IL VIAGGIO DELL’ARTE INDIANA NEL
SUD-EST ASIATICO
MICHEL DELAHOUTRE, VÉRONIQUE CROMBÉ
IL VIAGGIO DELL’ARTE INDIANA NEL
SUD-EST ASIATICO
FOTOGRAFIE
MIREILLE VAUTIER
INDICE PRIMA PARTE
L’EPOPEA DELL’ARTE INDIANA di Michel Delahoutre International Copyright © 2008 by Editoriale Jaca Book spa, Milano All rights reserved Prima edizione italiana Settembre 2008 Copertina e grafica Ufficio grafico Jaca Book Traduzione dall’originale francese Alberto Pelissero, Francesco Rigoni, Giulia Sarcinella Tutte le foto sono di Mireille Vautier, tranne quelle di pagine 9–19 che fanno parte dell’Archivio Jaca Book
Perché parlare di epopea? Che tipo di relazione tra l’India e i paesi “indianizzati”? Il ruolo eccezionale dei brahmani nella trasmissione del sapere tradizionale L’architettura indù: il vastu vastra, i templi, le immagini I monumenti buddhisti Le idee cosmologiche del buddhismo nel paese thai del XIV secolo Il potere politico e le immagini monumentali Immagini monumentali e trascendenza Un’inculturazione dagli effetti limitati
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SECONDA PARTE
LE REGIONI DELL’ARTE INDIANA NEL SUD-EST ASIATICO di Véronique Crombé con il commento a nove immagini
di Michel Delahoutre
ISBN 978-88-16-60383-7 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book, Servizio Lettori Via Frua 11, 20146 Milano tel. 02.48561520/29, fax 02.48193361 e-mail: serviziolettori@jacabook.it internet: www.jacabook.it
Sri Lanka Birmania o Myanmar Thailandia Cambogia Laos Indonesia Bibliografia essenziale Indice dei nomi
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Con tutta la mia gratitudine a Olivier Lacombe e Jean Boisselier Michel Delahoutre
PRIMA PARTE L’EPOPEA DELL’ARTE INDIANA di
Michel Delahoutre Dedico questo libro a mia madre, Michèle Grillard Mireille Vautier
Perché parlare di epopea? Tutti gli storici concordano nell’affermare che l’introduzione dell’arte indiana, e, più largamente, della cultura indiana nel Sud-Est asiatico – situato, in rapporto all’India, sull’altro lato del golfo del Bengala – avvenne in maniera pacifica durante i primi secoli dell’era cristiana. Già in precedenza, nel III secolo a.C., lo Sri Lanka, posto proprio sotto l’India del Sud, fu uno dei paesi-teatro dell’Avokavadana, la “leggenda di Avoka”, ossia dell’introduzione del buddhismo, raccontata secondo i modi dell’epopea. Avadana è un termine composto da dana, che significa “dono” (in questo caso la comunicazione) e ava, un prefisso che indica il movimento dall’alto verso il basso, di condiscendenza proveniente da qualcuno, ben disposto (o altolocato), che comunica qualche cosa. Con il tempo, avadana venne a significare un atto glorioso, che merita di essere raccontato in modo epico. Nel dare a questa prima parte il titolo di “epopea”, vogliamo situarci sulla scia dell’Avokavadana, perché si tratta appunto di rendere conto di un’impresa lodevole, approvata e riuscita, della comunicazione dei modelli indiani buddhisti e indù ad alcune regioni situate fuori dall’India. Si tratta dell’azione pacifica compiuta da numerosi Indiani, mercanti, religiosi e non religiosi, per diffondere la dottrina e la cultura indiana in paesi i quali, probabilmente, già avevano una propria cultura, ma desideravano saperne di più sull’uomo e il suo de-stino. È nella speranza di poter mantenere questa promessa nei confronti dei nostri lettori, che osiamo proclamare in questa sede L’epopea dell’arte indiana nel Sud-Est asiatico, scritta in onore degli scambi culturali e della non-violenza.
Che tipo di relazione tra l’India e i paesi “indianizzati”? Per caratterizzare i legami culturali che l’India creò con gli altri paesi, nessuno storico usa termini quali “colonizzazione”, “assoggettamento”, “conquista”, così come quasi
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1. Capitello con leoni, secolo a.C., arenaria lucidata, Museo di Sarnath, India. Sopra ai capitelli in forma di campana, d’ispirazione persepolita, i tamburi, con rappresentazioni di ruote, sorreggono figure di animali: buoi o leoni ruggenti. Destinati, per ordine di Avoka, a essere collocati in cima alle colonne che egli fece erigere nei punti strategici del suo impero, hanno un significato più imperiale che religioso. Il capitello con i leoni ruggenti è stato scelto come simbolo dell’India indipendente. La ruota compare sulla bandiera indiana. III
tutti si rifiutano di parlare di una sorta di “estensione dell’India”, una “Greater India”. Tutti parlano di una “indianizzazione”, il cui risultato fu, e rimane, l’esistenza di paesi “indianizzati”. A che cosa si può paragonare, nel mondo occidentale, questo tipo d’influenza, questo tipo d’iniziativa culturale? Ci sono stati, lungo i secoli, molteplici casi in cui l’Occidente ha imposto la propria presenza e la propria cultura a paesi lontani. Ma da una sessantina d’anni è stata condotta un’azione vigorosa contro le colonizzazioni operate da Francesi, Britannici, Olandesi o Portoghesi, ecc. e, nella quasi totalità dei casi, il risultato è stato l’indipendenza dei paesi un tempo colonizzati. Gli studi condotti ai nostri giorni il più delle volte guardano solo agli aspetti negativi degli scambi tra paesi “colonizzatori” e paesi “colonizzati”. Questi ultimi si lamenta-no d’essere stati “deculturati” dagli invasori che hanno voluto imporre la propria cul-tura. Essi conservano ancora il ricordo delle violenze del passato. Alla voce “Acculturazione” del Dictionnaire Culturel di Alain Rey, Paris 2005, tomo 1, pagina 64, l’esempio citato (eppure già lontano) è quello dei Galli: “...l’acculturazione romana dei Galli, che generò la civiltà gallo-romana, è la faccia di una medaglia il cui rovescio indissociabile è la deculturazione celta quasi totale dei Galli”. L’autore aggiunge persino un’osservazione sui tempi attuali: i secoli XX e XXI! “I fenomeni contemporanei descritti abitualmente” (nelle opere consacrate all’acculturazione) “sono ancora più brutali” (ibid.). Ora, non è il caso dei fenomeni che dobbiamo descrivere in questa sede, e sarà importante cercare fin da subito una spiegazione.
Il ruolo eccezionale dei brahmani nella trasmissione del sapere tradizionale Secondo Romila Thapar, storica dell’India antica, l’impatto indiano sul Sud-Est asiatico “lo si comprende se lo si esprime nei termini di una civiltà più avanzata che ne incontra una meno avanzata, grazie all’élite della seconda che prende a modello la prima” (A History of India, Penguin Books, Harmondsorth 1966, p. 165). Non si tratta quindi unicamente di mercanti che venivano a cercare l’oro e le spezie, ma anche di uomini appartenenti alla classe colta, e consci del proprio ruolo. Tenuto conto di ciò che fu trasmesso, e di cui si parlerà più avanti, si può dire in tutta certezza che si trattò di brahmani che venivano dall’India e i cui antenati avevano imparato, nel corso dei secoli, a collaborare con le autorità civili e militari delle classi dirigenti. Si mi-sero al servizio delle corti delle numerose città-stato, le uniche istituzioni esistenti nel paese durante i primi secoli dell’era cristiana. In seguito, quando si crearono regni più importanti, grazie agli sforzi di alcuni piccoli sovrani, essi ne divennero i consiglieri. Giova infatti ricordare l’estrema diversità delle etnie e delle lingue nel Sud-Est asiatico. Un articolo dedicato alle “principali etnie nell’Asia del Sud-Est” (Encyclopaedia Universalis, tomo 20, 1975, p. 2210-2214) ne cita più di un centinaio, metà delle quali
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abbastanza coerenti e sufficientemente conosciute per essere oggetto di articoli specializzati o di notizie specifiche. Ancora oggi, nel 2008, alcune etnie rappresentano un problema sul piano politico, come i Karen, perseguitati o scacciati dai loro villaggi dalla giunta militare birmana. Sul piano etnico e linguistico, poco a poco gli Indiani hanno trasmesso elementi della loro cultura, che rimediavano alla molteplicità dei popoli e delle lingue. Innanzitutto, una nuova visione del mondo, quella che avevano elaborato nel corso dei due millenni della loro storia, un mondo in cui, in particolare, uomini e dei andava-no d’accordo e sui quali c’era tanto da dire. E soprattutto la scrittura. Fino ad allora, ci spiega Solange Thierry, tutto veniva trasmesso oralmente. “L’adozione delle scritture, ispirate agli alfabeti dell’India del Sud, modificate localmente secondo le calligrafie elaborate dai re e dagli scribi, fu un avvenimento capitale nell’espressione dei paesi dell’Asia del Sud-Est” (Encyclopaedia Universalis, tomo 15, p. 1033, voce “Thailandia”). Poiché il nostro proposito è situare l’apporto indiano nel campo delle arti, parleremo essenzialmente dell’architettura. Lungi dal limitarci a considerazioni sulle costruzioni e gli stili, in realtà quest’argomento ci permetterà di affrontare tutte le questioni relative alla cultura.
L’architettura indù: il “vastu vastra”, i templi, le immagini Se vogliamo reagire “all’indiana” davanti a un edificio religioso, per esempio un tempio o un santuario, o davanti a un’immagine, che sia di un dio indù o di un Buddha, dobbiamo cambiare il modo di parlarne, e il modo di capirli. In concreto dobbiamo cambiare le nostre abitudini culturali e soprattutto le nostre classificazioni. Dobbiamo ancora parlare di architettura? Per esempio, la stessa parola “architettura”, di origine greca, combina le due parole tékton che significa “carpentiere, falegname”, e arché che significa “inizio” e “comando”. Architétkon, l’architetto, è letteralmente il carpentiere-capo. Noi pensiamo immediatamente “costruzione”, per esempio una casa o un edificio. Gli Indiani non usano parole di questo genere. Tuttavia, per definire lo stesso ambito, hanno una parola composta, vastu vastra, ovvero “l’insegnamento della collocazione”. Come gran parte dei vocaboli sanscriti, la parola vastu non è sconosciuta alle lingue latine e greche, e quindi la si ritrova anche in francese e in italiano. Vas significa allo stesso tempo “abitare”, “vestire”, “impregnare”. Vestis, originariamente “modo di vestirsi”, ha finito per designare il “vestito”. L’India dei tempi vedici (II millennio e parte del I millenio a.C.) non conosceva i templi costruiti. I brahmani delimitavano uno spazio sacro destinato ai sacrifici – come avviene ancor oggi durante le cerimonie di remota origine vedica nelle quali interviene il Fuoco sacro per le offerte agli dei – quadrettando il suolo e tracciandovi dei disegni. In ciò si riferivano anche alle divinità che occupano l’intero universo. Nel mondo latino, durante la stessa epoca, avveniva qualcosa di analogo, ma si procedeva diversamente. Il templum, da una radice greca -tem che significa “tagliare”, era 10
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2. Ricostruzione e veduta del tempio del Lingaraja a Bhubaneshvara, nello stato dell’Orissa, in India. Costruito intorno all’anno 1000 in arenaria rosa, è decorato, all’esterno, con animali fantastici: leoni stilizzati con le fauci spalancate e la zampa destra sollevata. È un complesso di grande bellezza: le linee verticali e le linee orizzontali sono splendidamente armonizzate tra loro. La forma perfetta della torre-santuario è il risultato di ricerche architettoniche, le cui idee di fondo miravano a valorizzare il passaggio dalla molteplicità all’unità, dal formale alla nonforma. La “forma” o “immagine” della divinità è, peraltro, già astratta, in questo caso, trattandosi del linga di
V iva, venerato all’interno del santuario. Quest’ultimo, stretto e a pianta quadrata, è circondato da muri spessi, che formano la base della torre. Questa si inserisce perfettamente nel cosmo mediante i punti cardinali e i punti intermedi, ben segnati nell’architettura esterna. Dalla base quadrata alla sommità del tempio, si opera un passaggio progressivo verso l’unità, simbolizzata dall’amalaka, un cuscino tondo, appiattito e scanalato, sormontato da un vaso in un solo pezzo e da una punta. Il pellegrino è così condotto, mentalmente, dalla molteplicità all’unità e dal formale all’informe o, al di là del formale, alla Realtà unica e invisibile.
in primo luogo, ci dicono i manuali etimologici, “lo spazio aperto e libero, delimitato contemporaneamente in cielo e sulla terra dal gesto tagliente dell’augure, e all’interno del quale egli interpretava i presagi” – “per estensione, la parola templum ha significato un luogo consacrato e riservato agli dei”. Non si tratta ancora di una qualunque costruzione, ma di una doppia componente, terrestre e celeste a un tempo, o celeste e terrestre, che costituisce l’essenza stessa del sacro, la relazione tra l’uomo e il divino. L’invenzione e la fabbricazione delle immagini scolpite o dipinte nei primi secoli dell’era cristiana obbligò gli Indiani a costruire edifici per accoglierle come dentro a scrigni. Ma l’essenziale non è lo scrigno, e nemmeno il gioiello, bensì tutto ciò che que-sto suscita nell’uomo. L’architettura indù è dunque basata da un lato sull’occupazione del suolo e dall’altro sul riferimento alle divinità che abitano l’universo. Questa duplice componente si ritrova in seguito nell’architettura indù, in pietra o in mattoni. Si tratta di un microcosmo, di una figurazione, prefigurazione, dell’universo con tutti gli dei, ai quali si offrono sacrifici; e ogni anno, in particolare per il sacrificio del Fuoco, tutte le divinità sono invitate a venire a gustare le offerte degli uomini. Tutto ciò lo si ritrova nel tracciato dei templi indù e poi, in modo più accentuato, nei templi del Sud-Est asiatico, con i grandi complessi che si conoscono ad Angkor, a Prambanan (Giava) e altrove. Il tempio indù è un microcosmo, riferimento all’universo, del quale è anche un riassunto. Esso manifesta anche l’occupazione del territorio da parte della divinità. Per esempio il tempio-montagna della Cambogia angkoriana è percepito in primo luogo come un’area accuratamente scelta per accogliervi Viva, nel suo sostituto esterio-re visibile, il lin ga reale. Pensare a Viva, è innanzitutto pensare al dio sovrano degli dei che risiede sulla sua montagna, il Kailash. E in effetti è proprio il monte Kailash che si ritrova nello schema del tempio-montagna, con la torre-santuario centrale che può essere sopraelevata in rapporto alle altre, su una piattaforma i cui quattro angoli sono occupati dalle torrisantuario, di solito dedicate ad altre divinità. Il terreno, nel suo insieme, è stato ripartito in quadrati a significare la porzione di suolo destinata a servire come controparte terrestre del cielo divino. In questa concezione, la costruzione è un elemento secondario, e se le si accorda un’importanza che essa non ha, si rischia di sbagliare in partenza. Nel mondo indù, da un punto di vista ideologico, il tempio è basato su due elementi complementari: da un lato l’occupazione del suolo con il recinto e la cella della statua del dio; dall’altro lato l’elevazione verso l’alto. Rivolto verso l’alto, il tempio è caratterizzato da una torre, che non ha piani perché è un’elevazione diretta verso il cielo ed è costruita con sovrapposizione di pietre. A vol-te, tuttavia, la pratica contraddice la teoria e in India, a Tanjore per esempio, si cono-scono templi con torri a un piano. La torre sorge proprio sopra la cella – un ambiente particolarmente sacro al centro del tempio che ospita la statua del dio, uno solo, quel-lo a cui l’edificio è dedicato – e nessuno può calpestare lo spazio sopra la divinità. Però, data la coesistenza di diverse religioni sul suolo indiano, non è raro trovare nei L’EPOPEA DELL’ARTE INDIANA
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templi indù sculture o bassorilievi che raffigurano la divinità principale del santuario venerata dagli altri dei. Così Vispu può essere rappresentato, nelle decorazioni di un tempio a lui dedicato, adorato da Viva, e lo stesso può accadere in un tempio dedicato a Viva, dove questi compare adorato da Vispu. C’è complementarità. In compenso templi vispuiti e vivaiti non possono coesistere nello stesso luogo, salvo che nel Sud-Est asiatico, per esempio a Prambanan. Per pensare e per vivere, l’uomo non può fare a meno delle immagini. Eppure, nella storia dell’umanità, le raffigurazioni antropomorfe degli dei sono apparse solo tardivamente. In India, l’induismo ha fatto a meno delle immagini di culto fino agli inizi dell’era cristiana, due secoli dopo il contatto con l’ellenismo, dopo l’incursione greca nella valle dell’Indo da parte di Alessandro Magno. Come si spiega questa sfasatura tra la cultura dell’immagine e il culto delle immagini? Una cultura può veicolare molto bene delle immagini con il solo mezzo della parola. È allora una cultura orale, senza ideogrammi o caratteri di scrittura, ma non senza testi (dove la parola “testi” significa “tessuti” di parole), non senza poesia, né teatro (dove la parola “teatro” significa “spettacolo che si vede” oppure “che si presenta”). Le immagini in questo caso sono verbali, e rispecchiano una grande ricchezza. Dobbiamo richiamare alla mente il ricordo di quella lontana epoca se vogliamo capire l’importanza e la qualità della cultura indiana dei tempi vedici (dall’inizio del II millennio fino al periodo dei contatti con l’ellenismo), ciò che essa scoprì e trasmise in seguito con la scrittura, la pratica delle arti e delle nuove scienze, e ciò che essa fece a sua volta scoprire ai paesi del Sud-Est asiatico. Che incanto dovette essere allora passare dalla semplice parola alla rappresentazione immaginifica del mondo divino e umano. Facciamo un esepio: Agni, dio del fuoco, fino ad allora era stato visibile solo nella sua forma naturale, mantenuta viva nel focola-re domestico. Gli inni composti in suo onore invitavano i fedeli a rappresentarsi Agni sotto forma umana, come un re o un principe che abita il cielo ardente, e che viene a ri-scaldare la terra. Dunque, ecco che ora lo si poteva anche vedere e ammirare nella sua raffigurazione, come i poeti lo avevano sempre descritto con la parola. In seguito, per lui come per le altre divinità, si sarebbero costruite dimore o santuari nei quali si sareb-be potuto venerarli e contemplarli in forma tangibile. Lo scopo delle immagini (scolpite o dipinte), dunque, è sempre stato lo spettacolo o la contemplazione che il fedele poteva aggiungere a quella che poteva già offrirsi nell’a-scoltare gli inni e nel guardare gli spettacoli della natura. Con il tempo, due grandi divinità emersero dal pantheon indù e ricevettero una venerazione particolare, arricchita da considerazioni filosofiche: il dio Viva, il Conquistatore del Tempo, Mahakala, il signore della storia; e Vispu, colui che risiede nello Spazio, presente nel Sole. I brahmani, arrivati nel Sud-Est dell’Asia al seguito dei mercanti, poterono diffondere la loro cultura del mondo divino in questa forma già fortemente elaborata. A que-sta si aggiungevano poi dottrine filosofiche e morali, saggezze come il buddhismo, tut-to un mondo che impareremo a conoscere attraverso il commento alle immagini di questo libro, e di cui presentiamo più avanti la sintesi, realizzata nel SudEst asiatico, in due opere di cosmologia.
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I monumenti buddhisti
3. Santuario pricipale, o cella, che racchiude il linga, simbolo di V iva, all’interno del complesso di templi dedicati a questo dio, scavati nella roccia della piccola isola di Elephanta, posta nella baia di Bombay, in India.
Con i monumenti buddhisti la situazione è tutt’altra. Gli stu pa sono dei tumuli, all’origine dei semplici luoghi funerari, che in seguito furono trasformati in opere d’arte. Col tempo, si arricchirono d’ogni sorta di decorazione, di portici, sculture, e cupole per completarli, sempre più belle e ricercate. Quando si giunge a uno stu pa buddhista, anche dopo un lungo cammino, se ne fa il giro tenendo il monumento alla propria destra. Questo perché ciò che è più importante è ciò che si trova al centro dello stu pa: una riproduzione di un testo della Legge bud-dhista e, nel migliore dei casi, una reliquia del Buddha. Facendo il giro dell’edificio, perciò, si onora la memoria di un essere eccezionale, il Buddha, e il suo insegnamento. “Monumento” in latino significa ciò che si faceva, in un dato momento, per segnalare la presenza di un uomo da ricordare. La parola monumentum è costruita sulla radice monere, che significa “far ricordare”, “avere memoria”. Dunque il nome “monumento” si adatta perfettamente a un tumulo funerario. È lecito pensare che l’abitudine di segnalare la presenza di una “tomba” attraverso un cumulo di pietre, o qualcosa di analogo, sia molto antica, dal momento che le parole “tomba” e tumulus sono vicine nel senso e nella forma (cfr. A. Ernout e A. Meillet, Dictionnaire de la langue latine, Klincksieck, Paris 2001, alle voci tumba e tumulus; cfr. anche nella Bibbia il caso di Assalonne, 2 Sam 18, 17). È importante, per interpretare le diverse parti di uno stu pa, sottolineare che si tratta innanzitutto di un “monumento” funerario. Perciò, quando lo stu pa termina con un’asta, non si tratta, come nei templi indù, di una punta che può significare, come suggerisce Stella Kramrisch in uno studio sul tempio indù, “il passaggio dal formale all’informale”; si tratta molto semplicemente delle vestigia di un’asta che portava una bandiera, oppure un emblema – a rammentare che il personaggio era stato un re universale – come, ad esempio, un baldacchino-parasole reale (chattra in sanscrito, chatta in pali), insegna tipicamente regale. Si legge nelle scritture buddhiste che il Buddha aveva indicato ai suoi discepoli alcuni luoghi da visitare dopo la sua scomparsa: il luogo della sua nascita, Lumbini; il luogo del suo Risveglio, Bodh Gaya; il luogo del suo primo sermone; il luogo della sua morte. Queste sono per eccellenza le quattro mete di pellegrinaggio per i buddhisti di tutto il mondo. In seguito, quando si aggiunsero altri luoghi santi, si fece sempre riferimento a questi. Ancor oggi, nelle quattro località menzionate, sorgono imponenti monumenti. Bodh Gaya, a lungo occupata dagli indù, è stata restituita a un’amministrazione essenzialmente buddhista. Per secoli, d’altronde, solo i Birmani avevano conservato memoria del luogo in cui era avvenuto il Risveglio del Buddha. A mezza giornata d’autobus da Varanasi (Benares), Bodh Gaya si trova nello stato del Bihar, nome che all’origine designava un “monastero” (il vihara è il monastero buddhista). Il terzo dei luoghi santi per eccellenza, quello della prima predicazione del Buddha, è il Parco delle Gazzelle a Sarnath. Qui l’area sacra buddhista era occupata da stu pa e monasteri, oggi in rovina. Solo lo stu pa Dhamekh testimonia la passata grandezza. Persino il nome di Parco delle Gazzelle era stato dimenticato e rimpiazzato da un nome inL’EPOPEA DELL’ARTE INDIANA
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dù, Sarnath, che significa “il signore dei cervi”, cioè Viva. Fino all’inizio del XX secolo, il luogo era rimasto in mano agli vivaiti. Ancora una volta era stato dimenticato da qua-si tutti i buddhisti, salvo che dai Birmani e da un’élite di intellettuali eruditi. Agli inizi del XX secolo un pio buddhista originario dello Sri Lanka, di nome Anagarika Dharma-pala, si è adoperato instancabilmente per restituire l’antico splendore agli edifici reli-giosi dei maggiori luoghi buddhisti. È morto a Sarnath.
Le idee cosmologiche del buddhismo nel paese thai del XIV secolo Nel capitolo sulla Thailandia Véronique Crombé cita così l’autore di un’opera di cosmologia: “Lü Tai, autore, quando era ancora principe ereditario, di un notevole trattato di cosmologia buddhista, il Trai Phun” (cfr. p. 132). È su quest’opera che ci soffer-merermo. Il Trai Phun (in siamese) o Trai Bhu mi (pali) è un lungo testo di cosmologia, la cui traduzione, I Tre Mondi, conta più di duecentocinquanta pagine. Descrive in undici ca-pitoli le Terre dove vivono gli esseri viventi secondo i differenti modi di rinascita. Evo-ca anche la distruzione del mondo, alla fine di un kalpa, e poi la sua rinascita. Infine conclude con una riflessione sul nirvapa, o totale estinzione. È, in breve, un testo che tratta della storia dei viventi come di una tragedia. L’unità di tempo è il kalpa (pali: kappa), il periodo dato al vivente per compiere il suo percorso attraverso le esistenze. Quanto al luogo, esso cambia a ogni rinascita. Il dramma che vi si svolge è la liberazione totale dal nirvapa. In questa cornice spazio-temporale si vedono apparire gli esseri che siamo, che fummo e che saremo. In particolare alcuni esseri che, in ragione dei loro meriti, sono destinati a ricoprire un ruolo speciale: Buddha, re universali, futuri Buddha, ecc. Questo testo non è unico nel suo genere, e le idee che presenta non sono di una novità assoluta. Se corrispondono al pensiero del buddhismo thailandese del XIV secolo, attingono a idee analoghe già presenti nell’immensa letteratura buddhista anteriore. Tra la trentina di opere citate dall’autore nella prefazione figura un libro che tratta lo stesso argomento, pur esponendo le idee cosmologiche di un buddhismo più antico. Si tratta di un’opera intitolata Lokapajj atti, “La Descrizione del Mondo”, conosciuta nel Nord del paese thai; ora, si dà il caso che questo testo sia stato anch’esso studiato e tradotto in francese verso la fine del XX secolo. A partire da queste due opere, sebbene non siano testi della dottrina buddhista pro-priamente detti, tenteremo, per meglio comprendere le immagini che il libro presenta, di rispondere ad alcune domande sulla natura del Buddha, di un bodhisattva, di un so-vrano universale (cakravartin), e, più direttamente ancora, sull’apparizione, la diffusio-ne e la sparizione della Legge nel corso del nostro kalpa, tenteremo di rispondere alle domande che ci pongono i commenti alle immagini, senza dimenticare la questione della relazione della Legge e del potere civile. Sebbene questi testi di cosmologia buddhista non trattino di iconografia, è utile conoscerli e utilizzarli. Ci fanno capire infatti quali fossero, in una data epoca, le convin-
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4. Lo stupa Dhamekh, a Sarnath, in India. A pochi chilometri da Benares, nel luogo in cui aveva predicato il Buddha, l’imperatore Avoka fece costruire uno stupa. Nel 1794 questo fu smantellato e all’interno si trovò un’urna in marmo con funzione di reliquiario. Lo stupa Dhamekh, che sorge tra un gruppo di monasteri oggi in rovina, risale all’epoca Gupta. Era rivestito di pietre cesellate: quelle che restano testimoniano la ricchezza e l’equilibrio dell’arte classica indiana. Il nome Dhamekh evoca la messa in moto della “Ruota della Legge” (Dharma-cakra).
5. Stupa III, Sanchi. Situata nel Madhya Pradesh, al centro dell’India, Sanchi conserva tre stupa antichi: il primo fu edificato da Avoka nel III secolo a.C. e abbellito dai suoi successori. Gli stupa II e III furono costruiti attorno al I secolo. È a questi stupa che fa riferimento la struttura classica dello stupa: calotta emisferica coronata da una harmika, sorta di belvedere destinato a sorreggere un parasole, insegna della regalità. Gli stupa contengono le reliquie di personaggi importanti o di sostituti del Buddha, oppure i testi della Legge. In origine semplice monumento funerario, lo stupa fu in seguito variamente abbellito: rivestito di pietre cesellate e circondato da una balaustra che ne permetteva la circumambulazione (pradaksipa), che è un rito di venerazione.
zioni sulla situazione degli esseri nel mondo e cosa potessero pensare uno scultore o un artista del tempo ai quali si commissionava un’opera. Soprattutto ci offrono la prova che in un momento preciso della storia della Thailandia, quello in cui compare una nuova rappresentazione del Buddha, si manifesta un fermento su tutti i piani, compreso quello intellettuale, e che questo fermento, in special modo a Sukhothai, sta all’origine di quella che nella storia dell’arte indiana del Sud-Est asiatico viene chiamata la “Scuola di Sukhothai”(cfr. il commento all’immagine del Buddha, p. 133).
Il potere politico e le immagini monumentali Ovunque e in tutte le epoche il potere politico è stato molto attento a tutto ciò che lo raffigurava, sotto forma di immagine tangibile, soprattutto di grandi dimensioni. Nell’antichità, e in molti paesi, solo il re, l’imperatore – in Egitto il faraone – aveva il privilegio di farsi rappresentare in effigi monumentali. Nel mondo indiano, al contrario, non è mai avvenuto nulla del genere. Il re non è mai rappresentato a dimensioni colossali o come figura centrale e autonoma. A Sanchi, per esempio, vediamo il re Avoka raffigurato mentre versa dell’acqua sull’Albero del Risveglio del Buddha. Ma il personaggio principale è il Buddha, o piuttosto il luogo del suo Risveglio, e non il re. Avoka è lì in veste di pellegrino e, in tutte le scene in cui compare, lo si riconosce dal turbante reale. Gli Indiani hanno sempre ben distinto i re e i saggi. Avoka, personaggio tuttavia privilegiato dai buddhisti nel repertorio dei re, si limitava a ricoprire il ruolo di sovrano quando si recava a visitare le comunità religiose, fos-sero buddhiste, jainiste o indù. Era una sorta di personaggio politico che svolgeva una funzione simile a quella di un governatore moderno in un ambito strettamente laico. Nel buddhismo, secondo la tradizione più diffusa, il re deve aiutare la comunità a vivere e a sopravvivere, e ancor più deve garantire la convivenza armoniosa tra le diver-se comunità religiose presenti nel suo stato. L’armonia del paese deve essere assicurata dal re. L’immagine monumentale del Buddha è sempre stata ben tollerata in India dalle dinastie reali e imperiali di origine indiana, così come in Sri Lanka e nei paesi del SudEst asiatico, perché non sembrava costituire un’offesa per il potere reale. Per contro, l’immagine monumentale del Buddha favoriva la bhakti o “devozione”, cioè una venerazione particolare per la persona del Buddha. Andando a venerare sul posto una grande immagine del Buddha, il pellegrino buddhista adotta infatti la teoria indù del darvana, ovvero la visione del dio venerato nella sua immagine, sebbene il Buddha non sia un dio. L’immagine della pagina 31 mostra dei pellegrini davanti a una grande statua: contemplarla è lo scopo del loro pellegrinaggio, ed essi rimangono con gli occhi chiusi, per conservare dentro di sé l’immagine che hanno appena contemplato. Sono andati lì per questo: avere una “visione” della statua. Lo scopo del pellegrinaggio è trovarsi davanti alla statua, rimanere colpiti da questo monumento e conservarne il ricordo. L’EPOPEA DELL’ARTE INDIANA
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Anche a pagina 179 vediamo un’immagine monumentale, ma qui si tratta del solo viso, scolpito con uno spirito completamente diverso da quello delle grandi figure del Buddha. Qui siamo in Cambogia. Il re è assimilato a qualcuno di eccezionale. Non si tratta certo di un dio, poiché, secondo le concezioni di cosmologia dell’epoca, testimoniate dai libri cosmologici, gli dei abitano in un mondo loro. Potrebbe trattarsi di un bodhisattva, perché secondo i testi dell’epoca, e per esempio il già citato I Tre Mondi (Trai Phun), accade che in seguito alle dispute tra gli uomini di uno stesso paese, costo-ro, alla fine, vadano a rendere omaggio al bodhisattva che abita presso di loro, “e gli chiedono di essere loro Signore e Maestro Supremo. Lo consacrano re perché sia la lo-ro guida e gli assegnano tre nomi: Mahasammataraja (questo nome deriva dal fatto che tutti gli uomini hanno accettato di farne il loro capo); Khattya (questo nome deriva dal fatto che tutti gli uomini gli hanno donato delle terre e degli alimenti); Raja (questo nome deriva dal fatto che egli ama tutti gli uomini)... Tutti gli uomini lo consacrano re perché giudicano che possieda una forma splendida, più bella di quella di tutti gli uomini, che il suo sapere superi quello di tutti gli uomini, che il suo cuore sia migliore, più giusto, più retto e più virtuoso di quello di tutti gli uomini. Avendo così giudicato, lo nominano loro capo, loro signore e maestro per queste ragioni” (I Tre Mondi, cit., p. 231-232). È per dirci tutto questo di se stesso che il re Jayavarman VII ha fatto scolpire quel viso monumentale? È un’ipotesi possibile ma purtroppo non verificabile.
Immagini monumentali e trascendenza Le immagini monumentali hanno la funzione di dirigere il nostro sguardo verso qualcosa o qualcuno che ci oltrepassa tutti. Rivolte verso la trascendenza, verso l’alto e in avanti, possono anche avere un aspetto escatologico e anticipatore nel farci intravvedere un avvenire migliore. In un certo modo, fanno strettamente parte dell’architettura, del vastu vastra, della scienza e dell’arte di occupare i luoghi per donare loro senso e vita. I testi dello vilpa, una branca dell’architettura, ci danno il significato delle immagini e ci fanno capire perché dobbiamo accettarle e rispettarle, soprattutto quelle monu-mentali. Il termine “monumentale” è importante. Derivato da mens, lo spirito, il monumentum è ciò che si fa per avere un ricordo. Può essere il ricordo di qualcuno. La tomba, lo stu pa, la prima grande architettura buddhista in memoria del Buddha, è un monumen-tum per eccellenza. Il monumento parla innanzitutto di un ricordo, e del ricordo di qualcuno che si considera importante per noi. Il termine “colossale” viene da “colosso”, gigas in greco, e indica una dimensione smisurata. In tutte le culture si è sempre ingrandito ciò che si presenta come importante. La
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6. In basso: il sito di Ajanta, nel Maharashtra, India. La scena del parinirvapa (completa estinzione) del Buddha è superbamente rappresentata da una scultura monumentale lunga 7 m, situata in un corridoio della cappella (grotta 26). In conformità ai testi che ne descrivono gli ultimi istanti di vita, il Buddha è disteso, con la testa che riposa sulla mano destra. Questa scena sarà rappresentata sovente, in seguito, con la stessa cura monumentale.
struttura stessa dello spirito umano, nel senso di attenzione spirituale, vuole farci rivolgere un’attenzione particolare a ciò che ha grandi dimensioni. Nella Bibbia, per esempio, Dio si manifesta sempre attraverso avvenimenti naturali grandiosi: la tempesta, i temporali, le violente perturbazioni atmosferiche. Nei salmi in particolare, per suscitare in noi un timore reverenziale, viene descritto attraverso le grandi manifestazioni della natura. E nei profeti gli altri grandi personaggi della storia talvolta sono presentati come dei giganti e i loro imperi come immense statue dai piedi d’argilla. Abbiamo bisogno di questa trascendenza perché essa sola ci permette di situare al loro posto le cose relative e meno importanti di questo mondo. Solo la trascendenza ci permette di relativizzare la nostra stessa cultura e le sue figure emblematiche e di accet-tare che abbiano un posto analogo a quello di altre culture. Solo la trascendenza rende possibile alle culture di coesistere tra loro in una pluralità di fatto, in attesa che possano ritrovare quei legami saldi, quelle radici profonde che hanno perduto nelle peripezie della loro storia e che un giorno permetteranno loro di convivere fianco a fianco e di unirsi, non in un pluralismo di corto respiro né in un mo-noteismo che impoverisce, ma in una diversità e, alla fine, in un’unità arricchita da tut-te le culture accumulate nel corso della storia.
Un’inculturazione dagli effetti limitati 7. Il dio Vispu Su rya nel tempio del Sole Levante a Konarak, una sessantina di chilometri da Bhubaneshvara, nell’Orissa, in India. Numerose statue monumentali, alte diversi metri, sono inserite nelle nicchie del tempio. Qui il Sole Levante è rappresentato in
forma di dio che porta sul capo una sorta di tiara e, sulla fronte, il segno settario visnuita. La statua è posta su un carro (una piattaforma) tirato da sette cavalli. La fotografia riassume bene lo spirito del complesso di Konarak, il cui simbolismo è quello del Sole Levante.
Il termine “inculturazione” è un neologismo recente. La voce “inculturazione” non si trova né nel Grand Larousse de la Langue Française del 1972, né nel Dictionnaire Cultu-rel en Langue Française, pubblicato da Alain Rey nel 2005. Vi si trova però una parola vicina, “incultura”, che significa “assenza di cultura”, in cui il prefisso “in” ha un sen-so puramente negativo, mentre nel termine “inculturazione” il prefisso “in” significa “dentro” con movimento. L’“inculturazione” è dunque, letteralmente, l’entrare in una cultura; non ci viene detto sotto l’effetto di quali fattori si produca tale ingresso, né grazie a chi. S’intuisce che si tratta di qualcosa di frequente. E in effetti il concetto è ben conosciuto; per esempio, in un articolo dedicato alla “ac-culturazione” si dice: “Al termine acculturazione si sono attribuiti (d’altronde) due significati differenti. Da un lato, in psicologia sociale, indica il processo d’apprendimento attraverso il quale il bambino riceve la cultura dell’etnia o dell’ambiente al quale appartiene (sarebbe meglio, per evitare ogni ambiguità con il secondo significato, chiamare questo fenomeno enculturazione o socia-lizzazione). Dall’altro lato, in antropologia culturale, designa i fenomeni di contatto e d’interpenetrazione tra culture differenti (questo è il significato qui preso in considera-zione)” (Encyclopaedia Universalis, tomo 1, 1968, p. 102-103, voce “Acculturazione”). Da quando queste definizioni sono state pubblicate, il termine “inculturazione” è apparso spesso in scritti teologici, a indicare la penetrazione della cultura da parte della fede cristiana. Ed è con questo significato che useremo il termine, preferendolo a “acculturazione” o “enculturazione”. Ma ricorderemo anche che nel campo dei contatti tra etnie, culture o civiltà si proL’EPOPEA DELL’ARTE INDIANA
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duce qualcosa di analogo a ciò che accade in una famiglia quando i genitori insegnano ai figli ciò che sanno, analogo, anche, a ciò che accade tra le generazioni che si trasmet-tono scambievolmente la loro eredità culturale, analogo, infine, a ciò che è avvenuto in date epoche della storia umana. In breve, la cultura è di tutti i tempi e in tutti i luoghi. Ma qui abbiamo il compito di presentare e analizzare l’inculturazione operata dalla cultura indiana nei paesi del Sud-Est asiatico, dagli inizi dell’era cristiana fino ai nostri giorni, senza dimenticare l’oggi né l’attualità politica recente. Già nel Medioevo gli scolastici avevano osservato e preso in considerazione due cose nel campo della comunicazione. Innanzitutto che un modo di essere o di fare, un habitus, è qualcosa che, una volta sperimentato, può essere acquisito definitivamente e rapidamente. Un’abitudine si prende in fretta e bene. Ne sono un esempio i nomi dei re o dei luoghi. Una volta stabilito il nome di un re – Jayavarman II, per esempio, fu scelto da un brahmano per un dato sovrano – questo viene adottato per sempre e i successori lo riprendono aggiungendovi, se occorre, una semplice cifra. La seconda regola è espressa in un adagio: Quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur, che vuol dire: “Tutto ciò che è ricevuto, è ricevuto secondo la misura di chi ri-ceve”, e non secondo la misura di chi dà. È una regola generale, valida per tutto. Questo vuol dire, per esempio, che un tempio indù costruito nel Sud-Est asiatico non sarà percepito e utilizzato come in India. I fedeli che verranno qui a fare una preghiera o una visita, non saranno per forza gli stessi che in India, così come non lo saran-no i costruttori. I re possono certo far costruire un tempio a una divinità per semplice devozione personale, senza che il popolo li segua su questo piano, o possono farlo solo per la gloria della loro dinastia, o in ricordo di un antenato defunto. Una regione può ricoprirsi di templi indù senza che il paese sia per questo indù, cosa che non può acca-dere in India, dove i re non hanno le stesse prerogative né le stesse funzioni che nel Sud-Est asiatico. Dobbiamo essere attenti a tutti questi problemi se vogliamo capire ciò che è potuto accadere; e dobbiamo porci fin d’ora una domanda generale che riguarda tanto l’India quanto il Sud-Est asiatico. Com’è possibile che con la stessa cultura, le stesse religioni – induismo e buddhismo –, con lingue identiche o simili, i paesi del Sud-Est asiatico e quelli oggi riuniti nel l’Unio -ne Indiana, repubblicana e democratica, conoscano destini politici così diversi? Da un lato, dopo molte peripezie, come la separazione del Pakistan e del Bangladesh, la Nazione Indiana è riuscita a superare le tentazioni del fondamentalismo indù, del totalitarismo leninista (una tentazione scarsamente sentita ma annunciata), della di-visione sociale in caste, e altre tentazioni come le discriminazioni religiose o razziali. Oggi essa dà l’impressione di una democrazia dalle molte componenti, capace di af-frontare la nuova realtà internazionale. Dall’altro lato i paesi del Sud-Est asiatico, con un’eredità culturale ricevuta dall’India, che per lungo tempo valse loro la qualifica di paesi “indianizzati”, sembrano indifesi (tranne la Thailandia) davanti ai totalitarismi e ai regimi militari e risentono anche pericolosamente l’influenza degli imperialismi di potenze straniere.
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8. Tre monete Gupta, secolo d.C., Museo nazionale di New Delhi, India. Queste tre monete danno una buona idea della regalità e del potere (ksatra): il re ha un parasole, che non è soltanto un privilegio ma un segno di potenza; il sovrano universale o cakravartin è colui che riunisce “sotto un solo baldacchino” tutti i popoli del suo regno. Su una moneta, il re ha l’aria di fare una libagione nel fuoco e il suo capo è circondato da un nimbo. Sulle altre due monete è rappresentato mentre compie gesta valorose, cacciando il leone e il rinoceronte. IV-V
A questo grande interrogativo sulle divergenze in campo politico tra paesi che pure hanno ricevuto la stessa eredità culturale, artistica e religiosa, non possiamo che rispondere con alcuni elementi, forse insufficienti, ma almeno capaci di modificare il no-stro modo di porre la questione. Innanzitutto ripetiamo quanto affermato più sopra, e cioè che tra le etnie, le culture o le civiltà si produce qualcosa di analogo a ciò che avviene tra i membri di una famiglia, per esempio, nei bambini. Ciascuno riceve secondo la sua misura e in varie forme. Non si ha mai, o raramente, una ricezione totale ed esclusiva di un’eredità spirituale che sia solo quella dei genitori. L’interazione quasi inevitabile dei giovani con i loro coetanei fa sì che essi ricevano anche da altri, oltre che dai genitori. In una stessa famiglia i diversi figli non recepiscono tutti allo stesso modo l’eredità spirituale trasmessa dai genitori. Essi fanno delle scelte e dunque molto presto compaiono tra loro delle differenze. Lo stesso è avvenuto nel Sud-Est asiatico. Tutti i sovrani di questi paesi sapevano molto bene, poiché questo è il ricordo che si tramandava di lui, che per Avoka, per esempio, “il dharma non designava solo l’insegnamento del Buddha. Egli considerava il dharma come la chiave di una società giusta e compassionevole” (Buddhisme. Art et Philosophie, Histoire et Actualité, sotto la direzione di Kevin Trainor, Sélection du Reader’s Digest, Paris 2002, p. 50). Alcuni sovrani del Sud-Est asiatico hanno indubbiamente avuto la saggezza di ricor-darsi di questo modello indiano che, nei suoi viaggi regali, visitava le diverse comunità religiose del suo regno, e non solo quelle buddhiste. Ma questo è quanto si ricorda esplicitamente solo di alcuni, tra cui Lü Tai, in Thailandia, che “riformò l’amministrazione del suo regno e restituì ai culti indù un posto equo, conformandosi al modello indiano di sovrano ideale, garante della buona armonia tra tutte le religioni presenti nei suoi stati” (cfr. p. 140). Fu Lü Tai, principe ereditario della Thailandia, a scrivere l’opera I Tre Mondi con l’appoggio degli eruditi buddhisti e dei brahmani indù. Fu suo padre, Lö Tai, re di Sukhothai, a fovorire un rinnovamento dell’arte buddhista e a sostenere la Scuola di Sukhothai. Il modello indiano era sempre Avoka, un modello che aveva anche i suoi rischi, e in particolare quello di incitare troppo il san gha, la comunità buddhista di monaci e laici, ad affidarsi con fiducia al sovrano temporale. “A partire da Avoka i buddhisti dipesero (anche) dall’aiuto dei re per realizzare il loro ideale di una civiltà morale e spirituale” (Kevin Trainor, Buddhisme. Art et Philosophie..., cit., p. 50). Che il buddhismo debba dipendere dal sovrano temporale per potersi espandere in tutta tranquillità, è una fonte di debolezza e un pericolo. Un sovrano, infatti, può vede-re in modi assai diversi come la società debba organizzarsi per raggiungere i propri sco-pi... Basta che il re rifiuti l’aiuto che può venirgli dalla comunità buddhista perché que-sta diventi sua nemica e, di conseguenza, attiri su di sé il sospetto e le persecuzioni. “Il rapporto con i capi politici comportava una particolare debolezza per le società buddhiste: il monachesimo dipendeva dai sovrani, che periodicamente dovevano (cioè avevano il dovere di) “risanare” il san gha; per esempio escludendo dalla comunità i reL’EPOPEA DELL’ARTE INDIANAA
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ligiosi che non erano stati ordinati secondo le regole o che agivano contro le norme del vinaya” (ibid.). Quest’ultima frase dà da riflettere. Là dove si installano dei regimi for-ti, legati a ideologie forti, laiche o militari, i governanti si riservano facilmente il diritto, appoggiandosi all’uso buddhista, di accogliere nei loro territori solo i monaci e i laici che fanno comodo. Queste situzioni, pericolose per le religioni e contrarie alla libertà di culto, possono essere evitate solo attraverso la pratica della separazione dei poteri temporali e spiritua-li e attraverso una sana laicità. Se l’inculturazione della cultura indiana nei paesi del Sud-Est asiatico fosse arrivata a imitare appieno il modello indiano di società, senza essere limitata, come di fatto lo fu, in molti paesi, il risultato sarebbe stato una società multiculturale e multireligiosa. Ma le cose non sono andate così, quasi dappertutto. Tuttavia, nel campo della cultura, come in tutti gli altri campi, non è mai troppo tardi per agire meglio e trarre lezioni dalla storia. Ciascuno nella sua famiglia, ogni paese nel suo continente, può completare l’eredità ricevuta con uno sforzo nuovo, senza lamentarsi di non avere ricevuto tutto. Questa è la legge della vita. Occorre dunque che qualche cosa di simile all’epopea dell’arte indiana continui, sotto altre forme, affinché il mondo arrivi a ciò verso cui tende, o alme-no continui a tendervi.
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SECON DA PARTE LE REGION I DELL’ARTE
INDIANA N EL SUD-EST ASIATICO di
Véronique Crombé con il commento a nove immagini di
Michel Delahoutre
SRI LANKA
Posto sulla punta meridionale dell’India, dalla quale è separato solo da uno stretto che misura 80 chilometri nel punto più largo, costellato di isolotti e di secche ai quali la tra-dizione attribuisce un’origine intrisa di leggenda, lo Sri Lanka spesso appare, per mol-ti aspetti, un semplice prolungamento del subcontinente. L’isola non manca certo di punti in comune con la sua grande vicina: ne condivide gli aspetti geologici e i legami tra i due paesi furono molto stretti sin da tempi remoti. Nondimeno lo Sri Lanka conobbe una storia complessa; seppure molto vicino all’India, e perciò soggetto a subirne l’influenza in maniera regolare e forte, ha saputo adattare tali influenze in modo originale.
Storia e leggenda La preistoria dello Sri Lanka resta ancora poco conosciuta, ma fu, sembra, ricca e diversificata. Alcuni siti abitati e necropoli hanno rivelato un materiale litico e ceramico che presenta incontestabili parentele con il Mesolitico e il Neolitico indiani. La più antica menzione storica dello Sri Lanka si può far risalire alla spedizione indiana di Alessandro, circa nel 320 a.C. Uno dei compagni del conquistatore macedone – la cui testimonianza sarà ripresa da Strabone, Plinio il Vecchio e altri autori greci e la-tini – ne dà la superficie approssimativa, ricorda la durata del viaggio via mare per arri-varci e il tipo di imbarcazioni usate dagli indigeni per le loro transazioni commerciali con il Sud dell’India. Egli chiama l’isola Taprobane, versione greca di Tamraparni, ter-mine che si ritrova più tardi nelle iscrizioni dell’imperatore indiano Avoka, sotto la for-ma Tambapanni. Le iscrizioni indiane usano più frequentemente le parole Sihala, Siq-haladipa e alcune loro varianti. Da una deformazione all’altra, passando dagli autori bi-zantini ai geografi arabi, si vennero formando i nomi che gli occidentali riportano, co-me per esempio Ceylon. Questo nome fu abbandonato nel 1972 a beneficio di un ritor-no a una designazione più conforme agli appellativi antichi e spogliata di ogni conno-tazione coloniale: Sri Lanka. Verso la fine del V secolo a.C., coloni Indoarii, probabilmente originari del Gujarat,
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Pagine seguenti: 9. Mihintale, stupa. Mihintale si trova poco più di 10 km a est di Anuradhapura. Qui si sarebbe svolto, più di 2.200 anni fa, il primo incontro tra il religioso Mahinda e il re Devanampiya Tissa, incontro determinante per l’introduzione decisiva del buddhismo nell’isola. Il ricordo di Mahinda, che morì qui, è ancor oggi presente a Mihintale, dove la maggior parte degli stupa è stata oggetto di un completo rinnovamento in questi ultimi decenni. 10. Dintorni di Mihintale, stupa. I luoghi storici più importanti dello Sri Lanka e i loro dintorni sono ancor oggi costellati di strutture, talvolta assai rovinate, che testimoniano l’antichità della presenza buddhista nell’isola.
raggiunsero l’isola, dove si imposero agli indigeni, non senza difficoltà. Vijaya, il loro capo, sposò la figlia di un principe locale e fu riconosciuto come sovrano. Avrebbe occupato il trono per trentotto anni. Il suo successore – un nipote sotto il cui regno la resistenza non si affievolì affatto – trasferì la capitale ad Anuradhapura, che sarebbe rimasta il centro del potere per quasi un millennio. I fatti e le gesta dei primi sovrani della dinastia di Vijaya permangono soffusi di leggenda e certi miti che li celebrano sono evocati ancora oggi nel testo di alcuni canti rituali. In quest’epoca sarebbero cominciati i primi grandi lavori d’irrigazione e di sistemazione del territorio. Anche i rapporti con i popoli conquistati andarono migliorando, sebbene in modo molto graduale.
Il primo periodo di Anuradhapura Lo Sri Lanka comparve sulla scena della storia verosimilmente nel corso del III secolo a.C. Il re Devanampiya Tissa occupava allora il trono, mentre in India regnava il suo contemporaneo, l’imperatore Avoka. I due sovrani, senza mai incontrarsi, intrattennero relazioni cordiali e i legami che si strinsero tra le due dinastie culminarono nell’invio sull’isola di una legazione composta da nobili Maurya e da religiosi buddhisti, tra i quali figurava il venerabile Mahinda, uno dei figli di Avoka. Le conseguenze furono considerevoli: Devanampiya Tissa si convertì al buddhismo, conquistato dagli insegnamenti e dal comportamento del religioso che aveva conosciuto vicino a Mihintale, dove era installata, pare, la prima comunità. Un po’ più tardi il monastero di Mahavihara fu fondato nella capitale, dove sorgeva anche il primo stu pa dell’isola, il Thuparama Dagaba. Mahinda fu ben presto seguito dalla sorella, Sanghamitta, che aveva abbracciato anch’ella la vita monastica. In risposta a una richiesta del sovrano singalese, portò in dono alcune reliquie corporali del Buddha – una clavicola sarà collocata nel Thuparama – e una talea dell’Albero del Risveglio, proveniente direttamente da Bodh Gaya. La presenza di Sanghamitta favorì anche la creazione di una comunità di monache, che integrò rapidamente una delle spose del sovrano e le da-me del suo seguito. Mahinda e la sorella si stabilirono entrambi nello Sri Lanka, do-ve vissero il resto dei loro giorni. Il regno di Devanampiya Tissa, durato dal 250 al 210 circa, segnò dunque una svolta nella storia dello Sri Lanka, per il definitivo affermarsi del buddhismo e la sua rapida espansione, il rafforzamento dei legami con il continente, gli apporti culturali che ne furono la logica conseguenza e lo sviluppo considerevole della capitale. La scomparsa di questo grande sovrano aprì la via a una serie di contese dinastiche e di conflitti. Uno dei suoi viceré, costretto all’esilio nelle regioni meridionali dell’isola in seguito a intrighi di corte, si ritagliò un principato indipendente con Magama come capitale. Pochi anni dopo la scomparsa di Devanampiya Tissa, Anuradhapura fu occupata da un conquistatore di origine Tamil, Elara (204-161), di cui le fonti lodano il senso di giustizia. Per qualche decennio i diversi stati presenti sul territorio convissero in maSRI LAN
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niera relativamente pacifica, mentre i principati meridionali perpetuavano la tradizione a sostegno del buddhismo. La situazione si rovesciò a partire dal 161, quando Dutthagamapidiede inizio alla riunificazione del paese, invocando la necessità di difendere e promuovere il buddhismo. Elara fu sconfitto in singolar tenzone. Il nuovo sovrano dotò la capitale di grandiose costruzioni, tra le quali si annovera un gigantesco stu pa, il Ruwanweli. I problemi politici che seguirono la morte di Dutthagamapi– una rivolta guidata da un brahmano, un’invasione indiana e la conseguente usurpazione del potere da par-te di una dinastia di sovrani Tamil – e una serie di catastrofi naturali misero a dura pro-va la resistenza e l’unità della comunità buddhista dello Sri Lanka. In queste circostan-ze apparve fondamentale preservare l’integrità delle scritture, il Canone, per le genera-zioni a venire. Appena fu ripristinata una parvenza di calma, durante la prima metà del I secolo a.C., si tenne un concilio vicino a Matale, nell’Aluvihara, e, per la prima volta nella storia del buddhismo, il Canone fu redatto per iscritto. Sempre in quest’epoca venne fondato ad Anuradhapura un nuovo monastero d’importanza primaria, l’Abhayagiri. Rapidamente cominciò una rivalità stimolante ma non scevra di rischi tra la scuola conservatrice del Mahavihara, garante dell’ortodossia, e la nuova fondazione. Nella metà del I secolo d.C. il declino della dinastia fondata da Vijaya, in mancanza di seri pretendenti, aprì la via al potere al clan Lambakkana, che controllava già di fatto e da lungo tempo l’insieme dell’amministrazione dello stato. Conoscendo dunque perfettamente gli ingranaggi della burocrazia, i sovrani della nuova dinastia seppero dare vita ad ambiziosi progetti di sviluppo nazionale e condurli a buon fine. Si aprì allora un’era di pace e prosperità, destinata a durare più di un secolo, nel corso della quale le due maggiori fondazioni del buddhismo nell’isola furono equamente protette dalla monarchia. Una carestia seguita da rivolgimenti politici, grazie ai quali tre avventurieri si impadronirono del potere, mise fine a questo periodo favorevole; solo con il regno di Gothabhaya, che fondò la propria dinastia nel 253, fu ripristinata una calma relativa. Il buddhismo chiamato “del Grande Veicolo” o mahayana fu reintrodotto in Sri Lanka e trovò un terreno favorevole presso l’Abhayagiri. La rivalità tra le due istituzio-ni prese una piega sgradevole e si concluse, alla fine del III secolo, con la chiusura del Mahavihara e la distruzione degli edifici, i cui materiali furono riutilizzati per ingrandi-re e abbellire il monastero concorrente. L’iconografia del buddhismo mahayana è assai presente in molteplici siti come Buduruwagala, il cui insieme di rilievi monumentali, in assenza di iscrizioni, rimane molto difficile da datare. La situazione religiosa si complicò ancora allorché fu fondato un terzo monastero di primo rango, il Jetavana, voluto dal re Mahasena per un religioso che si era guadagna-to i suoi favori. Da allora queste tre istituzioni, ciascuna sede di una scuola a sé stante, si trovarono in competizione. Grande costruttore in ambito religioso, Mahasena lasciò anche un se-gno durevole per le opere idriche che fece realizzare nel paese e la cui perfezione tecni-ca è ammirata ancora oggi.
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11. Buduruwagala, X secolo (?). Tara. Tra le effigi scolpite sul crinale roccioso di Buduruwagala, accanto a un’immagine del Buddha (v. figura successiva), appare Tara, entità femminile associata al bodhisattva infinitamente compassionevole Avalokitevvara. Percepita negli ambienti buddhisti come colei che aiuta i suoi devoti ad attraversare – questo è il significato del suo nome – l’oceano delle rinascite, la Tara di Buduruwagala, considerata localmente la protettrice privilegiata delle donne, si è vista attribuire, col passar del tempo, molti altri doni: il potere di prevenire terremoti, inondazioni, epidemie e altre calamità.
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Buduruwagala, Buddha in piedi ETIMOLOGIA La parola Bud-uruwa-gala è composta di tre parti: Bud significa “Buddha”; gala significa “roccia”, in sanscrito giri, montagna o roccia; uruwa significa , largo, nel senso di fare spazio per altro, come “svuotato” (cfr. il greco e ˘uruvı in una strada larga). Bud-uruwa-gala significa dunque: roccia svuotata per lasciare spazio al Buddha; più semplicemente: Buddha scavato. Buduruwagala è un luogo celebre, a pochi chilometri da Wellawaya, spesso visitato dai pellegrini. IL BUDDHA E I PELLEGRINI Riconosciamo qui il Buddha dal suo segno distintivo, che è l’uspisa, e dal suo gesto di protezione: la mano aperta rivolta verso i visitatori. Costoro, di cui si vedono solo le teste e le schiene coperte dai mantelli di pellegrini, sono girati verso la statua. Sono venuti per averne la visione, il darvana (la visione di un dio venerato nella sua immagine). Sono venuti anche per meditare sull’insegnamento del Maestro, sulle sue parole. MEDITAZIONE Proponiamo qui un tema di riflessione che non è affatto estraneo a questo insegnamento, poiché verte sull’impermanenza delle cose, in particolare delle statue, soprattutto quelle monumentali. In questi albori del XXI secolo, noi uomini e donne apparteniamo a una generazione segnata da crimini contro l’umanità, contro etnie proclamate indesiderabili, ma anche da eventi di distruzioni simboliche che hanno preso di mira soprattutto le grandi statue di personaggi politici o religiosi, o altri grandi simboli economici e politici. Inutile moltiplicare gli esempi, tanto sono facili da ritrovare nella nostra memoria. Fra gli altri, citiamo da un lato la Shoah, il genocidio degli Armeni e dei Rom, le deportazioni in Siberia, la rivoluzione dei Khmer rossi; dall’altro la distruzione della monumentale statua di Stalin a Mosca, e del muro di Berlino, ma anche della statua del Buddha a Bamiyan in Afghanistan, delle Torri Gemelle del World Trade Center a New York, ecc. Tutto è destinato a scomparire, ci dice il Buddha, nell’insondabile abisso del Nirvapa. A meno che il Nirvapa – la cui etimologia si spiega con la parola “vento”, vana, e la negazione nir, dunque: “non più vento” (di follia costruttrice e distruttrice) – sia esso stesso un luogo di Eterno Riposo, come proclamano tanti credo religiosi, dove tutto quello che è esistito si ritrova nella pace. Questo è il tema della nostra meditazione. Ed è certo che dei pellegrini, davanti alla statua del Buddha a Buduruwagala, abbiano fatto le stesse riflessioni.
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12. Buduruwagala. Buddha in piedi, h 15 m, X secolo. In basso, pellegrini seguaci del buddhismo mahayana in preghiera. L’iconografia delle sette figure monumentali, scolpite sul crinale roccioso di Buduruwagala, si ricollega al buddhismo detto del “Grande Veicolo”. Il Buddha storico è qui circondato da numerosi bodhisattva e da figure femminili. In assenza di iscrizione, una precisa datazione dell’insieme è difficile, ma abitualmente si ritiene che le opere risalgano al X secolo circa.
Pagine seguenti: 13. Buduruwagala, X secolo (?). Il crinale granitico di Buduruwagala fu scolpito, si ritiene, nel X secolo, nell’ultima fase del periodo di Anuradhapura. Le immagini, eccezionalmente lavorate in rilievo e forse un tempo stuccate e dipinte, appartengono all’iconografia del buddhismo detto del “Grande Veicolo”. Al centro, Maitreya, prossimo Buddha storico e dunque immediato successore del Buddha Va kyamuni; alla sua sinistra, il bodhisattva Vajrapapi, portatore del suo attributo eponimo, il vajra; alla sua destra, un dio indù la cui identità
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non è accertata.
Ubicata circa 200 chilometri a nord di Colombo, l’attuale capitale dell’isola, Anuradha-pura è oggi uno dei siti del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Tracce sparse di occupa-zione nella regione risalirebbero al X secolo a.C. ma la città non fu fondata, secondo la tradizione, che nel V secolo, per poi spiccare il volo come vera capitale solo durante il re-gno di Devanampiya Tissa. Le vestigia osservabili sono essenzialmente di ordine religio-so: poiché il buddhismo aveva lasciato un segno indelebile nel paese, Anuradhapura di-venne anche una città santa; i suoi tre pilastri furono le tre grandi fondazioni monastiche rivali: il Mahavihara, sede dell’ortodossia theravadin, l’Abhayagiri e il Jetavana, ubicati rispettivamente a sud, a nord e a sud-est della città. Oltre ai quartieri monastici, sorge-vano numerosi stu pa, tra i quali alcune delle strutture più alte di tutto il mondo antico. Costruzione massiccia di muratura piena, dal profilo complessivamente semisferico, lo stu pa è di fatto un reliquiario monumentale di cui si usa fare la circumambulazione ri-tuale. Più spesso designato con il termine dagaba in Sri Lanka, ha conosciuto nell’archi-tettura singalese sviluppi originali. Ne è testimonianza, per esempio, il Thuparama, la cui struttura centrale era circondata da tre ordini concentrici di pilastri di pietra, che forse in origine sostenevano una vasta tettoia di protezione. Edifici simili sono ancora vi-sibili presso molti altri siti, per esempio a Medirigiriya. La talea dell’albero di Bodh Gaya, trasmessa più di 2.200 anni fa dall’imperatore Avoka al proprio omologo singalese, si è sviluppata in un albero di taglia maestosa che, nel recinto dell’antico Mahavihara, è sempre oggetto di intensa venerazione. Degli edifici civili, come il Lohapasada, palazzo del re Dutthagamapi, non resta che molto poco, in questo caso elementi di fondazione e un numero impressionante di pi-lastri di granito sparpagliati su una vasta superficie.
L’episodio Sigiriya Numerose personalità di buona levatura si succedettero sul trono nel corso del IV secolo. Sono attestati contatti con la dinastia Gupta che all’epoca controllava, direttamente o indirettamente, buona parte del territorio indiano. Lo Sri Lanka ricevette la più santa delle reliquie proveniente dal Kalinga (l’attuale Orissa): un dente del Buddha, che ben presto sarebbe diventato il palladio del regno. Conservato in un primo tempo nell’Abhayagiri, oggi è custodito nel più grande tempio di Kandy. Le tensioni religiose si placarono e il Mahavihara riprese la sua attività. Il regno del re Dhatusena, che aveva ristabilito l’ordine dopo numerosi anni di tu-multi e organizzato una nuova revisione del Canone buddhista, si concluse tragicamente nel 477. Vittima di un complotto, fu seppellito ancora vivo dal secondo figlio, Kavyapa mentre il maggiore, l’erede legittimo, temendo per la propria vita, cercò rifugio in India. Additato come parricida dalla comunità monastica, temendo le possibili rappresaglie del fratello, Kavyapa lasciò Anuradhapura per Sigiriya, dove fece costruire una formidabile fortezza in cima a un gigantesco promontorio dal profilo spettacolare in mezzo alla pianura. Complesso architettonico unico, comprendente un palazzo edifi34
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15. 16. Anuradhapura. Sculture nei giardini del museo. I gapa, figure grottesche di nani dal ventre rigonfio, fanno parte del seguito del dio V iva, aspetto distruttore all’interno della “trinità” induista. La loro immagine è abbondantemente ripresa nelle decorazioni architettoniche dell’India e dei paesi indianizzati. Ai gapa si è spesso attribuita una simbologia di protezione e prosperità.
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7. 8. Anuradhapura. Sculture nei giardini del museo. I gapa, figure grottesche di nani dal ventre rigonfio, fanno parte del seguito del dio V iva, aspetto distruttore all’interno della “trinità” induista. La loro immagine è abbondantemente ripresa nelle decorazioni architettoniche dell’India e dei paesi indianizzati. Ai gapa si è spesso attribuita una simbologia di protezione e prosperità.
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edificato sull’altura rocciosa che sovrasta di quasi 200 metri la campagna circostante, elabora-ti giardini pensili dai molteplici giochi d’acqua e un sistema difensivo molto avanzato, Sigiriya ospita anche i più antichi esempi di pittura murale conservati in Sri Lanka. Graziose figure femminili dalle forme sensuali si stagliano sulla parete di quella che og-gi è solo una grotta isolata, ma che un tempo faceva verosimilmente parte di una rete di appartamenti e gallerie. Dopo un regno di assai breve durata, sconfitto dalle truppe comandate dal fratello, nel 495 Kavyapa si suicidò. Anuradhapura ritrovò il suo ruolo di capitale, ma Sigiriya non fu per questo abbandonata: i monasteri nelle vicinanze furono spartiti tra l’Abhayagiri e il Jetavana, mentre la fortezza fu donata al religioso Mahanama, tradizionalmente considerato il compila-tore della cronaca storica del Mahavamsa. Una nuova era di pace, di prosperità e di intensa vita culturale e artistica si protras-se fino all’inizio del VII secolo. Ma il ricorso quasi costante dei sovrani singalesi a mer-cenari Tamil, la loro abitudine di rifugiarsi, in caso di sconvolgimenti, nell’India meri-dionale, non potevano che favorire una crescente intromissione di alcuni monarchi del subcontinente negli affari interni dell’isola. Il che non era privo di rischi.
L’ascesa di Polonnaruwa Guerre e ribellioni si susseguirono per buona parte del VII secolo. Ne è testimone il pellegrino cinese Xuan Zang, che dopo aver atteso vari mesi sulle coste indiane nella vana speranza di potersi imbarcare per la terra santa del buddhismo, dovette rinunciare. A partire dalla fine del VII secolo, Anuradhapura e Polonnaruwa si spartirono il ruo-lo di capitale in funzione degli eventi. Nell’840 Anuradhapura fu saccheggiata una prima volta da un esercito papdya, ma qualche anno più tardi i Singalesi risposero vittoriosamente e spinsero la loro avanzata fino alla capitale dei loro assalitori, Maturai, dove recuperarono i tesori di cui erano stati depredati. Ma un altro potere, ben più pericoloso, si andava affermando nell’India meridionale. La dinastia Cola, in piena espansione, avanzò pretese sullo Sri Lanka. Dopo un primo fallimento, un nuovo assalto, nel 993, provocò la definitiva caduta e la distruzione di Anuradhapura. Lo Sri Lanka passò allo stato di provincia dell’impero Cola, governata da un viceré, per lo meno la parte settentrionale e centrale dell’isola. La zona meridionale conservò una relativa autonomia. Eppure questo periodo di occu-pazione non fu sinonimo di vuoto economico e culturale. Il commercio internazionale si mantenne a un livello soddisfacente, come testimoniano i contatti con la Cina e il mondo arabo, il buddhismo tantrico fece la sua apparizione e la comunità monastica conobbe numerose riforme importanti, mentre la letteratura buddhista singalese si ar-ricchì di un numero non trascurabile di nuovi testi. Partito dal principato meridionale del Rohana, da sempre centro della resistenza nazionale, il futuro Vijayabahu, artefice della liberazione, entrò trionfalmente ad Anuradhapura nel 1070. La città in seguito venne restaurata. Consacrato tre anni più tardi, il re scelse tuttavia di mantenere Polonnaruwa come capitale. La città fu ingrandita e abbellita dal
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suo successore, Parakramabahu I, che, nella più pura tradizione della monarchia singale-se, promosse anche ambiziose opere idriche. Per condurre a buon fine i suoi progetti, mi-se in opera vasti programmi di formazione per gli artigiani, la cui abilità era andata perdu-ta già da tempo. Non lontano dall’immenso serbatoio che fece costruire e che porta il suo nome si erge, tagliata nella roccia, una maestosa figura maschile. Si tratta verosimilmente di un asceta, ma la tradizione locale ne ha fatto un ritratto del sovrano. Unanimemente considerato il più eccezionale monarca dello Sri Lanka, Parakramabahu realizzò anche l’unità e la diffusione della chiesa buddhista singalese, mettendo fine alle secolari rivalità fra i tre grandi monasteri dell’antica capitale Anuradhapura. Da allora lo Sri Lanka fu ter-ra di riferimento per gli altri regni buddhisti d’Asia, in particolare del Sud-Est asiatico. Ma quest’opera immensa purtroppo non avrebbe conosciuto futuro. I torbidi ripresero molto rapidamente e, all’inizio del XIII secolo, non meno di dodici sovrani si avvicendarono a ritmo accelerato in soli vent’anni. Lunghi anni di terrore sotto l’autorità sanguinaria di Magha (1215-1236) dettero il colpo di grazia all’unità del paese. POLONNARUWA
Prima di diventare capitale nell’XI secolo, Polonnaruwa, che sorgeva in posizione strategica, fu per lungo tempo una postazione militare avanzata. La città figura, come Anu-radhapura, nella lista del Patrimonio Mondiale stabilita dall’UNESCO. I resti si estendo-no su una superficie di circa 122 ettari. Le mura difensive, edificate, si ritiene, in due tempi, e le loro porte d’accesso sono state scavate e portate alla luce. Una cittadella, dotata di difese proprie, ospitava il complesso del palazzo reale e le vestigia ancora in piedi permettono di farsi un’idea abbastanza chiara dell’aspetto del palazzo di Para-kramabahu. Si sono conservate anche le rovine di un’antica sala per le udienze. Il buddhismo, sia theravada sia mahayana, e l’induismo coesistevano abbastanza pacificamente nella capitale medievale dello Sri Lanka e, di conseguenza, templi indù e stu pa stavano gli uni accanto agli altri nella città. Mentre l’architettura delle costruzio-ni buddhiste già da molti secoli s’era adattata al paese assumendo uno stile proprio, i santuari indù sono più marcati dall’influenza dell’India meridionale. A Polonnaruwa, nel perimetro assai ridotto del Gal Vihara, si trova uno dei complessi più riusciti della scultura buddhista singalese: intagliate in una stessa sporgenza rocciosa, tre monumentali immagini del Buddha, seduto, in piedi e disteso, quest’ultima posizione per evocare gli ultimi istanti del Beato. Il Tivanka Pilimage ospita a sua volta qualche raro esemplare di pitture murali, databili al XII secolo, che un’innegabile continuità lega alle figure più antiche di Sigiriya.
Le capitali effimere Il disgregamento del potere e un lento spostamento del centro di gravità verso il SudEst dell’isola ebbero inizio ancor prima della fine del regno del tiranno che controllava essenzialmente le zone settentrionali del paese.
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17. 18. Medirigiriya. Vatadage. Struttura architettonica tipica dello Sri Lanka, il vatadage comprendeva uno stupa di dimensioni ridotte racchiuso in una struttura più importante in materiali deperibili, sostenuta da una o più file concentriche di pilastri di pietra, il tutto su una piattaforma modanata. Molti siti, Medirigiriya tra gli altri, presentano tuttora resti del vatadage, di cui rimangono generalmente la piattaforma principale, i pilastri di pietra, lo stupa, spesso abbastanza danneggiato, e le statue del Buddha.
19. Polonnaruwa. Atadage, XI secolo. A nord di Polonnaruwa vi è un insieme di edifici religiosi tra i più antichi e importanti della città, solitamente designato con il nome di “Quadrilatero”: ne fa parte l’Atadage. Fondato nell’XI secolo dal re Vijayabahu I, ospitava un tempo la celebre reliquia del Dente. Di quest’edificio, che in origine si componeva di numerosi livelli in legno, non rimangono che un primo piano costruito in pietra e un’immagine del Buddha. 20. Polonnaruwa. Lata Mandapa. Situato anch’esso nel Quadrilatero, il Lata Mandapa sarebbe stato costruito dal re Nissankamalla per assistervi alla recitazione dei testi sacri. I
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singolari pilastri che circondano il piccolo stupa centrale ne fanno un edificio unico: hanno un fusto ondulato che riprende la forma dello stelo vegetale e sono coronati da un capitello a fiore di loto.
Pagine seguenti: 21. Polonnaruwa. Vatadage. Struttura centrale del Quadrilatero, questo vatadage comprende uno stupa centrale eretto su due grandi terrazze sovrapposte. Sono ancora visibili numerose file concentriche di pilastri che sostenevano la copertura in legno, oggi
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scomparsa. La decorazione scolpita è di qualità eccezionale, e l’edificio nel suo insieme segna l’apice nell’evoluzione delle costruzioni di questo tipo. 22. Polonnaruwa. Vasca a forma di loto, XII secolo. Presso il limite settentrionale dell’antica Polonnaruwa ci sono le rovine di un vasto complesso monastico la cui identificazione è incerta. Lì, nei giardini dell’antico monastero, fu realizzata questa vasca – a uso dei sacerdoti? –, la cui forma riproduce quella di un loto
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sbocciato. Questo è l’esempio meglio conservato, ma sicuramente ne esistono altri, ancora da scoprire.
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Pagine precedenti: 23. Polonnaruwa. Menik Vihara. Situato a nord della cittadella e del palazzo reale di Polonnaruwa, il complesso oggi comprende uno stupa in rovina e le vestigia di un padiglione in origine destinato a ospitare delle effigi del Buddha.
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24. Polonnaruwa. Quadrilatero. Vatadage, pietra di luna. In Sri Lanka si chiama abitualmente “pietra di luna” una lastra semicircolare posta in terra alla base di una serie di gradini. La sua decorazione in rilievo, spesso di ottima qualità, si compone generalmente di elementi vegetali e di fregi di animali in cammino – oche selvatiche, cavalli, elefanti... – talvolta interpretato come raffigurazione visiva del ciclo incessante di nascite e morti, il saqsara, e la via verso la liberazione.
25. 26. Polonnaruwa. Bassorilievi. Entrambi associati alla simbologia reale, presenti anche nel repertorio iconografico dell’arte buddhista, il leone e il cavallo (quest’ultimo è un particolare della “pietra di luna” nelle pagine precedenti) compaiono spesso nelle decorazioni architettoniche degli edifici, sia civili sia religiosi, dei paesi indianizzati.
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27. Polonnaruwa. Nel Quadrilatero. Il Gal Pota o “Libro di pietra”. L’iscrizione in pali narra la storia e le gesta del sovrano Nissankamalla che regnò negli ultimissimi anni del XII secolo. Lungo la cornice corre un fregio d’oche selvatiche.
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28. Polonnaruwa. Nel Quadrilatero. Re serpente. Frequentemente posti, in Sri Lanka, come guardiani in nicchie situate ai due lati delle scale d’accesso agli edifici religiosi, i re serpenti (nagaraja) sono geni delle acque sotterranee, garanti
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della prosperità. Secondo una tradizione iconografica ereditata dall’India, vengono abitualmente raffigurati in sembianze umane, vestiti sfarzosamente, portatori di un vaso dell’abbondanza e con il capo sormontato da un cappuccio policefalo che ne rivela l’identità.
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Polonnaruwa, Kiri Vihara (Kiri Dagaba) Paradossalmente, gli architetti birmani, incaricati dell’inventario, della classificazione e della manutenzione di un considerevole insieme di monumenti religiosi e profani, sono forse i più sensibili alla nozione stessa dello spazio qualificato da architetture differenti. Lo spazio, infatti, varia a seconda che sia occupato da uno stupa, o dagaba (chiamato anche “pagoda” in Cina e in Birmania), oppure da un santuario-cappella. Ispirandoci ai loro scritti (Architectural Drawings of Temples in Pagan, Department of Higher Education, Ministry of Education, Rangoon 1989, Introduction, p. 1-4) possiamo, a nostra volta, definire questi spazi in maniere differenti. Lo stupa è fatto innanzitutto per permettere il culto, culto che si pratica restando all’esterno dell’edificio. Ci riferiamo in particolare alla pradaksipa, la deambulazione rituale intorno al monumento in segno di rispetto reverenziale per le reliquie poste in un cofanetto al centro dello stupa, lontano dagli sguardi e dalla possibilità di essere toccato. Ciò che anche conta, per molti, è l’aspetto massiccio dello stupa, il suo colore, di un bianco abbagliante – ma che resta tale solo per breve tempo, quando è stato appena restaurato – il che spiega l’appellativo kiri, che significa “il bianco del latte”; lo stupa è una gioia per gli occhi, tanto che non si esita a moltiplicarlo per la bellezza dello spettacolo. L’orecchio, a sua volta, è cullato dal suono delle campane trasportato dalla brezza, mescolato al canto, al cinguettio o al grido degli uccelli. Gli occhi sono guidati fino in cima alla pagoda o allo stupa, dove appare il parasole regale del cakravartin, il re universale. Il profumo dell’incenso solletica l’olfatto e ogni fedele trova ciò che più gli conviene in un culto che, lo ripetiamo, è totalmente celebrato all’esterno dello stupa. Vedremo che per i templi-santuario di Pagan avviene tutt’altro. Dagaba, o dagoba, è una parola della lingua singalese proveniente dal pali dhatugabbha (in sanscrito dhatu-garbha) e designa il ricettacolo di una reliquia. I primi stupa infatti furono costruiti per il Buddha sul modello delle sepolture regali. Il Kiri Vihara di Polonnaruwa fu edificato sul modello del più prestigioso tra gli stupa di Ceylon, il Ruwanweli Dagaba, o Mahathu pa, o Grande Stu pa, cominciato dal re Dutthagamapie concluso attorno all’anno 90 d.C. Le cronache singalesi del Dipavaqsa e del Mahavaqsa gli dedicano diversi capitoli, e un lungo poema, il Thupavaqsa (XII secolo), gli è dedicato. La forma dello stupa è semplice. Evoca quella di una bolla fluttuante su un liquido. È una cupola monumentale poggiata su una base, sostenuta a sua volta da terrazze circolari sovrapposte, non molto alte; il tutto su una piattaforma quadrata. La cupola è sovrastata da un belvedere quadrato, al centro del quale è impiantata una costruzione conica che ricorda dei parasole impilati uno sull’altro; una punta termina il tutto. I parasole sono simboli di regalità, quella del Buddha cakravartin, sovrano universale. La funzione principale degli stupa o dagaba è quindi il ricordo, quello che, in latino, si diceva monumentum, una parola formata su mens, lo spirito.
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29. Polonnaruwa. Sala delle udienze. Edificata durante il regno del re Parakramabahu I nel XII secolo, si trova a ovest del palazzo reale. Secondo la disposizione classica delle sale d’udienza reali, l’edificio, la cui sovrastruttura era sostenuta da pilastri di pietra visibili ancor oggi, sorgeva su un alto basamento rettangolare a tre livelli. Nei rilievi di quest’ultimo si sovrappongono elefanti, leoni e gapa atlanti, che evocano un simbolismo cosmico molto diffuso nell’architettura indiana.
30. Polonnaruwa. Sala delle udienze, particolare dei rilievi nel primo livello del basamento. Rispettato e amato per la sua forza, che ne fa un compagno di lavoro prezioso, per la saggezza, l’intelligenza e la nobiltà, impregnato anche di un valore simbolico non trascurabile nella cosmografia indiana, l’elefante è uno dei soggetti preferiti nella decorazione architettonica del mondo indiano, come pure nell’ornamento dei troni regali. La sua
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presenza, sotto forma di un fregio di elefanti in cammino, è dunque perfettamente giustificata sul basamento della sala delle udienze di Polonnaruwa.
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Polonnaruwa, Gal Vihara, Buddha in piedi (detto “A nanda”), XII secolo È così che nella Grammaire des formes et des styles, 1, Asie (di Jeannine Auboyer, Michel Beurdeley, Jean Boisselier, Chantal Massonaud, et al., Office du Livre, Fribourg-Bibliothèque des Arts, Paris 1978, p. 127, fig. 96) viene presentata la scultura rupestre che ci accingiamo ad analizzare. Possiamo essere certi che questo titolo è stato accuratamente scelto, probabilmente da J. Boisselier, che aveva allora in stampa un libro intitolato Sri Lanka (Arch. Mundi, Genève 1978). La virgolettatura del nome A nanda, l’uso prudente del termine “detto”, e soprattutto la parentesi, la dicono lunga sulla reticenza dell’autore ad accettare questa identificazione. Perché, tra le figure del Buddha presentate nel libro, tante precauzioni e solo in questo caso? Per molto tempo, almeno dalla fine del XIX secolo alla fine del XX, le guide turistiche hanno affermato, senza esitazione né esame critico, che quel personaggio monumentale – scolpito al centro di un gruppo di quattro figure monumentali presso il Gal Vihara di Polonnaruwa – altri non era che A nanda, il discepolo preferito del Buddha. La sua posizione, in piedi e immobile, le braccia incrociate sul petto e gli occhi socchiusi, sono stati interpretati come segni della tristezza che egli provava all’approssimarsi della morte del suo Maestro, rappresentato sdraiato accanto a lui. Ne sono testimoni, per esempio, le ripetute edizioni delle celebri guide inglesi di John Murray (I ed. 1892, II ed. 1924) e i libri analoghi pubblicati a Colombo dai servizi turistici del Governo, o le diverse guide francesi della stessa epoca. Nell’ultimo quarto del XX secolo, questo personaggio è stato riesaminato e interpretato in modo diverso. Ecco, per esempio, cosa ne dice lo stesso Jean Boisselier: “Per lungo tempo questo personaggio in piedi fu identificato come A nanda, fino al momento in cui ci si accorse che aveva sulla testa un uspisa, la protuberanza cranica che caratterizza strettamente e unicamente il Buddha. Oltre al fatto che la posizione eretta sarebbe stata poco rispettosa da parte di A nanda, si dovette ammettere che l’immagine, per la sua posizione, poteva rappresentare solo il Buddha che contempla l’Albero del Risveglio” (Jean Boisselier, La Sagesse du Bouddha, Gallimard, Paris 1993, p. 107). Si confronti questo personaggio con i Buddha del tempio Mahabodhi (cfr. p. 85), posti all’interno di nicchie, con la stessa postura e le braccia incrociate sul petto. Il che ci offre lo spunto per ricordare una regola d’interpretazione elementare dell’iconografia religiosa: nessuna opera è, in senso stretto, un ritratto dell’originale (*), una imago; la persona è rappresentata attraverso processi di figurazione artificiale (radice fingere, modellare, foggiare in senso fisico o in senso morale) che dipendono dall’artista o dall’artigiano, e costui può pretendere che il suo lavoro venga riconosciuto valido solo se segue i criteri di verità riconosciuti dalla tradizione. Perciò, se l’artigiano voleva rappresentare il Buddha, doveva per forza rappresentarlo con l’uspisa (ma all’inizio riconoscere l’uspisa non fu facile). Se invece voleva rappresentare A nanda, doveva identificarlo raffigurandolo in un atteggiamento di tristezza (quella tristezza che un’intera generazione di pellegrini ha preteso di ritrovare in lui). Le poche righe che precedono non possono pretendere di concludere il dibattito. A nanda è comunque un personaggio interessante da studiare. Egli infatti non è, secondo i testi buddhisti di interpretazione delle scritture, né un arhat prossimo all’estinzione totale né un bodhisattva pronto per la buddhità, ma semplicemente un erudito, qualcuno che ha molto ascoltato e tenuto a mente, in breve, un personaggio indispensabile nel quadro di una tradizione w orale affinché una Parola si tramandasse alla generazione successiva. Ricordiamo che i segni che
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31. Polonnaruwa. Statua di Vispu (nei pressi del Pabalu Vihara). Buddhismo e induismo, pur con il netto predominio del primo, coesistettero armoniosamente a Polonnaruwa. Nell’induismo il divino si presenta sotto molteplici aspetti; di questi i tre più importanti sono la creazione, la protezione e la distruzione. La ruota e la mazza, due degli attributi essenziali di Vispu, l’aspetto protettore, sono facilmente identificabili in questa effigie il cui stile reca l’impronta netta dell’arte dell’India Meridionale.
v noi interpretiamo come distintivi di un Buddha, i riccioli dei capelli, le orecchie allungate dai gioielli, il collo a tre pieghe, non sono sufficienti per fare un Buddha. Conta soltanto l’uspisa, di cui qui indoviniamo la forma sulla sommità del cranio... Su A nanda, cfr. il Dictionnaire Encyclopédique du Bouddhisme (a cura di Philippe Cornu, Seuil, Paris 2001, p. 44). (*) Quando diciamo che un’immagine religiosa non è mai un ritratto, escludiamo, naturalmente, un certo numero di immagini recenti raffiguranti personaggi proposti alla venerazione dei fedeli e solitamente tratte dagli archivi familiari. Anche in questi casi però il ritratto ha dovuto essere accettato come fedele alla persona in questione; esso allora riceve uno statuto religioso grazie alla pratica dei devoti. Tutto ciò è impossibile per i personaggi del passato, salvo per certi personaggi storici di cui è stato eseguito un ritratto mentre erano in vita. Le leggende sulla vera icona di Gesù o il ritratto del Buddha fatti da uno scultore o un pittore sono e resteranno sempre delle leggende.
Da Dambadeniya a Yapahuwa, poi da Kurunegala a Gampola, con un breve ritorno a Polonnaruwa, più che di capitali effimere, si trattò di regni autonomi che si spartivano il territorio, sotto il governo di sovrani la cui autorità e potenza erano estremamente instabili. Nonostante il caos politico, la vita culturale e artistica proseguì. Le realizzazioni architettoniche non ebbero più la grandezza di quelle del passato, ma la letteratura, religiosa e profana, conobbe grandi sviluppi. Il regno di Kotte, fondato nel 1415, godette di una fortuna più durevole. Il cristianesimo vi fece il suo ingresso con l’arrivo dei Portoghesi nell’isola, nel 1505. I nuovi ve-nuti non mancarono di sfruttare a proprio vantaggio i dissensi interni alla corte. Il re Dharmapala, convertitosi al cristianesimo a metà del XVI secolo, non fu nulla più che un fantoccio nelle mani dei Portoghesi, ai quali la sua morte, nel 1597, assicurò il con-trollo di una parte non trascurabile del paese. Una ventina di anni più tardi il regno Tamil di Jaffna, fondato nel 1344, cadde a sua volta nella rete dei Portoghesi, che dovevano anche far fronte ad altri problemi: gli Olandesi, i Francesi e gli Inglesi cercavano di farsi avanti e i conflitti, che non mancarono di opporre le potenze occidentali avverse, ebbero una portata considerevole sull’insieme della regione. Tuttavia il regno di Kandy, stabilito dall’inizio del XV secolo nelle zone montuose al centro dell’isola, mantenne viva la fiamma della resistenza. Qui si perpetuò, oltre a un potere indipendente, anche una forte tradizione culturale nazionale. Ma gli Olandesi prima e gli Inglesi poi strinsero lentamente e inesorabilmente la loro morsa per tutto il XVIII secolo. Nel 1815 l’ultimo sovrano di Kandy, danneggiato dal-l’impopolarità, venne facilmente deposto e il regno passò sotto il controllo britannico. L’indipendenza non sarebbe tornata che nel 1948.
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Pagine seguenti: 36. Bagan/Pagan. Alba sul sito archeologico. Beneficiando di un’eccellente posizione su un gomito dell’Irrawaddy, Pagan potè accedere al rango di capitale di un impero birmano nella metà del IX secolo. La storia antica della città, immersa nella leggenda, a tutt’oggi non può essere comprovata da alcun elemento tangibile. Nel 1990, con il pretesto di facilitare i lavori archeologici, il governo birmano ha spostato, in condizioni molto discutibili, la scarsa popolazione che ancora abitava sul sito in una zona priva di monumenti.
Estesa da nord a sud per circa 2.000 chilometri, la Birmania o Unione Birmana fu ribattezzata nel 1989 Unione di Myanmar, in riferimento ai suoi primi mitici abitanti. Nel contesto politico attuale, il nome attraverso il quale si è scelto di riferirsi al paese è già di per sé significativo. La geografia fisica, a grandi linee, è relativamente semplice: al centro, una vasta zona depressa solcata dall’Irrawaddy, delimitata a ovest dalle catene birmane (Arakan, Chin, Naga e Patkai), a est dalla regione del Tenasserim e dall’altopiano di Shan. La Birmania è attualmente un paese multietnico nel quale i Birmani costituiscono una maggioranza del 75% circa. Sette stati dell’Unione sono occupati da minoranze non birmane. Il popolamento del paese avvenne per ondate successive, secondo un classico movimento da nord verso sud. Furono frequenti le lotte per il controllo delle zone fertili.
Prima dei Birmani: Mon, Pyu e molti altri Dopo un periodo preistorico ricco e variato, agli inizi dell’era cristiana la Birmania vide insediarsi un primo gruppo di nuovi arrivati, i Pyu, che si stabilirono nel Nord e nelle pianure centrali del paese. Essi si trovarono a coabitare per diversi secoli con i Mon. Questi ultimi, insediati anche sul territorio dell’attuale Thailandia, occupavano la bassa Birmania e imposero progressivamente il loro controllo fino alla pianura di Kyaukse. Le fonti storiche – soprattutto testi cinesi e iscrizioni – si soffermano poco sui primi millenni dell’era cristiana. Tre città dei Pyu sono note in campo archeologico: Srikshetra (Prome), Peikthano Myo, la più antica delle tre, fondata forse nel I secolo d.C., e Halin nell’alta Birmania. I Pyu erano in contatto con la civiltà indiana, e i resti portati alla luce dagli scavi archeologici attestano la presenza tanto del buddhismo quanto dell’induismo. Sono state scoperte iscrizioni in pyu, in pali e in sanscrito, queste ultime due lingue retaggio dell’India.
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I due maggiori centri di popolamento dei Mon in Birmania erano Pegu e Thaton, in cui pare siano esistiti anche insediamenti indiani. Pegu conobbe una grande prosperità fino agli inizi dell’XI secolo d.C. Poi la città e il suo territorio passarono a fasi alterne di indipendenza, sotto l’autorità di una dinastia di Mon, e di dominazione birmana. La pagoda Shwemodo è uno degli edifici religiosi più ve-nerati della città e di tutto il paese. Proprio come la pagoda Shwedagon di Yangoon, sa-rebbe stata eretta da due monaci per accogliervi due capelli del Buddha. Qualche chilo-metro a sud di Pegu, si trova la pagoda Kyaikpoun, la cui struttura principale è un gruppo di quattro Buddha colossali addossati a un pilastro, ciascuno col viso rivolto a uno dei punti cardinali. Rappresentano il Buddha storico Vakyamuni e i suoi tre predecessori. Nella prospettiva buddhista, infatti, lungi dall’essere appannaggio del solo Vakyamuni, vissuto in India quasi 2.500 anni fa, il dharma – così è designato l’insegnamento – è una legge naturale ed eterna. Quando se ne perde la conoscenza, o si indebolisce, l’intervento di un essere Risvegliato, un Buddha, si rende necessario. Di ciclo cosmico in ciclo cosmi-co, si forma così una vera e propria discendenza di Buddha storici e non è raro vedere, nei monasteri birmani, una sala consacrata alla venerazione dei 28 Buddha del Passato.
Il primo impero birmano, Pagan Nel corso del IX secolo i Birmani iniziarono la loro discesa verso il Sud, desiderosi di liberarsi dalla pesante tutela esercitata su di loro dal regno di Nan Zhao, stabilito nella provincia cinese dello Yunnan, la cui storia è strettamente legata a quella della peniso-la indocinese. Questi movimenti non mancarono di sconvolgere gli insediamenti di al-tri popoli. I Mon della pianura di Kyaukse furono rapidamente soppiantati e i Birmani proseguirono la loro discesa verso la regione di Pagan. Situata su un’ansa del fiume Irrawaddy, Pagan godeva di una posizione eccezionalmente favorevole: facilità nel rifornimento di acqua e nutrimento, prossimità di un’eccellente via di comunicazione, natura fertile. Una sessantina di chilometri a sud-est, si innalza il monte Popa. Tale vulcano spento, le cui pendici boscose dominano la pianu-ra circostante, è il centro del culto dei Nat, i geni della religione popolare, e un com-plesso religioso sorge intorno a uno dei suoi crateri secondari. La prima Pagan sarebbe stata fondata da un re pyu nel II secolo d.C. Nulla compro-va tuttavia questa tradizione, che peraltro contrasta con la leggenda religiosa della cop-pia di Nat tutelari della città. Pagan diventa capitale solo alla metà del IX secolo, epoca nella quale probabilmente fu fondato il Nat Hlaung Kyaung, tempio consacrato agli dei dell’induismo, edificato per i brahmani della corte e per la comunità di mercanti indù residenti nella città. Bisogna tuttavia attendere il regno di Anorattha, dal 1044 al 1077, perché si affermi senza ambiguità la potenza birmana. Il futuro re crebbe nel monastero dove il padre, sovrano detronizzato, era in residenza coatta. Giunto al potere, Anorattha fu il vero unificatore del paese e accrebbe considerevolmente l’estensione dei suoi domini attraverso numerose conquiste. Sotto l’influenza di un monaco mon di Thaton, riportò il paese a un buddhismo più puro, che volle libero da superstizioni e credenze popolari. Questo per70
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Bagan/Pagan, tempio-santuario Sulamani, XII secolo Che lo si osservi nella bruma dell’alba (cfr. p. 68–69), o al levar del sole, il tempio Sulamani ben merita il suo nome, che significa – verosimilmente, come il sanscrito suramani– “molto piacevole”. Si trova a Pagan, l’antica capitale della Birmania, posta sulla riva sinistra dell’Irrawaddy. Nell’immagine della pagina seguente si può indovinare il sole che sorge alla nostra destra e penetra nel tempio dalla porta principale. Il fiume si trova davanti a noi, in secondo piano, lungo una linea orizzontale disegnata dagli alberi, a circa tre o quattro chilometri. Recentemente restaurato, il tempio-santuario aveva perduto una parte della cupola a forma di bulbo, come pure le punte degli stupa situati lungo le terrazze. Oggi si presenta a noi in tutto il suo antico splendore. Costruito nel 1183 da Narapathisitthu, un grande re costruttore, su modelli precedenti – in particolare la pagoda Shwesandaw edificata da Anorattha – il tempio-santuario Sulamani ci appare come una piramide a terrazze, dotata di scalinate in asse e una copertura a profilo convesso, o a forma di bulbo, a ricordarci che si tratta di una variante ampliata degli stupa anteriori ai cambiamenti stilistici intervenuti sotto il regno di Anorattha, un secolo prima. Il nuovo stile consiste soprattutto nell’allestire, sotto la cupola, al livello occupato un tempo da terrazze circolari e dal piano quadrato della base, degli spazi destinati alle immagini del Buddha, oppure alle pitture murali. Il fedele pratica il culto non più restando all’esterno del santuario, ma entrandovi. Con gli stupa vecchio stile, come abbiamo spiegato per il Kiri Vihara (cfr. p. 60), il fedele resta sempre all’esterno del monumento, nella luce abbagliante e nel calore intenso, in preda a tutte le sollecitazioni che gli arrivano dal di fuori, non sempre favorevoli alla meditazione e al raccoglimento. Non passa mai dalla luce all’oscurità e i suoi occhi non possono riposarsi se non trovando, per avventura, un poco d’ombra. Quando entra nel tempio-santuario, il vestibolo che attraversa lo obbliga a cambiare spazio qualitativo e scala di grandezza. È un cambiamento completo d’ambiente, che si concretizza nella diminuzione della luce e del calore, e nel carattere intimo che improvvisamente assume ogni dettaglio. L’occhio cerca allora di adattarsi alle zone di luce e di ombra. Avvicinandosi al Santo dei Santi, dove si trova l’immagine del Buddha, il fedele è colto da un sentimento di timore reverenziale che rapidamente si trasforma in atteggiamento di devozione. Se invece volge lo sguardo verso l’esterno, e, attraverso una porta o una finestra, scopre Pagan e i suoi dintorni, la vista è interrotta dai piani via via più lontani formati dai santuari e dalle pagode. Ovunque rivolga lo sguardo, un vero e proprio schermo, vicino o lontano, gli provoca un senso di reclusione. Non gli resta allora che una cosa: fermarsi e meditare. Il visitatore curioso che volesse vedere tutto e non perdersi nulla, finirebbe per provare solo sensazioni superficiali. L’alternarsi della luce e dell’ombra acquista il suo vero significato attraverso la meditazione. Se ci si concede il tempo di sedersi e meditare, un poco alla volta la presenza delle mura, delle finestre, dei colori, delle pitture murali si fa più precisa e il senso profondo di tutte queste realtà che sono lì per riportarci a noi stessi, ci invita a entrarvi nel più profondo silenzio.
Pagine seguenti: 37. Bagan/Pagan. Sorgere del sole sui templi. L’antico sito di Pagan conta più di 2.200 strutture catalogate, tutte testimonianti l’esistenza di un edificio religioso, disseminate su una superficie di 42 chilometri quadrati.
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corso religioso ebbe l’inattesa conseguenza – assai fastidiosa nella prospettiva buddhista – di provocare un conflitto con Thaton; il re di questa città rifiutò di cedere ad Anorattha il corpus del Canone buddhista in suo possesso. Thaton fu vinta, la sua popolazione de-portata a Pagan e il suo re imprigionato. Come spesso accade, il vinto fece beneficiare il vincitore di numerosi apporti, e diversi elementi della cultura mon s’infiltrarono sottil-mente a Pagan. Anorattha intrattenne cordiali rapporti con lo Sri Lanka, che gli fece dono di una copia della reliquia di un dente del Buddha, il cui arrivo fu segnato da sontuose cerimonie. Sotto il suo regno fu edificata, tra gli altri monumenti, la pagoda Shwesandaw, reliquiario destinato ad accogliere un capello del Buddha e monumento per commemorare la vittoria del sovrano su Thaton. Costruita su una base piramidale a terrazze, scalinate in asse e sovrastrutture dal profilo convesso, la Shwesandaw stabilì il prototipo dei successivi stu pa birmani. Anorattha morì accidentalmente, ucciso da un bufalo selvatico mentre tentava di domarlo. Dopo un periodo tormentato, uno dei suoi figli, Kyanzittha, salì al trono nel 1084 e fu proclamato re dei Birmani e dei Mon. Molto popolare grazie ai successi militari e al-la lealtà di cui aveva dato prova verso uno dei suoi fratelli, che, pure, lo aveva mal ri-cambiato, Kyanzittha mantenne e rinforzò la politica interna del padre, ma non ebbe forti mire espansionistiche. Grande costruttore, lasciò numerose fondazioni religiose tanto a Pagan che nelle province. Due tra i complessi buddhisti più importanti della città furono creati sotto il suo regno: la pagoda Shwezigon e il tempio Ananda. Dispo-sto secondo una pianta a croce greca, per i Birmani il tempio Ananda è consacrato ad Ananda, cugino e discepolo maggiore del Buddha Vakyamuni. In realtà, il nome utiliz-zato attualmente proviene da una deformazione dell’espressione “Ananta Pajja ” che fa riferimento all’infinita saggezza del Buddha. La decorazione esterna del tempio è cele-bre per i pannelli di terracotta verniciata, raffiguranti la serie completa delle vite ante-riori del Buddha, che ornano le terrazze. Uno dei figli di Kyanzittha fece edificare il Gubyaukgyi, la cui architettura è fortemente segnata dall’influenza mon. Le pitture murali, miracolosamente preservate, non trovano equivalenti nell’area. Vi è anche custodito – a meno che non si sia deciso da poco di trasferirlo in un luogo più protetto – un pilastro sul quale è incisa la più antica iscrizione datata in lingua birmana. Alaungsittha succedette al nonno nel 1112, dopo aver affrontato numerose rivolte. Eccellente sovrano, mantenne la centralizzazione dell’impero, introdusse un sistema di pesi e misure standard e fece compilare, per la prima volta nella storia del paese, un cor-pus di leggi. In gioventù avrebbe viaggiato molto e fu, come i suoi predecessori, un grande “collezionista” di reliquie buddhiste e un gran costruttore. Un altro importante edificio di Pagan, il That Bin Yu, può essere datato al periodo del suo regno. La fine del sovrano fu tragica. Malato, fu trasportato dentro la cappella del palazzo per morirvi, ma si ristabilì ben presto, contro tutte le aspettative. Suo figlio Narethu, che aveva assunto il potere in maniera un po’ affrettata, allora lo strangolò, senza alcuna considerazione per il carattere sacro del luogo. Il breve regno di Narethu, dal 1167 al 1170, avviò il lento declino del primo impero
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38. Bagan/Pagan. Tempio A nanda. Con il suo vero nome Ananta Pajja(termine che indica l’infinita saggezza del Buddha), in seguito deformato e confuso con il nome del discepolo preferito del Beato, il tempio A nanda è uno degli edifici religiosi più belli e più venerati di Pagan. Fu edificato partire dal 1091 e le sue torri, regolarmente ridorate, dominano in maniera spettacolare il paesaggio circostante.
39. 40. Bagan/Pagan. Tempio A nanda. Costruito su una pianta a croce greca, presenta un’importante decorazione esterna di pannelli in terra verniciata. Alla base dell’edificio figure demoniache mostruose ed entità divine evocano gli assalti di Mara, episodio cruciale nella vita del Buddha Vakyamuni. Sulle tre terrazze inferiori della sovrastruttura sono rappresentati i jataka, racconti delle vite anteriori del Buddha, secondo la recensione singalese. Questo tipo di racconti ha generalmente funzione edificante e didattica. Tuttavia la ridotta accessibilità a queste terrazze mette in discussione questa possibile funzione.
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41. Bagan/Pagan. Gubyaukgyi. Nel vastissimo complesso di Pagan numerosi templi hanno nomi quasi identici che creano facilmente confusione. Il più importante, quello di Gu Byauk Nge, che è anche il più celebre per la qualità eccezionale e lo stato di conservazione delle sue pitture murali, fu edificato agli inizi del XIII secolo e sorge in prossimità del Myazedi.
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42. Bagan/Pagan. Tempio Dhammayangyi. Vasto edificio a un solo livello e un corpo piramidale al centro, il Dhammayangyi, dal profilo massiccio facilmente riconoscibile, fu costruito verso la metà del XII secolo. Un’iscrizione visibile nel vestibolo nord lascia pensare che l’edificio fosse stato consacrato nel 1165. Situato al centro di una cinta che racchiude anche un monastero, il tempio si eleva su una piattaforma dotata di quattro scale d’accesso. Nel cuore di muratura piena, sul lato est, è ricavato un santuario. È possibile che santuari simili, oggi murati, siano esistiti un tempo su ognuno degli altri lati.
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Pagine seguenti: 43. Bagan/Pagan. Tempio Sulamani. Le iscrizioni lo fanno risalire al 1183. È un edificio imponente a due livelli, appoggiati su una bassa piattaforma, il tutto circondato da una cinta di mura. Ospita varie effigi del Buddha: quattro al livello inferiore, una a quello superiore; le pitture murali, più tardive e parzialmente preservate, risalgono al XVIII secolo.
birmano. Il grande tempio Dhammayangyi, il cui profilo massiccio segna il paesaggio di Pagan, fu forse fondato negli anni ’60 del XII secolo. Alcuni storici lo ritengono opera di Narethu, che avrebbe cercato di espiare, con le fondazioni religiose, il suo terribi-le gesto parricida. I sovrani continuarono a succedersi, alcuni deboli e facilmente manipolabili, altri violenti e oppressivi, altri ancora saggi e pacifici, come Narapathisitthu, costruttore del tempio Sulamani, o Htilominlo, che si sforzò di gestire gli affari del paese in accordo con i suoi fratelli. Le costruzioni religiose proseguirono a un ritmo sostenuto. Nel XIII secolo fu così edificato il Mahabodhi, che riproduce la silhouette del tempio del Risveglio di Bodh Gaya, così come il tempio di Upali Thein, la cui decorazione interna di pitture murali, prudentemente datate al XVII o XVIII secolo, era relativamente ben conservata fino a tempi recenti. La caduta di Pagan fu affrettata da incidenti che videro contrapporsi le tribù di frontiera, al soldo dei Mongoli che allora controllavano la Cina, e il potere birmano. L’assalto finale fu mosso dalle truppe mongole nel 1287. Approfittando della disfatta, gli Shan, un ramo del popolo Thai, tornati alla ribalta della scena politica birmana, non tardarono a impadronirsi della regione. Il sito archeologico di Pagan conta attualmente più di 2.200 strutture inventariate su 42 chilometri quadrati. Oggi questa zona è interamente consacrata ai monumenti: nel 1990 la popolazione che ancora viveva nelle immediate vicinanze, col pretesto di facili-tare gli scavi, è stata espulsa in condizioni assai discutibili, e reinstallata in una nuova Pagan situata a qualche chilometro di distanza. Alcuni edifici si riducono ad un mucchio di mattoni informi, altri sono monumenti d’impressionante bellezza. Alcuni non hanno neppure un nome. Altri sono di costruzione molto più tarda, come il monastero di Nat Taung. Forse per accattivarsi il clero buddhista e attirare la manna finanziaria di un turismo di massa, l’attuale governo birmano di recente ha provveduto, senza il minimo controllo, a dei restauri che molti storici dell’arte birmana giudicano abusivi e che rischiano di deturpare il sito per sempre.
Il secondo impero birmano Gli Shan, signori delle regioni centrali del paese, s’installarono a Pinya all’inizio del secolo. Dal canto loro, i Birmani si rifugiarono ad Ava; i Mon, liberatisi dal dominio di Pagan, ripresero il controllo della bassa Birmania, con Pegu come capitale. A ovest l’A-rakan si staccò nel 1430. Nel corso del XIV e del XV secolo, forze centrifughe non cessarono così di sconvolgere il paese, gran parte del quale, all’inizio del XVI secolo, passò sotto il dominio degli Shan. Il re birmano Bayinnaung, fine stratega e guerriero valoroso, riportò l’ordine nel 1551. Avendo ristabilito l’autorità birmana sulla maggior parte del territorio, si diresse poi contro i regni thai di Lanna e Ayutthaya. Questa ripresa fu di breve durata. Dalla fi-ne del secolo, il paese si spezzettò nuovamente e le regioni da poco sottomesse si ripre-sero l’indipendenza, mentre gli Occidentali si affacciavano sulla scena economica e poXIV
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Bagan/Pagan, tempio Mahabodhi,
XIII
secolo (?)
Unico nel suo genere in tutta la città di Pagan, il tempio Mahabodhi merita un poco d’attenzione, non solo per comprenderne la forma ma anche per coglierne l’importanza. In particolare esso testimonia la fedeltà eccezionale di cui i Birmani hanno sempre dato prova verso il paese da cui hanno ricevuto un’eredità spirituale così grande. Si chiama infatti Mahabodhi (più esattamente Mahabodhi), in riferimento al luogo del Risveglio del Buddha – considerato dai buddhisti di tutto il mondo la meta di pellegrinaggio per eccellenza – situato a Bodh Gaya, circa 80 chilometri da Benares, in India. Lì tutti i Buddha raggiungono il Risveglio. A Bodh Gaya, nel luogo del tempio attuale, il re Avoka aveva fatto edificare, nel III secolo a.C., un piccolo santuario. Un santuario più grande, la cui costruzione è attribuita a un re dello Sri Lanka, lo sostituì verso il V-VI secolo. Ridotto in rovine dalle invasioni musulmane nel XII secolo, fu poi restaurato e ricostruito a più riprese, soprattutto dai buddhisti birmani, che gli hanno dato la forma attuale, ben conosciuta ai pellegrini di oggi. Di recente – grazie anche alle pressioni in tal senso esercitate dai re birmani fin dal XIX secolo – il sito non è più solo nelle mani degli indù, ma è gestito, sotto la guida del governo federale indiano, da un gruppo di notabili religiosi indù e da buddhisti. Come il suo modello indiano, il tempio di Pagan è a pianta rettangolare, orientato a est, e all’esterno, lungo il muro di recinzione, presenta un’immagine del Buddha seduto. Al di sopra della sala rettangolare, che serve da base (non la si vede nella foto), si innalza una costruzione piramidale a forma di torre, divisa orizzontalmente in sette piani, e sormontata da uno stupa slanciato. Su ogni piano si allineano file di nicchie che accolgono numerose statue del Buddha, con gli occhi fissi sull’Albero del Risveglio, alcune delle quali hanno le braccia incrociate sul petto, come il “Buddha in piedi detto A nanda” analizzato a p. 64. L’interno del tempio Mahabodhi è occupato da due sale in cui sono poste due statue. Il commento a questo tempio ci mostra che uno dei pregi dello scambio a carattere culturale è che esso non è mai a senso unico: chi riceve, sa di ricevere e riconosce di aver ricevuto dando, a sua volta, qualcosa, non fosse altro che un segno di riconoscenza.
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A fianco e pagina seguente: 44. 45. Bagan/Pagan. Tempio Mahabodhi. Verosimilmente costruito nel XIII secolo e struttura unica in Birmania, è un grande edificio la cui decorazione esterna si compone essenzialmente di molteplici nicchie che accolgono le effigi del Buddha, rappresentato nelle posizioni canoniche. Il suo profilo riproduce fedelmente quello del tempio Mahabodhi di Bodh Gaya, nel Bihar (India), costruito nel luogo in cui, nel V secolo a.C., il Buddha Vakyamuni raggiunse il Risveglio.
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Bagan/Pagan, Upali Thein, il Buddha e i suoi discepoli XIII
secolo (tempio), XVIII secolo (pitture murali)
Questa pittura murale dell’atrio d’ingresso dell’Upali Thein descrive il Buddha in una delle vite anteriori (o, in quanto Buddha storico, nell’ultima vita). È seduto su un trono e riceve la venerazione di giovani discepoli venuti ad ascoltarlo. Questi hanno l’abito monastico, mentre il Maestro indossa una veste sontuosa. a, qui sormontato da un Si riconosce il Buddha dalla protuberanza cranica, l’uspis a dovrebbe evocare l’irraggiamento, il ciuffo di capelli a forma di fiamma. L’uspis chiarore che è l’essenza luminosa della capacità di concentrazione interiore del Maestro. Ma qui il pittore non ha trovato il modo di farne una fonte di luce e la fiamma è dello stesso colore dei capelli. Nell’iconografia del Sud-Est asiatico la fiamma che emana dalla protuberanza cranica è l’equivalente del nimbo nelle scuole d’arte indiana. È analoga all’aureola che circonda la figura dei santi nel mondo cristiano. I lobi delle orecchie allungati non sono segni distintivi del Risveglio e li vediamo anche nei discepoli. Essi testimoniano che il Buddha e i suoi discepoli hanno abbandonato i gioielli, che denotavano il loro status di principi, per entrare nella Via. Sono dei segni acquisiti nel corso della loro vita prima della conversione. Una delle caratteristiche di questa pittura è l’espressione pensosa dei visi, quello del Maestro e quelli dei discepoli. Il primo continua a pensare a ciò che ha appena detto, i secondi a ciò che hanno appena udito. Insomma è un modo per comunicare che la Parola del Maestro è profonda e merita di essere meditata. La pari lunghezza delle dita delle mani, come pure delle dita dei piedi, è frequente nell’iconografia, ma non ha un significato particolare: risponde solo a un diffuso criterio di bellezza. La costruzione in cui si trova questa pittura è chiamata Upali Thein o Upali Sima, parola che in sanscrito molto probabilmente significa “recinto di pietra”. Così infatti appare dall’esterno: una cinta muraria a pianta rettangolare di circa 32 metri per 25, con i lati est e sud formati da due portici. Il recinto circonda un edificio di circa 15 metri per 8, suddiviso in due sale di grandezza ineguale, ognuna delle quali contiene una statua del Buddha seduto. Le pitture decorano i muri della sala più grande, quella che si affaccia a est. Grazie a un insieme di particolari e ad alcune iscrizioni, è lecito pensare che in queste sale si riunisse la comunità dei monaci sia in occasione delle ordinazioni, sia per la confessione dei peccati, cioè gli errori contro le regole monastiche. La città di Pagan comprendeva un insieme considerevole di edifici con funzioni molto differenti, dal monastero allo stupa, dalla biblioteca alla sala di riunione e al tempio-santuario. L’Upali Thein o Upali Sima, costruito nella prima metà del XIII secolo, fu restaurato e rinnovato, e in particolare abbellito da pitture murali nel XVIII secolo, quando la città aveva già alle spalle una storia di una decina di secoli e aveva ormai ceduto il ruolo di capitale ad altre città, come Mandalay o Rangoon. Pagan conserva tuttavia tutto il suo valore archeologico e la sua bellezza.
Pagine seguenti: 46. Bagan/Pagan. Upali Thein. Edificio in mattoni a pianta rettangolare, Upali Thein era utilizzato, sembra, come sala per le ordinazioni. Sarebbe stato fondato nel secondo quarto del XIII secolo. D’aspetto sobrio all’esterno, comprende all’interno una decorazione di pitture murali tardive, datate al XVII secolo o all’inizio del XVIII, sfortunatamente assai danneggiate nel 1975, durante un terremoto particolarmente distruttivo.
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Pagine precedenti: 47. Bagan/Pagan. Tayok-pyi Paya. Situato nella zona di Minnanthu, il Tayok-pyi Paya, che ha conservato una parte della decorazione esterna a stucco, fu edificato nel XIII secolo dal re Narapatihapate, vilipeso dalla storia birmana per esser fuggito davanti all’invasione mongola. 48. Bagan/Pagan. Tempio n. 1980, vicinanze del monastero Nat Taung. Più di 2.200 strutture sono catalogate nel sito di Pagan. Molte di queste – semplici ammassi di mattoni resi informi dai danni del tempo o edifici di medie dimensioni ancora abbastanza ben conservati – sono conosciute solo con il numero d’inventario loro assegnato.
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49. Bagan/Pagan. Tempio n. 1494. Oltre che ai temi narrativi ricavati dai jataka e dai racconti della vita del Buddha Vakyamuni, la decorazione degli edifici religiosi birmani attinge abbondantemente anche al repertorio di motivi geometrici, vegetali o animali, generosamente forniti dal modello indiano.
Pagine seguenti: 50. Bagan/Pagan. In prossimità del tempio n. 1494. Più ancora che gli edifici maggiori, regolarmente restaurati, spesso sono le strutture piccole e trascurate quelle che permettono di capire meglio le tecniche di costruzione usate anticamente in Birmania: i danni del tempo fanno affiorare sotto il rivestimento a stucco la muratura in mattoni.
51. Bagan/Pagan. Monastero Nat Taung. Situato nelle immediate vicinanze del villaggio di Taung Bi, a nord delle mura dell’antica Pagan, il monastero Nat Taung è considerato, forse a giusto titolo, la più antica costruzione monastica in legno della regione. Si tratta infatti di un vasto complesso religioso comprendente due monasteri e molteplici edifici annessi. La datazione precisa resta molto incerta, ma le parti più antiche – soprattutto le rimarchevoli sculture in legno di tek dell’edificio principale – potrebbero risalire alla metà del XIX secolo.
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litica della regione. Seguendo l’avvicendarsi dei sovrani, alcuni dei quali riuscirono a ristabilire un’unità precaria e generalmente poco durevole, la capitale si spostò tra Pegu e Ava, più protetta nell’entroterra. Il re Thalun, giunto al potere nel 1629, inaugurò una politica più isolazionista che i suoi successori avrebbero continuato. Avviò una riforma dell’amministrazione e un’importante attività costruttiva: a Sagaing, che fu anche per breve tempo una capitale effimera, fece edificare la pagoda Kaung Hmou Do, il cui stupa riprende un modello singalese. Non lontano da Ava, si trova anche il Bagaya Kyaung, eccezionale monastero in legno scolpito, più tardivo, databile all’inizio del XIX secolo, rarissima e antica testimonianza delle tecniche nelle quali gli artisti birmani eccellevano. Purtroppo la maggior parte degli edifici in legno sono stati lasciati in abbandono, se non addirittura deliberatamente distrutti per fare spazio a edifici in muratura. Dopo la scomparsa di Thalun, la dinastia s’indebolì e, nel 1752, una rivolta dei Mon, cominciata nel 1740, provocò la caduta di Ava.
Il terzo impero birmano Un semplice capo di villaggio, Alaungpeya, avrebbe ristabilito la situazione in favore dei Birmani e creato in pochi anni una nuova dinastia e un nuovo impero. Seguendo l’esempio di buona parte dei suoi predecessori, dapprima respinse i Mon, poi attaccò gli stati degli Shan, la bassa Birmania e Pegu, così come gli insediamenti costieri inglesi e francesi che avevano sostenuto i Mon, infine si rivolse contro i Thai di Ayutthaya. Solo la morte gli impedì di condurre a buon fine quest’ultima impresa e toccò ai suoi figli e successori mettere in ginocchio il regno Thai. Ayutthaya fu distrutta da cima a fondo e la sua popolazione deportata e insediata a forza in Birmania centrale. Ma ancora una volta iniziò il declino. Un nuovo re, Bodopeya, trasferì la capitale ad Amarapura. Esaurì le finanze e le forze vive del paese in vani tentativi di conquiste e varando a Mingoun un progetto gigantesco: la costruzione di una pagoda che egli voleva fosse la più grande del mondo. Alla sua morte, nel 1819, l’edificio rimaneva incompiuto e nessuno si arrischiò a ripren-dere i lavori. Spaccata lungo tutta l’altezza da una crepa spettacolare durante un terremo-to, la pagoda, o almeno ciò che ne fu costruito, ha un fascino senza tempo che le è proprio. Sempre a Mingoun si trova la campana considerata la più grande del mondo. Fusa nel 1790, era destinata alla pagoda incompiuta.
La fine di una Birmania indipendente Già ben radicati in India, gli Inglesi avevano preso contatti diretti con la Birmania sotto il regno di Bodopeya. La conquista birmana del regno dell’Arakan dava infatti al paese una frontiera comune con l’India sotto il controllo britannico. All’epoca del conflitto, molti profughi dell’Arakan si rifugiarono nel subcontinente, mentre altri, depor96
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52. Sagaing. Stupa distante 8 chilometri dalla città. Situata circa 20 chilometri a sudovest di Mandalay, Sagaing fu scelta a più riprese come capitale, tanto da semplici capotribù quanto da sovrani con ambizioni più marcate. Distrutta da un terribile incendio nel 1968, la città è stata totalmente ricostruita, ma i suoi dintorni, soprattutto le colline circostanti, ospitano ancora le vestigia di antichi edifici, a volte ricoperti da una vegetazione invadente, che testimoniano l’antico splendore della città.
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53. Sagaing. Kaunghmudaw. 10 chilometri a ovest di Sagaing si erge, oggi completamente restaurata, la pagoda Kaung Hmou Do (Kaungh-mudaw). Fu edificata sotto il regno di Thalun nel 1636 e lo stupa che costituisce il cuore dell’insieme architettonico è copiato da uno dei più importanti stupa dello Sri Lanka. Una tradizione locale dà tuttavia una spiegazione meno pudica per giustificare la forma perfetta dell’edificio, che ricalcherebbe il seno della sposa preferita del sovrano fondatore! Pagine seguenti: 54. Mingoun. Sorgere del sole sulla pagoda Hsinbyume. Avendo perduto la prima sposa Hsinbyume, il principe Bagyidaw, salito al trono nel 1819, fece edificare un impressionante stupa con sette terrazze concentriche, evocatrici delle sette catene montuose che, nella cosmografia indiana, circondavano il monte Meru. Gravemente danneggiato nel 1838 durante un terremoto, l’edificio fu restaurato dal re Mindon.
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55. Mandalay. Pagoda Kuthodaw. Fu edificata nel 1875, durante il regno di Mindon. Nel mondo buddhista occupa un posto speciale: vi è custodito, riprodotto nella sua interezza, su 729 stele di marmo bianco albergate in piccoli tempietti, il testo del Canone buddhista, il Tipitaka, fissato durante un Concilio riunito presso la capitale sotto l’autorità del re.
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56. Mandalay. Pagoda Sandamani. La pagoda si innalza nel luogo in cui prima sorgeva una residenza provvisoria che il re Mindon aveva abitato durante la costruzione del suo palazzo reale. L’edificio ospita una copia del testo del Tipitaka, custodito nella versione originale presso la pagoda Kuthodaw.
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57. 58. Mandalay. Pagoda Shwenandaw. La pagoda, oggi un vero e proprio museo dell’architettura in legno, in origine era solo uno dei tanti padiglioni del vastissimo palazzo reale di Mandalay. Il re Mindon vi trascorse parte della vita e vi rese l’anima. Il suo successore decise allora di far smontare l’edificio per collocarlo in un altro luogo e farne un monastero.
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59. 60. Bago/Pegu. Pagoda Kyaikpoun. Fondato nel 1476 dal re Dhammazedi, l’edificio comunemente chiamato “pagoda” Kyaik Pun è di fatto una struttura del tutto particolare: un parallelepipedo rettangolare in muratura massiccia di mattoni, al quale sono addossate sui quattro lati quattro immagini monumentali raffiguranti il Buddha storico Vakyamuni e i suoi tre predecessori. Realizzate in mattoni stuccati, queste statue, esposte alle intemperie, vengono regolarmente ricoperte di rivestimenti protettivi e di colori vivaci che nascondono la reale antichità dell’insieme.
Pagine seguenti: 61. Yangoon/Rangoon. Al centro di un vasto complesso religioso, la pagoda Shwedagon si staglia elegantemente nel cielo dell’antica capitale birmana, Yangoon, di cui è il monumento emblematico. La storia antica dell’edificio è poco conosciuta e avvolta nella leggenda. La Shwedagon sarebbe stata edificata per accogliere dei capelli del Buddha riportati dai due mercanti – che la tradizione vuole birmani – che gli offrirono il primo pasto dopo il Risveglio. 62. Yangoon/Rangoon. Pagoda Shwedagon. Le immagini del Buddha, sebbene abbiano acquisito un’identità propriamente birmana e si differenzino in maniera sensibile secondo gli stili, restano fedeli a certi dettami iconografici venuti dall’India. Così, l’incrostazione di pietra dura tra le sopracciglia corrisponde all’urpa, uno dei segni maggiori del Grande Essere della tradizione indiana, mentre la doratura regolarmente rinnovata sulle sculture evoca il colorito luminoso e l’incommensurabile bagliore che, dicono i testi, emana dal corpo del Beato.
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tati nella regione di Mandalay, furono ridotti in schiavitù. La tradizione locale vuole che il re e la sua corte fossero stati destinati al servizio della pagoda detta dell’Arakan, dove è venerata una celebre immagine del Buddha. Nel corso del XIX secolo tra la Birmania e il potere britannico scoppiarono tre conflitti. La questione dell’Arakan e della zona di frontiera fornì il pretesto al primo di questi. Alla fine del secondo, la bassa Birmania fu annessa dagli Inglesi. Ma un cambiamento intervenne allora alla testa dello stato birmano, col favore di una rivolta di palazzo. Il re Mindon, molto popolare, pio buddhista desideroso di mettere fine alle ostilità in corso, s’impadronì del trono e concluse subito un accordo coi Britannici. Un gesto di buona volontà da parte sua – fece liberare tutti i prigionieri europei – aprì una nuova era nelle relazioni anglo-birmane. Mindon lasciò un’impronta durevole sul paese: ne intraprese la modernizzazione attraverso riforme amministrative e sociali, incrementando gli scambi commerciali con il mondo esterno, sostituendo il sistema tradizionale del baratto con un sistema monetario, favorendo lo sviluppo dell’industria attraverso l’introduzione di macchine di concezione europea. Mindon occupa anche un posto essenziale nella storia del buddhismo birmano. Egli stabilì la capitale a Mandalay, sognando di farne un centro d’insegnamento e di diffu-sione del buddhismo. A questo scopo, patrocinò la fondazione di numerosi monasteri e fece, a Mandalay e altrove nel paese, considerevoli donazioni alle istituzioni religiose. Accordò un ruolo di primo piano al clero buddhista nella conduzione degli affari del-lo stato. E, soprattutto, promosse, nel 1871, il Quinto Concilio buddhista, al quale par-teciparono 2.400 religiosi. Il sovrano fece incidere il testo revisionato del Canone pali su una serie di stele di marmo, collocate poi nel recinto della pagoda Kuthodaw. Le azioni di Mindon non furono tuttavia senza impatto sulle finanze dello stato e il suo tentativo di modernizzazione non ebbe il successo sperato. La sua morte, nel 1876, fu seguita da un nuovo aggravarsi delle relazioni con l’Inghilterra. I tentativi dei suoi successori di negoziare con la Francia non fecero che accentuare la volontà britannica di por fine all’ostilità birmana. Alla conclusione di un terzo conflitto aperto, Mandalay fu occupata da un contingente inglese e il re esiliato in India. Nel 1886 la Birmania divenne una provincia dell’impero britannico delle Indie. La prossimità geografica e la comune appartenenza all’impero britannico giustificano forse l’esistenza di templi birmani nella provincia malese di Penang. La resistenza, generalmente basata su una rete di associazioni culturali e religiose, cominciò allora ad organizzarsi lentamente, e proseguì la sua azione fino al ritorno all’autonomia nel 1937. Dal 1852 i Britannici affidarono a Yangoon, rimasta un’insignificante borgata fino al XVIII secolo ma divenuta in seguito il principale porto del paese, la posizione di centro amministrativo. La città moderna, destinata ad essere la capitale della Birmania indi-pendente fino a una data recente, si sviluppò a partire dalla pagoda di Sule. Ma è intor-no alla Shwedagon che batte il cuore religioso della città. La storia del monumento ri-mane sommersa nella leggenda fin verso il XIV secolo. Lo stu pa originale sarebbe stato costruito per accogliere i capelli donati dal Buddha ai due mercanti birmani che gli avevano offerto il suo primo pasto dopo il Risveglio. 110 BIRMAN IA O MYANMAR
Pagine seguenti: 63. Malesia. Penang. Tempio buddhista birmano (probabilmente lo stesso della foto a destra). La penisola malese fu a lungo contesa, nell’arco della sua storia, tra regni mon, birmani, thai, indonesiani... prima che gli Occidentali accampassero, a loro volta, pretese. Alcune minoranze etniche e religiose vi risiedono tuttora e praticano la loro religione – il buddhismo per esempio – in uno stato oggi dominato dall’islam. Questa effigie, conforme a una tradizione birmana tardiva, riproduce alcuni tratti fisici del Grande Essere: l’urpa tra le sopracciglia, così come le pieghe alla base del collo, segno di bellezza. 64. Malesia. Penang. Tempio Dhammikarama, tempio buddhista birmano. Il gesto chiamato “assenza di paura” protegge e benedice. È usato di frequente nell’iconografia buddhista e il palmo rivolto all’esterno rivela alcuni tratti caratteristici dell’Essere predestinato che il corpo del futuro Buddha porta fin dalla nascita.
Il suo alto profilo dorato, prodotto da ulteriori restauri e da una continua manutenzione, si staglia elegantemente sul cielo di Yangoon, e rimane emblema del paesaggio architettonico della città. Per l’entità e la qualità del suo patrimonio artistico e culturale, Mandalay è, dopo Pagan, la città più ricca del paese. Qui c’è la vera cultura, qui si sono conservati i migliori talenti dell’artigianato artistico. In campo religioso, è qui che ogni vero monaco deve perfezionare la sua formazione. Le strade diritte, che si intersecano ad angolo retto, si stendono all’ombra della collina dove, riparata nel suo tempio, una colossale immagine del Buddha in piedi punta il dito in direzione della città, di cui il Beato, secondo la leggenda, avrebbe predetto la fondazione... Iconografia unica e propria di Mandalay. Una copia dei testi del Canone incisi sulla stele di marmo nella pagoda Kuthodaw si trova nella pagoda Sandamani, innalzata sul luogo della residenza provvisoria in cui alloggiava il re Mindon durante i lavori di costruzione della sua capitale. La pagoda Shwenandaw era all’origine parte integrante del palazzo reale, uno dei molteplici padiglioni di un complesso assai vasto. Il re Mindon vi passò parte della vita e vi rese l’anima. Il suo successore scelse allora di far smontare l’edificio per stabilirlo in un altro sito e farne un monastero. Questa decisione salvò una costruzione che, oggi vero e proprio museo dell’architettura in legno, compensa la perdita irrimediabile del palazzo, distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ben più di Yangoon – recentemente rimpiazzata nel suo ruolo di capitale da Pyinmana (Naypyidaw) creata in ogni sua parte in un isolamento completo per volere della giunta al potere – Mandalay costituisce da tutti i punti di vista il vero cuore della Birmania.
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THAILANDIA
Posta al centro della penisola indocinese, unico paese della regione ad aver mantenuto, a prezzo di compromessi a volte dolorosi, la propria indipendenza durante il periodo coloniale, la Thailandia ebbe una storia ricca di capovolgimenti e l’arte che vi si sviluppò nell’arco dei secoli ne risentì profondamente. A lungo sconosciuta, la preistoria della Thailandia rivela, alla luce delle scoperte degli ultimi decenni, una ricchezza eccezionale. Tuttavia fu solo verso gli inizi dell’era cristiana che le città-stato allora presenti sul territorio dell’odierna Thailandia entrarono nella storia attraverso le menzioni degli annali storici cinesi e poi attraverso iscrizioni sparse. La zona geografica che costeggia il golfo del Siam, così come una parte della penisola malese, si trovava sotto il controllo del Funan, il cui centro d’origine pare fosse situato presso il delta del Mekong.
Prima dei Thai, i Mon Prima di diventare il paese dei Thai, la Thailandia fu il paese dei Mon. Ancora poco conosciuti, i Mon, che appartengono al gruppo linguistico monkhmer, dapprima erano stanziati, si pensa, nel nord dell’attuale Vietnam, poi si spostarono verso l’ovest della penisola e si stabilirono in Thailandia e in Birmania dove, quantunque nettamente minoritari, sono tuttora presenti. È a loro che una buona parte del Sud-Est asiatico deve alcuni tratti fondamentali della propria civiltà: la risicoltura irrigata, il buddhismo theravada, la scrittura, le basi di un’architettura... Verosimilmente presenti in Thailandia agli inizi dell’era cristiana, i Mon furono i recettori delle influenze indiane, delle quali raccolsero il testimone. Numerosi importanti centri Mon sono attualmente noti. Il regno di Dvaravatiera ubicato nella regione dell’attuale Nakhon Pathom, circa 80 chilometri a ovest di Bangkok. Il termine, oggi usato per identificare quell’entità politica che fu all’apice della propria potenza tra il VI e il IX secolo e di cui lo statuto e il funzionamento non sono noti con certezza, è derivato da un toponimo rintracciabile in alcuni testi cinesi e confermato ulteriormente dagli studi archeologici. L’arte di
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65. Lamphun. Wat Chama Devi, chiamato familiarmente Wat Kukut. I due chedi (stupa) antichi del monastero presentano una decorazione formata da nicchie riccamente ornate che contengono immagini del Buddha in piedi. Il materiale, fragile, ha richiesto nel corso del tempo numerosi restauri che hanno sensibilmente modificato l’aspetto dei volti. Pagine seguenti: 66. Lamphun. Wat Chama Devi. Un tempo avamposto più settentrionale dei Mon, Lamphun fu annessa al regno thai del Lanna alla fine del XIII secolo. La città e la sua cultura conservarono tuttavia la loro individualità. Il Wat Chama Devi, che oggi si compone essenzialmente di edifici moderni, conserva tuttavia due chedi antichi, la cui fondazione è abitualmente attribuita alla leggendaria regina Chama Devi. Le due costruzioni, una in mattoni, l’altra in laterite, sono ricoperte da una decorazione in terra stuccata ancora abbastanza ben preservata: una successione di nicchie che ospitano un’effigie del Buddha.
Dvaravati, le cui vestigia abbondano nella parte centrale del paese, presenta un’incontestabile originalità, creando dei tipi iconografici che le sono propri; ne è un esempio l’immagine del Buddha in piedi, le cui mani sollevate riproducono in perfetta simmetria il gesto dell’insegnamento, rappresentazione che non conosce paralleli nei model-li indiani. In un primo momento l’ispirazione è essenzialmente buddhista, poi, per influenza degli stati vicini, e soprattutto dei regni indonesiani con i quali Dvaravati intratteneva rapporti, cede un posto non trascurabile all’iconografia indù. Il regno settentrionale di Haripuñjaya, imperniato sulla città di Lamphun, fu l’ultimo stato mon a resistere all’avanzata dei Khmer e dei Thai. La sua esistenza è attesta-ta dal VII al XIII secolo. Una cronaca tardiva ne attribuiva la fondazione a una regina di nome Chama Devi, la quale, in un’epoca non precisata, avrebbe condotto il suo popo-lo lungo il fiume Ping per sfuggire alla minaccia che i Khmer e i pirati indonesiani rappresentavano per i principati mon delle zone costiere. Questa stessa sovrana avrebbe inoltre fondato, presso il Wat Chama Devi– familiarmente chiamato Wat Kukut – i due antichi chedi, la cui silhouette è caratteristica dell’architettura mon. Il Chedi Ratana è una piccola costruzione ottagonale di mattoni; parte della decorazione ester-na è frutto di un restauro effettuato nel XII secolo. Il Suwan Chang Kot è un edificio piramidale a cinque piani, dotato per ciascun livello di nicchie che ospitano effigi del Buddha in terracotta rivestita di stucco. Placche di rame dorato ricoprivano un tempo la parte terminale del chedi. Un terzo edificio contiene pitture murali moderne raffiguranti la vita leggendaria della regina Chama Devi. Sul sito dell’attuale Lampang esisteva, fin dal VII secolo, un’altra città mon, anch’essa dipendente dal regno di Haripuñjaya. Più di venti monasteri sono distribuiti tra la città e i suoi dintorni; i loro stili architettonici, assai vari, riflettono le diverse influen-ze che si susseguirono in questa regione strategica, crocevia di numerose vie di comunicazione molto frequentate. A sud della città, il Wat Phra That Lampang Luang è circondato da mura che lo rendono più simile a una fortezza che a un complesso religio-so. Il luogo fu teatro di violenti scontri tra armate thai e birmane. Il monastero comprende un museo nel quale è custodito il secondo Buddha di Smeraldo del paese, più piccolo del suo celebre quasi-gemello di Bangkok. Per tutto questo periodo, durante il quale i Mon ricevettero e adattarono le influenze indiane, alcune città-stato prosperarono sulla penisola malese grazie soprattutto al commercio marittimo e l’arte che vi fiorì, non priva di legami con l’arte indonesiana contemporanea, ebbe un sicuro influsso sull’evoluzione dell’arte in Thailandia.
L’influenza dell’impero khmer Ben prima che l’impero khmer, allora all’apice della potenza, esercitasse, tra il X seco-lo e l’inizio del XIII, un controllo diretto su una parte dell’attuale Thailandia, le reciproche influenze tra i l’arte dei Mon e quella dei Khmer erano già evidenti. La Scuola di Lopburi – designazione generica dell’arte d’ispirazione khmer che si sviluppò sul territorio thailandese –, ben lungi dall’essere una tradizione provinciale, ha lasciato opere di una bellezza originale che spesso denotano un indiscutibile grado
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67. Lampang. Wat Phra That Lampang Luang. Numerosissime effigi del Buddha sono custodite nei molti edifici religiosi del Wat Phra That Lampang Luang; qui, nel piccolo museo, c’è anche un Buddha di Smeraldo che sarebbe stato tagliato, secondo la tradizione locale, nello stesso blocco della famosa effigie di Bangkok. Se nell’arte thai il Buddha è rappresentato nelle quattro posizioni canoniche, gli artisti mostrano tuttavia una spiccata predilezione per la posa detta “prendere la terra a testimone”, che evoca la vittoria del Beato sull’avversario Mara nelle ore che precedettero il Risveglio.
68. 69. Lampang. Wat Phra That Lampang Luang. L’attuale città di Lampang, nel nord della Thailandia, costituisce di fatto la quarta espansione di una città infinitamente più antica, la cui fondazione sembra risalire ai tempi della presenza mon nella regione. Fra i numerosi monasteri ancora in piedi, il Wat Phra That Lampang Luang è uno dei più belli. È considerato uno dei più antichi edifici religiosi dell’intero paese. Un grande chedi (stupa) ricoperto di placche di rame cesellato (foto a destra), situato nella corte centrale del complesso, è circondato, alla base, da parasoli di rame traforato e da statue di guardiani (foto a sinistra) che sono oggetto di un’importante devozione popolare.
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70. Lampang. Wat Phra That Lampang Luang. Nel recinto del complesso molti edifici, per l’arditezza delle strutture e la raffinatezza delle decorazioni, illustrano mirabilmente ancor oggi la qualità dell’architettura in legno.
Pagine seguenti: 71. Prasat Muang Tam, tempio khmer. Gopura del recinto interno. I gopura (termine preso in prestito dal vocabolario dell’architettura indiana) sono i portici monumentali che si aprono nei recinti concentrici dei templi khmer. Il complesso si trova nella stessa zona del Prasat Phanom Rung; fu edificato nella seconda metà del X secolo, là dove un tempo sorgeva un palazzo reale. Si compone di cinque torri-santuario – oggi la torre centrale è in completa rovina – poste dentro a un recinto interno dotato di gallerie, circondato da un secondo recinto che racchiude anche quattro vasche, decorate ai bordi da gruppi di naga, geni serpentiformi provenienti dalla mitologia indiana.
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di indipendenza dai modelli di Angkor. Questa indipendenza si affermò in maniera ancor più netta dopo la fine del XII secolo, quando la Cambogia di Angkor perse progressivamente l’egemonia politica nella regione. Circa 150 chilometri a nord di Bangkok, Lopburi, dove si sono scoperte anche alcu-ne vestigia mon, fu il centro dell’occupazione khmer nel paese. Un viceré verosimil-mente vi dimorava durante certi periodi. In seguito, durante l’epoca di Ayutthaya, la città dovette essere la seconda capitale del re Phra Narai, celebre per aver stabilito rela-zioni diplomatiche tra il suo regno e la Francia del Re Sole. Le vestigia khmer non mancano nelle immediate vicinanze di Lopburi, ma è più a est, nella regione di Khorat, che si trovano i siti più celebri e più rappresentativi dell’arte khmer in Thailandia. Phimai, oggi pacifica borgata di modeste dimensioni, fu anticamente una città khmer di una certa importanza; una strada, disseminata di foresterie e di templi – le cui rovine sono tuttora visibili, a Prasat Muang Tam o a Prasat Phanom Rung – la collegava ad Angkor. I templi khmer della Thailandia presentano generalmente una pianta che si discosta poco da quella dei templi costruiti in Cambogia. Il loro orientamento religioso è soprattutto indù, ma il tempio di Phimai ha un’iconografia complessa, che risente di un buddhismo mahayana sincretico.
I primi regni thai I Thai appartengono a un gruppo etnico importante, largamente distribuito su tutta la penisola indocinese. Sarebbero stati a lungo stanziati in Cina meridionale, nello Yunnan, prima di cominciare, abbastanza presto nella storia e a piccoli gruppi, un lento movimento verso sud, seguendo i corsi dei fiumi. Questo spostamento, più massiccio a partire dal XII secolo, non poté mancare di metterli in conflitto con i Mon e i Khmer, dai quali ricevettero, in aggiunta alla cultura cinese dalla quale avevano già assimilato alcuni elementi, l’influenza della civiltà indiana. Sukhothai, città il cui nome contiene una nozione di felicità, si trova circa 500 chilometri a nord di Bangkok, in una vasta pianura paludosa e fertile, dove già sorgevano da lungo tempo alcuni villaggi. La zona, al passaggio tra il XII e il XIII secolo, era sotto la dominazione khmer, ma i gruppi thai lì installati erano governati da capi propri. Nei primi anni del XIII secolo la potenza khmer vacillava per la morte di Jayavarman VII, l’ultimo grande sovrano di Angkor. Tra il 1220 e il 1240, due capi thai conquista-rono l’indipendenza della regione. Uno di questi, che la tradizione finirà per identifi-care con l’eroe mitico Phra Ruang, leggendario artefice della liberazione della città, divenne sovrano di Sukhothai e di Sajjanalaya con il nome indiano di VriIndraditya. La città thai fu fondata sotto il suo regno: sapiente commistione, pare, di urbanismo khmer e di concetti specificatamente thai. Così il primo edificio religioso in assoluto eretto in città fu molto verosimilmente il santuario dedicato al genio protettore del ter-ritorio, e non un complesso buddhista. Il terzo figlio di VriIndraditya, Rama Kamhæng, fu anche il terzo sovrano della Sukhothai indipendente, e il vero artefice della potenza thai. Sarebbe asceso al potere THAILANDIA 123
72. 73. Prasat Phanom Rung, tempio khmer. Gopura orientale, vista generale e particolare del frontone. Buona parte del territorio dell’attuale Thailandia subì il controllo dell’impero khmer dall’XI al XIII secolo. Questa situazione politica non fu priva di conseguenze culturali e artistiche e i resti di numerosi templi tipicamente khmer sono ancora visibili nella zona orientale e centrale del paese. Prasat Phanom Rung, situato tra la provincia di Buriram e la frontiera cambogiana, è uno dei più bei complessi architettonici khmer della regione. Il nucleo delle costruzioni può essere datato al XII secolo, sebbene certi resti appaiano nettamente anteriori. L’iconografia, in conformità alla religione maggioritaria dell’impero khmer, è d’ispirazione indù e il tempio era dedicato a Viva; questi appare raffigurato come asceta divino sul frontone del gopura orientale che conduce al santuario centrale.
Pagine seguenti: 74. Prasat Phanom Rung, padiglione d’entrata al santuario centrale. Questo si compone di una torre-santuario a pianta quadrata, dotata di un’entrata in ognuna delle quattro direzioni. A est l’entrata principale è preceduta da un avancorpo che collega il santuario con un mapdapa (padiglione che precede il tempio) e un portico.
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75. Prasat Phanom Rung. Il tema della danza cosmica di V iva, che evoca le funzioni principali del divino nella prospettiva vivaita, è molto popolare nell’iconografia del sud dell’India e appare anche nell’arte khmer. Qui lo vediamo sul frontone dell’entrata principale del santuario di Prasat Phanom Rung. Questa stessa immagine fu riprodotta nel 2005 in uno dei primi francobolli di forma triangolare emessi dalle poste thailandesi.
76. Phimai, tempio khmer. Importante complesso religioso provinciale, un tempo, quando la regione faceva parte dell’impero khmer, Phimai era collegato direttamente ad Angkor da una strada. Realizzato nel XII secolo, denota attraverso alcuni tratti architettonici lo stile di Angkor Wat, ma i rinnovamenti e gli ampliamenti posteriori corrispondono allo stile più tardivo del Bayon (fine del XII secolo e inizio del XIII). L’iconografia del tempio, con il santuario dedicato a un’entità del buddhismo mahayana, è sincretica e complessa, e assimila in certa misura una parte del pantheon indù.
77. La città di Sukhothai, posta 500 chilometri a nord di Bangkok, fu, a partire dalla metà del XIII secolo, il centro del primo regno thai. La città antica, dotata di una tripla cinta ancora abbastanza ben conservata, ospita le rovine di un numero impressionante di edifici religiosi.
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verso il 1279 e quasi tutto ciò che sappiamo sul suo regno proviene da una stele che egli stesso fece erigere per commemorare i propri alti meriti e mettere in luce la pro-sperità del suo regno. Il sovrano si presenta come il re buono, equo, pio buddhista che mostra la strada ai propri sudditi. Si dichiara inoltre inventore di un sistema di scrittu-ra proprio del suo popolo, il che, pare, è un po’ esagerato. L’alfabeto thai deriva infat-ti dall’adattamento di un corsivo khmer alla lingua thai. Nel 1299 o nel 1316, a seconda delle fonti, Rama Kamhæng, del quale si narra che scomparve misteriosamente tra le rapide di un fiume, lascia il trono al suo successore Lö Tai, il cui regno era destinato a essere molto lungo. Buddhista convinto, il nuovo sovrano è più conosciuto per i meriti religiosi che per le conquiste. Sovrintese all’arrivo nel paese di prestigiose reliquie e promosse la costruzione o il rinnovamento di alcuni tra i più importanti edifici della città. Questa ambiziosa impresa contribuì a introdurre nel paese influenze estetiche e tecniche provenienti dallo Sri Lanka, allora metropoli religiosa di primo piano con la quale le relazioni si andavano intensificando. Numerose costruzioni risentono di queste influenze marcate, per esempio il chedi di Wat Chana Songkhram. Il Wat Mahathat, o Monastero della Grande Reliquia, fu allora interamente ricostruito per ospitare alcuni capelli e una vertebra del Buddha. La struttura preesisten-te, fondata pare da VriIndraditya, fu inglobata in un alto zoccolo piramidale sormon-tato da uno stupa a forma di bocciolo di loto, costruito in mattoni e rivestito di stuc-co. Dei pannelli con fini rilievi raffiguranti gli episodi della vita del Buddha Vakyamuni furono realizzati per la decorazione esterna, ma poi furono spostati in un altro edificio, il Wat Si Chum. All’epoca del suo fulgore, il complesso del Wat Mahathat compren-deva quasi 200 edifici di varie dimensioni. Sukhothai non è l’unica città importante del regno. Kamphaeng Phet ne fu una delle tre capitali. Le mura della città antica racchiudono le rovine di due dei più importanti templi della città: il Wat Phra That e il Wat Phra Kaew. Il grosso delle costruzioni è stato realizzato in laterite rivestita di stucco. Ma è un po’ fuori da Kamphaeng Phet che si trovano le rovine più interessanti, in particolare quelle del Wat Phra Si Iriyabot che presentava le quattro posture canoniche del Buddha. Solo il Buddha in piedi, non restaurato, è ancora in buono stato e costituisce un bellissimo esempio di statuaria dell’epoca. Di fatto, è a Sukhothai che nel passaggio tra il XIII e il XIV secolo si forma un’arte propriamente thai, notevole per l’originalità e la capacità di assorbire, senza mai imitare servilmente, le più svariate influenze. L’immagine del Buddha realizzata in quegli anni è immediatamente identificabile – corpo minuto, morbido e agile, viso perfettamente ovale, sopracciglia arcuate riunite alla radice di un naso fine e leggermente aquilino – e mira a mettere in evidenza nella persona del Beato un essere di eccezionale spiritualità. Lö Tai morì, si ritiene, all’improvviso e la sua successione avvenne non senza difficoltà. In un primo momento si insediò al potere un usurpatore, uscito da un ramo collaterale della famiglia reale, poi il legittimo successore, Lü Tai, che era stato viceré negli ultimi anni del regno di suo padre, fece valere i propri diritti e ristabilì l’ordine. Lü Tai fu a lungo sottovalutato dagli storici. Anch’egli molto pio, e autore, quando era ancora principe ereditario, di un notevole trattato di cosmologia buddhista, il Trai Phun, è spesso considerato un devoto inefficace. Di fatto, Lü Tai si rivelò un soldato coraggioso e un abile uomo di stato, della stessa tempra del suo illustre avo Rama
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Sukhothai, Wat Mahathat, statua del Buddha seduto È a Sukhothai che “nel passaggio tra il XIII e il XIV secolo si forma un’arte propriamente thai, notevole per l’originalità” (cfr. V. Crombé, p. 132). Da qui la denominazione di Scuola di Sukhothai per definire questo stile. La statua del Buddha che prendiamo in esame si trova nel Wat (monastero) Mahathat, presso uno dei quasi duecento edifici del sito: ne vediamo uno dietro la spalla del Buddha (cfr. anche la foto di un altro stupa dello stesso monastero in Jean Boisselier, La sagesse du Bouddha, Gallimard, Paris 1993, p. 123). Ecco cosa dice Jean Boisselier: “Le immagini di Sukhothai hanno tutte una capigliatura di riccioli medi che disegna una punta sulla fronte e ricopre un uspis a ben sviluppato, sormontato da un alto ornamento fiammato (ravmi)... una specie di simbolo dell’irraggiamento spirituale e materiale del Buddha, della sua trascendenza e della sua gloria. È nella forma concepita a Sukhothai che l’immagine del Buddha si impone a tutte le scuole contemporanee e successive della Thailandia” (Jean Boisselier, La sculpture en Thaïlande, Office du Livre, Fribourg 1974, p. 132). Quanto alla postura della statua, essa richiama l’episodio immediatamente precedente il Risveglio, l’assalto e la disfatta di Mara. “Mano destra piegata verso il suolo, prende la terra a testimone”: questo gesto del Buddha evoca la vittoria su Mara (cfr. Jean Boisselier, La sagesse du Bouddha, cit., p. 58). Si noti che nei libri di cosmologia dell’epoca Mara “esercita la sovranità su tutti coloro che hanno ricevuto la vita e coloro che dovranno rinascere. Per questo è chiamato il Signore dei Tre Mondi” (Lokapajj atti, “La Descrizione del Mondo” capitolo XIV, 6, Il mondo degli dei, trad., p. 137). Mara ha il potere di far tremare la Terra e se ne serve per impedire al Buddha di accedere al Risveglio. Simbolicamente, rappresenta l’agitarsi delle passioni che impedisce al cuore di realizzare il Risveglio. Ma anche il Buddha ha potere sulla Terra e, soprattutto, è pienamente padrone delle sue passioni. Solo il trionfo delle virtù su tutti i vincoli che incatenano gli esseri può permettere la conquista del Risveglio. Si tratta qui dunque dell’episodio della vita del Buddha considerato da molti buddhisti come “l’apice della carriera del bodhisattva” (Jean Boisselier, La sagesse du Bouddha, cit., p. 58). È utile riferirsi ai libri di cosmologia dell’epoca, perché proprio nel momento in cui gli artisti thai hanno dato una nuova forma alla figura del Buddha, su un piano più speculativo, autori come Lü Tai, principe ereditario della Thailandia e futuro re di Sukhothai, hanno collaborato con numerosi eruditi per meglio comprendere le idee cosmologiche della loro epoca. Ne è una prova il numero impressionante di libri (trenta) citati sia nella prefazione che alla fine dell’opera I Tre Mondi.
Pagine seguenti: 78. 79. Sukhothai. Wat Mahathat. Fondato in una data imprecisata dal primo re di Sukhothai, il Wat Mahathat, monastero della Grande Reliquia, fungeva da centro spirituale del regno. L’edificio fu interamente rifatto sotto il regno del re Lü Tai per ospitare due preziosissime reliquie, una vertebra e qualche capello del Buddha, riportate dallo Sri Lanka. Al centro del complesso c’è uno stupa dallo slanciato profilo a forma di loto, caratteristico del periodo. L’immagine stuccata che rappresenta il Buddha seduto, mentre prende la terra a testimone, si trovava nella sala delle ordinazioni, oggi in rovina.
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Pagine precedenti: 80. Kamphaeng Phet. Wat Phra Kaew. Fondata dal re Lü Tai sul sito di una città più antica, circa 360 km a nord di Bangkok, Kamphaeng Phet fu una delle capitali provinciali dell’impero thai di Sukhothai. Era un avamposto a difesa dei confini ovest del regno e, oltre ai bastioni e alle porte fortificate, la città antica conserva i resti di varie fondazioni religiose. Il Wat Phra Kaew, edificato all’epoca di Sukhothai, oggi è assai rovinato. Uno dei santuari, dove sono ancora visibili dei pilastri quadrati in mattoni, ospita un Buddha sdraiato e due Buddha seduti, tuttora in situ. 81. Kamphaeng Phet. Wat Phra Si Iriyabot. Un po’ fuori dalla città antica, il Wat Phra Si Iriyabot era dedicato, come indica il nome, al Buddha nei quattro atteggiamenti canonici. Il santuario principale presentava quattro nicchie di grandi dimensioni: ognuna conteneva un’immagine del Buddha raffigurato in piedi, in cammino, seduto, sdraiato. Di questi ultimi due non restano che vaghe strutture. Il Buddha in piedi, invece, è ancora in condizioni abbastanza buone.
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Kamhæng. Ricondusse alla ragione numerosi sudditi di Sukhothai che avevano approfittato un po’ troppo della debolezza del padre, seppe intrattenere rapporti cordiali con il regno più settentrionale del Lanna, contenere le mire espansioniste di un altro regno recentemente fondato più a sud, ad Ayutthaya. Lü Tai riformò anche l’amministrazione e restituì ai culti indù un posto equo, conformandosi al modello indiano di sovrano ideale, garante della buona armonia tra tutte le religioni presenti nei suoi stati. Nel 1361, mentre partecipava alle celebrazioni che segnano la fine della stagione delle piogge, Lü Tai, tra la sorpresa generale, indossò gli abiti monastici. Numerosi sto-rici vi hanno scorto la causa principale di una crisi, presumibilmente improvvisa, del regno. Infatti fu un exploit di breve durata: come numerosi uomini tuttora fanno nel Sud-Est asiatico, il sovrano, dopo questo periodo di rinuncia al mondo, in capo a qual-che mese ritornò alla vita laica e il suo regno non si concluse che nel 1374. Sarebbe stato l’ultimo re indipendente di Sukhothai.
I regni del Nord All’estremo nord del paese la piccola città di Chiang Saen, capitale di un piccolo principato dal X secolo, sembra essere stata la prima testa di ponte dei Thai che sopraggiungevano dalla Cina meridionale. Nel 1238 vi nacque il futuro re Mengrai, il quale avrebbe fondato Chiang Rai e poi Chiang Mai, avrebbe sottomesso i Mon di Haripuñjaya e avrebbe unificato le tribù del nord del paese in un regno, il Lanna. Mengrai intrattenne relazioni amichevoli e confidenziali con un altro grande sovrano, Rama Kamhæng di Sukhothai. Due forti personalità che consentirono la piena affermazione dell’identità thai. La dinastia di Mengrai ebbe otto re e regine e lo stato da lui fondato conobbe una storia burrascosa. Il Lanna fu oggetto del desiderio costante da parte dei vicini Birmani, le cui armate riuscirono a farne capitolare la capitale a più riprese. Alla fine del XVI secolo e nella prima metà del XVII, il regno fu completamente sottomesso e alcuni dei suoi re furono nominati dall’autorità birmana. Una presenza tanto marcata non poteva non avere conseguenze anche in campo artistico, e le influenze birmane tal-volta sono evidenti nell’arte della Thailandia settentrionale. Peraltro, anche i regni thai del sud, a partire dalla fondazione di Ayutthaya, cercarono di piegare il Lanna, la cui volontà d’autonomia nei loro riguardi era palese. Anche in questo caso il conflitto, aperto o celato, fu costante attraverso i secoli. Dopo la vittoria decisiva di Taksin sui Birmani nel 1774, il Lanna riuscì a mantenere una semi-indipendenza. Nei i primi anni del XIX secolo, i re di Chiang Mai venivano elet-ti dai sovrani siamesi e la consuetudine voleva che si offrissero ai sovrani di Bangkok degli alberi d’oro e d’argento. La consuetudine fu abolita solo da Rama V Chulalongkorn. Il Lanna non divenne parte integrante della Thailandia che nel 1892. Chiang Mai inoltre sarebbe rimasto un principato nominalmente indipendente sino al 1939. Città quasi mitica, Chiang Mai ha conservato sino a questi ultimi anni un fascino un po’ vecchiotto. I suoi artigiani si dichiarano i custodi delle tecniche ancestrali. Gli edi-
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82. Chiang Mai. Wat Chet Yot. Chiang Mai fu fondata negli ultimi anni del XIII secolo dal principe thai Mengrai in una zona popolata da antica data. La città sarebbe divenuta il centro nevralgico del regno settentrionale del Lanna. Il Wat Chet Yot fu costruito nel 1455 sotto il re Tilokaraj, per accoglierne le ceneri, una volta morto, nel grande chedi. Nel 1477 il monastero fu sede di un importante concilio buddhista incaricato di rivedere il Canone. L’edificio più importante, che dà lustro all’insieme, è il chedi a sette punte (da cui il nome del complesso): le sue pareti esterne sono ornate da una decorazione a stucco di evidente raffinatezza, per quanto danneggiata.
fici religiosi sono numerosi in città e nei dintorni. Le origini del Wat Chedi Luang sono legate a una graziosa leggenda: addormentatosi sotto un albero, un mercante vide appa-rire in sogno lo spirito di un re, reincarnato in forma d’albero a causa della sua crudel-tà verso gli animali. Il chedi fu costruito dal figlio del sovrano così reincarnato per libe-rare il padre dalla sua dolorosa condizione. Ubicato un po’ fuori dalla città antica, il Wat Chet Yot è uno dei santuari più importanti del paese. Nel XV secolo vi si tenne un sino-do di revisione del Canone buddhista e nello stesso periodo vi fu costruito un edificio che riproduce la forma del tempio della Bodhi di Bodh Gaya.
Ayutthaya Lü Tai occupava il trono di Sukhothai da meno di tre anni allorché un principe thai originario di Udong fondò, più a sud, la città di Ayutthaya e nel 1350 si proclamò re indipendente con il nome di Ramadhipati. Il nuovo regno si sviluppò assi rapidamente e affermò la propria volontà di essere riconosciuto come una vera potenza politica. Le relazioni tra i due stati si mantennero cordiali finché Lü Tai rimase in vita. Ma alla sua morte, nel 1369, la situazione mutò sensibilmente e Ayutthaya si fece più aggressiva. Il sovrano che era succeduto a Lü Tai dapprima si rifugiò a Kamphaeng Phet, poi, nel 1378, fu costretto a dichiararsi vassallo del potente vicino meridionale. Tuttavia l’annessione definitiva di Sukhothai, alla metà del XV secolo, non si realiz-zò per mezzo delle armi. Fu piuttosto la logica conseguenza di un lento e sottile pro-cesso di assorbimento. Il sovrano che ne fu l’artefice, Boromtrailokanath, conosceva bene Sukhothai, di cui sua madre era originaria. Poté quindi reclamare legittimamen-te l’eredità materna quando l’ultimo re di Sukhothai morì, nel 1438. Del resto egli stes-so visse per diversi anni nel regno settentrionale che aveva annesso al proprio e ne introdusse alcuni costumi ad Ayutthaya, dove peraltro si combinavano armoniosamen-te apporti culturali mon e khmer. Il regno di Boromtrailokanath fu incontestabilmente uno dei più importanti del periodo di Ayutthaya. Le riforme amministrative a cui diede inizio, basate probabilmente sull’esempio dell’amministrazione khmer di Angkor, gettarono le basi della forza duratura del regno. I primi sovrani di Ayutthaya adottarono una politica espansionista che li portò a cozzare contro la potenza birmana, ad attaccare con sempre maggior violenza l’impe-ro di Angkor, definitivamente sconfitto nel 1431. Le velleità d’indipendenza del regno thai settentrionale del Lanna, imperniato sulla città di Chiang Mai, continuarono ad essere fonte di grave preoccupazione per i sovrani di Ayutthaya. Del resto, proprio per trovarsi più vicino al teatro delle operazioni, il re Boromtrailokanath trasferì tempora-neamente la sua capitale a Pitsanulok. L’arrivo sulla scena politica del Laos, divenuto un vero e proprio regno, non fece che complicare i giochi. Buona parte del XVI secolo fu occupata dagli incessanti conflitti con la Birmania. Nel 1569 Ayutthaya fu saccheggiata e le deportazioni di massa privarono il regno di gran parte delle sue forze vitali. Ad aggravare ulteriormente il baratro nel quale il paese sembrava sprofondato, i Khmer giudicarono arrivato il momento di prendersi la rivin-
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cita e attaccarono dal proprio fronte. Eppure proprio da lì venne la salvezza. I Birmani avevano installato come vassallo l’antico governatore di Pitsanulok e per assicurarsi la sua collaborazione incondizionata ne tenevano in ostaggio il figlio, Phra Naret. Di fronte alla minaccia khmer, si decise di autorizzare il ritorno del giovane nel suo paese. Abile stratega, Phra Naret scongiurò il pericolo khmer, poi si ribellò alla Birmania, che tenne in scacco. Alla morte del padre, divenne il re Naresuen. Gli stati vicini che aveva combattuto quasi non gli concessero tregua in seguito; tuttavia egli resta, nella storia della Thailandia, il sovrano che mise fine alla servitù siamese. Un nome domina il XVII secolo, quello di Phra Narai, salito al trono nel 1657. Il suo regno fu per il Siam una vera epoca d’oro. L’Occidente, ormai da decenni, voleva allungare le mani sul paese, e gli Olandesi guidavano la danza. Desideroso di contrastare la loro crescente influenza, Phra Narai si preoccupò di trovare loro un concorrente: toccò alla Francia. Fu aiutato nell’impresa da un avventuriero di origine greca, Constance Phaulkon, che un tempo era stato al servizio degli Inglesi, ed era progressivamente salito ai più alti ranghi dell’amministrazione siamese, fino a una posizione che gli permetteva di orientare la politica estera. Phra Narai seppe anche sfruttare la preoccupazione del suo contemporaneo Luigi XIV – incoraggiato in questo dai padri delle Missioni Straniere – di ottenere la conversione di un grande sovrano asiatico. Sicché le missioni diplomatiche tra i due paesi si moltiplicarono. Nel 1684 un’ambasciata siamese fu ricevuta con grande sfarzo a Versailles. L’anno successivo, una missione francese si recò nel Siam. Alla Francia furono accordate concessioni commerciali e territoriali. Ma nel 1688 Phra Narai si ammalò. Il partito a lui avverso ne approfittò. Phaulkon fu arrestato e giustiziato. Dopo la morte del re si scatenò un’ondata xenofoba contro i rappresentanti francesi e i missionari rimasti sul posto. Petracha, parente del re defunto e capo della cospirazione, salì allora al trono e la sua politica risolutamente ostile ai contatti con gli stranieri vanificò definitivamente gli sforzi del suo predecessore. Solo gli Olandesi riuscirono a trarsi d’impaccio. I vecchi nemici non tardarono a farsi vivi. Ancor prima della morte di Petracha, era cominciata tra il Siam e il Vietnam una lotta feroce per il controllo della Cambogia e del Laos. Prima del regno prospero di Boromokot, tra il 1733 e il 1758, il conflitto con i vicini Birmani riprese più aspro che mai e, a dispetto di un’eroica resistenza per mano del generale Taksin, un meticcio cinese adottato da un nobile siamese, Ayutthaya cadde, per non più rialzarsi, nell’aprile del 1767. Per i Birmani, tuttavia, fu una vitto-ria di corta durata. Rifugiatosi nel sud del paese, Taksin arruolò un’armata, e, giocando sull’effetto sorpresa, schiacciò l’esercito nemico. Poi si proclamò re e s’installò a Thonburi, sulla riva occidentale del Menam, di fronte al sito dove sarebbe sorta Bangkok. Là dove, secondo la leggenda, i superstiti di Ayutthaya sbarcarono un mattino all’alba, si innalza il Wat Arun, il tempio dell’Aurora che nel 1779 accolse provvisoriamente il Buddha di Smeraldo, prima che venisse trasferito nel Wat Phra Kaew. La silhouette caratteristica del suo chedi rimane emblematica del paesaggio monumentale della capitale. A Taksin non mancavano i nemici. Vicino al popolino, pare architettasse progetti di riforma suscettibili di inquietare tutta una classe di privilegiati. Un’abile cospirazione
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83. Bangkok. Wat Pho. Questo santuario deve il suo nome popolare di “tempio del Buddha sdraiato” a una monumentale effigie del Buddha sdraiato. Nell’iconografia buddhista questa posizione evoca per lo più il mahaparinirvapa, l’estinzione finale del Beato. L’immagine, realizzata in mattoni e poi dorata, presenta sulla pianta dei piedi un delicato lavoro di incrostazione di madreperla.
Pagina seguente: 84. Bangkok. Wat Phra Kaew. Uno dei padiglioni ospita il famoso “Buddha di Smeraldo”, effigie di modeste dimensioni intagliata in un blocco di giada, che la credenza popolare e le necessità politiche hanno reso palladio del regno di Thailandia. Come spesso accade, le entrate dei diversi padiglioni sono fiancheggiate da figure di guardiani sontuosamente addobbati e dalla fisionomia feroce.
nel 1781 riuscì a dichiararlo pazzo e a farlo rinchiudere in un monastero. Uno dei suoi ufficiali, il generale Chakri, rientrato in fretta dalla Cambogia, procedette a una vera e propria purga, facendo giustiziare tanto Taksin e i suoi figli quanto coloro che l’avevano imprigionato. Poi salì al trono, fondando così la dinastia che porta il suo nome e regna ancora ai nostri giorni, certamente sotto una forma politica differente, sul regno di Thailandia.
La dinastia Chakri I primi tre sovrani della dinastia installata a Bangkok si dedicarono essenzialmente a rafforzare la posizione del loro paese. Annessioni territoriali, accordi con il Vietnam per un controllo condiviso della Cambogia, e le prime aperture al commercio internazionale. Il re Rama IV Mongkut, che Hollywood dipinse come un sovrano da operetta nel film “Il re e io”, ebbe in realtà un destino eccezionale. Monaco per circa un quarto di secolo, fu artefice di una riforma della chiesa buddhista, in seno alla quale creò una nuova scuola, dalla disciplina sensibilmente più severa. Richiamato al trono dopo la morte dello zio Rama III, comprese che, in una terra sempre più minacciata da potenti interessi coloniali, la modernizzazione del paese rappresentava una necessità vitale. Si dedicò a quest’opera sia stipulando accordi commerciali con tutti i grandi stati occiden-tali, sia avvalendosi dei servizi di esperti stranieri in tutti i campi. Il suo successore, Rama V Chulalongkorn, che accompagnò il Siam nel XX secolo, seguì una politica molto simile. Per la sua posizione geografica, la Thailandia era uno stato cuscinetto tra i possedimenti inglesi e francesi. L’abile politica dei re Mongkut e Chulalongkorn, sovrani note-voli che possono dirsi senza dubbio i fondatori della Thailandia moderna, permise al paese di approfittare di questa situazione strategica per garantirsi l’indipendenza per tutta la durata del periodo coloniale. Al tempo in cui fu fondata Ayutthaya, più a nord il sito dell’attuale Bangkok, che era stato a lungo sommerso, si trovava al centro di un delta limaccioso, occupato da gruppi sparsi di pescatori. Antiche carte databili al regno di Phra Narai mostrano, sulla riva occidentale del Menam Chao Phraya, il fiume che attraversa una parte del paese da nord a sud, una piccola città situata al posto di Thonburi. Un forte di mattoni vi ospitò una guarnigione francese. Scelta come capitale dal primo re della dinastia Chakri, Rama I, Bangkok è quindi una città recente. I numerosi canali che la percorrevano tempo addietro, molti dei quali oggi sono stati ricoperti, costituivano altrettante scorciatoie tra i rami di un fiume particolarmente sinuoso. Le costruzioni civili e religiose furono numerose e costantemente restaurate. Edificato a partire dal 1782 per volere di Rama I, il palazzo reale fu rimaneggiato più volte. Il suo aspetto attuale è dovuto per buona parte ai lavori del regno di Rama V,
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Pagina precedente: 85. Bangkok. Wat Arun, tempio dell’Aurora. La storia di Wat Arun è poco conosciuta. Secondo la tradizione, il tempio sarebbe sorto sul luogo in cui si rifugiarono i sopravvissuti dalla distruzione di Ayutthaya nel 1767. Il chedi, alto 86 metri alla cima del pinnacolo, presenta una struttura particolare, alla quale è stato attribuito un significato simbolico; la sua forma è emblematica del paesaggio architettonico di Bangkok.
Pagine seguenti: 86. 87. Bangkok. Wat Phra Kaew, illustrazioni del Ramakien, scena 132 e scena 131. Nella cinta del Wat Phra Kaew, la galleria interna è tutta decorata di pitture murali ispirate al Ramakien, la versione thai del Ramayapa, una delle maggiori epopee dell’induismo. Il rigore dell’osservazione e la conseguente minuzia nel rappresentare i dettagli della vita quotidiana costituiscono uno degli aspetti più interessanti di queste pitture, realizzate nella prima metà del XIX secolo, su un testo riveduto alla fine del secolo precedente.
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88. Bangkok. Wat Phra Kaew, illustrazione del Ramakien, particolare della scimmia Bali (Valin), pittura murale. Una parte importante del racconto, sia nell’epopea indiana che in quella thai, si svolge nel regno delle scimmie, dove l’eroe Rama arriva in aiuto di Sugriva, sovrano legittimo, detronizzato ed esiliato dal fratello Bali.
89. Bangkok. Wat Phra Kaew, illustrazione del Ramakien, particolare, pittura murale. Una delle figure principali del Ramayapa, e sicuramente la più popolare, è la scimmia bianca Hanumat. Figlio del Vento, gode di poteri eccezionali e nel corso dell’epopea compie numerose gesta.
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90. Bangkok. Wat Phra Kaew, illustrazione del Ramakien, scena 25. Le pitture murali che si dipanano lungo tutta la circonferenza della galleria di cinta del complesso religioso furono rinnovate a più riprese, alcune perfino completamente rifatte. Il clima del paese impone ormai ampi restauri ogni venticinque anni.
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91. Bangkok. Wat Suthat. Anta di una finestra del wihan, l’edificio monastico dove ha sede l’immagine principale del Buddha. Costruito nella prima metà del XIX secolo, Wat Suthat è molto legato ai brahamani indù, la cui presenza resta necessaria per celebrare riti di stato in una monarchia buddhista. Le ante delle finestre del wihan sono decorate in lacca dipinta. Il particolare qui rappresentato mostra Indra – dio indù della guerra e del temporale e protettore di uno dei punti cardinali – sulla sua cavalcatura, l’elefante tricefalo Airavata. Il buddhismo ha integrato Indra nel suo ruolo di re degli dei, devoto al Buddha.
Pagine precedenti : 92. 93. Bangkok. Wat Pho. Chiamato familiarmente “tempio del Buddha sdraiato”, sarebbe il tempio più antico di Bangkok, fondato forse nel XVI secolo, durante il periodo di Ayutthaya. Il monastero attuale, il più vasto della capitale, è frutto di una ricostruzione totale della fine del XVIII secolo e di ripetuti restauri. In un recinto separato sorgono quattro grandi chedi, dedicati ai primi tre re della dinastia, decorati con maioliche policrome: ne vediamo un particolare nell’immagine a destra. Luogo di culto, il Wat Pho è anche un prestigioso centro d’insegnamento, soprattutto nel campo della medicina tradizionale. I monaci – nell’immagine a sinistra, un bonzo in mezzo a piccoli chedi – risiedono nella zona sud del complesso, che ospita anche una scuola.
al passaggio tra il XIX e il XX secolo. L’intervento di un architetto inglese in certe parti del complesso spiega la mescolanza a volte sorprendente di elementi occidentali e orientali. Nelle immediate vicinanze si trova il Wat Phra Kaew, vasto insieme il cui chiostro all’interno è ornato di pitture che illustrano la versione thai del Ramayap a e nel quale si trova la cappella del Buddha di Smeraldo. Il Wat Pho, che i visitatori stranieri chiamano anche il “tempio del Buddha sdraiato”, sarebbe il più antico edificio religioso della città. Fondato da Rama I, costantemente trasformato, è considerato anche la prima università del paese, inoltre gode di un’eccellente reputazione per l’insegnamento della medicina tradizionale. Complesso incontestabilmente buddhista, il Wat Suthat accoglie tuttavia nella cinta delle sue mura un tempio indù, dedicato al dio Viva, in cui prestano servizio dei brahmani consultati regolarmente per la costruzione delle case dei geni protettori. Monarchia buddhista, la Thailandia ha fatto nondimeno ricorso ai brahmani per l’incoronazione del proprio sovrano.
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Nel 1863 apparve in Francia, ne Le Tour du Monde, un racconto di viaggio che avreb-be appassionato le folle. L’autore, l’entomologo Henri Mouhot, era già morto da due anni, vittima di febbri contratte nella giungla del Laos. La sua sola ambizione era stata quella di trasmettere ad altri il proprio entusiasmo per le contrade visitate e i popoli incontrati, ma le continue ristampe del testo lo avrebbero consacrato, suo malgrado, come lo “scopritore di Angkor”. In realtà, altri Occidentali avevano visitato quel luogo prima di lui. E i Cambogiani, che non avevano mai dimenticato né mai veramente abbandonato la loro antica capi-tale, non ignoravano che quei monumenti, dalle origini così misteriose per gli Europei, erano stati eretti dai loro antenati.
La Cambogia pre-angkoriana Quando gli storici e gli storici dell’arte presero a interessarsi della Cambogia antica, il ruolo svolto da Angkor apparve talmente importante che s’impose l’abitudine di suddividere la storia del paese in tre fasi che presero il nome dalla città e dalle sue vicende. Così, il periodo detto “pre-angkoriano” va dagli inizi dell’era cristiana fino a una data tradizionalmente fissata all’802, e, sulla base delle fonti cinesi, è ripartito in due fasi. Dal II al VI secolo un “regno” del Funan avrebbe esercitato la propria autorità sul sud dell’attuale Cambogia, il delta del Mekong, e su parte del bacino inferiore del Menam (attuale Thailandia) e della penisola malese. Questo stato, se lo si può defini-re tale nel senso in cui noi lo intendiamo – alcuni pensano piuttosto a una federazione di città-stato –, traeva parte della propria ricchezza dal commercio marittimo. Uno dei maggiori centri, per non usare la parola “capitale”, si trovava ad Angkor Borei, non lontano da Phnom Da, influente luogo di vita religiosa nel sud del paese. Nella metà del VI secolo, per ragioni ancora ignote, il potere passò dal Funan a un suo antico vassallo, lo Zhen La, ubicato molto più a nord, sul territorio dell’attuale Laos, nella regione di Vat Phu. Forse non si trattò per forza di una conquista militare bensì piuttosto di una perdita d’importanza politica. Numerose capitali si succedette-
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ro – sul piano religioso e artistico, il sito di Sambor Prei Kuk è d’interesse fondamentale – e si conoscono alcuni nomi di re grazie alle iscrizioni, peraltro troppo concise, sul loro regno e la loro personalità. La storia della Cambogia pre-angkoriana è tuttora molto discussa e le certezze di un giorno possono sempre andare in frantumi l’indomani. UN’ARTE ORIGINAL E DALL’INIZIO Ispirata al modello indiano, l’arte khmer si differenzia rapidamente. Sviluppa così, a partire dall’epoca pre-angkoriana, un senso dell’equilibro, dei volumi, delle proporzioni e della prospettiva diversi da quelli dell’arte indiana coeva. Ha inoltre qualità tipicamente sue di moderazione e di pudore. L’iconografia delle divinità antropomorfe rimane molto sobria e l’arte khmer, a differenza di quella indiana, non conosce immagini sessuali esplicite.
Nascita di un impero: il IX secolo Un nuovo re, che la storia ricorda con il nome di Jayavarman II, intraprende, tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX, un’ambiziosa opera di unificazione del paese. Dopo aver riunito sotto la sua autorità numerosi piccoli regni e cambiato più volte la capitale, si stabilisce infine a Hariharalaya – oggi Rolous, una ventina di chilometri da Angkor – in una regione da cui, secondo alcuni storici, proveniva il suo lignaggio. Nell’802, data che segna l’inizio del periodo “angkoriano” – periodo in cui le capitali hanno ormai sede, se non nella stessa Angkor, almeno nella sua regione –, Jayavarman II si fa consacrare sovrano universale nella tradizione indiana. La cerimonia religiosa, celebrata sul Phnom Kulen, mirava del pari a liberare il paese da ogni intromissione straniera. In effetti sembra che alcuni regni indonesiani avessero approfittato dell’indebolimento della Cambogia pre-angkoriana, nel VII o nell’VIII secolo, per esercitare un certo controllo sul meridione del paese. Il regno di Jayavarman II getta infine le basi religiose dell’impero khmer angkoriano, stabilendo una divinità protettrice del regno, ereditata dalla tradizione indiana, ma la cui identità varia secondo il personale orientamento religioso del monarca. Le divinità locali sono allora poste sotto la sua autorità, conferendole così in una certa maniera anche un ruolo politico. A questa divinità tutelare ogni sovrano angkoriano consacrerà il proprio tempiomontagna, la creazione senza dubbio più originale degli architetti khmer. Il secondo successore di Jayavarman II dà vita, presso Hariharalaya, al primo insieme di grandi opere e fondazioni religiose, che saranno caratteristiche del periodo angkoriano. Nell’879 il Preah Ko è consacrato ai suoi predecessori e ai suoi parenti defunti. Il Bakong è il suo “tempio-montagna”. In seguito fu assai rimaneggiato e il suo aspetto attuale – soprattutto la forma caratteristica della torre santuario che sovrasta le gradinate dell’edificio– risale al XII secolo. Sempre nel Bakong fanno la loro comparsa, si ritiene, i primi bassorilievi narrativi di grande formato, tipici delle decorazioni architettoniche khmer.
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94. Angkor. Prasat Bakong, 881 (torre centrale XII secolo). Situato a Rolous, una ventina di chilometri da Angkor, il Bakong è il primo importante tempio-montagna del periodo angkoriano. Tempio di stato fondato dal re Indravarman nell’881, comprende cinque terrazze via via più piccole, che culminano nella torre santuario, rifatta nel XII secolo e caratteristica, perciò, dello stile di Angkor Wat. Il Bakong conserva ancora, al quarto livello della “piramide”, qualche frammento dei bassorilievi monumentali che un tempo lo rivestivano interamente.
LA PRIMA ANGKOR Dopo una successione senza dubbio violenta, nell’889 riceve la consacrazione regale un nuovo sovrano, Yavovarman I. Questi dapprima stabilisce il suo regno a Rolous, dove fa realizzare numerose fondazioni, ma ben presto si sposta in una nuova capitale che porta il suo nome, Yavodharapura. La prima Angkor sorge sul Phnom Bakheng, una collina naturale la cui cima viene spianata per edificarvi il tempio-montagna del sovrano. Apparentemente il suo nome deriva da una deformazione del vocabolo sanscrito nagari, che significa città. Sotto il regno di Yavovarman, l’influenza politica dell’impero khmer sembra cresce-re ancora, estendendosi dal basso Laos alla costa del golfo del Siam. Tra le sue molte fondazioni religiose, il Bakheng segna una tappa essenziale nell’evoluzione del tempio-montagna, una forma architettonica propria della Cambogia antica: per la prima volta compare alla sommità dell’edificio il caratteristico gruppo di cinque torri santuario, disposte a quinconce. Le cose si complicano negli anni Venti del X secolo. Un potente principe feudatario installato nella zona dell’attuale Koh Ker, circa 100 chilometri a nord-est di Angkor, approfitta della debolezza del secondo figlio di Yavovarman, che era anche il suo secondo successore, per impadronirsi del potere. Nel 928 il nuovo sovrano, Jayavarman IV, viene consacrato nel suo feudo, a Koh Ker, che egli sceglie di conservare come capitale e dove avvia ambiziose costruzioni, trascurando platealmente Angkor. Questa deriva geografica del potere non era tuttavia destinata a durare. Verso il 945 i re tornano ad Angkor con un altro monarca proveniente da un’altra dinastia, Rajendravarman. Costui si lancia in un complesso programma di costruzioni religiose destinato a collegarlo simbolicamente con il fondatore della prima Angkor, a integrare nell’impero khmer angkoriano il regno di suo padre e a impiantare nella capitale un culto molto antico originario di Vat Phu. Tuttavia la capitale di Rajendravarman non occupa più la posizione di Yavodharapura ma si scosta leggermente verso est, a sud di uno di quei giganteschi bacini d’acqua, dalle funzioni anco-ra poco conosciute, che vengono chiamati baray. Alcune iscrizioni del suo regno lasciano pensare che abbia dovuto fronteggiare numerose ribellioni e che sia morto in battaglia. BANTEAY SREI Il figlio e presunto erede di Rajendravarman era molto giovane alla morte del sovrano. Si può supporre che alcuni volessero approfittare della situazione per usurpare il trono. Ma un altissimo dignitario, Yajñavaraha, che aveva educato il giovane principe, riuscì a mantenere la calma e ad assicurare una normale successione. Figlio di un brahmano erudito e di sangue reale per parte di madre, Yajñavaraha era, narra un’iscrizione, assai sapiente in tutto. Non solo padroneggiava tutti i sistemi filosofici dell’induismo, ma era anche esperto della dottrina del Buddha, conosceva la musica, la medicina, l’astronomia, e componeva opere per il teatro. Suo fratello minore pare fosse un grammatico di talento. Yajñavaraha fondò uno degli edifici religiosi più celebri del paese. Ubicato una ven-
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95. Angkor. Mebon orientale. Fu edificato nella metà del X secolo sotto Rajendravarman, che spostò la sede del regno ad Angkor. Il tempio, la cui pianta si ricollega allo schema tradizionale dei templi-montagna, sorge su un’isola artificiale anticamente circondata dalle acque del baray orientale, uno di quei giganteschi bacini fatti realizzare dai sovrani angkoriani, che verosimilmente contribuivano all’irrigazione della regione. Il tempio, costruito essenzialmente in laterite e mattoni, mostra qua e là un rivestimento in arenaria, ma la maggior parte della decorazione è a stucco. Il Mebon orientale è l’unico tempio khmer di cui ci sia noto l’architetto, un certo Kavindrarimathana.
tina di chilometri in linea d’aria da Angkor, Banteay Srei è un piccolo gioiello d’architettura. Fu riscoperto nel 1914 da un ufficiale francese del Servizio Geografico; lo scavo completo del complesso fu deciso dieci anni più tardi e in seguito il tempio fu oggetto della prima anastilosi ad ampio raggio realizzata in Cambogia. Questo tipo di restauro, messo a punto in Indonesia dagli Olandesi, comportava lo smontaggio completo e razionale dell’edificio per studiarlo nei minimi dettagli e per individuarne i punti deboli, prima di ricomporlo e consolidarlo. I primi ricercatori, certo ingannati dalle particolarità estetiche dell’insieme e della decorazione, avevano commesso gravi errori di datazione. Ma la stele di fondazione, scoperta nel 1936, rivelava che il tempio era stato consacrato nel 967 e assicurava che il tutto costituiva un insieme omogeneo. Il complesso comprendeva in origine quattro recinti concentrici; il recinto principale, molto ben conservato, racchiudeva tre torri santuario su una piattaforma comune e due piccoli edifici d’incerta destinazione, comunemente chiamati “biblioteche”. La decorazione, molto minuziosa, è di un’estrema raffinatezza. La stele di fondazione indica senza ambiguità l’orientamento vivaita del tempio. Ma l’iconografia resta molto eclettica e si riferisce a miti tanto vivaiti (per esempio Ravapa che fa tremare il monte Kailash, su uno dei frontoni della biblioteca sud) quanto vispuiti, con molteplici riferimenti alle gesta di Krspa. Di Jayavarman V, il cui regno fu molto lungo, data la sua giovane età quando salì al trono, si sa ben poco. Gli viene attribuita la fondazione di alcuni edifici, come il Phimeanakas, il recinto del palazzo reale, ma senza certezza, e le iscrizioni che lodano il suo valore, la sua bellezza e la sua virtù si conformano a una convenzione ben radicata di elogio dei sovrani.
L’apogeo dell’impero: XI-XII secolo L’XI secolo si apre su alcuni anni turbolenti, finché un principe dalle origini sconosciute, Suryavarman I, candidato al trono dal 1001, verso il 1010 riesce a imporsi ad Angkor come vincitore. Farà poi risalire l’inizio del suo regno al 1002, negando così persino l’esistenza del suo avversario nella corsa per il potere. Un documento importante, battezzato dai ricercatori occidentali “il giuramento dei funzionari”, ci fornisce notizie sul suo regno. Il testo, datato al 1011, è redatto in khmer – molte iscrizioni cambogiane sono in sanscrito oppure bilingui – ed è inciso in due luoghi, in particolare nel padiglione centrale del portico d’ingresso orientale del palazzo reale. Riproduce il giuramento solenne di fedeltà al sovrano prestato da duecento dignitari in presenza del fuoco sacro, del gioiello sacro dei brahmani e di altri religiosi e prefigura in un certo modo il giuramento prestato ogni anno dai funzionari alla corte di Cambogia e negli altri regni indianizzati del Sud-Est asiatico. Suryavarman I si rivela un grande costruttore, moltiplicando le fondazioni religiose tanto ad Angkor, dove fa terminare il Phimeanakas e realizzare – o per lo meno iniziare – il Baray Occidentale, quanto nelle zone decentrate – Phnom Chisor, nel sud, o ancora Phreah Vihear, ai margini della catena montuosa dei Dangrek, al confine con
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96. Angkor. Banteay Srei. Le torri santuario del gruppo centrale. Consacrato nel 967, il tempio di Banteay Srei è ubicato poco più di 20 chilometri a nord di Angkor. Fu fondato da Yajñavaraha, un alto dignitario di corte, forse in memoria dei suoi parenti defunti. Erede di un’antica dinastia di personaggi altolocati, costui svolse un ruolo essenziale al momento della successione del giovane re Rajendravarman, di cui era stato l’educatore. Di piccole dimensioni, ma d’eccezionale bellezza, Banteay Srei non è comparabile a nessun altro edificio dell’antica capitale dei re khmer.
Pagine seguenti: 99. Angkor. Banteay Srei. Biblioteca nord, bassorilievo nella parte inferiore nel timpano del frontone est. La scena è ispirata al Mahabharata. Il dio del fuoco, Agni, ha incendiato la foresta di Khapdava per distruggere il suo nemico, il serpente Taksaka. Indra, dio della tempesta, interviene allora scatenando i fiotti di una pioggia torrenziale. Non riesce tuttavia a spegnere l’incendio perché Krspa e il suo fratellastro scagliano un nugolo di frecce a formare una cortina così serrata che le acque sono fermate a mezza via. I rilievi narrativi delle due biblioteche si collocano tra i più riusciti del Banteay Srei.
97. Angkor. Banteay Srei, consacrato nel 967. Biblioteca sud, lato ovest. Nel recinto interno del tempio ci sono, oltre alle tre piccole torri santuario, due edifici rettangolari, la cui destinazione resta ancora incerta, convenzionalmente chiamati “biblioteche”. L’iconografia della biblioteca sud è vivaita. Sul frontone ovest il dio dell’amore Kama tende l’arco, apprestandosi a scoccare verso il dio V iva la freccia che lo distoglierà dalle pratiche ascetiche e scatenerà in lui la passione per la futura sposa, la dea Parvati.
98. Angkor. Banteay Srei. Bassorilievo del gopura II. I gopura – portici monumentali che si aprono nei recinti dei templi khmer – hanno una raffinatissima decorazione a rilievo, basata su ornamenti vegetali cui si mescolano figure della mitologia indù.
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100. Angkor. Banteay Srei, consacrato nel 967. Torre santuario centrale. Bassorilievo nel timpano del frontone est del portico d’ingresso. Indra, dio indù della tempesta e della guerra, troneggia al centro della scena, appollaiato su Airavata, l’elefante a tre teste, sua cavalcatura abituale; lo affiancano i Marut, i venti, anch’essi suoi compagni abituali. Il resto della decorazione, molto minuziosa, è costituito da volute vegetali. Questa sapiente combinazione di elementi vegetali, geometrici e di figure umane e animali è una costante dell’arte khmer antica.
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101. Angkor. Banteay Srei. Biblioteca sud, frontone orientale. Il dio Viva siede sulla sommità del monte Kailash, la sua mitica dimora sulle alture dell’Himalaya. Il demone Ravapa, dalle dieci teste e dieci braccia, scuote la montagna, con grande spavento di tutti gli esseri che la popolano e più ancora di Parvati, che si rannicchia contro il suo sposo. Tra un un istante, il signore dei mondi, premendo un dito sulle rocce, ridurrà il demone all’impotenza. Questo celebre mito è narrato in numerosi testi indù, dai quali gli artisti di Banteay Srei hanno abbondamente attinto.
102. Banteay Srei, consacrato nel 967. Le pareti delle tre torri santuario sono scandite da nicchie occupate da graziose figure femminili, danzatrici celesti o divinità guardiane. Le pose sono raffinate, senza ostentazione, e il loro ornamento è sobrio, caratteristica dello stile che gli storici dell’arte hanno definito sulla base dell’arte di Banteay Srei.
l’attuale Thailandia. Preoccupato di conformarsi all’ideale del sovrano perfetto descrit-to dalla tradizione indiana, Suryavarman volle farsi sostenitore imparziale di tutte le religioni presenti nei suoi stati. Una stele scoperta a Lopburi (Thailandia) attesta sia la presenza khmer sulla pianura centrale dell’attuale Thailandia, testimoniata anche dallo stile degli edifici religiosi costruiti in quella regione, sia la volontà reale di proteggere i religiosi buddhisti di tutte le scuole, nonché “coloro che praticano l’ascesi e lo yoga a beneficio del re”. Il regno di Suryavarman I ebbe fine, si ritiene, verso il 1049 e il suo successore – che le iscrizioni affermano, senza altri dettagli, essere di razza reale – nel 1050 è consacra-to sovrano di un regno destinato a essere sconvolto da numerose rivolte. Vasti proget-ti architettonici vengono avviati ad Angkor, dove dominano i lavori per il Bauphon, tempio-montagna di concezione innovativa; il lunghissimo restauro, interrotto dai conflitti degli anni Settanta, è da poco terminato. Due sovrani si spartiscono poi la seconda metà dell’XI secolo e uno di loro, Jayavarman VI, pur mantenendo la capitale ad Angkor, lascia fondazioni religiose soprattutto nel nord del paese, come pure in Thailandia, dove si trova il tempio di Phimai, consacrato a una divinità del buddhismo tantrico. Alla morte di Jayavarman VI, gli succede il fratello maggiore, in età probabilmente avanzata, non per sete di potere, ci rivela un’iscrizione, ma per pura compassione “cedendo alle preghiere delle moltitudini umane prive di un protettore...”. A questo regno, che lo stesso testo descrive come saggio e accorto, pongono fine le mire di un pronipote del ramo femminile. SURYAVARMAN II, CONQUISTATORE E COSTRUTTORE Il giovane ambizioso altri non è che il futuro Suryavarman II, fondatore di Angkor Wat. Finiti gli studi brahmanici, lo avrebbe assalito la brama di impadronirsi del trono e per ottenerlo sfida il vecchio re in singolar tenzone a dorso di elefante, uscendone vincitore. Suryavarman guida numerose campagne militari per rafforzare ed estendere i territori del suo impero, che sotto di lui tocca l’apice della potenza e diviene il paese dominante del Sud-Est asiatico. Sul fronte orientale affronta a più riprese i Cham dell’attuale Vietnam centrale e meridionale e i Dai Viet. A ovest interviene nei conflitti tra le province sotto il controllo khmer e i Mon di Haripuñjaya. Alcune fonti cinesi lasciano intendere che a quel tempo l’impero khmer avesse propaggini persino sulla penisola malese. Questa supremazia politica va di pari passo, ovviamente, con una notevole influenza culturale e artistica, evidente negli edifici della Thailandia centra-le e orientale, meno netta sull’arte cham, nella quale tuttavia si manifesta discretamen-te in certi monumenti costruiti quando un cognato di Suryavarman governava queste regioni più orientali. In una lunga dinastia di sovrani vivaiti, Suryavarman appare come un’eccezione. La sua divinità d’elezione è infatti il dio Vispu, al quale è consacrato il tempio che mette in ombra, con la sua perfezione, tutte le altre costruzioni religiose – e sono parecchie – del regno: Angkor Wat.
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ANGKOR WAT Confuso da molti turisti con la città capitale dell’antico impero khmer, Angkor Wat non è che uno dei suoi templi. Ma che tempio! Con i suoi 200 ettari, è il più vasto complesso monumentale del gruppo di Angkor. Il muro di cinta circondato di fossati esterni abbraccia uno spazio rettangolare di circa 1.025 per 800 metri. Edificato durante la prima metà del XII secolo, Angkor Wat è consacrato al dio Vispu, verso il quale si rivolgeva la devozione personale del sovrano. L’orientamento dell’insieme verso ovest non ha mancato di sorprendere storici e archeologi, dato che gli edifici religiosi del mondo indiano abitualmente sono orientati a est. Ancor oggi ci si interroga sulle ragioni di questa originalità: semplice comodità tecnica al momento della costruzione, il che pare poco probabile; orientamento legato alla divinità principale, essendo Vispu effettivamente associato all’ovest; o ancora connotazione funeraria, essendo l’ovest associato anche alla morte e ai riti funerari? Quest’ultima ipotesi – che farebbe di Angkor Wat l’unico esempio di tempio funerario costruito per un sovrano ancora in vita – un tempo quasi abbandonata, viene di nuovo presa in attenta considerazione da alcuni ricercatori. Conseguenza non trascurabile di quest’insolito orientamento, tutto ad Angkor Wat, e in particolare la lettura dei bassorilievi nelle gallerie, va fatto al contrario rispetto alla consuetudine. Esito perfetto del tempio-montagna, Angkor Wat combina abilmente le due formu-le architettoniche in uso nelle costruzioni religiose della Cambogia angkoriana: la pira-mide a gradoni sormontata da un quinconce di torri santuario, qui collegate tra loro, e il complesso a un solo livello disposto su un asse est-ovest. Nella seconda galleria detta “dei bassorilievi” si dipanano senza interruzione per decine di metri rilievi infinitamen-te dettagliati raffiguranti miti indù tratti dalle epopee, o avvenimenti storici. La loro realizzazione, ben lungi dall’essere compiuta sotto il regno del fondatore, si sarebbe protratta per parecchi secoli. Oggetto di manutenzione costante, talora con i mezzi limitatissimi delle fasi più buie della storia recente del paese, oggi attrazione turistica numero uno del sito, Angkor Wat ha perso l’originaria identità vispuita per diventare un luogo santo del buddhismo cambogiano.
L’ultimo grande sovrano di Angkor, Jayavarman VII La fine del regno di Suryavarman resta oscura. Le fonti vietnamite accennano a una disastrosa spedizione khmer nel Tonchino verso il 1150. Sarebbe stata condotta dallo stesso Suryavarman, il quale vi avrebbe trovato la morte? Occorre prudenza. In effet-ti oggi si conoscono diverse campagne militari del sovrano attraverso fonti non khmer, le quali si compiacciono nel presentarle come dei fallimenti. Gli succede un certo Yavovarman II. Il suo regno, durato una quindicina d’anni, conosce una fine brutale: mentre rientra da una spedizione a Lopburi, è assassinato a tradimento da uno dei servitori – almeno a quanto dicono le iscrizioni – il quale s’instal-la sul trono, prendendo il nome evocatore di Tribhuvanaditya, “il sole dei tre mondi”.
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Pagine precedenti: 103. Angkor. Angkor Wat, prima metà del XII secolo. Circondato da un impressionante fossato, il tempio di Angkor Wat rappresenta l’esito perfetto del tempiomontagna. Tempio di stato consacrato al dio Vispu, eccezionalmente orientato verso ovest, è celebre tanto per la perfezione della concezione e l’equilibrio armonioso delle forme, che per la qualità delle decorazioni architettoniche.
Un principe di sangue reale avrebbe allora progettato d’intervenire. Avendo fallito, preferì mantenere un basso profilo in attesa di tempi più favorevoli. L’usurpatore resta dunque al potere fino al 1177. Anno fatidico! I Cham attaccarono nuovamente il paese, risalendo il Tonlé su una flotta possente e Angkor viene saccheggiata. Tribhuvanaditya perisce nel corso di questi sanguinosi eventi. Ricompare allora sulla scena colui che sarebbe passato alla storia con il nome di Jayavarman VII. Nulla permette di affermare, come si è creduto a lungo, che il futuro sovrano abbia “cacciato via” i Cham dall’impero. Infatti non era nelle abitudini di costoro occupare il territorio attaccato e annetterlo; essi cercavano piuttosto di accumulare un bottino e poi si ritiravano. Peraltro la situazione in Cambogia alla fine del XII secolo è infinitamente complessa. Nel 1177 Jayavarman è un uomo maturo, con almeno un figlio adulto. Ha già avuto occasione di guidare degli eserciti e molto verosimilmente intrattiene contatti cordiali con i Cham. È quindi possibile che l’incursione cham sia stata piuttosto pilotata dal futuro sovrano per sbarazzarsi dell’usurpatore. Comunque sia, bastano pochi anni per stabilire e assicurare il potere attraverso un sottile gioco di alleanze e Jayavarman viene consacrato nel 1181. L’impero khmer raggiunge la massima estensione: vestigia khmer databili a quest’epoca sono state ritrovate alle porte della Birmania. Jayavarman VII recupera una vecchia tradizione politica che consisteva nell’allevare a corte principi o figli di dignitari stranieri, assicurandosi così degli ostaggi o degli agenti destinati a restargli fedeli in seguito e a diventare gli strumenti dell’irraggiamento della cultura khmer. Grazie alle numerose iscrizioni del regno, disponiamo di un vero e proprio ritratto morale del sovrano, che appare ambizioso, paziente, abile diplomatico, uomo assai istruito e soldato energico. Un elogio molto classico, dunque, che conviene leggere con discernimento. Gli orientamenti religiosi di Jayavarman VII sono complessi. Non rinuncia in alcun caso ai riti brahmanici d’investitura regale, ma le scelte personali lo portano verso il buddhismo mahayana, di una forma ancora soggetta a congetture, forse tinta di elementi tantrici, e a lasciare grande spazio ad altri culti. In accordo con le sue scelte religiose, nelle iscrizioni il sovrano insiste sulla propria estrema carità: oltre alle molteplici fondazioni di edifici religiosi, sotto la sua autorità vengono creati più di cento ospedali, nonché foresterie per i viaggiatori e i pellegrini. Ma una volta ancora è importante relativizzare: le opere pie e caritatevoli sono solo uno degli aspetti del buon adempimento del dovere regale, così com’è descritto nei trat-tati indiani di politica. Albert Le Bonheur (cfr. Bibliografia p. 244) non manca di tracciare un parallelo sorprendente e rivelatore tra la frase più celebre dell’editto detto “degli ospedali”: “Egli soffriva delle malattie dei suoi sudditi più che delle proprie, perché è il dolore dei popoli a provocare il dolore del re e non il proprio” e questo passo delle Leggi di Manu, trattato fondamentale della tradizione indiana: “Come il decadimento del corpo distrugge la vita degli esseri animati, così la vita dei re viene distrutta dal decadimento del loro regno”.
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104. Angkor. Banteay Samre, XII-XIII secolo. Ubicato leggermente a est del baray orientale, il tempio di Banteay Samre è oggi un poco isolato. A pianta centrale, comprende una sola torre santuario che ha la tipica forma dello stile di Angkor Wat. Manca un’iscrizione che faccia riferimento alla sua fondazione, ma è verosimile che il committente fosse un alto dignitario del regno di Suryavarman II. L’iconografia vispuita domina la decorazione, come in questo frontone che raffigura il dio Vispu sdraiato sul serpente dell’eternità.
105. Angkor. Banteay Samre. I decoratori del tempio hanno attinto spesso e volentieri alla fonte dei testi vispuiti: sugli architravi e sui timpani delle diverse parti dell’edificio abbondano le scene di battaglie, tratte dal Ramayapa o dal Mahabharata.
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Angkor, Ta Som “Tempio di dimensioni ridotte e di concezione architettonica semplice, Ta Som fu fondato dal re Jayavarman VII e ampliato da uno dei suoi successori. Come in altre fondazioni della medesima epoca, i gopura sono coronati dalle sorprendenti torri-viso, il cui significato rimane incerto” (cfr. didascalia qui accanto). Se non è possibile dire altro che questo, e cioè che “il significato di questa torre-viso rimane incerto”, si possono almeno cercare le ragioni di tali incertezze, e togliere di mezzo certi scrupoli a parlare in modo diverso. Ricordiamo innanzitutto il caso di un’altra immagine, quella del “Buddha in piedi, detto Ananda” (cfr. p. 64): per molti anni, quasi un secolo a quanto sappiamo – almeno secondo le guide inglesi che abbiamo consultato –, nessuno ha mai dubitato che si trattasse di Ananda, l’amato (e soprattutto erudito) discepolo del Buddha. Oggi, per le guide come per gli studiosi, non v’è dubbio che si tratti del Buddha stesso. Perché questi cambiamenti d’interpretazione? Perché ogni immagine, essendo il luogo dell’interazione di molteplici fattori di ordine culturale, si trova esposta a interpretazioni differenti, talvolta opposte. Non ci rimarrebbe allora che riprendere tutte queste interpretazioni e criticarle una a una. Ma ancora non basterebbe. Noi preferiamo tentare un altro metodo, che consiste nel partire non dalle immagini, ma dai testi, che sono e resteranno sempre le norme da seguire nella raffigurazione degli esseri viventi; nell’induismo come nel buddhismo, i testi precisano i luoghi dove si trovano gli esseri che dobbiamo rappresentare e quindi la parte di verità e di errore delle nostre rappresentazioni. Ricordiamo che “l’impero Khmer, le regioni centrali e orientali di Giava, e infine Bali, sono fondamentalmente induiste... ma in nessun luogo l’India ha imposto il suo sistema di caste, se non per le famiglie reali e i preti” e che fino ai giorni nostri “la Birmania, il Siam, il Laos e la Cambogia (almeno dal XIV secolo) rimangono paesi buddhisti. In tutti questi paesi, la cosmogonia... il rituale di corte, l’arte sono di origine indiana” (Bernard Groslier, L’Asie du Sud-Est, in Encyclopaedia Universalis, supplemento I, LE SAVOIR, 1984, p. 147, 148). Dopo la presa di Angkor da parte dei Cham nel 1177, e la riconquista quasi immediata del paese da parte dell’energico Jayavarman VII, l’induismo fu abbandonato come religione ufficiale; il buddhismo, nelle sue forme più complesse, ricevette allora i favori del re (Gilles Béguin, L’Art du Sud-Est asiatique, Flammarion, Paris 1986). Per l’interpretazione dell’opera architettonica e figurativa di Jayavarman VII, e in particolare quella dei visi monumentali che ornano le porte, in assoluta conformità con l’induismo e il buddhismo, possiamo dire questo: ci è impossibile affermare che questi visi, se rappresentano il Buddha o Jayavarman VII, sono quelli di un dio. Non bisogna mai usare espressioni come “Buddha-dio” “dio-Buddha”, come fa Henri Stierlin, in Angkor, Architecture Universelle, Office du Livre, Fribourg 1970, p. 178, 182, 183, o come Jeannine Auboyer, che parla di “dio-re” e “buddha-re” (articolo “Stupa”, Encyclopaedia Universalis, tomo 15, p. 461). Tutte queste espressioni mal si accordano con l’induismo e il buddhismo. Per contro, è ben possibile parlare di bodhisattva, e persino ammettere che Jayavarman VII, nell’uno o nell’altro di questi visi, si sia identificato con un bodhisattva. È quanto sostiene Madeleine Hallade in Arts de l’Asie Ancienne: thèmes et motifs, 1. L’Inde, PUF, Paris 1954, p. 43. In effetti, gli antichi testi cosmologici buddhisti, cui abbiamo accennato nella Prima Parte (cfr. p. 14), collocano sempre i bodhisattva e i re cakravartin, o sovrani universali, che hanno conquistato i loro imperi pacificamente, nella Terra degli uomini e non nel mondo degli dei. Lo stesso avviene nell’induismo, dove i re sono sulla terra, e gli dei nel mondo degli dei, il Cielo. Per essere più precisi, ecco un passo dal libro I Tre Mondi (trad. p. 232): “Tutti i bodhisattva sono uomini... (quando in un paese occorre nominare un re, perché ci sono troppe dispute fra gli uomini) questi vanno a rendere omaggio al bodhisattva (che abita presso di loro) e gli chiedono di essere loro Signore e Maestro Supremo. Lo consacrano re perché giudicano che possieda una forma splendida, più bella di quella di tutti gli uomini, che il suo sapere superi quello di tutti gli uomini, che il suo cuore sia migliore, più giusto, più retto e più virtuoso di quello di tutti gli uomini. Avendo così giudicato, lo nominano loro capo”. Non è vietato pensare che Jayavarman VII abbia considerato di meritare il titolo di bodhisattva, anche se riteniamo che, così facendo, si sia mostrato presuntuoso. Perché, attribuendosi tale titolo, si dava anche un modello... Resta da sapere se abbia veramente voluto farsi rappresentare come bodhisattva... In ogni caso, formulare questa ipotesi non è fargli torto.
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106. Angkor. Ta Som, fine del XII-inizio del XIII secolo. Tempio di dimensioni ridotte e di concezione architettonica semplice, Ta Som fu fondato dal re Jayavarman VII e ampliato da uno dei suoi successori. Come in altre fondazioni della medesima epoca, i gopura sono coronati dalle sorprendenti torri-viso, il cui significato rimane incerto.
107. Angkor. Angkor Thom. Porta della Vittoria, fine del XII secolo-inizio del XIII. A pianta complessivamente quadrata, la città di Angkor Thom – nome che risale almeno al XVI secolo – è cinta da una muraglia sulla quale si aprono quattro porte monumentali, una per ogni punto cardinale. Una quinta porta, detta Porta della Vittoria, si apre sul muro orientale, circa 500 metri a nord della porta principale, e conduce in linea retta al palazzo reale. Ognuna di queste porte, alte più di 20 metri, si presenta come una tripla torre; sulle quattro facce di ogni torre è scolpito un viso d’incerta identificazione.
108. Angkor. Angkor Thom. Il Bayon, fine del XII-inizio del XIII secolo. Situato al centro della città di Angkor Thom, il Bayon, tempio di stato del re Jayavarman VII e forse anche dei suoi immediati successori, è molto complesso, tanto nella struttura architettonica che nell’orientamento religioso. L’iconografia, in cui prevale il buddhismo del Grande Veicolo, lascia grande spazio anche alle divinità indù e locali. Le enigmatiche torri a forma di viso – di cui ancor oggi si ignora l’esatto significato, anche se si sono formulate diverse ipotesi – si ergono a strapiombo su un labirinto di gallerie, di terrazze, di padiglioni e di portici.
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109. Angkor. Thommanon. Edificato all’inizio del XII secolo e minuziosamente restaurato dalla Scuola Francese dell’Estremo Oriente agli inizi degli anni Sessanta, Thommanon si ricollega allo stile di Angkor Wat, come mostra chiaramente la forma ogivale della sua torre santuario. Architravi e frontoni purtroppo sono in pessimo stato, ma alcune iconografie restano identificabili – come questo demone Ravapa nell’atto di scuotere il monte Kailash, la dimora mitica di Viva, sul frontone sud del mapdapa (il padiglione che precede il tempio).
110. Angkor. Thommanon. Conforme allo schema classico dei templi a un solo santuario di quest’epoca, Thommanon comprende, dentro un recinto rettangolare di taglia media con due gopura, un santuario, preceduto da un mapdapa e da un portico, e una sola “biblioteca”, della quale, qui come altrove, si ignora la funzione.
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112. Angkor. Ta Prohm, fine del XII-inizio del XIII secolo. Monastero e anche tempio, Ta Prohm fu fondato da Jayavarman VII, un sovrano i cui orientamenti religiosi propendevano verso il buddhismo. L’iconografia dei rilievi che ornano gli architravi e i frontoni trae abbondantemente spunto dai racconti della vita del Buddha storico Vakyamuni. L’edificio è consacrato a Prajñaparamita, entità femminile del pantheon del buddhismo mahayana, e fu eretto in memoria della madre del sovrano e di due suoi maestri religiosi.
IL BAYON E L’ARTE SOTTO JAYAVARMAN VII Posto al centro geometrico di Angkor Thom, la capitale di Jayavarman VII, il Bayon continua ad essere un enigma per gli storici dell’arte. La città stessa è un vasto quadrato di 3 chilometri per lato, protetta da una solida cinta in laterite e circondata da un fossato. Quattro assi stradali organizzano lo spazio; una quinta strada conduceva al palazzo reale, costruito in materiali deperibili e di cui rimane poco. Situato nel cuore della città, il tempio non aveva quindi bisogno di difese proprie. La sua pianta complessa, un fitto groviglio di gallerie e corti, ha dato ad alcuni la sensazione che si tratti ben più del prodotto di speculazioni mistiche e politiche che non di un’opera di pura architettura. Tempio incontestabilmente buddhista, il Bayon è al contempo una sorta di pantheon del regno, in cui non mancano nemmeno gli dei dell’induismo e le divinità protettrici dei grandi clan aristocratici. Era dunque un vero e proprio tempio di stato. Preoccupato di accumulare numerosi meriti, assicurandosi così, secondo l’ottica buddhista, la felicità nelle esistenze successive, il sovrano moltiplica le fondazioni religiose, alcune edificate a beneficio di questo o quel parente defunto. Ne fa parte il Ta Prohm, che per scelta deliberata si è deciso di lasciare nello scrigno vegetale in cui la natura l’ha avvolto nel corso dei secoli. Sotto il regno di Jayavarman VII, anche il rilievo e la statuaria hanno un sapore particolare, tinto di una certa forma di realismo, spesso commovente, e talvolta ci rivelano il viso del sovrano e di alcuni suoi congiunti, pur non trattandosi di ritratti nel senso occidentale del termine. IL CREPUSCOL O DI ANGKOR La morte di Jayavarman VII, in una data collocabile tra il 1206 e il 1218, segna la fine della grandezza khmer. Oppure, al rovescio della medaglia, si può ragionevolmente pensare che le campagne del sovrano e i suoi ambiziosi progetti architettonici abbiano sfinito l’impero. Il suo secondo successore, il cui lungo regno occupa la seconda metà del XIII secolo, contribuisce, attraverso le attenzioni di cui colma il clero vivaita, a incoraggiare quella che è stata chiamata “la reazione vivaita”: gli edifici e le immagini d’ispirazione buddhista commissionati da Jayavarman VII vengono trasformati per essere resi ai culti brahmanici, o addirittura violentemente devastati. L’impero si disgrega poco a poco e grandi lembi di territorio si staccano dalla sfera d’influenza khmer. Le informazioni si fanno più rare riguardo i sovrani seguenti, talvolta in rapida successione. A ovest i Thai si sono installati nel territorio che oggi porta il loro nome e la superiorità politica scivola lentamente nelle loro mani. Sono loro adesso a esercitare la tutela sulla Cambogia, e non viceversa. La storia del periodo post-angkoriano non è meno complessa di quella delle epoche precedenti. Il paese è spesso lacerato da interessi diversi e contrastanti. Nella metà del XV secolo, dopo una serie di attacchi thai ad Angkor, il sovrano khmer di turno fa un passo decisivo spostando la capitale verso sud. In un primo momento la scelta cade sul sito dell’attuale Phnom Penh. Poi tocca a Lovek e Udong,
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Pagine precedenti: 111. Angkor. Angkor Thom. Terrazza degli Elefanti, Garud a atlanti, XII-XIII secolo. La città di Angkor Thom fu eretta alla fine del XII secolo dal re Jayavarman VII. Nel centro della città c’è il complesso dell’antico palazzo reale, i cui edifici non religiosi, costruiti in materiali deperibili, non sono sopravvissuti. Le terrazze reali formavano il basamento dei padiglioni d’ingresso. Lunga quasi 300 metri, la Terrazza degli Elefanti fu ingrandita a più riprese tra il XII e il XVI secolo. Deve il suo nome alle immagini di elefanti – si tratti dell’animale comune o di Airavata, l’elefante tricefalo della mitologia indù – ripetute sulle parti laterali delle scale d’accesso e sulle pareti, nelle scene di caccia o di combattimenti. Anche altre figure di animali, veri o mitici, contribuiscono a ornare la terrazza. Essere divino di aspetto ibrido, mezzo-uomo e mezzo-uccello, Garud a è la cavalcatura abituale del dio Vispu. Figura spesso come motivo decorativo nell’architettura del mondo indianizzato.
Pagine seguenti: 113. Angkor. Ta Prohm. Il groviglio vegetale che imprigiona le rovine di Ta Prohm è stato conservato di proposito: ne emana uno speciale fascino romantico che nessun altro monumento del sito esercita in pari misura. Due specie d’alberi vi prosperano: il Ficus gibbosa di taglia media e la Ceiba pentandra, le cui spettacolari radici attanagliano muraglie e padiglioni in una morsa surreale. Ma non bisogna lasciarsi ingannare. Questa “negligenza naturale” viene tenuta sotto controllo perché, se gli alberi aiutano a conservare con poca spesa una certa stabilità delle strutture architettoniche, un loro crollo accidentale o la loro morte potrebbero causare vere e proprie catastrofi.
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114. 115. Angkor. Banteay Kdei, fine del XII-inizio del XIII secolo. Il tema della divinità femminile è ricorrente nelle decorazioni architettoniche khmer, spesso e volentieri usato per ornare le nicchie che scandiscono le pareti degli edifici. I gioielli, le vesti e i tratti del viso permettono di precisarne la datazione. Queste due devata (divinità ) si trovano a Banteay Kdei. Abbastanza vicino nella concezione ai templi coevi di Ta Prohm o di Preah Khan, Banteay Kdei fu fondato dal re buddhista Jayavarman VII.
A fianco e pagine seguenti: 116–121. Phnom Penh. Pagoda d’Argento. Pitture murali, 1903-1904. Edificata tra il 1892 e il 1902 nella cinta del palazzo reale, la Pagoda d’Argento vi occupa, fatte le debite proporzioni, la posizione di cappella reale. Il peristilio fu ornato, nel 19031904, con pitture murali ispirate alla versione khmer del Ramayapa. Testo prevalentemente vispuita, il Ramayapa è una delle due maggiori epopee dell’induismo. L’eroe Rama, che raffigura l’ideale del principe perfetto, è anche una manifestazione del dio Vispu, l’aspetto protettore del divino. Esiliato dal regno di Ayodhya per quattordici anni, in seguito alle subdole macchinazioni di una delle mogli di suo padre, si ritira in una lontana foresta in compagnia della sposa Sita e del fratellastro Laksmap a, che si sono rifiutati di abbandonarlo al suo destino. In seguito al rapimento di Sita per mano di Ravap a, il re-demone dell’Isola di Lan ka, Rama e il fratellastro si alleano con il re delle scimmie, aiutandolo a riprendersi il trono. Poi, con l’appoggio dell’esercito delle scimmie, mirabilmente condotto da Hanumat, la scimmia bianca, Rama libera la sposa e distrugge Ravap a. Dopo aver messo un nuovo re sul trono di Lan ka, Rama e i suoi compagni tornano trionfanti ad Ayodhya, essendo nel frattempo scaduto il tempo dell’esilio. Il testo della versione khmer, oltre alle modifiche dei nomi propri, contiene differenze non trascurabili rispetto alla versione indiana, e certi passi sono profondamente intrisi di pensiero
finché, nel 1866, tre anni dopo la firma di un trattato di protettorato con la Francia, Phnom Penh ritorna capitale in maniera definitiva. Nel recinto del palazzo reale, edificato con l’aiuto di architetti francesi, sorge la Pagoda d’Argento che venne lentamente alla luce tra il 1892 e il 1902, sotto il regno del re Norodom, e che custodisce le ceneri dei sovrani defunti. L’elemento forse più significativo delle sue decorazioni sono le pitture murali che ornano il peristilio. Realizzate nel 1903 e nel 1904, riproducono gli episodi della versione khmer del Ramayap a, una delle due maggiori epopee della letteratura religiosa indù: in un contesto buddhista, questo fatto a prima vista è sorprendente; in realtà è ben comprensibile, tanto l’eredità dell’India, al di là di ogni considerazione settaria, è rimasta parte integrante della cultura khmer, adattandovisi. L’arte post-angkoriana, dominata dall’iconografia del buddhismo theravada (la forma di buddhismo che si presenta come quella più vicina all’insegnamento originale del Buddha) ormai impostosi, incontestabilmente segnata dall’influenza dell’arte thai, non ha mai suscitato negli storici dell’arte lo stesso interesse della prestigiosa produzione del periodo angkoriano. Eppure le pitture della Pagoda d’Argento, sfortunatamente molto danneggiate dall’umidità, o il celebre orante in legno del museo nazionale, per citare solo due esempi maggiori, testimoniano la qualità delle opere che furono realizzate in quest’epoca.
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116. Galleria est, parte nord: Iyuko e Iyuka invitano Bhirut, Sudrut e i loro due figli a fare ritorno a Iyudhar.
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117. Galleria est, parte sud: Dadharatth invia Brat e Satrut a regnare su Kaiket (particolare, parte sinistra della pittura).
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118. Galleria est, parte sud: Dadharatth invia Brat e Satrut a regnare su Kaiket (particolare, parte destra della pittura).
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119. Galleria nord, parte est: Brah Ram e Sri Laks riaccompagnano Bibhek a Lan ka. Hanumat regnerĂ su Lan ka in compagnia di Nan Punnakay e di Nan Macchanabu.
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120. Galleria nord, parte est: Nan Ayulayaks si tramuta in una serva (particolare).
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LAOS
La situazione geografica del Laos spiega in buona parte le peculiarità della sua storia. Unico stato della penisola indocinese a non disporre di un accesso diretto al mare, per stabilire contatti col mondo esterno dovette dipendere costantemente dalla benevo-lenza dei vicini, che spesso cercarono di imporgli la loro supremazia. Il rilievo mon-tuoso ha peraltro condizionato, in un periodo storico, la divisione politica del paese in quattro regni. I Laotiani sono un ramo del popolo thai. Mentre quest’ultimo discendeva lentamen-te lungo il corso del Menam Chao Phraya, essi si stabilivano nella valle del Mekong, che, con i suoi 1.800 chilometri e oltre, forma la grande arteria fluviale del territorio lao e segna il confine con la Thailandia. Ma, secondo la leggenda, il popolo lao sarebbe nato da zucche giganti, dopo il Diluvio. Il primo sovrano mitico, Khun Borom, sarebbe stato inviato sulla terra da suo padre, il Signore del Cielo, con un seguito importante, nel quale si trovavano Pu Yoe e Nya Yoe. Questi ultimi, coppia di età veneranda, sarebbero morti coraggiosamente nel tagliare la gigantesca liana che, unendo il cielo e la terra, privava il paese del calore e della luce. Da allora furono considerati gli antenati benefattori del Laos e onorati di conseguenza.
Prima della formazione del regno
121. Galleria nord, parte est: Bhirut affronta Cakkhavit (particolare).
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Le ricerche condotte nel Laos durante il periodo coloniale lasciano intuire una preistoria ricchissima. Le scoperte rimasero tuttavia circoscritte, nonostante la loro importan-za; le incertezze dei conflitti successivi resero impossibile l’esplorazione archeologica in questa parte del mondo, tutt’oggi insufficientemente esplorata. I primi secoli dell’era cristiana furono testimoni della formazione dei primi stati indianizzati nel Sud-Est asiatico. Sfortunatamente, le fonti scritte riguardanti il Laos di questo periodo sono assai sobrie. Per parte sua, l’archeologia ha fornito qualche opera d’ispirazione buddhista che tradisce alcune affinità con l’arte mon di Dvaravati. Il sud del Laos faceva allora parte del Zhen La, uno stato che verso il VII secolo avrebbe acquisito un certo ascendente sul Funan, del quale era stato a lungo vassallo. LAOS 199
In quell’epoca il sito di Vat Phu, nel meridione del paese, fu, pare, un luogo sacro di somma importanza. In seguito, il sud del Laos, fino alla regione di Vientiane, rimase parte integrante dell’impero khmer, fino al declino della monarchia di Angkor, nella metà del XIII secolo. Un dominio così prolungato non poteva non avere conseguenze culturali e artistiche. Oltre a Vat Phu, fondata molto presto e più volte trasformata nel corso della storia, molti altri templi khmer meno conosciuti furono edificati sul territorio del Laos tra il VII e il XIII secolo e questa provincia dell’antico impero di Angkor creò esempi bellissimi di statuaria khmer. Così, un ritratto che si presume del re khmer Jayavarman VII – più tardi rimaneggiato per farne un’immagine del Buddha – si trova nel That Luang di Vientiane.
Il regno del Lan Xang Principati lao esistevano senza dubbio ben prima della fondazione del regno del Lan Xang, nel 1353. Due diverse tradizioni riportano l’esilio di Fa Ngum, principe lao rifugiatosi alla corte reale di Angkor, la quale lo appoggiò per riconquistare il Laos, da lui in seguito unificato e reso indipendente. Secondo la prima, avrebbe seguito il padre, a sua volta bandito per avere sedotto una concubina del proprio padre. La seconda versione narra che Fa Ngum era nato con trentatré denti: nel timore che il bimbo fosse uno yaksa, un essere semi-demoniaco, e non un essere umano normale, i genitori lo avevano abban-donato su una zattera lungo il corso di un fiume. La corrente lo aveva trascinato verso la Cambogia, dove fu raccolto dal suo futuro maestro spirituale, e dove fu poi allevato a corte, prima di diventare il genero del re. Qualunque sia la tradizione a cui si dà credito, tra il 1340 e il 1350, Fa Ngum, con l’appoggio delle truppe khmer, intraprese la riconquista del regno di cui si riteneva l’erede e nel 1353 fu consacrato. Per la prima volta, le tribù lao si trovavano sottomesse all’autorità di un solo monarca, in un regno unificato, il Lan Xang. Conquistata l’indipendenza, il Lan Xang mantenne tuttavia strette relazioni con l’impero khmer. Così, un gruppo composto di monaci buddhisti e di artisti venuti dalla Cambogia portò a Luang Prabang, allora capitale con il nome di Xien DongXieng Thong, una statua del Buddha che sarebbe presto diventata il palladio del regno, il Phra Bang. Il viaggio di quest’opera emblematica è narrato nella decorazione scolpita di un battente del Vat Chan di Vientiane. Alcune fonti lasciano intendere che questa missione, alla quale partecipava il religioso cambogiano che era stato maestro spirituale di Fa Ngum durante l’esilio, fosse in verità stata finanziata dal sovrano khmer, preoccupato delle tendenze tiranniche del suo omologo lao, troppo inebriato dai successi militari. Fa Ngum infatti avrebbe avuto un temperamento impetuoso che solo la moglie riusciva a domare. Alla morte di lei, il sovrano si sarebbe abbandonato a deplorevoli eccessi. Fu allora rapidamente deposto dai suoi alti dignitari e morì un anno più tardi, nel 1373. Gli succedette il figlio, Son Sen Thai, il vero organizzatore del regno. Tra gli altri abbellimenti della
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capitale, fece erigere nel recinto del Vat Manorum una colossale effige del Buddha, di cui oggi non rimangono che la testa e il busto. Nel XV secolo il regno del Lan Xang conobbe momenti difficili, sottomesso prima al potere sanguinario di una regina tirannica, poi, nella seconda metà del secolo, a una violenta invasione vietnamita che distrusse la capitale. Il secolo seguente sembrò aprirsi sotto migliori auspici: un temporale torrenziale, considerato di ottimo augurio, scoppiò durante l’incoronazione del nuovo sovrano, che prese perciò il nome di Vixun, “il lampo”. In quel periodo le relazioni tra il Lan Xang, i regni del nord della Thailandia e la Birmania erano complesse, spesso conflittuali. In seguito a matrimoni tra affini con la corte di Chiang Mai, il nipote di Vixun divenne re del Lanna, che controllava la Thailandia settentrionale. Ma nel 1548, alla morte prematura del padre, ritornò rapidamente per far valere i suoi diritti sul trono del Laos. Consacrato con il nome di Setthatirath, sarebbe stato uno dei grandi monarchi del Lan Xang. Riuscì a preservare il regno da tentativi di invasioni birmane, concluse un’alleanza con il regno thai di Ayutthaya e, seguendo l’esempio del padre, scelse anch’egli Vientiane come capitale. Qui fece edificare il suo palazzo, nonché un vasto complesso religioso, il Vat Ho Phra Keo, che doveva ospitare le due effigi più sacre del regno: il Phra Bang, trasferito da Luang Prabang, e il Phra Keo. Quest’ultimo non è altro che il famoso Buddha di Smeraldo, di cui più tardi si sarebbero impossessati i Thai per portarlo a Bangkok. Setthatirath fu anche il fondatore del That Luang, vasto stu pa costruito nelle vicinanze di Vientiane. Nel 1571 il Laos, indebolito per la difficile successione di Setthatirath, cadde, per due decenni, sotto la tutela birmana e le difficoltà continuarono nei primi anni del XVII secolo. La pace tornò con l’arrivo al potere di Suryavongsa nel 1637. Sposato con una principessa vietnamita, questi intrattenne relazioni cordiali con il suo vicino orientale e i due sovrani lao e vietnamita seppero intendersi per fissare, su basi etnologiche, la fron-tiera tra i loro stati. Il Lan Xang conobbe allora un periodo di grande prosperità, a giudicare dai racconti dei viaggiatori e dei missionari che visitarono il paese. Purtroppo, le liti che segnarono la successione del re Suryavongsa avrebbero messo fine a questo periodo felice. A Vientiane, un principe si faceva riconoscere dal Vietnam, un altro si autoproclamava re a Luang Prabang, mentre nel sud il paese di Champassak si dichiarava indipendente e altri principati esitavano nei loro obblighi di vassallaggio. L’era del Lan Xang unificato si era definitivamente conclusa.
La formazione di un’arte propriamente lao Le città fondate nell’età d’oro del Lan Xang da allora hanno subito trasformazioni sostanziali che impediscono di immaginarne l’aspetto originale; i monumenti risalenti a quell’epoca sono rarissimi. In compenso la statuaria è più abbondante e in qualche
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modo colma il vuoto prodotto in campo architettonico dalle numerose e ripetute distruzioni. Innegabilmente segnata, come l’architettura, dall’influenza thai, la statuaria mostra nondimeno una certa originalità, che si traduce, tra l’altro, in una stilizzazione che la differenzia dal suo modello. L’ispirazione religiosa dell’arte lao è largamente dominata dall’orientamento buddhista del paese. Tuttavia non si può trascurare il ruolo esercitato dalle credenze locali, soprattutto il culto dei geni tutelari della terra, e non c’è città o villaggio che non dedichi loro un tempio o per lo meno un altare. Così, il Vat Si Muang di Vientiane è la sede del genio protettore della città. Luang Prabang, la capitale del re Fa Ngum, fu stabilita alla confluenza del Mekong con uno dei suoi affluenti. Fino alla metà del XVI secolo, la città ebbe un doppio nome, Xien Dong-Xien Thong, probabile ricordo dei due villaggi che ne costituivano il nucleo originario. La missione khmer, composta di religiosi e artisti arrivati durante il regno di Fa Ngum, si insediò nel sud della città, dove fu innalzato un monastero. In questa zona si sono trovate opere manifestamente khmer. Una delle fondazoni più importanti realizzate nel XVI secolo fu il Vat Vixun – dal nome del sovrano fondatore – che ospitava il Phra Bang, l’effige del Buddha divenuta il palladio del regno. Il monastero di Vat Xieng Thong, fondato dal re Setthatirath nel 1561, è strettamen-te legato alle origini leggendarie della città, la cui ubicazione sarebbe stata scelta da due eremiti. Costoro, giunti alla confluenza del Mekong col Nam Khan, avrebbero visto, sul promontorio dove più tardi sarebbe sorta la città, un albero maithong dai risplen-denti fiori rossi. Proprio in quel punto si erge il monastero, il cui aspetto originario è andato perduto nel corso di successivi rimaneggiamenti. Le costruzioni proseguirono a ritmo sostenuto anche dopo che Luang Prabang ebbe ceduto la sua posizione di capitale a Vientiane. I danni provocati da un’epidemia di colera, poi dalle guerre, che causarono la divisione del Lan Xang in quattro regni, avrebbero inferto, nel XVII secolo, un duro colpo alla città, che si ristabilì del tutto solo nel secolo successivo, diventando il centro di un regno indipendente. Vicinissima alla frontiera con la Thailandia, Vientiane occupa un’ansa formata dal Mekong, in una regione che un tempo faceva parte dell’impero khmer. È probabile che, come Luang Prabang, sia nata dalla fusione di due città o villaggi preesistenti. Ancor prima di diventare capitale sotto il sovrano Setthatirath, la città ospitava un numero non trascurabile di monasteri. Ma si sospetta che l’insediamento del re e della sua corte abbia accelerato il ritmo delle costruzioni civili e religiose. Tra queste ultime, la più importante è il That Luang, creato nel 1566, unico monumento antico ad aver conservato, nonostante le molte trasformazioni, la struttura architettonica originaria. Non lontano dal palazzo reale fu anche edificato il Vat Ho Phra Keo, destinato ad accogliere due immagini emblematiche, il Buddha di Smeraldo e il Phra Bang che proveniva da Luang Prabang. Anche la crescita di Vientiane conobbe una battuta d’arresto durante la guerra civile che segnò la fine del regno di Suryavongsa. Le zone d’interesse archeologico e artistico non si limitano, e da lungo tempo, alle due capitali storiche. Ma per altri luoghi, alcuni dei quali sono stati oggetto di ricerche
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122. Vientiane. Il Vat Si Muang, che ospita un pilastro in laterite la cui forma evoca chiaramente quella delle pietre di confine khmer, è oggi uno dei templi più venerati di Vientiane. È ubicato dove anticamente si trovava una delle porte della città. Figure di guardiani dalla fisionomia feroce, diffusissime nel Laos e in altri paesi del Sud-Est asiatico indianizzato, sono collocate nei punti strategici del complesso.
123. Luang Prabang. Vat Xieng Thong, la “cappella rossa”. Il monastero di Vat Xieng Thong, fondato nel 1561 dal re Setthatirath, è strettamente legato alle origini leggendarie della città. Come in quasi tutti i complessi religiosi del Laos, la sistemazione originale dell’insieme è andata perduta nel corso di molteplici ricostruzioni. La “cappella rossa”, santuario di piccole dimensioni, accoglie un Buddha sdraiato, tema iconografico insolito nel Laos. Un restauro del 1960 ha dotato l’edificio dell’attuale decorazione: sulla facciata, bassorilievi evocanti episodi della vita del Buddha, modellati in cemento e laccati in rosso e oro. Le altre tre pareti sono rivestite di mosaici.
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124. Luang Prabang. Vat Xieng Thong, lato posteriore del santuario principale. Al centro del pannello che lo adorna si staglia, sul fondo rosso, un albero con fiori bianchi, affiancato da due pavoni, mentre al suolo si allineano diversi animali e un personaggio. Verosimilmente legato al tema dell’albero che esaudisce tutti i desideri, molto frequente nel mondo indiano, nel contesto laotiano il motivo d’insieme potrebbe anche evocare un sogno premonitore fatto dalla madre del re Vixun.
125. Luang Prabang. Vat Xieng Thong, la “cappella rossa”. Interamente restaurata nel 1960, presenta oggi una variopinta decorazione a mosaico su tre lati.
126. Luang Prabang. Vat Xieng Thong, santuario principale, decorazione del tetto. Sulle tegole di colmo si innalza una decorazione complessa, composta da 17 cuspidi dorate. Quella centrale rappresenta il monte Meru, asse dell’universo nella cosmografia indiana; le 8 cuspidi a destra e a sinistra evocano le sette montagne circolari che circondano il Meru e l’alta catena montuosa che delimita il mondo.
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127. 128. Luang Prabang. Vat Xieng Thong, santuario principale, decorazione interna. La pittura a stampo di foglia d’oro su fondo laccato nero o rosso è una tecnica d’origine thai, introdotta nel Laos in data antica. I soggetti sono presi essenzialmente dai racconti delle vite anteriori del Buddha.
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129. Vientiane. Pha That Luang. Nel Laos il termine that definisce un edificio, come lo stupa o la torre-reliquiario, costruito su una reliquia o un frammento di testo religioso. Il that abitualmente è situato nella parte occidentale della corte di un monastero, dietro il santuario principale. Il That Luang di Vientiane, restaurato nel 1934, fu costruito durante il regno di Setthatirath, nella seconda metà del XVI secolo, sui resti di un monumento più antico. Il grande that dorato al centro poggia su una fila di petali di loto ed è circondato da una serie di trenta that in miniatura, anch’essi dorati.
più o meno approfondite, soprattutto nel periodo coloniale – ad esempio i siti rupestri di Tham Van Sang e le città antiche di Say Fong o di Xieng Khuang – bisogna ammettere che le informazioni a nostra disposizione anteriori al XVII secolo sono poche.
Il Laos dei quattro regni La divisione del paese in quattro regni, determinata in parte da fattori geografici – quali i massicci montuosi che separano le pianure risicole –, ebbe conseguenze disastrose anche a livello politico. Indebolito dalle costanti rivalità tra queste quattro entità oramai autonome, il Laos si trovava di fatto esposto all’avidità dei vicini più potenti, i Birmani, i Thai, i Vietnamiti, e subiva anche il contraccolpo dei conflitti che si scatenavano tra loro. Alleanze si crearono e si disfecero a ritmo sostenuto per tutto il XVIII secolo. Così, un pretendente al trono di Luang Prabang beneficiò del sostegno di monta-nari venuti dallo Yunnan, nella Cina meridionale. I re di Vientiane, appoggiati dal Vietnam, cercarono anche, nella lotta contro Luang Prabang e contro i Thai di Ayutthaya, il sostegno dei Birmani. Purtroppo per il Laos, dopo la dolorosa caduta di Ayutthaya nel 1767, la Thailandia si risollevò in modo spettacolare. Vientiane aveva combattuto in campo birmano. Il generale thai Chakri, che non avrebbe tardato a diventare re e a fondare la dinastia che ancor oggi siede sul trono, prese la città nel 1778, portandosi via le due immagini emblematiche del regno lao: il Phra Keo, il Buddha di Smeraldo, che si trova tuttora nella cappella del palazzo reale di Bangkok, e il Phra Bang. Quest’ultimo sarebbe poi stato restituito al Laos e, nei primi anni del XIX secolo, un re di Luang Prabang, posto sul trono dai Thai, fece edificare il Vat Mai per custodirlo. Nel XIX secolo il dominio della Thailandia sul paese si fece più duro, non senza tentativi di ribellione, perlopiù vani. Le due antiche capitali, soprattutto Vientiane, soffrirono terribilmente prima per le spedizioni punitive inviate dalla corte di Bangkok, poi per i saccheggi sistematici perpetrati dalle bande cinesi degli Ho, cala-ti dallo Yunnan. Infine, nella seconda metà del secolo, l’Occidente fece irruzione nel paese. Nel 1861 l’entomologo francese Henri Mouhot (cfr. p. 157), esploratore di Angkor, moriva “per le febbri” nella foresta laotiana dov’è sepolto. Poco più tardi, la missione francese per l’esplorazione del Mekong, guidata da Doudart de Langrée, passava attraverso il Laos alla ricerca di una via fluviale per penetrare nella Cina del sud. Ma, soprattutto, il Laos si trovò allora al centro degli interessi divergenti delle eterne sorelle-nemiche europee, allora in piena espansione coloniale, la Francia e l’Inghilerra. La prima inviò nel 1887 un vice-console a Luang Prabang, mentre la seconda incoraggiava l’intervento della Thailandia nel nord del paese contro l’aggressione degli Ho. Nel 1893 la Thailandia riconosceva con un trattato il protettorato francese che il re di Luang Prabang aveva accettato. Nel 1946, quando la riunificazione del Laos fu effet-tiva, Vientiane divenne capitale amministrativa, mentre Luang Prabang rimaneva capi-tale reale.
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130. Luang Prabang. Vat Mai. Vessantara jataka. Edificato all’inizio del XIX secolo per accogliere il Phra Bang, una delle immagini del Buddha elevate al rango di palladio del regno, il Vat Mai è uno dei rari edifici religiosi del paese il cui aspetto attuale forse non differisce sensibilmente da quello d’origine. Sotto il portico del santuario, realizzato in cemento modellato e dorato, un grande rilievo, traboccante di piacevoli dettagli aneddotici, riporta la storia edificante del principe Vessantara, noto per la sua infinita bontà. Il racconto, particolarmente apprezzato nell’iconografia buddhista del Sud-Est asiatico, fa parte dei jataka, le vite anteriori del Buddha.
131. Luang Prabang. Haw Prabang, tempio nel recinto dell’antico palazzo reale. Costruito tra il 1904 e il 1909, il palazzo reale, oggi trasformato in museo, comprendeva, oltre agli edifici residenziali destinati al sovrano e al suo seguito, un tempio di dimensioni imponenti. I rilievi che ornano il frontone rappresentano molti degli episodi principali della vita del Buddha, che troneggia, al centro della composizione, in atteggiamento di insegnamento.
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Che cosa resta dei monumenti del Laos antico? A parte rarissime eccezioni, la maggior parte dei monumenti del Laos non risale, allo stato attuale, oltre il XVIII secolo. Rinata dalle sue ceneri dopo le prove del XVII secolo, Luang Prabang, divenuta capi-tale di un regno indipendente, conobbe un grande sviluppo. Il palazzo reale, costruito in legno come quasi tutti gli edifici dell’epoca, sorgeva dove si trova ancor oggi – quel-lo attualmente visibile risale ai primi decenni del XX secolo – e le fondazioni religiose erano numerose. Nel XIX secolo le distruzioni furono, in confronto, minori. Luang Prabang beneficiò, negli ultimi decenni della monarchia lao, di grandi sforzi per restaurare i monumenti d’interesse storico, nel rispetto del loro aspetto antico. In un paese dove prevaleva il buddhismo theravada (la forma di buddhismo che pretende di essere più vicina all’insegnamento originale del Buddha), non era scontato convincere la popolazione della bontà di questa scelta: restaurare piuttosto che ricostruire. Infatti, nella prospettiva buddhista popolare, un pio devoto, contribuendo alla costruzione di un edificio nuovo, accumula un numero maggiore di meriti che non finanziando il restauro di un edificio antico. Sia come sia, questa scelta contribuì a fare di Luang Prabang un centro di rinascita dell’arte tradizionale lao. Vientiane, saccheggiata più volte nel corso del XIX secolo, era in rovina quando vi giunse la missione per l’esplorazione del Mekong, nel 1867. Solo il That Luang, che ha subito trasformazioni minime ed è stato miracolosamente risparmiato dalle distruzioni, e il Vat Sisaket, fondato ben più tardi, all’inizio del XIX secolo, e restaurato sotto l’e-gida dell’École française d’Extrême-Orient, conservano un aspetto abbastanza vicino a quello originale. Tutti gli altri monasteri ed edifici religiosi della città sono stati ricostruiti tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, e il risultato di queste ricostruzioni non sempre è felice. Solo alcune sculture o elementi sparsi di decorazioni architettoniche, disegni o schizzi tracciati da qualche viaggiatore occidentale di passaggio, o una fotografia scattata per caso, permettono di immaginare come apparivano in epoca antica.
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APPARATI BIBLIOGRAFIA E INDICE DEI
NOMI
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
INDICE Nomi di Persona, Popoli, Luoghi I numeri si riferiscono alle pagine. Le voci citate nel testo sono in tondo, quelle nelle didascalie in corsivo
di Michel Delahoutre
di Véronique Crombé
Opere a cui si è ispirato l’autore
Opere d’interesse generale
GIBSON, MICHAEL FRANCIS, Ces lois inconnues. Pour une anthropologie du sens de la vie, Editions Métailié, Paris 2002. Studio sul bisogno di trascendenza in tutte le culture e sull’obbligo di essere esseri di cultura. Il titolo, Queste leggi sconosciute, è tratto da un testo di Marcel Proust.
BÉGUIN, GILLES, L’art de l’Asie du sud-est, Flammarion, La Grammaire des styles, Paris 1986. CŒDÈS, GEORGES, Les Etats Hindouisés d’Indochine et d’Indonésie, Editions E. de Boccard, Paris 1964. L’opera rimane importante, anche se su certi punti comincia ad essere datata. GIRARD-GESLAN, MAUD, MARIJKE KLOKKE, ALBERT LE BONHEUR, DONALD STADTNER, VALÉRIE ZALESKI, L’art de l’Asie du sud-est, Citadelles & Mazenod, Paris, 1994.
SEN AMARTYA, K., L’Inde, Histoire, Culture et Identité, Odile Jacob, Paris 2007 [edizione originale The argumentative Indian, writings on indian history, culture and identity, Allen Lane, London 2005; traduzione italiana L’altra India: la tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana, Mondadori, Milano 2005]. Studio sulla cultura indiana e la sua tradizione pluralista. L’autore è premio Nobel per l’economia. La Lokapaññatti et les Idées Cosmologiques du Bouddhisme ancien, thèse par Eugène Denis présentée devant l’Université de Paris IV, 2 tomes, 1977. Questo testo su “La descrizione del Mondo” scritto da un buddhista era conosciuto in Birmania e in Thailandia nel XIII secolo. Les Trois Mondes (Traibhumi Brah Rvan), par G. Cœdès et C. Archaimbault, Publications de l’Ecole Française d’ExtrêmeOrient, Paris 1973. Traduzione del testo di Lü Tai, principe ereditario e re di Thailandia nel XIV secolo (cf. p. 132), testo prezioso per conoscere la mentalità dell’epoca.
Sri Lanka BARRY LANE, MICHAEL (general editor), ANANDA W.P. GURUGE (chairman), The cultural triangle of Sri Lanka, UNESCO 1993. BÉGUIN, GILLES, PIERRE-HENRI CERRE, Polonnaruwa, renaissance à Ceylan, Findakly, Paris 1991. SENEVIRATNA, A., Ancient Anuradhapura, Archaeological Surveydepartment, Colombo 1994. Birmania LUBEIGHT, GUY, Pagan, histoire et légendes, Editions Kailash, Paris 1998. STRACHAN, PAUL, Pagan, Art and Architecture of old Burma, Kisca - dale Publications, Singapore 1989. Cambogia
Opere d’interesse più generale BOISSELIER, JEAN, La sculpture en Thaïlande, légendes de Jean-Michel Beurdeley, photos de Hans Hinz, Office du Livre, Fribourg 1974. Jean Boisselier è stato professore di Arte Asiatica alla Sorbona di Parigi e Capo della Missione acheologica in Thailandia. BOISSELIER, JEAN, La sagesse du Bouddha, Gallimard, Paris 1993, con numerose illustrazioni del Sud-Est Asiatico. TRAINOR, KEVIN, sous la direction de, Bouddhisme. Art et Philosophie, Histoire et Actualité, Sélection du Reader’s Digest, Paris 2002 (adaptation française avec la collaboration de Véronique Crombé et Michel Delahoutre. Nombreuses illustrations en couleur). [edizione originale Buddhism, The Illustrated Guide, Duncan Baird Publishers, London 2001].
Angkor et dix siècles d’art khmer, catalogue d’exposition, Galeries Nationales du Grand Palais, Paris 1997, Réunion des Musées Nationaux. LE BONHEUR, ALBERT, Cambodge, Angkor, Temple en péril, Editions Herscher, Paris 1989. Paris ZÉPHIR , T1997. HIERRY, L’Empire des rois khmers, Gallimard, Découvertes, Thailandia BOISSELIER, JEAN, La sculpture en Thaïlande, Office du Livre, Fribourg, 1987. BOISSELIER, JEAN, La peinture en Thaïlande, Office du Livre, Fribourg, 1976. L’image sacrée en Thaïlande, catalogue d’exposition, Musée du Petit Palais, Paris, 1980-81. Laos GITEAU, MADELEINE, Art et archéologie du Laos, Editions A. et J. Picard, Paris 2001. Indonesia LE BONHEUR, ALBERT, La sculpture indonésienne au Musée Guimet, Presses Universitaires de France, Paris 1971. NOU, JEAN-LOUIS, LOUIS FRÉDÉRIC, Borobudur, Imprimerie Nationale Editions, Paris 1994 [traduzione italiana Borobudur. La via alla conoscenza perfetta, Jaca Book, Milano 1994].
244 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Abhayagiri,28, 34, 40
Afghanistan, 30 Agni, 165 Airavata, 152, 168, 186 Airlanga, 233 Ajanta, 16 Alaungpeya, 96 Alaungsittha, 74 Aluvihara, 28 Amarapura, 96 Anagarika Dharmapala, 14 Ananda, 74, 64, 66, 84, 178 Angkor, 123, 142, 157, 158, 160, 162, 171, 174, 175, 186, 200, 211, 131, 158, 160, 162, 165, 168, 174, 177, 178, 180, 183, 186, 187, 190 – Angkor Thom, 186, 180, 186 – Bayon, 186, 131, 180 – Porta della Vittoria, 180 – Terrazza degli Elefanti, 186 – Angkor Wat, 171, 174, 158, 174, 177, 183 – Bakong (Prasat Bakong), 158, 158 – Banteay Kdei, 190 – Banteay Samre, 177 – Banteay Srei, 160, 162, 162, 165, 168, 171 – Baphuon, 171 – Mebon, 160 – Phimeanakas, 162 – Phnom Bakheng, 160 – Ta Prohm, 186, 187, 190 – Ta Som, 178 – Thommanon, 183 Angkor Borei, 157 Angrok, 240 Anorattha, 70, 74, 71 Anuradhapura, 34, 36, 62 23, 28, 34, 40, 41, 23, 30, – Ruwanweli Dagaba, 28, 60Thuparama Dagaba, 23, 34, 34 Arakan, monti, 67 Arakan, regno di, 81, 96, 110 Armeni, 30 Avoka, 8, 15, 19, 22, 23, 34, 9, 14, 15, 84 Auboyer, Jeannine, 64, 178 Ava, 81, 96 Ayodhya, 192 Ayutthaya, 81, 96, 123, 140, 142, 143, 145, 201, 211, 148
Bagan/Pagan (vedi Pagan) Bagaya-Kyaung, 96 Bago/Pegu (vedi Pegu) Bagyidaw, 99 Bali, 215, 233, 240, 240, 149, 178 Bamiyan, 30 Bangkok, 114, 118, 123, 140, 143, 145, 201, 139, 145, 148, 149, 152, 156 –211, Wat118, Arun (Tempio dell’Aurora), 143, 148
– Wat Pho (Tempio del Buddha sdraiato), 156, 145, 156 – Wat Phra Kaew, 132, 143, 156, 132, 145, 148, 149, 152 – Wat Suthat, 156, 152 Bangladesh, 18 Bayinnaung, 81 Benares (Varanasi), 13, 14, 84 Bengala, golfo del, 8 Berlino, 30 Beurdeley, Michel, 64 Bhirut, 193, 198 Bhubaneshvara, 10, 16 – Lingaraja, 10 Bibhek, 196 Bihar,13, 84 Bodh Gaya, 13, 23, 34, 81, 142, 84 Bodopeya, 96 Boisselier, Jean, 64, 133 Borneo, 215 Borobudur, 217, 217, 222, 225, 226, 232 Boromokot, 143 Boromtrailokanath, 142 Brah Ram, 196 Brahma, 233, 235, 238 Brat, 194, 195 Buddha di smeraldo, 118, 156, 201, 202, 211, 118, 145 – di Lampang, 118, 118 – di Bangkok (Phra Keo), 143, 156, 201, 202, 211 Buduruwagala, 28, 29, 30 Buriram, 126
Cakkhavit, 198 Candi Jawi, 240 Candi Kalasan, 233, 235 Candi Mendut, 217 Candi Pawon, 217 Candi Sambisari, 233 Candi Sewu, 233 Candi Singhasari, 240 Ceylon, 22, 60 – Ruwanweli Dagaba (Mahathupa), 60 Chakri, dinastia, 145 Chakri, generale, 145, 211 Cham, 171, 175, 178 Chama Devi, 118, 114 Champassak, 201 Chiang Mai, 140, 142, 201, 140 – Wat Chedi Luang, 140 – Wat Chet Yot, 142, 140 Chiang Rai, 140 Chiang Saen, 140 Chin, 67 Cina, 123, 140, 211 Cola, dinastia, 40 Cola, impero, 40 Colombo, 34, 64
Crombé, Véronique, 14,
133
Dadharatth,194, 195
Dai Viet, 171 Dambadeniya, 66 Dangrek, 162 Devanampiya Tissa, 23, 34, 23 Dhammazedi, 107 Dharmapala, 66 Dharmavaqsa, 233 Dhatusena, 34 Dhutthagamapi, 28, 34, 60 Dieng, 216 Dvaravati, 114, 118, 197
E
gitto, 15 Elara, 23, 28 Elephanta, 12 Ernout, A., 13
Fa
Ngum, 200, 202 Francesi, 9, 66 Francia, 123, 143, 157, 192, 211 Funan, 114, 157, 199
Galli, 9
Gampola, 66 Gange, 217 Garuda, 186 Gedong Songo, 216 Giava, 12, 215, 216, 217, 233, 240, 178, 217, 222, 225, 226, 232, 235, 238, 240 Gothabhaya, 28 Gujarat, 22 Gunung Wukir , 216 Gupta, 34, 14
H
alin, 67 Hallade, Madeleine, 178 Hanumat, 149, 192, 196 Hariharalaya (vedi Rolous) Haripujjaya, 118, 140, 171 Hayam Wuruk, 240 Himalaya, 168 Hiru, 217 Ho, 211 Htilominlo, 81
India,9, 11, 12, 15, 18, 23, 34, 70, 96, 110, 240, 9, 10, 12, 14, 16, 18, 84 Indoarii, 22 Indra, 165, 168 Indravarman, 158 Inglesi, 66, 96, 110,143 Irrawaddy, 67, 70, 69, 71 Iyudhar, 193
INDICE DEI NOM I 245
Iyuka, 193 Iyuko, 193
Jaffna, 66 Jayavarman II, 18, 158 Jayavarman IV, 160 Jayavarman V, 162 Jayavarman VI, 171 Jayavarman VII, 16 123, 174, 175, 186, 200, 178, 180, 186, 187, 190 Jetavana, 28, 34, 40
Kaiket,194, 195
Kailash, 162, 168, 183 Kalimantan, 215 Kalinga (vedi Orissa) Kama, 165 Kamphaeng Phet, 132, 142, 132, 139 – Wat Phra Kaew, 132, 132, 139 – Wat Phra Si Iriyabot, 132, 139 – Wat Phra That, 132 Kandy, 34, 66 Kavyapa, 34, 40 Kaung Hmou Do (Kaungh-mundaw), 96, 99 Kavindrarimathana, 160 Kediri, 233, 240 Kedu, 217, 226 Khapdava, 165 Khmer, 118, 123, 132, 142 Khmer rossi, 30 Khorat, 123 Khun Borom, 199 Koh Ker, 160 Konarak, 16 Kotte, 66 Kramrisch, Stella, 13 Kritinagara, 240 Krspa, 162, 165 Kurunegala, 66 Kyanzittha, 74 Kyaukse, 67, 70
Laksmapa, 192 Lambakkan, 28 Lampang, 118, 118, 120, 122 – Wat Phra That Lampang Luang, 118, 132, 118, 120, 122 Lamphun, 118, 114, 118 – Chedi Ratana, 118 – Suwan Chang Kot, 118 – Wat Chama Devi(Wat Kukut), 118, 114 Lan Xang, 200, 201, 202 Langrée, Doudart de, 211 Lanka, 192, 196 Lanna, 81, 140, 142, 114, 140 Le Bonheur, Albert, 175 Lö Tai, 19 ,132
246 INDICE DEI NOMI
Lohapasada, 34 Lopburi, 118, 123, 171, 174 – Scuola di Lopburi, 118 Lovek, 186 Lü Tai, 14, 19, 132, 140, 142, 133, 139 Luang Prabang (Xien Dong-Xien Thong), 200, 201, 202, 211, 214, 204, 207, 208, 212 – Haw Prabang, 212 – Phra Bang, 200, 201, 211 – Vat Mai, 211, 212 – Vat Vixun, 202 – Vat Xieng Thong, 202, 204, 207, 208 Luigi XIV, 143
Madhya Padresh, 15 Magama, 23 Magha, 41 Mahanama, 40 Maharashtra, 16 Mahasena, 28 Mahavihara, 23, 28, 34 Mahinda, 23, 23 Maitreya, 30 Malesia, 111 Mandalay, 110, 111, 87, 96, 102, 103, 105 – Arakan, 110 – Kuthodaw, 110, 111, 102, 103 – Sandamani, 111, 103 – Shwenandaw, 111, 105 Mara, 118, 133 Marut, 168 Massonaud, Chantal, 64 Matale, 28 Maturai, 40 Maurya, 23 Mebon, 160 Medirigiriya, 34, 39 – Vatadage, 39 Mekong, 199, 202, 211, 214 Mekong, delta del, 114, 157 Meillet, A., 13 Menam, 143, 145, 157, 199 Menam Chao Phraya, 145, 199 Mengrai, 140 Meru, 99, 207 Mihintale, 23, 23 Mindon, 110, 111, 99, 102, 103, 105 Mingoun, 96, 99 – Hsinbyume, 99 Minnanthu, 92 Mojopahit, 240 Mon, 67, 70, 74, 81, 96, 114, 118, 123, 140, 142, 171, 199, 114 Mongoli, 81 Mosca, 30 Mouhot, Henri, 157, 211 Murray, John, 64 Myazedi, 79
Naga, 67
Nairajjana, 217 Nakhon Pathom, 114 Nam Khan, 202 Nan Ayulayaks, 197 Nan Macchanabu, 196 Nan Punnakay, 196 Nan Zhao, 70 Nandin, 233 Narapathisitthu, 81, 71 Narapatihapate, 92 Naresuen, 143 Narethu, 74, 81 Nat Hlaung Kyaung, 70 New Delhi, 18 – Museo Nazionale, 18 Nissankamalla, 42, 54 Norodom, 192 Nya Yoe, 199
Olandesi,9, 66
Orissa (Kalinga), 34, 10, 16
Pabataran, 240
Pagan/Bagan, 70, 74, 81, 111, 60, 67, 71, 74, 76, 79, 80, 81, 84, 87, 92, 93 – Dhammayangyi, 81, 80 – Gubyaukgyi, 74, 79 – Mahabodhi, 81, 64, 84 – Nat Taung, 81, 92, 93 – Shwesandaw, 74, 71 – Shwezigon, 74 – Tayok-pyi Paya, 92 – Tempio Ananda (Ananta Pajja ), 74, 74, 76 – Tempio Sulamani, 81, 71, 81 – That Bin Yu, 74 – Upali Thein (o Upali Sima), 81, 87 Pakistan, 18 Parakramabahu I, 41, 56, 60, 62, 63, 64 Parvati, 165, 168 Patkai, 67 Pechino, 240 Pegu/Bago, 70, 81, 96, 107 – Kyaikpoun, 70, 107 – Shwemodo, 70 Peikthano Myo, 67 Penang, 110, 111 – Dhammikarama, 111 Petracha, 143 Phaulkon, Constance, 143 Phimai, 123, 171, 131 Phnom Chisor, 162 Phnom Da, 155 Phnom Kulen, 158 Phnom Penh, 186, 192, 192 – Pagoda d’Argento, 192, 192 Phra Narai, 123, 143, 145
Phra Naret, 143 Phra Ruang, 123 Phreah Vihear, 162 Ping, 118 Pinya, 81 Pitsanulok, 142, 143 Plinio il Vecchio, 22 Polonnaruwa, 40, 41, 66, 42, 50, 51, 52, 54, 56, 57, 58, 60, 62, 63, 64 – Alahana Parivena, 60, 62, 63 – Atadage, 42 – Gal Pota, 54 – Gal Vihara, 41, 64 – Kiri Vihara (Kiri Dagaba), 60, 71 – Lata Mandapa, 42 – Menik Vihara, 50 – Pabalau Vihara, 58, 63 – Rankot Vihara, 62 – Vatadage, 42, 51 Popa, 70 Portoghesi, 9, 66 Prajjaparamita, 187 Prambanan, 233, 235, 238 – Candi Loro Jongrang, 233, 235, 238 Prasat Muang Tam, 123, 123 Prasat Phanom Rung, 123, 123, 126 Pu Yoe, 199 Purpavarman, 215 Pyinmana (Naypydaw), 111 Pyu, 67, 70
R ajendravarman,160, 160, 162
Rama, 149, 192, 238 Rama I, 145, 156 Rama III, 145 Rama IV Mongkut, 145 Rama Kamhæng, 123, 132, 140 Rama V Chulalongkorn, 140, 145 Ramadhipati, 142 Ramakien, 148, 149, 152 Ramayapa, 192, 149, 152, 238 Rangoon (vedi Yangoon) Ravapa, 162, 168, 183, 192 Rey, Alain, 9, 17 Rohana, 40 Rolous (Hariharalaya) 158, 160, 158 – Preah Ko, 158 Rudrayapa, 222, 225
Sagaing,96, 96, 99
– Kaung Hmou Do (Kaungh-mudaw), 96, 99 Sahampati Brahma, 30 Sailendra, 216, 217 Sajjanalaya, 123, Sambor Prei Kuk, 158 Sanchi, 15, 15 Sanghamitta, 23
Sangsit, 240 – Pura Beji, 240 Sajjaya, 216, 217 Sarnath, 9, 13, 14, 14 – Museo, 9 – Stupa Dhamek, 13, 14 Satrut, 194, 195 Say Fong, 211 Setthatirath, 201, 202, 204, 211 Shan, 81, 96 Shan, 67 Siam, 142, 178 Siam, golfo del, 114, 160 Siddharta, 217 Sigiriya, 34, 40, 41 Sihala, 22 Siqhaladipa, 22 Sindok, 233 Singhasari, 240 Sita, 192 Viva, 11, 12, 14, 156, 233, 11, 12, 36, 126, 165, 168, 183, 235, 238 Son Sen Thai, 200 Vri Devi, 240 Vri Indraditya, 123, 132 Sri Laks, 196 Srikshetra, 67 Srivijaya, 233 Stierlin, Henri, 211 Strabone, 22 Sudhana, 222 Sudrut, 193 Sugriva, 149 Sukhothai, 15, 19, 123, 132, 140, 142, 131, 133, 139 – Scuola di Sukhotai, 15, 19, 133 – Wat Chana Songkhram, 132 – Wat Mahathat (Monastero della Grande Reliquia), 132, 133 – Wat Si Chum, 132 Sule, 110 Sumatra, 215, 216, 233 Suryavarman I, 162, 171 Suryavarman II, 171, 177 Suryavongsa, 201, 202
Taksaka, 165 Taksin, 140, 143, 145 Tamil, 23, 28, 40, 66 Tampaksiring, 233 Taprobane (Tramraparni, Tambapanni), 22 Tara, 29, 235 Taruma, 216 Taung Bi, 93 Tenasserim, 67 Thai, 81, 96 114, 118, 123, 140, 186, 201, 211 Thalun, 96, 99 Tham Van Sang, 211
Thapar, Romila, 10 Thaton, 70, 74 Thierry, Solange, 10 Thonburi, 143, 145 Tilokaraj, 140 Tivanka Pilimage, 41 Tonchino, 174 Tonlé, 175 Trainor, Kevin, 19 Tribhuvanaditya, 174, 175
Udong,142, 186 Vajrapapi, 30 Vat Phu 157, 160, 200 Versailles, 143 Vientiane, 200, 201, 202, 211, 214, 202, 211 – That Luang (Pha That Luang), 200, 201, 202, 214, 211 – Vat Chan, 200 – Vat Ho Phra Keo, 201, 202 – Vat Manorum, 201 – Vat Si Muang, 202, 202 – Vat Sisaket, 214 Vietnam 114, 143, 145, 171, 201, 211 Vijaya (Indonesia), 240 Vijaya (Sri Lanka), 23, 28 Vijayabahu I, 40, 42 Vispu, 12, 233, 171, 174, 58, 59, 174, 177, 186, 192, 235, 238 Vispu Surya, 16 Vixun, 201, 204 Vokkana, 225
Wellawaya, 30 X ien Dong-Xien Thong (vedi Luang Prabang) Xieng Khuang, 211 Xuan Zang, 40 ajjavaraha,160, 162 Yamuna, 217 Yangoon/Rangoon 70, 110, 111, 87, 107 – Shwedagon, 70, 110, 107 Yapahuwa, 66 Yavodharapura 160 Yavovarman I, 160 Yavovarman II, 174 Yogyakarta, 232 Yunnan, 70, 123, 211
Y
Zhen La, 157, 199
INDICE DEI NOM I 247
Composizione dei testi OLDONI GRAFICA EDITORIALE Milano Selezione delle immagini
GRAPHIC SRL Milano Stampa e rilegatura
CONTI TIPOCOLOR Settimello Calenzano, Firenze Finito di stampare nel mese di Luglio 2008