IL CALIFFATO DI BAGHDAD LA CIVILTÀ ABBASSIDE
IL CALIFFATO DI BAGHDAD LA CIVILTÀ ABBASSIDE A cura di Francesco Gabrieli Introduzione alla nuova edizione di Giovanni Curatola Testi di Bianca Maria Alfieri, Carmela Baffioni, Alessandro Bausani, Francesco Gabrieli Giovanna Stasolla, Renato Traini
Š 1988 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati
SOMMARIO
Prima edizione italiana settembre 1988 Nuova edizione italiana febbraio 2018
Introduzione alla nuova edizione Giovanni Curatola pag. 7 Introduzione Francesco Gabrieli pag. 9 Copertina e grafica Paola Forini/Jaca Book
Stampa e legatura Stamperia s.c.r.l., Parma gennaio 2018
Lineamenti storici Maria Giovanna Stasolla pag. 15 La Letteratura Renato Traini pag. 59 La Filosofia Carmela Baffioni pag. 111
ISBN 978-88-16-60578-7
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
Le Scienze Alessandro Bausani pag. 153 L’Arte Bianca Maria Alfieri pag. 203 Bibliografia pag. 249
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Introduzione alla nuova edizione Giovanni Curatola
Gli studi sulla civiltà e sulla cultura islamica sono tutto sommato abbastanza recenti, e non solo nel panorama italiano, bensì in quello occidentale tout court. Certo, già nell’Ottocento, in parte sulla scorta delle prime importanti ricerche archeologiche intraprese nel Vicino Oriente, si “scoprì” il variegato mondo islamico, in gran parte allora sotto il dominio turco Ottomano, e si avviarono quegli studi e ricerche, letterarie, storiche, filosofiche, economiche e artistiche che ancora oggi sono spesso l’imprescindibile base per ulteriori progressi nella conoscenza di mondi che, troppo frettolosamente, spesso qualifichiamo come altri; “Diversi da noi”, in un riflesso condizionato, perennemente in agguato, di irrefrenabile eurocentrismo, costruendo di conseguenza una storia del pensiero che viene addomesticata a nostra immagine e somiglianza. Poi fu il colonialismo, dal quale, secondo un celebre saggio Novecentesco (E.W. Said, Orientalism, 1978), discenderebbe per i rami la nozione stessa di Orientalismo. Dibattito acceso, tutt’altro che concluso, nel quale, in ogni caso, l’assunto apodittico, probabilmente valido per gran parte della cultura anglo-sassone, andrebbe almeno temperato per ciò che concerne l’Europa meridionale e mediterranea, e segnatamente Grecia, Spagna e soprattutto Italia. Comunque sia, l’Oriente, quello musulmano, Vicino e Medio, è stato ampiamente “sdoganato”, quanto meno a livello di studi specialistici, già nel Novecento. Operazione necessaria, soprattutto in un mondo in rapido deterioramento e appiattimento culturale, che oggi più che mai pretende di semplificare tutto, di rendere tutto uniforme (il cosiddetto “pensiero unico”) e soprattutto “facile”, comprensibile, avendo in uggia una qualsivoglia struttura complessa, soprattutto quando questo comporti lo sforzo connesso a una ginnastica mentale o un sacrosanto approfondimento. Le conseguenze catastrofiche – pur esistendo e resistendo isole di luce – sono la mancanza di conoscenze basilari e di riflesso, in questa visione invero un po’ pessimistica, una diffusa disinformazione e la tendenza ad accontentarsi del “sentito dire”. La causa è l’assoluta mancanza di strumenti atti ad esercitare uno spirito critico. Analisi impietosa: Alla massa eterogenea di informazioni (spesso sgangherate ma di facilissimo accesso sui “nuovi” mezzi di comunicazione), di rado corrispondono nei fruitori adeguati mezzi cognitivi che permettano di discernere il grano dal loglio o, per rimanere nella metafora, di non fare d’ogni erba un fascio! Le conseguenze sono pesanti. Ciò è purtroppo vero in molte categorie
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dello scibile umano e anche nelle cosiddette “scienze esatte”, che sono state contagiate, talché nel marasma generale è raro trovare il modo di informarsi adeguatamente per poter elaborare un’opinione. L’Islam e l’islamistica non fanno eccezione, anzi. Negli ultimi anni, diciamo pure negli ultimi tre lustri, i fattori politici (nel caso Vicino e Medio Orientale anche conseguenza di sanguinosi conflitti militari: prima l’Iraq, poi la Siria e adesso anche lo Yemen, con sullo sfondo, come sempre, la questione israelo-palestinese …), hanno dato una notevole spinta a fenomeni vari, compreso un inedito e devastante “terrorismo islamico”, fenomeno che attiene più alla sfera del politico e del sociale che non a quella del religioso, seppure quella dimensione venga più volentieri coinvolta, manipolata, traviata e sbandierata. Così hanno fatto irruzione nel nostro quotidiano e nell’immaginario collettivo termini e situazioni assai lontane dalle comuni sensibilità. In particolare, nella congerie di questioni relative all’Islam, un termine è emerso con forza ed è divenuto familiare un po’ a tutti: Califfato. Non è questa la sede per un’analisi, neppure sommaria, della valenza storica (ma anche politica e religiosa) che questa importante istituzione ha avuto e ha (oggi, in realtà, soprattutto a livello teorico) nel mondo musulmano. Solo qualche piccola annotazione: i commentatori, più o meno professionisti (si legga pure giornalisti…), hanno da subito affiancato alla parola Califfato, quello istituito da Abu Bakr al-Baghdadi (Ibrahim ‘Awwad Ibrahim ‘Ali al-Badri al-Samarra’i) il 29 giugno 2014, i termini di “autoproclamato” e “sedicente”. Non sono sinonimi, però segnalano uno scetticismo – davvero non sappiamo quanto consapevole – e una presa di distanza su una questione quanto meno controversa e divisiva, per non dire un nervo scoperto, del pensiero politico musulmano. Questioni da affrontare con grandi cautele. Perché molti califfati nel passato furono – come spesso avviene all’inizio di una fase storica – autoproclamati, divenendo poi tutt’altro che sedicenti. La conoscenza storica è tuttavia un prerequisito per ogni sia pur modesto ragionamento si voglia fare attorno alla cultura musulmana e al suo sviluppo, anche in termini contemporanei. A partire dalla Storia, intesa non solo come un insieme di fatti e accadimenti, ma anche di idee. Soprattutto di idee. Il periodo Abbaside (750-1258 d.C.) è in questo ambito esemplare per più d’una ragione, e leggerne le vicende non può che essere illuminante se vogliamo avere una chance di comprendere il contemporaneo. La riproposizione de “Il Califfato di Baghdad. La civiltà Abbaside”, a trent’anni di distanza dalla sua prima edizione, è non solo utile, ma doverosa. Volume miscellaneo a più voci, si avvale dell’introduzione di colui che è stato uno dei più illustri arabisti europei, Francesco Gabrieli, e di altri indimenticabili studiosi, purtroppo da tempo scomparsi, quali Alessandro Bausani (le scienze) e Renato Traini (le letterature), maestri della non trascurabile scuola islamistica italiana, rappresentata nel volume da giovani allieve, Carmela Baffioni dell’Accademica dei Lincei (le filosofie), e Giovanna Maria Stasolla, Ordinaria di Storia dei Paesi Islamici all’università di Tor Vergata a Roma (la storia). La sezione relativa alle arti fu curata dalla scomparsa Bianca Maria Alfieri con un contributo attento anche ai collegamenti esterni col mondo cristiano e alle arti decorative. Un volume importante, sempre attuale, che porta bene i suoi trent’anni e dimostra come sia necessaria, e fondamentale, l’opera di alta divulgazione che non appassisce se fatta da grandi studiosi.
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Introduzione Francesco Gabrieli
Al lettore va anzitutto chiarita la portata e il valore dell’epiteto «abbàside» che qualifica la presente trattazione della cultura arabo-musulmana al suo apogeo. Gli Abbasidi furono, come è noto, la seconda dinastia califfale, che sulla metà del nostro viii secolo soppiantò con una cruenta rivoluzione gli Omàyyadi, a capo della comunità fondata il secolo innanzi da Maometto, e del vastissimo impero islamico a cui le conquiste arabe avevano in quel secolo condotto. Le vicende di quella rivoluzione, e della dinastia abbàside da essa portata al potere per ben cinque secoli, sono delineate nel primo capitolo del libro: ma ciò che importa qui rilevare è che la civiltà e cultura relativa, vero oggetto della nostra trattazione, ha con la dinastia abbàside un nesso puramente simbolico e cronologico; giacché quei Califfi, anche nella loro prima e migliore età, non ne furono, salvo due o tre eccezioni, i diretti promotori, ma solo il vertice rappresentativo, e in certi periodi meramente nominale. Se i nomi dei califfi al-Mansur e soprattutto al-Ma’mun brillano di luce propria nei fasti della scienza e cultura «abbàside», per tutti gli altri (compreso il favoloso Harun ar-Rashid) le vicende dinastiche e la histoire événementielle del loro tempo hanno solo una indiretta e parziale incidenza sul superbo sviluppo economico, artistico, scientifico che la civiltà islamica conobbe sotto quei sovrani, e a cui restò in qualche modo legato il loro nome. Si aggiunga il fatto che, proprio sotto i primi Abbasidi, l’immenso impero formatosi sotto gli Omàyyadi cominciò politicamente a sfaldarsi, specie verso Occidente: dapprima la Spagna e il Maghrib, poi ad Oriente le zone periferiche della conquista araba, come larghe parti della Persia stessa, si sottrassero alla diretta dipendenza dai Califfi, pur serbando spesso una nominale sudditanza, fino ai casi estremi della Spagna stessa e dell’Egitto, ove nel x secolo i dinasti locali rivendicarono contro gli Abbasidi il titolo e la dignità califfale. Lo Stato abbàside vero e proprio, a partire da quel x secolo che segna per altri versi il culmine dalla civiltà islamica, comprese solo le regioni orientali dell’antico impero: l’Iraq come centro, e attorno ad esso la Siria, l’Armenia, la Persia, fin dove si estendeva la diretta autorità del Califfo di Baghdad: il resto, pur saldamente e progressivamente islamizzato, passò sotto il pratico controllo di dinastie locali. La loro storia s’intreccia spesso con quella degli Abbasidi stessi, e talora incide in essa profondamente, come fu per gli iranici Buwayhidi del x secolo e i turchi Selgiuchidi nell’xi-xii, che a Baghdad realizzarono col Califfo una specie di
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diarchia; ma l’unitario impero arabo dell’età omàyyade non era allora più che un ricordo. Tra un’alternanza di effettiva autorità e mortificante esautoramento, di potere e impotenza, di parziali recuperi e quasi totali abdicazioni, la dinastia abbàside trascinò la sua sopravvivenza fino alla metà del xiii secolo (come accadde due secoli più tardi al basileus di Bisanzio), ed ebbe il colpo di grazia dai Mongoli nel 1258, tra la generale indifferenza del mondo musulmano. Questa fu la lunga e tutto sommato squallida vicenda politica della «dinastia benedetta». Ma essa, specie ai suoi inizi, ebbe la sorte in qualche misura di promuovere, e poi sempre di rappresentare sotto il segno dell’Islam, la grande avventura della civiltà orientale che da essa appunto prese il nome, ed è illustrata nei capitoli di questo libro. Tale avventura ebbe sì il suo centro propulsore nell’Iraq abbàside, fra l’viii e il x secolo, ma si dilatò praticamente oltre i confini politici su delineati dell’impero califfale, abbracciando anche terre che di esso, sostanzialmente e talora anche formalmente, non facevano parte più, pur serbando saldi i caratteri comuni di tutta la diaspora arabo-musulmana: in primo luogo la fede religiosa e la lingua della sua rivelazione, e, come conseguenza di queste, una coscienza universalistica e unitaria, che permea tutto il corso della medievale civiltà musulmana. Il grandioso sviluppo delle scienze (religiose e non), delle lettere e delle arti che caratterizzò la cultura stricto sensu abbàside del Vicino Oriente, si propagò da esso, scavalcando ogni politica frontiera, per tutta l’area dell’Islam, dall’Asia Centrale all’Atlantico, e culminò in quello che è stato detto «il Rinascimento» islamico, cioè l’età aurea di quella civiltà, vero oggetto e sfondo del presente libro. Lo Stato abbàside, e potremmo dire iracheno guardando al suo centro geografico con la capitale Baghdad, innovò e sviluppò insieme quello siro-islamico degli Omàyyadi: esso mantenne cioè alcune caratteristiche del primitivo Stato musulmano (il Califfo come sommo monarca della comunità islamica, capo supremo dell’esercito e dell’amministrazione, propagatore e tutore ma non interprete né elaboratore della fede); e ad un tempo sostituì a quella semplice struttura primitiva, accentuando un processo già avviato dagli Omàyyadi, una concezione e prassi del potere propria delle antiche monarchie orientali, soprattutto dello Stato sassanide di Persia. Il sovrano, quasi persona sacra, sta al vertice di una complessa gerarchia di funzionari, facente capo al visir o «primo ministro», con una turba di «segretari» (Jzuttab) e funzionari dei vari dicasteri (in primo luogo cancelleria e finanza), le cui vicende, intrighi, rivalità e spesso tragiche sorti costituiscono il nocciolo della storia palatina. Le province dell’Impero sono rette da governatori di nomina califfale (nomine che spesso si trasformeranno in vere e proprie deleghe di potere, finzione legale delle nascenti autonomie e indipendenze dinastiche locali). I rapporti di queste province col centro si assommano nella esazione delle imposte (canoniche, come la decima o zakat, e «laiche» come la fondiaria o kharag) di cui si alimenta il bilancio dello Stato. Salvo questa sempre presente preoccupazione fiscale del centro, e la sua sorveglianza e persecuzione dell’eresia, la vita economica, sociale e culturale dell’età abbàside segue sue proprie vie, con scarsa ingerenza statale in quella libera circolazione di beni economici e culturali, di persone e cose, tipica del medioevo d’Oriente e d’Occidente. È qui che si dispiegano i tratti caratteristici dell’età «abbàside» via via illustrati nei loro vari aspetti in questo volume, e ora rapidamente anticipati. 10
Denominatore comune di questa società medievale d’Oriente (ma in parte anche d’Occidente, in Africa e Spagna) è l’Islam, cui la rivoluzione e lo Stato abbàside tolsero la coincidenza con l’egemonia araba, realizzatasi sotto gli Omàyyadi. Araba restò la lingua e la cultura di cui stiamo per parlare, ma non più la supremazia politica, ove agli Arabi si affiancarono e spesso prevalsero altre etnie, la iranica e poi turca ad Oriente, la berbera nel Maghrib. Ora, con gli Abbasidi, l’Islam affermò in pieno il suo carattere universalistico e sopranazionale. Teologia e diritto, le due discipline eminentemente religiose, ebbero ora la loro classica elaborazione; luna, col trionfo finale dell’ortodossia contro dottrine eretiche straniere (Manicheismo) e contro un profondo moto «razionalizzante» nato in seno all’Islam stesso (Mu’tazilismo), un momento vittorioso per favore di alcuni Califfi, ma poi da altri rifiutato e perseguitato, mentre all’ortodossia dava la sua forma definitiva il teologo al-Ash’ari (x sec.). Quanto al diritto (fiqh) parte essenziale della vita intellettuale e pratica dell’homo islamicus medievale, anch’esso, dopo i suoi primordi nella Penisola araba nei secc. vii-viii, ebbe in Iraq e sotto i primi Abbasidi la sua ricca e varia codificazione. Si affermarono allora i quattro riti o scuole giuridiche (madhhab), coesistiti poi in libera concorrenza, che invano qualche voce isolata esortò i Califfi a fondere e unificare. Le due anime dell’Islam classico), la speculazione teologica e la minuziosissima elaborazione del giure e del culto, assunsero appunto in epoca abbàside la definitiva loro fisionomia. In seno all’Islam, ma talora anche ai suoi margini, fiorì in età abbàside anche la mistica (Sufismo), che ebbe in al-Hallag (m. 922) il suo martire e più tardi (sec. xi) in al-Ghazali il suo definitivo riconciliatore con l’ortodossia. In generale, il primato del momento ed elemento religioso resta per tutta l’età di cui trattiamo inconcusso, anche se sotto il suo manto operarono altri fattori, politici, economici e culturali. Ma ciò sarà sviluppato a suo luogo. Ora a noi preme mettere in rilievo, in sede appunto culturale, i fecondi contatti che il periodo abbàside determinò tra la società musulmana e culture e scienze straniere, cui erano rimasti chiusi gli Arabi nel primo periodo preislamico e islamico della loro storia. Si tratta qui della duplice eredità, indoiranica e greco-ellenistica, che in età abbàside l’Islam recepì, assimilò ed elaborò come parte essenziale della sua propria cultura. Uno scienziato di stirpe iranica, il grande al-Biruni (sec. xi), dischiuse alla cultura musulmana la civiltà indiana, già parzialmente mediata alla prima età abbàside attraverso versioni di opere favolistiche, gnomiche e scientifiche. Come intermediario di tali trapassi, ma anche per via diretta, si riversò alla società abbàside il gran filone dell’iranismo, annientato o appena tollerato dall’Islam in sede politico-religiosa, ma che ebbe la sua rivalsa, come abbiam detto, nel campo sociale, amministrativo e culturale. Contemporaneamente, dall’opposta parte confluiva nella cultura arabo-islamica l’ellenismo con tutto il suo fascino e il suo prestigio. Attraverso la mediazione linguistica dei Siri, ma anche con versioni dirette dal greco, la filosofia e la scienza ellenica fecondarono il Medioevo musulmano, con un processo di parafrasi, interpretazioni e commenti che assorbì le più alte energie intellettuali della società islamica. Essa si trovò dinanzi il compito di far proprie, vuoi per motivi pratici, vuoi per pure esigenze speculative, queste parti del legato dell’Antichità, che l’Islam doveva a sua volta trasmettere, soprattutto via Spagna, al medioevo cristiano. Appropriarsi di un tale legato, e insieme giustificarne la ricezione e l’adattamento 11
alla sua propria rivelazione maomettana, fu l’impresa in cui si impegnò la filosofia islamica, che ebbe appunto in età e ambiente abbàside, con al-Kindi e ar-Razi, al-Farabi e Avicenna, i suoi più insigni rappresentanti, e concluse il suo ciclo speculativo all’estremo Occidente, con l’andaluso Averroè. Né meno importante è l’innesto del pensiero scientifico greco sulla tradizione antico-orientale, compiutosi nel Vicino Oriente e in Egitto, sotto Abbasidi e Fatimidi: astronomia e astrologia, fisica e matematica, farmacologia e medicina «araba» (cioè espressa in arabo, anche se da allogeni musulmani, o cristiani o sabei) furono il frutto di quell’innesto, i cui risultati si imposero dopo il Mille all’Europa latina, al punto da generar poi un’opposta reazione «anti-araba», di cui si fece tra noi autorevole portavoce il Petrarca. I processi cui abbiamo di volo accennato sono analizzati nei capitoli secondo, terzo e quarto di questo libro. Essi costituiscono la parte centrale di ciò che possiamo chiamare «il legato dell’Islam» alla civiltà occidentale. Ma sarebbe errato il restringere la sua funzione a questo puro compito di mediatore alla posterità di beni culturali extra-arabi ed extra-islamici. Accanto a questi, e prima ancora di questi, l’età abbàside conservò, studiò e promosse il più autentico patrimonio dell’Arabismo, la poesia preislamica e della precedente età omayyade, continuatasi in ininterrotta tradizione poco influenzata dall’Islam. Quella spontanea tradizione divenne ora sistematico, filologico studio del materiale esistente, grazie ai grandi dotti dell’viii-ix secolo, cui dobbiamo la trasmissione sostanzialmente fedele di questa poesia nell’età abbàside, che dapprima si contrappose con audace volontà innovatrice a quell’Antico, ma che finì poi per adeguarvisi in un neo-classicismo perpetuatosi fin quasi ai nostri giorni. Rimandando al disegno di storia letteraria araba tracciato nel secondo capitolo, dobbiamo qui sottolineare la varietà e abbondanza della produzione nei secoli abbasidi, ivi incluso anche quell’occidente (Maghrib e Spagna) sfuggito e talora contrapposto al corpo orientale dell’impero islamico. Forme e spiriti della vita letteraria scavalcarono ogni frontiera, sia nella poesia vera e propria sia nella letteratura narrativa, parenetica e gnomica compresa nel termine di adab, che ebbe nei primi secoli abbasidi la sua maggiore affermazione. Monumenti insigni di questo genere, come il Kitab al-aghani, le ‘Uyun al-akhbar di Ibn Qutaiba, lo ‘Iqd dello spagnolo Ibn ‘Abdi Rabbih, il Kamil di al-Mubarrad e simili, attestano la passione della società abbàside per le antichità arabe, la poesia nazionale, la storia e aneddotica del suo proprio tempo (caratteristiche al riguardo anche le opere dei dotti del x secolo Tanukhi e Tawhidi); mentre le capacità espressive della lingua letteraria (già in parte divorziata in quell’epoca dal parlar quotidiano) si dispiegarono nel genere ammiratissimo della maqama (Hamadhani e Hariri, x-xi secolo), rimasta purtroppo più esteriore prova di bravura linguistica che non pittura di caratteri. Ma passando da questa letteratura di adab ad altre situazioni e altri settori della produzione letteraria, si deve almeno menzionare l’imponente sviluppo in questa età abbàside della storiografia, ove Arabi e non Arabi, ma tutti scriventi in arabo, dettero contributi fondamentali. Nata da interessi religiosi, per la biografia del Profeta e le origini dell’Islam, presto la storiografia araba trascese questi limiti, e si allargò all’epopea delle conquiste, alle guerre civili e alla storia interna del Califfato, che opere classiche di questo periodo (Baladhuri, Tabari, Ya’qubi, ecc.) ci permettono di ricostruire. E alla storia si affiancò presto la geografia, anch’essa in origine legata a esigenze di ordine pratico (informazioni statistiche e 12
itinerarie, politiche e poliziesche, bilanci fiscali), ma anch’essa evoluta presto in scienza, per la vivacissima sete di esperienze geografiche ed etnografiche, entro e fuor dei confini dell’ecumene musulmana. La collana dei geografi arabi (tra i maggiori conservatici, Muqaddasi, Ibn Hawqal, Istakhri, Yaqut, Edrisi) costituisce un corpus superbo di dati descrittivi, economici, etnografici sul mondo medievale dell’Islam e oltre ancora, di gran lunga superiore alla corrispondente produzione della Cristianità occidentale. Ci siamo più soffermati fin d’ora su questo apporto dell’Arabismo, nella sua propria lingua, alla letteratura universale, per mettere in evidenza il vasto contributo della cultura abbàside, anche nel campo letterario, alla civiltà umana: se taluni «generi» in cui eccelsero altri popoli e culture (come l’epica e la drammatica) restarono preclusi a questa classica letteratura araba, essa compensò tali carenze con una ricchezza e versatilità di produzione, in altri campi, ineguagliata. Resta, fra le scienze umane, il campo dell’arte, su cui l’Islam gravò con prevenzioni di ordine religioso fortemente limitative, ma che è tanto maggior gloria della sua civiltà avere in parte compensate, in parte eluse. Entro il vastissimo patrimonio dell’arte islamica, i secoli abbasidi che altrove rappresentano un insuperato vertice offrono solo una parziale visione, da cui restano fuori altre epoche e opere fulgide, quali buona parte dell’arte persiana, tutta la turca ottomana e l’indiana. Ciò non toglie che complessi monumentali insigni di questa età più antica del Vicino Oriente islamico ci sono pur giunti, come li enumera e analizza l’apposito capitolo di questo libro. Anche qui, i confini geografico-politici dei singoli stati contano poco, e non fermano nella sua transmigrazione il linguaggio universale dell’arte. Di un’arte abbàside si può in verità parlare più sotto l’aspetto cronologico che sotto quello storico e stilistico, tanta varietà di principi e applicazioni troviamo nel materiale superstite (dal tanto che è andato perduto) entro l’area vastissima del mondo islamico fra Alto e Basso Medioevo. Caratteri comuni, l’anonimità delle opere (il «culto della personalità» artistica è di un’epoca più tarda), la preoccupazione dei fini cultuali e sociali, la rara potenza con cui il Kunstwollen islamico si esplicò anche nei già accennati condizionamenti. Ricettivo da precedenti e coeve culture, e a sua volta irradiantesi in influssi su culture straniere, come in Italia e in Spagna, il patrimonio di questa più antica arte islamica segna una pietra miliare nel panorama dell’arte tutta del medioevo. Del binomio Arabismo-Islamismo, in cui si sostanzia la civiltà islamica medievale, i cinque secoli abbasidi vedono dunque il primo termine dispiegarsi in pieno, ma solo come elemento linguistico e culturale, lasciando il primato al secondo, di là da ogni nazionalistico esclusivismo. L’impetuoso insorgere del nazionalismo arabo moderno (in larga parte per influsso dell’Occidente, e quale reazione alla sua invadenza) non può farci dimenticare che il primo affermarsi degli Arabi nella storia mondiale ebbe a fattore essenziale il nuovo verbo religioso tra essi apparso, e che questo restò, dopo le folgoranti conquiste, l’elemento comune e motore di tutta la loro civiltà. Splendide pagine di essa furono ancor scritte, specie nel campo artistico, oltre il termine di quel xiii secolo che chiude l’era abbàside, ma questa ne resta il momento più intenso, originale e fecondo, cui deve sempre rifarsi lo storico degli Arabi e dell’Islam. È problematico se nei secoli successivi, e specialmente nel nostro, gli uni e l’altro abbiano saputo dare il meglio di sé: a nostro avviso, essi lo dettero entrambi nell’epoca abbracciata da questo libro. 13
Lineamenti storici Maria Giovanna Stasolla
La rivoluzione abbàside Alla metà del secolo viii, mentre in Occidente la casa carolingia soppiantava la dinastia fondata da Clodoveo iniziando l’unificazione della maggior parte dell’Occidente cristiano intorno al Regno franco, mentre Bisanzio era travagliata dalla crisi iconoclastica, il Califfato omàyyade, che estendeva il suo potere dalla Spagna e dall’Africa del Nord fino al Khorasan e alla Transoxiana, viveva un profondo rivolgimento interno che avrebbe condotto alla presa del potere da parte della dinastia degli Abbasidi. La «rivoluzione abbàside» non fu un semplice conflitto dinastico, bensì il risultato di un movimento le cui origini risalivano alle origini stesse dello Stato musulmano essendo il Profeta morto senza avere indicato quale fosse, per la organizzazione della Comunità dopo di lui, la volontà di Allah. Il problema fondamentale era la legittimità del potere. Problema tanto più scottante in quanto il Califfo è il «sommo monarca» al quale sono affidati la cura e gli interessi di tutti i Musulmani ed il mantenimento dell’unità politica degli stessi; egli è il successore di Muhammad nel reggimento dello Stato musulmano, cioè dell’universalità dei Musulmani. La lotta contro gli Omàyyadi non fu condotta in nome di rivendicazioni politiche o sociali ma a partire da una denuncia, ritenuta come acquisita, di un comportamento «empio» della dinastia regnante, nel nome dei diritti rivendicati per la Famiglia del Profeta. Bisogna ricordare che gli Arabi non avevano una tradizione dinastica e che, nelle loro usanze, si intendeva per famiglia la parentela in senso largo, attribuendo a quella per via maschile molta più importanza di quella per via femminile. Nella tribù del Quraysh, a cui Muhammad apparteneva e tra i cui membri, secondo la tradizione araba, avrebbe dovuto essere eletto il suo successore, si opponevano due clan: la discendenza di cAbd Shams, a cui appartenevano gli Omàyyadi, e quella di Hashim a cui apparteneva il Profeta. In questo ramo le famiglie dei due zii paterni di Muhammad, cioè Abu Talib, padre di cAli, e al-cAbbas, erano in parità. Il fatto che il partito abbàside fosse conosciuto come Hashimiyya riveste un significato ben preciso e rivela chiaramente le sue vere origini. 15
La prima drammatica fitna («frattura») interna della Comunità si era conclusa con la tragica morte di cAli (661) e con il trionfo di Mu’awiya, governatore della Siria e capo della famiglia omayyade. Nulla prova che i figli di cAli abbiano cercato di costituire una shica, cioè una clientela politicamente organizzata: solo qualche decennio dopo presero corpo delle sette sciite o pro-sciite in varie parti dell’Impero, ma specialmente nell’Iraq meridionale. Alla loro formazione concorsero in misura determinante i neo-convertiti non arabi, detti mawali, «clienti», in quanto la loro conversione all’Islam si accompagnava ad una sorta di integrazione nella società musulmana mediante l’assunzione nella «clientela» delle grandi famiglie arabe. Nel movimento sciita si distinsero ben presto due principali gruppi: uno rivendicava i diritti dei discendenti di cAli e Fatima, figlia del Profeta, privilegiando quindi una discendenza in linea femminile; l’altro apparve nel 685 con la rivolta di Mukhtar il quale pure sosteneva i diritti della Famiglia, ma nel nome di Muhammad ibn al-Hanafiyya, figlio di un’altra moglie di cAli. Un fatto nuovo ed importante venne alla luce in questa rivolta: il suo supporto principale era costituito non dai notabili arabi di Kufa, tradizionale roccaforte sciita, ma dai mawali iraqeni che vi portavano, insieme a rivendicazioni di tipo sociale ed economico, molte idee e concezioni estranee alla tradizione puramente araba. L’idea, per esempio, dell’elezione particolare di Dio su una certa famiglia, in cui è forse ravvisabile un’influenza ebraica; e quella della necessità di una continuità profetica, tipica delle credenze manichee. Dopo la morte di Muhammad ibn al-Hanafiyya (701), i suoi sostenitori si divisero in tre gruppi principali, uno dei quali seguiva suo figlio Abu Hashim cAbd Allah. La morte di Abu Hashim segnò l’inizio di ulteriori controversie nell’ambito della Famiglia e dei suoi sostenitori sulla identità dell’Imam «Guida» legittimo. Delle varie fazioni, una basava le sue pretese su una sorta di investitura da parte di Abu Hashim in favore di Muhammad figlio di c Ali b.cAbdallah b.al-cAbbas (b. sta per ibn «figlio»). Così, nel 716, sarebbe nata la missione (dacwa) propriamente abbàside i cui sostenitori continuavano a definirsi Hashimiyya o anche Rawandiyya. Che questa investitura fosse vera oppure fittizia ed elaborata a posteriori per dare una legittimazione ulteriore al potere della dinastia abbàside, poco importa. Il fatto principale rimane chiaro: Muhammad b.cAli fece proprie le rivendicazioni di Abu Hashim, ricevendo l’appoggio della setta e della organizzazione propagandistica degli Hashimiyya, che poi egli gradatamente trasformò in uno strumento del partito abbàside. Nei primi decenni dell’viii secolo l’opposizione anti-omayyade, basata sulla rivendicazione dei diritti della Famiglia del Profeta, era condotta parallelamente dal partito alide e da quello abbàside. Mentre il primo dava vita a rivolte locali quasi sempre limitate all’Iraq, il secondo organizzava una propaganda di più vasto respiro verso Oriente, principalmente nel Khorasan. Il movimento acquistò uno slancio senza precedenti e raccolse rapidi successi quando Ibrahim, figlio ed erede di Muhammad b.cAli, inviò il proprio mawla Abu Muslim come suo rappresentante personale nel Khorasan. Le notizie che le fonti riportano su di lui sono contrastanti e la sua persona rimane un enigma: può ritenersi per certo che era un convertito persiano, liberto di Ibrahim. Come pone in risalto Bernard Lewis, l’uso della kunya
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(appellativo composto da Abu «padre» o Umm «madre» seguito dal nome di un figlio) era a quel tempo un privilegio raramente accordato ai non Arabi e la sua attribuzione ad Abu Muslim e ad alcuni altri principali emissari degli Abbasidi ha un significato ben preciso. Può essere un esempio della pratica, comune nella Shica estrema, di garantire ai principali sostenitori della causa la appartenenza adottiva alla casa del Profeta e, quindi, alla nazione araba. Una forma modificata di questo metodo di adozione divenne più tardi parte della politica dinastica dei Califfi abbasidi. La propaganda anti-omàyyade nelle province orientali trovava ancora una volta terreno favorevole nell’elemento indigeno dei neo-convertiti scontenti della loro posizione di inferiorità economica e sociale rispetto agli Arabi. E fu proprio ai mawali iranici che si rivolse il principale appello di Abu Muslim, che pure trovò sostegno non trascurabile fra gli Arabi yemeniti emigrati nella regione e forse anche fra i proprietari terrieri zoroastriani e buddisti, alcuni dei quali si convertirono in questo periodo. Così avvenne che il legittimismo hashimita, nato in ambiente arabo e che pure rivendicava i diritti di una stirpe araba, trovò il suo decisivo punto di forza nell’appoggio dei non Arabi i quali, più o meno coscientemente, rivendicavano quei diritti all’uguaglianza etnica e sociale tra i Credenti che l’illuminato insegnamento di Muhammad aveva inequivocabilmente affermato come carattere distintivo della ‘Umma islamica. L’aver compreso che la Famiglia poteva diventare più importante solo diventando il simbolo di un Islam sovranazionale e che era necessario dar vita ad insurrezioni dalle zone centrali (cioè in Iran e in Khorasan) in cui fossero coinvolti i non-Arabi convertiti, costituì il fattore originale e decisivo del successo di Abu Muslim. Un altro fattore di non secondaria importanza, nella propaganda abbàside, fu il fatto che, salvo un certo numero di iniziati che erano in relazione con l’Imam riconosciuto, gli altri seguaci furono tenuti all’oscuro della sua identità. Si parlava contro gli Omàyyadi, genericamente in nome della Famiglia del Profeta, della necessaria vendetta dei suoi discendenti uccisi dagli usurpatori. Rimane dunque un enigma se gli Abbasidi agirono deliberatamente con la volontà di prendere il potere di diritto per loro, o se non si considerarono come i capi di un movimento che agiva per la Famiglia, dando apparentemente per scontato che ne avrebbero tratto tutti i benefici perché sarebbero stati in qualche modo designati dal consenso di tutta la Famiglia per i servigi resi e senza che altri beneficiari ne fossero a priori esclusi. Quando la rivolta scoppiò nei pressi di Merw, nell’estate del 747, Abu Muslim issò le bandiere nere che sarebbero diventate l’emblema della casa abbàside e che allora avevano un significato messianico. Le bandiere nere erano fra i segni e i portenti elencati nelle profezie escatologiche che circolavano a quel tempo particolarmente in ambiente sciita ed erano state usate come emblema di rivolta religiosa dai primi ribelli contro gli Omàyyadi. Il loro uso da parte di Abu Muslim si presentava allora come un appello alle aspettative messianiche. L’avanzata delle forze abbasidi travolse la resistenza del valoroso Nasr ibn Sayyar, ultimo governatore omàyyade del Khorasan, che invano aveva richiesto a Damasco dei rinforzi per una regione gravemente indebolita dalle diatribe interne agli Arabi stessi, una parte dei
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quali era confluita nel movimento abbàside. Nel 749 l’esercito abbàside attraversò l’Eufrate a circa trenta chilometri a nord di Kufa e si impadronì della città. Qui convennero i componenti della Famiglia per risolvere il problema della successione di Ibraham, caduto prigioniero degli Omàyyadi nel 748 e morto poco dopo. Alcune fonti raccontano che Ibraham, prima della sua fine, avesse investito il fratello Abu ’l-cAbbas, mentre probabilmente Abu Salama, l’uomo che a Kufa era stato il capo del movimento col titolo di «Visìr della Famiglia di Muhammad», aveva convocato i membri della Famiglia pensando all’opportunità di una direzione collegiale, almeno in un primo tempo. Comunque siano andate le cose, Abu l-cAbbas fu proclamato Califfo dall’esercito di Abu Muslim con il titolo di al-Saffah. Abu Salama fu messo a morte in circostanze oscure, presumibilmente per scongiurare il pericolo della sostituzione degli Abbasidi da parte degli Alidi i quali godevano, particolarmente in Iraq, di grande simpatia. Sanguinosi scontri videro fronteggiarsi i due eserciti rivali nella regione finché, nel gennaio del 750, la battaglia del Grande Zab segnò la definitiva sconfitta degli Omàyyadi e la fine del loro Califfato. L’esercito abbàside, al comando dello stesso zio di al-Saffah, cAbd Allah, avanzò attraverso Harran, la residenza dell’ultimo omàyyade Marwan, fino alla Siria, occupò Damasco e poi inseguì Marwan in Egitto. Qui egli fu ucciso e la sua testa inviata a Kufa ad al-Saffah. Tutti gli appartenenti alla famiglia omàyyade furono massacrati, anche le tombe furono violate. Un solo superstite, cAbd al-Rahman, riuscì fortunosamente a fuggire verso Occidente dove, in al-Andalus (toponimo che indicava la penisola iberica), avrebbe restaurato la sua dinastia. Per gli Abbasidi rimaneva ora la necessità di dare basi dottrinali più salde al potere che ormai detenevano di fatto. Bisognava elaborare una teoria che permettesse di fondare le loro pretese personali su qualcosa di più preciso della loro appartenenza alla Famiglia, appartenenza che non era di loro esclusività: la teoria della eredità in seguito a designazione dell’avo da parte del Profeta rispondeva perfettamente a questa esigenza. Molto è stato scritto sul significato storico della rivoluzione abbàside. Nel secolo scorso alcuni storici vollero vedere in essa la vittoria della stirpe aria iranica sul semitismo arabo, conclusasi con la distruzione di quello che il Wellhausen chiamò «il regno arabo» e la rinascita di un impero iranico sotto la copertura di un Islam persianizzato. Teorie più recenti hanno di molto ridimensionato questa idea. Così il Lewis, rilevando che la Shica aveva sostenitori fra la popolazione mista araba, aramaica e persiana dell’Iraq, come pure la rivolta di Abu Muslim fu appoggiata da Iraniani e Khorasaniani ma anche da Arabi, nota che, nonostante il ruolo svolto dagli antagonismi razziali e la preponderanza numerica degli Iraniani, questi nondimeno servivano una causa e una dinastia arabe. Quello che gli Arabi persero non fu il prestigio, ma «l’esclusivo diritto ai frutti del potere». Claude Cahen evidenzia il fatto che, qualunque fosse stata l’ambizione personale di singoli personaggi, nella coscienza degli uomini del tempo la questione della Famiglia era concepita nelle proporzioni di una riflessione sull’Islam stesso. Ma, d’altra parte, se l’arruolamento dei non-Arabi può essere stato per gli Abbasidi solo un mezzo per raggiungere i loro fini, fu per i Khorasaniani la ragion d’essere della loro sollevazione; e fu l’incontro
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dei due programmi ad assicurare il successo dell’impresa. «Per noi, come per coloro che l’hanno vissuta, la rivoluzione abbàside significa una volontà di islamizzazione più profonda, la sostituzione della Mesopotamia alla Siria, l’aggiunta degli Iraniani agli Arabi, la fine della concezione di un Islam legato al dominio di una razza». Se è vero che la parola d’ordine di tutto il movimento era stata, nella pura tradizione araba, la vendetta della Famiglia, e se è vero che gli strumenti di questa vendetta furono principalmente i Khorasaniani, ciò significa che questi erano a modo loro entrati nell’Islam. Il fatto che mirassero a trarne dei benefici, e che poi lo abbiano fatto, non vuol dire, però, che siano stati loro a determinare l’orientamento originale dell’intero movimento. E su questo ancora, Gabrieli: «Solo con l’avvento degli Abbasidi e con il correlativo calo dell’arabismo come forza politica e sociale, può dirsi che il nuovo concetto universalistico del Credente abbia avuto partita vinta...». Hamilton Gibb individua così il significato profondo della rivoluzione abbàside: «La posta in gioco non era l’immediata sopravvivenza del Califfato come tale, ma se una nuova linea di Califfi, il cui potere fosse basato su una nuova distribuzione delle forze sociali, potesse o volesse portare i principi dell’istituzione governante nella linea dei principi creativi dell’ideologia islamica». Fino a che punto, poi, l’Imamato degli Abbasidi, in conformità con le sue originarie rivendicazioni, fu più coerente con i principi socio-politici dell’ideologia islamica? Per quanto nell’Impero omàyyade fossero presenti prima l’influenza ellenistico-bizantina e poi quella persiana, il Califfato abbàside fu anche più fortemente influenzato dalla forma sasanide del concetto di «impero universale». In realtà accadde che il Califfato, lungi dall’adattare la sua pratica ai principi della teologia islamica, impose ai giuristi ufficiali il compito di adattare i loro principi e le loro teorizzazioni alla sua pratica. Per una considerazione finale della rivoluzione abbàside, rimane da chiarire un equivoco che avrebbe pesato su tutta la storia successiva del Califfato: il cosiddetto «tradimento» perpetuato dagli Abbasidi a danno degli Alidi stricto sensu. Se era vero che esisteva una diffusa simpatia popolare verso la Famiglia e che questa simpatia si rivolgeva principalmente ad cAli ed ai suoi discendenti, è innegabile che le numerose scissioni nell’ambito della Shica di cAli avevano favorito una sorta di spersonalizzazione nella venerazione per la Famiglia, oltre ad impedire la formazione di un movimento politico vero e proprio. Gli Abbasidi furono, al contrario, capaci di dar vita ad un forte movimento nel nome della Famiglia in generale. La loro vittoria non fu certo una vittoria dei Musulmani di tutto l’Impero, ma rappresentò, per la sua volontà di aderire all’Islam puro e comune, un elemento di unanimità che gli Sciiti non erano stati capaci di rappresentare.
L’apogeo del Califfato (750-945) La prima prevedibile conseguenza della vittoria abbàside fu lo spostamento del centro di gravità dell’Impero dalla Siria all’Iraq, regione che, fin dall’epoca omàyyade, aveva conosciuto un grande sviluppo economico e culturale. La capitale fu posta in un primo tempo nella piccola città di Hashimiyya, fondata dallo stesso al-Saffah vicino a Kufa, sulla riva orientale
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dell’Eufrate. In seguito fu trasferita ad al-Anbar finché il secondo abbàside, al-Mansur, vero fondatore della dinastia, stabilì la nuova e definitiva capitale dell’Impero sulla riva occidentale del Tigri, non lontano dall’antica Ctesifonte. Il luogo fu scelto per considerazioni militari, economiche e climatiche: circondata da fertili pianure, punto d’incontro di numerose vie carovaniere, dotata di una rete di canali e di un clima temperato e salubre, la nuova città doveva simbolizzare il nuovo dawla («stato», «dinastia»). Al-Mansur la chiamò Madanat al-Salam «Città della Pace» e questo fu il beneaugurante nome ufficiale. Fu anche conosciuta come «La Città Rotonda», dalla forma della sua pianta circolare, ma la denominazione più corrente fu quella di uno dei piccoli insediamenti di cui aveva preso il posto: Baghdad. I viaggiatori europei del Medioevo la confusero sovente con Seleucia o Babilonia; il primo a rifiutare questo errore fu Pietro Della Valle (1616-17). Fino al xvii secolo la città era conosciuta in Occidente come Baldach (Baldacco), derivato dalla forma cinese del nome. Altra fondamentale conseguenza dell’avvento al potere degli Abbasidi fu la tendenza all’eliminazione delle differenze regionali, e la fine della preponderanza araba (ad esempio con la limitazione delle «pensioni» che gli Omàyyadi avevano devoluto agli Arabi protagonisti della grande espansione). La differenza fra Arabi e mawali perse le basi del suo significato, tanto che il termine mawali andò gradualmente scomparendo. Mutò anche la posizione del Califfo il quale non mantenne nessun legame con l’aristocrazia araba: facendo prevalere il concetto della assoluta superiorità della famiglia califfale su tutte le altre, gli Abbasidi non si imparentarono con le famiglie nobili, ma scelsero le loro mogli fra concubine e schiave delle più diverse origini. «L’antinomia che aveva travagliato il periodo omàyyade, fra un’affermazione nazionale e una fede universalistica da cui quella pure traeva la sua legittimità, si risolse nell’età abbàside col prevalere del secondo elemento, che parificò di fatto il popolo primogenito dell’Islam con tutti quelli che via via abbracciarono la nuova fede, tutti in sede politica agguagliando come sudditi di un potere assoluto» (F. Gabrieli). Quello che al-Giahiz scrisse sul ruolo unificante sovra-etnico della religione, è perfettamente applicabile al più profondo carattere dell’Impero abbàside: la religione sovrasta tutto e, come l’idea dello stato a Roma, garantisce l’universalità della struttura spirituale e politica. Questo non impedì che, al particolarismo arabo dell’età precedente, si sostituissero quelli delle varie popolazioni che cominciarono ben presto a concretizzarsi nella formazione di entità politicamente autonome le quali mantenevano, tuttavia, la loro appartenenza al dar al-Islam («terra dell’Islam») attraverso un riconoscimento più o meno formale della superiore autorità del Califfo. Con ogni probabilità, l’enorme dilatazione raggiunta dallo Stato islamico sotto gli Omàyyadi non avrebbe potuto ragionevolmente conservare una struttura rigidamente unitaria, comunque fu dall’avvento stesso degli Abbasidi che un progressivo fenomeno di disgregazione ebbe inizio. Nel corso dell’viii secolo la Spagna, con l’omàyyade cAbd al-Rahman, e il Maghrib estremo sfuggirono al controllo centrale; fu poi la volta di altre province periferiche sia orientali che occidentali fino a che, dalla seconda metà del ix secolo, il potere reale degli Abbasidi, e vedremo con quali limitazioni, si esercitò esclusivamente sulle zone centrali dell’Impero, per poi restringersi, nel periodo di maggior decadenza, al solo Iraq.
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Prima di tornare alla descrizione degli eventi più significativi della plurisecolare storia del Califfato abbàside, con cui si identifica la grande epoca della civiltà islamica classica, può essere utile ricordare la suddivisione in due periodi suggerita dal Lewis: «Il primo, dal 750 al 945, vide il graduale declino dell’autorità dei Califfi e la crescita dei capi militari, che governavano attraverso i loro eserciti. Durante il secondo, dal 945 al 1258, i Califfi, con una sola eccezione, godevano di una sovranità puramente nominale, mentre il potere reale, anche nella stessa Baghdad, fu esercitato da dinastie di sovrani secolari». Il primo abbàside, Abu l-cAbbas, inaugurò la pratica, diventata poi usuale per i suoi successori, di prendere un nome ufficiale di carattere escatologico. Il suo fu al-Saffah, il cui significato implicava contemporaneamente nobiltà e crudeltà sanguinaria nell’eseguire la vendetta divina ed effettivamente i pochi anni del suo regno furono dedicati allo sterminio degli Omàyyadi e alla repressione delle rivolte che si scatenarono in Siria fra gli Arabi sostenitori della dinastia sconfitta, e fra gli Alidi amareggiati per il «tradimento» subito. Forse, però, l’avvenimento più notevole del suo regno fu la battaglia detta del Talas (751) in cui un’armata musulmana, sotto il comando di un ufficiale khorasaniano, dopo essere penetrata in Farghana (l’attuale Uzbekistan), si scontrò con un esercito cinese e lo sconfisse grazie anche all’appoggio di una tribù turcomanna non ancora convertita all’Islam. Il controllo di quella regione, alla frontiera con il mondo cinese, fu decisivo per la diffusione dell’Islam in tutta l’Asia centrale. Quando al-Saffah morì di vaiolo a soli trent’anni nel 754, fu suo fratello maggiore Abu Gia’far a succedergli come capo della Famiglia e quindi come Califfo, adottando il titolo di al-Mansur (bi-’llah) «il Vittorioso (per grazia di Dio)». Apparve ben presto evidente che la nuova dinastia doveva far fronte allo stesso problema delle successioni che aveva non poco indebolito gli Omàyyadi: suo zio cAbd Allah b.cAli, forte del suo esercito stanziato alla frontiera bizantina, si ribellò e si proclamò Califfo. Al-Mansur dovette fare appello al valoroso Abu Muslim per sconfiggere i rivoltosi e poi, non potendo più tollerare un personaggio il cui prestigio morale metteva in ombra la stessa autorità califfale, lo fece assassinare. Questo scatenò nell’Iran orientale violente rivolte nel nome di Abu Muslim, identificato nell’Imam nascosto e nel Mahdi il cui ritorno era atteso per guidare il mondo. La sconfitta dei ribelli non impedì che queste idee continuassero a circolare nel Khorasan e in Asia Centrale. Restava il problema dell’ala estremista degli Hashimiyya, quei Rawandiyya che, sulla scia di antiche dottrine iraniche, pretendevano di servire fanaticamente il Califfo e addirittura di divinizzarlo. Anche contro di loro al-Mansur attuò una severissima repressione. Questo comportamento può dirsi emblematico dell’orientamento politico che gli Abbasidi, a partire da al-Mansur adottarono: finito il periodo rivoluzionario, in cui, si badi, l’opposizione era stata rivolta non contro il Califfato ma contro gli Omàyyadi, il potere doveva essere ricostituito e gli Abbasidi scelsero di affermare il proprio assolutismo imperiale sulle solide basi dell’ortodossia e della continuità. In nome di questa scelta al-Mansur rifiutò di dare spazio a certe concezioni che si andavano sviluppando in ambiente iraniano, specialmente fra la nobiltà, che tendevano a fare del Califfo la suprema autorità religiosa, e il codificatore
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della Legge e del Credo, coadiuvato da una aristocrazia formata dagli alti ufficiali, dagli uomini di legge, dalle eminenti personalità di nobile nascita. Tale era il senso di una sorta di programma politico presentato al Califfo in un’opera intitolata Kitab al-Sahaba da Ibn al-Muqaffa‘, nobile persiano di Basra, neo-convertito dal Mazdeismo, noto per la sua straordinaria conoscenza della lingua araba e la sua enorme erudizione, che, in seguito, fu messo a morte come sospetto di eresia. Quando, con lucida determinazione, al-Mansur domò la ribellione sciita di Muhammad detto al-Nafs al-Zakiyya («l’Anima Pura»), a cui pare che ventanni prima tutti gli Hashimiti avessero riconosciuto l’eredità del potere, egli intendeva nello stesso tempo affermare la libertà della monarchia da limitazioni da parte di qualunque gruppo subordinato, cioè di qualunque settore degli elementi privilegiati della popolazione. A quest’epoca risale l’organizzazione di una struttura amministrativa centralizzata basata non più su una aristocrazia nobiliare, bensì su una burocrazia professionale di kuttab (pi. di katib «scriba», «segretario») capace di una minuziosa supervisione su ogni provincia. Validissimo sostegno in questo compito fu per il Califfo l’esperienza e l’abilità di un funzionario che aveva partecipato al movimento hashimita ed era stato katib di al-Saffah: Khalid b. Barmak. I Barmecidi, abitualmente considerati come Persiani, erano originari della Bactriana, l’attuale Afghanistan settentrionale, e non avevano niente in comune né con i ribelli khorasaniani né con gli Zoroastriani. La famiglia, di origine buddista, apparteneva al clero aristocratico e proprietario terriero della città di Balkh, antica capitale e centro commerciale importante. Lo stesso nome Barmak era in realtà un titolo corrispondente alla dignità ereditaria di gran sacerdote buddista e non zoroastriano come sostengono alcuni autori arabi e occidentali. Khalid b.Barmak era direttore del servizio amministrativo congiunto dell’esercito e dell’imposta fondiaria (diwan al-giund wa’l-kharag), poi ricevette da al-Mansur la direzione di tutta l’amministrazione, svolgendo in pratica il ruolo di primo ministro. Sia pure attraverso alterne vicende, Khalid e i suoi successori diressero per circa quarantanni l’amministrazione dell’Impero, costituendosi anche un enorme patrimonio familiare. Suo figlio Yahya divenne, sotto il califfato di al-Mahdi, precettore del giovane Harun (il futuro al-Rashid); suo figlio Gia’far era fratello di latte del Califfo, quindi, secondo la mentalità del tempo, membro della famiglia, e Harun considerava Yahya come un secondo padre. Nel primo periodo del suo regno gli affidò in pratica quasi tutto il governo che Yahya divise con i figli al-Fadl, governatore del Khorasan, e Gia’far, intimo amico del Califfo. Anche se talora viene attribuito ai Barmecidi il titolo di visìr, bisogna tener presente il fatto che essi esercitavano il loro potere in quanto appartenenti, tutto sommato, alla famiglia e, come tali, sovrintendevano in nome del Califfo agli affari che lo riguardavano. Il visirato, come istituzione stabile, prenderà delle connotazioni precise solo più tardi, nel ix secolo, con la progressiva ascesa della classe dei kuttab reclutati essenzialmente fra Iraniani arabizzati, mawali di alcune grandi famiglie. Durante il lungo Califfato di al-Mansur (754-775) il processo di iranizzazione percorse delle tappe decisive: oltre allo spostamento ad Oriente del centro dell’Impero, ci fu un trasferimento del monopolio delle alte cariche amministrative
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dalla aristocrazia araba ai kuttab iraniani, fra cui i Barmecidi godettero di una posizione di assoluto privilegio. Fu sotto la loro influenza che la corte e il governo furono strutturati in larga misura secondo modelli sasanidi e i Persiani cominciarono ad avere una parte importante nella vita politica e in quella culturale. La continuazione del processo di iranizzazione si unì, durante il Califfato del figlio e successore di al-Mansur, al-Mahdi (775-785), alla attuazione di una politica di riavvicinamento fra la corte e gli ambienti religiosi dei teologi ortodossi e degli studiosi della Legge. Al-Mahdi, seguendo l’esempio del padre che aveva energicamente sconfessato le origini eterodosse del movimento abbàside, tenne ad accentuare l’elemento religioso nella natura dell’autorità dei Califfi. In questo spirito furono riprese, in nome della «guerra santa» (gihad), le ostilità contro l’Impero bizantino, che già sotto gli ultimi Omàyyadi avevano preso il carattere di «campagne estive» (sa’ifa). Varie incursioni, con alterne sorti, culminarono nel 782 con lo stanziamento in una località sul Bosforo di un esercito comandato dal giovane figlio del Califfo, Harun. La Basilissa Irene, la cui posizione interna era piuttosto difficile, ottenne una tregua di tre anni contro il pagamento di un pesante tributo annuale. Un ancor più chiaro intento di proporsi come il difensore dell’Islam ebbe la dura persecuzione posta in atto da al-Mahdi contro i Manichei, le cui idee pare che si fossero diffuse fra i Musulmani particolarmente nell’ambiente di corte, causando forti preoccupazioni fra gli «studiosi delle scienze religiose» (culamà’). Al-Mahdi manifestò il suo appoggio alla difesa della purezza dell’Islam punendo con la morte chiunque fosse sospettato di appartenere a quella setta. Il nome arabo del Manicheismo (Zàndaqa) venne poi usato per designare ogni forma di eresia socialmente aborrita. Nel 776, anno in cui il Califfo dirigeva personalmente il Pellegrinaggio, fu repressa con uguale fermezza una rivolta suscitata nelle province orientali da un uomo che si faceva chiamare al-Muqanna «il Velato». Adepto delle idee dei partigiani di Abu Muslim, aveva partecipato al movimento dei Rawandiyya ed ora predicava la trasmigrazione delle anime, l’incarnazione successiva della divinità, presentandosi lui stesso come una delle incarnazioni di Dio dopo Adamo, Seth, Noè, Abramo, Mosè, Gesù, Muhammad e Abu Muslim. Alla fine del regno di al-Mahdi, la maggior parte degli culama’ avevano sostanzialmente accettato il compromesso abbàside, sulla cui legittimità avevano in precedenza avanzato molte riserve: la monarchia assoluta si era così guadagnata quel minimo supporto istituzionale religioso di cui aveva bisogno. Il regno di Harun al-Rashid («il Retto», «il Benguidato»), salito al trono dopo il breve Califfato di suo fratello al-Hadi, è ricordato generalmente come il periodo di massima potenza e magnificenza dell’Impero abbàside (786-809). A questa fama hanno probabilmente contribuito una vasta e pittoresca letteratura anche più antica dei favolosi racconti delle «Mille e una notte» di cui il Califfo e la sua corte sfarzosa erano i protagonisti. Il suo regno simboleggia, comunque, la società della Baghdad classica al suo massimo splendore. Il governo fu largamente delegato ad amministratori: un visìr, nella persona di Yahya b. Barmak, come capo delle Finanze e generalmente capo del governo, e i suoi segretari nei loro molti «ministeri» (diwan). Fu merito dei Barmecidi se fu mantenuto un lungo periodo
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di pace sociale e di benessere: assunsero un atteggiamento conciliante verso gli abitanti delle province e di alcuni stati tributari, riorganizzarono su basi più eque il sistema fiscale, trasformando la tassazione da personale in reale, repressero le rivolte nelle zone periferiche ottenendo la sottomissione dei ribelli, inclusi gli Alidi, diressero l’amministrazione in modo ordinato garantendo allo Stato imponenti risorse, intrapresero grandi lavori pubblici (la costruzione di importanti canali in Iraq), svilupparono una politica agraria ed economica tendente alla formazione di vasti latifondi demaniali e privati, rafforzarono l’amministrazione giudiziaria con l’istituzione della carica di Gran Qadi. La nuova funzione non costituiva una giurisdizione superiore, essendo la giustizia esercitata ad un unico livello dai qadi, ma era una specie di Direzione del Personale, poiché il Gran Qadi doveva rappresentare il Califfo nell’esame delle qualifiche dei candidati e nel controllo delle qualità professionali dei titolari. In quest’epoca furono elaborate compiutamente le norme del diritto musulmano classico, che troviamo riassunte nel noto manuale sull’imposta fondiaria, il Kitab al-kharag, che il qadi Abu Yusuf dedicò ad Harun al-Rashid. Il Califfo tendeva frattanto ad accentuare il carattere sacrale della sua autorità, la sua funzione di guida spirituale dei Credenti: dirigeva con grande solennità la preghiera pubblica del venerdì a Baghdad, vestendo il mantello (burda) del Profeta e gli altri simboli del potere; e comandava le spedizioni di gihad contro il territorio del «cane cristiano» (questo era infatti l’appellativo usato da Harun per riferirsi all’Imperatore di Bisanzio). Del resto, il Califfato godeva in quel periodo del più alto prestigio internazionale sia in Oriente che in Occidente, dalla Cina dei Tang a Carlomagno. I rapporti diplomatici fra quest’ultimo e Harun sono testimoniati solo dalle fonti occidentali ma, secondo l’opinione del Musca, che ne ha fatto oggetto di attento studio, non ve motivo di dubitare della loro veridicità e consistenza. Nonostante tutto, però, fu proprio durante il Califfato di Harun che cominciarono ad apparire alcuni segnali di declino. In Oriente l’autorità abbàside fu indebolita dalle gravi sommosse religiose scoppiate principalmente nel Sistan, nel Khorasan e nelle province intorno al mar Caspio. In Occidente alcune regioni sfuggirono completamente al controllo del Califfo: l’emirato fondato in Spagna dall’omàyyade cAbd al-Rahman era a tutti gli effetti indipendente ormai dal 756; nell’estremo Maghrib gli Idrisiti, discendenti di al-Hasan figlio di cAli, avevano costituito nel 789 un regno sciita riconosciuto dalle maggiori tribù berbere della regione; da ultimo, lo stesso Harun nel 799 affidò il governo dell’Ifriqiyya al figlio di un ufficiale khorasaniano, Ibrahim b.al-Aghlab, in cambio del pagamento di un tributo annuo. Gli Aghlabiti divennero di fatto indipendenti e, durante il secolo del loro dominio, svolsero un ruolo assai importante nel Mediterraneo: oltre alle spedizioni sulle coste dell’Italia meridionale, in Sardegna, in Corsica e persino nelle Alpi Marittime, si impadronirono della Sicilia ed instaurarono rapporti commerciali con le prime città marinare italiane. Dagli inizi del ix secolo, dunque, la storia politica dell’intero Maghrib si staccò completamente da quella dell’Oriente islamico, mentre l’Egitto rimase, ancora per poco, la provincia più occidentale sotto il diretto controllo abbàside.
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Un altro segnale di pericolo fu la debolezza delle difese dell’Impero. Le frontiere erano ormai più o meno stabilizzate; le offensive contro Bisanzio erano condotte prevalentemente per motivi di politica interna e, del resto, non ce ne furono altre in grande stile dopo quella di Harun. Inoltre i Bizantini, superato un difficile periodo interno, presero l’iniziativa delle offensive contro Siria e Mesopotamia. Intanto i Kazari invadevano interi territori musulmani nel Caucaso e in Armenia. Forse, però, il più grave motivo di debolezza fu costituito dall’ancora poco chiaro dissidio interno che culminò con la drammatica caduta dei Barmecidi (802), divenuti troppo potenti agli occhi di Harun, e con l’assunzione delle redini del potere nelle mani non abbastanza competenti del Califfo. Questo avvenimento sembra aver minato la tradizionale alleanza con l’ala aristocratica persiana del movimento a cui gli Abbasidi dovevano largamente il loro potere. Sarà ancora un’altra scelta di Harun a causare, alla sua morte, una vera e propria guerra civile. Egli aveva infatti destinato a succedergli al Califfato il figlio maggiore al-Amin, avuto da una nipote di al-Mansur, ma aveva affidato il governo del Khorasan e delle altre regioni orientali ad un altro figlio, al-Ma’mun, la cui madre era una schiava persiana, nominandolo successore di al-Amin. L’intenzione dimostrata, più o meno apertamente, dal nuovo Califfo di non rispettare la successione indicata da Harun diede il via ad una lotta sanguinosa che durò due anni (811-813). Questo conflitto è stato spesso considerato – ricorda Henri Laoust – come «un conflitto fra due razze e due forme inconciliabili della stessa religione. Da una parte al-Amin, con il suo visìr al-Fadl b.al-Rabic, rappresenta l’arabismo e la grande «Tradizione» del Profeta (Sunna), dall’altra al-Ma’mun, con il suo visìr al-Fadl b.Sahl, personifica la causa dell’iranismo e dello sciismo. Una tale schematizzazione – che dà ad una rivalità di ambizioni un significato che essa non ebbe mai nella realtà – stabilisce fra l’arabismo e il sunnismo come fra lo sciismo e l’iranismo un’identità di natura smentita dai fatti». Più verosimilmente, la guerra civile fu una continuazione delle lotte sociali degli anni immediatamente precedenti, a cui si aggiunsero tradizionali rivalità regionali, piuttosto che nazionali, fra Persia e Iraq. Sconfitta dopo un lungo assedio la resistenza della capitale (813), furono necessari alcuni anni perché il nuovo Califfo al-Ma’mun potesse lasciare le sicure province orientali e far ritorno a Baghdad. Questa vittoria, per cui la superiorità militare dell’Oriente iranico era stata decisiva, segnò «una seconda conquista dell’Impero da parte dei Khorasaniani, più radicale della prima in quanto realizzata contro la sua metà araba, e non più con la sua parziale complicità» (C. Cahen). Con la riconferma dell’Iraq come centro del Califfato, le aspirazioni regionali e aristocratiche persiane sfociarono nella formazione di principati locali. Per primo lo stesso Tahir, il generale di al-Ma’mun, si rese virtualmente indipendente nel Khorasan e vi fondò una dinastia. Altri seguirono il suo esempio e, pur riconoscendo la nominale sovranità dei Califfi, li privarono di ogni effettiva autorità su quasi tutto il territorio persiano. L’avvento al potere di al-Ma’mun fu segnato da un avvenimento che suscitò immediatamente grande scalpore negli ambienti più legati alla rigida ortodossia sunnita. Il Califfo designò come suo successore
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un Alide, discendente di Husayn, cAli b. Musa, detto al-Rida, sperando forse di poter ricostituire contro gli estremisti l’unità della Famiglia mediante l’avvicendamento dei suoi rami. La morte di cAli scongiurò il pericolo di una gravissima secessione che già stava prendendo corpo negli ambienti religiosi e fra i clienti abbasidi timorosi di perdere i favori di cui avevano goduto fino ad allora. Al-Ma’mun continuò tuttavia a nutrire una profonda simpatia per la Shica anche se questa disposizione dovette trovare diversa attuazione. È necessario risalire ad alcune tendenze comparse in epoca precedente e che avevano caratterizzato le scelte ideologiche e politiche dei Barmecidi, cioè: il gusto per la libera discussione, l’applicazione dei metodi della speculazione filosofica anche in argomenti religiosi e teologici (metodi propri del movimento di pensiero che prese il nome di Mu‘tazilismo), la simpatia per gli Sciiti, la benevolenza verso i tributari soprattutto Cristiani. La caduta dei Barmecidi aveva poi dato spazio ad una reazione rigorista, anti-sciita, e all’adozione di misure contro i Cristiani e contro i Mu‘taziliti. Il movimento mu‘tazilita, privilegiando la speculazione razionale sull’imitazione della tradizione, aveva formulato una dottrina i cui cardini erano: monoteismo rigoroso, rifiuto delle descrizioni antropomorfiche di Dio, interpretazione allegorica di passi del Corano ed inoltre, in aperto contrasto con le opinioni dei Dottori sunniti, il dogma della creazione del Corano (inevitabile corollario dell’assoluta unicità divina) e il libero arbitrio dell’uomo (unica possibile premessa della assoluta giustizia divina). Sul piano della realtà contingente i Mu‘taziliti attribuivano all’Imam un potere dottrinale superiore al consenso (igmac) dei Dottori e questo era anche l’atteggiamento degli Sciiti più moderati (Zayditi). L’adesione di al-Ma’mun al Mu‘tazilismo significò la ripresa della sua politica filoalide, difatti ottenne l’appoggio degli Zayditi, e l’adozione dell’idea che l’Imamato dovesse andare al più degno, a qualunque ramo della Famiglia appartenesse. Nella pratica, al-Ma‘mun assunse come titolo privilegiato quello di Imam, che i suoi successori conserveranno per non privarsi del prestigio legato a questo titolo, ed impose le teorie mu‘tazilite come dottrina ufficiale dello Stato a cui i funzionari e i qadi dovevano prestare giuramento. Questa sorta di inquisizione (mihna) mu‘tazilita, che fu mantenuta da al-Muctasim (833-842) e da al-Wathiq (842-847), ebbe il risultato di inasprire maggiormente tutti coloro che erano legati alle posizioni tradizionali difese strenuamente dagli «studiosi del Diritto (religioso)» (fuqaha’) e dagli strati popolari. Il Califfato di al-Ma’mun deve, però, la sua maggiore e più durevole fama all’impulso che il sovrano dette allo sviluppo degli studi filosofici, scientifici e medici con la creazione di quella Bayt al-Hikma («Casa della Sapienza») dove si svolse un’intensa attività di traduzioni dal greco e dal siriaco. Al-Ma’mun morì mentre stava organizzando una spedizione in Asia Minore e fu suo fratello e successore, al-Muctasim, ad effettuare nell’838 l’ultima campagna abbàside contro Bisanzio che la storia ricordi. Il nuovo Califfo dovette prima fronteggiare una gravissima rivolta socio-religiosa scoppiata in Azerbaigian nell’816. Il capo di questa rivolta era un certo Babek, appartenente ad una famiglia mazdachita di media condizione, che i suoi seguaci consideravano come una reincarnazione divina, in conformità con le dottrine sincretiste da lui predicate in cui aveva parte il ricordo di Abu Muslim. Babek organizzò una
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attività terroristica sistematica, con metodi di rara violenza, sfruttando l’esasperazione dei contadini contro la dura oppressione dei pochi grandi proprietari terrieri. Dall’816 all’838 i disordini sconvolsero l’Azerbaigian raggiungendo anche il Kurdistan. Eliminato finalmente Babek, al-Muctasim si trovò di fronte ad un’altra sommossa organizzata nel Tabaristan da un certo Mazyar, appartenente ad una delle famiglie di signori indigeni mazdei che avevano perso molta parte dei loro possedimenti terrieri a vantaggio dei notabili musulmani. Nella rivolta, diretta non tanto contro l’Islam ma contro gli Arabi e gli Iraniani immigrati, furono coinvolte grandi masse di contadini oppressi. I disordini furono sedati da cAbdallah ibn Tahir, figlio del potente governatore del Khorasan di cui si è già parlato. A proposito della rivolta di Babek è interessante una segnalazione di Claude Cahen: «Benché non sia possibile stabilire alcun rapporto fra i due movimenti ...il moto di Babek è contemporaneo a quello, sotto molti aspetti simile, dei Pauliciani nel territorio bizantino orientale, e la coincidenza può per lo meno autorizzare l’ipotesi di una certa convergenza di condizioni sociali e di stati d’animo...». Ad al-Muctasim è generalmente attribuita l’introduzione dell’uso, rivelatosi fatale per il Califfato, di immettere nell’esercito soldati e ufficiali turchi provenienti dall’Asia centrale, da poco islamizzati ma dotati di indiscutibili virtù militari. Ben presto, gli alti gradi dell’esercito, che avevano completamente esautorato l’elemento arabo e iraniano, diventarono i veri arbitri della situazione, giungendo a poter decidere della nomina o della deposizione dei Califfi. Nell’836 al-Muctasim, con la corte e i suoi pretoriani turchi, abbandonò Baghdad, teatro di continui disordini dal tempo di al-Ma’mun, per trasferirsi a Samarra, la nuova città imperiale costruita ad un centinaio di chilometri a nord della capitale, che sarebbe rimasta sede dei Califfi fino all’892, quando al-Muctamid decise di far ritorno a Baghdad. Un abisso sempre più profondo divideva ormai il popolo dai detentori del potere, Califfi sempre più deboli e militari turchi sempre più influenti. Le stesse maestose rovine di Samarra testimoniano l’immissione nell’arte e nell’architettura delle tradizioni e dei gusti della nuova classe dominante turca. La metà del ix secolo vide 1’aggravarsi della situazione generale del Califfato: l’autorità dei Califfi sulle province si era ridotta in pratica alla sola legittimazione del potere di fatto detenuto dai governatori che, nella maggior parte dei casi, diedero vita a delle vere e proprie dinastie locali. Nello stesso Iraq il loro dominio era sempre più insignificante. Contemporaneamente, le crescenti spese di corte e il mantenimento di una burocrazia pletorica provocarono un irrimediabile scompenso finanziario, aggravato dal venir meno delle entrate provinciali e dall’esaurimento, o dalla perdita, delle miniere d’oro e d’argento. I Califfi cercarono di porre rimedio a questa situazione appaltando l’esazione delle imposte, eventualmente anche ai governatori. Questi diventarono allora i veri padroni dell’Impero, tanto più quando sia il governatorato sia l’esazione delle tasse furono affidati ai comandanti dell’esercito, i quali soltanto avevano la forza di imporre obbedienza. Con il successore di al-Muctasim, al-Wathiq, il potere della guardia turca continuò a crescere, ed un tentativo
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di arginarlo e di ripristinare un minimo dell’autorità califfale fu compiuto dall’energico al-Mutawakkil (847-861). A tale scopo egli cercò di riguadagnare alla dinastia l’appoggio dei teologi e della popolazione civile rifiutando le dottrine mu‘tazilite e ripristinando una rigida ortodossia: furono vietate tutte le discussioni sul Corano, fu condannata la teologia (Kalam) razionalizzante di tipo mu‘tazilita, furono rimesse in atto tutte quelle misure discriminatorie verso Ebrei e Cristiani che dall’epoca dei Barmecidi erano state abbandonate, e tutti i dhimmi («protetti», termine usato per indicare i non-Musulmani monoteisti sottomessi allo Stato islamico) furono espulsi dall’amministrazione. Il tentativo di esautorare la guardia turca non ebbe successo tanto che nell’861 al-Mutawakkil venne assassinato dai militari, coinvolti negli intrighi per la successione che erano già in atto tra i figli del Califfo. Per nove anni la totale anarchia regnò a Baghdad: quattro califfi si succedettero, tutti in balia delle varie fazioni esistenti fra i pretoriani turchi i quali, intanto, accrescevano il loro controllo sulla corte e sulla capitale. La situazione si fece di estrema gravità quando si scatenò nell’Iraq meridionale la rivolta degli schiavi Zang. Questi negri, importati dall’Africa orientale per lavorare nelle saline del Sawad, nell’869 si ribellarono allo sfruttamento disumano di cui erano vittime. La rivolta si diffuse rapidamente coinvolgendo anche le regioni sud-occidentali dell’Iran, furono interrotte le vie di comunicazione che collegavano la capitale a Basra e al Golfo Persico e le vie commerciali verso Oriente; nell’877 un esercito di ribelli arrivò a 17 miglia da Baghdad. È importante notare che, per la prima volta, la ribellione non era rivolta contro degli individui bensì contro lo Stato: gli elementari diritti che vi si rivendicavano, e che lo Stato sistematicamente violava, erano quelli che il Corano garantiva ad ogni uomo, a qualunque razza o condizione appartenesse. Ed era stato al contatto con l’Islam che gli schiavi Zang ne erano divenuti consapevoli. Per quattordici anni (869-883) questa guerra sociale rappresentò una seria minaccia per il Califfato. Intanto, nella capitale era tornata una certa stabilità: il califfo al-Muctamid, eletto nell’870, regnava sotto la tutela di suo fratello Talha al-Muwaffaq il quale riuscì durante i vent’anni del suo governo a ridare una certa autorità alla dinastia. Al periodo di anarchia che aveva sconvolto il centro dell’Impero corrispose un’estensione dell’autonomia delle regioni periferiche: in Egitto con la dinastia dei Tulunidi (868905), ai quali, dopo un breve ritorno dell’amministrazione abbàside, sarebbero successi gli Ikhshiditi (935-969); in Persia con i Saffàridi (867-903) e altre minori dinastie locali; ancora più ad Oriente, in Transoxiana, con i Samànidi (874-999). Fu merito dell’energia e abilità di al-Muwaffaq se le ambizioni dei Tulunidi e dei Saffàridi furono ridimensionate. Grandi capacità dimostrarono anche i Califfi al-Muctadid (892-902) e il suo successore al-Muktafi (902-908) che erano tornati a risiedere a Baghdad. Entrambi si trovarono di fronte ad una generale ripresa del movimento sciita, soprattutto nelle sue forme estreme. Per comprendere la genesi e le motivazioni di questi movimenti è necessario risalire al 765, anno in cui era morto l’Imam sciita Gia’far al-Sadiq, capo della discendenza fatimida. Alla sua scomparsa la Shaca si divise in due gruppi, uno dei quali, noto come ismailita, adottò molte delle funzioni e delle dottrine della discendenza hanafita, assorbendone anche i se-
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guaci. Intanto, nel corso dei suoi due secoli di vita, il Califfato aveva subito notevoli trasformazioni dal punto di vista sociale ed economico: lo stato di tipo agrario e militare era diventato un impero cosmopolita con un’intensa vita commerciale e industriale, la crescita delle grandi città e la concentrazione di capitale e lavoro provocarono grave tensione nella struttura sociale dell’Impero e generarono diffuse insoddisfazioni. La rapida crescita della vita intellettuale nell’Islam e l’impatto di culture risultante dalle influenze esterne e dallo sviluppo interno aprirono nuovamente la via alla diffusione di movimenti ereticali che, in una società teocratica, costituivano l’unica reale possibilità di esprimere un dissenso morale o materiale dall’ordine esistente. Le tensioni che avevano dato luogo ai disordini e alle varie sommosse del ix secolo sfociarono nello sviluppo di movimenti di ispirazione o forse meglio di «colore» ismailita che costituirono una sfida pericolosissima al Califfato. I Qarmati organizzarono delle violente rivolte in Iraq, negli ambienti rurali e beduini, a partire dall’875 : la loro propaganda annunciava la prossima venuta di un Imam nascosto e rivendicava l’uguaglianza sociale – escludendo però gli schiavi – e la comunità dei beni. Questo ha indotto, a volte, ad applicare al movimento qarmata delle definizioni e dei concetti propri di fenomeni dell’età moderna, mentre, come suggerisce il Cahen, pur trattandosi di un movimento con una base sociale molto evidente, bisognerebbe ricollegarlo, più che alla lotta di un «proletariato urbano», a quei movimenti «messianici» contadini di cui il Medioevo è pieno in tutti i paesi. I Qarmati, che spinsero le loro azioni fino alla spedizione contro la Mecca e al furto della Pietra Nera, si diffusero rapidamente nelle zone di confine fra l’Iraq e la Siria, in diverse zone della Penisola Arabica e fondarono nel Bahrein uno stato che sarebbe rimasto indipendente fino al 1075, costituendo una minaccia permanente per le vie di comunicazione verso sud. Sebbene il Califfo al-Muktafi fosse riuscito a domare le rivolte armate in Siria e in Mesopotamia, il pericolo sciita non era scongiurato, tanto più che un’attiva propaganda ismailita si era sviluppata in Africa del Nord trovando fertile terreno nei risentimenti delle tribù berbere verso il regime aghlabita. Quando il pretendente ismailita cUbaydallah fu costretto dall’ostilità dei Qarmati a rifugiarsi in Occidente, i suoi seguaci erano diventati così forti che riuscirono ad espugnare la capitale aghlabita, Qayrawan. cUbaydallah si proclamò Califfo, non riconoscendo la legittimità degli Abbasidi, e diede inizio alla dinastia fatimida. Intanto a Baghdad il giovane al-Muqtadir, che nel 902 era succeduto al fratello all’età di soli tredici anni, non riuscì ad impedire la ripresa delle tendenze distruttive che i suoi predecessori avevano appena arginato. I Qarmati ripresero la loro violenta attività, i Fatimidi rafforzarono il loro dominio in Ifriqiyya, la Siria settentrionale passò sotto il controllo della dinastia locale degli Hamdànidi, in Persia un’altra famiglia sciita, i Buwayhidi, cominciava a costituire una vera dinastia, che presto avrebbe minacciato anche l’Iraq. A corte crescevano gli intrighi e la confusione, mentre visìr e generali si contendevano il potere: la morte del Califfo provocò un ulteriore aggravarsi dei disordini. I suoi successori al-Qahir (932-934) e al-Radi (934-940) non godevano più di nessuna autorità. L’evento che solitamente è chiamato a simboleggiare questo processo di decadenza è l’attribuzione al governatore dell’Iraq, Ibn Ra’iq, del titolo di amir al-umara’ «comandante
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dei comandanti» (936). Questa istituzione, prima di diventare un titolo ufficiale, aveva avuto inizio quando all’eunuco Mu’nis era stata affidata dal Califfo al-Muqtadir la gestione della politica interna ed esterna dell’Impero. Se, apparentemente, il titolo intendeva affermare la supremazia del comandante militare di Baghdad sugli altri suoi colleghi nelle province, forniva un riconoscimento formale dell’esistenza di una suprema autorità temporale che esercitava l’effettivo potere politico e militare. Il Califfo rimaneva come un capo di Stato simbolico, garante della Fede e rappresentativo dell’unità religiosa dell’Islam. E fu proprio il titolo di amir al-umara’ che venne attribuito all’emiro buwayhide del Khorasan Mucizz alDawla, quando nel 945 entrò a Baghdad come difensore di un sempre più debole e insignificante Califfo abbàside. L’estrema gravità di questo evento risiede nel fatto che il controllo dello Stato islamico era passato nelle mani di una dinastia sciita.
L’organizzazione dello Stato abbàside Dopo aver sommariamente delineato gli avvenimenti principali che caratterizzarono la storia politica dei primi due secoli del Califfato abbàside, ci soffermeremo ad analizzare alcuni caratteri fondamentali individuabili nella struttura del governo, nell’amministrazione dello Stato e nell’organizzazione dell’esercito. I primi Califfi abbasidi si impegnarono nell’elaborazione di un sistema di governo che tenesse conto degli importanti mutamenti sociali sopravvenuti con l’espansione dello Stato islamico. L’organizzazione politica creata dagli Omàyyadi era essenzialmente un’organizzazione militare per i fini dell’espansione e lo sfruttamento dei territori conquistati. I fattori di instabilità erano lo spirito indipendente e ribelle delle tribù arabe e la non affidabilità dell’aristocrazia meccana che, gelosa del potere e della ricchezza degli Omàyyadi, usava ogni opportunità per sfruttare i risentimenti tribali contro la dinastia regnante. Questo aveva portato i Califfi ad accentrare il potere nelle loro mani istituendo degli organi amministrativi per un più rigido controllo sulle tribù. Un vasto scontento si diffuse e trovò espressione in accuse di «statalismo» congiunte all’indignazione degli ambienti religiosi per i quali perseguire l’interesse dello Stato significava porre l’Islam in secondo piano, dunque venir meno al compito primario di ogni musulmano. «Gli Omàyyadi – osserva Hamilton Gibb – furono per così dire le vittime di un processo dialettico all’interno della società islamica, un processo di autocritica con cui i suoi ideali politici erano gradualmente adombrati, ma poiché la società stessa mancava dei mezzi o della volontà di definirli e di articolarli in un sistema politico, essa tentò di evadere le proprie responsabilità addossando la colpa della sua deficienza sugli Omàyyadi». Ed è un paradosso solo apparente il fatto che gli Abbasidi instaurarono un potere più autocratico del precedente con un’amministrazione più simile a quella sasanide: essi, infatti, riuscirono non ad adattare meglio dei loro predecessori la pratica del governo ai principi della teologia islamica, bensì – come si è detto – ad integrare il concetto di Impero universale nell’Islam, imponendo cioè ai giuristi il compito di adattare i principi alla loro
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pratica. Con la rivoluzione abbàside il Califfato continuò ad esistere come istituzione effettivamente governante nella misura in cui fu capace di proporsi come una fedele istituzione musulmana, in stretta relazione con tutte le altre istituzioni derivanti dall’ideologia islamica. Il Califfo diventò sì un sovrano assoluto ma la legittimità del suo potere era desunta dalla volontà divina di dare alla Comunità dei Credenti una guida che si facesse garante dell’applicazione della Legge divina, quale era stata rivelata dal Profeta. Come nell’ebraismo, anche nell’Islam è fondamentale l’esigenza di costituire un ordine sociale interamente organizzato secondo la legge divina (non per nulla Louis Gardet ha definito lo Stato islamico ideale una «nomocrazia» più che una teocrazia). La nozione romana della legittimità dello Stato in se stesso, che implicava la possibilità di dare leggi valide anche senza riferirsi ad una legge divina – nozione in parte assunta dal Cristianesimo – non esiste nell’Islam, almeno nei principi. Il Califfo ha esclusivamente il potere di organizzare l’applicazione di una Legge data una volta per tutte. Nella pratica, le esigenze di una realtà mutevole resero inevitabile resistenza di un settore politico libero insieme ad un sistema legale che non poteva esserlo; ma lo sforzo di un regime islamico è necessariamente quello di comprimere al massimo il primo, o almeno di incorporarlo il più possibile in una Legge che, se non può essere cambiata, può essere almeno interpretata e sviluppata secondo le necessità della vita pubblica. Questo sforzo il Califfo deve farlo tenendosi in contatto con gli culama’, gli specialisti dell’cilm «la scienza (della Legge)», e con i fuqahad’, gli studiosi del diritto (fiqh). Diversamente dai vecchi autocrati orientali, il Califfo era, dunque, teoreticamente sottomesso alla Legge Sacra (Sharica) della cui autorità la sua carica costituiva la suprema attuazione. Inoltre, il suo potere non godeva del supporto di una stabile casta feudale e di una gerarchia sacerdotale. L’antica aristocrazia era infatti stata sostituita da una classe di cortigiani e di burocrati estremamente fluida ed eterogenea, mentre gli culama’ e i fuqaha’, che avevano una forte influenza sulla popolazione cittadina, non esitavano a ritirare il loro appoggio al Califfo in nome dei valori della tradizione e della Comunità. Lo spostamento della capitale ad Oriente e l’ingresso di un crescente numero di Persiani al servizio del sovrano provocarono, come si è visto, una progressiva ma generale iranizzazione nella corte e nell’amministrazione. Mentre la cultura greca aveva permeato l’impero romano ma i Greci erano rimasti esclusi dal potere politico, l’influenza persiana sullo sviluppo del mondo musulmano, comparabile in molti aspetti a quella esercitata dai Greci nell’Occidente latino, fu promossa dalle posizioni importanti che i musulmani persiani acquisirono nel governo sotto la dinastia abbàside. Cerimoniale di corte, amministrazione, modi di pensare, tradizioni culturali e socio-economiche iraniche furono introdotte nella capitale attraverso il comune uso della lingua araba e l’attenta preservazione dell’ortodossia islamica. L’amministrazione ebbe un carattere eminentemente burocratico: i funzionari (kuttab), reclutati per la maggior parte fra i mawali iranici, formarono ben presto una casta sociale. La fabbricazione della carta secondo i metodi importati dalla Cina, che si era diffusa fin dall’viii secolo, generalizzò l’uso di mettere per iscritto tutto il possibile secondo regole tecniche o stilistiche precise: questo assicurò ai kuttab un vero monopolio della professione.
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L’amministrazione, sia quella centrale della capitale, sia quella regionale, era costituita da una serie di servizi, ciascuno dei quali aveva un capo, noti con il nome persiano di diwan. Le riforme amministrative mutarono spesso il nome e le attribuzioni dei diwan, per cui ne ricorderemo solo alcuni principali: il diwan al-giund dell’esercito, il diwan al-kharag per le imposte fondiarie, il diwan al-diyac per i demani dello Stato, il bayt al-mal o Tesoreria di Stato, il diwan al-rasa’il o Cancelleria califfale, il diwan al-barid ufficio della Posta di Stato e delle Informazioni che esercitava il controllo del potere centrale sull’amministrazione periferica. Secondo il notissimo trattato di diritto pubblico compilato nell’xi secolo da al-Mawardi, i molteplici servizi amministrativi erano diretti da un visìr che esercitava la supervisione sull’insieme degli uffici. Le varie teorie sull’origine persiana di questa carica, nelle forme che conobbe al tempo del Califfato, sono state ridimensionate e parzialmente smentite da successivi studi compiuti dal Barthold e poi da Von Grunebaum e da Cahen e principalmente dalle analisi di Goitein e di Sourdel. Dal punto di vista filologico è ormai comunemente accettata l’origine araba del termine wazir, con il significato di «aiuto, sostegno», «colui che aiuta a portare un peso». Il problema delle origini storiche della carica di visìr è, invece, legato sia alle tendenze iranizzanti del nuovo governo, sia ad antichi costumi delle tribù arabe, sia all’evoluzione in un quadro essenzialmente ortodosso e islamico di uno Stato che doveva confrontarsi con sempre nuovi problemi di amministrazione. Ciò che conviene sottolineare è il posto occupato, nell’entourage dei sovrani abbasidi, da «clienti» (per lo più di origine iraniana) più fedeli e più docili dei principi di sangue che nell’epoca precedente consigliavano il Califfo, e forse ancor più preziosi per la loro competenza in materia fiscale formatasi nell’esercizio della professione di kuttab. Fra loro ogni nuovo Califfo si trovò portato a scegliere un uomo di fiducia a cui affidare compiti, a volte ingrati, dell’amministrazione e del governo, che servisse da intermediario fra lui e la folla dei sudditi e che portasse un titolo rappresentativo del ruolo chiamato ad assolvere nel seno della Comunità musulmana. Il sapore coranico del termine wazir determinò indubbiamente la scelta del titolo che doveva qualificare il loro nuovo assistente. Le diverse attribuzioni di cui godettero in relazione alla personalità e alle esigenze dei Califfi, la sorte talora drammatica che abbiamo visto concludere la loro attività non consentono, nonostante il ruolo decisivo svolto dai visìr nello Stato abbàside, di considerare il visirato come un’istituzione codificata fin dai suoi inizi e indispensabile ad un governo islamico. «I tratti costanti che lo fanno apparire, dalla fine del ii secolo dell’égira (ix secolo) come una carica onorifica e come una funzione metà amministrativa e metà esecutiva, suscettibili entrambe di variazioni considerevoli secondo la personalità di ogni sovrano regnante, permettono di proporne la seguente definizione: «assistenza» ufficialmente riconosciuta e comportante delle responsabilità abbastanza estese per accompagnarsi ad una dignità palatina» (D. Sourdel). L’amministrazione periferica era affidata in ogni provincia ad un governatore (amir) che aveva il comando dell’esercito e ad un capo dei servizi finanziari e fiscali (camil). Il collegamento fra il potere centrale e la provincia era assicurato dal sahib al-barid «capo del
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servizio postale» che dirigeva il servizio delle informazioni generali e della sorveglianza del territorio. Ogni provincia aveva il suo diwan particolare a Baghdad dove tutto era centralizzato. Il governatore riceveva anche dal Califfo la delega a dirigere la preghiera solenne del venerdì, e questo sottolineava il suo carattere di capo della Comunità musulmana nella sua circoscrizione. Come abbiamo visto, avvenne spesso, specie nelle regioni periferiche, che il governatore, il quale era generalmente un personaggio di prestigio appartenente ad una grande famiglia locale, riuscisse a riunire nelle sue mani l’amministrazione, il comando dell’esercito, l’esazione delle imposte diventando un vero sovrano, che trasmetteva il suo potere per via ereditaria, e doveva al Califfo una pura sottomissione formale. Questa delega del potere (tafwid), che i giuristi successivi si sforzarono di giustificare e codificare secondo i principi della Sharica, quando divenne un’usanza diffusa costituì una delle cause di maggior indebolimento del potere reale del Califfato. La situazione diventò ancor più grave allorché il Califfo delegò l’esercizio dei suoi poteri anche a Baghdad ad un amir al-umara’ che divenne il vero arbitro del Califfato. In sostanza – come fa notare il Gibb – il Califfato, non soltanto il Califfato abbàside come una struttura di governo, ma lo stesso concetto di Califfato fu gradualmente svuotato del suo contenuto reale dall’espansione e dalla crescente indipendenza delle stesse istituzioni che gli Abbasidi avevano creato per sostenerlo. Il sistema fiscale era basato in origine sulla differenziazione dei contribuenti in base alla loro fede: i Musulmani dovevano versare solo un tributo corrispondente all’obbligo religioso della zakat «elemosina legale»; i non Musulmani erano tenuti al pagamento di una tassa sulla persona (gizya «capitazione, testatico») e di un’imposta fondiaria sulle loro terre (kharag). Quest’ultima, essendo legata alla terra, doveva continuare ad essere versata anche in caso di conversione del proprietario all’Islam. Gli Abbasidi si sforzarono di unificare il più possibile il sistema fiscale in modo da migliorarne il funzionamento tecnico ed aumentarne il rendimento. Poiché l’economia dell’Impero era essenzialmente agricola, e la terra era la fonte più regolare di ricchezza, il sistema fiscale si basava prevalentemente su di essa. Le terre erano distinte in terre soggette alla zakat, corrispondente in pratica ad una decima, che comprendevano le proprietà musulmane fin dall’origine e quelle dette qata’ic il cui sfruttamento era temporaneamente devoluto ad ufficiali dell’esercito, come compenso; e in terre soggette al kharag che avevano un regime più diversificato. Il kharag veniva generalmente imposto ai piccoli e medi proprietari, mentre la decima era riscossa dai grandi proprietari che, avendo ricevuto il pagamento dei canoni dai mezzadri, pagavano una decima spesso stabilita in modo forfettario. L’imposta fondiaria si calcolava o in base ai raccolti, ed era quindi variabile (muqasama) oppure in base ad unità di sfruttamento di superficie fisse, con ritocchi secondo il rendimento, o a unità di sfruttamento di superficie variabili secondo il rendimento o le condizioni di lavoro (misaha). Nessuno dei due sistemi prevalse definitivamente sull’altro. In genere, le tasse erano pagate ratealmente. Considerato, poi, lo stretto legame esistente fra imposta fondiaria e andamento dell’agricoltura, la riscossione era legata all’anno solare mentre l’anno musulmano ufficiale era quello lunare e questa dualità non faceva che complicare l’intero sistema. Se, tutto sommato, il sistema fiscale riusciva ad avere
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un controllo reale sull’attività agricola, la stessa cosa non avvenne per le attività artigianali e soprattutto commerciali e questo, alla lunga, si rivelò estremamente dannoso per le finanze dello Stato. Il potere giudiziario era esercitato secondo le norme della Sharica dai qadi che venivano nominati dal Califfo in modo da sottrarli alle ingerenze dei governatori provinciali e da valutarne la competenza. A partire da Harun al-Rashid quest’ultimo compito fu affidato al Gran Qadi. Esisteva un unico grado di giurisdizione ed il cosiddetto «tribunale degli abusi» (mazalim), in cui il sovrano esercitava il diritto di suprema giustizia che gli competeva, limitava la sua azione ai casi che esorbitavano l’applicazione della Legge religiosa, quando la giustizia del qadi sembrava insufficiente e quando si trattava di difendere i deboli dagli abusi di potere. I compiti di polizia erano svolti dalla shurta, una vera polizia di reclutamento locale, sottoposta al governatore, alla quale era anche affidato, al di fuori dell’ambito della Sharica, l’esercizio della giustizia criminale, repressiva. Al tempo dei primi Abbasidi fu costituita una funzione particolare detta hisba il cui titolare, il muhtasib, esercitava il controllo sull’ordine pubblico e sulla vita economica locale, cioè sulla moralità dei mercati ed anche sulla moralità di tutte le manifestazioni pubbliche di vita nel quadro di una società dominata dall’Islam: osservanza del culto, correttezza nei rapporti fra i due sessi, osservanza da parte dei non Musulmani delle norme discriminatorie a cui erano sottoposti. Il muhtasib aveva dei collaboratori ed era subordinato al qadi. Alle dirette dipendenze del Califfo era, almeno teoricamente, l’esercito; la maggior innovazione militare introdotta dagli Abbasidi fu la creazione di un esercito imperiale stabile, con un reparto centrale a Baghdad. In esso l’elemento arabo perse gradualmente la sua importanza e le pensioni precedentemente pagate agli Arabi furono interrotte eccetto che per i soldati effettivi. Il nucleo dell’esercito era formato da Khorasaniani, cioè da Arabi e Persiani provenienti dal Khorasan, i quali erano iscritti regolarmente al diwan e ricevevano una paga regolare. Nelle località di confine, particolarmente quelle dell’Asia Minore, operavano dei volontari di tutte le provenienze che vivevano in parte delle razzie in territorio nemico e in parte a spese di fondazioni pie che sostenevano il gihad. Nelle zone dove non esistevano possibilità di insediamento e sulle coste questi volontari si raggruppavano in specie di piccole comunità fra il religioso e il militare, che vivevano in conventi-fortini detti ribat. Verso la metà del ix secolo una innovazione fu introdotta da al-Muctasim, il quale, non fidandosi dell’istituzione di un comando autonomo nel Khorasan costituito da al-Ma’mun, decise di reclutare una guardia personale autonoma formata preferibilmente da schiavi selezionati che, per la loro origine, fossero estranei alle contese interne. Questa guardia fu reclutata fra le popolazioni pagane delle montagne a Sud del mar Caspio e soprattutto fra i Turchi dell’Asia centrale. Ben presto, però, si scatenarono anche nell’ambito di questo corpo «speciale» le rivalità fra i vari capi e, fatto ancor più grave, questi si resero conto che il Califfo dipendeva in pratica da loro molto più di quanto essi stessi dipendessero da lui. Abbiamo visto quali furono le conseguenze per il Califfato.
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Intanto il mantenimento dell’esercito regolare diventava sempre più gravoso, sia per le sue aumentate esigenze sia perché la riduzione del territorio dello Stato, a vantaggio degli emirati autonomi, aveva diminuito il gettito fiscale verso la Tesoreria centrale. Si cercò di rimediare alla mancanza di liquidi, sostituendo le paghe dovute agli ufficiali con la concessione (iqtac) di qata’ic, cioè di terre sottratte al demanio pubblico con l’obbligo di valorizzarle e di pagare la decima dovuta. Come si vede, non si trattava di feudi, piuttosto, se si vuole trovare un parallelo con un’istituzione occidentale, di concessioni simili all’enfiteusi. Quando non ci furono più territori disponibili, si cominciò a trasformare le terre di kharag in terre di decima a vantaggio dei militari, cioè questi diventavano beneficiari delle tasse pagate dagli agricoltori, dovendo allo Stato solo la decima. La conseguenza fu l’ulteriore impoverimento delle finanze pubbliche e l’arricchimento degli ufficiali i quali potevano facilmente acquistare altre terre in proprio. Poiché i qata’ic erano temporanei e non ereditari, gli assegnatari si preoccupavano solo di ricavarne il più possibile, chiedendo poi di cambiarli: questo impediva la formazione di signorie stabili ma causava un irrimediabile impoverimento a vantaggio di un’aristocrazia straniera in una situazione che Cahen definisce di «colonialismo militare». In conclusione, con una considerazione globale della situazione del Califfato alla fine del x secolo, si può affermare con il Gibb che esso «aveva perso il controllo, una dopo l’altra, delle forze su cui originariamente erano basati il suo potere e la sua autorità. Aveva creato un’istituzione religiosa, una struttura militare e una burocrazia e incoscientemente favorito una rivoluzione sociale, dalle quali sarebbe stato alienato... La reale vittima fu l’istituzione politica dell’Islam, la sopravvivenza come effettive norme politiche di ideali etici, la «giustizia» e il sistema integrato di diritti e doveri predicato dalla rivoluzione islamica». D’altra parte, però, il fallimento del Califfato non impedì lo sviluppo della cultura e della civiltà islamica. La divisione dell’Impero in vari principati se provocò, come si è visto, l’indebolimento del potere centrale, ebbe delle conseguenze sicuramente positive per i singoli paesi musulmani. Nel suo Zuhr al-Islam Ahmad Amin ha messo bene in evidenza questo processo per cui l’indipendenza economica ed anche politica causò un generale miglioramento nelle condizioni di vita di molte regioni e un grande slancio delle attività culturali e scientifiche, favorito anche dal desiderio dei sovrani locali di dar lustro alla loro corte. Il movimento della Shucubiyya, rivendicazione del ruolo dei non Arabi e dei loro specifici particolari contributi nel determinare la civiltà musulmana, si sviluppò quando gli Arabi avevano ormai perso il loro primato politico, e tuttavia la lingua usata rimase sempre l’arabo. È lecito dunque parlare di una civiltà araba: «Abbiamo in altre parole – ricorda a questo proposito Francesco Gabrieli – lo stesso fenomeno dell’età imperiale romana, quando il latino e la sua cultura furono adottati anche da scrittori non latini né italici, che si sentirono ugualmente membri della civiltà romana, e questa assorbirono ed arricchirono dei frutti del loro ingegno. Quel comune denominatore, che nell’Impero romano fu essenzialmente politico e civile, nell’Impero musulmano medievale fu religioso, e in entrambi i casi il suo mezzo espressivo fu la lingua comune...».
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L’epoca sciita e i Selgiuchidi L’avvento del regime buwayhide aprì nella storia dell’Islam quel periodo definito dal Minorsky «l’intermezzo iranico» fra la dominazione araba del primo Islam e la conquista turca dell’xi secolo. c Ali, al-Hasan e Ahmad, figli di Buwayh, provenienti dal Daylam (regione a Sud del mar Caspio) erano entrati al servizio dei Samànidi che governavano il Khorasan e la Transoxiana. Abili condottieri, in breve tempo si resero padroni di varie province (Fars, Gibàl, Kirmàn e Khuzistàn). Nel 945 Ahmad entrò a Baghdad ottenendo dal Califfo l’investitura di amir al-umara’ e un titolo onorifico (laqab) particolare per sé (Mucizz al-Dawla) e per i suoi fratelli. Nonostante la loro professione di fede sciita, non cercarono di sopprimere il Califfato sia perché era necessario ad imporre la loro attività ai Sunniti, sia perché non avevano nessun sovrano legittimo da proporre essendosi estinta la successione dopo il dodicesimo Imam. Essi agirono in coerenza con la teoria secondo cui, in periodo di assenza (ghayba) dell’Imam era legittimo accettare un altro sovrano purché tollerante verso la Shica. Si realizzava così, ma questa volta da parte sciita, la convivenza tra i due principali gruppi di Musulmani sognata da al-Ma’mun. Gli Alidi godettero di grande rispetto e svolsero un ruolo politico di equilibrio e di misura, numerose pratiche e feste sciite furono riportate in uso. In sostanza nessuno strumento di governo rimase nelle mani del Califfo che mantenne soltanto un segretario ed una cancelleria per gli affari strettamente inerenti al Califfato e per la corrispondenza internazionale. Il visirato passò alle dirette dipendenze dei Buwayhidi i quali, conoscendo male l’arabo, tennero gli strumenti di coordinamento nelle loro mani dividendo le funzioni del visir fra due o tre alti funzionari. I Buwayhidi governarono come una dinastia familiare e il titolo di Shahanshah «re dei re» di cui si fregiarono indicava la sovranità di uno di loro sugli altri principi della famiglia. Nella struttura interna il loro regime accentuò un’evoluzione già delineata nel secondo secolo del Califfato abbàside: l’esercito aumentò la sua influenza, fu esteso il regime di iqtac e di conseguenza si sviluppò una più potente aristocrazia di capi militari mentre continuava a decrescere il gettito fiscale. È certo, comunque, che i primi Buwayhidi furono sovrani di valore e sotto di loro la civiltà materiale e spirituale dell’Islam raggiunse un altissimo grado di sviluppo. La loro corretta amministrazione riuscì a mantenere l’ordine interno ed a promuovere la realizzazione di notevoli opere pubbliche, così anche la vita culturale acquistò nuova vitalità, grazie anche alla valorizzazione e all’ascesa delle città di provincia, soprattutto quelle persiane. Mentre il Califfato continuava a sopravvivere sotto il dominio buwayhide, una più seria minaccia veniva invece da Occidente dove i Fatimidi, sciiti di professione ismailita, di cui abbiamo parlato, nel 969 erano riusciti dai loro territori dell’Ifriqiyya a conquistare l’Egitto giungendo ad estendere il loro potere anche sulla Penisola Arabica e sulla Siria. Questi, contrariamente ai Buwayhidi, non riconoscevano nemmeno formalmente l’autorità abbàside e si erano proclamati Califfi con il chiaro intento di sostituirsi agli Abbasidi nella guida dell’intera comunità musulmana. La loro potenza politica e militare godeva del supporto di
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un’organizzazione religiosa complessa ed efficiente che controllava una fitta rete di propagandisti e di simpatizzanti operanti nei territori abbasidi. Inoltre, un’accorta politica economica riuscì, favorita da altre circostanze, a spostare i grandi itinerari del commercio orientale dal golfo Persico al mar Rosso. Ne conseguì una grande prosperità e potenziamento per l’Egitto, mentre per l’Iraq la crisi economica andò ad aggravare una situazione di debolezza interna dovuta al frazionamento del potere fra i principi buwayhidi, alle crescenti pretese dell’esercito in cui l’elemento turco sunnita era andato via via aumentando, al moltiplicarsi dei disordini urbani in cui, come al solito, le motivazioni socio-economiche si confondevano con quelle religiose. Il Califfo, chiamato a fare da arbitro nelle contese dinastiche, riguadagnò nell’xi secolo un minimo di autorità, almeno in Iraq, fino a poter nominare un proprio visìr: fu il caso dell’abile e intransigente sunnita Ibn al-Muslima, nominato da al-Qa’im (991-1031). Testimonianza significativa di questa parziale ripresa del potere califfale fu la compilazione del trattato del giurista al-Mawardi in cui era esposta la teoria sunnita sulla struttura dello Stato e i fondamenti del potere. Sebbene non fosse possibile restaurare in pieno l’autorità califfale, si faceva strada l’idea che per lo meno si potesse porre fine all’usurpazione sciita con l’aiuto di uno dei potenti sovrani sunniti. Il più qualificato era indubbiamente Mahmud di Ghazna, grande capo militare di origine turca padrone dello stato più importante dell’Oriente musulmano: dal Khorasan, che suo padre aveva sottratto ai Samànidi, aveva esteso il suo potere fino all’Amu Darya, giovandosi dell’alleanza dei Turchi Qarakhanidi, padroni della Transoxiana, e poi sfruttando le loro contese familiari. Erano state, però, le sue conquiste in India a renderlo famoso presso i suoi contemporanei. Nel 1029 Mahmud inviò suo figlio ad occupare Rayy e la regione del Gibal, dove molti Sciiti furono massacrati. Ma la sua morte e l’eccessivo spostamento di forze militari verso l’India segnarono il crollo del suo Stato davanti all’avanzata dei Turchi Selgiuchidi. Questi, originari delle steppe settentrionali del mar Caspio e del lago Aral, appartenevano al popolo turco Oghuz. Si erano convertiti all’Islam alla fine del x secolo ed erano entrati nel mondo musulmano in Khwarizm e in Transoxiana, come truppe ausiliarie dei capi locali. Passati nel Khorasan, se ne impadronirono scacciandone i Ghaznavidi e nel 1038 Tughril si proclamò sultano a Nishapur. Quindi cominciò deliberatamente ad associare la sua autorità alla causa dell’ortodossia sunnita contro la «tutela» sciita, guadagnandosi le simpatie e l’appoggio dell’entourage del Califfo. Intanto, le sue truppe avanzavano in Persia e infine, nel 1055, Tughril entrò a Baghdad ponendo fine al regime buwayhide. Ricevette dal Califfo, con il titolo di Sultano e di Re dell’Est e dell’Ovest, la delega di tutti i poteri e la missione di combattere gli eretici, cioè i Fatimidi: una nuova epoca si apriva per il mondo musulmano. Non è forse inutile ricordare che, sebbene molti Turchi vivessero già dal tempo di al-Muc sta sim nelle regioni musulmane, si trattava di schiavi o di mercenari strappati al loro popolo, ai loro modi di vita e tenuti al servizio dell’esercito musulmano. Nell’xi secolo furono, invece, intere popolazioni turche che si trasferirono nei paesi musulmani, modificandone
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la composizione etnica e introducendovi i propri usi e la propria mentalità. Tughril Beg e i suoi valorosi successori Alp Arslan e Malikshah allargarono i domini dello Stato selgiuchide strappando ai Fatimidi la Siria ed infliggendo ai Bizantini il disastro di Manzicerta nel 1071. Il vincitore, Alp Arslan, non intendeva occupare stabilmente l’Asia Minore ma alcuni gruppi di Turcomanni, in contrasto con il volere del Sultano, decisero di stabilirsi nella regione e, approfittando dell’anarchia seguita alla morte del Basileus, occuparono le principali città. Se, per il momento, non riuscirono a fondare uno stato organizzato, posero le basi di un popolamento, di un diverso modo di vita che avrebbero successivamente dato vita alla «Turchia». I primi due grandi Selgiuchidi, Tughril e Alp Arslan, furono dei valenti capi militari ma è al loro successore Malikshah, e al suo visìr iraniano Nizam al-Mulk, che lo stato selgiuchide dovette la sua organizzazione e il suo prestigio. Il nome di Nizam alMulk è legato ad un prezioso trattato sul governo, intitolato Siyasat-nameh, in cui espose la sua teoria politica, frutto dell’esperienza di funzionario ghaznavide formatosi nella tradizione samanide del Khorasan e dell’accoglimento di elementi nuovi dovuti all’apporto dei Turchi. Tipica dell’Impero selgiuchide, sempre combattuto fra il desiderio di un potere monarchico e la concezione familiare del potere, fu l’istituzione dell’atabeg: aveva questo nome un personaggio a cui il sovrano affidava l’istruzione e la cura degli interessi dei suoi figli in età minore e che, in caso di morte del principe, ne sposava la madre. Quando la carica cominciò ad essere ricoperta dai capi militari, il loro potere si accrebbe enormemente con conseguenze disastrose per la stabilità dello Stato. La presenza massiccia dell’esercito turcomanno nelle regioni conquistate ne modificò la fisionomia etnica ed anche socio-economica, con l’introduzione di elementi tipici del nomadismo pastorale che tuttavia non danneggiarono l’economia agricola preesistente. Inoltre, l’entità numerica dell’esercito, di molto superiore ai precedenti anche tenuto conto della maggiore estensione territoriale, richiese la generalizzazione a tutto l’Impero del sistema dell’iqtac, con caratteri simili a quelli praticati dai Buwayhidi. Giunti al potere in nome della difesa dell’ortodossia, i Selgiuchidi si adoperarono per restaurarne in pieno il rispetto nella società musulmana, non compirono persecuzioni ma repressero ogni moto di rivolta per salvaguardare l’ordine pubblico. La loro ortodossia, del resto, includeva elementi, come la mistica, che in epoca precedente erano stati considerati con sospetto e che facevano parte dell’Islam tipicamente iranico: non a caso fu il grande al-Ghazali, un iraniano di Tus, a formulare la nuova teoria ortodossa in cui trovavano maggior spazio gli elementi personali e sentimentali. In pratica, la politica religiosa dei Selgiuchidi si concretizzò nella creazione di fondazioni religiose, soprattutto di scuole (madaris, pl. di madrasa) destinate alla formazione dei teologi e dei giuristi, fra le quali la più illustre fu quella fondata a Baghdad da Nizam al-Mulk, che da lui prese il nomàe di Nizamiya. È importante notare che la cultura, così come l’amministrazione e la Cancelleria dei Selgiuchidi, si espresse più che in arabo in persiano a testimonianza del prestigio raggiunto dalla lingua e dalla civiltà iranica nell’ambito del mondo musulmano. Contrariamente al luogo comune, trasmesso in Occidente dai Crociati che con loro si scontrarono, del Turco feroce e nemico della Fede, i Selgiuchidi non mostrarono alcuna intolleranza verso Cristiani
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ed Ebrei e la loro repressione dei movimenti ismailiti era dettata più che altro dalla necessità di mantenere l’ordine pubblico contro i continui disordini che essi fomentavano. Una setta, in particolare, divenne molto attiva e pericolosa: erano i sostenitori di Nizar, fratello del califfo fatimide che deteneva il potere in Egitto. Questi, guidati dall’abilissimo Hasan as-Sabbah, avevano formato una temibile setta terroristica e si erano impadroniti di una regione montuosa sulla riva meridionale del mar Caspio stabilendo la loro roccaforte nella cittadella di Alamut. Assoluta fedeltà e cieca obbedienza era ottenuta dal Gran Maestro (noto altresì come il Vecchio della Montagna) anche mediante la somministrazione ai suoi seguaci di hashish (canapa indiana), donde l’appellativo di hashishiyun, attribuito ai Nizariti che basavano la loro azione sul terrorismo e gli omicidi politici. Il più importante omicidio politico compiuto da questa setta fu quello del grande Nizam al-Mulk nel 1092. Pochi mesi dopo moriva Malikshah e cominciava la decadenza dello Stato selgiuchide dilaniato dalle lotte interne. Nel secolo successivo sia il Khorasan, che la Siria e l’Alta Mesopotamia avevano vita autonoma mentre l’Iraq era governato dal Califfo che, in sostanza, vi esercitava un potere simile a quello degli altri principi locali. Intanto, nelle contese dinastiche fra i Selgiuchidi, gli atabeg ebbero modo di accrescere la loro influenza e non solo divennero titolari di grandi iqtac ma spesso riuscirono a sostituirsi ai loro protetti e a formare delle dinastie autonome, come gli Zengidi di Mossul. Fu in questo periodo, cioè nel xii secolo, che gli iqtac divennero permanenti ed ereditari, trasformandosi in un vero sistema feudale. Dall’indebolimento dei Selgiuchidi trasse qualche vantaggio il Califfato nel periodo, dal 1180 al 1225, in cui la carica fu tenuta da an-Naasir. Favorito dal fatto che i sovrani più potenti, gli Ayyubiti di Egitto e Siria e i Khwarizm-Shah delle province orientali, erano impegnati gli uni contro i Crociati, gli altri contro i Mongoli, egli riuscì a riconquistarsi una relativa potenza, per lo meno in Iraq. Ottenne il riconoscimento del capo degli Assassini e cercò di riunire intorno al Califfato le forze spirituali dell’Islam, in particolare riorganizzando e disciplinando una specie di ordine cavalleresco islamico detto Futuwwa, che aveva assunto un notevole ruolo sociale e politico nella vita delle principali città. Grandi mutamenti erano frattanto sopravvenuti nelle regioni occidentali: il frazionamento della Siria in emirati turchi rivali controllati dai vari atabeg selgiuchidi e dai loro vassalli, la debolezza del dominio fatimide sulla Palestina avevano permesso ai Crociati di stabilirsi nel dar al-Islam. La resistenza da parte dei Musulmani fu tanto più insignificante sia in quanto essi videro in questi «Franchi» degli equivalenti dei «Rum» bizantini contro cui ci si batteva da secoli senza troppo danno, sia perché la Siria, divisa politicamente e religiosamente, avvezza alle più diverse presenze, non aveva nessuna tradizione di «guerra santa». Una vera controffensiva sarebbe stata possibile solo con uno sforzo unitario in cui fossero coinvolte anche le forze dell’Alta Mesopotamia. Questo avvenne nel xii secolo grazie all’iniziativa, e alle ambizioni, di Zinki, atabeg indipendente di Mossul e Aleppo, e di suo figlio e successore ad Aleppo Nur ad-Din (il Norandino delle fonti cristiane). Il primo, dopo
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aver sottratto ai Franchi la Contea avanzata di Edessa (1144), tentò invano di impadronirsi di Damasco dove regnavano gli eredi atabeg Tughtikin. La riunificazione della Siria fu opera di Nur ad-Din, il quale, divenuto signore di Aleppo e di Damasco, poté convogliare in una grande offensiva tutte le forze militari della regione riuscendo a respingere i Franchi ad Ovest del Giordano e dell’Oronte. Ma, a parte questi successi militari, pur sempre limitati, la figura di Nur ad-Din assume particolare rilievo per l’ardore con cui testimoniò un nuovo spirito del gihad e per la consapevolezza, variamente dimostrata, della necessità di ristabilire l’unità morale dell’Islam, unico vero baluardo contro ogni nemico. E fu un esercito turco-curdo da lui mandato in Egitto per respingere un intervento dei Franchi di Gerusalemme, che avevano approfittato dell’anarchia dello Stato fatimida, ad installarsi nella regione nel 1169. Due anni dopo, il suo comandante, l’emiro curdo Salah ad-Din (Saladino), eliminati gli incapaci eredi, estese la sua autorità all’intera regione siro-egiziana e, con rinnovate energie, riprese gli attacchi contro i Franchi che culminarono nel 1187 con la vittoria di Hattin e con la riconquista di Gerusalemme. La Terza Crociata si ridusse a consolidare le poche zone rimaste del Regno Latino intorno alla nuova capitale, Acri. L’anno dopo aver stipulato una tregua con i Cristiani, Saladino morì (1193) dividendo fra i suoi figli l’Impero ayyubita da lui fondato che comprendeva l’Egitto, la Siria, eccettuati i residui Stati latini, la Mesopotamia e parte dell’Arabia. La fama del grande Sultano, il cui valore e virtù morale furono riconosciuti anche dagli avversari, resta legata nel mondo musulmano al vanto di aver recuperato Gerusalemme (che anche per i Musulmani è luogo santo) e di «aver impersonato di fronte all’aggressore infedele lo zelo inflessibile e la risorta potenza guerriera dell’Islam». Molto poco, invece, i Crociati e la Cristianità occidentale seppero del Califfo an-Nasir a cui Saladino era almeno nominalmente sottomesso e, del resto, anche da parte del Califfo, occupato nelle faccende dell’Iraq, ci fu una sostanziale indifferenza verso la lotta contro i Cristiani.
irresistibile violenza in Iraq: nel 1256 fu distrutta la fortezza di Alamut da cui per oltre un secolo gli Assassini avevano sfidato tutto l’Islam; nel 1258 l’antica capitale dei Califfi abbasidi fu devastata e l’ultimo rappresentante di una dinastia plurisecolare fu ucciso. Con lui terminava il Califfato. Due anni dopo furono militari turchi, i Mamelucchi, che avevano preso il controllo dello Stato ayyubita, ad annientare in Palestina ad cAin Gialut un’unità mongola. Per la prima volta quella travolgente avanzata era stata fermata e l’effetto morale fu immenso: l’Impero mongolo, vittima del suo gigantismo e della conseguente disorganizzazione, dove recedere. La Siria fu riconquistata e la definitiva frontiera fra il mondo mongolo e quello arabo-mamelucco rimase fissata verso il medio Eufrate. La conquista mongola di Baghdad e la distruzione del Califfato sono spesso descritte come la più grande catastrofe nella storia dell’Islam. In realtà, questi avvenimenti segnarono la fine di un’epoca, non solo riguardo alle forme di governo e di sovranità ma nella stessa civiltà islamica. Tuttavia, gli immediati effetti morali per la fine del Califfato furono quasi insignificanti. Abbiamo visto come il Califfato aveva già da molto tempo cessato di esistere come istituzione effettivamente governante ed i Mongoli avevano distrutto solo un fantasma. Ha qui il valore di una mera curiosità ricordare che un presunto Abbàside fosse accolto dal Sultano mamelucco d’Egitto, Baybars, diventando, quale «reliquia califfale», testimone del suo potere ed egida della sua legittimità. L’Islam aveva da tempo dovuto rinunciare ad una guida politica unitaria ed aveva rimesso quella religiosa nelle mani dei dottori della Legge, sul cui consenso si era basata l’elaborazione del dogma e del diritto musulmano. L’idea di un rigido controllo statale sulla religione che Ibn al-Muqaffac aveva proposto ad al-Mansur, nel tempo del massimo splendore del Califfato, non fu mai attuata e questo andò a tutto vantaggio dell’Islam. La religione, invece di diventare appannaggio di una privilegiata minoranza, divenne il centro di interesse di ben più vasti strati della Comunità musulmana. La connessione fra Stato e religione non era insolubile e la successiva storia dell’Islam ne costituisce la più chiara dimostrazione.
L’arrivo dei Mongoli e la fine del Califfato Ormai il mondo musulmano aveva assunto in seguito alla conquista selgiuchide e alle sue conseguenze una nuova fisionomia: la regione siro-egiziana ne costituiva il blocco occidentale, a cui si sarebbe aggiunto lo Stato turco in Asia Minore, mentre l’Iran era divenuto il centro di gravità delle province orientali; in questo modo Baghdad veniva a trovarsi in una posizione eccentrica, di isolamento dai due mondi. Se an-Nasir era stato abile ed energico, i suoi successori furono deboli ed incompetenti e quando il generale mongolo Hulagu fece la sua apparizione davanti a Baghdad l’ultimo Califfo al-Mustacsim fu incapace di ogni resistenza. I Mongoli, unificati e disciplinati da Gengis Khan, avevano fatto irruzione nel mondo musulmano nel 1243 travolgendo in pochi anni il Khwarizmshah e l’Iran, rivolgendosi poi al Caucaso, alla Georgia, fino alla Russia, la Polonia, la Germania e l’Ungheria. Una seconda ondata mongola si riversò con
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L’impero Omayyade nel 750 circa
Il califfato abbaside nel 900 circa
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44 Il Medio Oriente fra l’viii e l’xi secolo: gli Abbasidi e i loro successori
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46 L’espansione degli Almoravidi, dei Selgiuchidi e dei Ghaznavidi intorno al 1100
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Baghdad Madrasa di Al-Mustansir (Mustansiriyya, 1233) Costruita per l’insegnamento dei quattro riti ortodossi sunniti, questa madrasa è a quattro iwan, situati al centro di ogni lato di un grande cortile rettangolare circondato da porticati disposti su due piani. Oltre alle celle per gli studenti e i professori, vi sono una sala di preghiera, la cucina, i bagni. Sui lati lunghi del cortile gli iwan sono triplici: due di essi costituiscono l’ingresso, l’altro dà sulla musalla, area scoperta per la preghiera
L’accesso all’iwan dalla corte
Cortile interno, particolare dell’iwan
Pianta
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Portale esterno di accesso alla madrasa
Particolare della decorazione dell’estradosso di un’arcata
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Vista del cortile interno Decorazione del soffitto con volta a botte di uno degli iwan Nella pagina precedente: particolare della decorazione geometrica in mattoni con inserti di terracotta incisa ad arabeschi su uno degli iwan maggiori
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Palazzo Abbaside (circa 1230) Questo “palazzo”, che si pensava costruito dal Califfo an-Nasir, si ritiene ora sia stata una madrasa, eretta durante il regno di al-Mustansir. Notevoli le volte a muqarnas delle arcate che circondavano il cortile, nelle quali erano sistemate le celle per gli studenti
Due arcate affacciate sulla corte interna, con le caratteristiche volte a muqarnas
La corte centrale del Palazzo abbaside, probabilmente una scuola coranica o una madrasa, sulla quale si affacciano l’iwan (a sinistra) e le celle (a destra) Pianta dell’edificio
Portico della corte interna
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Particolare della decorazione di un soprarco
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Tomba di Sitta Zubayda La tomba di Sitta Zubayda (1179-1225) è stata eretta a Baghdad da an-Nassir per la madre. Questa tomba ottagonale in mattoni è famosa per la sua copertura conica a muqarnas, che riprende il modello di quella dell’Imam Dur, costruita a Samarra nel 1085
Il mausoleo ottagonale sullo sfondo del cimitero in una foto storica del 1932 Fuga di decorazioni di arabeschi scolpite nelle muqarnas Dettaglio del soffitto delle volte a muqarnas
Rappresentazione dell’interno e dell’esterno della tomba di Sitta Zubayda
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Particolare della volta a muqarnas
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Interno della cupola del mausoleo decorato a muqarnas
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Bab al-Wastani Dell’estesa cinta muraria difensiva di Baghdad rimane solamente la Porta Mediana (Bab al-Wastani), in mattoni cotti e con un solido impianto strutturale, nel quale il torrione fungeva da corpo di guardia. Notevole l’iscrizione esterna in stile thuluth
Piante della costruzione
Due vedute della porta mediana (Bab al-Wastani), che costituiva parte della cinta muraria della Baghdad medievale
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La letteratura Renato Traini
Il fiorire di una produzione letteraria, quale la civiltà araba conobbe nella sua più felice stagione – i cinque secoli del periodo che è consuetudine denominare abbaside (750-1258) –, se appare in se stesso prodigioso per ricchezza e varietà, non fu affatto un fenomeno che si produsse in modo repentino né fortuito. Alcune considerazioni, pur con l’inevitabile semplificazione di processi svoltisi naturalmente in modo assai più complesso, vorrebbero aiutare a collocare il fenomeno nel contesto culturale che di fatto lo stimolò, e a presentarlo nella prospettiva di una tradizione a cui è verisimile ricollegarlo. Sarebbe uno schematismo astratto, oltre che arbitrario, quello che configurasse l’avvento di una letteratura senza dubbio nuova, in molte delle sue forme, e rinnovata in tanta parte dei contenuti, in un rapporto di quasi automatica causalità con l’instaurazione del nuovo ordine politico della «dinastia benedetta», come fu chiamata da certa storiografia tendenziosa la dinastia degli Abbasidi. Si può anzi affermare, per paradossale che possa sembrare, a chi almeno abbia una visione dei fatti piuttosto sommaria, che il fervore da cui fu animata la cultura araba, e quindi la letteratura, a partire dalla metà del sec. viii, fu caratterizzato in buona misura da una continuità nel riferimento al passato, nella ricerca curiosa delle sue testimonianze, nell’amoroso recupero delle sue reliquie. Se perciò taluno ha creduto di poter accostare l’età abbàside al nostro Rinascimento, la suggestiva evocazione risulta doppiamente plausibile, non solo per lo straordinario rigoglio intellettuale che si verificò in entrambi questi momenti privilegiati della storia umana, ma anche e più precisamente per un identico umanesimo che fu nostalgia dell’antico, riscoperta del passato e, di volta in volta, imitazione o rifiuto dei suoi modelli, sistemazione e insieme elaborazione del suo patrimonio. Il rilievo che si suole dare giustamente alla modernità con cui ora finalmente il linguaggio poetico spesso si affranca dalle convenzioni, nonché alla maturità di espressione a cui perviene per la prima volta lo scrittore, non deve quindi far dimenticare la persistente autorità di una tradizione, quale quella che ripropone quali punti di inderogabile riferimento i versi della «età eroica» e le pagine del Corano, come non può d’altra parte lasciar ignorare che già nella precedente età omàyyade (661-750) sono riconoscibili i segni premonitori del rinnovamento. Ciò equivale a dire, insomma, che la letteratura dell’epoca abbàside percorre sì 59
vie nuove, ma recando un bagaglio di memorie remote e muovendo da esperienze anteriori, rintracciabili queste, per la poesia, almeno nella lirica amorosa del Higiaz e nei versi ora gaudenti ora dolenti del califfo Walid ii, e per la prosa soprattutto nella miriade anonima dei hadith o racconti canonici. Si aggiungano le discrete, ma significative attestazioni che traduzioni di opere, sia dal pahlavi sia dal greco, furono eseguite già negli anni del califfato di Hisciam (724-743), ad accreditare l’ipotesi che il fermento culturale caratteristico dell’età abbàside ebbe origine un buon secolo innanzi. Sembra d’altronde ragionevole immaginare che la scoperta della letteratura scientifico-filosofica ellenica cominciasse a realizzarsi, per il tramite di tutta una classe di dotti Cristiani, artefici di un immenso lavoro di versione di testi greci in siriaco, proprio nell’àmbito di quella Siria che gli Omàyyadi avevano eletto a sede del loro potere. Data del resto fin dalla prima metà del sec. viii, per diretto influsso appunto della dialettica greca, l’introduzione nell’Islam della speculazione dogmatica ad opera del mu‘tazilismo, l’evento culturale forse più rilevante dell’età abbaside, che segnò uno sviluppo radicalmente innovatore della teologia e, come ebbe riflessi a volte drammatici fin sugli indirizzi della condotta politica, non mancò di coinvolgere gli stessi contenuti della letteratura, condizionando in qualche modo gli atteggiamenti di alcuni dei suoi protagonisti. L’attività di traduzione, destinata ad avere un ruolo primario nella politica culturale ufficiale del califfato, specialmente per opera di al-Ma’mun (813-833), non è del resto che l’aspetto più vistoso di quella curiosità intellettuale che in questi secoli contrassegnò e influenzò, tra l’altro, anche la letteratura. Curiosità dell’antico, come si è detto, e curiosità del diverso, alimentata questa dal contatto che gli Arabi avevano stabilito con popoli nuovi, dilagando in soli cento anni nella conquista, ad est, fino all’Asia centrale e alla valle dell’Indo e, ad ovest, fino all’Atlantico ed oltre i Pirenei. Ed anche se non è facile isolare e indicare nella cultura abbàside la presenza delle componenti non-arabe, e i loro riflessi in particolare nelle sue espressioni letterarie, resta il fatto, evidente e imponente, che in questo periodo ebbe luogo per la prima volta, soprattutto nelle città, un incontro straordinariamente vivace e fecondo di reciproca acculturazione tra Arabi e mawali (ossia press’a poco «clienti»), come erano chiamati i sudditi allogeni, fossero Bizantini o Persiani, o Aramei o Copti, o di non importa quale altra stirpe. Sono in primo luogo i centri urbani, vecchi e nuovi, dell’Iraq – le coeve Kufa e Bassora (638) e soprattutto Baghdad, fondata nel 766 per essere il cuore del nuovo impero –, sono le antiche città persiane e centroasiatiche, integrate nel mondo dell’Islam – Nishapur e Bukhara, per citare le maggiori –, e quelle recenti, create ex novo nel Nordafrica arabizzato – Qairawan (670) e il Cairo (969) –, o gli altri minori, ma vivaci focolai d’arte e di pensiero, come Aleppo e Ghazna, e infine, all’altro capo del dominio musulmano, Cordova, la capitale dell’arabismo andaluso. Non è davvero vuota retorica asserire che raramente, nel corso della storia, si è verificata, da una parte, una così intensa circolazione di uomini, di idee e di merci, e dall’altra una concentrazione così varia di prodotti dello spirito e di beni materiali, quale quella a cui offrirono condizioni propizie gli ambienti urbani formatisi nella ecumene islamica sotto gli Abbasidi. Il clima era di liberale mecenatismo e di sufficiente generale tolleranza
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(peraltro più etica che ideologica), la società aveva costumi raffinati, contaminati da esotici influssi, l’economia godeva incomparabile prosperità per i traffici intensi e la produzione artigianale fiorente, lo Stato disponeva di una struttura amministrativa evoluta, servita da una burocrazia colta e intelligente. La congiuntura, insomma, non poteva essere più feconda di risorse e di stimoli. E fu appunto nell’ambito della composita realtà cittadina che varietà di credenze e diversità di razze, pluralismo di usanze e divergenze di idee ebbero la sede naturale per comporsi in originale convivenza, dando luogo ad uno dei più straordinari esempi di sincretismo. L’universale sete di sapere che pervadeva gli spiriti, il pullulare di cenacoli dotti – magialis o «luoghi di riunione» – per il dibattito dei temi più vari, oltre alla organizzazione dell’insegnamento e alla diffusione della carta (introdotta dall’Estremo Oriente nel 751), furono altrettanti elementi che favorirono un’operosità letteraria eccezionale. Quella che ci ha conservato, purtroppo incompiutamente, l’immagine di una cultura eclettica e cosmopolita, se mai ve ne fu, come l’islamica abbàside, e ce ne ha trasmesso le voci. Sono voci, tuttavia, che sempre e soltanto parlano arabo, si tratti di esprimere emozioni o raccontare fatti, di formulare pensieri o enunciare nozioni, anche se il letterato o il pensatore, l’erudito o il poeta, come spesso è il caso, non sono affatto Arabi. L’affermarsi generalizzato e durevole della lingua dell’unica fede come veicolo di cultura, nonostante il delinearsi di resistenze nazionalistiche, sensibili soprattutto in ambiente iranico (il movimento noto come shu‘ubiyyag è il fatto che più di ogni altro ha dato alla letteratura dell’età abbàside la sua fisionomia. Ad assicurarle un carattere sostanzialmente e universalmente arabo è infatti il miracolo di una lingua che, pur continuando a trasmettere immutati gli accenti dell’antica poesia e, immutabile, il messaggio della Rivelazione, ha saputo evolvere a piena maturità, per esprimere perfettamente i contenuti di una vita sociale, intellettuale e artistica del tutto nuova. Resasi duttile strumento di comunicazione culturale, non sorprende che la lingua araba divenisse essa stessa oggetto di studio sistematico, per quanto riguarda non solo la definizione delle strutture grammaticali, ma anche la raccolta dei materiali lessicali. La letteratura dotta del periodo abbàside registra quindi anzitutto una fervida produzione di carattere filologico, sia teorico-morfologico sia pratico-linguistico, che si sviluppò secondo tendenze diverse, per non dire contrastanti, nelle due cosiddette scuole di Bassora e Kufa. È essenziale precisare che, a stimolare la scienza grammaticale, non fu tanto la curiosità erudita, quanto piuttosto la preoccupazione, di indole religiosa, di preservare l’integrità del testo del Corano e di assicurarne la recitazione corretta, scongiurando alterazioni della Parola di Dio, quale è per il musulmano il testo sacro. E se il pericolo, dovuto alla semplice ignoranza, era esistito da sempre, è evidente che fosse aumentato a dismisura con la conversione di tanti non-Arabi e la situazione di una complessiva minoranza numerica degli Arabi. Ne affiora traccia significativa negli esempi di scorrettezze grammaticali citati in alcuni divertenti aneddoti che farebbero risalire gli incunaboli della grammatica già all’età omàyyade, e gli inizi della sua sistemazione ad Abual-Aswad ad-Duali (m. 668), sollecitato dallo stesso califfo ‘Ali. Sinteticamente, la differenza di indirizzo tra i dotti di Kufa e quelli di Bassora può essere individuata in un rapporto
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che ricorda in complesso quello esistente, nella filologia classica, tra i sostenitori dell’anomalia e quelli dell’analogia. Il carattere sistematico che contraddistingue l’opera dell’arabo Khalil ibn Ahmad (m. 791) e del suo maggiore discepolo, il persiano Sibawaih (m. 793), evidenzia lo spirito di normalizzazione e il metodo di codificazione che prevalse negli studi dei grammatici di Bassora, dovuto largamente all’influenza della filologia greca e della logica aristotelica, risentita attraverso la non lontana scuola di Giundisciapur. Di fatto, colui che realizzò per primo un trattato integrale della morfologia e sintassi araba, fu Sibawaih con il suo al-Kitab, come egli lo intitolò intenzionalmente – ossia «Il Libro», per eccellenza, tal quale il Corano! –, opera di pioniere ma, per il rigore quasi già di una sintesi, destinata a restare modello per sempre. Al merito di Sibawaih non fu tuttavia estraneo l’insegnamento di Khalil, anche se costui esercitò il proprio talento ordinatore in altre direzioni, da una parte inaugurando lo studio prosodico e ritmico dell’antica poesia ed elaborandone il sistema metrico, dall’altra creando il primo vocabolario arabo, il Kitab al-cAin, così detto dal nome della lettera (cain) trattata per prima, seguendo un ordine diverso da quello alfabetico prevalente, in quanto conforme ad una classificazione a base fonetica. La ricerca puristica delle parole e locuzioni, attinte alla fonte genuina dell’uso beduino, già caratteristica del metodo di Khalil, fu esasperata e al tempo stesso contaminata dalla scuola di Kufa, rappresentata in primo luogo da Kisai (m. 804) e Ibn as-Sikkit (m. 857), il cui procedimento consisteva essenzialmente nel legittimare, naturalmente anche nella grammatica, oltre che nel lessico, la pratica dell’uso corrente, sia pure nelle sue manifestazioni occasionali e saltuarie. Un atteggiamento, questo della filologia kufana, di empirico realismo, almeno in apparenza più flessibile e ricettivo, a fronte del dogmatismo astratto della normativa basrense, che condusse comunque a una contrapposizione rigida e a polemiche senza fine. Raro fu l’esempio di chi, per indipendenza di spirito e ampiezza di interessi, seppe collocarsi al di sopra della schermaglia pedantesca: tale al-Mubarrad (m. 898), nella cui opera, dal significativo titolo di al-Kitab al-Kamil («Il Libro Perfetto») la questione grammaticale è solo il pretesto per un excursus culturale dai molteplici sviluppi, tra materiale antiquario il più eterogeneo, trattato senza nessun ordine, ma con il risultato di un’informazione storico-letteraria delle più preziose. Terreno fertile per la polemica, in epoca abbaside, offrirono anche, oltre alle scienze grammaticali, quelle religiose – esegetiche, giuridiche e teologiche –, rappresentate da una copiosissima letteratura, ovviamente di carattere tecnico, di cui non è tuttavia possibile non dare un sia pure sommario cenno, considerando che essa è parte qualificata e integrante della storia delle idee di questo periodo, e che la letteratura araba medievale, anche nelle sue espressioni apparentemente più profane, non si sottrae mai completamente all’onnipresente influsso dell’Islam. Strettamente connesse con i metodi e le acquisizioni della filologia sono le opere consacrate al tafsir o «spiegazione, commento» del Corano, che del testo sacro cercano di dare un’intelligenza la più possibile completa, anzitutto grammaticale e lessicale, ma anche stilistica e storica e dottrinale. Preparata dalla raccolta di materiali che trovarono posto inizialmente in sezioni apposite dei grandi repertori di tradizioni canoniche, la prima, monumen-
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tale summa di esegesi coranica fu quella composta dallo storico Tabari (m. 923), con il titolo appunto di Tafsir, capostipite di una più tardiva serie di altrettanto illustri e vasti commenti, scritti tutti, si badi, da autori di matrice persiana: il Kashshaf («Il Rivelatore») di Zamakhsciari (m. 1144), le Mafatih al-ghaib o «Chiavi del mistero» di Fakhraddin ar-Razi (m. 1210), le Anwar at-tanzil o «Luci della Rivelazione» di Baidawi (m. 1287). Al pari e forse anche più delle opere di esegesi coranica, furono i primi trattati di diritto che contribuirono efficacemente a creare una prosa capace di esprimere con la dovuta precisione e flessibilità le sottigliezze del pensiero, preparando così la lingua ad affrontare l’arduo compito di fornire adeguate strutture alla formulazione del ragionamento, e spesso della polemica. E poiché nell’Islam la Sharica, o legge positiva, disciplina l’intera attività dell’uomo, si comprende come assai per tempo iniziasse un formidabile sforzo di elaborazione, sia della rudimentale normativa contenuta nel Corano, sia dello sterminato materiale offerto dalla Sunna o Tradizione profetica, per costituire un sistema giuridico adatto a risolvere i quesiti di una casistica sempre più complessa. Fu tuttavia in epoca abbàside che gli studi di diritto si intensificarono, approdando a quattro distinti sistemi principali, che si differenziano essenzialmente per il prevalere ora dell’una ora dell’altra delle due tendenze opposte, quella conservatrice o quella liberale. Così, all’indirizzo speculativo promosso da Abu Hanifa (m. 767), che faceva appello al criterio dell’analogia e al discernimento personale, si contrappose il rigore tradizionalista di Malik ibn Anas (m. 795), autore del più antico manuale di diritto – al-Muwatta’ o «La (via) spianata» –, che teneva conto esclusivamente della giurisprudenza di Medina; e se più tardi Ibn Hanbal (m. 855) avrebbe tenuto una posizione ancora più radicale, considerando la Tradizione come l’unica fonte della legge dopo il Corano, toccò a Sciafi‘i (m. 820) formulare una dottrina più comprensiva ed equilibrata, quale espose nella Risala («Trattato»). Eccone un passo, che valga anche come saggio di un nuovo tipo di prosa dialettica, sul «consenso (della maggioranza dei dottori)»: Qualcuno mi ha detto: – Capisco la tua dottrina sui precetti di Dio e quelli del Suo Inviato, e che chiunque li riceve dall’Inviato è come se li ricevesse da Dio, perché Dio ha ordinato di ubbidire al Suo Inviato... Ma qual è la tua prova che si debba seguire l’opinione prevalente, nei casi in cui non esiste precetto, né rivelato né attribuito al Profeta? Vorresti affermare che il consenso può verificarsi soltanto su una tradizione sicura...?! Gli risposi: – Quanto a ciò su cui vi è consenso, e si dice attribuito al Profeta, speriamo che sia come si dice. Quanto a quello che non gli è attribuito, può darsi che sia stato realmente detto dall’Inviato di Dio, ma può essere diversamente... Pertanto noi ci atteniamo a ciò che essi affermano... Sappiamo che, se si tratta di usi dell’Inviato di Dio, non sarebbero ignoti alla maggioranza dei musulmani, anche se lo fossero alla minoranza, e sappiamo pure che la maggioranza dei musulmani non sarebbe d’accordo su quello che fosse in contrasto con la Sunna dell’Inviato di Dio (da Sciafici, ar-Risala, in J.A. Williams (Ed.), Phemes of Islamic Civilization, Berkeley-Los Angeles-London 1971, pp. 34-35. Versione dall’ingl. di R. Traini).
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Che l’elaborazione del diritto sia stata tributaria in larga misura della Tradizione, è già stato segnalato, ricordando come il lavorio critico dei giuristi si sia esercitato soprattutto sulle testimonianze, tramandate prima oralmente e poi riunite in apposite collettanee, relative ad azioni compiute da Maometto o a parole da lui dette, oppure anche a parole ed azioni di altri, da lui tacitamente approvate. Se ne ha la conferma nella stessa struttura esteriore di alcuni tra i più importanti trattati giuridici, dal già citato Muwatta’ di Malik al Musnad di Ibn Hanbal, che non sono altro se non raccolte di hadith. È questo infatti il vocabolo che serve a indicare, appunto, anzitutto la «tradizione canonica», e poi anche l’insieme delle tradizioni, ossia quella letteratura del hadith che, dopo il primo cospicuo saggio del Muwatta’, si sviluppò straordinariamente nel sec. iii/ix, quando si formarono le grandi collezioni dei «sei libri» riconosciuti ufficialmente dai Sunniti: il Sahih o «(Corpus) Autentico» di Bukhari (m. 870), con oltre 7000 tradizioni, e l’omonima opera di Muslim (m. 875), nonché le Sunan («Norme») di Ibn Magia (m. 887), Abu Dawud (m. 889), Tirmidhi (m. 892) e Nasai (m. 916). Tali raccolte, che hanno proliferato a loro volta gran numero di commenti e antologie, presentano una distribuzione della materia per argomenti, non diversamente da altre pure autorevoli, benché non canoniche (Darimi, Daraqutni, ecc.), e da quelle che sole valgono per gli Sciiti (Kulini, Ibn Babuya, Tusi, ecc.); ma si compilarono pure collezioni ordinate secondo le fonti, per questo denominate Musnad, cioè «(Raccolta) appoggiata (all’autorità di qn.)», come la silloge di Ibn Hanbal già menzionata (che registra 30.000 tradizioni...). Si deve aggiungere che, parallelamente alla vera e propria registrazione della Tradizione, si venne costituendo una «scienza del hadith», il cui più tipico prodotto sono immensi repertori biografico-critici dei tradizionisti (famosi quelli di Ibn Sa‘d, Dhàhabi, Ibn Hagiar), nei quali veniva verificata l’attendibilità dei trasmettitori, secondo criteri di una sottile casistica. Nel suo complesso, questo genere di letteratura «religiosa» rappresenta una delle più caratteristiche espressioni dell’arabismo medievale, nonché una delle più imponenti. Il suo prosperare, del resto, è da collegare con la stessa evoluzione dell’Islam nei primi secoli quando, per il mutare delle strutture della società musulmana, il principio che riconosceva valore normativo alla Sunna (cioè «costume, comportamento») del Profeta incoraggiò la ricerca, e spesso autorizzò l’invenzione, di precedenti che servissero, con l’autorità dell’esempio di Maometto, a risolvere tutte le questioni e a giustificare tutte le posizioni. Da un punto di vista strettamente letterario, si può facilmente intuire l’efficacia che anche l’elaborazione di questa enorme massa di testi ha avuto nel processo di formazione di una prosa sempre meno arcaica e sempre più adulta. Formalmente, il hadith ha in genere forma breve, consistendo nella enunciazione di un pensiero da parte del Profeta, in una o poche frasi, come in questi esempi relativi al gihad o guerra santa: Ho sentito l’Inviato di Dio dire: – Fare la guardia un giorno e una notte per la causa di Dio è meglio che digiunare e vegliare per un mese. L’Inviato di Dio ha detto: – Chi equipaggia un combattente per la causa di Dio, ha combattuto lui stesso, e chi fornisce il necessario alla famiglia di un combattente, è come se avesse combattuto lui stesso.
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Ha detto l’Inviato di Dio: – Un martire ha sei privilegi da parte di Dio. Alla prima goccia di sangue che versa, gli vengono perdonati i suoi peccati, gli viene mostrato il suo posto in paradiso, viene liberato dal tormento del sepolcro, viene salvaguardato dai timori dell’inferno e una corona di gloria gli viene posta sul capo, ogni rubino della quale vale più del mondo e di tutto ciò che esso contiene; sposerà 12 uri dagli occhi neri, e la sua intercessione sarà accettata per 70 suoi parenti (da Tibrizi, Mishkat al-Masabih, in J.A. Williams, op. cit., p. 259. Versione dall’ingl. di R. Traini). Ma ci sono casi in cui il hadith si svolge in dimensioni più ampie, offrendoci pagine di narrativa colorita e costruita, come questa sulla fine del mondo: L’Inviato di Dio accennò al daggial (l’Anticristo), e noi gli chiedemmo con quale rapidità sarebbe venuto nel mondo. Rispose: – Come la pioggia spinta dal vento. Verrà tra gli uomini e li chiamerà a sé, ed essi crederanno in lui. Comanderà al cielo, e questo darà la pioggia alla terra e farà spuntare le messi... Dirà loro: – Portate fuori i vostri tesori! ed i tesori lo seguiranno come sciami di api. Poi chiamerà un uomo nel fiore della giovinezza, lo colpirà con una spada e lo taglierà in due... Quindi lo chiamerà e quello si farà avanti ridendo... Allora Dio manderà il Messia, figlio di Maria, che scenderà sul minareto bianco a est di Damasco, indossando due abiti color zafferano, e con le mani posate sulle ali di due angeli... Ogni infedele che sarà toccato dal suo fiato morirà, ed il suo fiato arriva fin dove arriva il suo sguardo... Allora Dio manderà Gog e Magog..., il primo di loro passerà il lago di Tiberiade e berrà l’acqua che contiene, poi passerà l’ultimo e dirà: «una volta qui c’era dell’acqua»... Allora Gesù e i suoi compagni pregheranno Dio, che manderà insetti sul collo di Gog e Magog. Costoro il mattino dopo saranno morti, e Dio manderà uccelli con il collo simile a quello dei cammelli, che li porteranno via e li getteranno dove Dio vorrà... Quindi Dio manderà un vento soave che prenderà la vita di ogni credente, mentre i malvagi rimarranno ad urlare... e l’Ora piomberà su di loro... (da Tibrizi, op. cit., in J.A. Williams, op. cit., pp. 197-8. Versione dall’ingl. di R. Traini). Nelle varie forme sin qui accennate – filologia e diritto, esegesi e tradizionistica – quella che è già stata designata come letteratura dotta ha comunque, per ovvie ragioni, un carattere prevalente di tecnica elaborazione. Improntata ad un rigore scientifico condizionato dall’ispirazione religiosa islamica, essa poco o punto concede, anche agli uomini di più robusta dottrina, approfondimenti di un pensiero veramente personale, e meno ancora preoccupazioni di natura più propriamente letteraria. Diverso ci appare invece il panorama, percorrendo il vasto campo della produzione teologica e moralistica, in cui si direbbe che la materia stessa, oggetto di speculazione e dibattito, ha avuto il potere di sollecitare fervore di ingegno e passione di ideali, e perfino talvolta artistico talento. Tralasciando nomi che più opportunamente figureranno in una rassegna dell’evoluzione dottrinale dell’Islam, per lo meno due non possono però essere taciuti nel presente disegno di storia letteraria, quelli di
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Ibn Hazm (m. 1064) e di Ghazali (m. 1111), le cui potenti personalità, pur tanto diverse sia sul piano umano che su quello scientifico, spiccano ugualmente per vigore di intelletto come per vastità di dottrina, per intensa spiritualità non meno che per sensibilità d’arte, così da non poter essere racchiuse entro nessuno dei singoli e limitati settori del sapere musulmano medievale, che esse trascendono con la loro universalità. Destinati ad illustrare l’arabismo operando quasi nello stesso tempo ai due opposti estremi del mondo islamico, questi due protagonisti della cultura araba dell’xi sec., affratellati da un eguale fervore di religiosa purificazione, ebbero una vicenda esistenziale ben diversa e, almeno in vita, diversa fortuna. Moralista severo quanto aspro nel carattere, eterodosso in teologia come in diritto per il suo allineamento con le dottrine zahirite, Ibn Hazm mobilitò la passionalità della sua natura e la formidabile erudizione storico-religiosa – di cui è frutto un imponente trattato sulle religioni e le sette, al-Fisal fi l-milal – al servizio di una polemica implacabile contro nemici esterni e interni dell’Islam (in primo luogo, il malikismo, imperante incontrastato nell’Àndalus). Dall’isolamento in cui chiuse i suoi giorni, dopo persecuzioni senza fine, lo riscattarono i posteri, che non solo ne riscoprirono l’autentica grandezza di sdegnoso e indomito rinnovatore religioso, ma recuperarono anche i meriti singolari dello scrittore, quali rivela quel suo giovanile trattato sull’amore e gli amanti che è «Il collare della colomba» (Tawq al-hamama), un’opera davvero unica nella letteratura araba, non tanto per l’argomento, quanto per la finezza dell’analisi psicologica e la felicità, oltre che spesso l’interesse storico-sociale, del racconto: un testo il cui pieno diritto ad entrare nella letteratura universale è stato assicurato dalla traduzione in numerose lingue straniere, compresa l’italiana. Con quanta docilità e abilità lo scrittore si allei al moralista e allo psicologo, può cogliersi da questo passo sulla gratitudine, da un’altra sua opera tra le più significative, il Kitab al-Akhlaq was-siyar o «Libro dei costumi e dei comportamenti»:
Persiano, nativo di Tus nel Khorasan, Ghazali (l’Algazel dell’Occidente medievale) tornò nella sua patria, per morirvi, dopo aver percorso in vita un itinerario che lo condusse attraverso le più varie esperienze: di professore, autorevole e acclamato, nella Nizamiyya di Baghdad, di derviscio mendicante e poi di sufi, dedito a meditazioni e all’ascesi, in Damasco, di pellegrino alle città sante, e poi ancora insegnante a Nishapur, prima del ritiro in una finale pausa di solitario interiore raccoglimento. Non meno austera della figura di Ibn Hazm, e non meno tormentata, quella di Ghazali appare infatti, nel fedele documento che i suoi scritti offrono dell’altro più vero itinerario, quello dell’anima, come segnata dei lineamenti di una luminosa armonia e di un sereno equilibrio. In essi si compose alfine il sofferto travaglio, mirabilmente rievocato nell’autobiografico Munqidh min ad-dalal («Il salvatore dall’errore»), e dovuto all’insoddisfazione di una religione senza religiosità, di una legge formalistica e paralizzante, di una ragione sterilmente autosufficiente. Tutt’altro che alieno dalla polemica, tal quale Ibn Hazm, Ghazali seppe però meglio utilizzarla, e con più costruttiva efficacia, per realizzare quel suo grandioso programma di rivalutazione del razionalismo dialettico (il kalam), da una parte, e dall’altra, della pratica mistica, evitando gli eccessi dell’una come dell’altro, e in definitiva operando quella conciliazione di ragione e di fede che è il senso già del titolo del suo maggior libro: Ihya’ culum ad-din o «Vivificazione delle scienze religiose». L’opera, che nell’arco del plurisecolare svolgimento religioso-spirituale dell’Islam rappresenta il punto di riferimento sicuramente più alto e la trattazione più completa e acuta di ogni suo contenuto, è assolutamente degna di deciso rilievo anche sul terreno letterario, perché in Ghazali i doni della lucida e profonda riflessione e della spiritualità più delicata si cumulano, come raramente avviene, con le migliori capacità espositive. Purtroppo è ben tenue il saggio che se ne può dare qui, con questo brano sul tema del mistero in cui versa l’umana condizione:
La gratitudine verso il benefattore è un dovere necessario. Per assolverlo, bisogna almeno rendergli il bene che ci ha fatto, e più ancora. Occorre in seguito interessarsi dei suoi affari, proteggerlo per quanto è possibile, serbare fedelmente le promesse che gli si sono fatte, finché è vivo o dopo morto, come pure ai suoi parenti vicini o lontani. Bisogna pure continuare a dimostrargli affetto e a dargli consigli. Bisogna mettere in piena luce le sue qualità e nascondere i suoi difetti. Si tratta di doveri che rimangono per tutta la vita e che devono essere trasmessi in eredità ai propri discendenti... Peraltro, non rientra nella gratitudine aiutarlo a commettere peccato e tralasciare di consigliarlo quando si procura danno in questo e nell’altro mondo. Al contrario, chi aiutasse il suo benefattore a fare il male, lo ingannerebbe, rinnegherebbe i suoi benefici... D’altra parte, le bontà e i benefici di Dio verso ciascuna delle Sue creature sono ben più importanti, più antichi, più salutari di quelli di qualunque altro benefattore... Chiunque immagina di ringraziare un benefattore aiutandolo a fare il male... rinnegherebbe le bontà di Quello tra i suoi benefattori che conta di più... Soltanto colui che si frapponesse tra il suo benefattore e il male... sarebbe veramente riconoscente e assolverebbe perfettamente al proprio dovere verso di lui. (Versione di R. Traini).
Tu sei come il fanciullo che guarda di notte il gioco del burattinaio. Fa questi uscire da dietro una cortina marionette che danzano e strillano e si levano in piedi e si siedono. Esse sono fatte di pezza e non si muovono spontaneamente, ma a dar loro movimento sono fili sottili come capelli che non si scorgono nella oscurità della notte e i cui capi sono nella mano del burattinaio. Egli è nascosto agli sguardi dei fanciulli i quali pertanto si divertono e si stupiscono credendo che siano quelle pezze a danzare, a giocare, ad alzarsi, a sedersi. Le persone che hanno criterio sanno che si tratta di un movimento provocato, non già spontaneo; però talvolta non sanno come in particolare funzioni la cosa e chi ne conosce qualche particolare non ha l’esperienza del burattinaio che dirige lo spettacolo e che ha in mano i fili con cui tira le marionette. Sono cosi i fanciulli di questo mondo, e gli uomini tutti quanti sono come fanciulli rispetto ai dotti. Essi guardano le persone e credono che siano esse a muoversi... I dotti sanno invece che il loro movimento è provocato, senonché non sanno in quale maniera avvenga la messa in moto... Fanno eccezione solo gli iniziati..., giacché questi hanno scorto con i loro sguardi penetranti i fili sottili come di ragnatela, anzi molto più sottili, pendenti dal cielo, con i capi attaccati alle persone che sono in terra... Poi han
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visto i capi di quei fili nei punti in cui sono attaccati e donde pendono e hanno visto che in quei punti sono maniglie nelle mani degli angeli che fan muovere i cieli... (Scritti scelti di al-Ghazali, a cura di L. Veccia Vaglieri e R. Rubinacci, Torino 1970, pp. 387-8). Animato dal proposito di dimostrare la compatibilità fra speculazione razionale e rivelazione, l’Ihya’ risulta quindi il superamento della polemica antifilosofica pura, a cui Ghazali aveva dedicato un altro dei suoi scritti più impegnativi, il Tahafut al-falasifa o «L’incoerenza dei filosofi» (tra l’altro scatenando una replica clamorosa da parte di Averroè). Allo spirito del capolavoro ghazaliano appare pertanto legata (anche senza un vero rapporto di ideale diretta filiazione), una delle più curiose opere del Medioevo arabo, scritta verso la fine del sec. xii dall’andaluso Ibn Tufail (m. 1185) e nota all’Occidente sotto il titolo di Philosophus autodidactus, dato nel 1671 dal suo traduttore latino, E. Pocock jr., alla Risalat Hayy ibn Yaqzan o «Epistola di Vivo figlio di Desto» (di cui è disponibile ora, finalmente, anche un’ottima versione italiana). È il racconto, visibilmente allegorico, di un bambino, nato spontaneamente in un’isola deserta, e qui cresciuto, pervenuto con la sola osservazione e le proprie capacità naturali ad una completa autosufficienza e ad una essenziale conoscenza integrale del mondo, nonché alla stessa intuizione di Dio; e poi del suo primo contatto con l’umana civiltà, e la constatazione di una fondamentale identità di contenuto tra verità razionale e verità rivelata. Un libro quindi del più alto interesse, e testimonianza quant’altra mai originale del pensiero arabo medievale, a torto frainteso più tardi dalla cultura illuministica, ma anche dilettoso saggio di prosa, dove è ben trasparente l’entusiasmo dell’artista. Peccato di doverne dare prova brevemente, con la pagina che descrive la scoperta del fuoco: Accadde un giorno che si producesse fuoco in un canneto, per sfregamento. Quando lo scorse vide uno spettacolo che lo impauriva, una creatura che prima non aveva considerato. Si fermò a lungo a contemplarlo, stupefatto, e continuò ad avvicinarglisi passo dopo passo. Vide la luce, la brillantezza, l’azione misteriosa del fuoco, tale che non si comunicava a nessuna cosa senza consumarla e trasformarla in se stesso. Si impadronì di lui l’ammirazione per il fuoco, e per l’audacia e la forza che Dio aveva infuso nella sua natura, e volle prenderne. Ma quando lo toccò, gli bruciò la mano e non poté acchiapparlo; cosi si risolse a prendere un tizzone... Lo prese dalla parte integra, mentre il fuoco ardeva dall’altra parte... Continuò ad alimentare quel fuoco con erba e legna abbondante, lo apprezzava e lo ammirava e ne aveva cura notte e giorno. Di notte poi, la sua familiarità con il fuoco era più grande, poiché assolveva per lui le funzioni del sole, con la sua luce e con il suo calore. L’entusiasmo per il fuoco divenne immenso... (Versione di Paola Carusi, in Ibn Tufayl, Epistola di Hayy Ibn Yaqzan. Introd., trad. e note di P.C., Milano 1983, pp. 76-77). Pura parvenza esteriore, come si è detto, è nell’opera di Ibn Tufail la forma narrativa, destinata a rivestire una sostanza di più astruso significato. Per ovvio che sia, il rilievo è tutt’altro che superfluo, suscettibile com’è di essere applicato anche a gran parte della prosa più
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propriamente letteraria, di cui d’ora in poi ci occuperemo, quella prosa che proprio in questa età abbàside ebbe il suo maggiore rigoglio, che anzi, con la stupefacente produzione di opere di ogni genere, specialmente nei secoli dall’viii al x, si può dire essere stata la grande novità di una letteratura che finora aveva praticamente conosciuto solo poesia, o poco d’altro. Di una narrativa pura, infatti, coltivata come genere autonomo, se pure si possono incontrare infiniti saggi limitati in singole pagine di opere come il Kitab al-Aghani, non si può parlare che ben raramente e forse solo nel caso di Tanukhi (m. 994), la cui opera al-Farag ba‘d ash-shidda («Il sollievo dopo l’angustia») illustra il tema che la Provvidenza, o la Fortuna secondo i casi, prima o poi soccorrono l’uomo in difficoltà: ma questo non con astratte disquisizioni, bensì con una ricca messe di racconti di varia ampiezza, ordinati sotto distinte rubriche (14 per l’esattezza), secondo un proposito di sistematicità in cui l’autore è cosciente di avere superato i suoi predecessori in questo genere letterario (come Ibn Abi d-Dunya, m. 894). I titoli della più vera superiorità di Tanukhi sono peraltro da riconoscere, oltre che nell’accorto discernimento nell’operare le proprie scelte in un repertorio di materiali sicuramente copioso, nella freschezza e vivacità con cui egli sa dar vita ai personaggi e alle situazioni, abbondantemente animate dal dialogo. È impensabile che la vitalità della pagina tanukhiana, con il colore del suo realismo, e spesso con la dissimulata ironia, sia inerente ai testi originali, di cui l’autore sarebbe stato semplicemente il raccoglitore. Tanto più che le stesse caratteristiche di amenità narrativa si riscontrano nell’altra sua maggiore opera, il Nishwar al-muhadara (quasi «Conversazioni ruminate»), di più libera struttura e di più composita materia, ma analoga alla precedente per quell’atteggiamento di curioso e divertito osservatore al quale si deve se Tanukhi ci ha lasciato in questo dittico uno dei più piacevoli e interessanti quadri della vita privata e pubblica dell’Iraq del suo tempo. Di così variopinto mosaico l’aneddoto seguente non è che una ridottissima tessera: Abu Yusuf era discepolo di Abu Hanifa, ed era poverissimo; la sua assiduità allo studio gli precludeva la ricerca di un guadagno sufficiente per vivere. Tornava a casa senza un soldo e sua madre, un giorno dopo l’altro, non aveva la possibilità di dargli da mangiare. Così durò molto tempo; una volta andò alla lezione di Abu Hanifa, si trattenne a lungo, tornò a notte e domandò da mangiare. La madre gli presentò un piattone coperto: lo scoprì, ed era pieno di quaderni. Disse: – Che cos’è? Rispose lei: – Tu ti occupi di questi il giorno intero, mangiateli dunque la sera! Abu Yusuf pianse, passò la notte affamato, e il giorno dopo non andò a lezione e si diede da fare per procurarsi qualche alimento. Quando poi arrivò da Abu Hanifa, questi domandò perché aveva tardato, e Abu Yusuf gli disse la verità. Rispose il maestro: – Tu dunque non mi conosci? Io ti avrei aiutato! Non ti affliggere: se vivi a lungo, la tua scienza giuridica ti permetterà di mangiare torrone di mandorle con pistacchi sbucciati. Raccontava Abu Yusuf: – Quando passai alle dipendenze del califfo Harun ar-Rashid e divenni suo intimo, un giorno che stavo con lui fu portato del torrone di mandorle e pistacchi sbucciati; il califfo me ne offrì, e mentre lo mangiavo mi ricordai di Abu Hanifa e piansi e ringraziai Iddio... (F. Gabrieli-V. Vacca, Antologia della letteratura araba, Milano 1976, pp. 150-1).
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Quanto più raro è dunque il caso del geniale qadi di Bassora, tanto più prezioso il suo originale contributo ad una letteratura prosastica che, si direbbe, costituzionalmente è stata, fin dalle sue prime prove, didattica e moraleggiante: che anche quando sembra soltanto voler intrattenere, sempre persegue il fine ultimo di ammaestrare, pur senza ricorrere necessariamente all’esplicita enunciazione moralistica, anzi di preferenza dissimulando l’intento di etica correzione con la distrazione del vago raccontare, spesso e volentieri interpunto di versi (quasi per una tacita rivincita della poesia...). Ecco dunque la prosa detta, con termine intraducibile, di adab, un termine che in pratica e con la sola eccezione della storiografia, oltre che della prosa artistica (o meglio artificiosa) della maqama, indica globalmente un insieme di opere esteriormente diverse – dal manuale per segretari o governanti, al saggio sui temi più disparati, alla antologia storico-letteraria e antiquario-poetica –, ma che tutte hanno per comune denominatore questo metodo, di unire l’utile al dilettevole, e questo proposito, di insegnare, nel senso più liberale della parola, divertendo, tutte egualmente ispirandosi a questo ideale appunto, civilissimo, dell’adab. Che «dal senso originario di norma di condotta, tradizione avita, venne ad assumere tra gli altri... quello di pratica sapienza e sociale compitezza di vita, e allargando e spiritualizzando questa accezione indicò qualcosa di analogo alla latina e umanistica “humanitas”» (F. Gabrieli, La letteratura araba, Milano 1967, pp. 163-4). Gli inizi di questa che va considerata a buon diritto come una delle più tipiche creazioni del genio arabo, in letteratura, si collegano alla figura di colui che, non solo per cronologica precedenza, ma anche e più per la funzione svolta di mediatore tra la cultura persiana e l’araba, tiene meritatamente il posto di capofila nella serie dei maggiori scrittori abbàsidi: Ibn al-Muqaffac (m. 757 ca). Iranico di origine, ma conquistato dalla cultura araba, egli fece opera validissima di pioniere nel processo di creazione di una prosa matura, robusta e insieme flessibile, sia quando compose scritti personali, sia quando tradusse, dal pahlavi, testi come il Khudainamè o «Cronaca regale», la cui frammentaria sopravvivenza in citazioni è motivo di acuto rimpianto per il contributo che l’opera, perduta nell’originale, avrebbe dato alla conoscenza della storia civile e istituzionale della Persia sasànide. Sorte migliore toccò invece fortunatamente al Kalila wa Dimna, come suona il titolo arabo della celebre raccolta di apologhi, anch’essa tradotta dal pahlavi, ma risalente ad un più lontano capostipite indiano, così come non cessò di avere diffusione nelle più diverse aree culturali grazie alle traduzioni che ne furono fatte in quasi tutte le lingue orientali e occidentali. Un’opera dal palese carattere etico-didattico, che spiega, con il largo favore incontrato, anche l’interesse destato tra gli artisti, che ripetutamente ne impreziosirono i manoscritti di miniature. Un testo che, per la composita natura dei suoi materiali, e per le contaminazioni subite, è stato croce e delizia non solo dei filologi, ma di quanti altri se ne sono occupati dai più diversi punti di vista, non ultimo quello storico-religioso: poiché quello spirito inquieto che dovette essere Ibn al-Muqaffac sembra aver lasciato un’autentica traccia delle proprie perplessità di libero pensatore e incerto credente nella famosa introduzione, con il racconto di Burzoe, il medico traduttore dell’originale sanscrito, e le sue confessioni. Rileggiamone il passo con l’accenno alla relatività delle religioni:
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Guardai alla medicina, e vidi che il medico non può curare il malato con una medicina che ne elimini radicalmente il male... Così, spregiando la medicina, mi rivolsi con desiderio alla religione. Ma... vidi una molteplicità di fedi e comunità religiose, di genti che le avevano ereditate dai padri, altre accolte per paura e per forza, altre per avidità dei beni mondani... ognuno affermando di esser nel giusto e sulla retta via... Volli quindi darmi alla assidua frequenza dei dottori... nella speranza di riconoscere cosi la verità dall’errore... ma non trovai uno solo di coloro che non rincarasse la lode della propria fede, e il biasimo di quella degli avversari... (Versione di F. Gabrieli, op. cit., p. 166). Quanto alla produzione personale di Ibn al-Muqaffac, tra quella che ci è giunta fa spicco al-Adab al-kabir o «L’adab maggiore», che ha doppio titolo per essere ritenuto una primizia: come la prima opera di prosa araba (a parte il Corano) pervenutaci integra e, complessivamente, intatta; e come il più antico esempio di un genere dimostratosi poi prolifico come pochi, quello dei cosiddetti «Specchi per principi», o manuali di buon governo. Tale qualifica, in verità, si addice solo in parte al libro di Ibn al-Muqaffac, che nella seconda e terza sezione tratta piuttosto dei rapporti tra il sovrano e il cortigiano, e di quelle che oggi si direbbero le relazioni sociali. Inoltre, anche nella prima, consacrata ai veri e propri precetti al principe, Ibn al-Muqaffac assolve il proprio compito di ammaestratore dei potenti limitandosi ad enunciare le norme di comportamento e a commentarle con un approfondimento di riflessioni teoriche, mentre la tendenza che prevarrà in consimili trattati più tardi sarà di alternare alle esortazioni gli esempi, o ancor più decisamente di far prevalere la narrazione illustrativa: così, per non citare che gli esempi più famosi, ne «L’oro colato» (al-Tibr al-masbuk) di Ghazali (m. 1111), ne «La lampada dei re» (Sirag al-muluk) di Turtusci (m. 1126) e nel Sulwan al-mutac o «Conforti politici», secondo la felice versione del titolo data da M. Amari, del siciliano Ibn Zafar (m. 1169). Assenti dunque, come si è detto, nella prosa letteraria abbàside le forme di narrativa, a noi familiari, del racconto breve e del romanzo, che gli Arabi scopriranno assai più tardi, addirittura nel sec. xx. In compenso, fu loro precocemente congeniale un genere, in tutto simile al nostro saggio-monografia, per il quale usarono il termine risala (press’a poco «trattato»), e che nella pratica degli scrittori si rivelò strumento ideale per discorrere di qualsiasi argomento e dibattere le più disparate questioni, senz’altra limitazione che quella del talento e della fantasia dell’autore. Per cui si comprende che, quando sorse una personalità d’eccezione quale fu quella di Giahiz (m. 869), eclettica e versatile come nessun’altra, e per giunta inesauribilmente feconda, la risala poté contare sulle straordinarie risorse intellettuali, psicologiche e filologiche di questo singolare personaggio (campione dell’arabismo, lui di origine servile e di razza negra!), per rispecchiare ed esprimere i contenuti di una civiltà che stava vivendo il suo momento più fervido. Il giudizio un poco limitativo, che si suole ripetere, rilevando la superficialità e asistematicità del genio di Giahiz, per fondato che possa essere, trovando riscontro in certo dilettantismo (ma sarà poi veramente tale?), non toglie nulla ai meriti di un ingegno vivissimo, insaziabilmente curioso, agile e pur rigo-
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roso, spregiudicato e anticonformista per vocazione, appassionato dell’antico e pure spesso sorprendentemente moderno. Dei suoi sconfinati interessi – credenze e costumi, teologia e sociologia, psicologia ed etnografia, e chi più ne ha più ne metta – fanno fede i duecento titoli degli scritti, di cui appena una trentina sono sopravvissuti, come pure lo stesso contenuto delle opere maggiori, il cui titolo nasconde una materia incredibilmente disparata: tale il ponderoso «Libro degli animali» (Kitab al-hayawan), che non è affatto un trattato di zoologia, ma, attorno al tema animalistico, una collettanea di materiale antiquario, filologico, poetico ecc., con citazioni e divagazioni di sconcertante varietà; tale il Bayan wat-tabyin o «L’eloquenza e la chiara esposizione», che vuol essere un primo tentativo di esposizione della retorica, e risulta nella sua caoticità un’antologia, peraltro pregevolissima, della più antica eloquenza; tale «Il Libro degli avari» (Kitab al-bukhala’) che è una galleria di felicissimi ritratti, con lo scopo di esemplificare questo tipo umano, e con il risultato di tessere l’elogio degli Arabi come campioni della generosità. Grande, oltre tutto, il merito di Giahiz come prosatore, tale da assicurargli un non discusso primato: artefice di una lingua che, sollecitata dalla sua perizia lessicale e artistica sensibilità, riuscì a corrispondere, con docilità e audacia insieme, all’esigente incalzare di un pensiero sempre più arduo e di una cultura non meno vertiginosa. Supplisca all’inadeguatezza di una citazione qualsiasi dai suoi scritti il ritratto che ne tracciò il contemporaneo Ibn Qutaiba (m. 889): È l’ultimo teologo, lo schernitore degli antichi..., il più abile a ingrandire ciò che è piccolo e a rimpicciolire ciò che è grande. E la sua potenza è tale che riesce a realizzare i contrari. Sa provare la superiorità dei Negri sui Bianchi; sa talvolta esaltare ‘Ali e tal altra denigrarlo... Ironizza sul hadith in un modo che non sfugge agli uomini di scienza, come quando parla del fegato del pesce, delle corna di Satana, del colore primitivo della Pietra Nera che era bianca ed è divenuta, nera a causa dei politeisti... E con tutto ciò, è il più bugiardo degli uomini, il più pronto a inventare hadith falsi e a sostenere con prove le opinioni erronee... (J.-M. Abd-El-Jalil, Brève histoire de la littérature arabe, Paris 1947, p. 279. Versione dal francese di R. Traini). Tipico rappresentante della letteratura dadab, l’appena menzionato Ibn Qutaiba può in qualche modo essere idealmente avvicinato a Giahiz per la cultura parimenti enciclopedica e per la curiosità che lo portò a impegnarsi in diversi campi del sapere: dalla storia alla critica letteraria, dalla filologia alle «scienze islamiche», dalla saggistica all’antologismo didattico dell’adab. Ma l’uomo e lo studioso furono profondamente diversi, per una tendenza costante, si direbbe costituzionale, a preferire le posizioni intermedie, gli atteggiamenti concilianti, ad evitare le tensioni degli estremismi e le sfide dei paradossi, pago ad esempio di sistemare tutte le notizie storiche dalla creazione del mondo in un esemplare compendio – il Kitab al-Ma‘arif o «Libro delle conoscenze» – che è il più antico del genere. Non meno significativa la conciliazione da lui operata tra le divergenti scuole grammaticali di Kufa e Bassora, e in campo teologico la coerente difesa della tradizione, da quel leale sunnita che
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egli era, contro le sempre più attuali insidie del razionalismo; ma ancor più interessante il liberale giudizio con cui Ibn Qutaiba intervenne nella «querelle des anciens et des modernes» per rivendicare, nella famosa introduzione a quella importante antologia poetica che è il suo Kitab ash-Shicr wash-shu‘ara’ («Libro della poesia e dei poeti»), l’autonomia di valore spettante ad ogni poesia, indipendentemente da pregiudizi di cronologia o di altra natura. L’equilibrio che par bene essere stato la regola aurea di Ibn Qutaiba, uomo e scienziato, si ritrova del resto nell’ideale da lui vagheggiato, non solo e più esplicitamente nell’Adab al-katib o «Manuale del (perfetto) segretario», ma pure e non meno appassionatamente nelle cUyun al-akhbar o «Fonti delle notizie»: quello di una cultura integrale, a cui concorrano tutte le possibili componenti, laiche oltre che religiose, per assicurare l’armonica formazione dell’uomo (esemplato, nel pensiero qutaibiano, dalla figura del katib o «funzionario», come quella socialmente più rappresentativa del suo ambiente). Ecco perché, nelle dieci sezioni in cui si articolano, le cUyun offrono, nella scelta accorta del loro dotto compilatore, un panorama di tutto lo scibile contemporaneo, come appare dalle rispettive rubriche: Il sovrano, La guerra, La signoria, Vizi umani, Scienza ed eloquenza, Ascesi, Gli amici, Le postulazioni, I cibi, Le donne. La sterminata materia distribuita entro questo schema, e attinta a innumerevoli fonti (spesso non più conservate), sia arabe sia di altre culture, con ricchissimo corredo di citazioni poetiche e gnomiche, e notizie e racconti, fa delle cUyun il prodotto forse più rappresentativo del letterato Ibn Qutàiba, e insieme il modello dell’antologia d’adab, che altri imiteranno, facilmente ampliandola, ma non altrettanto superandola. È questo il caso dello spagnolo Ibn ‘Abd Ràbbihi (m. 940), il cui «Vezzo di perle incomparabili» (al-cIqd al-farid) discende in linea diretta dell’opera qutaibiana, con la quale condivise durevole fortuna presso i posteri, restando un fermo punto di riferimento nel mai interrotto sviluppo plurisecolare del genere antologistico ed enciclopedico. Ma, per rimanere nell’età abbàside, altri titoli dovrebbero venir menzionati: almeno quello del già citato Kamil di al-Mubarrad (m. 899), e l’altro, modesto, di «Dettati» (Amali), usato dall’armeno-andaluso Qali (m. 967) per designare la sua preziosa antologia prevalentemente poetica; nonché le Basa’ir wadh-dhakha’ir di Tawhidi (m. 1010 ca), amplissima miscellanea la cui ancor troppo parziale edizione non consente di valutarne appieno il valore documentario sicuramente considerevole. Su tutte le raccolte di adab, comunque, sovrasta, e non solo per mole (oltre venti volumi!), quel «Libro delle canzoni» (Kitab al-Aghani) che è a ragione una delle opere più importanti della letteratura araba medievale. Il suo autore, Abu l-Farag al-Isfahani (m. 967), che il nome potrebbe far credere persiano (mentre lo fu solo di nascita), impostò la struttura dell’imponente edificio sulla scelta di cento arie musicali, applicate ad altrettanti poemi celebri cantati al suo tempo. Senza spingersi a dire che si tratta di un artificio formale, sta il fatto che la massa di materiali stipata entro simile intelaiatura ne fa scomparire l’esile trama sotto un profluvio di testi di prosa e di poesia, che dall’iniziale aggancio all’autore del poema si svolgono e susseguono e incalzano, con continue digressioni, proponendo al lettore una folla di dati e notizie di interesse facilmente immaginabile, su persone, avvenimenti, momenti della storia
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sia civile sia culturale dell’arabismo, dai primordi anteislamici all’epoca dell’autore. Oltre ad essere per questo una miniera di inestimabile ricchezza per chiunque voglia studiare la civiltà degli Arabi nella fase più antica e in quella più pregnante del suo passato, ciò che fa attribuire al Kitab al-Aghani uno specialissimo, ineguagliabile valore sono le reliquie, spesso uniche, che ci tramanda del patrimonio poetico. È proprio quindi al suo carattere essenzialmente compilatorio che, un po’ paradossalmente se si vuole, quest’opera eccezionale deve il rilievo che la fa spiccare, nel paesaggio della cultura araba medievale, come il monumento più insigne per dovizia di letterarie memorie. Nella prevalente relativa impersonalità della prosa d’adab (di cui si sono segnalati qui avanti gli esempi più cospicui) e di quella ad essa affine, di contenuto per lo più etico-didattico, rari sono i casi in cui si possono riconoscere i lineamenti di una individualità definita. L’eccezione più notevole è senza dubbio Abu Hayyan at-Tawhidi (m. 1010 ca), già citato per il suo apporto all’adab, ma che merita speciale apprezzamento per altre opere di più spiccata originalità, rispecchianti sia la vita culturale del sec. x con la sua complessa problematica, sia la spiritualità profonda e tormentata dell’autore, le amarezze della sua esistenza, la sua misantropia e il suo pessimismo. L’interesse per ogni genere di questione – filologica e letteraria, filosofica e teologica –, così caratteristico nei circoli intellettuali di Baghdad stimolati dal mecenatismo dei principi Buwaihidi e dei loro dignitari, se accomuna Tawhidi a Giahiz, e si manifesta nell’analoga forma del sapido aneddoto e del bozzetto spesso satirico, rivela tuttavia in lui una più acuta riflessione e una partecipazione più intensa, cosicché la pagina tauhidiana risulta complessivamente carica di un’umanità più avvincente, anche se a volte sconcertante. Ciò vale anzitutto per «Il Libro dell’amicizia e dell’amico» (Kitab as-sadaqa was-sadiq), frutto di personali esperienze, oltre che collettanea antologica, e per il violento libello degli Akhlaq al-wazirain o «Costumi dei due visir» (contro Ibn al-cAmid e Ibn cAbbad, visir dei Buwaihidi e letterati essi stessi); ma anche per le M.uqabasat o «Trattenimenti» e il Kitab al-imta c wal-mu’anasa o «Libro del diletto e della confidenza», che ci tramandano il resoconto delle dotte conversazioni di moda al suo tempo, nonché il ritratto dei loro protagonisti. Nello stesso secolo x in cui la prosa araba raggiunse con Tawhidi il culmine della maturità, quale espressione sempre più consapevole di una consistenza culturale tanto ricca e complessa, prese avvio un opposto processo, involutivo, per effetto del quale sul contenuto prese deciso ed esclusivo sopravvento la forma, e lo scrivere significò non più comunicare la forza di idee e trasmettere la vibrazione di sentimenti, ma abbagliare con il colore dato artificialmente alla parola, dilettare o anche appena solleticare con il gioco dei suoni, delle assonanze, della rima e del ritmo. Un fenomeno che non stupisce chi consideri le risorse foniche e musicali della lingua araba e, per altro verso, l’incomparabile dovizia di vocaboli e in particolare di sinonimi, quasi predestinata a creare quei giochi di artificio e quelle acrobatiche esibizioni che furono proprie di questa prosa, detta perciò convenzionalmente «ornata». A provocare un simile processo non fu estranea la suggestione dell’antico e del sacro; del Corano e dei più remoti saggi di prosa rimata, come della stessa poesia. Ma una
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più diretta responsabilità deve riconoscersi a quel genere dell’epistolografia – della risala con il recuperato senso originario di «messaggio» – che si era venuto formando sin dall’età omàyyade, con cAbd al-Hamid (m. 750), segretario dell’ultimo califfo di quella dinastia, ma che fu coltivato specialmente nell’abbàside, in relazione alle necessità amministrative e protocollari, raggiungendo il massimo lustro con i già citati Ibn al-‘Amid (m. 970) e Ibn cAbbad (m. 995); un genere che continuò poi ancora per lungo tempo ad avere estimatori e cultori, come il qadi al-Fadil (m. 1200), segretario del Saladino, per un gusto malsano che privilegiava l’artificio anziché l’arte, il virtuosismo con le sue effimere raffinatezze e vuote ampollosità. Tuttavia, anche su questo terreno, dove lo sterile esercizio di preziosistica bravura sembrava non promettere nulla di valido, il genio arabo riuscì a coltivare una specie singolarissima, quale quella della maqama (letteralmente «seduta»), capace di produrre qualche gustoso frutto, e di rispuntare miracolosamente anche a distanza di tempo, con insospettata vitalità (senza contare le semplici imitazioni), addirittura in autori del nostro secolo (basti citare Muwailihi jr., m. 1930, e il suo Hadith cIsa ibn Hisciam). Nella sua forma di narrazione breve, dal contenuto avventuroso-romanzesco e con le movenze semidrammatiche di un mimo, la maqama ha un tono prevalentemente farsesco che le deriva dall’unico suo protagonista: un tipo che cumula in sé tutta una collezione di vizi e magagne, bugiardo e scroccone, sfrontato e vorace, giocoliere di chiacchiere e maestro di imbrogli, ma che comunque, grazie alla furberia e intraprendenza, solleva scalpore e ottiene successo e in definitiva, con le situazioni che provoca, ora comiche ora drammatiche, finisce spesso con il guadagnarsi un giudizio artistico, e a volte anche umano, di sincero favore. Il merito è di chi, con vivacità di fantasia e libertà di invenzione, senso dell’umorismo e intuito della umana psicologia, oltre che con il magico ingrediente di una lingua manipolata come fosse in un gioco di destrezza, almeno in alcuni più felici momenti ha saputo utilizzare proprio il rischioso strumento degli artifici formali per delineare autentici ritratti di tipi umani. Così Hamadani (m. 1008), chiamato «la meraviglia del mondo» (Badic az-zaman) a riconoscimento di questo suo prestigioso talento, che del genere maqama fu il creatore, e altrettanto Hariri (m. 1122), che ne fu il continuatore, al pari e forse più di lui celebrato (anche dagli artisti della miniatura), sebbene le vertiginose prodezze a cui egli si spinse tradiscano l’esaurimento ormai di ogni capacità che non sia quella di trastullarsi, futilmente, con giochi sonori e acrobazie lessicali. Con il suo bizzarro miscuglio di realismo e fantasia, volgarità e raffinatezza, la maqama è un prodotto letterario così caratteristico dell’arabismo da scoraggiare il tentativo di possibili accostamenti ad altri simili, ma non identici, di culture diverse. Ed è, in più, un «unicum», anche considerata in rapporto alla prosa araba stessa, nell’insieme dei suoi vari indirizzi. Poiché essa vuole essenzialmente divertire e, se descrive o racconta o dialoga, il suo fine ultimo non è che quello, partecipe lo stesso autore che ha tutta l’aria di farsi spettatore, appunto, come gli altri, curioso e divertito. Verrebbe da dire: del gran libro dell’araba letteratura (sempre si parla ancora di prosa), la maqama occupa, sia pure vistosamente, non più che qualche margine, delle mille e mille pagine in cui si squadernano
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– come si è visto rapidamente – dottrina, saggezza, pensiero e – come resta da vedere – i ricordi, ossia la storia. È naturalmente vano, per quanto riguarda la storiografia, voler precisare il raffronto quantitativo adombrato in questo così vago riferimento. Ma è opportuno chiarire preliminarmente, a chi non ne immaginasse le «dimensioni», che di quelle mille e mille pagine, la gran parte furono dettate dalla curiosità e dall’amore che gli Arabi nutrirono per il proprio passato (per cui parlare di influssi iranici o bizantini a questo proposito non ha senso). Si tratta di sentimenti e di un atteggiamento di profondità remota, che i successi delle conquiste poterono soltanto esaltare, e trovano riscontro in quella letteratura di hadith che veicolò una congerie di materiali pertinenti non solamente, come si è ricordato, alla vicenda religiosa dell’Islam, ma altresì alle sue fortune mondane. Gli incunaboli della storiografia risalgono dunque a quelle raccolte di tradizioni che già dal periodo omàyyade furono elaborate, sia a Medina, con il prevalente interesse per la biografia del Profeta e la storia protoislamica, sia nell’Iraq, con l’attenzione rivolta ormai più all’ulteriore sviluppo delle vicende militari e delle lotte politiche. Ne risultarono, da una parte, la «Vita» (Sira) di Maometto, compilata da Ibn Ishaq (m. 768) e trasmessaci nella riduzione «critica» di Ibn Hisciam (m. 833), e il «Libro delle campagne militari (del Profeta)» (Kitab al-Maghazi) di Waqidi (m. 823), nonché, per opera del segretario di quest’ultimo, Ibn Sa’d (m. 845), il già menzionato enorme repertorio biografico dei Compagni di Maometto, intitolato «Il gran libro delle classi» (Kitab at-Tabaqat al-kabir); e dall’altra, una nutrita serie di monografie sui momenti salienti della storia del primo secolo dell’ègira (ad es. la ridda o rivolta delle tribù d’Arabia alla morte del Profeta), un genere inaugurato, pare, da Abu Mikhnaf (m. 773), e che ebbe poi il più fecondo cultore in Mada’ini (m. 840). Diverso appare il metodo seguito, per esempio, da Ibn Qutaiba nel ricordato Kitab al-Macarif, e da quanti altri vagheggiarono il disegno più ampio di una storia pretesa universale, ma che sarebbe più appropriato dire enciclopedica, però intendendo per tale una che aveva come fonte di informazione quasi esclusivamente la Bibbia e che geograficamente quasi non oltrepassava i confini del mondo islamico: tali le «Lunghe storie» (al-Akhbar at-tiwal) di Dinawari (m. 895), che giungono fino all’842, e la «Storia» (Ta’rikh) di Yacqubi, che si spinge fino all’anno della sua morte (892). Questi due compendi, che da un punto di vista letterario offrono tratti comuni all’adab, e che, considerati nel complessivo sviluppo del genere storiografico, presentano la novità di una qualche elaborazione personale (da un punto di vista filosciita), hanno formalmente quello svolgimento annalistico del racconto che sarà adottato e mantenuto da tutti gli autori delle maggiori compilazioni. Restò infatti unico il caso degli Ansab al-ashraf, o «Genealogie dei nobili», di uno dei più insigni storici dell’Islam antico, Baladhuri (m. 892), che distribuì la materia secondo uno schema riflettente la struttura familiare dell’aristocrazia meccana a cui appartenevano i protagonisti: uno schema suggerito ovviamente dall’interesse per il dato genealogico, così vivo nell’arabismo almeno di allora, ma estremamente scomodo, se applicato al racconto storico, tant’è vero che lo stesso autore gli preferì l’ordinamento annalistico nell’altra sua
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opera, il Kitab Futuh al-buldan o «Libro della conquista dei paesi», che è una delle fonti più preziose per il periodo della prima espansione militare. Una visione universale della storia, con i limiti e la prospettiva islamica sopra indicati, ispirò e sorresse anche l’immane fatica con cui il persiano Tabari (m. 923) costruì il monumentale «Libro dei Profeti e dei Re» (Kitab ar-Rusul wal-muluk), la prima grandiosa raccolta di storiche memorie dagli inizi dell’umanità a tutto il terzo secolo dell’Islam (fino al 914). Che il suo sia stato quasi soltanto, come è innegabile, lavoro di ricerca e registrazione di materiali altrui, e che la sua preoccupazione sia stata evidentemente solo quella di riferire tutto e fedelmente, ciò non sminuisce il merito della infaticabile pazienza e scrupolosa probità, riconoscibili nell’informazione esauriente e imparziale di ogni sua pagina; né riduce il debito che la scienza storica ha contratto verso questo campione, se mai ve ne fu, dell’erudizione islamica (autore, va ricordato, di un parimenti gigantesco commento al Corano), per avere sottratto all’oblio e trasmesso intatta una considerevole parte dei testi della storiografia primitiva. Sicché benemerita fu l’iniziativa con cui la filologia occidentale, pur senza illudersi di saldare quel debito, nel 1901 venne a capo dell’edizione critica dell’opera tabariana, in 15 volumi! La prima ad apprezzare l’importanza di Tabari storico fu del resto la stessa posteriore storiografia araba, sia pure senza percepirne forse le ragioni con la chiara consapevolezza del moderno orientalismo. Ancora tre secoli dopo, cIzzaddin Ibn al-Athir (m. 1233) guardò a lui come a modello nel comporre la «Storia perfetta» (al-Kamil fi t-ta’rikh) che, per il periodo già trattato da Tabari, ne riprende l’esposizione annalistica riducendola e semplificandola, con una rielaborazione anche linguistica, e per giunta allargandone il quadro fino a comprendervi il Maghrib e la Spagna, rimasti prima esclusi; mentre per i secoli dal x al xiii (l’opera arriva al 1231) procede sul vergine terreno di fonti nuove, che dimostra di saper trattare con notevole sicurezza di autonomo giudizio, sensibile nel cogliere e misurare le grandi trasformazioni dello Stato islamico, alle prese con i suoi nuovi interlocutori, dai «Franchi» ai Turchi ai Mongoli. Formalmente dipendente da Tabari, almeno in parte, ma sostanzialmente diversa per spirito e interessi, appare invece la produzione di alcuni storici che gli sono più vicini nel tempo, appartenendo alla seconda metà dello stesso sec. x o alla prima dell’xi. Uomini che la diversa formazione, più letteraria e profana che erudita e religiosa, e le diverse funzioni svolte in qualità di segretari e funzionari, condizionarono decisamente sollecitandone il talento di storici e di scrittori a indagare e ritrarre, spesso con notevole efficacia d’arte, più la vita di corte e l’organizzazione statale, la vita sociale e l’economia. Purtroppo, di alcune di queste opere abbiamo solo reliquie parziali: così del Kitab al-Awraq («Il libro dei fogli») di Suli (m. 946), del Kitab al-Wuzara’ wal-kuttab («Il libro dei ministri e dei segretari») di Giahsciyari (m. 942), del Kitab al-Wuzara’ («Il libro dei ministri») di Hilal as-Sabi (m. 1056). Intera ci è invece rimasta, per fortuna, anche se tuttora non del tutto disponibile in edizione critica, quella che è forse la più importante, la storia che Ibn Miskawaihi (m. 1030) intitolò Tagiarib al-umam o «Le esperienze delle nazioni», a evidenziarne l’intento
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didattico (Historia magistra vitae...), come si addiceva a un autore dalla vocazione di moralista, più esplicitamente assecondata nell’altro suo scritto sul «Raffinamento dei costumi» (Tahdhib al-akhlaq). Ma il quadro della storiografia post-tabariana non sarebbe completo senza 1’evocazione almeno di un’altra figura, tra le più singolari e rappresentative di questo secolo x che, in contrasto con il declino politico del Califfato, segnò invece il culmine della maturità culturale. Mas‘udi (m. 956), per la verità, storico di professione non fu, perché la sua curiosità, di viaggiatore come di studioso, lo spinse dovunque e lo interessò ad ogni argomento, esempio vivente di un enciclopedismo tanto vasto quanto dinamico. Si aggiunga che, quando scrive, lo fa con grazia, con gusto divertito, con pacata fluidità (da farlo paragonare a Erodoto...). E insomma, le sue «Praterie dorate» (Murug adh-dhahab), oltre a riuscire uno dei libri più dilettosi di tutte le lettere arabe, risultano opera storica solo nei limiti che alla storia lasciano le altre materie: geografia e scienza naturale, medicina, religione e tutto il resto. Una miniera, dunque, di cui si stenta a credere che trattasi soltanto della riduzione, eseguita dall’autore stesso, delle sue Akhbar az-zaman o «Notizie del tempo», ahimè perdute (ma si provi a pensare se un giorno, per miracolo, le si ritrovasse!). Parallelamente al filone della storiografia «universale», nacque spontaneamente anche una storia «locale», in rapporto al ruolo che singole provincie e città vennero assumendo. Ciò vale anzitutto per l’Egitto, che ebbe presto nei Futuh Misr («Conquista d’Egitto») di Ibn ‘Abd al-Hakam (m. 871) una storia della conquista araba, seguita a distanza di un secolo dagli Umara’ Misr o «Governatori d’Egitto» di un Kindi (m. 961), diverso dall’omonimo filosofo. Per il resto dell’Oriente islamico (a parte le notizie date dalle compilazioni generali), è la realtà cittadina che appare avere focalizzato l’interesse storiografico, con un’impostazione peraltro singolarissima, data dalla prospettiva culturale in cui viene rievocata la storia della città, che è sentita più che altro come centro di sapere e residenza di dotti. Di qui il limite, ma anche lo speciale valore per la storia della cultura (e qui ovviamente si tratta di quella araba e islamica medievale) che hanno, in particolare, il Ta’rikh Baghdad («Storia di Baghdad») di al-Khatib al-Baghdadi (m. 1071), il Ta’rikh Dimashq («Storia di Damasco») di Ibn ‘Asakir (m. 1176), il Ta’rikh Halab («Storia di Aleppo») di Ibn al-cAdim (m. 1262), le Akhbar Isfahan («Notizie di Isfahan») di Abu Nucaim (m. 1038), nonché la più antica «Cronaca della Mecca» (Akhbar Makka) di Azraqi (m. 858). L’esempio più fecondo e continuo di storiografia regionale è dato comunque dall’Occidente islamico: il primo a esporre la storia dell’arabismo spagnolo (fino al 912) fu Ibn al-Qutiyya (m. 977), nella «Storia della conquista dell’Àndalus» (Ta’rikh iftitah al-Àndalas), mentre le anonime e collettive Akhbar magmuca («Notizie raccolte») si estendono fino al 961; al secolo successivo appartiene invece il maggiore storico, Ibn Hayyan di Cordova (m. 1076), autore di un Kitab al-Matin («Libro solido»), quasi del tutto perduto, che doveva essere la sua opera più personale, con argomento il periodo a lui più vicino, e il Kitab al-Muqtabis («Il libro di colui che attinge (la conoscenza)»), raccolta di testi altrui, del quale è in atto il parziale recupero. E allorché più tardi la storia dell’Àndalus si legherà a quella del Maghrib, sotto gli Almoravidi e gli Al-
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mohadi, ad informarci di quelle sempre più intricate vicende sarà una nuova generazione di autori: Ibn Sacid, Ibn cIdhari, Marrakusci ed altri ancora, che però cronologicamente escono fuori del nostro orizzonte. Quanto l’arabismo e l’Islam, nel guardarsi allo specchio della storia, abbiano pregiato il valore dell’individuo, lo dice il favore di cui godette precocemente e durevolmente quella particolare forma di storiografia che limita il proprio oggetto al singolo personaggio: la biografia. Il primo e potente incentivo fu certamente il culto della personalità del Profeta; anche se poi la celeberrima Sira, di cui già si è parlato, in qualche modo precluse, per una sorta di soggezione reverenziale, la composizione di biografie monografiche ampie per altri personaggi: eccezioni cospicue quasi uniche, la biografia di Mahmud di Ghazna, scritta da cUtbi (m. 1036), quella del Saladino, di Ibn Sciaddad (m. 1234), come più tardi l’altra di Tamerlano, di Ibn cArabsciah (m. 1450). In complesso, dunque, il genere biografico, nel suo più rigoglioso sviluppo, predilesse la forma del repertorio, sia specializzato per categorie, sia generale ed eterogeneo, senza altri limiti solitamente che quelli del tempo, proponendosi l’autore di recensire i personaggi di uno spazio secolare, o addirittura di un millennio (come farà assai più tardi Ibn al-‘Imad, m. 1679). Va osservato comunque che, trattandosi di una forma letteraria ampiamente tributaria dell’erudizione, sia i repertori per «classi» (tabaqat) – di giuristi, tradizionisti, grammatici, ecc. –, sia quelli generali, furono prodotti per lo più nella tarda età abbaside. Di questa enorme produzione siano qui ricordati, del primo tipo, in particolare «La storia dei sapienti» (Ta’rikh al-huka- ma’) e «La storia dei medici» («Ta’rikh al-atibba’»), con le quali l’egiziano Ibn al-Qifti (m. 1248) e rispettivamente il siriano Ibn Abi Usaibica (m. 1270) ci hanno trasmesso l’immagine che la cultura araba-islamica aveva ricevuto dei filosofi e scienziati greci; e del secondo tipo, i due repertori meritatamente più famosi, l’Irshad al-arib o «Guida dell’intelligente» di Yaqut (m. 1229), preziosa fonte di notizie prevalentemente su figure della storia letteraria, e le Wafayat al-acyan o «Necrologi degli uomini illustri» di Ibn Khallikan (m. 1282), che al valore documentario uniscono spesso il pregio artistico di una discrezione che tenta risolvere i dati della biografia nei lineamenti del ritratto. A concludere degnamente il panorama grandioso della storiografia, citiamo infine il Kitab al-Ictibar («Il libro dell’ammaestramento»), il cui titolo in realtà non lascia trasparire la vera natura di questo libro singolare, narrativo ed evocativo, di storia e insieme autobiografia, nel quale il principe siriano Usama ibn Munqidh (m. 1188) ci ha lasciato, oltre ai ricordi della sua vita avventurosa di cavaliere combattente e intrigante politico, anche un affascinante affresco di quel momento storico del quale fu parimenti spettatore e attore, l’epica e turbolenta stagione del Saladino e della Crociata. Per le sue evidenti interferenze con la storiografia e per il fatto di essere, non soltanto scienza della terra, come dice il nome, ma altresì scienza dell’uomo, la geografia ha fondato motivo di essere per lo meno sommariamente menzionata, nelle grandi linee del suo sviluppo, come parte non marginale, oltre che quantitativamente considerevole, della produzione letteraria dell’età abbàside. E non è neppure il caso di insistere troppo a giustificarne l’in-
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clusione, solo che si pensi alla dignità letteraria di tante pagine dei geografi arabi, in prima linea gli autori dei resoconti di viaggi (rihla ne è il termine tecnico), a partire dall’andaluso Ibn Giubair (m. 1217). Naturalmente il tecnicismo scientifico fu il carattere prevalente dei primi scritti geografici. L’Occidente, è vero, conobbe anzitutto testi come la sistematica Nuzhat al-mushtaq fi ikhtiraq al-afaq («Diletto di chi desidera oltrepassare gli orizzonti») di Idrisi (m. 1166) e il compendioso Taqwim al-buldan («Rassegna dei paesi») di Abu l-Fida (m. 1331), opere che appartengono alla fase più tarda, di sedimentazione, della scienza geografica. La quale invece era nata quattro secoli innanzi, e quasi all’insaputa, si direbbe, dei suoi stessi creatori. Infatti, sulle orme di Khuwarizmi (m. 850 ca), che aveva rielaborato la Geografia di Tolomeo, e subendo l’influenza delle idee e concezioni cosmografiche dello scienziato greco, Ibn Khurdadhbe (m. 885 ca) e Ibn Rusta (m. dopo il 903) composero i primi trattati pseudo-geografici per utilità dei servizi amministrativi dello Stato califfale. In un senso opposto operò contemporaneamente un genere di letteratura vagamente geografica, che lasciava molto spazio al meraviglioso e alla fantasia, assimilandosi all’amena narrativa dell’adab: tale deve essere stato il Kitab al-Buldan o «Libro dei paesi» di Giahiz (la cui presenza qui è significativa...), e tale è l’omonima opera di Ibn al-Faqíh (m. dopo il 903). È quindi nella generazione dei geografi «professionisti» che si devono cercare i creatori di una geografia veramente scientifica, basata sul metodo della visione diretta, integrata o, quando non è possibile altrimenti, sostituita dalla scrupolosa ricerca delle fonti scritte e dalla raccolta di tutte le testimonianze orali. Tali devono essere considerati Yacqubi (m. 892), già ricordato come storico, che scrisse anch’egli un «Libro dei paesi»; Ibn Hawqal (m. dopo il 977), autore di una «Immagine della terra» (Surat al-ard), la cui parte più originale è quella, frutto di viaggi, relativa al Maghrib, alla Sicilia e all’Àndalus; e finalmente Muqaddasi (morto intorno al 1000), con il quale la geografia araba raggiunse la sua piena maturità, con un’opera che per la perfetta struttura, il tecnicismo anche linguistico, il rigore di metodo e la globalità di informazione, giustifica a pieno il titolo datole dal suo autore di «Ottima ripartizione circa la conoscenza delle regioni» (Ahsan at-taqasim fi macrifat al-aqalim). A suggello di questa rassegna necessariamente succinta, ne riportiamo l’appassionata pagina, con la testimonianza della vocazione dello scienziato e dei suoi eroismi: Non c’è stata biblioteca di re che io non abbia frequentata, non opere di una setta che non abbia sfogliate, non credenze di una gente che non abbia conosciute... Non c’è avventura che capiti a un viaggiatore che io non abbia provata, fuorché il mendicare e il commettere grave peccato: ho fatto il faqih e il maestro di scuola, l’asceta e il devoto, ho dato lezioni di diritto e di belle lettere, ho predicato sui pulpiti, ho fatto il muezzin sui minareti, l’imam nelle moschee...; ho mangiato la «harisa» con i sufi, la zuppa con i cenobiti, la polenta coi marinai; sono stato cacciato via la notte dalle moschee, ho percorso le steppe, errato nei deserti... Sono stato più volte a un pelo dall’annegare, ho subito assalti dai predoni, ho servito i cadi e i grandi, ho parlato ai sultani e ai visir; mi sono accompagnato per le vie ai
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malviventi, ho venduto la mercanzia sui mercati, sono stato tenuto in prigione, preso per spia. Ho visto la guerra dei Rum con le galere, ho sentito il notturno battere dei batacchi di chiesa, ho rilegato volumi per mercede, ho comprato acqua a caro prezzo, ho camminato tra il vento torrido e le nevi... E tutto questo abbiamo detto perché il lettore del nostro libro sappia che non l’abbiamo composto a vanvera... e sappia distinguerlo dagli altri. Quanta differenza tra chi ha sofferto tutte queste traversie, e chi ha composto la sua opera nell’agio, sul sentito dire! (Versione di F. Gabrieli, op. cit., p. 222). Nella tentata, sommaria rievocazione del suo sorgere ed evolvere, la prosa letteraria araba appare dunque essenzialmente una creazione ex novo, la cui scintilla, se pur sopita sotto più antiche ceneri, divampò in libera e robusta fiamma nel momento culturale concomitante e connesso con il trapasso politico dagli Omàyyadi agli Abbasidi, in pieno sec. viii. Al confronto, la poesia vantava un’esistenza lunga di secoli, per essere stata fin dai suoi remoti incunaboli preislamici la forma di espressione artistica praticamente unica, al punto da assorbire in sé financo le funzioni di solito proprie di un genere schiettamente prosastico e pragmatico qual è la storiografia, e meritarsi la definizione, datane da un intenditore come Ibn Qutaiba, di «Diwan al-‘Arab», ossia registro e inventario, quasi ricettacolo, di ogni passata memoria. Una definizione, questa, doppiamente vera, in quanto suggerisce anche l’idea di una espressione più corale che individuale, di un linguaggio meno personale che convenzionale e tendente alla conformità (se non proprio al conformismo). È ben noto infatti che, salvo il caso della originalità eccezionale di uno Scianfara, e singoli tratti di identità sempre riconoscibili in questo e quello dei più veri poeti, le migliaia di versi costituenti il patrimonio dell’antica poesia attestano non soltanto l’esistenza di una lingua letteraria comune, elaboratasi nella pratica di generazioni, uniforme pur nella sua ricchezza e aulica nella veste, una lingua insomma evidentemente dotta e alquanto artificiale; ma anche un costanza di temi, una rigidità esclusiva di struttura, un sistema definito, sebbene già assai differenziato, di forme metriche, che condizionarono inevitabilmente il linguaggio poetico, instaurando una tradizione che difficilmente consentiva variazioni. Si può dire che il vincolo di questa tradizione di fatto non si allenterà mai con il passare dei secoli e nonostante la concorrenza di modi (e mode) di poesia, che sarebbero comunque pur nati, tanto poté sempre presso gli Arabi il fascino dei modelli più lontani, per effetto congiunto della passione «archeologica» di filologi e letterati, e di un quasi connaturale gusto nostalgico per un mondo poetico dai caratteri definitivi, imitabile ma immutabile, quasi garantito dagli esempi, che offriva, di una bellezza sentita come classica. E sarà bene non dimenticare che proprio all’inizio dell’età abbaside esordì l’attività antologica di eruditi come Hammad ar-Rawiya (m. 772) e Mufaddal ad-Dabbi (m. 786), ai quali l’antica poesia deve in larga parte la sua sopravvivenza. Con tutto ciò, ben maturi erano i tempi – e non è il caso di richiamarne ancora le ragioni – perché la poesia si trasformasse, ritrovasse la sua più vera funzione di espressione fedele delle emozioni, diventasse partecipe di una cultura nuova, di una società nuova, di una vita nuova. Per riuscire così ad essere finalmente
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moderna, come «moderni» o più esattamente «rinnovati» furono designati i poeti, con il termine che venne in uso, di muhdathun. In sintesi, fu l’affrancamento dagli schemi, dal frasario, dai canoni, dai moduli stessi della metrica, auspice tra l’altro la musica: quest’arte che con la sua presenza diede forse la nota più tipica a una civiltà cittadina e cortigiana, di cui scandiva i giorni con il ritmo dei suoi canti e della danza (come già la cantilena del cammelliere aveva segnato il passo della carovana, inventando, a quanto si dice, senza accorgersene niente meno che il verso...). Un suo riflesso, discreto, in letteratura è già stato notato, parlando del «Libro dei canti», dove risuona tra l’altro l’eco della fama e delle musiche di Ishaq al-Mawsili (m. 850), il celebre cantore del tempo di Harun ar-Rascid. Se si accetta, per comodità, di parlare di una «scuola moderna» abbàside, si dirà quindi che lo spirito che l’animò fu quello della libertà: anzitutto, formalmente, dalla compatta quanto forzata struttura della vecchia qasida, che viene ora letteralmente disintegrata e sostituita con la qitca o «frammento», più o meno breve, ma omogeneo e unitario; quindi, dalla convenzione che costringeva entro scomparti rigidi di un unico componimento poetico una serie di temi tra loro slegati, i quali finalmente acquistano autonomia di sviluppo; e poi libertà di espressione, con l’abbandono di un linguaggio più o meno precostituito; e libertà e verità di argomenti, dove al vieto repertorio di un ambiente beduino ormai difficile anche solo da immaginare, nonché da ritrarre, subentra la descrizione fastosa del palazzo, o quella preziosa del monile, o ancora quella turbinosa di cacce e conviti; e libertà infine del costume e del pensiero, tante vero che la poesia ora non esita a volte a farsi dissoluta e irriverente, a cantare amori impudichi e a sbeffeggiare il sacro. In termini poi strettamente di stile, la caratteristica più appariscente, e insieme la più controversa, di così spregiudicato neoterismo poetico fu l’uso, ma col tempo anche l’abuso, di artifici retorici di ogni specie – similitudini, metafore, iperboli – e di preziosismi verbali, facilitati dalle particolari risorse della morfologia araba, ingegnosamente sfruttate. Per designare un simile procedimento, la filologia di stretta osservanza coniò lo spregiativo vocabolo badic («originale, strano»), presagendo quelli che ne sarebbero stati gli eccessi; ma non tutti condivisero questo atteggiamento di ostilità all’innovazione, come Ibn al-Muctazz (m. 908), che recepì il termine nel titolo dell’omonima opera, teorizzando e così legittimando questo «nuovo stile», e Ibn Qutaiba che assunse quell’esemplare atteggiamento, di cui si è già parlato, di illuminata equidistanza tra i lodatori ad oltranza dell’antico e i più eccessivi sperimentatori del moderno. Se considerazioni di cronologia possono giustificare la menzione di Muticibn Iyas (m. 785 ca), già compagno di scapigliatura dell’omàyyade Walid ibn Yazid, come del primo che visse e poetò nella recente maniera dei piaceri del vino e dell’amore, la figura più rappresentativa di questa rottura con il passato è concordemente riconosciuta quella di Bashshar ibn Burd (m. 785), che una plausibile prospettiva colloca, come pioniere della nuova moda poetica, in posizione simmetrica a quella del suo connazionale e contemporaneo Ibn al-Muqaffac in quanto «creatore» della prosa. Cieco dalla nascita e fisicamente turpe, Bashshar appare quasi segnato dal destino di una esistenza travagliata e contraddittoria: a documentarla
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sono un’aneddotica e dei versi che lo mostrano lodatore, con eguale cinica indifferenza, di personaggi di entrambe le dinastie, sarcastico motteggiatore dei suoi censori e sospiroso vagheggiatore di muliebri bellezze, violento nella satira e delicato nell’elegia, fermo e altero nel suo settarismo filoiranico quanto incerto ed irrequieto nelle convinzioni religiose. E non è facile dire in quale misura al pessimismo fatalista che sembra averlo sopraffatto, alle amarezze e rancori che devono aver accompagnato i suoi giorni, preludio ad una fine violenta, abbiano recato sollievo i versi dei suoi momenti felici, se pure ne ebbe, o quelli non siano stati evasiva finzione, i versi dell’amore sognato, i versi dell’amore goduto (e perduto...). Di tutt’altra tempra fu invece Abu Nuwas (m. 815 ca), l’astro maggiore nel firmamento dello stilnovo iracheno: alieno da complicazioni intellettualistiche e da crisi religiose, le sue senili resipiscenze ascetiche, anche ammesso che siano sincere, non alterano l’immagine della sua più vera natura, esuberante e sfrenata, di uomo che godeva di vivere perché viveva per godere. A riscattare artisticamente le infinite dissolutezze del libertino Abu Nuwas, che fu sì anche il commensale di califfi, ma soprattutto il frequentatore di taverne, seduttore di cantatrici e compagno di efebi, sono l’inimitabile estro, la novità dell’invenzione e una spontaneità irruente che danno ai suoi versi l’animazione stessa della vita. Altri avevano cantato il vino, ma nessuno come lui: Garzone, dacci del vino, un bicchiere e un piatto, preparaci un angolo come ieri! Compagno, servimi, fino a quando tu mi veda capace almeno di balbettare, un vino che si direbbe fatto pigiando le guance di una bella fanciulla il giorno delle sue nozze! (Versione di R. Traini). È questa, di necessità, una minima citazione dalle sue poesie bacchiche, in cui è certamente il miglior fermento di quella ebbrezza – di ogni altro piacere, oltre quello del vino – che pervade tutta la sua ricca e multiforme produzione poetica. Poiché Abu Nuwas aveva sì travolto baldanzosamente certi steccati, come quando aveva bandito l’uso del lagrimoso proemio vecchia maniera: Lascia perdere le rovine, spazzate dall’aquilone, sul cui tempo antico piangono le sciagure! (Versione di F. Gabrieli, op. cit., p. 127). Ma troppo bene egli aveva imparato a conoscere, amare e sfruttare le risorse della lingua, per potersi sottrarre all’ebbrezza di quest’altro più raffinato piacere: di forgiare anche lui, come tanti altri, poemi di invettiva e di encomio, e dolenti elegie. Ma di forgiare questi temi antichi per il gusto di trattarne il materiale a modo suo, e dargli il timbro di una sonorità nuova. Ai profani spiriti della poesia, ora frivola ora licenziosa, di un Bashshar e di un AbuNuwas si contrappone la serietà religiosa, più che pensosa, e il pessimismo moralistico di un altro poeta che, sfiorato anch’egli dalla dissipazione in gioventù, si convertì poi a un abito
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di severa e insieme serena ascesi: Abu l-cAtahiya (m. 825 ca). Senza aderire a nessuna scuola filosofica né fare mostra di avere lui stesso un proprio sistema definito di idee, e senza dare segni, per altro verso, di esplicito assenso ai principi e alle pratiche della religione ufficiale, questo stoico musulmano – come qualcuno ha voluto chiamarlo – attinse ispirazione inesauribile nel pensiero quasi ossessivo della caducità della vita e di ogni bene terreno, traendone lo spunto per le meditazioni e le esortazioni che costituiscono la sola materia dell’intero suo Canzoniere. Va subito aggiunto come il pericolo che la monotonia del tema potesse compromettere il successo della sua poesia, fu scongiurato sia dalla facilità con cui Abu l-cAtahiya si destreggiò a darne infinite variazioni, sia dalla inconsueta semplicità e scorrevolezza della forma, sia finalmente dal favore che la novità, tematica e formale, dei suoi versi incontrò tra i meno cólti, nella massa del popolo. Eccone almeno due brevi saggi: La vita dell’uomo è la sua fama, e non la lunghezza dei suoi giorni, la morte dell’uomo è la sua infamia, e non il giorno che spira. Vivi dunque per darti buon nome con belle azioni ed opera il bene; così in questo mondo due vite, o mortale, vivrai! Siedono gli uomini quali dei commensali davanti alle coppe e bevono dalla mano del mondo il vino che a turno si mesce, di morte. (Versione di R. Traini). Opposta fortuna toccò invece, con i connessi materiali favori, a due altri poeti, ‘Abbas ibn al-Ahnaf (m. 810 ca) e Muslim ibn al-Walid (m. 823), che deliziarono l’uditorio delle corti, da Harun a Ma’mun, entrambi cantando e ricantando d’amore: il primo con un sentimentalismo raffinato (ma per noi un po’ rarefatto) e languore più che vigore, ed una certa tendenza alla stilizzazione tipica dell’amore cosiddetto «cortese»; il secondo con accenti di mondana spensieratezza, e ricercatezze preziose di linguaggio, e in conclusione assai più eleganza che profondità, come si addice a tale scapigliato gaudente quale doveva essere Ibn al-Walid, noto come «la vittima delle belle», con un motto che suonava: Che altro è la vita se non fare all’amore, e soccombere all’ebbrezza del vino e di due occhi belli? Estrema raffinatezza, congiunta però con più vigile esercizio del freno dell’arte, con talento più vivo e fresca sensibilità, si ritroverà più tardi nell’opera poetica di Ibn al-Muctazz (m. 908), con il quale la poesia «moderna» si schiuderà nell’estrema fioritura, in cui tuttavia il virtuosismo descrittivo denuncia e preannuncia il sopravvento della maniera sulla spontaneità, del tecnicismo sul lirismo. Feconda e varia la produzione di questo principe abbàside, di volta in volta elegiaca ed erotica, futilmente mondana e solennemente laudatoria; e parimenti copiosa quella del contemporaneo Ibn ar-Rumi (m. 896 ca), la cui ascendenza greco-persiana non fu forse del tutto estranea all’insofferenza polemica che spesso gli accese nel verso i bagliori della satira irosa. Nella difficoltà di un bilancio adeguato, è perlomeno comunque possibile riconoscere ad entrambi questi epigoni dei muhdathun un tratto comune: quel prediligere la descrizione (wasf), strumento già dell’antica officina poetica araba, per servirsene nello spericolato e pericoloso esercizio dei giochi di parole, di concetti, di im-
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magini. E fu così, dopo un secolo e mezzo di festa spesso vera – cioè, di vera poesia – come il finale, a suo modo affascinante, di un fuoco d’artificio. Passerà un millennio prima che la poesia araba riviva una sua nuova primavera, che più o meno florida dura tuttora, aprendosi ad esperienze di cui sarà tributaria in parte della poesia occidentale. Nel frattempo, tuttavia, la tradizione non cessò mai di esercitare un suo richiamo, che già fin dallo stesso secolo di Ibn al-Muctazz trova eloquente risposta negli aulici versi di Abu Tammam (m. 845 ca) e Buhturi (m. 897): panegiristi, quello, del califfo Muctasim e, questo, di Mutawakkil, epico cantore il primo di glorie militari (celebre il carme per la presa di Ammorio, tolta ai Bizantini), il secondo sontuoso descrittore di palazzi e relative delizie. Neoclassico è stato opportunamente definito il linguaggio di questi poeti che, contaminati appena da certa intemperanza retorica di immagini e sentenze, coerentemente con il proprio amore per i modelli proposti dagli antichi, ripristinarono la veneranda qasida con il suo lessico e la sua struttura, riabilitandola spesso ad efficace strumento di storica rappresentazione. Altro non è, del resto, se non un particolare aspetto di questa stessa passione antiquaria la diligenza che entrambi, sia Abu Tammam sia Buhturi, posero nel raccogliere una selezione di antichi poemi, ricavandone una antologia tra le più preziose, intitolata in ambedue i casi Hamasa («Valore»), dalla prima delle rubriche in cui ognuna è divisa. Tanto Abu Tammam che Buhturi, benché vissuti a Baghdad, ebbero invece come patria la Siria, quella provincia che era stata in politica la culla delle nostalgie dinastiche filo-omàyyadi, e che ora sembrava offrire ai cultori della poesia l’atmosfera più propizia a un vagheggiamento parimenti nostalgico del passato. Siriano di adozione, sebbene iracheno di nascita, fu infatti colui che si può dire quasi personifichi l’ideale estetico della poesia classicheggiante, Abu t-Tayyib (m. 965), rimasto famoso con il soprannome di Mutanabbi («colui che si pretende profeta»), derivatogli da giovanili velleità che lo coinvolsero, pare, in un episodio di insurrezione a ispirazione religiosa. Poiché se le contrarietà della sua condizione di poeta di corte lo costrinsero alfine a riparare altrove, in Egitto e poi a Baghdad e in Persia, fu ad Aleppo che il suo genio poetico rifulse di più vivida luce, nei nove anni in cui esaltò con i versi smaglianti dei suoi panegirici il hamdanide Saifaddala. Protagonista di una nuova accanita fase del secolare conflitto con i Bizantini, combattuto dagli Arabi con lo spirito di una vera «guerra santa», questo principe che incarnava esemplarmente la muruwwa o «virtù» dell’eroe arabo antico, non poteva trovare canto più degno, per celebrare le proprie imprese e vittorie, di quello magniloquente di Mutanabbi. La sonorità con cui egli forgia il verso in forme perfette, artefice ineguagliato per fecondità verbale e ritmica sensibilità, la sapienza con cui costruisce il poema e l’ampio respiro che gl’infonde, la fantasia che lo soccorre con un flusso strabocchevole di immagini vertiginose (anche troppo, per il nostro gusto), e una sincera commozione eroica, sono le qualità che lo hanno fatto ritenere, nel giudizio dei suoi connazionali, l’ultimo grande poeta, se non il più grande in assoluto: certamente, anche nel nostro, colui che più di ogni altro aveva contribuito a ravvivare l’arcaica qasida. Dei due aspetti della poesia mutanabbiana, l’iperbolico e l’eroico, non possiamo dare che due sparute esemplificazioni: un verso, uno solo, formato di ben 24 imperativi:
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Vivi, resta, innalzati, signoreggia, conduci, largheggia, comanda, vieta, ferisci, adempi, marcia, attingi! Adirati, colpisci, imbrocca, difendi, assalta, cattura, sbigottisci, trattieni, paga il prezzo del sangue, governa, allontana, dona! (Versione di F. Gabrieli, in Studi su al-Mutanabbi, Roma 1972, p. 101); e questi altri pochi, giudicati «degni di Antara», l’antico cantore del valore: Più dolce del vino vecchio, più dolce del porger le coppe, è l’avventare le spade e le lance, il lanciare un esercito contro un altro. Tuffati nel gorgo mortale, anima mia! Lascia la paura della morte alle pecore e alle greggi! (Versione di F. Gabrieli, op. cit., p. 140). Agli accenti quasi epici di questa poesia fanno eco quelli, pervasi di un più intimo lirismo, spesso patetico, di un principe-cavaliere che visse negli stessi tempi e luoghi, partecipe delle stesse vicende: Abu Firas (m. 968), cugino del citato Saifaddaula, che dalle esperienze di combattente (lui pure contro Bisanzio) e soprattutto dalle sofferenze della prigionia (a Costantinopoli) trasse lo spunto per cantare con sincerità e delicatezza in una serie di elegie la nostalgia della patria e della madre lontana. Un tema insolito, come si vede, e modulato con toni troppo personali per poter essere ripreso da altri. Isolata risuonò dunque la voce di questo spirito gentile, così come nel secolo successivo appare isolata, ma per altre ragioni, la figura di Abu l-cAla al-Macarri (m. 1058), lui pure siriano (nativo appunto di Macarrat an-Nucman, vicino ad Aleppo), una delle più originali di tutta la storia letteraria araba. Prescindendo dal tributo pagato alla tradizione con un giovanile divano poetico intitolato Saqt azzand («La scintilla dell’acciarino»), Macarri deve piuttosto la sua fama alla Risalat al-ghufran o «Epistola del perdono», racconto di un immaginario viaggio nell’oltretomba e dei relativi incontri con letterati e poeti del passato; ma soprattutto alle Luzumiyyat, una raccolta di componimenti, di pochi e pochissimi versi, discutibili esteticamente a causa di certa tendenza all’oscurità e alla complicazione, ma notevoli come sofferta enunciazione di una problematica che affronta i temi oggetto dell’eterno tormento dell’uomo: il dolore, il male, Dio e la Rivelazione, l’aldilà e anche la realtà attuale, quella dei rapporti sociali, delle umane istituzioni, della miseria e dignità dell’uomo, delle sue relazioni con tutte le creature. Con il suo pessimismo radicale che talvolta sfiora la misantropia, con l’indipendenza del giudizio che si esprime ora in scettica amarezza ora quasi in invettiva sprezzante, Macarri nel linguaggio dei suoi ardui frammenti ci ha lasciato la storia del travaglio di uno spirito nobile e insieme sdegnoso, di una esistenza corrucciata ad austera. Egli stesso del resto si definì «l’ostaggio delle due prigioni», riferendosi alla sua condizione di cieco nato ed alla disciplina, in cui scelse di vivere, di studi severi e ascetico rigore. Dalla soggezione che in qualche modo incute la personalità un poco enigmatica di questo cieco veggente, valga a sollevarci un istante almeno questo suo verso:
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Il trovarti in questa vita è una sventura, di cui ti consola l’agire benigno e pio. (Versione di F. Gabrieli, op. cit., p. 143). Per quanto sbrigativa e impropria, la definizione di poesia filosofica, per qualificare i versi di Macarri, può essere empiricamente accettabile, se non altro perché aiuta a non confonderla con la lirica mistica che ebbe pure un suo spazio, nell’area poetica dell’età abbàside, sebbene certo non paragonabile a quello che occupa nella letteratura persiana. A giudicare comunque dalle reliquie conservateci di questo genere poetico, si dovrebbe dire in verità che in complesso l’ispirazione non sia stata nei mistici arabi così urgente da soverchiare il loro modo di espressione prevalente: il quale appare invece essere stato dapprima per lo più prosastico, e più tardi quasi esclusivamente allegorico, quand’anche nella forma del verso. Quasi unica eccezione, ma notevolissima, quella di al-Hallag (m. 922), che pagò con il martirio, come è noto, il proprio fervore mistico, espresso con enunciazioni intollerabili per l’ortodossia. Il linguaggio della sua mistica follia, che suonava blasfemo agli orecchi dei sospettosi custodi dell’ordine stabilito in teologia e in politica, non cessa di risuonare tuttora con vibrazioni di una commozione religiosa esasperata fino all’ebbrezza e alla bramosia di dissoluzione come in questo grido: Uccidetemi, compagni, poiché nell’uccidermi è la mia vita! La mia morte è sopravvivere, la mia vita morire! Abolire il mio essere, lo reputo azione fra le più nobili; lasciarmi sopravvivere, il peggiore dei torti. (Versione di U. Rizzitano, in Letteratura araba, nella Storia delle letterature d’Oriente, vol. ii, Milano 1969, p. 76). Bisogna riconoscere che l’esperienza di al-Hallag, compresa la sua proiezione letteraria, era irripetibile. Può tuttavia stupire come in séguito il sufismo non abbia trovato mai un’espressione che, per limpida immediatezza di emozione, si possa dire lirica, ma soltanto quella freddamente dottrinale, per esempio, di Ibn cArabi (m. 1240), o l’altra ambigua di un repertorio di vocaboli, locuzioni e immagini bivalenti, usati per rivestire di un velo, a volte anche splendido, un senso riposto, in un gioco sottile di simboli, concetti e allusioni per iniziati. L’esempio più significativo e, va aggiunto, anche più illustre è quello di Ibn al-Farid (m. 1235), del quale alcuni carmi come la Khamriyya o «Poema del vino» e il cosiddetto «Poema maggiore in rima t» (at-Tà’iyya al-kubra) hanno avuto gran fama, pari al fascino che esercitarono con l’indubbia musicalità del verso, oltre la suggestione dell’arcano. Con il cairino Ibn al-Farid la rassegna della poesia di età abbàside ha superato, senza volerlo, i limiti geografici dell’Oriente islamico siro-iracheno, per passare nella Valle del Nilo (la penisola arabica, come si sarà notato, non ha offerto motivo per essere ricordata). Ed è subito da avvertire che, tranne questa figura di assoluto rilievo, la poesia, che pure fu abbondantemente coltivata in Egitto in questi secoli, appare condizionata in genere dall’intento pratico di celebrare i potenti del momento, di servirne i programmi politici, di adularne
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l’ambizione, alternando alle lodi del panegirico le invettive della satira contro i loro oppositori e rivali. Tale tendenza, manifestatasi già fin dal quarantennio tulunide (868-905) con i carmi di Sacid al-Qass per Ahmad ibn Tulun, e continuata sotto i Fatimidi (969-1171) – ma purtroppo la produzione di questo periodo subì la censura iconoclasta dei successori Ayyubidi – culminò al tempo di quest’ultima dinastia (1172-1250), con una pleiade di verseggiatori tra i quali Ibn Sa- na’ al-Mulk (m. 1211) va specialmente ricordato per avere per primo introdotto in Oriente la poesia strofica nata in Spagna. È qui infatti, o meglio nell’Àndalus, come era chiamata la penisola iberica, assai più che nel resto del Maghrib, che l’arabismo conobbe una fioritura poetica di notevole ricchezza e valore, aspetto di un più vasto fervore di cultura, favorito prima dal mecenatismo degli emiri, quindi califfi, di Cordova, e dopo il Mille da quello non meno illuminato dei numerosi principati locali: di Siviglia e Toledo, Almeria e Murcia, Badajoz e Saragozza. Momenti e circostanze favorevoli alle lettere non erano mancati in verità neppure sulla sponda africana del Maghrib: già nell’Ifriqiya degli Aghlabiti (dall’800), quindi con i Fatimidi, loro successori (dal 909), i cui principi si dilettarono essi stessi di far versi, come si compiacquero di quelli dei loro numerosi panegiristi, primo fra tutti l’emigrato andaluso Ibn Hani’ (m. 973), cantore ufficiale di al-Mucizz (il futuro fondatore del Cairo); infine sotto la dinastia degli Ziriti (dal 973), la cui corte in Mahdiyya ospitò gran numero di letterati e rimatori, tra i quali va menzionato almeno Ibn Rasciq (m. 1063), anche per il suo merito di aver composto un importante trattato di arte poetica, la ‘Umda («Il sostegno»). Rendere giustizia (anche se molto sommaria) al Maghrib africano è peraltro il miglior modo per evidenziare il primato letterario-poetico dell’Àndalus, la cui produzione, sebbene in gran parte trasmessa in maniera frammentaria, perché selezionata dagli antologisti, si può facilmente immaginare pur da tali reliquie quanto sia stata copiosa, nell’arco di oltre mezzo millennio. A questa valutazione puramente quantitativa si aggiunga la considerazione che essa merita, per la capacità di cui i poeti d’Occidente han dato prova, di accogliere e assimilare, imitare e perfezionare i modelli e le tendenze dei poeti d’Oriente, con una accentuata predilezione per il concettismo e il virtuosismo descrittivo; e d’altra parte, per il contributo rivoluzionario che alcuni hanno portato creando la poesia strofica. L’assoluta novità di questa, nella forma del componimento detto muwashshaha, cioè «(poema) fornito di fascia o cintura», sta tutta nella struttura, mentre i temi sono quelli tradizionali e la lingua è classica, tranne nella strofa finale o khargia («uscita»), che è in lingua parlata. Comprensibile l’enorme interesse destato da queste vestigia di una cultura mistilingue come fu quella andalusa, in cui erano presenti elementi arabi ed ebraici, altri risalenti all’antico fondo latino e altri ancora appartenenti al nascente idioma romanzo. È comprensibile altresì la problematica posta da ipotizzabili influenze tra poesia araba e poesia provenzale e trovadorica, tanto più plausibili in presenza anche di analogie tematiche, in aggiunta a quelle tecnico-formali, come è il caso del divano di Ibn Quzman (m. 1160), che costituisce il più cospicuo esempio di zagial, ossia di poesie strofiche interamente in lingua parlata.
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La maggior parte, comunque, se non sempre la migliore, della produzione poetica andalusa non poté sottrarsi all’influsso degli Abu Nuwas e dei Mutanabbi, né certamente lo volle, tanta era la solidarietà culturale che legava l’arabismo occidentale a quello orientale, a dispetto di ogni rottura e contrasto politico. Non sempre si può naturalmente parlare di poesia vera, poiché spesso si trattò soltanto di versi, e al rimatore, pur abile e raffinato, mancò l’ispirazione dell’autentico artista. Il giudizio può applicarsi, ad esempio, alle rime di Ibn cAbd Rabbihi, già citato per un’antologia di adab che resta il suo maggior merito, come pure alle lodi verseggiate di Ibn Darrag (m. 1003) per il famoso Almansor, e quelle di Ibn Sciuhaid (m. 1035) per i di lui discendenti, nonché agli stessi versi, cerebrali più che lirici, di cui Ibn Hazm ha interpunto il suo «Collare della colomba», sopra menzionato; e non diversamente può dirsi degli aulici cantori che più tardi continueranno la tradizione di questa poesia più ufficiale che intima, brillante ma di gelida luce, come Ibn Khafagia (m. 1138) e Ibn az-Zaqqaq (m. 1134). Lirismo sincero si troverà quindi soltanto là dove, ad accendere l’ispirazione, è un’emozione profonda e un’intensa passione, dove insomma il verso è un’eco diretta e fedele della vita, quando, ancora una volta, sapit pagina hominem. E la poesia è il linguaggio di un amore sconvolgente, come fu per il cordovano Ibn Zaidun (m. 1070), oppure il canto dell’ebbrezza gioiosa e poi dell’attristato rimpianto, quale quello struggente dell’ultimo principe di Siviglia, al-Muctamid (m. 1095); o ancora la modulazione nostalgica dell’esule, che è il motivo di non pochi poeti, eco della molteplice tragedia dell’Àndalus al declino. Ed è in particolare la più trepida nota del Canzoniere di Ibn Hamdis (m. 1133), il più grande poeta della Sicilia araba, siracusano di origine, ma fuggiasco nel Maghrib e in Spagna, del quale citiamo almeno questo verso, che par quasi cancellare, come con un solo tratto amaro di penna, tutto quello che è stato della passata esistenza, e suggellarne l’esilio: Tienti stretto alla patria, tuo dolce paese, e muori in casa tua, o sulla sua superstite traccia! (Versione di F. Gabrieli, in Ibn Hamdis, p. 28, nel volume Delle cose di Sicilia, Palermo 1980).
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da Baghdad p.81
Battello sull’Eufrate, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 6094, Maqamat di Al Hariri, f. 68r
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Conversazione letteraria, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 5847, Maqamat di Al Hariri, f. 5v
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Predica nella moschea, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 5847, Maqamat di Al Hariri, f. 58v
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Il giudizio del Cadi, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 5847, Maqamat di Al Hariri, f. 107r
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Scena di scuola, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 5847, Maqamat di Al Hariri, f. 148v
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Il re dei corvi attorniato dai suoi sudditi, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 3465, Ibn-al-Muqaffa, Kalila e Dimma, f. 95v
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Bidpai e il re, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 3465, Ibn-al-Muqaffa, Kalila e Dimma, f. 15v
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Un falconiere alle prese con il suo falco, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 3467, Ibn-al-Muqaffa, Kalila e Dimma, f. 61r
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La battaglia dei corvi e dei gufi, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 3465, Ibn-al-Muqaffa, Kalila e Dimma, f. 66v
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Il re e il saggio, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Sup. Pers 913, Kalila e Dimma, f. 71r
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Ukhaidir
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Ukhaidir Palazzo fortificato (viii secolo) Costruito probabilmente da Isa ibn Musa, riprende la pianta tipica dei complessi palaziali sasanidi. A differenza della maggior parte dei palazzi mesopotamici, costituiti in mattoni, questa è in scaglie di pietra legate da malta
Veduta del corpo principale dell’edificio minore
Recinto fortificato esterno del palazzo Pianta del palazzo
Particolare della sala delle udienze
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baghdad
Veduta dell’interno del palazzo
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samarra
Samarra Grande moschea (847) Eretta da al-Mutawakkil, è forse la piÚ grande moschea del mondo, pur se di essa rimangono i soli muri perimetrali e il famoso minareto a spirale. Il ricordo della sua magnificenza è tramandato da numerose testimonianze che ne illustrano la ricchezza dei mosaici, delle pitture, degli stucchi
Il minareto della moschea di Samarra in una foto recente e in un’immagine storica Pianta
Il torrione angolare nord-est e, alle sue spalle, il minareto a spirale
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samarra
Samarra Moschea di Abu Dulaf (859/860) Attributa al califfo al-Mutawakkil, la moschea fu costruita nel quartiere di Ja‘fariyya, a nord della grande moschea. Lo schema della moschea di Abu Dulaf è identico a quello della grande moschea, con un recinto fortificato in mattoni crudi di 213x135 metri e un cortile di 115x130 metri
Navata della moschea con le eleganti finestrelle cieche che alleggeriscono la massa muraria dell’edificio Pianta A fronte: Il minareto restaurato della moschea
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samarra
Immagine aerea della moschea di Abu Dulaf
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Raqqa
La filosofia
Porta di Baghdad (inizio x secolo) Fondata nel 772, la città di Raqqa dal caratteristico perimetro a ferro di cavallo era difesa da una doppia cinta di mura in mattoni crudi. Oggi sono ancora visibili i resti della porta di Baghdad, con lo splendido arco acuto a quattro centri, che ebbe un’enorme diffusione in seguito, soprattutto in Iran
Particolari della porta di Baghdad Rilievo della decorazione della parte superiore della facciata e della volta
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Carmela Baffioni
Due sono i problemi di base connessi alla “filosofia” degli arabi: uno, riguardo all’effettiva esistenza di una filosofia, cioè di una filosofia originale propria, che non sia una mera rielaborazione di dottrine mutuate dalla Grecia o dall’Oriente; l’altro, riguardo alla sua denominazione, come «filosofia araba» o come «filosofia islamica». Effettivamente gli arabi possono apparire almeno a prima vista lontani dall’inclinazione ad elaborare filosofie quae tales, autonome cioè tanto dalla fede religiosa, quanto da quel complesso intrico di sfere di competenze che il “sociale” dell’Islam riveste per i propri fedeli. Entra ovviamente in gioco qui il significato da dare al termine e al concetto di «filosofia», e bisogna anche chiedersi se e fino a che punto sia lecito applicare a una Weltanschaaung tanto diversa da quella occidentale i nostri parametri di giudizio, o se non si abbia piuttosto il dovere di individuare, per l’Islam, una propria connotazione del termine e del concetto di «filosofia». In quell’ottica, apparirebbe anche evidente come l’alternativa fra filosofia araba e filosofia islamica non abbia più tanto motivo di sussistere. Di solito, quando gli storici parlano di «filosofia araba» o di «filosofia islamica», pongono l’accento, in modo più o meno programmaticamente esplicito, sulla lingua in cui i vari sistemi sono redatti, oppure sulla religione professata dai loro autori (o almeno dalla comunità di provenienza dei loro autori). Di per sé, quest’osservazione non può avere la sola funzione di dimostrare che gli ambiti della filosofia araba e della filosofia islamica non coincidono. Ciò è per certi versi sin troppo evidente: molti autori che hanno scritto in arabo non erano arabi né professavano la religione che caratterizza la comunità araba, e nello stesso tempo l’«islamico» va ben oltre l’arabo comprendendo anche tutto quanto proviene (anche sul piano culturale e più specificamente filosofico) dal Medio Oriente e persino dall’India. D’altro canto, buona parte del patrimonio culturale e scientifico greco che ci è pervenuto in arabo e da parte di autori arabi e/o musulmani non può esser considerato «filosofia araba» (o «islamica»), nonostante che il patrimonio culturale mutuato dall’esterno sia stato almeno in parte trasformato quando venne volto in arabo (e ciò è tanto più rilevante nei casi in cui 111
si dispone esclusivamente di elaborazioni e trasmissioni arabe, e manca la possibilità di riscontri con gli originali). Tuttavia, e per motivi storici, e per motivi teorici, si deve ammettere che in buona misura «filosofia araba» e «filosofia islamica» coincidono, in quanto l’uso della lingua araba è tutt’altro che un carattere accidentale o formale: la redazione araba è un “crisma” che accomuna le dottrine filosofiche di autori musulmani anche non arabi, in quanto nel privilegiato uso dell’arabo bisogna vedere il riconoscimento del principio che l’arabo è, ben più che mezzo di espressione semantica, la lingua sacra dell’Islam. Più che la diversità formale dunque, è questo atteggiamento mentale che distingue i sistemi “filosofici” redatti in arabo da quelli redatti in altre lingue; e persino quando lo scrivente non è musulmano, le sue opere in arabo hanno un carattere tale per cui possono anch’esse venir ricomprese, almeno entro certi limiti, in una storia della filosofia «araba». La filosofia araba, dunque, è anche islamica in quanto l’arabo è la lingua in cui Dio ha trasmesso la sua ultima e più completa rivelazione. In tal modo, recepire la lingua (non foss’altro che al momento della lettura e della recitazione del Libro sacro) fu per i popoli islamizzati un tutt’uno con l’adesione alla nuova fede. Ma forse, dietro la differenziazione fra filosofia araba e filosofia islamica si è voluta denotare l’appartenenza del filosofo alla Sunna ortodossa o alle correnti shicite più o meno eterodosse. Essa infatti determinò atteggiamenti diversi di fronte ai problemi considerati “filosofici”, in quanto strettamente connessi con le vicende storiche e/o politiche dell’Islam. Tutta questa complessa problematica risulta strettamente connessa in particolare con lo svolgimento dell’età abbaside, e non solo perché la “nascita” della filosofia arabo-islamica (com’è probabilmente più giusto chiamarla) si ebbe sotto uno dei primi califfi abbasidi, ma anche perché l’andamento delle vicende storico-politiche, l’alterno prevalere della Sunna o della Shica, e prima di tutto il modo stesso in cui l’epoca abbaside ebbe a presentarsi rispetto alla precedente età omàyyade, si possono considerare come il filtro più adatto per valutare e spiegare le molte correnti, atteggiamenti, caratteristiche e sviluppi di quella filosofia. Negli ottant’anni del califfato omàyyade il processo di arabizzazione era stato spinto al massimo. Ma nei cinque secoli del califfato abbaside e soprattutto fino al sec. x (quando il processo di sfaldamento della coesione dell’impero è ormai da tempo avviato, con le conseguenze che vedremo anche sul piano filosofico), l’arabizzazione, che ormai è un fatto compiuto, continua a condizionare pressoché totalmente lo sviluppo culturale degli arabi e delle popolazioni loro sottomesse. Si dice comunemente che l’età abbaside realizzò l’egemonia araba non più sul piano politico, ma su quello culturale. La nuova monarchia assoluta, perduto il suo carattere nazionalistico, seppe operare una sintesi relativamente facile con gli elementi di altra provenienza, nel nome della fede e della lingua ormai comuni a un vasto raggio di popolazioni e di luoghi. La diaspora araba aveva raggiunto la massima espansione già nel sec. viii, e sotto il dominio almeno nominale degli Abbasidi erano a Oriente i territori iranici, turchi, curdi
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e aramei, a Occidente quelli berberi e spagnoli. Anche dopo il precoce declino della dinastia, alla metà del sec. ix, rientrano pur sempre nella storia del califfato, oltre all’Iraq, che resta il centro dell’impero, la Penisola arabica, la Mesopotamia, la Siria, l’Egitto e l’Occidente islamico; mentre ben presto le province a oriente dell’Iraq, la Persia, la Sogdiana e la Transoxiana resteranno legate all’impero abbaside solo per la cultura e la religione. Infatti la dimensione universalistica dell’Islam trasforma a tal punto le idee assorbite dall’esterno che la connotazione «islamica» finisce per prevalere su ogni altra; comunque, soprattutto nelle terre più decentrate, la lingua e la cultura locali ebbero, come vedremo, un certo peso sui nuovi orientamenti culturali e, specifica- mente, filosofici. Qui non ci interessa stabilire se il massimo sviluppo della diaspora araba sia correlato con la massima assimilazione culturale nel nome di una «fede» e, finché fu possibile, di una «lingua», secondo un rapporto di causa ed effetto. Parrebbe però che la filosofia abbaside nella sua prima fase sia piuttosto «araba» perché, nonostante il fenomeno della Shucubiya, l’elemento linguistico e nazionale è preponderante sul patrimonio straniero che veniva assimilato; una filosofia «islamica» si avrà invece più tardi, dai secc. x-xi, con l’appoggio alla Shica da parte dei Fatimidi: non si deve dimenticare che nei primi secoli le polemiche che furono all’origine della filosofia «araba» (quella cioè che prescindeva, almeno quanto a selezione delle problematiche, dall’eredità straniera) si svolgono tutte facendo i conti con un’autorità sunnita; inoltre in questo momento la Shica è «politica» più che «filosofica» (e solo relativamente più tardi essa sarà esplicitamente collegabile alle influenze della «gnosi» e dei dualismi iranici). Rispetto ai tre periodi in cui appare divisibile la storia abbaside (secc. viii – metà del ix; secc. ix/x; secoli successivi) si può insomma dare anche della filosofia una triplice scansione cronologica. Nel primo periodo assisteremmo all’avvio del processo di traduzione di opere filosofiche greche direttamente dal greco o, più spesso, dal siriaco: processo di poco successivo alle prime esperienze alchemiche arabe, culminanti con la figura di Giabir ibn Hayyan; nel secondo periodo avremmo lo sviluppo delle scienze e le prime elaborazioni filosofiche, quelle di al-Kindi e di Muhammad ibn Zakariya’ al-Razi, elaborazioni che potremmo provvisoriamente definire «ellenizzanti» e che, comunque, sono assai legate allo sviluppo delle altre scienze. E non è un caso che con al-Farabi, che muore nel 950 e sconfina con quello che abbiamo circoscritto come il terzo periodo del califfato abbaside, la connotazione “ellenizzante” e quella “scientifica” della sua filosofia si vadano trasformando alla luce, tanto delle particolari esperienze spirituali dell’autore, quanto del punto di vista “islamico” che ormai cerca di “islamizzare” la stessa cultura filosofica greca: non è un caso che al-Farabi, pur non arabo, sia tra i primi e maggiori formulatori della teoria dell’arabo quale lingua universale e primitiva, e che con lui si avvii in ambiente islamico il tentativo di «conciliare le due sapienze», di Platone e di Aristotele, sulla linea di quanto aveva già operato il neoplatonismo. Nel terzo periodo infine – con Ibn Sina e al-Ghazali da una parte, e la Scuola Andalusa dall’altra – la filosofia arabo-islamica continuerebbe a fare i conti con le tematiche straniere, ma contrapponendo ad esse, in modo
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più o meno diretto, una nuova filosofia “orientale”, ormai pervenuta alla sua formulazione più matura. Volendo entrare nei dettagli di questa triplice periodizzazione, converrà richiamare innanzitutto l’attenzione sul processo di assimilazione della filosofia greca da parte del mondo arabo. Tale processo fu il naturale seguito del lavoro delle scuole di Edessa e Gondishapur (celebre quest’ultima soprattutto come centro di medicina). Va ai siriaci – fra i quali ricordiamo Sergio di Rash cAyn, m. 536 – e poi agli arabi il merito di aver ricostruito un patrimonio filosofico e scientifico che dopo la chiusura della Scuola di Atene e la caduta di Alessandria si era frammentato e disperso, e che senza di loro sarebbe stato irrimediabilmente perduto. Nell’832 il califfo al-Ma’mun (819-833) fonda la bayt al-hikma, affidandone la direzione a Yahya ibn Masuya (m. 857), che ebbe quale successore il famoso Hunayn ibn Ishaq (805-873), della tribù arabo-cristiana degli cIbād. Egli, oltre che medico, fu il più celebre traduttore di opere greche in siriaco e in arabo; accanto a lui menzioniamo il figlio Ishaq (m. 910) e il nipote Hubaysh ibn al-Hasan. La scuola degli Hunayn si sostituisce a quella dei Bitriq, guidati da Yahya (in. sec. ix). Famosi traduttori furono anche Qustà ibn Luqà (ca. 820-ca. 912) di Baclbek, medico e matematico, Thàbit ibn Qurra (826-904), matematico sabeo, Abu Bishr Matta ibn Yunus (m. 940) e Yahya ibn c Adi (m. 934), celebri logici. La conoscenza che il mondo arabo aveva della filosofia antica coincide in larga parte con quanto ci è stato restituito dalla più tarda filologia umanistica di derivazione bizantina, ma è ricca anche di storie e dati che, in mancanza di ulteriori riscontri, spesso definiamo leggendari (ad es., le biografie arabe sono dense di nomi e fatti suggestivi, ma spesso difficilmente identificabili). Tuttavia, non è detto che non si possa almeno in parte considerare la “storia della filosofia antica’’ offertaci dall’Islam come il complemento di quella desumibile dalla dossografia classica. Quanto ai contenuti più specificamente dottrinali essi, che spessissimo appaiono mediati dalla diffusa conoscenza dei commentatori neoplatonici e d’età neoplatonica (primi fra tutti Alessandro di Afrodisia, Temistio e, più tardi, Giovanni «il Grammatico») comprendono l’intera opera logica di Aristotele (fatta precedere dall’Isagoge di Porfirio e alla quale seguono Poetica e Retorica), la Fisica, la Generazione e corruzione, gran parte della Metafisica, un compendio delle opere biologiche, la Meteorologia e in genere l’intero corpus aristotelico, comprese alcune opere spurie (e ad eccezione, forse, della Politica). Sono noti anche il Timeo di Platone, i Placita pseudo-plutarchei, parte delle Enneadi plotiniane tramandate sotto il titolo di Theologia Aristotelis, il De causis di Proclo, nonché una serie di opere tramandate sotto il nome di Empedocle, Pitagora, Platone, Tolomeo. Anche la matematica e l’astronomia greche sono ampiamente diffuse, senza parlare di Ippocrate e Galeno. La semplice traduzione di un testo non è mai, per sua stessa natura, del tutto fedele all’originale, e ancor meno poté esserlo quando il pensiero dei greci, così maturo e complesso, dovette essere volto prima in una lingua povera come il siriaco, e poi in arabo, ove comunque mancavano i necessari termini tecnici (istilahat); senza parlare della duplice mediazione, cristiana e musulmana, che comportò allusioni e riferimenti al nuovo Dio e
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alla nuova visione del mondo (tutto questo, comunque, non deve far credere che l’opera dei traduttori non fosse assai scrupolosa e, nel complesso, altamente attendibile). Comunque, solo perché non ne aveva di proprie ma ne avvertiva la necessità, l’homo islamicus passò ad appropriarsi delle culture e delle filosofie straniere. Esse erano però così diverse dal suo orizzonte mentale, che non si poté integrarle, almeno per un certo tempo, con lo stile di vita islamico; nella loro “esattezza” storica, esse vennero piuttosto mantenute come “cultura”, e in tale direzione un loro sviluppo appariva più accettabile all’uomo di scienza. Ed ecco dunque che la filosofia greca fu in primis considerata, nel mondo arabo, come “scienza”. Così, la filosofia arabo-islamica sembra trarre dalla greca vantaggi di natura prevalentemente “tecnica”: sia perché fu costretta all’elaborazione di un linguaggio filosofico, sia perché ne dedusse il germe degli sviluppi nelle singole scienze. Essa ne fu però indotta anche a una riflessione sulle scienze, e poi sulla conoscenza stessa, e quando tale riflessione si tradusse nella codificazione di un metodo del ragionare corretto (d’una logica, ch’era il digesto della logica aristotelica e poi stoica, e che sarà anche arricchita dagli arabi di nuovi importanti elementi) e, in altri casi, nella determinazione di un oggetto proprio per tale riflessione – una metateoria delle singole scienze o anche il fare della teosofia la scienza suprema dell’intelletto umano –, a seconda delle risposte i vari filosofi islamici furono più o meno vicini alla matrice greca, pur restando anche più o meno condizionati dalle esigenze (mai dimenticate, almeno nel profondo) della loro religione. E ove prevalse l’interesse per i contenuti “tecnici”, la filosofia islamica fu per lo più grecizzante: valga l’esempio di al-Kindi, che ai limiti propri d’una speculazione agli albori congiunse un tale complesso d’interessi che non esiteremmo a parlare di vera e propria polymathìa. Al-Kindi (801-873) è considerato il filosofo «arabo» per eccellenza, provenendo dalla tribù da cui prende il nome. Suo padre era governatore a Kufa, ove egli trascorse la prima giovinezza prima di andare a studiare filosofia a Baghdad. Qui godette di alta stima a corte, prima di finir dimenticato sotto la reazione antimuctazilita di al-Mutawakkil. La maturità di al-Kindi si colloca quando il processo di assorbimento della cultura greca, avviato da al-Ma’mun, è ormai avanzato. Egli si occupò quasi di ogni ramo dello scibile, ma non si può dire che, come filosofo, sia stato specialmente vicino a posizioni aristoteliche. Questo può forse esser uno dei motivi (se la mancanza di opere logiche non si spiega con ragioni contingenti) per cui al-Kindi non si interessò di logica. Per il resto, le Epistole filosofiche che ce ne sono pervenute, accanto a numerosi scritti di carattere scientifico (medico, matematico, astrologico), riflettono una particolare predilezione per la scienza della natura. In tali Epistole Aristotele è solo uno dei referenti possibili, mentre più marcato sembra (accanto all’attenzione prestata, ad es., alle teorie “presocratiche” riguardanti la meteorologia in senso lato, e a prescindere comunque dal problema di dove al-Kindi conobbe tali dottrine) l’interesse per i pitagorici e per Platone, come dimostrano in particolare l’Epistola sul perché gli antichi riportarono i cinque solidi geometrici agli elementi e le stesse opere musicali, grazie alle quali il loro autore si può considerare
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una pietra miliare anche nella storia della musica araba. Ricordiamo infine la concezione kindiana dei quattro intelletti, considerata come il punto d’avvio delle successive elaborazioni arabo-islamiche della teoria dell’intelletto agente (in una direzione che va ben al di là delle originarie intenzioni di Aristotele): nell’uomo c’è un intelletto in potenza, cioè potenzialmente adatto ad apprendere, un intelletto che passa in atto (cioè che apprende), un intelletto che si è ormai identificato con l’oggetto appreso, e un intelletto sempre in atto, che aiuta l’intelletto in potenza a passare all’atto. Nonostante i suoi interessi per la religione islamica, si può dire che, forse per il momento particolare in cui vive ed opera, al-Kindi non “traligni” molto rispetto al pensiero greco, e che solo il suo lessico tecnico ancora elementare, duro e inadatto a rendere le molteplici sfumature degli originali può spiegare, in molti casi, quelle che potrebbero apparire come vere e proprie incomprensioni. D’altro canto, proprio la ricchezza degli interessi consentì ad al-Kindi di compenetrare la filosofia coi risultati della ricerca in altri campi. Si avviò così quel processo per cui in filosofia arabo-islamica il filosofo è sempre hakim, «sapiente» cioè, e nello stesso tempo «dotto», in una quantità di altre scienze, nelle quali egli spesso sortisce fama pari, se non superiore, a quella ottenuta come filosofo. Secondo un famoso indirizzo storiografico, alcuni filosofi arabi sono stati definiti «ellenizzanti» con l’intento di “screditarli” rispetto a quelli che, invece, avrebbero saputo enunciare il senso vero, più autentico, della filosofia «islamica». Ma c’è sempre molto “ellenismo” in quella filosofia che si pretende “più autentica” e, inversamente, andrebbe chiarito in che senso si possono considerare “ellenizzanti” i filosofi che più marcatamente appaiono legati al pensiero antico: torna, in definitiva, il problema se gli arabi ebbero o no una filosofia e, prima ancora, di cos’è per loro filosofia. Ho detto che, soprattutto nei primi secoli dell’Islam, la filosofia si configura come scienza. Si può aggiungere ora che essa è considerata tanto una delle scienze possibili, quanto la scienza delle scienze. Ecco come, sin dagli inizi, le dottrine teologiche e le vicende politiche influenzarono lo sviluppo della filosofia. A prescindere dal movente politico della formazione della Muctazila, ricordiamo come ad essa non dispiacque un approccio alla realtà di tipo “razionalistico”. Grazie a un uso della ragione governato dall’organon della logica, i muctaziliti ritennero di poter pervenire, in antitesi all’ortodossia ashcarita, alla fede in un Creatore buono e provvidenziale che aveva imposto alla creazione leggi costanti, e alla più perfetta delle sue creature un organo – e un metodo – adatto a scoprirle: essi ammettevano cioè l’esistenza di un ambito, quello fenomenico, in cui massima poteva essere la libertà di espressione e di impiego dell’umano λόγος. Con ciò, naturalmente, non si svincolava quel λόγος dal λόγος divino: ed ecco perché con la Shica, che accoglie le istanze muctazilite, abbiamo, prima delle vere e proprie esperienze mistiche, una speculazione «scientifica» (di filosofia della natura), e poi la trasformazione di quella scienza in una «teosofia». Ci si potrebbe forse chiedere se la rivalutazione del hakim in ambiente shicita (ove hakim è tanto il portatore della sapienza gnostica, quanto, e prima di tutto, il portatore
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d’una sapienza universale, cioè «enciclopedica») sia, più che una conseguenza del punto di vista della sua filosofia, un espediente politico escogitato per sfuggire alle persecuzioni religiose di chi aveva ritenuto troppo pericoloso il diffondersi, dietro il lasciapassare della scienza, di una considerazione così estimativa dell’autonomia del pensiero umano, che avrebbe potuto stravolgere i presupposti su cui si fondava la successione califfale. Dopo il declino del kharigismo, già sotto Abu Giacfar al-Mansur (754-75) la Shaca alidica non si dava per vinta, e il califfo dovette soffocare nel sangue bizzarri moti ereticali ispirati a dottrine di origine iranica; anche col successore al-Mahdi (775-85) la repressione dei movimenti eterodossi andò di pari passo con quella delle idee, di origine dualistica e manichea, provenienti per lo più dall’Iran. In questo ambiente si colloca la prima origine dell’alchimia, collegata, secondo la tradizione, al sesto imam, Giacfar al-Sadiq, che muore nel 765. Come è noto, l’alchimia era stata la prima delle scienze greche che attrasse l’interesse degli arabi e li indusse a tentativi di traduzione. «Scienza», qui, è da usare nel suo senso più letterale: l’origine dell’alchimia alla Scuola di Alessandria era stata infatti legata ai progressi nelle tecniche di trasformazione delle sostanze, scoperte e attivate dagli artigiani del tempo. Del resto, una riprova di ciò è che l’alchimia si trasmise al mondo arabo contemporaneamente alla medicina. Non bisogna in questo vedere una contrapposizione fra il mezzo che dovrebbe assicurare la salute del corpo e quello che dovrebbe assicurare – tale infatti sembra essere il fine ultimo dell’alchimia – la salute dell’anima: era noto agli stessi arabi, attraverso Galeno, che quest’ultima si ottiene solo se c’è una corretta mistione degli elementi fondamentali. Piuttosto, forse, la contrapposizione (se di contrapposizione si può parlare) è fra la scienza che controlla la mistione del corpo umano e la scienza che controlla la mistione del corpo del mondo: per cui, semmai, è la medicina a diventare, per così dire, un “caso particolare” dell’alchimia. Contrapposizione di oggetti, comunque, ma non di metodi né di contenuti: sta infatti nell’alchimia il primo sviluppo della scienza nel mondo arabo – e nel mondo arabo di fede shicita. Giabir ibn Hayyan infatti, il più celebre alchimista arabo, si proclamò discepolo di Giacfar, che lo avrebbe messo a parte della sua discendenza da cAli, e si presenta assai spesso quale suo mero portavoce. Giabir nacque, probabilmente intorno al 721, a Tus, ove trascorse i primi anni di vita. Si recò quindi in Arabia e poi a Kufa, ove passò gran parte della vita, e infine a Baghdad, avendo, alla corte di Harun ar-Rashid, stretti rapporti coi potenti Barmecidi, vizir degli Abbasidi. Caduti in disgrazia costoro, anch’egli ne risentì, ma sembra sia sopravvissuto fino al regno di al-Ma’mun. Secondo una tradizione, morì nel 765; secondo un’altra, nell’822. Sorprendentemente, Giabir non ha lasciato traccia nella ricca letteratura biografica della Shica imamita. Più di mille opere (non tutte, ovviamente, di Giabir) costituiscono il corpus giabiriano, che si ritiene completato intorno al sec. x. Tra le più importanti figurano I centodieci libri e I settanta libri (contenenti riferimenti a Giacfar per una giustificazione religiosa dell’alchimia) e il Libro della Bilancia (in. sec. x). Il corpus contiene scritti vertenti su quasi ogni campo dello scibile, oltre all’alchimia: logica, filosofia, scienze occulte, cosmologia,
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fisica, meccanica, musica. Esso è influenzato dall’alchimia greca e da dottrine fisiche presocratiche, aristoteliche e probabilmente stoiche; per le dottrine dell’anima e dell’armonia musicale sono rintracciabili gli influssi del Timeo e delle teorie pitagoriche; ancora, sono riscontrabili suggestioni dell’ermetismo e persino di filosofie dell’Estremo Oriente. Conoscendo le virtù proprie di animali, piante e minerali e le loro reciproche simpatie e antipatie, l’artigiano riesce a padroneggiare la realtà che lo circonda, divenendo in qualche modo simile al Demiurgo. I tre regni sublunari sono ridotti a un sistema esatto di pesi e misure: la convinzione di base è infatti che, riducendo il tutto a proporzione, sia possibile trasformare le nature e ottenere nuovi prodotti. Con ciò l’alchimia araba porta alle estreme conseguenze alcune dottrine naturalistiche antiche, quali quelle di Anassagora e di Democrito, in particolare nel recupero del πάντα ὁμοῦ e, soprattutto, della dimensione «quantitativa» delle particelle individuali (già fatta propria dalla medicina galenica). Si stabilisce così un valore numerico, una ratio, per ogni elemento componente un corpo (tutti e quattro gli elementi entrano in ogni corpo, e allo stesso modo che per le omeomerie anassagoree, l’identità di ciascuno è garantita dal prevalere di un elemento sugli altri). I valori numerici si combinano in modo diverso correlativamente alla «bilancia delle lettere», cioè al valore (e alla posizione nella parola) delle lettere componenti il nome delle varie sostanze. La trasformazione delle sostanze l’una nell’altra (e infine la loro trasformazione in oro) è una «trasposizione» interna dei componenti, in modo da far loro raggiungere, mediante l’impiego di vari espedienti tecnici – innanzitutto l’uso degli elisir e il processo di distillazione – l’equilibrio perfetto, o quello più vicino al perfetto. Nella Shica l’alchimista è l’imam, e accanto all’alchimia fisica si sviluppa un’alchimia spirituale che, operando trasformazioni sull’anima, la purifica al punto di consentirle di tornare alla «matrice originaria», che è naturalmente l’Uno divino. Ecco dunque che l’alchimia viene presentata come un caso eccellente di ta’wil, di «interpretazione allegorica», in questo caso della realtà, che diviene uno dei rispecchiamenti del divino. Per la filosofia, comunque, vale maggiormente il fatto che questa attenzione dell’alchimia al concreto (oltre che al secretum), espressa in termini inequivocabili, perché matematici, determina il definitivo scioglimento della scienza dall’accusa di zandaqa, di «ateismo», che le era stata mossa da parte dell’ortodossia. Anche gli antichi φυσιόλογοι si erano meritati un’analoga accusa, nel momento del loro distacco dal “mito”; e il fatto che l’alchimia shicita ne recuperi le dottrine, può testimoniare ch’essa li considera «scienziati», prima ancora che «filosofi» (persone, cioè, che cercavano di spiegare la realtà che li circondava, e che non avviavano ancora una indagine su quei tentativi, o metodi, di spiegazione). Tuttavia, a differenza dai φυσιόλογοι greci, qui il “mito” non è abbandonato, ma trasceso. Ed è in questo momento che comincia il distacco della filosofia islamica da quella greca: se non nei contenuti, nello spirito che la informa. Per chiarire questo punto, è necessario tornare all’ortodossia sunnita. Essa – che culminerà con la sistematizzazione di al-Ashcari (sec. ix) –, si distinse dalla Shica anche nel modo formale di recepire il patrimonio filosofico classico. Parallelamente
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alla sua condanna di una «filosofia della natura», l’ashcarismo elabora un occasionalismo atomistico volto a garantire l’assoluta onnipotenza e volontarismo divini, che poco o nulla ha da spartire con le dottrine democritee; e questa era forse l’unica concessione alla filosofia greca: il tipo di problematica affrontato dal Kalam ortodosso era infatti essenzialmente religioso, riguardando gli attributi di Dio, la libertà del volere, la predestinazione, la prescienza divina, tutte questioni che, risolte in questa o quella direzione, potevano variamente caratterizzare, ancora una volta, l’andamento del califfato. E proprio al Kalam ortodosso si attaglia la tesi famosa secondo cui nel mondo arabo la logica cominciò ad esser studiata per controbattere le dottrine di ebrei e cristiani da una parte, e dall’altra per discutere quei complessi problemi e interpretare determinati passi coranici. In un primo tempo – quando nacquero le scienze della lettura (qira’a), dell’esegesi (tafsir) e del diritto (fiqh) – i criteri per dirimere le varie questioni erano stati meramente linguistici e testuali; in seguito alcuni studiosi avevano introdotto l’analogia (qiyas) e il giudizio indipendente (ra’y), ed era sorto appunto il Kalam. Si può dunque dire che, prevalentemente, la teologia speculativa ortodossa assunse dai greci il metodo, lo strumento del ragionare, applicandolo però a tematiche proprie. L’inverso sembra accadere con la Shica, che recupera le dottrine antiche – abbiamo visto l’alchimia, e la φυσιόλογοι –, elaborandole però alla luce della sua diversa disposizione mentale: la scienza nelle sue molteplici branche è considerata il mezzo attraverso cui il hakim è messo in grado di osservare il legame del transeunte con l’eterno, dell’evidente col nascosto, dell’effetto con la causa, del mutevole con l’eguale, del molteplice con l’uno: il mezzo attraverso cui, cioè, la bipolarità si annulla. Quello che non riusciva alla logica – di Aristotele e del Kalam ortodosso – in riferimento all’Essere (l’Essere supremo, dato che la Shica ammette gradi diversi di esistenziazione della stessa Sostanza), riesce alla scienza in riferimento alla creatura dell’Essere: cioè la scienza fa conoscere gli atti di Dio. E l’osservazione del fenomenico determina uno sviluppo delle singole scienze quale non aveva potuto venire dalla teologia letteralista (legata cioè alla lettera del λόγοϛ, alla bipolarità che la logica non sanava: e allora Dio era fatto radicalmente altro dal mondo). D’altra parte, l’approccio “logico” (quello della ragione astratta) a una realtà che si sentiva diversa, e che proprio per questo non avrebbe potuto venir assimilata ad altro, aveva portato gravi ostacoli, da parte della teologia ortodossa, alle scienze naturali. E vai la pena di rilevare che al momento in cui negavano la causalità propria del fenomenico i teologi arabi erano sorprendentemente vicini al φιλόσφοϛ che, quando maggiori concessioni faceva al suo ideale del τέλοϛ, perdeva i risultati dell’osservazione naturalistica: il ricorso a uno schema troppo astratto vanificava infatti il grande risultato metodologico raggiunto ammettendo che, per il regno della (φύσϛ, ἀναγκαῖον era anche l’ἐπί τό πολύ, e non soltanto l’ἀεί. Allora, è solo apparentemente paradossale che proprio in seno alla “mistica” Shica si siano avuti i maggiori sviluppi della scienza: il fenomenico non era più temuto, ma visto come «l’altra faccia del divino», le sue propaggini meno luminose, se si vuole, ma non
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per questo radicalmente diverse da esso. E in ciò sta forse, per la filosofia islamica, anche l’aspetto più fecondo dell’adozione dell’emanatismo plotiniano. Se, infatti, la Shica ebbe cari i contenuti della cultura classica, questo è vero non solo per la scienza o per la filosofia della natura, ma anche per altre dottrine antiche, prime fra tutte quelle di Platone e Aristotele. Esse furono per lungo tempo note agli arabi anche, e talora esclusivamente, attraverso i commentari neoplatonici i cui autori (probabilmente già per suggestione del Cristianesimo) avevano cominciato a presentarle sotto una luce che non poco avrebbe attratto gli arabi, pur se in polemica con le idee cristiane. L’emanatismo che in età neoplatonica si sostituì, in ontologia, all’originario eternalismo di Platone e Aristotele, pur essendo in contrasto coi dettami della fede coranica, poteva comunque apparire come un rimedio al rischio di apportare nell’Essere supremo – in quanto Creatore – l’idea di mutamento e perciò stesso di imperfezione. E come, più in generale, il neoplatonismo congloba la reinterpretazione di determinate dottrine platoniche, suggestioni dell’Aristotele giovanile, i suoi commentatori, dottrine stoiche e forse anche epicuree, nonché varie reminiscenze orientali, così la «conciliazione delle due sapienze» – già tentata nel neoplatonismo – diviene, per la Shica, il mezzo per collocare Platone e Aristotele nel quadro della teosofia ove, accanto a Zarathustra, figurano un Agatodemone, un Ermete Trismegisto, un Pitagora: ove, cioè, la sapienza – e la scienza – del Vicino Oriente non rinunciano a situarsi accanto a quella greca; e forse – verrebbe voglia di aggiungere – a fondarsi sulla sua autorità. Si vede dunque come l’usuale distinzione fra falsafa e hikma, secondo cui il primo termine indicherebbe la filosofia «peripatetica» (o almeno «ellenizzante»), e il secondo, volta a volta, in contrapposizione, la «sapienza», la «scienza coranica», la «gnosi» di antica matrice orientale, non è sempre valida: talora la hikma si può identificare con questa accezione di falsafa e, spesso, falsafa si può prendere nel suo significato etimologico, ben noto agli arabi: quello di «amore per la ϭοφία». E solo pensando ai molti sensi che ϭοφία ha in greco ci si potranno di conseguenza chiarire i sensi molteplici che hikma ha in arabo. Di “sapienza coranica”, innanzitutto. Ecco in che senso la Shica “scientifica” trascende il mito. Ai φυσιόλογοι non era riuscito di sfuggire alla “morte di Dio”, il che, però, è riuscito all’Oriente (forse per questo fatto a più riprese oggetto della Sehnsucht occidentale), ove il massimo sforzo speculativo cui pervenne la Shica fu la conciliazione fra Essere supremo e realtà fenomenica: in ultima analisi, fra religione e scienza, rendendo – attraverso il recupero dell’emanatismo – il trascendente (o almeno parte di esso) “trascendentale”, sia pure in modo inconsapevole. La conciliazione – quanto meno il desiderio di conciliazione – fra religione e scienza fu topica costante nel pensiero arabo-islamico. Il destino delle religioni monoteistiche è l’escatologia: se il filosofo può salvarsi, deve comunque dirlo la Scrittura. Ma nel pragmatismo arabo la svalutazione della ragione non fu sempre totale. E allora il problema fu: fino a che punto? E più in particolare: cosa accade quando la ragione vuol essere totalmente autonoma?
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La ragione – ben lo dirà Kant – può esser totalmente autonoma solo se applicata al fenomenico: ed ecco come nella Shica il rapporto filosofia-religione divenne rapporto – fortunatamente, non conflittuale – fra religione e scienza. Ma la filosofia come autonomia totale della ragione – caso forse unico nella storia del pensiero arabo-islamico –, la filosofia come sola hikma, come sola via alla verità, divenne per Muhammad ibn Zakariya’ al-Razi una scelta per la vita, e per l’al di là. Originario di Rayy Razi (865-925), il medico più famoso dell’antichità dopo Galeno, visse e operò nel momento iniziale di quel periodo in cui la reale autorità degli Abbasidi si restringeva all’Iraq, quando i Tulunidi si affermano in Egitto, i Saffaridi in Persia, i Samanidi in Transoxiana; alla sua morte gli Hamdanidi, arabi puri, ma shiciti, col riconoscimento del califfo fatimide prenderanno il potere in Siria e in Mesopotamia. Autore assai prolifico, Razi cominciò con l’interessarsi di musica, passando poi all’alchimia; in seguito a un indebolimento della vista che l’avrebbe portato alla cecità si dedicò con successo alla medicina. Di medicina tratta la sua opera in 10 volumi k. al-Mansuri, così intitolata dal nome del suo protettore persiano Mansur ibn Ishaq Samanide. Razi diresse l’ospedale di Rayy, quindi quello di Baghdad; fu costretto a vita nomade, a causa del mutevole favore delle corti presso le quali si recava e dell’incerta situazione politica del tempo. La sua opera più famosa è il k.al-Hawi (nota anche col titolo latino di Continens), che riassume tutto lo scibile medico pos seduto dai musulmani, non senza contributi originali del suo autore. In filosofia, Razi si ispirò non tanto ad Aristotele, quanto soprattutto a Platone e ai naturalisti greci, integrando le loro dottrine con la tradizione pitagorica ed ermetica, nonché con talune credenze manichee, sabee, bramaniche. Molto contrastavano con la fede musulmana la credenza di Razi nella metempsicosi e, soprattutto, il fatto che egli ponesse, oltre a Dio, altri quattro principi eterni: la materia, lo spazio, il tempo e l’anima. Il «Creatore» è per Razi un Demiurgo, che plasma una materia preesistente. Questa materia è concepita come atomistica, e va detto al proposito che Razi è uno dei pochi autori arabi che cerca di recuperare l’atomismo nella sua originaria formulazione naturalistica. In etica, Razi si opponeva a un ascetismo eccessivo, e in questa prospettiva va valutata la sua presentazione di Socrate, cui si assimilava perché, come il maestro di Platone, egli partecipava attivamente alla vita cittadina; parallelamente, Razi si propone di rivalutare la medietà e la misura sulla scia di Aristotele, ma anche di Epicuro. Il piacere (analogamente che in Galeno) è considerato come ritorno alla normalità dopo un periodo di dolore. Ma l’aspetto più rilevante del pensiero di Razi consiste nella sua negazione di ogni possibile compenetrazione fra fede e ragione, legge religiosa e filosofia. La ragione è proprietà comune indistintamente a tutti gli uomini, che però solo attraverso l’esercizio si sviluppa divenendo utile al conseguimento dell’autentica verità. Ma Razi, che riteneva le religioni foriere solo di distruzioni e di guerre, giunse a negare un elemento capitale della fede musulmana, e cioè il profetismo. Anche per questa ragione egli fu oggetto di dure confutazioni da parte degli shiciti, come Abu Hatim al-Razi (sec. x) e Nasir-i-Khosrow (sec. xi).
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Altro punto importante della filosofia raziana è la concezione del valore cumulativo della scienza che, col passare del tempo, sottopone ad analisi critica il patrimonio di sapere volta a volta raggiunto. Anche tale concezione, però, non fa che ribadire il valore assoluto che la scienza ebbe per Razi, per cui le sue conoscenze non giunsero mai a configurarsi come una «enciclopedia» del sapere, nel senso shicita. Qui l’«enciclopedia», com?è stato e sarà ancora nel Medioevo occidentale, e a differenza dell’antichità classica, non è il risultato di una «classificazione programmatica delle scienze», ma una summa di conoscenze che l’uomo perfetto, il sommamente puro (il sommamente purificato) deve possedere per attingere la gnosi suprema: solo così saprà vedere, al di là della lettera, la realtà dello spirito. Le singole scienze, in tali contesti, non valgono di per se stesse ma come specchi parziali della fondamentale unità dell’Essere. È il caso della ben nota Enciclopedia degli Ikhwan al-Safa’, concepita secondo una serie di Epistole su singoli argomenti, dedicate al «discente», a colui che si è posto sulla soglia del sapere e che, con l’aiuto dei Maestri Perfetti, potrà percorrere i vari gradi della conoscenza, dalla più semplice fino alla più alta. Ogni Epistola pertanto è dedicata a una singola scienza ed è propedeutica a quella che segue. Ma la conoscenza qui è anche, e soprattutto, «salvezza» dell’anima «dal sonno della materia e dal torpore dell’ignoranza», donde nelle Epistole i contenuti particolari sono sempre affiancati (quando non superati) dall’elemento esortativo e di edificazione. Tuttavia filosofia e rivelazione profetica sono qui ancora poste sullo stesso piano: esprimendo la realtà profonda dell’universo, le scienze sono in grado di spiegare razionalmente i contenuti della Rivelazione e delle Leggi religiose. Come la ricerca storica ha ormai accertato, gli Ikhwan al-Safa’ composero la loro opera a Basra nel sec. x, forse poco prima della conquista fatimide in Egitto (Dieterici, Massignon, Marquet); secondo Stern il terminas ad quem è il 981. Sembra indiscusso che nelle Epistole sia racchiusa la dottrina ismacilita dell’epoca (Corbin), quella di una tendenza non ufficiale (Stern, Bausani), o anche ufficiale (Marquet). Ma le Epistole, rivendicate anche dai duodecimani, sono state attribuite addirittura ad cAli e a Giacfar al-Sadiq. Tuttavia una paternità duodecimana appare improbabile, date le critiche che nell’opera sono rivolte alla dottrina dell’imam nascosto. L’opera – che secondo Marquet cominciò ad esser redatta prima del 909, anno di proclamazione del califfo cUbaydallah al-Mahdi in Ifriqiya – presenta comunque inequivocabili contenuti shiciti (come ad es. l’interpretazione allegorica del Corano e della Profezia, l’avversione per i governi terreni con conseguente attesa della loro abrogazione al termine dell’attuale ciclo settenario di manifestazioni, differenziazione netta fra «eletti» e «volgo»), anche se vi sono ravvisabili pure elementi sufi (come la raccomandazione del celibato) e la menzione di alcune feste legate a rituali sabei. Vi si individua parimenti una generale avversione al Kalam. L’ortodossia sunnita, con al-Mustangid, proclamò nel 1150 eretica l’opera, mandandone al rogo tutte le redazioni esistenti. L’Enciclopedia però è fortunatamente sopravvissuta ed ha avuto, in seguito, ampia diffusione.
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Le Epistole sono suddivise in quattro gruppi: il primo, di 14 epistole, sulle scienze propedeutiche (aritmetica e geometria, astronomia, geografia, musica e logica); il secondo, di 17, sulle scienze fisico-naturali (materia, forma, moto, tempo e spazio; cielo e cosmo; generazione e corruzione; meteorologia; minerali, vegetali e animali; corpo e sensazione; concepimento; uomo come microcosmo; anima e corpo; morte e vita; i piaceri; le lingue); il terzo, di 10, su quelle psico-intellettuali (cosmo come macrantropo; amore; resurrezione; moto, causa, effetto); il quarto, sulle scienze metafisiche (ascesa a Dio, fede, Rivelazione). A seconda delle edizioni, l’ultima parte conta dieci o undici Epistole. Ci sarebbe dunque, rispetto al numero 51, che dovrebbe essere quello delle Epistole componenti l’opera (e già in questa suddivisione si dimostra l’interesse degli autori per la numerologia, tanto di origine greca quanto di origine semitica), un’epistola aggiunta, che secondo Marquet è quella sull’«Ordine dell’universo in generale» (che avrebbe dovuto appartenere alla seconda sezione), e secondo Bausani quella su «Magia, talismani e malocchio», che manca in molte edizioni e nulla aggiunge a quanto è stato detto prima. Lo scopo supremo dell’Enciclopedia è poi enunciato nella Risala giamica (cui in talune redazioni se ne affianca una «Superomnicomprensiva»), che riassume tutte le altre e sarebbe stata scritta dal secondo imam segreto, Ahmad. Grandissima è sulle Epistole l’influenza della filosofia e della scienza greche, così del pitagorismo come del platonismo (e più spesso, ancora una volta, di un Platone rivisitato neoplatonicamente) e dell’aristotelismo. L’eredità greca sarebbe stata trasmessa agli Ikhwan dai Sabei di Harran; l’opera contiene anche influenze ermetiche, elementi di astrologia babilonese, iranica e indiana, di narrativa indiana e persiana, di citazioni bibliche e cabalistiche, di riferimenti neotestamentari, di gnosi cristiana. È opportuno rilevare che in un caso come quello degli Ikhwan al-Safa’ il sapere, sia pure ismaelita, è espresso sempre in arabo (e in un arabo che, per le sue caratteristiche, fa anzi supporre autori non arabi). La lingua dunque continua ad essere l’aspetto «materiale» della Rivelazione, e come tale il miglior tramite per qualsiasi messaggio di salvezza. Se, come s’è detto, «filosofia» è «amore per la sapienza», qui essa diviene «amore per la sapienza araba e islamica», e l’arabo è simbolo dell’unità, oltre che della supremazia, dell’Islam, al di là delle differenze confessionali. Tanto più valore la «rivelazione araba» ha (a prescindere dalla suggestione dell’argomento dell’icgiaz) se si pensa al livello dell’arabo fra il vi e il vii secolo. Ben presto il Corano divenne il modello della grammatica araba, e il centro attorno a cui si formarono, a Kufa e a Basra, le due scuole degli «anomalisti» e degli «analogisti»: legate maggiormente, la prima alla Shica, e la seconda al Kalam più «ortodosso». Giabir aveva preso a pretesto la «bilancia delle lettere» per creare una “filosofia del linguaggio” che andasse di pari passo con la spiegazione della realtà, e vi aveva inserito una propria interpretazione delle «lettere nuraniya» del Corano, tema caro alla Shica settimana come a quella duodecimana, che fu affrontato in seguito anche dagli Ikhwan e che resterà una topica costante della speculazione «islamica». Ecco dunque come, ancora una volta, la hikma shicita, pur trascendendo la lettera del testo sacro, continua a presentarsi innanzitutto come «sapienza coranica». E la teologia
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speculativa ortodossa? Se kalam significa anche, genericamente e come il gr. λόγος, «parola», «discorso», è anche vero che i mutakallimun – i loquentes – sono spesso identificabili con l’indirizzo di pensiero più lontano, almeno in apparenza, dagli ideali della hikma. Ma se li si vede come i difensori della «religione del Libro» – in cui il Libro è davvero la «parola di Dio in-librata» – ecco che allora anche il Kalam ortodosso può rivestirsi del senso più allegorico di λόγος, del λόγος che è ragione – cioè spirito, proporzione, ordine; e naturalmente, speculazione razionale. Pertanto, neppure nel recepire, col tentativo di «conciliazione delle due sapienze», un processo di assimilazione già avviato in filosofia greca, la filosofia islamica perde la propria originalità: la teosofia islamica, infatti, si radica troppo profondamente nella «sapienza coranica», intesa quale rapporto privilegiato di Dio con l’«illuminato» – con gli «illuminati», dovremmo dire, se e quando alla Shica religiosa si sostituisce quella filosofica –, per far sì che l’eredità straniera (e speculativa, e religiosa) le tolga qualcosa. Naturalmente, il λόγος greco (classico, ellenistico e poi cristiano) significava, fra l’altro, qualcosa di molto prossimo alla hikma islamica. Ma appare sorprendente che nell’Islam, quando alla giamicat al-hikmatayn si affianca quella che potremmo chiamare la giamicat al-tariqatayn, della filosofia e della religione, realizzandosi così il momento di maggiore frattura rispetto all’età antica, si realizza anche, contemporaneamente, una sintesi coerentissima dei molteplici significati dell’antico λόγος: la Shica infatti, come se visto, non separa dall’accezione «misterica» del kalam-λόγος l’altra sua accezione fondamentale, quella di «speculazione razionale», di attività propria della mente umana, tramite la quale si può tuttavia scoprire la terza accezione di λόγος, la «proporzione» (divina, in quanto tale) delle cose. In questo momento, è evidente che il sapere “tecnico” è travalicato: le elaborazioni della filosofia e della scienza antiche sono ben più che mere trasposizioni in altra espressione linguistica, e pur permanendo vasti contenuti comuni, il pensiero greco è inquadrato in una dimensione tale che spesso impedisce di riconoscervi la sua espressione originaria. E proprio la dimensione «islamica» (qui intesa per lo più come specificazione, o denotazione, del «religioso»), lungi dall’indurci a negare l’esistenza di una filosofia arabo-islamica autonoma, ne costituisce la base dell’originalità. Ma sarebbe riduttivo presentare la filosofia arabo-islamica solo come l’itinerario spirituale mirante a cogliere la hikma quale suo oggetto proprio. Infatti, se è possibile intendere il «religioso» come «teosofico», la nuova ricerca sarà pur sempre quella di una «conoscenza»; e allora, il modo in cui essa si ottiene diverrà, secondo i – nostri – criteri filosofici, unicamente una questione di metodo. Un nuovo metodo, oltre che una nuova cornice, viene indicato soprattutto da quei filosofi maggiormente legati alla Shica, e suggestionati dal pensiero «iranico» e orientale in genere. In origine, μέυοδος significava «via»; la via indicata da Aristotele era poi stata quella della ragione dimostrativa. Ma «per altra via rispetto a quella dei greci», secondo Avicenna, si dovrà assumere la sapienza. Quando la «sapienza» si sostituisce alla «scien-
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za» – e in arabo a cilm si sostituisce hikma, o addirittura, perché no, macrifa, la conoscenza «gnostica» – è probabilmente anche legittimo prendere il «metodo» nel senso mistico-allegorico di tariqa. E in questo quadro ci piace collocare la proposta corbiniana di presentare un patrimonio spirituale islamico (non necessariamente arabo, anzi, precipuamente iranico) che per le sue caratteristiche egli considera – ma stavolta in base a parametri del tutto diversi dai nostri – «filosofico», secondo una scansione non più cronologica, ma “ideologica”: i vari momenti di una filosofia, per lui, assolutamente «non araba» sarebbero così suddivisibili in tre periodi: il primo, fino all’espansione dell’ishraq, con Sohravardi (ma già qui saremmo ai limiti dell’età abbaside); il secondo, comprendente i tre secoli che in Iran precedettero la rinascita safavide; il terzo, ove si collocherebbe la filosofia sfinita dalla rinascita safavide in poi. È stato detto che per la filosofia orientale «il male fondamentale è l’ignoranza»; ma a ben pensare, anche polemiche come quelle del Fedone o del Timeo, o del globale finalismo aristotelico, altro non sono che denuncia della mancanza d’una corretta ἐπιστήμη del λόγος, comunque poi si scelga di connotarla. Se la μέυοδος è una tariqa, l’indicazione non può essere quella di Aristotele. Sarà quella dell’«intuizione», piuttosto; ma, ancora una volta, neppure nel senso platonico di νόηις. E se l’Islam attuale, filosoficamente più colto (o più avveduto?), cerca di spingere lo studio della «sapienza coranica» non più nella direzione dell’approccio storico, ma in quella d’una «filosofia della religione», sembrerebbe che l’esito desiderato sia il trionfo di una intuizione capace di cogliere, dell’Islam, l’eccezionale carattere di sacralità. Ma è vero anche l’inverso, e cioè che, se il metodo attesta l’esistenza di un itinerario spirituale in cui l’uomo viene coinvolto nella propria dimensione ontologica totale, l’esperienza teosofica si può legittimamente definire, oltre che religiosa, «filosofica». E se la metastoria diviene con l’Islam una ierostoria in cui il Profeta, pur essendo il «primo allocutore» di Dio, non è, almeno per certa shica, un privilegiato più che per questo, è ovvio supporre che ogni metateoria, e in primis la filosofia, sia il riconoscimento (come esposizione e narrazione) di quella ierostoria. Tale indirizzo storiografico, tuttavia, è individuabile sin dagli inizi della filosofia arabo-islamica, e precisamente in al-Farabi (870-950) il quale, come ha detto Corbin, mira all’identificazione dell’Angelo della Conoscenza con l’Angelo della Rivelazione. Originario della Transoxiana, al-Farabi visse a lungo a Baghdad e poi ad Aleppo, alla corte di Sayf al-Dawla; nonostante ciò, egli fu spiritualmente assai vicino alle esperienze sufi e shicite. Questo condizionò profondamente il suo rapporto con la cultura greca. Egli, infatti, fu attento commentatore ed epitomatore di Platone (per le Leggi) e Aristotele (Interpretazione, Fisica, Cielo, Meteorologia, Etica Nicomachea furono da lui commentate; parafrasò le Categorie, gli Analitici primi, la Poetica), ma nello stesso tempo è il rappresentante forse più famoso della «conciliazione delle due sapienze». Al-Farabi è anche considerato il più grande logico arabo. Egli ruppe con la tradizione, di origine nestoriana, che imponeva di arrestare lo studio della logica aristotelica al c. 7 del L. i degli Analitici primi. Tale atteggiamento è stato recentemente interpretato (Zimmermann)
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come una volontà di attestare la superiorità della logica musulmana sulla cristiana, prescindendo tuttavia da una critica dichiarata alle posizioni di quella. Comunque tale questione voglia risolversi, non possiamo non accennare ad alcuni almeno dei punti maggiormente innovativi della logica farabiana. Come se ricordato, la logica fu, per il «Secondo Maestro», l’unico mezzo per fondare un linguaggio universale, in antitesi alle varie grammatiche valide soltanto, per quanto perfezionate possano essere, per i popoli che parlano le lingue in cui sono formulate; e polemizzò duramente coi grammatici di Baghdad. A lui si debbono anche numerosi tentativi di creare nuovi termini tecnici logici, risultanti di estremo interesse sul piano storico e teorico, anche se sono stati giudicati poco utili sul piano grammaticale e non privi di durezza formale. Con al-Farabi emerge il problema dell’incapacità dell’arabo di rendere la copula e le varie connotazioni dell’essere; e forse anche a questo si deve l’origine della sua celebre analisi, non solo logica, ma metafisica, dei concetti di «essenza» ed «esistenza», che determinò il risultato (ripreso costantemente in filosofia islamica) di fare dell’esistenza non un carattere costitutivo dell’essenza, ma un predicato, un suo semplice accidente. Ad al-Farabi è poi stata attribuita (forse un po’ affrettatamente, da Rescher) un’interpretazione della teoria aristotelica dei futuri contingenti che sarebbe in netta antitesi a quelle consacrate dalla tradizione dei commentatori antichi. L’Essere primo è presentato da al-Farabi come oggetto di contemplazione, ma anche di amore. Da questo, intellectus intelligens intellectum, emana un nuovo intelletto, poi il primo cielo; dal secondo intelletto emanano un terzo intelletto e il cielo delle stelle fisse, quindi progressivamente le altre dieci intelligenze con le corrispondenti sfere celesti, in ordine decrescente di perfezione. Con la decima intelligenza si ha la pluralizzazione dell’intelletto nelle anime umane; essa presiede alla sfera terrestre (il mondo della generazione e della corruzione), in cui il processo di sviluppo è inverso, dal meno perfetto (l’elemento) al più perfetto (l’uomo). Nell’uomo deve prodursi il processo conoscitivo attraverso cui raggiunge la felicità, che in questo caso si realizza con l’unione dell’intelletto umano con l’intelletto agente. Anche per al-Farabi ci sono un intelletto in potenza e un intelletto in atto; inoltre c’è un intelletto «acquisito», corrispondente alla «coscienza del pensare». L’«intelletto agente» è in questo caso identificato con la decima intelligenza. In politica, al-Farabi distingue gli stati a seconda dei beni che perseguono, intendendo la giustizia come distribuzione e preservazione dei beni comuni, da perseguire attraverso l’esercizio della virtù e una divisione del lavoro in base alle capacità di ciascuno. Gli abitanti della «città perfetta» (come recita il titolo di una sua opera famosa) sono coloro che hanno compreso che la massima felicità consiste nel cogliere la natura immateriale della ragione attiva. Tale felicità è destinata ad accrescersi nella vita ultraterrena, ed è preparata dal maggiore o minore distacco dai beni materiali, che ciascuno ha realizzato in vita. Le anime ancora impure sono invece destinate a nuove reincarnazioni. Con al-Farabi, si esce dalla polymathìa per entrare in un sistema organizzato di conoscenze. Ma dove l’obiettivo finale è il raggiungimento della felicità nel senso sfinita
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del ritorno all’origine, e 1’”intellettualismo” ha un valore escatologico, il progresso nelle scienze è, a differenza che per Razi e come per gli Ikhwan, mezzo e non fine. Ma rispetto ai «Fratelli puri» al-Farabi presenta la prima classificazione sistematica delle scienze, esposta nell’opera L’enumerazione delle scienze. Essa è ispirata alla ben nota tripartizione aristotelica della filosofia, ma è incentrata anche (e, dal punto di vista “ideologico”, prevalentemente) sulle scienze «arabe», secondo la seguente successione: linguistica, logica, matematica, fisica, metafisica, politica, diritto, teologia. La distinzione fra diritto e teologia appare particolarmente rilevante, perché il diritto è considerato il punto d’avvio per un’analisi razionale dei contenuti della Scrittura (la cui sovranità è per al-Farabi, nei casi di contrasto irriducibile, assoluta). La compenetrazione della filosofia greca con la hikma coranica si risolve in al-Farabi con una trasposizione “allegorica” della politica classica, ove al (φιλόσοφος della Repubblica è sostituito l’imam e dove l’imam è, ben al di là che «il califfo di Dio sulla Sua terra», il teosofo, l’«uomo perfetto», il dotato di molte doti e, in primis, dell’intuizione. Attraverso l’intuizione egli perviene alla somma conoscenza – l’astrazione delle astrazioni, che è anche fonte di tutte le astrazioni -: cioè all’intelligenza suprema che, sempre in atto, esplica in atto la propria funzione gnoseologica, quella dell’astrarre. In questa «congiunzione senza identificazione» (ittisal) s’ottiene il possesso di ciò che, astratto come (cioè, etimologicamente, scevro) dalla materia, è anche scevro da quanto con la materia è intrinsecamente connesso: la tenebra e il male. In questo senso, l’astrazione gnoseologica diventa retaggio dello spirito «puro», e la verità coincide col bene e perciò anche (ma quanto diversamente da Socrate e da Platone!) con la felicità. Tuttavia, fatto estremamente significativo, la contemplazione del bene è per al-Farabi un fatto gnoseologico, e non morale: ed ecco allora che l’itinerario «politico» ha come sbocco finale proprio l’esito dell’itinerario – musulmano – delle scienze. E proprio la duplice dimensione dell’elaborazione farabiana di Platone creerà l’anello di congiunzione col discorso di Avicenna, che alla summa di conoscenze dei Peripatetici (esposta, ad uso dei nuovi Peripatetici nell’ἐν κύλῳ παιδεία dello Shifa’) contrappone apertamente la «filosofia orientale». All’epoca di Avicenna (Ibn Sina, nato a Bokhara nel 980, morto ad Hamadan nel 1037) la dimensione «araba» del califfato si è praticamente dissolta. I Qarmati, da tempo diffusi in Iraq e in Siria, si sono attestati anche nella Penisola arabica; in Egitto, ai Tulunidi si sono sovrapposti gli Ikshiditi; lo stesso Avicenna fu, come medico, al servizio dei Buwayhidi, attestatisi in Persia fra il 932 e il 1055, e morì solo vent’anni prima dell’arrivo dei Selgiuchidi a Baghdad. Di ingegno precocissimo e assai versatile (gli sono attribuite da Gardet 276 opere dai contenuti più vari: filosofia, medicina, musica, mineralogia, farmacologia; s’interessò anche di teorie politiche e di poesia), Avicenna si accostò giovanissimo alla Metafisica aristotelica, il cui significato gli sarebbe infine stato svelato, secondo la leggenda, dal commento di al-Farabi.
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L’opera più famosa di Avicenna è lo Shifa’ (la Sanatio del nostro Medioevo, ove non si voglia parlare del Canone di medicina, grazie al quale il nostro autore si sostituì all’autorità raziana). In essa, secondo un criterio puramente espositivo, sono riprese la logica, la fisica e la metafisica antiche. In logica Avicenna rielaborò elementi aristotelici, neoplatonici e stoici; alla ben nota trattazione aristotelica fanno capo la fisica e parte della metafisica (per la caratterizzazione dell’essere e dell’uno, della causalità, del binomio potenza-atto, etc.). Essa però è integrata con una vera e propria «angelologia» di matrice iranica, che amplia le stesse strutture di quella farabiana. Anche per Avicenna l’anima umana è un’emanazione dell’intelletto agente o decima intelligenza, il vero dator formarum e agente di generazione nel mondo sublunare. Attraverso esso si spiega la pluralizzazione delle anime umane, che sono più perfette delle anime vegetali e animali. Attraverso le facoltà sensitiva, immaginativa ed estimativa esse possono pervenire all’astrazione, cioè alla conoscenza delle forme pure dalla materia (gli universali dunque per Avicenna, al contrario che per Platone, non sono autonomamente esistenti). In questo sono aiutate dall’Intelletto agente, che le fa passare dalla potenza all’atto. La più perfetta delle intelligenze che pervengono alla massima astrazione è la «Ragione santa», quella del Profeta, il quale, scavalcando i processi logici sopra descritti, riesce a cogliere per intuizione l’Essere divino. Alle concezioni aristoteliche, Avicenna aggiunge che esiste un principio necessario (Dio), l’unico in cui esistenza ed essere coincidono, e che evita il regresso all’infinito nella catena degli esseri contingenti del mondo, nei quali proprio a causa di Dio l’esistenza è aggiunta all’essenza. L’Essere necessario è indefinito e indimostrabile, e si può caratterizzare solo, negativamente attraverso l’esclusione di qualsiasi somiglianza con altri esseri, e positivamente attraverso tutte le relazioni che lo concernono. Tale Essere supremo apprende tutto quanto è da sé emanato, pur essendone completamente distinto, in modo universale. L’origine del mondo è spiegata come un’eterna emanazione. Nei numerosi scritti mistici (Hayy ibn Yaqzan, L’uccello, L’amore, La preghiera, Il fato) Avicenna riprende le molteplici suggestioni della spiritualità ismaelita, fondendole con l’uso, già platonico, del mito. Se l’Essere supremo è oggetto non solo di conoscenza, ma anche di amore, ecco che di nuovo l’intelletto agente, stavolta nella personificazione di un vecchio saggio, «il Vivente, figlio del Vigilante», appare all’anima già avviata sulla tariqa dell’astrazione e la guida, attraverso un viaggio simbolico, a un progressivo distacco dai legami materiali (posto ancora come condizione della suprema felicità). Avicenna crede nell’immortalità dell’anima, pur destinandola a successive reincarnazioni. Un compendio dello Shifa’ è il k. al-Nagiat (Libro della salvezza). Altra opera fondamentale è il k. al-isharat wa’l-tanbihat (L. delle direttive e delle osservazioni). Qui è ripresa la scansione dello Shifa’, ma dal punto di vista proprio di Avicenna. Vi è, cioè, espresso il nucleo della famosa «filosofia orientale» che, nei progetti di Avicenna, avrebbe dovuto essere un’«enciclopedia» delle scienze filosofiche, come superamento di quella greca. Di essa ci è però pervenuta solo parte della sezione di «logica», e alcuni frammenti sulla co-
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siddetta «teologia di Aristotele» (L. xii della Metafisica) e sull’Anima; né è escluso che il resto della «filosofia orientale» non sia stato mai scritto. Non è chiaro se «orientale» denoti una corrente di pensiero antitetica a quella dei greci, o la posizione propria di Avicenna («orientale» rispetto ad essi), o, in senso più letteralmente geografico, le reliquie della filosofia «iranica». Corbin, in antitesi a Nallino, ha voluto comunque vedere nella «filosofia orientale» un antecedente delle filosofie «illuminativiste» che, secondo il loro capostipite, Sohravardi, portavano a perfezione le intuizioni avicenniane. Purtroppo, è andato perduto il k. al-insaf (L. del giudizio imparziale) in cui Avicenna descriveva il proprio itinerario spirituale. Di grande importanza, e dal punto di vista storico, e per un confronto testuale con le dottrine esposte in arabo nello Shifa’ è l’opera filosofica persiana di Avicenna, il Danesh namè-ye cAla’i. La Logica degli orientali, però, è redatta in arabo. E forse l’uso dell’arabo per esporre la propria filosofia, da parte di questo persiano tanto vicino alla Shica, e politica, e filosofica, non deve considerarsi casuale. Per quanto poco se ne sappia, è evidente che la «filosofia orientale» si fondava (o, quanto meno, si apriva) con la logica; e dato il carattere che questa filosofia orientale ha, o vorrebbe avere, appare difficile spiegare ciò solo come un ossequio alla divisione aristotelica. Avicenna sapeva bene come la tradizione antica avesse presentato la logica quale organon di tutte le scienze. Ma nella prefazione alla nuova logica, egli ci dice che essa «ha anche un altro nome». Le reliquie avicenniane non ci hanno tramandato quale. Ma, forse, essa era destinata a divenire la scienza delle scienze, il mezzo perché (Jambet) «si offra all’anima la percezione immaginativa dei molteplici raggi’ di luce che stanno sopra di essa, ne determinano la metamorfosi e l’attraggono verso la sua vera patria». Quello che in al-Farabi faceva la «politica», par che qui lo faccia la «logica». Per Avicenna l’anima non è più nel sociale, sia pure in quello d’una «città perfetta», ma è nel solitario rapporto con l’Uno, è tornata dalla dispersione, dalla bipolarità del sensibile, alla certezza senza oscillazioni delle forme pure. (E sia detto per inciso che se si riuscirà mai ad acciarare una conoscenza della «logica» parmenidea da parte del mondo islamico, una sua consequenziale applicazione – cioè, quale superamento delle oscillazioni del fenomenico – è proprio in Avicenna che dovremo cercarla; e allora sarà possibile sostituire all’interpretazione «immaginativa», già da più parti accennata, un’interpretazione «storica» della logica arcaica da parte della filosofia shicta). Dal quadro tratteggiato sinora, appare comprensibile come la mistica sia stata ritenuta il mezzo migliore per raggiungere la verità. Lo dirà persino al-Ghazali (1058-1111), che tuttavia non abbandonò l’ortodossia, ma seppe fonderla con una particolare forma di «gnosi» che non arrivava a squarciare il velo dietro il quale l’Essere supremo stava nascosto, e dove, naturalmente, il «velo» era ancora una volta la bipolarità che l’umano λόγος, lungi dall’annullare, è costretto, se vuol esser conseguente, ad allungare vieppiù di nuovi termini antinomici, in quella che potremmo chiamare una «pessima infinità».
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Al-Ghazali, nato a Tus, è il massimo rappresentante della rinascita dell’ortodossia religiosa sotto Nizam al-Mulk, vizir dell’impero selgiukide. Studioso di diritto e di kalam, di filosofia, logica e mistica, egli insegnò nelle madrese di Nishapur e poi di Baghdad. Deluso dall’insegnamento, e anche a causa delle persecuzioni che culminarono con l’uccisione di Nizam da parte degli ismaeliti, nel 1092, Ghazali passò alla pratica del sufismo, errando in Siria, in Palestina e nel Higiaz; riprese l’insegnamento nel 1106, fino alla morte. Attratto sin da giovane dal problema della «conoscenza certa», Ghazali ritenne in un primo tempo di aver trovato nella filosofia il mezzo più adatto a scoprirla, restandone però ben presto deluso. Nel Munqidh min al-dalal (La salvezza dall’errore) Ghazali dichiara che neppure i teologi e gli ismaciliti possono attingere la verità: i primi perché debbono difendere posizioni non certe di per sé, ma che debbono essere accettate per l’autorità delle Scritture o per il consenso della comunità; i secondi perché non sono in grado di definire i requisiti dell’imam infallibile, e perché lo stesso ta’wil sfugge a ogni caratterizzazione. Anche i «libertini» (cioè i mistici erranti, gli entusiasti) furono oggetto delle sue critiche, come pure i cristiani. La polemica filosofica di Ghazali coinvolse tanto il pensiero greco, antico e neoplatonico, quanto le rielaborazioni che ne avevano dato al-Farabi e Avicenna. Nelle Maqasid al-falasifat (Le intenzioni dei filosofi) Ghazali espose quelle dottrine con tanta proprietà che nel Medioevo latino, attraverso la versione di Gundissalvi, egli fu ritenuto un autentico neoplatonico. Ghazali scrisse anche un manuale di logica aristotelica, il Micyar al-cilm (La misura della sapienza), che con le Maqasid e il notissimo Tahafut al-falasifat forma una trilogia di enorme importanza. L’opera principale di Ghazali resta comunque la monumentale Ihya’ al-culum al-din (Vivificazione delle scienze religiose), ove egli fonda, riprendendoli anche in opere in persiano, i principi dell’ortodossia di origine ashcarita. E preoccupazioni religiose mossero Ghazali anche nella composizione del Tahafut (che, come nota Corbin, più che semplicemente «distruzione», significa «reciproca distruzione» delle varie concezioni filosofiche). Ghazali vi enumera sedici proposizioni di metafisica e quattro di fisica contro le quali dev’essere messo in guardia il credente sprovveduto. Tre sono in particolare accusabili di kufr, di «irreligione»: l’eternità del mondo a parte ante, la limitazione della conoscenza di Dio agli universali, la negazione della resurrezione dei corpi. Le altre proposizioni sono invece accusabili di bidca («eresia»), e riguardano Dio e i suoi attributi, il rifiuto della necessità e della causalità secondaria, l’immortalità dell’anima e la sua semplicità. Ghazali trova dunque nel sufismo la risposta ai propri bisogni intellettuali. Egli riesce a conciliare sufismo e ortodossia, a fare cioè quanto non era riuscito ai mistici dal sec. ix in avanti, e che vennero condannati anche, e forse soprattutto, per aver preteso sostituire alla «religione legale» una «religione del cuore», considerata destabilizzante dall’autorità politica (in tal senso, emblematico è il caso di al-Hallag). Ghazali basa il proprio credo mistico su questi tre elementi: il concetto coranico di un Essere supremo del tutto diverso dal mondo, che Egli creò per un atto incondizionato di libera volontà; la gerarchia ne-
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oplatonica degli esseri, per cui la ragione fa da legame fra Dio e le creature; il concetto (hallagiano) di Dio che abita nell’anima dell’uomo e se ne serve come strumento. Anche per Ghazali la conoscenza umana parte dai sensi e culmina con la ragione, attraverso l’inferenza e la sintesi; profeti e santi sono, in più, dotati di uno «spirito profetico». La conoscenza massima è quella ottenuta per esperienza diretta, e su quest’ultima viene fondata anche la conoscenza di Dio. Dio è sempre percepibile attraverso un «velo di luce» che ne nasconde la vera natura, e che i wasilun, i «congiunti», possono squarciare. Solitamente, si ritiene che la filosofia dell’Oriente musulmano non seppe risollevarsi dal colpo infertole da Ghazali. Ma Corbin ribadisce che il suo messaggio sarebbe stato raccolto dall’ishraq che, soprattutto con Sohravardi, ribadirà che non c’è più alternativa irrinunciabile tra sufismo e filosofia. L’originaria alternativa, fra «mistica» e religione, che nel rappresentante dell’ortodossia si risolveva, in fondo, con un compromesso, diverrà per l’ishraq alternativa fra «mistica» e filosofia, e sarà sanata perché, in definitiva, la filosofia diviene essa stessa – nella sua particolarissima accezione di hikma – una «mistica». Ma considerazioni su tali correnti di ishraqiyun esorbiterebbero, come si è già accennato, dagli ambiti cronologici, oltre che “culturali”, dell’età abbaside. Vediamo invece cosa accade nell’Àndalus, dove, secondo la visione tradizionale, la filosofia «islamica» (arabo-islamica, ora e di nuovo, più che mai) si sposta dopo la confutazione ghazaliana, e dove l’alternativa ritorna ad essere fra «mistica» e religione, perché la «filosofia» è, ancora una volta, una cultura. Già alla metà del sec. ix la Spagna si era staccata dall’autorità centrale ed era governata dagli Omàyyadi. Almeno dal punto di vista cronologico, tuttavia, essa rientra nell’età abbaside, e un riferimento alla Scuola andalusa appare imprescindibile non solo perché essa costituisce uno dei più luminosi capitoli della storia filosofica dell’Islam, ma perché è strettamente correlata e con le problematiche, e con gli indirizzi metodologici, e con le posizioni ideologiche individuabili nell’Oriente abbaside. In un primo tempo, fiorisce ad Almeria una visione esoterica dell’Islam, fondata su dottrine pseudo-empedoclee trasfigurate dalla teosofia profetica. Tra i suoi massimi rappresentanti è Ibn Masarra (secc. ix-x), il cui pensiero è stato ricostruito da Asin Palacios. Una visione mistica della realtà in termini di platonismo sarà invece espressa in Spagna assai più tardi, da Ibn cArabi. Nato a Murcia nel 1165, viaggiò a lungo in Spagna, nel Nord Africa e nel Vicino Oriente, stabilendosi infine a Damasco, ove morirà nel 1240. Egli si accostò al sufismo ad Almeria; durante il pellegrinaggio alla Mecca, per ispirazione divina decide di scrivere le Futuhat makkiya (Rivelazioni meccane), che costituiscono con le Fusus al-hikam (Le gemme della sapienza) la sua opera principale. La dottrina di Ibn c Arabi si incentra sul concetto di unità dell’Essere. In ogni Profeta si esprimerebbe una Realtà, detta λόγος, kalima, che sarebbe un aspetto dell’unico Essere divino. Dio si moltiplica – e diviene così oggetto di adorazione – nella creazione, che esisteva nella mente divina come una serie di archetipi fissi, e fu manifestata visualmente per un atto d’amore
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di Dio. La più alta manifestazione di Dio è Adamo, l’uomo perfetto (al-insan al-kamil), creato a Sua somiglianza. Egli è il vicario di Dio sulla terra, ed è l’unico essere che può conoscerlo come «verità» e come «creazione». L’anima umana è una parte – distaccata – dell’Anima universale: per comprendere l’unità del tutto essa deve prender coscienza di sé, attraverso la mistica. Ma la figura forse più nota della filosofia arabo-islamica è Averroè (Ibn Rushd). Il suo pensiero è preparato da altri due grandi pensatori. Il primo è Ibn Baggia (l’Avempace degli Scolastici), nato a Saragozza alla fine del sec. xi e morto avvelenato, dopo varie vicissitudini, a Fez nel 1138. A lui è attribuito il merito di aver posto le basi per quella che sarà la «difesa di Aristotele» da parte di Averroè. Il suo problema fondamentale fu ancora una volta quello del destino escatologico dell’anima, e della sua «congiunzione» con l’intelletto agente. Nel Tadbir al-mutawahhid (Il regime del solitario) Ibn Baggia illustra come in seguito alla decadenza dello stato virtuoso il filosofo diventa «il solitario», poiché il processo di astrazione mediante il quale egli si è accostato all’intelletto agente è anche un allontanamento dal mondo; e se l’isolamento – in ossequio alla Politica aristotelica – è di per sé considerato un male, esso diviene un bene per accidens, quando è frustrato il fine ultimo dell’associazione politica. Questa nuova direzione evolutiva della «politica» platonico-aristotelica culmina con Ibn Tufayl (il latino Abubacer). Nato a Cadice e morto nel 1185, studioso eminente di medicina e astronomia oltre che filosofo, la sola opera che gli è sopravvissuta è il celebre Hayy ibn Yaqza n, novella in cui si sviluppa appunto il tema del «solitario», e che gode di grande notorietà già nell’Europa del sec. xvi. Anche nei particolari della novella (che si riduce a un’esposizione di argomenti neoplatonici già ampiamente sviluppati in filosofia islamica, e sui quali non ci addentreremo), Ibn Tufayl si pone sulla linea dei récits avicenniani. Sarà però opportuno richiamare il senso generale dell’opera: la Legge religiosa è la sola via sicura per gli ignoranti; la verità filosofica rappresentata attraverso la riflessione naturale è la sola degna dei pochi privilegiati. Corbin si è chiesto se il ritorno dei protagonisti nell’isola deserta, dopo un infruttuoso tentativo di far partecipe una moltitudine della loro particolarissima esperienza spirituale, non possa significare che il conflitto fra filosofia e religione è ritenuto, dall’Islam, senza speranza; questo è quanto, sempre secondo lo studioso, sarebbe stato reso evidente con Averroè. Qualunque atteggiamento si voglia assumere di fronte a tale interpretazione, appare inequivocabile che la «filosofia» dichiarata inconciliabile con la religione islamica è, a dispetto dei contenuti della novella di Ibn Tufayl e se l’altro referente dev’essere Averroè, quella greca, assorbita dalla Grecia come una cultura, più o meno cristallizzata. Spetta comunque ad Averroè il merito di aver diffuso nel Medioevo, e orientale e occidentale, 1’“autentico” Aristotele: “autentico”, se non altro perché non più confuso con Plotino, o riconciliato con Platone, o venerato come monoteista o come discepolo di Ermete. Averroè nacque a Cordova nel 1126 e fu celebre, oltre che come filosofo, come giurista e come medico. La sua attività pubblica ebbe, in rapporto al califfato, alterne
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fortune. Morì nel 1198. Particolarmente noto come commentatore di Aristotele, Averroè usò nelle sue opere il metodo coranico del tafsir, componendo tre tipi di commenti, uno ampio, uno medio e uno breve. La sua opera filosofica più famosa è il Tahafut al-tahafut, contenente la confutazione della critica ghazaliana e una magistrale esposizione delle idee di Aristotele: piuttosto che difendere, contro Ghazali, al-Farabi e Avicenna, Averroè si preoccupa di mostrare quanto essi si fossero allontanati dal vero spirito dello Stagirita. Con questo, egli mira a ridurre lo iato fra «filosofia» e «religione»: Aristotele sarebbe il “luogo” nel quale una parte della Verità si è incarnata, e come tale egli va studiato, prescindendo dal fatto che fu fuori dell’Islam. Averroè crede nell’infallibilità del Corano, ma in nome dell’unità della verità proclama l’esigenza metodologica del ta’wil. Poiché la Sunna non prevede un’autorità che dirima fra passi ambigui e non ambigui, è compito del filosofo porre in luce il senso autentico della Scrittura, e conciliarne le discrepanze. Ciò avverrà attraverso l’uso dei tre tipi di argomentazione: dimostrativa, dialettica e retorica, caratteristici rispettivamente dei filosofi, dei teologi e delle masse. In nessun luogo, però, Averroè suggerisce che il filosofo sia autorizzato a introdurre nuove dottrine, o ad eliminare quelle già date: come i commentatori delle Scritture, egli dipende da queste completamente. Per salvarsi, anche il filosofo deve sottoscrivere il sistema della fede e, in particolare, accettare i seguenti punti, sui quali il Corano non è ambiguo: Dio quale creatore e provvidenziale regolatore del mondo; l’unità di Dio; i Suoi attributi; la Sua libertà da ogni imperfezione; la creazione del mondo; la validità della profezia; la giustizia di Dio; la resurrezione dopo la morte. La religione, anzi, ha un raggio più ampio della ragione, che in certi casi non può acquisire una conoscenza che garantisca la felicità, oppure è ostacolata dalla materia. In questo quadro, si comprenderà come la teoria della «doppia verità» sia una tarda quanto falsa attribuzione all’autentico Averroè. Riguardo poi all’anima, egli riprende da Aristotele la teoria che essa, in quanto incorporea, è capace di sopravvivere al corpo. La leggenda di un’anima unica per tutti gli uomini (da cui il Medioevo occidentale giunse ad attribuire ad Averroè la concezione dell’immortalità limitatamente a questa) era, in origine, un principio gnoseologico, cioè la «facoltà astrattiva» comune (e solo per questo unica) a tutti gli uomini, nel quale proseguiva l’antica tradizione dei «quattro intelletti»; e, sia detto per inciso, stavolta l’intelletto agente poteva essere lo stesso Dio. Sull’origine del mondo, Averroè condivide l’idea di Aristotele che l’agente nulla può produrre dal nulla, e che quindi esso si limita a unire forma e materia, ad attualizzare delle potenzialità. Non c’è, in realtà, antinomia fra la soluzione filosofica e quella religiosa. Avendo indagato a fondo, sulle orme di Aristotele, la questione della causalità, Averroè aveva ben visto che, di per sé, l’eternità della materia non infirmava il dogma della creazione, il quale mirava piuttosto a negare che il mondo fosse causa sui. Ma se si postulava la materia come coeterna a Dio, questo non impediva che Dio potesse essere causa del mondo: basterà ch’Egli abbia pronunciato il «kun» prima e fuori dello zaman, l’«imma-
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gine mobile dell’eternità». Davvero contrario all’ipotesi creazionistica appariva invece ad Averroè proprio l’emanatismo plotiniano. Esso, infatti, esclude la causalità. Per questo il filosofo di Cordova sembra rinunziarvi, fedele alle esigenze della “religione” e a quelle della scienza (aristotelica), lasciando il problema di conciliare acausalità e ricerca scientifica agli “eterodossi” shiciti, costretti a far ricorso a un ta’wil che arrivava a negare il senso “corrente” della lingua sacra. Sarebbe impossibile in questa sede addentrarsi nei particolari del complesso sistema filosofico di Averroè; ma anche solo quanto detto sinora testimonia come ancora una volta – ma al di fuori della nuova cornice della hikma shicita – a problemi antichi vengano date soluzioni inconsuete. Ecco perché con Averroè la filosofia greca è ancora una cultura, e la filosofia arabo-islamica una Kulturgeschichte: una «storia della cultura» profonda e attenta però, come già era stata quella dei primi traduttori di Aristotele. E quando abbiamo differenziato il vero Averroè da quello che l’averroismo latino ha preteso di presentarci per tale, abbiamo ravvisato nella dicotomia fra verità religiosa e verità filosofica, fra anima mortale e immortale, fra mondo eterno e mondo creato alcuni dei “falsi problemi” della filosofia occidentale e, rispetto alla filosofia arabo-islamica, di una Kulturgeschichte “dalla parte dell’Occidente”. Ma l’Oriente sapeva bene che l’Uno è il più perfetto, e che qualunque essere, più è lontano dall’Uno, più è lontano dalla perfezione. Anche la conoscenza. E, almeno in questo, Averroè non si è allontanato dalla hikma della Shica.
Jabir ibn Hayyan (Abu Musa), da Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms lat Ashb. 1166
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Rappresentazione di una discussione tra due filosofi. A destra, probabilmente, è raffigurato Abu Yusuf al-Kindi Foglio di un manoscritto del 1287 conservato presso la Biblioteca Süleymaniye di Istanbul. Sono raffigurati i “Fratelli della Puntà”, società segreta islamica con sede a Bassora (Iraq), attivo tra viii e x secolo nel campo dell’indagine filosofica ed esoterica A fronte: Ritratto di Avicenna su un vaso d’argento, Mausoleo di Avicenna, Hamadan, Iran
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Rappresentazione di una discussione immaginaria tra Averroè (a sinistra) e Porfirio (a destra) Il personaggio chinato in avanti con il turbante è stato identificato con il filosofo Averroè. Scuola di Atene di Raffaello, Musei Vaticani, particolare
Al-Ghazali e un giovane, da Londra, British Library, ms Islamic 1138, f. 54
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Il Cairo Ibn Tulun (876-879) Costruita nel xi secolo per volere di Ahmad Ibn Tulun, dall’868 governatore dell’Egitto, è la più antica testimonianza architettonica rimasta intatta della civiltà musulmana in Egitto. Le evidenti analogie con la moschea di Samarra, tanto nell’impianto iconografico, quanto nella decorazione, fanno ritenere assai probabile l’impiego in questa costruzione di maestranze irachene
Pianta Veduta del cortile interno della moschea
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il cairo
Il padiglione centrale contenente il dispositivo per le abluzioni Interno della cupola del padiglione centrale A fronte: Il minareto, costruito alla fine del xiii secolo, sostituĂŹ quello piĂš antico che ripeteva la forma a spirale del minareto di Samarra
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il cairo
Particolare della corte interna
La porta d’accesso al fossato della moschea
Portici della grande corte interna della moschea
La ricca decorazione architettonica della moschea, dettaglio
Decori floreali abbelliscono una parete della moschea
Particolare delle volte del colonnato del cortile
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Qayrawan Grande moschea (836) Monumento chiave dell’architettura islamica nel nord Africa, conserva un ricchissimo minbar in legno di platano intagliato, proveniente dai laboratori di Baghdad
Veduta esterna della moschea Pianta. Nella sala di preghiera si nota chiaramente il dispositivo a T, analogo a quello delle Moschea di Abu Dulaf a Samarra A fronte: Minareto in mattoni
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Il cortile, visto dal lato settentrionale, con le cupole sull’ingresso e sul mihrab della navata centrale sopraelevata
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quayrawan
Cupola della moschea, particolare Arco del colonnato di un cortile della moschea Porta del minareto Dettagli decorativi di una colonna, particolare
Mura esterne della Grande Moschea
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Le scienze Alessandro Bausani
È noto che fu soprattutto durante il periodo abbaside (viii-xiii secc.) che si svilupparono di più, specie nel x e xi secolo, le scienze arabo-islamiche (così forse meglio che «arabe», dato che furono tali solo per la lingua). Anche se si parla sempre di una presunta decadenza del califfato abbaside, che alcuni pongono già alla metà del secolo x, uno dei più brillanti, forse proprio a causa di questa decadenza politica, della scienza araba. Parliamo appunto di scienza araba. È ben noto infatti, come è stato recentemente ripetuto da N. Daniel: «The first and most striking effect (of the long Medieval European experience of the Arab world) is in the scientific field»1. Pertanto soprattutto di quest’ultimo campo scientifico-filosofico ci occuperemo qui, trattando della circolazione delle idee e delle influenze «arabe» in epoca abbaside. E ora una domanda: perché «arabe»? Proprio in epoca abbaside l’impero califfale diviene da «arabo» più genuinamente «islamico», e bisognerà allora dare particolare spazio ai mondi culturali non-arabi, i cui rappresentanti pur scrissero in lingua araba. È infatti considerato un pensatore «arabo» Avicenna (Ibn Sina), che pur scrivendo in arabo – il latino del Medioevo islamico – era centroasiatico e non visitò mai di persona un paese arabo. Ecco, ad esempio, quanto al-Biruni (sec. x-xi), forse il più grande scienziato del Medioevo tout court, scriveva a proposito della lingua araba nella sua prefazione al Kitab as-saidana2: «La nostra religione (qui – si noti – din e non milla o altro) e l’Impero (dawla) sono ambedue arabe e gemelle: sull’una si estende protettrice la potenza divina e sull’altra la mano celeste. Quanto spesso gruppi (tawa’if) di popoli sottomessi (tawabi‘) – e in specie Gilani e Deilamiti – si sono riuniti (ribellandosi), per imporre sul manto dell’Impero i costumi locali non arabi (gialabib al-‘ugma)! Ma mai vi riuscirono. E finché l’adhan (invito alla preghiera canonica) risuonerà nei loro orecchi cinque volte al giorno, e le preghiere canoniche si reciteranno con la lingua del Corano arabo chiaro a file e file serrate dietro gli imam e finché parole di edificazione morale si predicheranno loro nelle moschee in congregazione, ed essi saranno prosternati sulle mani e sul volto, la corda saldissima dell’Islam non sarà tagliata e non crollerà la sua fortezza. Nella lingua degli Arabi sono state recate le scienze da tutte le contrade del mondo: ne han preso ornamento e son penetrate nei cuori, e le bellezze della La sala della preghiera
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lingua si son profuse nelle loro vene ed arterie, anche se ogni membro di un popolo (umma) sente bella la propria lingua cui è adusato e familiare, e che impiega per i suoi bisogni con i suoi compagni e i suoi simili. Questo lo posso ben giudicare io stesso; la mia lingua naturale (il khorezmio) è tale che se in essa si volesse eternare una scienza, farebbe lo stesso strano effetto di un cammello in una grondaia o di una giraffa in un gregge di cavalli di razza. Poi son passato all’arabo e al persiano: sia nell’una sia nell’altra lingua sono un estraneo che ha dovuto apprenderla con sforzo, e devo dire che preferisco un insulto (higw) in arabo a un elogio (madh) in persiano. Potrà confermare la mia opinione chiunque legga un libro di carattere scientifico che sia stato tradotto in persiano: ne vedrà sparita la brillante esposizione (raunaq) originale, oscurato il senso (bal), annerito il volto e annullata ogni utilità. Il persiano è una lingua buona solo per le leggende di antichi sovrani (al-akh-bar al-kisrawiyyd) e i racconti da veglie notturne (al-asmar al-lailiyya)». Si tratta di espressioni piuttosto eccessive, se vogliamo, ma esse mostrano come il khuwarismico (dintorni del lago di Aral) Biruni si sentisse soprattutto arabo... D’altra parte è un fatto ben noto che le scienze islamiche nacquero e si svilupparono (con qualche eccezione) attorno alle corti locali, più che alla corte califfale. Il potere politico del califfato già unitario, dopo le vastissime conquiste non poté a lungo mantenersi uno. Al particolarismo arabo, ben noto, si aggiunsero quelli delle altre stirpi man mano che esse si ritrovarono, entro la comune cornice dell’Islam, arbitro del proprio destino. Così l’unitaria monarchia araboislamica cominciò (ed è proprio questa la «decadenza politica») a sfaldarsi in una molteplicità di formazioni politiche che pur avevano un comune vincolo di vassallaggio teorico con la superiore autorità del Califfo. Infatti, il già nominato al-Biruni era suddito del re del Khuwarizm (khuwarizm-shah) e poi dei Ghaznavidi (962-1135). Avicenna era suddito del Sultano di Bukhara e poi di altri principi persiani; Averroè, Abubacer e Avempace (corruzione europea di Ibn Rushd, Abu Bakr Ibn Tufail, Ibn Baggia) erano addirittura andalusi (cioè della Spagna araba); al-Farabi sembra essere stato di razza turca e certamente centroasiatico, ecc. Divideremo, in quel che segue, la materia per paragrafi diversi secondo le varie scienze, mettendo in evidenza il contributo arabo-islamico alla scienza europea. Ma prima va ancora fatta una premessa. Furono originali gli scienziati «arabi», o si limitarono a tramandare all’Europa il pensiero greco-ellenistico? Qui ci si deve guardare dal cadere in una delle due esagerazioni in cui molti sono caduti. Una è quella di chi nega qualsiasi originalità alla cultura arabo-islamica, facendo degli arabi solo dei trasmettitori, forse intelligenti, ma poco originali, della scienza greca (è questa la tendenza dell’antiarabo e antisemita Renan). L’altra esagerazione, nata in buona parte in contrasto con la precedente, è quella che consiste nell’attribuire a scoperte degli Arabi o dei Musulmani teorie o idee già note ai Greci o agli Indiani o ad altre culture precedenti, o addirittura, come nel caso della classica polemica fra L.A. Sédillot e altri studiosi, persino scoperte che in effetti furono più tarde. È il caso della «variazione» o terza ineguaglianza del moto lunare, di cui Sédillot attribuiva la scoperta, erroneamente, all’astronomo e matematico arabo Abul’-Wafa’ (940-988). Faccio
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solo un esempio: la generalizzazione del teorema di Pitagora a tutti i triangoli non è scoperta di Thabit ben Qurra, come da qualcuno sembra affermarsi, ma era già nota a Pappo d’Alessandria (sec. iii d.C.). Alquanto esagerato mi sembra anche chiamare al-Khuwarizmi (m. 847) il «padre dell’algebra» come fanno molti (ivi incluso il notevole storico della matematica C. Boyer)3. Come è stato fatto giustamente notare, «in effetti sia l’algebra greca sia quella indiana erano avanzate molto oltre lo stadio elementare dell’opera di al-Khuwarizmi»4. Il greco Diofanto aveva persino proposto una notazione quasi completamente simbolica5. Ma, ed è questo uno dei punti chiave per capire l’originalità della cultura arabo-islamica anche in altri campi, sia un Diofanto sia, in altro contesto, un Archimede, il più grande forse tra i geni greci, rimanevano in qualche modo degli isolati. Essi scrivevano per una élite molto ristretta, mentre la società che li circondava restava loro estranea, ed era più primitiva di quanto non si creda. Merito essenziale della cultura islamica fu quello di essere la prima «democratizzatrice» del sapere. Le opere arabe – data la relativa diffusione della scrittura – venivano lette e diffuse in strati relativamente più ampi della popolazione (senza per questo giungere, ovviamente, alla moderna «cultura di massa»!) e, tradotte come ben presto furono in lingue occidentali, crearono un ponte di passaggio fra età antica e età moderna: la cultura arabo-islamica è stata infatti chiamata l’ultima cultura classica e la prima moderna. È noto che A. Koyré ha chiamato il mondo moderno (nato dal ’600 in poi) l’universo della precisione, mettendolo a confronto e a contrasto con quello premoderno che egli chiama il mondo del pressappoco in un suo noto saggio6. Ebbene, gli scienziati arabi furono proprio i precursori del mondo della precisione. Basti considerare un solo esempio, la questione del moto dell’apogeo del sole. La longitudine dell’apogeo del sole, di 65°30’, trovata da Ipparco ben tre secoli prima di Tolomeo, fu da quest’ultimo riconfermata, sebbene essa, per la precessione degli equinozi, fosse notevolmente aumentata. Gli Arabi, già nel ix secolo, usando del resto il metodo stesso proposto da Tolomeo nell’Almagesto (iii, 4), ottennero il valore, per la loro epoca, di 82°45’ e, paragonandolo con il valore di Ipparco, trovarono che la longitudine dall’apogeo del Sole aumentava di 1° ogni 66 anni, cioè segue la precessione degli equinozi7. (Vedremo avanti come gli scienziati arabi portarono questa precisione ancor oltre, scoprendo anche il moto proprio dell’apogeo del Sole). Lo Schiaparelli8 cerca di spiegarsi perché Tolomeo negasse il moto dell’apogeo solare contro ogni evidenza. Lo fece – sostiene a mio parere giustamente l’astronomo di Brera – perché se gli avesse attribuito un moto in longitudine, l’anomalia (cioè la distanza dall’apogeo) del punto equinoziale sarebbe cambiata, e quindi l’arco (che secondo lui era di 36”) della precessione annua sarebbe stato percorso in tempi variabili. Onde seguiva la necessità di attribuire una variazione a una delle cose seguenti: o all’anno tropico, o all’anno siderale, o al moto dell’viii sfera, distruggendo così la tanto vantata uniformità delle rivoluzioni celesti. Così Tolomeo troncò la questione supponendo invariabile la distanza dell’apogeo del Sole dall’equinozio, cioè la sua longitudine. Mentre, aggiungo io, gli astronomi arabi, ponendo i dati di una precisione osservazionale empirica al di sopra della teoria preconcetta e metafisica della invariabilità di moti celesti, preferivano negare questa piuttosto che negare
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i fatti. Si tratta di un punto apparentemente secondario, ma di grande importanza per un apprezzamento del lavoro dei migliori fra gli scienziati «arabi», punto al quale non è estranea la impostazione della religiosità musulmana, così antimetafisicamente monoteista. Per non fare che un esempio, che mostra come il monoteismo arabo-islamico, con la sua idea di un Dio liberissimo e arbitrario creatore, possa contribuire a questa tendenza, mi limito a citare una frase del teologo ortodosso al-Baqillani (m. 1013): «I cieli e gli astri sono corpi creati come gli altri, senza particolari sacertà, e sono sottoposti alle stesse leggi che qualsiasi altro corpo dell’universo»9. Se si confronta questo gusto per la precisione (l’esempio sopra fatto non è che uno dei numerosissimi che si potrebbero portare) con il pressapochismo del più grande degli astronomi greci, Tolomeo, il quale mostra spesso la (per noi) singolare tendenza ad arrotondare cifre ottenute con l’osservazione per combinarle con una astratta realtà metafisica presupposta del sistema, si comprenderà meglio in che senso ho chiamato gli Arabi «proto-moderni», anche se le recenti critiche a Tolomeo dello storico della scienza R.R. Newton, che lo accusa di essere un vero e proprio falsario e di essersi inventato presunte osservazioni10, sembrano un po’ eccessive e sono state discusse. Altro aspetto, connesso col precedente, della scienza araba è l’empirismo, il senso della realtà fisica delle cose studiate, il gusto dell’esperimento, anche se non inteso come poi lo intenderà Galileo. È stato abbondantemente mostrato che l’esperimento galileiano è qualcosa di diverso dall’esperimento inteso in senso puramente empiristico11. Il Koyré giunge a dire che «l’observation ou l’expérience, au sens d’expérience spontanée du sens commun, ne joua pas un ròle majeur – ou, si elle le fit, ce fut un rôle négatif, celui d’obstacle – dans la fondation de la Science moderne». Significativo a questo proposito può essere un confronto fra le frasi, citate a chiusa del presente articolo, di al-Biruni e di Galilei: l’uno parla de «i nostri sensi» l’altro de «il senso e le ragioni dimostrative e necessarie». Ne vedremo avanti degli esempi. E ancora, in matematica, va sottolineata – malgrado quanto abbiamo accennato sopra, e la presenza isolata ma notevole di un Diofanto nel mondo greco – la loro tendenza algebrica, contro l’esclusivismo geometrico dei Greci. Passiamo ora, come già detto, allo studio delle varie scienze sotto vari capitoli.
Filosofia È stato scritto: «‘Al principio era il Corano’12: questa parafrasi del ben noto primo versetto del Vangelo di San Giovanni ci aiuterà a sottolineare il posto fondamentale che il Libro sacro arabo ha in tutte le scienze religiose musulmane e nella civiltà islamica». Ovviamente il Corano non è un’opera di filosofia e Muhammad, il Profeta dell’Islam, è ben lontano dal mostrare i tratti di un Socrate o di un Platone. È il «Messaggero di Dio» che riferisce parole divine. Ma il Corano contiene anche elementi filosofici o materiale che si offre alla riflessione. Filosofia (in arabo falsafa) significa generalmente, nella civiltà islamica, la filosofia aristotelica e fu pertanto piuttosto malvista dai teologi, che mai giunsero ad adottare,
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come da noi, la filosofia aristotelica come base della teologia e, nel kalam (teologia islamica), adottarono addirittura l’idea atomista di tipo democriteo-religiosizzato per salvare la libertà di Dio. I Musulmani incontrarono, dapprima a Damasco e poi a Baghdad, prima il pensiero teologico cristiano e poi la filosofia greca. Per quanto riguarda la teologia, venivano discussi specialmente due problemi: quello della predestinazione (il Corano contiene sia argomenti a favore sia contro) e quello del Corano creato o increato (ci sembra che l’idea, adottata dall’ortodossia, del Corano increato, sostituisca quella del Logos eterno-persona del Cristianesimo). Ho menzionato sopra Democrito: in effetti, per la mentalità piuttosto sperimentale e pratica degli arabo-islamici, insieme con il platonismo e l’aristotelismo, vanno menzionate, come fonti, soprattutto lo stoicismo, il pitagorismo e soprattutto il neo-platonismo di Plotino e di Proclo, cioè va data molta importanza alla filosofia naturalistica pre-socratica. Per quanto riguarda la falsafa va menzionato al-Kindi, chiamato failasuf al-‘Arab, «il filosofo degli Arabi» perché fu il primo filosofo di quella razza. Indi al-Farabi (m. 950, centroasiatico e forse turco), che dedicò un trattato speciale a mostrare come essenzialmente Platone e Aristotele insegnavano la stessa dottrina in modo differente. Avicenna (Ibn Sina, m. 1037) e Averroè (Ibn Rushd, m. 1198) erano convinti della unità della conoscenza, la cui corona era la metafisica (jlahiyyat). Nella sua grande «Summa» filosofica intitolata ash-shifa’ («la cura», cioè dell’ignoranza) Avicenna abbraccia la totalità delle scienze, cioè: Logica, Fisica, Matematica e Metafisica. Con Averroè e i filosofi «spagnoli» si cerca di vedere «quello che aveva veramente detto» Aristotele. Averroè, sebbene giurista malikita, cioè fra i più rigoristi e letteralisti, si mostra, in filosofia, piuttosto «eretico» e influenza largamente la filosofia medievale europea, specialmente con la sua teoria della cosiddetta «doppia verità», che sembra in origine egli non abbia sostenuto. Comunque gli scritti di Avicenna e di Averroè influenzarono notevolmente la nostra filosofia e teologia medievale.
Medicina È importante qui soprattutto il metodo usato dagli storici arabi della medicina araba. Ishaq, figlio di Hunain ibn Ishaq, aveva già scritto, in epoca molto antica, una storia indipendente della medicina. Lo scienziato medievale era infatti, in genere, nello stesso tempo astronomo, astrologo e medico. Così fu Pietro d’Abano, così, nel mondo islamico, furono Avicenna, Averroè e tanti altri. Le fonti arabe, incluso il Liber Regalis di ‘Ali ibn al-‘Abbas (Haly Abbas) (m. 944), furono utilizzate ad es. da Costantino Africano. Questo Liber Regalis di Haly Abbas ha un posto speciale nella storia della medicina perché servì come modello del Liber Pantegni (Pantechni) che appartiene al corpus delle opere trasmesso appunto da Costantino Africano alla Scuola Medica di Salerno. Dato che comincia con una breve storia della medicina, esso fornì l’Occidente di materiale molto valido per la storiografia di questa scienza. Costantino Africano era un convertito dall’Islam
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al Cristianesimo, il cui nome arabo originale è sconosciuto. Venne dall’Africa in Italia e diventò monaco benedettino a Montecassino, dove morì, dopo aver lavorato alla Scuola di Salerno, nel 1087. È significativo che, sebbene Avicenna fosse contemporaneo di Costantino, le sue opere mediche non figurano fra quelle tradotte dall’Africano. Infatti va notato qui che il mondo islamico occidentale e orientale furono piuttosto divisi e molte opere «orientali» non furono incluse nelle traduzioni della famosa «Scuola di Toledo». Così per esempio le opere del grande al-Biruni furono conosciute in Europa (ed è un peccato) solo nel secolo scorso! Comunque 1’«Autobiografia» di Avicenna è conservata ed è stata spesso tradotta. La sua opera principale, il «Canone» (Qanun) divenne una specie di Bibbia della medicina medievale anche occidentale. Fu stampata in arabo per la prima volta a Roma dalla Tipografia Medicea nel 1593, cioè poco dopo l’introduzione della stampa araba in Europa (i suoi caratteri tipografici sono ottimi e potrebbero fare invidia a un testo moderno). Esso, in traduzioni latine, fu popolare nelle università europee fino al secolo xviii. Fra i grandi autori medici va anche menzionato Averroè (Ibn Rushd) il cui ben noto compendio (Kulliyyat, «generalità») fu tradotto in latino da un certo Bonacosa a Padova già nel 1255 col titolo di Colliget, che è corruzione europea del titolo originale. Anche in questo campo fu immensa e incomparabile l’opera di traduttore dell’italiano Gherardo da Cremona che, fra l’altro, tradusse l’Ippocrate arabo, il Liber Almansoris (Kitab al-Mansur) di Abu Bakr Muhammad ibn Zakariyya ar-Razi, e parte del suo Kitab al-Hawi (Continens) di cui una più tarda e completa traduzione latina dobbiamo a un ebreo di Sicilia, Faraf ben Salim (Magister Farachi o Farragut) nel 1279 e che è forse la più grande delle enciclopedie mediche. Ar-Razi, come filosofo, fu alquanto eretico: gli si attribuisce la dottrina dei “Tre Impostori” (Mosé, Gesù Cristo e Muhammad) e le sue opere filosofiche, delle quali non ne resta una intera, furono studiate dal Kraus (1939) e recentemente da me stesso (1981). Le vite degli scrittori medici arabi che più influenzarono la coscienza europea, abbracciano più o meno i due secoli più ricchi di produzioni scientifiche che vanno, grosso modo, dalla nascita di ar-Razi nel 875, al 1068 data della morte di Abu’l-Hasan al-Mukhtar ibn al-Hasan ibn Abdun ibn Sa‘dun ibn Butlan di Baghdad (Ellucbasem Elimithar dei latini), autore del famoso Taqwim as-sihha, Tacuinus sanitatis (stampato a Strasburgo nel 1531-32) che ha la particolarità di presentare le sue indicazioni in forma di quadro sinottico a scacchiera, tipo di presentazione ispirato dalle tavole astronomiche, e che sembra inventato da Ibn Butlan stesso. Queste opere influenzarono i medici europei, come per esempio gli italiani Taddeo Alderotti (1223-1295) fiorentino che insegnò nello studio di Bologna ed è citato da Dante13 come il più illustre dei medici del suo tempo, e, più tardi, Berengario da Carpi (anch’egli professore a Bologna dal 1502 al 1527) uno dei primi regolari sezionatori di cadaveri e che ebbe in cura Benvenuto Celimi, che parla di lui, o Bartolomeo Eustachi (1500-1574), marchigiano che insegnò alla Sapienza di Roma, soprattutto famoso come anatomista, e conoscitore profondo, oltre che del greco, anche dell’arabo e dell’ebraico.
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Come si vede, la maggioranza dei testi medici tradotti derivano dalla Spagna musulmana (il Colliget di Averroé era stato già tradotto nel 1255), ma anche testi di medici dell’Asia Centrale, famosi anche nell’Occidente del mondo islamico. Importanti sono anche le opere dei fratelli Avenzoar, una delle quali, il Taysir, fu tradotta da Giovanni da Padova fra il 1262 e il 1278. Furono fra l’altro gli Arabi a scoprire che le idee galeniche sulla circolazione del sangue erano superate, e, con Ibn an-Nafis, arabo di Damasco (m. 1288), a scoprire, tre secoli prima di Harvey, la circolazione polmonare del sangue. Tali idee passarono a Miguel Servet catalano (1553) molto probabilmente attraverso il medico del consolato veneziano a Damasco Andrea Alpago (m. 1520), che dedicò buona parte della sua vita allo studio e alla traduzione di Avicenna, che utilizzò il commento di Ibn an-Nafi e altri testi medici, e mantenne sempre relazioni con la sua patria. Anche in questo campo, dunque, gli Arabi, pur nelle linee generali fedeli al tradizionale sistema galenico e trasmettitori in Europa dell’idea che il medico deve prima di tutto preservare la salute anziché curare la malattia (così espressa da Avicenna al principio del suo Canone: «Io dico che la medicina è la scienza per la quale si conoscono le disposizioni del corpo umano, al fine di preservare la sanità abituale, o, se perduta, farla riacquistare») furono anche, nel loro abituale sperimentalismo poco curante della tradizione libresca, gli iniziatori della medicina nuova. Non si tratta, come ripetiamo, che di accenni, moltissimo ci sarebbe ancora da dire, per esempio sulla istituzione degli ospedali, che, come le università e gli osservatori, altri tipici centri di lavoro organizzato e collaborativo, hanno il loro prototipo nel mondo arabo-islamico; o sullo studio dell’oftalmologia, nel quale gli Arabi furono maestri, sia per la frequenza di malattie degli occhi nei loro paesi, sia per il loro spiccato interesse per l’ottica. L’opera del migliore degli oculisti arabi, un cristiano, ‘Ali ben ’Isa, fu stampata più volte a Venezia. Accenniamo soltanto, per curiosità, al fatto che gli Arabi conoscevano un inizio di anestesia, mediante sostanze stupefacenti: si somministrava il bang (o banj o hashish) in infusioni, o impregnando spugne che si introducevano nella bocca dei pazienti e provocavano il sopore non per ingestione ma per impregnazione diretta delle mucose. Era questa anche la tecnica preferita da Teodorico de’ Borgognoni (1205-1298) di Lucca, domenicano e vescovo di Cervia, uno dei migliori chirurghi del medioevo e che fra l’altro (probabilmente anche in questo caso per influenza di idee araboislamiche) sostenne che il pus delle ferite non era «salutare». Gli Arabi ebbero dunque anche qualche idea di antisepsia. È curioso che, invece, a partire dal secolo xiv, tale teoria perda credito e si affermi quella del pus benefico, che impererà fino al Rinascimento.
Scienze occulte Un intero capitolo meriterebbero forse le scienze cosiddette occulte, molte delle cui fonti, nel nostro Medioevo, sono «arabe». Penso che sia utile un accenno almeno alla geomanzia o ars punctorum nota nel medioevo arabo come ‘ilm ar-raml («scienza della polvere», per-
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ché si trattava spesso di configurazioni fatte con mucchietti di polvere). Essa infatti, anche se esempi si trovano in altri paesi fino al lontano Madagascar, è passata in Europa quasi esclusivamente per tramite arabo ed è stata, come nel mondo arabo-islamico, collegata con l’astrologia, ed è tuttora praticata in molti paesi. È interessante anche perché è stata recentemente studiata da più di un autore dal punto di vista matematico. In effetti, Jaulin14, e poi l’italiano Pedrazzi, che però sembra ignorare il libro del suo predecessore francese, hanno studiato le 16 figure della divinazione geomantica dal punto di vista matematico, più precisamente dal punto di vista della teoria dei gruppi, e, con una analisi di tipo strutturale, hanno messo in evidenza un carattere matematico oggettivo di questa «scienza», mostrando come l’insieme delle figure dell’ars punctorum costituisce un gruppo finito abeliano di ordine 16 con due leggi di composizione interna (una delle quali binaria) di cui ai geomanti era noto l’elemento neutro, l’elemento inverso di ogni figura e la proprietà commutativa. Per citare le parole del Pedrazzi15: «la geomanzia è forse cronologicamente la prima scienza algebrizzata; [G, (°)] (il segno (°) rappresenta una legge di composizione interna) è forse cronologicamente il primo gruppo i cui elementi non siano né numerici, né geometrici in senso tradizionale». La geomanzia fu trattata in testi arabi tradotti da Gherardo da Cremona e Platone di Tivoli, per non citare che due italiani, mentre particolare voga ebbe in Italia e in Europa il trattato di geomanzia di Pietro d’Abano (12571315) che fu professore di medicina e di filosofia naturale all’Università di Padova, viaggiò a lungo in Oriente e morì in sospetto di eresia. La sua Geomantia fu stampata a Venezia nel 1522-1552 in due parti. Anche opera di un europeo (italiano) è la vasta Stimma composta a Bologna nel 1288 da Bartolomeo da Parma: Ars geomantiae quae docet hominem solvere omnes questiones de quibus vult certificavi divina virtute per istam artem... E passiamo così alle Matematiche, sempre tenendo presente la grandiosa unitarietà della cultura medievale, nostra e arabo-islamica.
Le matematiche Il contributo più noto, in questo campo, anche ai profani, del mondo arabo alla cultura europea è l’introduzione delle cifre posizionali, dette appunto da noi «arabe» (la stessa parola «cifra», come anche zero, cefirum, derivano luna e l’altra da corruzioni diverse dell’arabo Sifr) e dagli arabi dette «indiane», perché in India esse ebbero certamente origine. E certo che uno dei maggiori handicap della matematica greca era la insufficiente notazione simbolica, e che l’uso dei numeri «arabi», attraverso Leonardo Fibonacci da Pisa (1202) penetrò in Europa, aprendo così possibilità enormi allo sviluppo della matematica. La cosa curiosa è (e non molti fra i profani sembrano rendersene conto) che tale invenzione indo-araba fu poco usata dagli Arabi stessi. Quasi tutti gli importanti trattati di aritmetica, algebra, astronomia, trigonometria, ecc. arabo-islamici usano in genere le cifre dell’abgiad, cioè le lettere dell’alfabeto arabo prese in un certo ordine con valori numerici (in modo simile ai Greci),
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e l’uso delle cifre «indiane» è in genere limitato ai numeri molto grandi, «astronomici». È evidente che, essendo difficile scrivere un numero come, poniamo, 560935, usando le lettere dell’alfabeto arabo come numeri, questo veniva scritto in cifre arabe o indiane. Come dicemmo, gli Arabi trasmisero questa loro «scoperta» (o meglio rivalutazione o generalizzazione) all’Occidente, proprio attraverso un italiano, Leonardo Fibonacci da Pisa. Nato verso il 1170, seguì suo padre in Algeria (a Bugiayya o Bugia) e ivi subì il fascino dei grandi matematici arabi; viaggiò, oltre che nel Nord-Africa, anche nell’intero bacino mediterraneo, spingendosi fino a Costantinopoli (allora, ricordiamolo, ancora bizantina) alternando l’esercizio della mercatura con gli studi matematici. Oltre alle sue opere fondamentali come il Liber Abbaci del 1202 e la Practica geometriae, è di notevole interesse il Liber Quadratorum del 1225, l’epistola al maestro Teodoro «filosofo dell’Imperatore» Federico ii, che concesse il suo favore a Leonardo; cioè Teodoro d’Antiochia, un cristiano giacobita che fu dal 1236 ca. fino alla sua morte (1250) al servizio del re di Sicilia e Imperatore Federico ii e che, secondo alcuni, sarebbe stato invece un ebreo16. Il Flos Leonardi Bigotti Pisani super solutionibus quarundam questionum ad numerum et geometriam vel ad utrumque pertinentium è una raccolta di problemi propostigli e da lui talora genialmente risolti17. Il Liber Abbaci, per dichiarazione dell’autore stesso, ha per scopo quello di far conoscere agli Europei la natura e l’uso delle cifre arabe. È vero che esse non erano del tutto sconosciute in Europa, dato che alcuni ne fanno risalire la prima introduzione a Gerberto d’Aurillac, che fu papa col nome di Silvestro ii (909-1003); ma, come dice il Loria18, «non era generale la convinzione che da esse tragga origine una tecnica superiore a quella fondata sul sistema numerale dei Romani». È – ripetiamolo – questa generalizzazione della convinzione che è merito precipuo della cultura araba rispetto ai frammenti aristocratici delle culture precedenti. Il concetto di «zero» era, per esempio, presente anche presso i Maya precolombiani in America o in Cina, ma tutto ciò restò una curiosità fino alla vera e propria diffusione su larga scala del sistema, che senza dubbio avvenne per l’opera combinata degli Arabi e di Leonardo Pisano. Leonardo, per dimostrare con particolare evidenza la superiorità del sistema di numerazione arabo su quello romano, paragona, fra l’altro, il modo di scrivere un numero come 4321 nei due sistemi. Mentre in quello arabo bastano quattro simboli, in quello romano (mmmmcccxxi) ce ne vogliono ben dieci. Il Liber abbaci, come del resto altri libri medievali tradotti dall’arabo o influenzati dalla cultura araba, contiene anche parole più o meno storpiate, prese direttamente dall’arabo, come ad esempio figura caia o chata (dall’arabo qat’ o qita’) sezione, una applicazione della regola del tre composto in relazione al teorema di Menelao sopra un triangolo tagliato da una trasversale (la regala sex quantitatum di altre opere medievali). Nel Flos citato sopra, Leonardo risolve fra l’altro il (per l’epoca) difficile problema propostogli da maestro Giovanni di Palermo «filosofo dell’Imperatore Federico ii», che comporta la soluzione dell’equazione cubica x3 + 2x2 + 10x = 20. Come è noto, le equazioni di 3° e 4° grado rimasero insolubili per radicali fino ai grandi algebristi italiani del ’500, ma gli Arabi avevano già portato avanti tentativi di soluzione, sia mediante metodi di ap-
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prossimazione successiva simili a quello noto ora come metodo Horner-Ruffini, sia di tipo geometrico, mediante intersezioni di coniche. Fu soprattutto il grande poeta, matematico e astronomo persiano Omar Khayyam (sec. xi) che risolse in modo sistematico e relativamente completo le equazioni di terzo grado col metodo di intersezioni di coniche19. Dopo aver notato, scrivendola nella forma x[(x+ l)2 + 9] — 20, che quella equazione non può avere valori negativi (cioè impossibili o assurdi per quell’epoca), Leonardo la risolve per approssimazioni successive senza però dire il metodo da lui usato, che deve essere stato simile a quello usato da al-Biruni (sec. x-xi)20. Al-Biruni stesso non specifica il metodo seguito per risolvere una simile equazione cubica. È questo un punto interessante perché mostra o che Fibonacci poteva avere avuto accesso anche all’opera di al-Biruni (che rimase disgraziatamente sconosciuta in Occidente fino al secolo scorso) o che tali metodi di approssimazione erano diffusi nel mondo musulmano visitato da Leonardo. Il Liber quadratorum di Leonardo Pisano è tutto dedicato al problema di spezzare quadrati nella somma di due altri o ad altri problemi di teoria dei numeri in cui entrino quadrati. Pur con sviluppi originali vi si nota l’influenza dell’opera del matematico arabo, della prima metà dell’xi secolo, Abù Gia‘far Muhammad ibn al-Husain, studiato già dal Woepcke21. Uno di questi problemi consiste nel costruire dei quadrati razionali tali che, sottraendo o aggiungendo loro una grandezza data, restino sempre quadrati razionali. Espresso in formulazione moderna, se i numeri razionali x, y, z sono legati dall’equazione z2 = x2 + y2 si ha allora z2 + 2xy = (x + y)2 (costruzione già nota a Diofanto). Se si pongono in luogo di x, y, z le quantità a2 – b2, 2ab e a2 + b2 (il ben noto sistema per ottenere «quadrati pitagorici», noto anche agli Arabi) si hanno le uguaglianze (a2 + b2)2 + 4ab (a2 – b2) + (a2 – b2 + 2 ab)2 che permettono d’ottenere, con una scelta appropriata di a e di b, soluzioni intere e razionali di sistemi indeterminati della forma u2 + k = v2 u2 – k = w2
in questo indietro rispetto al greco Diofanto, e usi ancora di procedimenti geometrici di dimostrazione, ben noti ai Greci22, egli mostra, soprattutto nella soluzione dei problemi di eredità islamica (un importante elemento alla base delle tendenze algebriche arabe) uno svincolamento dalla geometria che sembra tipico del mondo arabo e che fu trasmesso all’Europa. Dato che il nome arabo più o meno storpiato elchataim viene introdotto da Leonardo Pisano, diremo qualcosa su questa famosa «duarum falsarum positionum regula» (dall’arabo al-khata’ain, «i due errori») che, se anche non inventata dagli Arabi (era nota anche agli Indiani) è descritta nel manoscritto tradotto dall’arabo, d’autore ignoto, dal titolo latino Liber augmenti et deminutionis23, ma era nota a Baghdad all’epoca di al-Khuwarizmi. La regola, cui lo scienziato arabo-cristiano Qusta ibn Luqa (m. ca. 923) dedicò un trattato apposito24 serve a risolvere problemi solubili mediante equazioni lineari. In termini modernizzati, si tratta di questo. Per risolvere una equazione del tipo particolare (in Qusta ibn Luqa) x/2 + x/4 = 10 che si riduce per noi a una semplicissima equazione lineare ax = b e si ritrova spesso in problemi di divisione di eredità in parti aliquote e simili, Qusta ibn Luqa studia tre casi speciali ma con dimostrazione identica. Prendiamo ad esempio il caso in cui l’incognita si situa fra due falsi valori x1 e x2 ad essa attribuibili arbitrariamente. Il primo valore x1 darà un errore (cioè una quantità in più o in meno della quantità data) che chiameremo ei e il secondo valore x2 darà un errore e2. La regola dice che x= e1 • x2 + e2 • x1 ei + e2 Nel caso di Qusta ibn Luqa, se facciamo x1 = 12 abbiamo il valore di 9 anziché 10 cioè e1 = 1. Se poniamo x2 = 16 abbiamo un valore 12 cioè un errore e2 = 2. Allora 1•16 + 2•12 = 40/3 = 13,333... 1+2
Partendo da simili considerazioni, Fibonacci nel Liber Quadratorum crea un procedimento per dedurre da una soluzione c, d dell’equazione u2 + v2 = k un’altra qualsiasi soluzione basata sulla scelta di due numeri quadrati a2 e b2 aventi per somma un quadrato f2 (quadrati pitagorici cioè) ma tali che il loro rapporto con le soluzioni c e d dell’equazione precedente sia a : b = c : d. Abbiamo menzionato un po’ in dettaglio questo procedimento per mostrare in un caso particolare come la continuità arabo-europea non si limita, nel caso di Leonardo Pisano, a una semplice imitazione, ma porta avanti soluzioni nuove costruendo su dati forniti dagli Arabi, il tutto, a sua volta, continuazione degli inizi di analisi indeterminata posti dal greco Diofanto. Queste considerazioni, pur avendo forse alle origini bisogni pratici, si svincolano ormai da questi, per porre le basi della moderna «teoria dei numeri». Altra direttrice importante è il graduale svincolamento dell’algebra dalla geometria. Sebbene al-Khuwarizmi, nella sua Algebra, non presenti una notazione simbolica, rimanendo
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che è il valore di x. Qusta ibn Luqa dà una dimostrazione sia aritmetica sia geometrica (stile greco, cioè) di questa regola nei cui dettagli non entriamo qui. Sebbene questa curiosa procedura ci sembri ora piuttosto ingombrante, data la praticità del nostro simbolismo algebrico, essa fu ampiamente usata in tutto il Medio Oriente e, generalizzata da Fibonacci, nell’Europa medievale dove fu conosciutissima col suo nome arabo storpiato elchataim. Ciò fa vedere bene quanto la mancanza di un adeguato sistema simbolico nell’algebra abbia rallentato la rapidità dei calcoli25. Abbiamo sopra accennato ai tentativi arabi di risolvere equazioni di grado superiore al secondo (specialmente cubiche), sia con metodi approssimati (tipicamente algebrici), sia con metodi geometrici. E abbiamo visto come Leonardo Pisano usi di un metodo di approssimazione che certamente apprese dagli Arabi e deve essere stato – come accennammo – simile
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a quello usato da al-Biruni. Nel suo Canone, quest’ultimo si pone il problema di trovare la corda di un arco di 40°, cioè il lato di un poligono di 9 lati inscritto nella circonferenza (problema che sappiamo ora non risolubile con riga e compasso, cioè con equazioni lineari o quadratiche). Un procedimento geometrico nel quale non possiamo qui entrare, porta Biruni a un’equazione x4 = 3x2 + x, facilmente riducibile a un’equazione x3 = 3x + 1. Vale la pena di tradurre letteralmente il passo originale anche per mostrare al vivo il metodo, formalmente ancora retorico, cioè senza simboli algebrici, usato da questo pur grande scienziato musulmano, e che mostra anche quanto abile doveva essere chi abbordava problemi anche semplici con questi sistemi: «Si giunge così a tre censi e una cosa uguali a un censo del censo (3x2 + x = x4); scaricando (il verbo usato è hattata che significa letteralmente appunto «metter giù», «posare», «scaricare») una volta (cioè di un grado), diventa uno e tre cose uguale a un cubo (1 + 3x = x3), i cui gradi (maratib) non combinano (tatalasiq) altro che per successive proporzioni e comunque per approssimazione. Perseverando (nelle successive proporzioni) si ottiene la cosa che risolve questa equazione per approssimazione (bi’t-taqrib) e cioè (in frazioni sessagesimali) 1; 52, 17, 13”», risultato di una notevole esattezza perché corrisponde a un grado di accuratezza di oltre sei cifre decimali, come fa notare il Boyer. Biruni usa anche in altri casi questo metodo di approssimazioni successive. Sia Biruni sia, poco dopo, il grande poeta e matematico ‘Omar Khayyam con la sua esauriente trattazione geometrica delle equazioni di terzo grado, stanno dunque agli inizi di quella via che porterà alla vittoria dei grandi algebristi italiani del ’500 sulle «impossibili» equazioni di 3° e 4° grado. Altro sostanziale contributo della cultura arabo-islamica alla matematica è il perfezionamento della trigonometria. È noto che i Greci operavano con le corde anziché con i seni, con notevoli risultati certo, ma con maggiore complicazione nei calcoli. Anche in questo campo gli arabo-musulmani popolarizzarono e divulgarono in Occidente un’idea che era, alle origini, indiana. Gli Arabi presero cioè dagli Indiani l’idea di sostituire alla corda la metà della corda dell’arco doppio, cioè quel che ora chiamiamo seno. Le principali tappe della trigonometria araba sono rappresentate da Habash (primo decennio del sec. x), al-Battani (m. 929), Abu Nasr Mansur (seconda metà del sec. x), Abu’l-Wafa’ (940-998), al-Biruni (973-1048), Nasir ad-Din Tusi (1201-1274) e dalla scuola astronomica di Ulugh Beg a Samarcanda (secc. xiv-xv). Il nostro nome di seno è – sia pur mediatamente, come calco – di origine araba. Infatti il termine sanscrito jya (variante jiva), «corda di un arco» (arma), poi anche corda geometrica, era usato dai matematici indiani per brevità in luogo del più esatto jivardha (mezza corda, seno, nel senso moderno). Gli Arabi arabizzarono jiva in gib, che nella scrittura araba può leggersi anche giaib: ma giaib significa anche «seno», «tasca», «sacca». In Europa, nel xii secolo con Adelardo di Bath (1075-1160), che tradusse varie opere dall’arabo ivi inclusi gli Elementi di Euclide, si introduce il vero e proprio prestito arabo elgeib, mentre il calco linguistico sinus compare per la prima volta nelle traduzioni di un italiano, Gherardo da Cremona, più o meno suo contemporaneo (1114-1187). Anche se, come dicemmo, fu attivo soprattutto a Toledo, a questo italiano si deve una quantità impressionante di traduzioni dall’arabo. La tecnica delle sue traduzioni consi-
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steva nell’uso di una lingua intermedia. In genere qualche mozárabe (musulmano spagnolo) o ebreo che conosceva sia l’arabo sia il volgare romanzo traduceva in volgare, e poi il testo volgare veniva ritradotto in latino e magari controllato per lo stile da qualche letterato26. La stessa tecnica del resto era stata adoperata dai traduttori dal greco in arabo (in genere in questo caso l’intermediario era il siriaco). Questo sistema spiega sia le parole arabe più o meno corrotte entrate nella traduzione (e poi in genere nella cultura medievale) sia alcuni tipici errori, come qualcuno che vedremo fra poco Per quel che riguarda la matematica, è fra l’altro di Gherardo la traduzione dell’Algebra di al-Khuwarizmi col titolo Liber Mahumeti filii Moysi Alchoarismi de algebra et almuchabola, che fra l’altro introdusse in Europa le parole algebra e almuchabola, quest’ultima poi scomparsa dall’uso. Si tratta di corruzioni di due termini tecnici al-giabr e al-muqabala. Il primo, che letteralmente significa «mettere a posto (un osso)», «aggiustare», si usa tecnicamente per indicare il procedimento per cui da una equazione come 2x2 + 100 – 20x = 58, si passa a 2x2 + 100 = 58 + 20x rendendone tutti positivi i termini. La muqabala (letteralmente «mettere in opposizione» o comparazione fra quantità) equivale alla nostra riduzione dei termini simili; così ad esempio una equazione come 6x2 + 60 + 12 = 2x2 + 36x si trasforma in 4x2 + 72 = 36x. Abbiamo già visto, nel caso dell’equazione cubica risolta per approssimazioni successive da al-Biruni, che c’è poi l’altro procedimento che si chiama hatt o radd (abbattimento, scaricamento): in questo caso, dividendo ambo i membri per 4 si ha x2 + 18 = 9x. Altri termini rimasero a lungo nell’algebra europea come calchi: così «censo» (quadrato dell’incognita) che traduce l’arabo mal, e «cosa» (shai’) in italiano e «res» in latino per l’incognita. Per molto tempo in tedesco l’algebra fu conosciuta, con termine... italo-arabo, come Regel Cos («regola o arte della cosa»). A loro volta, poi, i termini arabi sembrano calchi del sanscrito27. Il termine Algebra, nel senso di scienza delle equazioni, tuttavia, venne usato in Europa solo nel xiv secolo, e a lungo rimase in certe lingue europee il valore medico del termine: nel Don Chisciotte di Cervantes troviamo ancora algebrista nel senso di accomodatore di ossa, medico. Al-Khuwarizmi parla anche di radici «sorde» (gidhr asamm) ad indicare i numeri irrazionali. Asamm «sordo» traduce il termine alogos, interpretato come «inesprimibile a parole» anziché come «irrazionale». Tale errore di traduzione arabo permane in Gherardo da Cremona, che ha letteralmente surdus, e il termine restò fino al xviii secolo, invece del più esatto irrationalis. È di Gherardo da Cremona anche la traduzione di un testo matematico di uno dei tre fratelli Banu Musa (che furono anche astronomi) e precisamente Ahmad ben Musa, attivo al tempo del califfo abbaside al-Ma’mun in Iraq nel ix secolo, di cui, dopo quella di Gherardo, esiste solo una recente traduzione russa. Il vero titolo dell’opera è Il libro della conoscenza delle figure piane e sferiche (Kitab ma frifai al-ashkàl al-basitah wa ’l-kurriyyah) ed è la prima opera della letteratura islamica dove appare l’antico procedimento greco di esaustione, l’antenato del calcolo infinitesimale, anche se utilizzato talora in maniera scorretta. Il titolo che gli diede Gherardo da Cremona è Verba filiorum Moysi filii Sekir (Ibn ash-Shakir).
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Esso è importante perché introduce per la prima volta in Occidente le seguenti nozioni: a) la prova della prima proposizione del De mensura circuii di Archimede, diversa da quella di Archimede stesso, ma basata anch’essa sul metodo di esaustione28. Il De mensura circuii archimedeo era noto agli Arabi nella ottima versione di Thabit ibn Qurra, che è basata su un testo greco diverso e migliore di quello che oggi possediamo; b) determinazione del valore di π29 anch’esso ispirato a Archimede e stabilito, qui, fra 3 10/71 e 3 1/7; c) il teorema di Erone o formula di Erone (dimostrata) per l’area del triangolo in funzione dei lati: A2 = s (s – a) (s – b) (s – c) dove A è l’area, r il semiperimetro, e a, b, e c i lati del triangolo; d) l’area e il volume del cono; e) l’area e il volume della sfera; f) una formula per l’area del cerchio (Tir2) che si aggiunge a quella archimedea 1/2 cr dove c è la circonferenza e r il raggio; g) lo studio del problema di trovare due medie proporzionali fra due quantità date (problema equivalente a quello della duplicazione del cubo e che non è risolubile con riga e compasso perché porta a una equazione di 3° grado) e di cui si hanno due soluzioni «meccaniche», una attribuita a Menelao (la stessa che viene attribuita a Archita nel commento di Eutochio a Archimede)30 che i Banu Musa presentano come propria ma che è identica a quella attribuita a Platone da Eutochio (tale soluzione resta alquanto misteriosa perché, pur essendo attribuita a Platone, la si ritrova solo in Eutochio e, nella sua pura meccanicità, sembra difficile che sia opera del grande assertore della purezza della geometria)31; h) la prima soluzione in latino al problema della trisezione dell’angolo, che ricorda quella archimedea; i) un metodo per estrarre radici cubiche con tutta l’approssimazione che si voglia. Questa versione di Gherardo da Cremona l’abbiamo menzionata in modo particolare perché Archimede sta agli inizi del processo che porterà al calcolo infinitesimale, e questa versione dall’arabo introduce per la prima volta procedimenti archimedei in Occidente, dove ebbe grande diffusione: fu utilizzata da Fibonacci nella sua Practica Geometriae, mentre quasi tutti i matematici europei si ispirano ad essa fino al Rinascimento. È opera del resto anch’essa di due italiani, Gherardo da Cremona e Platone da Tivoli o Tiburtino (11341145)32, la traduzione dall’arabo del De mensura Circuii di Archimede secondo la già citata ottima versione di Thabit ibn Qurra. Un’altra interessante linea di sviluppo arabo-europea è quella che, partendo dalle considerazioni del famoso astronomo e matematico Nasir ad-Din at-Tusi (m. 1274) (che sviluppa in modo diverso idee già presenti in ‘Omar Khayyam, che era però sconosciuto all’Europa medievale) sul postulato euclideo delle parallele (il v), porta fino agli sviluppi contenuti nell’Euclides ab omni naevo vindicatus del P. Gerolamo Saccheri (1667-1733) e, quindi, anche se per così dire involontariamente, alle moderne geometrie non-euclidee. Come dicemmo, nel passaggio all’Europa, l’opera di ‘Omar Khayyam (il poeta e matematico persiano
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dell’xi sec.) non ha alcun ruolo, perché fu pubblicata per la prima volta nel testo arabo a Teheran nel 193633. Ben diversa fu invece l’importanza che ebbe in questo passaggio l’edizione romana del testo arabo Euclidis Elementorum Geometricorum Libri xiii ex tradizione dottissimi Nassireddini E asini nane primum arabice impressi (Tipografia Medicea, 1594) di cui nel 1657 si pubblicò, anche a Roma, una traduzione incompleta. La tentata dimostrazione di Tusi del v postulato, quello delle parallele, ivi contenuta, era nota a J. Wallis34 e a Gerolamo Saccheri. E vi si trova, identico, il quadrilatero famoso poi come «quadrilatero di Saccheri» e che andrebbe forse meglio chiamato «quadrilatero di Tusi» (o di Khayyam, che anche ne presenta un modello simile). Il quadrilatero, formato da una retta data AB, dalle perpendicolari uguali AC e BD elevate alle due estremità e dalla retta CD, serve a esaminare la possibilità che gli angoli in C e in D siano ottusi, acuti o retti. Saccheri, basandosi su Tusi, che crede di aver dimostrato (ma in realtà viene ad usare un altro postulato praticamente identico a quello che vuol dimostrare) che essi debbano esser retti, tenta in modo particolarmente acuto di purgare «Euclide da ogni neo». Con Loba/evski, Bolyai e altri solo nell’800 si è provato che tale dimostrazione è insussistente e che sono possibili geometrie consistenti e logiche anche senza il v postulato. Resta comunque l’acutezza dei matematici arabi nel porre la questione, che avrebbe portato alle geometrie moderne che hanno reso esprimibili matematicamente alcune delle idee più ardite della fisica relativistica.
Astronomia e scienze affini L’atteggiamento generale dell’astronomia araba è quello con la solita lucidità così delineato da C.A. Nallino35: «In tale stato di cose il primo fine che gli astronomi arabi dovettero proporsi fu la revisione di tutti gli elementi tolemaici dei moti celesti, senza la quale era impossibile far progredire la scienza: non era il tempo di escogitare teorie nuove, perfettamente inutili perché del tutto arbitrarie, ma di raccogliere gli indispensabili elementi di fatto mediante osservazioni ininterrotte e assai più accurate di quelle dei Greci. Quest’ufficio, il solo possibile in quella condizione di cose, fu compiuto dagli astronomi musulmani in modo meraviglioso; tanto che in Europa bisogna arrivare al tempo di Tycho Brahe (1546-1601) per trovare osservatori e osservazioni paragonabili a quelli del medioevo musulmano. D’altra parte, fondando la trigonometria nel senso moderno e portandola a un altissimo grado di sviluppo, fornirono la scienza astronomica di un eccellente strumento di lavoro». Come abbiamo accennato, un aspetto caratteristico dell’opera di molti astronomi arabi è l’interesse per il cielo in quanto entità fisica, anche a prescindere dai modelli geometrici ideati da Tolomeo per «salvare i fenomeni». Ma non è forse questo quello che più colpì il medioevo cristiano, e il principale contributo alla storia dell’astronomia e al passaggio culturale Arabi-Europa lo diede proprio la traduzione dell’Almagesto di Tolomeo36 che, anche in questo suo nome, usuale fino ad oggi, rispecchia e quasi simboleggia il debito scientifico dell’Europa verso gli Arabi. È noto che
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Gherardo da Cremona andò a studiare in Spagna proprio al fine di trovare l’opus magnum di Tolomeo, la Megále Sýntaxis o Megíste Sýntaxis che non riusciva a rintracciare nell’Europa cristiana. Per uno strano caso, che egli non sospettava nemmeno, la prima traduzione latina di quest’opera, fatta direttamente dal testo greco, era stata prodotta in Sicilia37 quindici anni prima dell’anno in cui egli completò la sua (1175). Essa finì comunque per rimpiazzare la prima, rimasta poco nota, e diede all’opera tolemaica in Europa il nome di Almagesto che deriva dall’articolo arabo al-preposto a una corruzione araba del greco Megíste (Syntaxis) al-Magisti o, secondo altri, preposto a una corruzione di Megále Sýntaxis38. La traduzione di Gherardo deriva da quella araba – a sua volta fatta col sistema della doppia traduzione cui abbiamo accennato – di al-Haggiag ibn Yusuf (827). Ma importantissima in tutto il medioevo occidentale fu anche la traduzione del Kitab fi giawami‘ ilm an-nugium («Il libro delle nozioni elementari attorno alla scienza degli astri») dell’astronomo arabo del ix secolo al-Farghani, storpiato latinamente in Alfraganus. Il libro fu tradotto sia da Gherardo da Cremona sia da Giovanni di Siviglia. La versione di Giovanni fu stampata a Ferrara per la prima volta nel 1493; quella di Gherardo fu adoperata da Ristoro d’Arezzo nel 1282 e da Dante (Convivio ii, 6) e si intitola Liber de aggregationibus scientiae stellarum (onde il titolo usato da Dante) perché il traduttore prese il vocabolo giawami‘ nel suo senso più comune anziché nel senso tecnico di «nozioni elementari». Una versione ebraica fu fatta dall’arabo (ma tenendo sott’occhio anche la latina di Giovanni) da Jacob Anatoli o Antoli che viveva a Napoli nella prima metà del xiii secolo, ed era uno dei traduttori stipendiati di Federico ii, e fu poi pubblicata con versione latina nel 1590. Del testo arabo, già nel 1669, fu stampata un’edizione a cura dell’erudito danese Golius a Amsterdam. Il manuale esercitò un’influenza enorme in Occidente fino all’epoca del Regiomontano (1436-1476). Come dice il Vernet39, è in un esemplare dell’Imago Mundi di Pietro d’Ailly, conservata nella Biblioteca Colombina, che Cristoforo Colombo scrisse di suo pugno una glossa nella quale accetta la misura del grado di meridiano data da al-Farghani, che è poi quella ottenuta dagli astronomi di al-Ma’mun, cioè 56 2/3 miglia. Colombo afferma (la glossa fu probabilmente scritta prima della scoperta dell’America), che «navegando de Lisboa hacia el sur de Guinea he observado con cuidado el trayecto que hacen los capitanes y los marinos; he tornado la altura del sol con el cuadrante y otros instrumentos en varios sentidos, y he encontrado que concordaba con los datos de Alfragano, es decir que a cada grado corresponden 56 2/3 millas...», il che equivaleva a sua volta, dando a un miglio il valore che aveva al tempo di Colombo, cioè assai minore di quello attribuitogli dagli Arabi40, ad avvicinare molto le coste occidentali d’Europa, e spiega perché, quando toccò terra, Colombo credeva di essere giunto alle Indie. Ecco dunque un tipico caso di influenze e controinfluenze arabo-europee: arabo era al-Farghani, italiani il suo traduttore Gherardo da Cremona e Cristoforo Colombo... Tornando all’Almagesto di Tolomeo, abbiamo accennato già al gusto arabo per la precisione. Molte infatti furono le correzioni apportate dagli Arabi all’Almagesto e introdotte in Europa attraverso vari traduttori. Oltre all’esempio, menzionato prima, dello spostamento in longitudine dell’apogeo del Sole, idea introdotta attraverso la traduzione di al-Battani ad
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opera di Platone di Tivoli (xii sec.), bisogna aggiungere, sempre a proposito di «precisione», che l’arabo spagnolo az-Zarqali (in Europa Azarquiel, sec. xi), paragonando le osservazioni di varie epoche, giunse a quella che l’astronomo italiano M. Cimino41 chiama «forse la gemma più preziosa dell’astronomia araba». Conoscendo cioè che in 299 anni giuliani l’apogeo del Sole aveva mostrato, a parte la precessione degli equinozi, un moto proprio di 1°, trovò che esso si spostava di 12,04” l’anno (il valore attualmente accettato è di 11,46”). Le tavole astronomiche di az-Zarqali (Tabulae Toletanae) furono tradotte da Gherardo da Cremona, con aggiunte di materiali di altre fonti. Ne esistettero moltissimi manoscritti latini, uno dei quali era posseduto da tal Ramón, autore delle Tablas de Marsella nel 1140. I risultati di az-Zarqali vi furono inclusi e, più avanti nel tempo, furono conosciuti da Roberto Grossatesta (m. 1253) e da Ruggero Bacone (m. 1294). La spiegazione teorica del fenomeno mediante il solito modello a epicicli fu sviluppata da Regiomontano (m. 1476) che ne dedusse che l’orbita del Sole, come quella di Mercurio, secondo az-Zarqali, aveva una forma ovale (da non confondere con ellittica!) e le sue idee furono accolte da Copernico42 e, dapprincipio, da Keplero, che poi passò alla più precisa ipotesi ellittica con la sua prima legge. Abbiamo parlato di Tabulae. Si distingue fra Tabulae, che traduce l’arabo zig (a sua volta derivato dal medio-persiano zig), che danno appunto tavole per calcolare le posizioni dei pianeti partendo da una qualsiasi epoca, e almanacchi43 che sono qualcosa di simile alle nostre effemeridi, con la posizione dei pianeti per date fisse. Ambedue i tipi includono, oltre alle tavole vere e proprie, una spesso dettagliata introduzione, in cui se ne spiega l’uso, e che è talora un vero e proprio trattato di astronomia sferica. È per esempio, uno zig l’opera già citata di al-Battani, e anche un zig, sia pure con amplissime elucidazioni trigonometriche, di astronomia sferica ecc., si può considerare l’ampio Canone di al-Biruni. La grande frequenza di traduzioni latine di tabulae e almanacchi arabi è da spiegare anche con la utilità che esse avevano per poter fare oroscopi astrologici: in genere l’ultima parte include prolegomeni di astronomia sferica all’astrologia (divisione in case ecc.). La fama scientifica di az-Zarqali rimane alquanto offuscata, forse per avere egli sostenuto la teoria (molto diffusa attraverso traduzioni dall’arabo anche in Europa) nota come trepidatio, o movimento di va e vieni degli equinozi. Come è noto gli antichi, sin da Ipparco (ii sec. a.C.), conoscevano il moto di precessione degli equinozi, ponendolo a 1° ogni cento anni, e così gli astronomi arabi, che anzi ne precisarono l’entità, aumentandola, con al-Battani, a 1° ogni 66 anni. Ma a un certo momento, probabilmente per influsso di astrologò4, si pensò che l’intersezione dell’eclittica con l’equatore non retrogradasse indefinitamente, ma possedesse un moto oscillatorio di 8° attorno ai punti equinoziali. Tale teoria ebbe gran voga (pur fra i dubbi dei migliori astronomi) anche in Europa, dove venne definitivamente sconfitta solo da Newton (anche se Tycho Brahe e Keplero ne dubitavano, la accettarono un Copernico e un Galilei), ma non fu seguita da tutti gli astronomi arabi, che anzi è da assegnare a vanto di un al-Battani o di un al-Biruni e di altri non averla approvata. Essa fu introdotta in Europa attraverso la traduzione latina, dal titolo De motu accessionis et recessionis, di un’opera di
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Thabit ibn Qurra (sec. ix) fatta da Gherardo da Cremona. Ma Thabit non ne è l’inventore, come per molto tempo si pensò, bensì la teoria risale all’epoca di Proclo e di Teone Alessandrino (sec. v d.C.) e alle Tavole Manuali di quest’ultimo, che erano conosciute dagli Arabi già al principio del sec. ix. Tolomeo invece si limita ad accettare il valore ipparcheo della retrogradazione degli equinozi di 1° ogni 100 anni. «Ma – come dice il Vernet46 . Thabit ibn Qurra era uno scienziato e voleva spiegare la realtà, adattarla alla teoria. E così, conoscendo la teoria della trepidazione... e rendendosi conto che le posizioni ottenute col calcolo non concordavano con quelle osservate, stabilì un trattamento rigoroso del calcolo stesso. Questo modello fu introdotto da Gherardo nel mondo latino, e da esso si deduceva che il valore dell’obliquità dell’eclittica doveva variare col trascorrer dei secoli. Così da una teoria falsa si otteneva un risultato vero, che la osservazione indicava, ma di cui nessuno si era reso conto». V osservazione accurata aveva infatti dato agli Arabi la possibilità di calcolare in modo assai esatto la variazione secolare dell’obliquità dell’eclittica, confrontando le loro osservazioni con quelle degli antichi. Come nota W. Hartner47, gli astronomi musulmani si interessarono molto presto a questo problema della variazione dell’obliquità dell’eclittica, che diminuisce di solo mezzo secondo d’arco l’anno all’incirca. Secondo l’astronomo Ibn Yunus (m. 1009) la prima misura dell’obliquità dopo quella di Tolomeo (che la trovò di 23°51’) fu fatta già nel 776 dagli Arabi e diede il valore di 23°31’ (4’-5* più basso del vero valore per quell’epoca); altre misurazioni posteriori, nel sec. ix, diedero valori vicini a 23°33’; al-Battani, tradotto, lo ripetiamo, in latino da Platone di Tivoli, alla fine del ix e agli inizi del x secolo, trova un valore di 23°35’, assai esatto, e spiega anche il metodo con cui lo ottenne48. Molte sono le precisazioni a Tolomeo, entrate, per tramite di traduzioni latine, in Europa attraverso gli Arabi. Basti fra l’altro pensare che – attraverso la traduzione delle tavole di a al-Battani – divenne nota al mondo latino la variazione annua del diametro apparente del Sole, negata da Tolomeo, e che rende possibili le eclissi anulari. L’unica eclisse anulare osservata dagli antichi è quella del 4 settembre 164, visibile a Atene e a Rodi, osservata da Sosigene, autorità della scuola peripatetica dell’epoca, ma considerata impossibile nel v secolo da Proclo49. Sia al-Biruni a altri autori arabi50 attribuiscono la prima osservazione di un’eclisse anulare in Islam nell’873 al dotto persiano al-Iranshahri, dei cui scritti disgraziatamente non possediamo nulla. Abbiamo menzionato solo alcuni degli innumerevoli punti nuovi e delle correzioni a Tolomeo introdotte in Europa, attraverso varie traduzioni. A mostrare l’intricatezza dei rapporti basti ancora un solo esempio. L’Almanacco di az-Zarqali (1089) usa l’antico sistema babilonese, noto agli storici dell’astronomia babilonese come «sistema A. Maggiori51», per il quale l’orbita di un astro era divisa in vari settori entro i quali l’astro stesso si moveva con velocità uniforme. Ma az-Zarqali non fece altro, nel suo Almanacco, che rielaborare una edizione araba, di circa l’anno 800, di un’opera anteriore di Ammonio (m. 526). L’opera fu tradotta in latino nel 1154 da un certo Giovanni di Pavia (Johannes Papiensis) che adattò gli anni copti dell’originale arabo ad anni giuliani. Una traduzione posteriore, quella di Don Profeit Tibbon (1301) fu utilizzata da Dante per datare la Divina Commedia e forse anche da Chaucer52.
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Abbiamo già detto che un’altra direttrice dell’astronomia araba fu l’interesse per la costituzione fisica dei cieli. Come dice quasi con vanto al-Akfani (m. 1348), «gli antichi si erano sempre contentati, per la forma delle sfere, di cerchi astratti, finché Ibn al-Haitham espose apertamente la sua opinione che essi fossero corporei e espone la qualità e le disposizioni loro necessarie; poi lo seguirono altri»53. Ora è vero che sulla base della teoria tolemaica l’eccessivo interesse per la fisica dei cieli portava a assurdità, almeno ai nostri occhi moderni, ma conviene sottolineare il senso «fisico» dei musulmani, diverso dal geometrizzare dei Greci. Questo portò anche alcuni di essi a interessarsi in modo particolare alla questione delle distanze dei corpi celesti. Il trattato di al-Farghani, già tradotto, come vedemmo, nel 1134, conteneva descritta in modo assai chiaro la teoria delle distanze celesti basata su quelle Hypotheses Planetarum di Tolomeo, che erano ben note agli Arabi, che anzi diedero loro una importanza forse maggiore di quella che gli attribuiva lo stesso autore. Si tratta, come è noto, di partire dalla distanza assoluta e conosciuta dell’astro più vicino, la Luna, per dedurre quella degli altri, secondo il principio delle sfere a contatto, per cui la distanza massima dell’astro inferiore corrisponde alla distanza minima dell’astro superiore. L’opera dell’astrologo Campano di Novara, cappellano del papa Urbano iv, spiega questo sistema da lui conosciuto appunto attraverso al-Farghani54. Altri astronomi, (o piuttosto cosmologi e filosofi) arabi si vennero rendendo conto che il sistema tolemaico in uso non rispettava i postulati della fisica celeste di Aristotele. Furono soprattutto filosofi e cosmologi della Spagna musulmana a insistere su quest’aspetto della critica a Tolomeo, in nome di una ortodossia aristotelica, soprattutto Averroè e il suo discepolo al-Bitrugi (Alpetragius) le cui opere furono presto tradotte in latino. La traduzione latina (Venetiis 1531), fatta dall’ebraico, è piuttosto oscura. Quella latina, fatta a Toledo nel 1217 da Michele Scoto (m. 1236), l’astrologo di Federico ii nominato da Dante55, rimase manoscritta. Il testo arabo è stato ora edito e tradotto in una lingua moderna56. Il De Coelo (et Mundo) (il De Mundo è un’aggiunta apocrifa all’autentico De Coelo aristotelico e fu noto in Europa attraverso la traduzione dall’arabo) di Aristotele era stato tradotto da versioni arabe da Gherardo da Cremona, e furono tradotte anche l’Astronomia di Alpetragio e il Commentario medio di Averroè al De Coelo, da Michele Scoto, attorno al 1217. Così si reintroduce, accanto al sistema fisico ma tolemaico di al-Farghani e Ibn al-Haitham, anche una proposta che spiegava i fenomeni certo peggio di quella tolemaica, quella delle sfere omocentriche di Eudosso. Tuttavia, secondo molti storici della scienza, fu proprio da queste critiche radicali a Tolomeo che, sia pure in senso diverso, fu influenzato un Copernico57. Ma Alhazen o Ibn al-Haitham fu anche un vero e proprio fisico. Famosissima in tutto il medioevo fu la sua Ottica (1039) o Kitab al-manazir, tradotta anch’essa in latino dall’infaticabile Gherardo da Cremona. L’Opticae Thesaurus di Alhazen è uno dei libri più importanti della scienza araba e influenzò moltissimo il medioevo occidentale. Dato che Alhazen, nella sua opera, aveva utilizzato il De Aspectibus di al-Kindi (m. 873) (tradotto anch’esso da Gherardo) che a sua volta aveva come fonti Euclide, Erone e Tolomeo, alla fine del xii secolo l’Europa conosceva, attraverso gli Arabi, le principali teorie ottiche dell’antichità. Alhazen
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difende una delle tre teorie antiche sulla visione e sulla natura della luce, e proprio quella più vicina alla verità, secondo la quale la visione avveniva non per emissione di raggi dagli occhi (Aristotele e Euclide), bensì perché gli occhi ricevevano i raggi emessi o riflessi in tutte le direzioni dai corpi. Ammise che l’immagine nella retina (termine che anch’esso, sia detto en passant, è un calco arabo da shabakiyyah) si sarebbe dovuta presentare invertita, come aveva potuto osservare con i suoi esperimenti nella «Camera oscura» (anche questo calco dell’arabo bait muzlim). Dalla permanenza delle immagini sulla retina sostenne anche la natura materiale della luce contro Aristotele. Alcune di queste idee influirono sullo scienziato medievale Biagio Pelacani da Parma (1345-1416), ma Alhazel sostiene anche che la luce della Luna procede da quella del Sole, analizza la visione binoculare e tratta delle leggi della riflessione risolvendo il complicato problema che ancor oggi è noto con il suo nome, e che portava a una equazione di 4° grado, che egli risolveva geometricamente mediante intersezioni di coniche, problema che interessò più tardi Leonardo da Vinci (che lo risolse meccanicamente) e altri fino a Huygens; tratta le illusioni ottiche e le leggi della rifrazione, rendendosi conto che la relazione fra angoli di incidenza e di rifrazione non è costante, e precorrendo così di cinque secoli Snell e Descartes58. Giunge assai vicino alla scoperta della lente («Se lo scritto è piccolo – dice – può aumentarsi e leggersi più facilmente guardando attraverso una sfera di vetro piena d’acqua»); sembra giungere alla conclusione che la luce non ha una velocità infinita, come pensava Avicenna, ma finita benché grandissima59, ecc. Ma, oltre a questo, secondo lo Schramm, egli fu il primo a porre modelli matematici per lo studio della fisica, cosa che ne fa appunto un precursore della metodologia fisica moderna.
Astrologia L’Europa deve molto agli Arabi anche nel campo di quella (pseudo) scienza che, fino a Keplero, l’Europa stessa considerò una scienza. Si può anzi dire che buona parte della astrologia medievale e occidentale sia una scienza tipicamente araba. Per non fare che un solo esempio, furono gli Arabi a sviluppare il concetto di casa (in greco topos, in arabo bait, dal cui calco viene il nostro domus, casa) che Tolomeo nel suo Tetrabiblos praticamente ignora60 dando importanza soprattutto ai quattro cardines (arabo autad, cardini o pioli della tenda), cioè l’Ascendente, il Discendente, l’Imo Cielo e il Medio Cielo. Del resto il Tetrabiblos stesso di Tolomeo fu conosciuto dall’Occidente attraverso la versione di Platone di Tivoli (1138), probabilmente fatta su quella araba di Ibrahim ibn as-Salt, rivista da Thabit ibn Qurra61. Lo stesso dotto tiburtino tradusse il Centiloquium (in arabo Thamara, in greco Karpós, raccolta di 100 aforismi attribuiti a Tolomeo62, e il De revolutionibus nativitatum di Abu Bakr ibn al-Khasib (fi. 800) seguita più tardi dalla versione di un altro italiano, Salio da Padova (1218)63. Quello che gli Europei maggiormente richiedevano all’astrologia araba erano, in primo luogo, i judicia nativitatum o vero e proprio oroscopo personale, che include
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la conoscenza dell’ascendente (dipendente dalla latitudine del luogo e dall’ora della nascita) con relativi procedimenti per rettificare l’ora nel caso non si conosca con precisione (uno dei metodi era noto con vocabolo persiano arabizzato corrotto come animodar da an-numudar); inoltre una astrologia politico-mondiale basata su grandi cicli e congiunzioni di astri lenti; e una «interrogativa», basata sulle electiones (calco dall’arabo ikhtiyarat) che calcola cioè il momento appropriato per cominciare un’azione qualsiasi in modo che sia favorevole la congiunzione astrale, o determina come andrà a finire una cosa basandosi sull’oroscopo dal momento in cui si fa la domanda. Esistono così anche oroscopi di città basati su veri o presunti momenti di fondazione. Moltissimi sono i vocaboli dell’astrologia latina derivati per prestito diretto (con termine arabo più o meno storpiato) o per calco dall’arabo o anche, per suo intermediario, dal persiano. Uno dei più curiosi, studiati dal Nallino64, che lo ritrova nella Colcodea di Avicenna menzionata da T. Campanella, è alcochoden, che non è altro che la storpiatura dell’arabo-persiano al-kadkhudah «il padrone di casa» (greco oikodespótesf nome dato al pianeta dominante la vita del soggetto; o ataçir che non è che l’arabo at-tasyir usato anche nel calco directio (direzione planetaria), uno dei più complicati procedimenti dell’astrologia araba; o hyleg dall’arabo hailag (a sua volta derivato dal medio-persiano hilag che traduce il greco aphétes), luogo cioè di partenza per la già citata directio che, se si individuava bene l’hyleg, serviva anche a calcolare gli anni di vita possibili del soggetto. Revolutiones nativitatum traduce alla lettera l’espressione araba tahwil sini’l-mawalid ed era un sistema di oroscopo progressivo che consisteva nel rifare un oroscopo nell’anniversario della nascita del soggetto; si trattava cioè di trasformare l’anno civile in anno tropico. Se ad esempio, un tale era nato il 29 maggio 1200 alle ore 17,45 col Sole nel grado x dell’eclittica, si chiedeva il momento di tempo in cui nell’anno, diciamo 1226, cioè a 26 anni compiuti del soggetto, il Sole sarebbe ritornato allo stesso punto eclittico. Se si tratta non della vita umana ma delle vicende di città, popoli, dispensazioni religiose, ecc., tale calcolo si chiama tahwil sini’l-‘alam, «revolutio annorum mundi». Esiste su questo argomento un’opera attribuita a Hermes Trismegistus che è considerata da autorevoli orientalisti come la prima traduzione di un testo greco in arabo, essendo datata (secondo me falsamente) 125 H. – 743 a.D. Sarebbe cioè stata fatta in periodo Omàyyade! La projectio radiorum è anche un altro calco dall’arabo che a sua volta traduce il greco aktinobolia, e così via. La caratteristica degli astrologi arabi rispetto ai greci sembra sia stata, anche in questo caso, la ricerca della massima precisione matematica: qualche autore arabo anti-astrologico sostiene che, anche ove si ammetta la realtà dell’ipotesi di base astrologica (che è poi quella della corrispondenza microcosmo-macrocosmo), i calcoli sono così complessi che raramente si può raggiungere la precisione necessaria. Albumasar (Abu Ma‘shar m. 886) nel suo Kitab al-mail fi tahwil sini’ l-mawalid (De revolutionibus nativitatum)65 risponde alla antica critica anti-astrologica formulata già da sant’Agostino sui gemelli o su due bimbi nati nello stesso luogo e nello stesso istante e che dovrebbero avere, mentre l’esperienza dimostra che spesso non hanno, lo stesso destino, dando la colpa di questa discrepanza agli errori matematici commessi nei procedimenti di oroscopo progressivo di cui abbiamo sopra parlato.
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Tale precisione si vede anche nella preoccupazione degli astrologi arabi nel fissare il più esattamente possibile le case astrologiche: esistevano numerosi sistemi per determinarle, uno dei quali (fra i meno usati) proponeva case uguali, altri case diseguali ma calcolate in modi diversi. L’astrologo italiano Campano di Novara già citato e Guido Bonatti hanno discusso nelle loro opere queste sottili questioni di cosmografia astrologica, ai quali dei capitoli sono dedicati anche nei trattati di vera e propria astronomia (nel Canone di al-Biruni, nell’opera di al-Battani e in altri). Anche il problema della proiezione dei raggi mostra, nella propedeutica astrologica che è contenuta in quasi tutti i trattati di astronomia, una tendenza alla precisione che sembra talora fine a se stessa, dato che, ad esempio, la projectio viene considerata anche quando il pianeta ha una latitudine eclittica sensibile che comunque, essendo sempre piuttosto piccola, influenza il calcolo di una quantità spesso inferiore a un grado! Al-Battani nel suo Opus Astronomicum66, e altri, vi dedicano un apposito capitolo. Accanto a questa astrologia matematica di precisione, gli Arabi, mostrando una notevole tolleranza teologica, produssero anche opere di astrologia magica, come il Picatrix (nome medievale latino dell’opera, che sembra derivi da una storpiatura di Buqratis, a sua volta corruzione araba di Hippocrates) attribuita a torto all’astronomo al-Magriti (m. ca. 1008) ma a lui alquanto posteriore, e scritta da un astronomo non molto abile dato che, come ha fatto notare W. Hartner67, contiene qualche grossolano errore astronomico. Picatrix sarebbe il nome del presunto traduttore dell’opera, che era già stata tradotta in castigliano nel 1256. Ma il Picatrix contiene anche concetti interessanti: così ce l’idea di un etere immobile che, malgrado il nome, non è l’elemento che circonda la terra, bensì un cielo immobile al di là anche del nono cielo, simile all’Empireo di Dante (Convivio ii, 4: «quello decimo cielo divinissimo e quieto...»), anche se poi, incongruamente, è identificato con le stelle e il calore. Il Picatrix è anche uno dei primi esempi di discussione sulla questione se nelle precisioni astrologiche debbano considerarsi validi i segni zodiacali (burug) o le costellazioni reali, problema che si pose agli astrologi dopo la scoperta della precessione degli equinozi e che fu risolto, come è noto, da Tolomeo in favore dei puri enti geometrici (i segni). L’abbondante uso di talismani misteriosi e di preghiere vere e proprie agli dèi-astri fa di questo libro, che ispirò molti trattati medievali europei di magia e, più alla lontana, Marsilio Ficino e l’ermetismo del Rinascimento ivi incluso Giordano Bruno, uno dei più sconcertanti esempi di tolleranza islamica. Uno dei più completi trattati astrologici dell’Europa medievale è quello dell’italiano Guido Bonatti da Forlì, contemporaneo di Federico ii, che pare avesse fra i suoi colleghi un arabo di Baghdad considerato un eccezionale maestro dell’arte astrologica. Scrisse un Tractatus Astronomiae in dieci libri68, morì vecchissimo verso il 1296 ed è menzionato da Dante fra gli indovini69 e da altri scrittori contemporanei; Filippo Villani ne scrisse una Vita. Bonatti si inserisce anche fra i difensori dell’astrologia e della sua precisione dal punto di vista religioso, e la sua opera è chiaramente influenzata da elementi arabi. Del resto tali polemiche sulla ortodossia e sulla esattezza dell’astrologia sono anch’esse un riflesso di quelle già frequenti nel
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mondo arabo-islamico, che videro grandi maestri pro e contro l’astrologia; è comune sia nel trattato di Bonatti sia a molti testi arabo-islamici il paragone fra l’astrologo e il medico, sulla esattezza dei cui responsi si elevavano ugualmente dei dubbi. L’interesse per la precisione e per l’osservazione, che abbiamo visto tipico degli Arabi, non poteva non concentrarsi nella costruzione e nell’uso di strumenti il più accurati possibile per quell’epoca e in quelle condizioni della tecnica. Tolomeo nell’Almagesto si limita ad accennare al quadrante, alla sfera armillare (che chiama astrolabon, ma da non confondere con l’astrolabio sferico) e al triquetro o «organo parallattico». È noto come gli Arabi furono magistrali costruttori di astrolabi piani. L’astrolabio piano, l’astrolabio per eccellenza, è basato sulla teoria della proiezione stereografica, che ha il pregio di conservare gli angoli e che si fa risalire a Ipparco (150 a.C.). Sembra certo che anche Tolomeo conoscesse l’astrolabio piano, ma non si hanno esempi di astrolabi greci, né descrizioni precise dei medesimi. È pertanto indubbio che i perfezionatori dell’astrolabio, che è stato definito un «calcolatore analogico atto a risolvere tutti i problemi dell’astronomia sferica», furono i musulmani. I più antichi astrolabi arabi che ci siano rimasti risalgono alla seconda metà del iv sec. H. (= x sec. E.V.) e in Europa l’astrolabio piano fu conosciuto solo attraverso gli Arabi. In Italia se ne conserva uno, opera di Abu’r-Rabi‘ Hamid ben ’Ali al-Wasiti (cioè della città iraqena al-Wasit), famoso astrolabista, fatto nel 348 H. (= 959-60), già nel Museo Borgiano di Velletri e ora nel Museo Nazionale di Palermo70. Altri antichi astrolabi arabi conservati in Italia sono quello dello spagnolo Ibrahim ben Sa‘id del 1071, fatto da lui a Valencia, conservato nel piccolo ma interessante museo dell’Osservatorio Astronomico di Monte Mario a Roma, e altri dello stesso autore, di qualche decennio posteriori, che erano nel Museo Kircheriano di Roma e che ora non è chiaro dove si trovino. Lo stesso celebre costruttore valenciano (che visse a Valencia e Toledo) realizzò anche, con la collaborazione del figlio Muhammad e terminando il lavoro il 28 maggio 1085, un globo celeste per un importante personaggio politico, globo che ora si trova nel Museo di Storia delle Scienze di Firenze. Più tardo, ma anch’esso prezioso perché, secondo il Sarton (cit. in Mieli, op. cit. a p. 154), è uno dei cinque più antichi globi celesti provenienti dal mondo arabo-islamico, è quello conservato nel Museo Nazionale di Napoli e opera del famoso architetto e matematico egiziano Qaisar ibn Abu ’1-Qasim (1178/91251) che lavorava al servizio degli ayyubiti di Siria, dinastia indipendente dai califfi. Costruì anche altri strumenti: il globo di Napoli è di ottone e fu costruito nel 622 H. (= 1225) per ordine del sovrano ayyubita al-Malik al-Kamil, lo stesso «soldano»71 alla cui «presenza superba», a Damietta, predicò S. Francesco d’Assisi72. Tali astrolabi furono poi il modello su cui si basarono i vari astrolabisti europei: esistono anche astrolabi misti con cifre latine e parziali scritture arabe. Del resto gli Arabi furono precursori anche nella costruzione di strumenti per la misura del tempo. A parte le numerose meridiane, vanno menzionati vari tipi di «planetari», strumenti che mostrano il volgersi dei pianeti con movimenti a ingranaggio, orologi ad acqua o altri strumenti. Esistono poi i cosiddetti «equatorii» che,
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anziché mostrare didatticamente il moto dei pianeti, tentano di ottenere la posizione esatta dei medesimi per evitare il calcolo. L’orologio meccanico appare, secondo Price73, nel secolo xiv, non tanto come conseguenza dell’invenzione dello scappamento, ma come primo risultato di una lunga evoluzione indipendente del cosiddetto «orologio anaforico», vero astrolabio meccanico, e dei dispositivi a ingranaggi dai quali derivarono gli equatorii. L’unione di ambedue i sistemi e l’apparizione dello scappamento dopo il 1271 fecero il resto. Il primo orologio meccanico chiaramente descritto è quello dell’italiano (veneziano) Iacopo Dondi (1298-1355) che è famoso per il suo capolavoro, l’orologio a pesi, da cui l’intera famiglia prese il nome di Dondi Dall’Orologio. Ripetiamo che questi non sono che sondaggi quasi a caso nel materiale immenso a disposizione, per di più solo in parte studiato. Di primaria importanza, per esempio, sono la cartografia e l’arte nautica. Dice J. Vernet, uno dei migliori specialisti di storia della scienza (in particolare della navigazione) araba, nel suo più volte citato libro, che «forse uno dei maggiori servigi resi dagli Arabi alla cultura è la trasmissione all’Occidente di diversi elementi tecnici, di architettura navale (vela latina e timone di poppa), astronomici (determinazione di coordinate) e geografiche (carte nautiche) che avrebbero permesso la navigazione entro l’Atlantico»74. Oltre a questo gli Arabi, con le navigazioni fatte da essi stessi in zone poco note ai Greci, cioè nell’Oceano Indiano fino alle isole della Sonda e alla Cina, ampliarono notevolmente le conoscenze geografiche dell’antichità. Nel 1184 fu tracciata una carta perfezionata dell’Oceano Indiano, che raccoglieva le osservazioni pratiche dei marinai, da Isma‘il ibn Hasan ibn Sahl ibn Ãban. Ma non si sa con precisione se questa carta fosse munita di rete di coordinate. Tuttavia già nel 1184 si conosceva in Occidente il mappamondo di Idrisi, che accompagnava il Kitab Rugiar («Libro di Ruggero» in onore del re normanno Ruggero ii di Sicilia: il titolo vero e proprio è Kitab nuzhat al-mushtaq fi ikhtiraq al-afaq, «Liber ad eorum delectationem qui térras peragrare studeant») e che era diviso in climi nel senso della latitudine e in settori nel senso della longitudine. I climi (klímata, arabo iqlim) sono un’idea greca o forse già babilonese. Quanto alle longitudini, la loro origine era stata fissata già in età antica alle isole Canarie, ma alcuni astronomi e geografi arabi (per esempio al-Biruni) la posero a circa 10° più a est, alla estrema costa occidentale dell’Africa. Idrisi tracciò gli undici meridiani necessari per delineare le dieci sezioni di ogni clima. Si ebbe così, anche se l’idea è più antica, un rozzo sistema di quadrettatura. La trasmissione in Occidente di questa primitiva carta quadrettata si deve probabilmente al veneto Marin Sanudo (uno dei principali informatori di Paolo del Pozzo Toscanelli) e Nicolò de’ Conti. Non mancano influenze arabo-islamiche nel primo portolano del Mediterraneo, italiano, del xiii secolo, mentre la carta più antica conservata (la pisana) appartiene all’ultimo quarto del xiii secolo: ricordiamo fra l’altro che fu un arabo, al-Marrakushi (prima metà del xiii secolo) che, contro la esagerata ampiezza in longitudine del Mediterraneo voluta da Tolomeo (62° di longitudine!) ne dà una precisa di 42°30’, di poco diversa dalla reale75.
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Conclusioni In sostanza è nel periodo abbaside e, diciamolo pure, in epoca anche più tarda (si pensi al persiano Qutb ad-Din Shirazi che spiegò la vera essenza dell’arcobaleno col metodo moderno poco prima dell’europeo Teodorico di Freiberg) che si formano la scienza e la filosofia araba. Certo, come è stato acutamente notato da G. Levi della Vida76 «...la scienza – che fu invece nettamente distinta dalla religione e dell’origine straniera della quale l’Islam ebbe sempre coscienza – non riuscì nemmeno essa a svilupparsi come attività autonoma dello spirito in modo da imporre alla religione o l’acquiescenza o la condanna: dopo un breve intenso periodo polemico (che culmina con la negazione della capacità conoscitiva dell’intelletto non illuminato dalla fede, formulata dal più profondo pensatore religioso dell’Islam, al-Ghazzali) si stabilisce nella mentalità musulmana una curiosa ripartizione di attribuzioni tra scienza e fede, le quali seguono ciascuna la propria via senza interferire luna con l’altra; con l’ovvio risultato di sopprimere ogni impulso fecondo in ambedue e di immobilizzarla nelle loro posizioni tradizionali, non essendovi progresso colà dove non è contrasto e lotta». Forse si potrebbe aggiungere, appunto, che una delle cause del mancato sviluppo «moderno» del mondo islamico è che esso fu già moderno ante litteram nel medioevo, e gli mancò lo stimolo (alla Toynbee) di un establishment assai più reazionario come in Europa. Non si creò cioè quella contestazione da cui solo nasce il progresso. È vero che il modernista musulmano indiano Muhammad Iqbal scriveva nel 1930: «In fact, the verdict of modern Science is exactly the same one as that of the Ash’arite; far recent discoveries in physics regarding the nature of time assume the discontinuity of matter»77; ma è anche vero che una scienza «moderna» difficilmente nascerebbe là dove non può nascere una regolarità, l’idea di legge autonoma. Alla domanda che Socrate pone a Eutifrone nell’omonimo dialogo platonico: «E santo ciò che piace agli dèi, oppure agli dèi piace ciò che è santo?», l’Islam ortodosso ha risposto scegliendo il primo corno del dialemma. Ma con ciò si è forse precluso la via che ha portato a Galilei e a Newton. Fare un bilancio complessivo dell’influenza del pensiero arabo-islamico sul mondo europeo in epoca abbaside è forse prematuro. Se è alquanto esagerato dire, come fanno molti modernisti musulmani, che il rinascimento scientifico europeo si deve essenzialmente agli Arabi, è anche vero che, da un punto di vista scientifico e anche «tecnico», nel Medioevo il mondo islamico era un po’ mutatis mutandis, quello che l’America è per l’Europa ora: il mondo cioè al quale si attingevano le ultime novità scientifiche, gli ultimi ritrovati della tecnica. Ché infatti, lo ripetiamo, a mo’ di conclusione: sembra che l’originalità maggiore della cultura scientifica arabo-islamica abbia avuto un duplice aspetto; gusto per la precisione e senso sperimentale. Per concludere mi piace menzionare assieme due frasi significative di personalità che certamente non si conobbero, né, in questo caso, l’arabo influenzò l’italiano, intendo dire al-Biruni e Galileo Galilei. Sia il primo sia il secondo, benché religiosi, ebbero del Testo Sacro un’idea molto simile. Al-Biruni, a chi pretendeva che il Corano insegnasse idee astro-
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nomiche, rispondeva: «Se la gente dicesse che Dio, in quel versetto (Cor. ii, 183) intendeva insegnare all’umanità quale fosse il principio del giorno, ne seguirebbe di necessità che prima di quel momento gli uomini ignoravano quale fosse il principio del giorno e della notte, il che è assurdo... E come potremo noi credere una, cosa, il contrario della quale è evidente ai nostri sensi!...»78 E Galileo ben sei secoli dopo al-Biruni, che non fu certo condannato per questo, scriveva il 21 dicembre 1613 a Benedetto Castelli; a proposito di Giosuè che fermò il sole: «...Crederei che fusse prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno l’impegnar i luoghi della Scrittura e obbligarli in certo modo a dover sostenere per vere alcune conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potesser manifestare il contrario».
Note N. Daniel, The Arabs and Medieval Europe, Beirut-London 1975, p. 303. Ed. Meyerhof, Das Worwort zur Drogenkunde des Beruni, Berlin 1932, pp. 39-41 della traduzione e 12-13 del testo. 3 C. Boyer, Storia della Matematica, ed. it. Milano 1976, p. 269. 4 Cfr. D.A. King, recensione a S.H. Nasr, Islamic science. An illustrated study, in «Journal for the history of Astronomy», ix, 3, Ottobre 1978, p. 214. 5 Facilmente accessibili in H. Midonick, The treasure of Mathematics, ii, Harmondsworth, 1968, pp. 34 segg. Una comoda versione francese: P. Ver Eecke, Diophante d’Alexandrie, rist. Parigi 1959. 6 A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, ed. it. Torino 1967. 7 Cfr. W. Hartner, voce al-Battani in Dictionary of Scientific Biography, p. 510. 8 V. Schiaparelli, Scritti sulla storia dell’astronomia antica, iii, Bologna 1927, pp. 277-287. 9 Testo arabo in Kitab at-tamhid, ed. P.R.J. Me. Carthy, Beirut 1957, p. 48. 10 R.R. Newton, The authenticity of Ptolemy’s Parallax Data, i e ii; id., «The authenticity of Ptolemy’s Eclipse and Star Data», in Quarterly Journal of the R. Astronomical Society, xiv, 1973, pp. 7-27, 107-121. 11 Cfr. ad esempio A. Koyré, Etudes d’histoire de la pensée scientifique, Parigi 1937, pp. 166 segg. 12 J. Shacht e C.E. Bosworth ed., The legacy of Islam, ii edizione, Oxford 1974, p. 351. 13 Paradiso, xii, 84. 14 R. Jaulin, La géomancie. Analyse formelle, Paris-Le Havre 1966. 15 M. Pedrazzi, «Le figure della geomanzia: un gruppo finito abeliano», in Physis, xiv; 1972, pp. 146-161. 1 2
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Cfr. A. Mieli, La science arabe el son rule dans I’evolution scientifique mondiale, ii ed. Leiden 1966, p. 210. A Fibonacci è dedicato un capitolo in G. Loria, Storia delle Matematiche, vol. i, Torino 1929, pp. 379-410, con bibliografia. 18 Op. cit., p. 384. 19 Una moderna traduzione commentata della sua Algebra è: O. Khayyam, Traktaty... Perevod B.A. Rozenfeld’da..., Mosca 1961, soprattutto pp. 82 segg. 20 Cfr. al-Qanunu’1-Mas udi, Canon Masudicus, ed. Hyderabad in 3 voll., con paginazione continuata, 195456, p. 288; cfr. anche A. Bausani, «Fibonacci e gli ‘Arabi’», in Cultura e scuola, 85, 1983, pp. 254 segg. 21 F. Woepke, «Réchèrches sur plusieurs ouvrages de Léonard de Pise, iii traduction... d’un traité... par Alhocain», in Atti dell’Accademia Pontificia dei Nuovi Lincei, 14, 1981. 22 Basti pensare al procedimento geometrico col quale Euclide dimostra che (a + b)2 = a2 + 2ab + b2 in Elementi, ii, 4, ed. it., a cura di A. Frajese e L. Maccioni, Torino 1970, pp. 163 segg. 23 G. Libri, Histoire des Sciences mathématiques en Italie, vol. i, Parigi 1938. 24 Intitolato Maqala Qust’a ibn Luqa fi’l-burhan ‘ala ‘amai hisab al-khata’ain, «Trattato di Q. b. L. sulla dimostrazione del calcolo dei due errori». Vedi anche H. Suter, in Bibliotheca Mathematica, 3 Folge, 9, 1909. 25 Una dimostrazione aritmetica chiara di questa regola e, come al solito, intelligenti ed erudite considerazioni sulla sua storia, si vedano in J. Needham, Science and civilization in China, vol. iii, Mathematics and Sciences of Heavens and the Earth, Cambridge 1970, pp. 117-119. 26 Sulla tecnica delle traduzioni si veda J. Vernet, La cultura hispanoàrabe en Oriente y Occidente, Barcelona 1978, pp. 80 segg., e per quelle dal greco in arabo, le interessanti testimonianze arabe tradotte in F. Rosenthal, Das Fortleben der Antike im Islam, Zürich-Stuttgart 1965, pp. 31-41. 27 Cfr. J. Vernet, op. cit., p. 125. 28 Le opere di Archimede si possono ora leggere in italiano nella ottima versione a cura di A. Frajese, Torino 1974. Gli Arabi conoscevano forse più opere di Archimede di quanto non si creda; si veda J. Vernet e A. Gatalà, «Arquimedes Arabe...» in Al-Andalus 33, 1968, pp. 53-93. Il Vernet, op. cit., sembra suggerire la possibilità che gli Arabi conoscessero anche il Méthodos di Archimede, scoperto da Heiberg solo nel 1906 in un palinsesto di Costantinopoli. 29 Quello posteriore ed esattissimo di Ghiyath ad-Din non fu noto in Europa. A tale proposito si veda D. Luckey, «Der Lehrbrief über den Kreisumfang... von Gamsid ben Mahmud al-Kasi...» in Abbandl. d. deutschen Ak. d. Wiss. zu Berlin, Kl. f. Math. u. allg. Naturwiss, 1950, 6, Berlin 1953. 30 Si veda questa soluzione in P. ver Eecke, Les Oeuvres complètes d’Archimède suivi des Commentaires d’Eutocius d’Ascalon, vol. ii, Parigi I960, pp. 607-609. Secondo il ver Eecke quella di Archita di Taranto del iv secolo a.C. è la più bella delle soluzioni rigorose del problema delle due medie proporzionali fra due segmenti dati. 31 P. ver Eecke, op. cit., pp. 589-90. 32 Cfr. l’introduzione a Al-Battani sive Albatenii Opus Astronomicum... ed. e trad. di C.A. Nallino, 3 voll., Milano 1899-1907. 33 Discussion of difficulties of Euclid by ‘Omar Khayyam, ed. by Erani, Teheran 1936. 34 Vedi A. Mieli, op. cit., pp. 153-154. 35 C.A. Nallino, Raccolta di scritti, vol. v: Astronomia e Geografia, Roma 1944, p. 85. 36 Sulle vicende filologiche dell’Almagesto di Tolomeo c’è ora lo studio accuratissimo di P. Kunitzsch, Der Almagest. Die Syntaxis Mathematica des Claudius Ptolemaus in arabisch-lateinischer Uberlieferung, Wiesbaden 1974. 37 Cfr. H. Haskins e D.P. Lockwood, The Sicilian translations of the 12th century and the first Latin version of Ptolemy’s Almagest, 1960, citato in Vernet, op. cit., p. 166. 38 Così C.A. Nallino, op. cit., p. 262. 39 J. Vernet, op. cit., p. 136, n. 38. 40 Il valore del miglio arabo è controverso. Il Nallino, in un suo dotto lavoro giovanile riprodotto in op. cit., pp. 408-457, gli dà il valore di 1973, 2 metri, mentre quello in uso all’epoca di Colombo era di molto inferiore, il che spiega la misura ridotta di meridiano accettata da Colombo. 41 M. Cimino, «L’astronomia araba e la sua diffusione», in Convegno internaz. sul tema: Oriente e Occidente nel medioevo: Filosofia e Scienze, Accademia Naz. dei Lincei, Roma 1971, p. 663. 16
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De revolutionibus, 3, 21. Vedi ora anche A. Bausani, «Copernico e gli Arabi» in Physis, xxv, 2/1983. Cfr. J. Vernet, op. cit., p. 136 segg. 44 Cfr. C.A. Nallino, op. cit., vol. i, pp. 298, nota 46. 45 Cfr. A. Bausani, «Il Kitab cArd Miftah an-Nujum attribuito a Hermes: prima traduzione araba di un testo astrologico?» in Memorie dell’Acc. Naz. dei Lincei, serie viii, vol. xxvii della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, fase. 2, 1983, pp. 88-89. 46 Op. cit., p. 146. Vedi anche B.R. Goldstein, «On the theory of Trepidation» in Centaurus, 10, 1964, pp. 232247. 47 W. Harner, voce «al-Battani» in Dictionary of Scientific Biography, p. 510. 48 Cfr. C.A. Nallino, op. cit., vol. i, p. 12 e 157. 49 Cfr. H. Schramm, Ibn al-Haythams Weg zur Physik, Wiesbaden 1963, pp. 26 segg. 50 Cfr. Biruni, Canon Masudicus, p. 632. 51 Dettagli in O. Neugebauer, A History of Ancient Mathematical Astronomy, Berlin-New York 1975, vol. i, pp. 373 segg. 52 Cfr. J. Vernet, op. cit., p. 141, dove si cita G. Bofitto e C. Melzi d’Eril, Almanach Dantis Alighieri Ave Profacii Judaei Montispessulani, Firenze 1908. 53 Cit. in K. Kohl, «Uber den Aufbau der Welt nach Ibn al-Haitham» in Sitzungsbr. d. Phys.-Mediz. Soz. zu Erlangen, 54-55, 1922-23, pp. 140-179. 54 J. Vernet, op. cit., p. 168, nota 38. 55 Inferno, xx, 116-17. 56 Cfr. B. Goldstein, al-Bitruji on the principles of Astronomy, New Haven-London 1971. 57 J. Vernet, op. cit., pp. 186-87. 58 La legge di Snell (Snellius, 1591-1616) è la seguente: sen i/sen r = n, dove r è l’angolo di rifrazione e n è una costante dipendente dalla natura dei due mezzi, nota come «indice di rifrazione». 59 Cfr. Schramm, op. cit., pp. 229-244. 60 Cfr. A. Pouché-Leclerc, L’Astrologie Grecque, Paris 1899, pp. 272 segg. 61 Si veda per la bibliografia M. Ullmann, «Die Natur-und Geheimwissenschaften in Islam», in Handbuch der Orientalistik, Leiden 1972, p. 283. 62 E certamente apocrifi; cfr. Ullmann, op. cit., pp. 283-84. 63 Su di lui vedi Ullmann, op. cit., p. 308 e F.J. Carmody, Arabic Astronomical and Astrological Sciences in Latin Translation. A critical bibliography, University of California, 1956, p. 136 segg. 64 C.A. Nallino, op. cit., vol. vi, pp. 257 segg., La Colcodea di Avicenna e T. Campanella. 65 Cfr. J. Vernet, op. cit., p. 151, con le note bibliografiche. 66 Al-Battani, op. cit., vol. i, pp. 307 segg. 67 W. Hartner, Oriens-Occidens, Hildesheim 1968, pp. 415-434. 68 Prima edizione, Augusta 1491. 69 Inferno, xx, 118. 70 L.A. Mayer, Islamic Astrolabists and their Work, Genève 1956, p. 45. 71 Paradiso, xi, 101. 72 Per questo globo cfr. Mayer, op. cit., pp. 80-81. 73 Price, Mecanìsmos de relojerìa anteriores a los relojes..., p. 318, citato in Vernet, op. cit., p. 200. 74 J. Vernet, op. cit., p. 234; vedi ora anche A. Bausani, «Al-Biruni précurseur de la cartographie scientifique. Notes pour l’histoire de la cartographie et de la navigation arabo-islamique», in Actes du troisième Congrès International d’Etude des Cultures de la Méditerranée Occidentale, pp. 35-45. 75 Cfr. C.A. Nallino, op. cit., vol. v, p. 59. 76 G. Levi della Vida, Arabi ed Ebrei nella storia, Napoli 1984, p. 119. 77 M. Iqbal, The reconstruction of Religious Thought in Islam, Lahore, rist. 1951, p. 74. 78 Chronology of Ancient Nations. An English Version by Dr. E. Sachau, London 1879, trad. inglese con note del testo arabo di Athar al-Baqiyah, pubblicato dallo stesso autore col titolo Chronologie Orientalischer Völker, Leipzig 1876-78. 42 43
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Illustrazioni tratte dal Libro delle stelle fisse di Abd al-Rahman al-Sufi, da Oxford, Bodleian Library, ms Marsh 144, cc. 55, 71, 117, 149
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Libro delle Nozioni elementari attorno alla scienza degli astri, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms Or. 95, f. 29r Illustrazione di un astrolabio, da Londra, Wellcome Library, ms Arabic WMS 265, c. 14 Ibrahim ben Said, Globo celeste (1085), Firenze, Museo Galileo A fronte: Astrolabio arabo (1120 circa), New York, Metropolitan Museum of Art
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Qui e nella pagina a fronte: Libro degli animali di al-Jahiz: l’eunuco che cattura gli uccelli e lo struzzo che cova, Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms Arabo D 140 inf., ff. 63v e 10r
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Rappresentazione del mondo, dal Libro di Ruggero, del cartografo e viaggiatore arabo del xii secolo Muhahmad Al-Idrisi, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 2221, ff. 3v-4r Liber abaci, Leonardo da Pisa, Firenze, Biblioteca Nazionale, ms Magl. cs cI, 2626, f. 124r A fronte: Frontespizio del manoscritto del “Libro degli Antidoti” dello Pseudo-Galeno, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Arabe 2964, f. 37
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Descrizione delle piante officinali del ginepro e della sabina, dal De materia medica di Dioscoride, Bologna, Biblioteca Universitaria, ms 2954, f. 39r
Preparazione di una medicina col miele, dal De materia medica di Dioscoride, Baltimora, Walters Art Museum, ms W675, s.f.
Invocazione ad Allah da un codice del Canon Medicinae di Avicenna del xvi secolo, Yale, Medical Historical Library, Cushing Arabic ms 5, s.f.
Frontespizio del Canon Medicinae di Avicenna da un’edizione veneziana del 1595
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Miniatura di una traduzione ebraica del Canone di Avicenna, da un codice del xiv secolo, Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 2197, f. 492
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Palermo Cappella palatina (xii secolo) Costruita per volere di re Ruggero ii, offre nello splendido soffitto ligneo una delle più alte testimonianze dell’arte islamica. Il legno è ricoperto da una tela su cui i decoratori dipinsero a tempera
Particolare del soffitto Pianta A fronte: Veduta d’insieme del soffitto
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Nicchie con figure umane A fronte: Particolare della zona centrale del soffitto della navata centrale
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Akhtamar baghdad
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Akhtamar S. Croce (x secolo) Fondata fra il 915 e il 921 da re Gagik, questa chiesa costituisce un’eloquente testimonianza dell’incontro artistico fra il mondo cristiano e quello islamico nell’Oriente anatolico. I rilievi esterni, disposti entro due fregi, illustrano la vita di corte degli Abbasidi La chiesa vista da sud-ovest Pianta A fronte: Esterno della chiesa
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Vista della chiesa da est
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Akhtamar
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Particolari dei rilievi della facciata
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baghdad bukhara
Bukhara Mausoleo di Ismail il Samanide (x secolo) Pur riconoscendo formalmente l’autorità del Califfo di Baghdad, i Samanidi (874-999) regnarono praticamente indipendenti. La loro arte, di cui questo mausoleo è il monumento più noto, si ricollega strettamente a quella del primo periodo abbaside Veduta del mausoleo Pianta e alzata del mausoleo A fronte: Particolare della facciata
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L’arte Bianca Maria Alfieri
L’acquisizione del potere da parte degli Abbasidi costituì un cambiamento radicale, non solo per la vita politica, ma anche per la produzione artistica del nuovo stato arabo. Con lo spostamento della capitale dalla Siria alla Mesopotamia, cioè dal mondo mediterraneo a quello medio-orientale, l’Islam voltava, in un certo senso, le spalle all’Occidente, per puntare la propria attenzione verso l’Asia. Contemporaneamente, lo stato islamico cessava di essere soltanto arabo e si universalizzava: per partecipare alla vita pubblica non si richiedeva più l’appartenenza alla razza araba, ma solo l’adesione all’Islam. In questo contesto l’elemento persiano prese un’importanza particolare, tanto che persino l’idea iranica dell’origine divina del potere regale compenetrò gli Abbasidi, fino a determinare la loro concezione teologica del diritto al Califfato. Col passar del tempo, proprio per attenuare l’influenza iranica e per isolare i persiani, gli Abbasidi cominciarono a circondarsi di guardie del corpo turche, che però andarono acquistando sempre maggior influenza politica, tanto che, se da un lato erano il sostegno del trono, dall’altro finirono per costituirne la minaccia più pressante, determinandone infine la caduta. Se l’influenza iranica ha avuto una parte notevolissima nella formazione dell’estetica abbaside, il successivo consistente influsso turco ebbe decisive conseguenze collaterali sullo sviluppo artistico della dinastia. Esso determinò infatti la definitiva orientalizzazione del gusto e l’accoglimento di uno stile nuovo, nel quale erano presenti innesti sempre più vasti dell’Asia centrale ed estrema. Questo stile composito, aulico e grandioso, volto soprattutto alla glorificazione del principe, doveva caratterizzare non soltanto i grandi centri dinastici, ma anche le più diverse regioni dell’impero abbaside per molti secoli a venire, e ciò nonostante l’effettivo indebolirsi del potere centrale. Il Califfato abbaside durò infatti circa cinque secoli, ma solo in linea teorica; in realtà, dopo un primo momento di grande splendore, andò decadendo politicamente sotto la spinta di nuove forze politiche e religiose che ne frantumarono poco a poco l’unità, e quando, nel 1258, i Mongoli deposero a Baghdad l’ultimo Califfo, l’autorità di questi si era ormai ridotta a un puro titolo onorifico. Tuttavia, nonostante il loro distacco effettivo dall’impero, sia la Spagna e il Maghrib, che l’Ifriqíya e l’Egitto, l’Iran e l’Asia Centrale, serbarono echi della grande arte elaborata dagli Abbasidi, non solo in creazioni architettoniche di grande respiro, ma anche
Interno della cupola del mausoleo
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nella pittura, nella decorazione, nella ceramica, nella metallistica, nella manifattura di tappeti e tessuti, e in altre arti applicate. Uno dei primi atti della sorgente dinastia fu l’abbandono di Damasco come capitale ufficiale dell’impero, e la fondazione della nuova capitale, Baghdad, sul Tigri. Creata nel 762 dal secondo Califfo, al-Mansur (il primo, al-Saffàh, aveva preferito risiedere a Kufa, una fondazione omàyyade), Baghdad, «il dono di Dio», era destinata a divenire una leggendaria metropoli ove il Califfo viveva, isolato dal popolo, in una corte fastosa, tutto dedito a glorificare la propria potenza in un clima di sfarzo e di lusso incredibili. Alla sua ombra prosperava una borghesia composita, formata da mercanti, da ricchi proprietari terrieri, da burocrati, ma anche da artisti e da studiosi, una borghesia che se anche non ebbe mai un vero peso politico, perché sovrastata dal prepotere dei militari, nondimeno riuscì ad esprimere una società brillante e raffinata, specchio dei modelli di vita e dei canoni estetici fondamentali dell’Islam. A differenza di Damasco, che sorgeva ai margini del deserto, Baghdad era situata al centro di una delle zone coltivate più ricche e fertili del mondo, tanto che venne definita l’ombelico dell’universo. Essa era anche al punto d’incrocio delle grandi vie commerciali dell’Asia, dell’Europa e dell’Africa. Il traffico delle merci vi era intensissimo, tanto che, all’inizio del x secolo, nel porto si potevano contare circa 30.000 barche, adibite al trasporto di mercanzie e di persone. Della grande città, la più grande dell’epoca insieme con Bisanzio, non ci è purtroppo rimasto assolutamente nulla, ma le numerose descrizioni dei cronisti contemporanei ce ne permettono la ricostruzione. Chiamata «Città della pace», essa era a schema rotondo, secondo un antico modello orientale, che dagli Assiri si era perpetuato fino ai Sasanidi. Circondata da un doppio cerchio di mura munito di 28 torri e cinto da un fossato, aveva un diametro di circa 2700 metri e quattro porte situate in posizione intermedia fra i quattro punti cardinali. Ciascuna di esse aveva un accesso a gomito, di probabile origine centroasiatica, e conteneva una vasta sala di udienza coperta da una cupola dorata. Pare che ogni sala potesse contenere una numerosa guarnigione. Secondo un’ipotesi recente del Wendell, alla forma rotonda della città non sarebbero stati estranei valori simbolici d’origine diversa da quelli mesopotamici. Sembra infatti che alla sua ideazione abbia partecipato un buddhista convertito all’Islam, Khalid ibn Barmak, il quale conosceva la teoria del Cakravartin, il «Re Universale», fra i cui «gioielli» cera una ruota con i raggi, che è senz’altro un simbolo solare, ma insieme suggerisce il dominio sulle quattro parti del mondo, tema assai caro agli Abbasidi. Nella costruzione di Baghdad i «raggi» della ruota sarebbero stati spostati simbolicamente in direzione delle regioni più importanti dell’impero islamico: il Khorasàn a nord-est; la Mecca a sud-ovest, la Siria e Bisanzio a nord-ovest, l’India a sud-est. Nella zona anulare la superficie era divisa in quadranti, comprendenti ognuno da otto a dodici vie radiali, fra le quali correvano altre vie secondarie. Entro questi settori, che potevano venire isolati fra loro in caso di disordini, erano disposte secondo un piano preciso abitazioni, edifici pubblici, moschee, scuole, botteghe, bazar, ecc. La città era costruita in funzione della sicurezza del sovrano, per cui il palazzo reale, Dar al-Khilafa, che si identi-
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ficava col palazzo del governo, sorgeva in posizione isolata, al centro della città, presso la parete qibli della Grande Moschea. Sappiamo che veniva chiamato anche Bab adh-Dhahab, «La Porta d’Oro», ma sulla sua planimetria abbiamo scarse e contrastanti informazioni. Secondo alcuni esso era a due piani, aveva una pianta quadrata di m. 207,12 di lato ed era caratterizzato da un grande iwan (la sala a volta, aperta solo su un lato, ben nota nell’antica Persia fin dai tempi partici e sasanidi) seguito da una sala cupolata, secondo un tipico schema cerimoniale sasanide. Al secondo piano ci sarebbe stata una famosa «cupola verde» (al-Qubba al-Khadrà), sul modello di quella del palazzo omàyyade di Damasco, nella quale si poteva ammirare il dipinto di un cavaliere armato di lancia. Secondo altre testimonianze, il palazzo, sempre a due piani, avrebbe avuto una sala cupolata centrale, sulla quale si sarebbero articolati quattro iwan. Anche in questo caso si trattava di una tipologia irano-sasanide, interpretata però secondo uno schema centroasiatico. Di questo stesso tipo sarebbe stato anche il palazzo del governo di Merw, costruito nel 748 da Abu Muslim, promotore della rivolta contro gli Omàyyadi. La facciata principale del palazzo si apriva con cinque grandi arcate, sorrette da colonne di marmo. Il grosso della costruzione era però in mattoni: cotti per le volte, i corridoi, le cupole; crudi per le mura. Le fonti scritte ci riferiscono che la Grande Moschea contigua al Palazzo subì varie vicissitudini. Il nucleo primitivo, costruito da al-Mansur a pianta quadrata, era in mattoni d’argilla e semplici colonne di legno. Nell’808-809 esso venne fatto abbattere da Harun ar-Rashid, che fece ricostruire una moschea più grande, in mattoni cotti. Nell’874-875 al-Muctadid-billah, per rispondere alle aumentate necessità di spazio della popolazione dei fedeli, ordinò l’erezione di una seconda moschea, duplicato della precedente, contro il muro della qibla di quella già esistente. Le due moschee vennero congiunte da un colonnato coperto, mentre il minbar, il mihrab e la maqsura della vecchia costruzione furono trasferiti nella nuova. Questo tipo di moschea doppia, molto interessante, si rifà al più antico schema mesopotamico, detto «di Kufa», contrassegnato da file ininterrotte di sostegni e da un gran numero di ingressi. È probabile che questo ritorno all’antico non fosse casuale, anzi, data la funzione di rappresentanza della moschea, fosse un distacco cosciente dallo schema omayyade della moschea a transetto. Non a caso si ripeterà in altre Grandi Moschee abbasidi: a Samarra, seconda capitale del Califfato, a Raqqa in Siria, fondata nel 772 come seconda Baghdad, a Isfahan e in Egitto. Oltre al grande palazzo di al-Mansur si costruirono altre residenze califfali, degne di rivaleggiare per magnificenza con esso. Alla fine dell’viii secolo il Califfo al-Mahdi costruì sulle rive del Tigri un palazzo entro un’enorme area fortificata, grande come un’intera città, che dalle sponde del Tigri si spingeva a semicerchio fino a 12 km verso l’interno. Il palazzo era dotato di grandi cortili, di giardini allietati da ruscelli, laghetti pieni di pesci e chioschi, ove il Califfo e la sua corte potevano trascorrere piacevolmente il tempo, pescando e cacciando. Le udienze solenni si tenevano nella «casa di piombo», presso la quale scorreva un ruscello. Ambienti sotterranei (sirdab) offrivano un’adeguata difesa dalle feroci calure estive: questo costume, già frequente presso i Turchi Uighuri d’Asia Centrale, era stato in-
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trodotto a Baghdad dai pretoriani turchi, come anche quello delle «case di feltro», sempre di origine turca, consistente nel rifugiarsi in specie di tende, sulle quali si faceva scorrere l’acqua. I cronisti contemporanei ci hanno lasciato attonite descrizioni sulla ricchezza delle costruzioni califfali e sul fasto della vita di corte, che indirettamente ci forniscono anche una testimonianza sull’altissimo livello raggiunto dalle arti e dall’artigianato locali. Sembra che spesso le pareti degli edifici fossero rivestite di specchi; si narra a questo proposito che il Califfo al-Ma’mun si estasiasse vedendo il sole riflettersi dalle pareti sul volto del suo schiavo preferito. In una sala del palazzo di Baghdad cera un laghetto circolare, dal cui centro sorgeva un albero d’argento con rami doro e foglie variopinte, forse formate da pietre preziose, fra le quali si posavano uccellini d’argento cinguettanti. I pavimenti erano coperti da tappeti fastosi, in parte intessuti doro e ricamati con pietre preziose; le finestre erano schermate da pregiati tendaggi, anch’essi intessuti doro e d’argento; mobili e suppellettili erano di straordinario valore. Infatti, nonostante il divieto coranico del lusso, non si esitava ad utilizzare vasellame doro e d’argento, come del resto si faceva già nel periodo omàyyade. Si racconta che la bella Zubayda, moglie di Harun ar-Rascid, non mangiava se non in stoviglie doro e d’argento e che, allo stesso modo, non beveva altro che in coppe degli stessi metalli. Altri recipienti pregiati erano in cristallo di rocca, lavorato da una fiorente scuola di tagliatori a Basra, in ceramica e in porcellana cinese. La presenza a Baghdad di quest’ultima, e in gran copia, ci testimonia per la prima volta gli stretti contatti fra il Califfato e l’Estremo Oriente. Anche i palazzi privati dei notabili cercavano di rivaleggiare in splendore con quelli del principe: ognuno di essi era fornito di un gran numero di stanze – pare fino a cinquanta –, di vasti giardini, di sale da ricevimento con le pareti rivestite di stucco finemente lavorato, i pavimenti coperti di tappeti e le finestre ornate da tendaggi preziosi. Fastose fontane formate da animali doro facevano zampillare l’acqua in bacili di marmo; i porticati erano lastricati di marmi e mosaici, le porte erano d’ebano intarsiato con lamine doro. Dai soffitti pendevano lampade di cristallo o di metallo traforato; mobili pregiati ornavano le pareti, e graziosi turiboli teriomorfi di bronzo o d’argento bruciavano incenso. Oltre al grande palazzo di Baghdad, al-Mansur si costruì come residenza sussidiaria la città di Raqqa, ove nel 796 andò a vivere Harun ar-Rascid. Disegnata a ferro di cavallo, con le estremità unite da un rettilineo, essa era difesa da una doppia cinta di mura in mattoni crudi, rinforzata da torri rotonde. All’estremità sud-orientale sorgeva, e in parte ancora si conserva, la famosa Porta di Baghdad, costruita in laterizi e decorata con archi a sesto acuto e una serie di nicchie polilobate, di antica tradizione mesopotamica, che sarebbero poi diventate una caratteristica di Samarra e della prima arte islamica di Spagna. La Grande Moschea, di cui si conserva parte del rifacimento del xii secolo, seguiva il consueto schema «Kufa», che fu mantenuto anche nelle successive aggiunte dello Zenghide Nur ed-Din (1166), che la dotò di un minareto. L’adiacente Palazzo di Harun è andato quasi
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completamente distrutto; in una stanza superstite, dotata di un bell’iwàn d’ingresso, si sono conservati dei pannelli a stalattite, che forse costituiscono l’esempio più antico della decorazione a muqarnas, destinata a conoscere una grandissima fortuna, sia nell’Islam d’Occidente sia in Iran, a partire dal xii secolo. A nord della cinta muraria sono i resti di un altro palazzo e di un complesso che sembra doversi attribuire ai primi Abbasidi. Si tratta di una serie di appartamenti, protetti da una potente cerchia di mura bastionate, entro le quali erano compresi tre giardini. Gli appartamenti privati del Califfo si trovano nella zona orientale, distribuiti intorno a piccole corti, mentre a occidente è situata la zona pubblica, articolata intorno a due grandi cortili di rappresentanza, di cui uno era pavimentato con lastre di vetro disposte a scacchiera. A circa centoventi chilometri a sud-ovest di Baghdad e a un’ottantina di chilometri a ovest di Kufa sorge il più antico monumento abbaside che ci sia pervenuto. Si tratta del palazzo fortificato di Ukhaidir («il Verde»), l’unico edificio abbaside che si conosca costruito nel deserto, anche se un tempo doveva trovarsi al centro di un terreno irriguo. K.A.C. Creswell ha formulato la plausibile ipotesi che esso sia stato costruito dopo il 764-65 o nel 778 da Isa ibn Musa, che vi si sarebbe rifugiato quando dovette rinunciare alle sue pretese al trono, in favore di Harun ar-Rascid. Eretto, a differenza della maggioranza dei palazzi mesopotamici, che sono quasi sempre in mattoni cotti o crudi, in scaglie di pietra legate da malte tenaci, esso si articola secondo la pianta dei precedenti complessi palaziali sasanidi. In parte ripete lo schema dell’Imaret-i Khosraw a Qasr-i Shirín (590-628) e non è improbabile che questo stesso disegno fosse stato adottato, su scala più vasta, nel palazzo di al- Mansur a Baghdad. Il grande recinto esterno, con torri rotonde, ornato da specchiature con un fregio finale ad arcatelle, racchiude a nord il palazzo vero e proprio, con stanze disposte asimmetricamente su tre piani. Per il resto, tutto il palazzo era a un solo piano, come nel castello omàyyade di Mshatta, a somiglianza del quale a destra dell’ingresso è situata una sala di preghiera. Un portale sormontato da una cupola scanalata immette in un corridoio trasversale, dal quale si può accedere a una grande sala coperta da una volta a botte che introduce in un altro corridoio esterno. Questo serve ad isolare la corte d’onore e a dare accesso a tre dei quattro bayt (appartamenti) che compongono l’insieme delle abitazioni. Il cortile d’onore, di m. 29 circa per 34, è circondato da arcate cieche, nelle quali per la prima volta nell’architettura islamica, compaiono decorazioni in laterizio nudo. Un enorme portale immette in un iwan seguito da una sala un tempo cupolata, che a sua volta si apre su tre sale a colonne. I quattro bayt sono articolati con due appartamenti a nord e a sud ai lati di un iwàn centrale, che è fiancheggiato anche da stanze più private. Questo tipo di complesso, introdotto in Egitto verso la fine del ix secolo, probabilmente dal governatore e poi sovrano indipendente Ibn Tulun, darà origine alla qa‘a, la caratteristica stanza da ricevimento dell’architettura domestica egiziana, in uso fino al xix secolo. La perdita della città di Baghdad ci viene compensata dal ritrovamento dell’imponente campo di rovine di Samarra, seconda capitale del Califfato, che costituisce a tutt’oggi
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la documentazione più esauriente sull’architettura e sull’arte imperiale degli Abbasidi. La città venne esplorata negli anni 1911-1913 da scavi condotti da Friedrich Sarre ed Ernst Herzfeld. Samarra, il cui nome per esteso è Surra man raa, «si rallegra chi la vede», fu fondata nell’836, con un dispotico atto d’imperio tipico di un monarca orientale, da al-Mutasim, che per fronteggiare i disordini creati dai suoi pretoriani turchi, allora circa 70.000, fra la popolazione civile di Baghdad, si vide costretto a trasferire le caserme e l’amministrazione lontano dalla capitale. La nuova città, che assunse subito le funzioni di capitale, sorse a un’ottantina di chilometri a nord di Baghdad, sulla riva orientale del Tigri, e si sviluppò lungo un asse longitudinale che si estendeva per circa trentacinque chilometri, ma largo soltanto dai due ai cinque chilometri. Questa enorme estensione, unita all’ampiezza delle strade, rendeva difficili le comunicazioni, sicché, senza l’ausilio di fortificazioni, garantiva la tranquillità del sovrano e l’isolamento dei soldati nei loro quartieri autosufficienti. Samarra, una delle più imponenti fondazioni urbane di tutti i tempi, fu costruita con un enorme dispendio di denaro, e con operai reclutati in ogni parte dell’impero, col sistema delle liturgie. Dall’Egitto giunsero i fabbricanti di papiro, da Basra i soffiatori di vetro e i tessitori di stuoie; da Kufa i vasai, da Antiochia e da altre città costiere della Siria i marmisti. Inoltre dall’India si fece arrivare il legno di tek, dalla Siria giunsero le lastre di marmo per le pavimentazioni e un enorme numero di colonne di spoglio. Nell’immensa area della città, divisa in tre zone principali, cerano palazzi, caserme, mercati, due ippodromi, due Grandi Moschee congregazionali oltre a innumerevoli moschee più piccole, diversi giardini e case private. A questo proposito è interessante notare che qui, forse per la prima volta nella storia, si può parlare di speculazione edilizia condotta su vasta scala. Infatti i funzionari degli uffici amministrativi, costretti a trasferirsi nella nuova città dalla capitale, ottennero in concessione dal Califfo i terreni su cui erano però obbligati a costruire le proprie abitazioni. E queste andarono via via aumentando col crescere della popolazione, che verso la metà del ix secolo raggiungeva quasi il milione di unità. Tuttavia la città, eretta in una zona non particolarmente adatta alla sistemazione di un’imponente massa umana, soprattutto per la difficoltà dei rifornimenti idrici, ebbe vita abbastanza breve. Nell’892, dopo circa un cinquantennio, al-Muctamid, costrettovi anche dalle continue rivoluzioni di palazzo delle sue guardie turche, ritrasferì la capitale a Baghdad, e Samarra decadde rapidamente. In pochi decenni quella che era stata una fiorente metropoli assunse l’aspetto di una desolata rovina, tanto da essere ribattezzata «Saa man raa» («Si rattrista chi la vede»). Se al-Mutasim ne fu l’ideatore, il successore al-Mutawakkil fu il costruttore più attivo di Samarra, un vero maniaco dell’edilizia. A lui si attribuiscono diciotto palazzi, il più noto dei quali è quello di Balkuwara, destinato al proprio figlio al-Mutazz. La vasta area della città si articola, come abbiamo accennato, in tre zone. Procedendo da sud verso nord si incontra dapprima un recinto ottagonale fortificato, con abitazioni disposte lungo le mura dello spiazzo interno. È probabile che si tratti di Qadisiyya, la prima
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residenza di al-Mutasim, che in seguito l’abbandonò, ritenendola inadatta alle sue necessità, e si trasferì nella più grandiosa e centrale Giausaq al-Khaqani. Quest’ultima residenza occupa un’area immensa di circa 193 ettari, 69 dei quali erano riservati ai giardini. Il palazzo vero e proprio era costituito da un’intricata serie di edifici, cui si poteva accedere da un portale preceduto da uno spiazzo e seguito da una serie di antecorti, preludenti alla zona di rappresentanza, sul Tigri. Questa era dominata dalla sala delle udienze private, costituita da un ambiente cupolato sul quale si aprivano quattro iwan. È probabile che in questi locali alloggiasse il Califfo, circondato dalle sue guardie del corpo. In asse con questi ambienti, un’altra serie di stanze conduce al Bab al-Amma, la «Porta del Popolo», una bellissima struttura di mattoni alta 12 metri, a tre iwan, che si conserva ancora in gran parte. Secondo alcuni essa sarebbe stata l’entrata del palazzo, secondo altri la sala delle udienze pubbliche, col trono a baldacchino Ridilla) situato nell’iwàn centrale. Secondo Janine Sourdel-Thomine, tuttavia, esso era una sorta di belvedere sul Tigri, cui si poteva scendere per mezzo di una monumentale scalinata, della quale si scorgono ancora i resti. Ai lati della zona centrale del palazzo si allineavano numerosi disimpegni, le caserme, l’arsenale, vari magazzini, alcune moschee, la casa del tesoro, oltre a giardini con chioschi, vasche, giochi d’acqua. Alla sala del trono si connettevano invece, nella zona meridionale, gli ambienti privati veri e propri, cioè l’harem del palazzo, con le stanze disposte attorno a un cortile, fornito di grandi terme e di proprie condutture d’acqua. Sul lato più esterno cera una sala quadrata cupolata, nella quale si trovavano la maggior parte delle pitture murali figurate che ancora possiamo ammirare. Lungo lasse centrale, superata una grande sala rettangolare, si giungeva a un’enorme spianata di m. 350 per 180, con due grandi fontane, quindi al campo di polo, provvisto di palco per gli spettatori e fiancheggiato dalle stalle per i cavalli. A oriente, l’area del palazzo confinava con la riserva di caccia, il paràdeisos, lungo circa cinque chilometri, cinto da un muro, riservato ai divertimenti venatorii del Califfo e ospitante abbondanza di selvaggina. Pare che ospitasse persino leoni ed elefanti, dei quali erano particolarmente apprezzati i combattimenti. Come a Baghdad, i palazzi erano rallegrati da giardini, coltivati con alberi e con fiori, e forniti di fontane, canali e vasche d’acqua corrente. I palazzi erano dotati anche di sirdab, nei quali fontane zampillanti creavano oasi di refrigerio per gli ospiti. A est e a sud del palazzo sorgevano due grandi ippodromi, l’uno di forma ovale appuntita, l’altro a quadrifoglio, che dividevano il palazzo stesso dalla Grande Moschea, chiamata al-Malwiyya per la tipica forma a spirale del suo imponente minareto. Più a nord si sviluppava, con ben 36 chilometri di strade, al-Giafariyya, la città di al-Mutawakkil che risiedeva nel suo castello, Qasr al-Giafar, ove però venne assassinato solo nove mesi dopo averne preso possesso. Al-Giafariyya sorse nel breve giro di un anno, fra T859-60 e il marzo dell’861: pare che il Califfo stesso sorvegliasse quotidianamente i lavori, dispensando doni ai più solerti artigiani. Quando riuscì ad insediarsi nel suo palazzo, al-Mutawakkil proclamò: «Ora so di essere un Principe, perché mi sono costruito una città, in cui abito». Ma la sua gioia durò soltanto fino al dicembre dello stesso anno, quando perì
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di morte violenta. I suoi successori si ritrasferirono al centro di Samarra, fino a quando la capitale non fu riportata a Baghdad. Oltre al palazzo, che definiva «la perla, di cui non sera mai visto l’eguale per splendore», al-Mutawakkil costruì un’altra Grande Moschea, detta di Abu Dulaf, in parte simile alla precedente, di cui ripeteva in scala minore anche il minareto a spirale, e tutti gli edifici necessari per il commercio, l’amministrazione degli affari, gli uffici e le residenze dei funzionari. Progettò anche un grandioso canale che doveva attraversare tutta la città, ma questo disegno non arrivò a buon termine, e venne abbandonato dopo la sua morte. Questa parte della città non è stata ancora esplorata, mentre assai più nota è la zona meridionale di Samarra, ove il Califfo aveva fatto costruire il palazzo meglio conservato dell’intera metropoli, Balkuwara. Costruito per al-Mutazz, il cui nome compare su una trave della sala del trono, tra l854 e l859, Balkuwara ha una planimetria più unitaria e sorge entro una cinta quadrata di 1250 metri di lato. Il palazzo vero e proprio, la cui facciata sud-occidentale guarda verso il Tigri, misurava 460 metri per 575 ed era circondato da un alto muro. Esso era accessibile da nordest ed era diviso in due parti distinte, una delle quali è formata da tre corti disposte secondo il disegno dei chahar bagh, i giardini quadripartiti persiani. Ognuna di queste corti è caratterizzata da portali monumentali; quella più interna, con la facciata a triplo iwan, immette nella zona cerimoniale del tipo consueto, con quattro sale basilicali disposte a croce intorno ad un ambiente cupolato. All’intorno si articolavano le costruzioni destinate alla famiglia del principe, con vasti spazi aperti per i giochi. Il giardino, con una vasca centrale e corsi d’acqua che sincrociavano al centro, giungeva fino a settecento metri dal Tigri. Anche qui i palazzi erano forniti di sirdab e di recinti per la caccia. A nord erano compresi i servizi con i magazzini, le scuderie e il campo da polo. A sud sorgeva un gruppo di piccole abitazioni private, tutte con lo stesso schema pianimetrico, costituito da una corte e una sala dal disegno a T rovesciata, circondata dal resto delle stanze. Nelle case più ricche cera una seconda corte con ambienti, che fungeva da harem, con bagni e servizi privati. Intorno al cortile d’onore interno erano piccoli vani riservati forse ad uffici dei funzionari di palazzo. Nella seconda corte esterna sorgeva, isolata, la moschea, del consueto modello iraqeno a sala ipostila. La caratteristica più interessante della decorazione interna del palazzo è data da una serie di fasce con nicchie disposte nella parte alta delle pareti, in molti casi ancora ben conservata. Tali nicchie, di forma quadrilobata, a trifoglio o rettangolare, erano disposte talvolta anche in fasce sovrapposte e dovevano certamente contenere suppellettili di valore. Esse ricordano le false nicchie della Porta di Baghdad a Raqqa e quelle che ornano le mura di cinta della Grande Moschea al-Malwiyya. Si ritrovano anche nel palazzo samarrano di al-Ashiq, sulla sponda occidentale del Tigri, e non ve dubbio che abbiano ispirato le fantasiose forme degli archi della prima arte islamica di Andalusia, la quale ebbe una fase chiaramente abbaside. Il ritrovamento di qualche tessera vitrea ha fatto pensare che le pareti di Balkuwara fossero in parte decorate con mosaici di vetro. Gli storici ci hanno tramandato notizia di un eccezionale tappeto che ornava la sala del trono. Chiamato «tappeto di Hi-
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sham», esso misurava circa «cento braccia di lunghezza e venti braccia di larghezza», ed era stato saccheggiato agli Omàyyadi. Oltre alla preziosità del materiale con cui era tessuto, seta e fili doro, la sua particolarità consisteva nel fatto che vi erano raffigurati il Califfo omàyyade Yazid ibn al-Waid ibn cAbd al-Malik insieme con un principe sasanide, entrambi racchiusi entro una cornice con iscrizioni persiane. A sud di Balkuwara, sulla riva occidentale del Tigri, quasi in asse con Qadisiyya, sorgeva il Qasr al-cAras (Il Castello della Sposa), detto anche Istablat, che per la regolarità della sua pianta è oggi denominato «Scuderie reali». Composto di quattro unità, ciascuna simile ad un castrarsi romano, esso ha un’estensione di due chilometri e mezzo. Sulla stessa riva del Tigri, ma molto più a nord, di fronte al grande palazzo antico di al-Mutasim sorge l’altro castello di al-cAshiq («L’Amante»), l’unica fra tutte le costruzioni di Samarra ad avere un aspetto fortificato, con mura rinforzate da torri rotonde, fra le quali si inseriscono delle nicchie a forma di parallelepipedo, con un arco superiore lobato. La più grande delle due moschee di Samarra, iniziata da al-Mutawakkil nell’848-49, come ricostruzione di una precedente moschea del venerdì, venne dedicata nell’852. Con la sua area di 38.000 metri quadrati e le sue enormi dimensioni di m. 240 per 156, essa è certamente la più grande moschea del mondo e, secondo la tradizione, era capace di contenere fino a centomila fedeli. Circondata su tre lati da una spianata (ziyada) che la isolava dalle botteghe circostanti (essa non era infatti collegata direttamente, come di consueto, col palazzo reale) e nello stesso tempo conteneva vari annessi, fra cui i dispositivi per le abluzioni e le latrine, aveva un’altra ziyada più ampia dalla parte della qibla, verso la quale sboccava una strada fiancheggiata da botteghe. Dell’edificio ci restano solo i muri perimetrali in mattone cotto, rinforzati da bastioni semicircolari ornati da una serie di nicchie, e un tempo coronati da merlature a gradini. In essi si aprivano tredici porte, probabilmente con architravi di legno. Il grandioso cortile rettangolare interno (sahn) aveva profondi portici su tre lati e sul quarto lato, breve, una sala di preghiera con venticinque navate ortogonali al muro della qibla, di cui quella centrale solo di poco più larga delle altre. Le navate erano sostenute da pilastri di mattoni, tutti perduti, di forma ottagonale, con colonnine di marmo agli angoli, le quali avevano basi e capitelli a campana. I pilastri non erano collegati fra loro da archi, per cui il soffitto di legno di tek poggiava direttamente su di essi. Un testimone oculare riferiva che la decorazione della Grande Moschea di Samarra non era da meno di quella omàyyade di Damasco, quanto ai rivestimenti musivi. In realtà, il ritrovamento di tessere di vetro e di incavi per i pannelli di legno intorno al mihrab può suffragare questa asserzione. Il mihrab non era della solita forma semicircolare, e per la prima volta appariva inserito entro una cornice rettangolare fiancheggiata da colonnine di marmo rosa, sempre con basi e capitelli a campana. Nell’immenso cortile sorgeva una grande vasca di granito di provenienza egiziana («la tazza del Faraone»), entro la quale zampillava una fontana. Non è improbabile che essa fosse coperta da una leggera cupola su colonne, come negli esempi di Damasco e Aleppo.
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Fuori della moschea, a nord, sul suo asse mediano, venne costruito il caratteristico minareto a spirale (Malwiyya), alto cinquanta metri, con una scala elicoidale esterna che terminava in un corpo cilindrico a nicchie, il quale probabilmente faceva da supporto a un piccolo padiglione di legno. La tipologia di questo minareto, che si ripeterà su scala minore nella moschea di Abu Dulaf e in quella di Ibn Tulun al Cairo, si rifà molto probabilmente a un antico modello di ziqqurat babilonese. La moschea di Abu Dulaf, circondata anch’essa da una ziyada, è di poco inferiore alla precedente (misura 213 metri per 135) e si conserva discretamente nella parte interna, mentre ha perso completamente i muri d’ambito che erano in mattone crudo. I sostegni erano anche qui costituiti da pilastri, collegati però fra loro da archi, sui quali poggiava un tetto piatto. Una particolarità caratterizza la sala di preghiera: essa, infatti, ha diciassette navate ortogonali al muro della qibla, che però non arrivano sul fondo, in quanto da esso le distanziano due navate parallele alla qibla stessa. Queste ultime, con la navata assiale al mihrab, suggeriscono l’immagine di una T maiuscola, e formano appunto il cosiddetto «dispositivo a T», che è eccezionale in Mesopotamia, ma assai diffuso nell’Africa Settentrionale, dove compare per la prima volta nell836, nella Grande Moschea di Qayrawan. Sulla riva occidentale del Tigri, esattamente sull’asse mediano del Bait al-Khalifa, sorge ancora il più antico monumento funerario islamico a noi noto, la Qubbat al-Sulaibiyya. Secondo l’Herzfeld esso sarebbe il mausoleo del Califfo al-Muntasir, morto nell’862, fatto erigere dalla madre, una greca cristiana, che avrebbe ottenuto il permesso di costruire un tale monumento commemorativo, in virtù della sua religione. Esso era infatti contrario alla morale islamica che vorrebbe tutti uguali davanti alla morte, e quindi sepolti al livello del suolo. Nello stesso luogo furono poi sepolti anche i Califfi al-Mutazz, morto nell’866 e al-Muhtadi, morto nell’869. Si tratta di una costruzione con un nucleo interno quadrato, coperto da cupola, inserito entro un deambulatorio ottagonale con volta a botte. Poiché sia l’ottagono interno che quello esterno sono aperti su tutti i lati, è stata rispettata almeno in parte l’ingiunzione coranica per la quale la tomba del credente dev’essere aperta al cielo. Questo schema planimetrico, reminiscente i martyria cristiani di Siria e di Palestina, discende direttamente dal disegno della Cupola della Roccia di Gerusalemme, come è stato fatto osservare giustamente dal Creswell, seppure, forse, con l’intermediazione della fontana del castello omàyyade di Hirbet al-Mafgar. Molto più tardi se ne troveranno numerosi esempi in India, senza che però si possa provare la derivazione di questi ultimi da Samarra. La Qubbat al-Sulaibiyya è costruita, come il non lontano Qasr al-Ashiq, in una curiosa pietra artificiale, modellata a mattone. Come a Baghdad, anche a Samarra gli interni degli edifici erano sontuosamente decorati. I pavimenti erano spesso rivestiti di marmo e le pareti di mattonelle marmoree, che si alternavano con intarsi di madreperla, e di mosaici di vetro. In altri casi le mattonelle erano di maiolica smaltata, secondo una particolare tecnica detta «a lustro metallico» in cui eccelsero proprio le fabbriche mesopotamiche abbasidi. Non mancavano le pitture ad affresco, di cui si sono trovate tracce negli ambienti dell’harem del grande palazzo di Giausaq al-Khaqani. Le porte erano in legno di tek,
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ornate di intagli, dipinte e dorate, così come le travi dei soffitti. La parte più larga della decorazione parietale di Samarra era però costituita dagli stucchi policromi. Modellati in tre stili diversi, essi rivestivano le zoccolature di tutti gli ambienti più importanti, o servivano ad inquadrare porte e archi. A prescindere da ogni indicazione cronologica, il Creswell ha catalogato questi stucchi in tre categorie, corrispondenti ad altrettanti stili, denominati A, B e C. I primi due venivano eseguiti intagliando profondamente lo stucco ancora fresco con un coltello, di modo che i fregi risaltavano chiari sul fondo scuro. Gli stucchi dello stile A sono abbastanza naturalistici, e impiegano come motivo decorativo il tralcio della vite e la foglia d’acanto inserite entro pannelli geometrici in cui sembra dominare (horror vacui. Essi derivano dagli ornati tardo-classici ereditati dagli Omàyyadi, di cui è un esempio la decorazione del castello di Mshatta. In uno zoccolo di stucco del Bab al-Amma, lo Herzfeld ha trovato notevoli analogie con la decorazione di Mshatta, sebbene qui i motivi siano portati ad un livello di stilizzazione più avanzato. Nello stile B, più vicino alla tradizione artistica sasanide, le forme sono del tutto prive di naturalismo, più piatte e sezionate, combinate in astratte geometrie e disposte in medaglioni e riquadri. Secondo il Dimand vi si possono riconoscere anche elementi indiani. Nello stile C, riconosciuto come il vero «stile di Samarra», gli ornati non sono intagliati, ma eseguiti a stampo, e i motivi ornamentali – boccioli, girali, foglie d’acanto – sono totalmente stilizzati, e non risaltano dal fondo, praticamente scomparso, ma appaiono come «smussati» per il particolare taglio a scancìo. Questo stile smussato deriva certamente dallo «stile zoomorfo» dell’ambiente centroasiatico e fu introdotto in Mesopotamia dai Turchi delle armate califfali. Esso avrà anche molta influenza sugli intagli in legno, particolarmente presso i Tulunidi, in Egitto, ma sarà soprattutto determinante per la formazione dell’elemento più caratteristico della decorazione musulmana: l’arabesco. Lo stucco eseguito secondo quest’ultimo stile caratterizza la decorazione della sala del trono del Giausaq al-Khaqani. Abbiamo accennato ai rivestimenti parietali in ceramica a lustro. In realtà Baghdad è stata la patria d’origine della preziosa tecnica inventata dai vasai per imitare la lucentezza delle porcellane cinesi, che giungevano in gran copia a corte, già dall’epoca di Harun ar-Rascid (786-809), grazie agli scambi di doni con ambasciatori estremo-orientali. Poiché la mancanza del caolino di buona qualità impediva agli artisti di ottenere una porcellana accettabile, essi si sforzarono con vari artifici di dare al vasellame un’apparenza quanto più possibile vicina agli originali. La tecnica piuttosto complessa e delicata del lustro aureo metallico, la cui origine è controversa, consisteva nello stendere sulla superficie del vaso già smaltato un complesso di zolfo e di ossidi metallici facilmente riducibili, cioè ossido di argento, che fungeva da agente colorante giallo, e ossido di rame, che dava il «lustro», mescolati con ocre rosse e gialle, amalgamando il tutto con aceto o feccia di vino. Una volta asciugata la pittura, il vaso veniva rimesso nel forno a calore moderato (non oltre i 600°), per cui la superficie vetrosa dello smalto veniva ammorbidita ma non fusa, e l’ossido, ridotto allo stato metallico, si depositava sullo smalto sotto forma di lamelle impalpabili, conferendo al
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pezzo, una volta raffreddato, uno strato brillante e scintillante. Variando le proporzioni del rame e dell’argento si aveva una ricca gamma di tonalità: oro, rosso, verde, bronzato, ocrato, madreperlaceo, etc. Le ceramiche venivano ornate con motivi epigrafici e vegetali o anche, ma più raramente, con figure. In questo caso si trattava di immagini di musici, danzatori e bevitori, o anche di sagome di animali rappresentate in maniera oltremodo stilizzata, sì da apparire come forme astratte, secondo i dettami della nuova estetica abbaside. La tecnica del lustro metallico ebbe enorme successo, come ci attestano i ritrovamenti di Samarra, e si diffuse rapidamente in tutto il mondo islamico, dalla Siria all’Egitto, dalla Spagna alla Persia, dall’Africa settentrionale all’India (Brahmanabad), a Samarqanda. Nella moschea di Sidi Oqba a Qayrawan abbiamo una delle testimonianze più antiche dell’impiego di tali mattonelle per decorare l’arco a ferro di cavallo e la parete posteriore del mihrab. Importate dall’Iraq nell’862, esse sono a lustro monocromo di tonalità verde-blu, ornate con disegni geometrici e con motivi di ali e di mezze palmette, che si staccano dal fondo punteggiato, creando un vivace contrasto. Oltre alle mattonelle da rivestimenti parietali, si producevano in gran copia piatti, ciotole, vasi, anfore, vasellame d’ogni tipo. In altri centri, per esempio a Hira, veniva prodotta una ceramica a rilievo, secondo un metodo che era già noto a Susa, in Iran. I recipienti, modellati con l’uso di stampi, venivano poi invetriati in verde o giallo, che dopo la cottura davano all’oggetto una particolare brillantezza. Un altro tipo di ceramica, non invetriata, veniva decorata con l’aggiunta di paste malleabili, secondo la cosiddetta «tecnica barbotine». I motivi ornamentali erano per lo più epigrafici, ma anche fitomorfi, altamente stilizzati, fino ad essere ridotti a pure forme geometriche. Non mancavano figure umane e animali, specie negli oggetti di uso quotidiano. Come abbiamo accennato, nella fastosa decorazione dei palazzi abbasidi dovette avere gran parte la pittura, anche se purtroppo ce ne sono rimaste solo poche vestigia. I ritrovamenti più cospicui sono stati fatti nella sala a cupola dell’harem del Grande Palazzo, interamente dipinta con scene figurative. Altri resti si sono rinvenuti in una villa di Samarra: tutte le pitture sono eseguite in uno stile ellenistico-orientale, cioè irano-sasanide. Sebbene per lo più siano molto rovinate, vi si possono riconoscere dei cicli iconografici: uno di essi era collegato al «signore in trono», situato in posizione preminente fra i suoi pretoriani turchi. Questi sono riconoscibili dalle ricche vesti e dalla particolare cintura con corregge pendenti. È probabile che i pretoriani fossero rappresentati allineati ai lati del trono, come in parata, secondo lo schema che ci è stato conservato dalle più tarde pitture ghaznavidi della sala del trono di Lashkari Bazar in Afghanistan. Un altro ciclo verteva sui divertimenti della corte, esemplificati da scene di caccia che mostrano una singolare particolarità, forse perché si trovano nell’harem: protagoniste dei vari episodi venatori sono sempre delle donne, cacciatrici o cavallerizze. Una rappresentazione molto caratteristica è quella del toro selvatico trattenuto per le corna da una donna, mentre un cane lo azzanna al ventre. Il tutto è racchiuso entro una cornice di perle a me-
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daglione. Lo Herzfeld aveva in origine interpretato quest’episodio come 1«uccisione della vittima del sacrificio», ma Katharina Otto-Dorn lo ha identificato invece come un tema della caccia regale, anche perché la figura del toro, dipinta in maniera astratta, con la pelle di colore azzurro a circoletti variopinti, ha al collo le tipiche sciarpe svolazzanti sasanidi, attributo che ne attesta l’appartenenza allo zoo principesco. Un fregio che corre tutt’intorno alla sala cupolata dell’harem mostra una serie di animali: falchi, aquile e un cane da caccia, che abbattono la selvaggina, rappresentata da lepri, gazzelle, pantere, uccelli, racchiusi entro tralci di vite e arabeschi di cornucopie, stretti da un fregio con animali inseguiti da cani. Oltre agli animali si riconoscono anche figure di danzatrici seminude e, forse, di vendemmiatori. Numerosi altri fregi con selvaggina, atteggiata nelle pose tipiche dello «stile animalistico» scitico, e a volte contrassegnata da sciarpe regali sasanidi, alludono simbolicamente al paràdeisos del re. Tra la serie dei divertimenti principeschi ci sono anche varie rappresentazioni di danzatrici e cantanti. Famosa è la scena raffigurante due fanciulle con ciocche di capelli sulle guance, lunghe trecce scure, e volti pieni con gli occhi a mandorla, che danzano drappeggiate in lunghi veli, sorreggendo nelle mani coppe scanalate e bottiglie dal lungo collo. La scena si rifà alla tradizione classica, ma qui le figure sono come incorporee, piatte, secondo le direttive di astrazione del nuovo stile figurativo abbaside. Sembra cioè che si voglia rendere il simbolo della danza regale più che il ritratto di danzatrici viventi, «una cerimonia senza fine piuttosto che un drammatico accadimento». Esistono anche figure di danzatrici isolate, nude fino ai fianchi, circondate da vari animali, soprattutto uccelli. A queste pitture murali vanno aggiunte una dozzina circa di anfore in argilla, alte 85 cm., fornite nella parte inferiore di una punta che consentiva di configgerle nel terreno, ornate su un solo lato da figure dipinte. D.S. Rice ha dimostrato che dovevano essere anfore vinarie, in quanto avevano contenuto un tempo vini fermentati naturalmente o artificialmente, secondo le indicazioni di «etichette» recanti il nome del vignaiolo, del mercante o del cantiniere. Le figure rappresentate su queste giare hanno una stretta connessione con la corte. Si tratta di personaggi femminili, o di cacciatori, di militari o di figure barbute in abiti scuri, identificabili probabilmente come monaci. Essi sono rappresentati sempre in atteggiamento frontale e di assoluta immobilità, entro una bordura di perle che ricorda il motivo delle arcate nelle pitture murali. Vari elementi, e soprattutto le cinture con corregge, fanno riconoscere vari personaggi come guardie turche. Alcune immagini presentano attributi particolari, riferibili a cariche dei pretoriani ben definite. Così l’uomo con la gazzella gettata sulla spalla rappresenta, per la Otto-Dorn, il cacciatore che trasporta la selvaggina abbattuta e cioè il «cacciatore personale» del re; analogamente, il pretoriano con un falco trattato come un animale araldico rappresenta il «falconiere reale». Fra le altre si possono riconoscere le figure del portatore di spada, dei portatori di clava, forse anche dei portatori di scudo e quella del maestro di polo, caratterizzato dalla tipica mazza ricurva. Tutte queste figure sono abbigliate in ricche vesti, secondo la prassi dei componenti entourage reale. Sappiamo che i componenti dell’armata abbaside erano vestiti di broccato doro e solevano adornarsi anche
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di bracciali doro, e gli ufficiali di fermagli doro da collo, che ricevevano in dono dal sovrano. Per compensare i suoi soldati, il sovrano soleva donare anche «abiti d’onore», che per meriti particolari potevano raggiungere il numero di cinque o addirittura di sette. Si trattava sempre di vesti sontuose in broccato, damasco, colorate o nere, che erano caratterizzate dai tiraz, strisce applicate sulle maniche, recanti generalmente iscrizioni in oro, che ne attestavano la provenienza dalle manifatture dello stato, chiamate anch’esse tiraz. Queste strisce appaiono chiaramente sulle figure delle anfore e ci dimostrano quindi l’appartenenza dei personaggi rappresentati al corpo delle truppe scelte del sovrano. Le figure femminili delle stele sono invece da interpretarsi come artiste o cantanti particolarmente onorate a corte. Lo stile delle pitture di Samarra è robusto e vigoroso: le figure corpulente e i volti pieni e carnosi sono evidenziati da un contorno nero entro il quale il colore si distende uniformemente a tonalità forti, poiché manca ogni intendimento spaziale. Non esiste alcuna notazione paesaggistica, tranne in qualche caso uno scarno accenno simbolico. Anche il movimento è talvolta appena suggerito, ma assai lontano dalla rappresentazione naturalistica. Le figure degli animali o sono prive di movimento e ridotte alla loro forma essenziale, oppure sono in stile naturalistico, spesso disposte in file come nelle pitture di stile sasanide. Le scene e le figure, inserite entro cerchi e quadrati, sono sovente incorniciate da file di perle, sempre secondo la maniera sasanide. L’influenza di quest’arte è infatti innegabile su queste pitture, anche se si può dire interpretata con una visione «mesopotamica». La pittura di Samarra, come altri elementi dell’arte samarrana, fu trapiantata in Egitto da Ahmad ibn Tulun, e al-Qatai doveva conservarne notevoli esempi, un’eco dei quali sopravvive nel periodo dei Fatimidi, in pitture murali rinvenute negli scavi, o in rappresentazioni figurative su ceramiche e avori, ove peraltro la pesantezza dell’antico stile abbaside è vivificata dall’intervento di una tendenza più realistica. Con il secondo periodo di Baghdad capitale dovette svilupparsi anche un altro genere di pittura, quella dell’illustrazione miniata di manoscritti. Gli esempi che ce ne sono giunti sono però piuttosto tardi, risalendo solo alle ultime decadi precedenti la distruzione del Califfato. I centri di produzione erano soprattutto due: Mossul e Baghdad. Le opere illustrate sono scientifiche o letterarie; nel primo gruppo c’è la traduzione del «De Materia Medica» di Dioscoride, redatto nel 621/1224, senza indicazione di luogo, e un altro manoscritto della stessa opera, proveniente dall’Iraq settentrionale e datato 629/1229. Le miniature si ispirano ad illustrazioni bizantine, ma con caratteristiche proprie dell’arte islamica. A differenza dei prototipi, qui c’è la tendenza a rappresentare lo svolgersi dell’azione. Per esempio, invece di raffigurare solo una pianta per illustrare un capitolo di un erbario, l’artista islamico rappresenta anche il luogo ove l’erba cresce, il modo di trattarla e il processo attraverso il quale il farmacista la utilizza per la sua droga. Gesti e sentimenti sono resi con enfasi, ma con un accentuato senso della realtà. I due manoscritti più importanti delle opere letterarie sono quelli delle «Maqamat» di al-Hariri, provenienti probabilmente da Baghdad; uno di essi è datato 634/1237 e l’altro dovrebbe essere dello stesso periodo. La tendenza al naturalismo è qui ancora più accentuata
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che nelle opere scientifiche, e le varie scene caratteristiche ci danno un’ottima idea della vita e delle usanze della classe media urbana degli inizi del xiii secolo. Per il loro stile disinvolto ed efficace le figure dimostrano di essere abbastanza affrancate dalle convenzioni del periodo precedente, cioè dalle pitture auliche del primo periodo abbaside. Si notano anche i primi esempi di paesaggi e di marina, seppure rappresentati in modo molto convenzionale, come quadro circostante all’azione. In alcuni casi s’intuisce anche una certa consapevolezza della terza dimensione, sebbene nel complesso queste miniature abbiano una certa «ingenuità», disposte come sono sul foglio senza una cornice che le separi dal testo, dipinte sul fondo costituito dalla superficie grezza della carta. Fra i manoscritti di Mossul, i principali sono una serie di volumi del Kitab al-Aghani, redatti fra il 614-16/1217-19 per la biblioteca di Badr al-Din Lulu, governatore di Mossul, con una forte influenza irano-turca e un aspetto più aulico di quelli di Baghdad. Non abbiamo che scarsissime testimonianze tangibili di una produzione metallistica abbaside: i pochi oggetti che ci sono noti sono rappresentati da acquamanili e bruciaprofumi per lo più teriomorfi, che rivelano forti influssi sasanidi. Non è escluso che se ne possano in futuro individuare degli altri nel complesso della toreutica islamica medioevale, ancora tutta da sistemare. Ma che una produzione, e anche raffinata, dovesse esistere, ci viene indirettamente confermato sia dalle fonti scritte che dalle decorazioni pittoriche, dove appaiono suppellettili doro e d’argento, sia a Baghdad che a Samarra. Abbiamo già riferito la notizia secondo la quale Zubayda adoperava soltanto stoviglie di metallo prezioso. Dal canto suo, il grande poeta abbaside Abu Nuwas ci ha lasciato dei bellissimi versi su una tazza doro e sulla sua decorazione: «In una tazza doro lucente il vin servito fu dal coppiere. Come incantavano l’occhio le immagini onde l’artefice l’aveva ornata! Vedi, di Cosroe, ritto nel centro, il fianco al dardo volgono le antilopi ai cacciatori fuggendo pavide...» Quanto alle testimonianze iconografiche, basterebbe ricordare la coppia di danzatrici di Samarra, con tazze doro scanalate, o ancora il frammento di pittura murale trovato in una villa, in cui compare un cortigiano seduto alla turca, con accanto una coppa doro. Anche su una moneta d’oro di al-Muqtadir e su una coppa smaltata compare la figura del sovrano, seduto alla turca, con in mano un vaso in metallo prezioso, identificato simbolicamente come la «coppa del mondo». Le fonti ci parlano anche di aspersori d’argento e di bruciaprofumi metallici; infatti, accanto alla produzione più aulica, cera una vasta produzione di oggetti nobili in metalli vili, come il bronzo, il rame, l’ottone, che venivano però arricchiti da incrostazioni in oro e in argento, sì da non derogare completamente dalle regole religiose circa l’impiego di metalli preziosi, ma ottenendo nel contempo utensili di pregio. Si usavano anche molto gli oggetti di vetro, nel plasmare i quali pare eccellessero gli artisti di Basra. Si ricordano coppe, vasi, caraffe, fiasche, bicchieri, boccali anche di grandi dimensioni e lampade. Le tecniche di lavorazione erano diverse. Si conoscono vetri graffiati, pressati, tagliati, soffiati, con applicazioni o con disegni finemente molati. Potevano essere
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incolori o tendenti al paglierino e al verde pallidissimo, ma anche color rubino e azzurro scuro. In epoche più tarde vennero dipinti con una pittura simile a quella a smalto. I frammenti di vetro con motivi zoomorfi incisi rinvenuti a Samarra potrebbero anche provenire dall’Egitto o dalla Persia, ma ad officine siriane e iraqene si devono i vetri a nodi e a fili, così chiamati per la particolare tecnica di lavorazione. Fra gli ornati, dal disegno preciso ma molto fluido, ci sono motivi epigrafici, arabeschi, stemmi, temi animalistici e figurati con scene di corte, in una gamma smagliante di colori, in cui gioca una parte importante anche loro. Accanto alla produzione dei vetri cera quella dei cristalli di rocca, impiegati per creare un gran numero di oggetti, dalle coppe e i flaconi di varie dimensioni, a piccole sculture d’animali, a pezzi del gioco degli scacchi, a mazze darmi, persino a parti di mobilio. Il cristallo di rocca era infatti altamente apprezzato, perché aveva «la sottigliezza dell’aria e la trasparenza dell’acqua», e conobbe una straordinaria fortuna anche in Occidente. Anche per questo materiale erano rinomati, in epoca abbaside, i laboratori di al-Basra, ove, a quanto ci racconta il grande scienziato al-Biruni, morto nel 1049, il miglior cristallo da lavorare proveniva dalle isole dell’Africa Orientale. Vari oggetti di produzione iraqena del ix-x secolo sono ora conservati in Musei e Collezioni occidentali, fra cui il Tesoro di San Marco a Venezia. Un’altra industria molto attiva era quella degli avori scolpiti e intagliati, di cui è sopravvissuto qualche esempio persino del x secolo: si veda il bellissimo elefante, elemento del gioco degli scacchi, reso plasticamente con una precisa forza volumetrica, e con la gualdrappa lavorata a palmette lobate secondo le stilizzazioni di Samarra, ora conservato al Bargello di Firenze. Il gioco degli scacchi, cioè il «gioco dei re» (shah), era molto di moda presso la corte abbaside. Si racconta che Harun ar-Rascid teneva sempre presso di sé dei giocatori, con i quali soleva giocare anche a bordo del suo battello sul Tigri. Oltre a queste figure degli scacchi dovevano esistere anche cassettine scolpite e con scritte beneauguranti, di cui si conservano numerosi esempi nella produzione cordovana del x secolo e quindi in quella identificata come egiziana, siriaca e persiana dei susseguenti secoli xii e xiii, pervenuta in Occidente per varie vie e conservata per lo più nei tesori delle chiese. Né va dimenticata la produzione dei tessuti, di cui ci sono pervenuti numerosi frammenti, prodotti nei tiraz reali col sigillo del califfo regnante, che oltre che come doni a soldati e dignitari, o ad ambasciatori stranieri, servivano per usi di corte. In occasione di feste particolari, si addobbavano le pareti con stoffe intessute doro. Parallelamente alla produzione di tessuti doveva esistere quella dei tappeti, spesso ricordati anche dalle fonti letterarie: «Al-Mutasim stava seduto e si faceva mostrare tappeti di primavera (furush al-rabi‘) ed ecco apparire fra questi un tappeto di broccato di straordinaria bellezza», nel quale erano ricamati i versi di una poesia d’amore. Sappiamo dalle fonti quanto fosse avanzata la tecnica della lavorazione del legno, che serviva non solo per fabbricare porte e architravi, ma anche per fornire gli stampi per le lastre decorative in stucco. Una testimonianza indiretta ci viene dalle travi del soffitto e dai pannelli delle porte della moschea di Ibn Tulun, al Cairo, e dai pannelli decorativi di case
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private, sempre di epoca tulunide, produzione contemporanea a quella di Samarra e in gran parte da essa derivata. Gli esempi pervenutici presentano un vero campionario dei lavori di Samarra, dei quali ripetono il taglio a scancìo e le stilizzazioni delle figure, come quella dell’uccello che si risolve in arabesco, che compare negli stucchi samarrani del «terzo stile». Proviene dai laboratori di Baghdad il minhar in legno di platano intagliato della moschea di Sidi Oqba a Qayrawan, risalente all862-863- Qui la decorazione è disposta in campi quadrangolari sistemati gli uni sugli altri ad andamento verticale, e si apparenta agli stili A e B di Samarra, con motivi di tralci di vite e varie trasformazioni della mezza palmetta e del lobo circolare o a S. Un’altra testimonianza indiretta della straordinaria fortuna dell’arte dell’intaglio abbaside ci viene dai pannelli di legno provenienti con ogni probabilità dal palazzo occidentale fatimide del Cairo, oggi conservati nel Museo Arabo della stessa città. Tipico è il disegno di due teste di cavallo addossate, che si fondono intimamente con gli arabeschi, staccandosi dal fondo. Un’altra serie di intagli in legno, sempre del xii secolo e sempre provenienti dal palazzo occidentale dei Fatimidi, venne riutilizzata nel più tardo periodo mamelucco dal sultano Qalawun. In questi pannelli, dalla decorazione più realistica e dalla tecnica raffinata, si svolgono scene della vita di corte, col signore in trono, la gente a banchetto, i musici, le danzatrici; o anche scene di caccia, con cacciatori a piedi o a cavallo, falconieri e selvaggina; e scene di genere, come il vendemmiatore, il nomade con il cammello carico, oltre a motivi magici, come la sfinge, lutto un repertorio ricchissimo, che ci dà un’idea della fantasia decorativa elaborata dagli artisti abbasidi. Un singolare quanto inaspettato quadro della vita di corte, e quindi della tematica ornamentale del primo periodo abbaside, ci viene da un’area estranea all’Islam. Si tratta di una serie di rilievi iconografici che decorano la parte alta delle mura esterne della piccola chiesa armena di Santa Croce, situata sull’isola di Akhtamar nel lago Van. Fondata tra il 915 e il 921 dal re armeno Gagik, questa chiesetta costituisce un’eloquente testimonianza dell’incontro artistico tra il mondo cristiano e quello islamico nell’oriente anatolico. In realtà, quest’«invasione» di elementi abbasidi nella sfera armeno-cristiana si può spiegare con i contatti amichevoli intrattenuti tra Gagik e il Califfato abbaside, allora governato da al-Muqtadir (908-932). I rilievi della chiesa di Akhtamar sono disposti entro due fregi, uno più ampio, a tralcio di vite, secondo un concetto di antica derivazione ellenistica, ripreso dall’Islam attraverso la sua interpretazione iranica, uno più sottile, con figure di animali, che corre sotto la gronda del tetto. In entrambi questi fregi è rappresentata la vita di corte degli Abbasidi. Al centro della composizione è assiso il Califfo, nimbato e seduto «alla turca», con in mano la «coppa del mondo», secondo la nuova iconografia del sovrano che troviamo testimoniata anche sulla ceramica di Samarra e sulla già citata moneta doro dello stesso Califfo, conservata oggi a Berlino. Il principe appare affiancato da assistenti che possono essere riconosciuti come guardie turche per via dei caffettani dal caratteristico collo a risvolti nei quali sono abbigliati, ma soprattutto per la cintura a corregge che abbiamo visto tipica del loro abbigliamento sulle anfore di Samarra. I pretoriani rendono omaggio al sovrano offren-
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dogli uva o melograni, ambedue simboli del paradiso. Sempre nel fregio a tralci di vite si riconoscono varie scene di caccia ricche di particolari, che permettono di ricostruire anche quelle che a Samarra sono andate perdute. Il sovrano appare come cacciatore, alto sulle staffe del cavallo, mentre con arco e freccia sta per uccidere un orso, volgendosi all’indietro nel tipico atteggiamento tattico dei popoli delle steppe, chiamato della «fuga simulata». Fra gli animali cacciati compaiono anche cinghiali, leoni, volpi, gazzelle, lepri e vari uccelli. Fra i cacciatori si riconoscono anche quelli che trascinano via la selvaggina abbattuta e un portatore di gazzella, assai simile a quello rappresentato su un’anfora samarrana. Nel fregio che corre sotto la gronda c’è tutta una teoria di animali in fuga, che fanno pensare al paràdeisos, il terreno di caccia regale. Si riconosce anche una figura di toro afferrato per le corna, come nel frammento «al femminile» rinvenuto nell’harem del Giausaq al-Khaqani di Samarra, e diversi combattimenti di animali (galli, arieti), eseguiti con la tecnica dello «stile smussato». Si possono individuare anche scene di danza e di lotta, che come sappiamo erano fra i divertimenti preferiti della corte abbaside; idilli di animali, e immagini magico-simboliche, come la sfinge accanto all’albero della vita, elementi tutti che dovevano avere il loro corrispettivo nell’arte di Samarra e di Baghdad, sulla quale i rilievi di Akhtamar gettano tanta luce. Un’altra testimonianza indiretta della vita di corte e insieme dell’esistenza di una grande pittura murale in epoca abbaside ci proviene, per un felice concorso di circostanze, da un’area totalmente diversa e ancora da un monumento cristiano. Si tratta della Cappella Palatina di Palermo, costruita dai sovrani normanni di Sicilia nella prima metà del xii secolo. Come sappiamo i Normanni, benché avessero tolto la Sicilia ai Musulmani, avevano però adottato molti usi e costumi islamici, e persino la lingua, per le titolature ufficiali. La Cappella Palatina conserva una serie molto estesa di pitture derivate dall’arte di Samarra, cui forse si possono aggiungere i resti di decorazione analoga, forse di mano degli stessi artisti, recentemente scoperti su alcune travature del Duomo di Cefalù, anch’esso fondato da Re Ruggero ii. Altre pitture dello stesso tipo, un tempo sui soffitti lignei del Duomo di Palermo, di quello di Monreale e della Cattedrale di Messina sono andate perdute a causa di incendi, terremoti o cattivi restauri. La Cappella del Palazzo Reale di Palermo è una struttura ibrida, nella quale si combinano un santuario di tipo bizantino, la cui navata occidentale è decorata sulle pareti da mosaici cristologici e con scene dell’Antico Testamento, e un soffitto ligneo lavorato e dipinto alla moda musulmana. Questo soffitto nella parte centrale è formato da due file di poligoni stellati racchiudenti ognuno una cupoletta polilobata, intervallate da cassettoncini quadrati, più piccoli; alle estremità laterali altri cassettoni ottagonali, ma inferiori per dimensioni a quelli centrali, si appoggiano ai muri d’ambito per mezzo di mensole a muqarnas. Il tutto dà origine a una sistemazione tridimensionale che vuole imitare un cielo stellato. Le pitture che interessano tutto il soffitto sono dipinte a tempera su un leggero strato di gesso che riveste la struttura lignea delle coperture, assai elaborata nella navata mediana, come abbiamo visto, e formata da travicelli in leggera pendenza nelle navatelle laterali. Iniziate
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poco dopo la fondazione della Chiesa (1140 ca.), esse dovevano essere terminate intorno al 1149. La decorazione riveste tutta la superficie che nella navata centrale è frazionata dal gioco geometrico di piani e solidi in cui risulta articolata, con una serie di iscrizioni, arabeschi, intrecci geometrici e figure. Tema dominante dell’insieme è l’esaltazione del sovrano, il «signore del tempo», cui si augurano lunga vita, gioia e felicità. Egli è infatti dispensatore di benessere in quanto gode del favore concesso da Dio, ed è perciò posto in correlazione con la gloria del Cristo, celebrato come sovrano trionfante nei mosaici bizantini che adornano le pareti e la cupola della chiesa. Alla rappresentazione del re in trono si affiancano gli svaghi del principe, esemplificati nell’attività venatoria, nei tornei, nei simposii allietati da musiche, canti, danze, spettacoli di lotte, giochi acrobatici, combattimenti di animali. Le pitture, nonostante i guasti subiti con manomissioni e rifacimenti nei secoli xv, xvi e xviii, sono particolarmente godibili da una veduta ravvicinata. Dal basso le figurine si confondono fin quasi a dare l’illusione di un lussuoso drappeggio di tenda, ancora ravvivato da qualche tocco aureo. All’epoca della loro composizione loro doveva essere ovunque risplendente, se un testimone oculare, Teofane Cerameo, che pronunciò un’omelia nella Cappella davanti a Re Ruggero e ai suoi figli, poteva descriverla un po’ enfaticamente: «... d’ogni parte risplendente doro, sembra la volta del cielo notturno quando nell’aria pura riluce il coro delle stelle». Secondo la tendenza antinaturalistica perseguita dall’estetica islamica, il ciclo delle rappresentazioni non è legato in un sistema narrativo, ma è frazionato in tante singole figurazioni che hanno in comune fra loro solo un astratto riferimento simbolico: la glorificazione del sovrano. Sia nelle navatelle che nella navata centrale si mantiene sostanzialmente lo stesso repertorio iconografico e decorativo. Figure e ornati sono disposti entro riquadri e cartigli nelle innumerevoli sfaccettature create dai muqarnas, nella navata centrale e su spazi creati artificialmente nei cassettoni delle navatelle. Ogni zona decorata è circondata da una serie di perle, o di perle e fusi, che le fanno da cornice, secondo una moda sasanide ripresa dall’Iraq abbaside, come abbiamo visto nelle pitture di Samarra. Oltre al ciclo esaltante la vita del principe e i suoi svaghi, si possono enucleare nelle pitture della Palatina altri tre gruppi di figurazioni. Uno ripropone animali e scene mitiche, un altro scene realistiche di vita quotidiana, un terzo iconografie di riferimento occidentale. Nel primo ciclo, riferibile alla persona del sovrano, la figura più rappresentata è forse quella del bevitore, che riconduce al tema dei piaceri del principe. Quest’ultimo è rappresentato più volte e in due casi è seduto sul trono, nella posa detta «alla turca», con in capo una corona a tre punte di tipo mesopotamico, ritratto nell’atto di bere da una coppa che regge nella mano destra, mentre nella sinistra ha un fiore. Posa e attributi fanno riferimento alla maestà e all’abbondanza, così come il fasto dell’abbigliamento e il contorno degli attendenti o delle coppiere che fanno capo al re. Oltre ai bevitori, numerose sono anche le ballerine, talvolta accompagnate da musicanti, giocolieri, lottatori. I ludi venatorii sono rappresentati dal falconiere, accompagnato da due o più cacciatori, che in qualche caso colpiscono gli animali secondo l’uso nomade di voltarsi all’indietro. Frequenti sono le rappre-
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sentazioni di portatori di animali, fra cui l’uomo con un pavone, animale regale, portato in grembo secondo un’iconografia testimoniata in ambiente iranico su argenti tardo-sasanidi o proto-islamici, e in ambiente egiziano su stoffe copte. In quest’ultimo caso essa è adottata per rappresentare Noè che sale sull’arca. Le serie di animali che corrono su fondi a girali suggeriscono ancora una volta i paràdeisos. Fra i passatempi regali è rappresentata anche una partita a scacchi che si svolge sotto una tenda, e che non ha precedenti nell’iconografia abbaside o fatimida, ma che doveva essere ben nota all’Islam, ove il gioco era tenuto in gran conto. È interessante notare che le miniature spagnole che illustrano il «Trattato sul gioco degli scacchi» fatto tradurre da Alfonso il Savio nel 1283, ora conservato all’Escorial presso Madrid, presentano lo stesso schema della pittura siciliana: esso diverrà poi abbastanza consueto nella più tarda miniatura persiana. Altre figurazioni del ciclo regale sono quella con una donna montata su un palanchino trasportato da un elefante (scena che ritroviamo su un avorio cordovano del x secolo, anch’esso riferibile all’iconografia principesca, e che diverrà comune nella più tarda iconografia vascolare persiana), e quella con una donna su un palanchino trasportato da un cammello. Anche questo soggetto sarà testimoniato varie volte su avori, legni e disegni su carta d’epoca fatimide, così come quello del cammello che trasporta un palanchino chiuso, che compare anche sulle sculture lignee provenienti forse dal palazzo dei Fatimidi al Cairo, sempre riferito ai «divertimenti del principe». Fra i soggetti animalistici si notano tutta una serie di animali reali e fantastici, che per antica tradizione hanno connotazione regale e beneaugurante, in quanto alludono alla forza e alle energie naturali. Assai importanti sono, a questo proposito, il già accennato pavone, simbolo solare e quindi di gloria reale; il pappagallo e altri uccelli, simboli di dolcezza e di delizia paradisiaca; le anatre, le aquile, i falchi, questi ultimi legati alla forza e alla sovranità. Frequente è la rappresentazione dei leoni, altri simboli solari e regali, isolati o in coppia, affrontati o addogati, monocefali ma con doppio corpo; di grifoni, sfingi e arpie, tutti animali con forte connotazione solare. Alle figure di animali singoli si aggiungono numerose zoomachie, le più frequenti fra le quali sono quella del rapace che afferra un animale inerme o un altro uccello, o ancora la lotta del leone col serpente, che allude sia alla lotta fra il bene e il male, sia a quella fra il principio oscuro e quello luminoso. Altre scene mitiche, derivate da fonti ellenistiche o mesopotamiche, si possono ricollegare a figure di santi o dell’antico Testamento, come per esempio il cavaliere che lotta con il dragone, riconducibile a San Giorgio; il personaggio che tiene per il collo due leoni, ricordo del Ghilgamesh mesopotamico, riferibile a Daniele; l’eroe che afferra per le mascelle un felino, in cui si può trovare un riferimento a Sansone. Tutto questo bestiario della Palatina sembra derivare in gran parte dall’arte tessile, che ormai da tempo ne aveva elaborato e fissato tipologie e stilizzazioni iconografiche. Quanto agli esecutori delle pitture della Palatina sono state formulate varie ipotesi. Una delle più plausibili parla di intervento di pittori fatimidi dall’Egitto, anche se non conosciamo testimonianze pittoriche dirette provenienti da questa località. Si è anche supposta una partecipazione di artisti della Siria o della Mesopotamia settentrionale, cui farebbe riferi-
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mento lo stile delle iscrizioni cufiche presenti nella decorazione del soffitto. Non sarebbe da escludere neanche la partecipazione di pittori provenienti dall’Ifriqíya, dati gli intensi scambi intercorrenti tra la Sicilia e questa regione dell’Islam. Non è escluso che Re Ruggero ii avesse chiamato a lavorare per sé artisti di quelle regioni, dati i contatti sempre vivi tra la Sicilia e l’Egitto, la Siria e l’Ifriqíya, o che gli artisti fossero accorsi spontaneamente a Palermo, attirati dalla fama del gran re e dalle numerose opere da lui promosse. Un’ipotesi recente sostiene che gli artisti fossero musulmani di Sicilia, cui forse si aggiunsero pittori venuti da fuori, come farebbero pensare talune scene «all’europea». Comunque sia, un fatto è certo: i pittori della Cappella Palatina si avvalsero di un ricco repertorio di scene collegate alla «vita regale», che era stato sicuramente elaborato in ambiente perso-iraqeno. Se Akhtamar e Palermo risentirono così fortemente l’influsso del ricchissimo patrimonio artistico abbaside, pur essendo permeate di tradizioni e religione diverse, è naturale che ad esso si siano ancor più ispirate le aree geografiche dipendenti dall’Islam, anche se di fatto dal Califfato si erano andate distaccando politicamente, già dal x secolo. Abbiamo già detto che un aspetto molto interessante dello stile imperiale abbaside lo ritroviamo in Egitto, il cui governatore, lo schiavo turco Ahmad ibn Tulun, si creò una breve dinastia indipendente che durò dall’868 al 905 d.C. Costruita la nuova città di al-Qatai, egli vi eresse una Grande Moschea che nell’impianto, nell’impiego del laterizio per la muratura e dello stucco per la decorazione, segue direttamente i modelli mesopotamici. Essa si avvale anche della ziyàda per isolarsi dal contatto con la vita del bazar, secondo il disegno delle moschee di Samarra, e aveva in origine un minareto a spirale, in parte rifatto con diverso stile nel 1296, come nei monumenti iraqeni. La moschea di Ibn Tulun è interamente costruita in mattone rosso e ha la sala di preghiera piuttosto profonda, però con navate parallele al muro della qibla, sorrette da pilastri rettangolari con colonnine angolari, collegati da arcate leggermente rialzate, sulle quali poggiano le travature del tetto piatto. Poiché i grossi pilastri hanno lasse maggiore parallelo alla qibla, sì da impedire la visione di questa quasi da ogni parte della sala, vari mihrab supplementari sono incisi sulle facce esterne dei pilastri stessi. Nell’intradosso degli archi e nelle delicate grate delle finestre, la decorazione è scolpita in stucco, con foglie di vite e palmette, secondo il ii stile di Samarra; lo stile «smussato» è stato impiegato solo negli architravi lignei dei numerosi portali, di cui ci sono pervenuti discreti resti. Gli artigiani di quest’epoca furono infatti ottimi intagliatori in legno, con il quale solevano ornare non solo le moschee, ma anche le pareti e le porte delle case, con pannelli nei quali si dispiega il caratteristico iii stile di Samarra. Si racconta che Khumarawayh, il Tulunide che regnò alla fine del ix secolo, avesse fatto intagliare per il suo palazzo delle statue in legno dipinto, che raffiguravano lui stesso, le donne del suo harem e le sue cantanti favorite. L’influenza di tipologie architettoniche abbasidi si ritrova nelle case tulunidi rinvenute a Fustat, l’antica Cairo, esemplate sul modello iraqeno; le ceramiche a lustro provenienti dalla stessa località dipendono anch’esse dai tipi mesopotamici. Fra i rari monumenti del più antico periodo abbaside in Iran (metà circa dell’viii secolo) è la moschea di Damghan, situata a sud della punta più orientale del Mar Caspio. In essa,
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tuttavia, all’impianto iraqeno, con navate ipostile perpendicolari alla qibla, corrisponde una struttura completamente sasanide, sia per quanto riguarda i massicci pilastri rotondi, sia per gli archi rialzati ma soprattutto per le caratteristiche volte dal profilo ovoide. Altre moschee iraniche di poco posteriori, come quelle di Susa, di Shushtar, di Siraf, di Nayin, di Demavènd, di Farhag presentano ugualmente una pianta iraqena, ma sono realizzate con metodi costruttivi più propriamente iranici. Secondo le fonti, la più antica moschea di Nishapur aveva, come quella di al-Mansur a Baghdad, una sala di preghiera coperta in piano, ma con colonne lignee altissime, secondo una tradizione iranica che risale agli Achemenidi e che si mantenne in Iran per lunghissimo tempo. In molte di queste moschee la decorazione è però tipicamente abbaside: in stucco di stile samarrano per esempio a Nayin, di epoca buwayide; con nicchiette polilobate sul tipo di quelle di Raqqa e della moschea di Abu Dulaf a Farhag, dove troviamo anche la sala di preghiera a pilastri rettangolari con colonnine angolari, come in quella di Ibn Tulun, entrambe derivate da Samarra. Se la prima risale al 960 circa, la seconda è stata datata a circa l’ultimo quarto del ix secolo, proprio per il suo aspetto «samarrano», seppure interpretato in chiave provinciale. Nell’area di Balkh (Afghanistan) è stata abbastanza di recente scoperta una moschea di tipologia particolare, di origine oscura, di cui tuttavia si conoscono esempi anche in Ifriqíya, in Spagna, in Mesopotamia e in Egitto. Essa ha una pianta quadrata aperta su tre lati e scompartita all’interno in nove campate per mezzo di enormi pilastri rotondi, come a Damghan, ma qui completamente rivestiti da una decorazione in stucco del tipo A e B di Samarra. Lisa Golombek, che ne ha indicato per prima l’importanza, ha datato l’edificio alla prima metà del ix secolo: la sua decorazione costituisce uno degli esempi più completi dell’influenza samarrana a est della Mesopotamia. La dinastia dei Buwayhidi, proveniente dalle rive meridionali del Mar Caspio, aveva cominciato a ribellarsi contro il potere abbaside verso la fine del ix secolo, riuscendo intorno il 935 circa ad impadronirsi di fatto dell’Iraq, fino a costringere il Califfo ad una sorta di vassallaggio. Sebbene di formazione e di mentalità iraniche, i Buwayhidi risentirono non poco dell’influenza abbaside non solo nella loro produzione architettonica, di cui ci restano poche vestigia, ma anche nella pittura di manoscritti. Di essi ci è infatti pervenuto quello che possiamo considerare uno degli esempi più antichi di un testo miniato, il Kitàb Suwar al-Kawàkib ath-Thàbita, «Il trattato delle Stelle Fisse», eseguito da Abd ar-Rahman as-Sufi di Rayy, per il potente sultano Adud ad-Daula, intorno al 960. Si tratta di una rivalutazione critica di precedenti trattati arabi del ix secolo, rifacentisi alla classica opera di Tolomeo nota come Almagesto. Come già i modelli classici, sia il testo di as-Sufi, sia quelli dei suoi predecessori musulmani erano illustrati con le figure delle costellazioni. Del trattato di as-Sufi furono fatte varie copie, una delle quali, datata 400 egira (1009), appartiene alla Bodleian Library di Oxford. Rispetto ai tridimensionali prototipi classici, il manoscritto di Oxford usa un disegno «lineare», che circonda i punti rossi indicanti le stelle delle costellazioni, poiché, come sappiamo da una fonte letteraria, l’autore aveva tracciato le sue figure riprendendole dalle incisioni di un globo celeste riprodotte su una superficie metallica. Queste miniature
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rappresentano una trasformazione islamica degli originali classici, sicché le figure umane sono reinterpretate e le costellazioni ricevono nomi diversi. I tipi fisici sono orientali, cosa che appare evidente soprattutto dalle figure femminili, nelle quali è chiaro l’influsso abbaside. Infatti, non solo le pettinature sono le stesse di quelle che compaiono a Samarra e nella Cappella Palatina, con i riccioli pettinati sulle guance, attorti «come scorpione che si inarchi per essersi troppo avvicinato al fuoco della gota», ma anche lo stile degli abiti, con le pieghe rigonfie, si avvicina strettamente a quello di Samarra. Si può dire che si tratta qui di un’altra versione dello stile perso-iraqeno, sebbene un po’ più tardo di quello delle pitture di Samarra e, a causa della sua funzione e della sua tecnica, di natura più delicata. I Samanidi (874-999) riconobbero formalmente l’autorità califfale di Baghdad, ma di fatto regnarono sovrani sul Khorasan (Persia Orientale) e il Turkestan occidentale (Transoxiana), dalle loro capitali Bukhara, Nishapur e Samarcanda. La loro arte, come quella dei Tulunidi, si ricollega strettamente con quella del primo periodo abbaside, tanto da rappresentare una specie di pendant orientale dell’arte di Samarra, probabilmente perché i Samanidi, come gli Abbasidi, si appoggiavano su un’aristocrazia militare turca, e per la loro stessa posizione periferica potevano stabilire contatti molto stretti con l’Asia Centrale. Il loro monumento più noto, il mausoleo di Ismail a Bukhara, costruito nella prima metà del x secolo, è in un certo senso il corrispettivo del mausoleo abbaside di al-Muntasir, nel quale la cupola è un elemento costruttivo importante, ma qui si segue uno schema che deriva direttamente dal chahar taq, il tempio del fuoco sasanide. Anche le colonnine angolari che racchiudono la costruzione cubica, più che un ricordo dell’architettura abbaside, sono il riflesso di una tradizione centroasiatica. La decorazione a base laterizia, ottenuta costruttivamente basandosi sul gioco di combinazione geometrica dei mattoni in faccia vista era stato in parte sperimentato in ambiente abbaside e diverrà poi tipico delle arti ghaznavide e selgiuchide. La decorazione a stucco è limitata qui a pochi particolari, ma che dovesse essere largamente impiegata negli interni ci è testimoniato dai numerosi pannelli decorativi per ambienti, ritrovati negli scavi americani di Nishapur e sovietici di Samarcanda. In entrambi i casi lo stucco è tagliato col coltello, negli stili A e B di Samarra, con un ornato a mezze palmette unito a trafori bucherellati col crivello. Caratteristiche, come a Samarra, sono le teste d’uccello stilizzate inserite nelle volute del disegno e il becco degli uccelli risolto in mezze palmette, come nei pannelli tulunidi. Mentre gli stucchi erano impiegati a decorare gli zoccoli degli interni, la parte superiore delle pareti era ornata da pitture policrome disposte in una serie di nicchie che probabilmente formavano un motivo a stalattiti, oppure entro pannelli di decorazioni astratte nello stesso stile degli stucchi. I motivi riprodotti sono puramente decorativi, derivati dall’influenza sasanide, ma anche dalla tradizione dell’Asia interna, come a Samarra. Alcuni frammenti figurativi presentano un personaggio femminile e un cacciatore a cavallo riccamente abbigliato, con la cintura a corregge dei pretoriani turchi delle anfore vinarie di Samarra, con una preda gettata di traverso sulla sella.
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Un influsso abbaside molto forte si nota anche nell’abbondante ceramica ritrovata a Nishapur, sebbene non venga qui impiegata la tecnica del lustro metallico. Assai interessante è un piatto decorato con una danzatrice con veli, recante un vaso nella mano destra: essa è stilizzata come le danzatrici di Samarra, fin nel particolare dei piedi «a svolazzo» ed ha lo stesso carattere ornamentale. Con i Ghaznavidi, stabilitisi nella Persia Orientale, nell’odierno Afghanistan, nel Turkestan occidentale e in parte dell’India occidentale, della quale iniziarono l’islamizzazione, la seconda dinastia turca dopo quella dei Tulunidi entra nell’ambito dell’Islam, poco più di un secolo più tardi. Ancora una volta la corte abbaside continuò ad essere il modello della nuova dinastia, nella cui arte continuò a vivere la tradizione del primo periodo abbaside. Dei monumenti religiosi ghaznavidi non abbiamo che le colorite quanto fantasiose descrizioni dei contemporanei. La Grande Moschea di Mahmud (999-1030) – il sovrano più importante, protettore di Firdusi e autore di diciassette spedizioni in India, da cui tornava carico di bottino e di abili artigiani, che insieme con artisti e studiosi «reclutati» in tutto l’Islam, dovevano fare la gloria del suo regno –, sappiamo che era chiamata «Arus al-Falak» (La Sposa del Cielo) e che era decorata fantasticamente di pietre e marmi pregiati. Marmi «più delicati delle mani di una giovinetta e più lisci della superficie di uno specchio». Le colonne che componevano la sala di preghiera sarebbero state levigate come le guance di una fanciulla e le aeree arcate «richiamavano la visione di giardini in primavera». La sala, decorata con cornici d’alabastro, aveva un mihràb doro tempestato di lapislazzuli, con fregi in rosso e viola, mentre la maqsùra (specie di recinto protettivo per il sovrano) poteva contenere «non meno di quattromila pretoriani». Di questa favolosa costruzione non è stata trovata alcuna traccia, mentre sono ancora in situ due splendidi, ancorché mutili minareti, uno di Masud iii (1099-1115), l’altro di Bahram Shah (1118-1152), entrambi a forma di poligono stellato, sul quale si doveva innalzare un fusto cilindrico, andato perduto, che doveva portarne l’altezza a circa sessanta metri. La decorazione è disposta in pannelli con cornici molto rilevate, nei quali con una magistrale tecnica del mosaico in mattoni si sviluppano motivi dell’arte tessile, intrecci a paniere e caratteri cufici in forte rilievo su di un fondo di arabeschi. Ma lo strettissimo nesso che intercorre tra l’architettura e la decorazione ghaznavide da un lato e quella abbaside dall’altro, lo cogliamo nei palazzi reali, scavati a Lashkari Bazar dai Francesi, e a Ghazni, capitale del regno, dagli Italiani. La residenza di Mahmud (999-1030) a Lashkari Bazar, costruita in mattoni cotti e crudi, si stende per circa mezzo chilometro entro un vastissimo sito archeologico, ed è esemplata largamente come i palazzi di Samarra, ma soprattutto è decorata con pitture e stucchi di tradizione abbaside. Nella sala del trono gli affreschi coprivano gli zoccoli e gli stucchi la parte alta delle pareti, in posizione inversa a quelli di Samarra, ma le pitture presentano una serie di guardie, in origine sessanta, in massima parte perdute, purtroppo acefale e in parte frammentarie, tuttavia riconoscibili per il ricchissimo abbigliamento, costituito da caffettani in stoffe preziose, con i caratteristici colletti coi risvolti, tiraz alle maniche e la cintura con corregge, dalle quali pendono
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utensili della vita quotidiana. Il volto di una di queste guardie, conservatosi su una colonnina all’interno della stessa sala del trono, disegnata di tre quarti e leggermente inclinata verso destra, circondata da un nimbo e con un turbante piatto, è di tipo completamente turco, come quello che ci è noto da Samarra. Di grande interesse sono anche i rilievi marmorei che con ogni probabilità dovevano rivestire le pareti del Grande palazzo di Ghazna, la capitale della dinastia. Le figure di guardie qui erano allineate in processione, come a Lashkari Bazar, o anche isolate, sotto arcate a ferro di cavallo di tipo indiano. In altri frammenti si sono individuati i temi della caccia, con un cavaliere che si volta all’indietro nell’atto di uccidere un leone, o di un poderoso elefante preceduto da un cavaliere, o anche scene di danza. L’arte ghaznavide rappresenta l’irradiazione più orientale della grande arte abbaside, che ha costituito comunque un punto di riferimento e un arricchimento duraturo per tutto l’Islam. Infatti, come abbiamo visto, la grandiosità delle concezioni architettoniche, la genialità delle invenzioni decorative e il fasto della produzione artigianale delle ere più feconde del periodo abbaside mantennero costante nel tempo il primato artistico e culturale di questa dinastia, che sopravvisse alla fine della sua stessa supremazia politica e religiosa, su popoli conquistati e su oppositori, persino dopo il suo definitivo tramonto.
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Sopra, coppa proveniente da Samarra, in terracotta con invetriatura bianca. Ăˆ raffigurato un grande volatile stilizzato, Berlino, Museum fĂźr Islamische Kunst
In alto, ceramica samarrena con decorazioni in blu cobalto, che raffigura un pesce con due ramoscelli di erbe acquatiche, Oxford, Ashmolean Museum
A lato, piatto in ceramica di tipo samarreno con decorazione in blu cobalto e verde rame, Londra, Victoria & Albert Museum
A lato, piatto con una iscrizione in lettere cufiche in verde rame, Boston, Museum of Fine Arts
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Frammento di un piatto proveniente da Nishapur, del ix secolo, con decori in blu cobalto, New York, Metropolitan Museum of Art Ciotola decorata con la tecnica Millefiori proveniente dall’Iraq. È un manufatto tipico della produzione abbaside di Baghdad e di Samarra di oggetti destinati all’uso domestico, ix secolo, New York, Metropolitan Museum of Art
Tre esempi di ceramiche del ix secolo provenienti da Basra (Iraq), con decorazioni (dall’alto verso il basso) rispettivamente in verde rame, oro, blu cobalto, x secolo New York, Metropolitan Museum of Art
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Ceramica di Kashan (Iran), inizio xiii secolo, in cui è raffigurato un leone, simbolo del potere. New York, Metropolitan Museum of Art
Ceramica di Samarcanda, del x secolo, con decorazioni geometriche simili a quelle degli stucchi dei palazzi di Samarra, New York, Metropolitan Museum of Art
Varie tipologie ceramiche provenienti da Raqqa (Siria), databili tra il xii e il xiii secolo, New York, Metropolitan Museum of Art
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Pannello in stucco del “primo stile”, da Samarra, Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq Nella pagina precedente: Capitello in alabastro, con decori di foglie, nello stile del primo periodo abbaside. Proveniente probabilmente da Raqqa. New York, Metropolitan Museum of Art Pannello in stucco con decori, ritrovato a Nishapur e databile al x secolo. Ritrovato in una stanza, è probabilmente un frammento di una cornice. Ornamenti con file di foglie di vite e motivi a forma di ananas sono originali rispetto agli altri ritrovamenti di Nishapur. New York, Metropolitan Museum of Art
Lampada in pietra, con spazi previsti per più stoppini. Il manico curvo permette un trasporto più agevole. New York, Metropolitan Museum of Art La scultura di un piccolo cavallo, databile al ix secolo e proveniente da Nishapur. Si tratta forse di un giocattolo per bambini. New York, Metropolitan Museum of Art
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Due esempi di ceramiche di Samarra di diverse epoche. Nel piatto a sinistra sono rappresentati due uccelli, soggetti spesso ricorrenti nel periodo abbaside, a destra una figura umana stilizzata. New York, Metropolitan Museum of Art
Due ceramiche provenienti da Nishapur: a sinistra, un piatto del x secolo con decori bianchi su sfondo nero, colore tipico di questa ceramica di Nishapur; a destra piatto del ix-x secolo, con decori floreali in blu cobalto. New York, Metropolitan Museum of Art
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Brocca proveniente da Nishapur del ix-x secolo, su cui è raffigurato un volatile, probabilmente un pavone. New York, Metropolitan Museum of Art
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Pendente in oro proveniente dall’Iran dell’xi-xii secolo, con due uccelli affrontati. Sotto, da destra: pendente a mezzaluna da Nishapur, ix-x secolo; elemento di collana di probabile provenienza siriana risalente all’xi secolo; anello con tormalina incastonata proveniente dall’Iran e databile al xii secolo. New York, Metropolitan Museum of Art
Bruciaprofumi in bronzo fuso, in forma di uccello da preda, della fine dell’viii secolo. Berlino, Museum für Islamische Kunst
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Coppia di orecchini in oro, di provenienza incerta, del x-xi secolo, Berlino, Museum für Islamische Kunst
Coppia di orecchini in oro, provenienti forse da Kufa, Iraq. x-xi secolo. Berlino, Museum für Islamische Kunst
Sotto, bracciale in oro dell’xi secolo, da Gurgan (Iran), New York, Metropolitan Museum of Art
Sotto, bracciale in oro del xii secolo, con foglie d’oro, quarzo e rubini, di provenienza iraniana. In origine probabilmente c’erano altre pietre. New York, Metropolitan Museum of Art
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Pannello in legno del ix secolo, probabilmente un frammento di una porta di una residenza. Ritrovate a Takir (Iraq), provengono con tutta probabilità da Samarra. New York, Metropolitan Museum of Art Pannello in legno, proveniente probabilmente da Baghdad, ix secolo. I decori con foglie di vite e gli altri dettagli ornamentali sono caratteristici delle decorazioni lignee del primo periodo abbaside. La stella a sei punte è elemento comune dell’arte islamica e di quella romana
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Sopra, frammento di tappezzeria proveniente dall’Egitto, del xii secolo. Sotto, frammento probabilmente di un copricapo, proveniente dall’Iran, dell’xi secolo A fronte: tessuto in cotone con inchiostro d’oro, prodotto in un tiraz dello Yemen, databile tra la fine del x e l’inizio dell’xi secolo. I tre manufatti sono conservati al Metropolitan Museum of Art di New York
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Calice in vetro con decorazioni. Iraq o Siria, x secolo. New York, Metropolitan Museum of Art
Brocca in vetro con raffigurazioni di cavalli e uccelli. Iran, Nishapur, x secolo. New York, Metropolitan Museum of Art
Bottiglia in vetro con decori. Siria, xii secolo. New York, Metropolitan Museum of Art
Bicchiere in vetro proveniente dall’Iran, con decori di foglie. Nishapur, x secolo. New York, Metropolitan Museum of Art
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Bibliografia
Frammenti di piastrelle ritrovati a Samarra. La lavorazione millefiori è tipica dei decori degli interni dei palazzi samarreni dei califfi
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Lineamenti storici Maria Giovanna Stasolla
Sulla storia dello Stato islamico, alcune opere generali: C. Brockelmann, Geschichte der islamischen Völker und Staaten, Munich-Berlin 1939 (traduzioni inglese e francese); G. Weil, Geschichte der Chalifen, 5 voll., Mannheim-Stuttgart 1846-62 e id., Geschichte der islamischen Völker, Stuttgart 1866 (trad. inglese: Calcutta 1914); W. Muir, The Caliphate, Its Rise, Decline and Fall, Edinburgh 1915 e 1924. Sullo stesso argomento alcuni manuali: F. Gabrieli, Gli Arabi, Firenze 1963; C. Cahen, L’Islamismo, Milano 1969; Ph. Hitti, Storia degli Arabi, Firenze 1966; N. Eliséeff, L’Orient musulman au Moyen Age, Parigi 1977. Sulla religione e la dottrina islamica: I. Goldziher, Le dogme et la loi de l’Islam, Parigi 1920 e H. Lammens, L’Islam. Credenze e istituzioni, Bari 1948 (rist. anast. 1982) sebbene non più attuali restano una base indispensabile; H. Laoust, Les schismes dans l’Islam, Parigi 1965 fornisce una storia di tutto il pensiero religioso islamico inserito nel contesto storico nonché un quadro preciso delle diverse sette. Della vasta bibliografia sull’Islam medievale nei suoi aspetti sia politici che istituzionali e ideologici citiamo solo alcuni titoli: G. Von Grunebaum, Medieval Islam, Chicago 1947 (trad. francese: Parigi 1965); Marshall G.S. Hodgson, The Venture of Islam, 3 voll., Chicago 1974; D. Sourdel, L’Islam Medieval, Parigi 1979; L. Gardet, Gli uomini dell’Islam, Milano 1981; Ahmad Amin, Zuhr al-Islam (L’apogeo dell’Islam), Cairo 1966; G. Von Grunebaum, Classical Islam, Londra 1970. Sulla teoria politica dell’Islam e in particolare sul Califfato si vedano: E. Tyan, Institutions du droit public musulman, i. Le calif at; ii. Sultanat et califat, Parigi 1954-57 (anche: Leiden 1960); L. Gardet, La cité musulmane. Vie sociale et politique, Parigi 1954; M. Arkoun, «Introduction à la pensée islamique classique», in Cahiers d’Histoire Mondiale 1969/4 (anche in: Essais sur la pensée islamique, Parigi 1973); F. Gabrieli, «L’uomo, la so-
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cietà e lo stato nella visione arabo-islamica», in Alifba, 1983; F. Gabrieli, «Il pensiero politico musulmano», in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, Torino 1983; E.I.J. Rosenthal, Political thought in Medieval Islam, Cambridge 1968; C.A. Nallino, «Appunti sulla natura del califfato in genere e sul presunto califfato ottomano», in Raccolta di scritti editi e inediti, vol. iii, Roma 1942; W. Montgomery Watt, Islamic Political Thought. The basic concepts, Edinburgh 1968; id., «The conception of the charismatic community in Islam», in Numen vii, 1960; A. Abel, «Le Khalife, présence sacrée» in Studia Islamica, vii, 1967; H.A.R. Gibb, «Some considerations on the Sunni Theory of the Caliphate», in Archives d’Histoire du Droit Oriental, t. iii, 1939 (anche in: Studies on the Civilization of Islam, Londra 1962); id., «Al-Mawardi’s Theory of the Khalifah», in Islamic Culture, xi, 1937 (anche in: Studies on the Civilization of Islam, cit.); H. Laoust, «La pensée et Taction politiques d’al-Mawardi», in Revue des Etudes Islamiques, xxxvi, 1968. Sulla storiografia araba medievale alcuni titoli essenziali sono: D.S. Margoliouth, Lectures on Arabie historians, Calcutta 1930; F. Rosenthal, A History of Muslim Historiography, Leiden 1952; G. Von Grunebaum, Self-image and Approach to History, Londra; W. Cantwell Smith, The Concept of Islam as an historical Development, Londra; J. Sauvaget, Historiens Arabes, Parigi 1946; H. Hourani, Historians of the Middle East, Oxford 1962; F. Gabrieli, «Storiografia dell’Oriente Islamico», in Rivista Storica Italiana, lxxv, 1963. La crisi del Califfato Omayyade e la rivoluzione abbàside sono esaminate in: J. Wellhausen, Das arabische Reich und sein Sturz, Berlino 1902 (rist. 1960, ed. inglese Beirut 1963) che rimane l’unica esposizione d’insieme sulla storia degli Omayyadi; H.A.R. Gibb, «The evolution of Government in Early Islam», in Studia Islamica, iv, 1955; C. Cahen, «Points de vue sur la ‘Révolution abbàside’», in Revue Historique, t. ccxxx, 1963, che fornisce tutti i dati inerenti al problema della rivolta abbàside; M.A. Shaban, The Abbasid Revolution, Cambridge 1979; O. Grabar, «Umayyad Palace and the Abbasid Revolution», in Studia Islamica, xviii, 1963, sulle realizzazioni architettoniche e le condizioni economiche nella Siria omayyade e le loro connessioni con il nascere dell’opposizione abbàside; S. Moscati, Studi su Abu Muslim, Roma 1949-50; id., «Il ‘tradimento’ di Wasit», in Muséon, 1951; R.N. Frye, «The role of Abu Muslim in the Abbasid revolt», in The Muslim World, 37, 1947. Sulle vicende dell’Impero abbàside una valida introduzione è fornita da: D. Sourdel, Le vizirat abbàside de 749 à 936, 2 voll., Damasco, 1959-1960, che, pur studiando un’istituzione, fa riferimento ai principali problemi dell’epoca; una esposizione sintetica è data, invece, dallo stesso autore in: «The Abbasid Caliphate», in The Cambridge History of Islam, vol. i; il primo trentennio del Califfato è esaminato da: F. Omar, The Abbasid Caliphate 132-170/750-786, Baghdad 1968; H.A.R. Gibb, «Government and Islam under the Early ’Abbasids: the political collapse of Islam», in L’élaboration de l’Islam, Parigi, 1961; su al-Mansur e sulle innovazioni iranizzanti proposte da Ibn al-Muqaffac: S.D. Goitein, «A turning point in the history of the Muslim state», in Islamic Culture, xxiii, 1949 (anche in: Studies in Islamic history and institutions, Leiden 1966); J. Lassner, «Did the Caliph Abù Ja’far al-Mansur murder his uncle cAbdalah b.cAli, and other problems within the
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ruling house of the ’Abbasids», in Studies in memory of Gaston Wiet, Gerusalemme 1977; S. Moscati, «Il califfato di al-Mahdi», in Orientalia, 1945-46; N. Abbott, Two Queens of Baghdad, New York 1946 descrive i primi califfi abbasidi; sugli aspetti socio-economici della prima epoca abbàside: C. Cahen, «Fiscalité, propriété, antagonismes sociaux en Haute Mésopotamie au temps des prémiers Abbàsides», in Arabica, 1954; su alcuni problemi dell’amministrazione provinciale: J. Lassner, «Provincial administration under the early Abbasids: the ruling family and the Amsar of Iraq», in Studia Islamica, L, 1979 e: id., «Provincial administration under the early Abbasids: Abù Ja’- far al-Manur and the Governors of Haramayn», in Studia Islamica, xlix, 1979; sui primi rapporti con gli Hasanidi: R. Traini, «La corrispondenza tra al-Mansur e Muhammad «an-Nafs az-Zakiyyah», in Annali dell’Istituto Univ. Orientale di Napoli (a.i.u.o.n.), n.s., vol. xiv (Scritti in onore di Laura Veccia Vaglieri, parte ii); su alcuni episodi del Califfato di Harun al-Rashid: G. Musca, Carlo Magno e Harun al-Rashid, Bari 1963 e G. Scarcia, «Lo scambio di lettere fra Harun al-Rashid e Hamza al-Kharigi secondo il ’Ta’rikh-i Sistan’», in A.I.U.O.N., n.s., vol. xiv (Scritti in onore di Laura Veccia Vaglieri, parte ii); sui Barmecidi: l’articolo al-Baramika in Encyclopédie de l’Islam (E.I.), n.e., vol. i; F. Gabrieli, «La successione di Harun ar-Rashid e la guerra fra al-Amin e al-Ma’mun», in Rivista degli Studi Orientali (R.S.O.), 1928. Sulla politica religiosa di al-Ma’mun e dei suoi successori: D. Sourdel, «La politique réligieuse du calife abbàside al-Ma’mun», in Revue des Etudes Islamiques (R.E.I), 1962; F. Gabrieli, «al-Ma’mun», in Revue des Etudes Islamiques (R.E.I.), 1962; F. Gabrieli, alMa’mùn e gli cAlidi, Leipzig 1929; F. Omar, «Some aspects of the ‘Abbasid-Husaynid relations during the early ‘Abbasid period», in Arabica, xxii, 1975; J.M. Fiey, Chretiens syriaques sous les Abbàsides surtout à Baghdad, Washington, s.d.; D. Sourdel, «La politique réligieuse des successeurs d’al-Mutawakkil», in Studia Islamica, xiii, 1960; G. Vajda, «Les Zindiques au début de la période ‘abbàside», in R.S.O., xvii, 1938. Sul problema del visirato, oltre al già citato e basilare lavoro di D. Sourdel, si vedano: dello stesso autore, Problèmes de l’histoire du vizirat ’abbàside, Wiesbaden, 1959; S.D. Goitein, «On the origin of the term vizier», in Studies on Islamic civilisation and institutions, Leiden, 1966 e id., «The origin of the Vizierate and its true character», ibidem; P.A. Mac Kay, «Patronage and power in 6th/12th century Baghdad», in Studia Islamica, xxxiv, 1971. Sul cerimoniale di corte: D. Sourdel, «Questions de cérémonial abbàside», in R.E.I., 1960; A. Dietrich, «Quelques aspects de l’éducation princière à la cour abbàside», in R.E.I, 1976. Il periodo buwayhide è esaminato da: C. Cahen, Buwayhids, in E.I., n.e. vol. i; M. Kabir, The Buwayhid Dinasty of Baghdad, Calcutta, 1964; G. Wiet, Soieries Persanes, Il Cairo 1948; H. Busse, Chalif und Grosskdnig, Beirut-Wiesbaden 1969. Sulle città e sugli aspetti sociali della vita cittadina si vedano: W. Marçais, «L’islamisme et la vie urbaine», in Articles et Conférences, Parigi 1961; L. Gardet, Gli uomini dell’Islam, Milano 1981; F. Toeschner, Eutuwwa, eine genuinschaftsbildende Idee im mittelalterlichen Orient und ihre Erscheinungsformen, in «Schweizerisches Archiv für Volkskunde», 1956; Ahsan M. Manazir, Social life under the Abbasids, Londra/Beirut 1979; A. Mazaheri, La
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vie quotidienne des Musulmans au Moyen Age, Parigi 1951; H. Hourani-S.M. Stern, The Islamic City, Oxford 1970; l’articolo Baghdad, in E.I., n.e., vol. i; J. Lassner, The Topography of Baghdad in the Early Middle Ages, Detroit 1970; E. Herzfeld, Geschichte der Stadt Samarra, Amburgo 1947. Sull’amministrazione: D. Sourdel, Le vizirat abbàside (supra); F. Lökkegaard, Islamic Taxation in the Classic Period, Copenhagen, 1950; C. Cahen, «L’évolution de l’‘Iqta’ du ix au xiiie siècle», in Annales. Economies, sociétés, civilisations, 1953; P. Von Sivers, «Taxes and trade in the ‘Abbasid Tughur’», in J.E.S.H.O., 1982; A.K. Lambton, Landlords and peasants in Persia, Londra 1953; gli articoli: Diwan, Djizya, Hisba in E.I., n.e.; sulla situazione dei tributari: A. Fattal, Le statut légal des non-musulmans en pays d’Islam, Beirut 1958. Sull’organizzazione giudiziaria: J. Schacht, The origins of Muhammadan jurisprudence, Oxford 1950; id., An Introduction to Islamic Law, Oxford 1964; E. Tyan, Histoire de l’organisation judiciaire en Pays d’Islam, Leiden 1960. Sull’esercito si vedano gli articoli: Djaysh e Ghulam in E.I., n.e. I rapporti fra l’Islam e Bisanzio sono l’oggetto di alcuni importanti studi: Gaudefroy Demombynes – Platonov, Le monde musulman et byzantin jusqu’aux Croisades, Parigi 1931; C. Diehl-G. Marçais, Le monde oriental de 395 à 1081, Parigi 1936; e soprattutto: A.A. Vasiliev, Byzance et les Arabes, ed. francese rifatta, i. La dynastie d’Amorium, Bruxelles 1935; ii. La dynastie macédonienne, ed. fr. di M. Canard, 2 voll. Bruxelles 1968 e 1950; iii. Die Ostgrenze des byzantinischen Reiches von 363 bis 1071, di E. Honigmann, Bruxelles 1935; e anche: M. Canard, Byzance et les Musulmans du Proche Orient, Londra 1973 (raccolta di studi fra cui: «Les rélations politiques et sociales entre Byzance et les Arabes», anche in Dumbarton Oak Paper 1964). Sui movimenti sciiti e sui Fatimidi si vedano: B. Lewis, The origins of Isma’ilism, Oxford 1940; W. Madelung, «Das Imamat in der friihen ismailitischen Lehre», in Der Islam, 1961; id., Fatimiden und Bahrainqarmaten, ibid. 1959; S.M. Stern, «Ismailis and Qarmatians», in L’élaboration de l’Islam, Parigi 1961; id., Fatimid Decrees, Londra 1964; W. Ivanov, A Brief Survey of the Evolution of Isma’ilism, Leiden 1952; F. Wiistenfeld, Geschichte der Fatimidenchalifen, Gottinga 1881; A. Magid, Huzum al-Fatimiyin (Istituzioni dei Fatimidi), 2 voll., 1955; S. De Sacy, Exposé de la réligion des Druzes, Parigi 1838 e 1964; M.G.S. Hodgson, The order of the Assassins. The struggle of the early Nizari Isma’ilism against the Islamic world, ’s-Gravenhage 1955; B. Lewis, The Assassins. A radical sect in Islam, Londra 1968. Sulla Spagna musulmana mi limito a segnalare: E. Lévi-Provençal, Histoire de l’Espagne Musulmane, 3 voll., Leiden 1944-53; F. Gabrieli, «Omayyades d’Espagne et Abbàsides», in Studia Islamica, xxxi, 1970. Sull’Africa del Nord: G. Marçais, La Berbérie musulmane et l’Orient au Moyen Age, Parigi 1946; H.R. Idris, La Berbérie orientale sous les Zirides, 2 voll., Parigi 1962; M. Talbi, L’émirat aghlabide, histoire politique, Parigi 1966. Sull’Egitto e la Siria: G. Wiet, «L’Egypte arabe de la conquête arabe à la conquête ottomane», in Histoire de la nation égyptienne, ed. G. Hanoteaux, Parigi 1937; Z.M. Has-
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san, Les Tulunides. Etude de l’Egypte musulmane à la fin du ix siècle, Parigi 1933; M. Canard, Histoire de la dynastie des H’amdanides de Jazira et de Syrie, Algeri 1951. Sull’Iran e sulle province orientali: M. Azizi, La domination arabe et l’épanouissement du sentiment national en Iran, Parigi 1938; W. Barthold, Turkestan down to the Mongol Invasion, Londra 1926; B. Spuler, Iran in frühislamischer Zeit, Wiesbaden 1952; C.E. Bosworth, The Ghaznavids. Their Empire in Afghanistan and Eastern Iran, Edimburgo 1963; id., Sistan under the Arabs to the Rise of the Saffarids, Roma 1968. Sull’invasione turca: W. Barthold, Histoire des Turcs d’Asie Centrale, trad. fr. Parigi 1945; O. Franke, Geschichte des chinesischen Reiches, 5 voll., Berlino-Leipzig 1930-1952 che trattano entrambe della situazione in Asia centrale; sui Qarakhanidi: O. Pritsak, «Die Karachaniden», in Der Islam, xxxi, 1953; e soprattutto gli studi di C. Cahen: «The Turkish invasion. The Selchtikids», in A history of the Crusades, a cura di K.M. Setton, v. 1, Philadelphia 1958; id., «The Turks in Iran and Anatolia before the Mongol invasions», in op. cit., vol. ii, Philadelphia 1962; id., Preottoman Turkey, Londra 1968. Sul Vicino Oriente all’epoca delle Crociate, oltre ai due fondamentali studi generali: S. Runciman, A History of the Crusades, Cambridge 1951-52 (trad. it. Storia delle Crociate, 2 voll., Torino 1967); ed A History of the Crusades, a cura di K.M. Setton e M.W. Baldwin, Philadelphia 1958-1962; si vedano: Storici Arabi delle Crociate, a cura di F. Gabrieli, Torino 1957 e 1979; C. Cahen, La Syrie du Nord à l’époque des Croisades et la principauté franque d’Antioche, Parigi 1940; id., Ayyubides, in E.I., n.e.; N. Eliséef, Nur ad-Din. Un grand prince musulman de Syrie aux temps des Croisades, 3 voll., Damasco 1967; H.A.R. Gibb, Vita di Saladino, Roma, s.d.
La letteratura Renato Traini
Sulla letteratura araba di età abbàside in generale il lettore italiano può leggere l’attraente disegno di F. Gabrieli in La letteratura araba, nuova ed. aggiornata, Milano 1967, come la nutrita rassegna di U. Rizzitano in Storia delle letterature d’Oriente, vol. ii, Milano 1969, pp. 61-147. In altre lingue sono disponibili le seguenti storie letterarie: J.-M. Abd-El-Jalil, Brève histoire de la littérature arabe, Paris 1947; G. Wiet, Introduction à la littérature arabe, Paris 1966; Ch. Pellat, Langue et littérature arabes, Paris 1970; R.A. Nicholson, A literary history of the Arabs, London 1907; H.A.R. Gibb, Arabie literature, London 1926, 2a ed. 1963; I. Goldziher, A short history of Classical Arabie literature, Hildesheim 1966 (traduzione inglese dell’originale in croato, del 1909). Si citano inoltre per
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la loro importanza, anche se sono state concepite più come repertori da consultazione, la Geschichte der arabischen Litteratur di C. Brockelmann, Weimar 1898-1902, con i tre Supplementbände, Leiden 1937-1942, e la Geschichte des arabischen Schrifttums di F. Sezgin, Leiden 1967 segg. (l’opera è tuttora in corso), che tratta il periodo fino al 430 A.H./1038-9 A.D. Per quanto riguarda singoli temi o figure del periodo considerato, data la vastità della letteratura esistente, si rinvia alle notizie bibliografiche date sia da F. Gabrieli sia da U. Rizzitano nelle opere sopra citate.
La filosofia Carmela Baffioni
Opere generali: G. Quadri, La filosofia degli arabi nel suo fiore, i. Dalle origini fino ad Averroè, Firenze 1939; H. Corbin, Histoire de la Philosophie islamique, i. Des origine s jus qu’à la mort d’Averroès (1198), Paris 1968; M. Fakhri, A history of Islamic Philosophy, New York-London 1970; CA. Badawi, Histoire de la Philosophie en Islam, Paris 1972, 2 voll.; M. Arkoun, Essais sur la pensée islamique, Paris 1973 e La pensée arabe, Paris 1979; M. Cruz Hernandez, Historia del pensamiento en el mundo islamico, Madrid 1981, 2 voll. Rapporti fra filosofia e religione: W.M. Watt, Islamic philosophy and theology, Edinburgh 1964; L. Gardet- M.M. Anawati, Introduction à la théologie musulmane, essai de théologie comparée, Paris 1948; R.J. McCarthy, The theology of al-Ashcari, Beyrouth 1953; A.N. Nader, Le Systeme philosophique des Muctazila (premiers penseurs de l’IsIam), Beyrouth 1956; H. Daiber, Das theologisch-philosophische System des Mucammar ibn cAbbäd as-Sulami (gest. 830 n. Chr.), Beirut-Wiesbaden, 1975; H.A. Wolfson, The philosophy of the Kalam, London 1976; W.L. Craig, The kalam cosmological argument, London 1979. Mistica: R.A. Nicholson, Studies in Islamic mysticism, Cambridge 1921; L. Massignon, La passion d’al-Hosayn ibn Mansour al-Hallaj, martyr mystique de l’Islam exécuté à Bagdad le 26 mars 922, Paris 1922, 2 voll.; G.C. Anawati-L. Gardet, Mystique musulmane, Aspects et tendances, experiences et techniques, Paris 1961. Rapporti con la filosofia greca: F. Gabrieli, «Estetica e poesia araba nell’interpretazione della poetica di Aristotele presso Avicenna e Averroè», Rivista degli studi orientali, xii, 1930, pp. 291-331; M. Meyerhof, «Von Alexandrien nach Baghdad. Ein Beitrag zur Geschichte des philosophischen und medizinischen Unterrichts bei den Arabern», Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Phil.hist. Kl., 1930, pp. 389429; F. Rosenthal, «On the knowledge of Plato’s philosophy in the Islamic world», Islamic
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Notizie sugli autori
Bianca Maria Alfieri, è stata docente di Archeologia e di Storia dell’arte musulmana presso l’Università La Sapienza di Roma. Tra i suoi principali campi di ricerca si segnalano i fondamentali studi sull’eredità dell’arte islamica in Italia e sull’architettura islamica nel subcontinente indiano. Carmela Baffioni è Ordinario di Storia della Filosofia islamica presso la Facoltà di Studi arabo-islamici e del Mediterraneo dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Dal 2011 è Segretario della Sezione Araba della Classe di Studi sul Vicino Oriente dell’Accademia Ambrosiana. Nella sua vasta produzione si è occupata di filosofia e religione islamica. Alessandro Bausani (1921-1988), è stato fra i principali arabisti e storici delle religioni italiani. Nel corso della sua attività ha insegnato Lingua e letteratura persiana all’Università orientale di Napoli e, dal 1971, ha assunto la cattedra di Islamistica all’Università La Sapienza di Roma. Dal 1983 è diventato socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Giovanni Curatola, esperto di archeologia e arte islamica, per molti anni ha insegnato alla Cattolica di Milano ed attualmente è Ordinario presso l’Università di Udine. Oltre alla vasta produzione di saggi e libri sulla cultura artistica nel mondo arabo, ha al suo attivo la cura di importanti mostre d’arte islamica in Italia e all’estero. Francesco Gabrieli (1904-1996), orientalista, è stato tra i principali esperti italiani del mondo islamico. Ha insegnato Lingua e letteratura araba all’Università di Roma ed è stato presidente dell’Accademia del Lincei dal 1985 al 1988. Nel corso della sua carriera ha pubblicato numerose opere storiche e letterarie sulla cultura araba. Giovanna Stasolla, docente di Storia dei Paesi islamici presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, svolge l’attività di ricerca in ambito prevalentemente medievistico, con un particolare interesse per la questione femminile, le élites di corte nella prima epoca abbàside e i rapporti fra mondo cristiano e mondo musulmano. Renato Traini (1923-2014) è stato conservatore della sezione orientale della biblioteca (Fondazione Leone Caetani per gli studi musulmani) dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Suoi sono il primo vocabolario arabo-italiano e i cataloghi dei manoscritti arabi della Biblioteca Ambrosiana, nonché i cataloghi dei materiali orientalistici dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
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Crediti fotografici
I numeri si riferiscono alle pagine del volume. Le lettere indicano la posizione dell’immagine in pagina: a = in alto; b = in basso
Archivio Jaca Book: 49a, 51a, 52b, 105, 106a, 107 Ashmolean Museum, Oxford: 229a Biblioteca Ambrosiana, Milano: 184, 185 Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze: 49a, 182a [sinistra] Bibliothèque Nationale, Parigi: 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 186a, 187 Biblioteca Nazionale, Firenze: 186b Biblioteca Universitaria, Bologna: 51b, 188a [sinistra] Bodleian Library, Oxford: 181 ©Bridgeman Images: 135, 136a Giovanni Curatola: 52a, 234-235a Massachusetts Institute of Technology: 53b [sinistra], 53b [destra], 54b Max Mandel, Milano: 104 Medical Historical Library, Yale: 188b [sinistra] Metropolitan Museum of Art, New York: 183, 230, 231, 232, 233, 234-235 [in basso], 236, 237, 238, 240b, 241b, 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248 [a destra] ©Mondadori Portfolio/AKG: 138, 189 Museo Galileo, Firenze: 182b © Musei Vaticani, Città del Vaticano: 139b Museum für Islamische Kunst, Berlino: 239, 240a, 241a, 248 [sinistra] Museum of Fine Arts, Boston: 229b Nicolò Orsi Battaglini, Firenze: 53a © Shutterstock: 49b [destra] e 50 (Mohammed Mashkour), 100a (Homo Cosmicos), 102-103 (Jukka
Palm), 140-141 (suronin), 142a (Jtang), 144b [destra] (Khaled ElAdawy), 145a (Ahmed Sabry Salama Rashed) 145b (sujesh), 146a (Evgeniapp), 147, 151b (eFesenko), 148-149 (Anibal Trejo), 150a [sinistra] (lkpro), 150a [destra] (Galumphing Galah), 190a (Andreas Zerndl), 191 (Paolo Paradiso), 194a (canyalcin), 195 (Murat Tegmen), 196-197 (MehmetO), 198, 199a, 199b (Openfinal), 202 (Vladimir Goncharenko) The British Museum, Londra: 54a Victoria & Albert Museum, Londra: 228b Walters Art Museum, Baltimora: 188a [destra] ©Wikimedia Commons: 48, 56-57, 143 (Mustafa Waad Saeed), 55a (Eric and Edith Matson Photograph Collection), 55bd (Moshtakmoshtak), 58a (Karakoyun82), 58b (David Stanley), 101a (Aziz1005), 101b (Taisir Mahdi), 108-109 (D4m0n619), 110a (aawsat), 136b, 192 (The Yorck Project), 137 (Adam Jones), 139a (Momfredo) 142b, 144as, 144a [destra], 144bs (Sailko), 150b (paul_in_herts), 151a (Tab59), 152 (Dennis Jarvis), 188b [destra] (Wellcome Collection), 193 (Iggi Falcon) Wellcome Library, Londra: 182a [destra] Yasser Tabaa: 228a
Piante, rilievi e ricostruzioni sono stati messi a disposizione dai diversi autori e da Claudia Pedroletti, che li ha ridisegnati dai seguenti volumi: W.C. Brice, An Historical Atlas of Islam, Brill, Leiden 1891 K.A.C. Creswell, Early Muslim Architecture, Clarendon Press, Oxford 1942 F. Sarre e E. Herzfeld, Archäologische Reise im Euphrat und Tigris gebiet, vol. ii, D. Reimer. Berlin 1911-1920