, p. 28, n. 36. 77 Shearman 2003, i, pp. 180-184. 78 Shearman 1974, Tronzo 1997, Frommel 1994a. 79 Apollonj Ghetti 1951, i, p. 208. 80 Shearman 1974.

81 Cfr. n. 4. 82 Shearman 2003, i, pp. 186-189. 83 Cfr. Niebaum 2011, p. 48, n. 33. 84 gdsu 44a. Sulla «nicchia di Fra’ Giocondo» Wolff Metternich/Thoenes 106; Niebaum 2006. 85 Fig. : Frommel 1984, pp. 270-273; Id. 1994, pp. 617s. 86 Fig. : Frommel, ibid. 87 Su questo aspetto cfr. anche Hubert 2008. 88 «opionione», didascalia di mano di Sangallo. 89 Il disegno gdsu 1973f si occupa più di problemi di rappresentazione che di progettazione; gli schizzi pubblicati da Gnann all’Albertina aspettano ancora un’interpretazione soddisfacente. Gnann 2008; cfr. anche Frommel 2000 e 2006; Klodt 2007. 90 Sulla datazione in ultimo Niebaum 2011, p. 17. 91 Cfr. gdsu 34a. 92 «Memoriale» (cfr. n. 17), punto 5. 93 Jung 1997. Sulla prassi di disegno di Peruzzi, cfr. anche Tuttle 1994. 94 Serlio, 37. 95 Vasari, iv, p. 599. 96 Cfr. p. 241. 97 Realizzato sotto Adriano vi, tra il gennaio 1522 e il settembre 1523; Niebaum 2008, p. 55, n. 19. 98 Dacos 1995, p. 134; cfr. Thoenes 2002, p. 274, Jatta 2006. 99 Bellini 2011, i, p. 23; Niebaum 2013, p. 68. 100 Per quanto segue Prodi 1994. 101 Tuttle 1994; Frommel 1994, p. 230. 102 gdsu 12a, 15-19a. 103 In realtà raccolte di fogli incollati. Vedi ora Bartsch/Seiler 2012. 104 Su quest’aspetto Thoenes 1986. 105 Krautheimer 1949. 106 «Memoriale» (cfr. n. 17), ultimo paragrafo. 107 Cfr. n. 84. 108 Sulle condizioni della costruzione alla morte di Sangallo, cfr. Giovannoni 1959, pp. 146-150; Millon/ Smyth 1976, pp. 141ss.; Bellini 2011, ii, p. 299. I progetti Sangallo si possono seguire al corpus dei disegni Frommel/Adams (testi Ch. Thoenes); analisi in Bruschi 1992, Frommel 1994a e 1999; Thoenes 1994a e 1998; Benedetti 2009. 109 Reinhardt 1996, pp. 282 e 291s. 110 Saalman 1978, p. 492 (doc. 9). 111 Bruschi 1989, p. 187. 112 Frommel 1964; Kuntz 2005 e 2009. 113 La stessa cosa era stata fatta da Peruzzi: gdsu 11a, r e v; cfr. anche 26a, 105a. 114 Risulta quindi la cronologia seguente: gdsu 39a (1534/38) – 40a (1537/38) – 119a (1538) – 256a (Fine 1538). 115 Cfr. però Frommel/Adams 88 (gdsu 66a). 116 Wolff Metternich/Thoenes 1987, p. 175. 117 Sulle bozze di progetto di Sangallo per la cupola: Thoenes 1994a, 1996, 1998, 2002, pp. 469s.; Benedetti 1992, 1994, 2009; Zanchettin 2011. 118 Vasari, V, 467. 119 gdsu 41a, 71a, 110a, 114a, 84a, 42a, 83a. 120 Sul modello, v. l’ampio studio di Kulavik 2002 (ora disponibile in pdf); inoltre Benedetti 1994 e 2009, Thoenes 1994a e 1998. 121 Non si può riconoscere come il papa potesse arrivare nella loggia delle benedizioni dal piano nobile del Palazzo. 122 A questo proposito Benedetti 1994. 123 Vasari, V, 468. 124 Hierzu Hager 1997a. 125 Thoenes 1994, pp. 646s., ed Evers 1995, pp. 367-371. 126 Thoenes 1994, pp. 648-650, ed Evers 1995, pp. 372-377.

127 Ipotesi di Kulawik. 128 gdsu 2a. 129 Sangallo li chiama anche «tempietti» (gdsu 65a). Cfr. anche Thoenes in Frommel/Adams iii (non ancora uscito). 130 Evers 1995, pp. 373s. 131 gdsu 267a. Thoenes 1994a. 132 Thoenes 2002, pp. 467s., e il lavoro lì citato di Maria Teresa Bartoli. 133 Vasari, v, p. 467. 134 gdsu 1173a. 135 Thoenes 1992a, p. 54, n. 16. 136 Ibid., p. 53. 137 Cfr. n. 43. 138 Altezza: larghezza in Bramante circa 20:18 m; in Sangallo circa 16:18 m. 139 Zollikofer 1997. 140 Vasari, v, 467. 141 Le fonti primarie sono il carteggio di Michelangelo e le biografie contemporanee di Condivi e Vasari (Vasari/Milanesi), quest’ultima in una nuova edizione e con un esaustivo commento ad opera di Paola Barocchi (Vasari/Barocchi). Lo (scarso) materiale di disegni in Tolnay 1975-80. Una presentazione complessiva, che tocca tutti gli aspetti, è data ora da Bellini 2011; lì la bibliografia precedente in materia. Cfr. la recensione di Vitale Zanchettin in Argos 2011, e i contributi di questi: Zanchettin 2006 e 2008. 142 Per quanto segue, a parte Bellini, Saalman 1978, De Maio 1978, Bardeschi Ciulich 1977 e 1983, Brodini 2009 e 2012. 143 De Maio 1978, pp. 309ss. 144 Ciononostante, Nanni di Baccio Bigio restò in carica fino al 1563 (Bellini i, 2011, p. 54). 145 Da ultimo: Bredekamp 2008. 146 Prodi 1982. 147 Carteggio, iv, pp. 251s. 148 Ibid., v, 30 e 35 s. 149 Vasari/Milanesi, IV, 162 s.; cfr. Thoenes 2008 b, 64 s. 150 Come n. 147. 151 Saalman 1978, p. 491. 152 Vasari/Milanesi, VII, 220 s. 153 Come n. 7. 154 Sui modelli di Michelangelo: Bellini 2011, i, pp. 113s., cfr. anche Argan/Contardi 1990, pp. 324s. 155 Thoenes in Evers 1995, pp. 373s. 156 Vasari/Milanesi, v, p. 467. 157 «Chiunque s’è discostato dal decto ordine di Bramante, come à fatto il Sangallo, s’è discostato dalla verità», Carteggio, iv, pp. 251s. «Verità»: qui da intendersi come autenticità, schiettezza, trasparenza, nel senso dei coincidere di interno ed esterno, di forma e costruzione. 158 Sulla discussione relativa all’attico, in ultimo Bellini 2011, i, pp. 154-163. 159 Carteggio, iv, pp. 271s. 160 Ibid., v, p. 30. 161 Sulla costruzione della cupola di Michelangelo e di Della Porta dettagliatamente Bellini 2011, i, pp. 293-403. 162 Vasari/Milanesi, vii, pp. 248-257. 163 Bellini 2011, i, p. 50. 164 Carteggio, v, pp. 117s. Su quest’aspetto, cfr. Zanchettin 2006 e 2008. 165 Per le date che seguono, soprattutto Bellini 2011, i, passim. 166 In ultimo Brodini 2005. Il modello in legno dell’abside fu scoperto nel 1960 da Wolff Metternich. 167 Carteggio, v, p. 123; Frings 1998 (lì la frase viene riferita a torto alla cupola). 168 Bellini 2011, i, pp. 151-188. 169 Vasari/Milanesi, vii, pp. 249-257. Sulle incisioni

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Note

di Dupérac, cfr. Bedon 1995 e 2008, pp. 198s; Bellini 2011, i, pp. 166ss. 170 Keller 1976, pp. 36s. e passim. 171 Ibid.; Bellini 2011, i, pp. 167ss. 172 Bellini 2011, i, pp. 71s. e 178s. 173 Ibid., 173 ss. 174 Per quanto segue Brodini 2009. 175 Ibid., pp. 135-143; Bortolozzi 2012, p. 298. 176 Thoenes 2006, p. 81. 177 Thoenes 2009/10, p. 58, n. 41; Bellini 2011, i, pp. 212-217. 178 In ultimo: Curcio 2011. 179 L’origine del detto non è chiara. Krauss/ Thoenes 1991/92, p. 189. 180 Bellini, 2011, i, pp. 371-403. 181 Ibid., pp. 375s. 182 Ibid., p. 374. 183 Ibid., pp. 361, 384-392. 184 Ibid., pp. 361-365, e passim. 185 Ibid., p. 395. 186 Le fonti più importanti sull’antefatto si trovano in Pastor, xii; cfr. anche De Maio 1978, Jobst 1997. Gli avvenimenti sotto Paolo v sono illustrati vivacemente in Orbaan 1919. Su Maderno è fondamentale Hibbard 1971; inoltre i contributi di Thoenes 1992b, McPhee 2002, Kuntz 2005, Connors 2006 e Dobler 2008. L’ultima presentazione complessiva è stata scritta da Anna Bortolozzi nel 2012, con ampia bibliografia. 187 Thoenes 1997b e 2013. 188 Alfarano/Cerrati 1914. 189 Bortolozzi 2012, p. 314. 190 Ibid., pp. 284 f. e 313. 191 Per quanto segue Jobst 1997. 192 Silvan 198/9; secondo Bentivoglio 1997 un esemplare dell’incisione fu ritagliato e incollato nel nuovo progetto. 193 A questo proposito Thoenes 2009 b,

Note

194 De Maio 1978, pp. 326ss. 195 Alfarano/Cerrati 1914, pp. 24 s. Cfr. Bortolozzi 2012, pp. 312s. 196 Thoenes 1968; cfr. sopra n. 7. 197 Wassermann 1966 lo data al 1584-85. 198 Thoenes 1992b, pp. 172s.; Bortolozzi 2012, pp. 285 e 289. 199 Thoenes 1968; Bortolozzi 2012, p. 291. Il foglio oggi è smarrito. Per la datazione cfr. Thoenes 2012, p. 55. 200 Bortolozzi 2012, pp. 296-311. 201 Ibid., p. 291. 202 Pastor, xii, p. 584. 203 Thoenes 1963, p. 112. Paolo stesso citò come esempio Sisto v (Bortolozzi 2012, p. 285). 204 Bortolozzi 2012, p. 284. 205 Ibid., p. 285; cfr. De Maio 1978, p. 327. 206 Niggl 1971. 207 Cfr. la «lettera dedicatoria» di Maderno a Paolo v, Bredekamp 2008, pp. 110-115. 208 Bortolozzi 2012, p. 307. 209 A questo proposito ora Kuntz 2005. 210 Orbaan 1919, pp. 15, 18, 62. 211 Marconi 2004. 212 Thöne 1960. 213 McPhee 2002; Struck 2012. 214 Thoenes 1992a, p. 61. 215 Bellini 2002; cfr. anche Thoenes 1990. 216 Per quanto segue, cfr. le singole analisi in Thoenes 1992b. 217 Thoenes 1963, pp. 112s. 218 Cfr. cap. iv, n. 5. 219 Kuntz 2005. 220 Thoenes 1963, p. 130. 221 Cap. v, n. 17. 222 Thoenes 2006. 223 Bosman 2002. 224 Per quanto segue fondamentale Lavin 1968; in

ultimo Dobler 2008 e De Blaauw 2008. 225 Pergolizzi 1999; Lanzani s. a. Cfr. anche McPhee 2008. 226 Bortolozzi 2011. 227 Torrigio 1618; Lanzani/Zander 2003; Lanzani s. a. 228 Fondamentali sono state le ricerche di Rudolf Wittkower, in Brauer/Wittkower 1931. Sintesi più recenti sono proposte da Fagiolo 1967 e Marder 1998; inoltre contributi di Satzinger, Schütze e Kemper in Barock im Vatikan 2006. 229 Sono inclusi nel conto Paolo v e Gregorio xv, per cui Bernini lavorò soltanto come scultore. 230 Baldinucci 1682, p. 7. 231 Bortolozzi 2012, pp. 307s. e passim. 232 Per quanto segue Lavin 1968 e 1984, Kirvin 1981, Preimesberger 1983, 1992 e 2008, Connors 2006b, Schütze 2008. 233 Ward Perkins 1952; Kinney 2005, 29-31 e passim; Tuzi 2002. 234 Rice 2008. 235 McPhee 2002 e 2008; Connors 2006a. Cfr. anche sopra, n. 213. 236 Così ancora Ferrabosco, tav. xvi. 237 Brauer/Wittkower 1931, p. 42 f. e 80 f. 238 Ibid., pp. 64-102; inoltre Thoenes 1963 e 2010, Guidoni Marino 1973, Haus 1970 e 1983/84 Krautheimer/Jones 1975, Del Pesco 1988, Marino 1997, Sladek 1997, Haus 1997. 239 Thoenes 1963, pp. 122-124. 240 Hager 1997b. 241 Haus 1970. 242 Brauer/Wittkower 1931, pp. 77s. («iii. Bericht»). Per il carattere topico dell’affermazione Haus 1970, p. 65. 243 Marder 1997; cfr. anche Thoenes 2010, p. 82. 244 L’ampia letteratura in materia si trova in Thoenes 2010, p. 79. 245 Guidoni Marino 1973.

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Capitolo primo In questa sede non si può che proporre una selezione della sterminata bibliografia su S. Pietro, gli studi fondamentali e le ricerche più recenti, che rimandano a loro volta alla letteratura precedente. Bibliografie più dettagliate si trovano in Arbeiter 1988, pp. 238-255, Brandenburg 2013, p. 357, e nell’antologia su S. Pietro a cura di R. McKitternick et alii 2013. Alföldy 1990 G. Alföldy, Der Obelisk auf dem Petersplatz in Rom. Ein historisches Monument der Antike, Heidelberg 1990. Andaloro 2006 M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico e le nuove immagini (312-468), in M. Andaloro, S. Romano, La pittura medievale a Roma (312-1431). Corpus e Atlante, Corpus i, Jaca Book, Milano 2006. Andaloro, Romano 2006 M. Andaloro, S. Romano (a cura di), La pittura medievale a Roma (312-1431). Corpus e Atlante, Corpus i, Jaca Book, Milano 2006. Apollonj Ghetti, Ferrua, Josi, Kirschbaum 1951 Esplorazioni sotto la confessione di San Pietro in Vaticano eseguite negli anni 1940-1949, relazione a cura di B.M. Apollonj Ghetti, A. Ferrua, S.J. E. Josi, E. Kirschbaum, S.J., prefazione di Mons. L. Kaas, Appendice numismatica di C. Serafini, 2 voll., Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1951. Arbeiter 1988 A. Arbeiter, Alt-St. Peter in Geschichte und Wissenschaft. Abfolge der Bauten, Reconstruktion, Architekturprogramm, Mann, Berlin 1988. Barnes 2011 T. Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Wiley-Blackwell, Oxford 2011. Bartolozzi Casti 2010-2011 G. Bartolozzi Casti, La Basilica Vaticana tra Medioevo e Rinascimento: la distruzione del Mausoleo degli Anici, in Atti della Pontificia Accademia romana di archeologia, Rendiconti iii serie (2010/2011), pp. 427-455. Bentivoglio 1997 E. Bentivoglio, Tiberio Alfarano: le piante del vecchio S. Pietro sulla pianta del nuovo edita dal Duperac, in G. Spagnesi (a cura di), L’architettura della basilica di S. Pietro: storia e costruzione, Atti del Convegno (Roma 1995), Roma 1997, pp. 247254. Biering, von Hesberg 1987 R. Biering, H. von Hesberg, Zur Bau- und Kultgeschichte von St. Andreas apud S. Petrum. Vom Phrygianum zum Kenotaph Theodosius d. Gr.?, in «Römische Quartalschrift», 82 (1987), pp. 145-182.

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INDICE DEI NOMI DI LUOGO E DI PERSONA

A Adriano i, papa 44, 46, 47, 52, 53, 63, 67 Adriano iv (Nicholas Breakspear), papa 55 Adriano vi (Adriaan Florenszoon Boeyens d’Edel), papa 194, 206, 207 Agostino, santo 26, 32 Alberti, Alberto 21 Alberti, Cherubino 36 Alberti, Leon Battista 13, 169, 173, 188, 189 Albertini, Francesco 186 Alessandria 12, 13 Alessandro Severo, imperatore 29 Alessandro iii (Rolando Baldinelli), papa 54, 165 Alessandro vi (Rodrigo Llançol Borgia), papa 298 Alessandro vii (Fabio Chigi), papa 168, 286, 293, 295, 297, 299; 297 Alfarano, Tiberio 13, 14, 20, 22, 25, 27, 28, 36, 38, 41-44, 46, 47, 50, 65, 75, 166, 265, 266, 270, 272; 36, 38, 266, 267 Ambrogio, santo 32 Ammiano Marcellino 32 Anagni lastrina 62; 62 Antiochia 12 palazzo urbano di Daziano 9 Antonio di Pellegrino 188, 195; 188 Arnolfo di Cambio 65; 50, 66 Aronne 25 Avignone 50, 169 Aymo da Varignana, Domenico 196; 186, 196

B Balthasar, Hans Urs, von 271 Baronio, Cesare cardinale 22, 270 Barozzi, Giacomo v. Vignola Belisario, generale 33 Bellini, Federico 244, 252 Benedetto i, papa 32 Benedetto xii (Jacques Fournier), papa 53, 54; 53 Benjamin, Walter 43 Bernini, Gian Lorenzo 165, 168, 213, 286, 290-293, 295, 298, 299; 146, 286, 290, 295, 297-299 Bertelli, Carlo 70 Betlemme 11, 18 Bologna 173, 208 basilica di S. Petronio 208

Bonacina, G.B. 299 Bonifacio Natale da Sebenico 38, 41, 42; 36 Bonifacio viii (Benedetto Caetani), papa 65, 66; 64, 65 Borromini, Francesco 286, 290; 291 Bos, Jacob 186 Bracciolini, Poggio 172 Bramante, Donato 13, 38, 165-169, 172, 174, 175-177, 180-188, 194-198, 200, 202-206, 208-210, 212, 218, 219, 230, 234, 236, 238-242, 244-248, 252, 265, 266, 274, 276, 286; 171, 176, 177, 179, 180-182, 184, 186, 190, 195 Bril, Matthijs 44 Brunelleschi, Filippo 172, 188, 189, 219, 265 Bruschi, Arnaldo 187 Bufalini, Leonardo 238; 239 Buonarroti, Michelangelo 38, 41, 42, 146, 166, 168, 174, 175, 181, 184, 185, 213, 234, 239-248, 250, 252, 265-268, 271, 272, 274, 286, 292; 122, 130, 132, 133, 24, 243, 246 Buontalenti, Bernardo 268 Burgkmair, Hans 75

C Caligola, imperatore 13 Callisto ii (Guido dei Conti di Borgogna), papa 61 Callisto iii (Alfonso de Borja y Cabanilles), papa 172 Capgrave, John 44, 48 Caramuel de Lobkowitz, Juan 299 Cardi, Ludovico, v. Cigoli Carlo Magno 25, 32, 46, 52, 53, 61, 63; 104 Carlo v, imperatore 206, 208 Carrara Museo civico del marmo di Carrara 23 Castiglione, Baldassar 186 Celestino iii (Giacinto Bobone Orsini), papa 74 Cerrati, Michele 38 Chenevières, Jean de 196; 196 Ciacconio, Alfonso 42 Cibele 13 Cigoli, Ludovico Cardi detto il 167, 268, 270; 269 Cimitile (Napoli) santuario di S. Felice 26 Claussen, Peter Cornelius 74

Clemente vii (Giulio de’ Medici), papa 194, 207, 208 Clemente viii (Ippolito Aldobran­dini), papa 266, 270, 290, 291 Coecke van Aelst, Pieter 206, 210; 110 Conti, Sigismondo dei 185 Coolidge, John 250 Cortesi, Paolo 185 Costante i, imperatore 29 Costantina, figlia dell’imperatore 18, 20 Costantino il Grande, imperatore 9-20, 24, 25, 29, 30, 32, 33, 41, 53, 57, 185, 188, 266, 276; 56, 100 Costantinopoli 9, 12, 29, 57, 174 chiesa di S. Maria di Blacherne 70 Costanzo Cloro 18 Costanzo ii, imperatore 14, 29 Cronaca, Simone del Pollaiolo detto il 47, 46

D Damaso i, papa 27, 28, 66 Daziano, senatore, console 9 De Blaauw. Sible 71, 73 Della Porta, Giacomo 166, 185, 234, 245, 248, 250, 252, 265, 267; 135, 267 Della Porta, Guglielmo 248 De Rossi, Giambattista 65 Diocleziano, imperatore 23 Dosio, Giovanni Antonio 13; 28, 250 Drei, Pietro Paolo 295 Dupérac, Étienne 38, 238, 247, 248, 250, 266, 267, 268, 274; 38, 121, 239, 249

E Efeso 16 Egeria, pellegrina 16 Egidio da Viterbo 186, 188, 212 Egitto 21 Elena, santa 20, 25 Emerick, Judson J. 67 Eraclio, imperatore 53 Erasmo da Rotterdam 185, 186, 206 Ercolano, Giacomo 42 Europa 173, 194, 252 Eusebio di Cesarea 9, 11, 12, 17, 21, 24, 27, 30 Eutichio, esarca 57 Eutropio 18

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Indice dei nomi di luogo e di persona

F Farnese, Alessandro cardinale 41 Ferrabosco, Martino 171, 241, 272; 272, 295 Filarete 52, 57 Filippo, apostolo 12 Firenze 169, 196, 207, 240, 245 basilica di S. Lorenzo 207 Biblioteca Medicea Laurenziana 207 Duomo 172, 181, 219, 220, 243 Fontana, Carlo 144 Fontana, Domenico 13, 252 Fouquet, Jean 104 Francesco del Cera detto Francesco del Brogo 173 Francisco de Hollanda 13, 47 Frazer, James 42 Fulda (Germania) basilica del monastero 15 Fulvio, Andrea 186

G Gaio, scrittore cristiano 12 Galla Placidia, imperatrice 29 Gargario, Quintiliano 62 Gerusalemme 11, 18, 20, 33, 212 Santo Sepolcro 14, 16, 33 Ghiberti, Lorenzo 65 Giacobacci, Domenico cardinale 19 Gilio, Carlo 140 Giocondo, Giovanni da Verona, detto Fra’ 195-197, 207, 210; 198 Giona 30 Giotto 50; 73, 96 Giovanni, evangelista, santo 66 Giovanni Battista, santo 66 Giovanni da Capestrano, santo 172 Giovanni vii, papa 68, 70, 74, 75 Giove 32 Giuliano, imperatore 29 Giulio Romano, Giulio Pippi de’ Jannuzzi detto 240 Giulio ii (Giuliano della Rovere), papa 13, 35-37, 41, 165, 168, 172, 175, 177, 185, 186, 188, 194, 197, 208, 212, 213, 241, 266, 286; 177, 186 Giulio iii (Giovanni Maria Ciocchi del Monte), papa 240 Giunio Basso, prefetto 30; 32 Grassis, Paride de 186 Graziano, imperatore 29, 32 Grecia 21 Gregorio di Nazianzo (Nazianzeno), santo 44 Gregorio di Nissa, santo 26 Gregorio i Magno, papa 26, 32, 33, 52, 56, 57, 60, 61, 67; 54, 60 Gregorio iii, papa 33, 56, 57, 60, 70, 71, 73; 60

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Indice dei nomi di luogo e di persona

Gregorio iv, papa 67 Gregorio ix (Ugolino dei Conti di Segni), papa 49, 62, 65; 26, 48 Gregorio xiii (Ugo Boncompagni), papa 41, 43, 65, 248, 252 Gregorio xiv (Niccolò Sfondrati), papa 265 Gregorio xv (Alessandro Ludovisi), papa 290 Greuter, Mattheus 271; 271 Grimaldi, Giacomo 13, 18, 22, 23, 25, 36, 45-51, 53, 54, 61, 64, 65, 69, 75, 270, 272; 45, 70, 75, 98, 100 Guarna, Andrea 180, 184, 186 Guidi, Stefano 187

H Heemskerck, Maarten van 13, 36, 45, 64, 185, 206, 208-212; 108; 113, 114, 116, 174, 209-211 Hierapolis (Frigia) 12

I Innocenzo ii (Gregorio Papareschi), papa 45, 54 Innocenzo iii (Lotario dei Conti di Segni), papa 18, 49, 54, 61-65; 63 Innocenzo viii (Giovanni Battista Cibo), papa 43, 74, 212 Innocenzo x (Giovanni Battista Pamphili), papa 286, 292, 295 Instanbul basilica di S. Sofia (Hagia Sophia) 57, 184, 189 Isacco 30

K Kempers, Bram 71 Krautheimer, Richard 42 L Labacco, Antonio 226, 227, 230, 239-241, 248; 227, 232 Lafréry, Antoine 240 Lampadio, pretore Le Goff, Jacques 75 Leone i (Leone Magno), papa e santo 18, 20, 25, 26, 32, 49, 52, 67 Leone iii, papa e santo 25, 57, 61; 60 Leone iv, papa e santo 52, 53 Leone x (Giovanni di Lorenzo de’ Medici), papa 182, 194, 195, 197, 200, 205-207 Letarouilly, Paul-Marie 218 Licinio, imperatore 9, 16, 19, 20 Ligorio, Pirro 248 Ludovico ii, imperatore 52 Lutero, Martin 194

M Macario, vescovo 14 Maderno, Carlo 146, 168, 213, 267, 270272, 274, 286, 290, 292; 135, 268, 269, 275 Maggi, Giovanni 271, 272; 137, 272 Magnuson, Torgil 171 Maiorano, imperatore 24 Mallio, Pietro 36, 38, 46, 52, 74 Mamre 11 Manetti, Gianozzo 168, 169, 171- 173 Manzari, Francesca 73 Maometto ii 173 Marianus, console 26 Mascardi, Jacopo 137, 272 Mascherino, Ottavio 267; 267 Massenzio 9, 23 Melania la Giovane 10 Milano chiesa di S. Lorenzo 29, 181, 189 chiesa di S. Satiro 177, 189 Duomo 181, 189 Monte degli Ulivi 11 Mosè 18, 25 Mucante, Giovanni Paolo 266 Muffel, Nicolaus 44

N Naldini, Giambattista 125; 250 Nerone, imperatore 12 Niccolò iii (Giovanni Gaetano Orsini), papa 49, 51, 64 Niccolò v (Tommaso Parentucelli), papa 13, 45, 75, 165, 166, 168, 169, 172-175, 180, 184, 185, 188, 299; 171 Noè 25

O Onorio, imperatore 16, 25, 29, 32 Onorio i, papa 52, 63 Ostia Museo di Ostia Antica 23

P Palestina 9, 11 Pallotta, evangelista cardinale 43 Palmieri, Mattia 173 Pammachio, senatore 30 Pannini, Giovanni Paolo 146 Panvinio, Onofrio 24, 54, 185, 266 Paolino da Nola 10, 25-27, 30 Paolo, santo 12, 18, 25, 28, 43, 49, 50, 52, 62, 65; 30, 74 Paolo Silenziario 57 Paolo i, papa 47, 67 Paolo ii (Pietro Barbo), papa 174; 174 Paolo iii (Alessandro Farnese), papa 36-38,

43, 64, 168, 202-204, 208, 209, 212, 213, 220, 237, 240; 36, 95, 213, 214 Paolo v (Camillo Borghese), papa 25, 35, 168, 174, 265, 270-272, 286, 290, 295 Pasquale i, papa e santo 67 Pelagio ii, papa 33, 55, 60, 61 Perugia 46 Perugino, Pietro Vannucci detto il 75 Peruzzi, Baldassarre 13, 21, 166-168, 194, 196, 197, 203-206, 208, 213, 230, 265, 291; 23, 204-206, 208, 209 Petronilla 67 Pietro, santo 9, 10, 12-14, 18-20, 28, 32, 43, 49-52, 62, 64, 65, 270; 30-32, 50, 51, 74, 75, 195 Pio ii (Enea Silvio Piccolomini), papa 44, 51, 74, 172, 173, 207 Pio v (Antonio Michele Ghislieri) papa e santo 243, 248 Pio xii (Eugenio Pacelli), papa 10 Pippi de’ Jannuzzi, Giulio v. Giulio Romano Preconneso (mar di Marmara) 23 Procopio 32 Prudenzio 18, 20, 28

R Raffaello 194-198, 200, 202, 203, 206, 210, 238, 240, 246, 291; 56, 100, 198 Rainaldi, Carlo 295; 297 Roma 9, 10, 12, 29, 32, 42, 52, 53, 60, 73, 173, 185, 194, 195, 206, 208, 209, 265, 286, 293; 239 basilica di S. Croce in Gerusalemme 20 basilica di S. Giovanni in Laterano (basilica lateranense) 9, 15, 20, 24, 27, 28, 44, 57, 286 basilica di S. Lorenzo 24 basilica di S. Maria del Popolo 189 basilica di S. Maria Maggiore 24 basilica di S. Paolo Fuori le Mura (basilica ostiense) 15, 16, 24, 25, 27, 33, 42, 64, 65 Campidoglio 32 chiesa dei SS. Apostoli 27 chiesa di S. Cecilia 27, 65; 28 chiesa di S. Giorgio al Velabro 50 chiesa di S. Maria in Trastevere 71 chiesa di S. Maria in Turri 45

chiesa di S. Pudenziana 18 Colosseo 236 complesso monumentale di S. Agnese mausoleo di Costantina 29 mausoleo di Adriano (Castel S. Angelo) 27, 33, 207, 208 mausoleo di Elena 29 palazzo dei Conservatori 181 palazzo della Cancelleria 212; 214 Pantheon 177, 181, 185, 189, 202, 219,

236, 243, 248, 252, 286, 291 ponte Sant’Angelo (Pons Aelius) 32 Tempietto di S. Pietro in Montorio 184, 189 via dei Banchi Vecchi 32 via del Banco di S. Spirito 32 via della Conciliazione 33 via Ostiense 12 Villa Giulia 181 Rossellino, Bernardo 13, 173 Rughesi, Fausto 167, 268; 269

S Salamanca, Antonio 239 Salviati, Francesco 212; 213 Samagher di Pola (Croazia) capsella eburnea 15, 18, 19, 56; 16 Sangallo, Antonio da 36, 165, 166, 167, 175, 177, 186, 195-198, 200, 202-205, 207, 208, 210, 212, 215, 218-220, 224, 226, 227, 230, 234, 236-238, 240-242, 244246, 248, 265, 268, 271, 272, 276, 291, 293; 23, 138, 186, 196, 197, 200-203, 218, 219, 221-223, 226, 227, 230, 232, 238 Sangallo, Giovanni Battista da 13, 21 Sangallo, Giuliano da 166, 167, 174, 180182, 189, 195, 196, 198, 200, 205, 218, 244, 265; 181, 182 Santoro, Paolo Emilio 266 Sanzio, Raffaello v. Raffaello Sergio i, papa 67 Sergio ii, papa 52, 67 Serlio, Sebastiano 182-185, 188, 205, 242 Sesto Petronio Probo, console 29 Severino, papa 63 Silvestre, Israel 292 Silvestro i, papa e santo 9, 41, 52 Simmaco, papa 27, 28, 32, 33, 44, 47, 66 Simmaco, prefetto 18, 20 Simplicio, papa 27, 47 Siricio, vescovo 16 Sisto iv (Francesco della Rovere), papa 43, 174 Sisto v (Felice Peretti), papa 42, 43, 168, 250, 252, 265, 293; 126 Spada, Virgilio 295 Stefaneschi, Jacopo Caetani cardinale 50 Stefano ii, papa 27, 46, 47, 67 Swanenburgh, Isaac van 142

T Tasselli, Domenico 13, 25, 36, 43, 48, 49, 64, 65, 270, 272; 36, 37, 46, 52, 64, 65, 74, 94-96 Tempesta, Antonio 44 Teodorico, re 32, 54; 53 Teodosio, imperatore 12, 13, 29

Teodosio iii, imperatore 29 Tivoli Torre della Tosse 29 Torriti, Jacopo 65 Traiano, imperatore 20

U Ugo da Carpi 74 Ugonio, Pompeo 46 Umbria 46 Urbano viii (Maffeo Barberini), papa 168, 270, 286, 290, 291

V Valente, imperatore 18 Valentiniano ii, imperatore 29, 32 Valentiniano iii, imperatore 29 Vannucci, Pietro v. Perugino Vasari, Giorgio 65, 173, 176, 186, 187, 205, 212, 220, 237, 240-242, 244, 245, 248, 286; 214, 246 Vaticano Basilica costantiniana (antica basilica) 9-11, 13, 14, 20, 22, 24, 26, 30, 32, 33, 35-38, 41-43, 46, 67, 68, 75, 165, 169, 172, 173, 180, 185, 189, 205, 207-213, 218, 237, 238, 265, 266, 270, 272, 276, 286; 11, 12, 14, 16, 18, 21, 23, 26, 28-32, 38, 48, 49, 52-54, 58, 63, 66, 79, 83-94, 98, 100, 127, 221 abside 13, 14, 18-21, 24, 30, 33, 35, 38, 54, 62, 169, 171, 172, 183, 185, 194; 17, 83, 90, 93 battistero 27, 28, 66, 67 mausoleo orientale (chiesa di S. Andrea) 28, 207 navata centrale 14, 21-25, 33, 169, 171, 180, 189, 209, 238; 23, 98, 100 navate laterali 21, 22, 38, 169, 172; 23 necropoli 10, 13, 14, 30, 51; 11, 12, 14, 79, 82, 90 mausoleo dei Giuli 16 monumento di Popilio Eracla 13 urna di Trebellena Flacilla 16; 17 oratorio dei Ss. Processo e Martiniano 67 oratorio dei Ss. Sisto e Fabiano 67 oratorio di Giovanni vii 68-70; 70, 71, 104 oratorio di Gregorio iii 70, 73 oratorio di S. Martino 172, 185 rotonda di S. Petronilla 67 rotonda di S. Andrea (o di S. Maria della Febbre) 67 sacello di S. Adriano 67 sacello di S. Maria 67 tomba di S. Pietro 9, 11-16, 19-21, 24, 26, 29, 30, 33, 35, 51, 55, 67, 169,

349


Indice dei nomi di luogo e di persona

171, 172, 185, 194; 10, 12, 17, 82 transetto 14-17, 20, 21, 25, 33, 38, 67, 169, 171, 175, 185, 194, 207, 209, 212; 17, 89 Basilica di S. Pietro in Vaticano (nuova basilica) 13, 15, 35, 41, 53, 68, 71, 165, 168, 172-177, 184-189, 194, 196, 197, 200, 206-212, 237, 238, 241, 245-250, 265, 266, 268, 272, 276, 286, 291, 293, 295; 10, 11, 58, 82, 122, 137, 140, 144, 146, 176-184, 186, 188, 190, 191, 193, 195, 200-209, 218, 219, 221, 222, 224, 226, 227, 232, 236-237, 247-253, 266, 267, 270-272 altare dei Ss. Processo e Martiniano 305 altare della Madonna del Soccorso 308 altare di S. Francesco 305 altare di S. Girolamo 305 altare di S. Giuseppe 305 altare di S. Leone Magno 305 altare di S. Petronilla 305 altare di S. Tommaso Apostolo 305 altare di S. Venceslao 305 baldacchino 286, 290; 286, 290, 291 campanili 291-293 cappella Clementina 250, 267; 261, 262, 305, 311 cappella dei Ss. Michele e Petronilla 305 cappella del Coro 265, 267, 268; 305, 308, 311 cappella del Fonte Battesi­male 305, 311 cappella della Madonna delle colonne 239, 305

cappella della Pietà 305, 308, 310 cappella del SS. Sacramento 71, 265, 267, 268, 270; 305, 308, 3310 cappella della Presentazione della Vergine 305, 308, 311 cappella di S. Sebastiano 305, 308, 310 cappella Giulia 181, 189 cappella Gregoriana (o della Madonna del Soccorso) 212, 227, 250, 267, 270; 230, 252, 261, 305, 308, 310 Cattedra 305, 308 Confessione 276; 283, 305 cupola grande (o maggiore) 146, 176, 180, 183, 187-189, 207, 212, 219, 226, 227, 230, 234, 240-248, 250, 252, 272, 276, 286, 290, 292, 293; 132, 133, 135, 146, 184, 193, 224, 236, 237, 243, 244, 253, 260, 261, 308 facciata 270-272, 293; 271, 276, 295 Grotte Vaticane 36, 50, 69, 74, 194, 237, 272, 276; 50, 53, 82, 283 navata centrale 203, 271, 274, 276; 82, 146, 304, 308 navate laterali 274, 276; 280, 281, 308 ottagono di S. Basilio 132, 133; 244 ottagono di S. Girolamo 227, 247 ottagono di S. Girolamo 234 pilone di S. Longino 305, 308 pilone di S. Andrea 305 pilone di S. Veronica 305 pilone di S. Elena 305 tomba di S. Pietro 9, 11-15, 290, 298; 10, 12

Cappella Paolina 213, 215, 218, 274; 215, 242 Cappella Sistina (Cappella Magna) 212 Cortile del Belvedere 175, 212; 250 Fabbrica di S. Pietro in Vaticano 195, 207, 226, 237, 239, 240, 246, 248, 267, 270, 286, 290, 298 Archivio Storico 38, 41; 127 Musei Vaticani Pignone 27, 47, 48; 47 Palazzi Apostolici 50, 213, 224, 271, 286, 295, 297, 298; 66, 126, 146, 215, 275, 299 piazza S. Marta 206 piazza S. Pietro 13, 33, 173, 211, 252, 274, 286, 293, 295, 297; 108, 142, 275, 292, 295, 297, 299 obelisco 13, 28, 207, 210, 252, 293; 112, 127, 144, 146 Sala Regia (Aula Prima) 213 Vegio, Maffeo 13, 19, 36, 38, 42, 64, 71, 172 Velázquez, Diego 292 Venezia 195, 227 Verona 26 Vignola, Giacomo Barozzi detto il 181, 248, 250 Vitruvio 195, 237

W Werro, Sebastian 54

Z Zenone, vescovo 26

CREDITI FOTOGRAFICI

I numeri si riferiscono alle pagine, quelli tra parentesi alle illustrazioni.

© 2015. Christie’s Images, London / Scala, Firenze, 140-141 Albertina Museum, Vienna, 108-109, 174(4), 290(168), 291(170) Archivi Alinari, Firenze – Per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Alinari, 145 Archivio degli autori, 35, 54(23), 63(37), 75, 112-125, 131, 135-137, 144, 166-170, 171(3), 176, 177(8), 178-190, 195(33), 196-198, 200-206, 207(58)-213, 215, 218-226, 231-234, 237, 238(98), 239, 242, 243(106), 245, 246, 248-253(126), 266(137)-275, 290(166), 291(168-169), 292, 293(172), 295(175), 296(178), 299 Archivio Jaca Book, 26, 28(25) © BAMSphoto – Rodella, 7, 28(26), 134, 148-155, 160-163, 258-259, 277-278, 300-303 © Biblioteca Apostolica Vaticana, 19, 36, 37, 45, 46, 51, 52, 53(21), 62, 65, 66(39), 68, 69, 70(45, 47), 73(52), 74(53), 94-97, 110-111, 126-129, 171(2), 174(5), 177(9), 207(57), 238(97), 240, 253(125), 290(167), 293(173), 294, 295(177), 297, 298 Biblioteca Vallicelliana, 67

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© Bibliothéque national de France, 104105

of the oratory of John vii (705-7), in Old Saint Peter’s 2013, 106-107

Musee des Beaux-Arts, Lille, France/De Agostini Picture Library/Bridgeman, 130, 243(105)

© Governatorato SCV – Direzione dei Musei, 214-215 / Foto P. Zigrossi, 44-45, 73(51) / Foto M. Sarri, 47, 56, 102-103 / Foto A. Bracchetti – P. Zigrossi – L. Giordano, 216-217 / A. Bracchetti, G. Lattanzi, 78-79

© K. Brandenburg, 8, 85-93 © Fabbrica di San Pietro in Vaticano, 10, 11(5), 15, 17(14-15), 23(20-21), 25, 27, 29, 30-34, 39, 49, 50, 53(20), 55, 57-60, 66(40-41), 71, 72, 74(54), 80-82, 132-133, 138-139, 144, 156-157, 159, 191-193, 195(32), 199, 227-230, 235, 236, 244, 247, 254-257, 260-264, 266(138), 278-289, 306-319 © Fabbrica di San Pietro in Vaticano/ BAMSphoto – Rodella, 80-81, 134, 158, 320-323 Foto: Joerg P. Anders. © 2015. Foto Scala, Firenze/bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin, 146-147 Istituto Centrale per la Grafica – Per gentile concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, 21 M. Carpiceci, G. Dibenedetto da M. Andaloro (a cura di), La pittura medievale a Roma 312-1431. Atlante vol. i, Jaca Book 2006, 98-101 M. Carpiceci, G. Dibenedetto da A. Ballardini, P. Pogliani, A reconstruction

Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze, 22, 46 S. Romano (a cura di), La pittura medievale a Roma. Corpus vol. v. Il Duecento e la cultura gotica, Jaca Book 2011, 48, 63(3436) Statens Museum for Kunst, Copenhagen, 142-143 Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo – Opificio delle Pietre Dure di Firenze – Archivio dei Restauri e Fotografico, 70(46) Venezia, Museo Archeologico Nazionale – Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, 16 La carta alla pagina 40 è di Manuela Viscontini. La carta alla pagina 305 è di Daniela Blandino.

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www.jacabook.it ISBN: 978-88-16-60509-1

9

788816

605091


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