IL MITO
I L S U O L I N G UAG G I O E IL SUO MESSAGGIO ATTRAVERSO LE CIVILTÀ
IL MITO I L S U O L I N G UAG G I O E I L S U O M ES S AG G I O ATTRAVERSO LE CIVILTÀ a cura di Julien Ries testi di Ivan Bargna, Dario M. Cosi, Guy Deleury, Davide Domenici, Trudy Griffin-Pierce, Christine Kontler, Henri Limet, Michel Malaise, Gianfranco Ravasi, Julien Ries, Natale Spineto, Jacques Vidal, Paul Wathelet
indice
Ristampa 2021 International copyright © 2014 by Editoriale Jaca Book Srl, Milano All rights reserved Prima edizione italiana ottobre 2005
Copertina e grafica Jaca Book / Paola Forini
Parte Prima IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO Il mito e i suoi primi passi di Julien Ries Il mito: linguaggio e messaggio di solidarietà universale di Jacques Vidal
Stampa e legatura Grafiche Stella San Pietro di Legnago (VR) gennaio 2021
ISBN 978-88-16-60634-0 Editoriale Jaca Book via Giuseppe Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
Dal mitogramma al mito: la prima grande esperienza del sacro di Julien Ries
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Giochi di parole e miti nell’antico Egitto di Michel Malaise
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Omero: dal mito alla mitologia di Paul Wathelet
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Il mito di Demetra di Dario M. Cosi
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Il mito a Roma di Natale Spineto
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Gli imperatori mitici della Cina antica di Christine Kontler
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Parte Seconda COMINCIARE DALL’INIZIO: TEMI MITICI DELLA NASCITA DEL MONDO 55
Il mito hindu dell’oceano di latte e il pellegrinaggio per la grande festa del Vaso di Guy Deleury 191
Il mito cosmogonico, fondamento di tutti i miti di Julien Ries
Mito e storia nella tradizione mesoamericana: il caso di Tollan di Davide Domenici
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La giusta relazione tra gli esseri viventi nei miti dei Navajo di Trudy Griffin-Pierce
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Il mito nell’arte africana di Ivan Bargna
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La montagna cosmica 66 Caos acquatico e mostri 74 Il cielo in illo tempore 78 L’uovo cosmico 90 La coppia primordiale 94
Parte Terza MITI AL CENTRO DI DIFFERENTI CIVILTÀ
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Il mito di Enki e la prosperità di Sumer di Henri Limet
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Mito e storia nel mondo biblico di Gianfranco Ravasi
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APPENDICE Teorie sul mito di Natale Spineto
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NOTE E INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
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NOTA EDITORIALE “Il mito”, una delle tre costanti del sacro con il “simbolo” e il “rito”, è stato oggetto di molti studi da parte di Julien Ries. Quando usciva il presente volume collettivo, Ries stava facendo partire il Trattato di Antropologia del Sacro, a cui hanno partecipato, su suo invito, decine di autorevoli studiosi. Lo stesso metodo è stato utilizzato da Ries per questo volume, esemplificativo del senso e dell’uso del mito in diverse culture. Era il metodo da lui iniziato con i colloqui che hanno dato origine a una serie di convegni e alla collana di Storia delle religioni, Homo religiosus, pubblicata dal Cente d’histoire des religions a Louvain-la-Neuve e da Jaca Book. Contemporaneamente alla prima edizione di questo volume collettivo veniva pubblicato “Il mito e il suo significato”, un excursus storico di Ries sulla ricezione del mito. Nel 2008 gli scritti di Ries sul mito sono stati raccolti nel poderoso tomo dell’Opera omnia “Mito e Rito”. Il contributo personale di Ries alle ricerche sul mito è stato anche caratterizzato dalla sua partecipazione ai lavori dell’Unesco, diretti da Emmanuel Anati, per la classificazione dell’arte rupestre preistorica, che gli ha permesso, sulla scia di André Leroi-Gourhan, di constatare il costante riferimento al mito nello sviluppo della Rock Art dal Paleolitico superiore al Neolitico. Il fenomeno evidenziato già nel presente volume è stato messo in particolare luce da Ries nel volume illustrato Origine delle religioni (2012). Il mito. Il suo linguaggio e il suo messaggio attraverso le civlità accanto al tas (Trattato di Antropologia del Sacro), è ormai da ritenersi un classico dell’antropologia religiosa fondamentale, di cui lo stesso Ries è stato l’iniziatore.
Nell’arte preistorica, quasi a sottolineare che il linguaggio ha un ruolo primordiale nella vita dell’uomo, la parola assume talvolta una sua consistenza, come una materializzazione del pensiero. In una pittura rupestre dal sito di Chungai in Tanzania, databile tra il 14.000 e l’8.000 a.C., un individuo emette una fiumana di parole. Sono i tratteggi che gli escono dalla bocca.
PARTE PRIMA
IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
A fronte: parete di roccia istoriata con impronte di mani in negativo, datate circa al 5000 a.C. Cueva de las Manos, Canyon del Río Pinturas, Chubut, Patagonia, Argentina. Le mani dell’uomo compaiono nelle più antiche espressioni d’arte. Benché il loro significato sia stato oggetto di discussione tra gli studiosi, esse sono in ogni caso segno della consapevole presenza umana in un contesto di creatività culturale.
IL MITO
Il mito: linguaggio e messaggio
Certi luoghi naturali di particolare suggestione svolgono in alcune culture il ruolo di riattualizzare un mito. Nella foto: Rainbow Bridge, Glen Canyon (Utah, Usa). Presso questo arco di roccia gli Indiani Navajo pregano per impetrare la pioggia, che dal Cielo, miticamente inteso c ome Padre, giunge alla Terra, miticamente intesa come Madre.
A sinistra: gruppo di statuette antropomorfe disposte in modo da evocare una riunione di persone attorno a qualcuno che si distingue dagli altri per il colore diverso e perché i componenti del raduno sembrano rivolgersi a lui. Varie colonne che formano una specie di steccato fanno da sfondo a questa c omposizione scultorea, ritrovata nel centro cerimoniale olmeco di La Venta (900-400 a.C.), in Messico, nello stato di Tabasco, oggi conservata al Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico. Si tratta di un’offerta votiva la cui dimensione cerimoniale dà vita a miti e idee della cultura olmeca, che, certo presenti nell’arte di questo popolo, sono tuttora d’interpretazione incerta.
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IL MITO E I SUOI PRIMI PASSI di Julien Ries
Inciso e colorato su una roccia circa all’inizio della nostra era, a Dalles, presso il fiume Columbia (Washington, Usa), il ritratto di Tsaglaglalal, una sovrana mitica degli Indiani del Nord Ovest. Un mito riguardante l’origine della sovranità deve aver ispirato il creatore di questa splendida maschera rupestre.
Il mito è un racconto sacro ed esemplare che riferisce un avvenimento del tempo primordiale e fornisce all’uomo un senso determinante per il suo comportamento. Per la sua funzione simbolica, il mito svela il legame dell’uomo con il sacro. Infatti, nelle società tradizionali dove mito e rituale sono collegati, il rituale permette la riattualizzazione del mito, il che vuole dire un ritorno alle origini e alla creazione: in questo modo esso diventa generatore di nuove forze. I miti cosmogonici rivelano la creazione del mondo, la condizione umana e i principi che reggono il cosmo. I miti d’origine fanno conoscere e giustificano ogni nuova situazione e ogni trasformazione del cosmo: genealogie, miti di guarigione, miti d’origine dei medicamenti e delle terapie. I miti di rinnovamento – renovatio mundi – riguardano l’intronizzazione di un nuovo re, l’anno nuovo, l’avvicendarsi delle stagioni, la rigenerazione del tempo, le cerimonie d’iniziazione. I miti escatologici comprendono sia il passato sia l’avvenire: diluvio, crollo di montagne, terremoti, catastrofi cosmiche, miti delle età del mondo. I miti sono giunti a noi tramite testi scritti e tradizioni orali. Grazie a questa copiosa documentazione, la ricerca moderna ha potuto fare una rilettura delle spiegazioni del mito elaborate nel corso dei secoli, dai filosofi ionici, da Platone, da Evemero e dall’antichità greco-romana. Carl Gustav Jung ha messo in luce la nozione di archetipo, un’immagine
primordiale presente nell’inconscio collettivo, e cioè nell’infrastruttura permanente di ogni cultura. Con una distinzione utile tra schema e archetipo Gilbert Durand mostra che gli schemi formano lo scheletro dinamico e il canovaccio funzionale dell’immaginazione. Tragitti incarnati in rappresentazioni concrete e precise, i gesti differenziati in schemi entrano in contatto con l’ambiente naturale e sociale e potranno così determinare i grandi archetipi. La ruota, per esempio, è il grande archetipo dello schema ciclico. In definitiva, come precisa Régis Boyer, nella nozione di archetipo si incontrano tre connotazioni: prototipo, modello ideale e tipo supremo. Allora si comprende l’ermeneutica del mito fatta da Mircea Eliade: «Il mito è uno strumento mentale dell’homo religiosus». Grazie al mito e alla sua funzione simbolica, quest’ultimo scopre un avvenimento primordiale, fondatore di una struttura del reale e, come conseguenza, di un comportamento umano. In altre parole, il mito è portatore di un linguaggio e di un messaggio. E tale messaggio riguarda la condizione umana. È normativo per il comportamento umano. All’alba dei tempi storici, vediamo sorgere i grandi miti del Vicino Oriente, dell’Egitto e del mondo mediterraneo. Questi fatti ci invitano a interrogare gli archivi archeologici e le iconografie del Neolitico e del Paleolitico superiore. André Leroi-Gourhan ha parlato di mitogrammi dell’arte parietale. Con questo vocabolo egli indica degli «assemblaggi complessi le cui figure si organizzano in un tempo e in uno spazio
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
Il mito e i suoi primi passi
Incisione rupestre del Keams’s Canyon, Hopi Mesas, Arizona (Usa). Raffigura un personaggio mitico per gli Indiani Hopi, chiamato il custode del respiro. Dalla sua bocca proviene la doppia spirale, simbolo dell’aria che permette agli uomini di vivere. Questa immagine si può considerare riferibile ad un contesto mitico in cui spicca il rilievo dato alla condizione umana.
che hanno le proprietà spazio-temporali del mito». Egli distingue il mitogramma dal pittogramma, che è una figura o una serie di figure, in quanto il mitogramma presenta personaggi protagonisti di una operazione mitologica: è quanto avviene in numerose pitture australiane e nell’arte parietale franco-cantabrica. In questi documenti, André Leroi-Gourhan vede i testimoni arcaici dell’attitudine nell’uomo di fissare il proprio pensiero in simboli materiali. Il mitogramma attesta la costituzione di una coppia intellettiva fonazione-grafia, poiché i simboli del disegno artistico assumono il loro senso reale solo nel momento in cui vengono animati da un discorso. A partire dal ix millennio a.C., la sedentarizzazione agricola, l’evoluzione dei villaggi verso la città e poi la scoperta della metallurgia porteranno all’invenzione delle prime scritture. Sarà questa la tappa della subordinazione dell’espressione grafica all’espressione fonetica, che avrà come conseguenza un impoverimento del pensiero multidimensionale presente fino ad allora nei mitogrammi paleolitici.
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Questa ipotesi di Leroi-Gourhan ci fa capire che le radici del pensiero mitico affondano nei tempi oscuri del Paleolitico e che l’arte parietale rappresenta una documentazione di primaria importanza per lo studio di questo pensiero e delle sue origini. Raggiungiamo direttamente la ricerca di Eliade sull’edificio religioso del Neolitico. Con la sedentarizzazione e la scoperta dell’agricoltura, l’uomo diventa produttore del proprio cibo. Il suo comportamento si modificherà, perché egli sperimenta una solidarietà «mistica« tra sé e la vegetazione. La cerealicoltura e la vegecoltura (tubercoli, frutti) sono all’origine dei miti agrari. Altri temi mitici conosceranno un grande sviluppo: la relazione tra la donna e il mondo vegetale; il mistero del ritmo della vegetazione; il periodico rinnovarsi della natura; lo spazio sacro e il tempo circolare; il mistero della nascita, della morte e della rinascita. I millenni neolitici costituiscono l’humus in cui si sono formati i grandi miti del Vicino Oriente e del mondo mediterraneo.
Un acquerello che riproduce un dipinto eseguito con sabbie colorate dagli Indiani Navajo. Tali pitture vengono realizzate nel corso di cerimonie volte ad ottenere una guarigione e si riferiscono ad un repertorio di miti d’origine: le forze creatrici entrano a modificare la disarmonia del mondo anche attraverso il dipinto.
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
Il mito e i suoi primi passi
Un mito che riguarda la rigenerazione del tempo prende corpo nella grande pietra vulcanica azteca, nota come Piedra del Sol, un monolite calendariale che raffigura i quattro soli, cioè le “età del mondo”, con al centro il Quinto Sole, inizio dell’epoca attuale. La pietra è conservata al Museo N azionale di Città del Messico. A fronte: nelle società tradizionali con l’iniziazione i giovani vengono introdotti alla visione del mondo e della comunità raccontata dai miti di rinnovamento che si riattualizzano con il rito destinato ad immettere nel gruppo una nuova linfa. Nella foto: un pitone mitico in legno dipinto che, in coppia con un altro, compare nei riti d’iniziazione dei Baga (Nuova Guinea), inscenando una simbolica lotta tra gli opposti volta a mostrarne la complementarità.
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
Il mito e i suoi primi passi
Ruote scolpite nell’induista Tempio del Sole a Konarak (Orissa, India), costruito alla metà circa del xiii secolo. Concepito come un gigantesco Carro del Sole, le sue 24 ruote rappresentano le ore del giorno. La ruota, infatti, nella visione induista allude al trascorrere del tempo. A destra: La ruota del dharma – per il buddismo la legge cui è sottomessa ogni realtà – rappresentata in un oggetto cerimoniale tibetano del vi-vii secolo d.C. Gli otto raggi, circondati da un cerchio fiammeggiante, simboleggiano l’ottuplice sentiero, la via che conduce all’estinzione della sofferenza.
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
Il mito e i suoi primi passi
A Lascaux: lo splendido cavallo detto “cinese”, dipinto 10-12.000 anni prima della nostra era, è associato a tratti filiformi.
A sinistra e sotto: due esempi dall’arte aborigena dell’Australia legati a personaggi mitici. Una wandjina, essere mitico ancestrale d ipinto specie nella regione di Kimberley e, dall’arte rupestre della Terra di Arnhem, un’essenziale raffigurazione del serpente-arcobaleno, personaggio di un mito associato alla pioggia e alla fecondità.
Dall’arte parietale della grotta di L ascaux (Dordogna, Francia): un a ssemblaggio complesso con stambecchi che si fronteggiano, due cavalli e segni sottili di forma allungata.
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
Il mito e i suoi primi passi
Perfettamente integrati n ell’ambiente paludoso all’estremo sud dell’Iraq, i mudhifs, gli edifici in canna d estinati all’ospitalità, ai raduni e alle c elebrazioni, sono già raffigurati nel 3000 a.C., come si vede nell’impronta di un sigillo dell’epoca (sopra) conservato all’Ashmolean M useum di Oxford. A sinistra: un antropomorfo a forma di albero: arte rupestre schematica spagnola del iii m illennio a.C. (Rosa, Cadice). La simbiosi tra uomo e vegetazione è qui rappresentata in modo assai efficace.
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Di sapore neolitico la scena di banchetto scolpita su di una piccola piastra in calcare del iii millennio a.C., ritrovata a Khafagia, in Iraq, nel tempio attribuito a Sin, divinità lunare, e conservata all’Oriental Institute di Chicago. L’uomo, produttore del suo cibo, è più portato a esprimere la cura richiesta dall’allestimento di un banchetto.
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO DI SOLIDARIETÀ UNIVERSALE di Jacques Vidal
I miti moderni
Costantino Nivola, New York, olio su tela dei primi anni ’70. Nivola, emigrato in America per sottrarre la moglie alle leggi razziali, ritornerà più volte con la sua opera pittorica a descrivere gli incroci stradali assorbenti e assordanti di New York. Ormai è la sua città, il caos ha acquisito forma: Nivola può viverci, vivere con uomini diversi, culture diverse. La metropoli multietnica potrebbe rivelarsi propizia alla comprensione del mito come componente attiva dell’umanità di oggi.
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Partiamo dai miti moderni1. Sono spaesati, ansimanti, smarriti. L’Occidente contemporaneo ha il singulto e farnetica quando si accosta alla funzione mitica e ancora di più quando essa si attiva «in lui senza di lui» come scriveva Henri Delacroix a proposito d’istanze analoghe. Il fatto è che lo slancio dei nostri miti è stato spezzato da tre incontri. Tre maestri di sospetto, in questo caso, sembrano averli paralizzati. Si tratta del cristianesimo, della scienza, della storia con il suo progresso razionale e pratico. I miti in gestazione nel genio della nostra cultura2 non hanno saputo sostenere questa triplice sfida critica. Forse adesso potrebbero riuscirci a causa di un quarto incontro. Si tratta dell’incontro con società, culture e religioni non occidentali all’interno del progetto di un mondo in via di tumultuosa unificazione. Tali contesti umani, la cui omogeneità con il nostro è lungi dall’essere vissuta come evidente, penetrano la nostra esperienza quotidiana. La disturbano anche, nella misura in cui restano estranei. Ora, i miti di questi altri mondi sembrano essere una tra le chiavi della loro originalità. Una simile percezione ci fa tornare con vigore ai miti delle nostre radici greche e romane. E per vivere la «differenza» nella reciprocità di uno scambio siamo indotti a inventariare e analizzare il patrimonio
mitologico dei continenti africano, americano, asiatico, australiano, europeo3. Da questo sforzo cominciano a risultare degli insiemi coerenti. La mitologia comparata del xx secolo si è data lo strumento delle ermeneutiche. Mircea Eliade, Claude Lévi-Strauss, Paul Ricoeur, e altri, hanno interpretato i miti, pur con tecniche diverse, in epoche diverse e a partire da differenti culture. È vero che in materia di mitologia si scatena un autentico conflitto delle interpretazioni. Ma è anche vero che un certo esito si fa strada. In particolare lo indica George Dumézil. Seguiamolo fino al punto in cui il suo procedere chiarisce la coerenza creatrice di un mondo indo-europeo che si estende dalle rive del Gange all’Islanda passando per l’Iran. All’alba della cultura europea, tra «società divina» e «società umana», una poetica prende forma secondo tre funzioni essenziali: la sovranità magica e giuridica (il prete), la forza guerriera (il soldato), la fecondità e la fertilità (l’allevatore-produttore). La tripartizione funzionale dell’ideologia indo-europea costruisce in simpatia e sinergia i miti delle culture attinenti. Manifesta le loro differenze e le loro originalità. Orienta il loro progetto nella forma divergente di uno stesso slancio dal ritmo ternario. Certo, occorre guardarsi dalla sistematizzazione di questa apertura. I punti acquisiti per un continente culturale possono non valere altrove. Alla fine,
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
però, gli strumenti d’indagine elaborati da George Dumézil introducono allo studio organico delle mitologie. Accostano al deciframento di una poetica primordiale di cui mettono a disposizione un ramo importante. Sulla base di questo nuovo Ramo d’oro, la mitologia comparata del xx secolo arriverà a decifrare il linguaggio e il messaggio dell’anima collettiva di un «popolo prima dei popoli» – uno solo – che sarebbe la Terra elementare del verbo dell’uomo, presente in ciascuno secondo la sua cultura? La nostra epoca ha colto la questione. Stiamo attraversando il passaggio dalla gamma delle nostre ermeneutiche allo scatto di una poetica. Un anagramma di umanità Le scienze religiose non sono forse scienze umane applicate al fenomeno religioso? Un tale oggetto di riflessione4, infatti, richiede l’insieme delle discipline che concorrono a una scienza dell’uomo (storia, filosofia, sociologia, etnologia, psicologia...) e ognuna di esse viene trasformata dall’originalità di quell’oggetto. Esso le apre tutte su di un al-di-qua e un al-dilà del loro specifico statuto a causa della sua irriducibilità5. Quest’ultima caratteristica esige che l’uomo nella sua interezza e con le sue solidarietà – per di più con la traccia e l’effetto di un legame misterioso a una realtà fondamentale chiamata il divino – venga colto ad un tempo come oggetto di conoscenza e soggetto di esperienza. Il paradosso così inciso nel vivo delle scienze religiose viene esso stesso distribuito tra i cantieri di una disciplina in cerca di unità, replica moderna delle Summe medievali: l’antropologia religiosa. Questa generosa ricapitolazione, la cui utopia stimola la nostra epoca, assicura l’empirismo del suo modo di procedere tramite lo studio paziente delle religioni costituite. Essa si fa scienza delle religioni6. Consolidate, disfatte o rifatte, le religioni intervengono una ad una, da un continente all’altro, dalla preistoria alle peripezie dell’attualità7. Inventariate, analizzate, paragonate, sottomesse a una interpretazione evoluzionista, riprese nelle forme aperte della fenomenologia, tradotte o decodifica te nelle ermeneutiche, rapportate agli eventi di una poetica primordiale, le religioni ci consegnano un messaggio di tipo universale8. Si tratta di un’immagine d’uomo elementare, singolare,
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Il mito: linguaggio e messaggio di solidarietà universale
collettiva, animatrice dell’immaginario e dell’onirico, generatrice del sacro dalle ierofanie alle teofanie. Una tale immagine è coerente al livello delle corrispondenze e delle trasformazioni di una logica del simbolo, del mito e del rito. Essa può contenere la coscienza e lo spirito, la società, la storia, il sapere e la parola, senza che alcuna di queste istanze ne esaurisca l’energia creatrice. Essa è un anagramma di umanità che l’antropologia religiosa si applica a decifrare. Per dirla in breve, e non soggiacere a connotazioni culturali affrettate, è conveniente parlare di homo religiosus. I miti: radici della cultura Sarà comunque la cultura a ricevere la nostra attenzione, poiché accederemo all’homo religiosus sulle strade del mito e non su quelle dei simboli naturali9. I miti sono in effetti linguaggio e messaggio di un’esperienza di solidarietà universale che precede, si esplicita e si ritrova nel materiale narrativo di una tradizione. Così i racconti mitologici traducono in cultura la natura dell’uomo elementare. Non la dicono per intero. Non bastano comunque a realizzarla. Qui entra in gioco il rito al quale i racconti mitologici si rapportano. Questo aspetto transitorio del mito sottolinea il carattere relativo di un approccio. Il mito così esige che le reciprocità del linguaggio e del messaggio siano mantenute senza prevaricazione di un termine sull’altro. Si farebbe del mito una vuota fortezza se il linguaggio la facesse da padrone. E se il messaggio facesse pesare troppo il suo fascino, si farebbe del mito una parola ossessiva. Nel primo caso ci si esporrebbe alle forme di un autismo culturale che conserverebbe mitologie balbuzienti, nel secondo ci si abbandonerebbe ai trasporti di una religiosità che finirebbe con l’alimentare mitologie complici. L’aprirsi alla natura, al suo silenzio e alla sua pregnanza, è la regola per un assetto equilibrato delle due componenti10. Assicura le basi di un credere nell’uomo. Le ricerche dell’antropologia sociale e culturale confermano questa clausola di salvaguardia11. I miti vengono qualificati come «principi integratori». L’espressione designa il rapporto di cultura e natura in seno a una dinamica d’integrazione che è appunto il compito della cultura stessa. L’uomo colto non deve forse sapere da dove viene e dove va? Senza i miti e i riti, il senso
elaborato dalla cultura rischia di non essere abbastanza radicato. È indispensabile che la parte concreta dell’uomo, ad un tempo abitante delle «tre regioni del mondo» – la terra nel mezzo, il mondo in basso e quello in alto –, sia in grado di esprimersi. La scienza delle religioni beneficia di questi punti acquisiti. Ma essa insiste sul posto e il ruolo del simbolo negli elementi immediati dell’esperienza corporale, nell’immaginario e nell’onirico. Essa fa notare che se un certo culturalismo esita sul rapporto di anteriorità tra mito e rito12 la ragione sta nel non aver assicurato il ruolo di base del simbolo. L’anelito a una verbalizzazione totale, che anima il racconto ricapitolatore del mito, proviene da un’energia di solidarietà, trasfigurata dal simbolo, e si dirige verso un’energia di pratica comunitaria, realizzata dal rito. La trascendenza del messaggio viene così in qualche modo gestita nell’immanenza del linguaggio13. La scienza delle religioni dunque situa il mito «al centro». Si pronuncia per la realtà di un progetto organico che tende a delineare la statura dell’uomo elementare con un tratto che va dal simbolo al rito, passando per il mito. Questa traiettoria bio-antropologica una volta sviluppata si ripiega e ritorna al simbolo, suo principio. L’uomo stesso è un uroboro. Si rizza e si leva alla ricerca della sua dimensione e della sua potenza. Continuamente ripreso o ripetuto nei lampi della violenza e nei morsi dell’eros, il progetto organico del simbolo, del mito e del rito tende a generare l’immagine di una spirale a cerchi variabili la cui punta ricerca un assoluto che si schiude negli esiti del sacro e che potrebbe essere chiamato, non dio, ma il divino. Appare l’asse di un’ortogenesi di divinizzazione. E resta, come una capacità esercitata, quando la spirale ricade. In questo senso, che si deve qualificare come pre-confessionale, l’uomo primordiale è un homo religiosus di cui il mito, al centro, è «la grande parola»14 naturale, bocca d’oro annunciatrice di metamorfosi15. Questi discorsi per essere meglio compresi, e soprattutto situati, richiedono due annotazioni. La prima è che il mito fa sorgere la precedente luce di uno spirito collettivo di cui ogni individuo è portatore. Senza dubbio Gian Battista Vico l’aveva intuito dichiarando «l’indispensabile necessità» di ricercare le basi della scienza nuova «negli inizi della storia sacra»16. Auguste Comte non ha forse ripreso e concet-
tualizzato questi punti di vista per ridurne l’esercizio alle esigenze di un positivismo sociologico? Émile Durkheim e Marcel Mauss videro meglio la forma elementare, religiosa e globale di uno spirito collettivo antecedente. Ma ne ridussero la funzione ad un apprendistato magico della vita in società. George Dumézil e Mircea Eliade cominciano invece a certificarne lo zampillare autonomo, la poetica. Una seconda annotazione concerne le religioni istituzionalizzate, le confessioni stabilite, le spiritualità sperimentate. Allo stato attuale delle cose, esse esercitano ad un tempo violenza e diritto sul verbo mitico dell’uomo primordiale. Esse servono la sua affermazione, ma, nello stesso tempo, vi contravvengono nella misura in cui ciascuna resta ancora troppo legata a un tipo di cultura. Così al di qua dei gruppi sociali, delle culture e delle religioni, il mito resta come risorsa dell’uomo, al centro dell’homo religiosus, linguaggio e messaggio in sospeso. Tuttavia, grazie all’abbondanza dei miti espressi nelle diverse culture17, la scienza delle religioni è in grado d’individuare alcune delle strutture attive nella formazione di ogni mito. Ve ne sono tre che presiedono allo svilppo del racconto. Sono le strutture, o linee generative, dette di base. Altre sette, chiamate strutture derivate, assicurano la dimensione e la coerenza di ogni mito. Insomma, l’antropologia religiosa propone una sorta di decalogo per una parola mitica integra. Le strutture di base del mito Le strutture di base formano una trilogia che inizia per O. Si tratta dell’Oralità, l’Origine, l’Operatività. Il mito è una funzione orale, determinante per le culture tradizionali, dette senza scrittura, marginalizzata nelle culture della scrittura. L’oralità è l’espressione verbale di una relazione che ingloba l’uomo e l’ambiente. Recitazione ripetuta, formula mimica, bilateralità, gesticolazione simbolica, l’oralità sveglia il corpo di chi parla e di chi ascolta per una stessa masticazione della parola. È una tecnica antropologica del respiro elementare18. La bocca di un’anima collettiva parla dalle profondità dell’uomo in seno a una tradizione messa al presente. Perché il mito esercita una memoria primordiale.
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
A questo titolo è funzione d’origine. Si ricorda di un’epoca eroica, di un età dell’oro, di un tempo guaritore. Racconta una cosmogonia o una teogonia; recita una genealogia. I miti di creazione mettono di nuovo in scena l’Infanzia del Mondo. La potente «nostalgia delle origini» che risvegliano potrebbe però portare a un immaginario regressivo se non si aggiungesse il correttivo dell’operatività. Forse bisognerebbe parlare di una struttura operaia. Il mito infatti mira all’azione, o all’opera, al principio che regola il suo rapporto con il rito nel progetto organico dell’homo religiosus: è fondatore della vita sociale e morale di un gruppo. Tale ruolo ha una portata ontologica, e anche ontogenica, come sottolinea Mircea Eliade. La conformità all’antenato mitico dà consistenza al reale quotidiano. Ma anche – ed è questo che ormai ci riguarda – il mito si fa operaio della storia del mondo. I miti antichi e quelli moderni, snaturati, «sbriciolati» dalla scienza e dalla religione che hanno servito19, non sono forse determinati, nella loro stessa essen za, ad esercitare più ancora di ieri la loro funzione di preconoscenza per l’azione degli uomini? Essi operano, surrettiziamente, nel processo globale di un mondo in via d’unificazione. Lavorano in segreto i disegni e i progetti dei nostri contemporanei. Fermentano e trovano il modo di agire tangenzialmente. Dispongono di un campo d’azione largamente aperto e già efficace. Dimenticati, si trovano ad avere una maggiore mobilità. Evolvono, non senza rischi. Una teologia nascosta può comporsi con un’archelogia tradizionale. Introduce la turbativa di una tensione, la prova di un conflitto tra l’inizio e la fine del Tempo primordiale dell’uomo elementare. Quest’ultimo cerca di ri-orientarsi in seno a un’esperienza di umanità che è prima e ultima. La struttura operativa dei miti si configura come uno dei nostri impegni. Le strutture derivate del mito Le strutture derivate formano uno stupefacente settenario. La prima è detta speculare. Perché ogni mito è uno specchio. Gli uomini vi cercano la loro immagine. Vi si riconoscono. La seconda si chiama esemplare, o paradigmatica. Ogni mito dà l’esempio. Propone dei modelli da seguire. Determina l’azione. In questo senso è portatore di un’etica.
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Il mito: linguaggio e messaggio di solidarietà universale
La terza struttura è festiva. I miti sono i Canti del Mondo. Esprimono l’esultanza s egreta degli uomini. Celebrano l’unità, nonostante questa venga dovunque contraddetta. E la quarta struttura è tragica. I miti attestano un dramma all’origine le cui conseguenze sono quotidiane. L’ombra e il grido si mescolano alla luce e al canto. Un genio collerico della distruzione si agita. Un principio di male si aggira accanto a un principio di bene. Viene chiamata androgina la quinta struttura. Il fatto è che i miti sposano il giorno e la notte, il cielo e la terra, l’acqua e il fuoco, la pianta e l’animale con l’uomo e con gli dèi. In particolare i miti tendono a cancellare la dualità dell’uomo e della donna. Aspirano a una creatura completa. Si arriva così a una struttura eroica. I miti sono le gesta di un eroe civilizzatore, origine e fondamento di un popolo, di una tradizione, di una cultura. Si snoda un’epopea al centro delle tre «regioni cosmiche», presso l’antenato, al confine tra uomini e dèi. Essa reintegra ciascuno nella perennità degli atti primordiali. E si capisce allora come la settima struttura sia divina. Quest’ultima non si accomuna con le precedenti. Se la si chiama derivata è esclusivamente perché solo alla fine si capisce che essa si colloca all’inizio della funzione mitogenica. Gli dèi le danno senso nello spazio e nel tempo. Invitano, comandano, tormentano, consolano. Sono sia l’altro sia il medesimo, nelle forme incerte delle metamorfosi proclamate dai miti. Fanno della commedia umana una commedia divina. Il divino è dunque un possibile ordine dell’insieme. Le strutture di base vi si riferiscono quando esso appare al principio di ogni parola, di ogni nascita, di ogni atto. Le strutture derivate lo designano quando procedono per paia o coppie riconciliate: lo speculare e l’esemplare, il festivo e il tragico, l’androgino e l’eroico. Allora, nel sistema che definisce una costruzione mitica, una sorta di oracolo fa sentire la sua voce a favore di questi tratti ricomposti. Si fa luce la conoscenza figurativa e divina toria di una alleanza. A questo punto il mito è superato, benché la sua sostanza permanga nell’homo religiosus, retro-mondo di ogni convinzione aperta, fondamento mantenuto per una trascendenza della parola. Schelling era arrivato a riconoscerlo. Mito, metafisica e verità religiosa sono apparentati in un processo di realizzazione dell’uomo venuto fuori per intero dalle forme del suo silenzio.
James Turrel, Night Passage (Passaggio di notte), 1987, The Solomon R. Guggenheim Foundation (donazione Giuseppe Panza). L’opera consiste in un grande taglio rettangolare ad aprire verso l’esterno il muro di una stanza. Lo spettatore dell’opera è messo di fronte a un azzurro assoluto, distesa cromatica di profondità, di cielo, d’infinito e dell’origine. L’arte “Ambientale” contemporanea non narra singoli miti, ma ricerca un originario in un luogo scoperto e orientato dall’artista.
Dolci per il giorno dei defunti in Messico: una festa cristiana incontra l’ancestrale senso della morte delle popolazioni locali.
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
Il mito: linguaggio e messaggio di solidarietà universale
Viracocha A
NE
NW
Cuzco
SE B
SW
C
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A sinistra: il disegno rappresenta la divisione dell’universo per la cultura Inca. Il mondo dei viventi (B) era compreso tra il mondo di sotto (C) e quello di sopra (A). A questa tripartizone verticale ne corrispondeva una orizzontale: la croce dei 4 punti cardinali, con al centro Cuzco, da cui si dipartiva anche la suddivisione dell’Impero. L’uomo, però, specie nei luoghi sacri, come Cuzco, compartecipava a tutte e tre le regioni del mondo, concepito come un’unità viva. A destra: da un testo del 1597, Hieroglyphica di Niliaco Horapolo: un uroboro. In genere è un serpente che si morde la coda, qui è un uccello con il corpo allungato fino all’estremità. Visualizza tempo e continuità: a ogni fine corrisponde un nuovo inizio.
A sinistra: un’iniziale miniata dal Messale di Gellone dell’viii secolo, conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Si sfrutta qui la forma del serpente che si morde la coda. A destra: un uroboro nel duecentesco mappamondo del monastero di Ebstor (Hannover, Germania). Un giardino primordiale è racchiuso nelle spire del serpente, ad indicare che esso abbraccia l’universo.
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Un disco zodiacale usato anche per previsioni mediche. Zodiaco significa, dal greco, “ruota della vita”, e il suo principio elementare si trova nella circolarità dell’uroboro. Da un manoscritto del xiii secolo, Dragmaticon Philosophiae Magistri Choncis, conservato nella Biblioteca della Facoltà di Medicina di Montpellier. A fronte: la ripartizione dell’universo, e il relativo ruolo dell’uomo, è condivisa, pur in modo assai differenziato, da civiltà le più distanti. Qui vediamo un documento del 168 a.C. circa proveniente dalla Cina. È il particolare di un drappo di seta dipinta trovato nella tomba di una principessa. Si tratta della fascia mediana: la defunta, appoggiata a un bastone, cammina tra cielo e terra, in una sorta di anticamera celeste, in procinto di ascendere ai mondi dell’immortalità. Un uccello, forse un pipistrello, sovrasta ad ali spiegate la scena centrale, al di sopra della quale c’è il cielo, mentre al di sotto, non visibile nell’immagine, c’è un banchetto funebre e, infine, gli inferi.
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Il mito: linguaggio e messaggio di solidarietà universale
Dettaglio di una pittura murale di Teotihuacan, nello stato del Messico, la città mesoamericana per eccellenza, la cui evoluzione inizia agli albori della nostra era e termina nell’viii secolo d.C. Il dio Tlaloc, divinità associata alle piogge, è qui rappresentato con la cosiddetta virgola della parola. Si tratta di un elemento collocato all’altezza della bocca, che s’innalza e s’avvolge come una voluta. È una forma che vuole rendere visibile l’essenza stessa della comunicazione orale. A fronte: una casa in terracotta dove si svolge una riunione. Scene simili non sono insolite in questi “modellini”, provenienti dalle sepolture dello stato messicano di Nayarit, la cui cultura fiorisce dall’inizio dell’era cristiana fino al vii secolo. Esprimono una condivisione quotidiana e rituale, trasmessa dai rapporti prossimi, primo veicolo della tradizione orale. Alle pagine seguenti: una pittura rupestre nel Sahara libico, a Uan Amil, Acacus, che tentativamente si d ata attorno al 2000 a.C. È un colloquio tra due persone che paiono scambiarsi q ualcosa. Il linguaggio umano articolato ha facilitato, tra l’altro, la trasmissione di un sapere che si esprimerà anche nel mito.
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Per gli australiani autoctoni il Tempo umano ha origine da antenati, esseri soprannaturali che hanno disseminato il territorio di luoghi utili agli uomini, disegnando il paesaggio roccia per roccia, fonte per fonte e lasciando così tracce delle loro incursioni. Questa pittura rupestre si trova a Ubirr Rock, Kakadu National Park, Terra di Arnhem. Vi è ritratto uno degli esseri mitici che hanno percorso in lungo e in largo la terra d’Australia nel tempo ancestrale detto dei Sogni, quando la vita veniva trasmessa agli uomini.
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A Paestum, in Campania: una pittura funeraria di cultura lucana sulla stele detta del “Caronte” (340-310 a.C.), perché vi appare il traghettatore dei morti, ispirato al mito greco. In alto, infatti, il defunto sta per mettersi in viaggio verso l’aldilà e il cosiddetto Caronte attende in barca. È un riferimento mitico all’oltretomba, completato, nella fascia inferiore, dal rito funebre che attualizzerebbe il mito, forse, in funzione propiziatoria.
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Particolare di un mosaico dalla villa tardo romana di Piazza Armerina a Roma raffigurante Amore e Psiche. La tormentata vicenda mitica di Psiche e del misterioso marito che le era vietato guardare esemplifica la funzione di modello del mito. Contravvenendo alle regole, Psiche perde il suo sposo Amore, al quale sarà infine ricongiunta dopo aver patito molte sofferenze.
Lo specchio in Cina simbolizza la vita contemplativa, tanto che il cuore del saggio è paragonato da un maestro taoista allo “specchio del cielo e della terra” capace di riflettere ogni conoscenza, sottolineando così la dimensione cosmica nell’uomo come speculare. Questo specchio di bronzo (v-iii secolo a.C.) presenta sul retro decorazioni che alludono al regno vegetale e si stagliano su un intreccio a losanghe.
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Sotto: il disegno riproduce una processione festante con musici e persone che si tengono per mano. Si trova dipinta su un vaso proveniente dal sito archeologico Tossal Saint Miquel (Llíria, Valencia). È un manufatto della civiltà degli Iberi, che si sviluppa dal vii al i secolo a.C.
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i siti
Una sfinge alata sopra il portale maggiore della basilica di San Nicola, a Bari, fondata alla fine dell’xi secolo. Il mitico mostro dell’antica Grecia, legato alla città di Tebe, uccideva gli uomini che non rispondevano ai suoi enigmi. È l’emblema di una crudeltà che bene esemplifica l’aspetto tragico del mito. A fronte: a Roma, nell’Ipogeo della Via Latina (iv secolo) Ercole, eroe della mitologia greca, distrugge l’Idra di Lerna, un serpente a più teste, capaci di ricrescere se tagliate, che terrorizzava la popolazione.
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Il mito: linguaggio e messaggio di solidarietà universale
Nell’antico Egitto, il dio falco Horus era una delle manifestazioni del sole e il faraone veniva considerato suo figlio. Divinizzato, il grande astro s’inquadra in una relazione di familiarità. Nella foto: Horus, in un gesto protettivo nei confronti del faraone. Il dipinto si trova nel tempio di Nefertari (verso il 1250 a.C.), ad Abu Simbel (Egitto).
A sinistra: scultura proveniente dal Mali (Africa), databile dal xv al xvii secolo, che raffigura un personaggio mitologico dei Dogon, il Nommo. Il suo corpo presenta caratteristiche femminili e maschili: come genio intermediario di Amma, il dio creatore, la sua androginia lo rende evocatore dell’unità originaria. In alto: nell’ambito dell’arte rupestre spagnola, ai Callejones de Potencio (Cuenca), spicca la raffigurazione di un sole i cui raggi terminano con una mano umana (metà del iii millennio a.C.). Così il sole, oggetto di elaborazione mitica in numerose civiltà, in quanto dispensatore di luce e vita, viene mostrato attraverso il suo legame benevolo con l’uomo, il quale entra in rapporto con lui e gli rende omaggio come a un essere superiore.
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Un moai, statua monolitica in pietra tipica dell’Isola di Pasqua (Cile), si staglia sullo sfondo del mare, come una sentinella, per proteggere l’isola. Costruiti in epoca storica, ma testimoni di una cultura neolitica, i moai rappresentano grandi antenati che, come tramite fra gli uomini e gli dèi, erano il vero fulcro delle cerimonie religiose.
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DAL MITOGRAMMA AL MITO: LA PRIMA GRANDE ESPERIENZA DEL SACRO di Julien Ries
L’entrata che conduce al complesso di grotte ornate da pitture rupestri, a Monte Castillo, in Spagna. Si accede da quia l mondo sotterraneo che custodisce l’opera degli artisti preistorici.
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Presente nel Vicino Oriente 92.000 anni fa circa (si vedano le tombe di Skhul e di Qafzeh in Israele), l’Homo sapiens sapiens arriva in Spagna 40.000 anni fa circa e in Francia (in Dordogna) 35.000 anni fa, quando si estingue l’Homo sapiens neanderthalensis. È il creatore dell’arte delle grotte. Le opere artistiche che ha prodotto sono testimonianze del suo pensiero, del suo comportamento mentale e della sua ideologia, nonché un riflesso dei clan e della società nella quale viveva. Gli uomini di Cro-Magnon appartenenti alla civiltà magdaleniana di Dordogna, con più di centocinquanta grotte considerate alla stregua di santuari (le cattedrali della preistoria), hanno realizzato l’arte franco-cantabrica, la prima meraviglia della storia dell’umanità. Grazie al loro livello culturale questi uomini, nostri antenati, si sono espansi in tutta Europa e poi nel resto del mondo. L’arte parietale magdaleniana (da 25.000 a 8.000 anni fa) costituisce l’apogeo del Paleolitico, con Lascaux e Rouffignac in Francia e Altamira, Monte Castillo, Santimamiñe in Spagna. Nel 1962, Annette Laming-Emperaire pubblica il libro La Signification de l’art rupestre paléolithique, dove avanza un’ipotesi audace: «L’organizzazione figurativa dei soffitti e delle pareti delle grotte non potrebbe riferirsi a un tema generale di mitologia i cui perso-
naggi sarebbero coppie di animali?». André Leroi-Gourhan, sedotto da questa chiave di lettura, studierà la funzione dell’homo symbolicus quale si è esplicata nell’arte franco-cantabrica per più di venti millenni. Ai suoi occhi, questa arte figurativa è inseparabile da un linguaggio che spiega e lega le figure dipinte, chiamate mitogrammi. Un mitogramma è un enunciato di simboli situati e animati da un discorso. Le figure servono a fornire un appoggio visuale a coloro che conoscono i protagonisti del mito, commentatori incaricati di correlare le figure fra loro e di spiegare l’azione dei personaggi. André Leroi-Gourhan ha interrogato per lunghi anni l’arte delle caverne allo scopo di individuarvi un riflesso dell’organizzazione della società paleolitica. Ha constatato che la lista degli animali rappresentati è costante nei suoi attributi principali ma varia nei soggetti secondari: si trova sempre una diade fondamentale costituita dal cavallo e da un bovide e completata da un altro erbivoro. Siamo di fronte a un corpus di tradizioni complesse ma solidamente strutturate. Le 150 grotte ornate, sparse in un vasto territorio nel corso di tanti millenni, provano la lunga durata di un alto livello di cultura in una società stabile, organizzata forse con un sistema nomadico chiuso. Il fatto che, in questa società, la cultu-
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ra abbia occupato un posto centrale è confermato dalla varietà e dalla ricchezza dell’arte mobiliare. La funzione artistica doveva essere in connessione con le strutture sociali. La grotta stessa costituisce una componente del messaggio, attraverso l’uso che se ne fa, il modo in cui le figure vi sono disposte, il gioco della luce e delle ombre. Il passaggio dalla luce all’oscurità sembra essere stato il simbolo del passaggio da un mondo a un altro. D’altronde, le rappresentazioni di animali che vi si trovano non sono un quadro a soggetto venatorio e neanche un catalogo faunistico, ma il risultato di una scelta precisa e pertinente effettuata in rapporto a una certa ideologia. Occorre prendere in considerazione tutti questi elementi nel contesto di una mitologia della preistoria, e aggiungere quegli accostamenti di figure che costituiscono i mitogrammi – animali, uomini e donne – che acquisivano il loro vero significato soltanto nel momento in cui erano animati da un discorso che non abbiamo più. Mircea Eliade ritiene plausibile affermare che un certo numero di miti, e in primo luogo miti cosmogonici e miti delle origini, fossero familiari alle popolazioni del Paleolitico superiore1. Anche alcuni indizi esterni vanno considerati. A Lascaux e in altre grotte, tracce di passi di giovani fanno pensare a cerimonie di iniziazione che avrebbero comportato diversi riti di passaggio destinati a modificare la coscienza di adolescenti allo s copo di farli passare allo stadio di adulti. Non ci troviamo qui forse di fronte a una tradizione riguardante misteri del clan o della tribù? Agli occhi di Leroi-Gourhan «la straordinaria costanza del dispositivo simbolico è la prova del fatto che esisteva una mitologia costituita molto presto». Secondo Louis R. Nougier «le pareti delle grotte e delle caverne forniscono supporti durevoli per innumerevoli grafie [...]; costituiscono la prima “letteratura” in immagini»2. All’alba dei tempi storici – nel iii millennio a.C. – con l’invenzione della scrittura, testi sumeri scritti su tavolette d’argilla e geroglifici incisi sulle piramidi della Valle del Nilo ci informano sui miti del Vicino Oriente e dell’Egitto. A partire da questi primi documenti scritti, procedendo a ritroso e passando per il Neolitico, possiamo giungere a interrogare
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i mitogrammi delle grotte del Magdaleniano. Così, fra il 12.500 e il 10.000 a.C., dall’Eufrate al Sinai si estende la civiltà natufiana, che costituisce l’epoca preparatoria alla neolitizzazione, caratterizzata dalla sedentarizzazione progressiva e dall’apparizione dei primi villaggi e delle sepolture collettive. Verso l’8000 sull’Eufrate, a Mureybet, compaiono i primi idoli. Le figure simboliche dipinte delle caverne sono sostituite da figure in argilla. Due motivi si distinguono dagli altri: quello della dea e quello del toro, che sono all’origine di due grandi culti. L’agricoltura si organizza e l’uomo diventa il produttore dei suoi mezzi di sussistenza. L’uomo neolitico prende coscienza dei cicli naturali di riproduzione del mondo dei viventi. In Anatolia, la città agricola e artigianale di Çatal Hüyük, creata verso il 7100, sviluppa una grande attività religiosa, con la presenza dei primi santuari, che testimoniano di una valorizzazione sacrale dello spazio, e con un numero impressionante di dee madri e di rappresentazioni umane le cui braccia e mani sono alzate in direzione del dio-toro. L’homo religiosus debutta nella rappresentazione del divino. Grazie a questa nuova rivoluzione dei simboli si elabora una vera religiosità, che sfocerà in una esplosione del sacro. Conclusione L’insieme dei fatti e dei documenti raccolti mostra l’importanza dei millenni che sono trascorsi dall’inizio dell’arte delle caverne alla fine del Neolitico. I mitogrammi delle grotte ornate ci fanno comprendere che le radici del pensiero mitico affondano nelle profondità del Paleolitico. Dipinti sulla roccia, i mitogrammi costituiscono indizi dell’esistenza di racconti mitici o addirittura di miti fondatori che, in un contesto iniziatico, rivelavano «una storia santa delle origini del cosmo, degli animali e dell’uomo». Si tratta di un cambiamento nella coscienza dell’uomo arcaico che, grazie ai miti, fa esperienza del sacro. Fa da sfondo l’esistenza di comunità e clan, legati da riti di iniziazione che creano tradizioni, riflesso delle prime istituzioni. Tra il 12.500 e l’8.000, l’uscita dalle grotte e la sedentarizzazione – conseguenti a un riscaldamento dell’atmosfera – la creazione dei villaggi nel
L’ingresso alla grotta di Mornova, sulle montagne della Bulgaria, dove si sono scoperte tracce di occupazione da parte di gruppi umani del Paleolitico. A ogni latitudine, per l’uomo preistorico, caverne, anfratti e cavità hanno spesso evocato un contatto significativo con le viscere della terra, intese da un lato come rifugio, dall’altro come interruzione simbolica con lo spazio vissuto in superficie e come luoghi emblematici dell’accesso a un mondo nascosto e diverso.
Vicino Oriente, l’invenzione della coltivazione di tuberi, radici, alberi da frutto e poi cereali portano un profondo mutamento nella vita psichica dell’uomo. È l’inizio del Neolitico, con la comparsa della rappresentazione del divino (dea e toro), la formazione di nuovi miti e
la creazione di una vera e propria mitologia, linguaggio e messaggio del sacro. Per l’homo neoliticus l’esperienza vissuta del sacro sfocia in una religione con credenze, nuove idee religiose e culti con gesti e riti. L’homo religiosus diviene homo orans.
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
DAL MITOGRAMMA AL MITO
In alto: grotta di Covalanas, in Spagna: Sulla roccia la mano dell’artista preistorico ha dipinto un cavallo e dei bovidi. Equino e bovide sono spesso raffigurati nelle caverne del Paleolitico l’uno di fronte all’altro e sono anche gli animali tra i più rappresentati. Da qui l’ipotesi che tale associazione significhi qualcosa di particolarmente legato a una diade mitica la cui sequenza narrativa ci resta sconosciuta. In una profonda galleria, denominata René Clastres, che due laghi sotterranei dividono dalla celebre grotta di Niaux (Ariège, Francia), in uno spazio dipinto 11.000 anni fa sono state trovate orme di b ambini che, in epoca molto successiva alle pitture, avevano lentamente camminato affiancati, forse nel contesto di un rito. «Perché queste incursioni, non associate ad abitati o sepolture, in epoche... in cui si r itiene che le caverne profonde non v enissero frequentate?... Tutto ciò che sappiamo è che queste persone... si avventuravano molto in là, sottoterra, a piedi nudi, facendosi luce con delle torce.» (Jean Clottes, Robert Simonnet).
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Su una parete nella grotta diS antimamiñe, in Spagna, s’individuano ancora un bisonte e un cavallo vicini tra loro.
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IL MITO: LINGUAGGIO E MESSAGGIO
Il disegno riproduce in pianta una porzione dell’insediamento neolitico di Çatal Hüyük, sito sugli altipiani anatolici sovrastanti la piana di Konya, in Turchia. Vi si vedono alternati abitazioni e santuari, evidenziati in rosso, con una divisione degli ambienti molto simile. Lo spazio interno, tuttavia, in alcuni casi è risultato molto più sontuosamente decorato, con pitture e manufatti che arrivavano a ricoprire intere pareti. Così l’archeologo inglese James Mellaart, scopritore del sito, ha ipotizzato che tali “case” fossero adibite a cerimonie religiose, e la quantità e qualità dei reperti hanno fatto pensare a un ricco patrimonio di miti. Nel disegno: una statuetta femminile proveniente dagli scavi dell’agglomerato urbano neolitico di Hacilar, sugli altipiani anatolici a nord della città costiera di Antalya, in Turchia. Risale al vi millennio a.C. e personifica forse una dea madre.
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DAL MITOGRAMMA AL MITO
Ricostruzione da Mellaart dell’interno di una casa di Çatal Hüyük. Notiamo un unico ambiente con spaziocucina in corrispondenza dell’apertura verso il tetto piatto, e lungo il muro piattaforme destinate al sonno, al lavoro e ad accogliere le spoglie dei defunti.
Rilievi di teste taurine in argilla in un santuario di Çatal Hüyük. Dipinte con motivi vari in epoche diverse e dotate di vere corna, rendono presente negli spazi sacri il toro, animale traboccante di energia e vitalità, che per quantità di rappresentazioni si affiancherà all’immagine della dea madre, a formare probabilmente una misteriosa coppia mitica.
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PARTE SECONDA
COMINCIARE DALL’INIZIO: TEMI MITICI DELLA NASCITA DEL MONDO
A fronte: pitture rupestri nella “Great Gallery”, Horseshoe Canyon, Canyonlands National Park, Utah meridionale, verso il 1000 a.C. Le grandi figure di sciamano sono alte circa 3 metri; uomini e animali, in stile realistico, sono molto più piccoli.
IL MITO COSMOGONICO, FONDAMENTO DI TUTTI I MITI di Julien Ries
L’isola di Pasqua (Cile), o Rapa Nui, per la studiosa Georgia Lee fu popolata da polinesiani intorno al 400 d.C. Essi non conoscevano i metalli, ottenevano strumenti da taglio dall’ossidiana e diedero vita a una cultura neolitica. Qui vediamo il volto del dio creatore Makemake scolpito a bassorilievo in un centro cerimoniale.
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Le cosmogonie sono l’insieme delle teorie, dei miti e delle spiegazioni che riguardano l’origine e la nascita del cosmo così come l’ordinamento originale dell’universo. In questo campo il ruolo dei miti cosmogonici è fondamentale, poiché costituiscono la storia sacra dei popoli. Essi rivelano la creazione del mondo e dell’uomo, i principi che governano il cosmo e le norme etiche del comportamento umano. I miti cosmogonici esistono in tutte le culture e di ciascuna portano l’impronta specifica: il loro immaginario segnato dall’ambiente, il sistema di simboli proprio dell’identità culturale e religiosa, la trasposizione in dimensioni rituali adattate a ogni società. La conoscenza dei miti cosmogonici ci viene dai testi antichi e dalle tradizioni orali dei popoli chiamati senza scrittura. Per ritrovare i miti cosmogonici della preistoria, occorre raggiungere la memoria arcaica dei popoli. Le scoperte preistoriche hanno portato alla luce una parte importante di questa memoria conservata negli archivi della terra: arte parietale, grotte dipinte del Paleolitico superiore, iscrizioni e incisioni rupestri neolitiche. Recuperiamo più di trenta millenni anteriori alla scrittura. Grazie all’inventario dell’arte rupestre in tutto il mondo, realizzato sotto l’impulso di Emmanuel Anati, questo vasto campo si apre agli studiosi. Sono percorribili due vie di approccio. La prima è quella che si rivolge alle aree culturali
riguardo alle quali, grazie agli antichi testi scritti, possediamo una versione dei miti cosmogonici: è il caso del Vicino e Medio Oriente e del mondo mediterraneo. Prendendo come punto di partenza questi miti, sarà possibile risalire alle incisioni rupestri e all’arte delle caverne per scoprirvi mitogrammi in cui trovare elementi suscettibili di essere interpretati nel senso di una cosmogonia. La seconda via concerne le aree culturali nelle quali i miti sono ancora oggi trasmessi per tradizione orale. Le etnie eredi di questi miti sono nello stesso tempo portatrici della memoria delle più antiche tradizioni ancestrali, grazie alle quali si possono chiarire diversi aspetti riguardanti l’arte rupestre della loro cultura (E. Anati, 1989). Gettiamo ora uno sguardo su alcuni testi cosmogonici del Vicino Oriente antico. L’Egitto ha fatto dell’emersione di un’isola il primo atto della genesi; il Nun primordiale, l’oceano, è anteriore a tale emersione; la terra si solleva al di sopra di esso. Il tema arcaico della collinetta iniziale segna il mondo immaginario dell’Egiziano che, da tempo immemorabile, assiste ogni anno alla piena e al ritiro del Nilo. Tutte le cosmogonie egizie, inoltre, attribuiscono al Sole un ruolo divino di creazione: nei miti cosmogonici si manifesta la trascendenza del demiurgo creatore. Le cosmogonie sumero-accadiche presentano un fatto essenziale: il cielo è
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TEMI MITICI DELLA NASCITA DEL MONDO
Il mito cosmogonico, fondamento di tutti i miti
A Rapa Nui: l’interno della profonda caverna di Ana O Keke. Situata sul fianco di uno scosceso dirupo, la grotta è ricca di petroglifi con antropomorfi, creature marine e una delle rare immagini vegetali presenti nell’arte rupestre dell’isola: un archivio d’arte custodito nella roccia.
stato separato dalla terra. Un blocco compatto è stato diviso in tre: cielo, terra, inferi. A Sumer appaiono tre dèi: Enlil, Enki e An, una Triade suprema, ma il Dio-Cielo è il Dio supremo. L’uomo è creato per liberare gli dèi dalle loro fatiche; essi lo hanno modellato dall’argilla. Talvolta, il mondo alle origini viene rappresentato come una montagna che collega la terra al cielo prima della loro separazione. Nei testi trovati a Ras Shamra, l’antica Ugarit, la creazione del mondo è opera del dio El, «il creatore delle cose create». La cosmogonia biblica, invece, pur partecipando della stessa area, è già teologica: un Dio creatore continua a governare il mondo. È la rottura con il pensiero mitico. Le regioni del Vicino e del Medio Oriente antico dove si sono scoperti i più antichi testi
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scritti che riferiscono miti cosmogonici sono anche le aree della sedentarizzazione iniziale, dei primi villaggi, delle prime città e delle prime rappresentazioni della divinità (J. Cauvin, 1978). Più di due millenni prima della comparsa della scrittura, vi troviamo una coppia di simboli, la Donna e il Toro, due vere e proprie divinità che dominano l’arte anatolica (Çatal Hüyük, Halaf) e che influenzeranno tutto il Vicino Oriente mediterraneo. A Çatal Hüyük, queste divinità s’impongono al mondo degli uomini e degli animali, vera e propria manifestazione, attraverso l’arte, della loro trascendenza. Non abbiamo già qui, nel vii millennio a.C., ciò che troveremo verso il 2600 a.C. su alcuni sigilli di Mohendjo-Daro: la Grande Dea che regna sul mondo degli uomini e degli animali (J.M. Casal,
Pittura rupestre del Sudafrica sui Monti Drakensberg, nel Natal. Figura con testa di antilope, in stato di trance. Perde sangue dal naso: per lo studioso Lewis-Williams è segno, nell’arte boscimane, di poteri medianici in atto. Un rito trasporta l’uomo in un mondo primigenio carico di energia.
1969)? L’arte neolitica anatolica riflette una ferma posizione dell’homo religiosus: la credenza in una o più divinità alle quali gli esseri sono sottomessi. Non è questo il luogo e l’epoca dell’elaborazione dei grandi miti cosmogonici (J. Cauvin, 1987)? Tale fermento elaborativo impiegherà alcuni millenni a perfezionarsi e a raggiungere le popolazioni dell’area mediterranea orientale. Appena compaiono i primi testi scritti, essi illuminano i documenti archeologi ci e si scopre tutto un universo di simboli e significati. Le radici dei miti cosmogonici egizi, sumeri, accadici, anatolici, cananei affondano le loro radici nell’humus neolitico. L’arte delle caverne è anch’essa suscettibile di fornirci alcune indicazioni sul pensie ro cosmogonico dei paleoantropi. Le grotte decorate
sono state considerate santuari dove si svolgevano riti d’iniziazione. Sembra che durante tali cerimonie i soffitti dipinti giocassero un ruolo importante. Mircea Eliade ritiene che i miti cosmogonici e i miti di origine potessero essere familiari alle popolazioni paleolitiche: si tratta di temi mitici quali le acque primordiali e il creatore, l’ascensione in cielo, l’arcobaleno, il simbolo della montagna cosmica, l’origine degli animali. I soffitti delle grotte, appunto, sono un riferimento simbolico alla sacralità della volta celeste (M. Eliade, 1979).
Passiamo ora a esemplificare in immagini alcuni temi cosmogonici che, nelle diverse civiltà, risultano tra i più diffusi e persistenti.
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TEMI MITICI DELLA NASCITA DEL MONDO
Il mito cosmogonico, fondamento di tutti i miti
Boscimani che danzano in trance, traboccanti di forza soprannaturale. Gli fuoriesce sangue dal naso e sono protagonisti di una “morte” medianica che li proietta altrove. Nel disegno: dettaglio di una pittura rupestre (De Rust, zona est del Capo).
A sinistra: dalla Mesopotamia il disegno di una ciotola della cultura Samarra (Iraq), dipinta intorno al 6000 a.C., la cui decorazione, secondo l’archeologo Jean-Daniel Forest, evoca, con un cielo pieno di stelle, il principio creatore. A destra: il disegno riproduce un sigillo a stampo del v-iv millennio a.C. circa, proveniente dal sito di Tepe Gawra, nella regione di Mosul (Iraq). Qui un cielo fitto di uccelli in volo sembra con evidenza “suggellare” un impegno preso di fronte a un equilibrio del cosmo. Infatti, rompere indebitamente l’impronta in argilla esporrebbe a “sanzioni soprannaturali”, a salvaguardia, appunto, di un “ordine cosmico” (J.-D. Forest).
Particolare del sarcofago di uno scriba trovato a Saqqara (Egitto), di epoca tolemaica. Vi è raffigurato il levare del Sole, acclamato da varie divinità, ed è conservato in Austria, a Vienna, nel Kunsthistorisches Museum.
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Un enorme toro rosso, dipinto poco dopo il 5800 a.C., occupava gran parte del muro di un santuario nel famoso insediamento neolitico di Çatal Hüyük (Turchia). La piccola taglia degli uomini attorno evidenzia, secondo l’archeologo James Mellaart, la posizione occupata dal toro nella tradizione di Çatal Hüyük.
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TEMI MITICI DELLA NASCITA DEL MONDO
Il mito cosmogonico, fondamento di tutti i miti i siti
In uno dei santuari di Çatal Hüyük, databile circa al 5950 a.C., si nota una fila di teste taurine riccamente dipinte, e, a fianco, l’immagine di un grande toro; molte volte incavata nell’intonaco e molte volte ridipinta, segnala “una continuità di culto” (J. Mellaart).
Il soffitto dipinto circa 12.500 anni fa nella grotta di Altamira (Spagna), detto la “Grande Volta”. L’artista paleolitico ha adattato le figure alle forme della roccia.
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La grande Dea Madre di Çatal Hüyük raffigurata in questa statua di terracotta del vii millennio a.C. In trono, domina sugli animali e dà vita a un bambino che compare tra le sue gambe. Conservata ad Ankara, nel Museo delle Civiltà anatoliche.
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TEMI MITICI DELLA NASCITA DEL MONDO
In un disegno di Henri Breuil i bisonti policromi della volta di Altamira. A fronte: particolare raffigurante un gruppo di bisonti.
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L a montagna cosmica Il mito riporta sempre agli inizi di tutte le cose. In modo completo o frammentario, è comunque il racconto di una creazione. Ecco perché la cosmogonia è un tema mitico così frequente nella storia degli uomini: essa getta le fondamenta di ogni altro mito. Alla montagna viene attribuito, dalle più diverse e lontane civiltà, un ampio ventaglio di significati. Le sue stesse caratteristiche, come
l’altitudine, la verticalità, l’inaccessibilità, le proporzioni grandiose, portano gli uomini ad attribuirle un simbolismo profondo. Quasi tutte le tradizioni, pur in modi assai diversificati, considerano alcune montagne come il centro del mondo, il luogo misterioro a partire dal quale tutto è iniziato. Sono montagne cosmiche: uniscono cielo e terra, sono il pilastro del mondo,
l’axis mundi. Tra le varie rappresentazioni usate dalle diverse culture per indicare nei miti cosmogonici l’axis mundi, il centro e il punto più alto dell’universo, la montagna cosmica prevale su tutte. Essa racchiude un tale significato che la sua immagine viene in qualche modo “continuata”. Così altre montagne, anche se non giocano un ruolo specifico nelle cosmogonie, partecipano a tale immagine originaria, in quanto espressioni di stabilità indefettibile, solidità e permanenza. Ma anche realtà come palazzi, templi e perfino intere città imitano, ricreano la forma della montagna cosmica. In questo modo la pienezza primordiale della vita entra a far parte del quotidiano, si rinnova, per garantire agli uomini di potervi in parte attingere stabilendo un contatto che li accomuna.
Un tipico altare tibetano sulle alture attorno al fiume Tsangpo, nel sud del Tibet. È adibito al culto delle divinità della montagna, venerate come esseri ancestrali. Gli uomini del villaggio rinnovano periodicamente bandiere di preghiera e pietre, portando in offerta rami di ginepro.
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Cosmogramma tridimensionale in oro, conservato al Musée National du Château de Fontainebleau. Prezioso esempio di arte sino-tibetana del xvii-xviii secolo, appartiene alla Dinastia Qing. Nella parte superiore, al centro, è il monte Sumeru, la montagna asse del mondo, con intorno il mare e le isole, rese con turchesi incastonati. File di perle, turchesi e coralli circondano il tutto e simboleggiano le montagne che delimitano le acque dell’oceano cosmico.
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La montagna cosmica
Hokusai, Un drago nel fumo uscente dal monte Fuji, dipinto su seta del 1849. In Giappone i grandi picchi vulcanici possono assumere le connotazioni di una montagna cosmica. Tra questi il più celebre è il monte Fuji. Nel dipinto di Hokusai, l’alto e nero sbuffo di fumo accoglie la figura di un drago, simbolo delle forze attive nel mondo cosmico e pre-cosmico.
A fronte: grande statua conservata al Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico. Raffigura Coatlicue. Secondo la mitologia degli Aztechi (1250-1521 d.C.) Coatlicue generò prodigiosamente, sul monte Coatepec, Huitzilopochtli, dio legato al sole e nume tutelare del popolo azteco. Lo studioso Justino Fernández commenta che l’enorme massa scolpita racchiude tutta la cosmovisione degli Aztechi, rappresenta una forza cosmicodinamica. E, secondo Maria Teresa Uriarte, la statua di Coatlicue con la testa sostituita da due serpenti solari, con la collana fatta di mani e cuori, con un teschio pendente, è l’asse del mondo: poggiata sulla terra dove sta l’acqua ed elevata verso il sole, è armonia tra forze celesti e telluriche, è la montagna cosmica, che sta all’origine del genere umano.
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La montagna cosmica
La catena montuosa dell’Ararat, in Turchia, ai confini con l’Iran, Armenia e Azerbaigian, comprende due picchi vulcanici, il piccolo e il grande Ararat. Nella foto: il piccolo Ararat, visto da sud. Il complesso montuoso dell’Ararat fin dalla preistoria è stato considerato sacro. Diverse tradizioni lo indicano come punto di stabilità e sostegno durante un grande diluvio.
Il monte Kailasa, sull’Himalaya, è stato ritenuto dimora di Siva, la grande divinità dell’induismo recente. A Ellora (Deccan, India), il monte è stato replicato, dal 725 al 773 d.C., in un enorme unico blocco di roccia che venne svuotato e scolpito per realizzare un santuario, chiamato appunto Kailasa e dedicato a Siva, spesso rappresentato quale Signore dell’universo troneggiante sul Kailasa.
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Sotto, da sinistra: disegno che raffigura Siva come signore della danza (Siva Nataraja). L’intero cosmo ne sgorga: dalla sua dimora sul Kailasa, Siva scandisce il ritmo dell’universo con il tamburello che tiene in una mano, il cui suono indica l’essenza della creazione, mentre la fiamma che tiene con una delle altre mani indica la distruzione, in una catena di opposti che mantiene l’universo. Con il piede invece soggioga un demone che rappresenta l’ego dell’uomo. Così la danza del dio del Kailasa è la creazione del mondo. Alcuni racconti individuano l’Ararat come l’approdo dell’Arca di Noè quando le acque del Diluvio universale si furono prosciugate. Nel disegno: Noè e la sua famiglia nell’Arca, dalla cupola dipinta della cappella funeraria detta della Pace, che si trova nella necropoli paleocristiana di Bagawat, nell’oasi di Kharga, in Egitto.
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La montagna cosmica
Teotihuacan, l’antica metropoli dell’Altopiano centrale del Messico: dal 400 al 650 d.C. fu una delle più grandi città del mondo. Il maggior impulso architettonico si sviluppò dal 200 al 400 d.C., e i monumenti che ancor oggi colpiscono il visitatore appartengono a questa fase. Nella foto: un lato ripidissimo della Piramide del Sole, nel centro cerimoniale della città, che evidenzia la sua similitudine con il fianco scosceso di un monte.
La Piramide della Luna, allineata con un monte, il Cerro Gordo, che imita e simboleggia. Si trova al termine dell’arteria centrale di Teotihuacan, il Viale dei Morti. Il Cerro Gordo, ricco tra l’altro di preziose fonti d’acqua, sembra fare da modello alla Piramide, e costituisce il punto prospettico unificante dell’intera trama urbanistica di Teotihuacan.
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I resti della ziggurat di Ur, nel sud dell’Iraq (iii millennio a.C.). Il termine ziggurat significa “cima di montagna” e definisce le terrazze sovrapposte che costituiscono l’edificio.
La ricostruzione della ziggurat di Ur mette in rilievo che, come dice lo studioso di storia delle religioni Lawrence E. Sullivan, «essa continua l’immagine della montagna cosmica». I diversi piani sono come gradini di un’ascesa dell’uomo, o di una discesa del divino. Il tempio sulla sommità, vicino al cielo, di cui facilita l’osservazione, rende presente la forza cosmica dell’origine.
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C aos acquatico e mostri Il caos ha alimentato le mitologie più distanti, ma ha sempre avuto a che fare con l’origine del mondo. Anche quando compare in situazioni apocalittiche, lo si trova collegato a una distruzione regressiva verso lo stato iniziale, che prelude però a un nuovo inizio. Nella storia umana il caos mitologico può essere richiamato da qualsiasi situazione naturale
estrema e selvaggia, ma l’evocazione più diffusa è quella acquatica. Molti miti rappresentano l’originario stato primordiale con una turbolenza oscura, umida e indistinta. Il caos dei primordi inoltre non di rado si riveste di personificazioni, spesso con mitiche figure di mostri ibridi, carichi comunque di significati plurimi. Ciò suggerisce la
non completa opponibilità del caos come iniziale disordine e del c osmo in quanto ordine. Sovente tali multiformi rappresentazioni del caos invitano a pensare che se un mito pone all’origine dell’universo il caos, non è meno vero che si vede quest’ultimo p ermanere nel mondo come fattore di d isturbo, di lotta o di trasformazione.
Il caos degli elementi: un’illustrazione tratta dall’opera di Robert Fludd, Utriusque Cosmi Historia, Oppenheim 1620. Fludd, medico e filosofo inglese, attratto dallo spirito ermetico del Rinascimento, dove s’incarnavano più antichi contenuti alchemici ed esoterici, ne realizzò un prolungamento tramite la ricerca di analogie tra microcosmo e macrocosmo. Così il caos, che per gli alchimisti s’identificava con la prima materia, era destinato a veder sorgere “qualcosa” da una massa confusa, il che rimanda a una concezione in un certo modo positiva del caos mitologico.
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I draghi nel pensiero mitico sono forze operanti nel mondo cosmico e pre-cosmico. Rappresentano sia il disordine del caos sia potenze capaci di diventare benefiche, con una distinzione non sempre netta. Il drago primordiale, comunque, si ritiene dotato di una forza che dev’essere controllata. In Cina, dove esso riconduce in genere al ritmo cosmico, ha queste caratteristiche di una forza positiva, ma da regolare per garantirsi un flusso vitale ritmicamente equilibrato. In questo particolare di un rotolo della dinastia Song (1244), conservato al Museum of Fine Arts di Boston, vediamo un drago che stringe una perla tra gli artigli. Luminescente, chiara ed oscura al tempo stesso, essa evoca l’immagine del Tao, fonte ritmica e terreno della vita. È per i taoisti la sfera matrice e originaria che racchiude l’universo allo stato c onfuso. Un grande rispetto del caos si trova negli antichi testi taoisti: il saggio riportandosi ai tempi mitici del caos, collocando “il cuore nell’abisso” (Tao te King), si rigenera con nuovo vigore.
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Caos acquatico e mostri
Sopra: al caos appaiono collegati, in varie tradizioni, altri temi tra cui il diluvio mitico. In ogni parte del mondo vi sono miti che narrano di un grande diluvio, posto nel passato o in un futuro apocalittico. Ci si collega così all’idea cosmogonica di un regresso a uno stato primordiale acquatico, dove si esprime la qualità dialettica del caos: distruttivo, ma anche premessa di una creazione nuova. Vediamo qui una scena di diluvio universale, d all’Evangeliario di Harley (viii secolo, British Library, Londra). A sinistra: un mostro ibrido, acquatico e terrestre, dipinto sul soffitto della chiesa di San Martino a Zillis, in Svizzera (1130 circa). Qui esso simboleggia il male: figliolanza deforme delle oscure acque originarie, immagine di una presenza caotica nella storia umana.
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Sopra: l’Anticristo sul Leviatano: dal Liber Floridus (1120), Biblioteca Universitaria di Gand (Belgio). Il Leviatano rientra nel novero di mostri coinvolti in miti di lotta tra le prime forme del caos e nuove energie cosmiche. La Bibbia ebraica contiene tracce di un’antica mitologia in cui Jahvè, ai primordi, sconfigge mostri dai nomi vari, tra cui Leviatan. Testi biblici più tardivi, giudaici e cristiani, segnalano la sconfitta provvisoria del mostro primordiale. Alla fine dei tempi tornerà e sarà distrutto per sempre. A sinistra: il nemico caotico appare in diverse tradizioni come razziatore, divoratore, rapitore. Sebbene non vi sia accordo tra gli studiosi sul legame tra tali racconti e le cosmogonie, vi si riconosce comunque una relazione tipologica. Il tema mitico della fanciulla preda di un drago, poi sconfitto da un eroe, è assai antico. Qui v ediamo una placca smaltata del xv secolo che rappresenta la lotta tra san Giorgio e il drago per liberare la principessa, offerta al mostro dal re della città per ammansirlo (Tblisi, Kartlia, Museo di arte Georgiana).
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I l cielo in illo tempore La volta celeste, con la sua altezza, estensione e capacità di dispensare luce e acqua, fin dalla preistoria è stata fonte per l’uomo di riflessione ed espressione artistica. Non stupisce di ritrovarla nei racconti mitici dei primordi, pur secondo concezioni diverse e con dettagli differenti. Il cielo in tali casi è quello del tempo primigenio, è il cielo in illo tempore che ha a che fare con l’inizio di ogni realtà. Spesso i racconti di quel
remoto passato riferiscono di un cielo rimasto vicinissimo alla terra fino a un suo brusco allontanamento. Provocata da un errore primordiale, tale separazione potrà essere recuperata solo da pochi privilegiati e da specialisti del sacro, come gli sciamani che ripristinano una comunicazione tra cielo e terra spiccando il volo, in estasi. Il cielo nei miti di creazione dispone gli uomini ad affrontare il problema della loro d istanza dalle
divinità che si ritiene abitino in quel mitico spazio. Molte culture infatti prevedono un viaggio verso il cielo che può verificarsi in vari modi: tramite una scala, un albero, una corda, un irto sentiero. L’uomo in questi riti di ascesa cerca di riappropriarsi di una condizione perduta, così come accade quando egli, nell’attesa di un beneficio che l’uomo sacro può ottenergli, assiste al volo dello sciamano e in tal modo indirettamente vi partecipa.
Nel disegno: Nut, personificazione egizia del Cielo, curva sul suo sposo Geb, il dioterra, illumina il tempio di epoca greco-romana di Dandara, sulla riva s inistra del Nilo, davanti alla città d i Quena. Lo simbolizza l’immagine della dea Hator, cui il tempio stesso è dedicato e lo a vvolgono i raggi del sole che Nut, secondo un mito cosmogonico, ogni mattina mette al mondo. Nut è la raffigurazione della volta celeste: i suoi piedi toccano l’Oriente e le sue braccia pendono al confine dell’Occidente.
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Particolare di un ariete votivo che, nella sua interezza, si presenta appoggiato a un Albero della Vita. Proveniente dal Cimitero reale della città mesopotamica di Ur, è realizzato in lega d’oro e d’argento e impreziosito da lapislazzuli. Databile al 2500 a.C. circa, è conservato al British Museum di Londra. In Mesopotamia i lapislazzuli hanno un valore cosmologico, il loro colore blu s’identifica con il blu del cielo notturno, alla cui forza essi partecipano.
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Il cielo in illo tempore
Rombi volanti australiani, ridisegnati da un r epertorio di oggetti in uso tra gli aborigeni nel 1845. In molte società arcaiche si considera il rombo uno strumento sacro. Facendolo velocemente roteare nell’aria, appeso a una lunga corda, se ne ottiene un suono nel quale i nativi dell’Australia, durante le cerimonie legate alla pubertà maschile, riconoscono la voce misteriosa della divinità del cielo, segno della sua c ostante presenza nel rito. Spesso i rombi australiani presentano motivi incisi che raffigurano una geografia sacra riferita a mondi mitici e ancestrali.
Il rombo ha origini preistoriche, ma se ne possono trovare anche ai nostri giorni e, quand’anche si fosse perduto il suo legame celeste, resta il fatto che il suo suono strano e inquietante non manca di suscitare nell’ascoltatore un senso d’intimo stupore. Qui vediamo il disegno di un rombo attuale ricavato dalla corteccia di un albero, proveniente dalla Malesia e di un secondo in bambù proveniente dall’Indonesia. A fronte: anche nell’antica Cina certi suoni erano ritenuti capaci di evocare realtà ultraterrene. In particolare, il bronzo delle campane, che suonavano senza batacchio, p ercosse da un maglio e sospese insieme ad altre a un t elaio di legno, era ritenuto capace di evocare il Cielo e assicurare la comunione con il mondo degli antenati e con le potenze dell’alto.
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Il cielo in illo tempore
Particolare delle tegole blu della Sala delle Preghiere nel Tempio del Cielo a Pechino (xvi-xix secolo) e, a fronte, vista del Tempio stesso. In Cina per tremila anni è stato tributato un culto al Cielo: pur nella frammentaria costellazione di temi mitici che gli studiosi hanno individuato nelle varie culture locali cinesi, la s peculazione cosmogonica ha reso omaggio al Cielo come grande regolatore degli e sseri, slancio e vigore dell’universo. Da esso proviene anche il potere materiale e spirituale degli atti di governo, da scandire in attività rituali, cui il Tempio del Cielo è stato dedicato, volte ad assicurare il primordiale giusto movimento delmondo e l’armonia dei ritmi stagionali.
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TEMI MITICI DELLA NASCITA DEL MONDO
Il cielo in illo tempore
Da un manoscritto della fine del xiv-inizio del xv secolo, conservato a Roma, nella Biblioteca Apostolica Vaticana: una tra le prime miniature che accompagnano il testo del libro biblico Genesi. «E Dio fece il firmamento» è una delle frasi cui questa immagine si riferisce, nel descrivere il secondo giorno della creazione (Gn 1,6-8). Nelle scritture ebraiche e cristiane il Cielo è all’interno di una riflessione cosmologica dove le eterne domande dell’uomo sull’origine dell’universo si materializzano per trovare una risposta di tipo religioso. A destra: disegno tratto da una Bibbia del xv secolo: il cerchio cosmico è tracciato dal Creatore del mondo con il compasso e il Cielo circonda la terra.
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Alla fine dei giorni un angelo si appresta ad avvolgere il rotolo cosmico del Cielo. Particolare del Giudizio Universale affrescato nel 1545 nella chiesa della Dormizione del monastero di Humor, in Romania.
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Il cielo in illo tempore
A sinistra: disegno tratto da uno stampino eschimese in pietra, nel quale uno sciamano prende il volo accompagnato da animali che rappresentano i suoi spiriti protettori. Lo sciamano è ritenuto in grado di raggiungere il cielo tramite un viaggio estatico, che conduce la sua anima fuori dal corpo verso regioni celesti sempre più in alto, o, al contrario, sempre più in basso verso gli inferi. A destra: tre sciamani dopo la danza medianica che ha loro trasmesso la forza sovrannaturale della musica. Cadono in ginocchio e assumono una posizione di volo. Nella trance, infatti, vengono messe in moto energie che lo sciamano dovrà saper imbrigliare per ascendere al cielo. Immagini tratte da pitture rupestri dei Boscimani (Bearkley East, Sudafrica).
Una definitiva salita al Cielo dal mondo dei viventi in una scena biblica. In una pittura nelle Catacombe della Via Latina (Roma, iv secolo), il profeta Elia gode di un privilegio esclusivo nell’Antico T estamento: passa dalla terra al Cielo su di un carro di fuoco. In un paesaggio campestre e in presenza di un pastore è ritratto mentre c onsegna il suo mantello al successore Eliseo. A fronte: la figura che a prima vista parrebbe un uccello in volo rivela la sua eccezionalità se si notano le gambe umane che l’ancorano al suolo. Gli studiosi delle culture dei Nativi americani interpretano questa pittura rupestre del Wild Horse Canyon (Utah, Usa) come uno sciamano: cammina in questo mondo come ogni altro uomo, ma può volare in Cielo verso altri mondi.
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La scala del Paradiso, raffigurata nell’icona di San Giovanni C limaco (xi-xii secolo) e conservata nel monastero di Santa Caterina del Sinai (Egitto). La scala, immagine comune a molte civiltà per s ignificare il raggiungimento da parte dell’uomo di regioni celesti, è qui interpretata in chiave cristiana come scala della virtù, tramite la quale si accede al Paradiso.
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Una miniatura del 1.556 rappresenta l’ascensione di Maometto. Conservata alla Freer Gallery of Art (Smithsonian Institution, Washington dc, Usa), è una delle molte versioni di un mistico viaggio in Cielo del Profeta. Con un velo sul volto, Maometto cavalca Buraq, una specie di destriero alato, accompagnato dall’arcangelo Gabriele e da una profusione di angeli.
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L’uovo cosmico Molti miti, riferendosi agli inizi dell’universo, narrano di una sorta di embrione, di una matrice ovoidale che potenzialmente e in modo misterioso racchiude in sé tutta la molteplicità di ogni forma cosmica, dalla quale emerge il mondo e talvolta il primo essere creato. Anche se tale matrice può in diversi racconti mitici assumere l’aspetto di una massa informe di carne o di un recipiente vuoto, di un sacco o di un bozzolo, essa viene più compiutamente
rappresentata dai miti che ci parlano di un uovo cosmico. L’uovo in sé ha sempre suscitato stupore nelle culture di tutto il mondo: il suo guscio perfetto ed ellittico che nasconde una vita in formazione, il suo schiudersi per farla apparire ormai compiuta non poteva non essere per gli uomini dell’antichità la migliore immagine di un vero inizio. Ecco perché tante popolazioni hanno affidato all’uovo cosmico un ruolo cruciale nei loro miti cosmogonici.
Così in Oceania, Africa, India, Giappone e Grecia troviamo il mito dell’uovo cosmico, ma anche, e sempre con diverse declinazioni narrative, in Egitto e in Cina. In molte tradizioni dunque il mondo dei primordi si presenta come un mondouovo all’interno del quale prende il via il processo della vita. La simbologia dell’uovo, che connota uno stato di primordiale perfezione, ha inoltre percorso la storia ed è arrivata fino a noi in varie credenze e tradizioni popolari.
Dall’Isola di Pasqua (Cile): su un frammento di pietra, conservato nel museo locale, sono dipinti due uominiuccello affrontati. Ci si riferisce a un rito celebrato sull’isola nel luogo sacro di Orongo, dove sono abbondanti immagini simili incise s ulle rocce. Il culmine della cerimonia consisteva nella rischiosa impresa d’impadronirsi, dopo un tuffo vertiginoso e una pericolosa nuotata nel mare infestato dagli squali, del p rimo uovo della stagione, deposto da uccelli migratori su di un isolotto al largo della costa. Chi riusciva diveniva uomo-uccello e regnava sull’isola. Tale rito contiene elementi di morte e rinascita, dalla posizione fetale degli uomini-uccello alla discesa nell’oceano, dalla risalita lungo il p recipizio al possesso dell’uovo sacro. Tali simboli si radicano nei miti polinesiani in cui la divinità suprema è come un uccello che esce da un uovo cosmico.
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L’uovo cosmico
Disegno tratto da una raffigurazione dell’uovo cosmico (in Jacob Bryant, Analysis of Ancient Mythology, Londra 1807). Lo si vede avviluppato da un serpente la cui spirale può rappresentare lo svolgersi del tempo e che comunque nei miti di vari popoli compare come animale legato all’uovo cosmico, all’origine del mondo e alla creazione. I miti di alcuni clan aborigeni, specie dell’Australia sud-orientale, narrano che nei primordi il Sole sia nato da uova di emù lanciate nell’aria. L’emù è un uccello simile allo struzzo, chiamato infatti anche struzzo australiano, presente in tutto il Paese. Le rocce in Australia conservano l’arte di una tradizione millenaria: nella foto vediamo una pittura rupestre, ubicata a Laura (penisola di York), dove un emù è raffigurato con le sue uova.
La femmina di emù depone le sue grandi uova di colore grigio scuro e l’artista contemporaneo Bluey Robert, della regione del Lower Murray River, è noto per incidere il loro guscio levigato con le immagini di animali mitici ed elementi grafici tradizionali. L’esemplare qui raffigurato è del 1985.
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L a coppia primordiale Nei miti cosmogonici talvolta si trova la descrizione di partner primordiali che, dopo una prima fase cosmica indefinita e confusa, compaiono espletando un’attività creatrice. Sono i genitori del mondo. Possono incarnare il principio maschile e il principio femminile, ma anche un’intrinseca duplicità cosmologica, non necessariamente legata alla differenziazione
sessuale, situata all’origine del mondo. Il racconto mitico, come d’abitudine, vuole svelare una verità paradigmatica riguardante la condizione degli uomini: una potenzialità di tensione all’interno di una dualità, spesso anche di rottura o separazione, potenzialità che non è propriamente generativa, ma innesca il dinamismo delle comunità umane. Nelle società tradizionali
la coppia primordiale viene spesso vissuta come coppia di antenati alla cui vitalità, differenziazione e complementarità l’uomo attinge nella percezione di se stesso all’opera nella vita comune. Così anche in molte culture preistoriche gli emblemi della duplicità sono a tal punto carichi di vita che alludono all’abbondanza e alla potenza, una potenza doppia appunto, che si rifà a un concetto cosmogonico.
Il disegno riproduce la p rospettiva frontale di una s tatuetta femminile del 4600-4500 a.C. proveniente da Novye Ruseshty (Bulgaria). Vi sono raffigurati due embrioni gemelli: emblemi nella preistoria di una duplicità che allude alla potenza del doppio, all’energia di una coppia che dal processo della nascita g emellare si trasferirà in seguito su di un piano cosmico. Il p otere “di due” porta con sé, prima ancora di una dialettica possibile, più forza all’origine delle cose. Il motivo della gemellarità si è variamente sviluppato sul piano mitologico: riguardo alle entità primordiali di alcuni miti c osmogonici la potente duplicità gemellare e quella feconda della coppia sposata si equivalgono.
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Le sculture di gemelli più antiche della Mesoamerica, databili al periodo che va dal 1200 all’800 a.C. (cultura olmeca, El Azuzul, Veracruz, Messico). Ritrovate in un contesto cerimoniale, paiono materializzare un mito cosmologico che doveva aver già stabilito il supremo concetto di dualità destinato a durare per tutti i secoli della storia preispanica. I gemelli nati nel seno della cultura olmeca hanno dato vita a u n’idea mitica che fa confluire in sé non solo la coppia maschile-femminile, ma anche il binomio vita-morte, giorno-notte, sole-luna, luce-oscurità. Sono immagini al tempo stesso opposte e complementari, incontro delle forze cosmiche che reggono il mondo.
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TEMI MITICI DELLA NASCITA DEL MONDO
La coppia primordiale
Sopra: il disegno riproduce una statua in legno che rappresenta una coppia primordiale dei Dogon (Mali). La differenziazione e la complementarità sono motori di creazione per questo popolo e sono temi provenienti da elaborati miti cosmogonici che permeano l’intera vita sociale dei Dogon.
Seggio in legno della popolazione Pende (Congo). Il piano del sedile viene sorretto dalla coppia di antenati primordiali, che dai tempi iniziali del mondo sostengono, in senso materiale, storico e spirituale, il peso dei loro discendenti.
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A sinistra: la scala di un granaio dogon. Addossate alla parete, queste scale consentono di raggiungere le alte porticine dei granai. La scala compare nei miti dogon della creazione. Il piano orizzontale dello scalino è ritenuto femmina, quello verticale maschio e insieme rappresentano le coppie primordiali degli antenati.
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PARTE TERZA
MITI AL CENTRO DI DIFFERENTI CIVILTÀ
IL MITO DI ENKI E LA PROSPERITÀ DI SUMER di Henri Limet
Tra i testi sumeri rimastici si è potuto riconoscere e ricostituire quasi per intero una grande composizione che il suo primo editor, Samuel Noah Kramer, ha intitolato Enki e l’ordine del mondo1. Un mito partecipe della cultura viva di una società
Anche nelle zone desertiche dell’Iraq – l’antica Mesopotamia – la vegetazione, ricca di vasti palmeti, lungo i fiumi resta abbondante. E proprio nel segno dell’abbondanza e della prosperità si presenta il mito del dio Enki.
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Il primo problema da porsi è se davvero si tratti di un mito. Alcuni vorrebbero vedervi un poema didattico, il che non pare plausibile, perché un’opera didattica cerca di esporre delle tecniche o di divulgare delle teorie scientifiche. Esiste un solo testo didattico in sumerico, che gli studiosi moderni hanno chiamato «georgiche», visto che dà consigli pratici a un agricoltore. Ora, Enki e l’ordine del mondo è un racconto, come un mito deve essere2. Inoltre, il principale protagonista è un dio, Enki, e gli altri attori sono la dea Inanna e qualche divinità più o meno di rango. D’altro canto, come vedremo, la storia narrata ci consegna un messaggio, anche se non sempre se ne scopre la portata, espresso in un linguaggio non sempre accessibile. Ma Enki e l’ordine del mondo risponde alla definizione di mito: si distingue infatti da una semplice storia o da una favola a causa del suo legame con la religione o con una ideologia e della sua capacità di veicolare un modo di guardare le cose
secondo i valori, gli usi, le tendenze e le fobie di una società in una certa epoca3. Viene accolto solo a queste condizioni, ma nello stesso tempo, e per una sorta di dialettica, contribuisce a plasmare e a confermare le idee della gente che crede in lui. Tutta una parte del racconto spiega la situazione economica della Mesopotamia e delle zone vicine, così come le loro relazioni commerciali in epoca neo-sumerica. Tra il 2100 e il 1900 a.C. le importazioni di alberi esotici e di metalli provenivano dalle regioni di Meluhha e Dilmun, le armate di Sumer saccheggiavano argento e lapislazzuli dall’Elam e da Marhasi, i beduini dell’altopiano occidentale vivevano come nomadi e allevatori. Al tempo della terza dinastia di Ur è quest’ultima città ad essere la capitale politica dell’Impero: Enki le attribuisce lo stesso glorioso destino di Sumer. La capitale religiosa è Nippur e viene fatto un costante riferimento al suo dio Enlil. Qualche tempo dopo gli Amorriti sono al potere a Mari, in Assiria e soprattutto a Babilonia, con la dinastia di Hammurabi. E le parti del mito di Enki appena evocate non hanno più senso. È dunque certo che tale mito abbia ricevuto la forma che oggi conosciamo attorno al 2000 a.C. Una volta scritto non era più modificabile: i narratori – o i teologi – non hanno più avuto la possibilità di ritoccarlo, di attualizzarlo. Tale ca-
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MITI DI DIFFERENTI CIVILTÀ
Il mito di Enki e la prosperità di Sumer
L’ipotetica ricostruzione della ziggurat di Nippur, oggi Nuffar, situata a circa 150 chilometri a sud-est di Baghdad. Nippur è sempre stata considerata dai Sumeri una città tra le più sacre.
renza di adattamento ha provocato la sua sparizione: non è stato tradotto in accadico, mentre altri miti, meno legati al loro tempo, lo sono stati. La morte di un mito è il distanziamento. Il testo, così come è arrivato fino a noi, non offre varianti, se non in qualche dettaglio: niente che interessi la narrazione vera e propria e i personaggi. E, poiché la tradizione orale è andata perduta, ignoreremo il problema dell’evoluzione del mito e di come potesse essere precedentemente. È escluso di poter procedere all’analisi del mito di Enki come oggi un etnologo farebbe per un mito in Africa o in Amazzonia. Inaccessibile lo stadio orale, lo studioso moderno, in questo caso, deve confrontarsi solo con la versione scritta4. Il nostro racconto avrebbe potuto, ma non è stato così, cadere nella categoria meno nobile delle storie ridicole, illogiche, oscene, o in quella delle leggende o delle superstizioni. Nel migliore dei casi, avrebbe
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potuto diventare un tema letterario: i particolari sconvenienti sarebbero stati edulcorati, le incoerenze rettificate, le spiegazioni supplementari aggiunte. In questi casi gli autori s’impegnano a un lavoro di trasformazione, di adattamento per rispondere alle attese dei lettori. Mentre una mitologia di tal genere è un gioco letterario, il mito al quale si è creduto è in grado di giustificare, spiegare, partecipare alla cultura viva di una società ricettiva nei suoi confronti. La comprensione di un mito Se il mito di Enki è il riflesso del suo tempo, come sarà stato recepito dai Sumeri all’epoca della terza dinastia dei sovrani di Ur e che cosa avrà rappresentato per loro? Secondo molti storici, filologi ed etnologi, cercare di scoprirlo sarebbe un’impresa vana. Le esegesi che nei miti ritrovano idee filosofi-
che e prescientifiche, quelle che ricorrono alla sociologia o alla psicanalisi sarebbero votate a fallire: arrivano solo, secondo Lévi-Strauss, alla piattezza o al sofisma. Le critiche si rivelano spesso fondate. L’atteggiamento negativo e l’irritazione di certi specialisti è comprensibile, di fronte a interpretazioni non di rado risibili, accatastate sulla base di documenti non dominati o di seconda mano. In effetti, ammettiamolo, sovente dal mito si ricavano solo poche rozze nozioni di speculazione filosofica o l’espressione di sentimenti elementari5. Ci si domanda allora se il messaggio del mito si riduca davvero a quelle banalità e si coltiva la sensazione di non avere ben compreso il racconto, che si sospetta dissimuli un senso profondo. Probabilmente le cose sono ad un tempo più semplici e più complicate. Certo, per gli ascoltatori o i lettori ai quali il mito è destinato, il racconto e il messaggio sono semplici; essi seguono con facilità le peripezie dell’azione e ne afferrano il senso. I dettagli e perfino le allusioni appartengono alla loro vita, alle loro abitudini, al loro linguaggio. Siamo noi a vedere complicazioni dove non ce ne sono, perché non siamo in grado di «decodificare» il messaggio per intero. Lo decifriamo, ma fino a un certo punto. La difficoltà non sta nel mito, ma nelle nostre informazioni lacunose. Di fatto, non conviene scartare alcun metodo d’approccio, ma occorre rendersi conto che certi limiti nella comprensione del mito non potranno essere superati. Enki e la civiltà sedentaria Il mito di Enki, essendo redatto in una lingua nota – il sumerico –, consente subito e senza intermediari di cogliere l’aneddoto. È il primo livello d’interpretazione. Dopo una parte di testo in cui Enki inneggia a se stesso, lo si vede all’opera nel fare canali, nel dar vita a paludi e all’attività della pesca, lo si vede occuparsi del mare, di piogge e nuvole, dei cereali, dell’aratro, di buoi, solchi e zappe, degli stampi per mattoni, di pianure e recinti per il bestiame, della città e dei campi, della vita femminile. Sono i diversi aspetti della vita organizzata di una comunità sedentaria. Allora Enki li assegna uno per uno a una divinità che dovrà farsene carico. Per esempio, ai versi 308-360: Enki convoca la pioggia, l’acqua del cielo, fa arri-
vare nuvole fluttuanti, ne fa razzia alla base del cielo e trasforma le colline in campi. E il dio che cavalca la tempesta, portatore di fulmini, sacro catenaccio che blocca l’ingresso del cielo, il figlio del dio del cielo An – Iskur – viene incaricato di quest’acqua benefica. Come in ogni racconto, l’azione ha un suo sbocco: è il passaggio da una determinata situazione, che non è il caos, a un avvenire che dev’essere di prosperità. Non è questo un mito di creazione. Quando il racconto inizia il Tigri e l’Eufrate scorrono, Sumer e Ur sono costruite, Elam, Meluhha, Dilmun e Marhasi esistono. Enki agisce proprio in questo quadro: organizza un’attività e le condizioni del suo funzionamento. Inoltre affida il nuovo stato delle cose a personaggi divini. È lui l’attore, il destinatario della funzione è passivo e viene scelto per ragioni che talvolta ci restano oscure. Una serie di dodici sequenze d’incarichi porta a uno stato di fatto giudicato intollerabile dalla dea Inanna, che reputa di essere stata trascurata nella distribuzione dei compiti. In particolare Inanna discute contro le sue sorelle, che sarebbero state favorite. Notiamo, tra parentesi, che le sorelle non sono citate (salvo una di nome Nanse) nel passaggio precedente che descrive i dodici incarichi. Alla fine, comunque, Enki riesce a placare Inanna e il conflitto pare risolto6. Il senso generale del mito di Enki Al secondo livello d’interpretazione, quello del senso generale del mito, da Enki e l’ordine del mondo risulta che i Sumeri avessero delle buone ragioni nel ritenere del tutto normali gli intenti dei loro sovrani, ivi comprese le spedizioni militari e le razzie, oltre che le relazioni commerciali con i vicini così come venivano praticate. Enki pareva aver voluto tutto ciò. I Sumeri dovevano a questo dio l’organizzazione della vita che conducevano: irrigazione, aratura, allevamento, pesca, costruzione di case. Il mito indicava inoltre quelle divinità che, con la garanzia di Enki, presiedevano al buon andamento di tali faccende e alle quali era opportuno rendere omaggio perché tutto continuasse a procedere per il meglio. È qui evidente il legame tra il racconto mitico e il culto7. Nell’occasione delle lamentele d’Inanna, cinque dee sono segnalate all’attenzione dei fedeli.
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Il fatto che nel mito vengano trattate a parte, è un’incoerenza solo apparente. Esse, infatti, si occupano di proteggere dei mestieri, considerati distinti dai lavori agricoli. Si tratta di Nin. tu, la levatrice; Ninmug, che s’identifica con il fonditore del paese, Nidaba con lo scriba. Nin. Insina, «Signora d’Isin» è al servizio del tempio e Nanse è «colei che riscuote le tasse» (forse sulla pesca). Si tratta di mestieri estremamente utili alla collettività, esercitati da un’élite artigiana, mestieri che richiedono grande abilità e implicano un lungo apprendistato8. Spiegare invece il risentimento d’Inanna risulta meno agevole. Da un lato lo si può interpretare come la voce di una certa forma contestativa che si ritrova in ogni organizzazione, pur ben congegnata. In altri testi, Inanna passa per chi vuole sempre rimettere tutto in questione, rappresenta un elemento perturbatore. Assume così un ruolo sociologico: con il suo essere di disturbo legittima l’esistenza di elementi non assimilati al gruppo. Dall’altro lato, basandosi sulla risposta purtroppo frammentaria di Enki, sembra che il mito riconosca a Inanna un primato in quanto dea, in quanto divinità femminile per eccellenza. Il che può anche voler dire che questa parte del racconto cerca di accreditare la presenza nel pantheon imperiale di una divinità della città di Uruk, come vedremo. Il mito di Enki e le tradizioni religiose della Mesopotamia Abbiamo visto, con qualche possibilità di non esserci troppo sbagliati, il significato generale del mito di Enki e perché sia stato proposto agli abitanti di Sumer. P artendo dall’idea che ogni elemento di un mito ha la sua importanza nell’insieme, dovremo ora esaminare certi dettagli e cercare di comprenderli. È il terzo livello d ella nostra interpretazione, destinata a incontrare molti ostacoli, quando il peso, il posto, il valore di una frase o di una parola restano inafferrabili. Cominciamo ad analizzare i dati religiosi, a partire da Inanna. Si sa che all’origine era una divinità di Uruk, il cui culto si diffuse al di fuori della sua città, praticato con grande fervore in Babilonia e anche in regioni più lontane, all’epoca dell’Impero accadico.
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Quanto a Enki, è il grande dio di Eridu: il mito dunque si collega alla tradizione religiosa di questa città. Si devono anche notare nel testo le frequenti allusioni alla città di Nippur e al suo dio Enlil, da lungo tempo considerato il signore del pantheon. E che dire degli altri dèi citati? Iskur, per esempio, è detto «figlio di An» (v. 314), il che ci conduce nuovamente a Uruk; Utu è figlio di Ningal (v. 378) e il suo culto si situa principalmente nella città di Larsa. Altri tre dèi si collegano ancora al dio Enlil e a Nippur: Emkimdu è «l’agricoltore di Enlil» (v. 322), Musdammu è «l’architetto di Enlil» (v. 346) e Sumugan è «la mano suprema di Enlil» (v. 354). Dumu.zi apparentemente non dice nulla in sé, ma poiché lo si chiama «genero di Sin» – dio lunare –, sposo di Inanna e compagno di An (vv. 362; 361 e 365), anch’egli evoca Uruk. Kulla è «il mattonaio del Paese» (v. 338) e Asnan «la forza del Paese» e «la vita delle teste nere» (v. 331). Si sa peraltro che Asnan è figlia di Enki. Infine ricordiamo Nanse, che è anche figlia di Enlil, e «rappresenta» Lagas, mentre Nanna è il dio protettore di Ur. La conclusione è che il mito di Enki si basa su di una teologia che ha integrato le divinità di tutta l’area di Sumer. Ci troviamo nell’ultima fase della religione sumerica, con un pantheon completamente costruito e sincretico, risultato di una lunga evoluzione che non si è certo svolta in un secolo o due. Quanto alle dee-sorelle di Inanna, abbiamo già segnalato che alla fine esse non sono state messe sullo stesso piano delle dodici divinità cui Enki ha affidato l’incarico di proteggere la vita sedentaria. A parte Nin.mug, dalla personalità scialba, due di queste divinità si collegano a Nippur e due a Uruk. Nin.tu – o Aruru – è sorella di Enlil e ha diritto all’epiteto di Signora, cioè nin, così come Nanse, di cui si dice essere figlia di Enlil, e le figlie di An, Nidaba e Nin.Insina. Quest’ultima finirà con l’essere assimilata a Inanna, ma al momento della redazione del mito di Enki il processo non è compiuto. È da notare l’elevato rango di queste cinque dee: le loro prerogative sono di diritto e non attribuite da Enki. Il tono del racconto si discosta da quello adottato precedentemente: le dee hanno accolto, hanno preso, hanno portato con sé i simboli delle loro funzioni. I verbi im-
piegati nella narrazione descrivono in loro un atteggiamento volitivo. Parlano a voce alta, si presentano familiarmente ad An o a Enlil. Lo stile indica che esse svolgono un ruolo eminente. Il politeismo conosce dunque una gerarchia e si percepiscono le intenzioni del clero, per il quale questa costruzione teologica non era un gioco gratuito. Al di fuori di tali considerazioni di ordine religioso, la lettura dell’opera lascia in ombra parecchi punti. Nel campo delle allusioni e dei simboli la decodificazione è ardua e talvolta impossibile. Il commentatore si sente frustrato nel momento in cui, avendo districato la matassa dei temi mitici generali, non arriva ad afferrare quel nucleo dell’opera che ne costituiva il fascino per i lettori dell’epoca. Abbastanza bene si coglie il rapporto tra i dodici dèi e il settore di attività che è loro rispettivamente affidato. Per esempio, Asnan (vv. 325-333) è la dea del grano e viene chiamata «pane buono», «cibo dell’universo»: è normale che sia «la vita delle teste nere» e la «forza del Paese». Invece, perché la si descrive con il capo e il corpo cosparsi di macchie e il viso ricoperto di miele? L’allusione alla zappa (v. 334) legata dal dio Enki è comprensibile se si pensa alla «discussione» tra la zappa e l’aratro descritta in un testo, che comincia così: «Zappa, o zappa, zappa legata con una corda!». Una corda, infatti, legava lo strumento propriamente detto al manico. Nel corso della «discussione» la zappa si vanta di essere indispensabile nella costruzione delle case9: nel nostro mito è appunto utilizzata per fabbricare i mattoni. Un altro esempio. Nin.tu, la dea del parto (vv. 394-401) riceve «il mattone del parto», chiamato sacro. Potrebbe trattarsi di mattoni sui quali la donna in travaglio s’inginocchiava per avere il bacino sollevato al momento del parto. Se questo dettaglio può essere per noi relativamente chiaro, altri simboli sono enigmatici. La dea fa propria una pietra, insieme a qualcosa d’indeterminato e a un porro, poi riceve un oggetto di lapislazzuli e altro ancora. Questo passaggio è inintelligibile10. Nel caso di Nanse, ad esempio, di cui il racconto precisa che una civetta (o un gufo) le cade ai piedi (v. 417), bisognerebbe sapere che cosa la civetta o il gufo rappresentassero per i Sumeri e, quanto meno, gli usi e le reazioni della gente all’epoca nei confronti dei volatili.
E, infine, nella sequenza relativa a Sumugan, divinità preposta all’allevamento (vv. 348-356), il narratore ricorre a metafore la cui interpretazione è ardua. Per esempio: «... sull’alta pianura (Enki) elevò una sacra corona; sull’alta pianura collocò una barba di lapislazzuli, legò un [...] di lapislazzuli». La «barba di lapislazzuli» potrebbe essere una definizione poetica dell’erba, visto che il versetto seguente afferma: «... rese pienamente perfette, in questo luogo eccellente, le erbe e le piante, era un tripudio». Il resto ci sfugge. Questi esempi stanno a mostrare i limiti dell’interpretazione. Il mito rivela la mentalità di un’epoca Oltre ai dettagli volontariamente introdotti dai redattori del mito, parecchi tratti stilistici sono rivelatori di concezioni religiose, etiche, politiche. Il ricorrere di certi termini tradisce la mentalità dell’epoca. E così il mito assume un andamento accettabile per gli ascoltatori (o i lettori) che vi trovano confermate le loro convinzioni. Per esempio: i termini riferiti alla gioia e all’opulenza sono parole chiave. «Nippur è esultanza» si dice al versetto 368, oppure, al versetto 359, «... egli portò esultanza...», si afferma riferendosi al luogo dove gli dèi prendono il cibo, o ancora, come abbiamo appena visto, «rese pienamente perfette... le erbe e le piante, era un tripudio». Lo stesso verbo «rendere perfetto», poi, è usato anche altrove: «Enki rese pienamente perfetta la funzione della donna» (v. 381). E, a proposito del termine «abbondanza»: «Con Enki il Paese (di Sumer) prese a crescere nell’abbondanza» (v. 329); oppure: «Egli fece in modo che la pianura raggiungesse l’abbondanza» (v. 360). Oltre all’espressione «crescere», usata anche al versetto 320 («cresceva l’orzo»), spicca la frequenza di altri verbi emblematici. Per esempio, «ammucchiare»: «I cereali erano ammucchiati nei granai» (v. 327), e ancora: «... la terra delle dighe viene disposta a mucchi» (v. 369); o il verbo «raddoppiare», riferito, per esempio ai «mucchi di grano» (v. 328); o l’espressione «moltiplicare», usata per il bestiame di piccola taglia (v. 351), come i montoni domestici o selvatici (v. 352). Si tratta, insomma, di convincere il popolo di Sumer che il dio Enki crea l’abbondanza dei cereali e favorisce la crescita degli animali. E si tratta anche di mostrare che egli contrasta la
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penuria e la carestia. Queste ultime sembrano essere state relativamente rare, benché non sconosciute, in un sistema microeconomico per sua natura precario. Il mito s’incarica di scongiurare le inquietudini. Un altro termine colpisce, poiché lo si trova cinque volte in qualche decina di versetti: «Mettere in ordine, disporre come si conviene». Viene di volta in volta riferito all’aratro (v. 317), allo stampo per mattoni (vv. 334 e 337), alla corda per misurare i terreni destinati alle fondamenta e alla casa, piuttosto che al tempio (v. 341). Inoltre è collegato ai riti di purificazione, per esempio delle stalle (v. 357), oppure al temen – un oggetto con iscrizioni connesso agli spazi sacri (v. 380). In un mondo che appariva turbato di fronte alle difficoltà della vita, era normale che si aspirasse all’ordine, alla regolarità: il mito risponde a un tale bisogno. Infine, l’allusione all’accoppiamento degli animali viene fatta a più riprese. Come si è detto, favorire la fecondità dei montoni è pertinente al ruolo di Sumugan, ma troviamo che anche Asnan, divinità del grano, passa per poter «provocare l’accoppiamento» (v. 331). Più curioso, quando si parla di Dumu.zi, è vedere citata anche Inanna «... che per le strade... di Kulaba fa accoppiare» (v. 364). L’atto sessuale, tramite cui si moltiplicano animali e uomini, ha valore di esempio ed è simbolo di ricchezza: il solo evocarlo esercita, come per incanto, un’influenza su tutta la natura. Esso viene descritto con realismo al versetto 335: «(Enki) fa penetrare il pene... nella terra-madre»11. E in un episodio precedente, ai versetti 253 e 257, il mito narra che Enki, toro divino, sparge il suo seme nell’Eufrate e nel Tigri. Senza ombra di dubbio questo significa che il dio ha riempito il fiume di acqua corrente (vv. 254 e 259), assimilata all’acqua benefica dell’irrigazione, con cui si produce il grano che nutre il popolo (v. 260). L’intervento di Enki feconda l’acqua. Qui il mito viene incontro alla primordiale preoccupazione dei Sumeri: il Paese può sopravvivere solo grazie ai suoi abitanti, se lavorano numerosi, e grazie alle piene dei fiumi, per le quali si deve essere riconoscenti a Enki. Conclusione Al termine di questo breve scritto su Enki e l’ordine del mondo, possiamo concludere che per i Sumeri, vissuti tra il 2100 e il 1900 a.C., il
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mito contenesse un messaggio? La risposta è affermativa, anzi, dovremmo dire che conteneva un doppio messaggio. Da un lato, esso invita a pregare determinati dèi, e spiega, giustifica, cristallizza una situazione geopolitica. Distingue inoltre i lavori agricoli da certi mestieri specializzati, rendendo così normale un tipo di ripartizione del lavoro. Diffonde dunque tra la popolazione idee di natura economica e religiosa. Dall’altro lato, agendo in un certo senso sull’inconscio collettivo, tramite l’insistenza sui temi della prosperità e dell’ordine, contribuisce a fortificare dei valori favorevoli al mantenimento della società nello stato in cui si trova. Il carattere ideologico, nel suo senso più ampio, del mito è evidente. Abbiamo a che fare con un mito vero, al quale si prestava fede e non con un semplice racconto o una narrazione mitologica degradata al rango di composizione letteraria o di folklore. Ma se a questo punto ci domandiamo: Enki e l’ordine del mondo ha un suo specifico linguaggio in quanto mito? In questo caso la risposta sarà piuttosto negativa. La struttura della narrazione è quella di ogni racconto: un personaggio agisce, modifica la situazione preesistente, incontra una difficoltà, la risolve. È una trama abituale. Quanto alla forma – alla lingua e allo stile –, essa non offre alcuna peculiarità che la distingua da un’opera «letteraria». Tutt’al più si possono rilevare nel mito diverse menzioni particolari, che però restano sovente assai oscure allo studioso moderno. Del resto, analoghe osservazioni potrebbero applicarsi anche alle epopee, di cui comprendiamo male, o non a sufficienza, peripezie, detti e proverbi. Non ne cogliamo l’originalità, perché non siamo al corrente di gesti familiari, usi, modi di pensare che intessevano la vita quotidiana della gente in quel luogo e in quell’epoca. Qualunque sia il genere di testo, l’analisi si trova a percorrere strade simili. Una cosa è forse da riconoscere: il mito è carico di segni, molto più di un racconto ordinario, perché accumula le notazioni religiose, economiche, sociologiche e di conseguenza moltiplica i «codici», il che rende il compito più arduo al commentatore.
A sinistra, dall’alto: proveniente dalla città di Ur, l’impronta di un sigillo dove è raffigurato il dio Enki, nella sua veste di dominatore delle acque. Della seconda metà del 3000 a.C., il sigillo è conservato a Baghdad nel Museo Nazionale. Durante il Neolitico l’uso della ceramica si diffonde e i motivi pittorici usati rimandano a significati precisi. Nel disegno: un vaso dipinto circa nel 2750 a.C. proveniente dall’Hamrin. Vi domina il tema del rapporto uomini-animali culturalmente cruciale, garantito qui da un personaggio onnipresente nell’iconografia mesopotamica: il signore degli animali. Lo si vede a braccia aperte quasi a domare gli animali, ma anche a proteggerli. La sedentarietà in Mesopotamia è stata acquisita via via nel corso di millenni. Nel disegno: la ricostruzione di una casa di Tell Madhur (regione dell’Hamrin, 4000 a.C. ca.). Lo spazio, tipico dell’architettura mesopotamica, è tripartito, con una lunga sala centrale affiancata da stanze o appartamenti paralleli, espressione di un’istanza organizzativa che le mitiche attività di Enki non mancano di riflettere. A destra: nell’estremo sud dell’Iraq il Tigri e l’Eufrate si riuniscono in una regione di paludi, quasi al livello del mare. Anche le zone acquitrinose meridionali, importanti per la caccia e la pesca, sono oggetto dell’attenzione di Enki.
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Particolare del celebre Stendardo di Ur, un pannello con applicazioni di madreperla su una base di lapislazzuli, dove è raffigurata una sfilata militare (2500 a.C., British Museum, Londra). La prima metà del iii millennio a.C. è contrassegnata da guerre incessanti che contrappongono città a città per una supremazia volta a controllare territori e canalizzazioni.
Statuetta di orante in alabastro del 2650 a.C. circa, proveniente dal tempio della dea Nin.tu di Khafagia (Iraq) e conservata nel Museo Nazionale di Baghdad.
Nel disegno: un dettaglio della parte superiore del vaso nel quale alla dea vengono presentate delle offerte. In piedi, dietro a Inanna, si vedono i suoi emblemi: dei fasci di canne annodate che evocano l’entrata al sacro recinto del tempio.
Alto vaso in alabastro scolpito in bassorilievo e dedicato a cerimonie in onore della dea Inanna. Scoperto a Uruk, sede principale del suo culto, è databile alla fine del iv millennio a.C. circa ed è conservato nel Museo Nazionale di Baghdad.
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Nei disegni: esempi di piatti in ceramica dipinta, del 5000 a.C. circa. Provengono dalla città di Eridu, luogo per eccellenza del culto tributato a Enki. Il sito di Eridu è stato identificato con Abu Shahrain, in pieno deserto, sulla riva destra dell’Eufrate, 15 km a sud-ovest di Ur. Questi piatti dalla ricca ed elaborata decorazione e dalle pareti eccezionalmente fini rappresentavano certo un vasellame di lusso. Si può supporre fosse usato dai notabili della città forse nelle loro sale del consiglio, che potevano anche coincidere con quelli che sono comunemente stati identificati come edifici templari.
Nel disegno: ipotetica ricostruzione del tempio di An, situato nel cuore di Uruk, in una zona della città chiamata Eanna, che significa il “Palazzo celeste” e comprensiva di tutta una serie di edifici sontuosi legati all’esercizio del potere politico-religioso. Il tempio vero e proprio (3000 a.C. circa) costruito su un’alta terrazza, era un edificio maestoso, che non lasciava dubbi in chi lo ammirava circa il prestigio, la potenza e il successo della città.
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I resti del sito di Uruk dell’imponente tempio di An e della sua elevata terrazza, detta la Ziggurat di An.
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Nel particolare di questa abitazione tradizionale della regione di Mosul (Iraq) si possono intravedere sotto l’intonaco di terra e paglia i mattoni crudi della muratura. Nel mito di Enki è manifesta l’importanza dei mattoni, più volte citati, come nel caso della dea Nin.tu. Gli stampi per mattoni entrano addirittura nel novero delle molteplici attività inventive e organizzative di cui lo stesso dio si occupa.
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Come un tempo in Mesopotamia, anche in epoca moderna, nelle zone rurali dell’Iraq le forme di pane vengono cotte in forni come quelli che si vedono nella foto (regione del Gebel Hamrin): di aspetto tondeggiante e costruiti con terra e strati di paglia o canne. Un tipo di aratro rudimentale della fine del secolo scorso che proviene dal sud iracheno. Benché più elaborato di quello del iii millennio a.C., costituisce un’indicazione di come poteva presentarsi quello arcaico citato negli antichi testi.
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A Tell el Ueili, nel sud dell’Iraq, si sono scoperti diversi basamenti di granai. Quelli nella foto risalgono forse a un periodo tra il 4700 e il 4200 a.C. I muretti sostenevano delle piattaforme – costruite con uno strato di canne grosse, uno di canne sottili e un terzo di mattoni crudi – dove si trovavano i granai, isolati dal suolo.
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In questo sito l’uso di destinare vaste zone solo allo stoccaggio di grano e orzo è molto antico e fa pensare a una gestione comune dei raccolti, oltre che a un’agricoltura florida, nonostante l’abitato sia ai limiti del deserto.
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Il mito di Enki e la prosperità di Sumer
Un gruppo di statuette tra le molte ritrovate nella regione del bacino inferiore del fiume Diyala, un affluente del Tigri che vi si getta a sud di Baghdad. La zona è ricca di siti archeologici, come Tell Asmar e Khafagia, da cui vengono alcune di queste sculture (prima metà del iii millennio a.C., Oriental Institute di Chicago). Tra esse spicca più alto il cosiddetto “Orante di Tell Asmar”, con i suoi immensi occhi concentrati. Nel iii millennio a.C. si diffonde l’uso di farsi ritrarre in preghiera. Chi porta offerte a un luogo sacro vuole così farsi presente alla divinità.
In alto: tavoletta amministrativa in argilla risalente alla terza dinastia della città di Ur, cioè all’epoca del mito di Enki.
Nei disegni: frammenti di ceramica decorati in rilievo che raffigurano animali con il ventre gonfio, testimonianza di un’attenzione alla fecondità e al riprodursi della vita dalle radici molto antiche (6500 a.C. circa, regione di Mossul, nord dell’Iraq).
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A sinistra: statuetta femminile ritrovata a Khafagia nel tempio di Sin, dio della luna, edificio che si può interpretare come un piccolo santuario destinato alla devozione popolare o un luogo in cui si potevano accostare personaggi autorevoli, ritenuti intermediari tra il popolo e la divinità.
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MITO E STORIA NEL MONDO BIBLICO di Gianfranco Ravasi
Tra mythos e logos
Una piccola carovana percorre la pianura alluvionale del meridione iracheno: una scena attuale dal sapore biblico.
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Al nostro ingresso nel crocevia tra mito e Bibbia vogliamo premettere una curiosità lessicale. Il vocabolo greco mythos occhieggia, infatti, nelle pagine bibliche, anche se con accezioni non certo coincidenti col nostro uso del termine. Nel testo greco del Siracide (20,19) si ha l’unica presenza anticotestamentaria: là, però, il vocabolo ha il significato generico di «discorso, parola», tra l’altro con una connotazione negativa («inopportuno») anche perché affiora sulle labbra dei «maleducati». Il tardo libretto di Baruc (3,23) introduce, invece, i mythologoi, con analoga allusione spregiativa per bollare i sapienti dell’area edomita e araba come «narratori di favole», in opposizione alla vera sapienza che fluisce dalla Legge biblica. Più interessante è la presenza del mythos negli scritti neotestamentari: soprattutto nelle lettere pastorali paoline (1 Tm 1,4; 4,7; 2 Tm 4,4; Tt 1,14) e in 2 Pt 1,16, il vocabolo echeggia cinque volte ed è aspramente contestato secondo una prospettiva critica significativa. Infatti i mythoi sono concepiti come invenzioni fantastiche, favole, creazioni prive di verità e si contrappongono all’annunzio cristiano nella sua autenticità fondata sull’evento storico e sulla testimonianza. Non manca una polemica contro i «miti giudaici» (Tt 1,14; cfr. 1 Tm 1,4),
considerati speculazioni dottrinali inconsistenti, forse giudeo-cristiane e pre-gnostiche, speculazioni espresse in forma narrativa. Come è facile intuire, al termine mythos è ricondotta una concezione che perdura fino ai nostri giorni in ambito popolare: il vocabolo coprirebbe ciò che anche nell’antichità greca era equivalente alla nostra «favola» (si ricordi l’esopiano ho mythos deloi..., «la favola dimostra che...», l’espressione che suggellava la lezione morale della parabola narrata). Non è nostro compito ora delineare la ben diversa accezione che la parola «mito» ha assunto nella moderna ricerca storico-critica, antropologico-culturale e filosofico-teologica. Si può dire che l’ermeneutica biblica del Novecento ha in pratica seguito parallelamente l’intero arco della storia dell’interpretazione del mito condotta in ambito «profano» da una legione di studiosi di diverso orientamento (W. Nestle, L. Lévy-Bruhl, R. Otto, C.G. Jung, G. van der Leeuw, K. Kerényi, E. Cassirer, A.E. Jensen, M. Eliade, M. Mauss, G. Dumézil, C. Lévi-Strauss, P. Ricoeur, ecc.). Sulla scia di questa vera e propria scienza del mito, si è sempre più attestata anche per l’analisi dei testi biblici la convinzione che il mito nel senso genuino del termine sia ben altro che favola o leggenda fantasiosa, bensì sia da considerare come una rappresentazione simbolica della realtà profonda del mondo, dell’umano e del divino.
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Come suggeriva Ricoeur, il mito è sostanzialmente un’interpretazione narrativa dell’enigma dell’essere e dell’esistere ed è arduo, perciò, dissezionare radicalmente mythos e logos, ossia visione mitica e concezione razionale, a differenza di quanto suggeriva il tradizionale orientamento razionalistico, convinto della necessità di spazzar via mito, rito, simbolo come espressioni di una mentalità «primitiva». In realtà, ricalcando un’osservazione di Pierre Grelot, si deve affermare che anche il mito si interessa della verità dell’essere, solo che lo fa attraverso un differente procedimento: «Grazie a una risalita verso l’origine del tempo, il mito rappresenta simbolicamente la risalita fino al cuore dell’essere». È, allora, indubbio che anche la Bibbia adotti un procedimento mitico, soprattutto nelle sue pagine iniziali ove è di scena la genesi del mondo e dell’umanità (Gn 1-11). È altrettanto indubbio che in questo percorso ideale essa attinga a materiali documentari mitici preesistenti e appartenenti alla cultura in cui è inserita: non si dimentichi che la Rivelazione ebraico-cristiana è di sua natura storica e «incarnata». Tuttavia, come avremo occasione di sottolineare sia pure in modo essenziale e sommario, la Bibbia impone alla prospettiva mitica e alle tradizioni mitiche desunte dalle civiltà circostanti una sua originale e decisiva impronta, anzi, una vera e propria ermeneutica innovativa. Il nostro itinerario comprenderà due tappe piuttosto semplificate ed emblematiche, la prima centrata sulle citate pagine iniziali della Genesi, l’altra – di indole più generale – sul Nuovo Testamento e la sua supposta «mitologia». Si tratta di due momenti notevolmente diversi, ma legati tra loro da uno sfondo ideale comune. Cosmologia e cosmogonia Non possiamo naturalmente allegare ora né l’esegesi dei capitoli iniziali della Genesi, soprattutto nelle tappe decisive della creazione e della ri-creazione post-diluviana, né la documentazione integrale dei relativi miti della creazione e del diluvio provenienti dalla Mezzaluna Fertile. Ricordiamo, comunque, che in Gn 1-3 – (come è noto, si tratta di pagine composite che rimandano ad almeno due differenti tradizioni, la Sacerdotale e la Jahvista,
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secondo la comune classificazione) – affiorano rimandi al grande mito cosmologico mesopotamico denominato dalle sue prime parole Enuma elish («Quando in alto...»). A noi esso è giunto in una attestazione tardiva: si tratta, infatti, di 7 tavolette per un totale di quasi 900 righe, appartenenti alla biblioteca del re Assurbanipal (vii secolo a.C.) situata nella sua reggia di Ninive, scoperta nel 1850. Il testo accadico – sono stati rinvenuti frammenti anche di una versione assira – è sicuramente ben più arcaico e da molti è ricondotto all’opera riformatrice di Nabucodonosor i, attorno al 1100 a.C. Il mito era collegato intimamente, quasi come testo liturgico, al rito babilonese dell’akitu, la festa di Capodanno, svelando così una sua caratteristica, quella della visione circolare e reiterativa della creazione attraverso la sequenza stagionale, esaltata dal calendario sacrale. Il poema è non tanto cosmologico quanto cosmogonico e in questo già rivela la radicale distanza dal racconto biblico, pur nei contatti tematici e simbolici. Infatti il caos è incarnato da una divinità negativa, Tiamat (che nella Genesi diventa il semplice tehôm, «abisso») e la creazione è frutto di una teomachia per cui il dio creatore Marduk, patrono di Babilonia (nei frammenti assiri ovviamente è Assur, il protettore dell’Assiria), uccide Tiamat, ne scinde il corpo in due parti, dando così origine al cielo e alla terra («egli la spaccò in due parti come un’ostrica», si legge in iv,137). L’universo è, quindi, generato da una divinità e ne conserva la stimmata negativa, essendo quella stessa divinità il principio originario del caos. Similmente accade per la creazione dell’umanità: il rapporto con la divinità, che la Genesi (2,7) presenta sotto il segno dello spirito vitale e dell’insufflazione, è qui r iportato sempre alla cosmogonia divina. Infatti l’uomo è impastato col sangue di uno degli dèi ribelli, Kingu, che viene giudicato e ucciso: «Col suo sangue Ea (una delle divinità del pantheon di Marduk) costruì l’umanità per il servizio degli dèi» (vi,3334). È facile intuire di fronte a una simile trama narrativa l’intima diversità che intercorre tra il mito biblico e la mitologia mesopotamica e quella parallela fenicia. Quella biblica è, come si è soliti dire, un’eziologia metastorica sapienziale che ha per protagonista il Dio creatore che opera con la sua parola efficace dando origine all’essere.
Un’eziologia metastorica Siamo, cioè, in presenza di una narrazione modulata «storicamente» ma con un valore teologico, «sapienziale»: essa vuole, infatti, farci risalire all’origine stessa dell’umanità – non per nulla si parla di ha-’adam, «l’Uomo», e di hawwah, Eva, «la Vivente» – per trovarne il senso e la finalità. Si tratta, quindi, di un’«eziologia» ossia di una ricerca delle cause (in greco aitía), del significato genetico di quel fiume della vita e dell’essere che giunge fino a noi. Siamo, così, immessi nel filo della storia, certo non in modo fenomenico (le origini non sono documentabili storiograficamente), ma nella sua realtà autentica «metastorica», che comprende le scelte morali, l’identità, le relazioni e così via. L’uomo dell’Enuma elish, impastato com’è col sangue della divinità ribelle, non può che essere partecipe di una negatività obbligata e metafisica, votato solo al male della divinità maligna di cui è parte. Nella Bibbia si registra, invece, non solo una depoliteizzazione del mito ma anche una sua «demitologizzazione»: alla cosmogonia intradivina subentra una cosmologia quasi neutra nella quale si inserisce l’azione protagonista di Dio e la reazione libera dell’uomo. Lo stesso termine toledôt usato da Gn 2,4a, etimologicamente legato a jalad, «generare», non ha più il significato di «generazioni» ma di «origini», «storia»: «Queste sono le origini (toledôt) del cielo e della terra quando vennero creati». Inoltre, è la parola divina ad essere capitale, rivelando così la trascendenza di Dio e la sua efficacia creativa: «Dio disse: Sia la luce. E la luce fu» (Gn 1,3; cfr. Gv 1,1-3). Lo stesso motivo della lotta contro il caos viene assunto certamente dalla poesia biblica (Es 15; Sal 18; 29; 68; 93; 95; 104; Prv 8,22-31; Gb 38-41) ma è riportato a una semplice rappresentazione del primato del Signore che interviene nel cosmo e nella storia con la sua sovranità di Creatore e di Salvatore. Gli stessi mostri caotici, che pure l’autore sacro conosce ed evoca (Rahab, Leviatan, Behemot, Tannin), sono ridotti al rango di creature che Dio governa e domina (si veda, ad esempio, Gb 40-41). Concludendo, potremmo dire che la Bibbia, pur seguendo un percorso «mitico» nel senso profondo del termine, ne cambia strutturalmente i connotati liberandoli da ogni «mito-
logia». Non si ha più un tempo primordiale animato da dèi in contrasto, ma si configura un tempo «umano», normativo non in quanto è divino ma in quanto è originario, in quanto sorgente e spiegazione di quello che sostanzia l’intero arco della storia. C’è, però, un secondo atto nei racconti biblici della creazione che esige particolare attenzione: è quello della ri-creazione che si sviluppa – per usare la locuzione di Hans-Peter Müller – su un «anti-mito», essendo l’opposto di un mito di fondazione, cioè un mito di distruzione, quello del diluvio. Osservava, infatti, lo studioso tedesco: «Il mito della creazione intende garantire l’esistenza dell’uomo nel mondo, basandosi sul fatto che quanto esiste può continuare ad esistere. L’anti-mito del diluvio intende scongiurare tutto quello che minaccia tale esistenza mettendone in crisi la giustificazione». L’anti-mito del diluvio Quella del diluvio sembra essere una sorta di tipologia mitica universale forse fondata sulla paradossale opposizione che annoda in sé il simbolismo acquatico, fonte di vita e principio di distruzione e morte. Così essa affiora nell’antica Grecia attraverso la vicenda di Deucalione e Pirra, in India, in Birmania, nella Polinesia e tra gli aborigeni dell’Australia, nelle civiltà mesoamericane e tra gli indiani nordamericani. In uno dei documenti più rilevanti della cultura egizia antica, il Libro dei Morti (in realtà il titolo originale di quei 192 capitoli è Libro dell’uscire alla luce), attraverso il mito della «Vacca celeste», si ha un’interessante anticipazione dell’idea biblica. Il dio creatore di Eliopoli, Atum-Ra, decide di punire con un diluvio di acque dell’oceano primordiale (Nun) la ribellione degli uomini che tentano di spodestarlo. L ’inondazione sommerge l’intero Egitto sterminando gli abitanti, tranne un gruppo di eletti, salvati dal dio su una barca solare rituale, «la barca dei milioni di anni». È significativo che alla radice dell’evento catastrofico – che è forse un’eziologia dei disordini seguiti alla morte del faraone monoteista Akhenaton e alla fine dell’epoca di el-Amarna (xiv secolo a.C.) – ci sia un «peccato originale» di ribellione umana per essere «come Dio» (cfr. Gn 3,4.22). Ma, come è noto, per il racconto biblico (Gn 6-8) il referente testuale principale fu quasi
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certamente la celebre tavoletta xi dell’Epopea di Ghilgamesh, scoperta a Ninive tra il 1846 e il 1854 e decifrata nel 1872 dall’assirologo dilettante George Smith. Questo poema molto complesso e affascinante è dominato dalla figura storica di un re della città di Uruk (tra il 2700 e il 2500 a.C.), Ghilgamesh, ossessionato dalla morte. Il suo è, allora, un pellegrinaggio verso l’isola dei beati ove vive l’antenato Utnapishtim (Ziusudra nella versione più antica del mito, quella sumerica), dotato di immortalità. Costui racconta al suo discendente la storia di quel diluvio che si scatenò allorché Anu, il dio del cielo, ed Enlil, dio della terra, s’adirarono contro la città di cui Utnapishtim era sovrano, Shurippak (o Shuruppak) sull’Eufrate. Ma Ea, dio del mare, svelò il piano degli altri dèi proprio al re consigliandolo di approntare un’arca con sette ponti (vengono offerti minuziosamente tutti i dettagli dell’imbarcazione) che fu colmata di tesori, sementi, animali e parenti di Utnapishtim. La catastrofe acquatica fu tale da impressionare gli stessi dèi. Cessato il diluvio, l’arca s’incagliò su un monte circondato dalle acque. L’eroe salvato inviò prima una colomba e poi una rondine che ritornarono; infine un corvo che non rientrò perché aveva trovato la terra asciutta ove posarsi. Utnapishtim uscì, allora, dall’arca coi suoi compagni di avventura e celebrò un sacrificio: «Gli dèi sentirono l’odore soave e come mosche circondarono i sacrificanti». Anche Enlil, il più fiero avversario degli umani, si placò e si riconciliò con la nuova umanità incarnata da Utnapishtim al quale fu assegnata, come risarcimento, l’immortalità. Oltre a quella già citata sumerica, molto frammentaria, esiste un’altra epopea accadica del diluvio: è il Poema di Atrahasis, un titolo onorifico per designare il protagonista, «eccellente in sapienza». Il racconto ha notevoli varianti e questo fa supporre l’esistenza di più tradizioni «diluviane» (a Ugarit, nell’area cananeo-biblica, fu trovata un’altra versione accadica del mito che combinava i due testi di Ghilgamesh e di Ziusudra). In questa seconda epopea il diluvio è scatenato dagli dèi disturbati nella loro quiete olimpica dagli «schiamazzi» (ma c’è chi traduce «grida sediziose», segno di ribellione) di un’umanità demograficamente molto accresciuta. Non mancano altre attestazioni, come quella ellenizzante e tarda, elaborata da Berosso, sacerdote babilonese del dio Marduk, attorno al
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275 a.C., che introduce l’Armenia come approdo dell’arca, o come l’arcaica Epopea di Ninurta/ Ningirsu, nomi di divinità guerriere sumeriche e accadiche, ma i contatti col racconto biblico sono piuttosto improbabili. Una rilettura storico-etica del diluvio A questo punto dovremmo spostare la nostra attenzione sul testo di Gn 6-8: sarebbe ovviamente necessaria un’accurata esegesi di quelle pagine, comparandole anche coi paralleli accadici, in particolare con l’xi tavoletta di Ghilgamesh. Dati i limiti della nostra ricerca, ci accontenteremo di individuare la sostanziale diversità che intercorre a livello ermeneutico, pur nella coincidenza materiale di molti dati col mito mesopotamico, usato come fonte narrativa. Certo, il testo di Gn 6-8 è frutto di una redazione finale a intarsio ove si compenetrano due tradizioni diverse, la Jahvista e la Sacerdotale, con una loro specifica identità (ad esempio, per lo Jahvista Gn 7,12 il diluvio dura 40 giorni, mentre per il Sacerdotale Gn 8,13 un intero anno). Tuttavia è possibile isolare un filo interpretativo omogeneo. Esso parte indubbiamente anche in questo caso da una finalità «eziologica», quella di individuare una genesi per i grandi cataclismi che sconvolgono il pianeta e attentano alla vita umana. È la costante interrogazione di fronte al tremendum della natura nei cui confronti l’uomo si sente impotente, simile alla celebre «canna» pascaliana, fragile e insicura. Per la mitologia mesopotamica il rimando eziologico riguardava quasi certamente le inondazioni, talora colossali, del Tigri e dell’Eufrate che, nell’ultimo tratto prima della foce, scorrono per 350 km su un terreno quasi del tutto pianeggiante (solo 34 m di dislivello!), e quindi le loro inondazioni dilagano sulla fertile pianura mesopotamica. La prospettiva interpretativa biblica si orienta, però, verso un’ulteriore direzione di taglio trascendente, diversa da quella praticata dal mito accadico-babilonese. Là, infatti, la concezione politeistica faceva sì che la radice vera e ultima del diluvio fosse la conflittualità interna al pantheon, riedizione di quella teomachia che, come si è detto, era alla base della cosmogonia. All’umanità toccava solo una parte secondaria, quasi da «spalla», per permettere agli dèi di esplicitare il loro contrasto: la stessa salvezza di
Utnapishtim avviene solo per il gusto del dio Ea di infrangere in qualche modo il progetto dei suoi avversari, gli dèi Anu ed Enlil. Per gli autori biblici questa concezione è insensata: al centro del racconto c’è, infatti, una vicenda squisitamente storico-esistenziale che coinvolge due protagonisti. Da un lato, c’è l’unico Signore del cosmo e della storia, un Dio morale che non è indifferente nei confronti del bene e del male. D’altro lato, c’è l’umanità nella sua libera possibilità di opzione: verso il bene – ed è Noè a personificarla esemplarmente – e verso il male, che è purtroppo prevalente. Si comprende, così, perché l’intero racconto biblico sia illuminato da una precisa «inclusione», ossia da una duplice dichiarazione parallela e programmatica posta in apertura e in chiusura alla narrazione come stella polare ermeneutica e di sua natura capace di riportare dal cielo alla terra l’evento «demitizzandolo». Ecco i due passi: Gn 6,5 (inizio): «Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni progetto concepito dal loro cuore non era altro che male» (cfr. Gn 6,11). Gn 8,21 (fine): «Il Signore pensò: Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza». Il diluvio biblico, allora, a prima vista assume le categorie mitiche del conflitto tra energie positive cosmiche ed energie negative caotiche; sembra persino indulgere ad antropomorfismi che dipingono il Creatore nella metamorfosi di Distruttore, così come sembrava accadere nel mito mesopotamico: «Il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato e, con l’uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti» (Gn 6,6-7). Ma la nuova impostazione che viene attribuita al mito lo scardina dalle sue fondamenta politeistiche e panteistiche e lo riporta alla sua funzione di eziologia metastorica. Come per la creazione si trattava di identificare il senso dell’essere e dell’umanità nella sua struttura intima e ultima, così ora si tratta di risalire al male e al peccato, alle sorgenti della moralità e al giudizio divino. Non è più un
oscuro principio divino che si scatena facendo ripiombare nel caos il creato armonico, ma è il Dio giusto che irrompe sulla scena della storia e, attraverso la simbologia mitica del caos (il famoso Chaoskampfmotiv, il tema della lotta contro il caos nella creazione oppure in favore del caos nella de-creazione diluviana), si presenta come il giudice della malvagità degli uomini e della corruzione dei «disegni del loro cuore». Anche l’approdo, che sembra ricalcare il finale della tavoletta xi di Ghilgamesh, è in realtà la celebrazione della salvezza e della ri-creazione, per la quale l’ultima parola non è quella distruttiva e negativa: «Il Signore odorò la soave fragranza (dell’olocausto di Noè) e pensò: Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo... né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto. Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno» (Gn 8,21-22). E Gn 9, col suo mirabile racconto dell’alleanza tra il Signore e la nuova umanità, è il suggello ideale a questa lezione simbolica di taglio storico-morale costruita con materiali mitici tradizionali. Il mito dei giganti In appendice alla nostra duplice esemplificazione della rilettura biblica operata sui miti mesopotamici della creazione e del diluvio vorremmo solo fare un cenno all’oscuro e arcaico paragrafo di Gn 6,1-4, che precede il blocco narrativo diluviano. Ecco il testo che, per altro, è stato fatto oggetto di reiterate analisi e che è ripreso allusivamente nell’apocrifo giudaico Libro di Henoch (6,1ss.), nella Lettera neotestamentaria di Giuda (v. 6) per la «caduta degli angeli» e forse anche in Ez 32,27: «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore disse: “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni”. C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi» (Gn 6,1-4).
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Le poche righe del brano propongono qualcosa di simile al mito greco dei Titani: si tratta, infatti, di esseri nati dall’unione tra «i figli di Dio», che nell’antichità erano gli dèi del pantheon e che la Bibbia aveva ridotto al rango di angeli, e «le figlie degli uomini», ossia tra esseri celesti e donne mortali. Forse l’autore sacro prende spunto da una tradizione mitologica cananea che aveva al centro i «giganti» nati da una ierogamia, cioè da un matrimonio sacro tra divino e umano, rievocato nei culti della fertilità diffusi nell’ambiente siro-palestinese antecedente e circostante a Israele. Ma il v. 3 rivela chiaramente l’operazione di «demitologizzazione» operata dallo stesso scrittore sacro attraverso una sorta di oracolo divino. Alla hybris dell’umanità che si illude di conquistare – come il Prometeo greco – la partecipazione alla divinità il Signore oppone il suo decreto che rigetta l’uomo e la donna nella loro finitudine creaturale: «Il mio spirito non resterà per sempre nell’uomo perché egli è carne», ossia il respiro vitale sarà tolto e l’umanità rientrerà nella sua mortalità. Anzi, essa sarà ricondotta nel perimetro limitato della temporalità: «la sua vita sarà di centoventi anni». Ai 969 anni di Matusalemme e alle centinaia di anni attribuiti ai patriarchi della genealogia di Gn 5, segno di pienezza di vita, subentrano i 120 anni ben più realistici che il Sal 90,10 riporterà ai limiti ovvi: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti». Come è evidente, lo spunto mitico dell’unione magica col divino è orientato in una direzione storico-esistenziale, destinata a rivelare la vera realtà dell’essere umano, incapace di eternità a livello naturale, caduco ed effimero (cfr. Sal 39,5-7). Kerygma e mito Si para ora davanti a noi, come si era annunziato, il Nuovo Testamento ma la nostra analisi non vorrà tanto vagliare eventuali pagine che hanno sottofondi mitici (si pensi ai motivi mitici ereditati dall’apocalittica giudaica, al tema dell’uomo primordiale redentore di ascendenza iranico-giudaica, ai «misteri» ellenistico-orientali), quanto piuttosto affrontare, sia pure sinteticamente, una questione ermeneutica di indole generale, sollevata in modo netto per la prima volta dallo studioso David Friedrich Strauss (1808-1874) che impose all’evento cri-
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stiano un’interpretazione sistematica in chiave mitica. I nudi e scarsi dati della vita di Cristo e le idee religiose sue e della comunità delle origini – secondo questo autore tedesco – sono avvolti e travolti da uno spesso velo simbolico mitico: occorre criticamente sciogliere questo involucro così da isolare quel nucleo radicale che è l’autentico e perenne messaggio del cristianesimo. Ma la decisiva impostazione della questione fu quella proposta dal famoso e contestato esegeta teologo tedesco Rudolf Bultmann (1884-1976) il cui pensiero condizionò notevolmente la teologia del Novecento. Una delle sue opere più significative (era una relazione tenuta il 4 giugno 1941 a un convegno della «Comunità per la teologia evangelica») s’intitola appunto Nuovo Testamento e mitologia e fu considerata come «il manifesto della demitizzazione» (questo fu appunto il sottotitolo della traduzione italiana curata da Italo Mancini). Kerygma und Mythos è stato, invece, il titolo illuminante di una vasta collezione di saggi di autori diversi pubblicata ad Amburgo tra il 1948 e il 1970 dedicata al pensiero teologico di Bultmann e curata da Hans-Werner Bartsch. Effettivamente questi sono i due poli in tensione entro cui scorre il flusso del pensiero bultmanniano. È indispensabile, perciò, precisare queste categorie fondamentali che nel docente di Marburg ricevono una particolare connotazione. Lo faremo affidandoci soprattutto alle parole molto trasparenti dello stesso autore, operando però alcune semplificazioni, considerata la finalità piuttosto immediata e sintetica della nostra presentazione. Il mito – scrive Bultmann – è un’interpretazione primitiva e acritica della storia accolta dagli scritti neotestamentari ed ereditata dall’Antico Testamento. Secondo essa «il mondo è articolato in tre piani. Al centro si trova la terra, sopra di essa il cielo e sotto, gli inferi. Il cielo è l’abitazione di Dio e delle figure celesti, gli angeli; il mondo sotterraneo è l’inferno, il luogo del tormento. Ma, secondo questa visione, la terra non è unicamente il luogo dell’avvenimento naturale-quotidiano, delle sollecitudini e del lavoro, è anche il teatro d’azione delle potenze soprannaturali, di Dio e dei suoi angeli, di Satana e dei suoi demoni. Le forze soprannaturali agiscono sugli avvenimenti naturali, sul pensiero, sulla volontà e sull’operare dell’uomo; i miracoli non hanno nulla di insolito. L’uomo non è padrone
di se stesso; i demoni possono impadronirsi di lui; Satana gli può ispirare cattivi pensieri; ma anche Dio può guidarne il pensiero e la volontà, può fargli contemplare visioni celesti, fargli udire la sua parola che comanda e consola, può donargli la forza soprannaturale del suo spirito. La storia non compie un cammino continuo e regolare; riceve invece impulso e direzione dalle potenze soprannaturali». «Mitologica – affermava Bultmann – è dunque la concezione in cui il non-mondano, il divino, appare come mondano, umano, l’aldilà come aldiqua... Il mito parla profanamente di ciò che non è profano, parla degli dèi umanamente», inserendoli nelle nostre coordinate spazio-temporali. Ora, questa visione di commistione tra natura e soprannatura, tra contingenza e immanenza, tra storia ed escatologia (cioè tra tempo ed eterno) è stata per sempre esorcizzata dalla scienza moderna che ha nettamente separato i settori: la natura è un dato autonomo che dev’essere vagliato secondo criteri specifici «oggettivi»; il divino, invece, si pone su un piano radicalmente differente. Il messaggio cristiano, che è immerso in questa confusione di piani che è tipica del mito, non può più essere presentato sic et sempliciter, così come suona, all’uomo che ha conquistato ormai la distinzione delle aree dell’esistere e dell’essere. «Per l’uomo moderno», osserva Bultmann, «questa sarebbe una pretesa assurda e impossibile. La concezione mitologica del mondo, le rappresentazioni dell’escatologia, del redentore e della redenzione sono sorpassate e superate». La demitizzazione Nasce, allora, la grande necessità (che diventa programma esegetico-teologico) di «demitizzare», un termine che avrà grande fortuna (Entmythologisierung). D obbiamo, cioè, interpretare gli enunciati biblici spogliandoli del loro involucro imperfetto e confuso, «mitico», introducendo una nuova comprensione, quella «esistenziale», che tra poco preciseremo. Attraverso questa operazione si fa emergere il vero nucleo del messaggio cristiano, l’autentica struttura della predicazione cristiana, il kerygma (in greco «annunzio»), l’annunzio pasquale di fede, «una proclamazione che non si rivolge alla ragione speculativa ma all’uditore interpellato nel suo esistere. È così che Paolo si raccoman-
da ad ogni coscienza umana davanti a Dio (2 Cor 4,2). La demitizzazione vuole mettere in evidenza questa funzione della predicazione come messaggio personale». Il centro di questo annunzio è la croce di Cristo che è «scandalo» per la «mitologia» giudaica e «stoltezza» per la razionalità e l’«oggettività» greca. La risurrezione, allora, non è un potente miracolo che sconvolge le leggi codificate della natura ma l’espressione del significato della croce, evento trascendente e salvifico, causa del ri-orientamento di tutta l’umanità operato da Cristo. Credere nella risurrezione non è accogliere per fede un miracolo eccezionale ma ammettere che la croce di Cristo è un evento salvifico per me e per l’umanità. È in questa luce che si comprende il detto bultmanniano «das... Jesus ins Kerygma auferstanden sei», «Gesù è risorto nel kerygma». È facile intuire i limiti entro i quali il teologo tedesco comprime il concetto stesso di mito, contrapponendolo sia alla conoscenza intellettiva sia al percorso esistenziale personale, con evidenti ricorsi alla filosofia di Martin Heidegger. Inoltre, l’accentuazione del valore salvifico del solo annunzio (kerygma) colloca il credente in una posizione equivoca rispetto alla realtà salvifica dell’evento cristiano che pure è il contenuto dello stesso annunzio. In forma semplificata potremmo dire che Bultmann gettando via l’acqua sporca del mito – considerato giustamente come uno strumento religioso espressivo fondamentale (e questo è vero non solo per l’antichità ma in ogni fenomeno religioso che deve ricorrere a simboli umani per esprimere il divino) – ha perso anche il bambino contenuto in quell’acqua, ossia l’evento salvifico nel suo autoporsi storico e oggettivo. È, invece, conservando questa distinzione che si può parlare di autentica «demitizzazione»: la singolarità storica dell’evento cristiano, pur espressa necessariamente nelle forme simbolico-mitiche, è estranea alla struttura intima della mitologia che è ripetizione immanentistica e cultuale. Come ha scritto un esegeta, Giuseppe Betori, «ciò che viene salvato del mito è la sua valenza simbolica, che però nel cristianesimo viene posta al servizio della storia, per farne emergere il significato ultimo. Ma tale significato non viene costituito dal mito, bensì dalla storia stessa».
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Arpista che suona, in una terracotta lavorata a rilievo risalente al ii millennio a.C. e conservata a Parigi nel Musée du Louvre. L’arpa in Mesopotamia è uno strumento ben noto fin dalla prima metà del iii millennio e la musica svolgeva un importante ruolo in varie occasioni celebrative, in cui i miti potevano essere evocati o recitati. Particolare di una delle miniature che illustrano l’inizio della Bibbia in un manoscritto della fine del xiv-inizio del xv secolo, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana a Roma. Il Creatore alita il soffio della vita nella bocca dell’uomo che ha appena modellato.
Mosaico di mattoni rivestiti in pasta vitrea, che ornava la porta di Ishtar a Babilonia. Vi compare Marduk in forma animale, con le sue caratteristiche emblematiche, quelle di drago-serpente con le corna. Dell’inizio del vi secolo a.C., il mosaico è conservato al Museo Nazionale di Baghdad.
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Base di vaso in calcare, scolpito in bassorilievo, che raffigura un eroe, di cui si è ipotizzato potesse essere Gilgamesh in veste di domatore di animali. Da Tell Agrab (regione del fiume Diyala) la placchetta è databile al 3000 a.C. circa ed è conservata al Museo Nazionale di Baghdad.
Dall’alto: impronta di sigillo babilonese del xv-xiv secolo a.C., con una lunga preghiera al dio Marduk, conservata a Londra nel British Museum. Dallo stesso codice del xiv-xv secolo citato alla pagina precedente, una miniatura in cui Dio è raffigurato nel momento in cui la sua parola pone in essere la luce. Le imbarcazioni compaiono in miti e riti di una grande quantità di popoli. Il disegno propone un’immagine schematica della barca solare egizia, raffigurata in molte pitture, bassorilievi e sculture, per narrare la traversata del cielo del dio solare Ra durante il giorno. In Egitto, comunque, da tempi antichissimi barche e navi facevano parte dei doni funerari, a significare il viaggio nell’aldilà.
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Dalla necropoli paleocristiana di Bagawat, nell’oasi di Kharga, in Egitto, un particolare dai dipinti della Cappella dell’Esodo: l’Arca di Noè, scena dove domina la grande colomba con il ramoscello d’ulivo.
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Da un mosaico del 578 d.C. che si trova sulla volta della navata nella Chiesa dei SS. Apostoli (Madaba, Giordania). Tutta la decorazione ruota attorno al medaglione del mare, raffigurato come una donna che esce serena dalle acque, brandendo un remo come uno stendardo, tra pesci guizzanti. Illustra la natura pacificata nell’alleanza con Dio.
A sinistra: icona pasquale con l’immagine del Sabato Santo caro all’iconografia ortodossa. Cristo scende agli Inferi e attira energicamente a sé i giusti morti prima della sua venuta (xviii secolo, Venerabile arciconfraternita della Purificazione, Livorno).
Coppa del vi secolo a.C. di origine spartana. Atlante, punito per aver partecipato alla lotta dei Giganti contro gli dèi, sostiene il peso del cielo, mentre un’aquila divora il fegato di Prometeo, come condanna per aver favorito i mortali nei confronti di Zeus.
A destra: miniatura da un evangeliario siriaco del 1.219-1.220, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. In una stessa scena: le donne recanti aromi al sepolcro vuoto, indicato dall’angelo, e Cristo già risorto che appare alla Maddalena.
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GIOCHI DI PAROLE E MITI NELL’ANTICO EGITTO di Michel Malaise
Il Nilo, culla dell’antica civiltà egiziana, nel tratto che collega le città di Edfu e Assuan.
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Nella mentalità dell’Egitto antico, esiste «una corrispondenza intima tra le parole, articolazioni del linguaggio, e la forza vitale delle cose da esse designate»1. La parola non si differenzia dalla cosa, il segno non è indipendente dal concetto. Il termine md.t, d’altronde, non traduce ad un tempo «parola» e «cosa»?2 Di conseguenza, la parola resta quella che era nella cosmogonia legata alla città di Menfi: suscita la materia e conferisce potere su di essa. Così, la semplice recitazione della formula per le offerte funerarie è sufficiente a ottenere al defunto le cose evocate. L’espressione corrente che designa tale formula è «l’uscita (delle offerte) tramite la voce». Analogamente, i morti si augurano che venga pronunciato il loro nome, perché esso funge da mediatore, semplice ed economico, per la sopravvivenza. Nel Nuovo Impero, l’immortalità dovuta alla fama degli scritti sembra perfino più affidabile di una sepoltura. E ancora: conoscere il nome di una persona è come averla tra le mani e permette di stregarla. Dato che il nome è il segreto della potenza di un essere, in una leggenda vediamo la dea Iside ricorrere all’astuzia per impadronirsi del nome segreto del dio Ra e, in questo modo, del potere stesso del dio-sole. In un tale universo di pensiero, le somiglianze fonetiche appaiono come il riflesso di una parentela di natura tra le realtà
evocate. Così «il gioco di parole sarà identificazione, l’omonimia similitudine»3. L’efficacia dell’omonimia è tale che il trattato ermetico della Koré Kosmou condanna la traduzione dei testi sacri egiziani in greco, perché la traduzione approderebbe ad un buio totale4. Il gioco di parole verrà allora utilizzato per fornire una causa a moltissime cose5. Vengono così giustificati la comparsa di funzioni sacerdotali, riti, oggetti, toponimi sacri e non, feste, dèi e creature umane, animali e vegetali. Un bel campionario di queste pseudo-etimologie ci viene dal mito del dio-falco Horus, raccontato nella città di Edfu, dove una serie di espressioni usate dalle divinità sono calembours che pretendono di spiegare i dati della geografia sacra6. I calembours mettono anche a profitto, o neutralizzano, le virtù magiche racchiuse in una parola, in particolare per far beneficiare un defunto delle qualità di un dio o di una qualsiasi realtà, assimilandolo a quel dio o a quella realtà. Ciò si può non di rado notare nei Testi delle Piramidi7 e pure, anche se meno frequentemente, nei Testi dei Sarcofagi8. Il gioco di parole poi compare anche negli atti rituali e di culto per conferire loro un nuovo significato, per reinterpretarli a partire da riferimenti mitici, come a più riprese si verifica nel cosiddetto “papiro drammatico Ramesseum”9.
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Molti calembours con intento sacro sono virtuosismi sacerdotali senza un grande impatto sulle concezioni religiose, altri invece cercano di delineare la personalità di un dio a partire dal suo nome, di spiegare incontri sincretistici o di rendere conto di come una certa creatura sia venuta a esistere. Questo tipo di giochi di parole è stato in grado d’influenzare o rappresentare dei concetti religiosi e di favorire la formazione di episodi mitici, ciò di cui ci occuperemo. I giochi di parole al servizio dell’etimologia dei nomi divini I nomi che gli Egiziani hanno attribuito alle loro divinità ne tratteggiano gli aspetti essenziali. Molti infatti hanno un senso chiarissimo e sono rimasti trasparenti durante tutta la storia egiziana. Una prima serie di nomi ritrae la natura del dio o della dea. Amon è «il nascosto»10, così chiamato perché all’origine era certamente dio del vento; Atum, «il completo»11; Sched, «il salvatore»; Harpokrates, «Horus bambino»; Hatmehit, «colei che guida i pesci»; Hator, «la dimora di Horus» e Horus, «il lontano». Kentamentiu è «la guida degli occidentali», cioè dei morti; Khonsu, «il viaggiatore»12; Mafdet, «colei che corre»: è la dea-ghepardo; Mahes, «il (leone) feroce»; Mereseger, «colei che ama il silenzio»: è la dea della necropoli tebana; Mut, «la madre»13; Nemti, di nuovo «il viaggiatore» e Neftis, «la padrona di casa». Onuris è «colui che riporta la lontana», cioè l’occhio di Ra, che in egiziano è femminile; Upuaut, «l’apristrade»: è il dio-sciacallo che si aggira all’inizio delle piste nel deserto; Renenutet, «il serpente nutrice»; Sekhmet, «la potente»; Selkis, «colei che fa respirare»; Shu, «colui che si leva»; Tatenen, «la terra emersa» e Tueris, «la grande». Altri nomi evocano invece i luoghi ai quali sono collegate certe divinità. Anedjti è «colui che è di Anedjt», cioè il nono nome dell’Alto Egitto; Harsafès è «colui che sta sul suo stagno»; Khefethernebes, «colei che sta di fronte al suo signore»: è la divinizzazione della necropoli tebana che, da sinistra, guarda verso Karnak, di cui Amon è signore. Nekhbet è «quella di Nekheb», l’attuale El Kab; Ouadjet, «colei che appartiene al papiro» e Satis, «quella di Setet», l’attuale Sehel. Infine, alcuni nomi sono nati dalla personificazione di entità astratte, come
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Maât, «Ordine-Verità-Giustizia»; Hu, «il verbo creatore del dio»; Sia, «l’intendimento divino» e Heka, «la potenza magica». Tuttavia, certi nomi dall’etimologia trasparente sono stati col tempo reinterpretati per spiegare altre particolarità degli dèi. In questi casi però si tratta di giochi di parole puri e semplici, che non implicano la creazione di episodi mitici. Così, il nome del dio tebano Amon, giocando sull’assonanza del verbo mn, cioè «risiedere», diventa «colui che risiede in ogni cosa». Un’altra etimologia ci è conservata da Plutarco, il quale riporta che, secondo Ecateo di Abdera, Amon «è una parola che serve a chiamare». Tale interpretazione si fonda sul fatto che il nome di Amon e l’imperativo «vieni a (me)», utilizzato per interpellare gli dèi, hanno un suono molto simile. Il nome della dea-ureo (serpente) Menhit, che all’origine poteva significare «la sterminatrice» o «quella dei boschi di papiro», sarà poi reinterpretato in funzione del carattere solare della dea e inteso come «colei che nella luce risiede e sfavilla» sulla testa di Ra. Un’altra dea, Methier, portava un nome che designava «la grande onda» – vale a dire l’acqua primordiale – e in epoca romana è stato inteso come «la grande nuotatrice», in riferimento all’episodio in cui la dea, sotto forma di vacca, nuota per portare suo figlio Ra verso la terraferma. In modo analogo, il nome di Khonsu pare essere stato reinterpretato, in epoca tardiva, come «figlio del re (Amon)» e Onuris, identificato con Shu, che sostiene il firmamento, vedrà rispiegato il suo nome come «colui che porta il cielo», grazie alla similarità fonetica delle parole «lontano» e «cielo». Infine, un’altra categoria di nomi divini ha dato luogo a giochi di parole esplicativi, ma questa volta essi vengono introdotti in episodi mitici che sembrano essere stati creati per permettere tali calembours. Così, nella città di Esna l’origine del nome del serpente Apopi è fornito da un gioco di somiglianza fonetica tra la parola Apopi e il verbo «sputare», calembour che viene messo in relazione con la nascita del dio. I fatti sono riportati in questo modo: si narra che gli dèi precedenti tolsero dalla bocca di Neith uno sputo che aveva emesso nell’acqua iniziale; lo sputo si trasformò in un serpente di 120 cubiti, che fu chiamato Apopi14. L’etimologia del nome di Thot, conservata a Esna, è fondata su un analogo procedimento
L’isola di File vista dal Nilo con il tempio di Iside, dea dall’immenso prestigio e popolarità destinati a varcare i confini dell’Egitto. L’isola, dedicata al culto di Iside, conobbe il suo apogeo nel i secolo d.C.
che gioca sui suoni simili delle parole Thot e «amarezza»: Thot uscì dal cuore di Ra in un momento di amarezza, il che gli valse il nome di Thot15. Il caso di Anubi è ancora più sorprendente, perché il papiro Jumilhac ci riporta cinque etimologie, di cui quattro sono fornite da racconti concepiti a questo scopo16. Una fa derivare il nome di Anubis dalle parole «sono io», di suono simile, pronunciate da Ra nella frase «Sono io ad aver creato il nome di Anubis». Mentre un’altra spiega che Iside, ritrovando il figlio Anubis in una palude, avrebbe gridato: «È lui?», frase anch’essa omofona. In una terza versione, il nome sarebbe stato dato da Seth che, attaccato da Iside, in forma di Anubis, cioè in forma di cane, avrebbe domandato: «Perché vieni contro questo cane innocente?». Insomma, tutte queste etimologie, palesemente fantasiose, si basano sull’omofonia nei confronti del nome di Anubis. I giochi di parole al servizio del sincretismo Talvolta, fenomeni di sincretismo hanno trovato una giustificazione a posteriori grazie a un calembour. Per esempio, l’identificazione di Ra con «il grande gatto» di Eliopoli è presentata nei Testi dei Sarcofagi e nel Libro dei Morti17 come il risultato di una omofonia tra
la parola gatto e una domanda posta dal dio Sia riguardante Ra. Ecco il passaggio del Testo dei Sarcofagi: «Chi è questo grande gatto? È Ra stesso. Fu chiamato gatto quando Sia disse di lui: “C’è uno simile (parola che ha lo stesso suono di gatto) a ciò che ha creato?”». Cioè: il creatore è identico alla sua creazione? Così nacque il suo appellativo di gatto. Ancora una volta, capita anche che il gioco di parole sia introdotto in un aneddoto mitico creato appositamente. Così, nel Libro dei Morti, l’assimilazione tra Osiride e Harsafès, si spiega sulla base di una somiglianza fonetica tra la parola «aspetto, volto» e il nome proprio Harsafès. Infatti, Ra dopo aver alleviato l’ascesso di Osiride, dio dei morti, provocato dal calore della corona atef, si rivolge a lui in questi termini: «Cura il tuo aspetto, tieni alto il capo! Grande è il timore di te, grande è il tuo prestigio! Ecco il bel nome che per te esce dalla mia bocca!», e il testo conclude: «Da qui il nome di Harsafès, la cui sede preminente è Eracleopoli»18. Dunque, nel campo dell’onomastica divina i giochi di parole permettono di stabilire un legame tra il nome del dio e la sua natura. Ma certi calembours sono perfino introdotti in episodi mitici che paiono essere stati creati per servire da quadro a determinati fenomeni, si tratti di spiegare l’apparizione di una divinità,
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come nei casi di Apopi o Thot, o l’etimologia di una denominazione, come per Anubi, o ancora di giustificare l’esistenza di un sincretismo come tra Osiride e Harsafès. I racconti di creazione fondati su giochi di parole L’esempio più stupefacente e più spesso attestato nei testi egiziani concerne la nascita di Shu e di Tefnut, rispettivamente dio dell’atmosfera luminosa e dea dell’umidità. Essi formano, secondo il sistema di Eliopoli, la prima coppia creata dal d emiurgo Atum-Ra. La genesi di queste prime creature è concepita come un’emanazione fisica del dio primordiale, il quale non ha alcun bisogno di una controparte femminile per mettere al mondo la coppia divina. Il mito di Eliopoli immagina questa nascita come risultato di una masturbazione. Ma, in una interpretazione secondaria, Shu e Tefnut nacquero dallo sputo del demiurgo. Questa seconda tradizione, che risale ai Testi delle Piramidi, poi ripresi dai Testi dei Sarcofagi e infine da numerosi altri documenti fino all’epoca tolemaica, si basa su un gioco di parole tra una delle espressioni che significa «sputare» e Shu, oltre che tra «espettorare» e Tefnut. Dunque, un calembour induce i teologi a concepire che la creazione poteva risultare da uno sputo. Ammessa tale concezione, la si applicherà ad altre genesi anche senza calembour. Così, nei Testi delle Piramidi la terra è presentata come «lo sputo di Khepri», mentre nel papiro Salt 825 il bitume e la stessa pianta di papiro risultano dallo sputo di Ra, così come a Esna gli dèi nascono dalla saliva di Ra. Un altro procedimento cosmogonico fa nascere gli uomini dalle lacrime di Ra, a causa dell’omofonia tra le parole «uomini» e «piangere» o «lacrime»19. Nel Libro delle Porte20 si ritrova nelle parole di Horus lo stesso modo di spiegare la nascita degliEgiziani, seguito da un altro calembour che illustra l’origine degli Asiatici. Ancora un gioco di parole viene stabilito tra «piangere» e «pesce», che portò gli Egiziani a pensare che questi animali provenissero da lacrime di stelle21. Tale modo di creazione in seguito verrà applicato anche al di fuori di ogni omofonia: si dirà allora che gli uomini sono nati dall’occhio di Ra e non semplicemente dalle sue lacrime. E si riterrà che anche altre cose siano state prodotte in modo analogo. La genera-
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zione inoltre può essere immaginata come un sanguinamento. Così, nel Libro dei Morti22 gli dèi che stanno davanti a Ra, vale a dire Hu e Sia, accompagnatori del sole nella sua barca, avrebbero avuto origine dal sangue colato dal fallo di Ra durante l’autocirconcisione. Questo tipo di nascita trova le sue basi nel gioco di parole occasionato dallo stesso suono delle espressioni «colui che è nel fallo» e «colui che è davanti, che precede». Alle varie emanazioni, siano esse sputo, saliva, lacrime, sangue o seme, si aggiunge la creazione con il Verbo23. Si sa che le cosmogonie delle città di Menfi ed Esna presentano la nascita dell’Universo come risultato del Verbo, ma vi sono anche genesi che più precisamente si fondano su calembours effettuati a partire da parole pronunciate dagli dèi. Così, la nascita dell’antilope bianca è vista come il risultato di una frase pronunciata da Horus in un aneddoto mitico. Per mettere alla prova l’occhio di Horus, che era stato ferito dal dio distruttore Seth, Ra chiede a Horus di fissare lo sguardo su di una riga nera, ma quest’ultimo afferma di non vedere altro che bianco. Da questa risposta, aggiunge il testo, nasce l’antilope bianca, il cui nome si assimila foneticamente alla risposta di Horus «Ecco, io vedo tutto bianco»24. Un altro esempio: nel Libro della vacca celeste, quando Ra decide di fare di Thot il proprio vizir e sostituto notturno, pronuncia una serie di parole omofone che vanno a creare gli animali sacri di Thot, l’ibis e il babbuino, ma anche la luna, di cui Thot è dio. Si vede perciò che i giochi di parole in Egitto permettono d’immaginare i modi dell’atto creatore, che potranno poi essere applicati a racconti di genesi dove i calembours non intervengono più. Ecco perché nella scienza sacerdotale egiziana i giochi di parole rivestono un ruolo d’eccellenza. Le virtù dell’omofonia sono tali che tale principio viene eretto a criterio epistemologico e che l’etimologia delle parole è usata per spiegare determinati fatti. Così, il gioco di parole diventa chiave interpretativa dei nomi propri divini, specchio della natura degli dèi, ma anche spiegazione di varie genesi e di singoli episodi mitici, che fanno da cornice a questi calembours. I giochi di parole, insomma, possono a buon diritto essere definiti come uno degli elementi del linguaggio mitico dell’antico Egitto.
A Karnak, nell’Alto Egitto, una fila di arieti nello spazio antistante l’ingresso principale del santuario di Amon, di epoca tardiva, ma di antica fondazione. L’ariete, simbolo di forza e fecondità, è un animale sacro ad Amon. Nel disegno è riprodotta una scultura in basalto che rappresenta la dea-ippopotamo Tueris mentre tiene in mano un oggetto simbolico a forma di nodo che significa “protezione”. La statua è conservata nel Museo del Cairo e appartiene alla xxvi Dinastia (636-525 a.C.).
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Il dio Anubi, divinità delle necropoli, si appresta ad accompagnare il defunto nell’aldilà: la sua scura testa di canide (o di sciacallo) è china sul morto per fargli iniziare il suo viaggio. Il dipinto proviene dalla tomba di un funzionario della xix Dinastia (1308-1085 a.C. circa) sepolto nel villaggio di operai, scribi e artisti di Deir el Medina, nell’Alto Egitto, sulla riva sinistra del Nilo. Grande gatto che, ai piedi di un albero sacro, uccide il serpente Apopi, minaccia costante alla barca del dio solare. Pittura su stucco del xii secolo a.C., da una tomba di Deir el Medina.
Horus ritratto in forma di falco nel grande tempio a lui dedicato a Edfu (237-257 a.C.), città dell’Alto Egitto, sulla riva sinistra del Nilo. Liste di nomi, dediche, iscrizioni liturgiche e i racconti mitici riguardanti Horus fanno di Edfu un compendio dell’intera civiltà egiziana. Disegno dal Libro dei Morti (xxi Dinastia, 1080-946 a.C. circa). Il corpo di Nut, dea del cielo, è sostenuto da Shu (Papiro Greenfield, conservato a Londra nel British Museum).
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In un acquerello di David Roberts, della prima metà del 1800: l’interno del Tempio Grande di Abu Simbel, del 1300 a.C. circa, situato nella bassa Nubia. Figure di divinità in compagnia del faraone sono scolpite nella viva roccia. Si vedono nell’ordine, da sinistra: Pta, dio primordiale, Amon, il faraone Ramesse ii e RaHorakhty, che significa Ra-“Horus dell’orizzonte”, cioè Ra fuso con Horus, come si vede dal fatto che il dio è qui scolpito con la testa di falco. Si può notare l’enorme corona atef, espressione di un aspetto solare della personalità divina, che troneggia imponente sul capo di Amon.
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Giochi di parole e miti nell’antico Egitto
In alto, da sinistra: uno stelo di papiro: data la sua importanza nella storia dell’Egitto antico, non stupisce di veder comparire il nome di questa pianta, dai molteplici usi, nei racconti mitici riferiti al mondo in gestazione dei primordi. La pesca in Egitto non era solo un’attività umana profittevole. Infatti si colorava di sacralità dato che la maggior parte dei pesci aveva un’attinenza col divino e alcuni tra loro erano stati addirittura divinizzati. Si operava così un trasferimento dal piano della quotidianità a quello del mito e del rito. Qui a sinistra si vede il dettaglio di una scena di pesca da una sepoltura tebana del xv secolo a.C. Vari pesci vi sono raffigurati, beneauguranti per il benessere del defunto nell’oltretomba. In alto: Thot, dio della saggezza, delle leggi e degli scritti sacri, ritratto in forma di ibis, davanti alla dea Maât, personificazione di ordine e giustizia, in una scultura in bronzo e legno dorato del iv secolo d.C., conservata al Kestner Museum di Hannover in Germania. Il sacro babbuino, dipinto nella tomba di Tutankhamon (Tebe, 1340 a.C. circa). Qui Thot prende la forma di un vecchio babbuino pensoso, che bene esprime la considerazione in cui gli Egiziani tenevano l’astuzia e l’intelligenza di queste scimmie, che arrivarono a simboleggiare la saggezza.
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Una sacerdotessa, nipote del Gran Sacerdote di Amon, vista nell’atto di presentare delle offerte. Dettaglio della pittura di un papiro del 1000 a.C. circa, proveniente da Deir el Bahri, sito posto sulla riva sinistra del Nilo, vicino a Karnak.
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OMERO: DAL MITO ALLA MITOLOGIA di Paul Wathelet
Scorcio delle rovine del tempio di Era (vi secolo a.C.) ad Olimpia, in Grecia. Famosa per le gare atletiche, sita in una verdeggiante valle tra due fiumi, Olimpia può considerarsi uno dei luoghi che hanno saputo esprimere connotati essenziali della spiritualità ellenica.
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L’Iliade e l’Odissea sono state talvolta considerate come la «Bibbia» dei Greci. Il paragone è ad un tempo vero e falso: l’opera attribuita a Omero non si presenta né come rivelazione, né come testo dogmatico. Tuttavia si avvicina alla Bibbia per la ricchezza del suo terreno culturale e per l’influenza esercitata sul mondo greco successivo. Senza voler misconoscere l’importanza dei dati forniti dal rituale o dagli autori post-omerici, si deve riconoscere che l’Iliade e l’Odissea costituiscono una fonte essenziale per la conoscenza dei miti greci, nel periodo che va dall’epoca micenea, se non prima, all’viii secolo a.C.1 Ora, la presentazione che Omero offre dei racconti mitici è sistematicamente orientata in un senso determinato. Tale orientamento tende a ridurre e talvolta ad evacuare i fattori che potrebbero esprimere la trascendenza del divino o il suo mistero. In generale, si tratta di un orientamento che relativizza il mito. Questa tendenza si rivela sia quando si mette a confronto il testo omerico con opere successive, sia quando si procede a un esame approfondito di certi passaggi basandosi in particolare su di una disciplina troppo poco coltivata dagli ellenisti: l’antroponimia, lo studio dei nomi di persona. Daremo qui solo qualche esempio di questo indirizzo caratteristico di Omero, sottolineando però che
potrebbero essere menzionati molti altri casi più o meno espliciti. Tracce del mito in Omero Zeus è uno dei rari dèi greci il cui nome ha un’etimologia indoeuropea2, che ne fa il dio del cielo diurno. Questo significato primo è ancora percepibile nella tradizione epica3 e nei documenti posteriori4. Era, chiamata potente in una formula che denuncia la sua antichità, è una delle molteplici manifestazioni della Terra-Madre di cui possiede la forza. Era incarna in modo particolare l’istituzione del matrimonio: così viene onorata nei santuari di Argo e Samo5. La teogamia di Zeus ed Era, unione del Cielo e della Terra, costituisce perciò un evento capitale nella storia del mondo. Nel canto xiv dell’Iliade Omero mostra l’unione di Era e Zeus: l’aedo situa la scena in un quadro idilliaco. Così si rivolge ad Era Zeus, l’adunatore di nembi, prima di unirsi a lei, all’aperto, sulle cime di un monte: «Era, non aver paura! Nessuno ci vedrà, né degli dèi né degli uomini. Ci penso io, sta’ pur certa, a mettere intorno una spessa nube d’oro. E non ci potrà adocchiare, attraverso quella, neanche il Sole6, che ha una luce acuta e penetrante per vedere».
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Disse: e prendeva, il figlio di Crono, tra le braccia la sua sposa. E sotto di loro la terra divina faceva spuntare tenera erba, trifoglio fresco di rugiada, croco, e giacinto folto e morbido che li teneva su dal suolo. Tra quei fiori si giacevano, avvolti dalla nube bellissima, d’oro: ne crollavano giù brillando gocce di pioggia. (vv. 342-351, tr. Giuseppe Tonna)
Si tratta di una suggestiva evocazione naturale dove l’unione del Cielo e della Terra è illustrata dalla subitanea fertilità del suolo e dall’apparizione di una nube venuta dall’alto7. La bellezza del quadro non deve far perdere di vista il ruolo che Omero assegna a questa pagina nel contesto dell’Iliade. Non è un evento d’importanza cosmica, ma il risultato di un’astuzia di Era. Quest’ultima si era prima accordata con il Sonno perché Zeus dopo l’amore si addormentasse profondamente, si era agghindata con cura per sedurre il marito e con civetteria aveva poi finto di dover subito partire per provocarlo definitivamente. Di fatto, Era non ha altro scopo se non quello di addormentare Zeus e di approfittare del sonno di lui per favorire i suoi protetti Achei. Tale intenzione è esplicita fin dall’inizio dell’episodio, quando Era, incerta, si arrovella e il testo dice «... non sapeva come ingannare la mente di Zeus...» (v. 160). Era tiene talmente al suo progetto che, nonostante la sua suscettibilità, ben attestata in altri passaggi dell’Iliade, ascolta impassibile Zeus che le enuncia la lista delle sue conquiste femminili8. Il desiderio del dio, dopo i loro primi amori, non era più stato così intenso. L’unione di Zeus ed Era non produrrà nulla; si è lontani da un mito cosmico. Il tema è certo soggiacente, ma trattato con prospettiva corta. Nella medesima scena del resto vengono evocati altri temi mitici profondi, ma sempre con lo stesso angolo di visuale ristretto. La relazione tra Era, dea che protegge il matrimonio, e Afrodite, dea dell’Amore, non poteva non sollevare un problema. Gli attributi delle due divinità si sovrappongono. La prova di questo contatto si può riscontrare nell’esistenza, a Sparta, di una Afrodite-Era, menzionata dallo scrittore Pausania (iii, 13, 9). Nel canto xiv dell’Iliade Era ha bisogno per poi attrarre Zeus dell’aiuto di Afrodite. Benché
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Omero: dal mito alla mitologia
quest’ultima stia dalla parte dei Troiani, Era va a parlarle e con l’inganno ottiene il suo appoggio. L’astuzia della dea greca vince sulla forza persuasiva e carica di fascino orientale di Afrodite. Il pretesto invocato da Era per imbrogliare Afrodite non è comunque irrilevante. Era annuncia, come dirà in seguito a Zeus, che sta per recarsi ai confini della terra nel tentativo di riconciliare Oceano9, padre degli dèi e Teti, loro madre, che erano in lite. Pare naturale che la dea del matrimonio intenda favorire una riconciliazione. Si trova qui un accenno ad un’unione primordiale da cui quella di Era e Zeus riceve luce. La disputa di Oceano e Teti riflette, come in uno specchio, la situazione di Zeus e sua moglie. Ma, per il fatto che la coppia primordiale viene qui evocata nel contesto della menzogna di Era, essa perde molto del suo peso. Divino e umano Un tono altrettanto poco riverente si ritrova nell’Odissea (viii, 266-366), quando l’aedo Demodoco racconta gli amori del dio Ares e di Afrodite, o piuttosto la trappola in cui il marito di lei, Efesto, fa cadere i due amanti imprigionandoli nel letto e mostrando lo spettacolo a tutte le divinità. Gli dèi non cessano d’intervenire nel corso della guerra: prendono l’apparenza di un mortale, oppure si rivelano solo agli eroi cui si rivolgono. All’inizio dell’Iliade, mentre Achille e Agamennone si stanno aspramente scontrando: ... arrivò Atena dal cielo... Si fermò dietro di lui e lo prese, il Pelide, per la bionda chioma: a lui solo appariva, nessuno degli altri la scorgeva. Fu scosso, Achille, da stupore e si voltò indietro: subito riconobbe Pallade Atena. Terribili i suoi occhi balenarono... (i, vv. 194-200, tr. Giuseppe Tonna)
Ma, benché provochino soprassalti, sorpresa, timore o ammirazione nei loro interlocutori qui gli dèi non conoscono quelle maestose teofanie, ricolme del sentimento della divina trascendenza, che si trovano in particolare nell’Inno detto omerico dedicato a Demetra o in quello indirizzato ad Afrodite. Nel primo, ecco l’epifania di Demetra che,
abbandonate le sembianze di una vecchia nutrice, si manifesta a Metanira, madre di Demofonte, per il quale la dea desiderava l’immortalità: Così dicendo la dea mutò la statura e l’aspetto respingendo da sé la vecchiaia; la bellezza intorno a lei raggiava, un dolce aroma dal suo peplo odoroso si effondeva, e per largo tratto una luce dalle membra immortali della dea rifulgeva; le bionde chiome le coprivano gli omeri, e la solida casa si riempì di splendore, come per un lampo. Ella uscì, attraversando la sala; e a Metanira subito si sciolsero le ginocchia: per lungo tempo restò senza voce, e nemmeno si ricordava del figlio prediletto, di raccoglierlo dal pavimento. (vv. 275-283, tr. Filippo Cassola)
L’epifania di Afrodite che, nell’Inno a lei dedicato, rivela la sua divinità ad Anchise presenta analoghe caratteristiche di grandiosità10. Nulla del genere nell’Iliade o nell’Odissea, dove gli dèi sono molto più umanizzati. L’Inno narra l’amore tra Anchise e Afrodite, da cui nascerà Enea. La tradizione post-omerica ci spiega che la dea pretese dal suo amante il silenzio sulla loro avventura. Come sempre accade in casi del genere, Anchise parlò e fu punito per la sua indiscrezione: talvolta si dice con l’accecamento, talvolta lo si descrive ucciso da un fulmine, più spesso colpito da paralisi alla schiena o alle gambe. Il personaggio di Anchise è carico di forza divina: Virgilio, in particolare, lo vede in questa luce11. Dal canto suo Omero non può ignorarlo, dato che Anchise gli è imposto da una tradizione senza dubbio molto antica, come testimonia la formula probabilmente achea con cui Enea viene chiamato figlio di Anchise. Tuttavia Omero si astiene dal mettere in scena un personaggio così segnato dal sigillo del divino. Anchise non figura tra gli anziani del popolo di Troia che hanno un posto nella torre al di sopra della porta Scea e il testo dell’Iliade non chiarisce neppure se l’epoca della guerra lo vede ancora vivo. Per il resto, Anchise è citato in modo indiretto come padre di Enea, d’Ippodamia e anche come suocero di Alcatoo, il che attesta un tardivo intento d’inserirlo nel quadro di varie casate principesche.
Nomi rivelatori Nell’Iliade Ecuba è la venerabile moglie di Priamo, madre di molti figli. La vecchia regina appare in qualche passaggio, per esempio quando alla testa delle Troiane offre un prezioso peplo ad Atena, che del resto lo rifiuta (vi, 286-311) o quando più tardi, indicata nel testo solo come «la madre», invano supplicherà il figlio Ettore di non opporsi ad Achille (xxii, 79-89). Il suo nome non è gran che citato: compare solo sette volte in tutta l’Iliade. Fin qui nulla di straordinario, ma resta da spiegare il fatto che Euripide, nella tragedia a lei dedicata, abbia fatto pronunciare al re dei Traci Polimestore, accecato dalla vecchia regina per vendicare il figlio Polidoro ucciso dal sovrano, una singolare predizione in cui si dice che Ecuba sarebbe morta sotto forma di una cagna dagli occhi di fuoco. Euripide stesso sembra non del tutto a suo agio nei confronti di questa curiosa metamorfosi che senz’altro gli era stata consegnata dalla tradizione. In effetti, risulta difficile immaginare che sia stato lui a inventarla, visto che è del tutto inutile allo svolgimento della sua opera. Ma l’etimologia del nome dell’eroina permette di comprendere la trasformazione e segnala che quest’ultima potrebbe risalire a una tradizione molto antica. Il nome Hekabe, infatti, da lungo tempo era stato avvicinato a un epiteto di Artemide, come versione abbreviata di hekebolos o hekabolos, che significa «chi colpisce di sua volontà». Il nome di Ecate, la forma infernale di Artemide, è vicino all’epiteto Hekabe, in quanto abbreviazione di hekatebolos, che, qualunque sia il valore reale di hekate, va avvicinato a hekebolos. Come Artemide, fin da tempi remoti, è dea della fecondità, si pensi in particolare all’Artemide di Efeso12, così Ecuba con la sua numerosa prole dona la vita in abbondanza, che le viene però ripresa, colpita com’è da molti lutti. E, infine, occorre ricordare che il cane è un animale infernale13 e perciò legato a Ecate? Si comprende così la metamorfosi di Ecuba, menzionata da Euripide e da altri autori. Di tutto ciò non una parola in Omero. Ecco l’ultimo esempio, a un diverso livello. Nel canto xi dell’Iliade (vv. 426-457), Ulisse atterra una serie di Troiani e in partico lare si scontra con due guerrieri: Carope, figlio
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di Ippaso, e suo fratello Soco, detto il ricco. Ulisse ferisce il primo e Soco, per vendicarlo, colpisce a sua volta Ulisse. Ma Atena vigila affinché la ferita non sia grave. Soco fugge, Ulisse lo insegue e lo trapassa con la sua lancia: Soco cade con fragore. In apparenza si tratta di un combattimento banale, come molti nell’Iliade. La scena, del resto è breve: una volta morto Soco, l’aedo se ne disinteressa. Soco, Carope e il padre Ippaso non compaiono praticamente più nella letteratura post-omerica. Solo l’esame dei nomi che portano potrà gettare qualche lume sulla loro originaria natura. Sono in effetti nomi curiosi: i Troiani, per la maggior parte, hanno nomi greci14, ma si tratta per lo più di antroponimi ben attestati ulteriormente. Non è il caso dei nostri due eroi. Soco è conosciuto in greco come aggettivo, il cui senso ed etimologia restano però misteriosi. Dettaglio interessante: fin dall’epoca omerica è un epiteto di Ermes15. Ora, Soco è chiamato «ricco» dallo stesso Omero. Ed Ermes è una divinità ctonia, connessa cioè alle profondità della terra, di cui il dio detiene le ricchezze16. Venendo a Carope: significa «dall’occhio chiaro» ed è composto da occhio (ops) e dalla radice di «rallegrarsi» (chairo). In particolare, è un soprannome di Eracle, usato in Beozia, da dove l’eroe sarebbe partito per poi riportare Cerbero dagli Inferi. Carope, infine, è stato accostato a torto o a ragione al nome di Caronte, il nocchiero degli Inferi. E anche se tale accostamento è frutto di una etimologia popolare, è comunque interessante nel senso che sia Soco sia Carope portano nomi a forte connotazione infernale. Così è per Ippaso, il cui nome deriva da hippos, cavallo17, animale anch’esso evocatore dell’Aldilà. Tanto più che nel passaggio dell’Iliade che abbiamo citato (xi, v. 455) del dio dei morti Ade si dice «Ade, dai famosi corsieri». Soco, legato al dio Ermes, guida delle anime dei defunti, e Carope, il cui nome è associato a Cerbero o a Caronte, tutti e due figli di Ippaso, collegato al cavallo, animale ctonio, vengono uccisi proprio da Ulisse, l’eroe che è andato nell’Altro Mondo e ne è ritornato. Come Eracle, Orfeo e Teseo, Ulisse ha visitato il regno delle Ombre sotto la protezione di Atena, dea il cui emblema, la civetta, ha occhi capaci di pene trare le te-
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nebre della notte. Ora, proprio nel brano di Omero che abbiamo citato Atena interviene. Ulisse però è un guerriero di prim’ordine e, a parte il caso di nemici particolarmente temibili, non ha bisogno di aiuti divini. Nel caso di Soco e Carope, invece, per l’eroe di Itaca è stato necessario l’intervento di Atena. Così, si è autorizzati a supporre che, in un’Odissea originale, Ulisse sia sceso agli Inferi per poi tornare, protetto da Atena. E che nel suo viaggio di ritorno abbia affrontato ogni genere di personaggi mostruosi, uscendone vincitore. L’episodio di Carope e Soco potrebbe inserirsi in un tale contesto. Spogliato da riferimenti espliciti all’Altro Mondo, sciolto da ogni legame con il problema mitico che si poneva, l’episodio è ripreso nell’Iliade come un semplice scontro tra Ulisse e degli eroi troiani. In pratica tutto il mistero collegato al mito del viaggio nell’Altro Mondo è cancellato e solo l’analisi dei nomi propri e di un epiteto applicato a Soco può ancora farlo trasparire. Omero, che ha bisogno di personaggi per arricchire le fila dei Troiani, va a cercare i propri eroi in altri racconti. Il mito diventa mitologia Un tale fenomeno potrebbe essere illustrato da numerosi esempi. Privato, o quasi, di ogni riferimento al divino e al suo mistero, il racconto mitico perde via via il suo valore profondo e diventa realistico. Della ricchezza originale di un racconto dalle connotazioni concordanti, tutte quante caricate di senso persino nell’illogicità, non sussiste altro che un’impalcatura: nomi di protagonisti, l’una o l’altra delle loro gesta, talvolta un dettaglio che li caratterizza. I personaggi di miti differenti costituiscono famiglie dalle genealogie complicate: ne risulta una tessitura dall’apparenza storica. La tradizione epica, infatti, annoda in modo sempre più inestricabile episodi appartenenti a cicli diversi. Così, svuotato di una gran parte della sua sostanza, il mito diventa mitologia. Questa presenta gli eroi e le loro gesta come eventi dalla veste storica. In tal modo si vedranno il viaggio degli Argonauti, la guerra contro Tebe e la spedizione troiana come fatti della storia, così come più tardi si farà con la guerra dei Medi o le guerre del Peloponneso.
Ci si può domandare da dove venga questa tendenza a svuotare i miti del loro contenuto sacro e misterioso. E allora il terreno su cui ci si muove si fa davvero instabile. A prima vista si potrebbe pensare che il genere epico in sé conduca a trasformare il mito in storia scalfendone a poco a poco il contenuto profondo. Mentre opere come gli Inni detti omerici sono per natura orientati verso l’effusione del sentimento lirico ed eventualmente mistico. Tuttavia, non si può fare a meno di notare che in altre letterature esistono epopee narrative in cui l’aspetto mitico è molto più visibile che non nell’Iliade. È il caso, in India, del Mahabharata, dove l’illogicità di certi passaggi trova la sua spiegazione solo nel quadro del mito18. Vi è inoltre una circostanza che deve aver frenato grandi sviluppi mitici nell’Iliade: il fatto che essa racconta un episodio breve della guerra di Troia – l’ira di Achille – della durata di appena qualche giorno e situato in un quadro generale ben noto agli uditori. Di contro, è anche legittimo pensare che l’individuazione dell’argomento sia una precisa scelta del creatore dell’Iliade. Abbastanza curiosamente l’autore dei post-omerici Canti cipri (o Ciprie) sentirà il bisogno di risituare la guerra di Troia in una prospettiva cosmica. Mostra la Terra dolente davanti a Zeus per l’eccessivo peso degli uomini divenuti troppo numerosi19: la causa della guerra sarà allora il desiderio di Zeus di alleggerirla. Noi ignoriamo tutto di Omero, di ciò che poteva pensare, della mentalità diffusa in quella scuola di aedi di cui doveva far parte. In ogni caso, l’esame della sua opera, e dell’Iliade in particolare, rivela una tendenza costante a relativizzare le divinità e i miti, a prendere una certa distanza dalla religiosità tradizionale e dal suo patrimonio mitico. Forse non è inutile ricordare che Omero era uno ionico d’Asia e che da questa regione proverranno i primi filosofi greci. Certo, si vedranno delle reazioni a questa tendenza. Sul piano del mito, vi saranno poeti o autori tragici che reinterpreteranno vecchi racconti epici infondendovi un nuovo valore mitico, secondo ideali e problemi propri della società del loro tempo. Sul piano religioso, spiriti sensibili a questo aspetto, come Senofane o Platone, si scandalizzeranno dell’antropomorfismo rude di Omero.
Conclusione Da tutto ciò che precede si può concludere seguendo traiettorie diverse. Per quanto concerne l’analisi dei miti epici greci, l’epopea omerica deve tanto più essere esaminata nel profondo per il fatto che il suo autore ha mascherato dei dati mitici. Spesso un nome proprio, un dettaglio apparentemente secondario e privo d’importanza permette di percepire un tratto profondo, soprattutto se si è in grado d’inserirlo in un tessuto di connotazioni concordanti. Perciò – è banale dirlo, ma non per questo non va fatto – occorre leggere Omero con la più grande attenzione e presto si arriverà a concludere che, al di là dell’autore, nell’Iliade e nell’Odissea si possono raggiungere racconti mitici profondi e segnati dalla religiosità. Per quanto riguarda poi la composizione poetica fissata dalla tradizione in formule, dirò in breve, poiché l’argomento esigerebbe un lungo sviluppo, che troppo sovente si sono visti in alternativa il peso della tradizione che avrebbe imposto all’aedo tali schemi e la sua libertà di creare. Si è eccessivamente considerata come meccanica la composizione regolata da formule opponendola alla «improvvisazione orale» come a volte si è detto, in modo infelice. Un genio della poesia come Omero poteva padroneggiare schemi e formule e utilizzare il ricco repertorio del linguaggio tradizionale con grande libertà creativa. Infine, per ciò che concerne l’uso che si fa dell’epopea per conoscere la storia dell’epoca in cui si è formata la tradizione epica, si dovrà usare la massima cautela. La breve analisi che precede suggerisce infatti che la parvenza storica dell’epos, specie dell’Iliade e dell’Odissea, rischia d’essere non il riflesso di avvenimenti storici, ma il risultato dell’evoluzione di racconti mitici messi semplicemente uno dietro l’altro.
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Dall’alto, a sinistra, in senso orario: un suggestivo ritratto scultoreo di Era, noto come Era Ludovisi, conservato a Roma, nel Museo Nazionale Romano. Lo stupendo volto in bronzo di Afrodite, che risale al iv secolo a.C., è opera del celebre scultore Prassitele e si trova a Londra, al British Museum. Le nozze di Era e Zeus, rappresentate in una metopa proveniente dal tempio di Era a Selinunte (470-460 a.C.), oggi nel Museo Archeologico Regionale di Palermo.
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Raffigurato su di un’anfora attica del 490 a.C., conservata al Metropolitan Museum di New York, un ispirato citaredo accompagna con la sua cetra l’esecuzione di un canto epico.
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Atena, in una statuetta marmorea di epoca romana (prima metà del ii-seconda metà del iii secolo d.C.), copia in piccole dimensioni di una celebre, perduta statua di culto in oro e avorio, del 447-438 a.C., opera di Fidia, originariamente al Partenone. La statuetta, scoperta nel 1880 tra le rovine di una casa romana nelle vicinanze del Varvakion, il Ginnasio di Atene, è oggi conservata nel Museo Archeologico di quella città. Nel particolare vediamo la dea che indossa un elmo imponente con una sfinge centrale e due cavalli laterali. Al suo braccio è appoggiata una Nike, raffigurazione della vittoria, e la sua veste è ornata dalla testa di una Medusa.
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In un mosaico del iv secolo d.C. originario di Sousse, in Tunisia, oggi a Tunisi nel Museo del Bardo: il poeta Virgilio è ritratto mentre compone l’Eneide, fiancheggiato da due Muse. Nel disegno, ricavato da un vaso attico del v secolo a.C., proveniente da Gela (Caltanissetta, Sicilia) e conservato nel locale Museo Archeologico, è raffigurato Enea in fuga che si prende cura del vecchio padre Anchise.
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Dettaglio delle gradinate per gli spettatori del teatro di Delfi (Grecia), importante centro di culto sacro ad Apollo dove si dava spazio agli spettacoli che i Greci vivevano con intensa partecipazione.
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Miniatura da un codice membranaceo del vi secolo d.C. – Ilias picta ambrosiana – conservato a Milano presso la Biblioteca Ambrosiana. In questa immagine sono rappresentati gli eroi principali dell’Iliade.
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Nella fascia centrale di un vaso del 540-530 a.C. proveniente da Cerveteri (Roma) e conservato al Museo del Louvre di Parigi: un altro eroe, Eracle, scende agli Inferi e porta il cane Cerbero a Euristeo, colui che gli aveva imposto le celeberrime fatiche.
A sinistra: l’Artemide di Efeso: statua in marmo e alabastro del ii secolo d.C., che replica l’originale del vii secolo a.C. ed è conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Euripide (480-406 a.C.) in un ritratto scolpito da un artista anonimo e conservato a Londra, al British Museum.
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Il disegno riproduce le immagini dipinte su un vaso del vi secolo a.C., conservato al Museo Archeologico di Firenze. Qui Teseo, uno degli eroi che hanno visitato l’Oltretomba, è raffigurato mentre ritorna ad Atene da Creta insieme ai giovani Ateniesi che aveva salvato con le sue imprese.
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Una civetta raffigurata su di una moneta d’argento di Atene, città che si ritiene abbia preso il nome dalla dea Atena, assumendone anche l’emblema: il volatile dai grandi occhi in grado di penetrare l’oscurità. Ulisse, alle porte degli Inferi, interroga l’ombra dell’indovino Tiresia circa il suo ritorno in patria. Disegno tratto da un vaso del iv secolo a.C. conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Frammento scolpito in rilievo rinvenuto a Roma nel xvii secolo noto come Apoteosi di Omero. A partire dall’alto, dove troneggia Zeus, si svolgono diverse scene. Il poeta, nella fascia inferiore, viene incoronato e osannato da figure allegoriche davanti a un altare presso il quale sta libando un giovane che rappresenta il mito. Unica opera conosciuta dello scultore greco del i-ii secolo a.C., Archelao di Priene, il frammento è conservato a Londra al British Museum.
Aristotele e il busto di Omero, di Rembrandt. Il filosofo in vesti seicentesche è rappresentato in una sorta di spirituale colloquio con il poeta raffigurato nella bella testa-ritratto. Il quadro è conservato al Metropolitan Museum of Art di New York.
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IL MITO
IL MITO DI DEMETRA di Dario M. Cosi
Se nel 1940, dopo oltre duemila anni, può ancora una misteriosa vecchina, curva e nera, salire senza soldi e senza biglietto su un autobus che da Atene porta a Eleusi, pare di poter concludere che, anche se il rituale misterico è ormai scomparso, «non per questo Demetra» ha abbandonato «il luogo della sua teofania più drammatica». Perennità del mito, dunque, continuità nel tempo, a segnare con una ennesima ambiguità la natura e la funzione di una narrazione che, seppure colta e analizzata nel suo contesto originario, rimane pur sempre misteriosa e vitalissima, nei suoi infiniti significati autentici così come nelle sue molteplici letture interpretative. In un presente che pare avere ancora bisogno di miti, e che per questo ne produce forse di nuovi, rimane comunque la «traccia interminata» di quelli antichi, sostenuta dal b isogno perenne di raccontare, con gli strumenti di tutte le arti che l’uomo nei secoli ha saputo donarsi, storie di dèi e di eroi che con le loro imprese hanno «fondato la realtà». Anche se privato del suo contesto religioso e sociale, anche se da «mito vivente» è diventato laicizzato, tecnicizzato, degradato, oppure trasformato nel suo valore sociale, il mito, dunque, ancora ci parla. Una splendida testa di Demetra, della f ine del iv secolo a.C., rinvenuta nella città di Dion (Grecia), che in epoca ellenistica fu la capitale religiosa dell’antica Macedonia. Apparteneva probabilmente alla s tatua di culto della dea, venerata a Dion, e oggi esposta nel Museo della città.
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Grande dea olimpica della fertilità, che fornisce nutrimento alle terra, considerata sorgente
vitale di sopravvivenza, soprattutto perché agli uomini ha donato la cerealicoltura, la legge e l’ordine, Demetra è dea ampiamente venerata in tutto il mondo antico. Molteplici sono i suoi aspetti e le sue funzioni, numerosissimi i suoi epiteti. Le forme rituali del suo culto, che punteggiava senza soluzioni di continuità l’intero mondo mediterraneo, sono altrettanto varie e numerose, ma, tra elementi costanti che suggeriscono un nucleo unitario e variabili locali, la specifica facies cultuale demetriaca pare potersi riconoscere in una speciale connessione con le donne e, particolarmente per le Tesmoforie che si celebravano ad Atene e in varie altre parti del mondo greco, con la loro condizione di spose e di madri. Ma Demetra è soprattutto la titolare del culto misterico di Eleusi, i misteri per eccellenza di Atene, i più illustri del mondo antico. Tra i tanti miti, dunque, che fondavano i numerosissimi aspetti della sua realtà cultuale, quello che narra del rapimento della figlia della dea, Kore/Persefone, da parte di Ade, sovrano del mondo infero, e del finale ritorno, seppur temporaneo, di quella sulla terra, e che culmina nella fondazione del culto misterico eleusino, risulta certamente il più popolare, il più diffuso, il più tenacemente conservato. Ad esso, quindi, faremo in queste pagine quasi esclusivo riferimento, utilizzando in particolare la sua versione letteraria più antica e autorevole, contenuta
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nell’Inno omerico a Demetra, che, per la sua antichità (probabilmente fine vii-metà vi secolo a.C.) e per la sua natura liturgica e cerimoniale (esso veni va recitato e forse, addirittura, messo in scena nel corso del rito), costituisce un punto di riferimento esemplare. I misteri di Eleusi, del resto, rappresentano – come vedremo – nel quadro della religione della Grecia antica una speciale modalità di approccio al divino, una forma nuova e originale di religiosità, proponendo agli uomini che vi si accostavano una possibilità di omologazione del loro destino alle vicissitudini del dio. «Saggezza olimpica e mistica eleusina» Percependo da lontano le invocazioni di aiuto lanciate dalla figlia al momento del rapimento, Demetra intuisce il pericolo, lacera il diadema che adorna le sue chiome divine, assume atteggiamenti di lutto e si slancia, «come folle«, alla ricerca della figlia, per terra e per mare (vv. 38-44). Vaga così, disperata, per nove giorni astenendosi dal cibo e dal lavacro e chiedendo informazioni a chiunque, finché Helios, che dall’alto del cielo tutto osserva in qualità di testimone cosmico, le rivela l’accaduto. Ma soprattutto la mette al corrente del retroscena costituito dall’accordo intercorso tra il rapitore infero e Zeus, che ha autorizzato il rapimento, e la invita ad accettare le decisioni del sovrano degli dèi: esse rientrano nella prospettiva «olimpica», tipica del politeismo greco, con la sua rigida struttura dinastico-dipartimentale che prevede l’attribuzione di specifiche dignità e funzioni ai vari personaggi divini, in un’ordinata gerarchia di ruoli cui presiede la suprema volontà di Zeus. E ricordandole – con un tocco di buon senso comune – che Ade in fondo risulterebbe un genero per nulla inadeguato alla sua dignità divina, le suggerisce di aderire alla logica di sottomessa «rassegnazione» che caratterizza la schiera compatta e ordinata degli dèi olimpici. In questa prospettiva le nozze tra Ade e Kore, pur nella forma violenta del rapimento, attribuendo alla fanciulla il nuovo ruolo di sposa del signore degli Inferi, si configurano come instaurazione di un legame legittimo e onorevo le tra membri di una medesima dinastia, un atto perfettamente coerente con la logica dinastica e patriarcale in cui è inserito.
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Ma sorprendentemente la dea, mentre più acuto il dolore le pervade l’animo, assume un atteggiamento di netto rifiuto della nuova situazione e, «adirata contro il figlio di Crono, dalle nere nubi, / abbandonando il consesso degli dèi e il vasto Olimpo, / andava tra le città degli uomini e i pingui campi» (vv. 91-93). Se il tema dell’allontanamento dalla sua sede abituale di un eroe, adirato per un oltraggio, è comune nella letteratura greca arcaica (si pensi alla collera di Achille, che acquisisce maggiore saggezza e nuova consapevolezza, ma che alla fine muore giovane, incapace di sopravvivere al processo di maturazione che aveva intrapreso e incapace di inserirsi nel mondo adulto), in questo caso si tratta della scelta estrema di dissociarsi dal mondo olimpico per accedere al livello degli uomini. La dea, insomma, rifiuta di aderire al trasferimento «verticale» della figlia nell’Ade, alla «rottura di livello» tra due mondi, e sceglie invece di percorrere – lungo una dimensione polemi camente orizzontale – le strade degli uomini. Nella sua «desolidarizzazione» dal piano divino, Demetra decide, dunque, di radicalizzare la sua crisi, di imboccare volontariamente la strada di una «vicenda» mistica (non di subire una semplice «avventura», come le tante del mito), che mette in discussione, in particolare, la rigida dialettica tra vita e morte che regge l’antica logica olimpica. Sua figlia, naturalmente, non è morta, perché una divinità olimpica è per definizione immortale, ma ella la piange come se fosse morta, assumendo l’atteggiamento di una madre terrena che vaga in lutto lungo le strade degli uomini. E conseguenza del dolore e del risentimento di Demetra è la morte totale della fecondità agraria, la sospensione di quella che, nella struttura olimpica, è la tipica funzione demetriaca: «Né più il suolo / lasciava germogliare i semi, poiché li teneva n ascosti Demetra dalla bella corona» (vv. 306s.). Prima che la carestia che minaccia di estinguere la razza degli uomini provochi infine l’intervento di Zeus, che concederà infine il ritorno temporaneo della figlia accanto alla madre, Demetra peregrina ancora lungo la dimensione umana delle città e delle attività che la caratterizzano. A Eleusi, assunta come nutrice del figlioletto del re locale, mantiene sembianze dimesse e atteggiamento di afflizione, anche se la sua qualità divina si rivela all’improvviso nella
«luce sovrumana» (v. 189) che la circonfonde al suo varcare la soglia della casa, e anche se la regina Metanira, intuendo la sua natura divina, pur senza comprenderla pienamente, la accoglie con «rispetto e venerazione... e insieme pallido timore» (v. 190). Ma Demetra siede in disparte con le donne di casa, con il volto velato, rinchiusa nel suo atteggiamento di dolore, silenziosa, senza sorridere e senza prendere cibo né bevanda, immersa nel ricordo della figlia. Finché una delle serve, con vari (e forse osceni) motteggi, non riesce a strapparle almeno un sorriso e le offre, infine, una mistura di acqua, farina d’orzo e menta (che sarà poi il ciceone, la bevanda offerta ai fedeli nel rito misterico di Eleusi). Il rifiuto del cibo rappresenta il rigetto di ogni forma di comunicazione alimentare con gli uomini (parallelo al precedente rifiuto di comunicare, anche sul piano alimentare, con gli dèi), che però si risolve, alla fine, nel dono divino del nuovo cibo fondante, che completa e riscatta l’antico dono del pane, che ha già riscattato gli uomini da una vita selvaggia e incivile. Il rito misterico, offerto dalla dea alla famiglia regale di Eleusi e a tutti gli uomini, sarà dunque, dopo alcune altre avventure, il retaggio perenne e rivoluzionario dell’intera vicenda. Se il piano divino partecipa, nel mito, a vicissitudini e destini «umani» nel loro carattere (sparizione e ritorno, vita e morte), gli esseri umani, nel corso delle cerimonie iniziatiche, possono partecipare al destino e alle vicissitudini delle due dee, ottenendo, attraverso una interferenza vivamente partecipata e «calda» alla loro «crisi», in una relazione di com-passione con loro, condizioni speciali di felicità, di totalità e di immortalità. In questo pare consistere l’innovativa tonalità religiosa dei misteri eleusini, che propone una nuova forma di religiosità, di tipo «mistico»: la rigida separazione olimpica tra dèi e uomini e l’opposizione radicale tra vita e morte si stemperano nell’esperienza dell’interferenza (insieme mitica e rituale) tra piano divino e piano umano e nella speranza di oltrepassare senza danno la soglia della morte, in un destino privilegiato nell’Ade. L’invettiva contro gli uomini Ospite nella reggia di Eleusi, la dea provvedeva alla cura del principino Demofonte, che «cresceva simile a un essere divino» perché ella
«lo ungeva d’ambrosia... / dolcemente soffiando su di lui e stringendolo al seno» (vv. 237s.). E di notte, di nascosto, operava su di lui un magico procedimento di immortalizzazione con il fuoco («lo celava nella vampa..., come un tizzone», v. 239), che «lo avrebbe reso immune da vecchiezza, e immortale» (v. 242). Ma la regina Metanira, curiosa e inquieta, scopre per caso l’imbarazzante operazione e getta un grido di lamento e di angoscia, spezzando così per sempre l’incantesimo. A questo punto Demetra, adirata e piena di furore nell’animo, esplode in una celebre invettiva: O stolti esseri umani, incapaci di prevedere il destino della gioia o del dolore che incombe! (vv. 256s., tr. Filippo Cassola)
a cui segue la fondazione, più pacata, dettagliata e serena, del rito misterico eleusino. La narrazione si è svolta fin qui sotto il segno dell’incompiutezza, in un clima di attesa sapientemente generato attraverso una lenta e prolungata maturazione degli eventi: il rapimento di Kore non si è ancora risolto; Demetra travestita non si è rivelata nella sua completa epifania divina; i vaghi accenni alla liturgia misterica (come quello relativo al ciceone) non sono stati ancora coronati dalla fondazione del culto; l’immortalizzazione di Demofonte, infine, è totalmente fallita. Nell’efficace alternanza di silenzio (a segnare di volta in volta immobilità cosmica, attesa, notturna segretezza) e di grido (di aiuto, di atterrita sorpresa, di furore), che percorre tutto l’Inno, l’invettiva di Demetra esplode qui a costituire un punto di svolta e a sospendere il corso degli eventi, ma soprattutto a proporre, in questa terra di confine, il collante, l’anello di congiunzione tra ciò che precede e ciò che segue e a proiettare la vicenda verso la sua soluzione, che partendo da un contesto rigidamente olimpico sarà infine misterica. L’episodio della mancata immortalizzazione di Demofonte, che ne costituisce l’immediata premessa, rappresenta in questo senso il «vertice ambiguo» dell’intera sequenza narrativa, che si specchia insieme in un contesto retrospettivo e in un contesto prospettico. Esso da un lato costituisce, infatti, il culmine della progressiva partecipazione di Demetra all’umano, celebrandone, con la finale sanzione dell’ineluttabilità
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della morte, il fallimento (nel trionfo della vecchia logica olimpica di separazione tra uomini e dèi). Ma dall’altro dilata la prospettiva in uno spazio nuovo, per fondare un rapporto più aperto e più profondo tra uomo e dio, da oggi sotto il segno della speranza misterica. Nonostante le apparenze, dunque, l’invettiva di Demetra non è recriminatoria o svilente per gli uomini, non sancisce la lontananza tra l’umano e il divino nel disprezzo di una configurazione di abisso e di estraneità. Essa esprime, piuttosto, un nuovo interesse del divino nei confronti degli uomini, osservati appunto nella loro essenza di esseri insipienti e tuttavia meritevoli, in una prospettiva dirompente e innovativa, di godere della possibilità (quella proposta dai misteri) di migliorare la loro condizione mortale, di espandere le loro potenzialità nell’aspirazione alla felicità nella morte e oltre la morte. La nuova prospettiva eleusina, in altri termini, ancora e proprio perché fondata sulla comprensione della deficienza umana in ordine alla conoscenza, propone agli uomini la possibilità di scegliere responsabilmente se aderire o meno alle promesse di felicità offerte dal rito, di formalizzare le loro scelte con l’iniziazione, di dischiudere una nuova dimensione esistenziale, non più congelata nell’alternativa olimpica fra vita e morte, ma intermedia, in quanto fondata sulla felicità nella vita e oltre la morte, in un passaggio – come è stato detto – «al di sotto della soglia della morte». L’invettiva non condanna definitivamente, allora, soprattutto la stoltezza e l’incapacità degli uomini, nel fallimento di un progetto divino anti-olimpico che tentava di riscattarli dalla loro condizione; né celebra il trionfo dell’uomo, gratificato ora, grazie alla rivoluzione di Demetra, dello strumento di una problematica divinizzazione misterica, alternativa a quella magica, destinata inevitabilmente al fallimento. Essa piuttosto rappresenta una nuova consapevolezza nel divino: la dea prende coscienza che, se gli uomini non potranno mai diventare dèi, neppure gli dèi potranno mai comportarsi da uomini, in particolare di fronte al suo specifico dramma di madre che non riuscirà a ricongiungersi in modo perenne e incondizionato con la figlia, dovendo invece accettare il compromesso dell’alternanza di Persefone tra l’Olimpo e l’Ade. Questa paradossale (in una logica olimpica) acquisizione di consapevolezza da parte di Deme-
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Il mito di Demetra
tra, che prima ha scelto di vivere, da semplice donna in lutto, sulla terra e poi è costretta ad accettare di esistere come dea segnata dall’offuscamento della sua impassibilità olimpica, chiarisce ora i rapporti tra divino e umano, ponendo l’uomo di fronte a se stesso, denudato da tutti i veli di ignoranza che gli si frapponevano quale schermo protettivo ed estrema difesa di fronte alla potenza divina, e invitato a un intervento più attivo e consapevole verso la ricerca del proprio destino di felicità. Demetra e la melagrana Il ricatto di Demetra agli dèi olimpici sortisce alla fine i suoi effetti: Zeus ordina ad Ade di concedere a Persefone di varcare la soglia del mondo sotterraneo, per ritornare tra i vivi con la madre. Ma il sovrano degli Inferi, con un astuto stratagemma, condiziona per sempre la permanenza della fanciulla presso di lui, perché le fa ingerire, «furtivamente guardandosi intorno» (v. 373), un chicco di melagrana, che stabilisce con il suo regno un legame indissolubile. Per questo la fanciulla sarà incatenata per sempre a un soggiorno alternato, per alcuni mesi sulla terra e per alcuni nell’Ade, a segnare la ciclicità stagionale ed agricola e a sancire la sua condizione di dea «mistica», tipicamente «in vicenda». Questa negativa funzione di separazione attribuita alla melagrana è all’origine dell’esclusione del frutto (o dell’albero che lo porta) da alcuni culti genericamente femminili (come ad Acacesio, in Arcadia) o propriamente demetriaci (come le Aloe e le Tesmoforie, in Attica) e spiega la presenza del sacro frutto tra le mani di Persefone in una serie di terracotte provenienti dal mondo insulare (Rodi, Cos, Melos, ma anche dalla Sicilia e dall’Italia meridionale) e (insieme al fiore) in una statuetta di giovinetta, identificata con Kore, da Locri Epizefiri. Gli antichi, che ben conoscevano certe proprietà terapeutiche della melagrana, sfruttate per alcune ricette destinate a usi medicinali, la cui preparazione – come è naturale – spesso assomiglia allo svolgimento di un atto rituale, attribuivano al frutto numerosi (e anche un po’ contraddittori) valori simbolici. La melagrana è associata in primo luogo a contesti funebri, verosimilmente a causa del suo colore vivido che ricorda il sangue. Uno dei miti di origine del
melograno lo fa sorgere dal sangue di Dioniso ingannato e smembrato dai Titani, mentre l’albero cresce spesso sulla tomba di giovani eroi, tragicamente scomparsi. Ma il frutto è legato anche alla fecondità, probabilmente a causa dei suoi innumerevoli grani, che evocano fertilità e abbondanza, laddove il colore e la consistenza carnosa dei fiori, nonché la tendenza del frutto a spaccarsi mostrando al suo interno una consistenza rossa intensa, trasudante un liquido sanguigno, rimanda in qualche modo alla sessualità. Così un mito racconta che fu Afrodite a piantare per prima l’albero nell’isola di Cipro e spesso l’iconografia riproduce la dea (o almeno figure femminili ipoteticamente identificate con lei) con la melagrana. Infine la melagrana è nel mondo antico connessa specialmente con Hera, la sposa di Zeus. Pausania ricorda una celebre statua della dea in trono, ad Argo, che regge il frutto tra le mani: l’autore curiosamente non svela il segreto connesso al frutto, affermando che «la tradizione è di quelle di cui è meno lecito parlare», e facendoci sospettare qualche legame con un contesto misterico. Un’altra celebre statua di Hera con la melagrana è quella del santuario alla foce del Sele (replicata più volte, per esempio nelle terracotte dal piccolo santuario di Capodifiume). Nel mito di Demetra e Persefone sembra a prima vista che la particolare funzione attribuita alla melagrana riassuma e integri insieme, in qualche modo, i tre distinti valori simbolici appena segnalati: quello funerario per la sua collocazione nel mondo dei morti, per l’intervento di Ade, per il legame funzionale istituito con il territorio infero; quello connesso alla sessualità feconda per la diffusa tonalità erotica del rapimento e dell’auspicato matrimonio cui aspira il sovrano degli Inferi; quello della fecondità materna (incarnato da Hera) per il legame delle due dee con la coltivazione del grano e con la ricchezza ad essa legata e per lo stesso rapporto madre-figlia che le unisce. Ma più accurate analisi storico-religiose e antropologiche hanno suggerito varie ulteriori interpretazioni dell’episodio, che è stato letto alternativamente come un rinvio a comuni usanze nuziali di auspicio della fecondità, oppure come riferimento al diffuso (ampiamente anche fuori dall’antico mondo mediterraneo) tema mitico del «cibo degli Inferi», che fonda l’irrevocabilità della morte legando per sempre al regno sotterraneo. Se-
condo altri studiosi, infine, l’episodio è l’ennesima manifestazione della contrapposizione tra la natura e il potere delle divinità maschili, da una parte, e quelle femminili, dall’altra. Ma forse coglie maggiormente nel segno chi legge nel chicco di melagrana ingerito da Persefone uno strumento di mediazione tra Olimpo e Inferi, espressa ancora una volta attraverso un codice alimentare di rifiuto o accettazione del cibo, che propone in ultima analisi una nuova dialettica tra vita e morte, non più opposizione irriducibile, ma nuova situazione di presenza-assenza tra il mondo degli dèi e degli uomini (ora simpateticamente accostati nel mito e nel rituale misterico) e il mondo dei morti. Curioso è, per concludere, il caso dell’immagine di Maria con la melagrana venerata ancora oggi (a chiudere – così come abbiamo aperto – il ciclo dei millenni) nel Santuario della Madonna del Granato a Capaccio Vecchia: poiché la cittadina è situata a breve distanza dal sito antico di Paestum e pare fondata intorno alla fine del ix secolo dalla popolazione di quello, trasferita all’interno per sfuggire alla malaria e alle incursioni saracene, si è spesso pensato a una continuità iconografica (e magari anche funzionale), che ricollegherebbe l’immagine cristiana all’Hera argiva della foce del Sele. L’ipotesi, tuttavia, va accolta con cautela, perché la tradizione cristiana attribuisce alla melagrana ben diversi valori simbolici (tra i tanti documentati, segnaliamo soltanto quello della compresenza, uguale e distinta, di tanti individui o di tanti popoli in una unità coerente, che è la Chiesa); perché il monoteismo è strutturalmente e funzionalmente diverso dal (e per certi versi contrapposto al) politeismo, in particolare per la sua natura di messaggio rivelato e non di esperienza collettiva, comprensiva dei vari aspetti del sociale; perché, infine, la rappresentazione della Madonna con la melagrana è frequentissima nell’arte toscana e umbra del Tre e del Quattrocento, e da quell’ambito potrebbe essere pervenuta a Capaccio.
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Sezione del grande tempio di Demetra a Eleusi (v secolo a.C.). In questa città attica si celebravano i misteri eleusini, riti la cui fondazione è narrata nel mito di Demetra.
A sinistra: Demetra-Cerere in un mosaico del ii secolo d.C. proveniente da Uthina, l’odierna Utna, in Tunisia, e conservato nel Museo del Bardo di Tunisi. Secondo lo scrittore Plinio, l’intera Africa romana era consacrata a Demetra-Cerere. Rielaborazione moderna di un affresco della “tomba di di Persefone” a Vergina, che si presenta oggi assai deteriorato. Demetra siede sopra un sasso, struggendosi inconsolabile per il rapimento della figlia.
In alto: dalla cosiddetta “tomba di Persefone” a Vergina, identificata con Ege, l’antica capitale dei Macedoni: una scena affrescata che ha per soggetto il ratto di Persefone ad opera di Ade, signore degli Inferi. Il dio, con un piede già sul carro, la mano che impugna le redini e lo scettro, stringe a sé la fanciulla protesa all’indietro in un estremo tentativo di r esistenza. Dietro al carro una delle giovani che stavano raccogliendo fiori con la dea assiste atterrita. Ade e Persefone ritratti in trono, con i loro doni e i loro simboli, in una tavoletta di terracotta del i secolo a.C., oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria.
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Resti del santuario di Demetra a Dion. Più volte ingrandito e arricchito, esso conobbe una grande vitalità durante tutta l’epoca ellenistica.
In alto a sinistra: tavoletta in terracotta del v secolo a.C., conservata a Eleusi, nel Museo Archeologico. Nel rilievo si fronteggiano Demetra, in trono, e sua figlia Persefone, ciascuna recando in mano i simboli dell’attività agricola.
Vaso cinerario, noto come “urna Lovatelli“, conservato nel Museo Nazionale Romano. Si tratta di una copia romana, degli inizi dell’epoca imperiale, di un originale greco. Il bassorilievo illustra l’iniziazione di un uomo, forse Eracle, ai misteri eleusini. Testa colossale di Zeus, del ii secolo a.C., conservata al Museo Archeologico di Atene. Il padre degli dèi svolge un ruolo fondamentale nel mito di Demetra.
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Trittolemo tra Demetra e sua figlia, in una tavoletta a rilievo del v secolo a.C., proveniente da Eleusi e conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Atene. Trittolemo, che alcune tradizioni indicano come uno dei figli del re di Eleusi, ospite di Demetra, fu spesso collegato al culto della dea, sia ad Eleusi sia in altre città. In alto a destra: statua funeraria in marmo, proveniente dalla regione dell’Attica e databile al 570 a.C. circa. Una sorridente fanciulla tiene in mano probabilmente una melagrana.
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Vergine con il Bambino del pittore senese Benvenuto di Giovanni (1436-1517 circa). Maria porge un frutto di melograno al Figlio, che tende la mano per prenderlo. La tavola, a tempera e oro, si trova a New York, nel Metropolitan Museum of Art. Antonello da Messina: Madonna con il Bambino (circa anni ’60 del xv secolo, oggi alla National Gallery di Londra). Il Figlio, con lo sguardo rivolto alla Madre, stringe in mano una melagrana.
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IL MITO A ROMA di Natale Spineto
Dobbiamo alla letteratura latina alcune delle raccolte di miti più ricche del mondo classico: si pensi alle Metamorfosi, nelle quali Ovidio, seguendo il tema delle trasformazioni, ricostruisce le vicende degli dèi e degli eroi, in un quadro che, partendo dal caos degli inizi, giunge fino ad Augusto. Ma le vicende narrate da Ovidio sono quelle del patrimonio mitologico greco, che la città di Roma ha fatto suo, con
Veduta del Foro Romano, dove una tradizione colloca la mitica scomparsa del fondatore della città e il suo cosiddetto “sepolcro”.
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La lupa che allatta i gemelli Romolo e Remo in una moneta d’argento del 297-295 a.C., conservata a Bologna nel Museo Civico Archeologico.
l’identificazione di Zeus con Iuppiter, di Hera con Iuno, di Athena con Minerva, in un processo di assimilazione del quale non siamo in grado di rintracciare con esattezza l’origine e le circostanze. Esiste, infatti, una continuità di Grecia e Roma che induce a parlare, con una espressione entrata nel lessico, di religione greco-romana, o di religioni «classiche»; eppure, per evitare di appiattire le credenze romane su quelle greche, occorre chiedersi quali siano le loro peculiarità. Nel caso dei miti, una via di soluzione della questione consiste nell’eliminare dal corpus dei racconti intorno a dèi ed eroi tramandatici della letteratura latina tutto quanto è comune con la mitologia greca. L’operazione è stata compiuta da Georg Wissowa, tra i massimi studiosi della religione romana, negli anni precedenti la prima guerra mondiale. Eliminati gli elementi greci, ciò che rimane è sembrato a Wissowa una religione pratica, legata alle attività dei Romani, con divinità strettamente connesse alle funzioni della vita quotidiana. Agostino, nel criticare le credenze pagane, ricorda l’invocazione di esseri sovrumani dalla sfera d’azione limitata, specificamente connessi a funzioni pratiche (La città di Dio iv, 8,34): si tratta di dèi, le cui liste ci sono pervenute grazie a Varrone, come la dea Levana, che presiede all’atto di sollevare il neonato dalla terra
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sulla quale, secondo i riti prescritti, è stato posto, la dea Potina, del primo bere, la dea Educa, del primo mangiare, il dio Fabulinus, del primo parlare; Servio, richiamandosi a Fabio Pittore, menziona le dodici divinità connesse a dodici successive operazioni agricole, che vanno dal dissodamento al ritiro dei prodotti dai magazzini in cui li si è accantonati, invocate nel sacrum Ceriale (commento a Virgilio, Georgiche i, 21). Qualche anno prima Hermann Usener aveva sviluppato una teoria generale dell’origine della religione che, attraverso un processo evolutivo, faceva derivare da divinità di questo genere, denominate Sondergötter, gli dèi personali. Nella Roma più antica, dunque, non ancora permeata dall’influenza greca, sarebbero stati centrali dèi con un carattere poco antropomorfo e poco personale. Questi non vengono inquadrati in una genealogia e non sono protagonisti di vicende particolari: in altri termini, non possiedono quei tratti che, comunemente, costituiscono l’oggetto dei racconti mitici. La religione romana delle origini appare quindi caratterizzata da un aspetto pratico, dal riferimento a esseri sovrumani dall’antropomorfismo poco accentuato e dalla mancanza di componenti propriamente mitiche. La ragione di questa situazione è attribuita all’indole stessa dei Romani, contadini e guerrieri, impegnati a combattere «lotte estenuanti per l’esistenza» e, in fin dei conti, poco inclini alle fantasie poetiche che danno luogo ai miti. A questo dato si collegherebbe l’idea della centralità dello Stato romano, dal quale dipenderebbe il pantheon: la storia degli dèi quale si esplica prima e indipendentemente dallo Stato, in un’ottica del genere, sarebbe priva di interesse. D’altra parte, il rifiuto della mitologia greca è attribuito dalle fonti al fondatore di Roma: Romulus, secondo un passo riportato da Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane ii, 18), avrebbe accolto i costumi greci ma rifiutato i miti, considerandoli scandalosi e inadeguati agli dèi. Wissowa, dunque, avanza per primo l’idea di una religione romana caratterizzata dall’essere priva di miti. La sua ipotesi, tuttavia, non manca di destare perplessità. La prima nasce dalla constatazione, di ordine generale, che un riferimento a racconti tradizionali e fondanti è presente dappertutto; in particolare, poi, troviamo una mitologia tanto presso i popoli
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appartenenti alla famiglia linguistica indoeuropea, di cui i Romani fanno parte, tanto presso quelli non indoeuropei presenti nel bacino del Mediterraneo. Anche le popolazioni italiche hanno miti: a Preneste, per esempio, Fortuna e Iuppiter hanno un rapporto di parentela. Anche a prescindere dall’osservazione generica sulla presenza di miti in ogni cultura, si deve riconoscere, dunque, che Roma si è confrontata da sempre con civiltà nelle quali sono presenti mitologie. Come può, allora, essere rimasta completamente impermeabile al mito? Negli anni ’30 del secolo scorso sono state proposte due soluzioni alla questione. La prima viene da Franz Altheim, che insiste sul valore dell’influenza greca: se per Wissowa questa si doveva datare al periodo ellenistico, per Altheim fin dalle origini le credenze di Roma risentono della diffusione della cultura ellenica. In questo modo salva la presenza del mito a Roma, riconoscendone la derivazione greca, ma a prezzo della sua originalità. La seconda risposta è quella di Carl Koch: la religione romana non è fin dall’inizio senza miti, ma i Romani hanno compiuto una volontaria opera di demitizzazione che li ha differenziati dall’ambiente culturale che li circondava. Così alla figura di Iuppiter, dio che aveva una genealogia nelle popolazioni latine, sono sottratti gli elementi mitici e «il nuovo culto di Giove capitolino veniva […] a collegarsi con la nascente res publica, secondo un’osmosi che, da un lato, rendeva Iuppiter garante metastorico dello Stato e, dall’altro, “statualizzava” l’immagine di Giove, liberandola da ogni implicazione genetica o gentilizia» (Montanari). Eliminati quegli aspetti mitici che potevano radicarlo maggiormente ai culti locali, Iuppiter assume dunque il ruolo di un dio di stato, valido anche per i Latini. I miti riguardanti gli altri esseri sovrumani, poi, non sono negati, ma taciuti. Rimane da capire perché questa operazione venga effettuata proprio a Roma: la risposta di Koch risiede, ancora una volta, nell’indole dei Romani, ma anche nel riconoscimento, in essi, di un orientamento verso l’avvenire che diminuisce l’interesse per le origini dell’universo, degli uomini e degli dèi. Nel concetto di «demitizzazione» è dunque implicito il riferimento a una precisa scelta culturale dei Romani, che comporta una spoliazione di Iuppiter di tutto quanto ha di mitico.
Il dibattito successivo ha mostrato, tuttavia, come l’idea di una tota le eliminazione della dimensione mitica dalla prospettiva religiosa romana sia difficilmente sostenibile. Károly Kerényi predilige così un altro termine, «romanizzazione»: il mito è romanizzato e assume il valore di pratica cultuale. La mitologia è vissuta attraverso il culto, invece che raccontata, come mostrerebbe il caso del flamen dialis, sacerdote di Iuppiter che Plutarco definiva, significativamente, «una specie di statua sacra e vivente» del dio (Questioni Romane 111). Ma se il mito, in quanto tale, assume un valore secondario, la sua funzione e il suo meccanismo sembrano invece permanere. Georges Dumézil mette in rilievo a nch’egli l’importanza della trasposizione del mito nel rito effettuata dai Romani, ma insiste soprattutto sulla sostituzione del mito con l’epopea. I Romani non assegnano particolare rilievo al mito inteso come racconto intorno a dèi ed eroi, ma insistono invece sulle vicende umane che pongono agli inizi della città. Lo studioso francese riconosce nelle popolazioni che parlano lingue di ceppo indoeuropeo certe affinità nelle credenze e nel patrimonio mitico. Queste affinità si possono compendiare nel riferimento comune a una struttura tripartita, che rispecchierebbe le tre funzioni essenziali delle società in questione nelle loro forme più antiche: la sovranità religiosa, la funzione militare e quella economica e produttiva. Nella mitologia vedica e in quella degli antichi Germani, per esempio, la tripartizione riguarda i principali dèi di riferimento e si ritrova nei miti. A Roma essa sarebbe presente ma non nel mito, bensì nella cosiddetta «triade arcaica» (composta da Iuppiter, Mars e Quirinus) e nelle storie sull’origine e le prime fasi dello sviluppo della città. Il combattimento tra i Romani, forti delle promesse di Juppiter e del loro valore militare e i Sabini, ricchi pastori che, grazie alle loro donne, sono in grado di garantire alla società fecondità e durata, prende così il posto di altri scontri mitici, come quello che, nella mitologia nordica, oppone gli Asi e i Vani: in entrambi i casi si ha una lunga serie di lotte, con alterne vicende, fino a una vittoria che prelude a una fusione delle due parti in una struttura unitaria della quale il conflitto di partenza serve a mettere in evidenza l’articolazione e le distinzioni interne. I primi tre re esprimerebbero la tripartizione
funzionale: Romulus rappresenta la sovranità nel suo aspetto magico e Numa la rappresenta nei suoi aspetti giuridici; Tullus Hostilius, «più bellicoso di Romolo […] cercava ovunque pretesti per suscitare una guerra» (Livio, Storia di Roma i, 22) e sotto Ancus Marcius si sviluppano i commerci. Non avremmo, insomma, una demitizzazione, ma piuttosto uno spostamento dei significati del mito su altri elementi. Angelo Brelich ha cercato di dare una spiegazione di questi orientamenti. Possiamo dire che, in generale, la funzione del mito è quella di fondare la realtà attuale riportandone l’origine in una dimensione temporale altra. Ma la religione romana prevede una continua interferenza degli dèi nel tempo storico, un governo attivo esercitato nei confronti del mondo, e questo rende primario il riferimento al culto – con una relazione con le divinità continuamente ribadita e rinnovata – rispetto al mito, con il suo richiamarsi al passato delle origini. Si può quindi dire che l’orientamento di Roma sia rivolto al rito, che rinnova e restaura continuamente l’ordine dell’universo, inteso come corretto rapportarsi degli uomini e degli dèi (pax deorum). Nello stesso tempo, sottraendo le divinità alla mitologia, legata ai culti locali, Roma può tollerare e assorbire i culti che incontra nel suo processo di espansione: poiché le divinità dello Stato devono essere venerate da tutti, le tradizioni legate al loro luogo d’origine non vengono estirpate, ma ufficialmente ignorate. Ancora, rimane il riferimento ai racconti riguardanti i personaggi della tradizione romana. A una storicizzazione del tema della demitizzazione ha contribuito Dario S abbatucci, che ha studiato il rapporto fra l’epopea e la storia romana quale viene definita dalla produzione annalistica. Fra le due forme di racconto Sabbatucci riconosce una serie di somiglianze, che nascono dal valore fondante dell’una e dell’altra; un valore fondante giustificato dalla fonte da cui gli annales scaturiscono: i pontefici. La realtà romana, da questo punto di vista, diventa esemplare e la realtà cosmica viene riferita a essa. Un esempio di tale processo si può trarre da un episodio che riguarda la definizione della cronografia sacrale romana. Il 18 luglio del 390 i Romani subiscono una sconfitta dai Galli presso il fiume Allia e, l’anno seguente, il Senato svolge un’inchiesta sulle
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ragioni del disastro. Viene allora rilevato che lo stesso giorno, 87 anni prima, gli Etruschi avevano battuto i Romani in prossimità del fiume Cremera. Si nota altresì che il sacrificio relativo alla battaglia si era svolto il giorno dopo le Idi e che ogniqualvolta si era sacrificato il giorno dopo le Calende, le None e le Idi si erano registrati rovesci militari. Sicché viene deciso che il 18 luglio sia un giorno religiosus – nel quale, cioè, tutte le attività rilevanti sono sospese, e si evita di fare offerte agli dèi e di compiere qualche cosa di nuovo – e che non si offrano più sacrifici dopo Calende, None e Idi. Un evento storico è stato, perciò, sottratto alla sua contingenza e ha assunto un carattere meta-storico, in quanto lo si è inserito nel calendario e, dunque, lo si è inscritto in una dimensione di ripetitività; in qualche modo, gli si è dato un aspetto «cosmico». Ma questo aspetto cosmico è propriamente romano: riguarda una sconfitta patita dai Romani che costituisce, invece, un evento favorevole per gli Etruschi o per i Galli. Per i Romani, infatti, «il corso del tempo s’identificava con la storia stessa di Roma» (Sabbatucci). Tutto questo, in ogni caso, non comporta l’eliminazione della dimensione mitica, che continua a rimanere viva. La funzione del mito, che è quella di dare una «carta di fondazione» alla realtà attuale a tutti i suoi livelli, resta vitale, ma il ruolo del tempo sacro delle origini è ricoperto dal tempo «storico» delle fasi più remote dellastoria della città e alla centralità del cosmo, del quale i miti greci narravano la nascita e il progressivo ordinarsi, è sostituita quella di Roma, celebrata dall’epopea e dalla storia. Sicché rimandare al tempo delle origini significa, a Roma, evocare i tempi in cui Roma non era ancora stata fondata, l’epoca dei re, l’epoca in cui certi culti non esistevano, la prima repubblica e il momento dell’invasione dei Galli. Spazio e tempo vengono costruiti in rapporto con la città di Roma, che diventa il valore centrale intorno al quale tutto il sistema religioso si struttura. Per esempio, negli eventi del regno di Tarquinius Priscus troviamo una sintesi degli elementi che caratteriz zano il tempo del mito: «L’assenza di determinate caratteristiche tipiche dell’esistenza attuale; la fluidità di certe altre, già allora presenti ma in forma alquanto diversa; l’inizio di quelle che saranno le reali condizioni di vita» (Piccaluga).
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All’epoca dei Tarquinii non c’è ancora l’ulivo, né esistono l’Isola Tiberina, l’agger (il bastione tra la Porta Collina e l’Esquilino), le mura, la Cloaca Maxima, il circo, il tempio di Iuppiter Optimus Maximus. Suocere e nuore vanno in perfetto accordo, non vi è bisogno di leggi contro il parricidio e non sono stati inventati gli strumenti di tortura. Una notizia vuole che non si celebrassero sacrifici fino a Tarquinius Priscus; un’altra fonte parla invece dell’offerta di vittime umane, che si sarebbe interrotta soltanto con la cacciata dell’ultimo re. Si instaurano alcuni usi che saranno propri della nuova realtà di Roma: durante il regno dei Tarquinii vengono aggiunti i due mesi mancanti al calendario, sono istituiti i ludi Magni e acquistati i Libri sibillini, è introdotta la statuaria, si instaura l’uso di consultare gli auguri prima di svolgere attività di rilievo pubblico. Insomma, anche a Roma esistono racconti che fanno riferimento a un passato r emoto nel quale le istituzioni proprie della civiltà attuale non sono ancora presenti ma vengono fondate, in cui sono possibili comportamenti ed eventi che l’ordine definitivo che il cosmo acquisirà non potrà più tollerare. Esistono, in altri termini, racconti che, pur declinati secondo le peculiarità della religione romana, possiamo definire mitici.
A sinistra, dall’alto: plastico ricostruttivo del santuario della Fortuna Primigenia che, nel terzo quarto del ii secolo a.C., fu eretto a Preneste, oggi Palestrina (Roma). Il plastico si trova nel Museo Archeologico della città. Nel disegno: ricostruzione ipotetica del tempio di Giove Capitolino, innalzato dai Tarquinii sul Campidoglio e destinato ad accogliere il dio che diverrà il sovrano degli dèi e il protettore del popolo romano. L’antica Lavinium, oggi Pratica di Mare, presso Pomezia (Roma), fu uno dei centri cittadini nelle vicinanze dell’Urbe dove gli aspetti dell’elaborazione dei miti in chiave cultuale ha trovato riscontri archeologici tra i più interessanti. Qui vediamo la ricostruzione di un edificio sepolcrale del iv secolo a.C.: vi fu venerata la memoria di Enea, considerato fondatore di Lavinium e capostipite dei Romani. A sinistra: una delle moltissime statue votive in terracotta ritrovate a Lavinium, tra i resti di un complesso di edifici sacri databile tra il vi e il iii secolo a.C. La città fu sede di culti di remota origine anche greca e le statue, in gran parte femminili, raffigurano delle offerenti, abbigliate con sfarzo e adorne di elaborati gioielli.
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Lari dipinti nella “casa di Sulpicius Rufus” (14-41 d.C.) a Pompei, in un atrio delle cucine. I Lari erano i protettori del focolare domestico: qui compaiono nella fascia superiore dell’affresco accompagnati dalla Fortuna, come di consueto contraddistinta dal corno dell’abbondanza, che essi stessi impugnano, e da un suonatore di flauto. I due serpenti nella fascia inferiore rappresentano il genius loci, o divinità tutelare del luogo. Nelle case degli antichi Romani, ai Lari erano riservate particolari cerimonie in giorni stabiliti. Moneta in argento coniata nell’89 a.C. dove è raffigurato il leggendario re sabino Tito Tazio. Di lui si narra l’accordo stipulato, dopo il celebre episodio del ratto delle Sabine, con Romolo, in vista di un regno congiunto sulla città di Roma.
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A sinistra: grande statua funeraria del vi secolo a.C. nota come “guerriero di Capestrano” e conservata a Chieti, in Abruzzo, al Museo Nazionale Archeologico. Reca su uno dei due sostegni laterali un’iscrizione in lingua sabina che commemora il titolare della statua: un capo, con la sua dotazione di armi e ornamenti. Rilievo della cosiddetta Ara Casali, della fine del ii secolo d.C., ritrovata sul Monte Celio e conservata a Roma, ai Musei Vaticani, nella Galleria de’ Candelabri. Raffigura fatti connessi alle vicende dei due gemelli Romolo e Remo.
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Il mito a Roma
A sinistra: statua antica che rappresenta la dea Roma. Fu trasportata, nella seconda metà del xvi secolo, nei giardini di villa Medici (Roma), come dono del papa Gregorio xiii all’allora cardinale Ferdinando de’ Medici, poi granduca di Toscana.
Urna cineraria etrusca in lamina di bronzo, della metà dell’viii secolo a.C., proveniente da Vulci (Viterbo) e conservata a Roma nel Museo Nazionale di Villa Giulia. Vi si può riconoscere con chiarezza il modello di una capanna ovale – con il tetto che ricorda nella forma il guscio di una testuggine – simile a quelle le cui tracce sono state ritrovate sul colle Palatino e la cui datazione risale all’viii secolo a.C. Tali abitazioni si trovavano sul colle più antico della città, dove Romolo l’avrebbe fondata, tracciando un solco con l’aratro per delimitarne i confini, dopo aver interrogato i presagi.
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Statuetta etrusca in terracotta della seconda metà del vii secolo a.C.: rappresenta un personaggio seduto, verosimilmente altolocato. Indossa una lunga tunica e un ampio mantello, fissato con un fermaglio dello stesso tipo degli esemplari in oro e argento trovati in ricche tombe. Può essere emblematico di quei gruppi sociali che tanta influenza ebbero, dal punto di vista economico e culturale, sul mondo latino delle origini. La statuetta proviene dalla “Tomba delle cinque sedie” di Cerveteri, l’antica Caere, e si trova a Roma nel Palazzo dei Conservatori.
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GLI IMPERATORI MITICI DELLA CINA ANTICA di Christine Kontler
Storia, miti e l’iniziale Età dell’Oro
Paesaggio agricolo del sud della Cina: risaie nella p rovincia del Sichuan.
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La civiltà cinese classica ha concepito la storia in modo singolare. L’obiettivo dello storico non è quello di ricostruire il passato nell’ambito della conoscenza, ma di ripristinare l’ordine armonioso del mondo nell’ambito dell’azione, dei comportamenti morali, familiari, sociali. Per lo storico il paradigma supremo resta il governo di uomini saggi e santi, eroi mitici e civilizzatori, apparsi alle origini dei tempi. Prima di diventare monarchi umani, tali personaggi erano divinità celesti le cui memorabili imprese ci sono pervenute deformate e troncate, perché fin dall’antichità erano state integrate nel modello storico dominante. È il caso delle «Memorie storiche» (Shiji), opera monumentale di Sima Qian (145-86 a.C. circa). Sima Qian giustifica l’ordine sociale o la successione delle dinastie in funzione della virtù dei loro sovrani, archetipi che rappresentano sia il bene supremo, sia il male assoluto, e la cui personalità conta meno dell’iscrizione in un certo lignaggio. Ogni casa reale è così provvista di antenati perfetti, sovrumani nella virtù, eroi e necessariamente mitici. Lo storico, allo stesso modo degli eruditi della sua epoca, crede che il movimento del tempo sia ad immagine della vita dell’uomo e del suo operare nel mondo, cioè contenuto tutto con la sua pienezza e il suo declino nell’irresistibile
impulso delle origini. Egli allora colloca agli inizi di una storia, assimilata agli inizi della civiltà, cinque re sovrani che regnarono «sotto il Cielo». Ritenuti in grado d’incarnare la perfezione originaria, essi rappresentano un’Età dell’Oro che ha da essere rigenerata in ciascun regno. La lista di Sima Qian comprende anzitutto l’Imperatore Giallo (Huangdi), poi Zhuanxu, Ku (o Diku), Yao (o Tangyao) e Shun (o Yushun). La successione di questi primi antenati si accorda con quella fornita dagli «Annali scritti su bambù» (Zhushu jinian), altro testo storico di rilievo scoperto alla fine del iii secolo della nostra era in una tomba antica. I Tre Augusti Tuttavia i miti che si riferiscono alla fondazione della monarchia cinese conferiscono un posto privilegiato ad altri personaggi tra i quali si trovano in primo piano Fuxi e la sua compagna Nügua (o Nüwa) e il Divino Coltivatore (Shennong). Noti fin dall’antichità e curiosamente ignorati nell’opera di Sima Qian, appariranno più tardi nella storiografia ufficiale. Così il celebre filosofo Zhu Xi (1130-1200), nello stendere una versione abbreviata dell’opera del 1085 «Specchio completo per aiutare a governare» (Zizhi tongjian), situa agli inizi della storia tre sovrani, o tre “augusti” (huang), i quali altro
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non sono che Fuxi, il Divino Coltivatore e l’Imperatore Giallo. La successione degli Augusti nei tempi primigeni dell’umanità cinese si presenta come una rilettura da parte della storia di elementi mitologici volti a isolare il regno della civiltà dalla vita selvaggia o dal caos originale. Orchestrando frammenti di leggende o racconti sacralizzati, Zhu Xi ricompone una storia attorno alla progressiva rivelazione di requisiti necessari all’instaurarsi della cultura. E le grandi innovazioni o le invenzioni cruciali per abitare il mondo e governarlo vengono associate all’uno o all’altro dei tre leggendari primi imperatori. I cinque sovrani successivi sono, secondo Zhu Xi, Shaohao, Zhuanxu, Ku, Yao e Shun, i cui regni si limitarono a gestire una vita politica serena.
Talvolta presentato come l’artefice della civiltà, Fuxi (che avrebbe regnato tra il 2852 e il 2737 a.C.) si colloca tra gli eroi inventori dei giusti metodi di governo. Secondo la tradizione sulle origini del famoso Libro delle Mutazioni (Yijing), il classico cinese della divinazione, Fuxi è colui che avrebbe individuato gli otto emblemi divinatori, ovvero gli Otto Trigrammi, manifestazioni grafiche delle forze naturali all’opera nell’universo e chiavi delle sue metamorfosi. Si dice che egli, per riuscire nell’impresa, abbia contemplato le figure che sono in alto, nel cielo: le costellazioni; abbia esaminato le forme che sono in basso, sulla terra; abbia osservato intensamente gli animali attorno a lui; abbia preso in considerazione le diverse parti del suo corpo. E allora, con l’efficacia donatagli dagli spiriti divini, poté classificare gli esseri e governare senza pericolo. A Fuxi è anche attribuita l’invenzione dei primi segni della scrittura, provenienti da elementi grafici divinatori, oltre che l’insegnamento della pesca e della caccia. Fuxi forma con Nügua, sorella-sposa destinata a succedergli, una coppia ierogamica di divinità cosmiche, simboli dell’unione tra Yin e Yang e della vita universale. La tradizione taoista attribuisce a Nügua la risistemazione dell’universo in seguito a catastrofi estreme: «I Quattro Poli rovesciati, le Nove Province spaccate, il Cielo non riusciva assolutamente più a coprire dappertutto, la Terra non ne sopportava tutta la circonferenza, il Fuoco incendiava senza mai estinguersi, le Acque inondavano senza mai placarsi, le Bestie feroci divoravano gli uomini
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validi, gli Uccelli da preda rapivano i deboli. Allora Nügua fuse le pietre di cinque colori per riparare il Cielo azzurrino, tagliò i piedi della Tartaruga per raddrizzare i Quattro Poli, uccise il Drago nero per mettere in ordine il paese di Ji, raccolse cenere di giunco per fermare le Acque sfrenate. Il Cielo venne riparato, i Quattro Poli si raddrizzarono, le Acque sfrenate si seccarono, il paese di Ji fu messo in equilibrio, le Bestie feroci perirono, gli uomini validi vissero, la Terra quadrata portò sul suo dorso, il Cielo rotondo tenne abbracciato, e si fece l’Unione tra Yin e Yang»1. Altre tradizioni attribuiscono a Nügua l’invenzione del flauto sheng, dell’acqua benefica che fa crescere i germogli e soprattutto del genere umano poiché «... ella impastò dell’argilla per plasmare gli uomini». Le tradizioni iconografiche antiche presentano questa coppia di eroi in forma metà umana e metà animale: i loro corpi terminano con code di serpente che s’intrecciano tra loro. Sovente essi si scambiano gli attributi. A sinistra Fuxi tiene con la mano sinistra la squadra che produce il quadrato della terra femminile, a destra Nügua tiene con la mano destra il compasso che misura il cielo maschile. Con questi attributi, simboli di tutte le arti religiose e magiche dell’operare sovrano, essi rappresentano gli esseri civilizzatori per eccellenza. Dell’uno e dell’altra si tramanda anche che abbiano inventato le regole del matrimonio, chiamato «squadra e compasso» per indicare costumi giusti e buoni. Dopo di loro vi è il Divino Coltivatore (il cui regno è situato tra il 2737 e il 2697), con il corpo di uomo e la testa di bue, cui l’umanità è debitrice dell’aratro e della zappa. Infatti, il Cielo (o secondo altre tradizioni un passero rosso) aveva fatto cadere una pioggia di chicchi di miglio e il Divino Coltivatore, dopo aver dissodato il terreno, li seminò, tecnica che in seguito avrebbe insegnato agli uomini. Conoscitore delle cento specie di piante, egli sviluppò sia l’agricoltura sia l’uso medicinale delle erbe. E ancora oggi è venerato in tutta la Cina come il primo grande erborista del mondo. La tradizione vuole che egli colpendo le piante con la sua frusta color ocra ne facesse scaturire i principi attivi e che inventariasse fino a settanta sostanze tossiche per giorno. Fu dunque lui a erudire gli uomini su ciò che in natura era buono o cattivo per loro. Dio dell’agricoltura, fu anche assimilato a una divinità del fuoco, l’Imperatore delle Fiamme (Yandi),
e gli si è riconosciuto inoltre qualche legame con la pioggia. A lui infatti è stato attribuito un trattato nel quale s’insegna a provocare la pioggia tramite danze di draghi. Verso la fine del suo regno, indebolito per l’età, divenne incapace di tenere a bada i grandi vassalli. Uno tra questi, il mostruoso Chiyou dal bronzeo capo cornuto e il corpo di serpente, fu il primo al mondo a fabbricare armi per una rivolta. Fu l’Imperatore Giallo, giovane pieno di talento e Signore degli animali, a sconfiggerlo e ucciderlo prima di succedere al Divino Coltivatore. L’Imperatore Giallo, il cui regno si collocherebbe tra il 2697 e il 2598, fu a sua volta un santo sovrano e un glorioso «figlio del Cielo»: inventò i riti, la musica e il calendario, l’abbigliamento e le acconciature. Costruì i primi templi e istituì la divisione delle terre. Nella corte del suo palazzo fenici e liocorni andavano a danzare. Fu inoltre all’origine del carro, dell’imbarcazione, di armi, dell’arte del vasaio, mentre la sua sposa iniziò la sericoltura e la tessitura. Come primo sovrano dalle caratteristiche puramente umane, ebbe ministri celebri, per esempio Cangjie, inventore di una certa forma di scrittura o Linglun, creatore di una musica nuova o Dan’ao che mise a punto un diverso computo del calendario. L’Imperatore Giallo è stato sempre uno dei personaggi più popolari della mitologia cinese e, fino a tempi recenti, lo si è considerato una sorta di santo patrono della nazione. Una dozzina di clan gli hanno reso onore in quanto antenato. Il colore giallo ne fa una figura centrale, perché lo apparenta all’elemento terra, ma in quanto spirito dell’Orsa Maggiore è anche di natura celeste e identificato come Imperatore-dell’Alto. Maestro delle tecniche, divenne patrono di arti come l’astrologia e le pratiche divinatorie, ma anche dell’alchimia e dell’arte militare. Il suo prestigio supera la semplice storia ufficiale e lo inscrive nelle tradizioni esoteriche del taoismo, chiamate «Le dottrine di Huangdi e di Laozi» (Huanglao). A lui si è attribuito il primo libro di medicina intitolato Il classico dell’interno dell’Imperatore Giallo (Huangdi neijing) che data del iii o ii secolo a.C. Rimasto fino ai nostri giorni il testo base di tutta la medicina cinese, il libro si presenta come una conversazione tra l’Imperatore mitico e un Maestro celeste, gran sacerdote dei misteri del taoismo. La ricerca medica si era con tutta naturalezza ispirata alla ricerca taoista dell’immortalità. Il testo Le biografie degli immortali (Liexianzhuan) ci narra come «... l’Imperatore
Giallo raccolse il rame dal monte Zhou e fuse un vaso tripode alle falde del monte Jing. Quando il tripode fu terminato, un drago dalla barba pendente scese a prendere il sovrano che salì al cielo. I suoi molti ministri e funzionari afferrarono tutti la barba del drago e si elevarono con lui...»2. I Cinque Imperatori e Yu il Grande Nettamente meno differenziati, i Cinque Imperatori (Wudi) che succedono ai Tre Augusti vengono celebrati specie per le loro virtù. Zhuanxu e Ku furono rispettivamente il nipote e il pronipote dell’Imperatore Giallo. Santi e come lui inventori di riti e arti, si fregiarono del titolo religioso «Di», ossia Imperatori divini. Yao e Shun, citati spesso nei testi di scuola confuciana, sono emblematici del buon governo. Di Yao sappiamo che, fattosi vecchio, non abdicò a favore del figlio che non era buono, ma a favore di un pio uomo del popolo, suo genero Shun. Quest’ultimo, arrivato al potere in seguito a prove dalle quali uscì accresciuta la sua pietà filiale, offrì una serie di sacrifici e cominciò a percorrere in lungo e in largo le province dell’impero. Rese così stabile lo spazio e il tempo personificando quel ruolo di perno tra Cielo, Terra e uomini che permarrà il ruolo assegnato a tutti gli Imperatori cinesi. Poi, come Yao gli aveva ceduto il trono nel 2257 a.C., egli lo cedette a sua volta a Yu il Grande nel 2207 a.C. Yu il Grande fu per l’antica Cina un eroe di proporzioni colossali. Chiamato dal suo sovrano a reprimere le acque che montavano fino al Cielo, egli trasse profitto dall’insuccesso di suo padre che aveva tentato di soggiogare i flutti costruendo delle dighe. Yu invece riuscì nell’impresa perché lasciò che la natura compisse la sua opera: aprì la via alle acque, scavò i letti dei fiumi e traforò le montagne. Per tenere sotto controllo le forze ostili del mondo e ristabilire il corso regolare della natura si fece ispirare dai suoi benefici esseri. Abitato, posseduto da loro ne riproduceva gesti e movimenti. Faceva l’orso, impersonava il fagiano e danzava alla loro maniera. Emaciato e rinsecchito, un lato del suo corpo fu colpito da paralisi. Saltellando e trascinando una gamba percorse il mondo per stabilizzarlo e ordinarlo. Fu il maestro agrimensore che divise il territorio in Nove Province, per poi amministrarle e riceverne regolarmente il tributo stabilito. Ricomponendo i frammenti
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la Terra (Kun)
la Montagna (Gen)
il Cielo (Qian)
i Vapori (Dui)
l’Acqua (Kan)
il Vento (Xun)
il Fuoco (Li)
il Tuono (Zhen)
A sinistra: ritratto dello storico Sima Qian. Da un testo conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi. Gli otto trigrammi esprimono la varietà e l’alternanza degli aspetti Yin e Yang nella natura.
Dipinto cinese del xvii secolo: piccoli e grandi sono intenti a guardare un telo su cui è raffigurato il simbolo tradizionale di Yin-Yang, formula universale della vita intesa come movimento. Momenti diversi di un’unica realtà, l’aspetto più manifesto Yin – oscuro, terrestre, femminile – è in dialettica col meno manifesto Yang – celeste, luminoso, maschile. Essi però si compenetrano e si controllano a vicenda.
della leggenda e delle gesta eroiche di Yu, la storia ne fece l’incarnazione dello spirito di sacrificio nei confronti del bene supremo e il perfetto modello del santo re universale, come diceva Confucio3. La sistemazione del mondo si accompagnò all’avvento di un’era nuova. Designando il proprio figlio come successore al trono, Yu introdusse il principio dell’ereditarietà nella trasmissione del potere. Così all’alba del iii millennio a.C. si era appena installata la prima famiglia regnante della storia: il suo nome dinastico fu Xia (2207-1766 a.C.). Le scoperte archeologiche ed epigrafiche testimoniano l’esistenza di una dinastia reale dopo gli Xia, mentre la veridicità del loro regno non è ancora confermata.
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È una dinastia mitica, «finzione» trasmessa dalla storiografia ufficiale? O al contrario dobbiamo vedervi la primissima dinastia dei tempi storici, come nei loro lavori tendono a provare gli studiosi cinesi? Essi sono infatti convinti che gli Xia abbiano presieduto a una tappa determinante nella storia della loro civiltà, cioè la nascita della scrittura e del bronzo. Il dibattito resta aperto. Così i principali elementi della mitologia cinese sui santi sovrani delle origini, rivisti dalla storiografia classica per giustificare e fondare linee dinastiche e gerarchie, mostrano la continuità e la singolarità esemplari delle tradizioni cinesi, in un passato comune ricco e spesso eterogeneo.
Schema di una moneta-tipo cinese: un cerchio con al centro un quadrato. Il benessere rappresentato dalla moneta risulta dallo scambio Cielo (cerchio) e Terra (quadrato).
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Da sinistra in senso orario: Fuxi e Nügua così come ce li presenta l’iconografia tradizionale in un dipinto su seta della dinastia Tang (618-907 d.C.), conservato nel Museo della Regione autonoma Xinjiang Uygur. Si noti che Fuxi solleva con la sinistra la squadra, emblema della terra quadrata, mentre Nügua solleva con la destra il compasso, emblema del cielo rotondo, scambiandosi così gli attributi. Il cielo infatti è maschile e la terra femminile. Ritratto del Divino Coltivatore. Da un’incisione su legno riprodotta sull’enciclopedia Sancai tuhui, nell’edizione del 1607. I punti di agopuntura della parte anteriore del corpo. Schema dal Compendio di agopuntura e moxicombustione di Yang Jizhou (1601). Secondo la medicina tradizionale cinese, di cui l’Imperatore Giallo è il mitico inventore, il corpo umano è percorso da una rete circolatoria di energia. Lungo i suoi percorsi si localizzano i punti di agopuntura, che comunicano in profondità con zone di concentrazione di energia sensibili all’infissione degli aghi e capaci di un’azione terapeutica.
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Dall'alto in senso orario: scena agricola dipinta su mattone. Oggetti simili erano usati per decorare le tombe. Questo è uno degli oltre 600 mattoni dipinti trovati in una sepoltura di Jiayuguan nella provincia di Gansu e databili tra il 220 e il 316 d.C. Una giara in terracotta splendidamente dipinta (2300 a.C. ca.) e conservata al Museo Guimet di Parigi. L’Imperatore Giallo venne considerato all’origine dell’arte dei vasai, così come di altre importanti attività umane, per cui è stato ritenuto il fondatore della civiltà cinese. L’Imperatore Giallo in un disegno rielaborato da un dipinto di Ma Lin (1180 ca.-dopo il 1256), conservato al National Palace Museum di Taiwan.
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Disegno da una pietra istoriata riconducibile allo stile o alla dinastia Han (iii sec. a.C.-iii sec. d.C.). Essa fu poi riprodotta a "stampaggio", arte grafica con cui tali opere si imprimevano su carta. Qui Yu riordina il mondo con un utensile; sullo sfondo, la sua famiglia. La pietra originale si trova nel Tempio di Yu il Grande a Shaoxing, Zhejiang.
Due tripodi da vino in bronzo conservati al Museo di Shanghai, attribuiti alla fase tardiva della dinastia Xia (xviii-xvi sec. a.C.). Il tripode in bronzo, con il suo suono misterioso evocatore degli Spiriti, è destinato a simbolizzare l’Impero e la prosperità delle sue province.
Frammento di un osso oracolare della dinastia Shang (1765-1122 a.C.), con un’iscrizione riguardante la caccia. L’uso di ossa per la divinazione è documentato in Cina fin dalle culture neolitiche del 4000 a.C. Le ossa e il carapace delle tartarughe furono tra i primi materiali usati per scrivere.
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IL MITO HINDU DELL’OCEANO DI LATTE E IL PELLEGRINAGGIO PER LA GRANDE FESTA DEL VASO di Guy Deleury
Kumbha vuol dire vaso d’argilla fatto al tornio da un vasaio per conservare le bevande che gli uomini si spartiscono per estinguere la sete. Significa anche il segno zodiacale dell’Acquario. La festa del Vaso si celebra dunque nel momento in cui il Sole esce dalla costellazione del Coccodrillo (il nostro Capricorno) per entrare in quella dell’Acquario, tra il 14 gennaio e il 21 febbraio dell’anno 2001. Nulla di più di un orcio di terra che ha fatto il giro del mondo da quando i miti indiani, trasposti in racconti, hanno alimentato, a partire almeno dal vi secolo, i racconti di favole di numerose letterature mondiali. Quanto alla costellazione dell’Acquario, i sognatori della New Age la osservano con un’attenzione particolare, affatto nuova. Sotto questo duplice aspetto l’India fa già parte del nostro patrimonio universale: se la grande festa del Vaso può in qualche misura stupirci, è più per la sua prodigiosa vitalità che per il suo effettivo significato. Il vaso
Durante la festa indiana del Kumbha Mela, collegata ai miti sulla ricerca del nettare d’immortalità, i vari gruppi inseriti nelle interminabili file di pellegrini cercano di mantenersi in contatto inventando segnali di adunata. Utilizzano vasi, utensili, stoffe e spesso li issano su bastoni perché si possano meglio individuare.
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Ho una gran paura che tutta questa impresa sarà simile alla burla del vaso per il latte, quella per cui un calzolaio sognava già di farsi ricco; rotto il vaso, non ebbe neppure più di che fare colazione. (Rabelais, Gargantua, 33)
Pierina teneva in capo un vaso per il latte... (La Fontaine, 7,9)
Nel settimo libro delle sue favole, La Fontaine comincia ad attingere dal suo fondo indiano. In La lattaia e il vaso per il latte si ispira a un apologo del Pancatantra, la raccolta classica di favole indiane che risale almeno al vi secolo della nostra era, opera che egli attribuisce a «Pilpai, saggio indiano». E in effetti la si trova, ma sotto il titolo Il brahmano e il vaso per la farina. La morale non cambia, come il sogno non cambia l’uomo; anzi, potrebbe dire Rabelais, maestro di sogni, che nutrono la sua opera: Quale spirito batte la campagna? Chi mai fa castelli in Spagna? Picrocole, Pirro, la lattaia, tutti, insomma, tanto i saggi che i folli, ognuno sogna mentre è desto… Qualche accidenti fa sì che io rientri in me stesso, che io sia fra’ Giovanni come prima.
La Fontaine rimanda alla guerra di Gargantua con Picrocole, che a sua volta rimanda alla burla del vaso per il latte. Forse l’autore del Gargantua si familiarizzò con la tradizione favolistica indiana a Ferrara. Già da un secolo l’Italia, ove Rabelais cercò rifugio dai fulmini della Sorbona, era la grande fucina della cultura
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europea; sotto la spinta dei Valois (Francesco i, Enrico ii) gli scrittori francesi andavano a raffinare i propri strumenti in Italia, gettando le basi del loro Rinascimento. Così Bonaventure Des Périers si ispirò a Boccaccio per redigere le sue Nuove ricreazioni e giocondi ragionari intorno al 1540, in cui si può trovare l’apologo Comparazione degli alchimisti alla buona donna che portava un vaso per il latte al mercato. Gli alchimisti, così alla moda a quel tempo, così presi in giro dagli spiriti arguti, non potrebbero ben corrispondere ai brahmani dell’India di cui si prende gioco il Pancatantra? Il vaso celebrato dalla grande festa indiana non è pieno della farina dei brahmani, e neppure del vino della diva bottiglia di Rabelais, e nemmeno del latte di Pierina. Contiene una derrata meno deperibile: il nettare d’immortalità, l’amrta, la cui ricerca ha mobilitato i sogni dell’umanità sin dai primordi, e in tutti i continenti. L’uomo può diventare immortale? Secondo l’epopea mesopotamica di Gilgamesh né saggi né stolti si sono mai stancati di scoprire la tecnica necessaria; alla cerca del Graal dei nostri antenati celti corrisponde la cerca dell’amrta dei nostri cugini indiani. (A parte il fatto che il Graal era una coppa d’oro puro, mentre il vaso è fatto di volgare argilla). E non è forse il medesimo impulso che spinge tuttora milioni di pellegrini a riunirsi ogni dodici anni sulle rive del Gange? Certo, i saggi pensano che si tratti di pura follia, ma non per questo i folli smarriscono il loro ardore nel tentare quella sorte, con cui i poeti cullano il loro fantasticare. Nell’anno 2001 della nostra era sono stati 70 milioni a radunarsi per immergersi nel Gange; saggi o folli, o semplicemente poeti, gli indiani continuano a prendere sul serio i grandi sogni della loro infanzia. Un altro racconto del loro Pancatantra li spinge a fare così, quello della Scimmia e il coccodrillo, in cui la scimmia rappresenta l’umanità nella sua infanzia, e il coccodrillo l’abitante mitico delle acque cosmiche, che giustamente è il veicolo della dea Ganga, che gli occidentali hanno mascolinizzato chiamandola Gange. Una scimmia si era preparata un rifugio tra le foglie di un giambo, la melarosa, l’albero jambu, che dà al subcontinente indiano il suo nome più antico, jambudvipa, l’isola della melarosa. Si nutriva delle succulente bacche purpuree offerte dall’albero. Un giorno sotto le sue fronde si fermò a riposare un coccodrillo. Era un coccodrillo indiano, e pertanto
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Il mito hindu dell'oceano di latte e la festa del vaso
filosofo. Divenne amico della scimmia che prese a considerarlo il suo ospite d’onore, offrendogli copia di bacche, mentre discutevano sull’immortalità. Il coccodrillo, incantato dalle parole del suo ospite e dalle bacche offerte a titolo di ospitalità, raccontò la propria avventura alla moglie. Costei trovò le bacche squisite, e sapendo che potevano procurare l’immortalità, supplicò il marito di portarle in occasione del prossimo viaggio il cuore della scimmia, che doveva a suo parere essere divenuto la quintessenza dell’immortalità. Il marito obbediente riuscì a convin cere la scimmia a saltargli in groppa per attraversare il fiume fino all’isolotto dove abitava, ma per eccesso di onestà gli rivelò durante il tragitto che all’arrivo la sua dolce sposa gli avrebbe divorato il cuore. La scimmia, scaltra come un cucciolo d’uomo, si scusò: aveva dimenticato il cuore appeso all’albero. Tornò a riva, saltò sull’albero, fuori dalla portata delle terribili mascelle del suo amico, che stizzito non poté far altro che tornarsene tutto solo all’isolotto. Per questo l’uomo poté continuare a nutrirsi della succosa immortalità. Il racconto indiano riprende in effetti, secondo un registro ironico che si addice al saggio e al poeta, il mito panindiano della burrificazione dell’oceano di latte, che sopravvive in numerose versioni, alcune di estrazione brahmanica, altre di ispirazione popolare, che tutte insieme contribuiscono all’immensa fortuna della festa del Vaso. Ci si va a bagnare nel Gange, alla confluenza di questo fiume con la Yamuna, nel luogo detto Prayag in antico e ribattezzato Allahabad all’epoca della dominazione musulmana, senza che il cambiamento di nome abbia potuto intaccare la popolarità inaudita di questa festa. Si tratta nientemeno che di immergersi periodicamente nelle acque primordiali dell’immortalità! Nel corso di questo testo continueremo a utilizzare il nome Prayag che spiega meglio la situazione di questa confluenza, non solamente topografica ma mitologica, come luogo di confluenza tra la terra e il cielo. La carta mitologica del subcontinente indiano è piena di simili luoghi di confluenza, sia geografici che mitologici, ai quali i nostri antenati Galli davano il nome di Condate ovvero Candé. La burrificazione dell’oceano di latte A quel tempo né gli dèi né gli antidèi (meglio chiamarli così piuttosto che diavoli o demoni, epiteti che si inseriscono in un contesto mito-
logico del tutto diverso) e neppure gli uomini erano immortali: tutti aspiravano a diventarlo. Gli dèi tennero dunque consiglio per mettere a punto una tecnica che consentisse loro di conquistare l’immortalità. Il risultato del colloquio fu ambiguo. Si trattava di burrificare l’oceano di latte per estrarne il nettare d’immortalità, ma per portare a compimento l’impresa c’era bisogno dei loro parenti più anziani, gli antidèi. A seconda delle versioni il protagonista dell’operazione è ora Visnu ora Siva, l’una o l’altra delle grandi divinità della trinità hindu (Brahma essendo relegato a un ruolo più virtuale che attivo), ma lo svolgimento dei fatti è simile. E grandioso. Gli dèi sono stati appena battuti dagli antidèi, loro fratelli maggiori, che pertanto dominano il cosmo. La rivalità tra sura (dèi) e asura (antidèi) è altrettanto antica quanto l’invasione delle tribù arie in India. Ai tempi dell’occupazione dell’attuale Iran, l’antica dimora delle popolazioni che in seguito si sarebbero chiamate indo-arie, Ahura Mazda era il Saggio Signore, il Dio della Luce, il cui insegnamento millenarista e nonviolento sarebbe stato trasmesso da Zarathustra. Alcune tribù, forse perché rifiutarono questo messaggio, si spinsero fino in India e fecero dell’antico ahura un asura, sopprimendo poi la a privativa e inventando una nuova classe di dèi, i sura, relegando nelle tenebre gli antichi maestri della luce. Sia come sia, nel contesto mitico della burrificazione così come ce lo racconta il Bhagavata Purana, a quel tempo gli antidèi, guidati dal loro re Bali, regnavano sul cosmo, dunque anche sugli dèi. Dopo il colloquio nel quale questi ultimi avevano discusso le possibilità di porre rimedio a questa situazione intollerabile, si era presa la decisione di fare le viste di trattare la pace con i vincitori per trascinarli a perdizione. Si propose loro di mettersi insieme alla ricerca dell’immortalità. Gli antidèi accettarono. Tutti insieme si diressero dunque verso il monte Mandara (oggigiorno situato nella parte meridionale del Bihar), che fu scalzato dalle radici e trasportato verso l’oceano. Durante il viaggio, spossati dallo sforzo, lo lasciarono cadere. Visnu intervenne nuovamente, afferrò la montagna, la sistemò sul proprio veicolo, il nibbio Garuda, che si levò in volo e la depose sulla superficie dell’oceano. Nel frattempo dèi e antidèi avevano mobilitato l’immenso serpente Vasuki che intendevano utilizzare a mo’ di corda
per fare girare su se stessa nell’oceano la massa del monte. Si noti che questa tecnica di burrificazione era la stessa utilizzata dai brahmani per far scaturire il fuoco sacrificale da un ceppo di legno tenero, facendovi ruotare sopra un ramoscello di legno duro, come d’uso presso gli indiani d’America resi famosi da Jack London. Notiamo anche che le tracce della frizione generata dal serpente Vasuki sono ancora visibili alla base del monte Mandara, sotto forma di due profondi solchi scavati nel granito, e che sono oggetto di pellegrinaggio annuale, nel giorno in cui il sole entra nella costellazione del Coccodrillo (makara-samkranti). La sommità del monte, che in realtà non è più che una collina di 300 metri di altezza, è coronata da due tempietti, uno dei quali contiene una bellissima statua di Visnu nel suo aspetto dell’avatara dell’uomo-leone (Narasimha), che contrariamente al solito è dritto in piedi, e non nell’atto di sventrare l’antidio Bali posto sulle sue ginocchia. L’altro tempio è jaina, consacrato al tirthankara Parsvanatha, l’antesignano del lignaggio, il predecessore del Mahavira Jina che ha dato il nome a questa religione della nonviolenza, il jainismo. Il luogo pertanto è sacro sia per gli hindu sia per i jaina. Dunque gli dèi insieme ai loro amici del momento, gli antidèi, si installarono ciascuno da un lato della montagna rovesciata e si impadronirono del serpente; gli dèi presero possesso della testa, al che gli antidèi rivendicarono in virtù dei loro diritti di primogenitura e di miglior conoscenza delle sacre scritture, i Veda (perché gli antidèi erano anch’essi brahmani), questa sistemazione che ritenevano privilegiata. Gli dèi impugnarono pertanto la coda e cominciarono a imprimere alla massa montuosa un movimento circolare di va e vieni. Dopo un po’ la massa si mise a fluttuare tra le onde a mo’ di succhiello, a rischio di sprofondare. Toccò di nuovo a Visnu intervenire: tramutatosi in una gigantesca testuggine andò a sistemarsi sotto la sommità del monte rovesciato, per impedirgli di scomparire tra le profondità degli abissi. Gli zangolatori si rimisero all’opera con rinnovata energia. Sotto l’azione del bastone di zangola fecero uscire dall’oceano meraviglie d’ogni sorta, tra cui l’elefante con quattro zanne di cui si impadronì Indra, Sri, la bella dea della fortuna scelta in sposa da Visnu, e infine, recato dal medico degli dèi, il vaso che conteneva il liquore d’immortalità.
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Gli antidèi, più pronti all’azione, se ne impadronirono dandosi alla fuga. Gli dèi si lanciarono all’inseguimento. Nel corso di quest’ultimo, quattro gocce del prezioso liquido fuoriuscirono dal vaso: una a Haridvar, nel luogo in cui il Gange esce dallo Himalaya; una a Ujiain, nelle vicinanze della Narmada; la terza a Nasik, sulle rive della Godavari; e la quarta a Prayag, alla confluenza del Gange e della Yamuna, dove finalmente, dopo dodici giorni di inseguimento, gli dèi riuscirono a raggiungere gli antidèi. Allora si sedettero tutti insieme per spartirsi equamente la bevanda d’immortalità. Ma gli dèi erano fermamente intenzionati a privarne gli antidèi. Ancora una volta fu Visnu a prestar loro man forte. Assunse l’aspetto di una cortigiana, Mohini l’incantatrice, suscitando il desiderio degli antidèi, che le consegnarono il prezioso vaso affinché provvedesse alla spartizione. Mentre la loro attenzione era interamente rivolta alla sua bellezza, gli dèi ne approfittarono per vuotare il vaso fino all’ultima goccia. Per questo gli antidèi furono privati dell’immortalità, sebbene la loro durata di vita fosse già più che rispettabile. Due di loro nondimeno si erano insinuati tra i ranghi degli dèi e avevano avuto la loro razione di amrta; ma il Sole e la Luna, dèi gemelli, li avevano scovati, denunciandoli immediatamente a Visnu, prima che avessero il tempo di inghiottirla. Visnu con il suo disco scintillante mozzò loro il capo, che si involò in cielo. Per questo Rahu e Ketu, questi i loro nomi, si sforzano a intervalli regolari di inghiottire Sole e Luna, provocando in tal modo le eclissi. Ogni dodici anni Quattro gocce di amrta caddero dunque in quattro luoghi dell’India, ciascuno dei quali divenne meta di pellegrinaggio. Certo, le folle più numerose presero a radunarsi a Prayag, ma quelle che si danno appuntamento a Haridvar, a Ujiain e a Nasik non sono affatto trascurabili. Così nel 1998 furono più di 10 milioni i pellegrini che scelsero di bagnarsi nel Gange a Haridvar, dove la festa del Vaso si celebra ogni dodici anni, come a Prayag e negli altri siti che videro cadere le gocce di amrta, ma in anni diversi. Ciò che caratterizza pertanto questa festa è il fatto che viene celebrata in ogni luogo ogni dodici anni, ma ogni tre anni per l’insieme dell’India.
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Questo calcolo obbedisce a un sistema calendariale indiano molto antico, ritmato dal percorso del pianeta Giove entro un cerchio zodiacale che ritorna al punto di partenza ogni dodici anni. Ciò che ha reso particolarmente di buon auspicio l’anno 2001 è il fatto che esso chiude un ciclo di 144 anni, vale a dire di 12 volte dodici anni. Dal momento che la nostra festa del Vaso è l’unica a seguire il calendario gioviano, mentre tutte le altre feste indiane, per esempio Divali, Dassara o Holi, seguono un calendario lunisolare, si può ritenere che si tratti di una tradizione più antica di quella rappresentata dallo hinduismo brahmanico. Nel medesimo anno 2001 i jaina hanno celebrato a Sravana Belgola, nello stato del Karnataka, la festa del loro importante santo Bhadrabahu, detto anche Gomatesvara, che riveste particolare importanza appunto ogni dodici anni. La statua colossale del santo viene aspersa di acqua lustrale, di latte, di burro chiarificato, di polvere di zafferano, e i ricchi jaina convenuti da ogni angolo dell’India si disputano il privilegio di provvedere alle enormi spese che comporta una celebrazione di questo tenore. La funzione degli asceti nudi I jaina si dividono in due scuole teologiche principali: i monaci vestiti di bianco, gli svetambara, e quelli che hanno scelto come abito monastico la nudità integrale. Gomatesvara è venerato da quest’ultima corrente, e la statua dimostra che aveva conseguito una piena padronanza dei propri appetiti sessuali. La nudità è il segno esteriore maggiormente visibile di questo controllo dei sensi che permette al monaco di diventare santo, più ancora del digiuno e della mendicità. Spinto all’estremo, tale controllo si estende sino al suicidio per inedia. Al termine del proprio cammino ascetico, Gomatesvara si lasciò morire di fame. Ritto sulla propria montagna, lasciò che le formiche si arrampicassero sopra il suo corpo, sprofondato in una meditazione che sarebbe terminata con la morte. Era divenuto tutt’uno con la vita eterna. Per questo è proprio a Sravana Belgola che ogni dodici anni monaci e monache pronunciano i propri voti monastici definitivi, che risultano particolarmente dolorosi per le monache, che si fanno estirpare ciocca a ciocca le loro belle chiome di giovinette.
Ciò che maggiormente sconcerta i visitatori stranieri, che si mescolano sempre più numerosi ai pellegrini della festa del Vaso, è il privilegio che si disputano gli asceti nudi per poter essere i primi a bagnarsi nel Gange nel giorno stabilito. Si avviano a gruppi compatti secondo le scuole di ascesi alle quali appartengono. Talvolta vengono addirittura alle mani, come accadde a Nasik negli anni ’50. A Prayag nel 2001 tutto andò bene, dal momento che le diverse scuole ascetiche si erano accordate in precedenza per attribuire a una determinata scuola il privilegio della prima immersione. Perché i primi a poter entrare nell’acqua del Gange devono essere per forza gli asceti nudi, i naga? Siamo allo stesso tempo molto lontani e molto vicini rispetto a ciò che si potrebbe definire pratica magica. Certo, l’acqua del Gange, in quanto erede della goccia di amrta, possiede virtù vivificanti di per sé. Ma tali virtù si esauriscono se vengono trasmesse con soverchia abbondanza, come nel caso dei grandi pellegrinaggi. Occorre pertanto attribuire loro un supplemento di efficacia. I naga, con la forza derivata dalla loro ascesi, hanno acquisito una potenza vitale formidabile. Immergendosi nella loro nudità integrale, comunicano in certo modo tale forza alle acque del fiume, rinnovandone il potere vivificante. Detto altrimenti, è la virtù della loro ascesi che si trasmette, mediante una sorta di comunione dei santi, ai milioni di pellegrini che si immergeranno nei flutti dopo di loro. Il rito del bagno In realtà tutti i fiumi dell’India sono sacri, e pressoché tutti i templi posseggono una piscina in cui i pellegrini compiono le loro abluzioni prima di penetrare nel santuario. Per esempio la Narmada, che separa l’India del Nord da quella del Sud, è meta di un immenso pellegrinaggio che parte dalla foce per risalire sino alla sorgente e poi ridiscendere lungo l’altra riva. Lungo l’intero corso del fiume luoghi particolarmente sacri attirano i bagnanti. Ma più a sud la Godavari, la Bhima, la Krsna, la Kaveri sono altrettanti fiumi sacri. All’estrema punta meridionale della penisola, a Ramesvaram e a Kanyakumari, è il mare a offrire ai pellegrini le proprie acque di vita, come a Puri sulla costa orientale, e a Dvaraka su quella occidentale. A Kumbakonam nei
pressi di Tanjavur, in area tamilica, una vasta piscina circondata da templi è meta di una grande festa ogni dodici anni, nel giorno in cui secondo la tradizione il Gange, attraverso misteriose vie sotterranee, giunge a vivificarne le acque. A Tuljapur, in area maratta, la piscina del tempio si onora di una leggenda consimile, e si racconta che un giorno un asceta nudo, Garibnath, per accertarsene gettò a Prayag nel Gange un ramoscello e un piccolo limone verde. Qualche mese più tardi, mentre si bagnava nella piscina di Tuljapur, più di mille chilometri a sud di Prayag, vide galleggiare sull’acqua lo stesso ramoscello e lo stesso limone. Del resto vuole la leggenda che all’origine ci fossero i tre fiumi che confluiscono a Prayag, il Gange, la Yamuna e la nascosta Sarasvati, il fiume invisibile, che per ordine di Brahma fuoriescono insieme a Tuljapur con un gran gorgogliare che dà alla piscina il suo nome di Kallola, vale a dire «tumultuosa». In certo modo tutti i corsi d’acqua in India sono considerati come provenienti da un’unica fonte, dalla medesima falda freatica cosmica. Sono tutte fiumane apportatrici di vita. Immergersi in un punto qualunque del loro corso equivale ad assicurar si una longevità prolungata, ossia l’immortalità, dal momento che l’uscita dal ciclo delle rinascite è considerata alla stregua dell’attraversamento di un fiume e dell’ottenimento definitivo dell’altra riva. Come cantava nel xvii secolo Tukaram1 rivolto al suo Dio mentre contemplava il fiume Bhima sulle cui rive si ergeva il tempio della sua divinità di elezione, Vithoba: Il tuo nome è una zattera; ho traversato il fiume del mondo. Eccomi, eccomi arrivato ora, sto danzando ai piedi dei santi. (Salmo 70)
La metafora del fiume diventa chiara a Prayag, le cui rive sono sacralizzate dai piedi dei santi che vi si radunano per la festa del Vaso. E non è un caso che i santi jaina siano insigniti del titolo di tirthankara, termine che significa «coloro che passano il guado». In tal senso il bagno rituale non si riduce, come spesso si crede, a lavarsi delle colpe passate. Certo, le piscine che si trovano ai piedi del colle Mandara o alla sommità del poggio di Tuljapur sono sì
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chiamate papaharini, vale a dire liberatrici dai papa, ma quest’ultimo termine non significa peccato nell’accezione occidentale del termine, ma piuttosto pesantezza, debito o demerito. Immergendosi in un’acqua sacra, ci si libera dei propri debiti, della pesantezza che ci avrebbe condannati a morte. Si esce dal bagno più leggeri, più pronti ad attraversare senza perdersi d’animo le difficoltà della vita. Bagnarsi vuol dire scommettere sulla vita. L’eminente dignità dei piedi La molteplicità dei fiumi sacri e dei luoghi di pellegrinaggio in India, e il loro continuo potere di attrazione nei confronti di una società che si sta appropriando sempre più in fretta e più profondamente degli strumenti tecnici della modernità e dei più razionali progressi scientifici, fanno di questo subcontinente un enigma appassionante. Tra i 70 milioni di pellegrini che si accalcavano per immergersi si sarebbero potuti trovare numerosi ingegneri di impianti nucleari, informatici, avvocati abbienti, medici ben addestrati nelle tecniche chirurgiche più recenti. Cosa potrebbe essere più logico in fondo, dal momento che fu proprio il medico degli dèi, Dhanvantari, a far emergere dal mare burrificato e a recare con sé il vaso della panacea universale, l’amrta d’immortalità! Ciò che è tuttavia caratteristico di questo pellegrinaggio, come di tutti gli altri che hanno luogo in India, è che gli specialisti della modernità si trovano stretti gomito a gomito in modo naturale e fraterno con i contadini e gli artigiani che spesso non sanno leggere né scrivere. Forse analfabeti, ma ricchi di una profonda cultura. In Europa la teologia è stata da molto tempo riconosciuta come proprietà esclusiva dei monaci nei loro monasteri o dei preti nelle loro sacrestie, e la cultura come proprietà esclusiva degli intellettuali e degli universitari. Al contrario in India da epoca immemorabile gli attori più creativi della cultura e della religione sono sempre stati i contadini e gli artigiani, che nel corso dei secoli hanno arricchito una tradizione orale che si è sempre rinnovata senza posa attraverso l’opera di poeti via via nuovi. Piuttosto che orale la si potrebbe definire pedonale. Infatti è camminando lungo gli itinerari di pellegrinaggio che gli indiani si iniziano alla loro cultura, mentre il canto dei poeti gli penetra fi-
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no nel profondo del cuore. All’epoca in cui radio e televisione non esistevano ancora, e il libro era strettamente riservato ai soli brahmani, contadini e artigiani non avevano a disposizione che i piedi per introdurli alle voci dei fiumi e alle leggende relative ai luoghi sacri. Spostandosi in pellegrinaggio dallo Himalaya a Capo Comorin, dall’Indo al Brahmaputra, raccoglievano nella bisaccia della memoria gli insegnamenti dei loro santi, provenissero essi dal Panjab, dal Bengala o dall’area tamilica. Col sudore di innumerevoli piedi costruirono la loro identità culturale, oltrepassando da ogni parte una specificità che non poteva essere altro che hindu. Infatti qua e là il poeta che le dava voce poteva talvolta essere musulmano, sikh, jaina, buddhista o cristiano. Il piede è così poco settario da trovarsi a proprio agio lungo tutte le strade. Non domanda al santo chi sia il suo Dio, ma gli chiede come canta il suo cuore. E talora il pellegrino, penetrato dalla musica che ascolta, si mette a ballare. Dio, chiunque Egli sia, non lascia sulla terra altro che le sue impronte; come si potrebbe scorgere il suo viso dal punto di osservazione della polvere della strada? Siva, Krsna, Rama, Durga, Sri, Dio o Dea, i loro piedi si somigliano tutti. E i santi mentre camminano mettono i piedi nelle orme delle divinità, assicurandosene la presenza sempre pregnante in questo nostro mondo transitorio. Così cantava Tukaram nel suo Maharastra nel xvii secolo, come cantano oggigiorno i pellegrini del xxi secolo: Fammi essere, o Signore, un sassolino, una pietra o polvere sulla strada di Pandharpur, per essere calpestato dai piedi dei santi! Fammi essere, o Signore, zoccolo o sandalo ai piedi dei santi, fammi essere il loro gatto, il loro maiale, il loro cane, per mangiare i resti del loro pasto presso di loro! Fammi essere, o Signore, il cammino che scende giù ai pozzi, al ruscello, al fiume, per ricevere l’impronta dei loro piedi! Non importa il posto dove mi metti, se i piedi dei santi mi toccano. Concedimi questa grazia e mi farò gioco delle rinascite. (Salmo 90)
Pandharpur era un po’ la Prayag dello stato del Maharastra, e la Bhima, chiamata anche fiume della luna crescente (Candrabhaga), era il suo Gange familiare. Risalendo lungo il Gange e facendo ritorno al luogo natio i pellegrini prolungavano fino al loro villaggio le orme della presenza di Dio, come i musulmani rientrando dalla Mecca o i cristiani da Compostela. Un quadro più interattivo di quello di internet ricopre di convivialità uno spazio sempre più vasto in cui gli esseri umani ricominciano a vivere sostenuti dalla fiducia e dalla speranza. In compagnia dei santi. La buona compagnia Nel 2001 furono due milioni alla Mecca, di cui parecchie migliaia provenivano dall’India; furono 70 milioni a Prayag, di cui parecchie migliaia provenivano dalla diaspora indiana d’America e d’Europa, senza contare gli occidentali venuti per curiosità o spinti da una segreta connivenza a prendere parte a quello che non era uno spettacolo ma piuttosto un’affermazione collettiva di speranza nel futuro. Esistono in India, come abbiamo già segnalato, migliaia di luoghi sacri in cui folle imponenti si radunano periodicamente. Ma per quale scopo, se non per essere insieme? A Prayag ci si immerge per di più in una confluenza cosmica. Il Gange e la Yamuna scendono dalle nevi dello Himalaya; il terzo fiume, la Sarasvati, sbuca fuori dalle viscere della terra, e poi c’è il fiume costituito dalla folla degli uomini. Misteriosa Sarasvati. È la Dea della parola armoniosa, del canto, della danza e pertanto della saggezza condivisa. Suona la vina, sorta di liuto indiano che i poeti pizzicano mentre compongono i loro inni. Tukaram non si metteva mai in viaggio senza la sua vina, conservata tuttora viva nel suo museo di Dehu nel Maharastra: viva perché giorno e notte e giorno dopo giorno un cantore la fa vibrare usandola come accompagnamento per la recitazione di poemi ispirati. Nell’iconografia Sarasvati cavalca lo hamsa, l’oca selvatica affidatale come cavalcatura dal suo padre e consorte Brahma. Ebbene, lo hamsa, l’uccello migratore dalle lunghe rotte che parte per nidificare a Nord sorvolando lo Himalaya, è anche la metafora vivente dell’anima trasmigrante dell’uomo, che spinto dall’ascesi o dall’amore migra
fino ai piedi di Dio. Ispirando a loro volta i poeti sino dalle origini del subcontinente indiano, dai canti del Rgveda fino a quelli di Tukaram e dei poeti contemporanei, le possenti onde dei canti ispirati da Sarasvati hanno irrigato tutta la storia dell’India. Immergendovisi a Prayag, il pellegrino si riallaccia alla propria tradizione immemoriale e non settaria. Perché è un’onda cosmica quella che si diparte in poemi immortali da ogni nuova nascita del mondo. Per l’India in effetti non c’è una fine del mondo definitiva: il cosmo sorge, cresce, svanisce e rinasce senza posa. Secondo il calendario gioviano che sta alla base della festa del Vaso, l’anno 2001 ha segnato la fine di un grande ciclo di 144 anni e l’inizio di un ciclo nuovo. È un giorno in cui il cosmo ritrova la propria giovinezza, l’umanità i suoi primi balbettamenti poetici; il giorno in cui ogni cosa ricomincia seguendo un nuovo percorso, un pellegrinaggio lungo un cammino in cui i santi del tempo passato non ci hanno lasciato altro che le impronte per mostrarci la direzione che hanno preso, senza indicarci la meta del viaggio. Bisogna rituffarsi nella fonte primeva per restituire vigore ai piedi da cui misteriosamente è tolta la stanchezza. Quale che sia il calendario da seguire, gioviano, giuliano, cristiano o musulmano, l’uomo del subcontinente indiano ogni mattina deve rimettersi in cammino. Ma al ritorno da Prayag, da Pandharpur, o da non importa quale altro luogo sacro, in cui abbia venerato i piedi dei santi interiorizzandone le composizioni poetiche, continuerà a rammentarle senza posa, quali che siano le sue colpe. In un bellissimo poema che segue un calendario suo proprio, Namdev, grande poeta del xiv secolo, ha composto un inno che forse in occasione della festa del Vaso i pellegrini che provengono dal Maharastra mormorano ancora tra sé: Nella ventottesima età, ritto su un mattone, accompagnato dalla sua divina radiosa consorte, il Dio invisibile si reca incontro al suo devoto, e il fiume diventa sacro. Nelle feste annuali, il popolo dei bhakta viene a immergersi nella Candrabhaga; alla vista dei suoi flutti ottiene la liberazione. Dinanzi al suo Dio, Namdev muove la lucerna della sua passione. (Salmo 2101)
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Namdev era sarto in un minuscolo villaggio. Sarasvati venne a cercarlo e ne fece un sommo poeta. Lasciò la bottega, imparò a suonare la vina, si circondò di musicisti e si mise a percorrere in lungo e in largo non solo la sua regione, il futuro stato del Maharastra, ma l’intera India settentrionale. In Panjab il contabile che sarebbe divenuto Guru Nanak compose i suoi poemi e fondò il sikhismo; a Benares il tessitore Kabir si mise a intessere poemi ascoltandolo e divenne il più popolare dei poeti in hindi; in Rajasthan la principessa rajput Mirabai fece lo stesso, e i suoi canti mistici occupano tuttora una posizione di tutto rilievo tra le trasmissioni radiofoniche indiane. Certo, l’India è immensa, ma la rete delle sue strade è fitta, e i suoi poeti furono in ogni tempo dei nomadi. I nostri trovatori e trovieri viaggiarono altrettanto alla loro epoca, ma da una corte principesca all’altra. I trovatori indiani come Namdev invece andavano di villaggio in villaggio, di luogo santo in luogo santo, e il loro uditorio era costituito dai contadini, i più esigenti, i più reattivi. Una festa come quella del Vaso a Prayag attira principalmente lo stesso pubblico di conoscitori esperti, giunti, ancora una volta come lo stesso Namdev, a celebrare la nascita di una nuova era. Questa formidabile marea umana che ogni dodici anni arriva a sommergere le rive del Gange a Prayag non deve la sua origine alla rivelazione di una teofania specifica, che si sarebbe prodotta in questo luogo del continente indiano. Né Visnu né Siva l’hanno scelta come sede di elezione di un loro avatara, come fece Visnu-Rama ad Ayodhya o Siva a Benares. È ben vero che la tradizione brahmanica ha cercato di trasformare la testuggine della burrificazione dell’oceano di latte in un avatara, ossia in una discesa, un’incarnazione della divinità che interviene negli affari umani. L’animale fa in effetti parte della lista dei 10 avatara di Visnu secondo la mitologia ortodossa, dopo quello del pesce (matsya) e prima di quello del cinghiale (varaha) e dell’uomo-leone (narasimha). Ma questa serializzazione nasconde con un certo disagio un recupero relativamente tardo effettuato dalla speculazione brahmanica di una tradizione popolare certo più antica. È stato notato che il mito della testuggine era celebre a Haridvar, a Ujiain e a Nasik, come pure in numerosi distretti meno noti, come la confluenza della Pravara e della Godavari nel Maharastra, dove si racconta il
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mito della burrificazione dell’oceano di latte. Non si tratta in alcun modo di luoghi teofanici che sarebbero stati testimoni di una «discesa» di Dio; piuttosto siamo di fronte a luoghi epifanici, nei quali una verità cosmica viene riattualizzata a intervalli regolari per il tramite di una festa. Prayag appartiene a questa categoria; cosmica e pertanto non-settaria, dunque totalmente inadatta, al contrario di Ayodhya o di Mathura, a fungere da supporto a un’identità confessionale quale che sia. Mentre un luogo teofanico come Ayodhya è suscettibile di diventare un centro di esclusione (all’occasione, di coloro che non riconoscano Rama come loro divinità settaria), un luogo epifanico rimane un luogo di inclusione, di incontro, di condivisione. Questo era già il messaggio di Namdev. La sua divinità di elezione, Vithoba, non era rappresentata che da un mattone appena segnato da un’impronta, segno di una presenza sempre attuale e sempre riattualizzata, non in un luogo geografico, ma ovunque si posino i piedi dei santi che celebrano e condividono il suo amore appassionato. È affascinante ricordare che Namdev è stato contemporaneo del grande poeta italiano Guido Cavalcanti, amico e in certo modo vittima di Dante, cantore a sua volta dell’amore appassionato come metafora tragica dell’amore divino. I pellegrini della festa del Vaso, particolarmente quelli della celebrazione del nuovo ciclo di età nell’anno 2001, si sono radunati a milioni unicamente per immergersi insieme nei flutti cosmici della loro passione per la Vita.
Semplici vasi in argilla neolitici provenienti dalle regioni delle civiltà urbane fiorite nella valle dell’Indo, conservati al Museo Prince of Wales, a Bombay. Un lota, o vaso di metallo, tenuto in alto a forza di braccia, segnala il punto di riunione del gruppo.
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Vaso decorato a disegni geometrici proveniente dalla città dell’Indo Mohenjo-Daro, in Pakistan, databile al ii millennio prima della nostra era. L’immensa folla di pellegrini arrivati a Prayag per la grande festa del Kumbha Mela.
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Scimmie che si aggirano attorno al tempio di Shiva sull’isola di Elephanta, al largo di Bombay. A fronte: Ganga, la dea del fiume Gange, rappresentata in un bassorilievo della metà del v secolo d.C., proveniente dall’India centrale e conservato al Museum of Fine Arts di Boston. Le immagini di divinità fluviali, in particolare Ganga e Yamuna, spesso sovrastano l’ingresso ai templi: sono allusioni simboliche ai poteri purificatori delle acque. Qui la dea è sopra il makara, la creatura acquatica, un misto di pesce, coccodrillo ed elefante, che tradizionalmente le si associa. È inoltre affiancata da due nani semidivini, i gana.
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Particolare di un dipinto del xviii secolo, proveniente da Jaipur e conservato al Victoria and Albert Museum di Londra. Anche qui è raffigurato il mito della burrificazione dell’oceano di latte. Si noti che Visnu è ritratto, oltre che con i suoi emblemi, con il caratteristico colore blu, che indica la sua infinita statura e si associa al cielo e al mare. Visnu cavalca Garuda e tiene in ciascuna delle quattro mani i suoi attributi: un disco, una mazza, una conchiglia, un loto. Disegno da una statuetta di scisto verde del ix secolo d.C., conservata a Los Angeles, al County Museum of Art.
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Il mito della burrificazione dell’oceano di latte così come è rappresentato nel frammento scolpito di un timpano del santuario di Phnom Da, in Cambogia (xi-xii secolo), frammento oggi conservato al Museo nazionale di Phnom Penh. Al centro, Visnu si aggrappa al monte Mandara, appoggiato sulla tartaruga e le due schiere di dèi e antidèi manovrano il serpente per burrificare l’oceano di latte. Sopra Visnu è ritratto il dio creatore Brahma, affiancato da Sole e Luna.
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Un autobus, nel distretto di Garhwal (Uttar Pradès), raccoglie alcuni pellegrini che saliranno alle sorgenti del Gange, sull’Himalaya. Nel giorno ritenuto più fausto della celebrazione del Kumbha Mela, gli asceti nudi hanno il privilegio d’immergersi per il bagno rituale. La cartina indica le località dell’India dove, secondo la tradizione mitica, caddero dal vaso che conteneva il prezioso liquido le quattro gocce del nettare d’immortalità.
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Un asceta nudo cosparso di cenere, elemento reso puro dal fuoco, benedice un ragazzo. Si noti l’offerta in denaro lasciata dai passanti, perché il luogo di soggiorno della confraternita che ospita l’asceta possa sopravvivere. I pellegrini si prostrano a terra dopo il passaggio dei santi asceti, coprendone le orme con il corpo. È una cerimonia che si chiama "bagno di polvere".
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Una donna compie l’abluzione di rito in un angolo tranquillo. Lo stesso gesto è compiuto da un uomo, che per il pellegrinaggio si è rasato il capo, cosa che talvolta fanno anche le donne.
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Un brahmano, riconoscibile dal cordone brahmanico bianco e dalla veste cerimoniale rossa, compie un rito particolare che richiede concentrazione per essere eseguito correttamente. Una donna offre dell’acqua al dio Sole, un gesto abituale e spesso osservabile lungo le rive del Gange. A fronte: tempera su tela proveniente dal monastero buddista di Taglung, in Tibet, conservata al Museo Guimet di Parigi, che ritrae il venerabile maestro Tashipel, morto nel 1210. Il dipinto s’impone per le grandi orme di piedi a fianco di Tashipel. I Tibetani adottavano le antiche tradizioni brahmaniche e buddiste che riconoscevano carattere sacro alle impronte dei piedi, oltre che delle mani.
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Pellegrini sulle rive sabbiose alla confluenza dei tre fiumi, il Gange, la Y amuna e l’invisibile Sarasvati.
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Pellegrini radunati attorno a un fuoco in un momento di convivialità.
Disegni che mostrano le personificazioni dei tre fiumi, la cui confluenza si trova a Prayag. Da una scultura di Ellora, sull’altopiano del Deccan: la dea Ganga sul makara. Da una scultura gupta (Baxar, v secolo): Yamuna sulla tartaruga. Da una raffigurazione moderna: Sarasvati che cavalca l’oca.
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Nella stampa di una tipografia di Mathura, nell’Uttar Pradès, città natale di Krishna e meta di pellegrinaggi, è segnato il percorso dei pellegrini. Un nastro sinuoso attraversa boschi e parchi, mentre una striscia verticale rappresenta il fiume Yamuna, dove nuotano pesci e testuggini.
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Un hindu riconoscibile dai segni sulla fronte partecipa alla grande festa del Vaso. Identificabile dal turbante, un seguace del sikhismo, una riforma dell’Induismo in chiave monoteista ed egualitaria che ha trovato discepoli anche all’interno dell’Islam. È anch’egli presente a Prayag, in occasione del Kumbha Mela. In una raffigurazione moderna Sarasvati suona la vina, il liuto indiano a quattro corde, due di acciaio e due di metallo, suonato a pizzico.
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La marcia di un pellegrino, uno tra i milioni che arrivano alla confluenza dei tre fiumi, Gange, Yamuna e la mitica Sarasvati, durante il Kumbha Mela.
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Una veduta del sito archeologico di Tula (stato di Hidalgo, Messico). Capitale dell’impero tolteco, che fiorì tra il 900 e il 1100 d.C. e fu teatro della storia sacra dell’uomo-dio Quetzalcóatl.
MITO E STORIA NELLA TRADIZIONE MESOAMERICANA: IL CASO DI TOLLAN di Davide Domenici
Il mito mesoamericano Lo studio del mito mesoamericano si fonda su fonti molto diverse ed eterogenee come l’iconografia dei monumenti antichi, i codici pittografici indigeni, le glosse apposte ai codici pittografici in età coloniale e gli scritti di storici e religiosi indigeni, meticci ed europei. Nelle narrazioni mitiche delle popolazioni indigene attuali, pur molto lontane nel tempo, si possono inoltre trovare molti elementi antichi preservatisi grazie alla notevole persistenza che caratterizza la tradizione mitico-religiosa mesoamericana1. Secondo Alfredo López Austin, il mito mesoamericano esprime i «processi divini per mezzo dei quali nacquero nell’altro tempo-spazio gli esseri individuali, le classi e i processi del mondo abitato dall’uomo»2. Il mito cioè, narrandone le origini, fornisce «le ragioni originarie» del mondo, delle sue forme e dei suoi abitanti; è, insomma, un paradigma che spiega il mondo e al quale il mondo si adatta. Data la sua funzione paradigmatica, non sorprende che i temi fondamentali del mito mesoamericano siano quelli relativi alla creazione del cosmo e degli esseri viventi. Gran parte della mitologia rilevabile nelle fonti antiche è infatti una mitologia di carattere cosmogonico e cosmologico3, nella
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quale si narrano gli atti creativi che portarono le cose e gli esseri viventi ad assumere la loro forma attuale. Nel tempo del mito tutti gli esseri erano costituiti da un’essenza «leggera», divina, che permetteva loro di trasformarsi continuamente nel corso delle mirabolanti «avventure formative» delle narrazioni mitiche; nel momento della creazione del mondo, che spesso coincide con il sorgere del primo sole, la sostanza leggera degli esseri mondani venne però imprigionata nella materia pesante e immutabile del corpo. In quel momento ebbero inizio il tempo mondano e il divenire storico. Gli esseri divini, essendo ancora composti di pura sostanza «leggera», sono capaci di transitare dal mondo sovrannaturale a quello degli uomini, sul quale agiscono ciclicamente secondo l’ordine calendarico creando popoli, influenzandone la vita, ecc. Oltre ai grandi miti delle origini, dunque, esistono miti relativi alla costante interazione tra gli dèi e gli uomini, tra il tempo assoluto e il tempo della storia: sono i cosiddetti «miti storici» o «storie sacre». Tollan e Quetzalcóatl La più celebre delle «storie sacre» della tradizione mesoamericana è certamente
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quella relativa all’uomo-dio Quetzalcóatl e alla città di Tollan, riportata da un gran numero di fonti4. Sebbene dalla collazione di queste fonti, spesso contraddittorie, sia sostanzialmente impossibile ricavare una narrazione unitaria e priva di aporie, possiamo comunque riassumere le linee principali della vicenda che ha per protagonista Ce Acatl Topiltzin Quetzalcóatl («Uno Canna Nostro Prezioso Signore Serpente Piumato»).
Glifi dei giorni del calendario cerimoniale, tra i tanti intagliati nei monumenti scultorei in pietra di Xochicalco (650-900 d.C.), una delle capitali che sono state collegate al mito della città idealizzata e di Quetzalcóatl (stato di Morelos, Messico). Il calendario cerimoniale era lo strumento principe di connessione tra il tempo storico e il tempo del mito.
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Mito e storia nella tradizione mesoamericana
Nato nel Messico Centrale in un anno 1 Canna, sin da giovane Ce Acatl Topiltzin intraprese un rigoroso apprendimento rituale di tipo ascetico. Dopo una serie di imprese guerriere legate alla morte di suo padre Mixcóatl, il giovane divenne sacerdote del dio Quetzalcóatl («Serpente Piumato») mutuandone il nome. Una volta avuti i poteri sacerdotali, Ce Acatl Topiltzin Quetzalcóatl si recò nella città di Tollan («Luogo delle Canne», in molte versioni fondata dallo stesso Ce Acatl) dove riuscì ad assumere il potere regale che era stato di suo padre. Nella città convivevano i Toltechi Chichimechi di origine settentrionale (gruppo originario di Mixcóatl) e i Nonoalca, di antica tradizione mesoamericana. Il regno di Quetzalcóatl a Tollan è descritto come un periodo di grande benessere e splendore, caratterizzato dalla fioritura delle arti e del sapere sotto la guida di un sovrano esemplare per la sua condotta ascetica e per la sua avversione ai sacrifici umani. A turbare questo quadro idilliaco, però, intervennero dei malevoli nemici di Ce Acatl, generalmente identificati con Tezcatlipoca («Specchio Fumante»), la divinità che nella cosmologia mesoamericana si oppone costantemente al dio Quetzalcóatl. Svergognato dai peccati di ubriachezza e incesto ai quali fu indotto, Ce Acatl Topiltzin Quetzalcóatl abbandonò Tollan per iniziare una migrazione che lo portò prima nella città di Cholula e poi in un luogo chiamato Tlapallan («Terra Rossa»), dove morì e venne assunto in cielo come Stella del Mattino (uno degli aspetti di Venere). Secondo un’altra fonte, prese il mare verso est dopo aver profetizzato il proprio ritorno. Remoti echi di questa vicenda – contraddistinta da una forte ambiguità tra l’uomo Topiltzin Quetzalcóatl e la divinità creatrice Quetzalcóatl – si riscontrano anche in regioni lontane dall’Altopiano Centrale come le montagne della Mixteca, le pianure dello Yucatán e gli altipiani del Guatemala. In tutti questi luoghi – dove il nome del sovrano si trasforma in quelli di Kukulkán, Gucumatz, Nacxitl, Tepeuhqui e molti altri – egli è sempre ricordato come sovrano esemplare, leader di migrazioni e fondatore di città; alla sua figura rimontano spesso le origini dei locali
gruppi di potere. Alcune fonti yucateche come il Chilam Balam de Chumayel e la Relación de las Cosas de Yucatán di Diego de Landa, in notevole coincidenza con le fonti del Messico Centrale narrano dell’arrivo in Yucatán di un individuo chiamato Kukulkán («Serpente Piumato» in maya yucateco), insediatosi al governo di Chichén Itzá. Generazioni di studiosi si sono misurati nell’analisi del ciclo storico-mitologico che narra le gesta di Quetzalcóatl, dibattendo sulla possibilità di ricavare dati di carattere genuinamente storico da narrazioni profondamente «intrise» di mito. Se alcuni studiosi credono fermamente nella realtà storica di Ce Acatl Topiltzin Quetzalcóatl, altri ritengono invece che si tratti di un personaggio puramente mitico, irriducibile quindi a una figura storicamente esistita5. Se Quetzalcóatl è il protagonista della controversia, la città di Tollan ne è lo scenario principale e anche la sua identità storica è stata quindi oggetto di discussione: si trattò di una città mitica o di una vera capitale «tolteca» governata dall’uomo Ce Acatl Topiltzin? Le fonti descrivono Tollan come una città splendida, abitata da un popolo – i Toltechi – al quale si attribuivano virtù e capacità artistiche straordinarie. Lo splendore dell’antica Tollan è ben esemplificato dalla descrizione che Bernardino de Sahagún fa del locale tempio di Quetzalcóatl: C’era anche un tempio del loro sacerdote chiamato Quetzalcóatl, molto più elegante e prezioso delle loro case, composto da quattro stanze: una stava a oriente, ed era d’oro, e la chiamavano la stanza o casa dorata, perché invece dell’intonaco aveva placche d’oro molto finemente inchiodate; l’altra stanza stava a occidente e la chiamavano stanza degli smeraldi e dei turchesi, perché dentro aveva pietre preziose di ogni tipo, tutto collocato e unito al posto dell’intonaco, come un mosaico, degno di grande ammirazione; l’altra stanza si trovava a mezzogiorno, che chiamano sud, ed era di diverse conchiglie marine e invece dell’intonaco aveva argento e le conchiglie di cui erano fatte le pareti erano collocate così abilmente che non si vedevano le giunture; e la quarta stanza era a nord, e questa stanza era ornata di pietra rossa e diaspro e di conchiglie6.
Alla ricerca di Tollan Sin dagli ultimi decenni del xix secolo gli studiosi «storicisti» si affannarono a cercar di capire dove si trovasse la vera Tollan, scontrandosi con l’ambiguità delle fonti: se nell’opera di Sahagún la si identifica chiaramente con Tula Xicocotitlan, l’attuale sito archeologico di Tula de Allende nello stato di Hidalgo, in altre fonti il nome di Tollan è invece esplicitamente associato a siti come Teotihuacan, Colhuacan, Cholula e alla stessa México-Tenochtitlan, capitale degli Aztechi. Per non parlare poi del Memorial de Sololá, una fonte degli altipiani maya del Guatemala, dove si afferma che esistevano quattro Tulán: una a oriente, una a occidente, una nello Xibalbáy (il mondo sotterraneo dei morti) e una «dove sta Dio». Le due principali candidate al titolo di «Tollan storica» sono sempre state T eotihuacan (stato di México) e Tula de Allende (Hidalgo). La prima, la più grande metropoli del Messico antico cresciuta tra l’inizio dell’era cristiana e il vii secolo d.C., possedeva indubbiamente le physique du rôle, mentre la seconda, fiorita tra il 900 e il 1250 d.C., sebbene molto meno spettacolare poteva contare su n otevoli corrispondenze geografiche e cronologiche con quanto affermato in alcune fonti. La diatriba giunse a una temporanea conclusione nel 1941 quando Wigberto Jiménez Moreno dimostrò (principalmente sulla base della ricorrenza di alcuni toponimi) che la Tollan menzionata nelle fonti azteche era indubitabilmente Tula de Allende. Le sempre più evidenti somiglianze tra Tula e Chichén Itzá confermavano inoltre la corrispondenza tra le due città e quelle menzionate nel mito della migrazione di Ce Acatl Topiltzin. Nonostante la resistenza degli studiosi che continuavano a non credere nella storicità del mito e di coloro che propendevano per identificare Teotihuacan con la Tollan delle fonti, la questione parve essere sostanzialmente risolta. La Tollan mitica e le sue repliche terrene A partire dai primi anni Settanta la prospettiva ha cominciato a cambiare nuovamente. L’approccio rigidamente storicista è
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stato messo in discussione, privilegiando invece lo studio del rapporto tra la narrazione mitica e le esigenze di legittimazione dei sistemi di potere mesoamericani. L’uomo-dio Topiltzin Quetzalcóatl7, portavoce terreno dell’omonima divinità, era un modello ideale di governante al quale si rifacevano i numerosi omonimi governanti terreni della storia mesoamericana. Tollan, di conseguenza, era un modello ideale di città, un vero e proprio «centro dell’Universo». Nelle parole di Davíd Carrasco, «Quetzalcóatl e Tollan erano simboli religiosi nel senso che rivelavano e mostravano sacri modi di essere nella società precolombiana. [...] Tollan era un simbolo di spazio sacro e Quetzalcóatl era un simbolo di autorità sacra». Quindi, «c’erano molte Tollan, città che simboleggiavano in modi diversi l’interazione tra lo spazio terrestre e il disegno celeste»8. Secondo lo stesso autore, il rapporto tra il personaggio Quetzalcóatl e l’omonima divinità può essere così riassunto: «Il Quetzalcóatl umano è il fondatore, l’organizzatore e il signore di un tipo ideale di città, mentre il dio Quetzalcóatl è il creatore, organizzatore e talvolta il signore del cosmo [...]. Entrambe le figure funzionano come creativi ordinatori del mondo»9. Questo rapporto tra la città sacra e il luogo della creazione originaria è evidente anche nella somiglianza, sottolineata da Michel Graulich10, tra Tollan e il Tlalocan, il ricchissimo «paradiso originario» della mitologia nahua, come si evince ad esempio dalla descrizione che Sahagún fa del regno dei Toltechi: Dicono che [Quetzalcóatl] era molto ricco e che aveva tutto il necessario per mangiare e bere e che il mais (sotto il suo governo) era abbondantissimo, e le zucche molto grasse [...], e le pannocchie di mais erano così lunghe che si portavano abbracciate; e i fusti di amaranto erano molto lunghi e grassi e che ci si arrampicavano come fossero alberi; dicono che seminavano e raccoglievano cotone di tutti i colori, rosso, color carne e giallo e rossiccio, bianco, verde e azzurro e nero, e marrone e arancione e beige, e questi colori del cotone erano naturali, nascevano così; dicono poi che nella città di Tulla si allevavano
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molti e diversi generi di uccelli dalle piume preziose e colorate [...] e altri uccelli che cantavano dolcemente e soavemente11.
Parallelamente al procedere dello studio delle fonti, le più recenti ricerche archeologiche nello Yucatán hanno sfatato l’idea di una Chichén Itzá conquistata e trasformata dai Toltechi di Tula, cioè di quello che era uno dei «cardini» dell’interpretazione storicista. La grande capitale meridionale, sede di un’autonoma sintesi ideologica e stilistica tra mondo maya e Messico Centrale, appare sempre più come una delle tante «Tollan terrene» di cui era costellato il Messico antico12. Il fatto che le narrazioni relative a Tollan e Quetzalcóatl rivelino progressivamente il loro carattere mitico non implica però che si possano escludere del tutto alcuni riferimenti storici. Secondo Graulich, «la storia di Tollan e di Quetzalcóatl è effettivamente mitica sino ai dettagli [...]. Il racconto è mitico ma questo non vuol dire che non sia mai esistito un impero tolteco. Ammetto facilmente che per gli Aztechi, Tollan fosse l’ultimo grande impero prima del loro, cioè probabilmente l’impero la cui capitale era Tula Xicocotitlan (Hidalgo). Amplificarono il suo splendore [...] e la storia fu codificata in termini mitici, termini che probabilmente furono quelli nei quali gli abitanti di Tula avevano già narrato l’ascesa e il declino della città di Teotihuacan (Tollan)»13. Una recente riconsiderazione del problema ha avuto il merito di chiarire il contesto storico che a partire dal 700 d.C., cioè dal periodo che gli specialisti chiamano Epiclassico, condusse a una vera e propria proliferazione di «Tollan terrene»14. All’indomani del collasso di Teotihuacan le esigenze politiche legate alla necessità di legittimazione dei nuovi governi supraetnici condussero alla creazione di un modello (detto «zuyuano» da uno dei nomi di Tollan: Tulán, Zuyuá, Siwan, ecc.) fondato sulla figura del Serpente Piumato come «patrono» dei governanti. Le entità politiche che adottarono questo modello dettero vita a molte Tollan (Xochicalco, Tula, Cholula, Chichén Itzá, ecc.), governate da tanti Quetzalcóatl (o Kukulkán, Gucumatz, ecc.), che replicavano nelle singole contingenze storico-politiche il grande paradigma mitologico. Le Tollan ter-
rene erano luoghi dove i sovrani regionali si recavano per ricevere una sorta di suprema legittimazione del proprio potere, una legittimazione che non poteva che venire dalla città di Quetzalcóatl, «prototipo» di tutti i sovrani. È ormai evidente che la cultura dei gruppi zuyuani fu il prodotto della rielaborazione di alcuni elementi tradizionalmente mesoamericani, uniti a nuovi apporti culturali provenienti dalle lontane terre settentrionali15. Ma quale è la tradizione mesoamericana rielaborata dagli Zuyuani? Dove attinsero l’idea di Tollan? Non ci sono dubbi: prima dell’Epiclassico solo Teotihuacan fu una grande e splendida città multietnica, sede di un governo supraetnico associato al culto del Serpente Piumato. Recenti studi epigrafici hanno peraltro dimostrato che anche nel mondo maya classico Teotihuacan, già allora nota come «Luogo delle Canne», era ritenuta fonte di legittimazione per i governanti locali16. La Tollan mitica delle fonti è quindi Teotihuacan? Sì, ma non solo. L’analisi delle fonti non può che mostrarci una progressiva sedimentazione di diversi elementi storici stratificati nel mito: da Teotihuacan a Tenochtitlan, tutte le «Tollan terrene» mesoamericane hanno contribuito alla progressiva elaborazione dell’immagine della Tollan mitica, modello dal quale furono a loro volta in buona misura determinate.
ricana, la comparsa della Stella del Mattino influiva sulla vita dei re, dovevano suonare come prove irrefutabili della «realtà» del racconto, proprio in virtù della sua adesione al paradigma mitico. D’altronde, non fu proprio allora che Hernán Cortés giunse a Tenochtitlan dove mise fine al regno di Moctezuma? Nella vicenda di Tollan storia e mito sono inestricabilmente intrecciati così come lo furono nel pensiero dei suoi protagonisti. Gli accadimenti terreni acquisivano senso grazie al mito e il mito dovette adattarsi all’irriducibile mutevolezza del divenire storico. La storia, lungi dall’essere luogo di semplice ripetizione di paradigmi mitici, appare sempre più come una continua «avventura formativa» del tempo del mito.
l mito e la storia Se l’approccio «filologico» al mito contribuisce a chiarirne la dimensione storica, esso è del tutto estraneo alla mentalità mesoamericana dove storia e mito non costituivano due ambiti opposti e separati ma erano piuttosto due aspetti di una stessa realtà, una realtà nella quale vi era una stretta corrispondenza tra paradigmi sovrannaturali e accadimenti terreni. Proprio gli elementi che a noi appaiono più «sospetti» erano probabilmente quelli che agli occhi di un mesoamericano costituivano le maggiori garanzie di «veridicità». Il carattere ciclico degli eventi o il fatto che gli episodi salienti della vita di Topiltzin Quetzalcóatl fossero avvenuti in anni in cui, secondo l’astrologia mesoame-
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Da sinistra: un ritratto di Quetzalcóatl, dal capitolo v a lui dedicato, del Codice Fiorentino, tomo 1. Il codice, conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, raccoglie l’opera di fra’ Bernardino de Sahagún Historia general de las cosas de la Nueva España (1569-1582), alla quale parteciparono informatori e artisti autoctoni per rendere conto di tutti gli aspetti della cultura del luogo, ivi compreso un repertorio di divinità con i loro significati e attributi. Tezcatlipoca, antagonista cosmico di Quetzalcóatl, anch’egli ritratto nel tomo 1 del Codice Fiorentino al capitolo iii, nel q uale viene specificamente descritto. A fronte, dall'alto: “Il Castillo” di Chichén Itzá, nello Yucatán, in Messico. La città conobbe il suo apogeo tra il 950 e il 1200 d.C., la si ritenne governata da Quetzalcóatl e una delle possibili Tollan. Teste di serpente piumato decorano le scale della piramide. A Tula: lapide con l’immagine del dio Tlahuizcalpantecuhtli, una manifestazione di Quetzalcóatl come Venere, o Stella del Mattino. Veduta di una parte del sito di Cholula, nella valle di Puebla in Messico. Cholula, pur con fasi alterne, ebbe una lunga vita dal 500-200 a.C. fino all’arrivo degli s pagnoli che la trovarono ancora fiorente. Era una vera e propria città sacra, sede di un santuario dedicato a Q uetzalcóatl e meta di pellegrinaggi.
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A Tula: atlanti che rappresentano guerrieri e colonne in forma di serpenti piumati. Le piume che ricoprono le colonne evocano quelle iridescenti e pregiate del faromacro (in lingua náhuatl: quetzal). Creatura solitaria, difficile da avvistare se non alle prime luci dell’alba, ha avuto un ruolo nella storia delle élite e della ritualità mesoamericana. Il nome di questo uccello forma la prima parte del nome di Quetzalcóatl, dio tra l’altro dell’aurora e del vento, mentre la seconda significa serpente. La città di Chichén Itzá è stata spesso a pparentata a Tula. Nella foto: l’accesso al Tempio dei Guerrieri, che sembra quasi una replica, benché più sofisticata, di uno dei templi di Tula. In primo piano: un Chac Mool, figura sacra sul cui petto poggia un recipiente destinato alle offerte.
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L’ultima nel tempo delle città “candidate” a incarnare la Tollan mitica, è stata Tenochtitlan, capitale degli A ztechi (Città del Messico) fondata, si narra, nel 1325 e conquistata nel 1521. Qui si vede un particolare della Casa delle Aquile, complesso sacro destinato ai guerrieri: è una panca policroma, simile a quelle di Tula, dove una processione di guerrieri è sovrastata dai grandi serpenti piumati. Il primo e mai dimenticato prototipo della città idealizzata si identifica con Teotihuacan (stato di México), la grande capitale che visse il suo apogeo tra il 150 e il 650 d.C. Nella foto: parte di una facciata del Tempio del S erpente Piumato, il cui rilievo architettonico mostra teste di serpente circondate da piume, alternate a mascheroni interpretati come l’effigie del dio alligatore (Cipactli).
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Tra le pitture murali della città di Teotihuacan, più volte ipotizzata come prestigiosa incarnazione terrena della Tollan mitica, si trova nel complesso residenziale di Techinantitla un serpente piumato che emette acqua dalla bocca. Le immagini del serpente piumato appartengono alla lunga storia della metropoli e l’associazione all’acqua richiama la vegetazione e le risorse idriche essenziali alla vita della città. La città di Cacaxtla (700-900 d.C.), nella regione di Puebla-Tlaxcala, in M essico, offre pitture tra le più belle della Mesoamerica. Qui un uomo vestito da rapace – l’aquila è un simbolo solare – ha i piedi su di un serpente piumato e il bastone del comando in forma di dragone, segno della capacità di un capo di unire terra e c ielo. È un’allegoria del governante protetto dal serpente, mostra un legame simbolico tra chi detiene il potere e Quetzalcóatl.
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i siti
A Chichén Itzá: il Tempio superiore dei Giaguari dove spicca una testa di serpente piumato. All’ingresso dell’edificio anche le colonne sono a forma di serpente piumato, che del resto compare su gran parte dei monumenti della città.
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i siti
Xochicalco, città situata nella valle di M orelos, fu costruita nel 650 d.C. e distrutta nel 900 d.C. Nel disegno: la ricostruzione ipotetica, secondo A. Peñafiel, del Tempio dei Serpenti Piumati di Xochicalco, la cui base è decorata a bassorilievo da due enormi e ondeggianti s erpenti piumati con le fauci spalancate. A fronte: sulla facciata del Tempio dei Guerrieri di Chichén Itzá è scolpito Kukulkán, uomo-uccello-serpente associato a Quetzalcóatl.
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Grande testa di serpente piumato in p ietra, con resti di pittura, situata al lato ovest del Templo Mayor, l’edificio più importante del recinto cerimoniale di Tenochtitlan. Scultura in pietra raffigurante un serpente piumato. Si nota qui il rilievo dato dall’artista al realismo delle piume.
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Particolare di una pagina del Codice Cospi, databile circa al 1350-1500 d.C.; e conservato alla Biblioteca Centrale Universitaria di Bologna. In questo testo sacro, legato al calendario e al rito, si r avvisa più volte la rappresentazione di Tlahuizcalpantecuhtli, o Stella del Mattino, in atto di esercitare influenze nefaste. Infatti, lo si vede qui scagliare il proprio dardo, cioè il raggio di Venere in fase negativa, contro un trono con s imbolo solare. La data è il giorno 1 Canna.
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LA GIUSTA RELAZIONE TRA GLI ESSERI VIVENTI NEI MITI DEI NAVAJO di Trudy Griffin-Pierce
L’area dei Four Corners negli Stati Uniti sudoccidentali – dove confinano gli stati di Arizona, Nuovo Messico, Utah e Colorado – è di incomparabile bellezza naturale: spazi interminabili e luce vivida distinguono la pianura del Colorado e ispirano meraviglia e sorpresa. Le nuvole in rapido movimento nel vasto cielo gettano ombre sulla valle: pinnacoli di pietra arenaria, rossi picchi torreggianti, vaste distese desertiche dove impera l’artemisia e montagne che toccano il cielo ricordano agli uomini il loro posto nella totalità della creazione. Per i Navajo, la bellezza di questa terra non è altro che la manifestazione esteriore della sacralità. Tutti gli aspetti del mondo naturale sono pregni di sacralità e di vita: ogni altopiano, montagna, animale e direzione sono vivi, hanno il loro nome e la loro storia; ciascuno va avvicinato nel modo giusto, per mantenere nell’universo l’equilibrio delle relazioni. Il presente articolo studia le reciproche relazioni fra gli esseri umani e il mondo naturale e soprannaturale, relazioni che sono alla base di quel rigoroso sistema filosofico e rituale che è la religione navajo. I Diné Queste rocce della Monument Valley (Cutler Group, Arizona, Usa) si ergono come sculture a disegnare un paesaggio incomparabile e a introdurre in una parte della Riserva dei Navajo.
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I Diné – Il Popolo, come si definiscono i Navajo – costituiscono la popolazione nativa
americana più consistente, sia per il numero dei suoi componenti che per l’entità del territorio: la loro riserva di diciassette milioni di acri è vasta quanto la Virginia Occidentale o il Belize in America Centrale. Si è calcolato che nell’anno 2000 la sua popolazione ha toccato la cifra di duecentocinquantamila individui. Fra gli ultimi a giungere nel Sudovest, i Navajo parlano una lingua athapaska, comune ai loro cugini sudoccidentali, gli Apache, e ai Nativi Americani del Canada, dell’Alaska, dell’Oregon e della California. Oggi nell’area della riserva navajo si possono vedere numerosi villaggi, ma tradizionalmente questo popolo viveva diviso in piccoli gruppi familiari. La tradizione individualistica ereditata dai loro antenati Athapaska sta alla base delle loro pratiche cerimoniali e delle loro credenze, a differenza di quelle dei loro vicini, i Pueblo, che sono comunitarie e a scadenze fisse. Anche se i grandi cerimoniali invernali navajo sono stabiliti in modo da celebrarsi «dopo la prima brinata» e «prima del primo tuono», le cerimonie vengono fissate a seconda dei bisogni individuali. Mentre le cerimonie dei Pueblo sono volte al benessere della comunità e sono organizzate da gruppi di sacerdoti o dalle cosiddette «società», le cerimonie navajo si tengono in occasione della malattia di un individuo, il paziente, e sotto la direzione di
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un esperto di cerimonie, il cantore, che non appartiene ad alcun corpo sacerdotale organizzato. Inoltre, anziché aver luogo all’interno di una struttura di proprietà comune, come la kiva dei Pueblo, le cerimonie navajo si tengono nello hogan («luogo casa»: struttura esagonale o ottagonale) della famiglia del paziente. La natura dinamica del sacro L’energia della trasformazione e il senso della forza dinamica sono rappresentate dal vento – raffiche, mulinelli, brezze vivaci, turbini – più che da qualsiasi altra forza naturale. La visione navajo del mondo, basata appunto sul movimento, sulla trasformazione, sul flusso, è chiaramente espressa nella filosofia di questo popolo dal concetto centrale di Vento Sacro. Nílch’i è il sottile soffio della vita, soffuso in tutta la natura, che dà «vita, pensiero, parola e capacità di movimento a tutti gli esseri viventi»1. Il movimento viene messo in evidenza nel linguaggio, nelle pitture di sabbia e nel mito. La lingua navajo richiede la specificazione della natura, della direzione e della condizione del movimento2. Le pitture di sabbia sono cariche di simboli riferiti al movimento: serpenti che si attorcigliano, tronchi che rotolano, fluenti piume sul capo, vorticosi arcobaleni; nelle pitture di sabbia le figure portano spesso cerchi piumati, un mezzo di trasporto magico. Il viaggio è parte essenziale delle storie sacre: infatti gli eroi si spostano costantemente da un luogo sacro all’altro. Il concetto di ordine dinamico è di estrema importanza nella filosofia navajo. La creazione stessa avvenne nizhónígo, ossia «in maniera ordinata e adeguata». L’enclitico -go alla fine del termine denota progresso, processo continuo, sottolineando la necessità di ricreare continuamente ordine. I cerimoniali ricreano e al tempo stesso ripristinano questo stato dinamico di ordine, o santità, che non è mai una condizione statica, permanente. Prima di celebrare un cerimoniale di nove notti nell’hogan di una famiglia, l’hogan stesso deve venire sgombrato da ogni oggetto e, quindi, santificato così da divenire hodiyiin, termine che non significa «sacro», ma piuttosto «in questo momento questo spazio è sacro». Nello stabilire le condizioni definibili hodiyiin, si mostra rispetto verso le diyin dine’é
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(le Sacre Persone), invitandole così a presenziare, primo passo essenziale per ristabilire giuste relazioni con loro. La concezione dell’universo come luogo di movimento e sviluppo comporta la nozione che nessuno stato dell’essere è permanente e fisso. Per assicurare all’universo vitalità perpetua, gli esseri umani hanno la responsabilità di rinnovarne quotidianamente il giusto equilibrio con canti, preghiere, offerte e con un modo corretto di pensare e agire. Gli uomini devono essere costantemente coscienti delle giuste relazioni con tutti gli aspetti della natura e adoperarsi per preservare tali relazioni. È questa la ragione per cui un Navajo tradizionale saluta ogni giorno che nasce con preghiere rivolte alle Sacre Persone e una benedizione di polline. L’oriente, dove comincia il giorno, viene associato a Dio che Parla; pregando ai primi raggi della luce, si acquisisce la forza spirituale di Dio che Parla che accompagnerà la persona nel corso dell’intera giornata. «Siamo tutti congiunti» L’universo è un tutto che comprende ogni cosa, dove ogni essere ha il proprio posto e benefici legami con tutti gli altri viventi. Secondo il pensiero tradizionale navajo, hózhó¸, le condizioni di armonia, si realizza vivendo una vita che riconosca tutte le parti dell’universo come vive e interdipendenti, ossia osservando uno stile di vita che mantenga giuste relazioni. L’importanza di queste relazioni è evidenziata dal fatto che la frase: «Siamo tutti congiunti» non ha diretto equivalente in lingua navajo; per esprimerla è necessario specificare ogni singola relazione. Il concetto di affinità non può venire espresso nella lingua di questo popolo così semplicemente come può esserlo in qualsiasi lingua occidentale. Per dire «Siamo tutti congiunti» in lingua navajo si dovrà dire: Nahasdzáán – Nanise altaas’éí = Terra – crescita di tutte le diverse forme Yádilhil – Yótáhnaazléí = Cielo – e ogni cosa nel cielo Nohokáá’ dine’é = Popolo della terra T’áa’altsoh shik’éí = Tutti sono legati a me. Il tema della giusta relazione è un motivo costante di tutti i miti nel grande complesso
della letteratura orale dei Navajo, compresi i miti che sanzionano il sistema (cerimoniale) delle «Vie cantate». Ogni montagna, ogni animale, ogni Sacra Persona e ogni cerimonia ha la sua propria storia di creazione mistica, i suoi poteri spirituali e il suo scopo in relazione ai Diné. Nell’universo navajo tutte le cose hanno una loro forma interiore e una esteriore. L’essere fisico – la forma esteriore – ha esistenza indipendente rispetto alla sua coscienza interna – forma interiore. Dopo l’Emersione, Vento Sacro – nílch’i – e le forme interiori – bii’gistíín – furono posti all’interno di tutte le cose, dotandole così di vita, movimento, parola e sensibilità. Quando, all’epoca dell’Emersione, il suolo delle quattro Montagne Sacre fu portato via dai mondi precedenti e posto in ciascuna delle quattro direzioni, le montagne non erano ancora vive e lo furono solo quando in ciascuna fu posta una forma interiore. Vento Sacro – l’energia vitale che anima l’universo – unisce tutte le forme di vita in virtù della sua presenza all’interno e all’esterno di ogni forma di vita. A differenza del concetto occidentale di anima, Vento Sacro non è un agente spirituale indipendente insito in ciascun uomo e avente forma individuale. È invece una singola entitàpresente ovunque, una sostanza che tutto pervade e di cui partecipano tutti gli esseri viventi. L’azione stessa del respirare è sacra, perché è comune a tutti gli esseri e a tutti i fenomeni – uomini, cervi, montagne, stelle e Sacre Persone. Questo concetto infonde nei Navajo un senso profondo dei legami e delle responsabilità verso tutte le specie e verso tutti gli esseri. Di conseguenza, nuocere o distruggere un qualsiasi aspetto della creazione equivale a danneggiare se stessi. Le diyin dine’é Ogni creatura, ogni aspetto della natura ha le sue Sacre Persone... Essi sono rappresentati, alcuni di loro, dai colori: il cielo azzurro, l’imbrunire, la notte – sono Sacre Persone e a loro si rivolgono le preghiere... Vi sono Persone dell’alba, del tramonto, dell’aria, del tuono e delle nuvole...3.
Le Sacre Persone – diyin dine’é – più familiari sono: Donna Mutevole, personificazione del potere di rinnovamento proprio della terra,
Sole e i loro figli, Sacri Gemelli, Uccisore-di-Mostri e Nato-per-l’Acqua. Altre importanti diyin dine’é sono Terra, Luna, Cielo, Vento, Primo Uomo, Prima Donna, gli ausiliari delle Sacre Persone e gli intermediari fra il regno sacro e quello secolare, come Grande Mosca, che ritrasmettono i messaggi agli eroi di molti miti, guidandoli nelle situazioni difficili e salvando loro la vita. Un altro gruppo di Sacre Persone è costituito dagli Yé’ii, chiamati anche hasch’ééh, Coloro-che-non-Riuscirono-a-Parlare, perché possono emettere soltanto suoni e non parole. Diversamente che per gli Euro-americani, la «natura» e i «fenomeni naturali» non costituiscono per i Navajo tradizionali una categoria a sé. Le montagne, gli animali, le piante e le forze naturali sono considerati diyin dine’é, o Persone, come ci ha spiegato l’uomo di medicina Mike Mitchell. Data la loro divinità, le stelle, le piante e taluni animali vengono spesso rappresentati come persone nelle pitture di sabbia. Questa personificazione visiva serve anche a ricordare agli uomini la loro giusta relazione con questi esseri. L’osservanza rituale comprende anche la ricerca dell’aiuto delle diyin dine’é, con le quali le Persone della Superficie della Terra (gli uomini) condividono l’universo. La traduzione consueta di diyin dine’é è «Sacre Persone», ma quella più letterale sarebbe «superesseri», perché il loro tratto saliente è il possesso di poteri speciali4. Ma, dato che nel pensiero navajo «l’ordine naturale» e «l’ordine soprannaturale» non costituiscono due categorie distinte, i Navajo non percepiscono le diyin dine’é come «soprannaturali», ma piuttosto come «configurazioni della realtà più-grandi-degli-umani, che si incontrano nell’ambiente navajo»5. Per molte religioni occidentali le divinità e gli umani sono nettamente distinti e separati, mentre le «Sacre Persone» sono strettamente legate agli uomini. Il termine «Sacre Persone» è fuorviante anche perché implica uno stato di perfezione morale. Nell’immenso corpus della letteratura orale che regola tutti i cerimoniali navajo, le diyin dine’é non fanno mostra di un comportamento esemplare: sono invece descritte con sentimenti umani quali la gelosia, l’ansia, la cupidigia, l’ira. Uno studioso navajo ha spiegato che le diyin dine’é provano le stesse emozioni degli uomini «proprio per mostrarci i risultati delle nostre azioni, quando ci lasciamo trasportare dalle passioni».
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Oltre alle passioni, le diyin dine’é condividono con gli uomini lo spazio e la genealogia. Attraverso l’organizzazione clanica, le diyin dine’é sono legate alle Persone della Superficie della Terra6. Esse sono anche onnipresenti: «Le Sacre Persone dei Navajo non sono lontane... non si rendono mai visibili, ma interagiscono con gli uomini quotidianamente, guidando le loro azioni per il meglio». Il potere rituale della conoscenza Il limite fra diyin dine’é ed esseri umani è fluido, perché l’acquisizione del sapere può condurre alla santità dell’individuo. Ogni «Via cantata» a tema mitologico racconta la storia di un eroe che entra nel regno del soprannaturale e, nel corso del suo viaggio, acquisisce la conoscenza rituale. Per ottenere l’aiuto delle diyin dine’é, l’eroe deve anzitutto apprendere ad avvicinarle e a mettersi nella giusta relazione con loro. Quindi viene a conoscenza di come ottenere e usare il jish, la borsa di medicina7, per ogni singolo rituale; questa conoscenza gli appartiene d’ora in poi come suo attributo visibile (il jish) e invisibile (le procedure e le preghiere). Tale conoscenza è potere, il potere di controllare le circostanze avverse e di costringere le diyin dine’é ad aiutarlo per risanare i malati. Quindi l’eroe ritorna con le nuove conoscenze e insegna il rito ai Diné (Il Popolo). Ma, dopo il contatto con le diyin dine’é, l’eroe non si sente più a suo agio con gli uomini e alla fine si allontana per vivere con le Sacre Persone8. Il potere che deriva dalla conoscenza è quindi alla portata non solo delle diyin dine’é, ma anche degli uomini. La santità non è l’attributo di una classe speciale di esseri, rigidamente circoscritti nello spazio e nel tempo, ma è una qualità che si può acquisire: con la progressiva conquista della conoscenza, l’uomo diventa sempre più simile alle diyin dine’é9. Al tempo della Creazione, le diyin dine’é concepirono il mondo nel loro pensiero e pregarono facendolo divenire reale10. La conoscenza, forma interiore del pensiero, precedette il pensiero; il pensiero condusse alla parola, sua forma esteriore. A sua volta, la parola condusse all’azione, che creò la realtà fisica. Così, il pensiero è creatore e finisce per
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manifestarsi nella realtà fisica; la concezione navajo del pensiero conferisce grande importanza alla riflessione11. L’idea che la conquista progressiva della conoscenza porti a una maggiore santità della persona attribuisce alla conoscenza stessa una certa forma di potere che non le viene riconosciuta nel mondo euro-americano. Nelle parole di una preghiera della Via della Benedizione che racconta la storia della Creazione, viene espresso il potere della conoscenza: «... Dell’origine della terra ho piena conoscenza... dell’origine della lunga vita e dell’origine della felicità ho piena conoscenza... ne avevo piena conoscenza fin dall’inizio»12. La conoscenza è, quindi, il primo passo verso la Creazione. La conoscenza conduce ai poteri spirituali delle diyin dine’é: queste, per mezzo della loro completa (piena) conoscenza, hanno il potere di raggiungere hózhó¸ – le condizioni ideali desiderate. Esse sono composte di pura energia grazie alla loro conoscenza. Per tutta la vita, gli uomini cercano di camminare sul sentiero di hózhó¸, ma lo perdono continuamente, perché è molto difficile seguirlo; senza avvedersene, commettono violazioni nei riguardi delle diyin dine’é. Per questo, gli uomini possono solo sforzarsi di raggiungere il grado di conoscenza che conduce alla perfezione fisica e mentale delle diyin dine’é. Questo stato ideale viene formulato con un’espressione sacra alquanto complessa: sa¸’a naagháii bik’e hózhó¸, in cui Sa¸’a Naagháii è Giovane Uomo, mentre Bik’e hózhó¸ rappresenta Giovane Donna, rispettivamente personificazioni di Pensiero e Parola13. Originatisi dalla borsa di medicina di Primo Uomo, Pensiero e Parola sono la fonte della vita delle forme interiori di tutti gli esseri viventi. Sa¸’a naagháii bik’e hózhó¸ esprime l’intento di vivere una lunga vita seguendo il sentiero di hózhó¸ – «incamminarsi verso la vecchiaia accompagnati dalla bellezza spirituale»14 – e infine, al momento della morte, venire assorbiti dalla forza vitale che animerà le generazioni future di creature viventi. La causa delle malattie Tutti hanno la responsabilità di rispettare le norme e le proibizioni delle diyin dine’é. Poiché il pensiero è creatore, gli individui raccolgo-
no i frutti dei loro pensieri e delle loro azioni tramite la malattia e la salute, la sfortuna e il benessere. Nel mondo navajo ogni stato dell’essere è controbilanciato dal suo complementare. Opposto a hózhó¸ – lo stato delle condizioni desiderate e benedette – sta hóchxó¸’ – lo stato delle condizioni cattive, malvagie. Si subiscono malattie o disgrazie (hóchxó¸’) per avere commesso trasgressioni, ossia per non avere rispettato le giuste relazioni con le diyin dine’é, gli animali, gli spiriti dei Navajo o di estranei e le streghe. Un padre navajo ha raccontato allo studioso di folclore Barre Toelken: «Noi dobbiamo rapportare la nostra vita alle stelle e al sole, agli animali e ad ogni cosa della natura, altrimenti potremmo impazzire o ammalarci»15. Quando la causa della malattia è stata identificata da un diagnosta – un «mano tremante» o un «osservatore di stelle» – il paziente e la sua famiglia cercano un cantore specializzato in quel particolare tipo di malattia. Le cerimonie navajo portano alla guarigione ristabilendo le condizioni armoniose e i giusti rapporti in ogni ambito – fisico, spirituale, mentale e sociale – della vita del paziente. Questi deve seguire le istruzioni del cantore per quanto riguarda la condotta e il pensiero prima e durante il rituale. Deve inoltre dimostrare la propria ferma volontà di guarire col rispetto assoluto delle restrizioni rituali anche durante i quattro giorni che seguono la cerimonia; queste azioni riconducono il paziente sul cammino che porta a hózhó¸, lo stato delle relazioni equilibrate e giuste con ogni aspetto del mondo naturale e soprannaturale. La religione navajo: «Muoversi cerimonialmente» «La religione navajo è l’essere navajo... La religione è qualcosa che va vissuta ogni giorno... Noi siamo molto simili agli Amish, la cui religione detta loro il modo di v ivere»16. Che per i Navajo la spiritualità e gli altri aspetti della vita siano inseparabili è dimostrato dal fatto che nella loro lingua manca un termine equivalente a «religione». L’espressione che più gli si avvicina è diné binahagha’, ossia «muoversi cerimonialmente«, derivato da diné yee hináanii, «quello di cui vivono i Navajo»17.
Le cerimonie navajo sono dirette da un «cantore» o «salmodiante» specializzato (hataalii), che, grazie all’apprendistato presso un cantore anziano, conosce le melodie, le medicine e le azioni rituali più appropriate per curare i pazienti. Il termine hataalii deriva da hataal, cantare, nome dato all’esecuzione di una delle «Vie cantate», che costituiscono la parte fondamentale del cerimoniale. Le «Vie cantate» per guarire o prevenire le malattie vengono eseguite secondo uno dei tre rituali, o modelli di comportamento, che governano le varie procedure: la Via della Santità, quella del Male e quella della Vita. Con la prima si vuole attrarre il bene e la guarigione del paziente: la maggior parte delle «Vie cantate» appartiene a questa categoria. La Via del Male impiega tecniche atte a esorcizzare gli spiriti malvagi e la loro influenza negativa. La Via della Vita cura le ferite causate da incidenti. In passato esistevano circa ventiquattro «Vie cantate», ma già negli anni Settanta se ne conoscevano ed eseguivano regolarmente solo otto18 e l’unica che possa eseguirsi ancora oggi secondo le tre Vie della Santità, del Male e della Vita è la «Via della Caccia». Ogni canto, che può prolungarsi per due, cinque o nove notti, è composto da parti distinte, dette cerimonie, la cui esecuzione è intervallata da pause. La maggioranza delle cerimonie più importanti della prima metà del rituale – come la consacrazione dello hogan, il bagno di sudorazione che provoca il vomito e «il districarsi» – è di natura esorcistica e protettiva, invocando infatti i poteri di particolari diyin dine’é affinché caccino tutte le forze distruttive e proteggano il paziente. Quest’ultimo presenta delle offerte alle diyin dine’é per sollecitarne la presenza al rito. A metà del cerimoniale – che in quello di nove notti corrisponde al pomeriggio del quarto giorno – si passa all’invocazione e alle benedizioni. Le pitture di sabbia, la legatura degli oggetti votivi e i canti che durano un’intera notte sono esempi di cerimonie di invocazione. Lo studioso Leland Wyman19 ipotizza che gli Athapaska abbiano portato con sé nel Sudovest il modello esorcistico del comportamento rituale; dopo il loro arrivo, probabilmente imitarono la pratica delle pitture di sabbia e di altri riti di invocazione dai Pueblo, rielaborando il tutto nelle tipiche cerimonie navajo.
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Il ripristino delle giuste relazioni L’universo navajo, descritto più sopra, non è statico, né è popolato da classi distinte di esseri appartenenti ad ambiti diversi e che non interagiscono mai. Al contrario, è un luogo dinamico, dove i confini fra naturale e soprannaturale, fra uomini e Sacre Persone sono fluidi. Per sua natura, il mondo è un luogo di relazioni in continuo cambiamento e che necessita di un costante rinnovamento attraverso l’azione rituale. Lo studioso Barre Toelken afferma che il sistema filosofico e rituale dei Navajo «esige dagli individui un impegno tale che qualsiasi altro popolo troverebbe difficile assolvere»20. Lo scopo delle pratiche cerimoniali navajo è quello di ripristinare le giuste relazioni fra i Diné e gli altri esseri umani e fra i Diné e le diyin dine’é. Ogni cerimonia si concentra su una relazione specifica, ma vuole anche ristabilire l’equilibrio totale in tutte le relazioni della vita del paziente. La «Via del Nemico», ad esempio, risana i rapporti fra i Diné e gli altri esseri umani. Con essa si proteggono i guerrieri dagli spiriti dei nemici uccisi; oggi viene usata anche per guarire qualsiasi malattia causata dagli spettri di estranei ai Navajo. Numerosi veterani della seconda guerra mondiale e della guerra del Vietnam scoprirono che questo rituale faceva cessare o diminuire i loro incubi e i flashback ricorrenti, considerati come sintomi del contatto con gli spettri. Per contrasto, la «Via della Montagna» si concentra sulle relazioni tra il paziente e il gruppo di diyin dine’é che gli Euro-americani chiamano «natura». Più specificamente, guarisce dai malesseri derivanti da un contatto improprio con gli animali della montagna, soprattutto con l’orso; le malattie derivanti dall’orso sono l’artrite e i disturbi mentali. Questa cerimonia guarisce anche le affezioni insorte dopo il contatto con altri animali montani, come il porcospino, che è causa di disturbi all’apparato gastro-intestinale, ai reni o alla vescica; allo stesso modo vengono curati i malanni alle vie respiratorie, conseguenza dell’uccisione di scoiattoli. I sintomi cessano una volta che siano ristabilite le giuste relazioni fra l’animale e il paziente. La «Via della Notte» vuole ristabilire le relazioni fra il paziente e il gruppo di diyin dine’é chiamato Yé’ii, Coloro-che-Non-Riuscirono-a-Parlare. Questa cerimonia è utile nel caso
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di un individuo colpito da rigidità, paralisi o cecità per avere offeso gli Yé’ii ed è conosciuta anche come Yeibichai, dal nome del capo degli Yé’ii, Dio che Parla, Yé’ii Bicheii o «Antenato degli Dèi». Al termine di ognuno degli ultimi quattro giorni, per mezzo di un’enorme pittura di sabbia spesso del diametro di oltre sei metri, e l’ultima sera, con l’aiuto di gruppi di danzatori mascherati, si dà vita agli Yé’ii. Grazie a questo elaborato cerimoniale della durata di nove notti, il paziente riacquista la salute poiché vengono ristabilite le giuste relazioni con gli Yé’ii. Equilibrare Maschio e Femmina, unificare Terra e Cielo Insieme, Madre Terra e Padre Cielo rappresentano la complementarità, il principio relazionale basilare della filosofia navajo. Secondo il pensiero occidentale, l’unità fondamentale è la monade; per i Navajo, il minimo irriducibile è una diade. Tutta la natura è vista come una somma di elementi maschili e femminili: la pioggia maschile scende a scrosci, mentre quella femminile è una pioggerella leggera. Non si tratta tanto di associazione col sesso, quanto di distinzioni relative al contrasto fra la parte aggressiva, forte, attiva e la controparte sottomessa, gentile, passiva. Non vi è superiorità morale dell’una rispetto all’altra: entrambe sono necessarie per lo stato di equilibrio e integrità. Il contrasto fra le due parti definisce e conferisce significato a ciascuna componente. L’una fornisce all’altra la qualità che le manca; insieme formano un’unità completa. Inoltre, l’intero è considerato molto più grande della somma delle sue parti. Pertanto, una pittura che rappresenti Madre Terra insieme a Padre Cielo è più potente di due dipinti che li raffigurino separatamente. Anche nelle quattro Montagne Sacre è ravvisabile lo stesso binomio: si tratta, infatti, di due coppie ognuna formata da un maschio e da una femmina. Blanca Peak (orientale e maschile) guarda verso San Francisco Peak (occidentale, femminile); Mount Taylor (meridionale, femminile) fa il paio con Hesperus Peak (settentrionale,maschile). Secondo l’educatore navajo Harry Walters21, ogni montagna guarda verso la sua montagna complementare, così che «si tengono reciprocamentesotto controllo», raggiungendo «alch’i¸silá, ossia equilibrio».
Ogni individuo ha in sé questa unità di maschio e femmina. Il lato sinistro del corpo umano rappresenta la mascolinità e la fisicità – la mano sinistra tiene l’arco e la freccia durante le cerimonie – mentre quello destro è il femminile, la parte emotiva – la mano destra tiene il polline di mais, simbolo di vita e pace. Sa¸’a naagháii bik’e hózhó¸ può fare riferimento alle forme interiori di Terra e Cielo accoppiate; l’idea generale è che sa¸’a naagháii è «la forma interiore del cielo» e bik’e hózhó¸ è la «forma interiore della terra». Sa¸’a naagháii bik’e hózhó¸ – l’agognato stato di equilibrio e completezza – è la ragione per cui Madre Terra e Padre Cielo vengono sempre rappresentati insieme e in modo tale da essere perfettamente simmetrici. Il cantore Bitter Water ha spiegato che «Madre Terra e Padre Cielo devono essere identici nella forma e nella dimensione, poiché essi sono le due metà dell’intera creazione poste una accanto all’altra, come le due metà di un melone tagliato con precisione»22. Significativo è il fatto che, per la sua similitudine, Bitter Water non si avvalga di due oggetti di eguale dimensione e completi in se stessi. Parla invece del cielo e della terra come di due metà dello stesso melone; lo stato di interezza – santità – risulta dalla perfetta compenetrazione delle due parti e dal passaggio di una qualità da chi la possiede a chi ne è privo, per dare vita a un’entità perfetta. I dipinti di sabbia di «Madre Terra e Padre Cielo», rappresentanti l’interezza dell’universo, sono particolarmente potenti perché visualizzano la relazione fra l’umanità e l’intero creato e, insieme, il raggiunto equilibrio fra le qualità maschili e quelle femminili. A differenza di altre pitture di sabbia con i simboli di avvenimenti, oggetti o esseri citati nel mito che costituisce l’argomento di ogni «Via cantata», questo dipinto non si riferisce specificamente ai simboli del mito «Via della Caccia Maschile» al quale appartiene; attira, invece, dall’alto i poteri dei cieli e richiama dalla terra i poteri per guarire il paziente. Con l’uso corretto del rituale si ristabiliscono nella loro giusta misura le relazioni del paziente con gli altri uomini e con le diyin dine’é della terra e del cielo. Le pitture di sabbia di «Madre Terra e Padre Cielo» sono la metafora e la rappresentazione letterale del sa¸’a naagháii bik’e hózhó¸, il vivere a lungo in condizioni di perfetto equilibrio. Nel dipinto sono adombrati sia l’obiettivo delle giuste relazioni sia i mezzi
per raggiungerlo. A un livello elementare tali dipinti sono l’asserzione dell’equilibrio – lo stato ideale delle relazioni – fra Madre Terra e Padre Cielo, le due metà del creato. A un livello più complesso, ogni simbolo di Madre Terra è il ricordo iconografico delle diyin dine’é con le quali l’uomo deve interagire correttamente. Ogni costellazione sul corpo di Padre Cielo indica una storia morale su come raggiungere una giusta relazione con gli altri e con le diyin dine’é. Sul corpo di Madre Terra, i simboli di piante vogliono ricordare la sacralità di tutte le piante: sebbene si tratti delle quattro piante sacre – mais, fagioli, zucca e tabacco – piuttosto che di erbe medicinali (di queste quattro, solo il tabacco viene impiegato ritualmente), per estensione, esse vogliono alludere a tutte le piante. Il cantore George Blueeyes le chiama «Piante Persone» (sono cioè Sacre Persone) e spiega: «Sono cibo e medicina per noi e per il nostro bestiame. Dalle Piante Persone otteniamo Inaaji Azee – le medicine della Via della Vita e altre medicine»23. Ogni piantava avvicinata e colta in un particolare modo che assicuri il reciproco rispetto. Da parte degli uomini il rispetto sarà mostrato recitando gli opportuni canti per la raccolta delle piante e lasciando delle offerte; in cambio le piante forniranno una medicina efficace. Ogni costellazione disegnata sul corpo di Padre Cielo nasconde un’allegoria sul modo di vivere per assicurare la correttezza delle relazioni e avere quindi una vita lunga e pacifica. Náhooko¸s bika’ii (l’Orsa Maggiore) e Náhooko¸s ba’áadii (Cassiopea) vengono considerate una coppia perché ruotano attorno alla Stella Polare. Insieme servono come metafora visibile dell’equilibrio fra maschio e femmina nella casa dei Navajo o hogan; la Stella Polare è il fuoco al centro dello hogan. Il cantore A ha detto: «Esse ci dicono di stare a casa, di stare attorno al fuoco»24. Il significato implicito è che queste costellazioni costituiscono un esempio morale per i Diné, quello di dimorare nella casa con la famiglia e adempiere alle proprie responsabilità familiari. Lo stesso hogan è un efficace simbolo navajo, personificato nel mito come divinità ed essere vivente. Esiste lo hogan maschio (quello vecchio stile col palo forcuto) e quello femmina (quello rotondo e più comune). Lo hogan è la casa, il luogo che dà sicurezza, e viene assimilato alla maturità e al desiderio di sistemarsi25. «Sen-
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za lo hogan non puoi fare progetti... anzitutto devi costruirtene uno. Poi ti siedi all’interno e cominci a far progetti»26. Dilyéhé (la costellazione delle Pleiadi) è un ammonimento contro la disarmonia e il disordine. Il cantore A27 interpreta questa costellazione con una sequenza di avvenimenti: sette vecchi giocano ai dadi e poi il perdente, in preda all’ira, trascina a casa moglie e figli. Il principio dell’ordine e dell’armonia nelle relazioni umane sta alla base di tutta la cultura navajo; la storia adombrata da questa costellazione è un’allegoria contro il comportamento distruttivo, in particolare all’esterno del gruppo familiare. Dio Nero, la diyin dine’é responsabile di tutti i cieli, aveva scelto Dilyéhé a rappresentare tutte le costellazioni; questo gruppo di stelle appare sulla tempia della sua maschera. Dilyéhé è l’esempio visibile della sineddoche rituale – una parte che rappresenta il tutto – e l’esternazione della preoccupazione navajo di mantenere lo stesso stato di interezza e completezza caratteristico dei corpi appaiati di Madre Terra e Padre Cielo. Dilyéhé e ’Atsé’ets’ózí (Orione) sono costellazioni stagionali e rappresentano la continuità del tempo su base annuale. Un aspetto del rapporto di reciprocità con il mondo naturale è il rispetto per l’alternanza stagionale, sia nei rituali che nell’agricoltura. L’apparire di Dilyéhé segna l’inizio della stagione adatta per la cerimonia della «Via della Notte», e segna anche il termine della semina, perché oltre sarebbe poi troppo tardi per riuscire a raccogliere prima che comincino le gelate. La semina comincia ai primi di maggio, quando ’Atsé’ets’ózí tramonta al crepuscolo. Hastiin Sik’ai’í (la costellazione del Corvo) rappresenta i valori di concentrazione e saggezza, attributi altamente rispettati nella cultura navajo. Questo gruppo di stelle, il cui nome significa «Uomo con le Gambe Divaricate», rappresenta appunto un uomo che sta al di sopra della terra, i piedi ben piantati, intento a esaminare la terra per vedere tutto quello che vi succede28. Il nome ’Atsé’etsoh (la parte frontale dello Scorpione) significa «Il Primo Grande»; questo gruppo di stelle è assimilato a un vecchio che deve avvalersi di un bastone per mantenersi in equilibrio, figura che rappresenta la vecchiaia e il desiderio di una lunga vita, raggiungibile solo
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se si conservano le giuste relazioni col mondo naturale e con quello soprannaturale. Le Impronte di Coniglio, Gah heet’e’ii (la coda dello Scorpione) simboleggiano le relazioni più appropriate con tutta la selvaggina. T’ááschí’í Sani è uno dei pochi uomini che ancora ricordino gli antichi canti e le cerimonie della caccia e le usanze delle Persone Cervo. Ha raccontato che, prima di partire per la caccia, si devono intonare canti sacri e i cacciatori «devono avere pensieri santi... il cacciatore parla della selvaggina con un linguaggio speciale... Se si fa tutto nel modo appropriato, in modo santo, la selvaggina sarà lì ad aspettarti»29. Egli ha anche descritto le diverse regole per scuoiare e macellare l’animale e i canti che si devono recitare ritornando a casa. Dell’animale si deve mangiare tutto, perché le diyin dine’é hanno decretato che nulla va sciupato, altrimenti non manderanno più animali. La Via Lattea – Yikáísdáhí – nota anche come «Aspetta-l’Alba», ricorda agli uomini di dire le loro preghiere al nascere del giorno, azione che serve ad assicurare la continuità temporale. L’esecuzione di questo rito garantisce il successo delle relazioni fra uomini e diyin dine’é. Per i Navajo tutte le relazioni sono reciproche: se si adempie ai propri doveri rituali, le diyin dine’é risponderanno. Quindi i dipinti di sabbia di «Madre Terra e Padre Cielo» rappresentano l’equilibrio fra maschio e femmina necessario al ripristino del sa¸’a naagháii bik’e hózhó¸, e inoltre le costellazioni sul corpo di Padre Cielo sono un vero e proprio testo culturale – «regole di vita»30 – per guidare l’uomo verso quella condizione desiderata. Náhooko¸s bika’ii (l’Orsa Maggiore) e Náhooko¸s ba’áadii (Cassiopea) rappresentano l’equilibrio dell’uomo e della donna nell’ambito familiare. Dilyéhé (la costellazione delle Pleiadi) è vista sia come ammonimento contro la disarmonia sia come richiamo alla bellezza insita nell’equilibrio dell’unità. Insieme, Dilyéhé e ’Atsé’ets’ózí (Orione) riflettono la natura dinamica dell’universo, in quanto indicano il cambiamento stagionale. La saggezza e la conoscenza sono personificate da Hastiin Sik’ai’í (il Corvo). ’Atsé’etsoh (la parte frontale dello Scorpione) rappresenta il desiderio di raggiungere un’età avanzata. Chi distribuisce con armonia le piante su Madre Terra è Gah heet’e’ii (la coda dello Scorpione), simbolo del coniglio e della selvag-
Nel disegno: le più antiche evidenze archeologiche della presenza, nel Colorado del sud e nel New Mexico, di coloro che sarebbero poi divenuti i Navajo. Sono i resti di un hogan, la loro tradizionale a bitazione, datati agli anni ’20 del xvi secolo.
gina in generale; l’insieme dei simboli di piante e animali costituisce un ammonimento visivo al rispetto dovuto ad animali e piante, fonte di nutrimento e di vita. Le pitture di sabbia di «Madre Terra e Padre Cielo» visualizzano il principio di sa¸’a naagháii bik’e hózhó¸, frase ricorrente in quasi tutte le preghiere dei Navajo. Sono parole cariche di molteplici livelli di significato e si riferiscono sia allo scopo della vita sia ai mezzi per raggiungerlo. Insisto nel dire che in questa espressione, sta il continuo rinnovamento delle giuste relazioni fra tutti gli aspetti dell’esistenza, relazioni fissate
dalle Sacre Persone al tempo della Creazione. Questo senso del legame e delle giuste relazioni con tutti gli altri esseri viventi è l’essenza della religione navajo.
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I miti dei Navajo
Ricostruzione di una pittura di sabbia durante un rito di guarigione, nel quale chi soffre viene “riarmonizzato” nel giusto rapporto con una realtà mitica, carica di senso. Ricostruzione di una culla portatile ritrovata in un villaggio anasazi (1000-1100 d.C.). Gli Anasazi occupavano un territorio che comprendeva New Mexico, Arizona, parte dello Utah e del Colorado, dove giunsero poi dal nord piccoli gruppi di nomadi, come i Navajo, che mutuarono dalle genti del posto elementi economici e rituali. Ancora oggi culle molto simili a quella qui ricostruita sono considerate dai Navajo capaci di rappresentare elementi culturali legati a racconti mitici. La cinghia che tiene il bambino, per esempio, rappresenta il sapere proveniente dagli esseri soprannaturali che abitano il paesaggio e le varie componenti dell’universo.
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Due donne navajo fotografate sulla soglia di un hogan. Casa, luogo cerimoniale, modello cosmico, l’hogan sintetizza miti e riti vivi ancor oggi. La piuma è tra le immagini con cui i Navajo esprimono quel fluido dinamismo nel quale essi individuano l’essenza della vita.
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I miti dei Navajo i siti
Nel disegno sono rappresentati schematicamente i cinque successivi mondi sotterranei, di diversi colori e a forma di cesto, di cui si narra nei miti di creazione navajo e dai quali emergono in superficie gli esseri che popoleranno il mondo. Questi petroglifi (Largo Canyon, New Mexico) raffigurano i simboli evocatori di due tra i personaggi più importanti della mitologia navajo: i Sacri Gemelli. Il primo, Uccisore-di-Mostri, è indicato dall’arco, il secondo, Nato-per-l’Acqua, dalla figura a forma di clessidra. Ambedue hanno liberato il mondo da esseri mostruosi che insidiavano le Sacre Persone.
Cesto anasazi del xiii secolo, Chamber of Commerce Museum, New Mexico. I cesti, sulla lunga strada dell’emersione in superficie dalle viscere della terra, nei miti navajo della Creazione custodiscono i ricordi dei mondi sotterranei che le Sacre Persone, tra cui Primo Uomo e Prima Donna, si lasciano via via alle spalle. Una volta emersi, tutti riempiono un grande cesto dove ogni cosa si anima di colori e di luce: è il "cesto-che-trasforma-la-vita". Dall’arte rupestre della California: una serie di “borse di medicina” usate dagli sciamani per riporvi oggetti sacri e involti che contenevano tutta la farmacopea e gli strumenti di guarigione di cui essi detenevano la conoscenza.
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Nella Monument Valley, in Arizona: una roccia che presenta una vistosa erosione dovuta all’azione del vento, la cui sacralità penetra ogni cosa, rendendola viva e degna di rispetto.
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I miti dei Navajo
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recesso ovest
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Mount Taylor (mezzodì)
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Nei riti dei Navajo il canto e la musica manifestano la voce della più potente forza cosmica, il vento. Il disegno riproduce due sonagliere cerimoniali dipinte e composte da pelli di diversi animali, crine di cavallo e penne d’aquila. Sacca anasazi in fibra intrecciata a mano e più volte rammendata, databile a un periodo che va dal 700 a.C. al 200 d.C. Museo del New Mexico, Santa Fe. Era certo destinata a qualcosa da conservare con cura, qualcosa d’importante come la “borsa di medicina” di Primo Uomo, che nei racconti mitici navajo era indicata come contenitore di tutto il suo sapere. A fronte, dall'alto in senso orario: pittura rupestre navajo che ricorda la spedizione Narbona del 1805, una rappresaglia spagnola per le incursioni dei Navajo. Quest’episodio è emblematico di quelle profonde ferite spirituali causate da conflitti che i riti di guarigione navajo intendono curare. La pittura si trova nel Canyon del Muerto, una ramificazione del Canyon de Chelly, nel nordest dell’Arizona. Schema delle quattro montagne sacre dei Navajo: forze vive e complementari che interpellano gli uomini e li richiamano all’equilibrio. Uomini che impersonano due Yé’ii, un particolare gruppo di Sacre Persone con il quale il paziente che partecipa a un determinato rito vuole ristabilire le giuste relazioni. Pittura rupestre del Delgadito Canyon, nel nordovest del New Mexico.
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Blanca Peak (alba)
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San Francisco Peak (tramonto)
Hesperus Peak (oscurità)
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Blanca Peak
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Il disegno che rappresenta Padre Cielo e Madre Terra. È uno dei grandi temi mitici espressi dalle pitture di sabbia. Il Cielo ospita nel suo corpo le costellazioni in una sorta di mappa; al centro della figura della Terra si situa il luogo dell’emersione dai mondi sotterranei, un lago in cui confluiscono le radici delle piante sacre. Nello schema a sinistra sono rappresentate le coppie delle montagne sacre dei Navajo: quelle “femminili” guardano verso le “maschili” e viceversa, a significare la reciprocità di una relazione in vista dell’armonia.
Una delle sconfinate scenografie della Monument Valley: è uno tra i volti della terra dei Navajo, la cui sacralità ed energia vitale è presente in ogni narrazione mitica e in ogni cerimonia.
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Le quattro piante sacre: il tabacco, la zucca, il mais, il fagiolo. Esse, così come appaiono nelle pitture di s abbia che ritraggono Madre Terra, evocano l’intima connessione tra tutte le cose e il loro profondo radicamento nelle origini del mondo.
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Il Canyon de Chelly (Arizona), sulle cui rocce è dipinto quello che viene chiamato Planetarium, uno dei temi più affascinati degli artisti navajo. Costellazioni e stelle s ono raffigurate sui soffitti delle caverne del Canyon, un caso unico nell’arte rupestre nordamericana.
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Pleiadi
I miti dei Navajo
Dilyéhé
Le Pleiadi: una tra le 37 costellazioniriconosciute dai Navajo, molte delle quali svolgono un ruolo nella loro mitologia. Mentre vi sono costellazioni assai diverse da quelle che noi siamo abituati a individuare, le Pleiadi presentano una certa somiglianza. Qui ne vediamo le due versioni: le Pleiadi occidentali e le Dilyéhé nel disegno navajo. Il disegno riproduce il Dio Nero, che secondo dei racconti mitici diede vita alle stelle. Portava le Pleiadi sulla caviglia ebattendo il piede quattro volte se le portò alla tempia. La Via Lattea nella versione occidentale e in quella dei Navajo.
Yikáísdáhí
Orione nella forma in cui noi siamo abituati a riconoscerlo e nel disegno navajo.
Via Lattea
coda dello Scorpione
Sq’tsoh
Venere
’Átsé’ets’ózí
Orione
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Gah heet’e’ii
Un petroglifo nell’area della riserva. Navajo, in Arizona: rappresenta un bisonte con quella che è stata chiamata “la linea del cuore”. La freccia penetra nel cuore della preda attraversando tutto il corpo. Non è una semplice scena di caccia, ma “la linea del cuore” simboleggia il respiro della vita e, resa visibile, sembra voler tributare all’animale cacciato un perenne segno di rispetto impresso nella pietra.
In Arizona, insediamenti a ridosso di una roccia, emblema di una tradizione da riscoprire alle spalle di una sofferta modernità.
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IL MITO NELL’ARTE AFRICANA di Ivan Bargna
Durante le feste che accompagnano il periodo del raccolto le donne della popolazione Kirdi, nel Camerun, danzano esibendo gli attrezzi del loro lavoro; la mano sul seno stabilisce un nesso tra la fertilità femminile e quella dei campi.
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Parlare del mito significa porre la questione della storicità delle culture africane, della loro disponibilità o riottosità al cambiamento, dei modi attraverso cui g uardano al passato e ne producono e trasmettono la memoria attraverso parole, immagini e oggetti. Ma nel porre la questione del rapporto fra arte e mito in Africa non possiamo partire che da noi, dalle modalità attraverso cui questo incontro si è realizzato nella letteratura antropologica ed africanistica. Questo significa da un lato che dobbiamo rinunciare all’idea di un possibile accesso immediato al mito come fonte originaria e dall’altro che non possiamo dare per scontato che in Africa la relazione fra arte e mito sia poi così stretta e immediata, come invece la nostra eredità romantica ci spinge forse a pensare1. Se il mito orale dell’antichità ci giunge nelle rielaborazioni della mitologia scritta, quello che ci viene d’altrove, dall’Africa, è filtrato dalla scrittura antropologica2. Non che si tratti di una mistificazione, di una pura invenzione priva di connessioni con la vita degli Africani: dobbiamo vedervi piuttosto un rimodellamento che sistematizza e irrigidisce la plasticità della parola nella rete della scrittura, con l’effetto spesso di sottrarre l’Africa alla storia e al cambiamento3. Il rapporto fra arte e mito è stato posto con forza dalla scuola etnologica francese e
in particolare da Marcel Griaule nei suoi studi sulla cultura dei Dogon del Mali. Animato dalla volontà di rovesciare i pregiudizi occidentali sull’Africano selvaggio e barbaro, ci ha consegnato un grande quadro mitologico da lui stesso paragonato alla cosmologia della Grecia antica4: «La prova che i Negri vivono secondo idee complesse, ma ordinate, e secondo sistemi di istituzioni e riti nei quali nulla è lasciato al caso o alla fantasia»5. E il suo intento ha indubbiamente avuto successo facendo dei Dogon la più celebre popolazione africana, meta di turisti e delle brame di mercanti e collezionisti d’arte6. I Dogon sono così divenuti una sorta di microcosmo prototipico, di condensato della civiltà africana, tanto a livello dell’immaginario popolare che della ricerca etnologica; un processo in qualche modo autorizzato dallo stesso Griaule che, operando per sineddochi successive, vedeva nella parte il tutto, facendo dei Dogon un concentrato dell’Africa occidentale tradizionale, di questa qualcosa di estendibile a tutta l’Africa nera, e della realtà culturale dell’Africa nera l’espressione di un livello antropologico più profondo, quello dell’homme noir7. In maniera analoga aveva proceduto Placide Tempels per l’Africa bantu8. In entrambi i casi, muovendo da un idealismo umanistico, si passa da un’analisi di tipo etnologico al tentativo di definire un’ontologia fondamentale
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della cultura e della personalità africane che regga il confronto con la mitologia e la filosofia dell’antica Grecia. È qui che il connubio mito-arte trova romanticamente la sua ragione d’essere: come alternativa complementare al logos dell’Occidente, in sintonia con quanto proclamavano gli apostoli della negritudine9. Nella grande cornice tracciata dal mito trovano spazio tutti gli oggetti, le tecniche e le manifestazioni espressive della cultura. Gli oggetti divengono «testimoni culturali fondamentali» in quanto intrisi della parola del mito: lo sviluppo delle tecniche e dell’arte procede di pari passo con quello della parola. Come tali gli oggetti vanno decifrati e letti per svelarne la trama simbolica che li sottende. È il presupposto che guida Dio d’acqua, l’opera più celebre di Griaule, in cui l’antropologo francese raccoglieva le sue conversazioni con il vecchio Dogon Ogotemmêli10: «La dispersione degli oggetti», dice il vecchio, «serve per nasconderne il simbolismo a coloro che vorrebbero comprenderlo»11. Ecco allora che quello dell’antropologo da lavoro di osservazione si muta in percorso di apprendimento iniziatico12. La scena quasi teatrale che fa da sfondo agli incontri è quella della casa dell’anziano cacciatore ed è proprio a partire dagli umili oggetti dell’arredo domestico che la narrazione prende corpo per tracciare il grande affresco cosmogonico. La tecnica della fabbricazione del vasellame serve a visualizzare la creazione del sole e della luna («il sole è, in un certo senso, un vaso portato all’incandescenza una volta per tutte e circondato da una spirale a otto avvolgimenti di rame rosso«13) e quella degli esseri umani da parte del dio Amma14; l’intreccio delle fibre che è alla base dell’abbigliamento, nel suo andamento spiraliforme, diviene simbolo del turbinio dell’acqua e del vento, delle spirali del sole, del moto ondeggiante dei serpenti e della parola del genio Nommo che come vapore tiepido penetra le fibre e si trasmette agli uomini15; la tessitura porterà a sua volta «il soffio della seconda parola rivelata»16. La terza parola e con essa la molteplicità delle lingue sarà invece comunicata attraverso le diverse sonorità dei tamburi17. Sarà poi la struttura architettonica del granaio, che ha la forma di un paniere intrecciato rovesciato (con la base quadrata in alto e l’apertura circolare in basso), a mostrare il
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Il mito nell'arte africana
sistema del mondo: sui gradini di ciascuna della quattro scale che salgono alla terrazza quadrata che raffigura il cielo sono collocate le famiglie degli antenati e le diverse categorie di creature, ciascuna delle quali posta in rapporto con una costellazione18. È su questo granaio, lanciato come un fuso nel cielo e la cui forma è anche quella dell’incudine, che l’antenato arriva sulla terra, portando con sé gli attrezzi della fucina. L’antenato fabbro darà così agli uomini la zappa e con essa nascerà l’agricoltura19. In maniera non dissimile vengono spiegati gli ornamenti del corpo: il pagne della donna, vestito formato da quattro strisce di tessuto, numero simbolo della femminilità; i pantaloni dell’uomo composti da tre strisce di tessuto fra le gambe e altre tre per ciascuna delle cosce, dove il tre è la cifra della virilità; i denti limati di donne e uomini ricordano i licci del telaio del Nommo, simbolo della moltiplicazione delle famiglie umane. Sempre con riferimento al corpo del Nommo è spiegato l’uso di orecchini, bracciali, pendagli e scarificazioni20. Il nesso arte-mito si rivela in tutta la sua forza a proposito delle maschere: «La società delle maschere è l’immagine del mondo. E quando si mette in movimento nella piazza pubblica, essa danza la marcia del mondo, danza il sistema del mondo»21. E questo per due motivi. Perché «tutti gli uomini, tutte le funzioni, tutti i mestieri, tutte le età, tutti i popoli stranieri e tutti gli animali sono scolpiti in forma di maschera o intessuti a guisa di cappucci»22. E perché nelle maschere risuonano i simboli nel loro carattere polisemico e stratificato: l’alta maschera detta «casa a più piani» (sirige), per esempio, simboleggia la casa di famiglia, la coperta dei morti e l’ordito del telaio e ruotando orizzontalmente o piegandosi e sollevandosi da est verso ovest ripercorre il moto del sole23. In tutto questo, secondo Griaule, dobbiamo vedere molto di più di una semplice rappresentazione: parole, maschere e disegni funzionano come una «trappola» tesa alla «forza vitale» (nyama): «gettare un nome significa gettare una forma, un supporto, e la forma migliore e il supporto più adatto a ricevere la forza vitale dell’essere (...) lo stesso si può dire del disegno. Soprattutto se la materia con la quale si dipinge è efficace, soprattutto se le parole che accompagnano i gesti della mano sono esplicite e obbliganti»24. Parole e cose, arte e mito
si incontrano nel carattere performativo che è di entrambi, nel potere di far accadere le cose; non si limitano cioè a rappresentare la realtà ma nell’articolarla la rendono possibile. Proseguono e soccorrono una creazione imperfetta, fungendo da armi nella lotta della vita contro la morte. Il tessuto di corrispondenze tracciato da Griaule e poi ripreso e sviluppato da Germaine Dieterlen25 è certamente affascinante ma non privo di inconvenienti. Primo fra tutti quello della staticità in cui l’opposizione fra mito e storia confina l’arte, riducendola a uno specchio passivo. I Dogon consegnati allo schema tribale appaiono come isolati dal mondo e sottratti al tempo26. La presenza di Islam e Cristianesimo viene taciuta per quanto abbia influenzato in maniera visibile miti e riti dei Dogon27. Il rimando non è alla concretezza e alla quotidianità delle relazioni sociali ma alle costruzioni speculative della cosmologia, viste come la chiave per decifrare le dinamiche sociali. Il risultato è quello di una reificazione estetizzante della cultura che ha sollevato forti dubbi per il suo taglio idealistico, per l’eccesso di sistematicità e per l’uso di un numero molto ristretto di informatori di cui non si può dare per scontata la rappresentatività28. Nuove e più recenti ricerche sul campo ne hanno contestato tutti i principali presupposti al punto da trasformare i Dogon di Griaule da una cultura che si voleva fortemente rappresentativa della civiltà africana in una sorta di anomalia, di un prodotto letterario, che non ha riscontro neppure nelle popolazioni immediatamente vicine. Quello che a Griaule era sembrato un progressivo approfondimento verso le radici segrete della cultura dogon è stato visto come una costruzione individuale di singoli informatori (come tale priva di rilevanza culturale in quanto «segreto» non condiviso da un numero socialmente rilevante di persone) o come il risultato di una interazione interculturale, dialogica e creativa, fra indigeno e antropologo (con la mediazione taciuta ma determinante del traduttore) che ha portato a qualcosa che, come tale, non esisteva prima29: il risultato è che oggi i Dogon ci appaiono così molto francesi nella loro «urbanità» e nel loro acume filosofico diversamente dai Nuer del Sudan (altro famoso caso antropologico) che, studiati dall’antropologo britannico Evans-Pritchard, ci
sembrano invece nella loro concretezza e nella povertà dei loro miti, molto inglesi30. Gli uni corrispondono alle propensioni dei Francesi per la ricerca estetica e letteraria così come gli altri incontrano gli interessi degli Inglesi per i sistemi politici e di parentela. Sono stati messi in dubbio il carattere coerente e integrato della mitologia dogon e la sua espressione simbolica negli oggetti della cultura materiale, la corrispondenza fra un supposto sapere iniziatico e gli elementi pubblici e condivisi della cultura dogon31. In realtà al di là degli esiti e delle intenzioni (svelare la metafisica segreta dei Dogon) quello che si ritrova nel testo di Griaule (e poi nel successivo La volpe pallida, pubblicato postumo) non è un racconto mitico, perché a ben guardare non si sviluppa come una storia ma come una serie di associazioni libere che il vecchio Ogotemmêli stabilisce su sollecitazione dell’antropologo e a partire dagli oggetti che trova intorno a sé, come un’attività di bricolage32 che attinge selettivamente alla tradizione riformulando in maniera creativa nozioni e questioni perché corrispondano alle esigenze del qui e ora. Le incoerenze del mito che Griaule interpretava come depistaggi con cui l’indigeno cercava di dissimulare la verità profonda agli occhi dell’antropologo evidenziano invece il suo carattere c ostitutivamente plurale e in divenire. Questo significa che il mito non preesiste all’interazione dialogica e alla ricezione interpretativa come qualcosa di dato che occorra riportare alla luce nella sua integrità incontaminata, spogliandolo di tutti i sedimenti della storia, ma che si produce e realizza solo trasformandosi incessantemente33. Il che dovrebbe rendere cauti, quando si interpreta l’arte dogon, nel conferire valore canonico al corpus mitologico raccolto dalla scuola di Griaule negli anni Trenta: non c’è alcuna certezza che quel che poteva valere in quel frangente sia pertinente per periodi precedenti e successivi, a dispetto dell’apparente continuità iconografica delle opere, come nel caso delle figure dogon con braccia levate al cielo34. Il mito quindi, lungi dall’escludere la storia, presuppone la capacità di trattare l’evento: il mito non ci restituisce un cosmo pacificato ma il caos degli inizi; nella creazione non vede la staticità di un ordine perfetto ma una commistione di alea e necessità, un procedere
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per approssimazioni successive nell’alleanza necessaria di ordine e disordine35. I miti di fondazione raccontano di migrazioni, di provenienze da altrove, di processi di dispersione, di sovrapposizioni, di lotte. La relazione tra le parole e le cose, tra mito e arte non può allora essere concepita come un rapporto a senso unico, con la parola che detta e l’immagine che illustra36; anzi si potrebbe perfino capovolgere il senso di questa relazione fino ad affermare che «non è l’arte a interpretare i miti, ma che sono i miti a essere elaborati a partire dall’arte»37. La tavola lignea che si proietta verticalmente sulle maschere sirige troverebbe un’eco nelle statue dogon con le braccia levate e in altri oggetti producendo «un rigoglio di analogie che si articolano fra loro, un gruppo di immagini relazionali che racchiuderebbero in un’immagine sintetica un insieme di rappresentazioni contigue» che si ritroverebbero poi nei racconti mitici come elementi tematici38. L’irriducibilità delle forme rispetto al discorso non deve però farci cadere nel formalismo facendo delle sculture un archivio visivo consultabile a prescindere dal contesto. Il rapporto arte-mito, parole-cose, deve essere pensato come una mol teplicità di circuiti dinamici e aperti e interconnessi39 in cui le une e le altre si combinano, all’interno di relazioni sociali negoziate, per rispondere a problemi sempre nuovi40. E questo fino alle più banali relazioni commerciali fra artista e turista in cui si ridefiniscono mutualmente le immagini del proprio passato e del proprio futuro41. Questo carattere dinamico e situazionale del rapporto fra mito e arte è chiaramente percepibile nelle maschere e questo a partire dallo stesso Griaule42. La maschera appare nel mito come un rimedio contro la morte perché attirandola su di sé proteggerebbe gli uomini. Così la maschera assorbirebbe quella forza vitale (nyama) degli animali e dei nemici uccisi che è un pericolo per i vivi43. La diffusione delle maschere segue così quella della morte. E tuttavia proprio la maschera che appare come strumento d’ordine nelle situazioni ritualmente appropriate, finisce con la sua bellezza per favorire il disordine: gli uomini rubano e riproducono le maschere perché ne sono esteticamente attratti esibendole teatralmente al di fuori di ogni contesto sacrale. E la maschera interviene poi nuovamente per ripristinare l’ordine che
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ha infranto. Il cambiamento è connaturato alla maschera e si esprime anche attraverso l’invenzione di sempre nuovi tipi che danno forma visibile alle relazioni dei Dogon con le altre culture: le maschere dei pastori Peul, dei marabutti musulmani, del poliziotto, della madame, del turista e dell’antropologo. È nella danza, nella performance rituale, periodicamente rinnovata, che la maschera realizza un fragile equilibrio fra permanenza e mutamento44. E lo stesso può dirsi delle statue, spesso frettolosamente definite come «figure d’antenato», la cui identità cambia in rapporto alle situazioni e agli interlocutori45. Emergono allora i conflitti e le disarmonie che una visione razionalizzante del mito tendeva a celare, riducendo il rito a una sua rappresentazione codificata. Il rapporto fra arte e mito può essere fecondamente reinterpretato attraverso la nozione di «memoria», guardando cioè alle strategie mediante le quali le diverse culture producono e trasmettono il senso del loro passato. La memoria tanto individuale che collettiva, come sappiamo, non è un processo meccanico di sedimentazione e recupero di materiali inerti ma un attivo processo di rielaborazione, selezione e riconfigurazione di «eventi» passati alla luce di problemi, esigenze e scopi del presente. E questo è tanto più vero nel caso delle culture prive di scrittura in senso stretto, in cui cioè la parola non è legata alla lettera del testo. Qui sono immagini e oggetti – l’arte – a fornire alla parola un supporto materiale garantendo la possibilità della comunicazione a distanza, ma in maniera molto diversa da quanto avviene nella scrittura alfabetica: la parola non è depositata nell’immagine, ma da essa suscitata46. L’immagine non opera come illustrazione o contrassegno, come un semplice richiamo mnemonico, ma come un luogo cui forme e volumi imprimono direzioni di senso privilegiate; terreno per la creazione di una molteplicità di storie che nella concretezza sensoriale dell’immagine trovano poi la «prova» del loro essere «vere». Da questo punto di vista «mito» e «storia» non si elidono, ma si pongono su una linea di continuità in quanto entrambi «inventati». Quanto detto può essere ben illustrato con riferimento alle arti visive dell’Impero congolese dei Luba, le cui costruzioni di memoria, «concettualmente basate sulla contingenza,
Rito funebre presso i Dogon, nel Mali: le maschere danzano sulla terrazza della casa del defunto per sedurre il suo spirito, condurlo fuori dal villaggio e allontanarlo dal mondo dei vivi (da Marcel Griaule, Masques Dogons, Institut d’Ethnologie-Musée de l’Homme, Paris 1938).
transazione, negoziabilità e bricolage, sono generate visualmente e in cui le forme (...) sono usate per ricreare la memoria nel presente attraverso una politica di ripresentazione e immaginazione»47. Questo avviene attraverso una serie di disegni geometrici e pittogrammi che si ritrovano sulle insegne ed emblemi reali, in una molteplicità di tecniche e materiali: dal legno, al metallo, al vasellame, ai tessuti, alla pittura. Una posizione di rilievo è quella assunta dalle tavole mnemoniche lukasa, sulla cui superficie lignea compaiono elementi figurativi, tracciati geometrici, perline e che sono usate per la trasmissione e formazione dei «miti» e cioè delle storie di fondazione del regno, delle migrazioni claniche, ecc48. Lo schema compositivo è basato sul paradigma spaziale della corte reale luba, la cui geografia articola (e non semplicemente riproduce) la mappa e l’ordine dell’universo. Su questa struttura si inseriscono perline di vario colore che indicano soglie, punti di passaggio, percorsi casuali, deviazioni. In realtà fra la disposizione di questi elementi e il contenuto da ricordare non c’è alcuna connessione obbligata e l’aggancio fra ciò che
si vede e ciò che si dice si realizza di volta in volta in modo situazionale e contingente sulla base della posizione istituzionale e negoziata di chi «legge» e di chi ascolta. La stessa identità politica dell’«Impero» luba, di fatto mai esistito in quanto struttura politica, poggia sulla diffusione di queste forme visibili e delle parole che continuamente e ripetutamente vi si associano49. Tutto questo, oltre che i limiti del metodo griauliano di cui abbiamo discusso, indica anche l’inapplicabilità di una lettura iconologica delle immagini africane50. Di entrambi è infatti il principio della stratificazione gerarchica dei significati che riduce il carattere polimorfo dell’immagine all’unità di un testo soggiacente e non contraddittorio, secondo un presupposto che è quello della cultura scritta. Il rapporto mito-arte più che nei termini di una relazione di causa ed effetto va forse pensato come un insieme aperto e in divenire di rimandi reciproci in cui l’immagine non solo consente l’ormeggio di una molteplicità di significati, ma attivamente li suscita dando a pensare.
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In alto a sinistra: coperta chiamata jénu bànu (“alleato rosso”), indossata dai sacerdoti dogon che presiedono al rituale della semina, Mali. Dettaglio del rettangolo centrale. Le caselle bianche sono la verità, la parola chiara e femminile, e la fertile terra bianca della piana; le caselle nere sono invece la menzogna, la parola oscura e maschile degli iniziati, e la terra nera e povera dell’altopiano. I grandi quadrati a scacchi sono i campi dei capifamiglia, mentre i piccoli rettangoli ai bordi sono i campi più lontani dal villaggio, quelli che i capifamiglia danno ai figli sposati. I granai dogon sono raffigurati nelle pitture rupestri. Questa si trova nel riparo sotto roccia di Barna, nel Mali. Porta di granaio dogon, Mali. Il seno che compare sulla porta evoca la madre e il suo ruolo di nutrice. Come recita un proverbio dogon, “Dopo Dio, viene il seno”.
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Pitture rupestri raffiguranti danzatori che indossano maschere sirige, Dogon, Mali. Nella proiezione verticale delle strutture che sormontano le maschere sirige si può scorgere una molteplicità di rimandi mitologici e simbolici: la moltiplicazione infinita delle stelle e il loro movimento, la discesa dal cielo dell’arca dei geni Nommo, la struttura a più piani delle abitazioni che ospitano gli altari degli antenati.
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Pitture rupestri nel riparo roccioso di Songo, Dogon, Mali; tricromia in bianco, nero e rosso. Scopo delle iscrizioni è, come per le maschere, conservare l’energia (nyama) delle parole. Periodicamente rinnovate, ricevono la loro forza dalla loro durata: dall’anzianità del primo autore e dall’accumularsi delle qualità di coloro che gli sono succeduti nel rinnovarle. Vi si ritrovano il disegno di maschere, quello della luna, del grande serpente yurugu menu, di lucertole, di geni gyinu, di oggetti c erimoniali e di oggetti quotidiani (utensili agricoli, casalinghi, armi, strumenti musicali). Maschere kanaga, Dogon, Mali. La s truttura di queste maschere rimanda al movimento impresso all’universo dal dio Amma; rinvia inoltre alla Volpe pallida che nella mitologia dogon è l’emblema del disordine e che viene qui rappresentata a zampe all’aria, nell’atto di supplicare il creatore perché le risparmi la vita.
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Statua in legno e pigmenti, h 76 cm, Dogon, Mali. Il tema iconografico delle braccia levate è ricorrente nella scultura dogon e compare anche nelle statue dei predecessori Tellem. Questo gesto è stato interpretato come una richiesta di pioggia al dio Amma e una domanda di p erdono per una qualche infrazione rituale che ha portato la siccità.
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In alto, da sinistra: maschera di Europeo, Dogon, Mali. Usata nel periodo precedente l’indipendenza per ritrarre gli ufficiali coloniali nell’atto di raccogliere le tasse, in tempi più recenti ha rappresentato i turisti occidentali che importunano i Dogon con la loro macchina fotografica e l’antropologo intento a prendere note su tutto ciò che vede. Portatrice di coppa, legno, h 44 cm, Luba, Repubblica Democratica del Congo. La figura della portatrice di coppa è usata nei riti regali per custodire il caolino, sostanza sacra strettamente associata all’esercizio del potere. Nei riti divinatori rappresenta invece il veggente di cui gli spiriti hanno preso possesso e di cui diventa la sposa terrena. Alla statua si attribuiscono anche funzioni terapeutiche e protettive che eserciterebbe, in virtù di “medicine” poste al suo interno, per semplice contatto. Supporto per frecce, legno, h 65 cm, Luba, Repubblica Democratica del Congo. Il metallo delle frecce rimanda metaforicamente al potere del re, forte come il ferro. Le incisioni (“scarificazioni”) sul supporto triforcato rinviano invece alle proibizioni che lo circondano. La figura femminile che lo sorregge rappresenta la regina madre o le fondatrici dei diversi clan regali e funge tanto da emblema commemorativo che da legittimazione del potere politico. Nei miti di fondazione come nei riti di intronizzazione la presenza di un albero triforcato è strettamente associata all’insediarsi del potere regale. A fronte: maschera satimbe in legno, metallo, fibre vegetali, h 83 cm, Dogon, Mali. Sulla maschera facciale, che rappresenta un’antilope e nel contempo richiama le forme dell’architettura dogon, siede una figura femminile con le braccia aperte e alzate al cielo. Rappresenta Yasigui, la gemella della Volpe pallida, personaggio trasgressivo della mitologia dogon; come la Volpe, anche Yasigui infranse tutte le proibizioni e, castigata dal dio Amma, morì gravida. Nonostante le sue colpe, Yasigui continua a occupare una posizione di rilievo nella grande cerimonia del sigi che i Dogon celebrano ogni sessant’anni; la maschera satimbe ne ricorda il ruolo di scopritrice delle maschere, delle quali poi gli uomini si appropriarono. Per questo è detta “sorella delle maschere” e come tale partecipa di questo dominio rituale maschile.
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Il mito nell'arte africana
In alto a sinistra: tavola mnemonica lukasa, legno, perline, metallo, h 34 cm. Luba, Repubblica Democratica del Congo. A sinistra: tavola mnemonica lukasa, legno, h 45,5 cm. Luba, Repubblica Democratica del Congo. Schema compositivo di una tavola mnemonica lukasa, Luba, Repubblica Democratica del Congo. La forma rettangolare allude nel contempo al paesaggio luba, alla corte, al corpo umano e all’emblema regale della tartaruga. I diversi elementi, perline e conchiglie, attraverso la loro collocazione, dimensione e colore, rimandano a luoghi e personaggi della tradizione orale, allestendo così la scena per diverse costruzioni narrative che esibiscono o ricompongono i contrasti e le tensioni politiche dell’impero luba. La grande perlina scura posta in alto al centro rappresenta così l’antica capitale Kalala Ilunga, mentre il cauro che le sta sopra indica l’edificio in cui avviene l’investitura regale. Tra i soggetti visualizzati: radure, boschetti sacri, spiriti e le diverse figure che nella società luba sono portatrici di titoli di prestigio e potere. La linea che al centro divide in due la tavoletta rimanda infine alla “soglia” che si deve oltrepassare nei riti di iniziazione. A fronte: seggio in legno, h 48,5 cm, Luba-Hemba, Repubblica Democratica del Congo. Tutta una gerarchia dei sedili dà forma alle stratificazioni sociali della società luba. I seggi a cariatide sono patrimonio esclusivo di capi e notabili e ricettacolo di componenti spirituali della loro persona. Non si tratta di oggetti di uso quotidiano: il capo vi si siede solo quando è tenuto a provare il suo ruolo di mediatore fra il mondo dei vivi e quello degli antenati. Generalmente, essendo la società luba di tipo matrilineare, i personaggi rappresentati sono di sesso femminile, riconoscendo alla donna il suo ruolo fondante.
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Appendice TEORIE SUL MITO di Natale Spineto
È difficile distinguere, talora, un mito vissuto dalle teorie che, volta per volta, hanno cercato di chiarire e analizzare i termini dei racconti mitici. Nella stessa terra che ha visto nascere, con il termine, il concetto di mythos, i tentativi di riflessione sul patrimonio religioso tradizionale sono precoci: basti pensare alle idee di Senofane di Colofone (vi-v secolo), che critica l’antropomorfismo delle divinità, a Teagene di Reggio (seconda metà del vi secolo), che inaugura l’interpretazione allegorica dei miti, e, più tardi, a Evemero (vissuto fra la fine del iv secolo e l’inizio del iii), che riconduce gli dèi a esseri umani di cui sarebbero la trasfigurazione. Nel momento in cui si avverte un distacco, una distanza rispetto ai racconti tradizionali della propria civiltà, oppure si riscontra una analogia fra le proprie credenze e quelle degli altri, si apre uno spazio in cui può collocarsi l’esercizio – scettico oppure no – dell’interpretazione. Non è possibile qui neppure accennare alla storia delle letture del mito nelle culture greca e romana, ai diversi sistemi esegetici, in parte eredi dei precedenti, applicati dai cristiani alla religione «pagana», alle modalità della riscoperta dei classici durante l’Umanesimo e il Rinascimento e poi alle ricerche successive, dal «comparativismo» seicentesco e settecentesco, che comincia a tenere conto dei dati etnografici, fino alle correnti simboliste settecentesche e all’opera di Giambattista Vico (1668-1744), con l’autonomia che riconosce al mito come espressione di una «sapienza poetica» autonoma e irriducibile alla ragione.
All’inizio del xix secolo, anche la diffusione della conoscenza delle religioni dell’India influisce sullo sviluppo degli studi mitologici, che subiscono un particolare impulso dalle correnti romantiche. Queste tendono ad attribuire al mito una funzione di espressione simbolica della verità. È possibile citare gli studiosi del circolo di Heidelberg – specialmente Georg Friedrich Creuzer (1771-1858), cui si richiamerà Johann Jakob Bachofen (1815-1887) – e Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854). Schelling critica l’interpretazione allegorica, che riduce il mito a qualche cosa che è esterno rispetto ad esso (altro, in greco allos), sostituendole quella che chiama una lettura «tautegorica», che lo considera nella sua autonoma portata rivelativa, senza ricondurlo ad una verità che gli è estranea. Contemporaneamente, Philipp Karl Buttmann (1764-1829) e Karl Otfried Müller (1797-1840) sostengono l’idea che il mito esprime il modo d’essere di un popolo. Il secondo risponde inoltre alla scarsa attenzione romantica per i contesti storici insistendo sull’importanza della disamina storica e critica, la sola in grado di distinguere le caratteristiche delle differenti culture e di studiare le deformazioni e i mutamenti che subiscono le tradizioni mitiche nella loro trasmissione. Per tutto il xix secolo si sviluppano gli studi etnologici, che si impongono particolarmente nell’ultimo trentennio rivolgendo un interesse particolare ai miti dei popoli «primitivi».
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Questi sono analizzati all’interno di una prospettiva evoluzionista: Edward Burnett Tylor (18321917), per esempio, attribuisce l’origine dei miti «all’intelletto umano nel suo stadio infantile». In questo periodo si può collocare la nascita della storia delle religioni, con Friedrich Max Müller (18231900). Studiando particolarmente la mitologia e il pantheon dei popoli appartenenti alla famiglia linguistica indoeuropea, Max Müller arriva alla conclusione che il mito costituisce una forma «patologica» di linguaggio. Il suo approccio non riconosce ai miti alcuna forma di verità e presuppone una distinzione radicale fra il mito e la religione. Negli anni a cavallo fra il xix e il xx secolo le indagini sul mito sono arricchite dai contributi che danno loro le scienze umane: la sociologia, con Émile Durkheim (1858-1917) e poi Marcel Mauss (1872-1950), pone l’accento sulla funzione sociale della religione, nella quale si inserisce anche il ruolo assegnato al racconto mitico; contemporaneamente, Lucien Lévi-Bruhl (1857-1939) rileva, nel mito, il riferimento a una realtà prototipica e originaria, qualitativamente diversa dall’attuale, con la quale il mondo che conosciamo si pone in un rapporto di imitazione. Gli studi sociologici influenzano anche il dibattito sulle relazioni fra mito e rito. Per W. Robertson Smith (1846-1894) e James Georges Frazer (1854-1941) il mito costituisce una spiegazione del rito; ai due studiosi si richiamano i rappresentanti del «circolo di Cambridge», tra i quali si può ricordare Jane Ellen Harrison (18501928), che considerano il rito primario e più originario rispetto al mito. Queste idee, condivise da classicisti, antropologi e studiosi dell’antico Testamento, sono all’origine, negli anni ’30 del xx secolo, della «Myth and Ritual School», espressione che si riferisce a due movimenti, uno inglese e uno scandinavo, i cui studi si rivolgevano specialmente alle religioni del Vicino Oriente antico mettendo in rilievo la centralità del rituale. Le ricerche psicologiche sui miti, inaugurate da Wilhelm Wundt (1832-1920), che riconduce la funzione mitopoietica umana all’«appercezione personificatrice», subiscono una svolta con le opere di Sigmund Freud (1856-1939), che considera il mito come uno dei luoghi nei quali trova espressione la vita inconscia dell’uomo. Anche Carl Gustav Jung (1875-1961) intende i miti come manifestazioni dell’inconscio, ma li riconduce a modelli psichici collettivi, le «immagini archetipiche», formulabili tramite parole e rappresentabili tramite immagini, che a loro volta fanno r iferimento, in ultima istan-
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Teorie sul mito
za, ad «archetipi in sé» che si trovano al di là del linguaggio e dell’immaginazione. Una particolare attenzione nei confronti della psicologia analitica si trova nella concezione del mito di Károly Kerényi (1897-1973). Nell’antropologia, intanto, gli studi sul mito vanno di pari passo con lo sviluppo della disciplina. Dopo i lavori degli esponenti dell’etnologia anglosassone ottocentesca, si possono menzionare le ricerche intorno al mito della scuola morfologico-culturale di Leo Frobenius (1873-1938), cui si richiama, poi, Adolf Ellegard Jensen (1899-1965), quelle di Wilhelm Schmidt (1868-1954) – che, sulla scorta di Andrew Lang (1844-1912), nega che il mito costituisca una espressione propria dei popoli più antichi e ritiene che scaturisca da una degenerazione di credenze originarie pre-mitiche in un Essere supremo creatore – e il funzionalismo. Per Bronislaw Kaspar Malinowski (1884-1942), il mito funziona come «ingrediente indispensabile di ogni cultura»; la sua funzione è di «rinforzare la tradizione [...] facendola risalire a una realtà iniziale più elevata, migliore, di carattere più sovrannaturale». Anche la filosofia contemporanea, proseguendo una tradizione di interesse nei confronti del mito che si può dire risalga ai presocratici, ha dato contributi significativi alle analisi mitologiche, come mostrano i lavori di Ernst Cassirer (1874-1945), e la teologia ha dibattuto e dibatte intorno al tema della demitizzazione. Infine, il mito, la cui analisi storico-religiosa inizia con le analisi sui nomi divini di Max Müller, ha continuato a essere un oggetto di ricerca della linguistica. Tra le letture linguistiche del mito si può accennare a quella proposta da Roland Barthes (1915-1980), che ha influito in maniera significativa sugli studi religiosi. Se la lingua è costituita di segni e il segno è unione di significante e significato, il mito, per Barthes, impiega i segni della lingua facendone dei significanti, cui assegna un significato ulteriore. Attraverso l’attribuzione di un nuovo significato, o di un nuovo insieme di significati, un oggetto viene sottratto dal suo contesto ordinario ed è proiettato in una dimensione diversa. In questo modo, lo si priva del necessario condizionamento storico, e quindi lo si astrae dalle circostanze nelle quali si è prodotto per dargli un carattere trans-storico. Così si «depoliticizza» la parola, rendendola strumento di una operazione mistificatrice. Il dibattito, dunque, ha visto e vede confrontarsi e intersecarsi discipline diverse – psicologia, socio-
logia, antropologia, storia delle religioni, filosofia, teologia, linguistica – e, all’interno di ciascuna di esse, orientamenti a volte opposti, che disegnano un quadro complesso, rendendo particolarmente difficile una rassegna generale delle teorie sul mito. Se ne possono tuttavia descrivere alcune, cui non si è fatto riferimento nel breve excursus appena proposto, che costituiscono altrettanti modelli cui si richiama il dibattito storico-religioso attuale. Prospettive storiciste Il concetto di mito, dalle sue origini greche, si è fatto strumento di analisi dei fatti religiosi generalmente applicabile. Ma quale senso ha il termine «mito» al di fuori della sua cultura di origine? Raffaele Pettazzoni (1883-1959) intende affrontare la questione da un punto di vista storico e prende le mosse da un oggetto di studio concreto: il corpus di racconti che gli etnologi hanno raccolto presso la civiltà dei Pownee, popolazione del Nord America di lingua caddo. Questi racconti appaiono subito qualificati da tratti diversi, che permettono di classificarli in due gruppi: le «storie false» e quelle «vere». Fra i due gruppi esistono differenze esteriori e di contenuto: alle prime, che si possono narrare in ogni momento, risultano da un esercizio relativamente libero della fantasia e si svolgono di solito nei tempi attuali, si contrappongono le seconde, che soltanto in certe occasioni si possono recitare, hanno luogo nel passato e riguardano il fondamento stesso della cultura in questione. È in queste storie che diventa possibile identificare il mito: i miti sono narrazioni che rappresentano la «carta di fondazione» di una società e il loro tempo è quello delle origini. La loro efficacia è legata alla «magia della parola» posta in atto nel momento in cui sono recitati. In questo senso il mito è vero, ma non ha una realtà assoluta, indipendente dai tempi e dagli spazi in cui si esprime: per essere vera, una narrazione mitica dev’essere creduta, cioè costituire, per i membri di una certa società, il reale fondamento del vivere. Nel momento in cui non viene più creduta, perde la sua verità e subisce un processo di degradazione, assumendo, per esempio, i tratti di una favola. Le idee di Pettazzoni, che sviluppano una tematica – quella del tempo mitico come tempo fondante – che ha una lunga storia (dai romantici a Lévy-Bruhl, Preuss, Malinowski, Kerényi ed Eliade), sono state riprese e sviluppate dagli studiosi che si sono richiamati al suo pensiero. Si può citare Ange-
lo Brelich (1913-1977), che sottolinea come il mito non spieghi ma fondi, racconti come qualcosa è venuto alla luce rimandando a un tempo nel quale non esisteva. Il mito dà così un senso alla realtà attuale e le garantisce stabilità, tanto nei suoi aspetti positivi quanto in quelli negativi. Per Ernesto de Martino (1908-1965), l’uomo si trova in una situazione di precarietà che comporta il rischio, costante ma reso più acuto dai momenti critici della vita, di perdere la sua presenza nel mondo, il suo esserci. A questa situazione reagisce tramite la destorificazione, cioè sottraendo gli eventi alla loro contingenza per inserirli in una dimensione eterna. Il mito risulta funzionale a questo scopo: fa sì che i fatti storici e le situazioni di crisi che comportano si possano vivere come se fossero la ripetizione di un modello situato nel tempo delle origini. Analisi strutturali del mito Il mito si è sempre presentato come qualcosa di misterioso e di oscuro; con la sua difficile intelligibilità, cui si aggiunge, in alcuni casi, la complessità derivante dall’intrecciarsi di varianti e di versioni, costituisce una sfida per chi creda nell’esistenza di una organizzazione precisa dell’universo e nella possibilità di coglierne i tratti. Claude Lévi-Strauss (n. 1908) intende dunque mostrare come anche la mitologia possa rientrare nel suo modello di interpretazione della realtà. Lo fa prendendo a modello gli studi linguistici di N.S. Troubetzkoy e R. Jakobson – che avevano distinto, quali unità del sistema fonologico di una lingua, «fonemi» (consistenti in rapporti fra suoni) – e ricerca, analogamente, l’unità elementare del racconto mitico, riconoscendola nel «mitema». Sulla base delle loro analogie, riunisce i mitemi in gruppi, che poi ordina in serie di opposizioni. Per lui «il pensiero mitico procede dalla presa di coscienza di talune opposizioni e tende alla loro mediazione progressiva». Riferendosi a Lévi-Strauss, la «narratologia» ha analizzato il mito come racconto. In particolare, Algirdas Julien Greimas (1917-1992) ha studiato il racconto mitico nella sua dimensione temporale, ne ha inventariato i ruoli dei personaggi e sistematizzato le funzioni. A una prospettiva strutturale si richiamano altre ricerche intorno ai miti, in parte debitrici dell’impostazione lévi-straussiana, in parte espressione di diverse prospettive interpretative. Fra queste ultime, si deve citare almeno quella di Georges Du-
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mézil (1898-1986). Nei miti delle popolazioni inserite nell’area linguistica indoeuropea lo studioso francese ha rinvenuto una struttura comune, caratterizzata da una divisione in tre parti, corrispondenti a tre funzioni (quella della sovranità religiosa, guerrier e produttiva). La cosiddetta «tripartizione funzionale» non sarebbe propria, come la struttura binaria individuata da Lévi-Strauss, del funzionamento della mente umana in genere, ma costituirebbe una produzione culturale specifica del mondo indoeuropeo. Prospettive fenomenologiche L’idea del mito come luogo di rivelazione di una realtà extra-umana, propria delle correnti romantiche, si ritrova in alcuni esponenti degli studi del Ventesimo secolo. È stata ripresa, tra gli altri, da Gerardus Van der Leeuw (1890-1950) e Mircea Eliade (1907-1986), che si possono inquadrare nella corrente fenomenologica. Il primo parla della parola mitica come luogo di espressione del sacro, inteso come potenza. Ma è in Eliade che troviamo la teoria del mito più articolata. Lo storico delle religioni romeno condivide con gli altri studiosi già citati la convinzione che il racconto mitico richiami un tempo delle origini nel quale si trovano i fondamenti di quanto esiste in una data civiltà. Definisce questa dimensione illud tempus e ritiene che in essa siano stati forniti i modelli delle attività umane. Raccontando un mito o eseguendo un rito, tali modelli vengono riattualizzati, mentre le azioni quotidiane, conformandosi a quanto è stato definito in illo tempore, assumono particolare pregnanza. Si tratta di una impostazione che, presentata in questi termini, non diverge in maniera particolare da altre, come quella storicista. La differenza consiste nel riconoscimento di un valore trans-storico del mito, la cui verità non si limita, dunque, al fatto di essere creduto in una cultura. Le vicende mitiche sono riconducibili a schemi (gli «archetipi»), modelli di comportamento o immagini esemplari che sono nati nel momento in cui l’uomo ha preso coscienza della propria situazione nel mondo; presentano così quella universalità che è garantita loro dall’essere connaturati all’esistenza umana. La variabilità storica, così, si associa a una invariabilità strutturale propria dell’esperienza religiosa: questa, in quanto esperienza, è qualcosa di propriamente e tipicamente umano, e, in quanto religiosa, costituisce il tramite attraverso il quale una realtà di ordine diverso da quello quotidiano, la realtà del «sacro», si rivela.
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Una dissoluzione del mito? Le prospettive che si sono ricordate presuppongono il riferimento a un oggetto-mito: un oggetto che presenta dimensioni ontologiche (nel caso della fenomenologia), o comunque un oggetto che, definito e definibile a partire da un particolare contesto storico, assume un valore più generale e diventa uno strumento interpretativo valido per la lettura di differenti realtà culturali. Ma si può anche discutere sulla effettiva possibilità di procedere a questa estensione. Nei suoi studi sul mondo ellenico, Marcel Detienne (n. 1935) mostra, ad esempio, l’impossibilità di riconoscere nel mito un genere letterario o un tipo di racconto specifico. Una serie di ricerche recenti, inoltre, ha sempre più sottolineato i condizionamenti culturali delle prospettive interpretative intorno al mito, mettendo in luce quanto le diverse teorie formulate in proposito rispecchino l’impostazione generale e gli atteggiamenti filosofici o ideologici degli studiosi che le hanno elaborate e si rivelino di difficile uso nel momento in cui le si voglia adottare quali criteri interpretativi di precise realtà storiche. D’altra parte, questo tema richiama la questione più generale della decostruzione dell’apparato concettuale della storia delle religioni, dei limiti che la critica nei confronti di esso può avere e dell’opportunità di mantenere o rifiutare certe nozioni tipiche dei nostri studi sui fatti religiosi. Ne è nato un dibattito sulle condizioni di possibilità dell’uso della nozione di mito che rimane aperto.
Note e Bibliografia
Il Mito e i suoi Primi Passi di Julien Ries
Il Mito: Linguaggio di Solidarietà Universale di Jacques Vidal
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3 Dictionnaire des Mythologies et Religions, sous la direction de Yves Bonnefoy, 2 vol., Flammarion, Paris 1981 (tr. it. Dizionario delle mitologie e delle religioni, diretto da Yves Bonnefoy, 3 vol., Rizzoli, Milano 1989). 4 Madeleine Petit, Le phénomène reli gieux, Bloud et Gay, Paris 1966. 5 Dominique Dubarle, Epistémologie des sciences humaines de la religion, Institut Catholique de Paris, Paris 1980. 6 Julien Ries, Sciences humaines et science des religions, in «Civiltà delle Macchine», xxvii, 4-6 (luglio-dicembre 1979), Roma, numero monografico su Religione e Cultura, p. 39-44. 7 Henri Desroche, L’homme et ses reli gions: sciences humaines et expériences religieuses, Cerf, Paris 1972. 8 Michel Meslin, Pour une science des religions, Seuil, Paris 1973 (tr. it. Per una scienza delle religioni, Cittadella, Assisi 1975). 9 Paul Tillich, Aux frontières de la reli gion et de la science, Le Centurion, Paris 1970 (tr. it. parziale Il futuro delle reli gioni, cap. 1-3, 5-6, Queriniana, Brescia 1970). 10 Edgar Morin, Le paradigme perdu: la nature humaine, Seuil, Paris 1973 (tr. it. Il paradigma perduto: che cos’è la natura umana?, Bompiani, Milano 1974, rist. Feltrinelli, Milano 1999); Idem, Pour une
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Note e Bibliografia
anthropologie fondamentale, in L’unité de l’homme. Invariants biologiques et universaux culturels, Seuil, Paris 1978. Edouard Boné, Du biologique au culturel. L’essence de l’hominisation, in «Civiltà delle Macchine», cit., p. 24-26. 11 Melville Jean Herskovits, Cultural Anthropology, Knopf, New York 1955. Margaret Mead, Anthropology: a Human Science, Van Nostrand, Princeton N.J. 1964 (tr. it. Antropologia: una scienza umana, Ubaldini, Roma 1970). Simone Clapier Valladon, Panorama du cultu ralisme, Épi, Paris 1976. 12 Jean-Jacques Walter, Psychanalyse des rites: la face cachée de l’histoire des hom mes, Denoël, Paris 1977. 13 Michel Meslin, Mythes et Raison, in «Civiltà delle Macchine», cit., p. 49-52. 14 Riprendiamo l’espressione dal titolo dell’opera pubblicata nel 1974 da Pierre Clastres, Le grand parler. Mythes et chants sacrés des Indiens Guarani, Seuil, Paris. 15 Pierre Brunel, Le mythe de la méta morphose, Colin, Paris 1974. 16 Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, A. Guida, Napoli 2001. 17 Jean Cazeneuve, Les mythologies à tra vers le monde, Hachette, Paris 1966. 18 Marcel Jousse, Le parlant, la parole et le souffle, Gallimard, Paris 1978; Idem, Le style oral, Rythmique et mnémotechnique, Le Centurion, Paris 1981. Cfr. anche Gabrielle Baron, Mémoire vivante: vie et œuvre de Marcel Jousse, Le Centurion, Paris 1981. 19 Paul Tillich, Mythe et Mythologie, in Aux frontières de la religion et de la science, cit., p. 131-143.
Dal Mitogramma al Mito di Julien Ries Note Mircea Eliade, Histoire des croyances et des idées religieuses. i. De l’âge de la pierre aux mystères d’Eleusis, Payot, Paris 1976, p. 27-63 (tr. it. Storia delle credenze e delle idee religiose, i. Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, Sansoni, Firenze 1979, p. 13-40). 2 André Leroi-Gourhan, Préhistoire de l’art occidental, Mazenod, Paris 1965 (tr. it. I più antichi artisti d’Europa. Intro 1
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duzione all’arte parietale paleolitica, Jaca Book, Milano 1981); Idem, L’art pariétal, langage de la préhistoire, Éd. Jérôme Millon, Grenoble 1992.
Il Mito Cosmogonico Fondamento di Tutti i Miti di Julien Ries Bibliografia Anati Emmanuel, Origini dell’arte e della concettualità, Jaca Book, Milano 1989. A.A.V.V., La naissance du monde, in Sources orientales, i, Seuil, Paris 1959, rist. 1994. Casal Jean-Marie, La civilisation de l’Indus et ses énigmes, Fayard, Paris 1969. Cauvin Jacques, Les premiers villages de Syrie-Palestine du ixe au viie millénaire avant J.-C., de Boccard, Paris 1978. —, La naissance des dieux, in La recherche, n. 194, Paris 1987, p. 1472-1480. —, Naissance des divinités. Naissance de l’agriculture, Cnrs Éditions, Paris 1994 (tr. it. Nascita delle divinità e nascita del l’agricoltura, Jaca Book, Milano 1997). Eliade Mircea, Histoire des croyances et des idées religieuses. i. De l’âge de la pierre aux mystères d’Eleusis, Payot, Paris 1976 (tr. it. Storia delle credenze e delle idee religiose. i. Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, Sansoni, Firenze 1979, p. 33-40).
Il Mito di Enki e la Prosperità di Sumer di Henri Limet Note L’intero testo del mito doveva comprendere circa 500 versi. Una prima edizione si deve a Samuel Noah Kramer e Ines Bernhardt, in Wissenschaftliche Zeit schrift der Friedrich-Schiller-Universität Jena, 9 (1959-1960); da questa ha preso le mosse un importante studio di Adam Falkenstein, Zeitschrift für Assyriologie, 56 (1964), p. 44s. Una traduzione incompleta, dell’autore, figura in Samuel Noah Kramer, The Sumerians. Their History, Culture, and Character, Univer sity of Chicago Press, Chicago 1963, p. 174-183. Ci riferiremo all’edizione 1
(frutto della realizzazione di 25 copie, molte delle quali sono solo frammenti) procurata da C. Benito in una dissertazione presen tata all’Università della Pennsylvania nel 1969, e conosciuta solo attraverso una fotocopia. 2 Claude Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, p. 232 (tr. it. Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966, rist. 2002): «La sostanza del mito non sta nello stile, o nel modo della narrazione, o nella sintassi, ma nella storia che vi è raccontata». Questo testo risale al 1955. Dal canto suo, Mircea Eliade, in Aspects du mythe, Gallimard, Paris 1963 (tr. it. Mito e realtà, Borla, Torino 1966), dà questa definizione (la meno inadeguata, egli osserva, perché è la più vasta): «Il mito narra una storia sacra» (p. 27). Eliade ha colto bene il problema: il mito non è una storia ordinaria, ma ha ragione di definirla necessariamente «sacra»? A meno che non si intenda questa parola in senso molto ampio. Per Eliade (ibidem) il mito è anche una storia degli «inizi», un racconto di «creazione»; questo punto di vista è più discutibile. 3 Secondo Theodor H. Gaster, in «Nu men», i/3 (1954), p. 199, la distinzione tra mito e racconto si fonda sulla funzione e la motivazione; e fa l’esempio dell’Epo pea di Ghilgamesh, che è raccontata, e dell’Enuma elish, che veniva recitato durante le cerimonie dell’akitu (festa annuale che celebrava il governo del dio Marduk). Vedi anche Paolo Xella in Atti del i Convegno italiano sul Vicino Oriente antico (= Orientis Antiqui Collectio, xiii, Roma 1978, p. 55). 4 È anche la conclusione di Paolo Xella, art. cit. Vedi anche Mircea Eliade, op. cit., p. 26. 5 Claude Lévi-Strauss, op. cit., p. 228: «(I miti, così come li si è normalmente intesi) sembrano ridursi tutti a un gioco gratuito o a una forma rozza di speculazione filosofica». E a p. 229 aggiunge: «Sembra che (nel mito) il succedersi dei fatti non obbedisca ad alcuna regola di logica o di continuità». Quanto al racconto, non si vede perché debba assolutamente contenere una profonda filosofia o trattare di argomenti diversi da quelli che in te ressano alla gente, quali la felicità, la disgrazia, l’amore, l’odio, la povertà, la ricchezza.
6 La fine della risposta di Enki è andata per duta. Perciò l’interpretazione delle parole o delle peripezie che concludono il mito rimane dubbia, ma, almeno sembra, probabile. 7 Secondo alcune teorie, i miti debbono relazionarsi al culto e spesso si invoca come prova l’esempio dell’Enuma elish recitato durante la festa dell’akitu. Ma il rapporto tra miti e riti è ben lungi dal l’essere sempre così palese; nulla dice che questa sia una regola assoluta, tutt’altro. 8 Qui, ancora, la distinzione stabilita dal mito riflette la situazione sociologica. I documenti di tipo economico che ri salgono alla iii dinastia di Ur ci mostrano che da un lato c’era la massa di uomini (gurush) e donne (gemé) adibiti a svariati lavori non specializzati – quali la mieti tura, la spigolatura, il mantenimento dei fossati, la tessitura, l’alaggio delle barche –, dall’altro c’erano gli artigiani esperti di mestieri ben precisi: fabbri, orafi, carpentieri, conciatori, cestai. Gli artigiani sono rappresentati simbolicamente dalle cin que dee sorelle di Inanna. 9 Miguel Civil (a cura di), Débat sumérien entre la houe et l’araire, (dissertazione fotocopiata). Il passo dove la zappa presenta i propri argomenti contro le pretese dell’aratro figura ai versi 9-19. 10 Inintelligibile per due motivi: la tradu zione esatta di alcune parole ci è scono sciuta, la cuna che potrà colmarsi col tem po e con gli sforzi degli studiosi; inoltre, ben più grave, non siamo in grado di ca pire che interesse avesse un dettaglio per i Sumeri. Ad esempio, perché Nin.tu riceve un porro? 11 La terra è considerata donna; renderla fertile è compito degli uomini.
Mito e Storia nel Mondo Biblico di Gianfranco Ravasi Bibliografia A.A.V.V., Capire Bultmann, Borla, Torino 1971. A.A.V.V., Myths in the Old Testament, Scm Press, London 1980. Baldacci Massimo, Il diluvio, Mondadori, Milano 1999.
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Giochi di Parole e Miti nell’Antico Egitto di Michel Malaise Note Abbreviazioni Oltre a quelle del Lexikon der Ägyptologie (di seguito citato LdÄ), usiamo anche: Alliot, Horus = Maurice Alliot, Le culte d’Horus à Edfou au temps des Ptolémées, i-ii, Il Cairo 1949-1954, rist. Beirut 1979. Barguet, LdM = Paul Barguet, Le Livre des Morts des anciens Égyptiens, Paris 1967, rist. 1979. Faulkner, Pyramid = Raymond Oliver Faulkner, The Ancient Egyptian Pyramid Texts, i-ii, Oxford 1969. Faulkner, Coffin = Raymond Oliver Faulkner, The Ancient Egyptian Coffin Texts, i-iii, Warminster 1973-1978. Sauneron, Esna v = Serge Sauneron, Les fêtes religieuses d’Esna aux derniers siècles du paganisme, Il Cairo 1962. Vandier, Jumilhac = Jacques Vandier, Le papyrus Jumilhac, Paris 1961. Note Cfr. Serge Sauneron e Jean Yoyotte, La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, in La naissance du monde, Paris 1959, (Sources Orientales 1), p. 17-91, p. 39. 2 Cfr. Siegfried Morenz, Wortspiele in 1
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Ägypten, in Festschrift Johannes Jahn, Leipzig 1957, p. 23-32 [= in Religion und Geschichte des alten Ägypten. Gesammelte Aufsätze, Köln 1975, p. 328-342], p. 24. Si potrebbe dire lo stesso per il rapporto che unisce, in certi casi, la grafia geroglifica al contenuto che essa serve a trascrivere, cfr. Serge Sauneron, Les prêtres de l’ancienne Égypte, Paris 1957, p. 130132 (tr. it. I preti dell’antico Egitto, Milano 1961); Adolphe Gutbub, Jeux de signes dans quelques inscriptions des grands temples de Dendérah et d’Edfou, in «Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale», 52 (1953), p. 57-101. 3 Cfr. Philippe Derchain, Le papyrus Salt 825 (B.M. 10051): rituel pour la conser va tion de la vie en Égypte, Bruxelles 1965, p. 9. 4 Cfr. Ermete Trismegisto, xvi, 1-2. 5 Sui giochi di parole della lingua egizia si possono consultare le seguenti opere di carattere generale: Kurt Sethe, Dramatische Texte zu den altägyptischen Mysterienspielen, Leipzig 1928, p. 261 (voce Wortspiel); Hermann Grapow, Sprachliche und schriftliche Formung ägyptischer Texte, Glückstadt 1936, (Leipziger Ägyptologische Studien 7), p. 17-20; Siegfried Schott, Mythe und Mythen bildung im alten Ägyptischen, Leipzig 1945, p. 5963; Constantin Emil Sander-Hansen, Die phonetischen Wortspiele des ältesten Ägyptischen, in «Acta Orien talia», 20 (1946-1948), p. 1-22; Hans Bonnet, Reallexikon der ägyptischen Religionsgeschichte, Berlin 1952, p. 501-502; Hermann Grapow, Ägyptologie. Literatur, (Handbuch der Orientalistik, i, 1, 2), i ed., Leiden 1952, p. 23; Siegfried Schott, Ibidem, p. 73-74.; Erika Feucht, Ibidem, ii ed., Leiden 1970, p. 47-49; Otto Firchow, Grundzüge der Stilistik in den altägyptischen Pyramidentexten, Berlin 1953, p. 223-235; Siegfried Schott, Totenbuchspruch 175 in einem Ritual zur Vernichtung von Feinden, in «Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Kairo», 14 (1956), p. 181-189, p. 184; e in «Wiener Zeitschrift für die Kunde des Morgen landes», 54 (1957), p. 180, 183s.; Serge Sauneron, Les prêtres, cit., p. 123-127; Siegfried Morenz, Wortspiele, cit., p.
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Note e Bibliografia
23-32; Eberhard Otto, Das Verhältnis von Rite und Mythus im Ägyptischen, Heidelberg 1958, p. 14s.; Hartwig Altenmüller, in «Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Kairo», 22 (1967) p. 13-17. 6 Cfr. Alliot, Horus, ii, p. 711-761. 7 Cfr. Firchow, Stilistik, cit., p. 228235; Faulkner, Pyramid, § 577, 580, 581, 592b, 614a, 621b, 627a-b, 628b-c, 629a-c, 630a-c, 631a-b, 638b, 645bd, 647d, 648d, 649a, 653d, 662a-b, 723a, 765a-b, 767a-b, 1159a, 1257a-d, 1607b, 1618b, 1630d, 1631a-b, 1781b. 8 Cfr. Faulkner, Coffin, i, p. 256 (iv, 175176); ii, p. 224 (vi, 270), p. 289 (vi, 386); iii, p. 5 (vii, 11). 9 Cfr. Schott, Mythe und Mythenbildung, cit., p. 59-61; Morenz, Wortspiele, cit., p. 27. 10 Cfr. Kurt Sethe, Amun und die acht Urgötter von Hermopolis, Berlin 1929, § 178-186. Questa etimologia è nota a Plutarco (De Iside, 9) e a Manetone (cfr. Serge Sauneron, in «Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale», 51 [1952], p. 50). 11 Dio-demiurgo il cui nome può egualmente significare «colui che non è» oppure «colui che è completo», cfr. Erik Hornung, Der Eine und die Vielen. Ägyptische Gottesvorstellungen, Darm stadt 1971, p. 56 (tr. it. Gli dei dell’antico Egitto, Roma 1992). 12 Nome che lo caratterizza in quanto dio lunare, cfr. Klaus P. Kuhlmann, in LdÄ, ii, 5, 1976, col. 705, n. 26. Un gioco di parole tra Khonsou e il verbo «viaggiare» si trova nei Testi dei Sarcofagi (cfr. Faulkner, Coffin, iii, p. 5). 13 Etimologia non del tutto sicura, cfr. Herman te Velde, in LdÄ, iv, 2, 1980, col. 246. 14 Tr. di Sauneron, Esna V, p. 265-266 (206, 10-11). 15 Tr. di Sauneron, Esna V, p. 266-267 (206, 11); cfr. anche Serge Sauneron, in Mélanges Mariette, Paris 1961, p. 234-235. 16 Cfr. Vandier, Jumilhac, p. 102-103, 117, 131, 155-157. 17 Cfr. Faulkner, Coffin, i, p. 264 (iv, 288) e Barguet, LdM, p. 61 (cap. 17). Su questo testo cfr.: Eberhard Otto, in «Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde», 81 (1956), p. 65-66; Morenz, Wortspiele, cit., p. 26-27; Mat-
thieu Heerma van Voss, De oudste versie van Dodenboek 17a, Coffin Texts Spreuk 335a, Leiden 1963, p. 45, 81-82. 18 Tr. di Barguet, LdM, p. 262 (cap. 175). 19 Cfr. Pap. Bremmer Rhind, 29, 3 = Sauneron e Yoyotte, La naissance du monde, cit., p. 51, doc. 12; Sauneron, Esna V, p. 242 (272, 2), 261 (206, 6), 264 (206, 9), 289 (163, 16-17); Faulkner, Coffin, iii, p. 167 (vii, 465). 20 Cfr. Charles Maystre e Alexandre Piankoff, Le Livre des Portes, Il Cairo 1946, p. 275-279; per la traduzione cfr. Sauneron e Yoyotte, La naissance du monde, cit., p. 76-77. 21 Cfr. Pap. Carlsberg i, vi, 11: Hans O. Lange e Otto Neugebauer, Papyrus Carlsberg Nr. 1, ein hieratisch-demotischer kosmologischer Text, Copenhagen 1940, p. 49, 52. 22 Cfr. Barguet, LdM, p. 59. 23 Cfr. Jan Zandee, Das Schöpferwort im Alten Ägypten, in Verbum. Essays... H.W. Obbink, Utrecht 1964 (Studia Theologica Rheno-Traiectina 6)‚ p. 33-66. 24 Cfr. Faulkner, Coffin, i, p. 135 (ii, 337-338).
Omero: dal Mito alla Mitologia di Paul Wathelet Note Ciò è tanto più vero se si considera che il ciclo epico è andato quasi completamente perduto. Per quanto è possibile giudicare, le opere del ciclo non presentavano lo stesso orientamento di quello prodotto dall’influenza omerica. Nei confronti del sacro, Esiodo è disposto in modo del tutto diverso, ma la sua opera è evidentemente molto più breve. 2 Pierre Chantraine, Dictionnaire étymo logique de la langue grecque: histoire des mots, Klincksieck, Paris 1999, ii, p. 399 (voce Zeus): è il dio indo-europeo del cielo luminoso. Idem, Le divin et les dieux chez Homère, in Entretiens sur l’Antiquité classique, i, Genève 1952, p. 56. 3 Sulle forme di Zeus nella tradizione epica, cfr. Paul Wathelet, Le nom de Zeus chez Homère et dans les dialectes grecs, in «Minos», n.s. 15 (1974), p. 195-225. 1
Per la tradizione posteriore, cfr. Lewis Richard Farnell, The Cults of the Greek States, Clarendon Press, Oxford 1896, i, p. 50-51. 5 L.R. Farnell, The Cults, cit., i, p. 195196; Louis Séchan e Pierre Lévêque, Les grandes divinités de la Grèce, Armand Colin, Paris 1966, p. 182. A Olimpia, il culto di Era pare proprio essere stato precedente a quello di Zeus. 6 Si ricordi che fu proprio il Sole a rivelare ad Efesto gli amori di Afrodite ed Ares. 7 A proposito di questo episodio e degli echi rituali implicati, cfr. André Motte, Prairies et jardins de la Grèce antique. De la religion à la philosophie, Palais des Académies, Bruxelles 1973, p. 111-113, 207-208, 216-219. 8 Zeus elenca: la moglie d’Issione, Danae, Europa, Semele, Alcmena, Demetra, Latona (Iliade, xiv, v. 312-328). Anche qui: l’unione di Zeus con queste eroine e divinità ha ogni volta un significato profondo, di cui una semplice lista di nomi in quanto prodezze amorose non rivela nul la. Si tratta di una sorta di «catalogo» sfoderato dall’aedo per stupire il pubblico con il suo sapere. Già gli Alessandrini consideravano una tale elencazione poco appropriata. 9 Infatti, dopo la menzione di Oceano in Iliade, xiv, v. 246, Era ripeterà la sua menzogna a Zeus (xiv, v. 301-311). Sulla coppia primordiale Oceano e Teti, cfr. Jean Rudhardt, Le thème de l’eau primordiale dans la mythologie grecque, Francke, Bern 1971, p. 35-53. 10 Inno ad Afrodite, v. 168-190, in Filippo Cassola (a cura di), Inni omerici, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1975. 11 Pierre Boyancé, La religion de Virgile, Puf, Paris 1963, p. 64-67. 12 Walter Burkert, Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, Stuttgart 1977, p. 233-237 (tr. it. La religione greca, Jaca Book, Milano 2003, ii ed., p. 297-302). Cfr. anche Robert Fleischer, Artemis von Ephesos und verwandte Kultstatuen aus Anatolien und Syrien, Brill, Leiden 1973. 13 Cfr. in particolare Saara Lilja, Dogs in Ancient Greek Poetry, Societas Scien tiarum Fennica, Helsinki 1976, p. 127. 14 Paul Wathelet, Réflexions sur les 4
noms des Troyens dans l’Iliade, in «Onoma», 22 (1978), p. 467-475. Questo breve approccio del problema introduce a uno studio assai più vasto dell’argomento. 15 Pierre Chantraine, Dictionnaire étymologique, cit., iv 1, p. 1083 (voce Sokos). 16 Walter Otto, Les dieux de la Grèce: la figure du divin au miroir de l’esprit grec, Payot, Paris 1981, p. 132-133. 17 Sul carattere funerario del cavallo, cfr. Liliane Bodson, Hiera Zoia, Palais des Académies, Bruxelles 1978, p. 151 e n. 217; Fernand Benoit, L’héroïsation équestre, Éditions Ophrys, Aix-en-Pro vence 1954. 18 Cfr., per esempio, Michel Defourny, Le mythe de Yayati dans la littérature épique et puranique, Belles Lettres, Paris 1978. 19 Albert Severyns, Le cycle épique dans l’école d’Aristarque, Liège-Paris 1928, p. 247-249, (rist. anastatica, Liège 1967).
Il Mito di Demetra di Dario M. Cosi Bibliografia L’episodio della vecchia Sull’autobus che si ferma a Eleusi, riferito all’epoca dai quoti diani locali, costituisce l’ultimo paragrafo (il 240) dell’ultimo capitolo (il xxx, intitolato «Il crepuscolo degli dèi»), che chiude il volume ii (Da Gauthama Buddha al trionfo del cristianesimo, Firenze 1980, ed. orig. Paris 1978) della Storia delle credenze e delle idee religiose di Mircea Eliade. Su Demetra, il suo culto, il suo mito, cfr. Giulia Sfameni Gasparro, Misteri e culti mistici di Demetra, Roma 1986; Paolo Scarpi, Letture sulla religione classica i. L’inno omerico a Demeter (Elementi per una tipologia del mito), Padova 1976. Tutte le citazioni dall’Inno omerico a Demetra sono tratte da Filippo Cassola (a cura di), Inni omerici, Milano 1975; cfr. anche Nicholas J. Richardson, The Homeric Hymn to Demeter, Oxford 1974; Helene P. Foley, The Homeric Hymn to Demeter, Princeton N.J. 1994. L’intero paragrafo «Saggezza olimpica e mistica eleusina» dipende da Ugo
Bianchi, Saggezza olimpica e mistica eleusina nell’inno omerico a Demetra, in «Studi e Materiali di Storia delle religioni», 35 (1964), p. 161-193. Cfr. anche Larry J. Alderink, Mythical and Cosmological Structure in the Homeric Hymn to Demeter, in «Numen», 29 (1982), p. 1-16. Per il confronto tra la collera di Demetra e quella di Achille, cfr. Cora A. Sowa, Traditional Themes and the Homeric Hymns, Chicago 1984, p. 95120; André Cheyns, La structure du récit dans l’Iliade et l’Hymne homérique à Démeter, in «Revue Belge de Philologie et d’Histoire», 66 (1988), p. 32-67, specialmente p. 42. Per la fondazione dei misteri: Ileana Chirassi Colombo, I doni di Demeter. Mito e ideologia nella Grecia arcaica, in Studi triestini di antichità in onore di Luigia Achillea Stella, Trieste 1975, p. 183-213; cfr. anche Bruce Lincoln, The Rape of Persephone. A Greek Scenario of Women’s Initiation, in «Harvard Theological Review», 72 (1979), p. 223-235. Per la condizione di beatitudine degli iniziati, cfr. Johanna Chr. Bolkestein, Hosios en Eusebes. Bijdrage tot de Godsdienstige en zedelijke Terminologie van de Grieken, Amsterdam 1936; Cornelis de Heer, Makar – eudaimon – olbios – euty ches. A Study of Semantic Field denoting Happiness in Ancient Greek to the End of the 5th Century B.C., Amsterdam 1968. Interpretazioni dell’episodio del chicco di melagrana: Eugene Stock McCartney, How the Apple became the Token of Love, in «Transactions of the American Philological Association», 56 (1925), p. 70-81; John L. Myres, Persephone and the Pomegranate (H. Dem. 372-4), in «Classical Review», 52 (1938), p. 51s.; Marilyn Arthur, Politics and Pomegranate. An Interpretation of the Homeric Hymn to Demeter, in «Arethusa», 10 (1977), p. 7-47. Per la statua di Hera con la melagrana alla foce del Sele: Giovanna Greco, Il Santuario di Hera alla foce del Sele, Salerno 2001. Sulla continuità con la Madonna del Granato: Paola Zancani-Montuoro e Umberto Zanotti Bianco, Heraion i, Roma 1951; Angelo M. Ardovino, I culti di Paestum antica e del suo territorio, Salerno 1986.
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IL MITO
Note e Bibliografia
Il Mito a Roma di Natale Spineto Bibliografia Per la ricostruzione del tema della demitizzazione romana si sono seguiti Angelo Brelich, Il mondo classico nella storia delle religioni, Roma 1959; Enrico Montanari, Identità culturale e conflitti reli giosi nella Roma repubblicana, Roma 1988. In quest’ultimo libro si troveranno anche un’indagine critica approfondita e una bibliografia sul problema. I lavori cui si è fatto riferimento nel testo sono: Georg Wissowa, Religion und Kultus der Römer, München 1912, ii ed.; Franz Altheim, Griechische Götter im Alten Rom, Giessen 1930; Carl Koch, Der Römische Juppiter, Frankfurt am Mein 1937 (tr. it. Giove romano, Roma 1986); Károly Kerényi, Die antike Religion: eine Grundlegung, Leipzig 1940 (tr. it. La religione antica nelle sue linee fondamentali, Bologna 1940); Dario Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, Roma 1978; Idem, Religione romana, in Storia delle religioni, diretta da Giuseppe Castellani, Torino 1967, p. 3-80 (da cui è ripresa la trattazione del tema della sconfitta presso l’Allia); Giulia Piccaluga, Attus Navius, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», 40 (1969), p. 151-208 (al quale si fa riferimento per le caratteristiche mitiche dell’età dei re); Eadem, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974. Per le idee di Georges Dumézil su Roma, si veda la sintesi contenuta in La religion romaine archaïque, Paris 1966 (tr. it. La religione romana arcaica, Milano 2001).
Gli Imperatori Mitici della Cina Antica di Christine Kontler Note È un passo del capitolo 6 dello Huainanzi, «Le Maître de Huainan», opera di sintesi delle dottrine taoiste antiche e delle teorie filosofiche e scientifiche degli Han (ii secolo d.C.), tradotto da
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Marcel Granet in La Pensée chinoise, La Renaissance du livre, Paris 1934; ried. Albin Michel, Paris 1968, p. 285, nota 527 (tr. it. Il pensiero cinese, Adelphi, Milano 1995, iii ed.). 2 Vedi la biografia di Huangdi tradotta e annotata da Max Kaltenmark in Le Lie-sien tchouan. Biographies légendaires des Immortels taoïstes de l’antiquité, Centre d’études sinologiques de Pékin, Pechino 1953; rist. con corrigenda e nuovo index, Collège de France-De Boccard, Paris 1987, p. 51. 3 Vedi per esempio Lunyu, viii, 21. «Yu il Grande è per me un esempio senza incrinature. Mangiava e beveva frugal mente, ma l’abbondanza delle sue offerte ai Mani e agli spiriti manifestava la più grande devozione filiale. I suoi vestiti di tutti i giorni erano estremamente dimessi, ma riservava ogni sfarzo alla tunica e all’acconciatura da cerimonia. Viveva in una dimora umile, ma spendeva ogni sua energia nei lavori di prosciugamento e di canalizzazione. Sì, Yu è veramente un esempio senza incrinature!» (Entretiens de Confucius, traduzione di Anne Cheng, Seuil, Paris 1981, p. 73; tr. it. I dialoghi di Confucio, a cura di Alberto Castellani, Sansoni, Firenze 1990). Bibliografia Chavannes Édouard, Mémoires historiques de Sseu-ma Ts’ien [Sima Qian], 5 vol., Leroux, Paris 1895; ried. 6 vol., Maisonneuve, Paris 1967-1969. Granet Marcel, Danses et légendes de la Chine ancienne, 2 vol., Alcan, Paris 1926; ried. corretta e annotata, Puf, Paris 1994. —, Fêtes et chansons anciennes de la Chine, Leroux, Paris 1929; rist. facsimile Albin Michel, Paris 1982 (tr. it. Feste e canzoni dell’antica Cina, Adelphi, Milano 1990). Kaltenmark Maxime, La mythologie classique, in L’Asie, Mythes et traditions, Brepols, Paris 1991, p. 274-284. Mathieu Rémi (a cura di), Anthologie des mythes et légendes de la Chine ancienne, Gallimard, Paris 1989.
Il Mito Hindu dell’Oceano di Latte di Guy Deleury Nota Le traduzioni di Tukaram, e le relative numerazioni, sono tratte da Guy Deleury, Toukaram, Psaumes du Pèlerin, Gallimard-Unesco, Paris 1989. I riferimenti al Pancatantra e alle favole di La Fontaine sono ripresi da Guy Deleury, Le Pantcha-Tantra, Imprimerie Nationale, Paris 1995. Le biografie dei santi sono ri prese da Guy Deleury, L’Inde, continent rebelle, Seuil, Paris 2000.
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Mito e Storia nella Tradizione Mesoamericana di Davide Domenici Note Tra i più approfonditi studi recenti sul mito mesoamericano spiccano i lavori di Alfredo López Austin, dai quali è tratta in buona misura la sintesi che si presenta in questo primo paragrafo. Cfr. ad esempio López Austin 1980, 1990, 1997 e 2001. 2 López Austin 1997, p. 53-54. 3 Per una sintesi della tradizione mitologica nahua del Messico Centrale cfr. Nicholson 1971, p. 397-408. Per una sintesi generale dei miti cosmogonici mesoamericani cfr. Monjarás-Ruiz (a cura di) 1997. 4 Tra queste vi sono fonti indigene come alcune sculture antiche, i codici coloniali Telleriano-Remensis, Vaticano A e la Historia Tolteca-Chichimeca; esistono poi al cune versioni in prosa tradizionali come gli Anales de Cuauhtitlán, la Leyenda de Los Soles, la Historia de los Mexicanos por sus Pinturas e la Histoire du Mexique e lavori di storici meticci come la Crónica Mexicana di Alvarado Tezozomoc, la Historia de Tlaxcala di Muñóz Camargo e la Relación de Tezcoco di Pomar. Infine, non si debbono dimenticare le opere di autori spagnoli come Bernal Díaz del Castillo, Toribio de Benavente detto «Motolinía», Diego Durán, Diego de Landa e, soprattutto, la monumentale Historia General de las Cosas de la 1
Nueva España di Bernardino de Sahagún. La miglior enumerazione delle numerosissime fonti relative a Quetzalcóatl e Tollan è quella contenuta in Nicholson 1957 (2001). Utili sono anche le sintesi con tenute in Graulich 1988, Appendice 1, e in Carrasco 1982. 5 La bibliografia sul tema è abbondan tissima. Tra i lavori principali e che maggior influenza hanno avuto sul corso recente degli studi mesoamericanistici ricordiamo Nicholson 1957 (2001), López Austin 1973, Carrasco 1982 e Graulich 1988, nei quali è possibile reperire anche eccellenti sintesi del dibattito storiografico. Per una recente ripresa del dibattito cfr. Graulich (2002a, 2002b), Nicholson (2002a, 2002b) e Smith (2003). 6 Sahagún, Lib. x, cap. 29. 7 Cfr. López Austin 1973. 8 Carrasco 1982, p. 4-5. 9 Ibidem, 1982, p. 64. 10 Graulich 1988, p. 135. 11 Sahagún, Lib. iii, cap. 3. 12 Per una discussione sul rapporto tra Tula e Chichén Itzá cfr. Jones 1995. 13 Graulich 1988, p. 213. 14 López Austin e López Luján 1999. Cfr. anche Ringle, Gallerete Negrón e Bey 1998. 15 Hers 2001. 16 Stuart 2000. Bibliografia Alvarado Tezozomoc Fernando, Crónica Mexicana, México 1944. Anales de Cuauhtitlán, in Códice Chimalpopoca, Universidad Nacional Autónoma de México, México 1945. Carrasco David, Quetzalcoatl and the Irony of Empire: Myths and Prophecies in the Aztec Tradition, University of Chicago Press, Chicago-London 1982. —, La religione azteca: città sacre, azioni sacre, in Lawrence E. Sullivan (a cura di), Culture e religioni indigene dell’America centrale e meridionale, vol. 6 del Trattato di Antropologia del Sacro, Jaca Book, Milano 1997, p. 23-42. Codex Telleriano-Remensis, in Lord Kingsborough, Antiguedades de Méxi co, vol. 1, México 1964-1967, p. 151-338. Codex Vaticanus A, Akademische Druck und Verlanganstalt, Graz 1979.
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IL MITO
Note e Bibliografia
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Ibidem, p. 150-151. Marcel Griaule e Germaine Dieter len, Le Renard pâle. La construction du monde, Institut d’Ethnologie-Musée de l’Homme, Paris 1965. 26 Philip L. Ravenhill, The Passive Object and the Tribal Paradigm: Colonial Mu seography in French West Africa, in Mary J. Arnoldi, Christraud M. Geary e Kris L. Hardin (a cura di), African Material Culture, Indiana University Press, Bloomington 1996. 27 Walter E.A. van Beek, Dogon Restudied, cit., p. 152. 28 Georges Balandier, Tendances de l’ethnologie française (i), in «Cahiers internationaux de Sociologie», xxvii (1959); Jack Goody, Review of Conversations with Ogotemmêli, in «American Anthropologist», 69 (1967); Mary Douglas, If the Dogon, in «Cahiers d’Études Africaines», 28 (1967). 29 J. Clifford, The Predicament of Culture, cit., p. 106-109. 30 M. Douglas, If the Dogon, cit., p. 659660. 31 Walter E.A. van Beek, Dogon Restudied, cit., p. 143. 32 Claude Lévi-Strauss, La Pensée sauvage, Plon, Paris 1962 (tr. it. Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1964). 33 Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1979 (tr. it. Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna 1991). 34 Jean Laude, Art et mythe, in Yves Bonnefoy (a cura di), Dictionnaire des Mythologies et Religions, 2 vol., Flammarion, Paris 1981 (tr. it. Dizionario delle mitologie e delle religioni, Rizzoli, Milano 1989, p. 138-145); Jean-Louis Paudrat, Résonances mythiques dans la statuaire du pays dogon, in Aa.Vv., Dogon, Dapper, Paris 1994, p. 65. 35 Georges Balandier, Le désordre: éloge du mouvement, Fayard, Paris 1988, p. 17-39. 36 È questa la prospettiva ad esempio di Germaine Dieterlen, Mythologie, hi stoire et masques, in «Journal des Africa nistes», 59 (1989). 37 Jean Laude, African Art of the Dogon. The Myths of the Cliff Dwellers, The Brooklyn Museum-The Viking Press, New York 1973 (tr. fr. Le Sens de la forme. Une approche des arts dogon, in Aa.Vv., Dogon, Dapper, Paris 1944, p. 213). 24 25
Ibidem. Gregory Bateson, Mind and Nature. A Necessary Unity, Dutton, New York 1979 (tr. it. Mente e natura, Adelphi, Milano 1984). 40 Ivan Bargna, Arte africana, Jaca Book, Milano 2003, p. 52-63. 41 Rachel Hoffman, Seduction, surrender, and portable paradise: Dogon art in modern Mali, in Mary H. Nooter Roberts (a cura di), Secrecy. African Art that conceals and reveals, Prestel Verlag, München 1993, p. 223-233; P.J. Lane, Tourism and Social Change among the Dogon, in «African Arts», 4 (1988). 42 Marcel Griaule, Masques Dogons, In stitut d’Ethnologie-Musée de l’Homme, Paris 1938, rist. 1983; Anne Doquet, Les masques dogon. Ethnologie savante et ethnologie autochtone, Karthala, Paris 1999, p. 129-153. 43 M. Griaule, Masques Dogons, cit. 44 Walter E.A. van Beek, Enter the Bush. A Dogon Mask Festival, in Susan Vogel (a cura di), African Explorers. Twentieth Century African Art, The Center for African Art, New York 1991, p. 56-73. 45 Walter E.A. van Beek, Functions of Sculpture in Dogon Religion, in «African Arts», 4 (1988). 46 Giorgio Cardona, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino 1987; Simon Battestini, Écriture et texte. Contribution africaine, Les Presses de l’Université de Laval-Présence africaine, Paris 1997. 47 Mary Nooter Roberts e Allen F. Roberts (a cura di), Luba Art and the Making of the History, Prestel Verlag, München 1996, p. 33. 48 Ibidem. 49 Ibidem, p. 18-20. 50 Suzanne Preston-Blier, Words about Words about Icons: Iconology and the Study of African Art, in «College Art Journal», 47 (1988), p. 75-87. 38 39
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Crediti iconografici
Le immagini non indicate appartengono all’Archivio Jaca Book, di cui menzioniamo solo i fotografi che hanno realizzato campagne fotografiche, o che vi hanno collaborato: Alif, Tunisi: p. 151; Emmanuel Anati: 18, 46, 92; BAMS Rodella: 42; (Matteo Rodella): 190, 199, 201, 208, 209, 210, 208, 214, 217; (Giuliano Radici): 206, 212-213, 21; Campbell Grant: 12, 249; Toni Catany: 56; Jean Clottes: 50; Carlos Contreras de Oteyza: 228; Alberto Contri: 11, 226, 232, 234, 245, 247, 251, 253, 255, 262; Michel Delahoutre (disegni): 214; Rafael Doniz: 95; Excalibur: 97; (Bob Schwartz): 166, 267. Jean-Daniel Forest: 111, 113, 114, 115; Marcel Griaule (disegno): 26; Javier Hinojosa: 38; Rodney Hook: 55; Earl Kowall: 206; La Prova: 36-37; Ermanno Leso (disegno): 248; J.D. Lewis-Williams: 59; Antonio Maffeis: 218, 226; Antonio Molino (disegno): 155; Obiettivo Effe: 96; Michela Rangoni Machiavelli (disegni): 80; Riccardo Schiraldi: 245; Carlo Scotti: 252; Roberto Simoni (rilievo): 156; Angelo Stabin: 58, 70, 72, 82, 83, 90, 91, 170; Mireille Vautier: 225, 229; Michel Zabé: 69; Mahmoud Zibawi, Isber Melhem: 129. Altri Archivi: Arch. Studium Biblicum Franciscanum, Gerusalemmme: 130; Collez. Giorgio Bargna: 97; 256; Bruno Cossa, Milano: 132, 135, 137, 138, 140; Gianni Dagli Orti, Parigi: 63; Lunwerg, Madrid (Pedro A. Saura Ramos): 62, 65; Max Mandel: 129.