THE LIFE OF JESUS

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Ponte romano sul Tago ad Alcantara

Accampamento romano Tiberio

Il tempio di Gerusalemme

Augusto

Soldati e legionari romani


VITA DI GESÙ ILLUSTRAZIONI DI ANTONIO MOLINO TESTI DI ENRICO GALBIATI, ELIO GUERRIERO ANTONIO SICARI

Edizione originale La Bibbia e la sua storia © 1981, Editoriale Jaca Book SpA, Milano Tutti i diritti riservati Nuova edizione in più volumi La Bibbia © 2017, Editoriale Jaca Book Srl, Milano Tutti i diritti riservati Progetto originale Enrico Galbiati Testi di Enrico Galbiati, Elio Guerriero, Antonio Sicari Illustrazioni di Antonio Molino Progetto grafico e copertina Break Point / Jaca Book Stampa e confezione Tiskarna Vek, Koper aprile 2019 ISBN 978-88-16-57459-5 Editoriale Jaca Book Via Frua 11, 20146 Milano Tel. 02.48561520, fax 02.48193361 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici anche su

LA BIBBIA


U

n giorno Gesù si trovava in prossimità di Cesarea, una città del nord della

Palestina, insieme con i discepoli. Improvvisamente, quasi a metterli alla prova, chiese loro: «Che dice la gente di me?». Colti di sorpresa, i discepoli si affannarono a sintetizzare e ad abbellire quanto i

La Bibbia

contemporanei dicevano del Maestro. Pensavano già di aver superato indenni

I Patriarchi e Mosè 1. Abramo 2. Isacco, Giacobbe e Giuseppe 3. Mosè in Egitto 4. Mosè e l’Esodo

nulla da ricordare o sintetizzare, bisognava scavare dentro di sé, far emergere i

Nella terra promessa 5. Giosuè e la terra promessa 6. Debora, Gedeone e Sansone 7. Samuele, Saul e Davide 8. Re Davide

del Dio vivente». Era la risposta giusta, suggerita dallo Spirito di Dio.

Re e profeti 9. Re Salomone 10. Elia ed Eliseo 11. Amos, Osea e Isaia 12. Geremia Esilio, ritorno, giudaismo 13. Esilio e ritorno 14. Giobbe e Giona 15. Alessandro Magno e i Maccabei 16. Daniele, Ester e il nuovo tempio 17. I racconti della Creazione 18. Vita di Gesù 19. I discepoli del Signore

la prova, quando Gesù ritornò alla carica: «Voi chi dite che io sia?». Ora non c’era motivi della sequela, le ragioni per cui avevano abbandonato tutto per seguire Gesù. Si era creata un’atmosfera drammatica, ognuno preso dal desiderio di capire e dal pudore di parlare. Ruppe il silenzio Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio Dopo la crocifissione e morte di Gesù, i discepoli tutti fecero loro la risposta di Pietro e l’annunciarono a Gerusalemme, ad Antiochia, a Roma, fino ai confini della terra. Il Figlio di Dio si era fatto uomo, era stato in mezzo a loro, aveva operato prodigi, era morto e risorto, si era assiso alla destra di Dio. È la fede cristiana che è giunta fino a noi trasmessa e testimoniata dalla Chiesa, la comunità dei fedeli in cui è ancora vivo e presente Gesù. Anche a noi egli rivolge la sua domanda provocatoria: «Voi chi dite che io sia?». Il presente volume vuole aiutare a far nostra la risposta di Pietro per rispondere a Gesù, per testimoniare agli uomini la nostra fede.

Quest’opera vuole essere anche un invito a leggere la Bibbia, ecco il perché dei seguenti accorgimenti: in testatina sono indicati libro, capitolo e, ove necessario, versetti della Bibbia ai quali si riferisce la narrazione; sono tra virgolette basse («») le citazioni letterali nel corso del testo; sono invece evidenziati dal corsivo i passi biblici che si è ritenuto necessario riportare per esteso al di fuori della narrazione.


1. Testimoni della morte e risurrezione di Gesù di Nazaret, apostoli e discepoli comprendono in una luce nuova la vita e l’insegnamento del loro maestro. Inizia l’annuncio cristiano che fa subito molti seguaci Erano passati alcuni anni da quando un uomo straordinario, un profeta chiamato Gesù, aveva sconvolto l’opinione pubblica con le sue predicazioni in Galilea e in Giudea, suscitando gli entusiasmi delle folle e attirandosi l’odio di una parte delle autorità. Molti testimoni raccontavano di lui fatti meravigliosi, veri e propri miracoli, più numerosi e grandi di quelli operati dagli antichi profeti. C’era anche qualcuno che l’aveva ritenuto il Messia che, secondo le antiche profezie, doveva venire a restaurare il regno d’Israele. Ma poi l’entusiasmo popolare era diminuito ed era subentrata la delusione. Quel Gesù che con le sue doti meravigliose avrebbe potuto mettersi a capo di una rivolta armata contro i Romani, parlava solo di amore

e di perdono, e il Regno di Dio da lui promesso non aveva niente a che fare con le aspirazioni nazionali. Poi i suoi avversari erano riusciti a farlo condannare dal governatore romano Ponzio Pilato, e Gesù era morto in croce in mezzo a due ladroni. Tutto sembrava finito! Se non che da quel momento quante cose nuove e straordinarie erano accadute! I discepoli di Gesù, dopo aver trovato vuoto il suo sepolcro, l’avevano visto molte volte risorto e si erano intrattenuti con lui come prima della sua morte in croce. Poi ciascuno dei suoi più intimi discepoli era diventato predicatore e operatore di miracoli come il Maestro, persuadendo le folle a riconoscere Gesù, crocifisso e risorto, come il Messia, il Figlio di Dio, a ricevere un battesimo

nel suo nome, a radunarsi per celebrare la Cena come Gesù stesso l’aveva celebrata la sera prima della sua morte in croce, e a vivere nell’amore vicendevole e nella bontà verso tutti gli uomini. Si chiamavano “fratelli” o con lo stesso nome dei primi seguaci di Gesù: “discepoli”. Ormai le comunità di questi discepoli si erano diffuse nei centri più importanti della Giudea, da Gerusalemme a Lidda, a Giaffa e fino a Cesarea, dove risiedeva il governatore romano. Anzi si diceva che nella grande Antiochia, la capitale della Siria, un grande numero di pagani aveva abbracciato la fede in Gesù Cristo e si iniziava a chiamarli “cristiani”. A questo punto cominciò a sorgere nei nuovi “discepoli” il forte desiderio di sapere

tante cose su quel Gesù che essi avevano veduto solo occasionalmente o che non avevano mai conosciuto. Così avveniva che si radunavano attorno ai discepoli della prima ora, a quelli che erano chiamati “apostoli”, per sentir narrare gli episodi della vita di Gesù, e per sentir ripetere le parole stesse del suo insegnamento. Gli apostoli, che erano stati “discepoli”, cioè scolari del Maestro Gesù, avevano imparato a memoria i suoi insegnamenti e ricordavano i fatti della sua vita. Ora però rivedevano tutto sotto una luce nuova, la luce della risurrezione di Gesù. Consideravano anche le antiche profezie e le confrontavano con gli avvenimenti della vita di Gesù, mostrando l’avverarsi di ciò che “era scritto”.


2. I racconti orali della vita e dell’insegnamento di Gesù sono seguiti dai racconti scritti. Nascono i vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, simbolizzati da un leone, un uomo, un vitello e un’aquila

Durante qualche decennio gli apostoli e i primi discepoli si accontentarono di predicare solo a voce i fatti della vita di Gesù e i suoi insegnamenti per far sorgere la fede e istruire le nuove comunità di cristiani. Questa predicazione prendeva il nome di “evangelo” (noi diciamo più comunemente “vangelo”), parola greca che vuol dire “lieta notizia”. Gesù stesso aveva chiamato “lieta notizia” il suo annuncio dell’amore di Dio, il Padre buono che offre agli uomini la salvezza e li introduce nel suo “Regno”. Ma dopo due o tre decenni di predicazione soltanto orale, vi fu qualcuno che incominciò a mettere in scritto degli appunti come promemoria: raccolte di sentenze di Gesù, parabole, piccoli episodi, la storia della passione che, narrata infinite volte, aveva preso una forma fissa. A questo punto intervennero gli “evangelisti”, coloro cioè che scrissero non appunti staccati, ma un libro intero che si chiamò con lo stesso nome della predicazione: “evangelo”, a significare che il Vangelo (con l’iniziale maiuscola) è uno solo, anche se ci è stato tramandato da quattro diversi scrittori.

Il primo vangelo in ordine cronologico è quello “secondo Marco”, cioè la “lieta notizia” come ci è riferita dall’evangelista Marco. Giovanni Marco, nato a Gerusalemme da una famiglia ebrea di lingua greca (proveniente da Cipro), non era un apostolo, ma forse conobbe Gesù quando era molto giovane. Fu al seguito di san Paolo e poi di san Pietro. Scrisse il suo vangelo a Roma in greco per i cristiani provenienti dal paganesimo, circa nell’anno 70. Molti lo ritengono il primo vero autore di un vangelo, perché lo scritto ebraico di Matteo non ci è pervenuto, e il Matteo greco è posteriore a Marco. Il secondo evangelista fu l’apostolo Matteo. Era stato un “pubblicano”, cioè esattore delle tasse e del dazio, nella piccola città di Cafarnao. Gesù l’aveva chiamato al suo seguito ed egli prontamente aveva risposto, lasciando tutto per stare col Maestro. Egli scrisse il suo vangelo per gli Ebrei diventati cristiani, nella lingua degli Ebrei, citando spesso l’Antico Testamento e riferendo le polemiche di Gesù contro le erronee tradizioni dei farisei che influenzavano ancora le comunità cristiane provenienti dall’ebraismo. Il suo scritto

fu tradotto e rifatto in greco tra gli anni 70-80 dopo Cristo, ed è quello che noi chiamiamo “il vangelo secondo Matteo”. Il terzo evangelista è Luca, discepolo di Paolo. Nato probabilmente ad Antiochia e convertito dal paganesimo, scrisse con arte (era medico) e grande sensibilità verso l’anno 80. Egli è anche l’autore del libro chiamato Atti degli apostoli. L’ultimo evangelista è l’apostolo Giovanni. Scrisse a Efeso circa nell’anno 100 un vangelo molto originale, in cui si riflettono le sue lunghe meditazioni sulla divinità di Gesù. Quattro simboli sono collegati agli evangelisti: il leone per Marco (perché incomincia con la predicazione di Giovanni nel deserto), l’uomo per Matteo (perché inizia il vangelo con la genealogia umana di Gesù), il vitello per Luca (perché incomincia con l’annuncio a Zaccaria nel tempio dove si immolavano vitelli e agnelli), l’aquila per Giovanni, che “vola” più in alto degli altri nella contemplazione della divinità di Gesù. I quattro simboli sono derivati dalla visione dei quattro esseri viventi attorno al trono di Dio, come viene descritta nel Libro dell’Apocalisse.


Gesù

Matteo 1,1-17 Luca 3,23-38

Dio

3. Gli evangelisti Matteo e Luca riportano due genealogie diverse di Gesù. Il primo mette in risalto la sua discendenza messianica a partire da Abramo, il secondo la sua solidarietà umana fino ad Adamo Adamo Deportazione a Babilonia

Davide Noè

Giacobbe

Isacco

Abramo

«Matteo (nel capitolo primo) e Luca (nel capitolo terzo) riferiscono la genealogia di Gesù, cioè fanno l’elenco dei suoi antenati. Gesù infatti come vero uomo, nato da Maria, era discendente di uomini illustri, ai quali erano state fatte le promesse di una futura salvezza, e che avevano trasmesso ai discendenti la speranza nel Messia che sarebbe venuto. Era importante per gli evangelisti mettere in evidenza che Gesù era proprio colui che realizzava le antiche promesse. Tuttavia il criterio di Matteo non coincide con quello di Luca. Matteo scrive per gli Ebrei, il popolo eletto che si vantava di essere discendente di Abramo. Perciò Matteo incomincia la sua genealogia con Abramo: «Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco...». Con Abramo infatti inizia una nuova era nella storia della salvezza. Con lui Dio incomincia la preparazione del futuro Messia: «Farò di te un grande popolo e ti benedirò... e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,2-3). Appunto Gesù è colui che proviene da Abramo e realizza questa benedizione. Quanto a Davide egli è il primo “Messia”, cioè il re consacrato a Dio mediante l’unzione. A lui Dio stesso, mediante il profeta Natan, aveva promesso un discendente che avrebbe avuto un

regno eterno (2 Samuele 7). Questa promessa, resa più chiara dal profeta Isaia e da altri profeti, aveva creato l’attesa di un futuro Messia, discendente di Davide. E appunto Gesù è questo re messia, che realizza la promessa su un piano spirituale e divino. Inoltre Matteo divide la genealogia in tre periodi storici di quattordici generazioni ciascuno: da Abramo a Davide, da Davide alla deportazione in Babilonia, dalla deportazione a Gesù; nel secondo periodo la linea genealogica è quella dei re di Giuda, per sottolineare la discendenza regale ereditaria. Luca invece presenta una genealogia ascendente, che da Gesù risale non solo fino ad Abramo, il capostipite degli Ebrei, ma fino ad Adamo, il capostipite di tutta l’umanità. Con ciò afferma non solo l’appartenenza di Gesù a tutta la grande famiglia umana, ma la sua solidarietà con tutti gli uomini di qualsiasi stirpe e l’universalità della salvezza da lui portata a tutto il mondo. Naturalmente egli prende i nomi dal libro della Genesi (capitoli 5 e 11) che elenca i patriarchi da Adamo a Noè e da Noè ad Abramo. Tuttavia non sono i nomi che interessano all’evangelista, ma la salvezza di tutti gli uomini. Nato da persone ben determinate, Gesù è un uomo con il compito di salvare gli uomini dal peccato.

Abramo

Davide

Giuseppe

Gesù


Luca 1

L’infanzia 4. Un angelo annuncia a Maria la nascita di Gesù, così come un angelo aveva annunciato a Zaccaria la nascita di un figlio. Maria si reca da Elisabetta che dà alla luce Giovanni il Battista Gli evangelisti Matteo e Luca sono i soli ad averci tramandato notizie sulla nascita di Gesù e sui primi anni della sua vita. E Luca, di cui ora seguiamo la narrazione, ci riporta eventi che risalgono ancor più indietro nel tempo. La nascita di Gesù fu preceduta da quella di Giovanni, più tardi chiamato il Battista. I genitori di Giovanni, Zaccaria ed Elisabetta, due persone giuste e rispettose della legge, erano ormai anziani e, pur desiderandolo vivamente, non aspettavano più figli. Zaccaria era un sacerdote e un giorno che era al tempio per svolgere le sue mansioni sacerdotali si verificò un evento straordinario. Egli era entrato nel santuario per offrire l’incenso, quando ecco apparirgli un angelo. Gli annunciava che la sua preghiera era stata esaudita, che Elisabetta avrebbe generato un figlio cui era affidata una grande missione in Israele. Meravigliato

della straordinaria rivelazione, Zaccaria ebbe un attimo di esitazione. Come era possibile? Lui ed Elisabetta erano anziani, che garanzie poteva dargli l’angelo? La mancanza di fede fu punita: Zaccaria sarebbe rimasto muto fino alla nascita del bambino. Erano passati sei mesi da questi eventi ed Elisabetta, la moglie di Zaccaria, se ne stava chiusa in casa quasi vergognandosi della sua gravidanza, quando un angelo apparve ad una sua parente. Questa si chiamava Maria, era giovane, fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe, abitava nella cittadina di Nazaret. L’angelo, dopo averla salutata, le fece un annuncio straordinario. «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: «Non temere Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...». Allora Maria disse all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te,

su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E l’angelo partì da lei. Dopo l’annuncio dell’angelo, Maria si recò da Elisabetta che, passato il tempo necessario, diede alla luce un bambino. Gli eventi straordinari non erano però finiti. Secondo la tradizione, otto giorni dopo la nascita del bambino, i responsabili della comunità vennero da Elisabetta per accogliere ufficialmente il bambino. Essi pensavano di chiamarlo col nome del padre, ma la madre si oppose. Il bambino doveva chiamarsi Giovanni. Meravigliati, i capi della comunità si rivolsero al padre che, ancora muto, scrisse su una tavoletta: «Giovanni è il suo nome». Quindi, Zaccaria riacquistò improvvisamente la parola e a sua volta si mise a lodare ed esaltare Dio per

quanto aveva fatto e per quanto avrebbe operato attraverso suo figlio. Quasi a sintetizzare i sentimenti di Zaccaria, san Luca gli mette in bocca un inno di ringraziamento a Dio che ha dato inizio alla realizzazione delle promesse fatte agli antichi profeti.


Luca 2,1-38

5. La nascita di Gesù San Luca è l’evangelista che più ha riflettuto sul significato delle vicende umane. Queste sono predisposte da Dio per realizzare i suoi disegni di salvezza. È quanto si avvera in modo particolare in occasione della nascita di Gesù. A quel tempo la Palestina si trovava sotto il dominio di Roma, che era governata dall’imperatore Augusto. Questi, come aveva già fatto in altre province dell’impero, ordinò un censimento della popolazione della Palestina. Ogni famiglia doveva presentarsi alle autorità competenti e dare le proprie generalità. Un obbligo di poco conto per chi abitava nella città di appartenenza, un impegno gravoso per chi doveva spostarsi da un capo all’altro del paese. Era questo il caso di Giuseppe, lo sposo di Maria, che da Nazaret in Galilea dovette recarsi a Betlemme, la città di Davide, alla cui discendenza egli apparteneva. Un difficile viaggio di circa 150 km, reso più disagiato dalle

condizioni di Maria la cui gravidanza stava per giungere a compimento. E proprio mentre si trovavano a Betlemme Maria partorì e diede alla luce un bambino. Quindi lo avvolse in poveri panni e lo adagiò in una mangiatoia perché lei e Giuseppe erano poveri e non erano riusciti a trovare una sistemazione nell’albergo della città. Ma l’umile nascita del figlio di Maria fu accompagnata da eventi straordinari. Poco lontano dalla stalla dove era nato il bambino c’erano dei pastori che passavano la notte vigilando il loro gregge. Improvvisamente essi videro una grande luce e in mezzo ad essa l’angelo del Signore che disse: «Non temete, ecco, vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». Poi la visione crebbe di intensità e ai pastori

parve di vedere un’intera schiera di angeli che lodavano ed esaltavano Dio. Fu un momento. Ma quando la visione scomparve i pastori, seguendo le indicazioni dell’angelo, trovarono effettivamente il bambino nella mangiatoia. Gli resero omaggio, poi tornarono ai loro greggi, lodando ed esaltando Dio. Passarono così i primi giorni del bambino e, secondo quanto prescriveva la legge di Israele, egli fu consacrato al Signore con la circoncisione, un rito che ricordava l’alleanza di Dio con il suo popolo. Nell’occasione al bambino venne dato il nome di Gesù, secondo quanto aveva ordinato l’angelo a Maria al momento dell’annunciazione. Ma non erano finiti gli impegni religiosi connessi con la nascita del bambino. Passati 40 giorni, Giuseppe, Maria e il bambino percorsero i pochi chilometri che separano Betlemme da Gerusalemme e si recarono al tempio. Qui stavano offrendo un sacrificio a Dio, quando

ecco avvicinarsi una persona anziana e veneranda. Era Simeone, un pio israelita, che passava gli ultimi anni della sua vita nel tempio in attesa del Messia. Al vedere Gesù, egli fu ispirato dallo Spirito Santo e riconobbe nel bambino il Messia, il salvatore di Israele. Sopraggiunse intanto una profetessa di nome Anna che, come Simeone, era già avanti negli anni e passava il suo tempo in attesa del Messia. Anche lei fu ispirata dallo Spirito Santo e lodava Dio per aver inviato il liberatore di Israele. Secondo san Luca, dunque, la nascita di Gesù viene annunciata a tutto il popolo di Israele rappresentato dai pastori, da un giusto, da una profetessa. È significativo, però, che i primi testimoni siano proprio degli umili pastori di cui non ci viene neppure tramandato il nome. Quasi un’anticipazione della predilezione di Gesù per i poveri e gli umili.


Matteo 2 Matteo 2

6. Nato Gesù, vengono dall’oriente dei Magi per adorarlo. Minacciata da Erode, la famiglia di Gesù fugge in Egitto, mentre il tiranno fa uccidere i bambini di Betlemme. Solo alla sua morte, Gesù può ritornare a Nazaret Matteo concorda con Luca nei dati fondamentali concernenti la nascita di Gesù: Maria si trovò incinta per opera dello Spirito Santo, Gesù non ebbe un padre umano. Il concepimento avvenne prima che Maria andasse ad abitare con Giuseppe. Gesù nacque a Betlemme, la città di Davide, negli ultimi anni del regno di Erode. Matteo aggiunge l’avvertimento dell’angelo a Giuseppe per spiegare l’origine soprannaturale del figlio di Maria. Poi, come nulla sapesse dei rapporti con l’infanzia di Giovanni Battista e delle rivelazioni divine connesse con la nascita e la presentazione al tempio, ci trasporta al tempo in cui il bambino Gesù aveva circa un anno di età. Alcuni orientali, che Matteo chiama semplicemente “Magi”, o Maghi, arrivarono in quel tempo a Gerusalemme, chiedendo con insistenza: «Dov’è il re dei Giudei che è nato?». Forse erano tre, ma certo non erano re, altrimenti Matteo lo avrebbe

detto. In quanto Magi, probabilmente persiani, addetti all’osservazione degli astri, avevano notato una stella straordinaria o una costellazione dalla quale avevano dedotto che il Messia atteso dagli Ebrei era finalmente nato. Così erano venuti a Gerusalemme, persuasi che il Re-Messia dovesse conseguentemente trovarsi nella sua città capitale. Ma il re dei Giudei era da più di trent’anni il vecchio Erode, che già aveva condannato a morte due suoi figli e prima di morire ne avrebbe fatto uccidere un terzo. Dissimulando i suoi sospetti, Erode domandò ai sacerdoti e agli esperti delle Sacre Scritture dove sarebbe nato il Messia. Sulla base di una profezia di Michea, quelli risposero che la patria del Messia doveva essere Betlemme. Allora Erode fece venire segretamente i Magi, s’informò del tempo in cui in oriente era apparsa la stella, e raccomandò loro di cercare il neonato Messia: «Andate e informatevi accuratamente

del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Usciti dall’udienza, i Magi si diressero verso Betlemme, lontana non più di nove chilometri, circa due ore di cammino. Era ormai quasi notte, e agli occhi stupefatti dei Magi apparve come in una visione la stella che avevano visto in oriente. La visione si muoveva nell’aria, facendo da guida, finché giunse sulla casa dov’era Gesù bambino con Maria sua madre. Stupiti per la povertà dell’ambiente, ma illuminati internamente dalla grazia del Signore, i Magi si prostrarono in adorazione davanti al bambino. Poi dai loro bagagli trassero i doni preparati: oro, incenso e mirra. Erano i prodotti del loro paese ma, forse senza saperlo, avevano offerto i simboli della misteriosa personalità di quel bambino: oro, come a un re; incenso, come a un dio; mirra, l’amaro aroma delle sepolture, all’uomo che per amore degli uomini sarebbe andato

incontro alla morte. Quella notte i Magi furono avvertiti da una visione di non ripassare da Erode, mentre a Giuseppe fu ordinato di prendere la madre e il bambino e di fuggire in Egitto. Erode infatti, tormentato dalla gelosia e dai sospetti che si tramasse qualche cosa contro di lui, non vedendo ritornare i Magi, cercava Gesù per metterlo a morte. Non potendo individuarlo, mandò dei soldati ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e dei dintorni, dai due anni in giù, sicuro di includervi anche Gesù. Ma Gesù era ormai lontano, sulla strada dell’Egitto. Dopo la morte di Erode, Giuseppe, ritornato dall’Egitto avrebbe desiderato stabilirsi a Betlemme. Ma in Giudea governava Archelao, crudele più di suo padre Erode; Giuseppe preferì allora stabilirsi a Nazaret in Galilea, nella vecchia casa.


Luca 2,41-52 Luca 2,41-52

7. A dodici anni Gesù compie un pellegrinaggio a Gerusalemme. Nel tempio si ferma a discutere con i dottori, suscitando l’ammirazione generale. Poi ritorna a Nazaret dove vive in obbedienza ai genitori Gesù era ancora un piccolo fanciullo quando Giuseppe, tornato dall’Egitto con Maria e il bambino, si stabilì nel villaggio di Nazaret riadattando la vecchia casa e riorganizzando la sua attività di falegname. Abile e apprezzato artigiano, costruiva aratri, gioghi per buoi, battenti di porte, travature per le case più ricche. Il lavoro non mancava e la famiglia viveva in una povertà decorosa e onorata. Di Gesù fanciullo il Vangelo non narra fatti miracolosi: dice solo che cresceva in sapienza, età e grazia. Apparentemente era solo un caro ragazzo che mostrava un’intelligenza superiore alla sua età. Il mistero della sua natura divina rimaneva perciò nascosto, tanto che anche Maria e Giuseppe si erano abituati a trattarlo come un ragazzo comune, per

nulla imbarazzati nel chiedergli piccoli servizi e nell’ottenere ubbidienza da un figlio rispettoso. Un solo episodio venne a turbare la serenità di quella famiglia. La legge ebraica prescriveva tre pellegrinaggi al tempio di Gerusalemme in occasione delle feste di Pasqua, di Pentecoste e delle Capanne. Quando però la distanza superava il cammino di una giornata, non vi era obbligo. Nazaret dista da Gerusalemme tre o quattro giorni di cammino, ma Giuseppe, con molti altri, si recava a Gerusalemme almeno per la Pasqua, perché l’agnello pasquale si poteva mangiare solo in Gerusalemme, dopo averlo sacrificato nel tempio. Quella volta Gesù non aveva ancora l’età e non era obbligato, ma si era già abituato ad accompagnare Giuseppe e Maria. Le feste di Pasqua

duravano sette giorni, tuttavia dopo il terzo giorno molti pellegrini facevano i loro bagagli e lasciavano Gerusalemme, la Città Santa. Anche Giuseppe e Maria si unirono ad una carovana e iniziarono il viaggio di ritorno. Avevano perso di vista Gesù, ma non se ne davano pensiero, pensando che fosse con qualche gruppo di ragazzi della carovana o presso parenti e conoscenti. Ma alla sera, quando tutti si fermavano per il pernottamento e si ricostituivano i gruppi familiari, Gesù non si trovava con nessun gruppo. Preoccupati, Giuseppe e Maria, temendo che al ragazzo fosse capitata qualche disgrazia, attesero le prime luci del mattino e ritornarono a Gerusalemme. Lo cercarono per tutta la città, finché il terzo giorno pensarono di cercarlo nel tempio. Gesù era là!

In una delle sale aperte al pubblico o sotto un porticato, il ragazzo sedeva in mezzo a un gruppo di anziani dottori della Sacra Scrittura. Faceva delle domande e rispondeva con tanta intelligenza, che tutti i presenti restavano meravigliati. Approfittando di un momento di pausa, Maria lo interpellò con voce di pianto: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». La risposta del ragazzo fu misteriosa: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ai diritti di Giuseppe e Maria Gesù antepone i diritti di Dio Padre; per fare la sua volontà Gesù avrebbe a suo tempo affrontato una missione che doveva anteporre agli affetti più cari. Poi Gesù tornò a Nazaret e, cresciuto, aiutava Giuseppe nel suo lavoro, sempre obbediente e rispettoso.


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per controllare le folle e prevenire torbidi e ribellioni. Ecco perché al tempo di Gesù troviamo a Gerusalemme il governatore romano Ponzio Pilato arbitro della situazione, così che senza il suo intervento i nemici di Gesù non avrebbero potuto eseguire la sentenza di morte. Il figlio minore di Erode, chiamato anche lui Erode ma con l’aggiunta del nome del nonno Antipa, ottenne il governo della Galilea e di un tratto della regione oltre il Giordano, chiamato Perea. Erode Antipa non era re ma “tetrarca”, cioè “principe di una quarta parte”. Questo Erode fece costruire Tiberiade, sua capitale, in onore dell’imperatore Tiberio. Un altro figlio di Erode, chiamato Filippo, pure col titolo di tetrarca, ottenne il governo delle regioni a nord e a est del lago di Tiberiade (o di Genesaret), regioni chiamate Traconitide, Gaulanitide (oggi si chiama Golan), Batanea e Auranitide (oggi Hauran). Ingrandì la città di Paneas, presso una delle sorgenti del Giordano, e la chiamò Cesarea in onore dell’imperatore. È la “Cesarea di Filippo” menzionata nel Vangelo. Non furono date ai successori di Erode le città libere della Decapoli (“Dieci città”), che si governavano con proprie leggi. Tranne Scitopoli (in ebraico Bet-Shean), erano situate al di là del Giordano ed erano popolate da pagani. Le principali erano Gadara e Gerasa.

Traconitide

● Betsaida Corazin ● Cafarnao ● Lago di Tiberiade

● Nazaret

La vita pubblica di Gesù, cioè il tempo della sua predicazione fino alla morte in croce, si svolge negli anni 28-30. Dall’anno 14 d.C. governava a Roma l’imperatore Tiberio. A quel tempo l’impero romano non aveva ancora raggiunto la sua massima espansione, ma già comprendeva, oltre l’Italia, la Spagna, la Gallia, la Dalmazia e la Grecia, avendo come confine nord-orientale il Reno e il Danubio, oltre i quali vivevano minacciosi i Germani ed altri popoli barbari. L’impero dominava anche sulle coste africane, dalla Numidia all’Egitto; in oriente controllava l’Asia Minore e la Siria fino all’Eufrate, includendo piccoli regni vassalli, come quello di Cappadocia, dell’Armenia Minore e, in Palestina, i territori governati dai successori di Erode. Questi aveva ottenuto dai Romani un regno chiamato “Giudea”, che però comprendeva tutta la Palestina e alcuni territori adiacenti. Morto Erode nell’anno 4 a.C. (Gesù era già nato e aveva forse tre anni), il suo regno fu diviso tra i figli, ma l’imperatore Cesare Augusto non permise che avessero il titolo di re. Il figlio maggiore, Archelao, ebbe il governo della Giudea e della Samaria, con il titolo di “etnarca”, cioè “principe della nazione”. Ma data la sua crudeltà, dopo nove anni di governo, cioè nel 6 d.C., fu deposto dall’imperatore e mandato in esilio. I territori da lui governati furono allora posti sotto il diretto controllo romano, in dipendenza della provincia di Siria, ma con un governatore proprio. Questi, chiamato “prefetto” o “procuratore”, risiedeva a Cesarea, ma teneva un forte presidio militare anche a Gerusalemme, dove si recava con altre scorte militari nelle grandi feste,

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8. L’Impero Romano e la Palestina al tempo di Gesù. L’impero, governato da Tiberio, ha quasi raggiunto la massima espansione; la Palestina è divisa in tre province governate da due figli di Erode e da un governatore romano

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Sidone


9. Gruppi e partiti ebraici all’inizio dell’era cristiana Ai tempi di Gesù non tutta la Palestina era abitata da Ebrei (o Giudei) che avevano la religione rivelata da Dio e registrata nella Sacra Scrittura. Vi erano anche popolazioni pagane, di cultura e di lingua greca: esse costituivano la quasi totalità nella Decapoli, nella tetrarchia di Filippo e sulle coste del mare. Inoltre tra la Galilea e la Giudea, dove gli Ebrei formavano una maggioranza abbastanza compatta, s’interponeva la vasta regione della Samaria, abitata dai Samaritani. Di origine mista e di religione simile all’ebraica (veneravano i primi cinque libri della Bibbia, il Pentateuco), ma inquinata da elementi estranei, i Samaritani erano considerati dagli Ebrei come stranieri e pagani. Ma anche tra gli Ebrei vi erano forti differenze di idee e di condizioni sociali. Quanto alle idee, tra gli stessi sacerdoti addetti al tempio (tutti e solo gli appartenenti a certe famiglie, ritenute

discendenti di Aronne, erano sacerdoti) vi erano profonde differenze. Gli appartenenti alle famiglie più distinte e ricche erano seguaci della setta o partito dei Sadducei, la classe dominante, amica dei Romani per opportunismo. I sacerdoti delle famiglie più modeste, fedeli esecutori delle loro funzioni sacre da cui traevano il sostentamento, propendevano invece per la setta dei Farisei. La differenza fondamentale tra Sadducei e Farisei consisteva nel fatto che i primi accettavano come norma religiosa solo la Legge di Mosè, cioè i primi cinque libri della Bibbia, mentre i Farisei ritenevano normativi anche gli altri libri e la tradizione orale. Di conseguenza i Sadducei negavano la risurrezione e l’esistenza degli angeli, mentre i Farisei ammettevano queste e altre verità, quali il giudizio universale e la vita futura, paradiso e inferno (Geenna). Il difetto dei Farisei era duplice: anzitutto rendevano più difficile l’osservanza

dei comandamenti, specialmente per quanto riguardava il riposo del sabato e le purificazioni rituali; in secondo luogo si vantavano di osservare la legge divina e disprezzavano gli altri. Inoltre, la loro osservanza spesso era solo esteriore, mentre sfuggiva loro il vero spirito della legge. Per questo Gesù, trascurando i Sadducei, che nessuno stimava, rimproverava i Farisei e metteva in guardia il popolo dal seguire il loro esempio. Al loro partito infatti appartenevano anche i dottori della legge, detti Scribi, cioè trascrittori e studiosi della Bibbia, che si facevano chiamare “rabbi”, nel senso di maestri. Notiamo che anche Gesù era chiamato rabbi, perché si dimostrava maestro del popolo e come i rabbi più celebri aveva i suoi discepoli. Altro partito o movimento era quello degli Zeloti, cioè zelanti della religione patria, che si preparavano a difendere con la forza delle armi. Mentre i Farisei seguivano il criterio del compromesso, in attesa di tempi migliori, gli Zeloti ritenevano cosa intollerabile che il popolo di Dio fosse governato dai pagani. Al tempo di Gesù gli Zeloti erano solo agli inizi del loro movimento, che culminerà nella rivolta degli anni 66-70.

Zeloti

Esseni

Altra setta era quella degli Esseni, che avevano il loro centro nel deserto presso il Mar Morto, vivevano nel celibato e nella preghiera continua, come monaci, e non frequentavano il tempio, perché consideravano illegittimo il sacerdozio in carica.

Farisei

Sadducei

Sacerdoti


Luca 3,1-17

Matteo 3,13-17

Gli inizi della vita pubblica 10. La fama di Giovanni il Battista, che predica la conversione e impone il battesimo di penitenza, giunge fino a Gesù in Galilea. Egli si reca da Giovanni per farsi battezzare e con la conferma del padre inizia la sua missione

Era il quattordicesimo anno dell’impero di Tiberio (nel 27-28 d.C.), quando sulle rive del Giordano, nella zona quasi deserta in faccia a Gerico, comparve Giovanni Battista (cioè “il battezzatore”), il figlio di Zaccaria, che fino ad allora era vissuto in luoghi deserti nel digiuno e nella preghiera. Già il suo vestito di peli di cammello, simile a quello degli antichi profeti, attirava la meraviglia delle folle, ma più ancora le sue parole: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Alle folle che venivano a lui da ogni parte, imponeva un battesimo di penitenza. Faceva immergere ciascuno nelle acque del Giordano, mentre colui che si immergeva confessava i suoi peccati: era un simbolo della purificazione interiore, che doveva consistere nel cambiare mentalità e vita, per prepararsi all’imminente manifestazione del Messia. Con la gente superba le sue parole erano

durissime: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente? Fate dunque opere degne della conversione... La scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco». Invece alla gente semplice, che impressionata domandava: «Che cosa dobbiamo fare?», rispondeva col programma del povero che aiuta il povero: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». La fama del nuovo profeta si sparse ben presto in tutta la Giudea e la Galilea. Molti spontaneamente si domandavano se non fosse proprio lui il Messia che tutti aspettavano. Era questa l’occasione perché Giovanni ribadisse la sua testimonianza e riaccendesse l’attesa: «Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali:

costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Anche a Nazaret era giunta la fama di Giovanni, e Gesù, sapendo che era arrivato il momento di dare inizio alla sua missione, salutò la madre (Giuseppe era morto già da qualche tempo) e si avviò verso la valle del Giordano per ricevere anche lui il battesimo da Giovanni. Arrivato sul posto, dove molta gente aspettava, si mise in coda con gli altri, lui, l’innocente, solidale con gli uomini peccatori e bisognosi di perdono. Quando Giovanni se lo vide davanti, rimase perplesso: «Io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?»; ma poi cedette all’insistenza di Gesù, che si spogliò ed entrò nell’acqua come gli altri. Giovanni lo fece curvare, versandogli acqua sul capo e sulle spalle. Appena Gesù fu uscito dall’acqua con le braccia tese in atto di preghiera vide, e con lui Giovanni, una meravigliosa

apparizione. Il cielo sembrò aprirsi sopra di lui e, mentre una colomba, simbolo e manifestazione dello Spirito Santo, scendeva sul suo capo, una voce misteriosa, la voce di Dio Padre, si fece udire dal cielo: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto!». Con questa visione Gesù fu incoraggiato e nuovamente consacrato per la nuova fase della sua esistenza terrena, la missione cioè di istruire e salvare gli uomini fino al sacrificio della sua vita. L’apparizione dello Spirito Santo in forma di colomba rievocava la colomba di Noè, annunciatrice di un mondo rinnovato dopo il diluvio: da questo momento per mezzo di Gesù e in Gesù doveva incominciare una nuova creazione, quella dei battezzati nell’acqua e nello Spirito Santo per formare il nuovo popolo dei figli di Dio.


Matteo 4,1-11

11. Dopo 40 giorni di preghiera nel deserto, il diavolo sottopone Gesù a tre prove. Nell’illustrazione Gesù è sul pinnacolo del tempio quando il diavolo gli suggerisce di buttarsi giù per mettere alla prova la provvidenza di Dio Dopo aver ricevuto il battesimo, Gesù salutò Giovanni e si diresse verso il deserto. Non occorreva fare molta strada: a pochi chilometri dal Giordano, oltre l’oasi di Gerico, incomincia il deserto di Giuda, cioè della Giudea, deserto non di sabbia, ma di colline rocciose. Gesù salì tra le rocce, inoltrandosi sempre più lontano dagli uomini, per restare solo con Dio, assorto nella preghiera. Voleva insegnarci che solo la preghiera può dare la forza per far riuscire le opere grandi. Gesù rimase in preghiera per quaranta giorni in completo digiuno. Come Mosè, rimasto solo con Dio sul Sinai per quaranta giorni senza mangiare per ricevere le tavole della legge divina con le quali governare il popolo di Dio, Gesù prega e digiuna per dare inizio all’opera della salvezza e della creazione del nuovo popolo di Dio. Alla fine dei quaranta giorni, la forza divina che lo aveva sostenuto e come rapito in estasi, improvvisamente lo abbandonò, e Gesù si trovò come un povero uomo tormentato dalla fame.

A questo punto il Vangelo ci presenta un personaggio nuovo, di cui poco avevano parlato le Sacre Scritture: il diavolo. “Diavolo” in greco e “satana” in ebraico vuol dire “accusatore, calunniatore”, colui che vuol dimostrare a Dio che gli uomini sono cattivi, e che per far dispetto a Dio tenta gli uomini al male, per farli diventare veramente cattivi. Il diavolo era un angelo, ma per superbia si era ribellato a Dio con un esercito di altri angeli, che divennero così dei diavoli o demoni, spiriti intelligenti che hanno scelto una volta per sempre di essere nemici di Dio e degli uomini. Il diavolo non era sicuro che Gesù fosse il Messia e che avesse poteri divini, ma lo sospettava da alcuni indizi. Così tentò Gesù: «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane». Gesù respinge la tentazione citando la Parola di Dio, la Sacra Scrittura: «Sta scritto: non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Allora il diavolo trasportò Gesù sul “pinnacolo” del tempio di Gerusalemme, cioè sul punto più alto del tetto e, citando anche lui la Sacra Scrittura, tentò di ingannare Gesù: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede». E Gesù: «Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo» cioè non pretendere da Dio un miracolo non necessario. Allora il diavolo, scoprendo più chiaramente la sua intenzione, dall’alto di una montagna fece apparire davanti a Gesù tutti i regni del mondo e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». Ma Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto: adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto». Scomparve allora il diavolo, e vennero gli angeli, portando a Gesù il ristoro necessario.


Giovanni 1,35-51 Matteo 4,18-22; 9,9

Qualche tempo dopo, trovandosi a Cafarnao, Gesù vide un certo Levi, chiamato anche Matteo, di professione pubblicano, cioè esattore delle tasse, che stava seduto al banco delle imposte. Gli disse: «Seguimi», ed anche Matteo, lasciato il suo mestiere, si mise al seguito di Gesù. Altri seguivano Gesù abitualmente, come suoi discepoli, finché un giorno, dopo una notte passata in preghiera, Gesù ne scelse dodici, perché stessero sempre con lui. Essi erano: Simone, detto Pietro, Giacomo e Giovanni, Andrea, Filippo, Matteo, Bartolomeo, Tommaso, Giacomo di Alfeo (o Giacomo il minore), Taddeo, Simone detto il Cananeo e lo Zelota, e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradirà. Essi si chiamavano “i dodici” e in seguito “apostoli”, cioè “inviati”, quando Gesù li mandò ad annunciare il regno di Dio, senza che potessero portare nulla per il viaggio, né bastone né bisaccia, né pane né denaro, né vesti di ricambio, unicamente fidandosi della provvidenza divina e dell’ospitalità della buona gente.

ed essi ne ebbero un’impressione profonda: certamente quell’uomo straordinario doveva essere il Messia! Andrea in seguito condusse a Gesù il fratello Simone, a cui Gesù disse: «Ti chiamerai Cefa» cioè “Pietro”. Andrea e Pietro erano di Betsaida, villaggio di pescatori sulla riva del lago di Genesaret. Dovevano tornare nel loro paese, in Galilea, e Gesù si unì a loro. Quando Gesù fu in Galilea, incontrò un altro pescatore di Betsaida, Filippo, che rimase con lui, ma si sentì subito in dovere di condurre a Gesù il suo amico Natanaele, detto anche Bartolomeo, cioè “figlio di Tolomeo”. Natanaele stava pregando sotto un fico, quando Filippo venne a dirgli con entusiasmo: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret». Natanaele replicò: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Filippo rispose: «Vieni e vedi».

12. Gesù sceglie i suoi discepoli tra la gente semplice, dedita al lavoro. I fratelli Pietro e Andrea e Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre attendono alla pesca, Natanaele è scelto in una pausa di riposo, Matteo è chiamato dal tavolo di esattore di imposte Uscito dal deserto, Gesù si trattenne qualche tempo presso il luogo dove Giovanni Battista battezzava, e qui incontrò per la prima volta quelli che sarebbero stati i suoi primi discepoli. Erano due affezionati ascoltatori di Giovanni Battista, uno si chiamava Andrea e l’altro, più giovane, Giovanni. Quando il Battista rivide Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». Con questa immagine indicava Gesù come la vittima di un sacrificio, quello che doveva essere il sacrificio sulla croce. Allora Andrea e Giovanni seguirono Gesù e gli dissero: «Rabbi (che significa maestro), dove abiti?». Gesù li condusse nel suo rifugio, conversò con loro tutto il pomeriggio

Gesù vedendo Natanaele che gli veniva incontro, disse: «Ecco davvero un Israelita, in cui non c’è falsità». Natanaele gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico». Gli replicò Natanaele: «Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». Questi primi discepoli sembra che solo saltuariamente stessero con Gesù, mentre il maestro iniziava i suoi giri di predicazione a Cafarnao e nei paesi attorno al lago. Lo ascoltavano con ammirazione e poi tornavano al loro lavoro. Ma un giorno Gesù, passando lungo la riva del lago, vide Simone (cioè Pietro) che col fratello Andrea era intento a pescare. Li chiamò con decisione: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». Quelli subito lasciarono il loro mestiere e si misero al seguito di Gesù. Più avanti Gesù vide in una barca un certo Zebedeo, che con i due figli Giovanni (quello già incontrato presso il Battista) e Giacomo stava riassettando le reti. Alla chiamata di Gesù i due fratelli abbandonarono il padre e si misero anche loro al seguito del maestro.


Giovanni 2

13. I primi miracoli di Gesù: a Cana trasforma l’acqua in vino; a Gerusalemme caccia i venditori dal tempio Gesù da poco tempo aveva iniziato i suoi giri di predicazione in Galilea, proclamando nelle città e nei villaggi: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al lieto annunzio» (Marco 1,5). Era il lieto annunzio che Dio ama gli uomini e che era venuto il tempo in cui questo amore si sarebbe manifestato nel Messia. Fu in quel tempo che Gesù con i suoi primi discepoli venne invitato a un banchetto di nozze. Questo festoso raduno di parenti e amici si celebrava a Cana, un villaggio non lontano da Nazaret, e anche Maria, la madre di Gesù, era tra gli invitati. Se non che nel corso del banchetto venne a mancare il vino. Maria, con la sua sensibilità, se ne accorse subito e rivolse una preghiera a Gesù: «Non hanno più vino». Gesù

sembrò fare difficoltà: «Non è ancora giunta la mia ora». Invece Maria intuì l’intenzione del figlio e disse ai servi: «Fate quello che vi dirà». Vi erano là sei grandi giare per l’acqua delle abluzioni, che gli Ebrei praticavano prima di prendere cibo. Erano vuote o quasi. Gesù ordinò ai servi: «Riempite d’acqua le giare». Le riempirono fino all’orlo. Continuò Gesù: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». L’acqua era diventata vino squisito! Il maestro di tavola, assaggiato il vino, si complimentò con lo sposo: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono». Naturalmente i servi si erano accorti del miracolo e anche i discepoli di Gesù, che ebbero

un motivo di più per credere nella misteriosa personalità del loro maestro. Fu quello il primo miracolo di Gesù, ottenuto dalla preghiera di Maria, atto di bontà verso gli sposi, per non guastare la loro gioia. Il miracolo era anche segno della missione di Gesù; il vino era simbolo dell’amore divino che si sarebbe manifestato pienamente nell’ora a cui alludeva Gesù, l’ora della sua morte in croce e della sua glorificazione, ma che già era in atto nella sua predicazione e nei suoi miracoli. Dopo qualche tempo, ricorreva la Pasqua degli Ebrei e Gesù, come di consueto, si recò con molti pellegrini a Gerusalemme. Nei portici del tempio trovò i mercanti che vendevano buoi, pecore e colombe per i sacrifici e i cambiavalute per le offerte al santuario,

seduti al loro banco. Tante volte aveva visto questo triste spettacolo, ma questa volta volle agire con l’autorità di Messia. Prese una sferza di cordicelle e cacciò tutti fuori dal luogo sacro, dicendo: «Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato». Intervennero allora i responsabili del tempio e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Gesù rispose alludendo alla sua futura risurrezione: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Parlava del tempio del suo corpo, ma quelli non compresero. Tuttavia, durante la sua permanenza a Gerusalemme, Gesù ebbe modo di operare dei miracoli, predisponendo così la folla dei pellegrini ad ascoltare la sua predicazione.


Giovanni 3,1-21; 4,4-42

14. Un noto fariseo di nome Nicodemo si reca di notte da Gesù che lo istruisce sulla sua dottrina. Presso un pozzo della Samaria, Gesù incontra una donna alla quale si rivela come il Messia

Mentre Gesù si trovava a Gerusalemme per le feste di Pasqua, che duravano sette giorni, un fariseo, dottore della legge di condizione altolocata, rimase impressionato dai suoi miracoli e dal suo parlare con autorità, che dava sicurezza agli ascoltatori. Per evitare le critiche dei suoi colleghi, il fariseo che si chiamava Nicodemo, andò da Gesù di notte, così che nessuno lo venisse a sapere. Già stimava Gesù come un maestro venuto da Dio, desiderava ora maggior luce sulla dottrina, che gli sembrava nuova. Gesù accoglie quel desiderio, ma prima vuol scuotere la fiducia che quel fariseo ha nella propria scienza. Bisogna cominciare daccapo! «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». Il dottore della legge non capisce: «Come può un uomo nascere quando è già vecchio?». E Gesù spiega: si tratta di una nascita spirituale «dall’acqua e dallo Spirito Santo», cioè per mezzo del battesimo. Questa nascita fa vivere una vita nuova «la vita eterna», animata appunto dallo Spirito Santo. Nicodemo dovrebbe sapere che l’effusione dello Spirito Santo è stata promessa nei libri dei profeti, e che sarà data nei tempi del Messia. Ma, prima, colui che è venuto dal cielo, il Figlio dell’uomo, dovrà morire sulla croce, e così essere causa di salvezza e meritare il dono dello Spirito per tutti quelli che crederanno in lui. Tutto questo è opera dell’amore di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna». Nicodemo non dovette comprendere tutto, ma rimase affezionato a Gesù: lo difenderà nel sinedrio e provvederà con Giuseppe d’Arimatea alla sepoltura del maestro. Da Gerusalemme e dalla Giudea Gesù si diresse verso la Galilea, attraversando la Samaria.

Sull’ora del mezzogiorno giunse nei pressi di una città chiamata Sicar e si sedette accanto a un pozzo, stanco per il viaggio, mentre i suoi discepoli andavano in paese a far provvista di cibo. Arrivò al pozzo una donna samaritana con l’anfora per attingere. Gesù le disse: «Dammi da bere». La donna rimase meravigliata, perché i Giudei consideravano i Samaritani al pari dei pagani come esseri impuri. «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». La donna accetta di dialogare, e questa accettazione la condurrà alla fede. Le dice Gesù: «Se tu conoscessi il dono di Dio!» e promette un’acqua che disseta per la vita eterna. Questa acqua è simbolo del dono dello Spirito, della vita nuova, di cui Gesù aveva parlato a Nicodemo. Ma la donna non capisce, chiede un’acqua che tolga per sempre la sete, per non faticare ad attingere. Gesù allora le dice: «Va’ a chiamare tuo marito». «Non ho marito», risponde la donna. Gesù allora le rivela la sua vita segreta: «Hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito». La donna comprende che Gesù è un profeta e pone una questione religiosa: “Noi Samaritani adoriamo Dio su questo monte (cioè il Garizim) invece voi dite che bisogna adorare nel tempio di Gerusalemme”. Gesù allora parla dei tempi nuovi, quando «i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità». Risponde la donna: «So che deve venire il Messia; quando egli verrà ci annunzierà ogni cosa». Allora Gesù si rivela: «Sono io, che ti parlo». La donna credette: lasciò la brocca e corse a chiamare i suoi compaesani, che vennero da Gesù, lo riconobbero come «il salvatore del mondo», e lo trattennero con sé due giorni.


Giovanni 3,27-30

15. Per la sua testimonianza Giovanni Battista viene incarcerato e decapitato Da poco tempo Gesù, accompagnato dai primi discepoli, aveva cominciato a percorrere la Giudea e la Galilea, predicando e operando guarigioni, e già molta gente accorreva a lui da ogni parte. I discepoli di Giovanni Battista se ne ebbero a male, divennero gelosi per il loro maestro, come se Gesù gli facesse concorrenza, e se ne lamentarono presso Giovanni. Ciò diede occasione all’ultima, nobilissima testimonianza del Battista: «Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire». La venuta del Messia è come una festa di nozze: Gesù è il re della festa, Giovanni invece è solo il suo amico, colui che ha preparato la festa ed ora sta per ritirarsi. Anche in questo Giovanni fu profeta. Poco tempo dopo, per ordine del tetrarca Erode Antipa, egli veniva arrestato e chiuso in carcere nella fortezza di Macheronte, a oriente del Mar Morto. Giovanni infatti aveva avuto il coraggio di presentarsi a Erode, rimproverandolo per Io scandalo di aver preso come moglie Erodiade, la moglie di suo fratello Erode Filippo, che viveva a Roma da cittadino privato. Erodiade odiava Giovanni e spingeva il tetrarca a ucciderlo ma Erode voleva solo tenerlo sotto sorveglianza e permetteva ai discepoli di andarlo a trovare in carcere. Un giorno Giovanni, prevedendo vicina la morte, pensò

di indirizzare i discepoli a Gesù. A questo scopo mandò due suoi discepoli perché facessero a Gesù la seguente domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?». La risposta di Gesù, alludendo alle antiche profezie, mostrava che esse stavano realizzandosi: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me». Erodiade attendeva il momento propizio per strappare a Erode la condanna a morte di Giovanni. Questo momento si presentò in occasione di un sontuoso banchetto per il compleanno di Erode. Nella fortezza di Macheronte, sua residenza estiva, Erode pranzava con i suoi ministri e i notabili della Galilea. Quando già il vino cominciava a far sentire i suoi effetti, Erodiade mandò nella sala del banchetto la giovanissima figlia Salomè, nata dal primo matrimonio. Salomè era un’abilissima ballerina e danzò, attirandosi l’ammirazione di Erode. Alla fine Erode disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò» e aggiunse un giuramento: «Fosse anche la metà del mio regno, te la darò». La ragazza uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Rispose: «La testa di Giovanni il Battista». Salomè rientrò di corsa e disse: «Voglio che tu mi

dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista». Erode ci rimase male, ma temendo le critiche dei commensali presenti al giuramento, mandò nel carcere una guardia con l’ordine di tagliare la testa a Giovanni e di portarla subito su un vassoio. Poco dopo la testa insanguinata fu portata nella sala da pranzo: la guardia la diede alla ragazza e questa la portò alla madre. Erodiade aveva vinto! Vennero poi i discepoli di Giovanni, recuperarono il cadavere e lo seppellirono con onore. Così Giovanni chiuse la sua missione profetica con la testimonianza del martirio.

Matteo 11,2-6

Marco 6,17-29


In Galilea

Marco 1,21-2,12

16. La prima attività di Gesù si svolge in Galilea. Girando per questa regione, Gesù libera ossessi e indemoniati, guarisce lebbrosi e paralitici Per circa un anno la Galilea, con le sue campagne intensamente coltivate, disseminate di villaggi e di cascinali, con i villaggi di pescatori attorno al lago di Genesaret, fu il campo preferito dell’attività di Gesù. All’insegnamento si aggiungevano i miracoli, e per questo la gente veniva a lui da ogni parte portando infermi su barelle, ciechi, sordomuti, epilettici e anche indemoniati, cioè persone dal comportamento strano, che parlavano e agivano mossi da un demonio che li possedeva. Gesù guariva gli ammalati e liberava gli indemoniati. Con ciò non soltanto mostrava la sua bontà e compassione per gli infelici, ma proclamava

che ormai il regno di Satana non era più incontrastato, perché il regno di Dio era già in azione nella persona di Gesù stesso. Il vangelo di Marco subito all’inizio ci presenta una giornata tipica di Gesù. A Cafarnao, in un giorno di sabato, quando gli Ebrei si recavano alla sinagoga per pregare e sentire la lettura della Sacra Scrittura, Gesù con i discepoli entra nella sinagoga e predica alla gente ivi riunita. Improvvisamente si sente un grido rauco: «Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio». Era un demonio, che il Vangelo chiama

«spirito immondo»; parlava per bocca di un indemoniato. Gesù lo sgridò: «Taci! Esci da quell’uomo». Si sentì un urlo. Quell’uomo si contorse come in preda a dolori atroci, ma subito si sentì libero e sano, in mezzo allo spavento e alla meraviglia degli astanti. Uscito dalla sinagoga, Gesù si recò nella casa dei fratelli Simone Pietro e Andrea. Erano oriundi di Betsaida, ma si erano stabiliti a Cafarnao. Nella casa, la suocera di Simone era a letto con la febbre. Gesù la prese per mano, la sollevò e la donna, sentendosi perfettamente guarita, si mise a preparare il pranzo per Gesù e i discepoli. Venne la sera, quando cessava l’obbligo del riposo del sabato, e allora una folla enorme si riunì davanti alla porta; Gesù fino a tarda notte guarì gli ammalati e liberò gli indemoniati. Dopo un breve riposo, al mattino quando ancora era buio, Gesù si alzò, uscì solo di casa e si ritirò a pregare in un luogo deserto. Più tardi Pietro con i discepoli, non trovandolo in casa, andò a cercarlo e gli disse: «Tutti ti cercano!». Ma Gesù volle andare in altri villaggi, per predicare anche là. Fu durante

questo giro che un lebbroso, incontrato nella campagna, lo riconobbe, e si gettò in ginocchio supplicando: «Se vuoi, puoi guarirmi!». Gesù, trascurando l’impurità rituale della lebbra, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». E subito la lebbra scomparve. Dopo alcuni giorni, Gesù ritornò a Cafarnao e subito la gente si affollò davanti alla porta. Giunsero quattro uomini portando un paralitico in un lettuccio, ma per la folla non riuscivano a presentarlo al maestro. Allora salirono sul tetto a terrazza, lo scoperchiarono, e calarono il paralitico davanti a Gesù. Vista la loro fede, Gesù disse al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati». Alcuni dottori della legge, che erano presenti, si scandalizzarono: «Chi può rimettere i peccati, se non Dio solo?». Al che Gesù: «Perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua». Quegli, improvvisamente guarito, si alzò e se ne andò tra la meraviglia di tutti che dicevano: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».


Matteo 5

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché erediteranno la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

17. Il discorso della montagna Un giorno Gesù, trovandosi circondato da una folla, si portò sulla spianata di una collina che sovrasta il lago, si sedette davanti ai discepoli e alla folla e si mise ad esporre il suo programma di vita: come si deve vivere e, prima ancora, che mentalità bisogna avere per essere suoi discepoli e appartenere al regno di Dio. È quello che si usa chiamare “il discorso della montagna”, di cui riferiamo alcuni punti essenziali.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.


Luca 7,1-17,36-50

18. Gesù compie tre gesti significativi. Guarisce il servo di un centurione, richiama in vita il figlio di una vedova, rimette i peccati a una donna peccatrice

La Galilea, la regione settentrionale della Palestina, era la terra d’origine di Gesù. Qui egli cominciò la sua predicazione, qui compì i suoi primi miracoli. Ci troviamo a Cafarnao, una città della Galilea sulla sponda nord occidentale del lago di Tiberiade dove, all’inizio della vita pubblica, si era stabilito Gesù. Nella città, oltre agli Israeliti, vivevano alcuni stranieri, in particolare dei soldati. E fu proprio un ufficiale dell’esercito romano, un centurione, a indurre Gesù a operare un importante miracolo. Il centurione era un ammiratore della religione ebraica, un benefattore della sinagoga di Cafarnao, e probabilmente aveva sentito parlare di Gesù. Perciò, quando un suo servitore cadde gravemente malato, tramite i capi della sinagoga si rivolse al maestro di Nazaret chiedendo il suo aiuto. Gesù si stava già dirigendo verso la casa del centurione, quando ecco venirgli incontro alcuni amici dell’ufficiale romano. Portavano un messaggio del centurione che diceva: «Signore, non stare a disturbarti, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito». Grande fu l’ammirazione di Gesù al sentire queste parole. Il centurione aveva capito l’importanza della fede, dell’abbandono fiducioso che solo è meritevole agli occhi di Dio. Gesù, perciò, lodò grandemente la fede del centurione e guarì il suo servitore. Sempre in Galilea, vicino a Nazaret, c’era una cittadina di nome Naim. Gesù vi si stava recando a predicare seguito

dai discepoli quando, giunto alla porta della città, vide avvicinarsi una folla numerosa. Era un corteo funebre che accompagnava alla sepoltura il figlio unico di una vedova, morto in giovane età. Gesù vide la donna, si commosse al suo dolore e, avvicinatosi, le disse semplicemente: «Non piangere!». Poi si accostò alla bara e disse: «Giovinetto, dico a te, alzati». Un grande miracolo, operato dalla sensibilità e misericordia di Gesù: il giovane si alzò e Gesù lo rese alla madre. La fama di Gesù cominciava a diffondersi. Un giorno perfino un fariseo, un certo Simone, lo invitò a pranzo. Gesù era seduto a tavola, quando ecco avvicinarsi una donna. Era una peccatrice che si fermò vicino a lui, gli unse i piedi con dell’unguento, poi li baciava e piangendo li asciugava con i suoi capelli. Una scena commovente di umiliazione e penitenza, ma il fariseo, incredulo e superbo, pensava: questo Gesù non può essere un profeta, altrimenti saprebbe chi è la donna che gli asciuga i piedi. Allora Gesù lo chiamò e gli disse: «Simone, ho una cosa da chiederti. Secondo te, è più grato il debitore cui il padrone ha condonato 500 denari o colui al quale ne ha condonati solo 50?». «Colui che aveva il debito maggiore», rispose Simone. «Hai risposto bene, riprese Gesù. Questa donna è proprio come colui cui sono stati condonati 500 denari. Nei miei confronti lei si è mostrata molto più grata di te e, poiché ha molto amato, le sono rimessi i peccati». L’affermazione di Gesù era grave. Poiché solo Dio può perdonare i peccati, indirettamente affermava di essere Dio. Di qui lo scandalo

dei commensali. Ma Gesù non si scompose. Rivolto alla donna disse: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace». Abbiamo ricordato tre miracoli di Gesù: una guarigione, una risurrezione, una remissione di peccati. È importante riflettere sul significato dei miracoli. Gesù non è un mago o un prestigiatore. I suoi miracoli sono segni della salvezza che egli è venuto a portare. Per questo prima di ogni miracolo egli chiede una confessione di fede, quasi a dimostrare che il miracolo esteriore non è altro che la conferma del miracolo più grande che è avvenuto all’interno dell’uomo.


Marco 4,1-20

19. La parabola del seminatore. La parola di Gesù è come il seme che può cadere sulla strada, su un terreno roccioso, tra le spine e finalmente su terreno fertile. Qui la parola porta molto frutto

Gesù era un uomo del suo tempo e della sua nazione. Di questa egli aveva la lingua, la cultura, il modo di insegnare. Un uso caratteristico dei rabbi, i maestri di Israele, era quello di insegnare servendosi di parabole, cioè di paragoni desunti dalla vita quotidiana. Esse avevano lo scopo di rendere più vivo e incisivo l’insegnamento che si voleva trasmettere. Gesù si servì spesso di questo genere letterario, rivelando straordinarie doti di osservatore della vita quotidiana e di conoscitore del cuore degli uomini. Tra le parabole di Gesù ricordate dagli evangelisti, una delle più belle è quella del seminatore. Secondo l’evangelista Marco, Gesù la raccontò stando seduto su una barca, mentre una grande folla lo ascoltava a terra. Uno scenario imponente, atto a trasmettere un insegnamento importante. Ecco, dunque, la parabola: «Un seminatore andò a seminare, ma non tutta la sua semente cadde su un buon terreno. Parte della semente, difatti, cadde lungo la strada e ben presto gli uccelli se la mangiarono. Un’altra parte della semente cadde su un terreno roccioso, dove non c’era molta terra. Subito germogliò e sembrava

destinata a portare molto frutto, ma quando venne il sole seccò rapidamente perché non aveva radici. Una terza parte cadde tra le spine che la soffocarono. Queste tre parti di semente, dunque, non portarono frutto, ma la quarta parte cadde su un terreno adatto ed ogni seme diede una resa di trenta, sessanta e cento volte». Questa la parabola. Gesù la terminò con un forte appello ai suoi ascoltatori: «Chi ha orecchi per intendere intenda!». Ed è proprio il richiamo all’ascolto, che implica l’accettazione e la pratica della parola, la chiave della parabola. Gesù stesso la spiegò ai suoi discepoli dopo che la folla si era allontanata. La semente sulla strada raffigura colui che sente la parola senza comprenderla. Subito viene il diavolo e gliela porta via. La semente sul suolo roccioso raffigura una persona incostante che gioisce molto, sentendo la parola. Quando però questa gli causa difficoltà o persecuzioni, egli l’abbandona perché la parola non ha messo radici in lui. La semente tra le spine, invece, rappresenta colui che ha sentito la parola, ma poi si è lasciato sopraffare dalle preoccupazioni di questo mondo. Egli vorrebbe seguire la parola, ma questa è resa sterile dal desiderio delle ricchezze, del

potere. Infine, la semente caduta su buon terreno: i rappresenta coloro che ascoltano la parola di Dio e la comprendono. Costoro danno frutto, chi trenta, chi sessanta, chi cento. La parabola del seminatore è dunque un forte richiamo ad ascoltare e mettere in pratica la parola di Gesù. Non basta sentire distrattamente la parola, ma bisogna meditarla, farle mettere radici nel proprio cuore. In tal caso, nonostante ogni resistenza, essa porterà abbondante frutto. Da questo punto di vista la parabola esprime la fiducia di Gesù nella propria predicazione, mentre la condanna del terreno infruttuoso vuole essere una esortazione e una consolazione per i primi discepoli, i primi missionari. Non tutti coloro che sentono la parola si convertono, ma il discepolo non deve scoraggiarsi. Egli deve continuare ad annunciare l’insegnamento del maestro perché chi l’ascolta con la giusta disposizione l’accoglie, la mette in pratica e porta molto frutto.


Marco 4,35-5,43

20. Gesù è il Messia. Non solo guarisce ammalati e libera indemoniati, ma perfino il vento e il mare gli obbediscono

Un giorno Gesù, dopo aver predicato alla folla dalla sponda della barca, disse a Pietro e ai discepoli che si trovavano sulla barca: «Passiamo all’altra riva». Mentre si trovavano al largo, si levò una grande bufera. Gesù era coricato a poppa su un cuscino e dormiva. I discepoli lo svegliarono: «Maestro, non t’importa che moriamo?». Gesù si alzò e disse al lago: «Taci, calmati!». Immediatamente il vento cessò, le acque si distesero e vi fu grande bonaccia. Poi Gesù disse ai discepoli: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». E quelli, intuendo qualche cosa della misteriosa personalità di Gesù, si domandavano: «Chi è dunque costui, al quale il vento e il mare obbediscono?». Giunti all’altra riva, si fece loro incontro un indemoniato. Il demonio che era in lui gridava contro Gesù: «Che hai tu in

comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». Gesù gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Mi chiamo Legione, perché siamo in molti». In quella regione, sul declivio della collina, vi era un numeroso branco di porci al pascolo. Gli spiriti che si trovavano nell’indemoniato, obbligati ad uscire dall’uomo, volevano rimanere almeno nella regione, e dissero a Gesù: «Mandaci in quei porci». Gesù lo permise. Ma i porci, invasati, si misero a correre e precipitarono dal burrone nel lago, dove affogarono tutti: erano circa duemila. I mandriani spaventati chiamarono gli abitanti del paese, che giunsero sul posto e, nonostante vedessero l’uomo guarito, vestito e sano di mente, non vollero aver niente a che fare con Gesù e lo pregarono di andarsene. Si era trattato di un

gesto profetico. Presto, dopo la risurrezione di Gesù, il potere di Satana avrebbe perso terreno anche nel mondo pagano. Ripassato di nuovo il lago, sbarcarono a Cafarnao, dove uno dei capi della sinagoga di nome Giairo si fece largo tra la folla supplicando Gesù: «La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva». Gesù andò con lui, ma la folla lo stringeva e rallentava i suoi passi. Intanto arrivò uno della casa a dire a Giairo: «Tua figlia è morta, perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù gli disse: «Non temere, continua solo ad avere fede!». Giunto alla casa, cacciò fuori tutta la gente che già piangeva, poi entrò nella stanza dove giaceva morta la ragazzina dodicenne, la prese per mano e le disse nella sua lingua: «Talita kum», cioè: Fanciulla, alzati. Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare.


Matteo 9,35-10,42; 23,2-13

Giacomo

Andrea

Giovanni

21. Gesù istruisce e invia in missione i dodici apostoli

Pietro

Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi... Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi... Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato... E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa.

Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi; predicava nelle sinagoghe, nelle piazze o in luoghi appartati dove la sua presenza attirava le folle. Guariva gli infermi che gli portavano, ma le miserie più profonde erano quelle della gente povera e oppressa, gente semplice che i dottori della legge e i Farisei disprezzavano, perché le esigenze di una vita dura non permettevano di conoscere e di praticare tutte le minuzie insegnate come legge di Mosè. Di questi maestri Gesù ebbe a dire: «Legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli con un dito... Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini!». Per questo Gesù un giorno più degli altri si sentì commosso al vedere le folle, perché, dice il Vangelo, «erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore». Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe». Poi decise di moltiplicare la sua presenza in mezzo alla gente mediante i suoi discepoli. Già abbiamo detto che ne aveva scelti dodici, perché stessero sempre con lui. Ora era venuto il momento di farli collaborare alla predicazione della buona novella. Diede loro il potere di guarire ogni sorta di malattie e di scacciare i demoni e li mandò a due a due per i villaggi e le borgate a predicare.

Bartolomeo

Matteo

Filippo

Simone Zelota Giacomo di Alfeo

Tommaso Taddeo Giuda


Marco 6,30-44 Tante volte, in questo volume come in tutta la Bibbia, abbiamo incontrato la parola Messia: essa è essenziale per comprendere Gesù. Gli stessi discepoli e gli evangelisti, sforzandosi di capire chi fosse veramente quell’uomo, non trovarono di meglio che definirlo il Messia, il re salvatore d’Israele. Ecco appunto un miracolo in cui, sullo sfondo dell’Antico Testamento, Gesù agisce e viene compreso come il nuovo Eliseo, il nuovo Mosè, il pastore che raduna e nutre il suo gregge, il Messia che salva il suo popolo. Ci troviamo ancora una volta sulle sponde del lago di Tiberiade, e gli apostoli sono appena tornati da un giro missionario. La gente accorre numerosa, ma i dodici sono stanchi. Con la sua squisita sensibilità, Gesù lo capisce e dice loro: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’». Il gruppo sale dunque su una barca per allontanarsi, ma la folla se ne accorge, intuisce la nuova destinazione e accorre ancor più numerosa da ogni parte,

22. Il nuovo popolo di Dio è nutrito dal pane e dai pesci moltiplicati da Gesù e distribuiti dagli apostoli

addirittura precedendo il gruppo. Sbarcando, Gesù vede tutta quella gente e si commuove: essa è come un gregge senza pastore, solo lui può radunarla e nutrirla. Ecco allora che la nutre a lungo con il suo insegnamento. La sua parola è così affascinante, che nessuno presta attenzione al tempo che passa. Sono gli apostoli i primi a riaversi; si avvicinano a Gesù e gli dicono: «È ormai sera, lascia andare la folla perché possa procurarsi qualcosa da mangiare; qui difatti non c’è niente». La risposta di Gesù è sorprendente: «Voi

stessi date loro da mangiare». Gli apostoli, sempre più meravigliati, replicano: «Vuoi che andiamo a comprare duecento denari di pane per tutta questa folla?». Essi continuano a non capire, e Gesù chiede a sua volta: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Il conto fu presto fatto: c’erano cinque pani e due pesci, una quantità irrisoria per tutta quella folla. Ciononostante, Gesù ordina agli apostoli di far sedere la gente sull’erba, divisa in gruppi di cinquanta o di cento. Il nuovo popolo di Dio è radunato. Gesù, aiutato dagli apostoli, come già Mosè dagli anziani, lo nutre in verdi pascoli: alza gli occhi al cielo, recita la preghiera di benedizione, ed ecco che i pani e i pesci si moltiplicano. Il Salvatore spezza i pani, li dà agli apostoli, questi li distribuiscono alla folla. Il cibo procurato da Gesù per il suo popolo è tanto che addirittura ne avanza. Gli apostoli ricevono l’ordine di ritirare il superfluo e raccolgono ben dodici ceste piene di pani e di pesci. Questo è uno dei miracoli più importanti di Gesù, raccontato da tutti gli evangelisti. Esso serve anche a farci capire che i miracoli non sono solo dei gesti straordinari, ma spiegano e significano la missione di Gesù, degli apostoli, del popolo cristiano.


Giovanni 6,22-71

23. Sulla riva del lago, a Cafarnao, Gesù tiene un importante discorso. Egli è il pane di vita e solo chi mangerà questo pane sarà salvo All’indomani della moltiplicazione miracolosa dei pani, Gesù era sbarcato a Cafarnao, e subito fu circondato dalla folla di quelli che il giorno prima erano stati testimoni del miracolo. Gesù li ammonì per richiamarli a un atteggiamento di fede. Essi avevano mangiato i pani del miracolo ma non avevano compreso che quello era “un segno”, il sigillo che il Padre aveva messo sul Figlio suo per dichiarare autentica la sua missione. A questo ammonimento i Giudei rispondevano che vogliono vedere un “segno” grandioso, come il miracolo della manna: «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». Queste parole diedero occasione a Gesù di proporre un insegnamento unico, ma diviso in due parti. Nella prima parla del pane che è lui stesso, disceso dal cielo per dare agli uomini la vita eterna,

cioè la comunione di vita con Dio, vita che la morte non potrà interrompere e che alla fine del mondo si completerà con la risurrezione del corpo. Nella seconda parte Gesù parla del pane che egli darà, cioè dell’Eucaristia, necessaria per poter rimanere e crescere nella comunione di vita con Gesù e con il Padre. In seguito a questo discorso molti discepoli, che avevano delle mire terrene, rimasero delusi e con grande parte delle folle di Galilea abbandonarono Gesù. Per questo, rendendo ciò, Gesù si rivolse ai dodici apostoli e disse: «Forse anche voi volete andarvene?». Gli rispose Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

Il pane della vita Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete... Tutto ciò che il padre mi dà (cioè i discepoli credenti), verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno... Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non attira il Padre che mi ha mandato... Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo... In verità in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia

la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno. Giovanni 6,35-58


Matteo 16,13-20

Gesù e i discepoli 24. L’apostolo Pietro riconosce Gesù come vero figlio di Dio. Su di lui Gesù potrà costruire la sua chiesa Gesù era venuto sulla terra per parlare al cuore di ogni uomo. Sapeva bene, tuttavia, che non la parola, ma la testimonianza della vita sarebbe stata convincente. Egli si preparava perciò ad affidare i suoi insegnamenti, i suoi esempi, il suo amore soprattutto ai discepoli. Costoro sarebbero rimasti dopo di lui, avrebbero formato la sua comunità, il punto di riferimento per tutti coloro che, negli anni e nei secoli a venire, avrebbero voluto accostarsi a lui e al suo messaggio vivente. Ciò spiega perché Gesù dedicò gran parte della sua vita pubblica alla formazione privilegiata di alcuni uomini che egli si era scelti per amici. Ma anche tra i discepoli dovevano esserci compiti particolari, e qualcuno avrebbe avuto una responsabilità maggiore, anche se tra loro sarebbe stato essenziale raccordo e il reciproco sostegno. Un episodio di grande importanza accadde un giorno, dalle parti di Cesarea, una città che Erode Filippo (figlio di Erode il Grande) aveva di recente ampliato e abbellito, dedicandola appunto a Cesare Augusto. Gesù, mentre passava di lì con i suoi discepoli, ad un tratto si fermò e chiese loro a bruciapelo: «Secondo la gente, io chi sono?». I discepoli erano un po’ imbarazzati. Se ne dicevano tante! Gesù parlava con l’autorità dei profeti; come loro, compiva gesti meravigliosi, e la gente pensava a volte che qualcuno degli antichi protagonisti della storia d’Israele fosse risorto in lui: qualcuno parlava

di Elia, altri di Geremia, altri di Giovanni Battista che Erode aveva appena fatto decapitare. Gesù ascoltava le voci dei discepoli, che si accavallavano. Un po’ sorrideva con affetto, un po’ era addolorato. Poi, ancora all’improvviso, domandò: «Ma, secondo voi, io chi sono?». Tutti tacquero, perché un conto è riferire le chiacchiere degli altri, e un conto è esprimere le proprie convinzioni e intuizioni. Tutti capivano, d’altra parte, che Gesù li stava mettendo alla prova. Ed ecco accadde a Simon Pietro qualcosa di strano: si trovò come pervaso da un entusiasmo sconosciuto, da una certezza che, fino a poco prima, egli stesso non sapeva d’avere, ed esclamò, come travolto da ciò che sentiva dentro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!». Gesù era raggiante: capì subito che il Padre che è nei cieli aveva riempito il cuore di Pietro con una grazia particolare, e gli disse: «Felice te, Simone, figlio di Giovanni! Quello che hai detto non lo hai capito da solo, per una tua bravura, ma te Io ha voluto rivelare il Padre mio che è nei cieli. E io dico a te: tu sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia Chiesa. Le forze del male non la potranno mai sopraffare. A te darò le chiavi del regno dei cieli: le porte che tu aprirai o chiuderai sulla terra verranno aperte o chiuse anche nei cieli».


Matteo 16,21-17,13

25. Gesù annuncia ai discepoli le sofferenze della passione. Poi, quasi a rincuorarli, sale con Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor e per un attimo mostra loro la sua gloria A partire dalla professione di fede dell’apostolo Pietro, Gesù cominciò a intensificare il suo rapporto con i discepoli, spiegando loro gli aspetti più difficili del suo messaggio. Nella mentalità del tempo, l’attesa del Messia, del Salvatore, era molto legata a speranze e immaginazioni di un regno potente di cui egli sarebbe stato sovrano, avvolto di splendore. Gesù invece voleva salvare gli uomini, divenendo simile a loro in tutto (eccetto che nel commettere il peccato), soffrendo con loro e per loro. Cominciò quindi a preannunciare ai discepoli la sua ormai imminente e dolorosa passione. I discepoli proprio non capivano. Pietro stesso quasi rimproverava Gesù delle cose strane che diceva: era per tutti inaccettabile che il maestro, così saggio e potente, dovesse morire come un malfattore. È vero che Gesù parlava anche di una sua conclusiva risurrezione, ma ciò era oscuro e comunque non bastava a togliere lo scandalo dell’ignominia verso cui egli diceva di incamminarsi. Gesù decise perciò di aiutare la fede dei discepoli che gli erano più affezionati, perché in futuro sapessero aiutare gli altri. Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e iniziò la salita del monte Tabor, un bel colle che domina la pianura di Esdrelon. Giunti sulla cima, Gesù cominciò a pregare. Ed ecco che,

mentre pregava, l’aspetto del suo volto cambiò ed egli si trasfigurò: il suo volto splendeva come il sole, le sue vesti divenivano bianche come la luce. Accanto a Gesù, apparvero quindi i due personaggi più celebri dell’Antico Testamento: Mosè, il liberatore del popolo dalla schiavitù d’Egitto, ed Elia, il profeta impetuoso e ardente come il fuoco. I due conversavano con Gesù e parlavano della morte e della risurrezione di lui. I tre discepoli erano caduti con la faccia a terra e avevano l’impressione di sognare. Pietro, senza saper cosa diceva, esclamò: «Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Ancora non aveva finito di parlare, che una nube luminosa avvolse anche i tre discepoli, ed essi udirono una voce celeste che diceva: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo». I tre si prostrarono presi da timore reverenziale, e quando rialzarono la testa non videro più nulla: Gesù era accanto a loro e sembrava di nuovo una persona qualunque. Mentre scendevano dal colle, egli raccomandò loro di tenere il segreto, su quanto avevano visto, fino a dopo la sua risurrezione. Nel ricordo e nell’insegnamento dei discepoli, quest’avvenimento sarebbe rimasto carico di significato: con la venuta di Gesù sulla terra, tutte le cose, gli avvenimenti e le persone sono stati toccati dallo splendore di Dio; con la sua risurrezione, la gloria di Dio ha cominciato a manifestarsi sulla terra; per mezzo della Chiesa di Gesù, tutto dovrà pian piano essere trasfigurato, dovrà cioè lasciar trasparire questa stessa gloria, come un giorno accadde sul Tabor.


Marco 10,13-15; 9,35-50

26. Accogliendo con affetto i bambini, Gesù spiega che occorre diventare come loro per entrare nel regno dei cieli. Ciò significa: essere umili con Dio e con gli uomini; non farsi mai reciprocamente del male; strappare via da sé ciò che induce al peccato; correggersi per il bene e imparare il perdono Gesù approfittava di tutti gli avvenimenti, piccoli o grandi, per educare i suoi discepoli a un nuovo modo di capire la vita, se stessi e gli altri. Un’attenzione particolare egli aveva per i bambini, sia nel trattarli sia nel trarre dai loro atteggiamenti utili insegnamenti per i grandi. Un giorno, presentarono a Gesù dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli ne erano infastiditi: sia perché, come molti adulti, erano abituati

ad essere bruschi con i piccoli, sia perché pensavano che il maestro avesse cose più importanti da fare. Ma Gesù li rimproverò: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non entrerà in esso». Che cosa voleva dire Gesù? I discepoli non erano ben sicuri d’aver capito, ma le cose divennero chiare qualche giorno dopo. Avevano fatto un lungo cammino, e quelli che eran più lontani da Gesù avevano discusso animatamente. Gesù li aveva lasciati fare, ma giunti a casa li interrogò: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?». I discepoli, vergognosi, tacevano perché avevan discusso su chi fosse, tra loro, il discepolo più importante. Ma Gesù aveva indovinato lo stesso: li chiamò attorno a sé, poi chiamò anche un bambino, e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti... Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me».

Insegnava così che la vera grandezza consiste nel diventare come bambini, sia davanti a Dio, con l’umiltà e l’abbandono, sia gli uni verso gli altri, avendo, con tutti, atteggiamenti di servizio e di accoglienza. Una preoccupazione particolare Gesù aveva per gli scandali: giudicava cioè molto duramente coloro che spingono al male i piccoli o le persone più deboli. Sosteneva anzi che un uomo dev’essere disposto a soffrire, a operare anche i tagli più dolorosi, pur di allontanare da sé e dagli altri ogni occasione di male. E non solo bisogna imparare a vivere assieme, senza spingersi reciprocamente al male, occorre soprattutto imparare a correggersi, a trovare cioè il modo migliore per giungere al cuore di chi sbaglia e per aiutarlo a cambiare. C’era poi il grave problema del perdono, su cui Gesù era solito raccontare una bella e triste parabola. Quella di un uomo che aveva contratto col suo re un debito talmente grande che era ormai impossibile per lui pagarlo.

Matteo 18

Il re s’era impietosito e, invece di farlo gettare in prigione, gli aveva condonato tutto. Ma poi quell’uomo, nello stesso giorno, aveva incontrato un suo vicino che gli doveva una piccola somma e l’aveva trattato con durezza, fino a minacciarlo. Il re aveva saputo di questo comportamento assurdo e cattivo, l’aveva fatto chiamare e gli aveva detto: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato; non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». E lo aveva fatto gettare in prigione. Con questo racconto, Gesù voleva insegnare che era inutile che gli uomini chiedessero perdono a Dio dei loro gravissimi peccati se non erano disposti a perdonarsi, gli uni gli altri, le reciproche offese. Chi infatti è contento per il perdono ricevuto da Dio, dimostra questa gioia conservando anche lui nel cuore il desiderio di perdonare.


Matteo 6,7-15

27. Gesù insegna ai discepoli una preghiera nuova, semplice e profonda: il “Padre nostro”. Recitandola, gli uomini lodano Dio, chiedono l’avvento del suo regno, imparano a essere fratelli e apprendono quali sono le cose importanti della vita I discepoli avevano da tempo sulla punta della lingua una domanda che volevano rivolgere a Gesù. Succedeva che spesso, soprattutto al termine di faticose giornate di predicazione, lo vedessero cercare qualche luogo solitario e immergersi in preghiera, completamente assorto. Tutto ciò era in contrasto con l’abitudine di altri “devoti” che pregavano volentieri ad alta voce, stando dritti nelle sinagoghe o perfino nelle piazze, in modo che tutti li vedessero e li ammirassero.

Gesù diceva che erano ipocriti, gente falsa cioè, che badava più a far bella figura davanti agli altri, che non ad instaurare nel cuore un vero rapporto con Dio. Un giorno finalmente i discepoli, un po’ con desiderio e un po’ con curiosità, gli chiesero: «Maestro, insegna a pregare anche a noi». E Gesù acconsentì, rivelando loro una delle più belle preghiere che siano mai state composte, e che è rimasta come la più importante preghiera cristiana. In essa sono da rilevare: la necessità di un clima di perdono e di solidarietà per poterla recitare, perché si tratta di rivolgersi a colui che è padre di tutti (Padre nostro); la preoccupazione di chiedere a Dio anzitutto il dono della sua stessa persona, della sua presenza e del suo amore (le prime tre domande); e l’umiltà quindi di chiedere ciò che ci serve per vivere quotidianamente: il pane, la pace (con Dio e con gli uomini), la liberazione da ogni sorta di pericolo o di male.

Padre nostro Pregando, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancora prima che gliele chiediate. Poi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.


Giovanni 8,1-11 tradiva il proprio marito. Allora la legge ebraica era molto severa nel punire le colpe contro la famiglia. L’adulterio era punito con la pena di morte per lapidazione: il condannato veniva cioè ucciso con un fitto lancio di pietre. Era anzi consuetudine che dovesse cominciare a scagliare la prima pietra chi aveva sostenuto l’accusa. Portarono dunque la donna davanti a Gesù, per vedere se, per la sua bontà, egli si lasciava indurre a contraddire le prescrizioni legali. Gli chiesero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Gesù taceva. Stava seduto, col volto abbassato, anzi si chinò ancor di più e col dito cominciò a tracciare dei segni nella polvere, come se scrivesse. Siccome gli altri malignamente insistevano, Gesù alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». Un silenzio

28. I Farisei conducono a Gesù una donna infedele che, secondo la legge, deve essere condannata a morte. Vogliono mettere in difficoltà il maestro chiedendo il suo parere. Gesù scrive per terra, poi dà la sua risposta: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». La povera donna, abbandonata da tutti, può essere perdonata da Gesù

L’insegnamento di Gesù era così nuovo ed autorevole che non poteva non provocare l’ostilità dei Farisei. Costoro avevano molto da rimproverare a Gesù: innanzi tutto perché stava volentieri in compagnia dei poveri e dei peccatori (come un medico che sta in mezzo ai suoi malati); poi perché si riteneva superiore alla legge, come se avesse potere di interpretarla e di modificarla; poi ancora perché spesso li attaccava, accusandoli d’esser caduti nell’ipocrisia; e infine (ciò che era più intollerabile) perché Gesù a volte osava dire d’essere egli stesso Dio, o almeno Io faceva capire. I Farisei erano perciò continuamente alla ricerca di occasioni per condannarlo, e un giorno credettero proprio di avere trovato quello che cercavano. Era l’alba e, come al solito, Gesù s’era già recato al tempio dove ammaestrava le folle. Ed ecco giungere i Farisei: si trascinavano dietro una donna sorpresa in flagrante adulterio, scoperta cioè mentre

di piombo calò su tutto il gruppo. Gesù continuava a scrivere per terra (forse per ricordare ai Farisei il dito di Dio che – secondo la tradizione – aveva scritto la legge sulle tavole di pietra), finché, pian piano, tutti cominciarono ad andarsene, iniziando dai più vecchi. Chi infatti poteva rischiare di affermare d’esser senza peccato, proprio davanti a lui che leggeva nel cuore di tutti e poteva svelarne i segreti? Rimasero, soli, Gesù e la donna. Egli si alzò e le disse con affetto: «Donna, dove sono (i tuoi accusatori)? Nessuno ti ha condannata?». «Nessuno, Signore» rispose la donna. Allora Gesù la rimproverò con dolcezza: «Neanch’io ti condanno, va’, e d’ora in poi non peccare più». Gesù, senza peccato, era l’unico che avrebbe avuto il diritto di scagliare la prima pietra, ma egli era l’incarnazione dell’amore di Dio per tutti i peccatori e perciò ebbe pietà di lei: la difese, chiedendole solo d’evitare il peccato.


Luca 18,9-14; 19,1-10

29. La parabola del fariseo e del pubblicano. Gesù chiama Zaccheo La radice del peccato dei Farisei era nell’orgoglio e nella presunzione di stare, davanti a Dio e agli uomini, come persone non bisognose di salvezza. Contro questo atteggiamento, Gesù raccontò questa parabola. Una mattina si recarono al tempio a pregare un fariseo e un pubblicano. I Pubblicani erano considerati come pubblici peccatori, perché riscuotevano le tasse per conto dei Romani. Erano perciò odiati e disprezzati. Il fariseo dunque entrò con sicurezza nel tempio e, stando in piedi, cominciò a pregare così: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano». Il pubblicano invece se ne stava in fondo al tempio, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Qui finiva il racconto di Gesù, che però aggiungeva: «Io vi dico che il pubblicano tornò a casa sua perdonato da Dio, a differenza del fariseo che se ne andò portandosi addosso un peccato ancora più grave». Dalla parabola alla realtà. Zaccheo era un pubblicano piccolo di statura e un po’ curioso. Un giorno si sparse la voce che Gesù, quel maestro di cui si raccontavano tante meraviglie,

stava per arrivare proprio a Gerico, la sua città. Zaccheo lo aspettò assieme agli altri lungo la strada, ma – siccome era piccolo di statura – per vederlo meglio, salì su un albero di sicomòro. Finalmente Gesù arrivò e, quando fu sotto quell’albero, alzò gli occhi e disse a Zaccheo: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Dalla folla salì il mormorio del malcontento: «Proprio a casa di un peccatore doveva andare!». Zaccheo invece era felice: tutto si sarebbe aspettato, meno che Gesù scegliesse proprio lui, proprio la sua casa. Zaccheo sapeva di essere un poco di buono, ma capì improvvisamente una cosa meravigliosa: se Gesù entrava in casa sua, significava che anche lui poteva essere amato; e se anche lui, Zaccheo, era amato, il bene era possibile anche per lui. Così accolse Gesù nella sua casa e gli disse: «Ecco, Signore, io dò la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». E Gesù rispose: «Oggi in questa casa è entrata la salvezza, perché anche Zaccheo è divenuto Figlio di Abramo. Io infatti sono venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».


Luca 15,11-32

30. La parabola del figliuol prodigo Un altro celebre racconto di Gesù è quello conosciuto come parabola del figlio prodigo, mentre bisognerebbe chiamarla del padre misericordioso. Difatti vuole insegnarci che Dio attende sempre i suoi figli, non li dimentica mai, neppure quando se ne vanno dalla sua casa sbattendo la porta e sciupano tutti i doni con cui egli li ha arricchiti. “Prodigo” è una parola antica e indica, in questo caso, un ragazzo ricco che sciupa inutilmente e malamente tutti i suoi beni. I due personaggi di rilievo sono il padre misericordioso e il figlio prodigo, ma anche il fratello maggiore è una figura importante. La sua gelosia, il suo non voler entrare in casa a festeggiare il fratello ritornato, il suo stesso attaccamento un po’ servile al padre sono atteggiamenti giudicati con severità. Non si può infatti veramente riconoscere in Dio il proprio padre, se non si amano i propri fratelli, se non si soffre per la loro perdita e non si gioisce per la loro salvezza. Il padre misericordioso Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con

le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si indignò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».


Luca 10,25-37

31. La parabola del buon samaritano. Un uomo è ferito, passa un sacerdote, passa un levita, nessuno si ferma. Arriva un samaritano, si prende cura del ferito e fa tutto il possibile per aiutarlo. Questi è il prossimo Un giorno, un dottore della legge chiese a Gesù che cosa occorreva fare per salvarsi. Gesù non esitò nella risposta: non diceva forse la legge che il comandamento più importante e necessario era quello di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze? Simile a questo c’era poi il comandamento d’amare il prossimo come se stessi. Ma il dottore, un po’ imbarazzato e quasi per scusarsi, insistette: «E chi è il mio prossimo?». Gesù allora raccontò questa parabola: Sulla strada che scende da Gerusalemme verso Gerico, strada deserta e malsicura, infestata da ladri e malviventi, camminava un giorno un viandante. Fu aggredito, percosso, spogliato dei suoi beni e lasciato moribondo ai margini della via. I passanti erano rari. Finalmente passò di lì un sacerdote. Aveva fretta perché doveva recarsi al tempio, non voleva complicazioni: andò oltre, senza curarsi del ferito. Poi giunse un levita, cioè un appartenente alla tribù di Levi, anch’egli addetto al servizio del tempio; e anche costui tirò dritto. Sacerdoti e leviti erano coloro che stavano più vicino al Signore perché lo servivano nella sua stessa casa, e perciò avrebbero dovuto amarlo di più. Ma non furono capaci di amare quel prossimo che era sulla loro strada.

Finalmente passò un Samaritano. I Samaritani erano stranieri ed eretici, discendenti da un miscuglio impuro di razze, che avevano per di più corrotto la religione ebraica, inquinandola con elementi estranei e costruendosi un altro tempio. Quel Samaritano dunque vide il caduto: si avvicinò, gli fasciò le ferite, lo caricò sopra il suo giumento, lo portò in una locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo – dovendo continuare il viaggio – chiamò l’albergatore, gli diede una buona somma di denaro e gli disse: «Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno». La parabola era finita. Ma Gesù, rivolto al dottore della legge, controinterrogò: «Chi di questi tre (sacerdote, levita o samaritano) ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». La risposta fu ovvia: «Chi ha avuto compassione di lui!». Gesù allora concluse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso». L’insegnamento di Gesù era semplice e profondo: non si tratta di chiedersi teoricamente: «Chi è il mio prossimo?», come se si dovessero fare scelte o distinzioni tra chi lo è e chi non lo è. Si tratta invece di essere prossimo, di essere vicino fraternamente a chiunque si incontra e ha bisogno di aiuto.


Marco 10,17-31; 12,41-44

32. Se il cuore si attacca alle ricchezze, non può riconoscere in Gesù la sua vera ricchezza. Così accade che il giovane ricco se ne va triste, rifiutando di seguire Gesù, mentre una povera vedova offre a Dio tutto quanto ha per vivere L’uomo cerca naturalmente la ricchezza e, quando la trova, vi attacca il suo cuore. Il problema perciò è quello di capire quale è la vera ricchezza. C’è quella fatta di denaro, gioielli, terre, e di tante altre cose che si desidera istintivamente di possedere: ricchezza fatta di beni che si corrompono e che spesso corrompono anche il cuore di chi li possiede. E c’è quella fatta di beni più interiori e profondi che riempiono il cuore, la vita intera, e anche l’eternità: ricchezza nell’amore, nella bontà, nella verità, nella grazia. Gesù era molto preoccupato di questo problema: voleva che i suoi discepoli imparassero a scegliere i tesori che non finiscono e non si deteriorano, quelli per cui vale la pena di dar via – se è il caso – tutti i beni materiali.

Due episodi possono illuminare questi insegnamenti di Gesù. Un giorno gli si presentò un giovane che era molto ricco. Voleva che il maestro gli spiegasse il modo di diventare buoni, anzi perfetti, Gesù gli rispose di osservare i comandamenti di Dio. Ma il giovane ribattè: «Quelli li ho osservati fin dalla mia giovinezza, che cosa mi manca ancora?». Il Signore lo guardò e provò molto affetto, perché intuì che nel suo cuore c’era un certo desiderio della vera ricchezza. Perciò gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Gli offriva così di diventare suo discepolo prediletto, di rinunciare ad ogni altra ricchezza per scegliere Gesù stesso come unico valore della sua vita. Quel giovane esitò un attimo, poi si allontanò triste. Aveva molte ricchezze e non ebbe coraggio di rinunciarvi. Allora Gesù, triste anche lui, disse agli altri discepoli: «Figlioli, com’è difficile entrare nel regno di Dio! E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago». Questo perché nel regno di Dio si entra offrendo a lui il proprio cuore, e non è facile farlo se è appesantito dall’avidità delle ricchezze terrene. Un altro giorno invece Gesù si commosse: era nel

tempio e osservava coloro che facevano l’elemosina, gettando denaro nella cassetta destinata alle offerte. C’era molta ostentazione: ognuno ci teneva a far vedere quant’era generoso. Si avvicinò una povera donnetta, già anziana, vedova, e gettò nella cassetta due soldini. Chi le badava? Il suo gesto era così insignificante! Ma Gesù chiamò attorno a sé i discepoli e disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro (del tempio) più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». La povera vedova infatti, gettando nel tesoro i due soldini, aveva offerto a Dio il suo stesso cuore: dava umilmente tutto ciò che possedeva e si fidava soltanto di lui.


Matteo 20,1-16

33. La parabola degli operai della vigna Un’altra preoccupazione di Gesù riguardava il modo sbagliato di concepire il rapporto con Dio da parte dei discepoli. Una mattina, all’alba, un padrone di casa uscì per recarsi in piazza dove prendere a giornata degli operai, per mandarli a lavorare nella sua vigna. Era questo un uso allora in voga; i disoccupati stavano in piazza e aspettavano che qualcuno li ingaggiasse per qualche ora al giorno, per lavori agricoli urgenti. Quel padrone dunque scelse alcuni operai, pattuì con loro la paga di un denaro, e li mandò a lavorare nella sua vigna. Ma, verso le nove del mattino, gli accadde di passare di nuovo in piazza: c’era ancora gente che cercava lavoro. Ne scelse altri e mandò anche questi nella vigna; ma, poiché ormai la giornata lavorativa era iniziata da diverse ore, non stabilì nessun compenso preciso. Promise solo che avrebbe pagato un prezzo giusto. Lo stesso accadde verso mezzogiorno, e poi ancora verso le tre del pomeriggio. Verso le cinque, quando ormai mancava un’ora soltanto al termine dei lavori, ripassò ancora in piazza e trovò alcuni che eran rimasti in ozio tutto il giorno perché nessuno li aveva voluti. Perfino questi furono mandati al lavoro. Al termine della giornata, il padrone chiamò il suo amministratore e gli disse: «Chiama gli operai e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi». Vennero quelli che avevano lavorato un’ora soltanto e ricevettero un denaro. Poi, via via, tutti gli altri ricevettero la stessa somma. Quando toccò ai primi, quelli che avevan fatto la giornata

intera, pensavano di ricevere una paga maggiore degli altri, ma ebbero anch’essi un denaro ciascuno. Cominciarono allora a mormorare contro il padrone dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». Ma il padrone, rivolgendosi al più arrabbiato, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso, perché io sono buono?». Con questa parabola Gesù non aveva voluto trattare una questione di giustizia sociale, ma aveva voluto insegnare che la bontà di Dio va oltre la giustizia; e che gli uomini sono pagati più in forza della sua misericordia, che non in forza dei diritti che si sono acquistati con le loro opere buone e con il loro lavoro.


Giovanni 9

34. Il miracolo del cieco nato. Gesù rende la vista agli occhi del corpo, ma soprattutto a quelli dell’anima. Cacciato dai Farisei, il cieco guarito diventa discepolo di Gesù Di solito Gesù affidava il suo messaggio a parole e a gesti semplici e normali. Ma a volte compiva anche gesti meravigliosi, miracoli destinati non solo a mostrare la sua bontà e la misericordia del Padre che è nei cieli, ma anche a dare particolare evidenza ad alcune verità fondamentali. Ricordiamo ad esempio quella definizione che un giorno diede di se stesso: «Io sono la luce del mondo». Cosa voleva veramente dire? Un sabato Gesù compì un grande miracolo, proprio con l’intento di illustrare questa sua affermazione. Camminava

con i suoi discepoli per una stradina di Gerusalemme, quando vide un giovane cieco fin dalla nascita che chiedeva l’elemosina ai passanti. Gesù si fermò e disse: «Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, lo spalmò sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Siloe». Quegli, tutto contento e con umile fiducia, andò, si lavò, e tornò che ci vedeva. Gesù se ne era già andato. La gente che conosceva bene il cieco era strabiliata; alcuni anzi dicevano che non era lui, ma uno che gli assomigliava. Ma egli andava dicendo a tutti: «Sono proprio io! Quell’uomo che chiamano Gesù mi ha guarito!», e continuava a raccontare quanto gli era accaduto a tutti coloro che incontrava. La notizia giunse alle orecchie dei Farisei. La loro agitazione fu grande: Gesù aveva infranto la legge, lavorando

di sabato, e quindi non poteva aver compiuto quel grandissimo miracolo. Continuarono perciò a interrogare quel povero giovane, non volendo credere che fosse stato veramente cieco, poi interrogarono anche i suoi genitori, e poi... furono al punto di prima. Allora ricominciarono daccapo: Gesù aveva infranto la legge, e quindi era un peccatore, e un peccatore non poteva compiere simili miracoli. Chiamarono un’altra volta il giovane e pretendevano che costui confessasse l’imbroglio: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo». Per l’ennesima volta gli fecero raccontare come si erano svolti esattamente i fatti, finché il giovane, infastidito, pur non essendo un teologo, li confuse dicendo: «Noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio

e fa la sua volontà egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla». I Farisei furono sconvolti dalla rabbia e replicarono: «Sei nato tutto nei peccati, e vuoi insegnare a noi?», e lo cacciarono fuori dalla comunità. Gesù lo seppe, lo reincontrò e gli disse: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto: colui che parla con te, è proprio lui». Ed egli disse: «Io credo, Signore!» e gli si prostrò dinanzi. I discepoli capirono così che, davanti a Gesù, l’uomo – anche se cieco – guarisce e ci vede sia con gli occhi del corpo che con quelli del cuore; mentre coloro che non l’accolgono, anche se ci vedono benissimo con gli occhi, finiscono per accecarsi volontariamente e piombare nelle più oscure tenebre del peccato.


Giovanni 10,1-18

35. Gesù è il buon pastore venuto per guidare il gregge di Dio. Egli conosce le sue pecore e le ama una per una. Per difendere il gregge è pronto a offrire la sua vita Gli antichi profeti di Israele, per parlare di Dio e del suo atteggiamento di affetto e protezione per il popolo, avevano usato diverse immagini familiari: lo sposo, il vignaiolo, il pastore. L’immagine del pastore serviva soprattutto quando si voleva indicare il bisogno del popolo di essere unito, come un gregge, e guidato con saggezza e bontà. Gesù l’aveva già utilizzata una volta, raccontando la parabola della pecorella smarrita. Il suo pastore ha sì altre novantanove pecorelle, ma non teme di lasciarle sole nell’ovile per andare in cerca di quella perduta, e quando la trova se la mette sulle spalle e la riporta al sicuro: poi chiama gli amici e fa festa con loro per averla ritrovata, come se quella sola gli importasse

più di tutte le altre. Era una parabola che doveva insegnare la cura del padre celeste per ogni singola creatura, della cui salvezza egli gioisce. Un’altra volta però Gesù volle andare più a fondo nell’insegnamento e descrisse se stesso come il buon pastore (veramente, il testo originale parla di bel pastore, per indicare una bontà carica di armonia e di perfezione), che conosce le sue pecore, le chiama per nome, e le guida a pascoli sicuri, a differenza dei pastori mercenari che badano al gregge solo per interesse. Egli invece, per le sue pecore, dà anche la sua vita. Ecco le parole di Gesù: Gesù, buon pastore «In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina

innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore.

E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio».


Luca 10,38-42 Giovanni 11,1-48

36. Gesù è amico di una famiglia di Betania, composta da un fratello e due sorelle. Più volte è stato loro ospite, ma un giorno Lazzaro muore. Marta e Maria mandano a chiamare il maestro. Davanti alla tomba dell’amico, Gesù si commuove e con un gesto straordinario lo richiama in vita

Nel villaggio di Betania vivevano tre fratelli, Lazzaro, Marta e Maria, ch’erano molto amici di Gesù. Spesso egli si recava a casa loro e restava volentieri loro ospite. Quando arrivava, soprattutto Marta si metteva in agitazione: voleva che tutto fosse in ordine e che un servizio inappuntabile dimostrasse a Gesù quanto ella ci tenesse ad accoglierlo. Maria invece non vedeva l’ora che Gesù entrasse in casa, e appena giungeva si sedeva ai suoi piedi e lo ascoltava parlare, a lungo, senza pensare a nient’altro, quasi senza muoversi. Marta a volte si innervosiva, perché avrebbe voluto esser aiutata. Anzi una volta lo disse anche a Gesù: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù la rimproverò benevolmente: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta». Un triste giorno però Lazzaro si ammalò gravemente. Gesù era molto lontano; Marta e Maria mandarono subito ad avvertirlo. Stranamente però egli si attardava, sembrava quasi perdere tempo intenzionalmente. Quando finalmente decise di mettersi in viaggio, Lazzaro era già morto. Ci vollero quattro giorni di cammino. Quando Gesù giunse a Betania, che dista da Gerusalemme circa tre chilometri, Marta gli andò incontro, si gettò piangendo ai suoi piedi e gli disse: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora le promise che Lazzaro sarebbe risuscitato, ma Marta non si consolava, perché pensava che egli si riferisse alla fine del mondo, quando tutti i morti

risorgeranno e ognuno potrà reincontrare le persone che ha amato in vita. Ma Gesù insisteva dicendo: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno». Lazzaro intanto era morto, però, e Marta era così confusa che preferì andare a chiamare Maria, la sorella ch’era abituata a capirlo così bene! Maria giunse, seguita da tutti i parenti in lacrime. Anch’ella si gettò piangendo ai piedi del maestro e ripeteva: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù, vedendola piangere, si turbò, si fece condurre alla tomba, e, quando fu lì dinnanzi, scoppiò anch’egli a piangere, tanto che tutti i presenti dicevano: «Vedi come lo amava!», ed altri dicevano: «Non poteva lui fare in modo che non morisse?». Intanto, davanti alla tomba, Gesù pregava, poi ordinò che rotolassero via la grande pietra che copriva la bocca del sepolcro. Marta intervenne subito: «Maestro, manda già cattivo odore, perché è morto ormai da quattro giorni». Ma Gesù insistette: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?». Poi gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Ed ecco che, dal sepolcro scavato nella roccia, Lazzaro, ancora avvolto nelle bende mortuarie, uscì vivo. L’episodio destò uno stupore immenso. Non si trattava più dei soliti miracoli. Gesù aveva fatto risorgere da morte un suo amico, dopo che tutti avevano potuto constatarne, non solo la morte, ma quasi la decomposizione. Ma tanto era l’accecamento dei Farisei che essi decisero di uccidere non solo Gesù, ma anche Lazzaro che era divenuto una prova troppo evidente della grandezza del Signore.


Matteo 21,2-17

Verso la passione 37. Quando inizia l’ultima settimana della sua vita, Gesù decide di entrare a Gerusalemme, come un re di pace, cavalcando un asino. Il popolo lo accoglie con gioia grande e i bambini cantano in coro: «Osanna al figlio di Davide!». Dalla bocca dei piccoli Dio fa nascere una lode per il figlio che si prepara a sacrificare la sua vita

Era ormai giunto il tempo stabilito in cui Gesù doveva entrare in Gerusalemme per iniziarvi la sua dolorosa passione. Ma egli voleva dare di sé un’immagine che ricordasse al suo popolo che si stavano per adempiere le grandi profezie della Scrittura. Alcuni secoli prima, il profeta Zaccaria aveva detto: Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina con un puledro figlio di bestia da soma. Eran parole con le quali veniva annunciato l’ingresso del futuro Messia caratterizzato da bontà e mitezza. Gesù decise perciò di rappresentare la profezia. Mandò due discepoli in città a farsi prestare un’asina con un puledro. Poi fece stendere su di essa dei mantelli e vi montò in groppa. La folla numerosissima cominciò a stendere mantelli anche sulla strada, mentre altri tagliavano rami d’albero e ne facevano un tappeto sulla via.

Con gioia incontenibile tutti cantavano: Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli! Con questo corteo festoso, Gesù entrò in Gerusalemme. Una grande agitazione prese tutta la città. Chi ancora non conosceva Gesù domandava: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea». Molti malati intanto si avvicinavano a Gesù ed egli li guariva. L’entusiasmo cresceva sempre di più. Giunsero al tempio, i bambini erano i più scatenati e, anche lì, correvano dovunque e gridavano: «Osanna al figlio di Davide!». I sommi sacerdoti e gli scribi erano indignatissimi, ma non riuscivano a domare la folla, né, tanto meno, a far tacere i bambini. Si avvicinarono allora a Gesù e pretesero che li facesse tacere, chiedendogli: «Non senti quello che dicono?». Gesù rispose: «Sì, non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurato

una lode?». Era un verso del Salmo 8, un’antica preghiera nella quale si diceva appunto che Dio cerca e gradisce soprattutto la lode che gli viene dalle labbra e dai cuori puri dei fanciulli, mentre, a volte, proprio i grandi e i potenti non sanno riconoscere la grazia di Dio e non sanno gioirne. Quest’accoglienza trionfale, che ancora oggi si celebra nella domenica detta delle Palme, fu l’ultima che la folla tributò a Gesù. Iniziò proprio allora la settimana di passione, quella in cui tutti stavano per abbandonarlo e tradirlo. Tra poco, per le vie di Gerusalemme, tutti grideranno: «Crocifiggilo!», e Gesù percorrerà, come un condannato, le stesse strade.


Matteo 22,1-14; 21,33-45

38. La parabola della festa nuziale. Il Signore manda i suoi servi a invitare gli amici per le nozze del figlio, ma essi rifiutano. Per sostituirli, vengono allora invitati i poveri e gli umili, ma uno di questi si presenta senza veste nuziale e viene mandato via

Tra le ultime e più significative parabole di Gesù, c’è quella delle nozze rifiutate. Molte volte i profeti avevano parlato della festa nuziale che Dio preparava per il suo popolo, intendendo che, per l’umanità, la venuta del Messia, del Salvatore, sarebbe stata come uno sposalizio, pieno di gioia. Rifacendosi a queste profezie, Gesù un giorno raccontò di un re che aveva preparato uno splendido banchetto nuziale per lo sposalizio del proprio figlio. Ma quando mandò i servi ad avvertire gli invitati, questi non vollero venire. Al re quello che stava succedendo quasi non sembrava vero. Mandò un’altra volta i suoi servi, ma tutti risposero che erano già impegnati: alcuni dovevano badare ai propri affari, altri dovevano partire. Insomma, nessuno voleva venire alla festa. Alcuni invitati anzi furono così

sprezzanti e offensivi che si misero a insultare e bastonare i servi del re. L’indignazione del sovrano era al colmo. Chiamò tutti i suoi servi e li mandò lungo le strade, nei vicoli, dietro le siepi, a cercare tutti i poveri, gli storpi, i mendicanti, i barboni, con l’ordine di invitarli tutti al pranzo di nozze. Ben presto la sala si riempì tanto che non si poteva più entrare e la festa ebbe inizio. Coloro che ascoltavano Gesù capirono perfettamente: quelli che erano sempre stati privilegiati e avrebbero dovuto essere gli amici del Signore, proprio nel momento della sua grande festa gli si rivoltavano contro. Ma Dio si sarebbe scelti come amici tutti i più poveri e i più disgraziati, dovunque fossero. Qualche tempo dopo, Gesù, per evitare che la sua parabola venisse mal compresa e perché nessuno credesse di poter partecipare alla sua festa nuziale in modo irresponsabile,

aggiunse al racconto una piccola continuazione. Disse che il re, entrato nella sala della festa nuziale, aveva cacciato fuori anche uno dei nuovi invitati perché non s’era neppure preoccupato di sistemarsi un poco, né di mettersi almeno il vestito più bello che aveva. In un’altra parabola, simile, Gesù spiegò che le persone più istruite e mature del popolo ebraico si stavano comportando con Dio come dei vignaioli perfidi. Ad essi il padrone aveva affidato la sua vigna perché la coltivassero. Ma, venuto il tempo dei frutti, essi avevano preso i servi mandati dal padrone e li avevano bastonati e cacciati via. Poi, quando il padrone, stupito, aveva inviato loro il suo stesso figlio, quelli l’avevano ucciso credendo così di diventare eredi della vigna. È la sorte che attende Gesù che sa ormai della sua fine imminente.


Matteo 22,15-40

39. Gesù è maestro. Egli sa rispondere anche alle domande più insidiose. Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio; esiste la vita eterna, ma essa è diversa dalla presente; tutta la legge consiste nell’amare Dio e il prossimo I tentativi dei Farisei per mettere in difficoltà Gesù continuavano e si facevano sempre più minacciosi. Un giorno gli chiesero pubblicamente: è lecito pagare il tributo a Cesare? Era una domanda trabocchetto, perché qualsiasi risposta sarebbe stata pericolosa: se Gesù avesse risposto di sì, potevano accusarlo presso il popolo di collaborare con i Romani oppressori; se avesse risposto di no, potevano accusarlo alle autorità romane come ribelle, Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti! Perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo». Gli presentarono la moneta, ed egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora egli disse: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». I Sadducei, invece, preferivano mettere in ridicolo Gesù. Costoro, come abbiamo visto, erano odiati dai Farisei per le loro idee sulla risurrezione dei morti, ma quando si trattava di Gesù tutti si davano una mano. Fu proprio sulla verità della risurrezione che essi attaccarono Gesù. Esisteva una legge, detta del levirato, per assicurare la stabilità della famiglia e del patrimonio e per assicurare a tutti una discendenza:

se una donna restava vedova e senza figli maschi, doveva sposarla il fratello del marito defunto e il primo figlio che nasceva veniva considerato figlio del defunto. I Sadducei dunque, ironicamente, raccontarono a Gesù questa storiella: una donna aveva dovuto sposare successivamente sette fratelli, dato che eran morti tutti, uno dopo l’altro, senza lasciar figli. La domanda fu: «Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà moglie? Poiché tutti l’hanno avuta». Ma la risposta di Gesù fu molto seria e inchiodò i Sadducei su due punti: anzitutto, risorgere non significa prolungare per tutta l’eternità i problemi e le situazioni della terra, e non significa perciò ricostruire matrimoni e famiglie; significa invece incontrarsi tutti nell’amore di Dio. In secondo luogo, l’uomo risorgerà appunto per questo: perché “Dio è il Dio dei vivi”. Ognuno risorgerà perché Dio non può lasciare morire coloro ai quali ha assicurato il suo amore eterno. Di solito, dopo aver attaccato Gesù con questi falsi problemi, i suoi avversari se ne andavano sorpresi e sconfitti. A volte allora si avvicinava qualcuno a porgli domande vere, o a chiedergli conferma su alcune verità che venivano troppo facilmente dimenticate. Più d’una volta qualche dottore della legge lo interrogava con cuore desideroso d’essere rassicurato sull’essenziale. E Gesù insisteva sempre sullo stesso punto: non esiste comandamento che sia più grande di questo: “Amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze”. Strettamente legato al primo, è il secondo: “Amare il proprio prossimo come se stessi”. In questi due comandamenti – secondo Gesù – è racchiusa tutta la Scrittura.


Marco 13

40. Gesù parla ai discepoli della fine di Gerusalemme e della fine del mondo. Non vuole soddisfare la loro curiosità ma insegnare che con lui tutte le cose sono giunte a compimento e perciò resterà soltanto ciò che si lega a lui, con l’amore

Una cosa era difficile da capire per i discepoli, e dovevano passare molti anni prima che la comprendessero un poco: Gesù stava per morire, ma – poiché era figlio di Dio e moriva per tutti – con lui avveniva la fine del mondo. Certo, tutto sarebbe continuato apparentemente come prima, ma Gesù – morendo e risorgendo – avrebbe raggiunto e riempito di sé il punto conclusivo di tutta la storia umana. Fu per questo profondo motivo che Gesù raccontò ai suoi discepoli anche qualcosa della futura fine del mondo. Le cose si svolsero così: un giorno, mentre Gesù e i suoi uscivano dal tempio, uno dei discepoli si voltò indietro a guardare quel maestoso edificio: era bellissimo e imponente, e il sole lo faceva splendere. Disse allora a Gesù: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!». Gesù gli rispose: «Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non sia distrutta». I discepoli

furono sorpresi e spaventati: tutti gli chiedevano quando sarebbe accaduto e da quali segni ci si poteva accorgere della sventura vicina. Gesù non aveva intenzione di soddisfare la loro curiosità, ma solo di accrescere la loro fede e la loro vigilanza. Legò perciò assieme due avvenimenti, come se fossero uno solo. Spiegò dapprima che la città di Gerusalemme sarebbe stata distrutta, e che sarebbero venuti, per tutti, giorni carichi di dolore e di sconforto (ciò avvenne infatti nell’anno 70 d.C.). Ma disse anche che ogni catastrofe è, in modo segreto, legata al momento in cui il mondo finirà. Durante la storia perciò accadranno guerre, rivoluzioni, terremoti, carestie. Non raramente gli uomini dovranno soffrire, e soprattutto soffriranno coloro che vorranno restare fedeli al Signore Gesù e non si lasceranno ingannare da falsi richiami. Le sofferenze patite nel nome di Gesù non saranno apparentemente le più gravi, ma saranno

quelle più cariche di speranza, che daranno senso a tutto l’altro inutile soffrire che gli uomini spesso si infliggeranno reciprocamente e sopporteranno senza sapere perché. Poi, quando verrà il tempo stabilito da Dio, che nessuno può conoscere in anticipo, accadrà la fine del mondo. Gesù la descriveva come uno sconvolgimento di tutto l’universo, per indicare che tutto sarebbe stato giudicato e rifatto nuovo. I discepoli di Gesù non possono perciò mai affidarsi totalmente neppure a ciò che costruiscono con le loro mani. Bisogna certo collaborare alla costruzione del mondo e della storia, sapendo però che resterà con certezza solo l’amore che gli uomini avranno saputo esprimere ed accrescere col loro lavoro. Alla fine resterà solo quell’amore con cui si sarà stati capaci di andare assieme incontro al Signore Gesù, che tornerà glorioso in mezzo a noi per giudicarci e prenderci con sé.


Matteo 25,1-30

41. La parabola delle vergini prudenti e delle vergini stolte Essere vigilanti significa non lasciarsi appesantire dalla vita e dalle cose, come se il tempo trascorresse senza significato, o come se non dovessimo un giorno andare incontro al Signore. Ecco una parabola con cui Gesù spiegò questo insegnamento. Raccontava dunque Gesù che una sera una sposa, con le sue amiche, attendeva l’arrivo del corteo dello sposo. Ci fu un inatteso ritardo. Tutte le amiche eran lì pronte con in mano le lucerne che dovevano servire a illuminare e a rallegrare, nella notte, il cammino, ma lo sposo non arrivava. Le cose andarono talmente per le lunghe che le amiche della sposa cominciarono ad aver sonno. E il tempo passava. Ora, di quelle dieci amiche, cinque erano state previdenti: oltre alla lucerna, ognuna aveva portato con sé anche l'olio per alimentarla; cinque invece erano state trascurate: non avevano portato con sé olio di riserva e la loro fiamma minacciava ormai di spegnersi. Verso mezzanotte, giunse la notizia che il corteo dello sposo stava per arrivare; tutte si alzarono

in fretta e prepararono le lucerne, ma le amiche negligenti si accorsero d’aver le lampade quasi spente e, in tutta fretta, andarono in giro a cercarsi un po’ d’olio. Si formò il corteo, giunse alla casa dello sposo, si iniziò la festa – quando ormai la porta di casa era stata chiusa – arrivarono anche le amiche che erano andate a cercare l’olio; bussarono e gridarono: «Signore, signore, aprici!». Ma lo sposo fece rispondere loro: «In verità vi dico: non vi conosco». Fu così che le cinque amiche negligenti non poterono partecipare alla festa nuziale. Un’altra parabola, molto simile, raccontava invece di un padrone che partì per un paese lontano dopo aver affidato i suoi beni a degli amministratori. Ci fu chi li amministrò saggiamente e chi invece si gettò in braccio alla pigrizia senza produrre niente. Al ritorno del padrone, i servi fedeli e laboriosi furono lodati e ricevettero la loro ricompensa, quelli pigri furono rimproverati e restarono senza lavoro. L’insegnamento di Gesù era ancora lo stesso: bisogna vivere attendendo l'incontro con lui, nostro Signore, come servi fedeli che si sentono responsabili di ciò che è stato loro affidato.


Matteo 25,31-46

42. Nel giudizio finale saremo tutti giudicati sull’amore: come un re sul suo trono Gesù accoglierà, alla sua destra, quelli che lo hanno riconosciuto nel povero, mentre respingerà, alla sua sinistra, quelli che non hanno accolto la domanda dei bisognosi

42

Gli ultimi secoli della storia d’Israele sono una lunga attesa basata sulla fiducia che, nonostante l’oppressione, le sconfitte, le delusioni, alla fine Dio interverrà e libererà il suo popolo. Da questa convinzione nasce l’apocalittica, un genere letterario che prevede l’imminente arrivo di uno sconvolgimento cosmico. Variamente descritto, esso causerà in ogni caso un radicale cambiamento nella situazione del genere umano: gli oppressori saranno sconfitti, i giusti saranno liberati e domineranno la terra. Gesù è a conoscenza di questa letteratura, a volte si serve di immagini e simboli da essa elaborati, ma ne purifica intenzioni e metodi. Così la fine del mondo sarà sì annunziata da eventi straordinari, ma consisterà essenzialmente nel ritorno glorioso del Messia che prima giudicherà gli uomini e poi, insieme con i suoi fedeli, instaurerà il regno della pace. Sorge spontanea a questo punto la domanda che più volte viene posta dai discepoli: quando avverrà tutto questo? È una domanda legittima, ma Gesù non vi risponde, addirittura dichiara di non conoscere la risposta. Egli insiste, invece, sull’atteggiamento

che bisogna tenere di fronte a un evento che può capitare da un momento all’altro. Se nessuno sa quando arriverà la fine del mondo, bisogna essere vigili, essere pronti in ogni momento. È quanto Gesù ha detto con diverse parabole, è quanto ripete nel suo discorso sul giudizio finale. Qui, tuttavia, egli sottolinea una verità complementare: l’atteggiamento di vigilanza non si esaurisce nell’attesa, ma si esprime nell’impegno. Esso non è solo attenzione ad evitare il male, ma prontezza nello scoprire occasioni di bene, capacità di vedere il Cristo nell’affamato, nell’assetato, nel forestiero, nell’ignudo, nel carcerato. Ancora una volta i discepoli vengono invitati a rafforzare la loro sensibilità nell’amore. Chi si metterà al servizio dell’indigente sarà salvo; chi, al contrario, non si renderà conto del suo bisogno sarà abbandonato al suo destino di dolore e sofferenza. È questo il criterio in base al quale saremo giudicati, un giudizio che acquista forza dalla certezza che nel povero e nel sofferente è presente Cristo. Il vero discepolo lo vede con gli occhi dell’amore, chi non se ne accorge si esclude tanto dalla comunità dei discepoli che dal regno di Dio.


Giovanni 12,20-36

Nonostante tutti gli insegnamenti di Gesù e le sue spiegazioni, i discepoli avevano ancora paura al pensiero che s’avvicinava ormai l’ora della morte del loro maestro. Egli continuava ad accennarvi, ed essi erano in pena. Gesù stesso era a volte turbato. Restò scosso soprattutto un giorno in cui perfino dei Greci, cioè dei pagani, lo cercarono con desiderio e vollero parlare con lui. Era quasi un anticipo della futura fecondità, della gloria che sarebbe seguita alla morte. Com’era misterioso il disegno di Dio Padre! L’avventura di Gesù era strana e meravigliosa come quella di un chicco di grano che deve necessariamente cadere a terra e morire. Ma poi nasce la spiga e il frutto è abbondante. Ecco le parole del Vangelo:

43. Dei Greci chiedono di parlare con Gesù. Questi risponde con la parabola del chicco di grano. Quando un chicco cade a terra, marcisce nella solitudine e nell’abbandono, ma poi nasce la spiga e il frutto è abbondante. Così accadrà a Gesù e a chi, per amor suo, non teme di perdersi

La sofferenza porta frutto Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea, e gli chiesero: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: «È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo;

se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!». La folla che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Rispose Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarà elevato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire. Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?». Gesù allora disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce». Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose da loro.


Marco 14,1-16

Giovedì Santo 44. Mentre il sinedrio è riunito per cercare il modo di uccidere Gesù, questi è invitato da un fariseo. Mentre è seduto a mensa, una donna gli versa del profumo sulla testa; viene così anticipata l’unzione del corpo di Gesù. Giuda, difatti, si accorda con i sacerdoti per tradirlo, mentre i discepoli preparano la sala per la celebrazione della Pasqua A più riprese Gesù ha annunciato la sua passione. Ora essa è imminente, i nemici già tramano per uccidere di nascosto il maestro di Nazaret. Ed è proprio con il piano criminoso dei gran sacerdoti e degli scribi che iniziano i racconti della passione. Questi racconti probabilmente sono la parte più antica dei Vangeli. Ascoltandoli, non possiamo non ricordare i primi discepoli che giravano il mondo annunciando e testimoniando la morte e risurrezione di Gesù. I grandi sacerdoti e gli Scribi si erano dunque riuniti per cercare il modo di uccidere Gesù di nascosto; Giuda meditava di tradire il suo maestro. Tra questi due propositi ostili, il Vangelo ricorda un gesto di squisito amore. Gesù era a Betania, invitato a pranzo in casa di un certo Simone il lebbroso, quando ecco avvicinarsi una donna che portava con sé un vaso di profumo. Giunta vicino a Gesù, ella ruppe il vaso e gli versò il profumo sul capo. Il gesto era stato spontaneo, improvviso. Ma quando capirono cosa era successo, alcuni dei presenti si lamentarono. Il profumo valeva una grossa cifra, lo si poteva vendere e dare ai poveri, invece di sciuparlo a quel modo. Poi si rivolsero contro la donna, ma a questo punto intervenne Gesù: «Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò che era in suo potere,

ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura». Due dati emergono da queste parole di Gesù: la gratitudine per chi si è mostrato gentile nei suoi confronti; la coscienza della sua morte imminente. Egli, difatti, considera l’unzione della donna di Betania come l’unzione che si praticava ai defunti dopo la morte. Per Gesù l’unzione viene anticipata perché dopo la morte non sarà più possibile per mancanza di tempo. Gesù ha appena parlato di morte. Giuda Iscariota, uno dei dodici, si incarica di offrire agli avversari il modo di impossessarsi del maestro. Egli, dunque, si reca dai grandi sacerdoti, questi lo accolgono festosamente e gli offrono del denaro in cambio del suo tradimento. Ma l’ora di Gesù deve essere preparata, egli deve ancora compiere il segno che rivelerà e testimonierà a tutti i discepoli il suo grande amore. Si era in prossimità della Pasqua ebraica, i discepoli chiesero istruzioni in vista dei preparativi da compiere. La risposta di Gesù fu molto dettagliata. Scelse due discepoli e ordinò loro di recarsi in città. Lì avrebbero incontrato un uomo con una brocca d’acqua in mano. I discepoli dovevano seguirlo, entrare con lui in una casa e chiedere al padrone di mettere a disposizione una grande sala con i tappeti e tutto l’occorrente per la celebrazione della Pasqua. Obbedienti, i discepoli seguirono le indicazioni di Gesù e trovarono così il cenacolo, il luogo dove Gesù celebrò la sua ultima Pasqua e lasciò ai discepoli di ogni tempo il segno del suo grande amore.


Marco 14,22-25

45. Gesù istituisce l’Eucaristia. Il pane e il vino consacrato ricordano e rendono presente nei secoli il sacrificio del Signore La sala festiva è stata preparata, Gesù vi entra e si dispone a tavola con i suoi discepoli. La festa che sta per essere celebrata ha una storia antica. Inizialmente era un rito di pastori che, in primavera, prima di partire per i pascoli, sacrificavano un giovane animale per ottenere fecondità e protezione a tutto il gregge. Di qui l’usanza di mangiare un agnello arrostito al fuoco, con pane non lievitato e con erbe amare. Questo era stato l’inizio.

45

Attraverso fasi successive, la festa dei pastori fu collegata alla festa che ricordava la liberazione di Israele dall’Egitto. A poco a poco, perciò, la memoria della liberazione divenne il vero senso della Pasqua. La vecchia festa non venne abolita, ma ora aveva un significato nuovo. Ricordava la notte in cui il Signore aveva colpito i primogeniti degli Egiziani mentre aveva risparmiato gli Ebrei, ricordava il passaggio del Mar Rosso, quando gli Ebrei erano usciti indenni dalle acque. Non si trattava, del resto, del ricordo di eventi passati. Celebrando la Pasqua, i pii Ismaeliti erano convinti di rivivere gli eventi della liberazione, di essere ancora liberati dall’oppressore, di passare indenni attraverso le tempeste della storia. Avendo alle spalle una storia di diversi secoli, la Pasqua ebraica seguiva uno svolgimento ben preciso, sia che venisse celebrata nel tempio che nella famiglia. In quest’ultimo caso il capofamiglia o il maestro di una comunità religiosa benediceva il pane e il calice e spiegava il senso della celebrazione.

È esattamente quanto fa Gesù nell’ultima cena, nella sala preparata dai discepoli. Invece le parole del maestro di Nazaret sono sorprendenti, del tutto nuove. Porgendo il pane spezzato, egli dice: «Prendete, questo è il mio corpo»; porgendo la coppa del vino, aggiunge: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo nel regno di Dio». Parole strane che sorprendono non poco i discepoli. Gesù non invita a commemorare la liberazione dall’Egitto, parla invece di una nuova alleanza fondata sul suo sacrificio, sulla sua morte, cui alludono senza possibilità di equivoco i simboli del pane spezzato e del vino versato. Non più la liberazione dall’Egitto deve essere commemorata e attualizzata, bensì il sacrificio di Gesù che liberamente dona la vita per tutti gli uomini.

Il contesto in cui san Marco inserisce il racconto dell’istituzione dell’eucaristia accentua il significato di dono gratuito, non meritato dagli altri uomini. Prima di dare un senso nuovo alla Pasqua ebraica, di istituire la sua Pasqua, che i cristiani chiamano eucaristia, Gesù è tradito. Egli sa di essere stato rifiutato, il suo, perciò, è un dono universale, una solidarietà che non si lascia vincere dall’incomprensione e dalla morte. Per questo l’eucaristia presuppone la morte, ma allo stesso tempo la risurrezione di Gesù. Solo il Cristo ritornato in vita può donarsi a tutti gli uomini, la celebrazione della Messa non è solo un ricordo del sacrificio del Signore, ma una sua nuova presenza tra di noi.


Giovanni 13,1-30

più scoperte degli avversari, ma parla di sacrificio, di morte. Ora, poi, ha preso un catino, vi ha versato dell’acqua, si è avvicinato ad un apostolo, si è chinato, gli prende il piede, lo appoggia sul catino, lo lava e lo asciuga. La sorpresa ha paralizzato i discepoli al punto che nessuno osa parlare o muoversi. Ma non Pietro. Avuto il tempo di riprendersi, egli protesta vivacemente: «Signore, tu lavi i piedi a me?... Non mi laverai mai i piedi!». Ma la risposta di Gesù è severa, quasi minacciosa. «Se non ti laverò, non avrai parte con me». In realtà il gesto che Gesù sta compiendo non è solamente un atto di umiltà. Egli sta portando a compimento il piano di salvezza, il discepolo non può opporsi al progetto di Dio. Si ripete qui, a poche ore dalla morte, quanto era già accaduto in occasione del primo annuncio della passione. Allora Pietro aveva preso in disparte il maestro e lo aveva rimproverato perché parlava di passione e morte. Ma la risposta di Gesù era stata molto dura: vattene da me, tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini. Il richiamo viene ripetuto ancora una volta: per prendere parte con Gesù, bisogna pensare secondo Dio, entrare nel suo piano di salvezza in cui vige una scala di valori diversa da quella accettata dagli uomini: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri». Vale la pena di insistere: lavando i piedi dei discepoli,

46. Gesù lava i piedi ai discepoli. È un gesto simbolico a significare che l’amore si esprime nel servizio. Poi, tra lo stupore degli apostoli, predice che uno di loro lo tradirà

L’ultima cena è un momento privilegiato, un’occasione solenne nella quale Gesù apre il suo cuore, fa vedere l’intimità più nascosta del suo amore. Egli ha appena offerto ai suoi il dono dell’eucaristia, ma si ha quasi l’impressione che l’amore lo spinga a gesti sempre nuovi. «Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine», commenta san Giovanni. Amare fino alla fine, fino al limite estremo oltre il quale non si può andare. È il senso e allo stesso tempo la conseguenza dell’eucaristia. Ecco, dunque, che Gesù si alza da tavola, si toglie il mantello dalle larghe maniche e si cinge ai fianchi una specie di grembiule. Possiamo immaginare l’attesa, quasi la tensione degli apostoli. Da tempo essi attendono una parola di tranquillità, il maestro, invece, compie gesti sempre più misteriosi. Non solo non fa niente per sfuggire alle macchinazioni sempre

Gesù non compie solo un atto di umiltà. Dopo aver offerto eucaristicamente se stesso, vuole dare una prova concreta del suo amore. Questa prova è il servizio. Per questo i discepoli vengono impegnati a ripetere il gesto del maestro. Non perché sia bello o utile divenire servi, ma perché è necessario, ripetendo il gesto eucaristico del Signore, donarsi ai fratelli. L’espressione del dono è il servizio. Il fatto che il Signore insista tanto proprio con Pietro, che alla fine si lascia anche lui lavare i piedi, non è casuale. Il servizio, come espressione dell’amore che da Gesù passa ai discepoli, è una legge fondamentale della nuova comunità che sta per nascere. Pietro, chiamato a divenirne il capo, deve essere il primo a comprendere ed applicare questa legge. Gesù ha dunque lavato i piedi dei suoi, ma ora deve nuovamente confrontarsi con la realtà del tradimento e per un istante fa intravedere l’amarezza del suo cuore: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà». A questo annuncio i discepoli sono costernati, a Giovanni il maestro rivela addirittura il nome del traditore. Ma nulla allevia la sofferenza di Gesù. Egli si sente solo, mentre i discepoli continuano a non capire e Pietro fa orgogliose professioni di coraggio. Anche a lui il maestro deve dire con tristezza: prima di domani mattina, quando canterà il gallo, tu mi avrai rinnegato tre volte. L’atmosfera si è fatta dunque pesante, la cena, iniziata come celebrazione pasquale, sta finendo tra la tristezza del maestro e la preoccupazione dei discepoli.


47. I discorsi di addio. Gesù promette ai suoi lo spirito di consolazione inviato dal padre, poi li esorta a rimanere uniti a lui come il tralcio è unito alla vite, come lui è unito al padre Finita la cena di Pasqua, i commensali hanno cantato i Salmi 113-118, i canti di lode a Dio che tutti gli Ebrei cantavano a conclusione del banchetto pasquale. Quindi Gesù, quasi a sfuggire alla tristezza del momento, ha invitato i suoi a lasciare la sala. Nell’intervallo che intercorre tra questo momento e il passaggio del torrente Cedron, vicino al Getsemani, Gesù lascia ai discepoli il suo testamento. Il maestro può aver continuato il suo discorso fuori del cenacolo, sulla terrazza della casa, oppure durante il cammino; più probabilmente l’evangelista Giovanni ha aggiunto alle parole pronunciate da Gesù in quella occasione discorsi o parole pronunciate altrove. Hanno avuto così origine i “discorsi di addio”, quattro capitoli del vangelo di san Giovanni che rappresentano una sintesi dell’intero messaggio di Gesù. I due passi che qui leggiamo parlano dello Spirito Santo e della necessità di rimanere uniti al maestro. Nel primo, nonostante la tristezza dell’ora, Gesù si preoccupa di consolare i discepoli, promette loro lo Spirito che, inviato dal Padre, ricorderà e farà rivivere il suo insegnamento. Nel secondo, riprendendo dal Vecchio Testamento il tema della vigna, esorta gli apostoli e i discepoli di tutti i tempi a rimanere uniti con lui. Come il tralcio è unito alla vite, di più come Gesù è unito al Padre, così i discepoli debbono rimanere nel maestro e questi in loro. Questa unione esprime l’amore di Gesù al Padre, l’amore di Gesù per i discepoli.

Promessa dello Spirito Santo «Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: Vado e tornerò a voi; se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate. Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il prìncipe del mondo; egli non ha nessun potere su di me, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato. Alzatevi, andiamo via di qui». Giovanni 14,25-31

La vite e i tralci «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». Giovanni 15,1-11


Giovanni 17

48. Gesù prega per i discepoli. Il Padre conceda loro di condividere la sorte e la gloria del loro maestro Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse. Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi. Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi. Quand’ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono

ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me. Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».


Marco 14,32-52 Luca 22,39-53

49. Gesù nell’orto degli ulivi Lasciata la sala dove ha celebrato la Pasqua, Gesù e i discepoli si dirigono verso il Getsemani, una parola ebraica che indica un campo dotato del pressoio per la trasformazione delle olive in olio. Esso è situato nella valle del torrente Cedron, ai piedi del monte degli ulivi. Gesù e i discepoli conoscono già il campo, diverse volte vi si sono radunati. Ma questa volta è diverso. Il maestro non riesce a scuotersi di dosso la tristezza che sembra essersi impadronita di lui, i discepoli sono preoccupati. Gesù si allontana da loro, va a pregare, come probabilmente ha fatto tante altre volte, ma neppure la preghiera riesce a dargli la serenità. Torna indietro, chiama Pietro, Giacomo e Giovanni, i discepoli che sul monte Tabor hanno assistito alla sua gloria, almeno essi veglino, lo sostengano nell’ora della tentazione. Ma, nonostante la buona volontà, i tre discepoli si addormentano mentre,

poco più lontano, Gesù è solo, abbandonato dai dodici e apparentemente anche da Dio. È probabilmente a questo punto che si verifica un episodio raccontato da san Luca. Disteso a terra, Gesù è più che mai in balìa della tristezza e della sofferenza che dall’anima si trasmettono a tutto il corpo. Sulla sua fronte scorre un sudore di sofferenza che a poco a poco si tinge di rosso, fino a trasformarsi in sangue. Sembrerebbe che Gesù sia stato vinto, sopraffatto dal dolore per la morte imminente, per il tradimento degli apostoli e di tutti i discepoli, per i peccati di tutti gli uomini, per l’abbandono del Padre. Ma egli continua a pregare e proprio al Padre chiede ripetutamente e insistentemente aiuto: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». È questa la

vittoria che sconfigge ogni potenza nemica, ogni tentazione di fuggire da Dio, di gridare contro lui. Proprio nel momento di maggiore abbandono, di maggiore sofferenza, Gesù ripone la sua fiducia in Dio, lo chiama con l’appellativo con il quale i bambini si rivolgono al loro padre. Papà, papà mio, tu sai meglio di me che cosa è bene per me e per tutti gli uomini; in questo momento io non riesco a comprendere il tuo piano di salvezza, tuttavia fa’ che io non mi discosti da esso, fa’ che esso si realizzi anche se comporta la mia sofferenza, il mio sacrificio. Ora Gesù ha capito, ha superato la prova, ha vinto la tentazione. Si alza da terra, sveglia gli apostoli, ormai è pronto ad avviarsi verso la sofferenza e la morte. Ed ecco che, dall’altra parte del campo, sopraggiunge Giuda. Guida una schiera rumorosa e disordinata di armati. Con il loro aiuto deve portare a

termine il suo tradimento. Giuda, dunque, si avvicina al maestro e lo bacia, ma è solo un segnale per gli armati: quello che bacerò, quello dovete arrestare. Il segno scelto per il tradimento non è casuale. Si ha quasi l’impressione che non potesse essere diversamente: il maestro dell’amore doveva essere tradito da un gesto di amore. Al segnale, gli armati si gettano addosso a Gesù e lo arrestano, e Pietro ancora una volta dà prova del suo carattere impetuoso: estrae la spada e taglia l’orecchio di un servo del sommo sacerdote. Ma Gesù pone presto termine all’inizio di battaglia. Ordina a Pietro di rimettere a posto la spada, guarisce, secondo san Luca, il malcapitato servo e si lascia condurre via docilmente dai soldati.


Marco 14,53-15,19

Venerdì Santo 50. Gesù, condannato a morte dal sinedrio e dal governatore romano, è schernito dai soldati

Gli uomini che hanno arrestato Gesù lo conducono dai loro capi, i membri del sinedrio. Questi sono soliti adunarsi in una sala annessa al tempio ma, considerata l’ora tarda, sono riuniti in casa del sommo sacerdote Caifa. Lì essi attendono Gesù, in apparenza per giudicarlo, in realtà per sancire una decisione già presa. L’accusa deve dimostrare la colpevolezza dell’imputato, ma i numerosi testimoni che pure si levano contro Gesù non riescono a provare alcuna colpa, anzi si contraddicono in numerosi punti. Ecco, allora, che si alza il sommo sacerdote e in forma solenne, ufficiale chiede: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». Gesù risponde: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Alle nostre orecchie la risposta di Gesù suona un po’ strana,

per i Giudei, invece, era chiarissima. Citando due famosi testi dell’Antico Testamento, Gesù diceva di essere il Messia, il liberatore promesso che si sarebbe seduto alla destra di Dio, per poi ritornare definitivamente dal cielo a liberare i suoi. Caifa, dunque, capisce bene, ma la sua mente è solo in grado di distorcere le parole del maestro. Con gesto scandalizzato si strappa parte della tunica; quindi, rivolto ai suoi, esclama: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Gli rispondono in coro: ha bestemmiato, è reo di morte, deve morire. E senza altri indugi i soldati e i servi passano alle vie di fatto: chi insulta Gesù, chi lo irride, chi lo percuote. E i discepoli? Già al Getsemani hanno lasciato solo il maestro, ora sono addirittura fuggiti. Solo Pietro ha seguito Gesù da lontano e ora è nell’atrio per cercare di capire come si mettono le cose. Ad un tratto gli si avvicina una serva del sommo sacerdote e gli chiede: anche tu stavi con Gesù? Colto di sorpresa, Pietro nega e per evitare complicazioni si allontana. Poi ritorna, ma la donna insiste: anche tu eri con il maestro di Nazaret! Poteva essere l’occasione del riscatto, ma Pietro nega ancora, così come negherà una terza volta alla domanda di altri servi. Si avvera così la predizione del

maestro, e al canto del gallo che gliela ricorda, Pietro scoppia in pianto. Ormai la notte del giovedì si sta dissolvendo alle prime luci del venerdì mattina, Gesù è sempre prigioniero, i membri del sinedrio si riuniscono ancora. Probabilmente viene studiata la tattica per ottenere dall’autorità romana la ratifica necessaria per la condanna a morte. Gesù, dunque, viene legato e condotto dal governatore romano, Ponzio Pilato, che è più annoiato che preoccupato di amministrare la giustizia. Comunque, egli chiede a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Dopo la risposta positiva, incomincia la sfilata degli accusatori, mentre Pilato cerca di salvare quel Giudeo silenzioso e misterioso. A questo scopo lo fa flagellare, sperando di commuovere la sensibilità della folla. Ma non ancora soddisfatta, la folla insiste: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Il debole Pilato tenta ancora qualche vana resistenza, poi si piega. È la condanna alla croce, il supplizio riservato agli schiavi. Né si frappongono indugi all’esecuzione. Gesù viene subito condotto nel pretorio, il luogo di raccolta dei soldati romani. Come era loro usanza, questi si affollano intorno al condannato e iniziano un gioco crudele, un misero svago alla noia delle loro giornate. Gesù si è proclamato re, ci penseranno loro a tributargli gli onori regali. Alcuni gli gettano sulle spalle un mantello rosso, altri intrecciano una corona di spine e gliela calcano sulla testa, c’è chi fa finta di inginocchiarsi per baciargli la mano, chi si prostra a terra per ossequiarlo. Poi inizia la sfilata: «Salve, re dei Giudei!» e giù una bacchettata, uno schiaffo. È una beffa senza pietà. Gesù è più che mai solo nella sua dignità.


Marco 15,20-32 Luca 23,26-32

51. La via della croce Sono passate 12 o 13 ore dall’arresto di Gesù. Nell’intervallo tra il giovedì sera e il venerdì mattina il maestro ha subito due giudizi ufficiali e uno privato in casa di Caifa, è stato deriso, schiaffeggiato, percosso. Soprattutto, è stato condannato a morte dai rappresentanti del sinedrio e la condanna è stata ratificata dal governatore romano. Una successione di eventi perfino troppo rapida dovuta, secondo gli studiosi, a due ragioni. La fretta dei sacerdoti che ad ogni costo volevano ottenere l’esecuzione del maestro di Nazaret prima dell’inizio delle celebrazioni pasquali; la narrazione sintetica degli evangelisti ai quali interessava maggiormente mettere in risalto il valore salvifico della passione che di trasmettere un racconto completo degli avvenimenti. Del resto, gli eventi si succedono ancora con maggiore rapidità dopo la condanna. L’unico intermezzo è rappresentato dal crudele “gioco del re” cui Gesù viene sottoposto dai soldati romani. Ma si ha l’impressione che neppure questo gioco sia durato a lungo.

Finita la beffa, Gesù viene rivestito dei suoi abiti e in tutta fretta si forma un mesto corteo. È composto dai soldati romani, da Gesù, da due ladri, anch’essi condannati a morte, da qualche parente o discepolo che non lo abbandonano, dall’immancabile gruppo di curiosi. Gesù e gli altri condannati portano, poggiato sulle spalle e legato alle mani, il patibolo, l’asta trasversale della croce. Sono diretti al Calvario, un’altura alle porte di Gerusalemme, distante circa 600 metri dalla residenza del governatore. Un percorso relativamente breve che si trasforma in un supplizio per le condizioni fisiche e spirituali dei condannati. In particolare Gesù, che pure era di costituzione superiore alla media dei contemporanei, sembra essere esausto, incapace di giungere alla meta con il suo pesante carico. I soldati hanno fretta, né vogliono complicazioni per la strada. Incrociano per caso un certo Simone di Cirene, lo fermano e lo costringono a portare il patibolo di quel condannato che sembra venir meno da un momento all’altro. In tanta tristezza e abbattimento, merita di essere ricordato un gesto di umanità raccontato da san Luca. Tra coloro che seguono i condannati vi sono

delle donne di Gerusalemme, sinceramente addolorate per quanto sta avvenendo. Il maestro si rivolge loro e dice: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli». Gesù va alla morte, ma la sua morte dà inizio al tempo finale, al tempo del discernimento tra giusti e ingiusti, urge quindi prepararsi all’ora del giudizio universale. Il corteo è intanto arrivato al Calvario, si avvicina il mezzogiorno. I prigionieri vengono distesi per terra, le loro mani vengono inchiodate al patibolo che successivamente viene tirato su e fissato al palo verticale. È la crocifissione. Gesù è crocifisso. Sulla sua testa un’iscrizione spiega il motivo della condanna: «Il re dei Giudei». Una piccola rivincita di Pilato che vuol far dispetto ai capi giudei, ma, come lasciano intendere gli evangelisti, anche un messaggio al mondo dato che è scritto in ebraico, in greco e in latino, le grandi lingue dell’epoca.

Nonostante la crocifissione, Gesù è re, anzi è stato sollevato da terra perché tutti gli uomini guardino a lui. Sotto la croce, però, gli uomini continuano a non capire. Fino all’ultimo le loro parole esprimono disprezzo e sfida: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». «Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo». Ancora una volta parole pronunciate per disprezzo contengono una grande verità. Gesù ha salvato gli altri mentre non risparmia se stesso. Sembrerebbe un’assurdità, invece è il senso della missione di Gesù: se il chicco di grano non muore, non porta frutto. Secondo un pensiero di sant’Agostino, Gesù sulla croce è appunto come un chicco di frumento. È solo, ma contiene, nella sua fecondità, una moltitudine di persone.


Luca 23,39-43 Giovanni 19,25-27 Marco 15,33-37

52. La morte in croce. I due ladroni. Maria e Giovanni L’evangelista Marco, il cui racconto abbiamo finora seguito, richiama la nostra attenzione unicamente sulla sofferenza e la solitudine di Gesù. Gli altri evangelisti, invece, si preoccupano di riportare due episodi che per un momento rompono la solitudine di Gesù in croce. Protagonisti del primo episodio, raccontato da san Luca, sono i due ladri crocifissi con Gesù. Uno si associa a coloro che prendono in giro il maestro di Nazaret, l’altro lo zittisce e lo rimprovera: fra poco morirai e ancora non temi Dio? Noi soffriamo per le nostre colpe, lui è innocente. «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». È l’inizio incerto della fede, Gesù lo accoglie con amore: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso». Già più volte abbiamo potuto constatare la solitudine di Gesù. Nell’ora del pericolo le folle lo hanno abbandonato, solo un gruppetto di donne ha seguito il maestro fin sotto la croce. Tra di loro vi è anche Maria, la mamma di Gesù, accompagnata da Giovanni, il primo discepolo a riaversi, a ritornare dal maestro. Gesù, allora, vedendo la mamma e accanto a lei il discepolo preferito, dice alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi dice al discepolo: «Ecco tua madre!». Una prova di squisita sensibilità. Perfino sulla croce, Gesù

pensa agli altri prima che a se stesso. Ma ormai l’ora suprema si avvicina. Il tempo è peggiorato, nuvole oscure si sono accumulate all’orizzonte, sembra quasi che sia sera per il buio. Sono invece le tre quando, raccogliendo le sue ultime forze, Gesù esclama: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È l’occasione per altri insulti, mentre qualcuno gli porge da bere con una spugna attaccata a una canna. Ma è la fine: dando un forte grido, Gesù spira. La morte di Gesù, il Figlio di Dio, è un mistero. Solo la fede può aiutarci a capire l’immensità dell’amore di Dio che abbandona il suo Figlio alla morte. È questo il primo pensiero di fronte alla croce, il secondo riguarda noi. Gesù è morto per noi, il suo è un sacrificio volontario per la salvezza degli uomini. Meglio delle nostre parole, però, possono aiutarci a riflettere sulla morte di Gesù due passi della Scrittura.

La speranza del giusto è piena di immortalità Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro dipartita da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefìci, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé; li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro. Sapienza 3,1-8 Umiliò se stesso fino alla morte Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre. Filippesi 2,6-9


Giovanni 19,31-42

53. Gesù è deposto dalla croce e seppellito La stessa fretta che ha contraddistinto il giudizio e l’esecuzione di Gesù accelera gli avvenimenti dopo la morte del maestro. Sono già passate le tre del pomeriggio di venerdì, fra poche ore scenderà la sera e inizierà il sabato. Per i Giudei, difatti, il cambio del giorno non avviene a mezzanotte, bensì la sera, all’apparire delle prime stelle. C’è quindi pochissimo tempo a disposizione se si vuole evitare che il corpo del maestro resti in croce per tutta la notte e il giorno seguente. Al sabato, e soprattutto al sabato di Pasqua, la legge non permette di toccare i defunti. Bisogna far dunque in fretta e su questo punto sono d’accordo tanto i sacerdoti che i seguaci di Gesù. I primi vogliono nascondere la prova della loro ingiustizia e crudeltà, i discepoli vogliono evitare che il corpo del maestro sia di spettacolo per la numerosa folla che arriverà domani a Gerusalemme. Ancora una volta è Pilato a dover decidere. I sacerdoti gli chiedono un procedimento di urgenza; benché

a malincuore, il governatore invia dei soldati con il compito di affrettare la morte dei condannati. A questo scopo i soldati spezzano le gambe dei due ladri, ma quando arrivano a Gesù hanno un attimo di esitazione. Quel Giudeo è già morto, per accertarsi della sua morte basta un colpo di lancia al fianco. Nessun osso di Gesù viene perciò spezzato, un particolare cui l’evangelista Giovanni attribuisce grande importanza. È infatti l’ora in cui nel tempio vengono offerti gli agnelli pasquali; secondo la legge, essi debbono essere integri, senza alcun osso rotto. Tanto Gesù, quanto l’agnello, non hanno alcun osso rotto, Giovanni ne trae la conclusione: Gesù è il vero agnello pasquale, il vero sacrificio di Pasqua. Ma c’è un altro particolare che merita di essere sottolineato. Dal costato di Gesù ferito dal colpo di lancia esce sangue e acqua. Il sangue è il simbolo dell’eucaristia, l’acqua quello del battesimo, i due sacramenti che sono a fondamento della Chiesa. Come nuova Eva, questa nasce dal costato aperto del Cristo, suo sposo. Si sono mossi i sacerdoti, finalmente si muovono anche i discepoli. Vi è tra loro un

certo Giuseppe di Arimatea, un membro stimato e influente del sinedrio, il parlamento giudaico che ha condannato a morte Gesù. Scopriamo così un particolare di grande interesse: Gesù non ha fatto discepoli solo tra i pescatori e le donne della Galilea, la sua parola è stata accolta anche da uomini influenti. Giuseppe, dunque, riesce a farsi ricevere da Pilato, cui chiede il corpo del maestro. I Romani sono soliti concedere il corpo dei giustiziati a parenti e amici che ne fanno richiesta, ma in questo caso Pilato resta perplesso, quasi deluso. Si aspettava qualcosa di straordinario da quel Giudeo fuori del comune, quasi non crede che sia morto così rapidamente. Chiama perciò il centurione e gli chiede conferma della morte di Gesù. Alla risposta affermativa, concede il corpo a Giuseppe. Questi compra un lenzuolo e, seguito da qualche altro discepolo, si reca al Calvario. Bisogna anzitutto schiodare e calare dalla croce il corpo del maestro che viene poi avvolto nel lenzuolo e trasportato via. Ma il viaggio non è lungo. Poco distante vi è la tomba di famiglia di Giuseppe, lì viene seppellito Gesù. Come i sepolcri palestinesi di una certa importanza, quello

della famiglia di Giuseppe è formato da due ambienti comunicanti ricavati nella roccia. Dopo aver fatto rotolare in una scanalatura praticata ai piedi della parete la pesante pietra che serve da chiusura al sepolcro, si accede a un piccolo atrio che immette nella camera funeraria. Sulla destra di chi entra, la camera presenta una specie di banco di pietra, su di esso viene adagiato il corpo di Gesù. I discepoli vorrebbero fermarsi a venerare e onorare quel corpo amato, ma manca il tempo. Viene nuovamente rotolata la pietra d’ingresso, Gesù è sepolto.


Marco 17,1-7 Giovanni 20,1-10

La risurrezione 54. Gesù risorge e appare ai discepoli

«Uomini di Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret... dopo che fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere... Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (Atti 2,22-36). In questo modo l’apostolo Pietro, il capo della comunità dei discepoli di Gesù, testimonia per la prima volta la buona notizia: Gesù, il Crocifisso, il morto in croce, è risorto, è ritornato a nuova vita. Eppure noi abbiamo lasciato Gesù nel sepolcro. Cosa è successo nel frattempo? A questa domanda gli evangelisti rispondono affermando a loro volta: Gesù non è più tra i morti, egli è risuscitato a nuova vita. Ne sono una prova il sepolcro vuoto, dove non c’è più il suo corpo, e soprattutto le apparizioni. II sabato, il giorno seguente la sepoltura del maestro, i discepoli hanno celebrato la Pasqua e rispettato il riposo festivo. Ma il pensiero è ancora rivolto agli avvenimenti drammatici del giorno precedente, in particolare le donne vogliono tributare gli onori funebri al maestro seppellito in tutta fretta nella tomba

di Giuseppe. Subito dopo il tramonto del sole, perciò, non appena la legge lo permette, Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome si sono affrettate a lasciare le loro case. Si sono recate a comprare degli oli aromatici per imbalsamare il corpo di Gesù. Il giorno seguente, allo spuntare delle prime luci, le tre donne s’incontrano sulla strada del Calvario. Solo ora una grave difficoltà si affaccia alla loro mente: chi rotolerà via la grande pietra che ostruisce l’ingresso del sepolcro? Ma ormai le tre donne sono per strada e decidono di continuare, forse sperano di trovare aiuto sul posto. Arrivano così al sepolcro, ma con loro grande sorpresa questo è aperto, la pietra d’ingresso è già stata spostata. Con timore e precauzione entrano nel sepolcro, ma al posto del corpo inerte di Gesù vedono un angelo vestito di bianco. Spaventate, stanno per fuggire via quando l’angelo le tranquillizza: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea». Questo il racconto di Marco, Giovanni si rifà a quanto abbiamo appena letto. Dopo l’apparizione al sepolcro, Maria Maddalena pensa ad avvertire gli apostoli. Si reca perciò da Pietro e Giovanni ed esclama: «Hanno portato

via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Stupiti, i due discepoli corrono a loro volta verso la sepoltura. Il primo ad arrivare è il più giovane, Giovanni. Egli vede effettivamente il sepolcro aperto e, chinandosi, le bende nelle quali era avvolto il corpo di Gesù, ma, prima di entrare, attende Pietro. Questi arriva, entra e a sua volta vede le bende per terra, mentre il sudario che ricopriva il volto di Gesù è addirittura piegato e messo da parte. A questo punto entra anche Giovanni. Davanti al sepolcro egli ha avuto modo di pensare all’accaduto, di ricordare le parole del maestro prima di morire. È un attimo. La luce della fede gli illumina il cuore, egli capisce tutto: Gesù non è più tra i morti, egli è risorto come aveva predetto.


Luca 24,13-43

55. Gesù accompagna due discepoli in viaggio verso il villaggio di Emmaus ed è riconosciuto allo spezzare del pane; appare ai discepoli riuniti, per rassicurarli si fa dare un pesce arrostito e lo mangia

Finora abbiamo riportato il racconto di Marco e Giovanni, san Luca ci fa compiere un passo in avanti. La risurrezione non è solo la constatazione di un’assenza, il corpo di Gesù che non c’è più, ma un incontro. Il risorto accompagna i suoi discepoli, spiega loro la Scrittura, li rincuora, mangia con loro. Egli, insomma, è nuovamente presente in mezzo a loro, anche se si tratta di una presenza diversa, pronta a ritirarsi non appena non è più necessaria. Ma seguiamo il racconto di Luca. Sono passate alcune ore dalla strana scoperta del sepolcro vuoto e due discepoli stanno lasciando Gerusalemme. Sono diretti ad Emmaus, un villaggio distante una decina di chilometri. Forse ritornano a casa, forse vogliono allontanarsi dalla città che ricorda loro gli eventi dolorosi dei giorni precedenti. Essi sono dunque per strada e parlano appassionatamente di quanto è successo, quando un terzo viandante si unisce loro. Li ascolta per un po’, poi chiede: di cosa state parlando? La domanda stupisce i due discepoli: possibile che il forestiero non abbia saputo nulla? Eppure a Gerusalemme non si parla di altro! Uno dei due discepoli, chiamato Cleopa, si incarica di rispondergli. Parliamo, dice, di Gesù Nazareno «che fu profeta potente in

opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute». Parole di delusione, ma anche di grande affetto per Gesù. Eppure, il viandante risponde con un rimprovero: come fanno a non capire che il Messia è dovuto passare attraverso quelle prove proprio per compiere la sua missione? Non comprendono che i passi messianici della Scrittura si riferiscono a Gesù e alla sua passione? I discepoli sono stupiti, ma ormai si è fatto tardi e sono arrivati a Emmaus. Il viandante vuole dunque accomiatarsi, ma i discepoli gli chiedono di accompagnarli: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». È un invito a seguirli a casa, ma anche una bellissima preghiera. I discepoli si rendono conto del loro bisogno, di avere poca luce e poco tempo. Il viandante accetta il loro invito, insieme i tre entrano in Emmaus, si dirigono alla casa dei due discepoli, preparano qualcosa da mangiare. Finalmente si siedono a tavola, ma il forestiero prende il pane, pronuncia la benedizione, lo spezza e lo porge ai discepoli. Ormai non ci possono essere più dubbi: è proprio lui, Gesù, il Risorto. È un attimo. Quando i due discepoli si riprendono, il Signore non c’è più, ormai hanno la fede, non hanno più bisogno della sua presenza visibile. Dopo tutti gli avvenimenti dei giorni precedenti, dopo il lungo cammino, i due discepoli sono stanchi, ma come possono starsene ad Emmaus con una tale notizia? Ripartono subito per Gerusalemme e la gioia mette le ali ai piedi affaticati. Arrivati a Gerusalemme, trovano gli undici apostoli e tutti gli altri discepoli radunati. I due stanno per annunciare quanto è loro accaduto, ma sono preceduti dagli altri: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». Poi anch’essi possono raccontare la loro storia che diviene motivo di lode e di ringraziamento a Dio. Non è ancora finita la sorpresa per questi eventi straordinari che Gesù in persona appare in mezzo a loro. «Pace a voi!» è il suo saluto, ma i discepoli sono immobili, quasi spaventati. Gesù allora prosegue: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!». E a fugare ogni dubbio si fa dare un pesce arrostito e lo mangia. Il racconto delle apparizioni in Luca è ricco di particolari, vale la pena di sottolinearne uno. L’apice del racconto è il gesto eucaristico del pane spezzato ed è proprio a quel punto che i discepoli riconoscono il maestro.


Giovanni 21,1-19

56. La pesca miracolosa. La nuova chiamata di Pietro La vita di Gesù ha posto le fondamenta della Chiesa, la presenza del risorto tra i discepoli rappresenta il vero inizio della comunità cristiana. L’assemblea dei figli di Dio è riunita intorno al suo capo che presiede la prima eucaristia. Tuttavia la comunità cristiana non ha solamente una funzione liturgica, né la presenza visibile di Gesù è destinata a durare nel tempo. Ecco allora che un’aggiunta al vangelo di Giovanni, scritta dallo stesso apostolo o da un suo discepolo, si preoccupa di tramandarci due incontri con Gesù nei quali vengono date delle regole o esortazioni per la vita della Chiesa. Sono passati alcuni giorni dalla morte-risurrezione di Gesù, i discepoli sono ritornati in Galilea e si dedicano alle loro occupazioni quotidiane. Sulle sponde del lago di Tiberiade si ritrovano Pietro, Tommaso, Giacomo, Giovanni e Natanaele. A sera prendono il largo per la pesca ma, pur restando sul lago tutta la notte, non prendono alcun pesce. Sfiduciati, stanno per tornare a riva quando, alla luce incerta dell’alba, vedono sulla spiaggia una persona che attira la loro attenzione. Chiede qualche pesce da mangiare e, alla risposta negativa degli apostoli, suggerisce di gettare la rete alla destra della barca, nel punto in cui si trovano. Più per rispetto che per convinzione, gli apostoli obbediscono, e con loro grande sorpresa a stento riescono a tirare su la rete per la grande quantità di pesci. È la ripetizione di un miracolo operato da Gesù sullo stesso lago all’inizio della vita pubblica; il primo a ricordarsene è Giovanni: «È il Signore!», dice a Pietro, e questi,

generoso come sempre, si getta a nuoto per raggiungere il maestro. Trascinando la pesante rete, anche gli altri apostoli arrivano a terra. Qui è già preparato il fuoco con del pesce e del pane. Dice loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso or ora». Gli apostoli obbediscono e quando il pesce è arrostito, Gesù li invita: «Venite a mangiare». Poi prende il pane e lo dà loro; altrettanto fa con i pesci. È una scena liturgica, ma anche un incontro di grande intimità, al punto che nessuno degli apostoli osa interrogare Gesù, tutti sanno bene che è il maestro. Il racconto evangelico che abbiamo appena riportato viene chiamato dagli studiosi “esortazione missionaria”. Il suo significato è evidente: anche se si è pescato una notte intera senza risultati, non ci si deve abbattere. Bisogna continuare a gettare le reti; da un momento all’altro possono ritornare cariche di pesci. Né vale lamentarsi per l’assenza di Gesù. Sempre che lo vogliano, i discepoli possono incontrarlo nell’eucaristia e sperimentare la sua dolcezza, la sua affabilità. Questa interpretazione è confermata dall’episodio dell’incontro di Pietro con Gesù. Come abbiamo visto, i discepoli possono lasciarsi vincere dalla sfiducia. Gesù allora affida a Pietro il compito di esortare, sostenere, guidare i fratelli. La triplice ripetizione di fedeltà vuole essere un antidoto al triplice rinnegamento e allo stesso tempo un patto solenne. Solo nell’amore a Gesù, Pietro può trovare la forza per svolgere la sua funzione. È inoltre significativa anche la seconda parte di questo passo evangelico. Solo rinunciando alla propria volontà, seguendo il Cristo sulla via della croce, come effettivamente fece Pietro, si può svolgere una missione all’interno della comunità cristiana.

«Mi ami tu?» Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose

Gesù: «Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi: ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi». Giovanni 21,15-19


57. Gli apostoli vengono inviati a tutte le genti I discepoli sono ritornati in Galilea. Qui, secondo una promessa di Gesù, incontrano il loro maestro. Seguiamo ora il racconto dell’evangelista Matteo, per il quale l’episodio è la conferma e la conclusione di tutto il Vangelo. Gli undici apostoli si ritrovano su un monte della Galilea e lì Gesù appare loro per l’ultima volta. Il particolare del monte è importante: per Matteo, Gesù è il nuovo Mosè, superiore all’antico, il maestro che dal monte proclama la sua legge (il discorso della montagna). Incontrandosi un’ultima volta con i suoi su un’altura, Gesù vuole sottolineare questa verità e allo stesso tempo richiamare l’attenzione su di sé, anche visivamente. Egli è il segno per le nazioni, il salvatore cui debbono guardare tutti i popoli. Le sue parole confermano questa interpretazione: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». È un’allusione al famoso testo messianico del profeta Daniele, già ricordato da Gesù davanti al sinedrio riunito per condannarlo. Allora era stata una promessa, quasi

una sfida, ora è la tranquilla constatazione di una realtà già avvenuta. La proclamazione di questa verità non è una superba autoesaltazione, bensì il punto di partenza per la missione degli apostoli. Il mondo è come un grande campo donato a Gesù, agli apostoli spetta il compito di seminare, di annunciare la parola di Gesù e di battezzare gli uomini. Vale la pena di sottolineare un’altra caratteristica del vangelo di san Matteo. Fin dall’inizio (la venuta dei Magi) il primo evangelista ha messo in risalto la dimensione universale della missione di Gesù. Richiamandola ora alla fine

del Vangelo, Matteo vuole significare che l’annuncio di Gesù, contenuto nel suo libro, interessa tutti gli uomini. C’è però una differenza importante tra il racconto dei Magi e il comando dato agli apostoli. Là sono i pagani che vanno da Gesù, qui è la Chiesa che è inviata al mondo. A conclusione del Vangelo, una correzione significativa: è la comunità cristiana che deve prendere l’iniziativa, e, sull’esempio del maestro, andare incontro agli uomini.

Sarò con voi fino alla fine del mondo Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Matteo 28,16-20


Luca 24,50-53 Atti 1,3-12

58. L’ascensione di Gesù Secondo l’evangelista Luca, gli incontri tra Gesù risorto e i suoi discepoli sono distribuiti nello spazio di quaranta giorni. Alla fine di questo periodo, Gesù appare ancora ai discepoli su un monte e li benedice ma, mentre compie questo gesto, si stacca da terra e viene portato verso il cielo dove una nube lo avvolge e lo nasconde alla vista dei presenti. Questo distacco non cancella la precedente promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Anzi il distacco sensibile è la condizione indispensabile per permettere il nuovo tipo di presenza. Solo quando Gesù si sarà stabilito alla destra del Padre, potrà venire a noi il suo Spirito. Con la sua presenza egli testimonierà al mondo che Dio è dalla parte di Gesù, mentre condannerà coloro che non hanno creduto alla sua

parola. Avrà allora inizio il tempo ordinario della Chiesa, tempo nel quale lo Spirito renderà presente Gesù, facendo rivivere il suo insegnamento nel cuore dei discepoli. Incontriamo qui un’altra testimonianza della Santissima Trinità, e soprattutto abbiamo la prova della dimensione trinitaria della vita della Chiesa. Lo Spirito riceve dal Padre l’insegnamento e la vita di Gesù e li fa rivivere nella Chiesa e in ogni fedele. In breve, l’ascensione è la condizione della Pentecoste, quando i discepoli non avranno più bisogno della presenza sensibile di Gesù perché lo Spirito lo avrà fatto nascere dentro di loro. È questo il motivo per cui, senza lasciarsi abbattere dalla separazione, i discepoli tornano con grande gioia a Gerusalemme ed iniziano una vita nuova

lodando Dio. Ma c’è un altro motivo: ascendendo al cielo e sedendosi alla destra di Dio, Gesù è entrato nel nuovo mondo, nel regno di Dio che ha predicato sulla terra. Egli ha dunque inaugurato il nuovo regno nel quale prepara il posto ai discepoli. Ecco quanto diceva al riguardo san Leone Magno in una famosa predica: “L’ascensione di Cristo è nello stesso tempo la nostra elevazione, e là dove siamo stati preceduti dalla gloria del Capo, proprio là vediamo evocata la speranza del corpo. Lasciamo, quindi, miei cari, che la nostra gioia risplenda come è giusto e rallegriamoci con sante azioni di grazie. Oggi, infatti, non solo siamo stati

confermati nel possesso del paradiso, ma siamo addirittura ascesi con Cristo alle vette celesti. Per la grazia di Cristo abbiamo ricevuto più di quello che avevamo perso per l’odio del diavolo”. La contemplazione del cielo, tuttavia, non deve distogliere i fedeli dai doveri della missione. Difatti, secondo gli Atti degli Apostoli, l’altra opera di san Luca, i discepoli che si attardano a guardare vengono rimproverati da due angeli: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». È ormai inutile guardare in alto, bisogna ritornare a Gerusalemme, convertire le genti, radunarle nella Chiesa.


59. Dal racconto biblico che qui si conclude, le parole e i segni da ricordare Titoli di Gesù Figlio dell’uomo: così Gesù chiamò se stesso e, cosa notevole, soltanto nei suoi discorsi si trova questa espressione. Gli apostoli e la Chiesa primitiva non la usarono, perché poco comprensibile per i pagani. Infatti con questa espressione Gesù allude a un brano del profeta Daniele, che descrive il Messia come «un Figlio dell’uomo», cioè come un essere umano, ma proveniente dal cielo e investito di un regno eterno. Soltanto gli Ebrei che leggevano Daniele avrebbero potuto capire. Con questa espressione Gesù evita il termine Messia, che poteva essere inteso in senso puramente politico. Messia significa “consacrato con l’unzione” e si riferiva al re Davide e a quel suo discendente a cui era stata fatta la promessa di un regno eterno. Pietro, e gli apostoli con lui, riconobbe Gesù come il Messia che doveva venire; ma Gesù non volle che la notizia fosse divulgata, e incominciò a insegnare che il Messia doveva essere perseguitato e messo a morte, per togliere il pregiudizio di un Messia terreno e nazionalista. Cristo è la traduzione in greco della parola ebraica Messia.

Pietro

Giovanni

Giacomo

Negli scritti degli apostoli si riferisce prevalentemente al Cristo risorto e glorioso. Figlio di Davide è l’equivalente di Messia, perché secondo le profezie il Messia doveva essere un discendente di Davide, come effettivamente era Gesù. Rabbi era in ebraico l’appellativo per designare il “maestro”, cioè l’esperto della legge di Dio che istruiva il popolo e aveva dei discepoli aspiranti a diventare a loro volta maestri. Gesù era considerato come uno di questi maestri, sebbene insegnasse con autorità propria e non ripetendo l’insegnamento tradizionale. Figlio di Dio, indica un rapporto particolare con Dio. Per Gesù questo essere Figlio aveva un significato speciale e unico: Gesù era veramente “generato dal Padre prima di tutti i secoli” come dice il Credo. Signore, in greco Kyrios, nella traduzione greca della Bibbia corrisponde al nome di Dio “Iahvè”. Dopo la risurrezione Gesù fu chiamato Kyrios, Signore, per indicare la sua sovranità e la sua divinità. I dodici apostoli I dodici apostoli furono scelti da Gesù per essere i suoi immediati collaboratori, i custodi del suo insegnamento, i testimoni della sua risurrezione e infine i continuatori della

Andrea

Matteo

Filippo

sua missione con la predicazione a tutti i popoli. Il numero dodici è simbolico e si riferisce alle dodici tribù d’Israele. Gli apostoli sarebbero stati i fondatori e i capi del nuovo Israele, il popolo di Dio che è la Chiesa. I discepoli I discepoli erano coloro che abitualmente ascoltavano Gesù. Tra di loro settantadue furono incaricati di qualche predicazione e dopo la risurrezione di Gesù, insieme con le loro famiglie e le donne discepole (Maria Maddalena, Maria di Cleofe, Salome e altre) formarono il primo nucleo della Chiesa. Il numero settantadue è simbolico e si riferisce al numero tradizionale delle nazioni pagane o di tutti i popoli della terra, secondo la tavola dei popoli di Genesi 10, dove sono elencate settantadue nazioni. Abba, Padre Dal racconto che Marco fa dell’orazione di Gesù nel Getsemani, sappiamo che Gesù si rivolgeva a Dio con il termine aramaico Abba, che equivale al nostro “babbo, papà”. Questa era una novità assoluta; manifestava il rapporto unico di Gesù con Dio Padre e rivelava ai discepoli tutta la tenerezza dell’amore paterno di Dio. Come Gesù, i discepoli erano autorizzati a invocare Dio come Abba, Babbo, perché

Taddeo

Tommaso

Giacomo di Alfeo

uniti a lui mediante la fede e quella misteriosa comunione di vita che si chiama “grazia santificante” e che l’evangelista Giovanni chiama «vita eterna». A questo proposito Gesù afferma: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23). Lo Spirito Santo Questa espressione, già presente nell’Antico Testamento, indicava all’inizio una forza proveniente da Dio che illuminava i profeti, guidava i sovrani, interveniva a produrre effetti miracolosi. Gesù fece comprendere che lo Spirito Santo non è solo una forza divina, ma è lui stesso “persona”, come il Padre e il Figlio, che santifica i credenti e guida la Chiesa nell’opera di santificazione degli uomini. Così Gesù ha insegnato il mistero della Trinità: unità di natura e trinità di persone. Lo Spirito Santo è anche chiamato da Gesù “Paráclito” cioè “Consolatore, difensore”. A questo proposito Gesù disse agli apostoli: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce... Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto» (Giovanni 14,16-17,26).

Simone Zelota

Bartolomeo

Mattia


INDICE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.

Apostoli e discepoli annunciano il Vangelo I racconti orali danno origine a quelli scritti. Nascono i Vangeli La discendenza di Gesù L’annunciazione a Maria e la visita ad Elisabetta La nascita di Gesù I Magi Gesù insegna ai dottori nel tempio L’impero romano e la Palestina al tempo di Gesù Gruppi e partiti ebraici all’inizio dell’era cristiana Gesù si fa battezzare da Giovanni Battista e inizia la sua vita pubblica Gesù è tentato Gesù sceglie gli apostoli Gesù trasforma l’acqua in vino Nicodemo si reca di notte da Gesù, la Samaritana lo incontra al pozzo Testimonianza e morte di Giovanni Battista Il ministero in Galilea Il discorso della montagna I miracoli di Gesù La parabola del seminatore Gesù seda una tempesta, libera un indemoniato, risuscita una giovane La missione dei discepoli La moltiplicazione dei pani Il pane della vita La confessione di Pietro a Cesarea L’annuncio della passione e la trasfigurazione I discepoli di Gesù e i bambini. Il perdono Padre nostro Chi è senza peccato scagli la prima pietra Il fariseo e il pubblicano. Gesù chiama Zaccheo

30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59.

La parabola del Figliol prodigo Il prossimo può essere anche un samaritano Il giovane ricco «Sei invidioso, perché io sono buono?» Il cieco nato Gesù, buon pastore La risurrezione di Lazzaro Gesù entra a Gerusalemme come un re di pace Gli invitati alle nozze Gesù maestro sa rispondere a ogni domanda La fine di Gerusalemme e la fine del mondo Le vergini prudenti e le vergini stolte Il giudizio finale La sorte di Gesù e dei discepoli rassomiglia a quella del chicco di grano La cena di Betania L’Eucaristia, il corpo e il sangue di Gesù per noi Gesù lava i piedi ai discepoli Gesù promette lo Spirito Santo Gesù prega per i discepoli Gesù nell’orto degli ulivi Gesù condannato a morte La via della croce La morte in croce Gesù deposto dalla croce e seppellito Gesù risorge e appare ai discepoli I discepoli di Emmaus La pesca miracolosa. Nuova chiamata di Pietro Gli apostoli vengono inviati a tutte le genti L’ascensione di Gesù Le parole e i segni da ricordare



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