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IL MONDO DEI PELLEGRINAGGI ROMA, SANTIAGO, GERUSALEMME Testi di Fernando López Alsina, Anna Benvenuti, Franco Cardini, Paolo Caucci von Saucken, Manuel C. Díaz y Díaz, Klaus Herbers, Massimo Miglio, Juan Ignacio Ruiz de la Peña, Robert Plötz, Julien Ries, Marco Tangheroni
A cura di Paolo Caucci von Saucken
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© Internazionale Editoriale Jaca Book SpA tutti i diritti riservati
Prima edizione italiana settembre 1999 Nuova edizione italiana maggio 2018
Il testo di Ignacio Ruiz de la Peña è stato tradotto dallo spagnolo da Raul Schenardi
Copertina e grafica Paola Forini/Jaca Book Fotolito Target Color, Milano
Stampa e legatura Centro Stampa Digitalprint Srl, Viserba (Rn) maggio 2018
ISBN 978-88-16-60545-9
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
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SOMMARIO
Paolo Caucci von Saucken PORTICO pag. 9
PEREGRINATIO Julien Ries PELLEGRINAGGI, PELLEGRINI E SACRALIZZAZIONE DELLO SPAZIO pag. 19 Il pellegrino in cammino Simbolismo del centro e luoghi sacri La festa dell’incontro Conclusione Manuel C. Díaz y Díaz IL PELLEGRINO MEDIEVALE pag. 39 Le motivazioni Intenzioni e virtù per il cammino I prototipi del pellegrino Massimo Miglio PELLEGRINAGGIO E GIUBILEO pag. 57 Dal pellegrinaggio tardo antico all’istituzione del giubileo L’esplosione del giubileo del 1300 L’istituzionalizzazione del giubileo tra Trecento e Quattrocento PEREGRINI Robert Plötz IL CAMMINO E I LUOGHI pag. 75
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De peregrinationibus maioribus liturgica et paraliturgica: benedictiones, ritus, sacra et signa 75 Liturgica 76 Apprehensio Sancti Jacobi/L’abbraccio del Santo 78 Sacra I 82 Sacra II 83 Signa in loca et itinere/I segni lungo il viaggio e nelle tappe 90 Loca Sanctorum 91 Locus Sanctus: Jerusalem 91 Locus Sanctus: Roma 95 Locus Sanctus: Santiago de Compostela 97 Conclusio/Conclusione 102 Klaus Herbers PELLEGRINI A ROMA, SANTIAGO, GERUSALEMME pag. 103 Introduzione: peregrinationes maiores L’ultima età antica e il primo medioevo La svolta dell’alto medioevo Racconti di pellegrini nel tardo medioevo Bilancio
103 104 124 127 134
ITINERA 57 59 62
Paolo Caucci von Saucken LA FRANCIGENA E LE VIE ROMEE pag. 137 La decadenza delle vie consolari romane Le origini altomedievali della via francigena Gli itinerari di Sigerico e di Nikolas di Munkathvera La moltiplicazione dei percorsi nel pieno medioevo Gli Annales Stadenses, summa delle vie medievali per Roma
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Nuovi itinerari di devozione e nuove forme di pellegrinaggio nel tardo medioevo Sedimentazioni sul territorio
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Juan Ignacio Ruiz de la Peña GLI ITINERARI EUROPEI DEL PELLEGRINAGGIO A SANTIAGO pag. 187 Un sistema di comunicazioni favorito da vescovi e sovrani 187 La rete europea degli itinerari di pellegrinaggi 189 Le quattro vie dalla Francia ai Pirenei 191 Il percorso nella penisola iberica e alcune varianti 210 Marco Tangheroni ITINERARI MARITTIMI A GERUSALEMME pag. 213 I primi resoconti di pellegrinaggio a Gerusalemme Attraverso il Mediterraneo tra tarda antichità e medioevo Nell’epoca delle crociate
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Fernando López Alsina SANTIAGO pag. 293 Il progetto della città levitica Compostella come luogo apostolico L’universalismo dello spazio urbano Il giubileo compostellano
263 269 272
293 296 315 319
Franco Cardini GERUSALEMME pag. 321 213 215 220
LOCA SANCTA Anna Benvenuti ROMA pag. 259 Fondazioni imperiali e memoria dei martiri
Centro di raccolta e di distribuzione delle reliquie Verso l’età aurea del pellegrinaggio Il pellegrinaggio tra culmine e declino della teocrazia romana
260
Il segno della santità Il Tempio La Gerusalemme cristiana I luoghi santi cristiani I pellegrini Tra Giustiniano ed Eraclio La conquista musulmana Tra umayyadi, abbasidi e fatimidi La Gerusalemme crociata Ayyubidi, mamelucchi, ottomani
321 322 328 330 333 361 363 365 367 371
BIBLIOGRAFIA pag. 376
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Come scrive Michel Delahoutre, i pellegrinaggi sono percorsi simbolici che hanno disegnato l’Europa intera, con le loro strade e i loro edifici (chiese, ospedali, ospizi, edicole, ecc.). Il presente volume è un classico di riferimento per comprendere il valore storico e culturale, oltre che simbolico, dei tre pellegrinaggi più famosi del mondo cristiano. Il “Portico” di Caucci von Saucken mette in luce le importanti date anniversariali degli anni in cui uscì la prima edizione. Maggio 2018
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Paolo Caucci von Saucken
Portico
Questo libro va in stampa nel periodo che intercorre tra la apertura della Porta Santa della cattedrale di Santiago, che ha dato inizio al 117° anno santo compostellano, avvenuta solennemente il 31 dicembre del 1998 e quella di Roma che verrà abbattuta la vigilia di Natale del 1999. Dalle due porte stanno entrando ed entreranno nel prossimo biennio milioni di pellegrini nello spazio sacro delle due basiliche e nel clima spirituale e mentale che segna profondamente ed emblematicamente la fine di un millennio e l’inizio del successivo. Insieme a loro molti andranno a Gerusalemme, giacché la Terra Santa viene considerata parte liturgicamente integrante del Grande Giubileo romano del 2000. Inoltre il 1999 è anche il 900° anniversario di quella prima crociata, una vicenda fortemente connessa ai pellegrinaggi in Terra Santa. Per tale singolare coincidenza di anniversari, si è venuta a ricostruire, concettualmente, spiritualmente e ritualmente, la sostanziale unità tra le tre peregrinationes maiores che aveva segnato profondamente la civiltà dell’Europa medievale. Ovvero l’oggetto del nostro libro. Tale unità veniva percepita e vissuta dal pellegrino, a partire dagli itinerari che congiungevano i vari santuari e che articolavano tutto lo spazio sacro della cristianità. Le strade erano sovente le stesse anche per il fatto che le principali vie di comunicazione venivano percorse in un senso o nell’altro, all’andata o al ritorno, da pellegrini diretti a santuari situati in estremi opposti. In tale prospettiva la via francigena ha un carattere esemplare, venendo usata verso il nord dai pellegrini diretti a Santiago e verso il sud da romei e palmieri e da coloro che volevano raggiungere Monte Sant’Angelo in Gargano. Una strada che è allo stesso tempo romea, gerosolimitana, compostellana e micaelica. Ma in misura maggiore o minore lo erano anche gli altri grandi itinerari di pellegrinaggio. Sul Camino de Santiago, ad Arconada, nei pressi della splendida chiesa templare di Villalcázar de Sirga, quando agli inizi dell’XI secolo Gómez, conte di Carrión, decide di edificare un ospedale per pellegrini che attraversano la meseta leonese, lascia scritto che questo deve servire all’accoglienza euntium vel regredentium sancti Petri et sancti Iacobi Apostoli, cioè a dire di coloro che andavano o tornavano da Roma o da Compostella. Egli ha ben chiaro che la strada è percorribile nelle due direzioni, anche se ci si trova a quattrocento chilometri da Santiago e a ben duemila da Roma. Con lo stesso spirito vengono dotati ospedali, costruiti ponti, fondate confraternite un po’ dovunque per favorire il transito e la sosta del gran popolo dei pellegrini, ovunque esso fosse diretto. Contribuiva, infatti, a consolidare il concetto di appartenenza ad una unica civiltà la presenza, lungo tutte le vie, di strutture ospitaliere non solo locali, ma frequentemente sovranazionali. Esse si ispiravano al principio dell’accoglienza dell’hospes tamquam Christus, profondamente radicato nella caritas cristiana. San Benedetto lo aveva posto nel
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capitolo 53 della Regola ed era stato ripreso e chiaramente formulato nel Quinto libro del Codex calixtinus dove, nell’undicesimo capitolo che recitava su «come devono essere accolti i pellegrini», si specifica che «… chiunque li accolga e li ospiti diligentemente, non solo san Giacomo avrà come ospite, ma lo stesso Gesù Cristo, come lui stesso ha detto nel Vangelo. Qui vos recepit me recepit». Questa filosofia dell’accoglienza, che era la stessa su tutte le strade del mondo cristiano, alimenta la natura e giustifica la nascita di ordini ospitalieri sovranazionali come quelli di San Giovanni di Gerusalemme, di Sant’Antonio di Vienne, di San Jacopo d’Altopascio e di San Lazzaro che rafforzavano la sensazione di incontrare dovunque strutture comuni al servizio della peregrinatio. D’altronde, già alla metà del XII secolo, sempre nel Codex calixtinus, si ribadiva tale concetto, allorché indicando esemplarmente le strutture ospitaliere più utili ai pellegrini, se ne poneva una sulla via per Santiago, una su quella per Roma e l’altra a Gerusalemme. Unità concettuale e reale testimoniata, d’altronde, dagli stessi pellegrini nei loro diari di viaggio che contengono frequentemente i resoconti, uno dopo l’altro, di pellegrinaggi a Roma, Santiago e Gerusalemme, da Nompar signore di Caumont a Jehan de Zeilbeke, da Jean de Tournai a Bartolomeo Fontana, che non va a Gerusalemme ma unisce Roma e Santiago alla visita ai santuari mariani di Loreto, Montserrat e Zaragoza e a quelli francescani di Assisi e La Verna, da Harnold von Harff a Domenico Laffi, che dopo il suo Viaggio in Ponente a San Giacomo di Galitia e Finesterrae, scrive un Viaggio in Levante al Santo Sepolcro. A volte sono le lapidi di pellegrini che lo testimoniano, come quella del danese Jonas che era stato due volte a Gerusalemme, tre volte a Roma ed una a Santiago: Jerusalem repetit bis ter Romamque revisit et semel ad sanctum transiit hic Iacobum. Una interdipendenza che troviamo ribadita nei trattati teorici di mistica del pellegrinaggio che spesso trattano globalmente i tre grandi pellegrinaggi, da Felix Fabri a Gaspar Loarte, estendendoli, a partire dal XV secolo, anche alle emergenti devozioni mariane. Stessi erano anche i santi protettori di chi si muoveva sulle strade medievali: san Giacomo, innanzitutto, ma anche san Cristoforo nei pressi dei guadi, san Martino di Tours, sant’Antonio abate, san Nicola di Bari, sant’Egidio… Stessa la cultura che accompagnava i pellegrini, da quella semplicemente devozionale a quella carolingia presente su tutte le strade, trasmessa attraverso l’uso di un idioma gergale comune in cui il latino continuava a costituire la parte maggiore. Il libro che segue tende ad entrare nei gangli di questa unità, nelle specificità e nelle differenze che la caratterizzano, nelle varianti diacroniche, nei mutamenti determinati da cambi di spiritualità e da strategie devozionali. La suddivisione del libro in peregrinatio, peregrini, itinera e loca sancta risponde essenzialmente alla necessità di ordinare questa complessa materia, oggetto anche di un vasto convegno tenuto a Santiago di Compostella nell’autunno del 1997 al quale gran parte degli autori ha partecipato. Ci è parso opportuno a tale proposito affidarci per la comprensione del pellegrinaggio in generale a Julien Ries, a Díaz y Díaz e a Massimo Miglio. Ries spiega come il pellegrinaggio, presente in tutte le religioni, sia, ad un tempo, un evento simbolico in sé e una messa in valore di fondamentali simboli in cui si articola l’esperienza religiosa. Ries ha collocato il pellegrinaggio nel grande orizzonte dell’antropologia religiosa sino alla peculiare funzione di sacralizzare lo spazio e il territorio. L’uomo cerca di raggiungere i luoghi della manifestazione del sacro per esserne testimone e partecipe. Tali luoghi proliferano di conseguenza anche sulla via verso la meta principale. Díaz y Díaz recupera, invece, il senso ed il valore del pellegrinaggio cristiano medievale quale si è espresso nel dominio in cui si muove da indiscusso maestro e cioè nella letteratura latino-medievale. Nel sermone Veneranda Dies, trova le radici bibliche ed evangeliche della via peregrinalis, mentre individua nella lontananza del luogo santo da raggiungere una delle caratteristiche del pellegrinaggio medievale e specialmente di quello compostellano.
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Massimo Miglio valuta la questione in relazione allo specifico fenomeno del giubileo romano, il cui inizio vede determinato in gran parte dal fortissimo desiderio di indulgenze in grado di lavare e redimere i peccati che agitava le masse medievali, captato ed abilmente amministrato da Bonifacio VIII. Miglio collega il senso del pellegrinaggio giubilare alla plenitudo potestatis nel temporale e nello spirituale del pontefice, principale depositaria della capacità di redenzione e dispensatrice massima della salvezza delle anime. In tale prospettiva avvertiamo una reale differenza con il pellegrinaggio a Santiago nel quale il pellegrino ritiene di svolgere, per quanto riguarda la redenzione dei propri peccati, un ruolo più attivo, esaltato dalle difficoltà del viaggio e dal suo personale impegno, rispetto ad una assoluzione che, pur comportando confessione e pentimento dei peccati, appare più determinata dal potere ecclesiastico del Papa. I Peregrini, sono stati affidati a Robert Plötz e a Klaus Herbers. Il primo, presidente della St. Jakobus Gesellschaft, ha dedicato alla figura del pellegrino un vasto ed approfondito saggio che ne mette in evidenza la complessa struttura rituale, iconografica e mentale. Il pellegrino ci viene presentato a partire dai riti di partenza e di iniziazione al pellegrinaggio: da quella Benedictio perarum et baculorum ampiamente indagata dall’autore in precedenti saggi, fino alla Coronatio peregrinorum che in zona germanica lo accoglieva al suo rientro in patria. Racchiusa tra questi due momenti liturgici, tutta la vita del pellegrino viene analizzata nella rappresentazione iconografica, nei signa super vestes che lo identificano e che ne fanno individuare le mete, nelle devozioni compiute, nei momenti essenziali della peregrinatio, nei graffiti e nei segni lasciati lungo la strada, nei rapporti specifici con i loca sancta: da Santa Caterina del Sinai a Finesterrae. Un lungo viaggio, nei gesti, nelle rappresentazioni del pellegrino, ma anche una attenta lettura della sua mentalità, dei motivi che lo spingevano ad un pellegrinaggio che lo teneva per un lunghissimo tempo lontano dalla propria casa in un ambiente periglioso ma straordinariamente fecondo per la sua formazione culturale ed interiore. Klaus Herbers ci fa conoscere invece pellegrini, concreti e reali, che realizzano le peregrinationes maiores e che rafforzano l’idea concettuale di questo libro. Herbers tiene a sottolineare contemporaneamente gli elementi unitari, soprattutto determinati dallo stesso pellegrino che costituisce il reale punto di contatto tra i vari luoghi santi e dalla generale capacità salvifica di ognuno di essi, e i caratteri specifici e differenziatori di questi: Roma centro del pellegrinaggio penitenziale, indulgenziale ed assolutorio, Gerusalemme luogo più santo del mondo, Santiago quale possibilità di una salvezza personale dell’anima, attraverso i durissimi sacrifici del viaggio più difficile. In tale quadro si muovono esempi di pellegrini che hanno unito due o più peregrinationes maiores, per fede, ma anche per curiosità, desiderio di conoscere paesi lontani, spirito d’avventura, una tendenza che in epoca rinascimentale si accentua in quello che verrà chiamato il Ritterfahrt, o viaggio del cavaliere. Una parte significativa del libro è dedicata agli itinerari, che come abbiamo detto portavano i pellegrini alle mete desiderate, ma costituivano anche l’ordito viario che congiungeva ed unificava l’itineranza devozionale della cristianità medievale. Innanzitutto la francigena, sulla quale si è voluto cimentare chi coordina questo libro e ne sta redigendo il portico. La francigena, via romea che ricalca e ricuce vecchi tracciati romani, appare come un organismo vivo e in costante evoluzione. Via usata dai longobardi per riunire i propri ducati sparsi lungo la penisola, via militare e commerciale dei franchi per i propri collegamenti ultra montes, via del pellegrinaggio a Roma, ma anche a Monte Sant’Angelo sul Gargano, luogo della principale ierofania del principe delle schiere angeliche, via per i porti della Puglia che permettevano il passagium verso la Terra Santa e via compostellana per chi risaliva la penisola. I più noti pellegrini italiani diretti a Compostella l’hanno tutti, in maggiore o minor parte, seguita, fino ad identificarla da Torino in poi con il vero cammino dritto di San Giacomo indicato nella letteratura odeporica. Altro aspetto che è opportuno segnalare è il
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suo carattere dinamico. Appare evidente lo spostamento del suo asse verso l’Adriatico. Con l’affermarsi di città come Firenze e Bologna vediamo che si preferisce, all’antico valico di monte Bardone, quello del Giogo e dell’Osteria bruciata che permetteva il collegamento e la visita delle due grandi città. Così come successivamente, attratta dai culti francescani, la vedremo offrire le alternative dei passi degli Appennini tosco-umbro-marchigiani, fino a collegarsi con la lauretana Flaminia quando Loreto diviene uno dei poli devozionali più importanti in Italia. Ruiz de la Peña affronta il discorso dei Cammini di Santiago, del gran sistema viario individuato dal Liber sancti Jacobi, ma che il professore ovatense giustamente integra con le numerose altre vie che non ebbero la fama assegnatagli dalla straordinaria precisione del Liber, ma che svolsero egualmente un ruolo di primaria importanza nella strutturazione del pellegrinaggio a Santiago. A partire dalla via del nord che scorreva lungo la costa cantabrica e da quella che realmente ha costituito il primo tracciato di pellegrinaggio compostellano e che univa la corte di Oviedo alla piccola chiesa sorta sull’appena scoperto sepolcro dell’Apostolo. Infine Gerusalemme. Itinerari per terra e per mare. Una questione complessa, connessa strettamente ai problemi determinati dalla presenza islamica su luoghi un tempo profondamente cristiani. Certamente il viaggio a Gerusalemme, nei luoghi ubi steterunt pedes di Cristo, costituì il primo vero pellegrinaggio. A pochi anni dall’editto di Costantino, che concedeva libertà di culto ai cristiani, già abbiamo le prime testimonianze di persone che si dirigono al luogo più santo della terra. Tangheroni ricostruisce la storia di questi pellegrinaggi e dei relativi tracciati, necessariamente parte per terra e per mare fino al vero e proprio sistema di linea che da Venezia in epoca rinascimentale continuava a portare pellegrini, in grado per lo più di pagarsi il viaggio, a visitare i luoghi che le descriptiones renderanno popolari in tutto l’Occidente. Il nostro libro non poteva che concludersi con la descrizione e la valutazione di ciò che le mete rappresentavano nell’immaginario, nella fede, nelle aspirazioni, nei desideri dei pellegrini da un lato e nella loro specifica realtà e significato dall’altro. Anna Benvenuti ci mostra una Roma repleta di corpi santi, di reliquie, di devozioni che corrispondono al carattere che va assumendo la città santa ed anche all’evolversi di una strategia devozionale che la porterà sempre di più a sostituirsi a Gerusalemme e a legittimarsi come centro della cristianità. Una impostazione che coinvolge tutto lo spazio ecclesiale e liturgico, influenzando profondamente la vita e la stessa struttura urbanistica della città. Fernando López Alsina propone una lettura della città di Santiago quale espressione di una impostazione simbolica coscientemente cercata e voluta fin dall’inizio di tutto lo spazio che la circonda. Nelle tre miglia che Alfonso II concede al piccolo tempio sorto sulla tomba dell’apostolo Giacomo, López Alsina riconosce infatti una volontà «levitica» che delimita e sacralizza il locus sanctus e gli concede particolari privilegi. Lo sviluppo della città la porterà ad una dimensione «apostolica», ad imitazione della struttura simbolica di Roma che troverà il suo completamento nell’indizione di anni santi compostellani che esaltano la vocazione, già presente fin dall’inizio, di far divenire il sepolcro dell’apostolo Giacomo la meta di un grande pellegrinaggio. Infine Gerusalemme, che Franco Cardini inizia a delineare nella prospettiva di città santa per le tre religioni abramitiche e monoteiste. La sua ricostruzione segue il susseguirsi delle varie dominazioni e i rapporti politici che di volta in volta ebrei, romani, persiani, musulmani crociati e di nuovo musulmani ed ebrei hanno con la città. Si conclude in tal modo un lungo viaggio nella storia, nei luoghi, nei simboli, nella mentalità dei pellegrinaggi medievali nel tentativo di comprenderne le articolazioni e il significato complessivo. Una questione che è tornata ad essere di piena attualità. Ci apprestiamo ad entrare, infatti, in una straordinaria stagione spirituale, culturale e di costume, con impor-
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tanti riflessi politici ed economici che è necessario comprendere a fondo ed inquadrare correttamente nelle sue radici e nei suoi valori. La coincidenza di anniversari ed il gran impegno liturgico della Chiesa in questo biennio, tornano ad animare – da Santiago, a Roma, fino alla Terra Santa ed al Sinai – lo spazio sacro della cristianità tradizionale. Un interesse che coinvolgerà decine di milioni di persone, molte delle quali si muoveranno a piedi verso i limina apostolorum. Settembre 1999
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I maggiori itinerari europei a Roma, Santiago e Gerusalemme.
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Nella pagina precedente: 1. L’arte rupestre preistorica è di per sé un gesto di sacralizzazione dei luoghi e del territorio. Il graffito riprodotto nella pagina a fronte è chiamato dagli archeologi «I due viandanti». La figurazione si trova accanto ad altre sulla Roccia di Seradina, presso Capo di Ponte, Val Camonica, Italia (850-700 a.C.).
2. Pellegrinaggio al santuario induista di Karla, non distante da Bombay, in India. Il santuario, scavato nella roccia nei primi secoli della nostra era, ha continuato ad essere meta di pellegrini sino ai nostri giorni.
Julien Ries
Pellegrinaggi, pellegrini e sacralizzazione dello spazio
Il termine latino peregrinatio derivato da per ager – attraverso il campo – evoca la strada o il cammino, mentre il verbo arabo hajj, utilizzato nell’Islam per designare il pellegrinaggio, ha il senso di «andare verso». In India tîrtha, il guado dove si attraversa il fiume, è divenuto una nozione essenziale per i pellegrini indù mentre la parola giapponese henro, utilizzata quando si parla del pellegrinaggio, ha il senso di strada, cammino. Così, la semantica ci orienta verso la definizione del pellegrino come un viaggiatore che ha lasciato la propria dimora per prendere la strada che lo porterà in un altro luogo. L’esame del fenomeno universale costituito dal pellegrinaggio mostra che il luogo a cui tende è l’incontro «del mistero». In questo testo tenteremo di descrivere brevemente la visione che il pellegrino ha del cammino, del centro al quale lo dirigono i suoi sforzi e dell’esperienza religiosa che vive.
Il pellegrino in cammino La partenza La scelta operata dal pellegrino è una libera decisione, che implica gesti portatori del sacro, poiché sono già indirizzati allo scopo finale, cioè all’incontro con il «mistero». Così, prima di intraprendere lo hajj, il pellegrinaggio alla Mecca che è il quinto pilastro dell’Islam, il musulmano si mette nelle disposizioni richieste dalla fede in Dio, paga i suoi debiti e si riconcilia con i suoi nemici. Si procura mezzi sufficienti per il proprio viaggio e assicura la sussistenza della famiglia per tutto il periodo di assenza. Sull’isola Mauritius, la partenza del pellegrinaggio a Shiva nella città del Grand Bassin è preceduta da una settimana di preparativi in ogni tempio dell’isola: canti, bagni rituali, offerta (pûjâ), poi benedizione dei pellegrini prima della partenza. Nel mondo cristiano, dall’alto medioevo, il pellegrino si rende riconoscibile tramite alcune insegne: il cappello, la bisaccia, il bordone. Quest’ultimo è il bastone del pellegrino munito di un pomolo che serve alla difesa. Apposite disposizioni giuridiche proteggono i beni e gli interessi del pellegrino durante la sua assenza. Prima di partire i pellegrini ricevono la benedizione della Chiesa, impartita dal vescovo se si tratta di un gruppo numeroso. Le formule dei rituali e degli eucologi ci permettono di comprendere l’esperienza religiosa dei pellegrini al momento della loro partenza. All’inizio della strada verso Santiago di Compostella, Roma o Gerusalemme l’imposizione dell’abito e la consacrazione delle insegne confer-
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mano in qualche modo la decisione dei pellegrini e li preparano alla prova del cammino, con le sue distanze, le sue fatiche e le sue difficoltà quotidiane, causate dal tempo, dalle intemperie, dalla necessità di trovare alloggio1. Fino all’epoca moderna lo spazio del pellegrinaggio era spesso percorso a piedi. Già sulle pareti e sulle steli dei monumenti e dei templi dell’Egitto faraonico si vedono intagliati dei piedi, richiami significativi al senso sacro del cammino di pellegrinaggio. Le vie dei pellegrini La materia dell’atto di pellegrinaggio è lo spazio nel quale si svolge l’avvenimento. Bastano un colpo d’occhio alla carta dei cammini di Santiago e alcuni istanti di riflessione sulla densità della rete delle vie compostellane nell’Europa medievale per comprendere cosa rappresentava lo spazio sacro dei pellegrini. Dall’XI secolo quattro cammini di Santiago attraversavano la Francia raccogliendo i pellegrini giunti, tramite innumerevoli percorsi, dalla Francia e da tutta l’Europa, da Inghilterra, Scandinavia, Germania, Svizzera e Italia. Su ognuno di questi lunghi percorsi i pellegrini vivono una vera avventura biblica, liturgica e culturale, che li porta da un ospizio a un monastero, da un rifugio a un santuario o a una cattedrale incontrata lungo la via. Ogni volta fanno l’esperienza dell’accoglienza, della celebrazione eucaristica, della preghiera e dell’incontro con altri pellegrini. In un simile contesto l’itinerario è sacralizzato e l’universo sembra divenuto veramente armonico. L’arte romanica, un’autentica arte cosmica, ha eretto dovunque santuari, case di Dio dove i pellegrini sostano a pregare ed ottengono la remissione delle loro colpe. Dovunque sono venerate le reliquie dei santi e il simbolismo romanico assume una funzione capitale nella sacralizzazione del tempo e dello spazio e nella santificazione degli uomini. Grazie a questo percorso in comune sulle vie del pellegrinaggio ogni pellegrino scopre una geografia sacra, uno spazio sacrale sul quale vive un popolo santo. La presa di coscienza di questa sacralità ha dato ai pellegrini l’energia per vivere lo sforzo prolungato della lunga distanza che deve venire affrontato nei grandi pellegrinaggi di Compostella, Roma e Gerusalemme. In India un’immagine familiare di pellegrinaggio è quella del fiume. Un pellegrinaggio celebre è quello che porta i fedeli alle sorgenti del Gange, il fiume sacro per eccellenza. Ogni pellegrinaggio assomiglia a una navigazione contro corrente, a un fiume che risale verso la sorgente. Sono stati i pellegrini che hanno permesso agli indiani di prendere coscienza della loro geografia sacra. I sadhu, asceti pellegrini, compiono a piedi il giro
3. Un uomo contempla un rosone. Dal Taccuino di Villard de Honnecourt, stilato alle soglie del XIII secolo. L’Europa è ormai disseminata di simboli.
4. Visione dell’Indo, uno dei due grandi fiumi, con il Gange, del Sub-continente Indiano. L’Indo fu centro di civiltà anche in periodo pre-vedico, intorno al 4000 a.C., e fu considerato dispensatore di vita.
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ilato ai
dell’India sacra nel corso di un periodo di dodici anni. Gli altri fedeli si limitano a pellegrinaggi regionali. I pellegrinaggi buddhisti sono iniziati in India all’epoca del Buddha perché il buddhismo è una via di liberazione nella quale, distaccati da tutto, i religiosi mendicanti sono tenuti a una vita itinerante per più di otto mesi all’anno. Si iniziarono allora a visitare i luoghi dove il Buddha aveva vissuto, non per meritare ma per meditare. Impegnati sia nella via della fede (shraddah) sia, più tardi, in quella della devozione (bhakti), i laici richiedevano di venerare le reliquie del Beato poste negli stupa. Fu l’avvio dei grandi pellegrinaggi buddhisti in India. La diffusione del buddhismo in Cina, Tibet e Sri Lanka comportò l’adozione del pellegrinaggio in questi paesi. Il Buddha aveva voluto indicare ai suoi discepoli un cammino di liberazione dal dolore. Il grande mutamento operato dal buddhismo della bhakti (devozione) apre al pellegrinaggio buddhista un cammino nuovo, che supera quello della meditazione e lancia i discepoli sulla via del merito2. 5. Terzo Stupa di Sanchi, costruito in India durante il I secolo d.C. Gli stupa sono luoghi di venerazione per i fedeli buddhisti. Contengono le reliquie del Buddha o di personaggi importanti. La balaustra che lo circonda permette ai pellegrini il rito della circumambulazione, che è un rito di venerazione. Il parasole in alto è segno della regalità.
6. Veduta del Monte Sinai con ai piedi il Monastero di Santa Caterina. Litografia di David Roberts, che nel 1839 fece un viaggio in Terra Santa e nella penisola sinaitica.
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Simbolismo del centro e luoghi sacri Volta celeste e montagna sacra Gilbert Durand ha stabilito che lo studio del simbolo implica la comprensione del «tragitto antropologico, cioè lo scambio incessante che esiste a livello dell’immaginario tra le pulsioni soggettive prodotte dall’ambiente cosmico e sociale»3. Così si spiega l’impatto decisivo della volta celeste sulla coscienza simbolica dell’homo sapiens arcaico. Secondo Mircea Eliade, questi, grazie alla contemplazione della volta celeste, ha fatto un’autentica esperienza religiosa scoprendo la categoria trascendentale dell’Altezza, dell’Infinito, ed è potuto giungere a formulare numerosi miti d’ascensione dei quali ci è rimasta traccia nelle tradizioni antiche4. Il simbolismo della volta celeste, come quello dell’ascensione, e il loro impatto sull’immaginario umano spiegano l’importanza della «montagna cosmica» come luogo d’incontro del Cielo e della Terra. Per l’uomo essa diviene centro saturato di sacro. Tra le montagne celebri ricordiamo il monte Meru in India, Sumbur dei popoli uralo-altaici, Haraberezaiti in Iran, Himingbjörg dei germani e degli scandinavi, K’ouen-louen in Cina, Fuji-Yama in Giappone, l’Olimpo greco, il Kailâsa, residenza di Shiva, in India. Queste montagne sono luoghi di incontro degli uomini con gli dèi, tanto nei miti come nella pratica del culto. In Mesopotamia, dai tempi più antichi si costruivano gli ziggurat, rilievi artificiali a terrazze, edificati in vista dell’incontro con gli dèi nei pellegrinaggi e nelle processioni. Del ricchissimo catalogo delle montagne sacre appartengono alla tradizione biblica il Sinai, Sion, il Tabor, il monte Garizim e il Golgotha. Numerosi salmi cantano l’ascesa dei pellegrini verso le altezze dove incontreranno Jahvè. Così, il salmo 48 presenta una catena simbolica significativa: Dio, montagna, città, palazzo, cittadella, tempio, centro del mondo. Nelle tradizioni religiose e, più particolarmente, nella simbolica biblica, la montagna è il tratto d’unione tra il cielo e la terra. Il tempio stesso è assimilato alla montagna sacra, che comprende l’altezza e la prossimità del Cielo e della Terra. Simbolismo del centro Secondo Nicola Cusano, il centro è l’immagine della coincidentia oppositorum, fonte del suo dinamismo poiché è il focolare dal quale si originano i movimenti dell’uno verso il molteplice, dell’eterno verso il temporale. Sempre al centro si ricongiungono tutti i processi di convergenza verso l’unità. Così nel pellegrinaggio – come ad esempio Roma,
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Gerusalemme, Compostella – il centro è simbolicamente lo spazio di salvezza nel quale il pellegrino tenta di ritrovare la sua condizione primordiale. Al centro troviamo non solo la montagna cosmica ma anche l’albero sacro, asse del mondo. Di per sé, l’albero manifesta la realtà della vita in perpetua rigenerazione, è il simbolo della rinascita e dell’immortalità, il segno della fecondità, dell’opulenza, della vita e della salute. È l’axis mundi, che mette in comunicazione i mondi sotterranei, la terra e il cielo: asse del mondo, albero di vita, albero cosmico. Il simbolismo del centro, della montagna sacra e dell’albero cosmico ci danno il senso fondamentale dello «spazio del pellegrinaggio», cioè del luogo sacro verso il quale gli uomini si incamminano, come già avvenne nel Paleolitico superiore a Lascaux e Rouffignac, che hanno conservato i più antichi indizi di pellegrinaggio, e come avvenne poi nei tempi storici in India, Europa, Oceania e Africa. Agli occhi dell’homo religiosus lo spazio non è omogeneo: c’è uno spazio nel quale si svolge la vita di tutti i giorni ma c’è anche un’altra realtà spaziale nella quale egli fa l’incontro con il divino. Ogni spazio sacro implica una ierofania, cioè una manifestazione del sacro. L’etnologo e lo storico delle religioni sono colpiti dalla permanenza dei luoghi sacri tra le popolazioni senza scrittura come nelle culture complesse. Gli spazi riservati all’iniziazione sono sempre mantenuti negli stessi luoghi. Dopo la distruzione dei templi e il ritorno di una popolazione deportata nel corso delle guerre, i templi sono sempre stati ricostruiti nel luogo dove sorgevano in precedenza. Luoghi sacri e luoghi santi Nello spazio sacro il pellegrino ha coscienza di trovare un centro d’incontro con il mistero, con il divino, capace di aiutarlo nella sua vita quotidiana, nel suo comportamento, nelle sue relazioni, nel suo passato carico di errori, nella visione del suo avvenire, nella salute del suo corpo e della sua anima. La determinazione dei luoghi di pellegrinaggio non è mai arbitraria. Nelle religioni arcaiche i miti costituiscono il riferimento a un avvenimento primordiale come la nascita del fondatore del clan o della tribù o ad avvenimenti menzionati nella storia santa della tribù. Nelle religioni storiche i luoghi sacri fanno riferimento ad avvenimenti fondatori. In India Lumbini è ritenuta essere la città natale di Siddharta Gautama, divenuto Buddha, e la tradizione si riferisce al parco delle Gazzelle di Sarnath, presso Benares, come luogo della sua prima predicazione ai bramini, ai quali espose le quattro sante verità. Per l’Islam la ka’aba della Mecca, dove è custodita la pietra nera, risale ad Abramo e si trova così al centro del pellegrinaggio musulmano. In Cina la più venerabile delle montagne sacre ha le proprie radici nella religione imperiale. Numerosi luoghi di pellegrinaggio si perdono nella notte dei tempi: è il caso di Abydos, in Egitto, grande luogo di raduno dei fedeli del dio Osiride; ed è anche il caso dei grandi santuari dell’antica Grecia. Nella storia d’Israele le grandi teofanie del Dio d’Abramo, di Isacco e di Giacobbe hanno santificato centri di pellegrinaggio come Sichem, Mambre, Bersabea, Betel e Galgala; ad essi va aggiunto Ebron, dove si trovano le tombe dei patriarchi. Nell’epoca dei giudici Silo diviene il luogo santo dell’arca dell’Alleanza, fino alla conquista filistea. Gerusalemme, costruita sulla collina di Sion, ne prende il testimone a partire da Davide: è la città santa verso la quale sale il popolo eletto, «il luogo che Dio ha scelto per stabilirvi il suo nome» (Dt 16,2). Le tre grandi feste del pellegrinaggio annuale a Gerusalemme devono venire celebrate nel Tempio. Nel II secolo gli apologisti e i Padri della Chiesa devono difendere la storicità di Gesù contro gli attacchi dei pagani. L’opera di Celso Logos Aléthès, probabilmente datata al
7. La sacralità assunta da determinati alberi è ben evidenziata da un affresco egiziano della fine del XIV secolo a.C. La riproduzione, qui semplificata, mostra l’albero con un braccio a cui il faraone si sostiene. L’albero porge al faraone stesso una mammella perché possa nutrirsi di una linfa che solo il Divino può dare.
8. Raffigurazione della ka’aba ripresa da un manoscritto turco.
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9. Ripresa di una miniatura del XII secolo. Le reliquie di santa Genoveffa vengono portate in processione a Parigi.
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10. Il Sacro Cenote di Chichén Itzá, nella penisola dello Yucatan, Messico. Nelle terre basse della penisola si trovano molte caverne sotterranee o scoperte, anche in comunicazione tra loro, piene di acqua. Due simboli si uniscono: la caverna e l’acqua. Il primo, per le popolazioni Maya precolombiane, era luogo di comunicazione con l’«inframondo», la realtà soprannaturale; il secondo era elemento generatore di vita. I cenote divenivano luoghi sacri per eccellenza e vi si svolgevano riti con offerte e sacrifici.
177, mobilita il paganesimo antico contro l’«ateismo cristiano» e provoca i cristiani a ricercare i luoghi storici della vita di Gesù e a individuare in modo preciso i siti evangelici. Si costituisce così una geografia dei Vangeli: è l’inizio dei centri di pellegrinaggio cristiano della Terra Santa, che prendono a svilupparsi veramente all’indomani della pace costantiniana del 313. Il culto della croce e la tomba di Cristo sono oggetto della venerazione dei fedeli; le tombe dei martiri divengono luoghi di culto. A partire dagli anni 358-360 si assiste a solenni traslazioni di reliquie a Costantinopoli. Sono i santi dell’età apostolica: sant’Andrea, san Luca, san Timoteo. In Occidente, è sant’Ambrogio a dedicarsi alla ricerca dei corpi dei martiri: a Milano Nazaro, Gervasio e Protasio, nel 386; a Bologna Vitale e Agricola, nel 393. I corpi ritrovati sono trasferiti in una basilica tra un grande concorso di popolo. Le basiliche si moltiplicano, prende avvio anche il culto dei martiri e dei santi, i pellegrinaggi cominciano a mobilitare il popolo cristiano. Il culto peregrinante dell’Occidente cristiano si nutre del fervore per le tombe dei martiri e dei santi, a cominciare da quelle di Pietro e Paolo a Roma. Il pellegrino e la simbolica dell’acqua Le diverse tradizioni culturali e religiose parlano delle acque, che simbolizzano la sostanza primordiale da cui nascono le forme: le acque sono fons et origo, matrice del cosmo e supporto della creazione. In India il Rig Veda esalta le acque, portatrici di vita, forza e purezza spirituali e corporali. In generale l’Asia assume la prospettiva simbolica della vita, della rigenerazione e della purificazione. Nelle tradizioni ebrea e cristiana l’acqua simboleggia l’origine della creazione. Nella Bibbia le fonti e i pozzi sono luoghi d’incontro, di meraviglia e di gioia: sono luoghi sacri. L’ospitalità esige che al viaggiatore e al visitatore venga offerta dell’acqua fresca. Tutto l’Antico Testamento celebra la magnificenza dell’acqua. Questa eredità è accolta nel Nuovo Testamento, dove viene valorizzata in modo straordinario da Gesù: battesimo nel Giordano, annuncio del battesimo cristiano, dialogo con la Samaritana (Gv 4,14); in quest’ultima occasione Gesù si rivela come il maestro dell’acqua viva e santificante. L’acqua appare come un simbolo cosmogonico poiché guarisce, ringiovanisce e introduce nella vita eterna: l’acqua trasforma l’uomo. L’acqua possiede anche un potere salvifico: cancella la storia ed opera una rinascita. È il significato del battesimo annunciato da Gesù in Gv 3,3-7, dove viene messa a tema questa nuova nascita. Tertulliano scrive che lo Spirito Santo sceglie l’acqua perché essa è fin dall’origine una materia perfetta, feconda, semplice e totalmente trasparente (De baptismo, 3). Per il fatto di possedere una virtù purificatrice, essa è sacra5. Nelle tradizioni islamiche l’acqua simboleggia realtà di grande ricchezza. Per il Corano l’acqua che cade dal cielo è un segno divino (2,35) e i giardini del Paradiso sono attraversati da ruscelli d’acqua viva (88,12). La preghiera rituale – salat – non può essere eseguita se non dopo essersi purificati con delle abluzioni seguendo regole molto precise. Diciamo che la simbolica dell’acqua, dell’immersione rituale e della purificazione è immemoriale nella storia dell’umanità. L’acqua guarisce, ringiovanisce e assicura la vita. Essa purifica e rigenera perché annulla, dissolve e abolisce ciò che è usurato. Di qui le viene il suo ruolo sacrale e cosmogonico. In India tîrtha è un termine ricco di significati, che evoca il passaggio di un fiume, il guado, ma anche il pellegrinaggio. Il guado e il passaggio di un fiume hanno assunto un profondo significato religioso, così che tîrtha esprime il sacro e designa ogni luogo sacro che si trova in prossimità dell’acqua, poiché per l’indù l’acqua è sacra. Per il fatto che essa purifica l’uomo è sempre legata all’atto di pellegrinaggio: ruscelli, fiumi e laghi sacri abbondano lungo le vie dei pellegrini, che si immergono in esse per rendersi puri in pre-
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visione dell’incontro con il loro dio all’arrivo al Tempio. Le migliaia di tîrtha reperiti in India ci mettono di fronte a una vera cosmogonia sacra6. I culti resi alle acque curative erano noti in tutto il mondo indoeuropeo, dall’India a Roma, in Gallia e in Irlanda. Molti santuari e centri religiosi terapeutici esistevano in questi paesi: nell’epoca del paganesimo i pellegrinaggi erano numerosi. Dopo la conversione di questi popoli al Cristo, la Chiesa non ha sradicato questi centri ma li ha cristianizzati. La devozione popolare li ha inglobati nel culto dei santi. In questo modo si è costituita in età medievale un’importante geografia sacra imperniata sulle fonti e le fontane prossime ai santuari, integrando le vie dei pellegrini di Roma, Gerusalemme, Compostella, Rocamadour, e degli itinerari secondari7. Lo spazio sacrale Una serie di caratteristiche determinano il carattere sacrale dello spazio di pellegrinaggio, che si delimita rispetto all’ambiente circostante per il fatto di essere il luogo dell’incontro con il divino, con il mistero. Lo spazio sacrale cristiano è riconoscibile per una serie di segni che non ingannano: il cimitero attorno alla chiesa, testimonianza della credenza nella resurrezione dei morti e nella fede dei vivi che trattano i loro affari in vicinanza dei defunti; le cappelle devozionali attorno al santuario principale del luogo di pellegrinaggio; la pratica di processioni lungo circuiti e itinerari determinati, iscritti nella memoria collettiva; la presenza di croci all’aria aperta, di croci nude o di viae crucis, di croci con gli strumenti della Passione di Cristo. Lo studio del santuario principale è determinante per comprendere il senso del pellegrinaggio e scoprire alcuni aspetti antropologici specifici. Così, la presenza di santi terapeuti, protettori o ausiliatori, fa scoprire le angosce e i bisogni delle popolazioni e dei pellegrini. Gli ex voto sono testimonianza delle malattie e delle epidemie. Lo spazio sacrale del pellegrinaggio si è articolato attorno ai bisogni dei pellegrini.
11. Visione del Giordano nel Nord di Israele.
A proposito della natura dei luoghi sacri ai quali giungono i pellegrini, «luoghi dove lo spazio si tramuta fino a divenire potenza sacralizzante», Alphonse Dupront li classifica in
12. Chiesa di San Pietro presso Prizren, nel Cossovo. Il cimitero ha attorniato la piccola chiesa medievale, luogo di venerazione per il popolo serbo, scendendo lungo la collina.
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Nella pagina precedente: 1. Il piccolo Ararat visto da sud offre un’efficace visione del simbolo della montagna.
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2. Il santuario della Madonna del Soccorso a Cholula (altopiano del Messico) è costruito sui resti di una piramide sacra precolombiana. Ancor oggi si chiede alla Madonna di propiziare le piogge per i campi. Le piramidi erano ripetizioni simboliche di montagne e vulcani.
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3. Il baobab nella savana di Tanzania dà una chiara immagine dell’albero come simbolo sacro: punto di riferimento nell’orizzonte e nesso tra cielo, terra e mondo sotterraneo.
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4. La grotta, simbolo del rapporto con l’oltremondo, diviene luogo sacro; vi si svolgono riti di inumazione di cui le pitture stesse fanno parte. Grotta presso Laura, Australia.
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5. La grotta di Altamira in Spagna è uno dei grandi «santuari» del paleolitico europeo. L’animale dipinto, con la sua smisurata mole e forza, trasmetteva le sue virtù agli uomini durante i riti di iniziazione.
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6. L’acqua di una fonte cerimoniale scorre in canaletti scavati a forma di serpente. Fuente de Lavapatas, San AgustĂn, Colombia. Il serpente acquatico è portatore di vita per molte popolazioni precolombiane.
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7. Pellegrini effettuano il rituale di purificazione sulla riva del Gange, il fiume sacro dell’induismo.
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Nella pagina seguente: 8. All’interno della cupola simbolo della volta celeste, il cristianesimo illustra il grande mistero dell’incarnazione. Qui si trova la Vergine orante con il Bambino. Chiesa dell’Annunciazione del monastero di Moldovitsa, Romania.
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quattro categorie: luoghi sacri che consacrano un fenomeno della natura fisica; luoghi che si riferiscono ad una storia; luoghi sacri a carattere escatologico; luoghi della sovranità o delle fonti8. Appartengono alla prima categoria le montagne sacre con i loro santuari; la seconda comprende gli avvenimenti più importanti delle religioni dei popoli; i luoghi di compimento escatologico si trovano in Egitto (Abydos), nel cristianesimo (Gerusalemme), in India e in Islam; lo stesso accade per i luoghi della sovranità, segnati dalla speranza escatologica dei fedeli che, con il loro pellegrinaggio, preparano simbolicamente la loro sopravvivenza o la loro resurrezione.
La festa dell’incontro Ingresso nel luogo sacro Al termine del suo cammino, stanco e felice, il pellegrino penetra nel luogo sacro dove attende l’incontro misterioso e invisibile. Sa che il luogo in cui si trova è impregnato di sacralità: basilica, cattedrale, santuario segnati da un episodio miracoloso, un’immagine sacra, un’icona venerabile o miracolosa, la presenza dei corpi dei martiri o di santi taumaturghi, venerabile tempio indù o buddhista, grotta celebre per le apparizioni della Vergine Maria, statua miracolosa. Subito il pellegrino è colto da emozione, al cospetto dell’immagine specifica del luogo sacro dell’incontro. Allora si manifesta e fiorisce la sacralizzazione acquisita lungo il cammino. Di regola l’atmosfera del luogo s’impadronisce del sentimento: canto e preghiera, architettura, luce e decorazione, fiori, verzura e fontane, esposizione di paramenti. Il pellegrino è preparato per l’incontro. Lo hajj islamico, incontro solenne con il Dio unico
13. Il Sacro Monte di Varallo è una delle più famose realizzazioni, non solo del Nord Italia, ma della stessa Europa, della sacralizzazione di una montagna dedicandola, all’inizio del ’600, alla rappresentazione, in più cappelle, dell’intera Passione di Cristo. Qui vediamo la scena dell’Ecce Homo con Cristo che, dopo aver patito alla colonna, è condotto davanti a Ponzio Pilato.
I riti del pellegrinaggio islamico alla Mecca sono evocatori. Nel momento in cui entra nel territorio sacro il pellegrino indossa l’abito ihrâme, che lo sacralizza, poi proclama labbayka, «eccomi a Te», grido incessantemente ripetuto da tutti i pellegrini. Tutti allora penetrano in preghiera nella grande moschea per compiere poi sette volte il giro della ka’aba in senso contrario alle lancette di un orologio. Ad ogni giro recitano una preghiera per chiedere a Dio di conservarli nella verità e nella fede. Seguono i sette percorsi della corsa di Agar, che ricordano l’episodio di Ismaele e della madre Agar, cacciati da Abramo e venuti alla Mecca per proclamare la loro disperazione. Il settimo giorno è quello che avvia verso il culmine dello hajj, l’incontro della comunità con il Dio unico. La giornata inizia con una predicazione dell’imam della Mecca di fronte alla ka’aba, poi tutti i pellegrini vanno a venerare i luoghi santi legati alla tradizione di Abramo. Il nove del mese c’è la grande sosta al monte Arafat, la montagna di Dio posta fuori dal territorio sacro. Di fronte a questa montagna i pellegrini si arrestano in preghiera, presi dalla Maestà e dall’Onnipotenza di Dio, il Misericordioso. La sosta dell’Arafat è il momento culminante del pellegrinaggio musulmano, che dà a tutti il senso della Grandezza di Allah ma anche il sentimento della forza e dell’unità della comunità, l’umma musulmana. Il pellegrinaggio ha un valore purificatore: cancella i peccati. Si può compiere uno hajj in sostituzione di un altro musulmano. Dopo la sosta al monte Arafat inizia la desacralizzazione dei pellegrini: il rito delle pietre gettate contro un palo – simbolo della lapidazione del demonio –, il sacrificio degli animali – ricordo del sacrificio d’Abramo –, il sacrificio della capigliatura dei pellegrini, l’abbandono dell’abito sacro dopo aver bagnato nella fonte zamzam un sudario nel quale il corpo del pellegrino defunto sarà avvolto dopo la morte e nell’attesa della resurrezione.
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Nella circumambulazione dei pellegrini attorno alla ka’aba, nella corsa di Agar ripetuta sette volte, nella sosta al monte Arafat abbiamo esempi tipici della sacralizzazione dello spazio9. L’incontro sacro dei pellegrini greci e buddhisti Presso gli antichi greci Delfi risvegliava il sentimento della divinità per la bellezza del sito, delle rocce, delle grotte, delle fonti, del boschetto di lauri, dell’uliveto e della sua apertura sotterranea. Dodici popoli assicuravano la protezione del sito e si veniva da lontano per consultare l’oracolo. Le folle giungevano in pellegrinaggio dal dio Apollo, profeta, purificatore e guaritore. I pellegrinaggi di Delfi sono un modello di scelta di una cosmogonia sacralizzata. Situato a venti chilometri da Atene, Eleusi ha fatto nascere uno dei movimenti religiosi più importanti della Grecia: per oltre due millenni vi furono celebrati misteri che procuravano ai pellegrini l’iniziazione alla salvezza. Sulla trama del mito di Demetra e della figlia Core, i misteri di Eleusi hanno fatto di questa fertile pianura «il seno della terra che dona la vita». Il senso mistico ed escatologico del pellegrinaggio non si esprime solo nel mito ma anche nel rituale di iniziazione, che tuttavia ci è poco noto a causa del segreto che lo circondava. Nella fase finale veniva mostrata ai pellegrini una spiga di grano e veniva loro annunciata la nascita di un divino bambino. Questa contemplazione ultima di un mistero divino sopraggiungeva al termine di una lunga preparazione rituale e spirituale. La processione d’iniziazione avveniva due volte l’anno, in primavera e in autunno. Uscita da Atene, essa seguiva la via sacra, costeggiata di santuari che permettevano di compiere i riti di purificazione. La sera la folla di pellegrini entusiasti entrava nel santuario di Eleusi, «il paese dell’Arrivo». Nel segreto e nel clima di fervore mistico cominciava a svolgersi l’iniziazione10. Disponiamo di una serie di rituali relativi ad alcuni pellegrinaggi buddhisti alle quattro montagne all’interno della Cina. Queste quattro montagne – Omei, Wutai, Putuo e Jiuhua –, veri splendori della natura, rappresentano i quattro punti cardinali e costituiscono così una cosmogonia sacra legata alla presenza di uno dei grandi bodhisattva (figura buddista del portatore di salvezza) in ognuna di esse. Esse simbolizzano l’origine di tutto e i quattro angoli della terra. I rituali esplicitano i sentimenti che devono animare i pellegrini durante il loro cammino e la loro illuminazione nel momento in cui si fermano sulla montagna sacra11.
14. L’Omphalós, che viene considerato l’ombelico del mondo, è oggi conservato al Museo di Delfi, in Grecia. La sua presenza nella Delfi della classicità mostra la centralità cosmogonica di questo luogo consacrato ad Apollo. 15. La Cina buddhista si innerva sovente sulla cultura taoista che la precede. La sacralizzazione delle montagne vede compartecipi le due culture. Qui abbiamo un esempio taoista. Si vede un tratto del percorso sacro della montagna Wudangshan, nella regione cinese dello Hubei. Il tempio è addossato al precipizio sud; per raggiungerlo, dopo un cammino si passa la porta che dà accesso al cielo.
I pellegrini cristiani e il loro incontro con il Mistero Il pellegrinaggio cristiano è un fenomeno analogo a tutti i pellegrinaggi, ma con una serie di particolarità importanti. Anzitutto, nel cristianesimo la fede in un Dio personale unico e trinitario modifica profondamente le prospettive. Ancor di più, è la salvezza dei fedeli centrata sui misteri dell’Incarnazione del Verbo di Dio e della Redenzione da parte di Gesù Cristo nella Chiesa animata dallo Spirito Santo ad ispirare gli atti di pellegrinaggio dei cristiani. Infine, il sacro cristiano si radica nella meditazione su Gesù Cristo in prospettiva messianica, viene espresso e vissuto tramite riti e simboli ma esclude i miti, che sono specifici delle religioni non cristiane12. Esamineremo qui tre esempi: Gerusalemme, Roma e Lourdes. Gerusalemme è un luogo segnato da manifestazioni storiche e soprannaturali, da una serie di episodi che sono determinanti per i cristiani: Passione e morte di Gesù, Resurrezione, Ascensione e Pentecoste. Il pellegrino cristiano rivive questi avvenimenti di fronte
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16. Raffigurazione del Pretorio di Gerusalemme, con l’arco dell’Ecce Homo e, in primo piano, la colonna con gli strumenti della passione di Cristo. La raffigurazione è presente nell’opera di Jean Doubdan, Le voyage de la Terre Sainte, pubblicato a Parigi nel 1666, chiara dimostrazione del rinnovato interesse per i luoghi della vita di Cristo nel ’600.
alle rovine del Tempio, nella basilica del Santo Sepolcro, nella chiesa dell’Ascensione, seguendo la via crucis, sul luogo dove aveva sede il tribunale di Pilato, nella cappella del Cenacolo ai Getsemani. Per i pellegrini cristiani la Terra Santa evoca la vita di Gesù; essi possono percorrerla tenendo in mano il testo evangelico. Ai cristiani che visitano la Terra Santa come pellegrini e non come semplici turisti, il paese si presenta con i tratti di una geografia sacra. Nel corso del loro cammino questi pellegrini si immergono in un’atmosfera di preghiera e di meditazione che li unisce al Cristo. Lo stesso accade per i pellegrini a Roma, i cattolici che si recano nel centro due volte millenario della cristianità. È tutta la storia della Chiesa che essi vedono iscritta nella pietra e nel marmo, nelle catacombe e nelle basiliche, nelle tombe dei martiri e dei santi, da Pietro e Paolo fino a Giovanni Paolo II. La visita alle basiliche, la partecipazione alle grandi celebrazioni in piazza San Pietro o all’interno della basilica, il percorso delle catacombe, la preghiera di fronte alle tombe dei martiri e dei santi, la celebrazione dei sacramenti, danno ai pellegrini una coscienza più profonda del Mistero della Chiesa13. L’esempio di Lourdes si distacca tra i pellegrinaggi moderni. La Grotta dell’apparizione mariana è il luogo segnato da una manifestazione storica soprannaturale e in questa Grotta la rappresentazione della Vergine Maria, l’imago venerata come è stata descritta da Bernadette, sostiene la preghiera dei pellegrini venuti ad ottenere grazie tramite la sua intercessione. La Grotta è un frammento di spazio sacro, come un luogo di presenza del Cielo e del Mistero, un luogo di ascolto celeste per il pellegrino che vi passa lunghi momenti di meditazione e di preghiera. È anche il luogo storico di una serie di guarigioni miracolose. Ma attorno a questo luogo c’è l’organizzazione di uno spazio sacro che permette agli esercizi del pellegrinaggio di svolgersi: le basiliche, la via crucis, la spianata per la processione del Santo Sacramento e le piscine dove scorre l’acqua della fonte scaturita dalla terra su richiesta della Vergine durante una delle sue apparizioni, luogo privilegiato perché storicamente spazio di guarigioni miracolose riconosciute dalla Chiesa. A Lourdes il pellegrinaggio coinvolge tutti gli aspetti della vita religiosa dei cristiani: celebrazioni eucaristiche nelle basiliche, processioni pomeridiane del Santo Sacramento con benedizione degli ammalati, alla sera processione con le fiaccole di un popolo in marcia, illuminato dallo Spirito Santo e luce per il mondo, preghiera intensa a Maria di fronte alla Grotta, bagno nelle piscine in ricordo del battesimo e della missione del cristiano. Da un pellegrinaggio di una settimana a Lourdes i cristiani ritornano riconfortati, anzi, trasformati: è il frutto del loro incontro con la grazia del Mistero cristiano. I riti dell’incontro L’incontro con il mistero, con l’invisibile e il divino è il termine di ogni pellegrinaggio. Quest’incontro è stato preparato durante il cammino che ha portato il pellegrino verso la sua meta, ma perché l’incontro sia perfetto occorre un prolungamento di questa preparazione: è il ruolo del rituale che aiuta il pellegrino a prendere possesso dello spazio sacro. Tra i riti di avvicinamento c’è la processione, preghiera in piedi cantata mentre si cammina, esperienza collettiva che permette di superare la fatica corporale e aiuta a prendere coscienza dell’avvenimento che costituirà l’incontro. Tra questi riti di avvicinamento abbiamo le circumambulazioni attorno alla ka’aba della Mecca e attorno allo stupa buddhista, come la processione dei pellegrini cristiani che cantano cantici e recitano il rosario. I riti di partecipazione aiutano il pellegrino a prendere contatto con il mistero con gesti diversi: il fedele tocca, bacia, pone le labbra sul reliquiario e in questo modo esprime la consapevolezza di appropriarsi di un frammento della potenza misteriosa che lo aiuterà ad operare in sé un mutamento fisico o spirituale. I pellegrinaggi dell’antichità e la Bibbia ci documentano numerosi esempi di immersione nelle acque sacre dei fiumi, dei laghi e
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delle piscine: il bagno sacro è un modo assoluto di partecipazione, che in India costituisce parte integrante del pellegrinaggio. Anche l’offerta entra a far parte dei riti di partecipazione, poiché testimonia un legame del pellegrino con la divinità o con il santo. Nelle religioni antiche il sacrificio costituiva l’atto sacrale per eccellenza tra i riti di partecipazione: era lo scambio del dono della vita che apriva la via all’incontro perfetto tra la divinità e il pellegrino. In seguito le diverse offerte cultuali dei pellegrini hanno assunto la funzione sostitutiva di questi riti di partecipazione14. Restano da dire alcune parole riguardo all’incontro che solitamente il cristiano fa al termine del suo pellegrinaggio. Come i discepoli di Emmaus il giorno della resurrezione del Salvatore, lungo il suo percorso il pellegrino ha incontrato il Cristo, un compagno che ha camminato al suo fianco in modo molto discreto ma lo ha preparato a vivere un’esperienza analoga a quella dei discepoli. Al momento di penetrare nel santuario il cuore del pellegrino è divenuto ardente. La Chiesa lo invita a inginocchiarsi in un confessionale, ad aprire il suo cuore alla misericordia del Padre, a ricevere l’assoluzione salutare che lo scarica del peso dei suoi peccati. Dopo questo primo gesto che dà purificazione e liberazione, il pellegrino partecipa alla celebrazione dell’Eucarestia: è l’incontro con il Cristo suo salvatore, che illumina la sua vita. Così, al termine di un lungo cammino, il pellegrinaggio si compie e si trasfigura nel santuario. Il luogo santo, santuario o basilica, diviene come il riflesso della Gerusalemme celeste dove tutto esprime la pienezza della grazia e del giubilo.
Conclusione L’homo religiosus è l’uomo per il quale esiste al di là della realtà visibile una realtà transumana radicalmente altra, fonte di vita e di valori assoluti suscettibili di dare un senso alla sua esistenza. Questa realtà si manifesta attraverso oggetti e persone di questo mon-
17. La grande processione notturna con fiaccole a Lourdes, momento comunitario tra i riti che si svolgono presso il santuario e la grotta dell’apparizione della Madonna.
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18. Gruppo statuario presso un portale del Duomo romanico di Fidenza, in Italia. Vi si raffigura una famiglia di pellegrini, probabilmente diretti a Roma. La cattedrale stessa era una tappa della via francigena.
do; questa manifestazione è – secondo l’espressione di Mircea Eliade – una ierofania. La fenomenologia della manifestazione è il modo attraverso il quale si può percepire e comprendere la natura del sacro. Il sacro si manifesta come una potenza di un ordine diverso da quello naturale. L’homo religiosus fa e vive l’esperienza del sacro nelle diverse religioni. Il pellegrinaggio è una delle esperienze fondamentali delle grandi religioni e costituisce una delle grandi esperienze del sacro vissuto nelle culture. Il suo compimento finale avviene in un luogo sacro – montagna, santuario, fonte, luogo individuato da un avvenimento mitico o storico – dove si realizza l’incontro che costituisce per il pellegrino la sacralizzazione del suo muoversi: purificazione, guarigione, conversione, o almeno un particolare conforto nella sua vita. Per giungere a questo punto il pellegrino deve compiere una preparazione psicologica e percorrere una via di pellegrinaggio lungo un percorso disseminato di luoghi di devozione, santuari e fonti sacre: questo itinerario diviene una via sacra che prepara i pellegrini al grande incontro che li attende al termine del loro cammino. Abbiamo sempre usato il plurale – «i pellegrini» – poiché il pellegrinaggio si iscrive in una «tradizione collettiva». La sacralizzazione dello spazio di pellegrinaggio diviene realtà per il gruppo di pellegrini che avanzano di tappa in tappa verso il luogo d’arrivo e verso l’incontro. Lo sforzo rinnovato incessantemente costituisce una vittoria permanente sulla fatica e sulle difficoltà del cammino. Ogni luogo sacro ha valore di ritorno alle sorgenti. Tuttavia, si tratta di misurare bene la distanza che separa la sacralizzazione della via dei pellegrini cristiani dal sacro e dalla sacralità vissuti da altri pellegrini, ad esempio indù. Quando questi ultimi avanzano lungo i cammini che li conducono alle sorgenti del Gange, hanno la coscienza di vivere ore intense in comunione con il fiume sacro nel quale si immergono per purificarsi ed attingere nuove forze vitali. Il loro cammino di pellegrinaggio è illuminato da una sacralità cosmica. Il gruppo di pellegrini cristiani sulla via di Compostella, che fa sosta a Sant’Isidoro di León per celebrare solennemente una messa, fa una tappa sulla via sacra per partecipare alla santificazione del popolo cristiano operata dal mistero redentore di Cristo. La via del
19. Santuario barocco di Manquiri, presso Potosí, in Bolivia. Al Santuario si accede transitando davanti alle cappelle dedicate alla Via Crucis.
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pellegrinaggio cristiano è una via sacra, che non si iscrive però in una visione puramente cosmica ma anche e anzitutto in una storia ed una prospettiva di salvezza e di redenzione tramite il Cristo.
Note A. Dupront (a cura di), Saint Jacques de Compostelle. Puissances du pèlerinage, Brepols, Parigi 1985. M. Delahoutre, Les pèlerinages bouddhiques en Inde, in J. Chelini e H. Branthomme (a cura di), Histoire des pèlerinages non chrétiens, Hachette, Parigi 1987, pp. 242-275. Quest’opera prende in esame le diverse religioni e culture non cristiane e dà una visione dell’insieme dei pellegrinaggi nelle religioni non cristiane del mondo. 3 G. Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Dunod, Parigi 199211, pp. 25-28. 4 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 19864, pp. 40-45. Si vedano anche le pagine 193-221, «Le acque e il simbolismo acquatico». 5 J. Chelini e H. Branthomme (a cura di), Les chemins de Dieu. Histoire des pèlerinages chrétiens des origines à nos jours, Hachette, Parigi 1982. 6 C.A. .Keller, Le sacré et l’expression du sacré dans l’hindouisme, in J. Ries (a cura di), L’expression du sacré dans les grandes religions, Homo religiosus II, Louvain-la-Neuve 1983, pp. 189-247. 7 J. Loicq, «Culto delle acque», in card. Poupard (a cura di), Grande Dizionario delle Religioni, Cittadella editrice, Assisi 1990, pp. 7-14. 8 A. Dupront, Du Sacré. Croisades et Pèlerinages. Images et Langages, Gallimard, Parigi 1987, pp. 378-389. 9 M. Arkoun e M. Borrmans, Islam. Religione e società, ERI, Torino 1980; A. Bausani, L’Islam, Garzanti, Milano 1980. 10 A. Motte, Pèlerinages en Grèce antique, in J. Chelini e H. Branthomme (a cura di), op. cit., pp. 94-135. 11 P. Magnin, Les pèlerinages dans la tradition bouddhique chinoise, in J. Chelini e H. Branthomme (a cura di), op. cit., pp. 278-310. 12 J. Ries, Il sacro nella storia religiosa dell’umanità, Jaca Book, Milano 1995, terza ed. aggiornata, pp. 224228. 13 J. Perrier, «Jérusalem pour le temps et l’éternité», Communio, 1997, pp. 40-48. 14 A. Dupront, Du Sacré, cit., pp. 394-406; Id., «Pellegrinaggio», in card. Poupard (a cura di), Grande Dizionario delle Religioni, cit., pp. 1595-1603. 1 2
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Manuel C. Díaz y Diaz
Il pellegrino medievale
20. Pellegrini in abiti invernali indicano la direzione della via francigena verso il valico di Monte Bardone. Cattedrale di Borgo San Donnino, oggi Fidenza.
Iniziamo ricordando che il termine latino peregrinus si riferisce tanto a una disposizione e a un atteggiamento – che potremmo considerare dinamici – quanto a una condizione che è piuttosto conseguenza di un modo d’essere. Con il primo significato si mette in luce nel termine pellegrino la considerazione originaria di colui che, abitando in un certo luogo e paese, intraprende un lungo viaggio in paesi diversi (camminare, andare in pellegrinaggio, farsi pellegrino). Con la seconda accezione, che è la più frequente, viene evocata la situazione o condizione di questa stessa persona quando è ormai fuori dalla sua regione d’origine (essere pellegrino, vivere come un pellegrino), dando rilievo a un’interpretazione più statica. Chi è pellegrino sente se stesso come un estraneo, alieno rispetto al mondo in cui si trova, emarginato, indifeso come un forestiero1, incompreso (o che può essere incompreso) proprio perché straniero. Insomma, in una situazione estremamente instabile che, in particolare nel mondo antico, lo pone fuori dal sistema sociale, presentandolo addirittura come suo potenziale nemico. Tuttavia, un pellegrino non può essere confuso con un qualunque straniero; non è un viaggiatore errante: passa diretto verso una destinazione. Questa condizione – di essere a conoscenza del proprio destino o della propria meta – gli dà il coraggio e l’audacia per affrontare le situazioni avverse che possono presentarsi e allevia il marchio di straniero con cui lo segnano le persone tra le quali si trova. Forse il tratto più radicale dell’esser pellegrino è una certa condizione religiosa conferitagli dal fatto di muoversi in direzione della propria destinazione: è una condizione che cambia enormemente l’atteggiamento personale di colui che viaggia e il modo in cui viene accettato da parte della gente che incontra. In questo senso l’aspetto più importante rimane la meta, che segna la condizione stessa di pellegrino e lo giustifica di fronte a sé e agli altri. Nessuno è pellegrino senza una meta e nessuno va in pellegrinaggio senza sapere cosa cerca. Tuttavia, rimane difficile stabilire un limite tra pellegrino e viaggiatore. Occorre insistere che il pellegrino conosce la propria destinazione, anche se non sempre in un modo geograficamente esatto; il viaggiatore può obbedire alle stesse determinazioni di un pellegrino, ma quest’ultimo se ne distacca perché, oltre a una destinazione (che, ripeto, può condividere con un viaggiatore), egli fa riferimento a un’intenzionalità, a un senso. In generale e soprattutto nel medioevo, si può dire che l’obiettivo di ogni pellegrinaggio è un luogo santo e, più concretamente, un viaggio intrapreso appositamente per venerare un corpo santo2.
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E ancora, la nota più peculiare di un pellegrinaggio viene data dalla lontananza della destinazione. In questo modo il pellegrinaggio si differenzia dalle feste e celebrazioni in luoghi più o meno prossimi al luogo di residenza. Senza un lungo andare non c’è pellegrinaggio.
Le motivazioni Il pellegrino deve basarsi su diverse disposizioni fondamentali che formano il punto di partenza spirituale del suo mettersi in cammino. Forse per esperienza acquisita, sa che il momento più difficile del suo cammino verrà quando lui stesso comincerà a sentirsi straniero tra stranieri, trovandosi fuori dal proprio paese. Indipendentemente dal fatto di poter contare su mezzi abbondanti o scarsi, può mettere in conto che il proprio viaggio gli costerà lunghe giornate attraverso terre sconosciute e che egli stesso sarà esposto a sopraffazioni di tutti i tipi, in parte con la motivazione o col pretesto della sua condizione di straniero. Ci saranno momenti in cui si sentirà come un apatride, che ha abbandonato i suoi e non si trova con nessuno, poiché da ogni parte riceve o può ricevere manifestazioni di rigetto. In modo più o meno evidente si sentirà solo e privo di comunicazione, poiché dovrà attraversare paesi di lingua diversa dalla propria e questo gli impedirà di entrare in relazione diretta con la gente nella quale si imbatterà. La sua salute sarà esposta a rischi e in caso di malattia resterà alla mercé della buona volontà e della generosità di quanti avrà intorno. Insomma, si trasformerà in una sorta di rifiuto sociale, lontano dagli uni e cacciato dagli altri. Ma conservare la propria volontà e decisione e il proprio intento di pellegrinare in queste circostanze è ciò che conferisce al pellegrino la sua vera profondità spirituale. Chi ha concepito il proposito di farsi pellegrino, quindi di andarsene dalla propria patria e di rinunciare almeno temporaneamente a tutto ciò che possiede, deve allora sentirsi
21. Statuetta di azabache (XVI secolo), rappresentante san Giacomo con pellegrini oranti, di probabile fattura compostellana. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
22. Hans Burgkmair. Basilica Santa Croce. Dettaglio con gruppo di pellegrini. Bayerische Staatsgemäldesammlung.
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Nella pagina precedente: 9. Baldassarre, uno dei tre re magi, segue la stella che indica il cammino. Dettaglio del paliotto di Mosoll. Museo Nacional d’Art de Catalunya, Barcellona.
10. «E vidi… la città santa, Gerusalemme nuova, che scende dal cielo, da presso Dio» (Ap 21,1-2). Dal ciclo dell’Apocalisse d’Angers di Nicolas Bataille, arazzo n. 80, fine del XIV secolo. Musée des tapisseries, Angers.
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11. «E venne uno dei sette angeli… e parlò con me dicendo: “Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la moglie dell’agnello”… e mi mostrò la città santa, Gerusalemme» (Ap 21,9-10). Dal ciclo dell’Apocalisse d’Angers di Nicolas Bataille, arazzo n. 81, fine del XIV secolo. Musée des tapisseries, Angers.
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12. Il pellegrino ricorda ad ognuno la dimensione della vita come cammino. Guillaume de Diguleville, Pelegrinage de la vie humaine, miniatura fiamminga della fine del XIV secolo. Bibliothèque Royale de Belgique, Bruxelles, MS 10176-78, f. 43v.
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13. Tre scene della vita di Raimondo Lullo: a sinistra la conversione, al centro la preghiera di fronte alla Vergine di Rocamadour, a destra la preghiera di fronte a san Giacomo. Secondo le scritte, in entrambi i pellegrinaggi Lullo pregò di essere aiutato a favorire l’incontro tra cristiani e musulmani. Thomas le Myesier, Electorum parvulum, antologia di testi di Raimondo Lullo, Badische Bibliothek, Karlsruhe. Nella pagina seguente: 14. Nel racconto evangelico Cristo è continuamente in cammino: qui, diretto ad Emmaus con i discepoli, è raffigurato con gli attributi del pellegrino. Monastero di Santo Domingo di Silos, XII secolo.
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23. Amsterdam. Rijksmuseum. Meister von Alkmaar, Fremde beherbergen (1504). Nel dettaglio si nota un gruppo di pellegrini mentre si appresta ad entrare in una locanda.
24. Hans Schäufelein, Disegno di un pellegrino (1510). Vienna, Albertina.
dominato da motivazioni grandi e potenti. In primo luogo, deve amare Dio col desiderio di giungere a trovarsi più vicino a Lui. Questo sentimento, che può restare vago e indeterminato, deve tuttavia essere sufficientemente forte per dare un senso a tutto il resto. In secondo luogo, deve credere fermamente che le cose sante avvicinano a Dio, come fa in concreto un corpo santo, che è appartenuto a un vir Dei, a un «uomo di Dio» che, in quanto beato, continua a conservare un rapporto particolare con la divinità. Per questo implorare e supplicare la sua potente intercessione equivale a disporre di uno strumento sicuro per giungere a trovarsi più vicino a Dio, in qualche caso per sentirsi realmente uniti a Lui. Il momento fondamentale nella gestazione del pellegrinaggio consiste dunque nell’idea che il devoto si fa della personalità del santo, che deve ritener capace di un’intercessione efficace in suo favore davanti a Dio. Quanto più questa possibilità gli parrà sicura, tanto più riterrà giustificata la propria risoluzione di mettersi in pellegrinaggio, poiché ciò che realmente interessa è la certezza che il luogo santo o il corpo santo che vuole venerare sono specialmente amati e curati da Dio. Così, nella sua vicinanza e compagnia, avrà un accesso più facile a Dio, potendo contare sull’aiuto dell’uomo di Dio, al quale Questi non potrà negare nulla di ciò che chiede, specie se a favore di una persona devota che pubblicamente e con il proprio impegno personale riconosce la grandezza e le virtù dell’amico di Dio. Il pellegrino dunque si muove su un terreno di ideali che gli fornisce le forze necessarie per affrontare i disagi e lo mantiene fermo nel proposito assunto: la fiducia in Dio e, soprattutto, la convinzione che sul cammino scelto, mediante la venerazione e la supplica al santo a cui è devoto, può giungere a sentirsi vicino alla divinità e vedere così realizzati i propri intimi desideri. Non è il sentimento di una spiritualità vaga e inconsistente ma quello di un’autentica devotio, tutta carica dell’amore per Dio e per i suoi santi. Può accadere che l’amore per Dio non si mostri tanto chiaramente, ma è certo che da qui proviene l’amore per i santi, che pure, considerato in se stesso, può sembrare dominante ed esclusivo.
Intenzioni e virtù per il cammino Nei secoli medievali la condizione del pellegrino nel suo viaggio fu addolcita dal fatto che la gente che lo incontrava era educata al sentimento di una carità particolare verso quanti venivano da lontano, che doveva accogliere e favorire3. In questo modo il viaggio poteva divenire abbastanza tollerabile, almeno in parte, ma il fatto che la brava gente si mostrasse compassionevole e benevola non gli faceva perdere i suoi aspetti di fatica nel cammino, rischi e disagi. Sorgeva così un reciproco sentimento di affetto che nel pellegrino aveva la conseguenza di rendere più fermi i suoi propositi. Certamente il pellegrino doveva conoscere la propria destinazione ma non tutto era risolto nel momento in cui raggiungeva la propria meta. Occorreva tornare indietro, quindi raddoppiare difficoltà e fatiche. Nella maggior parte dei casi il ritorno si faceva arricchiti da una gran varietà di sentimenti, tra i quali si mescolavano la soddisfazione di esser giunti al luogo santo e aver così soddisfatto il proprio desiderio principale; la grazia di sentirsi nel luogo cercato, insieme ad altri pellegrini, e di aver goduto dell’edificazione interiore offerta dal santuario e dalla vista di altri devoti; soprattutto una misura abbondante di nuova speranza se, come di regola, non si era riusciti a sentire nelle proprie membra la vicinanza di Dio4 e a veder accolte le proprie suppliche. La gente che vedeva passare i pellegrini o che li accoglieva non poteva fare a meno di considerare quanto soffrivano «attraverso le rocce tagliate a picco sui monti, circondati dalle astuzie dei predoni, con le afflizioni causate dai briganti, per gli innumerevoli ingan-
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ni di quanti li ospitavano»5. La loro compassione era parte della ricompensa per colui che faceva il pellegrinaggio, poiché gli offriva consolazione e pace interiore. Nel medioevo i pellegrinaggi propriamente detti avevano come luogo comune la lontananza dei luoghi santi che si andavano a visitare. Si sentiva che il viaggio faceva parte di una meccanica spirituale nella quale si dovevano praticare le virtù. Per questo in molti casi le teorie pastorali del pellegrinaggio sottolineano la convenienza di disporsi a praticare atti virtuosi che rendessero il pellegrino degno dei favori divini, in primo luogo quello di raggiungere la meta fissata, poi quello di approfittare del viaggio per aumentare la propria fede, alimentare la speranza e praticare la carità. Su quest’ultima virtù si insisteva in modo particolare, come dando per scontate le altre. Ad esempio, i pellegrini portavano sempre con sé una bisaccia o borsa da pastore, che doveva restare aperta per consentire loro di praticare l’amore verso i simili, condividendo con essi tutto ciò che avevano, certi di guadagnare in tesori celesti quanto perdevano in beni materiali. La carità fraterna doveva iniziare già al momento della partenza. Per compiere il cammino con la benedizione celeste occorreva dapprima risolvere liti e contese, in famiglia o nel villaggio. Si otteneva il perdono di quanti erano stati offesi e, per sigillare il carattere spirituale del pellegrinaggio, si consigliava di ricevere nella propria parrocchia una benedizione per la partenza alla presenza di parenti ed amici. In questo momento era di prammatica la riconciliazione penitenziale. Lungo il cammino occorreva esercitarsi in atti di pietà e di carità. Per questo era molto raccomandabile visitare i santuari che si trovavano lungo la via o che era possibile raggiungere nelle vicinanze, con una piccola deviazione. Qui potevano essere ricevute grazie speciali dal cielo, soprattutto il dono della fortezza, tanto utile in questa situazione. Per di più i santi che venivano qui venerati, servivano da esempio delle virtù nelle quali doveva crescere il pellegrino e con la loro intercessione potevano aiutarlo a raggiungere più facilmente la propria meta. L’esercizio della carità doveva estendersi a tutti, anche se spesso si veniva avvertiti dei pericoli in cui si poteva incorrere incontrando persone senza scrupoli che si fingevano bisognose e finivano per imbrogliare o derubare il buon pellegrino. L’idea di essere fratelli
25. H. Cock, incisione da Breughel. Pellegrini in uno scenario centro-europeo.
26. Giovanni Sercambi, Come si fé lo perdono di Roma (1350). Lucca, Archivio di Stato.
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in Cristo dominava e serviva perché il viaggiatore non si sentisse solo e indifeso: Dio voleva che egli amasse tutti, perché tutti erano suoi figli e per mezzo loro egli poteva ottenere grazie particolari e garantirsi il perdono delle proprie colpe. Con la fede e con le opere buone si afferma l’intenzione compiuta di raggiungere la Gerusalemme Celeste, che diviene il simbolo supremo di ogni pellegrinaggio6. In effetti l’idea di pellegrinaggio rappresenta una fedele immagine della vita dell’uomo sulla terra, dove tutti siamo ospiti e pellegrini7. Per la mentalità cristiana il passaggio per la vita terrena è solo un pellegrinaggio (si è lontani dalla propria casa, nulla di ciò che è quaggiù può essere ritenuto proprio), la cui meta ambita è il Cielo, dove si trova la grande casa comune preparata dal Padre. Ogni pellegrinaggio verso un santuario deve essere un’immagine del gran pellegrinaggio dell’uomo: se si giunge alla fine della vita senza aver raggiunto il livello richiesto di opere buone e di santificazione personale non si raggiungerà la nuova Gerusalemme8.
I prototipi del pellegrino
27. Cronaca di Pietro e Floriano Villola (XIV-XV secolo). Figura allegorica di pellegrino che rappresenta l’autore della Cronaca che difende con la punta del bordone i propri scritti. Bologna, Biblioteca dell’Università.
Nel corso del pellegrinaggio possiamo far riferimento ad alcuni precedenti gloriosi, che servono da prototipi per il pellegrino. In un sermone famoso che costituisce il nucleo del Liber Sancti Jacobi, redatto a Compostella ad uso dei pellegrini jacopei, ci vengono presentati i grandi prototipi dei pellegrini, che servono a disegnare in una visione d’insieme gli obblighi e le virtù che sono richiesti ad ognuno. Lo seguiamo da vicino poiché ci restituisce l’ambiente, più o meno idealizzato, del pellegrinaggio jacopeo e insieme riassume le raccomandazioni che i teologi compostellani diffondevano tra i devoti di Santiago9. L’argomento di una delle parti del sermone è «Come nasce il cammino di pellegrinaggio presso gli antichi padri e come si deve andare per questo cammino». L’autore ci presenta alcuni tipi parziali di pellegrino per ricomporre un’immagine delle virtù e delle ricompense del pellegrinare. Tutto inizia da Adamo, continua con Abramo e Giacobbe e con gli israeliti del Vecchio Testamento, e trova compimento con Cristo e con gli apostoli nella Nuova Legge.
28. Scuola di Domenico Ghirlandaio, Firenze. Accoglienza dei pellegrini quale opera di misericordia.
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Quando Adamo peccò e fu espulso dal paradiso, fu lanciato come nell’esilio di questo mondo, dal quale verrà salvato dal sangue di Cristo e dalla sua grazia. Allo stesso modo un sacerdote, per rimettergli i suoi peccati, manda in pellegrinaggio, come in un esilio lontano dalla sua casa, il pellegrino, che si salverà quando si sarà pentito e confessato. Abramo fu pellegrino quando Dio gli ordinò di abbandonare la propria terra e i parenti per trasferirsi nella terra e tra la gente previste per lui10. Così il pellegrino abbandona casa e parenti e sopporta in pace pesi mondani e cattivi costumi, peccato e perdizione. E se in una terra straniera persevera nelle buone opere, come Abramo ottenne una discendenza innumerevole, così il pellegrino meriterà di far parte delle moltitudini angeliche. Anche Giacobbe fu pellegrino, poiché uscì dal suo paese11 e si trasferì in Egitto, nome che significa tristezza e tenebre. Il pellegrino, lontano dalla sua patria, deve vivere nella tristezza e nelle tenebre del suo pentimento per ottenere il suffragio dei santi. Quanto agli israeliti, nessuno dubita che, una volta usciti dall’Egitto, pellegrinarono lungo tempo prima di raggiungere la Terra promessa attraverso molte calamità, guerre e fatiche. Come loro, anche i pellegrini, nel mezzo delle calamità e fatiche del loro viaggio,
29. James E. Robert Fund, Polittico della vita e miracoli di San Giacomo. A sinistra: episodio non identificato dei miracoli di san Giacomo. A destra: il demonio, nelle vesti di san Giacomo, tenta un pellegrino secondo la versione riportata nel Liber Sancti Jacobi. Indianapolis, Museum of Art.
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30. James E. Robert Fund, Polittico della vita e miracoli di San Giacomo. A sinistra: san Giacomo viene inviato da Cristo a predicare in Spagna sul «pedrón», secondo leggende e tradizioni atlantiche relative al suo arrivo in Galizia. A destra: miracolo del pellegrino morto ed abbandonato durante il pellegrinaggio e portato da San Giacomo a Santiago sul suo cavallo. Indianapolis, Museum of Art.
dopo aver sofferto assalti, inganni ed angustie, riusciranno a raggiungere la casa del santo che venerano e verso la quale si affannano. Non si concludono qui i precedenti biblici del vero pellegrinaggio. Cristo, una volta resuscitato, andò a Gerusalemme e si fece pellegrino, come si ricava dal passo evangelico quando i discepoli lo incontrano sulla via di Emmaus: «Sei tu l’unico pellegrino in Gerusalemme, a non conoscere gli avvenimenti che vi sono accaduti in questi giorni?»12. I discepoli lo riconobbero in seguito, al momento di spezzare il pane. Così, il pellegrino che condivide i suoi beni con i poveri è riconosciuto dal Signore, che nel giorno dell’ira lo libererà perché si è fatto carico del bisognoso13. Infine, gli apostoli furono anch’essi pellegrini, poiché il Signore li inviò in missione senza denaro e a piedi scalzi14. Il denaro che i pellegrini portano con sé è destinato ad essere condiviso con quanti si trovano nel bisogno. Quelli che viaggiano con ricchezze abbondanti non sono pellegrini, ma ladroni e banditi di Dio. In questo modo si disegna, sia pure a tasselli, il quadro dei requisiti spirituali che il pellegrino deve soddisfare. Si può dire che nel mondo medievale, almeno secondo quanto
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traspare dalla ricca letteratura jacopea per il caso dei pellegrini a Compostella, si fa leva in modo particolare sul senso penitenziale del cammino e sul suo valore liberatorio dai peccati, purché vengano soddisfatte le esigenze di pentimento e di buoni propositi, e si compiano delle opere buone.
Un programma di perfezione cristiana Dopo questa varia tipologia, procedendo oltre, il sermone a cui stiamo facendo riferimento ci presenta un ricco programma spirituale che dovrebbero compiere con estremo rigore i veri pellegrini, quelli che intraprendono il cammino per lucrare tutte le grazie del pellegrinaggio e avvicinarsi di più a Dio. Il programma si articola in tre momenti che definiscono il cammino. Prima di mettersi in marcia, il pellegrino deve purificarsi interiormente ed esteriormente. Prima di tutto deve perdonare tutte le offese che gli sono state fatte, deve calmare le proprie inquietudini e angosce spirituali, restituire quanto possiede ingiustamente, trasformare i dissapori in tranquillità, lasciare ben disposta la casa e ottenere per il viaggio il beneplacito familiare ed ecclesiastico. In altre parole, deve partire con il cuore limpido ed aperto alla grazia di Dio. Lungo il cammino darà ai poveri che incontrerà tutto quanto occorre loro per il bene del corpo e dell’anima; eviterà le parole oziose e le conversazioni volgari, occupandosi solo di considerare la vita dei santi, particolarmente di quelli venerati nei santuari che visita lungo il cammino. Soprattutto eviterà ubriachezze, litigi ed ogni specie di atto lussurioso. Al ritorno infine, rientrato nella propria casa, si asterrà definitivamente da tutto ciò che è illecito, dedicandosi solo ad opere buone e meritorie. In questo programma, come in tutte le indicazioni marginali che lo integrano, ci si basa sul fatto comune che raramente il pellegrino compie il suo viaggio da solo. Usualmente viaggia in compagnia ed è a questi compagni che, prima di tutto, deve offrire i suoi beni, il suo esempio e la sua carità. Una volta ritornato, la sua vita deve convertirsi in un modello da imitare da parte dei vicini e costituire per loro un’incitazione all’amore di Dio e alla realizzazione del viaggio a Compostella15.
31. In un bassorilievo del Monastero di San Juan de Ortega a Burgos, san Domenico accoglie un gruppo di pellegrini.
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Non finiscono qui le condizioni e le esigenze del pellegrinaggio, poiché è frequente trovare altre motivazioni, esposte nelle maniere più diverse, al fine di orientare il pellegrino. L’idea di via è una di quelle fondamentali della dottrina cristiana. Cristo è il cammino16 per il quale si può venire al Padre17 su una via spirituale privilegiata, nella quale si riassume la perfezione necessaria per raggiungere Dio. A sua volta, il cammino è il momento centrale del pellegrinaggio. Concluderlo in modo adeguato può significare avviarsi con il piede giusto sulla via verso il Cielo. Procedendo ancora, combinando questa dottrina con l’affermazione secondo cui è stretta la via che conduce in Cielo, si crea la dottrina della via peregrinalis, che diviene un riflesso spirituale della stessa vita cristiana. Per il vero pellegrino, la via peregrinalis deve essere veramente stretta, dura ed esigente, in quanto strada che porta alla dimora celeste18. Su un piano più ascetico ne consegue che il cammino di pellegrinaggio ci appare come «penitenza di penitenti, cammino di giustizia, amore di giusti, fede nella resurrezione, ricompensa dei santi». In conclusione, si può dire che si giunge ad un momento in cui l’idea stessa di pellegrinaggio si identifica con un programma completo di vita cristiana. Il pellegrino si converte così nel prototipo dell’uomo virtuoso che si trova a percorrere il sentiero che lo conduce fino a Dio.
32. Monaco e pellegrini nel giorno del Giudizio sul portale occidentale della cattedrale di Autun.
Non tutti i pellegrinaggi medievali possono essere giudicati alla stessa stregua. È evidente che i grandi pellegrinaggi – Santiago, Roma, Terra Santa – sono diversi tanto nelle loro possibilità come nelle loro mete. Tuttavia, hanno tutti un denominatore comune: la gran lontananza. Forse Santiago si caratterizza non solo perché offre all’uomo medievale la possibilità di andare in pellegrinaggio in un luogo santo, determinato dalla presenza di un corpo particolarmente santo19, ma anche perché costituisce l’occasione di mettere alla prova la propria fede camminando verso la fine del mondo, il Finis terrae, e pone così nella situazione di percorrere una via che porta al limite terreno e quindi avvicina il pellegrino sempre più a Dio.
33. Pitture murali con pellegrini stilizzati ad Alaiza, Iglesia de la Asunción.
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Sul piano dell’esperienza, i pellegrinaggi servivano poi come momento di incontro tra persone. Fu importante e molto rilevante la loro utilità per creare la coscienza di comunità, nella forma di comunità cristiana. Frutto immediato dello sviluppo del culto delle reliquie come mezzo per cercare l’intercessione dei santi e facilitare un avvicinamento veloce al piano soprannaturale in cui essi vissero, il pellegrinaggio contribuì grandemente a favorirne diffusione e venerazione. Sovente il pellegrino si trasforma in elemento diffusore e promotore di nuove devozioni, trasferendole lungo il cammino. Scambia e conserva i simboli del suo pellegrinaggio, che a volte lo accompagnano fino alla sepoltura. In questo modo il pellegrino svolse nella Chiesa medievale una funzione interessante, anche se poco vistosa e altrettanto poco riconosciuta: più dei grandi personaggi e delle grandi azioni, egli operò un avvicinamento integrale profondo tra i fedeli aumentando in modo reale la fede e la consapevolezza della comunione dei santi, ravvivando la nozione di Chiesa e diffondendo una sorta di riforma che operava oltre le istituzioni e le dottrine.
Note Così, per esempio, si dice degli uomini sulla terra in Eb 11,13. Sono termini che nel dettaglio si confondono, poiché la sepoltura di un santo o, prima di lui, di un eroe, definisce il locus santo cercato. Cfr. G. Muschol, «Zur Spiritualität des Pilgerns im frühen Mittelalter», in Spiritualität des Pilgerns, Tubinga 1993, pp. 23-38. 3 Sono molto frequenti nei documenti disposizioni particolari a favore dei poveri e dei pellegrini. 4 Che si manifestava soprattutto nella partecipazione, anche passiva, alla realizzazione di qualche miracolo che mostrava più di ogni altro segno la presenza del potere divino. 5 La frase è tratta dal sermone compostellano Exultemus, in Díaz, De Santiago y los caminos de Santiago, Santiago 1997, p. 133. 6 Come nel sermone Solemnitatem odiernam del Liber Sancti Jacobi, Codice Calixtino I,12. 7 Eb 11,13. 8 Descritta in Ap 22,1-17. 9 Sermone Veneranda dies, Liber Sancti Jacobi I,17. 10 Gn 12,1. 11 Gn 35,3. 12 Lc 24,18. 13 Sal 40,2. 14 Lc 22,35. 15 Cfr. Díaz, op.cit., pp. 232-233. 16 «Ego sum via veritas et vita», Gv 14,6. 17 Gv 14,6. 18 Mt 7,13; ma i due concetti si uniscono in Mt 7,14: «quam angusta porta et aria via quae ducit ad vitam». 19 Non solo si tratta di un apostolo, ma di uno dei tre preferiti dal Signore: ebbe mutato il proprio nome, fu testimone della Trasfigurazione, assistette alla resurrezione della figlia di Giairo e fu chiamato da Gesù per accompagnarlo nella preghiera ai Getsemani. Non andava poi dimenticato che l’apostolo san Giacomo era il protomartire del collegio apostolico, segno di una predilezione particolare da parte di Dio. In tutte le circostanze importanti condivideva gli onori con Pietro e con Giovanni Evangelista; ma nel martirio eccelleva come il primo tra tutti gli apostoli. 1 2
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Massimo Miglio
Pellegrinaggio e giubileo
Dal pellegrinaggio tardo antico all’istituzione del giubileo
34. L’esposizione della «Veronica» costituiva uno dei momenti più attesi del pellegrino che aveva raggiunto Roma.
Dal tardo antico fino al tardo medioevo è un coro unanime: folle di pellegrini percorrono le strade per Roma, affollano le strade della città. Così raccontano versi e prose, anche se è sempre difficile distinguere tra amplificazione retorica e realtà, tra immaginario collettivo e dimensione reale di un fenomeno che pur è costante. Da nord e da sud, da oriente e da occidente giungono a Roma pellegrini di fede e romipeti d’affari, in cerca di consacrazione personale e di gloria, di religiosità e di pace dello spirito, di un’immagine dell’antico ormai persa in altre regioni d’Europa e del mondo, di un mito lontano e di un altro più recente. Troppo antica la storia della città e troppo forte il contrasto tra passato e presente, troppo debole sempre il potere politico municipale, troppo forte il potere carismatico della Chiesa, troppo incerto a volte il potere politico del pontefice per non mostrare volta a volta al pellegrino una città diversa. Insieme trionfante e lacera, d’apparati e di miserie, di gloria e disonore, di pietà e di violenza, di perdono e d’offesa, di esaltazione e di disperazione. Roma era stata la capitale dell’impero, ma era anche la capitale del mondo cristiano, e in quanto tale era Gerusalemme e Santiago, era Paolo e Pietro, era le stimmate dell’intero cristianesimo; a Roma c’era la fonte della sacralità della più sperduta pieve di campagna o della più sfolgorante cattedrale urbana, del santo più sconosciuto e del martire più famoso. Roma poteva essere un inferno, ma era sicuramente il paradiso. Il culto dei martiri, e primi tra tutti Pietro e Paolo, ha creato il pellegrinaggio a Roma, ha fatto della città una città santa e, ancora in pieno umanesimo, alla vigilia del saccheggio lanzichenecco, si ricordava che la terra di Roma era stata consacrata dal sangue dei martiri. La cattedra di Pietro, la presenza del vicarius Christi, del pontefice che aveva ricevuto da Pietro il potere di sciogliere e legare, aveva consegnato a Roma il magistero cristiano. Il trasferimento in città delle reliquie dei martiri dai luoghi del suburbio e da quelli lontani d’oriente, dalle terre dove Cristo e gli apostoli avevano vissuto, aveva addensato sacralità a sacralità. Roma era città sacra. Il viaggio a Roma del più emarginato tra gli uomini o del più potente si trasformava così, sempre, in un viaggio di penitenza e di devozione, in un pellegrinaggio. Un intrico di motivazioni spinse lontano da Costantinopoli l’imperatore Costante II, eppure la sua permanenza a Roma fu da lui vissuta, e venne sentita dalle fonti, come un atto di devozione a san Pietro; anche Carlomagno, quando entrò in San Pietro nella notte di Natale per l’incoronazione imperiale rese omaggio a Pietro. Nei secoli successivi tutti gli imperatori
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dovettero venire a Roma per ricevere dal pontefice la corona imperiale e si inginocchiarono sulla tomba di Pietro. I Padri della Chiesa propongono Roma come capitale cristiana e la raccontano percorsa da folle di pellegrini salmodianti, con le fiaccole accese nel buio della notte. Lettere dei pontefici chiedono protezione ai potenti per i pellegrini che percorrono le strade d’Europa e raccomandano di vedere in loro il Cristo pellegrino. Cronache di monasteri e di città narrano il passaggio, a gruppi, alla spicciolata, uomini e donne, famiglie intere, di romei in viaggio per Roma. È difficile, in ogni caso, cercare di quantificare un fenomeno che è però una costante continua per tutti i secoli del medioevo. Una continua presenza che fa vivere Roma e accompagna la diffusione dell’idea cristiana nel mondo intero. L’attitudine al pellegrinaggio si sviluppa secolo dopo secolo, svolgendosi parallelamente all’evoluzione nel mondo cristiano del sacramento della penitenza. Dalle isole inglesi si diffonde nel continente europeo nei secoli centrali del medioevo, e viene accolta da Roma, l’idea di una penitenza scandita a tariffa secondo la gravità delle colpe, che soppianta la precedente disciplina penitenziale, secondo la quale il sacramento poteva essere conferito una sola volta, di solito in punto di morte. Ora era possibile la confessione frequente delle proprie colpe, che prevedeva però l’acquisizione dell’assoluzione solo con l’espiazione completa del peccato. I sacerdoti assegnavano ai peccatori per l’assoluzione pene tanto più pesanti quanto più gravi erano le loro colpe; tra quelle accanto al digiuno e ai castighi corporali c’era il pellegrinaggio di penitenza. A Roma dovevano andare in penitenza soprattutto i colpevoli di gravi delitti; in un primo tempo i religiosi colpevoli di sodomia e d’incesto, in un momento successivo tutti i colpevoli di crimini particolarmente gravi; quindi, dalla prima metà del XII secolo, tutti i colpevoli di incesto, omicidio, stupro, sacrilegio, parricidio, sodomia, simonia. Nonostante le forti resistenze del clero locale e di forti personalità religiose e laiche, le strade europee si affollarono di pellegrini penitenti che cercavano a Roma la redenzione dalle loro colpe. Accanto a loro, i pellegrini di devozione. Gente violenta e senza legge s’accompagnò a quanti speravano solo in Pietro e in Paolo; peccato e fede camminavano verso Roma. In qualche momento altre mete esercitarono altrettanta forza d’attrazione. Prima fra tutte Gerusalemme e la Terra Santa; quindi, legata all’influenza cluniacense, San Giacomo
35. Disegno dell’esterno di Santo Stefano Rotondo.
36. Interno di Santo Stefano Rotondo.
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di Compostella. Ma la conquista musulmana di Gerusalemme e il progressivo affievolirsi dell’idea crociata tornarono ad accentrare a Roma l’attenzione dei pellegrini.
L’esplosione del giubileo del 1300 Sono ancora le folle di pellegrini le protagoniste prime dell’istituzione del giubileo nel 1300. Quelle folle che interpretavano la necessità di una rigenerazione della vita sociale, prima ancora individuale che collettiva, che s’accompagnasse a una vita religiosa intensa e partecipata e a un ritorno al modello della Chiesa primitiva. Era il modello di Francesco, erano le prospettive di gruppi ai margini dell’ortodossia e di eterodossi. Ma la volontà pontificia diede, anche per questo aspetto, una svolta fondamentale a quelle che erano le tensioni dei pellegrini. Racconta il cardinale Jacopo Stefaneschi, il primo cronista giubilare: «Era pervenuta al romano pontefice Bonifacio VIII, circa l’imminente anno secolare del 1300, che allora attendevamo e che era già alle porte, una diffusa voce, incerta e pressoché priva di apparente attendibilità; essa prometteva che tale sarebbe stata la virtù di quell’anno, che chiunque si fosse recato in Roma alla basilica di San Pietro principe degli apostoli avrebbe ottenuto pienissima assoluzione di tutti i peccati». La speranza dell’indulgenza nasce tra il popolo dei fedeli ed è legata all’anno centenario; tutti coloro che avrebbero visitato la basilica di San Pietro avrebbero ottenuto, si diceva, la remissione completa dei peccati. Di fronte al diffondersi di questa voce e di quest’aspettativa, il pontefice ordina una ricerca nell’archivio pontificio alla ricerca di documenti che attestassero questa tradizione: «Bonifacio VIII per questo motivo ordinò di ricercare le testimonianze nei libri antichi, ma da essi non venne nulla in proposito». L’opinione comune era che la remissione dei peccati sarebbe stata limitata al solo primo giorno dell’anno, e i romani si accalcarono attorno all’altare di Pietro per tutta la notte, fin dal vespro. Lo Stefaneschi riconosce di non sapere cosa possa aver fatto nascere una simile idea, ma testimonia quanto accadde nei giorni successivi: «Con questi precedenti cominciò giorno per giorno ad accrescersi la fede e la frequenza dei romani e dei forestieri, asserendo certuni che nel primo giorno
37. Roma, Santa Pudenziana. Abside.
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dell’anno secolare si cancellasse la macchia di ogni colpa, nei rimanenti vi fosse indulgenza di cento anni. Così continuò per circa due mesi; anche se molti più del solito in turbe compatte, sia che fossero speranzosi o dubbiosi, convennero a Roma nel giorno in cui si mostra l’effigie detta popolarmente del Sudario o della Veronica». Per quasi due mesi una moltitudine di pellegrini accorre a Roma solo sulla base della voce popolare. Sono tanti. La notizia supera le Alpi, mentre il pontefice, che non proibiva l’afflusso dei fedeli, «lasciava presumere che ciò gli fosse gradito, per cui con il suo comportamento avvalorò le convinzioni dei pellegrini». Solo allora, e dopo attenta riflessione, si ebbe l’intervento di Bonifacio VIII. Era il 22 febbraio del 1300, festa della cattedra di san Pietro, quando venne emanata la bolla che indiceva il primo giubileo della storia cristiana. Nella prima parte della decretale d’indizione si ricordava un’antica consuetudine che attribuiva a coloro che visitavano la basilica dell’apostolo Pietro la più ampia remissione e indulgenza della pena legata ai peccati, consuetudine riconosciuta dal pontefice ma subordinata ora al pentimento dei peccati e alla loro confessione. Nella seconda parte Bonifacio VIII ricordava il potere salvifico del pontefice, ampliava l’indulgenza alla basilica di San Paolo e decretava: «Noi, pertanto, fiduciosi nella misericordia di Dio onnipotente, nei meriti e nell’autorità dei medesimi suoi apostoli, dopo aver ascoltato il consiglio dei nostri fratelli, concediamo nella pienezza della potestà apostolica a tutti coloro che, nel presente anno milletrecento dalla trascorsa recente festa della natività del Signore nostro Gesù Cristo, e in qualunque futuro anno centesimo, accedano con riverenza, sinceramente pentiti e confessati, o che si pentiranno sinceramente e si confesseranno nel presente anno o in qualunque anno centesimo successivo, il perdono non solo pieno e più ampio, anzi pienissimo, di tutti i peccati commessi». L’indulgenza giubilare, come aveva già chiarito uno dei maggiori studiosi del tema, Frugoni, si differenziava dalle precedenti indulgenze plenarie solo per il tipo di azione richiesta: l’indulgenza si guadagnava non più con la peregrinatio armata in Terra Santa, o con la visita alla basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila come aveva proposto Celestino V, ma con la peregrinatio romana. La concessione bonifaciana costituiva una raffinata scelta di politica religiosa che, nell’accogliere le forti tensioni spirituali vive nel modo contemporaneo, ribadiva il potere del pontefice vicario di Pietro e sottolineava l’importanza ideologica del primato di Pietro al quale Cristo aveva trasmesso tutti i poteri e dal quale questi erano stati trasmessi ai pontefici di Roma suoi successori. Bonifacio VIII riconduceva alla Chiesa romana l’ansia di rinnovamento che era stata espressa in maniera inconscia e confusa da quanti avevano affollato San Pietro; riaffermava che la Chiesa stessa era l’unica depositaria della salvezza; aggiungeva un elemento forte alla propria concezione ideologica del potere pontificio: l’indulgenza è plenaria tanto quanto è ampio il potere delle chiavi di Pietro e dei suoi successori. La concessione del giubileo, che innovava profondamente la tradizione indulgenziale, avrebbe, nelle intenzioni del pontefice, confermato, con la grande affluenza dei pellegrini, la plenitudo potestatis, nel temporale e nello spirituale, dei pontefici romani a fronte delle presunzioni delle nascenti monarchie nazionali o dell’impero, di tutti i poteri laici. E, non a caso, lo Stefaneschi lamentava l’assenza di sovrani tra i pellegrini giubilari. Copie della bolla d’indizione furono trasmesse in tutta Europa, accompagnate da una lettera circolare che spiegava modi, condizioni, esclusioni per l’acquisizione dell’indulgenza; rendeva, con artifici retorici, ancora più straordinario l’avvenimento e sottolineava l’importanza della figura di Bonifacio VIII. Con la bolla e con la lettera furono inviati versi, dalle movenze epigrafiche, che divennero famosi:
38 e 39. Roma, Museo di San Giovanni in Laterano. Le statue di san Pietro e di san Paolo, provenienti con ogni probabilità dalla Loggia delle Benedizioni.
Annus centenus Rome semper est Jubileus, Crimina laxantur cui penitet ista donantur, Hoc declaravit Bonifacius et roboravit.
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(Ogni centesimo anno si celebra a Roma il giubileo. Vengono alleggerite le colpe per colui che si pente. Così dichiarò e confermò Bonifacio.) Nei mesi successivi le cronache di tutta Europa registrarono il numero infinito di pellegrini, con parole e immagini rese tra esse quasi simili dallo stupore di tutti e dall’impatto sull’immaginario collettivo di un avvenimento eccezionale, il numero infinito dei pellegrini. «La più grande moltitudine di pellegrini accorse in Curia», «una moltitudine non quantificabile confluì a Roma», «da tutte le parti del mondo venne a Roma tanta moltitudine quanta non si ricorda a memoria d’uomo», «un grande concorso d’uomini da tutto il mondo», «andovvi grandissima gente di tutta la cristianità, sì che parve incredibile a chi non l’avesse ceduta». Molti cronisti segnalarono soprattutto la presenza di donne, venute anche da lontano: «femmine come omini di lontani e diversi paesi e di lungi e dappresso», «il concorso di uomini e donne come nessuno ricorda al nostro tempo», «gente infinita dell’uno e dell’altro sesso, a caterve, s’affrettavano con devozione verso Roma», «e andavano el marito e la moglie e figlioli e lassavano le case serrate e tutti di brigata con perfetta divozione andavano al ditto perdono». Precisissimo, un cronista di Parma annotava stato sociale, provenienze, distanze, modi e abitudini di viaggio, luoghi di ospitalità e condizioni: «maschi, femmine, chierici, laici,
40. Roma appariva ai pellegrini, oltre che piena di reliquie, anche traboccante di antichità classiche, come in questo dipinto (secondo decennio del XV secolo) di Taddeo di Bartolo nel Palazzo Pubblico di Siena.
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religiosi, religiose e monache andarono a Roma da tutta la Lombardia, dalla Francia, dalla Borgogna, dalla Germania, dalle altre regioni e da tutte le terre cristiane, infiniti baroni, cavalieri e nobili dame e altri senza numero dell’uno e dell’altro sesso, d’ogni condizione, stato, ordine, dignità andarono a Roma per il giubileo. Ogni giorno a tutte le ore sembrava che un intero esercito percorresse la via Clodia e i campi d’intorno. I baroni e le nobili dame che venivano dalla Francia e da altre terre lontane venivano in comitive di quaranta, cinquanta e più cavalli. Tutte le case della via Clodia, nella città di Parma e fuori, sia le solite locande e taverne, che le altre case davano ospitalità, cibo e bevande a pagamento. E ogni giorno erano piene». Con altrettanta precisione un cronista di Modena ricordava condizioni meteorologiche, pietà filiale e tranquillità sociale: «Nell’anno 1300 nevicò moltissimo per tutto l’inverno fino al mese d’aprile e bisognava continuamente spalare la neve dai tetti delle case… una quantità innumerevole di cristiani, dell’uno e dell’altro sesso, di giovani e vecchi, oltramontani e non, andò al perdono, e poiché non potevano andare a piedi per la neve, chiesero cavalli o altri animali; molti giovani che non avevano denaro, portavano madri e padri a spalle. Tutta l’Italia visse una pace tranquilla, tutti poterono andare sicuri a Roma…». Altri cronisti tentarono di proporre dei numeri: duecentomila pellegrini per tutto l’anno, trentamila al giorno, due milioni per Natale, ma sono cifre che esprimono solo meraviglia e non quantità reali. Jacopo Stefaneschi, da parte sua, racconta la folla a Roma: «Grandi folle giunsero a Roma dall’Italia, dall’Ungheria e dalla Germania, dove il pellegrinaggio agli apostoli per ottenere l’indulgenza era più noto per avere avuto una maggiore diffusione la notizia dell’indizione del giubileo. Le folle furono talmente numerose da sembrare nei luoghi di passaggio un esercito, se non uno sciame, tanto da doversi accampare dentro e fuori le mura di Roma. Molti pellegrini, aumentato giorno dopo giorno l’afflusso, finirono schiacciati. Si trovò un rimedio salutare, anche se il risultato non fu del tutto soddisfaciente, con l’aprire una seconda porta nelle mura tra il monumento di Romolo e quella antica per far entrare i pellegrini a Roma».
41. Bonifacio VIII rappresentato nel sacello del Vaticano.
L’istituzionalizzazione del giubileo tra Trecento e Quattrocento È noto come, successivamente, la ricorrenza giubilare sia stata prevista prima ogni cinquant’anni, quindi ogni trentatré anni e quindi definitivamente stabilita da Nicolò V ogni
42. Roma, Santa Costanza. Cristo consegna le chiavi a Pietro in presenza di Paolo.
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43. Lapide marmorea, trovata a Roccalanzona (Parma) con il testo di indizione del Giubileo del 1300.
venticinque. Le cronache continuarono a ripetere, con parole quasi identiche a quelle usate dagli scrittori del 1300, lo stupore collettivo per la quantità di persone che ogni volta riempivano strade e città. Altri precisarono aspetti diversi del giubileo. Riferirono di cambiamenti dei cerimoniali pontifici, di come anche Roma vivesse e si trasformasse per i pellegrini, di come i pellegrini modificassero tensioni religiose e abitudini romane. Al pontificato di Bonifacio VIII erano seguiti anni difficili per la Chiesa e l’Europa: il trasferimento del papato ad Avignone, il Grande Scisma d’Occidente, la Guerra dei Cento anni. Un’età di violenza che aveva reso forse ancora più forte il desiderio di un momento di pace e di riconciliazione collettiva, quale il giubileo avrebbe dovuto essere. Quando Alessandro VI lesse, la notte di Natale del 1499, la preghiera che era stata preparata dal cerimoniere e in cui il pontefice aveva voluto fosse esplicitamente ricordata l’apertura della porta santa, i temi del pentimento e della salvezza risuonarono ancora una volta nella basilica di San Pietro. I cantori della Cappella pontificia intonarono: «Apritemi le porte della giustizia, ed entrato confiderò nel Signore. Questa è la porta del Signore, i giusti vi entreranno. Apritemi le porte della giustizia, ed entrato confiderò nel Signore». Il pontefice esortò Dio: «Concedi… un inizio propizio di quest’anno centesimo del giubileo in cui hai voluto aprire questa porta al popolo pentito». Tre colpi di martello davano il via all’opera di apertura della porta santa, secondo un cerimoniale minutamente descritto e altrettanto attentamente predisposto nei giorni precedenti. Inizia così l’ultimo giubileo del mondo medievale e il primo dell’età moderna. Ma la puntigliosa descrizione del cerimoniere pontificio aggiunge altri elementi significativi del modo nuovo con cui il pontefice e la curia avevano preparato l’avvenimento: la pubblicazione della bolle giubilari sulla piazza della basilica di San Pietro, la loro affissione alle porte di San Pietro e di San Giovanni, l’ordine di informare i fedeli in ogni parte del mondo durante la messa domenicale, la lettura delle bolle, in latino e in volgare; l’ulteriore bando, ancora in volgare, per le vie di Roma; l’ordine ai muratori di non attraversare la porta prima del pontefice; il suono delle campane di tutte le chiese della città e del Campidoglio prima dell’apertura della porta; infine la preparazione di una «cassa grande e forte» per la raccolta delle elemosine. Nello stesso giorno – informa il Burcardo – fu inaugurata la nuova via diretta che dalla Porta di Castello conduceva al Palazzo apostolico. Il giubileo, dal palazzo, penetrava nella città e si proiettava nel mondo, con una progressione destinata però a riconvergere verso il centro, nel luogo delegato al trionfo della Chiesa. Tutto è molto lontano da quanto era accaduto nel 1300; profondamente lontani e diversi erano città e papato. Tra quel primo giubileo bonifaciano (nato quasi casualmente
44. Roma, Santa Costanza. Cristo consegna la legge a Mosè.
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dalla predicazione di un chierico del Capitolo di San Pietro, come qualcuno diceva, sicuramente da una forte richiesta popolare) e questo alessandrino, accuratamente preparato nei simboli e nei progetti, è avvenuta con forti traumi e violente crisi la trasformazione della città in cosmopoli. Più difficile indicare la trasformazione che aveva subito il papato. Per il giubileo di Bonifacio VIII si è potuto dire, forse con una qualche eccessiva decisione, che «Il Giubileo del 1300 fu… l’ultima prova del grande pontificato medievale» e che «I Giubilei che seguirono, anche se mossero ancora moltitudini, furono soltanto commemorazioni di quello di Bonifacio, intesi a ravvivare la devozione, a distribuire la grazia celeste e magari a ‘raunar danari e tesoro’, ma non pretesero più di essere la celebrazione solenne di quell’ideale religioso-politico, che si era proclamato, misurato e definito nell’Unam Sanctam». È forse oggi possibile, a distanza di cinquant’anni dalle ricerche fondamentali di Frugoni, indicare come ogni pontefice, nel celebrare uno dei giubilei successivi, abbia interpretato ciascuno degli aspetti sopraindicati. La situazione religiosa e politica europea era certo modificata, ma l’ideologia pontificia era tornata a proporre con forza, dalla metà del Quattrocento, il modello del pontifex-imperator, con le conseguenze note nel temporale e nello spirituale. Si può invece con sicurezza ripetere con lui, ed estenderle anche ai giubilei successivi, le ragioni che volta per volta spinsero tanta gente al perdono: «le folle accorse esprimevano solo l’ansia della salvezza, il costume religioso che riconosceva a Roma la guida della fede». Forse qualcuno di quei pellegrini aveva letto nell’Antico Testamento del giubileo ebraico, o ne aveva sentito parlare in prediche e omelie; forse qualcuno aveva riflettuto sulle grandi scansioni del tempo e le aveva collegate alle più veloci scansioni della vita individuale; certo ognuno di loro sentiva incombere sulla propria coscienza cristiana l’imperfezione della propria vita, il peso di piccole e grandi colpe, che erano l’ostacolo alla propria speranza di vita eterna futura. Se il viaggio a Gerusalemme aveva costituito dall’inizio della diffusione del cristianesimo in Occidente il pellegrinaggio per eccellenza e, dall’XI secolo, la crociata, peregrinatio armata, era stata formalizzata dai pontefici (ma ciò valeva soprattutto per gli uomini) come l’occasione per guadagnare l’indulgenza plenaria, altrettanto presto si era creata un’ideologia del pellegrinaggio a Roma. Bonifacio VIII riprese e istituzionalizzò l’afflusso a Roma di pellegrini, come tutti i pontefici prima di lui avevano sempre favorito; anche se – come è stato notato – la vox populi dei tanti pellegrini affluiti nei primi giorni del Trecento motivò la sua decisione. Ma erano la tradizione romana, l’ideologia monarchica del papato, la riflessione canonistica sulle indulgenze, la volontà di trasferire su Roma anche la sacralità legata al pellegrinaggio gerosolomitano, e un notevole intuito, a dargli certezza nella decisione. La speranza della salvezza eterna, o perlomeno di abbreviare i tempi della permanenza nel purgatorio, continuò a spingere ad affrontare lunghi viaggi, fatiche, pericoli, in qualche caso il sacrificio estremo. Alla fine del viaggio erano il Legno della Croce, la Veronica, la Scala santa, il sepolcro e la cattedra di Pietro, i tanti martiri della fede. Alla fine del viaggio erano Roma e la salvezza.
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15. Secondo l’interpretazione tradizionale, in questo affresco attribuito a Giotto, papa Bonifacio VIII benedice dalla loggia lateranense i pellegrini accorsi per il giubileo del 1300. Affresco già collocato nella Loggia delle benedizioni di San Giovanni in Laterano, ora nell’interno della stessa basilica.
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In queste pagine e nelle successive: 16-17. Il cardinale Jacopo Stefaneschi, autore del Libro dell’anno centenario e del giubilare, ebbe una funzione di primo piano nell’istituzione del giubileo del 1300. Nel trittico commissionato a Giotto è raffigurato sul recto inginocchiato alla sinistra del trono di Cristo e sul verso mentre offre il trittico a san Pietro. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.
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18. I pellegrini giungono a Roma per il giubileo del 1300. Da Giovanni Sercambi, Cronache, inizio del XV secolo. Lucca, Archivio di Stato, Biblioteca manoscritti 107, c. 29r.
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19. La statua bronzea di san Pietro, opera di Arnolfo di Cambio precedente il 1296, accoglie i pellegrini a Roma. Basilica di San Pietro.
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20. Mosso alla ricerca del volto di Cristo, il pellegrino lo incontrava continuamente nell’immagine della Veronica, Mandylion nella terminologia bizantina. Questo Mandylion è collocato sul portale della chiesa della Dormizione del monastero di Humor, Romania.
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PEREGRINI
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Robert Plötz
Il cammino e i luoghi
De peregrinationibus maioribus liturgica et paraliturgica: benedictiones, ritus, sacra et signa
45. Pietro, Giovanni e Giacomo, discepoli prediletti del Signore, nella pala di Barfüsseraltar di Gottinga.
Gli usi e i riti sono da intendere, in senso ampio, come espressioni normative e ripetitive di una forma sia sociale che di fede, basata su un consenso religiosamente motivato e su uno sfondo sociale comune. Tale consenso è insieme revocabile, controllabile nel suo corso e sanzionabile nel suo svolgimento in base alle norme che lo regolano. Queste componenti di una forma di vita sociale ed in parte anche privata non sono sempre rintracciabili nei documenti, dato che nelle fonti non appaiono come espressione ovvia soprattutto nel medioevo. Esclusivamente nei casi di confronti fra il quotidiano, il conosciuto e l’ignoto lontano – come accade per i pellegrinaggi in luoghi santi lontani – si fa riferimento a questo fenomeno, per esempio nei racconti di viaggio, che divengono tanto più ampi quanto più ci si avvicina all’epoca moderna. Tuttavia, poiché i resoconti, soprattutto nei primi tempi, si conformano alla mentalità, offrono ricostruzioni solo limitatamente interessanti. Proprio per questa epoca povera di scritti e di espressioni, in questa situazione in gran parte illetterata, è determinante la struttura spazio-temporale organizzata religiosamente, che crea campi di equilibrio e di forze che influenzano ampiamente l’ordo sia dal punto di vista sociale che religioso. È soprattutto l’uso che si impone a circoscrivere i fenomeni liturgici e paraliturgici, determinato e disposto dalla Chiesa, ad esprimere esemplarmente il rapporto teso fra le esigenze della vita quotidiana e il «canone di virtù» strutturato liturgicamente, in modo stretto, in base alle esigenze cristiano-romane. In questa polarità l’uomo dei tempi passati, per quanto è possibile ricostruirlo, poteva e doveva trovarsi a suo agio, anche se allo studioso non è permesso trarre ampie conclusioni per la carenza di fonti scritte. E neppure ha una unità di forma e di mentalità la cultura che viene tramandata ed ereditata dai tempi passati. Essa pare essere stata sottoposta ai mutamenti strutturali che si verificano periodicamente, determinati dal mutato spirito del tempo e dalle rivoluzioni, più lentamente di quanto non avvenga oggi, quando si è verificata un’esplosione della struttura mediale e globale disponibile del potenziale informativo: questa vecchia cultura può però essere rintracciata nella sua genesi e, in una certa misura e con cautela, all’interno delle sue strutture magico-mentali e ideologico-sociali. Sono soprattutto i pellegrinaggi a Gerusalemme, Roma e Santiago di Compostella che possono essere presi come paradigma per la psicogenesi dell’Occidente latino, delle sue forme sociali cristiane e postcristiane.
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Esattamente perché? Perché la dimensione spazio-temporale delle peregrinationes maiores comprende l’ambito della civiltà del mondo antico (fino al 1494) e le espressioni spirituali del nuovo mondo occidentale fino ai tempi nostri. Ma anche perché la costellazione psico-fenomenologica spazia in molti ambiti delle situazioni umane: abbandono di uno spazio omogeneo, affronto di uno spazio eterogeneo, entrata nell’ambito religioso-magico del luogo santo e della topografia sacra, ritorno alla società immutata e ripresa dei rapporti nella comunità religiosa della parrocchia di provenienza. La valutazione e la vitalità di queste forme di vita e di valori sono state naturalmente sottoposte a molti mutamenti con il trascorrere del tempo. L’immagine, la celebrazione, i gesti, il rito, il segno e la cerimonia paiono costituire così il bisogno vitale elementare ed insieme il mezzo con cui la comunità dei credenti esprime l’unità delle sue aspirazioni. Queste aspirazioni non si limitano solo ai luoghi dove i santi sono apparentemente presenti, ma anche molti aspetti naturali, come i panorami e gli spazi con le loro caratteristiche topografiche e fisiche, vengono compresi nella strutturazione sacra dei luoghi votivi, sacri e di pellegrinaggio, così che in diverse località nascono nuovi centri di culto e di preghiera. Sulla base di pochi esempi tratti da un insieme insolitamente ampio, si può avviare la ricerca di una traccia che sveli i rituali, le costrizioni esterne ed interne organizzate dalla tensione tradizione/innovazione in un mondo che può essere fatto coincidere, per la sua vastità, con l’orbis christianus del mondo antico prima della scoperta dell’America.
Liturgica Benedictio perarum et baculorum Benedizione dei pellegrini Nella fase di iniziazione il pellegrino, per essere riconosciuto come tale, deve adempiere determinati gesti preliminari, particolarmente importante per ottenere lo status di pellegrino è la benedizione. Quando l’abate islandese Nikulas Bergsson († 1159) del monastero benedettino Munkathvera viaggiò a Roma nel XII secolo, si fece anch’egli dare la benedizione a Utrecht, appartenente a quel tempo alla diocesi Colonia, esattamente come il gaudente Nicola Albani, ancora nel 1743, nella chiesa di San Giacomo de’ Spagnoli si fece benedire e imporre gli indumenta peregrinorum. Gli usi religiosi dei pellegrini penetrarono nella liturgia della Chiesa ufficiale già in epoca carolingia e maggiormente a partire dall’XI secolo. La liturgia romana prevede per i pellegrini che partono e che ritornano le preghiere pro fratribus in via dirigendis e pro redeuntibus de itinere. Nel messale di Vich del 1083 si trova già una missa pro fratribus in via dirigendis, come pure nei cerimoniali di Roda e di Lérida e in un sacramentario della cattedrale di Laon dell’inizio dell’XI secolo. Secondo il vescovo islandese Gilberto di Limerick (XI secolo), la benedizione dei pellegrini faceva parte dei quattordici compiti dei sacerdoti. Un formulario di Monaco dell’XI secolo per la benedizione dei pellegrini contiene, dopo le preghiere per i pellegrini in partenza, anche formule particolari per la benedictio super capsellas et fustes et super homines, quindi per l’attrezzatura dei pellegrini. Particolarmente sovente questa benedizione dei pellegrini veniva impartita nei punti di raccolta. La massa dei pellegrini nell’alto medioevo si radunava in località che divennero luoghi di incontro per una partenza collettiva: Aquisgrana, Einsiedeln, Genova, Colonia e Venezia. Da qui intraprendevano il difficoltoso cammino in compagnia di altri con le medesime intenzioni o della medesima corporazione.
46. Statua reliquiaria donata dal pellegrino francese Geoffrey Coquatrix nel 1321, conservata nel Tesoro della Cattedrale di Santiago.
47. Benedizione del bordone e della bisaccia in una miniatura del XV secolo.
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In molte miniature, per esempio in un manoscritto della sede benedettina di Maillezais vicino a Fontenay-le-Comte (Vandea) verso la fine del XII secolo, nel Rituale Lambacense dell’abbazia benedettina Mariae Himmelfahrt di Lambach del 1200, in un cerimoniale della Bibliothèque Comunale di Besançon del XIII secolo e in un pontificale del XV secolo, che si trova nella Bibliothèque Comunale di Lione, viene rappresentato il tema della benedizione dei pellegrini. Per la contaminazione iconografica fra pellegrini e santi dei pellegrini anche Giacomo viene messo in relazione con le raffigurazioni della benedizione dei pellegrini, come testimoniano due rappresentazioni tridimensionali del XIII secolo provenienti da Magonza e Costanza, in territorio tedesco. Sia Magonza che Costanza si trovavano su importanti strade antiche utilizzate spesso anche dai pellegrini e disponevano pure della necessaria infrastruttura di tipo caritativo e sociale che le rendeva adatte ad essere punti di raccolta per i pellegrini. Quando nell’epoca postridentina venne meno il prestigio dei grandi viaggi di pellegrinaggio e aumentò quello dei pellegrinaggi in luoghi prossimi, la Chiesa abbandonò le peregrinationes maiores, come dimostra il fatto che papa Paolo V (1605-1621) sostituì nel Rituale Romano la benedizione della bisaccia e del bordone con una semplice benedizione del pellegrino.
48. Magonza, Museo del duomo. Bassorilievo con san Giacomo nell’atto di distribuire ai pellegrini in partenza bisacce e bordoni (1260-1280).
49. Pellegrini ed infermi si affollano intorno alla tomba di un santo in un dipinto provenzale del XV secolo.
Incubatio Veglia notturna Anche l’uso salvifico di toccare l’oggetto del culto ha la sua origine nella richiesta di guarigione e nella ricerca della sua realizzazione. Nel medioevo il contatto fisico con la tomba del Santo fu surrogato dalla veglia notturna (incubatio). Da Nompar II, signore di Caumont, sappiamo che nella chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, all’inizio del XV secolo, vi era l’uso di visitare di notte la tomba per tre volte, pagando, secondo le tariffe tradizionali dell’epoca, circa sei fiorini a visita. Nompar de Caumont, come ci fa orgogliosamente sapere, pagò in più la sua quarta visita. Il Codex Calixtinus del XII secolo fornisce una precisa indicazione di come doveva compiersi la veglia notturna: «Il popolo deve pregare tutta la notte nella chiesa all’altare, tiene in mano candele accese, sta in piedi e non seduto, veglia e non dorme… Come durante la veglia notturna il corpo che si onora è presente al di sotto dei vegliami, così san Giacomo stesso è presente realmente fra i fedeli che vegliano e trasmette a Dio le loro preghiere. Molti affermano persino di aver visto alla vigilia della sua festa il Santo nel suo aspetto apostolico». Come turbolenta poteva essere l’atmosfera durante queste veglie notturne, dove si mescolavano realtà, visioni e reazioni psicosomatiche, viene testimoniato da un fatto accaduto nella cattedrale di Santiago. In una veglia notturna all’inizio del XIII secolo, nella folla attorno all’altare dell’apostolo dovettero verificarsi ripetutamente disordini fino ad arrivare a fatti di sangue, per cui nel 1207 papa Innocenzo III si vide costretto ad emanare una disposizione di purificazione dell’altare. In tempi recenti è ancora in uso la veglia notturna presso alcune tombe di santi. Coronatio peregrinorum Incoronazione dei pellegrini L’uso dell’incoronazione dei pellegrini da parte di Jacobus Maior è un fenomeno presente solo nelle regioni di lingua tedesca e maggiormente nella zona tedesca sudoccidentale. Una delle prime testimonianze della coronatio peregrinorum, di cui sono note finora circa trenta rappresentazioni e documentazioni, è portata da un rilievo tardoromanico di arenaria, datato alla fine del XII secolo e che si trova all’ingresso sud del coro del duomo
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di Friburgo. Nella rappresentazione Giacomo siede su un trono e pone una corona sul capo di un pellegrino inginocchiato davanti a lui. A questa rappresentazione di coronatio peregrinorum di Giacomo potrebbe essere connessa una tradizione paraliturgica che si svolgeva nella cattedrale di Santiago di Compostella. Sull’altare principale della cattedrale di Compostella si trovava già dall’alto medioevo un’immagine dell’apostolo seduto. Un regolamento dei rapporti fra i custodi della cassetta delle offerte per la costruzione della chiesa e quelli dell’altare di Giacomo, datato alla seconda metà del XIII secolo (1240-50 ca.), è conservato nelle Constituciones de la iglesia de Santiago. In esso viene citato un regolamento particolare per i pellegrini tedeschi. Solo gli appartenenti a questo gruppo nazionale dovevano rendere omaggio ad una corona che si trovava normalmente con una croce processionale nel tesoro della cattedrale. Qui davanti alla corona i «Te(u)tonici» dovevano offrire una elemosina per la fabbrica della chiesa. Nel caso che la corona si trovasse sull’altare, essi venivano dapprima condotti davanti ad essa per onorarla e offrire la loro elemosina. A proposito dell’incoronazione abbiamo testimonianze contrastanti e confuse. Soprattutto nel tardo medioevo e all’inizio dell’epoca moderna pare che abbia regnato una completa ignoranza del significato originale di questo uso, che nell’alto medioevo fu invece un rito quasi di diritto canonico. Anzi, il rito stesso viene distorto ironicamente piuttosto che percepito nel suo significato originale. Solo in questo modo si può intendere ciò che Arnold von Harff, mentre soggiornava nel 1499 a Compostella, descrive di come i pellegrini salissero dietro all’altare e si incoronassero con una corona d’argento posta sopra la rappresentazione del santo. Harff racconta che gli abitanti di Compostella deridevano i tedeschi. Dal racconto di Erich Lassota von Steblau (1581) si trae invece l’impressione che i pellegrini incoronassero l’apostolo con la «grande corona d’oro» posta sopra alla sua statua. Altre testimonianze iconografiche e letterarie descrivono quest’azione rituale. La coronatio potrebbe essere stata sostituita solo nel XVII secolo dalla nuova moda dell’apreta (abbraccio). Tuttavia, il rito dell’incoronazione ha lasciato profonde tracce proprio nell’iconografia di Giacomo nel territorio di lingua tedesca. A partire dal XV secolo si trovano rappresentazioni della coronatio legate alle confratres peregrinorum, le confraternite di Giacomo.
50. La coronatio peregrinorum (fine XIII secolo) nel Museo di Villingen. Nell’immaginario, soprattutto tedesco, san Giacomo «incorona» i pellegrini che hanno portato a termine il pellegrinaggio.
Apprehensio Sancti Jacobi L’abbraccio del Santo Un altro rito liturgico nella cattedrale di Santiago è quello già citato, in cui i pellegrini salivano su scale dietro l’altare per abbracciare la statua di Giacomo. Il gesto dell’abbraccio, praticato ancora oggi, veniva fatto sia dagli spagnoli che dai pellegrini stranieri.
51. Il cavaliere tedesco Sebastian Ilsung riproduce nel suo diario di viaggio l’arrivo a Compostella.
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52. Pellegrini dinanzi la tomba di san Martino di Tours.
53. Incisione raffigurante una moneta con il ritratto di Bonifacio VIII e il simbolo della Porta Santa.
Un prototipo di questo abbraccio potrebbe essere rappresentato da un gruppo di figure molto rovinato risalente all’epoca fra il 1235 e il 1250 sul timpano del portale occidentale della Marienkirche di Lippstadt. Durante lavori di restauro, grazie alla conchiglia ritrovata sul petto della figura centrale, si scoprì che si trattava di Jacobus Maior. Il gruppo scultoreo poteva rappresentare pellegrini raffigurati come peregrinatio consummata ad Sanctum Jacobum. In conclusione, il timpano è da inserire nell’iconografia dei buildingboards delle vie di pellegrinaggio, tanto più che Lippstadt si trova su una via commerciale internazionale e conosceva sicuramente il fenomeno dei singoli pellegrini come dei gruppi di pellegrini. Si può riconoscere la seguente azione coreografica ritualizzata: il pellegrino con il bordone e la bisaccia si avvia sulla strada ad limina Beati Jacobi e, attraverso lo spazio eterogeneo e la sofferenza dei labores peregrinationis giunge allo spazio sacro, nel luogo che, nel nostro caso, nasconde e conserva il corpo del Santo, il punto focale della grazia ultraterrena. Nel gruppo il pellegrino è inginocchiato davanti a san Giacomo su una specie di inginocchiatoio e tocca con la mano destra la conchiglia che orna il petto del Santo. Con questo gesto materiale dà compimento al suo pellegrinaggio. La posizione frontale della figura di Giacomo viene rappresentata anche da Künig von Vach attorno al 1500, ma al più tardi durante i lavori di trasformazione dell’altare principale nella cattedrale di Santiago fra il 1655 e il 1699 vengono modificati anche i rituali sopra descritti. In questo periodo viene anche creata la scala che permette ai pellegrini di abbracciare da dietro l’apostolo. L’apreta era introdotta ufficialmente. Anche la rappresentazione del ritorno del pellegrino in forma curvo-lineare è compatta e convincente nell’arcaico linguaggio marmoreo del timpano di Lippstadt. «Per ottenere grazia romana e indulgenza» (Künig von Vach) Una delle caratteristiche principali del pellegrinaggio medievale è la ricerca dell’indulgenza (indulgentia), della remissione dei castighi in terra e nell’aldilà. Seguendo l’antica pratica ecclesiastica della penitenza, a partire dall’XI secolo in Francia e in Spagna fu introdotta l’indulgenza, che venne strumentalizzata soprattutto sotto forma di indulgenza legata alle crociate. Attraverso la dottrina ecclesiastica del «tesoro delle buone opere» (thesaurus Ecclesiae) si aprì la strada all’indulgenza plenaria. La concessione delle indulgenze ha modificato intere strade di pellegrinaggio, come dimostra l’esempio del Sinai, e ha ottenuto persino più importanza del corpo stesso del Santo. Era noto che le ossa del Santo a Santiago, dopo i lavori di trasformazione fatti eseguire dall’arcivescovo Diego Gelmirez nel XII secolo, non erano più accessibili ed era noto che anche a Tolosa doveva esserci il corpo di un Jacobus Maior, ma ciò nonostante i pellegrini si recavano in massa a Santiago di Compostella per ottenere grazie e indulgenze sul cammino e presso la tomba. A questo proposito Arnold von Harff scrive: «Si dice anche che la salma del santo apostolo Giacomo Maggiore giaccia nell’altare maggiore. Alcuni lo negano apertamente, poiché sarebbe a Tolosa in Linguadoca, come ho scritto precedentemente. Con molte mance ho tentato di farmi mostrare il corpo santo. Mi è stato risposto che chi non è assolutamente convinto che il corpo santo dell’apostolo Giacomo si trovi nell’altare maggiore, ne dubiti e poi riesca a vedere il corpo, diverrebbe istantaneamente pazzo come un cane rabbioso». L’umanista norimberghese Hyeronimus Münzer, che si trovava a Compostella quattro anni prima di Arnold von Harff, scrive persino, mentre si trova nella basilica dell’Apostolo: «Si crede che sia sepolto con due suoi discepoli, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra. Nessuno ha visto la sua salma, neppure il re castigliano che venne in visita nell’anno del Signore 1487. Lo sappiamo solo per mezzo della fede che ci salva». Anche Albani ancora nel 1743 dice che anche negli anni santi le chiavi della camera tombale di
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san Giacomo sono deposte a Roma e cita un arcivescovo, Marcelo di Compostella, che perse il lume della ragione quando per curiosità scese nella tomba. Solo gli scavi del 1879 portarono alla riscoperta della ossa dell’Apostolo e dei suoi discepoli, probabilmente nascoste nel 1589 per paura di Francis Drake. Anni Sancti L’indulgenza assunse pieno significato in relazione al festeggiamento degli anni santi. Roma, con le tombe dei più importanti apostoli, era una «città piena di grazie», così ricca di grazia che nel 1300 il primo giubileo fu in realtà promosso da pii laici e pellegrini. Fino alla fine del XII secolo a Roma non esistevano indulgenze ufficiali. L’indulgenza concessa fin dall’antichità, con le varie gradazioni, in alcuni giorni dell’anno ai visitatori della chiesa di San Pietro e ai pellegrini insulari transalpini e italiani, fu estesa da Gregorio IX nel 1230 ai visitatori della chiesa con la tomba di san Francesco d’Assisi. Solo alla fine del secolo, quando si sparse la voce che Bonifacio VIII all’inizio del nuovo anno, il 1300, voleva concedere grandi indulgenze e quindi molti pellegrini sciamarono verso Roma, il papa proclamò il primo anno santo e concesse la piena indulgenza dalle penitenze temporali a chi visitava le basiliche dei principi degli apostoli.
54. Innocenzo X apre nel 1649 la Porta Santa in una rappresentazione dello stampatore romano Jacopo De Rossi in cui tutt’intorno appaiono le principali cerimonie giubilari.
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In un primo tempo l’anno santo doveva venire proclamato solo ogni cento anni, per evitare che qualcuno potesse ottenere due volte nella vita l’indulgenza plenaria. Tuttavia, in seguito al grande successo e tenendo conto della situazione di pericolo già nel 1343 a Roma, Clemente VI, rifacendosi a Mosè (Lv 25,10), proclamò un nuovo anno santo per il 1350. L’intervallo fu ridotto nel 1389 prima a 33 anni e nel 1468 a 25 anni. Già a partire dal XV secolo, con la possibilità di proclamare anni santi eccezionali, si giunse ad un’inflazione di anni santi e delle indulgenze. Altri centri di culto e di pellegrinaggio iniziarono a fare concorrenza a Roma, come nel 1420 Canterbury con la tomba di san Tommaso ed anche Santiago di Compostella nel 1426, sebbene qui esista una tradizione secondo la quale l’anno santo fu introdotto da Callisto II già nel XII secolo. Portae Sanctae A partire da Alessandro VI (1492-1503) l’inizio dell’anno santo coincide con l’apertura della porta santa nella basilica di San Pietro. Presto si sviluppò un rito particolare, di grande significato simbolico. Solo aprendo la porta, una cerimonia che il papa inaugura con simbolici colpi di martello, è possibile oltrepassare la soglia verso il luogo della grazia. Per i pellegrini la conoscenza dell’accesso ai tesori di grazia e alle indulgenze era particolarmente importante, avendo presenti le parole di Matteo che si riferiscono all’entrata nel mondo futuro: «La porta è chiusa» (Mt 25,10 ed anche Lc 13,25). E chi altro se non il successore di Pietro è legittimato con la forza delle chiavi ad aprire la porta della grazia? I mattoni che venivano estratti per aprire la porta erano molto ambiti e venivano spartiti fra i fedeli. La chiesa dell’Apostolo a Santiago possiede anch’essa una porta santa che, come a Roma, viene aperta alla vigilia dell’inizio dell’«anno santo compostellano». Humatio peregrinorum Sepoltura dei pellegrini 55. Abbazia di Floran (Gers). Croce tombale del XVI secolo, proveniente dal cimitero di Bourisp, con i principali attributi che identificano il pellegrino: il bordone, la bisaccia, il cappello e le conchiglie.
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Il pellegrino aveva diritto ad una sepoltura ecclesiale. A partire da Innocenzo IV (1241), deputata a questa funzione fu definitivamente la cattedrale nella cui diocesi il pellegrino era morto. Nei grandi centri di pellegrinaggio, come Roma, diversi ospizi nazionali possedevano una chiesa e un cimitero in cui venivano sepolti i pellegrini defunti appartenenti a quella nazione. I franchi avevano un proprio cimitero molto vicino a San Pietro, di cui andò persa una parte quando Pio V (1566-1572) fece costruire il palazzo del Sant’Uffizio. Una parte venne assegnata ai tedeschi e coincide con l’attuale Campo Santo Teutonico presso San Pietro, effettivo cimitero nazionale tedesco. Ma per i tedeschi era importante anche l’ospizio con chiesa fondato nel 1350, Santa Maria dell’Anima, perché qui molti pellegrini a Roma trovarono il loro ultimo luogo di riposo. Molti reperti provenienti da scavi testimoniano che non pochi antichi pellegrini si facevano seppellire con il loro abito e tutte le sue componenti. Carlomagno, ad esempio, deve essere stato sepolto ad Aquisgrana con la bisaccia di pellegrino: «… super vestimentis imperialibus pera peregrinalis aurea positum est…», riferiscono le fonti. A un’epoca precedente il 1120 risale una conchiglia di pellegrino proveniente da un antico luogo di sepoltura che si trovava presso la cosiddetta Torre di Cresconio, vicino alle mura della città di Santiago di Compostella, e che era stato eliminato pressappoco a quell’epoca per l’ampliamento delle fondamenta della cattedrale romanica dell’arcivescovo Diego Gelmirez. La conchiglia perforata giaceva accanto ad uno scheletro. Durante scavi archeologici nella cappella di San Marco (di proprietà del monastero di Reichenau) a Mistelbrunn,
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citato per la prima volta nel 1095 (comune di Bräunlingen), è stata ritrovata in questo secolo una conchiglia di pellegrino. Numerosi ritrovamenti di monete testimoniano che la cappella era frequentata da viaggiatori provenienti dalla zona svizzera e tedesca meridionale. In base ai reperti degli scavi, in quel luogo avrebbe potuto esserci nella prima metà del XII secolo anche un edificio adibito ad ospizio. A favore di questa tesi vi è anche la posizione geografica, importante per il traffico. Dopo la metà del XII secolo, in ogni caso, un pellegrino di san Giacomo morì in quel luogo durante il viaggio di ritorno in patria e lì fu sepolto. Nel 1986, in occasione di scavi eseguiti nella cattedrale di Worcester, venne ritrovata la tomba di un pellegrino in cui gli oggetti, gli stivali e i tessili risalgono al 1500.
Sacra I Reliquiae Le reliquie possono essere resti di santi (ossa, cenere, capelli o parti del corpo) o anche oggetti o pezzi di vestiario che sono stati a diretto contatto di santi oppure sono stati «toccati» dalle loro reliquie primarie. Le reliquie vengono considerate miracolose e per questa ragione i luoghi dove le si poteva ottenere erano meta di pellegrinaggio. Importante per cogliere la mentalità dell’epoca è l’elenco delle reliquie di Nikolaus Omichsel, che nella prima metà del XIV secolo visitò le tre peregrinationes maiores. La ricerca della salvezza e la fede nei miracoli costituiscono in questo caso un armamentario spirituale fra i più impressionanti per il sicuro raggiungimento della vita eterna. L’elenco è un rotolo di pergamena con disegni a penna e relative rubriche che fu più tardi riportato su carta. La striscia di pergamena faceva parte di un reliquiario da braccio o da mano chiamato manus e presenta nel senso della lettura, da sinistra a destra, immagini del Cristo risorto, della Madre di Dio, di santa Caterina d’Alessandria, di san Nicola di Bari, del santo apostolo Bartolomeo e, all’estrema destra, un uomo inginocchiato in abito da pellegrino, con bastone e cappello sul quale è fissata una conchiglia di san Giacomo. Nella prima parte dell’elenco sono citate reliquie che Nikolaus Omichsel, cittadino di Passau, aveva portato dalla Terra Santa: olio dall’immagine miracolosa della Madonna di Sardinal presso Damasco, olio dalle ossa di santa Caterina d’Alessandria ed altre reliquie non meglio identificate. Dal testo, accanto all’immagine della risurrezione, si desume che provengano dal sepolcro di Cristo. La seconda parte descrive le reliquie che Omichsel ottenne in Italia: particola della pelle e del braccio di san Bartolomeo ed olio dalle ossa di san Nicola. Il testo riporta anche che il pellegrino Nikolaus visitò Roma durante il viaggio di ritorno e poi proseguì il suo cammino per Santiago di Compostella, dove morì l’8 giugno 1333 e fu solennemente sepolto. Già prima, probabilmente, aveva consegnato il suo prezioso tesoro di reliquie perché venisse conservato alla fondazione dei canonici agostiniani, San Nicola a Passau, al quale la sua famiglia era particolarmente legata.
56. Les Billanges (Haute-Vienne), reliquiario di Saint-Etienne-de-Muret (XII-XIII secolo).
Agnus Dei Con la cera delle candele del candelabro pasquale della cattedrale di San Pietro venivano prodotti dei dischi con l’immagine dell’Agnus Dei da distribuire durante il primo o il settimo anno di pontificato di un papa. A questi venivano attribuiti un particolare potere salvifico e miracoloso. Gli Agnus Dei di cera andavano spesso ad integrare i cosiddetti lavori monastici: preziosamente disposti e circondati da reliquie di particole venivano poi inseriti a fini votivi nelle diverse composizioni devozionali.
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Sacra II Perché, fin dai tempi più antichi, i pellegrini si recavano in Palestina? Se si prendono come punto di partenza per l’interpretazione del santo e del sacro i modi di pensiero e di comportamento del passato e le possibilità che si aprivano allora di partecipare all’avvenimento di salvezza e al piano divino di redenzione, il primo esempio è quello della imitatio Christi realizzata proprio nella Terra Santa dove la vita, la passione e la morte del Signore sono sempre presenti. Il desiderio di ripercorrere personalmente sul posto le stazioni della vita e della passione di Cristo ha attirato fin dal primo medioevo alla visita dei luoghi sacri della Palestina. Come sacra, come ricordi santificati dalla presenza del Signore durante la Sua vita, i pellegrini portavano a casa sabbia del deserto del Sinai, acqua del santo fiume Giordano, terra o pezzi di pietra dei luoghi santi, pezzi di legno di olivo, spine, la rosa di Gerico (Anastatica hireochuntica), lavori di madreperla, piante seccate, cera e altro. Questi ricordi e oggetti riportati dai viaggi di pellegrinaggio erano per i pellegrini di importanza ben maggiore di quanto possa esprimere il concetto di ricordi di pellegrinaggio o sacra. In epoca paleocristiana e nel primo medioevo i pellegrini ottenevano nei luoghi di pellegrinaggio e di grazia eulogi e filatteri, mezzi di benedizione e di grazia la cui materia come tale possedeva un carattere sacro e quindi logicamente non necessitava di particolare forma iconografica. Altri oggetti di questo tipo erano pietre provenienti dai luoghi sacri o da edifici, terra o polvere raccolta dalle tombe dei martiri o dai luoghi dove si erano intrattenuti santi o asceti. La fame di oggetti sacri non temeva la rapina e il furto. Jacobo da Verona, agostiniano, nel 1353, prima della sua visita ai luoghi santi in Palestina si era provvisto di utensili adatti e, visitando la chiesa del Santo Sepolcro e altri luoghi, aveva estratto frammenti da tutte le colonne e pietre importanti, dando relazione del suo faticoso lavoro: «… et ego vidi, tetigi et de lapide cum difficultate accepi, quod durus lapis est». I suoi compagni di pellegrinaggio dovevano in quel momento distrarre i guardiani. La sua attività di raccolta non gli pare riprovevole, ma contemporaneamente si mostra indignato con i pellegrini che agivano nello stesso modo mutilando i monumenti. Un anno più tardi, il parroco Ludholf Sudheim protesta contro la pia passione della raccolta ed esprime il parere che, anche se la tomba di Cristo fosse un’enorme montagna, dopo questo saccheggio di souvenir non ne rimarrebbe neppure un granellino: «Nam si sepulcrum Christi per grana et arenas posset deportari, jam ultra longa tempora, etiamsi maximus non esset, fuisset deportatum, ita ut vix ibidem una arena permasisset». Dei «ricordi di pellegrinaggio» faceva parte l’acqua delle fontane e delle fonti, l’olio delle lampade sacre che bruciava al Santo Sepolcro o
57. Il Santo Sepolcro in una miniatura medievale.
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presso le tombe di martiri, o anche olio che era fluito o gocciolato dalle tombe o dai santi corpi: insomma una quantità di materiale che aveva acquisito la santità non mediante benedizione, ma analogamente alle reliquie e alle reliquie da contatto, mediante il rapporto con un luogo o un oggetto santo. Terra, polvere, piante, sassolini e simili erano trattate come reliquie e alcune, come l’acqua santa e il sale santo, usate a scopi medicamentosi. Già Agostino (354-430) e Paolo da Nola (353 ca.-431) citano testimonianze che la terra del Santo Sepolcro a Gerusalemme scaccia i demoni e provoca guarigioni miracolose. La più piccola pietruzza di uno di luoghi santi della Terra Santa porta guarigione e benedizione. In seguito questa credenza si trasferì anche alle tombe dei martiri. Qui vale una geosimbolica elementare, il cui raggio di azione va dalle cosiddette «comunioni di terra» fino a diverse forme di geofagia. Oltre a ciò, per le peregrinationes maiores si devono citare i sacra che hanno avuto contatto con i santi, come la cera delle candele che avevano arso sull’altare maggiore sopra la tomba di Pietro e la polvere di limatura di ferro dagli anelli delle catene di san Pietro, o un intero anello come quello che si trova nella chiesa di San Servatius di Maastricht, insomma qualsiasi frammento di un oggetto appartenuto a una persona santa entrato in contatto con essa. Per conservare i sacra provenienti dalla Terra Santa, un concetto che fa la sua apparizione dopo il 1100 in diverse relazioni di crociate, venivano utilizzate ampolle per olio e acqua santi, encolpie (capsule per reliquie) e croci pettorali per materiali solidi e sostanze. Albae sunt Sono bianche Con il miracolo, tramandato dall’alto medioevo, di pellegrini impiccati ritornati in vita e delle galline risuscitate, «creature mute» testimoni del miracolo, a partire dalla presenza di galline in una gabbia nella cattedrale di Santo Domingo de la Calzada sulla strada di pellegrinaggio verso Compostella, sono collegati usi tramandati da diverse fonti. Il convertito di Waldeck, Johannes Limberg, descrive queste tradizioni popolari così come gli sono state raccontate durante il suo viaggio nel 1690. Dapprima racconta il miracolo, cita le galline volate via dallo spiedo del giudice e prosegue: «che fino ad oggi qui ci siano stati un gallo e una gallina dello stesso colore / che ogni sette anni depongono un paio di uova
58. Maître de la Légende de Saint-Jacques. Pala con scene del «miracolo del pellegrino, la forca e il gallo». A sinistra: l’arrivo dei pellegrini alla locanda. A destra: i bianchi pollastrelli, tornati in vita, fuggono via. Strasburgo, Museo dell’Œuvre Notre-Dame. Colmar, Musée d’Unterlinden.
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/ e le fanno dischiudere / e poi muoiono / e che pellegrini e viaggiatori come segno curino di prendere per sé una penna / è anche un grande miracolo / poiché almeno 1000 stranieri passano di lì / e strappano le penne / e non se ne vede la fine». Limberg deride questa «favola» e condivide il parere dei suoi amici che gli dicono: «Mio caro amico / in tutto il circondario non si trova una scrofa bianca / per non parlare di un gallo e una gallina bianchi». E pur tuttavia a partire dal XIV secolo si creò una ridda di tradizioni popolari intorno alle galline, introdotte già nel 1350 nel reliquiario della cattedrale di Santo Domingo e citate da Nompar II, signore di Caumont, nella relazione del suo pellegrinaggio del 1417: «… io le ho viste e sono assolutamente bianche». E se Limberg fosse vissuto nel XIV secolo, già in quell’epoca avrebbe potuto prendere le piume come protezione spirituale per il viaggio a Fulda, dove, nella cappella di San Giacomo, nella navata sud dell’antica collegiata viene varie volte indicato un altare della Madonna «sul luogo delle galline». Ancora nel 1574 viene citato il feudo «Statua Caroli alias il pollaio». Qui i pellegrini di Fulda devono essersi muniti della protezione spirituale per il viaggio, divenuta materia. Prima di Limberg hanno descritto questo uso lo storiografo siciliano Lucius Marinaeus Siculus (XV secolo) e Ludovicus de la Vega (inizio XVI secolo). Secondo la relazione del nobile polacco Jakub Sobieski, padre del re polacco Jan III Sobieski, che nel 1611 visitò Santo Domingo, della mollica di pane veniva posta sul bastone dei pellegrini e spinta nella gabbia delle galline nella cattedrale di Santo Domingo de la Calzada. Se le galline beccavano il pane, i pellegrini credevano che sarebbero arrivati in buona salute a Santiago, se non lo facevano, sarebbero morti per strada. E nella cattedrale è ancora visibile un pezzo del cappio con il quale fu impiccato il pellegrino, una traccia attuale materializzata di un passato mistico. Persino nella cattedrale di Santiago giunse la potenza di efficacia del miracolo della strada. Qui, secondo quanto affermato dal prelato Gunziger, si poteva vedere «il cappio con il quale fu impiccato innocente il giovane pellegrino a San Domingo de la Calzada / che riuscì a liberarsi da solo…». Longitudines Lunghezze L’Evagatorium del domenicano di Ulm, Felix Fabri, rappresenta un’esauriente fonte di comportamenti e usi dei pellegrini. Fra l’altro, nel 1480, durante il suo soggiorno a Gerusalemme, si sdraiò, in una variazione resa immagine dell’Imitatio Christi, nell’orma del corpo di Gesù che si poteva vedere sul monte degli Olivi, per poi annotare che Egli doveva esser stato un po’ più grande di lui. Il suo comportamento è interamente nella tradizione di molti pellegrini altomedievali. Il pellegrino anonimo di Piacenza riferisce nel VI secolo che era usanza misurare l’orma del piede di Cristo sul monte degli Olivi in memoria della Sua ascensione, e di portare sul proprio corpo un pezzo di stoffa della stessa misura in segno di protezione. Oggi in quel medesimo luogo si trova un luogo santo islamico. Una volta all’anno, nel giorno di san Lazzaro, i cristiani ortodossi vi possono tenere una solenne liturgia. Come un filatterio venivano portate visibilmente delle cinghie della lunghezza del sepolcro di Cristo ed altre con le quali era stata misurata la circonferenza della colonna della flagellazione. Il patrizio norimberghese Martin Ketzel visitò due volte la Terra Santa, la prima volta nel 1468 al seguito del duca Ottone di Baviera, la seconda volta – secondo fonti non del tutto certe del tardo XVII secolo – per misurare l’esatta «lunghezza» delle sette stazioni del cammino della passione di Cristo fra la casa di Pilato e il monte del Calvario, poiché aveva perso le misure prese durante il primo viaggio. Dopo la nuova misurazione, Ketzel fece ricostruire le stazioni a Norimberga. A Goerlitz si trova una ricostruzione del Santo Sepolcro, edificato nel XV secolo imitando fedelmente l’architettura originale delle diverse
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stazioni (casa dell’unzione col balsamo, cappella del Golgota e Santo Sepolcro). Ancora oggi diversi strati di innumerevoli graffiti testimoniano l’enorme affluenza verso questa copia del luogo santo. All’inizio dell’epoca moderna vi fu una moltiplicazione di questi sacra e dell’uso della «lunghezza», la cui tradizione può essere considerata un riflesso delle azioni degli uomini del medioevo che a quel tempo non venivano ancora considerate «degne di essere scritte», poiché nel loro complesso potevano essere associate ad un ambito magico-religioso. Signa peregrinorum Contrassegni di pellegrinaggio Non è un caso che i contrassegni di pellegrinaggio, così caratteristici nel medioevo, abbiano fatto la loro apparizione solo al colmo della fioritura del pellegrinaggio nel XII secolo. Il pellegrino di Gerusalemme portava dalla Terra Santa oltre a reliquie ed eulogi anche rami di palma che gli valsero il nome di palmierus. Fu probabilmente Pier Damiani († 1072) che per primo mise in relazione il palmizio con il viaggio a Gerusalemme: «quasi ex Hierosolymitana peregrinatione deveniens, palmam ferebat in manu». Anche Gottfried von Strassburg nel XII secolo nomina nel Tristano le palmen, quando cita i vremeder zeichen genuoc, in quanto parte integrante degli indumenta peregrinorum. È interessante che né Gerusalemme né Santiago di Compostella abbiano prodotto prima del XV secolo contrassegni metallici, correnti invece in altri luoghi di pellegrinaggio come St. Gilles-du-Gard, Notre-Dame de Rocamadour, Colonia o Aquisgrana. Per Santiago vi è però una citazione letteraria nella Vita di san Tommaso Becket del XII secolo: de Saint Jame l’ecole qui en plume est muee. Inoltre, in decreti arcivescovili del 1200 vi sono accenni alla vendita di conchiglie di piombo o stagno. Fra le tre grandi mete di pellegrinaggio solo Roma, già fra il XII e il XIII secolo, possedeva contrassegni per i pellegrini paragonabili ad altri luoghi. Erano delle placchette quadrate con i busti degli apostoli Pietro e Paolo, delle quali in tutta l’Europa sono state ritrovate una dozzina di varianti. La maggior parte è decorata con le due chiavi di Pietro incrociate sormontate o meno dalla tiara papale; esse furono l’oggetto preferibilmente riportato da Roma dai pellegrini. Hanno origine nell’antica tradizione romana delle chiavi per la confessio, già citate da Gregorio di Tours. Le chiavi venivano persino inviate dai papi come doni onorifici.
59. Pellegrini in cerca d’alloggio. Sui loro copricapi sono visibili i contrassegni di pellegrinaggio. Altare di Sant’Anna, Francoforte (1490 ca.).
60. Stampa popolare romana ottocentesca, con pellegrini in cammino.
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61. Placchetta con la Veronica e il Volto Santo (seconda metà XV secolo). Il foro sull’immagine della Veronica indica che è stata utilizzata come insegna di pellegrinaggio. Biblioteca Apostolica Vaticana.
62. Placchetta (XIII secolo) con i santi Pietro e Paolo. Le due attaccaglie rivelano l’uso di insegna di pellegrinaggio. Biblioteca Apostolica Vaticana.
Da quando nel primo anno santo romano (1300) fu esposto pubblicamente per la prima volta nella basilica di San Pietro il sudario della Veronica, immagini della Veronica con in mano il sudario o del Santo Volto (Vera icon) sostituirono presto gli altri contrassegni dei pellegrini romani. Il nuovo articolo di massa era disponibile non solo in forma metallica, ma più diffuse ed anche preferite erano le Froniken dipinte su seta, pergamena o carta. Testimonianza di quanto il volto di Cristo venisse onorato anche fuori da Roma fu il ritrovamento nel monastero di Wienhausen presso Celle di un foglio di pergamena con una serie di otto contrassegni di pellegrinaggio dell’epoca intorno al 1500, collegato ad una reliquia di sangue sacro custodita nel monastero stesso. Oltre al bordone e alla bisaccia del pellegrino, assunse rapidamente carattere internazionale di signum peregrinationis l’attributo della conchiglia, che però caratterizzava soprattutto il pellegrino giacobeo. Le immagini di Giacomo intagliate nell’ambra nera (azabaches) e piccole riproduzioni in osso di bordoni di pellegrino (bordoncillos) si aggiunsero solo nel tardo medioevo. La conchiglia del pellegrino, che, secondo il Codex Calixtinus del XII secolo, veniva venduta presso la fonte di Giacomo davanti alla «Porta Francigena» della cattedrale, esisteva già prima della rappresentazione iconografica di Giacomo come pellegrino. Cristo stesso la porta sulla sua bisaccia di pellegrino nella scena di Emmaus, nel chiostro di Santo Domingo de Silos (1130 ca.), a Santa Maria di Tudela, sulla porta di bronzo della cattedrale di Monreale, opera di Barisanus di Trani, della seconda metà del XII secolo. Egli stesso è pellegrino e straniero in questo mondo e rappresenta quindi il modello di homo viator. Una spiegazione al tempo stesso anacronistica e mistica delle parole della Bibbia «tu solus peregrinus es in Ierusalem…» (Lc 24,18) indica che sarebbe Cristo stesso ad accompagnare il pellegrino sulla sua via. Egli è la via. Ciò è contenuto anche nel Codex Calixtinus che si trova nell’archivio della cattedrale di Santiago di Compostella ed anche in Lukas von Tuy († 1249) che conferisce a questo episodio un carattere quasi sacramentale per il pellegrinaggio. È interessante a questo proposito che a quell’epoca fosse già avvenuto lo scambio semantico-linguistico nei due concetti «peregrinus/straniero» e «peregrinus/pellegrino». È anche sorprendente che queste testimonianze provengano da un luogo sulla via della valle dell’Ebro percorsa più tardi e secondaria (Tudela) e da un monastero piuttosto lontano (Santo Domingo de Silos). Nella sequela di Cristo, come risposta ai numerosi pellegrini che a partire dall’XI secolo si avviavano verso la tomba dell’Apostolo nel lontano Occidente e come genesi di questi elementi, nacque l’immagine di Jacobus peregrinus. La rappresentazione iconografica molto nota al di fuori del santo luogo di Santiago di Compostella è quella di Jacobus Maior pellegrino che si rende simile ai suoi veneratori. Sebbene già il Codex Calixtinus metta in risalto san Giacomo come peregrinus notissimus, fino al primo terzo del XIV secolo non vi sono prove di questa rappresentazione del pellegrino Giacomo a Compostella. Solo il prelato di origine francese Berenguel de Landoria, come nuovo arcivescovo di Compostella, introduce la figura di Giacomo peregrinus per Compostella ed anche per tutta la Galizia. Fu il pellegrinaggio verso il luogo santo, verso la villa Beati Jacobi che letteralmente avviò dall’esterno, con uno sviluppo autonomo e non diretto dalla Chiesa e dai suoi contenuti di fede, un processo iconografico che, con creatività unica nel suo genere, capovolse le normali componenti della relazione fra un santo e i suoi fedeli. Se si parte dalla considerazione che, nel caso di un normale sviluppo, la creazione iconografica di un santo avviene in modo relativamente indipendente dai suoi seguaci in base al suo martirio o ad altri avvenimenti della sua vita, nel caso di Giacomo peregrinus lo sviluppo avviene in modo atipico sotto due aspetti. Prima di tutto la peregrinatio ad limina Beati Jacobi assume una straordinaria attrattiva. I primi pellegrini hanno preso con sé la conchiglia (pecten maximus), i cui esemplari si trovano numerosi sulle spiagge galiziane, solo come ricordo e subito la sua vendita viene monopolizzata dal Capitolo della cattedrale. Grazie alla sua fama la conchiglia, in quanto requisito per la
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creazione della scena di Emmaus come immagine e dramma spirituale, diviene simbolo del forestiero/pellegrino Gesù Cristo, dall’altra parte san Giacomo comincia ad adeguarsi all’aspetto dei suoi clienti, trasformando sensibilmente la sua immagine nell’iconografia degli apostoli, per essere simile a loro, per assumere il loro habitus. Non si fa solo il pellegrinaggio a Santiago, ma anche con Santiago. Giacomo pellegrino è una creazione iconografica delle vie, dove il generale monopolio della via principale nota come «camino francés» non ha stranamente alcuna importanza. La sintesi più antica di questa contaminazione iconografica è del 1125 circa (?) a Santa Marta de Tera, un monastero posto sulla strada di accesso sud, nota come «via de la Plata». A questa seguono le rappresentazioni nella «Cámara Santa» di Oviedo (1180 ca.), anch’essa su una via secondaria, una statua di Giacomo sul portale occidentale in compagnia degli altri apostoli e di Cristo nella mandorla (fine XIII secolo) di una chiesa tardoromanica mal conservata a Mimizan, una salvitat fondata dal monastero Saint-Sever su una strada costiera francese ed altre, come per esempio una cappa inglese dell’epoca intorno al 1300 (Syon cope), dove la figura di Giacomo ricamata presenta un bordone e una bisaccia munita di conchiglia. L’insieme dei contrassegni di pellegrinaggio delle tre grandi peregrinationes si trova sulla pietra tombale del Famulus Jonas del monastero di Soro in Danimarca. L’ecclesiastico era stato due volte a Gerusalemme, tre volte a Roma e a una volta a Santiago. La sua pietra tombale del XIV secolo, rappresentata solo in un disegno del XVIII secolo, mostra il Famulus con palma, croce, bordone e conchiglia. In itinere/Sulla via In itinere stellarum/Sulla via delle stelle Nel capitolo iniziale del Liber IV del Codex Calixtinus l’apostolo Giacomo appare a Carlomagno in sogno e gli dà l’incarico di liberare la tomba dell’Apostolo dal dominio degli arabi musulmani, seguendo la strada segnata da stelle che porta alla tomba dell’Apostolo: «La via delle stelle che vedi in cielo significa che tu devi partire per la Galizia con un grande esercito per combattere contro i pagani e liberare la mia via e il mio regno e per visitare la mia chiesa e la mia tomba». Come una volta i tre saggi Magi che seguirono nel loro viaggio una stella fino a Betlemme alla greppia del neonato Gesù Cristo, Carlomagno seguì la «via delle stelle», «aprì» la via di pellegrinaggio e visitò la tomba di san Giacomo. La rappresentazione della via di stelle come via verso il cielo fa parte dell’alfabeto etnico dell’umanità ed è presente in molte culture e religioni. In quanto «via sacra» proiettata in cielo, l’«iter stellarum», la «via lattea» mitologica occupa ampio spazio in molte tradizioni. Le vie sono disseminate da luoghi mistici e sacri dai tempi antichi, come la «sierra del perdón», una via attraverso le montagne intorno al passo Undiano, chiamato oggi «puerto del perdón» forse a causa della faticosa salita. Altri luoghi sulla via nella tradizione del «perdón» sono i portoni del monastero di San Isidro a León e quelli della chiesa di San Giacomo a Villafranca del Bierzo, dove, secondo la tradizione, i pellegrini che per qualsiasi motivo non potevano proseguire il loro viaggio fino alla tomba dell’apostolo, godevano delle medesime grazie come alla tomba stessa. A San-Jean-Pied-de-Port, sul lato francese dei Pirenei, i pellegrini legavano rami di pino a croce per piantarli nella terra sul passo di Roncisvalle, presso la croce di Carlomagno. Secondo la tradizione, qui Carlomagno avrebbe combattuto contro Marsilio. La croce stessa, che risale al XIV secolo, fu innalzata solo nel 1880, dopo che la croce più antica era stata distrutta dai francesi nel 1794. Il passo di Roncisvalle o Ibaneta è noto per la leggendaria battaglia di Orlando e dei dodici paladini di Carlomagno. Qui devono aver trovato morte e sepoltura. L’antica «cappella di Carlomagno o di Orlando» del XII
63. Xilografia rappresentante un viandante che orienta il suo cammino con le stelle.
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secolo è stata più volte distrutta. Durante gli scavi del 1934 furono trovati due scheletri che, a causa della loro notevole altezza, furono identificati come Orlando e Oliviero. Ad attrarre i pellegrini e i visitatori era soprattutto la pietra che Orlando avrebbe spaccato in tre parti con la sua spada Durendala, cercando di distruggere la lama. Presso questa pietra intorno al 1140 venne costruita una cappella del Santo Spirito, nella quale erano rappresentate pittoricamente le battaglie sul passo e che probabilmente era la tomba di Orlando. Anche nella basilica di Santa Maria dell’inizio del XII secolo vennero posti ricordi di Orlando: due corni da caccia, la sua staffa, la sua scure di ferro e la sua spada. Alexander von Humboldt cita, ancora nel 1801, persino una corona d’oro. A Triacastela, già nel XII secolo, i pellegrini usavano depositare delle pietre per ricavarne calce per la costruzione della cattedrale, così almeno riporta il Codex Calixtinus: «… petram et secum deferunt usque ad Castaniollam ad faciendam calcem ad hopus basilice apostolice». Dopo circa 106 chilometri i pellegrini arrivavano a Lavacolla, il «Lavamentula» del Codex Calixtinus, dove si sottoponevano ad una purificazione rituale, come accadeva prima di altri luoghi santi. Un’altra tappa caratteristica prima di Santiago era il «Mons Gaudii», o monte del Gozo, dove, vicino alla chiesa della Santa Croce consacrata da Diego Ramirez nel 1104, si trova una croce già citata nel 1228. Oggi in quel luogo vi è un monumento senza alcun riferimento alla situazione storica. Un monte con il medesimo nome esisteva prima di Gerusalemme, prima di Oviedo e prima di altri luoghi santi. Dal monte del Gozo galiziano, in ogni caso, i pellegrini potevano vedere per la prima volta le torri della cattedrale che sovrastano, come reliquia architettonica, la tomba dell’Apostolo, il traguardo dei loro desideri dopo molti mesi pieni di fatiche e di aspirazioni religiose. Domenico Laffi dà testimonianza di questo momento emozionante nella relazione del suo secondo viaggio a Santiago di Compostella nel 1670, pubblicata per la prima volta a Bologna nel 1673.
64. San Giacomo appare in sogno a Carlomagno e gli spiega il significato della via lattea secondo la versione riportata nel quarto libro del Codex Calixtinus, in questo caso in una copia della seconda metà del XIV secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana.
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«Ci arrampicammo su un colle chiamato Monte Gaudio da dove potemmo vedere l’agognato e desiderato Santiago lontano circa una mezza lega, ma che scomparve improvvisamente dietro una nube. Ci gettammo in ginocchio e versando lacrime di gioia, intonammo il Te Deum, ma dopo le prime strofe non potemmo emettere più neppure una parola a causa delle lacrime che come un torrente sgorgavano dai nostri occhi e tale sentimento faceva battere i nostri cuori fino a spezzarsi e i singhiozzi interruppero il nostro canto». Si trovano accenni al fatto che alcuni pellegrini percorrevano l’ultimo tratto a piedi nudi. I pellegrini che per primi in un gruppo vedevano le torri della cattedrale venivano chiamati Rey e si è sicuri che molti cognomi come Roy e Leroi siano da far risalire a tale tradizione. La stessa influenza dei pellegrinaggi sui nomi può valere per il cognome inglese Palmer, che può essere messo in relazione con i pellegrinaggi in Terra Santa.
Signa in loca et itinere I segni lungo il viaggio e nelle tappe Generis insigne/Stemmi Dirigendosi verso la Terra Santa o anche verso Santiago di Compostella, i viaggiatori nobili avevano l’abitudine di appendere stemmi come segno della loro presenza nelle locande, in corti appositamente attrezzate o nelle stesse chiese, o di lasciare appositi supporti con stemma e nome. Nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, nella chiesa della Natività a Betlemme, nel monastero di Santa Caterina sul Sinai ed anche nel monastero di Sant’Antonio nel deserto egiziano o a Santiago di Compostella, dappertutto i nobili viaggiatori del tardo medioevo lasciavano dietro a sé stemmi, nomi ed altri segni a ricordo del loro soggiorno in quel paese lontano. Il nobile francese Karl von Hessberg si immortalò nel 1414 con un’iscrizione colorata incisa nell’antico refettorio del monastero di Santa Caterina sul Sinai; la medesima cosa fu fatta dal nobile di Holstein, Detlev Schinkel, nel 1436, nel nartece della chiesa principale del monastero di Sant’Antonio e in quello di Santa Caterina sul Sinai. Sebastian Ilsung appese nel 1446 il suo blasone nella piccola cappella di Finisterre («da schluog ich ach mein wappen uff in der kappell») e nella cattedrale di Santiago («und schluog mein wappen uf in die kirchen»). Peter e Sebald Rieter (1428 e 1462) di Norimberga, riferiscono esaurientemente di aver appeso i loro stemmi nella cattedrale di Santiago di Compostella. Nikolaus von Popplau nel 1483 appende le sue «armi» (waffen), cioè il suo stemma (wappen) nella cattedrale di Siviglia. Per la cattedrale ex moschea di Cordoba Popplau cita «più di trecento blasoni, scudi ed elmi di tedeschi, boemi, polacchi». E, nel 1495, il comandante Hieronymus Münzer, visitando un’antica sede commerciale genovese nella Granada appena conquistata, vede numerosi segni alle pareti lasciati da tedeschi: «multa alamanorum insignia in parietibus vidi».
65. Xilografia in ricordo del monastero di Santa Caterina nel Sinai del cavaliere tedesco Arnold von Harff durante il suo pellegrinaggio a Roma, Santiago e Gerusalemme (1496-1499). 66. Arnold von Harff rappresentato in occasione della visita a Mont-Saint-Michel.
Graffiti Un’altra possibilità di «eternare» la propria presenza era scrivere segni e nomi con ocra rossa, carbone o strumenti per incidere. Questi segni commemorativi personali, che ai nostri giorni molti considerano una maledizione del turismo moderno, erano di uso corrente anche alla fine del medioevo soprattutto sulle costruzioni pubbliche (ospizi, chiese, palazzi), ma sono oggi difficilmente visibili. L’artiglio del tempo e le numerose trasformazioni e restauri dei monumenti hanno estirpato questi segni, memorie vandaliche per restauratori e proprietari, e cancellato queste testimonianze di desiderio di immortalità.
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67. Meersburg, cappella di Breitenbach. Graffiti lasciati da pellegrini di passaggio.
sco aggio 499).
l.
Le locande, le chiese e i portali lungo le vie di pellegrinaggio devono essere stati completamente incisi con i segni dei viaggiatori e dei pellegrini. Nell’Alta Svevia e nel confinante Schwyz si sono fortunatamente conservate diverse testimonianze di questi gesti miranti ad immortalare l’individuo, che possono essere messe in relazione con pellegrini di Roma ed anche di Santiago. La composizione più ricca ed anche più enigmatica è sulla parete destra (angolo sudoccidentale) della ex cappella dell’ospizio dedicata a san Maurizio («Capella hospitalis extra muros ad S. Mauricium») a Markdorf (regione del lago di Costanza), risalente al più tardi al 1360. Scritte, stemmi con blasoni, due conchiglie da pellegrino, un viso, trombe, un castello e molto altro è stato disegnato con ocra rossa e colore scuro. Due numeri di anni rinviano almeno a due autori: 148- e 1504. Markdorf è sulla strada da Weingarten a Meersburg. Sulla strada da Meersburg a Markdorf, presso le Breitenbacher Höfen sorge una cappella che apparteneva probabilmente all’ospizio del Santo Spirito citato a partire dal 1521. Le incisioni con ocra, che mostrano fra l’altro due conchiglie da pellegrino, potrebbero risalire alla prima metà del XVI secolo. Importanti testimonianze della cultura dei graffiti di pellegrini si trovano soprattutto nelle cappelle e nelle chiese lungo la strada che conduce dal lago di Costanza a Maria Einsiedeln, molto utilizzata da pellegrini di Roma e Santiago. L’antica cappella ossario della chiesa parrocchiale di St. Jakob a Lommis, dedicata a san Michele, che ricevette una nuova dedicazione intorno al 1700 come cappella di Idda, presenta graffiti in ocra soprattutto del XVIII secolo che possono essere considerati importanti testimonianze del movimento di pellegrini. La cappella di St. Margarethen sul tratto verso Maria Einsiedeln pare essere stata destinata essenzialmente ai pellegrini, poiché il portale di entrata, provvisto di un grande tetto sporgente per riparare i passanti, è posto di traverso sulla via di pellegrinaggio. Esclusivamente per i pellegrini era la scala esterna che conduce a un ambone separato dalla navata della chiesa da un cancello di legno. Qui, nel locale assegnato ai pellegrini, vi sono centinaia di graffiti di pellegrini soprattutto del XVII secolo, eseguiti per lo più con ocra. Nomi, anni, monogrammi ed interi disegni si sono conservati. Al di là della barriera non ve n’è alcuno.
Loca sanctorum 68. Gerusalemme in una xilografia del Viaggio da Venetia al Santo Sepulchro, Venezia 1519.
Locus Sanctus: Jerusalem Cosa avveniva poi nel luogo santo? Il canonico di Mainz Bernhard von Breydenbach, che toccò terra con i suoi compagni a Jaffa il 7 giugno 1483, ci descrive la struttura sacra di Gerusalemme. Da Jaffa il gruppo si dirige a cavallo verso Rama e da qui a Gerusalemme: «Da Rama partimmo l’undicesimo giorno di luglio verso mezzanotte in direzione di Gerusalemme e cavalcammo l’intera notte e il giorno seguente. La stessa sera arrivammo davanti alla chiesa del Santo Sepolcro per ottenere l’indulgenza e andammo subito nell’ospizio dei pellegrini dove trovammo alloggio. Il dodicesimo giorno del mese di luglio era domenica e noi pellegrini ci radunammo e andammo sul monte di Sion, visitando tutti i luoghi sacri sulla strada. Dapprima arrivammo al luogo dove i discepoli di Cristo presero il santo corpo della santa madre di Dio Maria per seppellirlo nella valle di Giosafat (dove, secondo Gioele 4,2-12, deve avvenire il Giudizio universale. Già nel 1065 migliaia di pellegrini speravano di essere presenti nel giorno del giudizio). Di là arrivammo presto al luogo dove san Pietro, dopo il terzo tradimento di nostro Signore, uscì dalla casa di Caifa e pianse amaramente in una grotta. Poi arrivammo alla chiesa, chiamata dei Santi Angeli, dove tempo addietro sorgeva la casa di Anna, il sacerdote, dove il nostro Signore Gesù che veniva dal monte degli Olivi subì grande ignominia e un servo batté il suo santo volto.
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Poi arrivammo in un’altra chiesa, chiamata Salvator, dove tempo addietro stava la casa di Caifa, una grande casa d’angolo dove il nostro Signore Gesù fu deriso, gli furono bendati gli occhi, fu battuto sul viso e sulle sante spalle e in altri modi fu insultato e torturato. Qui veniva mostrata ai pellegrini una stretta stanzetta in cui i giudei chiusero nostro Signore mentre tenevano consiglio su cosa fare di lui. Questo luogo viene chiamato carcere di nostro Signore anche se non viene descritto nei Vangeli. Ma questo stesso carcere viene mostrato oggi e vi si può credere come ad altre cose che non sono descritte ma che si vedono. Nella stessa chiesa vi è anche la grande pietra che l’angelo portò davanti al sepolcro di Cristo e vi si sedette sopra. Ora la pietra è il piano dell’altare della chiesa. Là, in una corte a sinistra, vi è un albero con intorno pietre dove sedettero i giudei e Pietro per scaldarsi al fuoco. Verso il monte Sion venne mostrato il posto dove la madre di Dio pregava ogni giorno. Sempre qui vi è una pietra su cui il nostro Signore Gesù sedeva e predicava agli Apostoli. Sul monte Sion vi sono le sepolture dei Profeti e dei re di Israele. I saraceni non lasciano avvicinare nessuno a queste sepolture, loro stessi hanno costruito una grande chiesa, o moschea nella loro lingua, che tengono in grande onore». In seguito Breydenbach descrive la chiesa del Sepolcro: il tempio santo dove c’è la tomba di Cristo. «La chiesa è rotonda e contornata da absidi. Nel mezzo di questa chiesa vi è un’apertura rotonda così che il Santo Sepolcro sta sotto il cielo aperto. Ma la chiesa del Golgota è costruita come un coro della chiesa del Santo Sepolcro, ma un po’ più in basso così che le due chiese sono sotto un unico tetto. La cappella dove c’è la tomba di nostro Signore è riccamente coperta di marmi, ma all’interno è roccia come era quando vi giacque nostro Signore. Nella cappella si accede da una porta ad oriente, molto bassa e piccola». Bernhard von Breydenbach cita ancora come particolarità la pietra che chiudeva la tomba di Cristo e posta davanti alla porta della chiesa del Sepolcro. Poi descrive il monte del Calvario, lontano «sette piedi dal santo sepolcro».
69. Bernardino Amico, Trattato, Roma 1609. Vista esterna del Santo Sepolcro. 70. Visione parziale della rotonda all’interno del Santo Sepolcro.
Milites Sepulcri Sanctae I cavalieri del Santo Sepolcro Un grande riconoscimento sociale è dato dalla nomina a cavaliere del Santo Sepolcro, descritta come grande avvenimento in molti racconti di pellegrini nobili ed altolocati. Il signore di Caumont, Nompar II, appartiene alla compagnia internazionale dei cavalieri del Santo Sepolcro, così come pure il signore di Glarona Ludwig Tschudi o il conte Enrico di Sassonia. La descrizione del loro viaggio nel 1498 da parte del norimberghese Stephan Paumgartner racconta come in un giorno 37 pellegrini del seguito del duca furono nominati cavalieri del Santo Sepolcro. Le note di Paumgartner contengono anche un elenco di 50 luoghi santi, ognuno dei quali offre un’indulgenza di sette anni e sette quadragene. Anche Arnold von Harff e il suo seguito ricevettero la nomina a cavaliere. Arnold ci dà una precisa relazione della cerimonia da cui citiamo alcuni brani. Dopo aver dato il suo assenso ed esser stato interrogato sulla sua rettitudine, ricevette dal cavaliere incaricato, Hans von Preussen, l’ordine di «mettere un piede davanti ed uno sopra il Santo Sepolcro». Poi «mi diede i due speroni, mi allacciò la spada al fianco sinistro dicendo: prendi la tua spada e inginocchiati davanti al Santo Sepolcro. Prendi la spada nella mano sinistra e poni sopra due dita della mano destra e ripeti con me…». Segue poi una lunga formula di dedica e di consacrazione. Nel 1460 Hans Bernhard von Eptingen ricevette, contro compenso di quattro ducati, la nomina a cavaliere nel Santo Sepolcro che poi a sua volta concesse ad altri. Con orgoglio riverente racconta: «È una cosa degna, bella e lodevole per chi ne ha diritto».
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Non è così per lo svizzero Heinrich Stulz, che a Gerusalemme trova da ridire sugli obblighi che comporta il cavalierato. Prova comprensione per i due pellegrini non nobili che rifiutano questo onore: «… se veramente è giuramento di signore». Secondo i dati disponibili, tuttavia, più del quaranta per cento dei pellegrini tedeschi devono aver ricevuto la nomina a cavaliere del Santo Sepolcro, senza contare i servitori dei pellegrini nobili, una cifra che svilisce la cerimonia. Circum Hierosolymorum Dintorni di Gerusalemme I pellegrini visitano una serie di luoghi santi che hanno riferimento alla Bibbia, su cui ugualmente relaziona con ampiezza il canonico di Mainz von Breydenbach: «Da Gerusalemme a due miglia verso mezzogiorno vi è la città di Betlemme. Un luogo degno di lode non solo per la nascita di Davide e dei Profeti, ma anche di Cristo Gesù nostro Signore. A circa cinque colpi di balestra da Betlemme vi è il luogo dove i pastori che vegliavano nella notte della nascita di Cristo videro e sentirono cantare gli angeli: gloria in excelsis Deo. Betlemme giace su un monte alto e stretto il cui accesso è da occidente. Lì vi è anche la cisterna da cui Davide desiderava bere. All’estremità della città verso Oriente, sotto una roccia vicino alle mura, nacque nostro Signore. Secondo il costume della città era una stalla che aveva una grotta scavata nella roccia. Qui il Bambino Gesù fu avvolto in semplici fasce e posto davanti all’asino e al bue. Al luogo della nascita di nostro Signore si arriva attraversando la chiesa e scendendo in una cappella…». Del monte Tabor: «Tabor è un monte che sorge in mezzo a un campo, è rotondo ed alto, distante dieci miglia da Cesarea. Questo monte è molto noto fra tutti gli altri monti di questa terra benedetta». Segue una descrizione degli aspetti naturali e alla fine segue l’indicazione importante per i pellegrini: «Ma soprattutto questo monte svela la presenza di nostro Signore». Un’altra fonte, la relazione del cappellano di Sir Richard Guylforde che nel 1506 soggiornò a Gerusalemme, cita ugualmente i «fratelli» francescani nel convento di Sion e la consegna di attestati di pellegrinaggio e di reliquie dopo un banchetto. Betrandon de la Broquière della Borgogna, nella relazione del suo viaggio di pellegrino del 1422, indica anch’egli con una frase quali luoghi santi debbano essere visitati oltre a Gerusalemme e nei suoi dintorni:
71. Veduta di Betlemme (1839) di David Roberts.
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«E quando arrivammo nella citata città di Gerusalemme ed ebbimo assolto gli abituali pellegrinaggi, ci recammo sul monte dove nostro Signore digiunò quaranta giorni e da lì al fiume Giordano dove fu battezzato; sulla strada del ritorno intraprendemmo gli abituali pellegrinaggi, quello alla chiesa di Giovanni presso il fiume, a Santa Maddalena e a Santa Maria, dove nostro Signore risuscitò dalla morte Lazzaro, e poi tornammo a Gerusalemme, da dove partimmo nuovamente per andare a Betlemme, dove è nato nostro Signore». In totale il nobile burgundo trascorse due mesi a Gerusalemme. Peninsula Sinai et monasterium Sanctae Catherinae Il Sinai e il monastero di Santa Caterina Un altro luogo importante nella geografia sacra della Terra Santa è il monastero di Santa Caterina sul Sinai. Fino al 1480 quasi tutti i pellegrini di Gerusalemme, quelli in ogni caso di cui esistono le relazioni, intrapresero un viaggio al Sinai. In seguito ci si limitò maggiormente a Gerusalemme, più facile da raggiungere e, al contrario del Sinai musulmano, custodita da ecclesiastici europei. Un’altra ragione essenziale che faceva trascurare la meta del Sinai potrebbe essere che la medesima indulgenza data nel monastero di Santa Caterina poteva essere ottenuta in quel tempo anche nella cappella di Santa Caterina di Betlemme, come annota il nobile della Vestfalia Dietrich von Kettler già nel 1519: «e per chi non poteva recarsi sulla montagna di Santa Caterina e qui offriva la propria preghiera all’altare, fu stabilita la stessa indulgenza come se fosse stato sul Monte Sinai, e cioè l’indulgenza da tutti i peccati».
72. David Roberts. Le montagne del Sinai disegnate in occasione del suo viaggio al Monastero di Santa Caterina.
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73. La basilica di San Pietro in una stampa del 1588 (G. Francino).
74. San Giovanni in Laterano in una stampa del 1588 (G. Francino).
«… a causa dell’indulgenza» nel 1486 il cavaliere Konrad Gruenemberg la sera, nonostante il caldo e la stanchezza, discese ancora una volta nella valle di Giosafat. Spesso altre mete non interessavano i pellegrini, secondo quanto affermato dal cavaliere, molto schietto per quel tempo: «… lì non ci sono indulgenze, per questo i pellegrini non lo visitano». Nel monastero di Santa Caterina per i pellegrini vi erano diversi percorsi rituali, fra cui naturalmente, secondo l’uso, una sosta presso le ossa di Santa Caterina, che nel 1330 il domenicano Humbert Dijon descrive così: «nella stessa abbazia poi, in una bianca cassa marmorea presso l’altar maggiore, è il corpo della beatissima Caterina e da questo corpo sgorga incessantemente uno spesso olio quasi bianco, che ho visto con i miei stessi occhi, ho raccolto e porto ancora con me». Di solito dal corpo dei santi colava miracolosamente un olio che veniva raccolto dai pellegrini per portarlo a casa come reliquia da contatto (Brandaeum). Dal padre agostiniano Jacopo da Verona ci perviene il disegno delle due locande del monastero (Horeb e montagna di Mosè e Gebel Caterina) che si trova nel suo Liber peregrinationis del 1335. Mostra il monastero (con il campanile), la cappella in onore di santa Caterina, un’altra per il profeta Elia, la moschea e la piccola chiesa sotto la cima, dove Mosè avrebbe ricevuto da Dio le tavole della legge. Locus Sanctus: Roma Alla ricerca della grande indulgenza, il perdono generale, i pellegrini si sobbarcavano fatiche e oneri inusuali. Proprio la topografia sacra della urbs sacra, Roma, testimonia delle crescenti richieste ai pellegrini quando «in caccia» di indulgenze aspiravano alla soddisfazione spirituale. Era necessario compiere numerose azioni rituali. Nel primo giubileo del 1300 era originariamente necessaria solo la visita a San Pietro, più tardi anche a San Paolo fuori le Mura; poi, nel 1350 e nel 1373, si aggiunsero San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore come quarta delle cosiddette chiese patriarcali. Nel 1575 vennero comprese altre tre chiese: San Sebastiano, San Lorenzo e la chiesa della Santa Croce in Gerusalemme. Fino al XVI secolo venivano concessi ai pellegrini forestieri quindici giorni per visitare le quattro chiese con i «portali della grazia o dell’indulgenza», più tardi, a causa della mancanza di spazio negli ospizi, questo periodo di tempo fu ridotto prima a otto e poi a cinque giorni. Il nobile renano Arnold von Harff riferisce delle tappe del suo soggiorno a Roma nel 1497 e della loro successione. Egli scrive: «Arrivai a Roma durante la Quaresima e trovai lì un buon amico, il signor dottor Johann Payl che mi accolse con tutti gli onori nella sua locanda e mi mostrò tutti i luoghi con l’aiuto di alcuni Cardinali e suoi amici. A Roma vi sono sette chiese principali che visitammo quattro o cinque volte dato che vi si può ottenere una grande indulgenza. La prima è San Giovanni in Laterano. È la maggiore chiesa della cristianità. Questa chiesa era una volta un palazzo dell’imperatore Costantino. La sua porta d’oro viene aperta solo negli anni di grazia. Accanto vi sono altri tre portali che si attraversa. A chi lo fa con pietà e pentimento vengono rimessi tutti i peccati. Li si può attraversare anche per ottenere la liberazione delle povere anime. Sull’altare maggiore vi è un cancello di ferro. Dietro ad esso vi sono le teste di san Pietro e di san Paolo, i due apostoli. Sotto all’altare maggiore vi è la tomba dell’evangelista Giovanni; qui vengono rimessi tutti i peccati. Vicino vi è un altare in onore di santa Maria Maddalena. Sopra vi è l’abito purpureo portato da Cristo quando Pilato disse: ‘Ecce homo!’ e il lenzuolo con cui la sua santa madre lo avvolse quando fu deposto dalla croce. Vi sono anche una tunica e un panno con il quale il Giovedì Santo asciugò i piedi dei discepoli e molte altre reliquie di santa Maria Maddalena. Nella sacrestia vi è l’altare dove viene letta la Messa di san Giovanni. Sull’altare vi è l’arca (cassa) dell’Antico
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Testamento e sopra la verga di Mosè, che era un tempo a Gerusalemme nel tempio di Salomone. Sopra l’arca vi è anche un pezzo del tavolo sul quale il Giovedì Santo Gesù mangiò con i suoi discepoli. Accanto al portale d’oro passammo in una cappella. Qui vi è una pietra d’altare sulla quale vennero tirati a sorte i vestiti di Gesù Cristo. Si dice anche che qui si sedette la Santa Madre quando le fu portato il Santo Corpo dalla croce. In questa cappella vi sono tre porte, attraverso le quali Cristo passò a Gerusalemme avviandosi verso il luogo del martirio. Chi le attraversa con pietà, ha la remissione di tutti i peccati. Poi arrivammo in una cappella dove si trova una pietra d’altare su cui vi è l’impronta di cinque dita. Su questa pietra la Madre di Dio perse i sensi quando le fu annunciato che suo figlio era stato preso prigioniero. Si è aggrappata alla pietra e vi è rimasta l’impronta della mano. Presso questa cappella arrivammo a una scala di marmo, con quarantotto gradini, che era a Gerusalemme, nella casa di Pilato. Abbiamo salito questa scala in ginocchio recitando un Padre Nostro ad ogni gradino. Ci dissero che chi saliva questa scala avrebbe avuto per ogni gradino nove anni di indulgenza e chi la saliva in ginocchio avrebbe liberato un’anima dal fuoco del Purgatorio». Ma non era solo l’offerta obbligatoria classica a destare l’interesse del nobile renano: «Lì accanto entrammo in una cappella, chiamata Sancta Sanctorum [cappella del palazzo dei papi medievali al Laterano, al cui ingresso nella seconda metà del XVI secolo sotto Sisto V fu messa la «scala sancta»]. Sull’altare vi è un ritratto di nostro Signore, dipinto da san Luca. Questa cappella è ricca di santità e di grazia. Qui nessuno può leggere la Messa tranne il Papa stesso. A chi entra con pietà e pentimento per i suoi peccati, questi gli vengono rimessi, castigo e colpa. Sotto pena di scomunica nessuna donna può entrare in questa cappella. L’indulgenza che si può ottenere in questa prima chiesa principale non si può neppure descrivere». Arnold von Harff, che si recò a Roma solo alla ricerca di «indulgenza e grazia», descrive peraltro esaurientemente i requisiti del perdono nelle diverse chiese, cita fra l’altro 48.000 anni di indulgenza per la visita a San Sebastiano e San Fabiano, 7.000 anni per la visita al sepolcro di papa Stefano, ogni giorno 40.000 anni di indulgenza per il monastero di San Anastasio ed altre indulgenze per la visita ad altri luoghi. Il nobile renano abbonda nell’elencare le reliquie delle sette chiese principali di Roma.
75. Il centro di Roma in una stampa di Sebastiano Münster (1550).
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Arnold von Harff si occupa quasi esclusivamente di grazie e di indulgenze e delle antiche leggende medievali romane che trae dalle Mirabilia urbis Romae. Gli antichi monumenti e i reperti archeologici sembrano interessarlo meno. Come esempio per la descrizione delle chiese romane Harff aveva a disposizione le cosiddette Indulgentiae ecclesiarum urbis Romae, guida alle sette chiese principali e alle oltre 80 altre chiese che a partire dal XIV secolo godevano di un crescente favore. Ma nella sua descrizione sono incluse anche osservazioni proprie che mancano in altre relazioni di pellegrinaggio. Locus Sanctus: Santiago de Compostela
76. Busto reliquiario di San Giacomo Alfeo, conservato nel Tesoro della Cattedrale di Santiago.
Una delle fonti più ricche per gli avvenimenti nella cattedrale e nel suo circondario è il Diarium des Erich Lassota von Stebelow, come dice il titolo del manoscritto. La famiglia Lassota proviene in parte dalla Polonia e in parte dalla Slesia. Nel 1579 si unì alle truppe del re Filippo II e collaborò alla conquista del Portogallo. Nel 1581, venendo da Padrón visitò Santiago di Compostella, dove arrivò il 25 gennaio: «Ecco ciò che si può vedere a Santiago e come tutto è conservato. Prima di tutto la chiesa di San Giacomo. È un edificio bellissimo e magnificamente ornato da colonne, cancellate, cappelle e altari. Vi sono due volte o chiese una sopra l’altra, e in quella superiore con un corridoio si può girare tutto intorno alla chiesa. Sotto all’altare maggiore ricoperto d’oro e d’argento, contornato da una bella cancellata vi è il corpo del santo apostolo san Giacomo Maggiore insieme a due dei suoi discepoli, Teodoro e Attanasio. Sull’altare vi è un’immagine di san Giacomo e sopra è appesa una grande corona d’oro che i pellegrini usano mettergli sul capo. A questo altare non possono dire la Messa preti normali o vescovi, ma solo un cardinale o un arcivescovo. Sopra all’altare vi è un grande corno da caccia o postale, sarebbe stato quello di Orlando ed è chiamato Corno de Roldàn. Davanti all’altare sono appese molte ampolle d’argento donate da potenti signori e senza sosta vi viene bruciato olio; la più bella è l’ampolla del re del Portogallo. Di fronte all’altare maggiore vi è il coro, anch’esso chiuso da una bella cancellata, l’ultima colonna a sinistra nella cancellata è vuota all’interno; dentro si trova il bastone di san Giacomo che ha una lunga punta di ferro che i pellegrini usano afferrare. Le reliquie sono conservate in una sacrestia, in un grande e bellissimo armadio e vengono ogni giorno mostrate ai pellegrini. Fra le altre cose vi si può vedere: la testa dell’apostolo san Giacomo Minore che è stato vescovo di Gerusalemme, il cui il corpo giace a Tolosa in Francia. La testa della vergine Paolina messa al martirio a Colonia sul Reno. Una spina della corona di spine di Cristo. Tre pezzi della santa Croce. Un dente di san Paolo. Un braccio di san Cristoforo. Vi sono molte altre reliquie che non posso elencare tutte. Nella detta sacrestia a destra, sotto ad un piccolo altare, vi è il corpo di san Silvestro martire. Dopo l’esposizione delle reliquie i pellegrini usano confessarsi. Gli stranieri sono di solito confessati da un italiano detto “Linguarium”, a causa delle molte lingue che egli sa parlare: spagnolo, francese, tedesco, latino, croato. Dopo la confessione i pellegrini si comunicano insieme nella cappella francese, che è subito dietro l’altare maggiore. Dopo questo viene data ad ognuno una lettera e un passaporto, stampato su pergamena, con il sigillo dell’alto cardinale (per questo si pagano due reali) ed anche un piccolo foglio di confessione (per questo si paga un quarto)». Probabilmente risale al XIV secolo l’uso di mettere in funzione nei momenti di grande affluenza di pellegrini un enorme bruciatore di incenso (botafumeiro) nella navata della cattedrale per «aromatizzare» la massa di persone maleodoranti. Il maestro filosofo e pre-
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lato del duomo di Wiener Neustadt, Christoph Gunzinger, che soggiornò a Compostella nel 1654, è tanto spaventato da questo enorme incensiere da lasciarsi sfuggire questa espressione: «In verità che cosa spaventosa da vedere / fa perdere i sensi». Il granduca di Firenze Cosimo III de’ Medici fu talmente affascinato dalla tecnica con cui questo incensiere era sospeso e veniva fatto oscillare, che in occasione del suo soggiorno a Santiago di Compostella nel 1669 fece scrivere le seguenti osservazioni: «Nella cupola centrale dove si dividono le due braccia della croce è appesa alla volta una fune alla quale in occasione di processioni o di feste particolarmente importanti viene legato tradizionalmente un turibolo rotondo d’argento il cui contenitore si trova in un supporto e la fune è legata all’altro capo ad un perno (fuso) che serve da argano e che è messo in moto da quattro persone così che poco a poco oscilla ad una tale altezza che quasi tocca l’arco della volta e raggiunge il muro che chiude la navata laterale e ciò avviene con tale veemenza che il carbone si infiamma». Occursus sanctorum itineris in Loco Sancto L’incontro con i santi sulla strada verso il Luogo Santo Il concetto delle cosiddette «chiese di pellegrinaggio» si riferisce ad una tipologia architettonica, una determinata soluzione funzionale e architettonica visibile nella sua realizzazione ottimale in alcuni dei santuari più visitati in Francia e in Spagna fra il 1050 e il 1150. Ne fu particolarmente ispirata l’architettura sacra che all’inizio della seconda epoca feudale venne realizzata nel nuovo stile romanico coordinato sulla volta. La mobilità e la nuova forma architettonica, come portatrice di significato, influenzarono l’architettura sacra e sfociarono nello spazio ecclesiale strutturato che conosciamo come «chiesa di pellegrinaggio» e che trovò il suo sviluppo spirituale come spazio per processioni, come, in senso traslato, «altra via», come cammino liturgico più formalizzato. Un altro fattore decisivo per le nuove forme artistiche fu la liturgia romana ormai resa obbligatoria nell’XI secolo.
77. «Compostela», attestante l’avvenuto pellegrinaggio del pellegrino svizzero Melchior Heingarter, realizzato nel 1608 (archivio della famiglia Stockalper).
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I nuovi riti richiedevano nuovi spazi, una nuova forma architettonica che divenne abituale anche nelle chiese e nelle cattedrali costruite o rinnovate nell’ultimo quarto dell’XI secolo. Ma lo spazio processionale allude al panorama sacro della via che il pellegrino, l’homo viator medievale, viveva concretamente, non solo in senso trasfigurato ma anche pragmatico-spirituale. Dopo aver oltrepassato il portale nord della cattedrale di Santiago di Compostella, la «puerta francigena», alla fine del suo viaggio, il pellegrino passa davanti, come a Cluny, alla cappella di san Nicola, patrono dei viaggiatori e dei commercianti, poi alle cappelle dei santi Pietro, Martino e Fides e del Salvatore, dimostrando così nuovamente di raccomandarsi ai santuari incontrati sulla strada e ad altri importanti luoghi di culto collegati a Compostella. Un’altra relazione ad limina è importante nella concezione spirituale dell’architettura sacra della cattedrale di Compostella: la prima cappella accanto al portale sud, la contro-cappella rispetto a quella di san Nicola, dove i pellegrini ringraziano il loro patrono per il felice arrivo, è dedicata a Giovanni Battista. Mediante lui gli abitanti della città ricevono, con il Battesimo, accesso fisico e spirituale alla chiesa: una chiesa di pellegrinaggio per l’homo viator, per la societas viatoris in pieno senso cristiano! 78. Facciata della chiesa di Saint-Sernin a Tolosa.
79. San Giacomo sulla porta Miègeville di Saint-Sernin accoglie i pellegrini diretti a Santiago, in gran parte provenienti dall’Europa centro-meridionale.
Hyriae, nunc Petra Jacobi vocatur et Santiago de Compostela Iria Flavia, ora chiamata Padrón e Santiago di Compostella Un’ampia descrizione di Padrón ci viene da Ambrosio de Morales (1513-1591) che, per incarico di Filippo II, compilò un inventario delle cose notevoli della Galizia. Morales descrive la topografia sacra della ex sede vescovile di Padrón, spinta da Santiago di Compostella fra il IX e l’XI secolo ai margini degli avvenimenti riguardanti l’Apostolo. Notevole, oltre allo sviluppo di proprie tradizioni, è l’imitazione della situazione dell’altare maggiore nella cattedrale di Santiago, con la possibilità di salita e discesa dietro la statua dell’Apostolo e la scena dell’incoronazione a quel tempo già familiare. Prendo volutamente Padrón perché qui, secondo la tradizione, si sono svolti la maggior parte dei fatti concernenti l’apostolo Giacomo in terra spagnola e scelgo gli elementi più importanti. «EL PADRÓN. Tit. 46 … In questa città Iria vi era la sede del vescovo fino a quando, a causa del ritrovamento del Santo Corpo, fu trasferito là (a Santiago di Compostella), come già fu detto. …L’arrivo del santo corpo dell’Apostolo gode qui alta considerazione perché egli si trattenne in questo luogo più a lungo che in altre parti della Spagna, quando vi arrivò direttamente da Gerusalemme». Morales motiva tutto ciò citando l’attività missionaria dell’apostolo durante la sua vita in Spagna: «… perché durante la sua vita la (la città di Iria/Padrón) aveva già illuminata con la sua missione. Per questo in quel luogo si tiene desto il ricordo del soggiorno e della presenza del santo apostolo nel tempo in cui vi rimase e in particolare su una collina sull’altra riva del fiume. Se si sale sul monte, a metà del pendio si trova una chiesa di cui si racconta che l’Apostolo abbia pregato e detto Messa, e sotto all’altare maggiore sgorga una sorgente ricca di acqua che fluisce verso l’esterno. È l’acqua più fredda e più gustosa che io abbia mai trovato in Galizia. Qui i pellegrini bevono e si lavano con grande devozione, perché qui ha bevuto e si è lavato il santo Apostolo. Se si sale verso un’alta vetta della montagna, vi si vedono numerosi blocchi di roccia ammucchiati, alcuni dei quali aperti e traforati. Si racconta a questo proposito che l’Apostolo che voleva nascondersi ai pagani che lo inseguivano per fargli del male, avrebbe perforato questi ostacoli con il suo bastone e tenuto lontano i maleintenzionati con questo miracolo. I pellegrini visitano questo luogo come scopo preminente del loro pellegrinaggio. Sulle ginocchia salgono i gradini scavati nella roccia, pregano su ognuno e sdraiati strisciano
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attraverso i due buchi ed anche attraverso un altro poco più in basso e queste sono le aperture di cui il popolo, con pia semplicità, dice che bisogna passare al momento della morte o della vita. Un modo di dire di quei luoghi dice: ‘Chi va a Santiago e non visita Padrón, fa un pellegrinaggio o nessuno’. Mostrano anche un’altra roccia dove, dicono, l’Apostolo dormiva ed altri particolari che i pellegrini visitano su questa collina perché il Santo li ha usati: …sotto nel villaggio vi è la chiesa di San Marco e sotto l’altare maggiore, che è cavo, vi è una grossa pietra, più alta di un uomo: è di granito e aveva la forma di uno zoccolo, ma i pellegrini ne hanno consumato già da tempo il bordo. Lo hanno derubato anche di una buona parte della scritta romana che aveva. …Questa pietra, così si dice, era quella a cui fu ormeggiata la barca con la quale arrivò il Santo Corpo quando toccò terra e fu ancorata sul fiume Sar, vicino a questa chiesa. E si mostra anche il punto sulla riva dove stava la pietra. I pellegrini la visitano e vi girano intorno. La baciano da tutte le parti: e poiché è così chiaramente una pietra romana e le lettere hanno una forma così perfetta, si può supporre che doveva essere l’epoca dell’imperatore Claudio quando il Corpo arrivò. … Sull’altare maggiore di questa chiesa vi è ugualmente una statua di san Giacomo, con scale su ambedue i lati per poter salire e scendere e una corona di ottone è appesa sul capo. Così i pellegrini compiono qui il loro pellegrinaggio come a Santiago di Compostella. Nel punto dove il Santo Corpo toccò terra vi è una pietra sulla quale lo deposero. Si dice che questa roccia si aprì miracolosamente e prese la forma di una tomba». Finisterrae Anche Finisterrae, divenuta parte essenziale di un pellegrinaggio a Santiago al più tardi a partire dal XV secolo, ha sviluppato la sua propria topografia sacra, che tuttavia non è riferita solo a Giacomo. Il patrizio Sebastian Ilsung di Augsburg ha registrato le impressioni del suo viaggio nel 1446 fino al punto estremo dell’antico Occidente come segue: «Vi è un alto monte e il mare selvaggio è da tutte le parti quando uno vi sale. Ed è alto mezzo miglio. Qui si vede l’orma del piede di nostro Signore nella dura roccia e una fonte che egli ha fatto. E la roccia si è piegata come un sedile. E ugualmente nostra Signora ha un sedile e i santi Giovanni e Giacomo e san Pietro».
80. Padrón. Iglesia de Santiago. Il «Pedrón» in realtà è un ceppo romano al quale, secondo la tradizione, avrebbe attraccato la barca che aveva portato in Galizia il corpo martirizzato dell’apostolo Giacomo.
Ex voto/Doni votivi «Ai martiri si rivolgono i cristiani implorandoli di essere i loro intermediari. Ma che abbiano ottenuto ciò per cui li hanno pregati fiduciosi, è dimostrato dai loro doni votivi che dimostrano la guarigione. Alcuni portano immagini degli occhi, altri dei piedi, altri delle mani, fatti a volte d’oro, a volte di legno… Questi doni dimostrano la guarigione dai mali – e per questo sono stati portati dai guariti – e testimoniano la potenza di coloro che qui riposano e questa potenza dimostra che il loro dio è il vero dio». Così riferisce Teodoreto di Ciro († 458 ca.) dei santi luoghi della Siria. Questo canone di comportamento coincide ancora di più con le tradizioni legate alla storia della passione del Signore e dei principi degli apostoli. Nei momenti di pericolo o in situazioni disperate i fedeli si rivolgono a Dio o a uno dei suoi santi con la preghiera di assisterli, di aiutarli o di salvarli e si sottomettono alla loro protezione e alla loro volontà. Dopo aver ottenuto il miglioramento si mettono in viaggio per sciogliere il loro voto e portare il loro ringraziamento. Alcuni di questi doni votivi, che vennero chiamati più tardi «ex voto», sono portati nel bagaglio del pellegrino come oblazione in segno di ringraziamento. Altri venivano comprati in loco. Questi doni votivi, in molti casi di cera, avevano un grosso ruolo in ogni culto. La cera veniva preferita proprio per il suo valore d’uso e poteva essere acquisita probabilmente davanti ai luoghi santi in forma di candele o di oggetti antropomorfi. La
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Historia Compostellana del XII secolo si sofferma sull’importanza dell’uso della cera per la cattedrale con la tomba dell’apostolo e precisa che nel periodo invernale, quando arrivavano solo pochi pellegrini, la cera offerta non era sufficiente per illuminare la chiesa dell’apostolo, per non parlare di riscaldarla. Qui di seguito citiamo due esempi del rapporto dei fedeli dell’epoca moderna con il contenuto sacro degli antichi pellegrinaggi. Nella chiesa di San Martino presso Lofer vicino a Zeli (Salisburgo) vi è un ex voto con la seguente rappresentazione: un gruppo di quattro abitanti della zona in abito da pellegrinaggio sono inginocchiati davanti all’immagine miracolosa di Maria Kirchental. Il testo spiega che l’ex voto è stato donato per il felice ritorno da un pellegrinaggio a Roma il 19 aprile 1758. Nella stessa chiesa di pellegrinaggio vi è un secondo quadro votivo che si riferisce probabilmente ad un pellegrino proveniente dalla regione di Salisburgo che partì per la Palestina nel 1742. Le due parti del quadro mostrano, a sinistra, il commiato dall’immagine miracolosa di Maria Kirchental e, a destra, l’imbarco per la Terra Santa dalla Piazzetta di Venezia. Accompagnato dal proprietario dell’imbarcazione, il pellegrino si avvia verso la nave da pellegrinaggio. In alto, fra le nuvole, è sospesa l’immagine miracolosa di Maria Kirchental affiancata dai santi Giacomo e Antonio. 81. Ex voto con figure in rilievo d’argento su velluto nero. Una processione di pellegrini si dirige verso una croce. In alto l’immagine della Vergine di Mariezell, a cui il donatore si era affidato in un momento di pericolo. Vienna, 1817.
Oblatio/Oblazione Diversa dall’ex voto è l’oblatio del pellegrino che ha sciolto il suo voto. Questo dono votivo può essere costituito da donazioni di denaro, rosari o anche da oggetti e materiali preziosi di ogni genere. Essi documentano l’intima comunione del donatore con il luogo di pellegrinaggio. Molte fonti riferiscono che rimanevano nel luogo santo «cose di valore come dono votivo». Nicola Albani è abbagliato dalla quantità di doni esposti nella «cappella» di san Giacomo: «L’altare è completamente coperto da oro e da argento e prima e nei dintorni dell’altare vi sono 48 lampade di argento massiccio, 24 lampadari, 12 lampade da parete (con specchio) e 6 candelabri, 4 alti dodici spanne e 2 alti diciotto spanne… Tutti sono doni dei fedeli del Santo; le lampade e sei candelabri sopra l’altare ardono giorno e notte». Un esempio concreto è fornito dal prezioso reliquiario a forma di statua, donata all’inizio del XIV secolo alla basilica dell’apostolo di Compostella dal cancelliere del tesoro del re francese Filippo IV, Goffrido Coquatrix. Un’idea dell’eco nella mentalità dell’epoca dello sfoggio di sfarzo e di orgoglio cavalleresco feudale è data dal collare del cavaliere Suero de Quiñones, che nel 1434, fra il 10 luglio e il 9 agosto a Puente de Orbigo (León), sfidò tutti i cavalieri che passavano e volevano attraversare il ponte a un onorevole duello per il passaggio. Centosessantasei lance sarebbero state spezzate prima che don Suero si ritirasse ferito. A ringraziamento per la sua guarigione fece un pellegrinaggio alla tomba dell’Apostolo a Compostella dove donò un diadema d’oro che oggi orna il busto di san Giacomo Minore con la scritta: «Si a vous ne plait de avoir mesure, Certes ie dis que ie suis sans venture». Confraternitates/Confraternite Anche le fonti indirette, come gli inventari degli ospizi e gli elenchi degli averi dei pellegrini lì accolti, danno testimonianza dei pii usi dei tempi passati. Un certo Jorxe Foril di Würzburg, ricoverato il 6 marzo 1715 nell’ospizio de Los Reyes Catolicos di Santiago, ha, fra le sue scarse proprietà, «diciassette rosari di legno nero». Johann Nikolaus Rote di Bamberga presenta, in occasione delle sue due entrate nel 1717 nel medesimo ospizio, «300 piccole medaglie di bronzo» e «otto piccoli reliquiari di ambra nera». Questi oggetti erano
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probabilmente destinati a reliquie di contatto per i membri della confraternita di Giacomo allora note a Würzburg e a Bamberga, come a dire oggetto miracoloso per procura.
Conclusio/Conclusione La fonte è costituita dall’Antico e dal Nuovo Testamento, istruzione e regia allo stesso tempo: nello scenario della Terra Santa e soprattutto a Gerusalemme presto tutti gli edifici e tutte le pietre saranno strumentalizzati e, naturalmente, commercializzati. Mentre Gerusalemme rappresenta lo sfondo per le storie della famiglia e della passione del Figlio di Dio Gesù Cristo, Roma è la scena per la rappresentazione del trasferimento di interesse dei principi degli apostoli da Gerusalemme a Roma, che da qui volevano proseguire la missione nell’impero. Le loro missio et passio saranno inscenate e rappresentate in tutta la urbs sacra. E la tomba dell’Apostolo a Compostella è il passo successivo conseguente nella visione della storia sacra del cristianesimo e della sua diffusione: la conquista dell’Europa centrale, settentrionale e orientale alla vera fede, solo ricordata o forse persino volutamente provocata. Il viaggio nel tempo dei giorni passati si differenzia poco, se visto superficialmente, dai mondi virtuali della nostra epoca. Tuttavia, il mondo vitale passato, con la lotta quotidiana con l’imponderabilità dell’esistenza umana, con l’inarrestabile crescente subitaneità e ingiustizia dell’obitus, presenta una coloritura e una varietà di usi e riti, che corrispondevano alla fede, alla volontà di fede e alla sensibilità. Un buon esempio sono le peregrinationes maiores e i loro piani di confronto con i più diversi usi e riti in un ambiente in parte ancora molto sconosciuto, con una serie di protagonisti i più diversi, con mentalità che nel loro contrasto riconducono allo sfondo comune della cultura latino-cristiana dell’antico Occidente. In questa vita e in questi comportamenti in parte polarizzati, coesistono il liturgico e il paraliturgico. Opere d’arte tecniche vengono guardate direttamente con stupore, accettate come procedimenti sovrannaturali e considerati autentici, sebbene alla soglia dell’epoca moderna in alcuni osservatori critici e negli umanisti si insinuassero dubbi sulle tradizioni. Ma la credenza materiale riguardo ai sacra, che si manifesta ancora ai giorni nostri, testimonia della disponibilità a credere immanente negli uomini. Lo scetticismo e l’attesa di salvezza non coesistono di per sé, ma persino un umanista come Hieronymus Münzer, medico e amico di Martin Behaim, sta davanti alla tomba di san Giacomo e dice, quando non può individuare materialmente il corpo dell’apostolo in situ: «Sola fide credimus, que salvat nos homines». L’aspetto liturgico e paraliturgico del numen, l’essenza divina e incomprensibile, aiutano a superare e a spazzare via le tensioni e i contrasti delle peregrinationes maiores, a dare unità al mondo dei principi, della Chiesa ufficiale e delle forme popolari, della religiosità nell’uomo disposto alla fede e da essa segnato.
82. Processione immaginaria di pellegrini a Compostella in Les délices de l’Espagne e du Portugal, Leida 1707.
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Klaus Herbers
Pellegrini a Roma, Santiago, Gerusalemme
Introduzione: peregrinationes maiores Una pietra tombale del XIII o XIV secolo ci informa sul danese Jonas, che nella sua vita aveva visitato due volte Gerusalemme, tre volte Roma e una volta Santiago:
83. Pietra tombale del pellegrino danese Jonas che regge in mano la palma simbolo del suo pellegrinaggio in Terra Santa, mentre la conchiglia indica sia la sua condizione di pellegrino che il viaggio a Santiago.
Abbati gratus famulus iacet hic tumulatus Jonas ablatus nobis, sanctis sociatus Jerusalem repetit bis ter Romamque revisit Et semel ad sanctum transiit hic Jacobum. (Un servo grato all’abate giace qui sepolto Jonas, strappato a noi ed associato ai santi Due volte viaggiò a Gerusalemme, tre vide Roma Ed una volta passò da san Giacomo.) Perché Jonas si recò tante volte in pellegrinaggio in questi luoghi e perché ciò costituiva un segno di distinzione? Lo possiamo dedurre solo indirettamente, dal significato di questi centri nel medioevo. Ancor oggi, del resto, Roma, Santiago e Gerusalemme sono i tre più importanti centri di pellegrinaggio dei cristiani cattolici, a molti dei quali appare desiderabile aver visitato queste località una volta nella vita. In modo simile gli uomini e donne medievali di cui si parlerà qui di seguito andavano fieri di aver visitato e pregato in due o tre di questi loca sancta. Andare in pellegrinaggio è un fenomeno diffuso nella storia delle religioni. Per questo, da una prospettiva più ampia, non stupisce che già nel primo cristianesimo sia documentata la pratica di mettersi in cammino verso i luoghi santi. Nell’ambito cristiano facevano primariamente parte di tali località i luoghi dove aveva operato il Salvatore. Ma presto vennero venerati anche i luoghi di sepoltura dei primi martiri, soprattutto nella parte orientale dell’impero romano. Nel primo medioevo, in diretta relazione con la prassi penitenziale irlandese, i viaggi di pellegrinaggio vennero sempre più considerati un’occasione di penitenza. Contemporaneamente crebbe il culto dei resti mortali dei santi, o reliquie. Questo provocò il continuo incremento dei luoghi di devozione, un processo sviluppatosi per tutto il medioevo, che portò alla venerazione di un numero sempre maggiore di santi e delle loro reliquie.
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Ma cosa rende eccellenti, tra tanto numero, i tre luoghi di pellegrinaggio indicati nel titolo? Gerusalemme ha il valore di essere il più prezioso luogo di attività del Salvatore e Roma è uno dei primissimi centri del cristianesimo occidentale, ma Santiago di Compostella? Roma e Santiago erano legate dal possesso di tombe apostoliche: secondo la tradizione Pietro e Paolo sono sepolti a Roma, Giacomo Maggiore a Santiago di Compostella. Malgrado le differenze, queste località erano tutte quante mete di una peregrinatio maior. I tre centri assunsero la loro particolare posizione di preminenza nel quadro del crescente inquadramento giuridico della vita ecclesiale. Mentre l’atto di penitenza individuale costituiva il vincolo per i singoli pellegrini, i teologi vollero costruire un sistema sulla validità dei diversi pellegrinaggi, un’ambizione tipica del XII e XIII secolo. Distinsero di conseguenza tra peregrinationes maiores e peregrinationes minores: alle prime appartenevano i pellegrinaggi a Gerusalemme, Roma e Santiago; alle seconde tutti gli altri. In quest’ultima categoria vennero comprese anche località che esercitavano grande attrazione a lunga distanza, come ad esempio Bari, il Gargano, Aquisgrana o Wilsnach. È verosimile che questa classificazione non sia avvenuta per pure ragioni giuridico-ecclesiastiche, poiché già in precedenza i tre centri di Roma, Gerusalemme e Santiago erano stati elevati a un particolare rango tra le mete di pellegrinaggio dei cristiani latini. Nelle pagine seguenti verranno presentati alcuni pellegrini che visitarono questi luoghi. Che cosa li mosse a visitare l’uno, l’altro o tutti quanti? Come percepivano questi luoghi ed, eventualmente, la loro differenza? Da cosa dipendeva la loro scelta? Per trovare le risposte a queste e ad altre domande, le fonti del primo e dell’alto medioevo devono a volte essere lette «tra le righe», poiché notizie ed impressioni personali ci sono state lasciate solo a partire dal XIV e XV secolo.
84. Statuetta in rame dorato con l’effigie di san Michele a Monte Sant’Angelo.
L’ultima età antica e il primo medioevo Già una delle primissime pellegrine che visitarono Gerusalemme da Occidente documenta l’ampiezza del quadro geografico dei primi pellegrinaggi: Eteria (o Egeria) proveniva dalla Spagna nordoccidentale o dalla Gallia meridionale e nel 415 attraversò quasi l’intero bacino mediterraneo per recarsi in pellegrinaggio in Palestina, nel Sinai e in Egitto. Già il suo itinerario nel Vicino Oriente spiega le ragioni del suo pellegrinaggio: il percorso fu determinato attraverso i testi del Vecchio e del Nuovo Testamento. A causa della sua provenienza monastica ella dedicò particolare attenzione anche ai luoghi del primo monachesimo egiziano. Nel secolo scorso, la scoperta ad Arezzo di una copia frammentaria del suo taccuino di viaggio, Peregrinatio ad loca sancta, suscitò una certa sensazione. Il resoconto era indirizzato ad una consorella ed Eteria/Egeria lo scrisse a Costantinopoli, sulla via del ritorno. In realtà il suo nome si ricava da una successiva lettera dell’abate Valerio del Bierzo, morto nel 695. Perché il ritrovamento di questo testo fu così importante? Il resoconto è costituito di due parti principali che fanno conoscere l’una lo stato dei più importanti luoghi biblici della Terra Santa in un periodo molto antico, l’altra la liturgia e la pietà popolare della Chiesa d’Oriente. La pellegrina Egeria non fu la prima occidentale a mettersi in cammino per ragioni religiose. Già nel III secolo i cristiani visitavano i luoghi santi nominati nella Bibbia, dove Gesù aveva operato. Per questo da sola Gerusalemme non costituiva la meta principale di questi viaggi, poiché diverse località nominate nella Bibbia erano ritenute degne di visita. Si trattava di vedere con i propri occhi i luoghi legati al Salvatore cristiano. È la ragione per cui in tutto il medioevo risuona quasi come uno stereotipo in diverse fonti il fatto che si sono visitati i luoghi ubi steterunt pedes ejus.
85. Pellegrini di fronte al duomo di Aquisgrana da una pittura del 1620.
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21. L’accoglienza dei pellegrini come opera di misericordia. Particolare dell’affresco nel refettorio della Seu Vella di LÊrida, XIII secolo.
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22. La conchiglia e l’immagine della Veronica sul cappello sono i segni distintivi del pellegrino. Particolare dell’affresco di Andrea Bonaiuti, Trionfo della Chiesa militante, Cappellone degli Spagnoli, Santa Maria Novella, Firenze, 1366-67.
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23. San Giacomo appare in sogno a Carlomagno e gli chiede di liberare il proprio sepolcro e la via che conduce a esso. Bibliothèque Municipale, Tolosa.
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24. ÂŤOspitare i pellegriniÂť, dal ciclo delle Sette opere di misericordia. Vetrata del rosone settentrionale della cattedrale di Friburgo in Brisgovia, XIII secolo.
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25. La raffigurazione offrì l’occasione per riprodurre l’abbigliamento del pellegrino. In questa, che è una delle rappresentazioni più antiche dell’incontro sulla via di Emmaus, Cristo è rappresentato in abbigliamento da pellegrino con bastone, bisaccia e borraccia. Avorio spagnolo, The Metropolitan Museum of Art, Pierpont Morgan Foundation, New York, XII secolo.
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26. Santi Buglioni, Albergare i pellegrini. Altorilievo in terracotta smaltata, Ospedale del Ceppo, Pistoia, XVI secolo.
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27. In basso al centro della pala, la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, dal XVI secolo una delle sette chiese romane visitate dai pellegrini. Dal ciclo delle Sette chiese stazionali romane di Hans Burgkmair, già nel chiostro di Santa Caterina di Augusta, Bayerische Staatsgemäldesammlung, Monaco, 1504.
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28. La Rotonda costantiniana e la cappella del Santo Sepolcro, meta finale dei pellegrini a Gerusalemme. Nelle pagine seguenti: 29. Al centro della pala superiore, sotto il Cristo nella mandorla della gloria, è seduto in trono san Giacomo, apostolo e pellegrino; altre immagini del Santo e scene della sua vita sono raffigurate nella parte inferiore. Cappella di San Giacomo, cattedrale di Pistoia, opera di anni diversi tra il 1287 e il XV secolo. 30. Le conchiglie che decorano questa pagina di un libro d’ore ricordano la devozione a san Giacomo espressa nella miniatura fiamminga alla fine del XV secolo. Bayerische Staatsbibliothek, Clm 28345, f. 265r.
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31. Sant’Eraldo, prima di intraprendere il pellegrinaggio, riceve la benedizione, il bastone e la bisaccia. Affresco della cappella di Sant’Eraldo, abbazia della Novalesa, fine dell’XI secolo.
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32. Sant’Eraldo, di ritorno dal pellegrinaggio, indossa l’abito monastico: divenuto abate del monastero della Novalesa, lo rese ospizio per i pellegrini che attraversavano le Alpi diretti in Italia. Ibidem.
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33. L’aspetto dei pellegrini nel Livre d’Heures di Marguerite d’Orléans. Bibliothèque Nationale, Parigi, Ms. Lat. 1156 B, fol. 25.
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34. San Giacomo, rappresentato in trono con fattezze che richiamano Dio Padre, sostiene una corona sul capo di ognuno dei pellegrini nel rituale della coronatio peregrinorum. Vetrata di un discepolo di Peter von Andlauss, Neuweiler, Bassa Alsazia, ora Badisches Landessmuseum, Karlsruhe, 1490 circa.
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35. Caravaggio, La Madonna dei pellegrini. Chiesa di Sant’Agostino, Roma.
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86. Circo romano di Lione, dove nei primi secoli i cristiani, già fiorente comunità innervata nella vita cittadina, subirono una dura persecuzione. Il palo al centro del circo è a ricordo del loro martirio.
87. Roma, catacombe dei Santi Pietro e Marcellino. Cristo tra Pietro e Paolo.
Così, anche un Itinerario della metà del IV secolo, redatto da un anonimo pellegrino proveniente da Bordeaux, non solo elenca le diverse tappe fino a Gerusalemme ma vi aggiunge anche altre località che devono venire visitate nelle vicinanze. Malgrado ciò, Gerusalemme viene messa in risalto, poiché quando se ne parla il testo dell’Itinerario, altrimenti scarno, si fa ricco di particolari. Una breve guida anonima della prima metà del VI secolo indica con maggior precisione quali luoghi devono essere visitati in Gerusalemme: tra l’altro la basilica costantiniana, il Golgota, il sepolcro di Cristo, la casa di Caifa, il tempio di Salomone. Se Gerusalemme e i dintorni divennero mete originarie del pellegrinaggio cristiano solo a causa della tradizione biblica, a Roma e a Santiago di Compostella fu anzitutto collegata la venerazione delle tombe degli apostoli. Roma poteva basarsi su due importanti apostoli, Pietro e Paolo, e sulla continuità della propria posizione di rilievo fin dai primi tempi cristiani. Soprattutto da quando, nel IV e V secolo, iniziarono a diffondersi anche in Occidente il culto delle reliquie e la venerazione dei santi, fino a divenire una solida parte costitutiva della pietà cristiana, un’attenzione sempre più forte venne dedicata a Roma alle tombe dei principi degli apostoli: la riformulazione della Roma antica in Roma cristiana fu segnata in modo decisivo da questi sviluppi. Già nel 456 Sidonio Apollinare, nativo di Lione, quando si recò a Roma, non visitò anzitutto il palazzo imperiale sul Palatino ma «la gloriosa tomba del Principe degli apostoli», dove sentì «nuova forza risvegliarsi nelle sue membra». Dall’ultimo mondo antico, e con più frequenza dal VII secolo, ci sono documentati viaggi a Roma nei quali veniva data la preminenza alla visita alle tombe degli apostoli. Il più delle volte può esser stata centrale in questa pratica la ricerca della salvezza individuale, la preoccupazione per la salvezza della propria anima. Beda il Venerabile attesta che dalle isole britanniche si dirigevano a Roma pellegrini appartenenti agli strati sociali più diversi. In modo simile, nell’VIII secolo, si esprime una lettera di Bonifacio per i pellegrini dalle terre franche. Intorno al 650 Marculfo introduce nel suo formulario un testo che può valere come lettera di accompagnamento per pellegrini a Roma. In esso viene certificato che la persona raccomandata non si è messa in cammino per il piacere di vagabondare, ma per pregare alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Questo formulario, con altri certificati di
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viaggio del primo medioevo – come anche la critica dei pellegrinaggi già allora espressa in vario modo da Claudio di Torino e Agobardo di Lione – sono un documento dell’ampia risonanza dei pellegrinaggi romani. Inoltre, le informazioni mettono l’accento sugli xenodochia romani, istituzioni assistenziali dove, evidentemente, potevano venire ospitati a Roma anche i peregrini, gli stranieri. Sono poi ricche di informazioni sulla topografia sacra della città le «guide di Roma», redatte già nel primo medioevo, ricche di notizie sui luoghi, i nomi e i santuari, che potevano offrire un orientamento agli stranieri, dato che la visita di Roma valeva la pena non solo per le tombe degli apostoli, ma anche perché nessun’altra città dell’Occidente latino possedeva reliquie tanto numerose dei testimoni della fede dei primi tempi cristiani. Così, un poco più tardi di Gerusalemme ma già nel primo medioevo, Roma era divenuta un importante luogo di devozione. Come appariva ai pellegrini che nel IX secolo visitavano entrambi i luoghi, Roma e Gerusalemme? Conosciamo la testimonianza del monaco italiano Bernardo, che intorno all’867 con due compagni volle mettersi in mare per un pellegrinaggio in Terra Santa. Prima tuttavia visitò Roma, dove ricevette la benedizione e la licenza da papa Niccolò I. Raggiunse nuovamente Roma nel viaggio di ritorno, nell’870. Maggiormente tenuto in considerazione da altri punti di vista, il suo resoconto contiene anche la descrizione delle caratteristiche della città e del governo urbano del papa. Egli ebbe l’impressione che il Vaticano fosse la vera sede dei papi: là ogni sera venivano portate al vescovo di Roma le chiavi della città – segno evidente del governo esercitato dal vescovo su di essa. Al Laterano, che apparve a Bernardo come un importantissimo centro mondano della città, viene chiaramente contrapposta, come centro spirituale, la chiesa di San Pietro con la tomba di chi apriva la porta del cielo. Inoltre, le storie dei miracoli prodotte nel regno franco documentano che i pellegrini che volevano viaggiare da Occidente a Gerusalemme si dirigevano dapprima a Roma. Le Gesta Conwojonis, redatte certamente in Bretagna, parlano di un eminente franco, Frotmundo, e dei suoi parenti del centro del regno di Lotario II: un sinodo convocato dal sovrano lo inviò in catene in un viaggio di pellegrinaggio per penitenza, a causa dell’assassinio di un parente. Frotmundo con i suoi fratelli visitò Roma e poi viaggiò fino a Gerusalemme fornito di una lettera papale. Il gruppo rientrò a Roma attraverso l’Egitto e
88. Arte copta paleocristiana, due santi in preghiera. Bassorilievo conservato al Museo del Cairo.
89. Veduta est del tetraconco della basilica paleocristiana di Resafa in Siria presso la costa mediterranea.
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Cartagine. Di qui il papa li inviò di nuovo in Terra Santa. La penitenza non dovette essere troppo grave poiché – nota l’agiografo – a Cana i penitenti bevvero del vino che Gesù aveva tramutato dall’acqua. Questo secondo viaggio li portò in Armenia e nel Sinai, poi di nuovo a Roma. Qui invocarono san Pietro, al quale appartiene il potere di legare e di sciogliere, e viaggiarono verso la Bretagna attraverso la Borgogna e l’Aquitania. Frotmundo visitò il monastero di Redon, dopo sette giorni di preghiera volle mettersi nuovamente in cammino verso Roma ma una visione lo fece tornare ancora una volta alla tomba di san Marcellino a Redon, dove finalmente fu liberato dalle catene in modo miracoloso, segno che la penitenza era finita. È una notizia illuminante: per i pellegrini a Gerusalemme di quest’epoca, che visitarono anche Roma, questa aveva un significato minore come luogo di pellegrinaggio. Piuttosto viene messo in evidenza il papa come la persona che permette, infligge, guida ed organizza i pellegrinaggi e gli atti di penitenza. Nella prospettiva di questi resoconti, Roma appare essere ormai divenuta un forte centro organizzativo del cristianesimo occidentale.
90. San Pietro e san Giacomo. Colmar, Museo d’Unterlinden.
Fin dall’inizio a Roma si credeva giustamente che gli apostoli Pietro e Paolo fossero sepolti nella città. Più tardi, anche a Santiago di Compostella, nell’estremo occidente della penisola iberica, avvenne una scoperta carica di conseguenze. Guidato da una stella, un eremita avrebbe riscoperto a Compostella la tomba di san Giacomo. Già alcuni scritti del VII secolo narrano che Giacomo Maggiore fu missionario nella penisola iberica; racconti successivi affermano che, dopo esser morto in Terra Santa (44 d.C.), fu trasportato per nave in Galizia in modo miracoloso. Poco tempo dopo la scoperta della sua tomba fu venerato nella Spagna settentrionale, particolarmente nel regno cristiano delle Asturie. Il nesso politico con gli scambi arabo-cristiani durante la cosiddetta Riconquista è di estremo interesse, ma deve qui essere tralasciato. In ogni modo la notizia che a Compostella era stata trovata la tomba di san Giacomo si diffuse velocemente fino all’Europa centrale. La sua tomba divenne in breve un’importante meta di pellegrinaggio, dove i fedeli in venerazione potevano far conto anche sui miracoli. Lo testimonia uno scritto agiografico del monastero di Reichenau sui miracoli di san Marco, dove si osserva tra l’altro: «Questa settimana giunse nel convento un chierico cieco e storpio. Aveva già visitato diversi luoghi santi, tra i quali san Giacomo in Galizia. Qui gli era stata ridata la luce degli occhi…». Questo passaggio del testo, che deve esser stato redatto intorno al 930, possiede una funzione specifica in relazione al racconto. In questi miracoli si tratta soprattutto di testimoniare la purezza e l’efficacia delle reliquie di Marco e di sottolineare l’importanza del monastero di Reichenau attraverso la visita di un chierico assolutamente straordinario, che aveva visitato diversa loca dei santi, tra i quali anche Gerusalemme, l’Ungheria e Compostella. Nei testi agiografici esistono spesso simili passaggi; nominando Gerusalemme e Santiago forse l’autore cercava di affermare il collegamento del monastero di Reichenau con questi centri eminenti. Non sembra essere del tutto privo di interesse il fatto che le reliquie di Marco di Reichenau, degne di credito, vengono nominate assieme alle altre reliquie degli apostoli. I documenti esemplari del primo medioevo, che nominano insieme le mete di pellegrinaggio che verranno poi incluse nelle peregrinationes maiores, non permettono di trarre alcuna conclusione definitiva, tuttavia fanno riconoscere le tendenze, gli accenti diversi con i quali venivano chiaramente intrapresi i pellegrinaggi verso i tre luoghi. A Gerusalemme avevano un ruolo particolare le tradizioni bibliche, mentre Roma, con le sue molte sepolture, appare essere stata vieppiù determinata dalla presenza dell’autorità pontificia: la città tiberina era solo limitatamente un centro di pellegrinaggio. Ma Santiago da subito pare assumere la preminenza su molti altri luoghi di pellegrinaggio dell’epoca: qui viene venerata la tomba di un santo e vengono operati dei miracoli, ma il fatto che questa sia la tomba di un apostolo innalza Compostella in modo particolare.
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La svolta dell’alto medioevo Anche dal punto di vista dei pellegrinaggi il periodo tra l’XI e il XIII secolo segna una fase di rinnovamento e di cambiamenti strutturali. Nell’epoca della cosiddetta «riforma della Chiesa» crescono i documenti sui singoli pellegrini, ma continuano a restare prevalenti le notizie sui vescovi e i nobili che si mettevano in cammino verso una delle tre mete di pellegrinaggio di cui qui ci occupiamo. La crescita generale del movimento dei pellegrini e la partecipazione di diversi gruppi sociali può essere ricavata solo da fonti di altro genere, come prediche, storie miracolose, o da testi che si riferiscono alla costruzione di un’infrastruttura sulle vie e nei luoghi di pellegrinaggio favoriti. All’apertura dell’XI secolo, i pellegrinaggi a Santiago di Compostella raggiunsero una certa parità con quelli a Roma. Così, Ademaro di Chavannes racconta che il duca d’Aquitania Guglielmo V fin dalla gioventù visitava annualmente Roma e, negli anni in cui non vi si recava, Santiago di Compostella. Nella schiera dei pellegrini che visitarono Roma e Santiago sono particolarmente interessanti il fondatore del monastero di Ognissanti di Sciaffusa, conte Eberardo V di Nellenburg († 1080 ca.) e sua moglie Ida. Le modalità del loro pellegrinaggio possono illustrare cosa intendiamo con «cambiamento strutturale». I viaggi sono annotati nel libro dei fondatori, che già nel XIII secolo venne trascritto nella versione rimastaci in lingua volgare, probabilmente sulla base di un esemplare latino del XII secolo. Le diverse motivazioni del pellegrinaggio a Roma e a Santiago possono essere colte in modo più preciso se si scorre brevemente la vita di Eberardo. Eberardo V proveniva da una famiglia possidente dell’alto Reno imparentata con i Salii e con papa Leone IX. Dopo che Eberardo accompagnò il re Enrico III nel suo primo viaggio in Italia, nel 1046-47 questi gli conferì la contea di Chiavenna e il diritto di batter moneta a Sciaffusa. Nel 1050 Eberardo fondò il monastero di Sciaffusa, che divenne luogo di sepoltura della stirpe. Egli stesso passò gli ultimi sei anni della sua vita, fino alla morte (1078-79), come monaco nel monastero di Ognissanti, e la moglie Ida si ritirò in una cella edificata presso Sciaffusa. La fondazione del monastero rende chiaro il valore strategico dei suoi pellegrinaggi a Santiago di Compostella. Sembra che Eberardo abbia fondato Ognissanti con finalità puramente politiche. Gli inizi risalgono ancora agli anni ’40 dell’XI secolo: nel 1049 papa Leone IX consacrò un altare ed Eberardo fece costruire un monastero, la cui chiesa fu consacrata nel 1064 dagli abati dei chiostri circostanti. Quando Eberardo volle porre il monastero sotto la protezione pontificia, papa Alessandro II confermò anche i diritti di baliato, politicamente rilevanti. Questa fondazione corrispondeva così perfettamente agli esempi correnti di altri monasteri riformati dell’XI secolo. L’attribuzione del conio della moneta da parte del re Enrico III conferma l’importanza che l’insediamento di Sciaffusa aveva assunto in quest’epoca. La località, già allora ricca di legami commerciali con Basilea e Costanza, aveva una posizione adatta anche alla navigazione commerciale. Con la fondazione di Ognissanti Eberardo conquistò un importante punto di riferimento per la sua signoria sull’insediamento commerciale in fase di crescita. Alle intenzioni nettamente politiche del fondatore appartengono chiaramente anche i due pellegrinaggi romani di Eberardo. Malgrado tutti i motivi agiografici con cui l’estensore del libro dei fondatori li abbellisce, entrambi i viaggi ebbero principalmente il fine di assicurare la fondazione e la forma giuridica del monastero. Al contrario, il libro dei fondatori caratterizza i viaggi a Santiago in modo ben diverso dai pellegrinaggi romani. Secondo quanto vi si scrive, un giorno Eberardo incontrò Manegold, un cavaliere che si era fatto monaco nel monastero di Stein ma l’aveva subito abbandonato. Su esortazione di Eberardo, Manegold divenne subito monaco a Sciaffusa, ma morì poco dopo e una notte apparve in sogno al conte. Poiché aveva vissuto una vita
91. Santiago de Compostela, Museo della cattedrale. Frammento dell’antica porta settentrionale. Allegoria del mese di febbraio.
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monastica fiacca, doveva ora soffrire grandi pene. Questa visione deve avere impressionato Eberardo, che fece dire messe per il defunto Manegold e, con la moglie Ida, iniziò a vivere una vita austera. Gli esercizi ascetici culminarono finalmente con la decisione di fare un pellegrinaggio a Santiago. Durante il viaggio fecero celebrare ogni giorno dal cappellano che li accompagnava tre messe per l’anima del defunto Manegold. Quando furono ritornati, Manegold apparve nuovamente al conte Eberardo per informarlo che le preghiere e le pratiche religiose avevano avuto successo. Di conseguenza Eberardo, per non rischiare un destino simile a quello di Manegold, rinunciò ad ogni interesse mondano e trascorse gli ultimi anni della sua vita come monaco nel monastero di Ognissanti. Chiaramente ambizioni di riforma della Chiesa e pietà personale meglio si esprimevano in un viaggio a Compostella che in un viaggio romano. I viaggi romani di Eberardo comprendevano certamente anche finalità religiose, ma riguardavano con maggior forza il consolidamento istituzionale della nuova fondazione monastica. Il viaggio a Compostella aveva invece il suo significato nella ricerca di salvezza per se stesso, per la moglie Ida e per il defunto Manegold. I due itinerari ci mostrano così chiaramente le diverse sfaccettature dell’epoca della riforma ecclesiastica. L’importanza di Compostella per le particolari necessità di Eberardo e Ida appartiene a uno sviluppo delle forme di pietà dell’XI secolo su una scala più ampia del ristretto ambito locale. Il viaggio a Compostella di Eberardo e 92. Tolosa, chiesa di Saint-Sernin. Cristo in Maestà, fine XI-inizio XII secolo.
93. Opera di misericordia. Un pellegrino viene curato per le ferite ai piedi. Cattedrale di Parma.
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Ida rientra in una serie di informazioni sui pellegrini a Santiago nella seconda metà dell’XI secolo e indica a quali nuove forme di pietà religiosa un viaggio a Santiago di Compostella poteva rispondere in modo del tutto adeguato. Parzialmente comparabile è il presunto viaggio di Wiprecht II di Groitzsch a Roma e Compostella nel 1090. La descrizione di questo viaggio potrebbe essere stata stilizzata successivamente per giustificare il patrocinio jacopeo sul monastero di Pegau. Gli annali di Pegau raccontano che nel 1090 il conte Wiprecht II di Groitzsch viaggiò a Roma. È probabile che a Roma egli avesse commesso un crimine – si può solo menzionare la conquista della città leonina con Enrico IV nel 1083 – e che avesse danneggiato con furto e incendio la chiesa di San Giacomo di Zeitz. Per questo i vescovi di Magdeburgo e Merseburg gli avevano imposto un viaggio di penitenza a Roma. Qui tuttavia il papa gli impose un secondo viaggio di penitenza ad patriarcham Hyspaniensium, da dove sarebbe ritornato a casa con una preziosa reliquia, il pollice di san Giacomo. Poco dopo fu fondato il monastero di San Jacopo di Pegau. Il racconto serviva soprattutto a confermare la fondazione del monastero di Pegau e la sua acquisizione di reliquie. La veridicità del racconto ha meno valore della prospettiva del suo estensore; anche in questo testo i centri di Roma e Santiago ricevono ognuno un carattere specifico: Roma è il centro della penitenza e Santiago il tesoro delle reliquie di Giacomo Maggiore. Colpisce il fatto che per questa stessa epoca esistano pochi testi relativi alla combinazione di un pellegrinaggio a Gerusalemme con uno a Roma o Santiago. Tra le altre, questo fatto potrebbe avere anche una motivazione politica: i selgiuchidi minacciavano allora i luoghi santi e i pellegrinaggi cristiani divenivano sempre più difficili. Lo accentuano
94. Cronaca anonima del XIV secolo. L’arcivescovo di Rouen predica la crociata del 1133.
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alcune fonti correlate all’inizio delle crociate. Sicuramente dal 1099, con la conquista di Gerusalemme durante la prima crociata, anche i pellegrinaggi in Terra Santa si fecero più facili. In questo testo mettiamo tra parentesi il problema di indagare in che misura le crociate possono venir interpretate come un pellegrinaggio armato. Il legame tra crociate e pellegrinaggi è una delle cause dell’incremento dei pellegrinaggi verso l’Oriente dopo il 1099 e fino alla perdita della Terra Santa nel 1291. Se questi viaggi avvenivano per nave, solo eccezionalmente implicavano una previa visita di Roma. Sappiamo però di numerosi pellegrini in Terra Santa provenienti dalla Germania settentrionale, dalla Scandinavia e dall’Inghilterra, che nel loro viaggio per mare si arrestavano sulla punta nordoccidentale della penisola iberica per visitare la tomba dell’apostolo Giacomo. In questi resoconti il centro di pellegrinaggio di Santiago di Compostella è chiaramente subordinato alla meta principale del viaggio. Si devono poi considerare dei resoconti su nobili pellegrine, come la principessina svedese Ingrid che, intorno al 1270, con l’amica Mechtilde e un ampio seguito viaggiarono a piedi a Compostella, Roma e Gerusalemme.
95. Gerusalemme come veniva percepita nel XIII secolo. Uppsala, Universiteitsbiblioteck.
96. Cantigas de Santa María, cantiga CLVII. Una donna ruba nella bisaccia di alcuni pellegrini ospitati nella sua casa.
Il cambiamento strutturale della peregrinatio nell’alto medioevo non interessò solo i diversi punti di gravità dei tre grandi centri – a Gerusalemme crociata e pellegrinaggio, a Roma gerarchia e devozione, a Santiago piuttosto la ricerca della salvezza personale dell’anima. I miracoli che, fin dall’inizio, promettevano la salvezza del corpo e dell’anima (poiché anche i peccati sembrano come «spazzati via» da un miracolo) continuavano a richiamare gente sulla via, ma in quest’epoca l’aspettativa della salvezza dell’anima venne soddisfatta dalla sempre più frequente concessione di indulgenze. Dopo le crociate, anche il pellegrinaggio romano fece sperare nell’indulgenza plenaria. La promise per la prima volta papa Bonifacio VIII in occasione dell’anno giubilare 1300, dopo che già in precedenza in alcuni altri luoghi di devozione anni e festività avevano assunto un’importanza del tutto particolare. Il momento era ben scelto: dopo la caduta di San Giovanni d’Acri pochi anni prima, la Terra Santa era andata perduta e per il momento non poteva attrarre pellegrini. Gli anni santi romani, che si alternavano su un ritmo venticinquennale, servirono da modello: anche altri luoghi sacri tentarono di attrarre molti fedeli con forme di pellegrinaggi periodici. È controverso quando esattamente siano stati introdotti gli anni santi a Santiago, in ogni caso nel XV secolo al più tardi e forse anche prima veniva festeggiato un anno giubilare sul modello romano quando la festa del santo (25 luglio) cadeva di domenica. Come sempre, i problemi di interpretazione delle fonti che ne derivano devono venir risolti nei particolari; il sistema delle peregrinationes maiores tuttavia assicurava a tutti e tre i centri un’uguale capacità salvifica.
Racconti di pellegrini nel tardo medioevo Nel tardo medioevo il pellegrinaggio divenne un movimento di massa ancor più forte; quanto meno non sono più documentati solo i viaggi dell’alta nobiltà – come in gran parte avviene ancora nell’alto medioevo. Fanno eccezione tuttavia i pellegrinaggi a Gerusalemme che – iniziati per lo più da Venezia – erano così costosi che un pellegrino povero di regola non era in grado di procurarsi la somma necessaria. Così, nel tardo medioevo, i viaggi a Gerusalemme, anche se il più delle volte venivano organizzati da Venezia con la formula «tutto compreso», rimasero un privilegio di censo dei nobili, che mostrarono di apprezzarlo. In più, divenne normale redigere un resoconto del viaggio. Si sono conservati più di 500 testi scritti da viaggiatori a Gerusalemme del XIV e XV secolo. L’accollata al Sacro Sepolcro era importante per molti di
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questi pellegrini; più d’uno di essi si immortalò facendo appendere o incidere il proprio stemma, come recentemente approfonditi studi di dettaglio hanno dimostrato. Cambiò anche la prospettiva spirituale dei viaggiatori: se nel primo medioevo numerosi pellegrini a Gerusalemme volevano raggiungere la Terra Santa e lì morire, nel tardo medioevo non era più il caso. Per la nobiltà la forza di attrazione di Roma e Santiago fu meno forte; in ogni caso, per i viaggi a Santiago non potrebbe venir raccolto neppure un decimo dei resoconti conservati per Gerusalemme. Eppure, proprio la visita di Santiago e della penisola iberica poteva offrire una meta ben accetta, in particolare alla nobiltà. Oltre alla visita delle corti e dei luoghi di pellegrinaggio, essi potevano infatti dedicarsi alla lotta contro i mori. Nella rappresentazione delle mete si delinearono punti di contatto con i viaggi prussiani della nobiltà europea. «Dal viaggio tra i pagani all’itinerario dei cavalieri», come Werner Parravicini ha caratterizzato in modo stringato ed efficace il modo di mettersi in cammino della nobiltà europea. Per questa ragione disponiamo di informazioni più precise, soprattutto per i viaggi nobiliari. Il nobile Nopar de Caumont andò in pellegrinaggio a Compostella nel 1417 e a Gerusalemme nel 1419-20. Con quest’ultimo pellegrinaggio egli seguì una tradizione familiare, poiché già suo padre era stato a Gerusalemme. Il suo resoconto sul viaggio a Santiago era piuttosto un itinerario con informazioni sui luoghi e le distanze; su Gerusalemme racconta in modo più continuo e ben dettagliato, a volte con un accento didattico. È interessante il fatto che Nopar fondò a Gerusalemme un ordine cavalleresco personale, che rimase senza altri sviluppi ma mostra da cosa dipendeva principalmente il pellegrinaggio nobiliare.
9 97. Miracoli e scene di pellegrinaggio in un manoscritto della Vita di San Giacomo del XIV secolo.
Particolarmente interessante e molto politico è il resoconto del nobiluomo borgognone Guillebert de Lannoy, che fu tre volte a Gerusalemme (1403-08, 1421-22 e 1446-47), visitò due volte Santiago (1407 e 1435) e ancora nel 1450, come molti suoi contemporanei, si diresse a Roma per l’anno santo. Come consigliere borgognone egli effettuò diverse missioni e il suo resoconto sul viaggio nel Baltico, il suo «viaggio prussiano», è una fonte storica molto valida. Gli altri pellegrinaggi sono descritti in modo piuttosto scarno, le sue visite a Compostella furono delle «fermate intermedie» collegate con le imprese belliche in Spagna. Il secondo dei tre viaggi a Gerusalemme è però diverso, poiché Filippo il Buono aveva mandato in Oriente Guillebert con un’altra spia per accertare quali prospettive poteva avere una nuova crociata. Di conseguenza Guillebert ispezionò la linea costiera siro-egiziana; come il suo accompagnatore, anch’egli si muoveva in abito da pellegrino: la pellegrina era la copertura per un incarico da «servizi segreti». In modo simile il resoconto di Georg von Ehingen era caratterizzato dalle rappresentazioni del viaggio nobiliare. I Raysen nach der Ritterschaft del cavaliere svevo Georg von Ehingen (1428-1508) contengono elementi del romanzo cavalleresco, del romanzo d’avventura, della descrizione di viaggio e del resoconto di pellegrinaggio. Nella sua opera Georg von Ehingen racconta i suoi viaggi a Gerusalemme, in Asia Minore, Spagna, Portogallo, Inghilterra e Scozia, effettuati negli anni 1454-58. Il fine principale di questi spostamenti era il servizio militare nelle unità di monarchi stranieri. Se anche il titolo, Raysen nach der Ritterschaft, è stato attribuito in seguito alla sua relazione, è assolutamente corretto che Georg utilizzò letteralmente ogni occasione per combattere, viaggiare e mostrarsi intrepido e rispettabile cavaliere nel servizio militare per i diversi sovrani. Ad esempio è importante la notizia che a Gerusalemme Georg ricevette l’accollatura sul Santo Sepolcro. Le diverse azioni militari che egli descrive dettagliatamente, compresi i suoi
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personali atti di valore, ricevono molta attenzione; la visita dei luoghi di pellegrinaggio resta ampiamente sullo sfondo.
98-99. Piero della Francesca, Polittico della Misericordia. A sinistra: il santo pellegrino Arcano, fondatore della città, mentre sostiene il cofano con le reliquie che ha portato dalla Terrasanta. A destra: il santo pellegrino Egidio, cofondatore di Sansepolcro.
Le rappresentazioni del viaggio e del pellegrinaggio nobiliare influenzarono in misura crescente il patriziato urbano, come si può ben vedere in alcuni esempi della città imperiale di Norimberga. Con il resoconto di pellegrinaggio del mercante e patrizio Peter Rieter, norimberghese educato a Bruges, non solo inizia una tradizione familiare nell’ambito dei pellegrinaggi a Gerusalemme e Santiago ma anche una diversa cultura di viaggio dei patrizi di Norimberga. La città era tra i più significativi centri commerciali dell’Europa centrale; l’estensione del commercio a lunga distanza nel territorio spagnolo a partire dal XIV secolo spiega anche la maggior frequenza di viaggi in Europa sudoccidentale. Norimberga era una delle città europee che contavano numerosi pellegrini, anche perché i suoi legami commerciali con l’Italia, le città costiere francesi e Barcellona in Catalogna offrivano numerose opportunità ai viaggiatori. Il primo cittadino di Norimberga che viene registrato dalle fonti come pellegrino, in collegamento con un viaggio d’affari nella penisola iberica, è Nicolas Rummel, che intraprese il suo viaggio nel 1408 o nell’anno seguente. Nel 1428 un altro norimberghese, Peter Rieter, a cavallo e accompagnato da un servo intraprese il viaggio a «St. Jacob in Gallicia und Finisterre». Il testo di Peter Rieter è breve, pregnante, e corrisponde quasi a un’annotazione mercantile. Solo dalla relazione di pellegrinaggio del figlio Sebald veniamo a sapere che Peter Rieter appese il suo stemma nel coro della cattedrale compostellana, come pare fosse normale all’epoca per i pellegrini di un certo stato sociale. Da Santiago Rieter ritornò a Barcellona, ma non direttamente. Con il suo servo cavalcò attraverso il regno di Francia fino a Roma, dove fu ricevuto da papa Martino V. Qui gli fu mostrata la «Veronica». Sfugge alla nostra conoscenza perché l’irrequieto e infaticabile mercante di Norimberga dovette restare a Roma 24 giorni. Dal figlio Sebald Rieter sappiamo che egli fu nel 1450 a Roma, nel 1462 a Santiago e nel 1464 a Gerusalemme. A Santiago del resto i patrizi di Norimberga fanno appendere i loro stemmi nel coro della cattedrale, ritenendo di muoversi all’interno della tradizione del «povero pellegrino» ma contemporaneamente – come risulta dal resoconto di Peter Rieter – per «unsern nachkommen andacht zu heiligen steten zu haben». Sebald Rieter fa poi rinnovare il quadro posto da suo padre nel coro della cattedrale, aggiungendovi un grande crocifisso e le raffigurazioni di san Giacomo, del proprio padre, della propria madre, di se stesso e di sua moglie; fa anche appendere al di sopra un quadro di Andreas Rieter e lo stemma familiare, dipinto su pergamena. Questi dati furono raccolti da Hans Rieter († 1626) con altri testi in un libro di viaggio e sono esposti con una narrazione coerente e chiara. Il fatto che non venga riportata quasi nessuna impressione personale si spiega con la forte tradizione ed osservanza con cui erano considerati in questa famiglia i viaggi a Gerusalemme, Roma e Santiago di Compostella. Sembrerebbe che accanto a Peter e Sebald anche Andre(a)s Rieter sia stato a Santiago; finora conosciamo solo un suo viaggio a Gerusalemme. È evidente dalle forme sociali di quell’epoca tra tramonto del medioevo e inizio dell’età moderna il reciproco scambio sociale di favori tra la nobiltà e i suoi prestatori di denaro. Nel suo resoconto il cavaliere nomina a più riprese i grandi onori e le eccellenti offerte che venivano fatti al piccolo gruppo di viaggiatori da diversi membri dell’alta nobiltà. Araldi e lettere di accompagnamento appaiono una cosa ovvia ai mercanti di Norimberga. Similmente, i viaggi dello slesiano Peter Rindfleisch – nel 1496 a Gerusalemme e nel 1506 a Santiago – mostrano che anche ai mercanti appariva adeguato intraprendere un viaggio per corti e luoghi di pellegrinaggio, come la nobiltà. Nello stesso tempo il reso-
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conto mostra con quale forza all’inizio del XV secolo l’Europa centrorientale era inserita nel sistema sacrale della cristianità latina. Per Rindfleisch, come nella famiglia Rieter si congiungevano gli interessi mercantili e la spontaneità patrizia, che riprendeva ed ampliava forme di vita nobiliari, così persone come il medico ed umanista Hieronymus Münzer, originario di Feldkirch e dopo gli studi cittadino di Norimberga, poteva riallacciarsi alle tradizioni della propria città. Esse erano costituite, oltre che dall’estesa rete commerciale, dal crescente interesse umanisticoastronomico, che produsse attenzione alla Spagna e ai viaggi di esplorazione. Hieronymus Münzer, quando lasciò la propria città nel 1484 e nel 1494, mentre vi infuriava la peste, non lo fece tanto come pellegrino. Il fatto che nel suo viaggio italiano abbia visitato Roma e, più tardi, nel suo viaggio in Francia e Spagna, non potessero mancare Santiago e altri luoghi di devozione, è certamente da attribuire alla sua pietà, ma non fu la ragione fondamentale dei suoi viaggi. Interessi culturali, nostalgia di terre lontane e curiosità ma anche pur sempre tradizioni nobiliari sembrano aver messo in cammino Arnold von Harff, che visitò Gerusalemme, Roma e Santiago. A venticinque anni egli intraprese un lungo pellegrinaggio, durato quasi tre anni, che descrive nel suo diario. Il 7 novembre del 1496 egli partì da Colonia, dove documenti scritti attestano l’esistenza della sua famiglia fin dal XIII secolo. Ritornò nella sua città solo il 9 o 10 novembre 1498. Harff visitò Roma e Il Cairo, pregò sulla tomba di san Tommaso e di santa Caterina sul Sinai, e si arrestò a Gerusalemme. Di qui viaggiò in Turchia, rientrò a Gerusalemme e nel 1498 da Venezia fece il pellegrinaggio a Santiago di Compostella. Il suo itinerario lo portò attraverso Padova, Verona, Milano, Torino e Tolosa al passo di Roncisvalle, dove attraversò i Pirenei per seguire il classico corso del Camino de Santiago nel nord della penisola iberica, fino alla città dell’Apostolo. Harff e i suoi accompagnatori fecero a cavallo il percorso fino a Burgos; qui rinviarono i cavalli e salirono su muli. Il gruppo di cavalieri conduceva con sé un mulo in più per l’equipaggiamento da cucina necessario alla preparazione dei pasti. Il resoconto del viaggio dei nobili del basso Reno è ricco di dettagli e particolari. I commenti riguardano le particolarità geografiche della regione che attraversa e le caratteristiche degli abitanti che egli è riuscito a decifrare. Pamplona è, ad esempio, «eyn groisse fijn stat», Puente la Reina «eyn steetgen», Castrojeriz «eyn vryheyt» e Ligonde «eyn dorff».
100. Incisione su legno di Hans Burgkmair, Augsburg 1508. Un gruppo di pellegrini in una sosta del viaggio.
101. Corfù. Dal Viaggio di Venetia al Santo Sepolcro, 1538.
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102. Il pellegrino tedesco Arnold von Harff, protagonista di un lungo pellegrinaggio a Roma, Gerusalemme e Santiago, rappresentato nel suo diario con il bordone da pellegrino e lo stemma del suo casato.
103. Santa Brigida di Svezia in una xilografia boema del 1470, rappresentata con il cappello e il bordone da pellegrino a ricordo dei suoi numerosi pellegrinaggi.
In occasione della sua prima visita a Roma, Harff indica il desiderio di ricevere dal Santo Padre l’assoluzione dei propri peccati e l’autorizzazione a passare il mare per la Terra Santa. Anche qui, una volta di più, si può riconoscere una raffigurazione del compito di Roma simile a quella delle singole fonti del primo medioevo. Dopo aver attraversato il Mediterraneo, da Alessandria attraverso Il Cairo raggiunse il convento di Santa Caterina del Sinai. In seguito il resoconto assume un andamento fantastico. Arnold fu veramente alla Mecca, travestito da musulmano? e viaggiò fino nel regno africano di Moabar? Al contrario, certamente egli può esser stato a Gaza, Hebron, Betlemme e Gerusalemme. Dopo Damasco Harff si unì ad una carovana per rientrare in Italia per via di terra, attraverso i Balcani. In Italia prese poi la decisione di fare il pellegrinaggio a Santiago. Dalla Spagna rientrò via Lovanio, Maastricht e Aquisgrana e arrivò a Colonia la sera di san Martino del 1498. Ritornò poi nel castello paterno di Harff, sede della stirpe, dove redasse il proprio resoconto di viaggio. Harff entrò a servizio della corte e dell’amministrazione del duca di Jülich, sposò Maria di Bongard e gli si prospettava una tranquilla vita nobiliare e di corte. Ma solo sette anni dopo il proprio ritorno morì inaspettatamente, all’età di 34 anni. Fu sepolto nella cripta della chiesa di Lövenich, presso Erkelenz. La sua pietra tombale porta incisa questa richiesta di preghiere in memoria: «Bidt got vur den pylgrym, weechwijser ind dichter», un motivo che risuona anche nella frase conclusiva del suo resoconto di viaggio. Anche se Arnold von Harff pone sempre in primo piano la motivazione religiosa per la visita dei maggiori luoghi sacri della cristianità, il venticinquenne viaggiatore lascia ben trasparire la propria intraprendenza, gioia di vivere, gusto dell’inventar storie. Il resoconto di viaggio della sua insolita pylgrymmacie è «un documento storico-culturale a suo modo unico, in cui si rispecchia la situazione di rivolgimento spirituale al passaggio dal tardo medioevo alla prima età moderna». Insolite sono anche le liste bilingui di più di due dozzine di parole e di frasi e le tavole delle scritture (tra l’altro in albanese, arabo, basco, turco, ungherese) che sono tutte presentate secondo uno schema unico, nella forma di un vademecum per i viaggiatori che vogliono disporre di un aiuto pratico per le situazioni incontrate lungo il cammino. È certamente un caso che in questi testi si trovino i più antichi esempi scritti delle lingue basca e albanese. Ma non poteva essere un caso che tra le frasi standard si trovi anche la locuzione «Bella signora, io sono completamente solo in questa terra straniera; concedetemi di dormire da voi questa notte». Esprime bene la gioia di vivere del giovane cavaliere e le abitudini dei suoi accompagnatori, che in maggioranza erano mercanti. I resoconti dei pellegrini nobili e patrizi mostrano che i loro viaggi a Gerusalemme, Roma e Santiago erano spesso determinati da ragioni politiche ed economiche corrispondenti al loro stato. Questo non significa che essi non fossero religiosi. In altri testi l’aspetto religioso acquista peso maggiore, il più delle volte ma non soltanto in autori che appartengono piuttosto all’ambiente spirituale. Sono note, ad esempio, le esperienze della mistica Brigitta di Svezia, che visitò Santiago nel 1341-43, dal 1349 rimase per lungo tempo a Roma e nel 1371-73 fu in Terra Santa. Anche l’assolutamente eccentrica Margery Kempe, continuamente quasi tormentata da visioni, fu a Gerusalemme nel 1413-14 e a Santiago di Compostella nel 1417. I due luoghi furono però solo un piccolo frammento del suo gran programma di turismo sacro. Ella dettò il testo poco prima della morte, quando non era più in grado di scrivere da sola. Offrono una considerazione più forte degli aspetti spirituali le note dei tre canonici di Chartres Pierre Plumé, Gilles Mureau e Jehan Piedefer, che visitarono più volte la Terra Santa e San Giacomo in Galizia.
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Un unicum è anche la prospettiva orientata dal punto di vista centro-europeo che viene espressa da un vescovo armeno riguardo al suo viaggio a Roma e Santiago. Il vescovo armeno Martir o Martiros di Arzendjan iniziò un viaggio che, per l’epoca, era l’equivalente di un giro del mondo quando, il 29 ottobre 1489, lasciò il suo convento di Norkiegh in Armenia per esaudire il suo più fervido desiderio: visitare a Roma la tomba del principe degli apostoli. In brevi tappe a piedi raggiunse Costantinopoli, dove l’11 luglio 1490 si imbarcò su una nave francese per Venezia. Secondo le sue indicazioni la città lagunare consisteva allora di 74.000 case; pieno di stupore, egli osserva che nel duomo di San Marco potevano essere accolte fino a 10.000 persone. Martir si trattenne 29 giorni a Venezia, poi raggiunse Roma con un viaggio di 33 giorni via Ancona. Dall’inizio o in seguito egli dovette viaggiare con più persone poiché, al più tardi da Costantinopoli, nel resoconto di viaggio domina la forma plurale. Martir con i suoi compagni rimase cinque mesi a Roma e dispose di tempo sufficiente per visitarne i numerosi santuari, tra i quali lo colpì particolarmente la prigione di Pietro e Paolo. Visitò i singoli luoghi significativi per la storia della cristianità occidentale, come quelli della crocifissione di san Pietro e della decapitazione di san Paolo. Roma – così informa l’armeno – possedeva 2.774 chiese e, all’interno del territorio urbano, 8.000 sacre sepolture. Con orgoglio Martir informa di aver visitato tra dieci e dodici chiese al giorno e di esser stato ricevuto tre volte con grande bontà dal papa (Innocenzo VIII). Questi gli dette anche delle lettere di raccomandazione che gli furono molto utili nel prosieguo del viaggio. Ogni giorno egli pregava di fronte a san Pietro per la remissione dei suoi peccati. Il 9 luglio 1491 Martir e i suoi compagni partirono per la Germania, che raggiunsero dopo 43 giorni. Di qui, attraverso la Francia, il suo viaggio lo portò in Spagna, alla tomba di san Giacomo. La mancanza di viveri lo costrinse a partire; a Finisterre dovette patire molte fatiche e strapazzi. Anche se non può essere dedotto con sicurezza dal testo, è probabile che Martir abbia continuato il suo viaggio lungo la costa settentrionale della Spagna. Navigò poi verso l’Andalusia e il Marocco, percorse il sud e il levante spagnolo prima di rientrare nel proprio paese attraverso la Francia e l’Italia. La sua frase conclusiva suona: «mi recai subito a Santa Maria [porto presso Roma] dove mi imbarcai
104. Il cavaliere Jean Mandeville a Costantinopoli.
105. Konrad Grünemberg, Pilgerreise von Constant nach Jerusalem, 1486. I due castelli all’uscita del porto di Venezia.
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e sperimentai ancora una volta condizioni tanto infelici che avrei preferito la morte a dover patire così numerosi pericoli». Numerose altre opere erano orientate piuttosto alle necessità religioso-spirituali e mettevano a disposizione le informazioni necessarie per la pratica della pietà. Il fratello William Wey, del monastero regio di Eton, che dopo un viaggio a Santiago nel 1456 ne fece due a Gerusalemme nel 1458 e 1462, impronta chiaramente il proprio resoconto anche all’intento di offrire indicazioni pratiche agli altri pellegrini. Le informazioni indispensabili, la guida spirituale e il sostentamento non si escludevano, come documenta l’opera del domenicano Felix Fabri di Ulm. Felix Fabri, nato a Zurigo nel 1438, nel 1452 fu accolto nel convento domenicano di Basilea e, dopo esser passato da Pforzheim, nel 1468 trovò la sua sede definitiva nel convento domenicano di Ulm, dove rimase fino alla morte nel 1502. Questo lungo periodo fu interrotto da numerosi viaggi a Colmar, Aquisgrana, Costanza, Norimberga e Venezia. Ha particolare rilievo il viaggio in Terra Santa effettuato intorno al 1480, che influenzò il corso della vita e l’opera letteraria di Fabri. Dal suo pellegrinaggio egli ricavò il cosiddetto Evagatorium, che costituì la base della sua gloria letteraria. Nelle descrizioni in esso contenute egli dà spazio anche a particolari divertenti e fornisce al lettore dettagli storico-culturali interessanti e numerosi. Meno noto dell’Evagatorium è il Pellegrino di Sion, redatto anch’esso da Fabri, probabilmente nel 1492, e ancora inedito in alcuni passaggi minori. Qui Fabri descrive al suo pubblico i viaggi a Roma, Gerusalemme, Santiago di Compostella e altri centri di pellegrinaggio associandoli a riflessioni teologiche e meditazioni. In una sorta di prologo Fabri espone l’origine della sua opera. Le domenicane di Ulm avevano richiesto all’autore una notizia sui suoi pellegrinaggi che servisse come punto di partenza per il loro proprio pellegrinaggio spirituale. Altre monache venivano da altri conventi ad ascoltare Felix Fabri, che cominciò a mettere per iscritto le proprie impressioni e ad aggiungere viaggi verso altre mete, oltre Gerusalemme. Se egli aveva raccomandato alle domenicane di dedicarsi anzitutto alla lettura del noto Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura, il pubblico insisteva ad effettuare spiritualmente i viaggi di Felix Fabri. Volendo prestar fede anche al prologo, il pubblico aspirava ad un «pellegrinaggio spirituale» sulla base di un’informazione concreta, di conseguenza l’autore redasse il suo libretto mescolando il concreto con lo spirituale. Come il pellegrinaggio in carne ed ossa comunica un presagio del viaggio alla Gerusalemme Celeste, così fa anche il «pellegrinaggio spirituale», che però conduce a questo fine in modo più diretto, senza tutto il «leiplich aus schweifung» del primo, spiega l’autore. In dodici regole che egli inviò a un altro convento di domenicane in Svevia, spiega la differenza tra i pellegrini corporali e i pellegrini spirituali, che egli chiama «pellegrini di Sion», poiché essi vogliono trovare la grazia di Dio. Infine, per lui il pellegrinaggio di Sion – come suona il titolo – significa ancor più di un effettivo viaggio di pellegrinaggio da intraprendere, poiché un pellegrino nello spirito può raggiungere il proprio fine in modo più rapido e sicuro e per una via più diretta che non un reale pellegrino. Nel suo libro Felix Fabri descrive soprattutto il pellegrinaggio spirituale a Gerusalemme, Roma e Santiago di Compostella. Poiché molti dettagli vengono descritti con grande precisione, si potrebbe supporre che l’autore abbia una propria esperienza di pellegrinaggio anche a Roma e Santiago, ma non è assolutamente sicuro. Egli descrive esattamente il cammino e segnala le deviazioni per i luoghi di devozione significativi, «mit vil umwegs zu den hailligen», come dice il testo. Fabri non descrive solo le tappe ma anche i diversi riti: ricorda le antifone che vengono cantate, nomina le diverse indulgenze ed aggiunge
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racconti di martiri e santi. Riguardo alla città di Santiago di Compostella, Fabri informa che i pellegrini cantavano l’antifona O beate Jacobe e la risposta Ecce ego mitto prima di ricevere l’indulgenza. Poi i pellegrini si confessavano e il giorno seguente ricevevano la comunione.
Bilancio Se si tenta di trarre un sintetico bilancio, le differenze tra Roma, Santiago e Gerusalemme si sono fatte ancora più evidenti alla fine del tardo medioevo. Certamente molti pellegrini erano attratti dalla visita di due o tre di questi luoghi, ma si possono cogliere delle tendenze dominanti: al pellegrinaggio a Gerusalemme e in Terra Santa, certo fortemente limitato alla nobiltà e alla ricca borghesia per il suo costo e i suoi fondamenti ideali, si contrapponeva il pellegrinaggio a Santiago, più attrattivo per «semplici» pellegrini. Roma rimaneva centro d’attrazione per tutta la cristianità, specie negli anni santi, ed aveva il particolare rilievo di sede della gerarchia ecclesiastica. Proprio a causa dei costi contenuti, delle indulgenze e dei pellegrinaggi periodici resi attraenti da particolari agevolazioni, Roma e Santiago possono aver avuto maggior risonanza per la massa dei pellegrini. Il viaggio a Gerusalemme richiedeva denaro, fatica e, a volte, la forza di discutere con quanti si opponevano alla fede. La lontananza aveva anch’essa una sua importanza, a causa dei costi. Al centro di pellegrinaggio romano apparteneva però il futuro. Roma dovette il suo successo anche alla tendenza a guidare la pietà che si fece più accentuata nell’epoca della Controriforma. Dal XVI secolo Roma appare richiamare verso di sé correnti sempre più numerose di pellegrini. Tuttavia, i pellegrinaggi a Gerusalemme e Santiago non scomparvero. Si esprimeva solo nostalgia o ritorno alle tradizioni originarie quando, all’inizio del nostro secolo, dalla parte nordoccidentale della penisola iberica, alcuni pellegrini si mossero da Santiago verso Roma e Gerusalemme, lasciandoci un resoconto di viaggio che vale la pena di leggere ancor oggi?
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ITINERA
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Paolo Caucci von Saucken
La francigena e le vie romee
Noti sono gli elementi che la storiografia ha elaborato per la definizione di una via di pellegrinaggio. Questa, per venire considerata tale, deve anzitutto dirigersi ad una meta ben definita e chiara, quale un santuario o un importante luogo di culto, quindi deve avere una struttura ospitaliera che sorregga e permetta il transito dei pellegrini. Deve possedere, poi, una serie precisa di riferimenti coerenti e costanti, come devozioni particolari, specifica iconografia, toponomastica, dedicazioni delle chiese che facciano riferimento alla civiltà e alla cultura del pellegrinaggio; infine, deve essere sostenuta dalla testimonianza diretta dei pellegrini attraverso relazioni di viaggio, diari, guide, testi odeporici. Il continuo passaggio dei pellegrini lascia una traccia, nei territori attraversati, ben identificabile, non solo nelle strutture materiali, ma anche nei costumi, nella mentalità, nel folclore, nelle tradizioni e nei culti locali: in sostanza, depone una sedimentazione culturale e sacrale ben identificabile e qualificante. La via francigena, così come il Camino de Santiago, sono senza dubbio anche vie commerciali e pubbliche, ma assumono il carattere di vie di pellegrinaggio, sia perché realizzano anche questa funzione, sia per la specifica sacralità determinata direttamente o indirettamente dal transito dei pellegrini. È possibile in tal modo riconoscere i percorsi seguiti dai pellegrini che acquisiscono, per questo, il carattere di veri e propri itinera peregrinationis che si sovrappongono ed integrano al normale sistema viario.
106. Tabula Peutingeriana, la raggiera delle strade romane che si irradia da Roma. In primo piano, la via Aurelia, principale asse di comunicazione in epoca romana verso la Gallia e la penisola iberica.
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Gli studi più recenti hanno dato gran rilievo alla letteratura odeporica, che in effetti permette di ricostruire con notevole precisione i percorsi che hanno articolato lo spazio sacro della cristianità medievale. Principalmente si fa riferimento a due grandi sistemi, uno verso Santiago, le cui coordinate sono state date dal quinto libro del Codex Calixtinus, e uno verso Roma basato su una serie di fonti, la più completa delle quali è costituita senza dubbio dagli Annales Stadenses, auctore Alberto redatti nella città di Stade alla metà del XIII secolo.
La decadenza delle vie consolari romane Il sistema viario verso Roma, forse più di quello compostellano, impostato fin dall’inizio dal Liber Sancti Jacobi in maniera chiara e consapevole, appare come un sistema in continua trasformazione, sensibilissimo ai mutamenti politici, sociali ed economici che agitano la penisola italiana. In tal senso assistiamo ad una continua evoluzione delle vie verso Roma, che pur rimanendo radicate alla struttura itineraria delle vie consolari romane, tendono a differenziarsi, ad inglobare nuove realtà, sia economiche e culturali come Bologna e Firenze, che religiose e devozionali come Assisi e Loreto. Un processo che tende a spostare il flusso dei pellegrini dalla via francigena sempre più verso l’Adriatico. Aprire un discorso sulle vie romee vuol dire, pertanto, avere ben chiaro il carattere dinamico degli itinerari che dai valichi alpini, o lungo le coste della penisola, portano i pellegrini ad limina Sancti Petri. Occorrerà inoltre tener presente i cambiamenti determinati dallo svilupparsi dei giubilei che in parte modificheranno le modalità del pellegrinare. In tale prospettiva, offrono una chiara e lucida rappresentazione delle strade per Roma gli Annales Stadenses, che danno le coordinate della questione alla metà del XIII secolo e che, a nostro avviso, costituiscono la guida più completa ed un punto fermo per la definizione sia delle strade romee, che quelle per la Terra Santa, giacché nella penisola italiana molte di esse coincidono. Per iniziare a delineare il problema abbiamo una serie di fonti e di fattori che ci permettono di ricostruire lo sviluppo del sistema di comunicazioni tra il nord Europa e Roma, fondato agli inizi ancora stabilmente sul sistema delle vie consolari romane. Vediamo, ad esempio, che l’Itinerarium Burdigalense, redatto da un anonimo pellegrino di Bordeaux nel 333, indica un percorso per la Terra Santa che gli fa ricalcare la via Domitia da Tolosa ad Arles, lo fa entrare in Italia dal Moncenisio, attraversare tutta la Padania, da Torino ad Aquileia, per farlo proseguire lungo una strada, che sarebbe stata poi percorsa nel 109697 dai crociati, fino a Costantinopoli. È evidente che il nostro pellegrino segue ancora le vie consolari, così come farà al ritorno allorché sbarcato ad Otranto si immette nell’Appia Traiana, sosta a Roma e continua lungo la Flaminia e l’Emilia, per ricongiungersi in Val Padana all’itinerario dell’andata. Probabilmente il nostro pellegrino sceglie, dopo Roma, la Flaminia e l’Emilia piuttosto che l’Aurelia, che avrebbe rappresentato il naturale collegamento verso la Gallia, per il suo stato di conservazione. In effetti, l’Aurelia costituiva già il punto più debole del sistema delle vie consolari romane, il primo che aveva iniziato a deteriorarsi, come d’altronde ci ricorda il celebre passo di Rutilio Namaziano. Il poeta narbonense, per tornare alla sua Narbonne, nel 416, imbocca l’Aurelia, ma è costretto presto ad abbandonarla preferendo utilizzare la rotta di cabotaggio che seguiva la costa tirrenica, ritenuta più sicura delle incerte ed impaludate strade della Maremma. Il testo di Rutilio Namaziano è esemplare per la ricostruzione della situazione dell’Aurelia, che risulta gravemente danneggiata dalla
107. Narbona. La rue drotie, che ricalca il tracciato urbano della via Domizia.
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guerra gotica, deteriorata per l’azione non più controllata delle acque, priva di un reale mantenimento e quindi all’inizio della sua lunga crisi: Electum pelagus, quoniam terrena viarum plana madent fluviis, cautibus alta rigent: postquam Tuscus ager, postquam Aurelius agger perpessus Geticas ense vel igne manus non silvas domibus, non flumina ponte coercet, incerto satius credere vela mari. (Viene scelto il mare perché le vie di terra, fradice in piano per i fiumi, sui monti sono dure per le rocce dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia, messe a ferro e fuoco dalle orde dei goti, non domano più le selve con locande, né i fiumi con ponti, è meglio affidare le vele al mare, anche se insicuro.)
108. Cividale. Tempietto longobardo, figura di santa sulla primitiva facciata.
Il poeta descrive una situazione che peggiorerà nei secoli successivi e che sarà una delle cause che vedranno l’affermarsi di una nuova via per i collegamenti tra Roma e il mondo franco-germanico.
Le origini altomedievali della via francigena Tra i fattori che contribuiscono a determinare la nascita del nuovo percorso gioca un ruolo determinante la divisione della penisola tra bizantini e longobardi. I primi attestati principalmente lungo le coste, i secondi in centri – Cividale, Verona, Pavia, Parma, Lucca, Siena, Spoleto, Benevento… – preferibilmente arroccati in zone interne. La necessità di collegare i ducati del nord con quelli della Tuscia, attraverso un itinerario al sicuro dagli attacchi e dal fiscalismo bizantini, così come l’utilità di un collegamento con Roma, spinsero i longobardi a cercare una via verso il sud, alternativa alla Flaminia e all’impraticabile Aurelia. Da Pavia gli ostacoli principali erano costituiti dall’attraversamento del Po e, soprattutto, degli Appennini. Sia per il primo che per i secondi i longobardi dovettero certamente tentare ed utilizzare più vie. Il Po poteva essere traghettato in vari punti, ma in maniera stabile soprattutto a Piacenza. E verso questa città si indirizza il tracciato longobardo. Mentre la fondazione di varie abbazie, come quella di Bobbio, lasciano intravedere, oltre pii propositi, anche quello di radicare la presenza longobarda su possibili transiti appenninici. Paolo Diacono nella Historia longobardorum indica in più di una occasione l’uso del valico di monte Bardone (probabilmente da Mons longobardorum) per accedere dalla Padania alla Tuscia. Il re Grimaldo passa per Alpen Bardonis, attraverso un valico che gli permette di aggirare il controllo bizantino. D’altro canto l’interesse strategico dei longobardi per questo valico, che unisce le valli del Taro e del Magra e quindi la Padania alla Tuscia, risulta evidente anche dalla fondazione, ricordata anch’essa da Paolo Diacono, di un monastero da parte di Liutprando nei pressi del valico, a Berceto, «quod est situm in cacumine montis cui nomen est Bardo», una scelta che non nasconde il desiderio di utilizzare l’istituzione religiosa per il sostegno dei pellegrini e dei viandanti, ma anche il desiderio di controllo di un passo che va assumendo sempre maggior rilievo. Forse si è sopravvalutato il ruolo dei longobardi nella strutturazione di quella che poi verrà chiamata via francigena e che in epoca altomedievale dovette essere in molti luoghi poco più di un sentiero che, tuttavia, collegava tratti di vecchie strade romane e dava il
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senso di un itinerario che congiungeva città importanti, valichi, guadi di fiumi, monasteri e città dove trovare rifugio ed ospitalità. Il percorso si consolidava vicino ai centri urbani, trovava una qualche manutenzione nei pressi dei monasteri, ma in molti luoghi doveva apparire come un fascio di tracciati che a seconda delle stagioni, del controllo politico della via, delle numerose varianti divenivano alternativi e spesso incerti. Tanto che quando parliamo di itinerari medievali, e soprattutto altomedievali, è sempre problematico indicare un unico percorso e definirlo come quello «autentico», anche se questo non ci impedisce di individuare, all’interno di quella che Sergi definisce «area di strada», un percorso principale, soprattutto relativo a una specifica epoca, sostenuto da ospizi, da segni itinerari come croci, tabernacoli, resti di selciato, fonti, ponti e da indicazioni itinerarie desunte da una letteratura odeporica che con il tempo diverrà sempre più precisa. La via riceverà un notevole impulso dai franchi che, sconfitti i longobardi ed assicuratisi il controllo dei valichi alpini, la prolungheranno oltre le Alpi, usando sostanzialmente gli stessi criteri dei longobardi, con la militarizzazione, cioè, di alcuni tratti e con lo sviluppo di una politica di insediamenti religiosi nei punti strategici, come nel caso dell’abbazia di Novalesa situata a ridosso del valico del Moncenisio, che pur restando appartata dal percorso principale lo influenzerà direttamente. Questo percorso diviene in tal modo, nel IX secolo, il principale asse di comunicazione tra il mondo franco e Roma. A designarne l’origine, i documenti cominciano a utilizzare il nome di via francesca (876), poi, sempre più frequentemente quello di francigena, ma anche romea, ad indicare la meta verso cui si dirige e che i documenti specificano essere la «publica strata que de ultramontanis partibus Romam tendit» (Diploma di Enrico V, 1111). Alcuni studiosi, come Sergi, ritengono che il nome gli venga dato da chi la percorreva, piuttosto che dalla meta o dalla sua origine. In tal senso la troviamo, a volte, definita come via francorum (Chronicon Novaciliense, metà XI secolo), strata publica peregrinorum et mercatorum, strata pellerina o pellegrina. Nella Vita Mathildis di Donizone (1114), descrivendo la discesa di Enrico IV in Italia, si fa esplicito riferimento al passaggio per Monte Bardone lungo quella che è francigenam stratam, un termine forse preferito più nel centro Italia che presso i valichi alpini, ma sempre alternato a via romeria (1193) e, soprattutto, a romea. Senza contare i nomi che assume di volta in volta per influenza della toponomastica locale, come, ad esempio, strata vetus Taurini, strata lombarda, o via Montis Bardonis… Il Moncenisio diviene il passo più utilizzato anche perché il matrimonio alla metà dell’XI secolo tra Oddone, figlio di Umberto I, capostipite della dinastia di Moriana-Savoia e Adelaide, dei marchesi di Torino, indica come il valico stia entrando in un’ottica stabilizzatrice ed assuma sempre di più il carattere di un passaggio che unisce Stati diversi, piuttosto che un confine che li separi. Il Gran San Bernardo, invece, si collega strettamente con la valle del Reno attraendo i mercanti, i pellegrini ed i viaggiatori che provengono dal mondo germanico. Per francigena o romea intendiamo dunque quella via che dal Moncenisio o dal Gran San Bernardo, rispettivamente quindi lungo la valle di Susa, o lungo la Val d’Aosta, si congiunge a Vercelli, transita per Pavia, attraversa il Po a Piacenza, segue l’Emilia fino a Fidenza (e a volte Parma), imbocca la valle del Reno, valica gli Appennini al passo della Cisa, entra nel Magra, tocca Pontremoli ed Aulla, giunge a Lucca per percorsi collinari alternativi alla vecchia Aurelia, attraversa l’Arno nei pressi di Altopascio, segue vari tracciati, sia collinari che di fondo valle lungo l’Elsa, passa per Siena, entra nel Lazio lungo il torrente del Paglia e recupera a Bolsena il tracciato della vecchia Cassia che la porterà a Monte Mario da cui scende verso San Pietro. Naturalmente di vie francigene, francesche o romee ne troveremo diverse, ma l’itinerario indicato assume nella storiografia attuale e nella coscienza generale il ruolo ed il nome di
109. Due dei quattro tetrarchi del IV secolo portati a Venezia da Costantinopoli come bottino della quarta crociata. Venezia, piazza San Marco.
110. Susa. La porta romana della città.
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«francigena». Ricordiamo quanto detto a proposito della variabilità delle strade medievali, occorre non trascurare le molteplici varianti. Alcuni capisaldi, tuttavia restano fermi, come Pavia (ma non dimentichiamo che esiste una strada anch’essa molto frequentata da pellegrini e viaggiatori che segue la riva opposta del Po, ricca di ospedali e di testimonianze di pellegrinaggio che, dopo aver toccato città come Tortona, Alessandria ed Asti, raggiunge anch’essa Torino e la valle di Susa), Piacenza, Fidenza, Lucca, Siena e Viterbo. Lucca diviene un nodo importante. Nell’Itinerarium Sancti Willibaldi (723-726) viene indicata come punto fermo di coloro che vanno a Roma: «inde Romam tendentes, Lucam, Tuscie urbem, devenere». La città si riempie di ospedali e di corpi santi da venerare. Tra questi quello di Riccardo, leggendario re degli angli, morto mentre si dirigeva in pellegrinaggio ad Petri sedem e seppellito nella città.
Gli itinerari di Sigerico e di Nikolas di Munkathvera
111. Strada romana in Valle d’Aosta. I romani avevano individuato, per il passaggio delle Alpi, i tracciati naturali che sarebbero stati seguiti e riutilizzati in epoca medievale.
La presenza di angli lungo la via dovette essere notevole, tanto da essere notata e riportata da Paolo Diacono nella Historia longobardorum: «His temporibus multi anglorum gentis nobiles et ignobiles, viri et feminae, duces et privati, divini amoris instinctu de Britania Romam venire consuerunt». È forse il primo importante flusso peregrinatorio verso Roma, probabile conseguenza dell’intensa attività missionaria voluta dal pontefice Vitaliano (657-672) che aveva originato la discesa verso sud di eremiti, di pellegrini, di intere comunità religiose, molte delle quali si radicheranno lungo la via per Roma. Insieme ad essi, le cronache parlano di re anglosassoni, più o meno leggendari, che intraprendono il viaggio devoto verso Roma, a volte addirittura per morirvi, come accadrà nel 689 a Cedwalla re del Wessex, e di vescovi che vanno ad sedem Petri per devozione, come Benedetto Biscopo che si recò a Roma sei volte tra il 653 e il 684, o per ricevere la consacrazione pontificia, come fanno tra gli altri Wighardo arcivescovo di Canterbury (667), Ecberto arcivescovo di York (735), Notelmo arcivescovo di Canterbury (736), Cinebryth di Winchester (779), Eanbaldo di York (780), fino a san Dunstano che Romam pervenit nel 960 e a Sigerico che era stato eletto arcivescovo di Canterbury nel 989 e che l’anno successivo va ad limitem beati Petri per ricevere il sospirato pallium dalle mani del papa.
112. Presentazione di Gesù al tempio in una miniatura della seconda metà del X secolo, quando sono attestati numerosi pellegrinaggi a Roma dall’Inghilterra. Benedizionale di Aethelwold da Winchester. British Museum. 113. La discesa dello Spirito Santo dal Benedizionale dell’arcivescovo Robert (980 ca.) da Winchester. Biblioteca di Rouen.
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In realtà, poco sappiamo di questo vescovo, divenuto recentemente famosissimo per il manoscritto – tra l’altro inserito nella Vita Sancti Dunstani, fatto che ha determinato più di un errore – in cui si descrive il suo viaggio a Roma e soprattutto il suo ritorno a Canterbury. Discepolo di san Dunstano, si era formato presso l’abbazia di Glastonbury ed era succeduto a Ethelgar nella guida della diocesi di Canterbury nel 989. William Stubbs, a cui dobbiamo la pubblicazione del testo in Rerum Britannicarum Medii Aevii scriptores, ci fa sapere che alla sua morte (994) lascerà in eredità alla cattedrale della sua diocesi la propria biblioteca, facendo intravedere una personalità ed interessi culturali adeguati all’incarico che ricopriva, alla diocesi che reggeva ed ai fermenti culturali dell’Inghilterra della sua epoca. Il testo che ci interessa, dopo aver riportato una lista dei pontefici aggiornata alla fine del 989, elenca le 80 submansiones (in realtà 79, poiché salta la penultima anche se la numerazione giunge a LXXX), che segnano l’itinerario de Roma usque ad mare, da Roma, cioè, fino al passo di Calais. È quindi il ritorno alla sua sede episcopale. Il prelato ha visitato le principali chiese di Roma, ha incontrato il papa e probabilmente pranzato con lui, ricevuto il pallium ed ora torna verso la sua diocesi. Il manoscritto è molto preciso nella descrizione dell’itinerario che il prelato segue, indicando le submansiones che articolano il percorso. Le prime che annota – Baccano, Sutri, Forcassi, San Valentino, Montefiascone, Bolsena – ricalcano l’antica Cassia. Va notato che Viterbo ancora non si è configurata come città e Sigerico passa per la località di San Valentino, dove resti del selciato e un solido ponte romano mostrano ancora l’originario tracciato della via consolare. Risalita la sponda del lago di Bolsena la strada entrava nella valle del Paglia fino ad incontrare sotto il vigile controllo della rocca di Radicofani quella del torrente Formone, affluente dell’Orcia, che l’avrebbe indirizzato facilmente verso Siena. Sigerico segue poi un percorso che privilegia un tracciato di crinale che lo fa passare lungo le pendici di monte Maggio, quindi per Strove e San Gimignano fino ad immettersi nella valle dell’Arno nei pressi della confluenza del fiume Elsa, in un territorio di paludi e di boschi che probabilmente costituiva un serio ostacolo. Un tracciato incerto tra le paludi di Fucecchio ed i boschi delle Cerbaie che nel futuro sarà assistito e protetto dall’Ordine di San Jacopo di Altopascio, che nascerà proprio in funzione dell’attraversamento di questa zona. Per l’imponente porta romana di San Gervaso la strada entrava in Lucca ricca di ospedali, di devozioni, di culti connessi alla civiltà del pellegrinaggio. Ne usciva dalla parte opposta per dirigersi verso Camaiore e Luni, l’antico porto romano, ormai insabbiato, ma ancora cardine e luogo di sosta del percorso tra nord e sud. La valle di Magra, con le sicure submansiones di Aulla e Pontremoli, portava al passo della Cisa e subito dopo a Berceto e al valico di monte Bardone. Ormai oltre gli Appennini, lungo l’asse vallivo del Taro, il tracciato incontrava la consolare Emilia a Borgo San Donino, oggi Fidenza e puntava direttamente al porto fluviale di Piacenza che assicurava il passaggio del Po. L’itinerario sigericiano si dirige ora direttamente verso le Alpi seguendo velocemente (le submansiones diradano, ad indicare le più rapide tappe della pianura padana) il tracciato individuato dalla strada romana che da Piacenza portava a Pavia, Vercelli ed Ivrea. Imboccata la valle d’Aosta, Sigerico supera le Alpi al valico del Gran San Bernardo, raggiungendo il lago di Losanna, vero punto di incrocio di varie vallate e quindi di altrettanti sistemi viari. Nella zona di Losanna confluisce, infatti, il Reno, la cui ampia e ricca vallata costituirà anche un’importantissima via di pellegrinaggio verso Roma e un facile raccordo sia con il Danubio che apre la strada verso l’est e la penisola balcanica, sia con il Rodano che sarà seguito da molti dei pellegrini tedeschi per raggiungere Compostella. Sigerico segue una strada intermedia che lo porta verso Besançon, Reims, Arras e alla sua LXXX ed ultima submansio di Calais, da cui si sarebbe imbarcato per l’ormai vicina Inghilterra.
114. Corvey. Facciata dell’abbazia (IX secolo).
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115. Cattedrale di Spira (1031-1106). Lungo la valle del Reno, principale asse di comunicazione dell’Europa centrale verso Roma, fioriscono importanti città ben rappresentate dalle loro cattedrali.
Ovviamente quest’ultimo tratto dell’itinerario sigericiano non può più essere chiamato francigena. In realtà – come giustamente nota Stopani – la francigena dopo Pavia si biforca, dando luogo a due tracciati diretti rispettivamente ad ovest e a nord-ovest, verso, cioè, quel territorio dei franchi che nel suo complesso le dà il nome. In effetti a Pavia si offrono due possibilità che successivamente troveremo ampiamente praticate e testimoniate. O imboccare la valle d’Aosta come fa Sigerico e passare le Alpi al valico del Gran San Bernardo per immettersi, principalmente, nella valle del Reno, o puntare a Torino, entrare nella valle di Susa e superare le Alpi attraverso i due concorrenti ed alternativi passi del Monginevro e del Moncenisio. Questi due ultimi valichi saranno utilizzati soprattutto dai pellegrini italiani per raggiungere Santiago di Compostella, dai mercanti lombardi per accedere alle ricche piazze della Provenza e della Borgogna e in senso inverso per i collegamenti tra il sud della Francia, l’Italia e la Palestina. Per il valico del Monginevro passa, infatti, uno dei principali gruppi di pellegrini e cavalieri che partecipano alla prima crociata (1097), quello guidato da Raimondo IV, conte di Tolosa, e dal vescovo Ademaro di Le Puy. Con loro viaggiano numerosi nobili i cui titoli ci fanno comprendere chiaramente la loro provenienza, come Rambaldo conte di Orange, Gastone di Béarn, Gerardo di Roussillon, Guglielmo di Montpellier, Raimondo di Le Florez, Isoardo di Gap e molta gente legata al vescovo di Le Puy. Per il valico del Moncenisio passeranno anche pellegrini inglesi come Matthew Paris, che lo preferirà al Gran San Bernardo usato da Sigerico. Il percorso indicato da Sigerico, nonostante l’enfatizzazione che ne è stata fatta in questi anni e il successivo ridimensionamento, resta sempre una straordinaria testimonianza per quanto riguarda il tracciato della francigena in Italia in uno dei suoi accessi alle Alpi. Ci siamo trattenuti abbastanza nella descrizione dell’itinerario di Sigerico fino al Gran San Bernardo perché è il primo ad indicare, con molta precisione, il percorso della francigena secondo un tracciato che reggerà diversi secoli, e che in ogni caso non verrà mai del tutto abbandonato, anche quando l’asse economico-culturale Bologna-Firenze e quello devozionale Loreto-Assisi sposteranno sempre più ad est il flusso dell’itineranza devozionale in Italia. Sulla via percorsa da Sigerico passa, centosessant’anni dopo, il monaco islandese Nikolas di Munkathvera, abate del monastero di Thingor. Vi accede dal Gran San Bernardo dopo aver seguito la valle del Reno che – come abbiamo detto – costituiva il maggiore bacino di confluenza verso questo valico. L’abate aveva raggiunto prima la Norvegia, probabilmente il porto di Bergen, poi Aalborg in Danimarca, quindi aveva sostato a Stade, da cui aveva dato ben quattro itinerari per raggiungere o Magonza o Colonia, da dove poi proseguire lungo la valle del Reno, sostando quindi in città come Worms, Spira, Strasburgo e Basilea. Oltre i due itinerari più orientali, che rispettivamente toccano Hannover da un lato e Minden dall’altro, Nikolas dice che gli scandinavi possono raggiungere Colonia anche da Deventer e da Utrecht. A proposito di quest’ultima città, egli aggiunge: «… lì la gente riceve il bordone e la bisaccia ed è benedetta per il pellegrinaggio a Roma». L’abate fa riferimento chiaramente alla cerimonia della benedictio perarum et baculorum, che costituisce il rito essenziale per la partenza del pellegrino. Si tratta di un cerimoniale che è diffuso in tutto il mondo cristiano, che è riportato in molti messali dell’epoca e che viene descritto con ogni dettaglio nel sermone Veneranda Dies del Liber Sancti Jacobi, redatto proprio negli stessi anni a Santiago di Compostella. Il rito consiste essenzialmente nel consegnare al pellegrino il bordone e la bisaccia, gli oggetti, cioè, che maggiormente gli serviranno lungo il cammino, che lo avrebbero identificato ovunque e che, in quanto tali, diverranno gli elementi essenziali della sua immagine. Il rituale dà loro un esplicito significato simbolico. Nel Liber leggiamo infatti che la bisaccia deve essere piccola e senza legacci, in quanto deve essere sempre pronta «a dare e a
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ricevere», ricordando così al pellegrino che dovrà portare con sé solo una piccola scorta e, soprattutto, che dovrà condividere tutto quello che ha con i poveri, i bisognosi e con gli altri pellegrini. Specifica poi che il bordone (da burdo, mulo), oltre a servirgli per appoggiarsi durante il viaggio e per difendersi dai lupi e dai cani inselvatichiti, rappresenta la fede sulla quale deve sostenersi lungo il difficile e pericoloso cammino. L’Itinerarium di Munkathvera indica, tra l’altro, anche il ruolo che sta assumendo la città di Stade, situata alla foce del fiume Elba in una situazione strategica, sia come porto marittimo per coloro che giungevano dai paesi scandinavi, sia come inizio di una rete di strade che verrà riconfermata ed indicata con maggiore chiarezza nel secolo successivo negli Annales Stadenses. Il Reno porta l’abate fin nel cuore della Svizzera, vero incrocio di vari sistemi viari che permettono il collegamento con le grandi vallate del Danubio, del Rodano e con i valichi delle Alpi. L’abate ne è cosciente e commenta che a Vevey, sul lago di Ginevra, «convergono le strade di coloro che si dirigono a sud del passo del Gran San Bernardo…». Tra l’altro lungo le sponde del lago, oltre che la strada per Roma, scorre un’importante via di pellegrinaggio anche verso Santiago – quella che Künig von Vach chiamerà Oberstrasse –, utilizzata principalmente dai tedeschi della Germania meridionale. D’altra parte il Reno permetteva anche di collegarsi, attraverso il Neckar, al Danubio e orientarsi verso Costantinopoli e Gerusalemme, come avevano fatto le turbe che seguivano Pietro l’eremita verso la drammatica prima crociata. Nikolas di Munkathvera, pur avendo nei suoi piani anche quello di raggiungere la Terra Santa, valica, invece, le Alpi al Gran San Bernardo, entra nella Padania per la valle d’Aosta, e in sei rapide tappe raggiunge Piacenza, non senza aver prima ricordato che a un giorno da Vercelli c’è Milano. L’abate è particolarmente sensibile alle connessioni e ai percorsi alternativi. Sa benissimo, come ogni uomo medievale, che le strade possono essere interrotte per molte cause ed è bene conoscere tutti gli itinerari possibili per raggiungere la meta fissata. Ne ha indicati quattro per immettersi nella valle del Reno; ci fa intendere, ora, che da Vercelli è possibile passare anche per Milano e non trascura di ricordare che a Piacenza, dove scorre un gran fiume chiamato Padus, giunge la strada di coloro che seguono la via di Saint-Gilles. Occorre ricordare che siamo nel 1150-54, pertanto nell’epoca in cui il Liber Sancti Jacobi definisce con esattezza i quattro percorsi francesi a Santiago. Tra questi il più meridionale, la cosiddetta via tolosana o aegidiana, inizia proprio a Saint-Gilles. L’abate islandese vuole probabilmente indicare una connessione con gli itinerari compostellani, cosa che farà esplicitamente quando giunge a Luni, dove afferma che lì «convergono le strade provenienti dalla Spagna e dalla terra di San Jacopo», da quella Jakobsland così cara agli scandinavi e così presente nei loro racconti e nelle loro devozioni. Quindi ricalcando, con leggere varianti, il percorso di Sigerico, tocca Lucca, testimonia l’esistenza di un ospedale attivo ad Altopascio, la cui fondazione attribuisce alla contessa Matilde, passa per Siena e Viterbo, che ormai ha attratto dentro le sue mura il tracciato che Sigerico faceva scorrere per il borgo di San Valentino, ed entra a Roma per uno dei Montjoie, più emotivi della cristianità, da quel monte Mario, che chiama Feginsbrecka, letteralmente la «collina della gioia», da cui può vedere per la prima volta la Città Eterna. Munkathvera, dopo una lunga descrizione delle mirabilia di Roma, che ricorda piena di reliquie, corpi santi, splendide chiese e monumenti dell’antichità classica, continua il suo viaggio per Gerusalemme, fino ad imbarcarsi a Brindisi, non senza aver ricordato prima Benevento come nodo essenziale per le comunicazioni con il sud, ed il santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo, che costituiva uno dei principali luoghi di pellegrinaggio nel medioevo, per raggiungere il quale veniva frequentemente usata la francigena.
116. Worms. Abside del duomo iniziato nell’anno Mille.
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Nelle pagine precedenti: 36. A Canterbury, uno dei luoghi di partenza della via per Roma, la Trinity Chapel della cattedrale conservò fino al 1538 il reliquiario di san Tommaso Becket, venerato dai fedeli. 37. I diversi itinerari per Roma dalla periferia settentrionale dell’Impero germanico verso le Alpi e l’Italia, in un carta preparata da Erhard Etzlaub di Norimberga per l’anno giubilare del 1500. Alcuni dei più significativi luoghi di pellegrinaggio intermedi sono indicati da piccole chiese. Bayerische Staatsbibliothek, Monaco, Rar 287.
38. Veduta della parte antica della città di Stade, oggi sobborgo di Amburgo, nel medioevo punto di partenza dell’itinerario descritto dagli Annales Stadenses.
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39. Le torri della cattedrale di Colonia segnalano al pellegrino la vicinanza della cittĂ .
40. L’interno romanico del duomo di Spira, sul medio Reno.
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41. I portali della cattedrale di Strasburgo.
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42. La facciata barocca della cattedrale di San Gallo, nella parte alamannica dell’itinerario romano.
43. La biblioteca del monastero, uno dei maggiori centri di cultura della regione del lago di Costanza.
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44. La chiesa-fortezza di Notre-Dame-de-Valère e l’ospizio per i pellegrini sovrastano la città di Sion, nel Vallese, tra il lago di Ginevra e i passi alpini.
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45. Il campanile romanico della chiesa di Sant’Orso ad Aosta, alla discesa del versante italiano del passo del Gran San Bernardo.
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46. Un tratto di antica strada romana in Val d’Aosta.
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47. Un tratto delle mura tardo-antiche di Susa, la cittĂ piemontese che apre la via della pianura padana ai passi del Moncenisio e del Monginevro.
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48. Un particolare dell’abside del duomo di Milano, dedicato a Santa Maria Nascente; la città, nella pianura padana, è al punto d’arrivo degli itinerari provenienti dai passi del Sempione e del Gottardo.
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49. La facciata riccamente decorata della chiesa romana di San Michele a Pavia.
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50. Il ponte medievale sul Trebbia a Bobbio, il nucleo sorto attorno al monastero fondato da san Colombano sulla via tra la pianura padana e i valichi appenninici.
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51. L’angelo conduce i pellegrini in questo particolare della facciata del duomo di Fidenza, intitolato a san Donnino, sulla via verso il passo di Monte Bardone, oggi La Cisa.
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52. L’abside del duomo romanico di San Geminiano a Modena, XII secolo.
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53. Il nucleo di Bardone, giĂ sede di una pieve medievale, sul tratto appenninico della via francigena, a ridosso del passo omonimo.
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54. La riproduzione della Casa Santa di Loreto a Hrad/any, il quartiere del Castello di Praga, consacrata nel 1631, divenne subito richiamo per i pellegrini.
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55. A Venezia il campo e la chiesa di San Giacomo dell’Orio, di fondazione medievale, ricordano che la città fu legata al pellegrinaggio jacopeo, oltre che a quelli romano e gerosolimitano.
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56. Il labirinto, simbolo universale del cammino dell’uomo, sul pilastro destro del portico del duomo di San Martino a Lucca.
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57. Le Opere di Misericordia in un affresco della sala del Pellegrinaio dell’ospedale di Santa Maria della Scala a Siena.
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58. A sud di Siena l’abbazia romanica di Sant’Antimo, con i suoi tratti di architettura cluniacense è un esempio di come la via francigena, al pari delle altre vie di pellegrinaggio, contribuì a diffondere nuove sensibilità artistiche e architettoniche.
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59. La cripta della basilica del Santo Sepolcro ad Acquapendente, presso Viterbo, nel tratto laziale della via francigena.
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60. I tratti di vie romane rimasti furono usati dai pellegrini medievali, come questo della via Cassia/via francigena, tuttora esistente tra Montefiascone e Viterbo, nel Lazio settentrionale.
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61. La facciata della chiesa di San Flaviano a Montefiascone.
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62. La piazza e il duomo di Viterbo, una delle ultime tappe del viaggio verso Roma, dove i pellegrini trovavano diverse possibilitĂ di accoglienza.
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63. Il Palazzo dei papi di Viterbo.
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64-65. L’interno della chiesa della Madonna del Parto e particolare dei pellegrini raffigurati nell’affresco del vestibolo a Sutri, quasi alle porte di Roma. Prima metà del XIV secolo.
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66. Figura di pellegrino scolpita su una mensola dell’abside della pieve dei Santi Giovanni e Felicita di Valdicastello, Pietrasanta.
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117. Mauritius-Rotunde di Costanza, una rappresentazione della Benedictio perarum et baculorum, rito di partenza che Munkathvera segnala a Utrecht.
118. Altopascio. Facciata della chiesa di San Jacopo.
Il racconto dell’abate islandese costituisce senza dubbio una straordinaria documentazione del pellegrinaggio medievale, certamente di gran lunga più significativa del breve itinerario di ritorno di Sigerico. In essa troviamo per la prima volta espressa una cultura ed una spiritualità del pellegrinaggio che non è possibile dedurre dalla schematica lista delle submansiones dell’arcivescovo di Canterbury. Munkathvera non descrive solo l’itinerario, ma sottolinea le principali devozioni che incontra, i corpi santi e le reliquie che consacrano la via e la fanno diventare una vera via di pellegrinaggio. È proprio la presenza di riferimenti come la benedictio perarum et baculorum ad Utrecht, o i miracoli del Volto Santo di Lucca, o le impronte impresse sulla pietra da santa Cristina a Bolsena che la rendono tale. Infine Roma, enorme contenitore di reliquie e di devozioni che gli fanno dire: «Vi sono cinque sedi vescovili. Una è presso la chiesa di San Giovanni Battista (…) lì si trova il seggio papale, e vi si conservano il Sangue di Cristo, la veste di Maria e gran parte delle ossa di San Giovanni Battista; lì ci sono il prepuzio di Cristo e il latte del seno di Maria, frammenti della corona di spine di Cristo e della sua tunica e molte altre sacre reliquie, conservate in un unico grande vaso d’oro» (Stopani, Le vie di pellegrinaggio del medioevo, p. 70). Inoltre, introduce un altro elemento che contribuisce a definire un via peregrinalis, e cioè la presenza di ospizi dove i pellegrini possono essere accolti, come quello di San Pietro sul valico del Gran San Bernardo, l’ospizio di Erik tra Piacenza e Borgo San Donnino, o il Mathildarspítali di Altopascio. Per questi motivi l’Itinerarium di Nikolas di Munkathvera costituisce, a nostro avviso, il primo vero testo odeporico che illustra ampiamente un pellegrinaggio a Roma. Un racconto ricco di notazioni culturali e di osservazioni di viaggio tipici di questa letteratura e della curiositas del pellegrino, come i riferimenti alle saghe scandinave e germaniche che incontra lungo il percorso. Sono presenti anche considerazioni di carattere geografico ed economico, ed osservazioni sulle città sedi di seggi imperiali, sui vescovadi più importanti, sull’avvenenza delle donne di Siena, sui rischi e le difficoltà che si incontrano.
La moltiplicazione dei percorsi nel pieno medioevo Alla fine del XII secolo la via francigena, che appare sempre più frequentemente nei documenti con questo nome, è ormai un ben definito itinerario che attraversa tutta l’Italia, collegato alla Francia principalmente per il valico del Moncenisio che si utilizza spesso, non solo per raggiungere Roma, ma per andare o tornare dalla Terra Santa attraverso i porti della Puglia, come farà, ad esempio, Filippo Augusto nel 1191 di ritorno dall’infruttuosa terza crociata. Filippo II Augusto sbarca ad Otranto, segue l’itinerario che si è sviluppato lungo l’Appia traiana, tocca Bari («ubi requescit Sanctissimum et incorroptum corpus Sancti Nicholai Miree»), Benevento e Capua, passa ai piedi di Montecassino, «in cuius summitate est nobilis abbatia, in qua requiescit corpus Sancti Benedicti» e, lungo la Casilina, perviene a Roma dove è accolto con tutti gli onori da Celestino III. Il pontefice, «quamvis votum non perfecissent», lo scioglie, con i suoi, dal voto di pellegrinaggio a Gerusalemme e dà loro «palmas et cruces». Inoltre mostra le più importanti reliquie: «capita Apostolorum Petri et Pauli et veronicam». Benedict von Peterrorough, che relata questo viaggio, spiega che la veronica «… est pannum quendam linteum, quem Iesus Christus vultui suo impressit…». Il viaggio verso la Francia segue poi la francigena sigericiana, nelle sue linee principali, con qualche variante come nella Val d’Elsa, dove transita per Castel San Fiorentino, preferendo quindi il tracciato di fondo valle piuttosto che quello collinare che aveva seguito Sigerico, indicando ancora una volta come i tracciati di uno stesso itinerario fossero più di uno e come la tendenza, in epoche di maggiore prosperità, fosse quella di migliorare i percorsi di pianura che nell’alto medioevo erano stati i primi
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ad essere abbandonati. Il cronista ci fa sapere che Filippo supera gli Appennini per il valico della Cisa, dove, precisa, «deficit Toscana et incipit Italia», ed entra in Francia per il Moncenisio. Questo valico, insieme a quello del Monginevro, diviene a partire dal XII secolo lo sbocco più usato per raggiungere la Francia per chi utilizza la francigena. Ma lo è anche per coloro che, dalla Francia o a volte dalla Spagna e spesso dall’Inghilterra, vogliono andare a Roma. Nella Historia Compostellana ne abbiamo una precisa testimonianza, allorché il vescovo Porto va dal papa a chiedere la dignità arciepiscopale per Compostella. L’operazione deve essere preparata da una ben condotta azione diplomatica e il vescovo, dopo aver seguito il Camino de Santiago, sosta presso l’abbazia di Cluny, tradizionale alleata della curia compostellana, alla ricerca degli appoggi necessari. Il viaggio è abbastanza dettagliato. Il prelato aveva seguito il Camino de Santiago fino a Burgos, era passato per Auch e Tolosa, quindi aveva percorso strade interne, in parte la via podense (ricorda Cahors e Moissac), in parte la lemovicense (dice di aver visitato il corpo di san Marcial a Limoges) fino a giungere a Cluny, «un monastero che supera tutti – dice il cronista – per la santa religiosità, la carità e la sua dignità». Si tratta di una testimonianza molto significativa, perché sottolinea ancora una volta gli stretti legami tra il pellegrinaggio e l’ordine cluniacense, tra la curia compostellana e i monaci di Cluny. Legami di carattere intellettuale, spirituale e certamente anche politico. In effetti il vescovo farà buon uso dei consigli che gli vengono dati, ed otterrà a Roma il pallium di arcivescovo per la sede di Santiago. A noi qui ora interessa ricostruire il percorso che segue per raggiungere Roma. «Poi – dice la Historia Compostellana – forte delle benedizioni della santa congregazione, giunse con l’aiuto del Signore, attraverso i monasteri ed i possedimenti dell’Ordine di Cluny fino alle valli della Moriana. Lì il venerabile conte Umberto, lo ricevette con onore e lo accompagnò fino alla città di Susa». Non conosciamo il resto del tragitto poiché, per sfuggire alla caccia che gli danno i soldati imperiali, il vescovo si traveste da soldato e va a Roma per un cammino non indicato, ma che con ogni probabilità, data l’epoca, doveva trattarsi della francigena. Consiglia il valico del Moncenisio anche Matthew Paris, eccellente geografo ed autore dell’Iter de Londinio ad Terram Sanctam, splendida mappa itineraria per coloro che volevano raggiungere Gerusalemme da Londra passando per l’Italia. Attraversata la Manica,
119. Cluny, ricostruzione della terza abbazia consacrata nel 1130.
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Matthew Paris, indica due principali tragitti, uno per Parigi e l’altro per Reims, che confluiscono poi a Lione. Da qui «Le chemin daler en provence», segue la valle del Rodano fino a Saint-Gilles, mentre «Le chemin versus Rome», imbocca la valle d’Arc entrando en Lumbardie per il sempre più frequentato valico del Moncenisio. Offre, poi, vari itinerari per attraversare la valle padana; uno di questi segue sostanzialmente la francigena fino a Piacenza, non trascurando i collegamenti con Milano e con Genova, due città nel pieno del loro sviluppo. Passato il Po, indica la via Emilia fino a Fidenza, dove dà due possibilità: la prima è quella di seguire la via francigena per il valico di Monte Bardone e l’ormai tradizionale tracciato per Lucca, Siena, Viterbo, fino a «Roma terminus itineris multorum et laborum initium»; l’altro costituisce un itinerario finora inedito nella letteratura odeporica, ma che indica gli importanti cambiamenti realizzatisi nella penisola al migliorarsi delle strade e alla nascita di importanti centri economici e commerciali e di nuove devozioni. L’Iter de Londinio indica, infatti, un percorso che transita per alcune tra le più importanti città dell’Italia centrale: da Fidenza si continua per Parma, Reggio, Modena, Bologna («Boloinne la grosse»), Imola, Faenza, Forlì, Bagno di Romagna, Alpe di Serra («Alpes Bolon», il valico appenninico che sta assumendo un notevole rilievo in questi anni), Firenze («Florence», Matthew qui vuole evidentemente indicare un possibile collegamento, come ha fatto in altre occasioni), Arezzo, Perugia, Assisi, Foligno, Spoleto e Rieti. L’indicazione di questo percorso, che verrà riconfermato negli Annales Stadenses, è particolarmente significativo, perché indica l’emergere di città e di devozioni (Assisi e la figura di san Francesco sono indici evidenti) che stanno spostando l’asse dei pellegrinaggi verso est, lungo i due lati della dorsale appenninica, creando percorsi devozionali adriatici che si rafforzeranno nel secolo seguente con lo sviluppo del culto mariano a Loreto.
120. Il monaco dell’abbazia di Saint-Alban Matthew Paris, autore dell’Iter de Londinio, rappresentato ai piedi della Vergine (metà del XIII secolo). Londra, British Library.
Gli Annales Stadenses, summa delle vie medievali per Roma Troviamo ribadita e confermata questa tendenza negli Annales Stadenses, auctore Alberto che non costituiscono un diario di viaggio, né una guida per un singolo itinerario, ma la più completa descrizione dei collegamenti medievali tra Roma, il centro e il nord Europa. Il testo si presenta come un dialogo tra due giovani «litterati curiales et curiosi», Tirri e Firri, che affrontano la questione degli itinerari per Roma e per la Terra Santa. L’opera che viene redatta, tra il 1240 e il 1256, dall’abate Alberto, che probabilmente riporta le esperienze del proprio viaggio a Roma realizzato nel 1236, ha inizio con un chiarissimo latino, il cui testo è riportato in appendice alle Vie di pellegrinaggio del medioevo di Stopani, che seguiamo: Firri item dixit: Bene Tirri, Romam ire volo, expedias me de itinere. Cui Tirri: Qua via vis procedere? Et Me: Versus vallem Maurianam; sed prius ibo in Daciam pro equo, et sic procedam de Stadio. Ad quem Tirri: Loca tibi nominabo et miliario interponam. Tirri indica, quindi, al suo amico, che vuole entrare in Italia per vallem Maurianam (la valle del fiume Arc nella regione Moriana) e pertanto per il valico del Moncenisio, la strada che partendo da Stade transita per Brema, Münster, Duisburg (ma consiglia di attraversare il Reno a Colonia se le acque fossero troppo abbondanti) fino a Reims, Lyon e Chambery. Valicate le Alpi, entra nel ramo occidentale della francigena per proseguire verso Bologna, dove offre due possibilità diverse («Ibi habe optionem duarum viarum trans montes»): passare gli Appennini da Bagno di Romagna, come aveva indicato negli
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stessi anni Matthew Paris, percorso che considera melior via ed inserirsi di nuovo a Montefiascone nella francigena e giungere a Roma lungo la Cassia, o passare ad Aquam pendentem, per Firenze, Siena e di nuovo la francigena. Come aveva fatto Matthew Paris, indica dopo Arezzo l’alternativa dell’antica via medievale, che univa la Toscana all’Umbria e scorreva sul lato settentrionale del lago Trasimeno («et habebis – dice Tirri – lacum Perusinum ad manum dextram»). Un percorso che permetteva di raggiungere Roma dopo aver visitato Perugia e, soprattutto, Assisi, che il prestigio di san Francesco aveva fatto diventare un nuovo importante centro di culto. Questa strada, che ricalca antichi tracciati etruschi e che collega la Toscana all’Umbria, ha come cardini Cortona, dove giungeva la via dell’Alpe di Serra, e dal lato opposto Foligno che, situato sulla Flaminia, permetteva di rientrare facilmente a Roma come, nel secolo seguente, avrebbe portato i pellegrini, per il valico di Colfiorito, a Loreto. Tirri completa il quadro con la descrizione degli itinerari di ritorno, offrendo le principali strade che collegano l’Italia al centro e nord Europa. Stabilito il percorso d’andata Firri chiede anche quello del ritorno: «Qua via michi redire consulis?» domanda a Tirri che, con il suo chiarissimo latino, indica quattro strade («Et Tirri: poteris redire per vallem tarentinam [Trento e quindi Brennero], per Elvelinum [Passo del San Gottardo], per montem Iovis [Passo del Gran San Bernardo]; poteris etiam per Pusterdal [per la Val Pusteria])» che mostrano come ormai i percorsi con la Germania si siano differenziati ed offrano una vasta raggiera di possibilità che praticamente si individuano dai principali passi con cui si valicano le Alpi. Il primo percorso segue l’itinerario dell’andata («A Roma redeas per Viterbium…»), supera gli Appennini all’Alpe di Serra, punta su Ravenna, prosegue per Padova, Bassano («Ibi est introitus ad montana»), poi percorre il corso del Brenta, entra nella valle dell’Adige, tocca Trento, Bolzano e Bressanone, valicando le Alpi al Brennero, per ridiscendere verso Innsbruck e proseguire per Augsburg, Meiningen, Gotha, fino a Stade. Come ha fatto per l’andata, Tirri indica le varie possibilità che offre un percorso. Consiglia in alternativa al passo del Brennero quello della Val Pusteria raggiungendo Venezia da Ravenna per mare, e proseguendo per Treviso. Le due strade si sarebbero ricollegate a Innsbruck. Il secondo itinerario utilizza la francigena fino a Siena, quindi imbocca la strada regia romana, ormai divenuta una via di assoluto rilievo per le comunicazioni tra il nord e Roma, passa per Firenze, valica gli Appennini per il passo di Osteria Bruciata, tocca Bologna, Parma, Piacenza, Milano e affronta le Alpi per il passo del San Gottardo. Anche in questo caso Tirri indica aliam viam prospettando la possibilità di seguire da Siena la francigena tradizionale, per Lucca, Pontremoli e Piacenza. Da qui collega questo itinerario a Milano, al passo del Gottardo, fino a Lucerna e alla valle del Reno che, a partire da Basilea, dice, può essere percorsa in barca con grande sollievo dei piedi del pellegrino: «Cum veneris Basileam, bene fac pedibus tuis, et mirando navem descende usque Coloniam». Il terzo itinerario, ma quarto se consideriamo l’alternativa del valico di Val Pusteria, è quello per il Gran San Bernardo. Partendo da Piacenza occorreva seguire il tracciato della francigena per Vercelli ed attraversare le Alpi per il notissimo valico fino a raggiungere Basilea e la valle del Reno. Soddisfatto, Tirri conclude: «Ecce habes omnes fere Wias itineris versus Romam», ma Firri incalza: In che epoca dell’anno è più conveniente prendere la strada per Roma? («Quo tempore convenentius iter versus Romam accipitur?») e Tirri dà con la sua risposta una delle più chiare indicazioni dell’epoca dell’anno più conveniente per intraprendere un pellegrinaggio a Roma:
121. Arnago. Chiesa di San Romedio. Il santo a cavallo dell’orso che ha domato ostenta sul cappello la conchiglia simbolo del pellegrinaggio.
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Circa medium Augustum, quia tunc aer temperatus est, viae siccae sunt, acquae non abundant, dies longi satis ad ambulandum, noctes etiam ad corpus recreandum, et invenies horrea novis frugibus adimpleta. (Verso la metà di Agosto, perché allora l’aria è temperata, le vie sono asciutte, le acque non abbondano, le giornate sono abbastanza lunghe per camminare, e le notti per riposare il corpo, e trovi i granai pieni di nuove messi.)
122. Sul campanile della chiesa di San Giorgio di Peio in Trentino domina la grande figura di san Cristoforo, protettore dei viandanti.
Con questa precisazione e con l’indicazione del tragitto per Gerusalemme che da Stade, porto marinaro, Alberto consiglia avvenga tutto per mare, lungo una rotta che dopo aver circumnavigato la penisola iberica tocca Marsiglia e Messina, e giunge a San Giovanni d’Acri, l’abate completa il suo panorama. Effettivamente Alberto, mediante il dialogo dei due giovani, ha delineato con estrema chiarezza la mappa itineraria dei principali percorsi per Roma. Non solo, ma attraverso le alternative che propone e quelle che naturalmente si offrono, il pellegrino può scegliere una vasta serie di opzioni, tra le quali si evidenzia, a nostro avviso, il tratto Bologna-Firenze che permette un facile collegamento tra i percorsi che confluiscono nell’Emilia e la francigena. Emerge chiaramente anche come il sistema itinerario romeo si sia spostato ad est. Basta leggere i nomi delle città toccate per individuare tutte le maggiori città commerciali e culturali dell’epoca. È certamente significativo anche il tracciato che si stacca dalla via dell’Alpe di Serra e che passa per Assisi, come d’altronde aveva fatto negli stessi anni Matthew Paris, che addirittura lo presenta come via diretta e consigliata per raggiungere Roma da Londra. Certamente la fama della santità di Francesco si è diffusa in tutto il mondo occidentale ed influisce prepotentemente nella scelta degli itinerari di pellegrinaggio e devozionali. Ne abbiamo un’ulteriore prova, sempre nello stesso periodo, nell’itinerario che percorre Eudes Rigaud, arcivescovo di Rouen, nel suo viaggio a Roma del 1254. Il prelato attraversa le Alpi al passo del Sempione, mostrando come ormai la rete stradale si sia ampliata a tutti i principali valichi alpini ed offra sempre maggiori possibilità. Passa per Milano, Bergamo, Ferrara e Bologna, proseguendo la via Emilia fino a Fano, da dove punta direttamente su Assisi per Cagli e il passo di Scheggia, quindi raggiunge Roma passando da Perugia, Todi, Narni e Civita Castellana.
Nuovi itinerari di devozione e nuove forme di pellegrinaggio nel tardo medioevo Il flusso dei pellegrini romei, a partire dalla fine del Trecento, trova nuove ragioni per spostare ancora di più verso est l’asse dell’itineranza devozionale della penisola. A partire dalla metà del XIV secolo si inizia ad affermare con sempre maggior forza il culto per la Madonna di Loreto. Una devozione che molti pellegrini non trascurano nel viaggio di
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andata o nel viaggio di ritorno. Si afferma così sempre di più l’uso della Flaminia, una via che dall’epoca romana non aveva mai cessato di funzionare e che ora attira numerosi pellegrini per la possibilità di raggiungere facilmente sia Assisi che Loreto. La via che si congiunge con l’Emilia a Rimini, dove nel 27 a.C. era stato eretto un arco in onore di Cesare Ottaviano Augusto in ricordo della sua azione di consolidamento e sviluppo delle vie consolari in Italia, ne costituisce il naturale prolungamento a nord verso Piacenza e le Alpi, e a sud verso Roma, Loreto ed Assisi. La strada seguiva la costa adriatica fino a Fano, quindi entrava nella pianeggiante valle del Metauro, dirigendosi verso gli Appennini lungo un percorso naturale che ne avrebbe garantito la persistenza nei secoli. La strettoia della gola del Furio era stata superata con una galleria realizzata nel 76 d.C. sotto l’imperatore Vespasiano. Questo traforo (forulus, da cui Furlo), diverrà uno dei luoghi più significativi della via, sia per il significato strategico che trascende nella guerra tra goti e bizantini, sia per l’assistenza che viene data ai pellegrini nell’antico monasterium Sancti Vincenzi de Petrapertusa, costruito a ridosso della galleria, sicuro alloggio e protezione. Per il facile passo di Scheggia (m. 632) la strada entrava in Umbria, toccando Sigillo, Gualdo Tadino, Nocera e Foligno, dove incrociava la strada per Assisi e quella per Loreto. Singolare è la sedimentazione di ricordi di pellegrinaggio compostellano, romeo e lauretano che rimane in questa zona dell’Umbria. Vi si venerano numerosi corpi santi di pellegrini (del beato Angelo a Gualdo Tadino, del beato Antonio Ungaro a Foligno, del beato Enrico re di Danimarca a Perugia, di san Pellegrino nell’omonima località…), si fondano numerose confraternite dedicate esplicitamente all’accoglienza dei pellegrini, tra cui tre (a Perugia, Assisi e Spello) formate esclusivamente da ex pellegrini compostellani, e nelle chiese abbonda l’iconografia connessa alla cultura e alla spiritualità del pellegrinaggio, con particolare riferimento a quella compostellana rappresentata in grandi vetrate e cicli pittorici. Acquista particolare rilievo Foligno da cui, con una sola giornata di cammino, si può raggiungere la Porziuncola di Santa Maria degli Angeli, che permetteva di lucrare numerose indulgenze, e la basilica di Assisi, sulle cui pareti Giotto avrebbe dipinto la vita di san Francesco. In senso opposto, lungo la via pletina, da Foligno si poteva, per il facile valico di Colfiorito, raggiungere facilmente la Santa Casa di Loreto. A Foligno, tra l’altro, si riunivano pellegrini marchigiani, abruzzesi ed umbri per intraprendere il viaggio a Santiago, o risalendo la Flaminia, o attraversando l’Umbria in direzione della Toscana, per la via indicata da Matthew Paris e negli Annales Stadenses. La città si riempie di ospedali per pellegrini, indice sicuro del loro transito. I romei che la seguivano in direzione di Roma ed i pellegrini compostellani che la risalivano verso nord avrebbero incontrato a San Giacomo, poco prima di Spoleto, in un luogo in cui, seguendo il torrente Spina, era possibile raccordarsi con Loreto, una delle più note rappresentazioni del miracolo del «pellegrino, la forca e il gallo», oltre che un buon ospedale per accoglierli. Il miracolo, che è diffuso in Italia principalmente lungo le vie di pellegrinaggio, costituisce, qui come negli altri luoghi in cui è rappresentato, uno degli indizi più sicuri per la ricostruzione di una via di pellegrinaggio, denotando una specifica e forte devozione tipicamente di pellegrinaggio. La strada continuava per Spoleto, Terni, Narni, Otricoli, Civita Castellana fino ad entrare a Roma per il ponte Milvio e a piazzale Flaminio. Da piazza del Popolo, ormai atrio della città, Sisto V aprirà una strada di oltre tre chilometri che attraversa tutta Roma fino a Santa Croce di Gerusalemme e che ha come cardine la chiesa di Santa Maria Maggiore. In realtà si tratta di un prolungamento della Flaminia che entra in Roma e diviene essa stessa parte integrale della città. Il piano urbanistico previsto, e in parte realizzato dal pontefice, si fonda, infatti, su un sistema di vie dritte che uniscono le basiliche e che convergono verso San Pietro. In piazza del Popolo i pellegrini sarebbero stati accolti, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, dai membri della confraternita della Santissima Trinità dei pellegrini che,
123. Lucca. Facciata della chiesa di San Michele.
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con i loro «sacchi» rossi, erano facilmente riconoscibili. Durante l’anno santo del 1575 la confraternita avrebbe accolto ed assistito nelle proprie strutture ben 172.000 pellegrini.
124. Assisi, Oratorio dei pellegrini. Affresco di sant’Antonio, che condivide con san Giacomo il patrocinio della cappella.
La Flaminia acquisterà sempre più valore con l’istituzione del giubileo e degli anni santi romani. Se nel 1300 la francigena, e soprattutto la sua principale variante costituita dalla strada regia romana che permetteva di incanalare un notevolissimo flusso da Bologna a Siena, passando per Firenze, portano ancora a Roma le grandi masse di pellegrini, che il Villani descrive e che Sercambi fa riprodurre nelle sue Croniche, nei secoli successivi un numero sempre maggiore passerà per la Flaminia, senza dubbio attratto dalle devozioni mariane e francescane che gli si offrivano. Con i giubilei cambia anche la forma di pellegrinare: rispetto ai viatores isolati o che viaggiano in piccoli gruppi, si afferma il costume di muoversi in grosse comitive formate da confraternite, parrocchie o comunità civili o religiose. Un vero fiume di persone si riversa verso Roma già nel 1300. Il Chronicon Parmense annota, in questo anno, che giorno e notte era possibile vedere le strade percorse da moltitudini di persone, quasi si trattasse di un esercito. Ulteriore sviluppo del modo di pellegrinare è quello di cercare di visitare più luoghi santi. Molti pellegrini dell’età matura del pellegrinaggio tentano di unire in un unico viaggio devozionale Roma, Santiago e Gerusalemme. Altri seguiranno itinerari diversi all’andata e al ritorno per inglobare più devozioni possibili, soprattutto mariane. Attitudine che moltiplicherà i percorsi e creerà connessioni fino ad allora non usuali, rese possibili anche per il miglioramento delle sedi stradali. Rispetto alle vie di pellegrinaggio medievali, che puntano direttamente alla meta per la via più rapida e forse anche, spesse volte, per l’unica possibile, dal giubileo in poi la rete viaria si estende notevolmente con un gran numero di varianti. Resta tuttavia essenziale il sistema di strade indicate negli Annales Stadenses con l’indicazione dei valichi alpini ed appenninici, come risulta d’altra parte dalle carte itinerarie del Cinquecento che li riportano chiaramente.
125. Stampa settecentesca con la basilica di Loreto e, in primo piano, un lungo corteo di pellegrini.
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Non va trascurato il collegamento con il mondo slavo che segue la costa adriatica per quella che ancora oggi si chiama via romea e che finiva per inserirsi nella via Emilia e quindi nella Flaminia, vero collettore verso Roma di tutte le vie procedenti dal settentrione e dall’Europa orientale, così come la francigena serviva come raccordo con il mondo franco-germanico e con le regioni nordoccidentali dell’Europa. Né va trascurato il collegamento con i porti della Puglia per il proseguimento del pellegrinaggio verso la Terra Santa, lungo quell’Appia traiana che, come la Flaminia, aveva retto assai bene e costituito l’asse viario più usato per raggiungere la Puglia ed in particolare il santuario di Monte Sant’Angelo, che attraeva un gran numero di pellegrini.
Sedimentazioni sul territorio Noi abbiamo ricostruito finora le vie di pellegrinaggio per Roma soprattutto attraverso la letteratura odeporica e sui riscontri di carattere storico e documentale che si trovano sul territorio. Ma trattandosi di vie di pellegrinaggio occorre far riferimento perlomeno a due altri indici che – come abbiamo detto – le caratterizzano e le fanno riconoscere come tali e, cioè, la presenza di ordini ospitalieri e la traccia determinata direttamente, o indirettamente, dagli stessi pellegrini, nelle tradizioni religiose e nei culti dei luoghi attraversati. Su tutte le vie indicate è, infatti, abbondantissima la struttura ospitaliera, sia quella sorta in loco ad opera di municipi, confraternite, corporazioni, istituzioni religiose e da parte di privati, sia quella promossa dagli ordini ospitalieri che tendono a situarsi lungo le principali vie di comunicazioni ed in particolare presso i principali nodi stradali. Abbiamo già visto che la politica iniziale, sia dei longobardi che dei franchi, è quella di fondare abbazie regie e di mettere sotto la propria protezione quelle già esistenti, o che si formeranno. È il primo sistema di sostegno ospitaliero al passaggio dei pellegrini. Noto è il caso dell’abbazia di Novalesa, di fondazione aristocratica che, entrata nell’orbita carolingia, continua ad estendere il proprio raggio d’azione fino ad incorporare, agli inizi del XIII secolo, l’ospizio che sul valico del Moncenisio era stato fondato dall’imperatore Ludovico il Pio, spingendosi, inoltre, con vaste proprietà sia nella valle della Dora che della Val d’Arc, in zone, cioè, percorse costantemente da pellegrini. L’assistenza ospitaliera, d’altra parte, non è un sistema unitario, ma tende a sovrapporsi, integrarsi e spesso anche a creare conflitti tra i soggetti che la esercitano, per motivi di competenze o di potere locale. A ridosso del valico del Moncenisio, oltre l’abbazia di Novalesa, svolge un’importante funzione ospitaliera quella di San Giusto, fondata nel 1029 da Olderico Manfredi, marchese di Torino e, soprattutto, l’Ordine di Sant’Antonio di Vienne, un ordine prettamente ospitaliero che è presente, non solo nei due lati delle Alpi, ma anche lungo la francigena e lo stesso Camino de Santiago. Uno dei capisaldi sulla via per Roma è costituito dal complesso di Sant’Antonio di Ranverso, dotato di un’importante foresteria dove si accoglievano ed orientavano i pellegrini che, lungo la valle di Susa, si apprestavano ad affrontare le Alpi per i valichi del Moncenisio e del Monginevro, lungo un percorso che è segnato, nei due lati delle Alpi, da case, proprietà ed ospedali degli Antoniani, ben riconoscibili per il tau che le qualificava come tali. Tra gli ordini ospitalieri, tuttavia, quello che ha una maggiore presenza sulle vie di pellegrinaggio, non solo italiane, è, senza dubbio, l’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, detto poi di Rodi ed oggi di Malta. I suoi ospedali, sia quelli propri che quelli acquisiti successivamente con la soppressione di altri ordini, come quello del Tempio, degli stessi Antoniani, o di San Lazzaro, si estendono su tutti i tragitti di pellegrinaggio indicati. In particolare, fin dal medioevo, sulla francigena e sulla Emilia-Flaminia. Anche l’Ordine del Tempio ha una presenza costante nei gangli della viabilità devozionale italiana, anche se il
126. Monte Sant’Angelo. Resti dell’edificio di epoca longobarda. La via francigena, oltre che via utilizzata da pellegrini romei, palmieri e compostellani, va considerata anche come micaelica per il frequente uso fattone per raggiungere il celebre santuario sul Gargano.
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127. Cuspide di Sant’Antonio di Ranverso. Il tau dell’Ordine degli Antoniani segnava il cammino verso i valichi alpini e i luoghi di accoglienza.
suo carattere militare più che ospitaliero gli fa preferire la struttura delle commenda e della magione piuttosto che quella del puro e semplice spedale per l’assistenza dei pellegrini. È presente anche l’Ordine del Santo Sepolcro, ma con un ruolo più occasionale, essendo istituzionalmente rivolto alla Terra Santa. Un discorso a parte merita l’Ordine di San Jacopo di Altopascio, detto del tau, che nasce sulla francigena, ed in funzione della francigena, tra Fucecchio e Lucca. La strada, infatti, in quel tratto diveniva pericolosa per paludi e boschi difficilmente praticabili. L’Arno «bianco» e «nero» con cui si indicavano, già in Sigerico, il flusso principale del fiume e rami, sempre da esso dipendenti, ma di acque stagnanti, rappresentavano il principale ostacolo nella zona. Dodici nobili lucchesi, secondo la tradizione, si riunirono per assistere i pellegrini di passaggio, in uno spedale già funzionante verso la metà dell’XI secolo. Nel corso del secolo successivo lo spedale possiede un ingente patrimonio fondiario, confermato e ribadito nelle bolle emanate da Anastasio IV (1154), Alessandro III (1169) e Innocenzo III (1198), che prelude alla trasformazione in un vero e proprio ordine ospitaliero. In effetti, nel 1239, papa Gregorio IX gli concede la Regola dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, considerata la più idonea per realizzare l’assistenza e l’accoglienza dei pellegrini. La concessione della Regola gerosolimitana, integrata dalle precisissime costituzioni del Gran Maestro Gallico, costituisce un vero e proprio salto di qualità che svincola l’istituzione dal proprio vescovo diocesano e la proietta verso l’esterno. È l’epoca di Gallico, che governerà l’istituzione per ventidue anni. Alla sua volontà e capacità si attribuiscono l’ampliamento dell’ospedale e delle fortificazioni, il conseguimento della Regola dal papa Gregorio IX e il diploma di Federico II che, nel 1244, conferma tutte le proprietà che l’Ordine possedeva ormai in molte parti d’Italia e in Europa. Una tendenza che verrà confermata nel secolo successivo, come risulta da un documento del 1360, quando il Gran Maestro Jacopo Chelli nomina Benedetto di Ser Piero di Lucca e Giacomo Micheli di Pescia «comendatores, preceptores, administratores, rectores et gubernatores» delle chiese, delle case e degli ospedali che possiede l’Ordine, incaricandoli tra l’altro di occuparsi della «ecclesiam hospitale et domos S. Jacobi de Ponte Pinsionis, diocesis Dartusen ac domun et hospitale Asturga, seu in civitatem Discoricem ac etiam domos quas dictum
128. Altopascio. Il complesso ospitaliero dell’Ordine di San Jacopo.
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hospitale de Altopassu habet in Pamplona cum omnibus suis iuribus…». L’Ordine di San Jacopo, che è detto anche del tau per la bianca croce di questa forma che lo simboleggia, svolge la sua attività, quindi, anche sul Camino de Santiago, così farà in Francia e perfino in Inghilterra, ribadendo in tal modo la sua vocazione ospitaliera. Infine, concludendo, possiamo notare su tutti i percorsi indicati la presenza di culti e devozioni connessi alla spiritualità del pellegrinaggio, sicuro indice del passaggio di pellegrini e dello specifico carattere di queste strade; anzitutto san Giacomo, non solo protettore di chi si dirige al suo sepolcro in Galizia, ma protettore in genere di chiunque percorra una via peregrinalis. Dai valichi alpini, dove frequentemente troviamo cappelle a lui dedicate, fino alla stessa Roma, la sua inconfondibile iconografia, con bordone e conchiglie, segnala chiaramente il cammino. Con lui troviamo frequentemente lungo la francigena e le altre vie romee i santi protettori di chi viaggia: san Cristoforo nei pressi dell’attraversamento dei fiumi, sant’Egidio in ricordo del suo santuario in Provenza, situato in un importante incrocio di vie di pellegrinaggio (i protettori dell’ospedale di Altopascio sono inizialmente proprio Jacopo, Cristoforo ed Egidio…), san Nicola di Bari, patrono dei mercanti ma anche di chiunque viaggi, san Michele, che lungo la francigena (a Pavia, a Lucca, a Sutri…) indica la strada a coloro che si recano al suo santuario sul Gargano, san Martino e san Leonardo, i cui corpi riposano su vie molto frequentate del pellegrinaggio compostellano. E naturalmente san Pietro e la Veronica, che ritroviamo spesso lungo le strade per Roma a ricordare ai pellegrini quale è la meta del loro viaggio e cosa avrebbero trovato. Tutti insieme, con i corpi santi, le devozioni locali, le tradizioni religiose spesso create da misteriosi ed anonimi «san Pellegrino», con i segni e i simboli del cammino, accompagnano il romeo verso la Città Eterna, costituendo un viatico forse più sicuro delle incerte guide medievali e forgiando più di ogni altra cosa lo spazio e il carattere sacro delle vie di pellegrinaggio per Roma, a partire da quella via francigena che per molto tempo ha costituito l’asse dell’itineranza devozionale in Italia.
129. Tau dell’Ordine di San Jacopo, inciso sulla base della torre di Altopascio.
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Juan Ignacio Ruiz de la Peña
Gli itinerari europei del pellegrinaggio a Santiago
Un sistema di comunicazioni favorito da vescovi e sovrani
130. Capilla de San Miguel a Oviedo. Gli apostoli accolgono, appaiati sui pilastri che sorreggono la volta, i pellegrini che visitano le numerose reliquie della Cámara santa. Tra essi san Giovanni e san Giacomo, riconoscibile per gli attributi del pellegrino.
Le prime notizie di pellegrini provenienti dai confini della penisola iberica e persino dall’altro versante dei Pirenei e diretti a Santiago, risalgono a date remote, come nel caso di Gotescalco, vescovo del Puy, nel 950, dell’abate Cesareo di Montserrat, nel 956, di Raimondo II marchese di Gothia e del vescovo Hugo di Vermandois, nel 961, o dell’eremita Simeone d’Armenia, nel 983 o nel 984. Si tratta comunque di riferimenti occasionali e si dovrà aspettare fino all’XI secolo, e più precisamente fino ai suoi ultimi decenni, per vedere come il Locus Sancti Jacobi eserciti un’attrazione in grado di suscitare un massiccio spostamento di persone – venute dai più diversi paesi europei e persino da terre ancor più lontane – allo scopo di visitare la Città dell’Apostolo. Proprio nel periodo a cavallo tra i secoli XI e XII si situa la nascita del fenomeno di internazionalizzazione dei pellegrinaggi a Santiago, della grande espansione europea del culto per san Giacomo, che si lega strettamente all’azione di protezione e alla gestione della politica di ripopolamento dei due sovrani ispanici coetanei – Alfonso VI di Castiglia e León (1072-1109) e Sancho Ramírez di Navarra e Aragona (1063-1094) –, entrambi sposati con principesse straniere, apertamente europeizzanti e pienamente consapevoli delle conseguenze benefiche di ogni genere che poteva comportare, per uno sviluppo integrale dei loro paesi, il fatto di incrementare i rapporti con l’Europa grazie al Camino de Compostela. Dal canto suo il vescovo Gelmírez, geloso custode della gloria della sede compostellana, dispiegherà un’abile e ben programmata politica propagandistica che, parallelamente all’azione dei re – dispensatrice di generose donazioni e privilegi al Locus Sancti Jacobi e al suo titolare – darà un impulso decisivo all’internazionalizzazione del pellegrinaggio jacopeo. Senza smettere di riconoscere la profonda influenza che la politica protettiva nei confronti del pellegrinaggio e mirante al ripopolamento urbanistico del Camino attuata da Alfonso, da Sancho Ramírez e dai loro successori, ebbe nello stimolare e nell’incanalare le correnti migratorie che, dalle terre situate al di là dei passi montani, fluivano lungo la via di Compostella, si può e si deve affermare – come fecero tempo fa M. Defourneaux e J.M. Lacarra – che queste stesse correnti stavano manifestando, accanto a movimenti dello stesso segno che si verificano simultaneamente verso altre direzioni in ambito europeo, l’effervescenza di una società in continua crescita dall’XI secolo. Per questa società europea in espansione, la mobilità geografica orientata da motivazioni dal carattere più diverso si offre in ultima istanza come una promettente aspettativa di elevazione della sua condizione giuridico-sociale ed
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economica; in questo senso lo stesso pellegrinaggio a Santiago di Compostella e i processi di ripopolamento che esso incanala dovrebbero essere considerati un’ulteriore manifestazione di questo fenomeno collettivo dell’Europa cristiana medievale. La stessa crescita del pellegrinaggio e la sua proiezione al di fuori dell’ambito della penisola iberica, sempre più accentuata, fanno sì che la Città dell’Apostolo si converta in un luogo di convergenza di persone venute dai più diversi paesi europei, e soprattutto dalla Francia, che a volte finiscono per stabilirsi in permanenza in questa città o in altre località situate lungo l’itinerario del pellegrinaggio, configurando in tal modo un vero e proprio movimento migratorio di massa, particolarmente vivace negli anni santi o della perdonanza, di cui ci offrono colorite notizie alcuni passi rivelatori di diversi testi dell’epoca. Della fama internazionale che il pellegrinaggio in onore di san Giacomo aveva già goduto agli inizi del XII secolo può dare un’idea un passo antologico ben conosciuto della Historia Compostelana, in cui si riferisce di un’ambasciata dell’emiro almoravide Ali Ben Yusuf, il quale, recandosi a Santiago, poté vedere «quanti pellegrini cristiani andavano verso Compostella o tornavano di lì per recitarvi orazioni… fin dall’altro versante dei Pirenei e da più lontano ancora (essendo) tanto grande la moltitudine di coloro che vanno e vengono da lasciar libera a mala pena la strada che si dirige a Occidente», per aggiungere poco più avanti che questa moltitudine si recava a venerare san Giacomo, «il cui corpo è sepolto nei confini della Galizia ed è venerato dalla Gallia, dall’Inghilterra, dal Lazio, dalla Germania e da tutte le province cristiane, soprattutto dalla Spagna». Assai più ampia, e caratterizzata da risvolti retorici facilmente individuabili, è la dettagliata e fantastica relazione sui popoli che il Liber Sancti Jacobi fa partecipare alla corrente di pellegrinaggio verso Compostella, dove fa atto di presenza, in pratica, la totalità delle genti che abitavano il mondo conosciuto di quell’epoca e di quelle anteriori, benché,
131. Moneta del re Sancho Ramírez di Aragona (1076-1094) rinvenuta nel suolo della cattedrale di Santiago.
132. I pellegrini diretti a Santiago erano spesso esenti dal pagamento di tasse e pedaggi, come risulta in questo documento (copia dell’inizio del XIII secolo) concesso dal re Sancho Ramírez per i pellegrini di passaggio per Jaca e Pamplona.
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dopo questa iperbolica enumerazione, il Liber restringa in termini molto più ragionevoli la provenienza dei pellegrini. «Provoca allegria e ammirazione contemplare i cori dei pellegrini in perpetua veglia presso il venerabile altare di san Giacomo: i teutonici su un lato, i franchi su un altro, gli italiani su un altro ancora…».
La rete europea degli itinerari di pellegrinaggi
133. Capitello commemorativo dell’inizio dei lavori della cattedrale (Cattedrale di Santiago, deambulatorio, 1075-1088). Copia in gesso. Al centro dei due angeli, il re Alfonso VI.
Tutti questi stranieri, fra i quali senza dubbio avranno occupato un ruolo di una certa preminenza numerica i francesi, i tedeschi e gli italiani di cui ci parla il Liber Sancti Jacobi, e che alimentavano fin dall’inizio del XII secolo la marea sempre nuova di pellegrini in marcia verso Santiago di Compostella, che strade seguivano? La risposta a questa domanda riporta alla questione dell’esistenza di vie che è possibile individuare, nel complesso della rete stradale medievale europea, come canali lungo i quali si svolgeva il pellegrinaggio, quelle frequentate dai pellegrini durante i loro viaggi alla volta di Santiago o di ritorno dalla Città dell’Apostolo. La fissazione dell’immagine storica del Camino de Santiago seguito dai pellegrini europei nel loro lungo itinerario nella penisola iberica, dai Pirenei fino a Compostella – e non soltanto come via di pellegrinaggio, ma come arteria commerciale e principale via di comunicazione fra i territori settentrionali della penisola e quelli situati oltre i passi montani –, è storicamente debitrice della descrizione contenuta nella famosa Guida (composta sicuramente da Aymerich Picaud verso il 1140) inclusa nel Libro V del Codex Calixtinus. Accanto alla Guida occorre tener conto anche di un altro testo narrativo, la Descrizio-
134. Il culto per san Giacomo è segnato sul territorio anche dalla diffusione di miracoli jacopei, in questo caso riprodotti negli affreschi (fine XIV secolo) della chiesa rupestre di San Michele alle Grottelle (Salerno).
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ne della Spagna del geografo arabo al-Idrisi, che segue soltanto di alcuni anni la prima, probabilmente nota a questo autore e da lui utilizzata. Così autorizzano a supporre le sorprendenti coincidenze che si possono cogliere in determinati passi di entrambi i testi. Tuttavia, l’esistenza di questa via e la sua percezione quale «vera spina dorsale dei regni cristiani, collegamento con l’estero, itinerario commerciale e militare nel medesimo tempo», secondo J.M. Lacarra, è assai precedente nei tempo, così come il nome stesso con cui viene designata o individuata, perché era quella percorsa dai pellegrini, dagli emigranti o dai commercianti che si recavano a Santiago. Già nel 1076 e nella donazione fatta da Alfonso VI a Cluny di Santa Maria di Nájera si segnala questo monastero «… latus de illa via que discurrit pro ad Sancto Jacobo», e questa via, in quello stesso anno, viene indicata come strata de francos, con una evidente allusione alla sua condizione di via principale di comunicazione fra le terre al di là dei Pirenei e la Castiglia. Poco tempo dopo, nel 1106, viene localizzato in strata Sancti Jacobi l’albergo di Foncebadón, negli aspri passi che danno sulle terre della provincia di El Bierzo. In questa stessa epoca e negli anni successivi si moltiplicano le menzioni (strata francorum, via francigena, iter Sancti Jacobi…) al Camino francese le cui tappe – dagli accessi ai passi pirenaici fino al Locus Sancti Jacobi – sono segnalate in modo dettagliato nella guida del Codex Calixtinus. Se l’itinerario ispanico del Camino de Santiago, grazie alle circostanziate informazioni contenute nella Guida, può essere ricostruito nei particolari nella fase iniziale dell’internazionalizzazione dei pellegrinaggi jacopei, le difficoltà tuttavia si moltiplicano quando si tratta di stabilire il tracciato degli itinerari europei del pellegrinaggio dai passi pirenaici. Le notizie contenute nella Guida consentono ancora di fissare l’itinerario e le località di passaggio delle principali strade seguite dai pellegrini in territorio francese, fino a che si fondono sul versante settentrionale dei Pirenei in due vie che, una volta entro i confini della Navarra ispanica, e precisamente a Puente de la Reina, convergono in un’unica via o Camino de Santiago. Ma le difficoltà per completare il tracciato di quegli itinerari oltre i confini della vicina Francia, attraverso le terre del Nord, del Centro o del Sud Europa, aumentano in rapporto con la lontananza, la moltiplicazione e la variabilità degli stessi. Gli itinerari europei del pellegrinaggio formano dunque una densa e complicata rete viaria su cui si proiettano le informazioni, a volte contraddittorie e non sempre abbastanza precise, di percorsi e resoconti di viaggi, sempre più numerosi nei secoli finali del Medioevo.
135. Il ponte sul fiume Pisuerga segnava il passaggio del Camino de Santiago tra il regno di Castiglia e quello di León.
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La presenza di vestigia toponomastiche, dediche devozionali, confraternite, località ed edifici destinati all’accoglienza e legati al culto per san Giacomo, può contribuire a disegnare il tracciato di queste strade europee, che in nessun caso, tuttavia, assumerà un’immagine ben definita dello sviluppo degli itinerari del pellegrinaggio come quella offerta dalla Francia e dai territori dei regni ispanici attraverso i quali fluiva la marea dei pellegrini. D’altra parte, accanto agli itinerari ricordati nella Guida del Codex Calixtinus, ci sono ovviamente quelli dei pellegrinaggi via mare, tanto importanti per la Gran Bretagna e i paesi nordici a partire dal XII secolo, oltre ad altri itinerari via terra e ad alcune deviazioni dal Camino de Santiago nella penisola iberica, come la cosiddetta via del Nord, che percorreva le terre rivierasche del versante cantabrico, quelle seguite dai pellegrini che provenivano dalle regioni del Portogallo, del meridione della Castiglia o dalla Catalogna, e soprattutto l’importante e antica deviazione costituita dal Camino francés, che da León, attraverso il passo di Pajares, conduceva al santuario di San Salvador de Oviedo, frequentato fin dalla fine dell’XI secolo da molti pellegrini, spagnoli e stranieri, che compivano il loro pellegrinaggio a Santiago.
Le quattro vie dalla Francia ai Pirenei
136. Santiago, Museo della cattedrale. Particolare della pala d’altare in legno e alabastro policromati (Nottingham, prima del 1456) offerta dal pellegrino John Goodyear.
La Guida enumera le quattro vie che dalla Francia conducevano i pellegrini a Santiago. La prima, che era anche quella più meridionale, sarebbe partita da Arles, ed è la cosiddetta via tolosana, conosciuta anche come chemin de Saint-Gilles e provenzale o della Linguadoca. Probabilmente si tratta della via più antica e più importante fra gli itinerari per Santiago situati al di là dei Pirenei, perché era quella che collegava tra loro i due grandi santuari della cristianità d’Occidente dove si veneravano tombe degli apostoli: Compostella e Roma; e questa associazione si trova già stabilita in antichi riferimenti risalenti all’XI secolo, che alludono al «camino de Sancti Petri qui vadit ad Sanctum Iacobum». Questa via meridionale era quella più frequentata dai pellegrini che, arrivando dall’Italia, dalla Grecia e da altri paesi del Sud e dell’Est europeo, si dirigevano a Santiago, così come dagli abitanti della penisola iberica che compivano i loro pellegrinaggi verso Roma e Gerusalemme.
137. Tratto dell’antica strada verso Santiago nelle Asturie.
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La Guida ci descrive le località principali lungo il suo percorso, con l’indicazione dei luoghi che i pellegrini dovevano visitare: Saint-Gilles, Montpellier, e poi da lì a Tolosa lungo la via costiera, attraversando Bezières, Narbona e Carcassonne, oppure optando per la via lungo l’interno, che proseguiva per Saint-Pons e Castres, per la quale si raccomandava una visita al sepolcro di san Guglielmo, mentre per la prima alternativa viene menzionata, come località eminente, quella della sepoltura dei santi martiri Tiberio, Modesto e Fiorenza, sulle rive dell’Hérault. A Tolosa una visita obbligata era quella alla chiesa di Saint-Sernin, e di lì la via tolosana proseguiva attraverso quello che verrà chiamato camin romiou, che passava per Auch e si inoltrava lungo le valli che si aprono sul versante settentrionale dei Pirenei, per iniziare a Oloron la salita verso il passo di Somport (Summus Portus), dove si innalzava uno dei tre grandi ospedali che l’autore della Guida considera «luoghi santi, templi di Dio, luoghi di accoglienza per i fortunati pellegrini». Di lì i pellegrini si inoltravano in territorio aragonese, arrivando fino alla città di Jaca, capitale del regno fondata da Sancho Ramírez, per attraversare in seguito la città di Sanguesa, convergendo a Puente de la Reina, già entro i confini della Navarra, con quelli che seguivano l’itinerario che superava la frontiera costituita dai Pirenei attraverso il passo di Ibañera e Roncisvalle. Anche Arles, come già accennato, era una località dove convergevano i principali itinerari seguiti dai pellegrini provenienti dall’Italia e dai paesi sudorientali europei. Il Camino italiano per Compostella, ricostruito da P.G. Caucci von Saucken a partire dalle informazioni fornite da interessanti itinerari e racconti di viaggio molto più tardi, fondamentalmente del XV secolo, era collegato con la più meridionale delle vie francesi, superava le Alpi attraverso i passi del Moncenisio e del Monginevro, ricevendo il nome di via francigena per il fatto che, durante il Medioevo, era l’asse principale di comunicazione fra Italia e Francia, nonché il percorso normalmente seguito dai pellegrini che compivano il viaggio fra le città di Santiago e di Roma, motivo per cui verrà chiamata anche via romana. Questo itinerario si sovrapponeva ad antichi tratti di vie romane – la Cassia, l’Aurelia e l’Emilia – e adottava una disposizione assiale rispetto alla penisola italica. Da Roma, in direzione nord, le principali tappe di questa strada italiana dei devoti di san Giacomo erano, fra le altre, Sutri, Viterbo, Radicofani, Siena, Altopascio, Lucca, Fidenza, Piacenza, Alessandria, Torino; in seguito la via romana varcava il passo alpino del Monginevro e si inoltrava nei territori della Provenza per collegarsi ad Arles, come già detto, con la via tolosana. Ovviamente, così come succede in Francia, in Germania e in Spagna, c’erano diverse deviazioni e percorsi alternativi a questa via per i pellegrini diretti a Santiago; per esempio, quella che bordeggiava le coste liguri o quella che, varcate le Alpi, continuava fino a Lione per riunirsi con la via tedesca, che era percorsa da molti pellegrini provenienti dalle regioni meridionali della Germania e che sarebbe stata descritta da Bartolomé Fontana nel corso del suo viaggio a Compostella nel 1538, scegliendo la strada che qualifica come «il vero camino dritto de S. Giacopo usitato anticamente». In ogni caso, la stessa disposizione assiale dell’itinerario principale, la via romana, descritto sopra, facilitava la convergenza su di esso delle numerose vie che solcavano la penisola italiana o che venivano dai paesi orientali. E per quella via passò, come afferma Caucci von Saucken, «la maggior parte dei pellegrini italiani che si recavano a Compostella». Nella via tolosana, d’altra parte, confluiva anche una delle vie più frequentemente scelte dai pellegrini che arrivavano dal Centro Europa, seguendo le raccomandazioni dell’itinerario redatto da Hermann Künig von Vach, certamente nel 1495. Questo monaco dell’ordine dei Servi di Maria incomincia il racconto del suo pellegrinaggio a Einsiedeln, e poi continua il suo viaggio attraversando Lucerna, Berna, Losanna e Ginevra. In territorio francese, una volta superate le Alpi, la strada discende lungo le valli del Rodano e
138. Tolosa, chiesa di Saint Sernin (fine XI-metà XIV secolo), importante luogo di transito verso Santiago.
139. Pistoia. Fregio con i simboli del municipio di Pistoia e del tau che fa riferimento all’ordine ospitaliero degli Antoniani, al quale apparteneva l’edificio.
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67. Il Cristo in maestĂ del portale di VĂŠzelay, la cittĂ dove si raccoglievano i pellegrini diretti a Santiago provenienti da oltre il Reno, dalla Francia settentrionale e dalla Borgogna.
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68. Il chiostro e la torre campanaria di St. Trophime di Arles, la cittadina provenzale dove facevano tappa i pellegrini provenienti dall’Italia.
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69. La statua della sainte Foy che veniva venerata nell’abbazia di Conques dai pellegrini che percorrevano la via podense.
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70. L’Ultima Cena, la Crocifissione e la Resurrezione di Cristo sovrastano il portale della chiesa del Santo Sepolcro di Estella, la città dove i fedeli si arrestavano per venerare la Vergine del Puy.
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71. Puente la Reina, dove le vie che hanno condotto i pellegrini oltre i Pirenei si riuniscono per attraversare il fiume Arge.
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72. A Santo Domingo de la Calzada, secondo la tradizione, avvenne il miracolo del pellegrino, la forca e i galli.
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73. A poca distanza da Burgos, nel monastero di San Juan de Ortega è venerato il discepolo di Domingo de la Calzada, che si dedicò all’accoglienza dei pellegrini che vi giungevano.
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74-75. Burgos, caput castellae, al punto d’incontro delle vie per i porti del nord e per la Francia, divenne prima tra le città di Castiglia, come documenta la sua splendida cattedrale gotica, ma rimase tappa del pellegrinaggio jacopeo, con oltre trenta ospizi.
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76. La collegiata di Santa Maria del Manzano a CastrojĂŠriz.
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77. L’ospizio di San Nicolas di Ponte Fitero, a Itero del Castillo, collocato presso l’attraversamento di un corso d’acqua, è uno dei numerosi luoghi di accoglienza dei pellegrini sorti lungo il cammino.
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78. La chiesa del monastero di San Martín a Frómista, la città che contava quattro ospizi per i pellegrini.
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79. La basilica di Sant’Isidoro, pantheon dei re asturiano-leonesi, a León, la città più ricca di chiese e monasteri tra quelle disposte lungo il Camino.
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80. Il castello dei Templari di Ponferrada, capitale del Bierzo.
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81. Cebreiro, presso Lugo, dove si venerava il miracolo eucaristico avvenuto nel 1300.
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82. Un antico ponte nel tratto finale del Camino.
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dell’Isère per collegarsi infine alla via tolosana già descritta nella Guida. L’itinerario tracciato da Künig corrisponde a una delle vie di pellegrinaggio europee più frequentate dai tedeschi: la Oberstrasse, «via alta», cui si contrappone la Niederstrasse, «via bassa», che lo stesso Künig segue nel suo viaggio di ritorno da Compostella verso la Germania, passando per Bayonne, Bordeaux, Poitiers, Tours, Orléans e Parigi, seguendo in tal modo la via turonense segnalata dalla Guida, e continuando poi per Arras e Valenciennes; una volta nei Paesi Bassi, da Bruxelles proseguì fino ad Aquisgrana, dove concluse finalmente il suo itinerario.
140. Kalkar. Nicolaikirche. Statua lignea di san Giacomo in trono e i suoi devoti.
141. Frontespizio dell’edizione di Lipsia del diario di viaggio e guida per pellegrini Walfart und Strass zu Sankt Jacob (1521) di Künig von Vach.
Il Camino che inizia a Notre Dame del Puy è il secondo itinerario per Santiago fra quelli descritti nella Guida, e prende il nome di via podense. Località principali lungo questo itinerario erano Sainte-Foi di Conques, dove si innalza una basilica in cui è sepolto il corpo di questa vergine e martire, e dove «numerose grazie vengono concesse a sani e malati», Cahors, nelle cui vicinanze sorge il santuario di Rocamadour, che arriverà a godere di grande fama, dal momento che i pellegrini francesi lo faranno conoscere anche in località lontane lungo il Camino de Santiago nei territori iberici, come la città di Oviedo, dove all’inizio del XIII secolo esisteva un albergo che recava questo nome. Moissac era un’altra tappa importante della via podense, che, una volta attraversata la Garonna, si inoltrava nei territori bearnesi per riunirsi infine a Ostabat con le altre due importanti vie percorse dai pellegrini: la lemovicense e la turonense. La via podense prolungava il suo itinerario verso la Germania ramificandosi in diverse strade che erano frequentate dai pellegrini centroeuropei. In effetti la stessa Guida allude espressamente ai «borgognoni e teutonici che vanno in pellegrinaggio a Santiago lungo il camino del Puy», anche se sappiamo che a questi pellegrini si presentavano diverse possibili alternative, nella complessa rete viaria dei pellegrinaggi europei, i cui tracciati si moltiplicano nella misura in cui ci si allontana dai punti di partenza delle quattro principali vie descritte nel Codex Calixtinus. La via lemovicense, che prende il suo nome da Limoges, una delle principali tappe finali di questo itinerario, partiva da Vézèlay, località per la quale la Guida raccomanda la venerazione delle reliquie di santa Maria Maddalena. Questa via percorreva i territori delle regioni centrali della Francia, attraversando, fra le altre località di una certa importanza, Bourges, San Leonardo di Limoges – sulla cui fama si dilunga ampiamente il redattore dell’itinerario –, per proseguire verso la città di Périgueux, dove si venerava il corpo di san Frontone. Una volta superata la Garonna, il camino proseguiva fino a Mont-de-Marsan e di qui per Orthez e Ostabat, punto di convergenza, come abbiamo già visto, con le vie podense e turonense. Quest’ultima, la più occidentale in territorio francese, molto frequentata e ben nota grazie alle informazioni offerte dai racconti di numerosi pellegrini e viaggiatori, partiva da Parigi, importante centro di comunicazioni dove confluivano altre vie di pellegrinaggio che prolungavano il loro percorso fino ai Paesi Bassi e al Centro e Nord Europa. La Guida segnala come località da visitare per «coloro che si dirigono a Santiago lungo il camino di Tours», la chiesa della Sainte Croix, nella città di Orléans, e a Tours, sulle rive della Loira, «il glorioso corpo di san Martino». La via proseguiva attraversando Saint Jean d’Angély, Saint Euthrope di Saintes, per raggiungere la costa a Blaye, nel delta formato dalla Garonna laddove riversa le sue acque in mare; e di lì fino alla città di Bordeaux, il cui porto, molto attivo, insieme a quello vicino di La Rochelle, svolse durante il Medioevo un ruolo importante nello sviluppo dei pellegrinaggi via mare a Santiago. A Bordeaux si segnala la chiesa di San Severino, dove veniva custodito l’olifante di Orlando, che stuzzicava la curiosità dei pellegrini. Di lì il camino percorreva «in tre faticose giornate le lande
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bordolesi», terre povere, malsane e con scarse attrattive, fino ad arrivare a Lesperon. Qui si diramava una deviazione che conduceva a Bayonne, benché l’itinerario segnalato dalla Guida fosse quello che proseguiva fino a Dax per continuare poi fino a raggiungere il punto di collegamento con le vie turonense e podense a Ostabat. Non occorre insistere oltre sul carattere non esclusivo di questi quattro itinerari classici del pellegrinaggio a Santiago in Francia, così come sull’esistenza di numerose alternative e sulla moltiplicazione di altre vie nel tempo e in questo spazio francese la cui rete viaria devozionale, ben nota soprattutto grazie agli studi di René de La Coste-Messelière, fa di questo grande paese – come osserva con ragione questo autore – un vero e proprio «crocevia europeo, mentre anche i suoi abitanti fornivano un gran numero di pellegrini».
Il percorso nella penisola iberica e alcune varianti Il camino unificato a Ostabat iniziava a Saint-Jean-Pied-de-Port l’aspra salita per varcare i passi dei Pirenei e per giungere infine, ormai sul versante meridionale della catena montuosa, a Roncisvalle, la località evocativa dove sorgeva un importante ospedale che dipendeva dall’abbazia lì ubicata. Da Roncisvalle il camino si inoltrava nelle terre della Navarra, passando per la città di Pamplona e ricollegandosi infine a Puente de la Reina con la via tolosana che penetrava in Spagna attraverso Somport. A partire da Puente de la Reina, i diversi itinerari europei del pellegrinaggio a Santiago si fondono in una sola via, la strata Sancti Jacobi, il Camino francés, in definitiva il Camino de Santiago ispanico, che la Guida ci descrive con gran ricchezza di particolari – tappe, distanze, caratteristiche dei luoghi che attraversa e dei popoli che li abitano, santuari, ospedali… – e sul quale, oltretutto, offrono informazioni molto abbondanti e significative
142. Jacob Matham (1571-1631), San Giacomo pellegrino, incisione.
143. Il grande monastero di Santa Maria di Roncisvalle, sicuro rifugio per i pellegrini che attraversano i Pirenei.
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altre fonti di tipo alquanto diverso: itinerari, racconti di pellegrini, testi narrativi di varia natura, documenti di carattere locale, ecc. Anche Estella, che si trova ancora entro i confini della Navarra, si presentava come un’altra importante città lungo l’itinerario del pellegrinaggio. Il camino penetra nel regno di Castiglia varcando l’Ebro a Logroño, il primo nucleo urbano che s’incontra in questo regno. Le tappe si accorciano nelle prolungate descrizioni delle fonti che ci fanno conoscere il pellegrinaggio: paesi e città dove venivano accolti i pellegrini si succedono lungo il Camino francés. Tutti questi centri sono in gran parte debitori del loro sviluppo urbano all’incremento demografico e alle attività mercantili che accompagnavano il tracciato delle vie di pellegrinaggio per Santiago: Nájera, Santo Domingo de la Calzada, Belorado, la grande città di Burgos, capoluogo della Castiglia, Castrogeriz, Carrión de los Condes, la vecchia città di Sahagún, sede di una famosa abbazia. Entrando nel territorio di León incontriamo Mansilla, città regale nonché sede di un vescovado, da dove partiva la deviazione che, varcando i passi elevati della cordigliera cantabrica, conduceva alla città santuario di Oviedo. Da León il camino principale per Astorga continuava inoltrandosi nei territori di El Bierzo, ormai nell’«anticamera» della Galizia: Molinaseca, Ponferrada, Cacabelos, Villafranca sono insediamenti strettamente legati fin dalla loro origine all’itinerario del pellegrinaggio a Santiago che risale il passo del Cebrero per incontrare le ultime tappe galiziane: Tricastela, Sarria, Portomarín, Mellide e, infine, la splendida città di Compostella, l’agognata conclusione di questo camino, meta delle speranze di folle di pellegrini provenienti da tutta l’Europa.
144. Itero del Castillo, Burgos. San Nicolás de Puente fitero (XII secolo) restaurato dalla Confraternita di San Jacopo e adibito all’accoglienza degli attuali pellegrini che percorrono il Camino de Santiago.
In epoca più tarda, dal momento che non si generalizzerà come itinerario del pellegrinaggio prima del XIII secolo, comincia a svilupparsi il cosiddetto camino costiero, favorito dalla fondazione di nuovi centri dotati di installazioni portuali che, a partire dalla fine del XII secolo, abbelliscono il litorale cantabrico basco, asturiano e galiziano. Da questa via costiera e da quella interna – la principale, descritta sopra – si distaccavano collegamenti secondari, tra cui vale la pena segnalare quello che, attraverso il tunnel di San Adrián, univa Bayonne alle città della provincia basca di Guipuzcoa e Vitoria, a Burgos e al tratto del Camino francés che percorre la regione di Rioja, o ancora a quello che in Asturia e Galizia conduceva a Oviedo e Lugo per immettersi anch’esso sulla strada principale.
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Le vie terrestri non esauriscono tutti i possibili canali lungo cui si svolgeva il pellegrinaggio a Santiago. Per i pellegrini provenienti dalla Gran Bretagna e dai paesi nordici, le vie marittime presto sono percorse da navi che hanno come destinazione finale la Città dell’Apostolo. Sovente questi pellegrinaggi rivestono un carattere misto: dopo l’approdo ad un porto della costa atlantica, i viaggiatori continuavano seguendo qualche via terrestre. Spesso, tuttavia, si compiva un viaggio diretto fino a qualche porto del litorale cantabrico, trai quali occorre segnalare soprattutto quello di La Coruña, città fondata all’inizio del XIII secolo, per la sua vicinanza al Locus Sancti Jacobi. Oggi conosciamo bene lo sviluppo di questi percorsi atlantici che canalizzavano una parte significativa dei contingenti di pellegrini diretti a Santiago di Compostella provenienti soprattutto dall’Inghilterra, come attestano i dettagliati elenchi di licenze e registri di imbarcazioni interessate a questa rotta marittima, che sono stati oggetto di pubblicazioni sistematiche negli ultimi anni. Del resto non era esclusivamente Compostella la destinazione di queste rotte marittime, che talvolta combinavano anche la visita al secondo grande santuario della penisola iberica, quello di San Salvador di Oviedo, verso il quale il pellegrinaggio – che, come abbiamo già detto, era strettamente associato a quello verso Santiago – comincia a svilupparsi fin dall’XI secolo. Così, nel 1423 una spedizione di pellegrini s’imbarcava nel porto francese di La Rochelle per iniziare la traversata marittima che li avrebbe condotti a «Saint Jacques in Galizia e a Saint Sauveur nelle Asturie».
Le vie percorse dai pellegrini, terrestri o marittime, i diversi itinerari di un unico Camino de Santiago, infrangendo barriere politiche, svolsero per secoli il ruolo di canali attraverso cui avveniva una feconda comunicazione spirituale, culturale ed economica fra i paesi europei e una Spagna che nel Medioevo – e proprio sotto il patronato dell’apostolo san Giacomo – inizia una fase della sua storia segnata, in gran parte grazie alla benefica influenza derivante dai pellegrinaggi, da legami sempre più stretti con la comune storia europea. A ragione lo storico francese Ch. Higounet poté scrivere che «se vi fu un’epoca in cui si può dire con sicurezza che non c’erano i Pirenei, quest’epoca è stata il Medioevo».
145. Mellid, La Coruña, Cruceiro del XIV secolo.
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Marco Tangheroni
Itinerari marittimi a Gerusalemme
I primi resoconti di pellegrinaggio a Gerusalemme
146. Bronzo colossale, presso il Museo dei Conservatori a Roma. Viene considerato una raffigurazione di Costantino.
Il pellegrinaggio è un fenomeno presente in tutte le religioni, compreso l’ebraismo in seno al quale il cristianesimo nasce. Nel cristianesimo il luogo sacro è un luogo dove si è svolto un avvenimento concreto, testimoniato da una realtà materiale; il tempo sacro non è un tempo mitico, è il nostro tempo, non diverso dalla realtà profana, nella quale, con le coordinate proprie della storia (il luogo, lo spazio; «patì sotto Ponzio Pilato») il sacro ha fatto irruzione. In illo tempore: non l’illud tempus del mito, un «tempo aurorale», «paradisiaco», «oltre la storia», ma un tempo storico, e quindi anche un luogo storico. Tra le mete del pellegrinaggio cristiano, la Terra Santa è non soltanto una regione in cui sacro e profano si sono incontrati, ma la terra in cui Dio stesso si è incarnato (Nazareth), è nato (Betlemme), è morto e risorto (Gerusalemme), «follia per i Gentili, scandalo per gli Ebrei». Non stupisce, dunque, che fin dalla sua prima diffusione il cristianesimo abbia conosciuto il pellegrinaggio in quei luoghi, e soprattutto alla tomba in cui Gesù era stato seppellito e dalla quale era uscito risorto. Il movimento poté dispiegarsi soltanto dopo gli editti imperiali del 311 (Galerio) e del 313 (Costantino e Licinio) che concedevano piena libertà di culto ai cristiani. Costantino favorì, o promosse, una vasta azione di recupero e di trasformazione urbanistica e monumentale di Gerusalemme1, dove – come mostrano testimonianze letterarie ed epigrafiche – alla metà del IV secolo era già venerata la reliquia della Vera Croce. Non ne parla, invece, l’Anonimo Burdigalense2, prova che l’inventio ad opera di Elena, madre dell’imperatore, o per ricerche da lei fatte ordinare, non era ancora avvenuta o, comunque, non era ancora stata organizzata la venerazione, nel 333, anno in cui un passaggio stesso di questo testo consente di collocare il pellegrinaggio dell’autore. Non sappiamo chi fosse questo cristiano – primo pellegrino occidentale di cui abbiamo il dettagliato percorso – originario, si pensa, dell’Aquitania o della stessa Bordeaux. Da questa città, bagnata dalla Garonna e nei pressi dell’Oceano – come il testo dice – attraversò civitates, stazioni per il cambio dei cavalli (mutationes), posti di sosta lungo le vie (mansiones); con l’indicazione precisa della distanza in leghe o in miglia percorsa per ogni tappa, raggiunse Tolosa, Narbona, Béziers, Nimes ed Arles, dove giunse dopo 372 miglia, 30 mutationes e 11 mansiones. Da Arles a Milano, passando per strade interne dell’attuale Provenza e per le Alpi Cozie, percorse altre 475 miglia. La scelta del cammino si presenta, dunque, fin dall’inizio assolutamente terrestre e tale rimase in seguito, fino a Costantinopoli, raggiunta attraverso la penisola balcanica, poi in Bitinia, in Galazia, in Cappadocia, in Cilicia, ad Antiochia, a Tiro di Siria e finalmente in Palestina, regioni per
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le quali il testo offre, finalmente, indicazioni, pur sintetiche, sul valore storico-religioso dei numerosi luoghi visitati ed anche su qualche aspetto geografico particolare, come il mar Morto, «la cui acqua è amarissima, nella quale non vive alcun genere di pesce, né c’è alcuna nave». Soltanto al ritorno utilizzò un passaggio marittimo, da Aulona ad Odronto, cioè da Valona ad Otranto: uno spazio che egli valuta in 1.000 stadi, equivalenti a 100 miglia. Poi, sempre via terra, raggiunse Capua, Roma, la costa romagnola e, infine, per la via Emilia e le sue città, Milano. Non possiamo sapere le ragioni dell’opzione per un cammino quasi esclusivamente terrestre, né delle scelte fatte tra i possibili cammini terrestri. Certo, il sistema stradale romano, comprese tutte le opportunità di frequenti soste, relativamente confortevoli, e di cambio dei cavalli, funzionava ancora bene nella prima metà del IV secolo, dopo l’affermazione della pax costantiniana. Ma anche la navigazione mediterranea non presentava problemi seri, né quanto a sicurezza (pericoli di naufragi a parte) né quanto a possibilità di trovare passaggi sulle navi che, ancora numerose, assicuravano il collegamento tra il bacino occidentale e quello orientale del Mare Nostrum3. Quando, ad esempio, Girolamo, dal suo eremo di Betlemme, inviava lettere a corrispondenti sparsi un po’ ovunque nell’impero, ricevendone risposte e regali, utilizzava i servizi di capitani di imbarcazioni commerciali; in un caso una di esse proveniva addirittura dall’Atlantico, ex litore Oceani. La forma, secca, dell’Itinerarium Burdigalense, che è impossibile non riconnettere ad un’esperienza (personale? in gruppo?) di pellegrinaggio, non consente, comunque, di formulare ipotesi in qualche modo fondate.
147. Ricostruzione ipotetica di una parte della grandiosa chiesa costantiniana del Santo Sepolcro del IV secolo. Si vede la rotonda (vista da lato) che al centro del transetto è coperta dalla anastasis. A sua volta la rotonda contiene un’edicola che copre la tomba di Cristo scavata nella roccia viva.
Nei decenni successivi notevole fu il numero di pellegrinaggi di personalità cristiane occidentali in Terra Santa e a Gerusalemme, dove, nel frattempo, era stata portata a termine la costruzione dell’Anastasis intorno al sepolcro di Cristo. Basti qui ricordare i nomi della matrona Melania Seniore (il cui viaggio fu avventuroso e la obbligò ad una sosta ad Alessandria), di Rufino di Aquileia, di san Filastro vescovo di Brescia (e vale la pena notare, con Franco Cardini, che l’antico duomo di Brescia riproduceva forse la pianta dell’Anastasis), di Antioco vescovo di Lione, di san Gerolamo e santa Paola4, del diacono italiano san Sabiniano: punte a noi note di un movimento che era certamente più generale e che, nella maggior parte dei casi, si appoggiava a itinerari marittimi. Nulla invece sappiamo del viaggio compiuto da Egeria, la donna spagnola, probabilmente galiziana, che, quasi certamente alla fine del IV o all’inizio del V secolo, compì un pellegrinaggio del quale è stata ritrovata nel secolo scorso l’affascinante narrazione – indirizzata ad altre donne che condividevano, in patria, la sua prospettiva di vita ascetica5 –, mutila, però, della prima parte. E tuttavia è lecito ipotizzare che essa abbia compiuto il viaggio via mare, dato che rotte regolari assicuravano all’epoca i rapporti commerciali tra la penisola iberica e i porti orientali del Mediterraneo, in particolare Costantinopoli, la grande nuova metropoli dell’impero. Come ci risulta da una lettera di Simmaco, merci spagnole particolari, come
148. Porto di Pozzuoli nell’antichità, uno scalo dell’Italia meridionale verso l’Africa e il Medio Oriente. La rappresentazione risale al III-IV secolo d.C. ed è tratta da un vetro conservato al Národní Muzeum di Praga.
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149. Resti dell’anfiteatro romano di Arles, uno dei principali punti di imbarco del sud della Francia in epoca classica e tardo antica.
150. Modellino dell’edicola sovrastante il Santo Sepolcro, conservato nella Collezione Dumbarton Oaks di Washington.
i cavalli da corsa, erano trasportate in Oriente via mare, così come era assai richiesto lo sparto iberico, prezioso per la produzione di cordame. Né bisogna dimenticare i porti di Narbona, Arles e Marsiglia, nella Francia meridionale. Testo affascinante – dicevamo – l’ltinerarium Egeriae6, perché ci offre non solo la descrizione dei luoghi santi visitati e delle cerimonie liturgiche che vi si svolgevano, ma anche risonanze spirituali ben precise. Possiamo seguire Egeria, insieme a una comitiva di pellegrini, allorché si reca al monte Sinai per compiervi la già tradizionale ascensione, che «si fa con enorme fatica (cum infinito labore), poiché non si sale piano piano, a chiocciola, come si suol dire, ma direttamente, come su un muro… a piedi, perché non era possibile salire in sella, tuttavia non sentivo la fatica, perché vedevo compiersi, per volontà di Dio, il desiderio che avevo». Celebrata l’eucarestia, visitata la grotta in cui Mosè ricevette le tavole, ci fu anche il tempo per ammirare lo splendido panorama: «l’Egitto, la Palestina, il mar Rosso e quel mare Partenio che si stende fino ad Alessandria, e l’immensa terra dei Saraceni: tutto questo vedevamo là sotto di noi, pur se si può a stento crederlo; tuttavia quei santi ci mostravano quei luoghi ad uno ad uno». Lungo fu il pellegrinaggio di Egeria, che si spinse fino in Egitto, rientrò a Gerusalemme; ma poi, dopo un certo tempo, sentì il desiderio di salire anche al monte Nebo, dalle cui sommità contemplò il Giordano; un terzo viaggio la portò dalla Città Santa a visitare la terra e la tomba di Giobbe. Infine – ed erano ormai trascorsi tre anni dal suo arrivo a Gerusalemme – Egeria decise di fare ritorno in patria, via Costantinopoli ma non senza una lunga deviazione da Antiochia per Edessa (attirata dalla santità dei monaci e dalla tomba dell’apostolo Tommaso) e in Mesopotamia, sulle tracce di Abramo e di altri episodi e personaggi dell’Antico Testamento. La seconda parte del testo si sofferma a lungo sulla vita liturgica e devozionale della chiesa di Gerusalemme, con le cerimonie quasi quotidiane, le continue processioni al Santo Sepolcro, la chiesa del monte Oliveto e la processione notturna del Giovedì Santo e varie altre chiese di Gerusalemme e delle vicine Betlemme, ove si celebrava una liturgia particolarmente importante il giorno dell’Epifania, e Betania, dove la vigilia della domenica delle Palme – quel «sabato di Lazzaro» che ha anche oggi un ruolo importante nella liturgia pasquale ortodossa – si teneva una veglia solenne in una chiesa chiamata, appunto, Lazarium. Ancora numerosi sono i pellegrinaggi di occidentali di cui abbiamo ricordo per la prima metà del V secolo; e non pochi furono i cristiani che, dopo il sacco di Roma ad opera dei visigoti di Alarico (410), si trasferirono in Palestina, come Paola Juniore e Melania Juniore, a cercare nei luoghi santi insieme sicurezza materiale, distacco dai beni terreni, più profonda vita spirituale. Se il pellegrinaggio di san Petronio, vescovo di Bologna, è attestato solo da una più tarda tradizione, verso il 450 furono pellegrini a Gerusalemme il monaco romano Emiliano ed il celebre grammatico Prisciano. Pochi anni dopo papa Leone I vi mandò inviati personali. Ma, anche in questo caso, ci siamo limitati a fare qualche nome fra quelli di cui ci è giunta notizia, pochi, peraltro, rispetto al numero grande che è lecito ipotizzare. Le fonti ci mostrano monaci abituati a ricevere comunità numerose di pellegrini ed itinerari liturgico-devozionali molto affollati.
Attraverso il Mediterraneo tra tarda antichità e medioevo
scalo Medio
Intanto, il quadro storico cambiava. L’intensità dei traffici a lunga distanza diminuiva, anche se i dati archeologici confermano una, pur rallentata, sopravvivenza del commercio mediterraneo, beni non di lusso compresi, come i prodotti ceramici o il vino, che circolavano in una quantità ancora significativa, anche se non quanto e non ovunque come nei secoli
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precedenti. La rete degli scambi sussisteva, ma il sistema era in declino dalla fine del IV secolo, anche (ma non soltanto, come qualcuno ha pur sostenuto) per la progressiva contrazione, fino alla scomparsa, della domanda statale. Le invasioni provocarono la frantumazione dell’impero d’Occidente e la vita delle città marittime del Mediterraneo occidentale ne risentì, anche se in misura differente da città a città e da regione costiera a regione costiera. Ciò, si badi, in un processo non lineare, perché, ad esempio, la riconquista giustinianea dell’Africa, dell’Italia e di una parte non piccola delle coste spagnole del Mediterraneo, ebbe, intorno alla metà del VI secolo, un’importanza che sarebbe un errore sottovalutare solo perché i longobardi la resero di breve durata per buona parte dell’Italia e nel VII secolo gli arabi sottrassero all’impero prima l’Egitto e poi tutte le province africane. Non perdite dei fogli iniziali, come nel caso del «diario» di Egeria, ma il genere letterario stesso degli Itinera e delle Descriptiones fa sì che da testi di questo tipo, miranti a descrivere i luoghi santi, è difficile ricavare notizie sui modi con cui, nel mutato quadro mediterraneo, sempre più caratterizzato dalle difficoltà e dalla saltuarietà dei collegamenti, i pellegrini occidentali giungevano a Gerusalemme. Un esempio è il De situ Terrae Sanctae, opera di un certo Teodosio, collocabile verso la metà del VI secolo, giacché parla degli edifici costruiti dall’imperatore Anastasio (morto nel 518), ma non di quelli fatti fare da Giustiniano: una guida molto sintetica dei luoghi santi di Gerusalemme e di alcune altre città7. Qualcosa di più ricaviamo dal testo di un anonimo, il quale dichiara di essere partito da Piacenza, città dove si venerava sant’Antonino martire, di cui il nostro pellegrino era evidentemente fedele in modo particolare8, databile agli anni immediatamente precedenti il 570. Il suo Itinerarium prende il via da Costantinopoli, da dove raggiunse, ovviamente per mare, l’isola di Cipro, di cui descrive Constantia, «città bella, deliziosa, ornata di palme da datteri», ov’è la tomba di sant’Epifanio. Da Cipro – non sappiamo se con la stessa nave – arrivò in partes Syriae, a Tripoli; da qui, proseguendo nell’attuale Libano, passò attraverso città distrutte dal terremoto che le aveva colpite pochi anni prima, durante l’impero di Giustiniano: Biblio, Triaris, la splendidissima Beirut, un tempo sede di studi letterari, che – secondo il racconto fattogli dal suo vescovo – aveva avuto 30.000 morti, più un numero
151. Mosaico paleocristiano del IV secolo. Conosciuto come Carta di Madaba, Giordania, vi è raffigurata la Gerusalemme dell’epoca.
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152. Veliero commerciale alessandrino adatto alla traversata mediterranea. Bassorilievo votivo della corporazione dei Fabri Navales di Ostia, fine II-inizio III secolo. Collezione Torlonia, Roma.
indefinito di pellegrini, Sidone, abitata da gente malvagia (homines in ea pessimi), Tiro, città potente ma caratterizzata da una diffusa ed indicibile lussuria, e Tolomea, finalmente una città honesta, con buoni monasteri. Da qui il nostro anonimo entrò in Galilea, toccando Cana e Nazareth, ricca di vigneti, oliveti, frutteti e di altre particolari virtutes di cui diremo; poi ecco il nostro passare per il monte Tabor, con le sue tre basiliche, il lago di Tiberiade e la città dallo stesso nome, Cafarnao, ove una basilica è stata costruita sulla casa di Pietro, per poi discendere lungo il Giordano, con diversi luoghi legati alla vita di Gesù, compreso quello del suo battesimo, fino a Gerico, con la casa di Raab trasformata in xenodochio e con un campo dove Gesù avrebbe seminato con le sue mani, per arrivare, infine, a Gerusalemme. È stato scritto che il nostro pellegrino troppo facilmente crede a tutto ciò che gli viene mostrato come prodigioso, anche se in qualche raro caso aggiunge al racconto un prudenziale «si dice». In effetti, appare da questo testo come tutta una fittissima rete di localizzazioni evangeliche e bibliche ricoprisse ormai il territorio, con un probabile sfruttamento da parte degli abitanti (raro è il ricordo di comunità monastiche) dei pellegrini continuamente desiderosi di trovare qualcosa da venerare. Sono i prodigi – le virtutes – di cui il nostro parla così volentieri e così puntualmente. Nazareth, ad esempio, ne ha molte, tra cui una trave, conservata nella sinagoga, dove Gesù sedeva da bambino, la quale può essere sollevata dai cristiani, ma non dagli ebrei che in nessun modo potrebbero riuscirvi; e nella stessa città le donne ebree sono le più belle che si conoscano grazie ad uno speciale privilegio loro concesso da Maria, sì che esse – «per quanto gli ebrei non si comportino minimamente con carità verso i cristiani» – sono piene di inusuale carità. È, questo, il tema del rapporto tra reliquie e pellegrinaggi che non è nostro compito trattare qui9. Anche a Gerusalemme l’attenzione del nostro è attratta dai mirabilia, come una pietra nella basilica in cui è stata trasformata la casa di Giacomo, la quale, se «la prendi e la porti all’orecchio, dà un suono come di un mormorio di una folla di uomini». Non sia, però, il lettore moderno troppo ingiusto con i pellegrini del VI secolo. La fede era piena e l’emozione profonda. Si veda la descrizione dell’ingresso nella Città Santa, con i pellegrini proni
153. Il porto di Tiro, già fiorentissimo dall’epoca fenicia, sarà ampiamente utilizzato dai pellegrini per la Terra Santa. Qui è riprodotto in una incisione del 1839 di David Roberts.
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a baciare la terra, dopo un viaggio lungo, quasi preparatorio alla meta fondamentale. Né mancano indicazioni precise sulle strutture di accoglienza, come gli xenodochia maschili e femminili, con innumerevoli tavole da mensa e con ben tremila letti per i pellegrini infermi o troppo stanchi. Né dimentichiamo il fascino di ciò che era ormai, per un occidentale, autenticamente esotico, come il grande leone, terribile a vedersi ma mansueto, allevato in un piccolo monastero femminile, o i pochi beduini scuri (homines a parte Aethiopiae) scontrosi, con i loro cammelli e ornati da anelli intorno ad ogni dito del piede. La rarefazione dei contatti tra Occidente ed Oriente stava rendendo, e vieppiù avrebbe reso in seguito, sempre più diversi e lontani i modi di vita, sì che, anche quando i contatti torneranno a farsi più intensi, di nuovo numerosi i pellegrini, e con loro pure numerosi tanto i crociati (in fondo, poi, anche loro pellegrini, sebbene armati) quanto i mercanti, la differenza resterà grande come viva la conseguente curiosità per l’esotismo. Occorre tener presente, per l’alto medioevo, la forte contrazione, talora quasi cessazione, degli scambi tra Mediterraneo orientale e Mediterraneo occidentale, o, almeno, di quelli regolari, esito di un lento processo plurisecolare che affondava le proprie radici nella tarda età romana, accelerato dalle invasioni germaniche, parzialmente e temporaneamente contenuto dalla riconquista giustinianea, definito e completato dall’espansione araba. La vita marittima delle coste della Spagna visigota, della Francia merovingia e dell’Italia altotirrenica, ormai longobarda, raggiunse il suo livello minimo tra la fine del VII secolo e l’inizio dell’VIII. Non abbiamo notizie di un’eventuale attività dei principali porti tirrenici, Pisa e Genova. I due porti del regno merovingio, Marsiglia e Fos, cessano di vivere, come porti commerciali, tra il 670 e il 690. L’attività marittima sulle coste iberiche riprenderà con la conquista araba della penisola, ma solo all’interno del mondo musulmano. Ciò non significa la scomparsa di ogni presenza umana organizzata o, anche, di qualsiasi forma di vita marittima, legata alla pesca e al piccolo cabotaggio, sebbene di quest’ultima manchi, in fondo, la prova; è legittimo, infatti, non soltanto ipotizzarla, ma pure considerarla importante per il futuro come conservazione di conoscenze ed esperienze preziose per la successiva ripresa. Fondamentalmente, comunque, l’Europa occidentale appare ripiegata su se stessa e ruralizzata.
154. Piedistallo visigoto riutilizzato dagli arabi a Cordova, segno di un mondo cristiano spagnolo che perdeva iniziativa nei confronti del Mediterraneo.
Pure i pellegrinaggi verso la Terra Santa da parte degli occidentali non cessarono; furono più rari, più avventurosi, ma continuarono. Ecco, ad esempio, cosa scrive un grande anglosassone, il Venerabile Beda, nella sua Storia ecclesiastica degli Angli10: «Scrisse anche Adamnan un libro sui luoghi santi, uti-
155. Sezione della famosa «Cupola della roccia». Costruita nel 687 dal Califfo Abd al-Malik ibn Marwan in sostituzione della primitiva moschea di Omar. Eretto su di un rilievo roccioso sacro alle tre religioni monoteiste, la Cupola della roccia è divenuta il simbolo della Gerusalemme arabo-musulmana.
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lissimo per i lettori; suo ispiratore nell’apprendere e nello scrivere fu un vescovo delle Gallie, Arculfo, il quale per amore dei luoghi santi andò a Gerusalemme e visitata tutta la Terra Promessa fu anche a Damasco, a Costantinopoli, ad Alessandria e in molte isole del mare [Mediterraneo]; ritornando in patria su una nave, dalla forza della tempesta fu trasportato sulle coste occidentali dell’Inghilterra e, dopo molte vicende, arrivato presso il ricordato servo di Dio Adamnan liberalmente accolto da lui, e ancor più volentieri ascoltato, si preoccupò di raccontargli tutte quelle cose degne di ricordo che aveva visto nei luoghi santi e che questi lo mettesse per iscritto. Adamnan, poi, offrì questo libro al re [di Northumbria] Alfrido». Sappiamo anche che il libro fu dato ad Alfrido fra il 679 e il 688 e che Arculfo dovette essere a Gerusalemme intorno al 683, dopo la morte del califfo Mu’awwiya, il quale, poco prima, con grande venerazione, aveva avvalorato, contro gli increduli ebrei, il ritrovamento del lenzuolo posto, nel sepolcro, sul capo del Signore; così, almeno, secondo il racconto dello stesso Arculfo, riportato nel libro di Adamnan11. Dunque – per quel che qui merita di esser sottolineato – un pellegrinaggio, quello dell’altrimenti sconosciuto vescovo Arculfo, compiuto in gran parte per mare. Per mare si mosse nel Mediterraneo, come per mare stava cercando di fare ritorno in patria quando naufragò sulle coste inglesi: un viaggio, insomma, che prevedeva anche, almeno per un certo tratto, una navigazione atlantica. Merita di esser ricordata la struttura dell’opera di Adamnan: il primo libro è dedicato a Gerusalemme e alle sue chiese; il secondo libro a Betlemme, a Hebron, a Gerico, al Giordano, al mar Morto, poi, risalendo, a Cafarnao, a Nazareth, ma anche a Damasco (civitas regalis magna), Tiro (Fenicis provinciae metropolis) e Alessandria; il terzo, più breve, libro a Costantinopoli, dove Arculfo si era recato sostando un certo tempo nell’isola di Creta. Osservatore e narratore attento e preciso ci appare Arculfo, scrupoloso scrittore Adamnan, che talora confronta, a conferma, quanto gli è stato riferito con quanto aveva letto in vari altri autori, in particolare in Gerolamo. Nell’VIII secolo si raggiunse, probabilmente, il livello minimo dei rapporti tra Mediterraneo occidentale ed orientale. Col che non si vuol dire che non ci fossero più viaggi marittimi, giacché qualche possibilità di collegamento marittimo con l’Oriente, specialmente dall’Italia meridionale, sussisteva; ma si trattava di collegamenti difficili, rari e saltuari. Così, quando nel 723 Willibold voleva recarsi in Oriente, trovò imbarchi a Gaeta, a Napoli, in Sicilia e faticosamente riuscì a raggiungere Cipro, allora tributaria del califfato, ma ancora in rapporti con Bisanzio; quando finalmente sbarcò in Siria, però, fu arrestato insieme all’equipaggio cipriota, poi rilasciato in virtù di una testimonianza sulla sua condizione di pellegrino, di nuovo arrestato, di nuovo liberato, questa volta grazie
156. Efeso, ricostruzione della basilica di Giustiniano (H. Hörmann). L’imponente basilica era il centro della Efeso cristiana.
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ad uno spagnolo convertito all’Islam, infine costretto ad attendere a lungo per trovare un’imbarcazione diretta a Costantinopoli. Con Pierre Guichard si può sintetizzare così la situazione: «Ogni relazione non è dunque tagliata; ma si vede quanti pericoli e traversie frazionino ormai l’antica unità del mare». Abbiamo notizia di viaggi compiuti da diversi pellegrini nel corso dell’VIII e del IX secolo, ma sempre con incertezze, problemi, attese, pericoli. Il monaco Magdalvée di Verdun (VIII secolo) prima arrivò a Roma, da qui giunse al monte Gargano (col santuario dedicato all’arcangelo Michele) e, imbarcatosi in un porto pugliese, raggiunse Costantinopoli dopo una lunga navigazione, per poi trovare un passaggio per Efeso e Giaffa, il porto più vicino a Gerusalemme. Nel secolo successivo un altro monaco franco, Bernardo, insieme a due confratelli, dopo il tratto Roma-monte Gargano, si recò a Bari, allora sede di un emirato (civitas Sarracenorum), dove ottenne un lasciapassare che gli consentì di imbarcarsi per Alessandria, da dove, con un nuovo lasciapassare, poté arrivare in Terra Santa; al ritorno, si imbarcò direttamente dalle coste palestinesi per l’Occidente, raggiungendo, dopo due mesi, un porto della Corsica12. Il IX secolo vide la conquista islamica della Sicilia (che tagliò fuori la marineria bizantina dal Mediterraneo occidentale) e di Creta, base per incursioni anche contro la Grecia. Importante, in senso inverso, la riconquista bizantina di Cipro e Creta, poco dopo la metà del X secolo. Comunque, Venezia manteneva aperta una via di comunicazione con l’Oriente bizantino, lottando duramente nell’Adriatico, mentre gli amalfitani riuscivano a mantenere rapporti sia con centri islamici che con Costantinopoli. Importante anche perché dell’antica via Egnatia rimaneva in funzione soltanto il tratto Tessalonica-Costantinopoli, essendo la parte Durazzo-Tessalonica caduta in mano slava almeno dall’inizio del VII secolo13.
157. Pietro l’Eremita mentre predica la prima crociata (in basso) e in preghiera al Santo Sepolcro (in alto). Manoscritto (MS. 828) conservato alla Biblioteca municipale di Lione. Particolare del f. 1.
Nell’epoca delle crociate Intanto, la cristianità occidentale era percorsa da fermenti di ripresa, tanto economica quanto demografica; e la vita riprendeva vigorosa anche in alcune città marittime, in primo luogo a Pisa e a Genova, capaci di imporre nel corso dell’XI secolo, con importanti ed audaci spedizioni, la loro supremazia nel Mediterraneo occidentale, di nuovo aperto alle loro marinerie, presto seguite da quelle delle città provenzali e della Catalogna. Pisani e genovesi ritrovavano, inoltre, sulle orme di amalfitani e veneziani, le vie dell’Oriente, di quello bizantino come di quello musulmano. Insomma, il quadro del potere navale nel Mediterraneo era, nell’XI secolo, in via di radicale trasformazione14, proprio mentre l’accelerata dinamica dello sviluppo economico e della crescita demografica, insieme ad un forte senso di rinnovamento religioso, vedeva aumentare il numero dei pellegrini desiderosi di raggiungere la Terra Santa. Ma anche il quadro politico del mondo islamico conosceva profondi cambiamenti. Mentre il califfato ommeiade di Cordova tramontava e la Spagna islamica si frantumava in una serie di piccoli regni (taifas), in Oriente, a partire dal 1040, apparivano prepotentemente sulla scena i turchi selgiuchidi, di recente conversione all’Islam nella sua forma sunnita: dopo la conquista di parte della Persia, si impadronirono (1055) di Baghdad, bene accolti, peraltro, dal califfo abbaside. Nel 1070 il sultano Alp Arslan sconfiggeva nettamente l’esercito bizantino a Manzikert e poco dopo suo figlio strappava la Siria e la Palestina ai fatimidi d’Egitto, che peraltro riuscirono a riconquistare Gerusalemme nel 1098, mentre i crociati erano già arrivati ad Antiochia. I contrasti ed i conflitti all’interno del mondo musulmano, compresa la crisi che spezzò l’unità del grande impero selgiuchide, furono senza dubbio una condizione necessaria, anche se tutt’altro che sufficiente, del successo della spedizione crociata che arriverà, il 15 luglio del 1099, alla conquista di Gerusalemme15.
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158. La Cattedra di Elia della chiesa romanica di San Nicola a Bari. La statua di un pellegrino sostiene la cattedra.
D’altra parte la crociata aveva trovato una sua motivazione nelle difficoltà frapposte, sia pure saltuariamente, dalle autorità islamiche alla presenza cristiana in Terra Santa e di conseguenza ai pellegrini. Tra il 1004 e il 1014 il califfo fatimida Hakim aveva ordinato una persecuzione che aveva comportato pure la distruzione del Santo Sepolcro e di altre chiese di Gerusalemme. Ma lo stesso Hakim, proclamando la propria divinizzazione, era entrato in urto col mondo islamico e aveva dovuto riaprire ai cristiani e agli ebrei: un patto previde la ricostruzione del Santo Sepolcro che avvenne, però, soltanto nel 1046 grazie all’imperatore bizantino Costantino IX. Vari incidenti capitarono poi ai pellegrini cristiani a partire dal 1055 e i racconti relativi furono assai diffusi in Occidente, non senza qualche confusione con le vessazioni che il locale clero greco faceva ai cristiani latini dopo lo scisma costantinopolitano del patriarca Michele Cerulario. Siamo, comunque, nell’XI secolo, ancora in un’epoca in cui i pellegrini europei utilizzavano largamente il cammino terrestre attraverso l’Ungheria e i Balcani. Anche i partecipanti alla prima crociata privilegiarono itinerari terrestri, con l’eccezione dei catalani che raggiunsero l’Italia meridionale via mare e delle piccole spedizioni di Guynemer di Boulogne (1097) e di Edgar Atheking (primavera del 1098) che raggiunsero i crociati ad Antiochia navigando prima nell’Atlantico e poi nel Mediterraneo. Solo una piccola flotta organizzata a Genova (1097) ed una di 120 navi organizzata a Pisa dall’arcivescovo Daiberto (1098-99) apporteranno un importante, e decisivo, sostegno navale16. Dopo il successo della prima crociata ondate di pellegrini e di crociati (tra i quali non è facile fare una distinzione, anche perché le fonti li citano spesso congiuntamente) iniziarono a rivolgersi verso la Terra Santa, talora trovando anche difficoltà a trovare un imbarco a causa della sproporzione creatasi tra la domanda e l’offerta. Secondo la testimonianza del cronista Alberto di Aachen, nell’estate del 1102 arrivarono in Terra Santa duecento navi. I porti più utilizzati erano allora quelli della costa pugliese, Trani, Bari, Brindisi, Otranto e, un po’ più marginale, Taranto17, ed anche Barletta e Siponto. Non è un caso che nelle Consuetudini di Bari siano chiaramente distinte le navi mercantili (merciales) da quelle dedite al trasporto dei pellegrini (peregrinorum)18. Da Bari partì, intorno al 1130, per il suo secondo pellegrinaggio in Terra Santa anche san Teotonio. Prendiamo un caso concreto e seguiamo il racconto lasciatoci da un pellegrino britannico, Saewulf19, licet indignus et peccator Iersolimam pergens causa orandi sepulchrum dominicum, viaggio attentamente studiato da un grande specialista della storia della navigazione mediterranea, John Pryor20. Saewulf (nome che significa «lupo di mare» e che potrebbe essere uno pseudonimo o un soprannome) ed i pellegrini del suo gruppo non trovarono la possibilità di un viaggio diretto, almeno in parte fatto in mare aperto (per altum pelagus), forse perché erano arrivati in Puglia un po’ troppo tardi rispetto alle abituali date di partenza: dovettero, così, imbarcarsi in un porto minore, quello di Monopoli, il 13 luglio 1102, rischiando subito il naufragio a causa di un’improvvisa tempesta. Dopo esser stata costretta a ritornare fortunosamente in porto, la nave su cui egli si era imbarcato, riprese la rotta prevista, una rotta di cabotaggio che toccò diversi porti, tra i quali Brindisi (ove i danni della nave furono riparati), Corfù e Patrasso, giungendo, dopo ventotto giorni di navigazione, a Corinto. Di nuovo, per il tratto da Corfù a Kefalinnia, Saewulf parla di una grossa tempesta, ma, come Pryor ha ipotizzato anche per la precedente, pure in considerazione delle condizioni quasi sempre buone dell’Adriatico e dell’Egeo nel mese di luglio, è probabile che egli percepisse come terribili tempeste semplicemente un po’ di mare grosso. Arrivato il 9 agosto a Corinto, il nostro pellegrino subì diverse e peraltro imprecisate contrarietà (multa passi sumus contraria), potendo alla fine imbarcarsi per Negroponte, una delle più importanti isole dell’Egeo, dove giunse, dopo tre giorni di
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navigazione, il 23 agosto. Qui Saewulf dovette accontentarsi dell’imbarco su una nave bizantina dedita, evidentemente, al traffico tra le isole dell’arcipelago greco, giacché numerose, inspiegabili secondo venti e correnti, ed anche di durata tale da far pensare a operazioni commerciali, furono le soste in varie di queste isole. Finalmente riuscì ad arrivare a Rodi, famosissima anche per il colosso che – come il nostro ci ricorda – era un tempo annoverato tra le sette meraviglie del mondo. Indi, toccata Mira, già sede arcivescovile di san Nicola, Saewulf arrivò a Cipro, dalla quale, in sette giorni di tormentata navigazione in alto mare, giunse finalmente in Terra Santa, approdando a Giaffa, allora principale approdo dei crociati che non avevano ancora conquistato Acri, porto migliore e dalla conquista del 1104 generalmente preferito per i collegamenti con la Terra Santa. Nel porto di Giaffa – secondo l’annotazione del nostro autore – si trovavano allora una trentina di navi, dromoni (assai simili alle galee), gulafri e catti21; per la spaventosa tempesta che di nuovo si scatenò, terrorizzando Saewulf, solo sette imbarcazioni sarebbero rimaste illese, mentre i morti sarebbero stati un migliaio. Già all’inizio del XII secolo si potevano fare viaggi più rapidi e meno tormentati; ma, pur se sfortunato, Saewulf conobbe tempi e traversie che anche molti altri patirono. In ogni caso, «anche nella forma incompleta in cui ci è giunto, il racconto dei propri viaggi scritto da Saewulf è la migliore descrizione di viaggio per mare nel Mediterraneo nel XII secolo»22. Seguiamolo, sia pure rapidamente, anche nel suo pellegrinaggio in Terra Santa – pur rilevando che il suo testo, così personale prima, si uniforma a vari altri per la descriptio – al fine di verificare le condizioni in cui si trovavano i pellegrini subito dopo la conquista cristiana della Città Santa, in un regno appena fondato e solo parzialmente controllato. La salita da Giaffa a Gerusalemme si compiva in due giorni ed era un cammino «difficilissimo e pericolosissimo, perché i saraceni, sempre tesi ad insidiare i cristiani, si nascondono nelle caverne dei monti e nelle grotte dei rilievi vigilando giorno e notte, sempre osservando se possono attaccarli o per l’esiguità della compagnia o per l’essere rimasti indietro a causa della stanchezza… Lungo quella strada non solo i poveri ed i deboli, ma anche i ricchi ed i forti sono in pericolo: molti sono uccisi dai saraceni, molti muoiono per il calore e per la sete, per la mancanza d’acqua o, anche più, proprio bevendo». Sappiamo che, in effetti, questi pericoli – sebbene esagerati dal non propriamente coraggioso Saewulf – erano reali: proprio per proteggere i pellegrini, oltre che il regno, nasceranno i templari e si militarizzeranno gli ospedalieri. Dopo le visite ai luoghi santi di Gerusalemme, a Betlemme, a Betania, a Hebron, a Nazareth (città che gli appare devastata e rovinata dai saraceni), Saewulf intraprese il viaggio di ritorno, risalendo, per il timore di attacchi musulmani in alto mare, lungo la costa palestinese e siriana verso nord, vedendo le città del regno di Gerusalemme (has civitates Baldwuins flos regum possidet), poi Acri, civitas
159. Il porto di Giaffa, il più prossimo a Gerusalemme per i pellegrini. Da una incisione di David Roberts, 1839.
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fortissima ancora in mano ai saraceni; ma proprio prima di Acri il piccolo convoglio di tre navi fu intercettato da una flotta musulmana di ventisei navi che da Tiro e Sidone scendeva per appoggiare azioni di riconquista. Allora, «le due navi che venivano con noi da Giaffa, poiché erano più leggere, lasciarono sola la nostra»: tuttavia, il coraggio dimostrato nel prepararsi alla difesa avrebbe convinto – secondo il racconto che ci viene fatto – il comandante della flotta musulmana a rinunciare all’attacco. Cipro, Rodi, Samo, Smirne furono le prime tappe di una deviazione verso Costantinopoli e di un ritorno che le lacune del testo non permettono di definire.
160. Boemondo salpa da Antiochia, in Siria. Manoscritto (MS. 828) conservato alla Biblioteca Municipale di Lione, f. 26.
Nei decenni successivi, mentre il regno di Gerusalemme si strutturava in forme feudali, diverse spedizioni di soccorso furono organizzate in Occidente, anche se non entrano nel computo tradizionale delle crociate: quella dei norvegesi tutta via mare, attraverso il mare del Nord, la Manica, l’Oceano Atlantico ed il Mediterraneo, con passaggio dello stretto di Messina (1107-10); quella guidata da Boemondo di Taranto (1107-08); quella indetta da papa Callisto II, che da Venezia passò per Adriatico, Ionio ed Egeo (1122-26); quella del 1128-29, che compì un lungo percorso marittimo da Genova23. Sulla costa siro-palestinese, la conquista di Tiro offriva un nuovo importante porto alle navi cristiane e toglieva alla flotta musulmana una base pericolosa (1124); ma la caduta della contea di Edessa vent’anni dopo, con la perdita della Cilicia sottraeva agli Stati franchi un retroterra importante anche per i rifornimenti: fu allora indetta da papa Eugenio III e predicata dal suo maestro san Bernardo di Clairvaux quella che viene normalmente ricordata come «seconda crociata». In essa i crociati provenzali, partiti da Marsiglia, e quelli inglesi compirono il viaggio via mare, tenendosi, nel Mediterraneo, a sud della Sicilia, di Creta e di Cipro, con la dimostrazione che era possibile organizzare spedizioni navali, con cavalli, viveri e acqua, destinate a restare molto tempo in mare aperto, senza tappe logistiche; altri importanti contingenti europei attraversarono invece l’Italia e usarono le navi soltanto per il tratto Brindisi-Durazzo; infine, il grosso dei contingenti francesi e tedeschi arrivò fino a Nicomedia via terra, attraverso l’Ungheria e i Balcani, poi, mentre i pellegrini veri e propri, sotto la guida di Ottone vescovo di Frisinga, raggiunsero la Terra Santa attraverso l’Asia Minore, con un tragitto marittimo più breve, da Adalia a San Simeone, porto di Antiochia, questi crociati ritornarono, via mare, da Efeso a Costantinopoli, donde, dopo meno di un mese di sosta, raggiunsero, di nuovo via mare, Acri. La crociata ebbe – com’è noto – vicende alterne, ma fu segnata soprattutto dal fallito attacco a Damasco (1148). Meno di quarant’anni dopo (1187) il Saladino, riunificati, a partire dall’Egitto, i musulmani del Vicino Oriente, restituì Gerusalemme all’Islam. La «terza crociata», subito organizzata in Occidente, non riuscì a riconquistare la Città Santa, ma portò all’occupazione cristiana di
161. Porto di Sidone. Visione da terra del castello costruito dai Crociati.
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tutto il litorale siro-palestinese. Si noti: della dozzina di contingenti importanti che, sotto i vari sovrani o principi, partirono per il Levante, solo quello guidato dall’imperatore Federico Barbarossa non compì il viaggio per mare e la sua morte guadando un fiume, nel giugno 1190, appare, considerandola a distanza, come la conferma che ormai il mezzo migliore per recarsi in Terra Santa era rappresentato dalle navi. Le crociate del Duecento, a cominciare da quella che deviò contro Costantinopoli nel 1204, saranno ormai prima di tutto grosse spedizioni navali. Ed anche i pellegrini compiranno ormai il loro viaggio quasi sempre per mare. I sultani mamelucchi d’Egitto mantennero il controllo di Gerusalemme e dei luoghi santi fino a tutto il primo quindicennio del Cinquecento e, nel complesso, non ponevano troppi ostacoli all’afflusso dei pellegrini, che anzi in certa misura favorirono, pur se, una volta riconquistate le città costiere (ultima a cadere Acri nel 1291), si preoccuparono di smantellarle come porti ed empori, sia per scoraggiare tentativi di riconquista cristiana, sia per favorire il monopolio di Alessandria24.
162. Piccolo chiostro del convento francescano di Gerusalemme, a sud del Cenacolo.
Sotto il governo dei sultani d’Egitto La rete dei patriarcati, arcivescovadi e vescovadi latini, messa in piedi nei primi decenni del XII secolo, ovviamente, scomparve, ma alcuni vescovadi e un certo numero di monasteri poterono, per un po’, sopravvivere. D’altra parte, fin dagli inizi della loro esistenza, i nuovi ordini mendicanti avviarono un’attività missionaria: ben presto si spinsero, com’è noto, in tutto il continente asiatico, ma i luoghi santi restavano al centro della loro attenzione, in particolare dell’ordine dei frati minori. Questi ritornarono nella Palestina occupata totalmente dai musulmani e, con il sostegno diplomatico del re di Napoli, ottennero, fra il 1335 e il 1337, un monastero sul monte Sion, primo di una serie di luoghi santi recuperati alla cura cristiana e anche base di quella che, con riconoscimento pontificio, diventerà, ed è tuttora, la «Custodia francescana di Terra Santa», unica presenza cristiana organizzata accettata per secoli in modo ufficiale25. Proprio un francescano, di cui diremo tra poco, Niccolò da Poggibonsi, scriverà, intorno alla metà del XIV secolo, che «all’altare di santa Maria Maddalena ufiziano i Latini, cioè frati minori, ch’è di noi, Cristiani Latini; ché in Jerusalem, e in tutto oltremare, cioè in Soria e in Israel, e in Arabia, ed in Egitto, non ci à altri religiosi, né preti, né monaci, altro che frati minori»26. Vero è che, come rappresaglia ad attacchi cristiani, i frati subirono in più occasioni persecuzioni anche sanguinose. I pellegrinaggi continuavano dunque numerosi, anche se «gli itinerari si modificarono, allungandosi; molti preferirono sbarcare, anziché nell’insicuro e miserabile porto di Giaffa a poca distanza da Gerusalemme, ad Alessandria (dove gli occidentali erano molti e la vita sicura, e dove magari c’era qualche affare da concludere) e da lì guadagnare la Terra Santa per il cammino seguito da Mosè, visitando con l’occasione il santuario sinaitico di Santa Caterina. Itinerario ben più lungo e faticoso, ma che permetteva, en passant, la visita al gebel Musa (il monte sul quale Mosè aveva ricevuto le tavole della legge), a Hebron, luogo delle sepolture dei patriarchi, e a Betlemme. Tanto più che il pericolo di venir derubati dai predoni c’era comunque, si facesse la via di Giaffa o quella di Alessandria»27. In ogni caso, sia che la meta finale fosse Giaffa o, appunto, Alessandria, l’itinerario prevalente, lungo il quale, poi, saranno organizzati veri e propri «servizi di linea», prevedeva la partenza da Venezia; in alternativa il pellegrino, o, più spesso, i gruppi, grandi o piccoli, di pellegrini potevano scegliere di imbarcarsi a Genova o ad Ancona, e più raramente ancora a Pisa o a Napoli; fino almeno alla metà del XIII secolo rimasero importanti anche i ricordati porti pugliesi, molto utilizzati per i collegamenti con gli Stati franchi d’Oriente e per
163. Pellegrino di epoca crociata. Dal Commentario dell’Antico Testamento del XIII secolo, conservato alla Biblioteca Municipale di Tours.
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83. Venezia, uno dei porti di partenza per la Terra Santa, e la nave dei pellegrini raffigurati nel diario di viaggio di Steffan Baumgartner, Beschreibung einer Pilgerfahrt ins Heilige Land, del 1498. Germanisches Nationalmuseum, Norimberga, HS369, f. 2r.
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84. Particolare dell’esedra del portale principale della basilica di San Marco a Venezia.
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85. La cattedra del vescovo Elia con la raffigurazione di un pellegrino. Cattedrale di San Nicola, Bari, 1105 circa.
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86. La carta nautica di Albino de Canepa rispecchia la buona conoscenza geografica e la fitta rete di itinerari mediterranei organizzata nel XV secolo. Museo della SocietĂ Geografica Italiana, Roma.
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87. La cattedrale di Santa Sofia a Istanbul.
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88. Il castello crociato di Adana in Cilicia.
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89. Il ponte medievale a Mopsuestia, sulla via crociata verso la Siria.
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90. Antico percorso attraverso l’altopiano siriano.
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91. L’accesso alla grotta che la tradizione attribuisce a san Pietro, tramandato come fondatore e primo vescovo della chiesa di Antiochia. La città , oggi in Turchia, fu luogo di transito e sede di principato crociato.
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92. L’interno del Crac dei Cavalieri, uno dei piÚ famosi castelli crociati della Siria.
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93. Il porto di Akko, che i crociati ridenominarono San Giovanni d’Acri, uno dei principali approdi per la Terra Santa.
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94. La cripta della cittadella sotterranea dei crociati a San Giovanni d’Acri.
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95. Particolare dell’Iter de Londinio in Terram Sanctam di Matthew Paris, che mostra il porto e la città di San Giovanni d’Acri. Corpus Christi College, Cambridge.
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96. Burchard del Monte Sion, Gerusalemme e i luoghi santi. Bibliothèque Nationale, Parigi, Ms fr. 90-87.
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97. Il Mons Gaudi, da cui al pellegrino, proveniente da Emmaus, si apriva la visione della cittĂ di Gerusalemme.
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98. I pellegrini al Santo Sepolcro nel Liber Peregrinationis di Ricold de Montcroix. Bibliothèque Nationale, Parigi, Ms fr. 2810, fol. 274.
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99. Il mare di Galilea sulle cui rive la devozione dei pellegrini ha moltiplicato gli edifici in ricordo della predicazione e dei miracoli di GesĂš.
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100. La valle dove scorre il fiume Giordano, meta del pellegrinaggio cristiano fin dall’antichità .
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101. Nabi Musa, dove la tradizione vuole che sia stato sepolto Mosè, luogo di venerazione dei pellegrini cristiani.
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102. Betania, dove alla tomba di Lazzaro si ricorda il miracolo della resurrezione dell’amico operata da GesÚ.
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103. Alessandria d’Egitto, un altro approdo degli itinerari per mare, nell’immaginazione dei pittori italiani Gentile e Giovanni Bellini. La predica di san Marco ad Alessandria d’Egitto, Pinacoteca di Brera, Milano.
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104. Il monastero di Santa Caterina del Sinai, dove, secondo la tradizione già paleocristiana, Mosè ricevette le Tavole della Legge, era una normale estensione dell’itinerario per i pellegrini provenienti dall’Egitto.
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il passaggio di gruppi di crociati28, mentre in epoca federiciana, quindi dal secondo quarto del Duecento, anche Messina acquistò un ruolo importante per lo smistamento dei pellegrini29. Né bisogna dimenticare Marsiglia e Barcellona. Da Genova, ad esempio, si imbarcò, nel 1216, Jacopo da Vitry – l’autore della celebre Historia Orientalis – per raggiungere la sede vescovile di Acri cui era stato destinato. Sotto il nome di Jacopo da Vitry saranno poi redatti Itineraria anche nel secolo successivo, riprendendo ed integrando quello che egli aveva scritto30. Nel Trecento e nel Quattrocento i pellegrini si contavano ormai a migliaia per anno. Essi, dunque, richiedevano servizi navali importanti e alimentavano un giro d’affari tutt’altro che indifferente, specie per gli armatori veneziani. Centinaia e centinaia sono i racconti di viaggio, gli Itineraria, le Descriptiones, scritti in questi due secoli31. Tutte queste opere presentano spesso molti tratti in comune, specie per le parti relative a Gerusalemme e alle altre mete palestinesi, sì che si è ipotizzata l’esistenza di un testo base, una sorta di guida di riferimento; di recente si è fatto anche ricorso all’analisi fattoriale per ricostituire questa «guida del pellegrino a Gerusalemme»32. D’altra parte, abbiamo anche racconti molto personalizzati, di lettura divertente, talora pure di notevole qualità letteraria, sovente animati da una vivace curiosità non soltanto religiosa, in qualche modo da collegare con «la crescente voga dei memoriali autobiografici, viva soprattutto in ambiente mercantile… si è dinanzi a un genere letterario spurio, marginale. Ma non per questo meno stimolante»33. Anche un frate francescano come l’irlandese Simon Semeonis, pellegrino a partire dalla sua terra nel 1323-24, è, nel suo racconto, giuntoci incompleto34, molto attento ai prezzi e agli scambi, tanto da costituire una fonte importante per la storia commerciale dell’Egitto. In pagine come le nostre, centrate soprattutto sugli itinerari marittimi, merita qui ricordare il Libro di Oltremare di Niccolò da Poggibonsi, frate francescano pellegrino in diverse parti del Vicino Oriente tra il 1346 e il 135035, osservatore attento e preciso, che si portava sempre dietro, legato ai fianchi – come egli stesso ci dice – l’occorrente per scrivere. Partito da Venezia, egli fece scalo a Modone, nel Peloponneso veneziano, e a Nicosia di Cipro; a Gerusalemme assistette alla celebrazione della Pasqua e alla festa dell’Assunzione, poi si dedicò alla visita dei vari luoghi santi della Palestina; passò quindi in Siria e in Libano, da dove, via mare, si spostò in Egitto e da qui compì l’escursione al monastero
164. Akko, antichissima città, divenuta il famoso porto crociato di San Giovanni d’Acri, circondato da mura dopo la conquista da parte di Riccardo Cuor di Leone nel 1191. Un secolo dopo torna ai musulmani.
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di Santa Caterina e al monte Sinai. Per il viaggio di ritorno partì dal porto egiziano di Damietta, sostò qualche tempo a Cipro, rientrò a Venezia, da dove rientrò in Toscana. Il suo testo conobbe una vasta e duratura fortuna: ben sessantadue edizioni fra Cinquecento ed Ottocento, e nonostante ciò ci sono arrivati una quindicina di testi manoscritti. Fu, anch’esso, adattato, ritagliato, parzialmente copiato36. Molto noti, e variamente editi, sono i diari di viaggio di Lionardo di Niccolò Frescobaldi, Simone di Gentile Sigoli e Giorgio di Guccio Gucci, pellegrini, insieme ad Andrea Rinuccini, che morì durante il viaggio, tra il 1384 e il 1385: una comitiva di esponenti di quel ceto oligarchico che era tornato al potere a Firenze nel 1382, ma anche personaggi legati al circolo di Santo Spirito, influenzati da Giovanni delle Celle e da santa Caterina da Siena, contrario il primo al pellegrinaggio, legatissima idealmente alla Terra Santa la seconda37. Ci sono, nel racconto del Frescobaldi, accenni anche ad un aspetto politico-militare del viaggio, destinato pure a raccogliere informazioni per Carlo III d’Angiò-Durazzo, re di Napoli. Per gli aspetti pratici del viaggio il racconto più interessante è quello del Gucci, giacché egli era lo spenditore della comitiva, attento, dunque, alle diverse spese e anche ai cambi della moneta, pronto ad irritarsi con gli «orientali» per le piccole truffe e per la continua richiesta di mance. Qui seguiremo – limitandoci alla parte marittima del viaggio – il diario del Frescobaldi, che è anche quello meglio edito. Partiti da Firenze il 10 agosto, «nel nome di Cristo crocifisso», i nostri pellegrini raggiunsero Venezia, dove si dettero ad una sistematica visita delle reliquie conservate nelle chiese della città lagunare, decisi, pure, a fare incetta delle indulgenze ad esse legate. A Venezia trovarono «molti pellegrini franceschi e alquanti viniziani», nonché alcuni fiorentini: tutti furono invitati nella splendida casa di Remigio Soranzo, anch’egli sul punto di recarsi in pellegrinaggio. Ma «tutti questi pellegrini viniziani e forastieri voleano andare al Santo Sepolcro in Gerusalem sanza andare a Santa Caterina o in Egitto salvo noi… Tutti questi altri voleano fare il viaggio in su galee per prendere ogni sera porto. Noi deliberamo fare porto in Allessandria e principiare le nostre cerche quivi e per l’Egitto, e noleggiamoci in su una cocca nuova di settecento botti pagando ducati diciassette per testa»; ed agli altri pellegrini fiorentini «crebbe loro l’animo», sì che decisero di unirsi al Frescobaldi, al Sigoli, al Gucci e al Rinuccini. Il passo illustra bene le scelte – d’altronde legate – che si dovevano fare per l’imbarcazione e per la rotta. Ricordiamo che la cocca era un veliero di medie dimensioni, con timone posteriore, diffusosi nel Mediterraneo nel Trecento; in questo caso si trattava di un’imbarcazione di circa 500 tonnellate di stazza38. L’armatore della cocca, che si chiamava Pola, era il veneziano Lorenzo Morosini. L’infermità del Frescobaldi, sessantenne, costrinse però il gruppo ad una prolungata sosta a Venezia, insistendo i medici perché egli rinunciasse al viaggio; e non solo i medici, ma anche il Soranzo, che li ammoniva così: «Voi fiorentini non siete usi alle tempeste del mare come siamo noi e gli altri di terre marine, e entrando i più sani del mondo in tanto pileggio [viaggio per mare] quanto è di qui in Alessandria si lacera ogni robusto corpo di qualunque marinaio. E per tanto tutti noi sanza niuno discordante diciamo e consigliamo che tu non ti metta in mare e non volere tentare Dio». Ma Lionardo non intese ragione, affermando, tra l’altro, di essere «disposto vedere prima le porti del Sepolcro che quelle di Firenze» e che «se Dio avesse permesso che ’l mare fusse mia sepoltura ch’io era contento». Il 4 settembre, mentre il gruppo di quattordici pellegrini faceva la comunione (ché in mare era proibita, salvo particolari dispense, come quella accordata a san Luigi), la cocca veniva caricata, tre miglia al largo di Venezia, delle mercanzie: panni lombardi, argento in piastre, rame, olio e zafferano. A sera, su un’imbarcazione a sedici remi, accompagnati da amici fiorentini e veneziani, il gruppo si imbarcò sulla cocca; «e noi nel nome dell’onnipotente Iddio facemmo vela».
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165. Il convento francescano di Candia, sull’isola di Creta, restò una tappa per i pellegrini verso Gerusalemme dopo il periodo delle Crociate (Breidenbach, Sainctes pérégrinations de Jérusalem, Lione 1488).
166. Insegna da pellegrino con santa Elisabetta d’Ungheria e san Francesco. Conservata al Museo della Cultura di Lund.
La navigazione fu accompagnata da venti favorevoli e leggeri fino all’isola di Saseno, al largo di Valona, quando ci fu «un poco di fortuna», cioè una leggera tempesta. Scrive il Frescobaldi: «perché la nave era nuova e grande, pareva si facesse beffe del mare, ma una galea disarmata carica di pellegrini che venieno dal Sepolcro, perché era vecchia, aperse e affogonne circa dugento, tutti povera gente e per pagare poco nolo si missono in su sì cattivo legno». Dopo altri otto giorni di navigazione sopraggiunse una «grandissima fortuna» che costrinse la cocca a rifugiarsi nell’isola di Zante, dove una sosta di sei giorni permise l’approvvigionamento di carne, formaggio e frutta. Divenuti favorevoli i venti, la navigazione riprese, con l’abituale tappa a Modone, dove arrivarono il 19 settembre. Qui, mentre finalmente la febbre abbandonava il Frescobaldi, morì uno dei pellegrini, un prete del Casentino. Il 20, fatti nuovi rifornimenti, la cocca ripartì costeggiando («andando riva riva alla marina») fino alla vicina base, pure veneziana, di Corone. Da questa punta del Peloponneso la cocca prese la via diretta per Alessandria, lasciando a sinistra Creta, di cui, pur con un «si dice» prudenziale, il nostro pellegrino non esita a scrivere «si dice si divise per sé medesima quando i Viniziani recarono il corpo di san Marco Evangelista della città d’Alessandria a Vinegia facendo luogo alla nave». La notte del 27 la cocca, dopo una navigazione tranquilla, entrò nel porto vecchio della città egiziana, tenendosi però alla fonda, nonostante i forti venti, «per temenza de’ Saracini». Lunga fu la sosta in Egitto, la quale comprese una sosta ad Alessandria, una navigazione sul Nilo e una permanenza al Cairo; le notazioni del Frescobaldi sono interessanti, insieme precise, attente e vivaci, ma qui siamo costretti a lasciarle da parte, raccomandando al lettore di accostarsi direttamente al testo. Né possiamo seguire i nostri pellegrini nel viaggio che, alla fine di ottobre, attraverso il deserto, li portò a Santa Caterina e nell’ascesa sul Sinai, come neppure nella successiva ed avventurosa tappa fino a Gaza, «la quale città è confine fra l’Egitto e Terra di Promissione». Di qui i pellegrini, toccando Hebron e Betlemme, raggiunsero Gerusalemme; poi si recarono, secondo gli itinerari consueti, toccando Nazareth e il lago di Tiberiade, a Damasco, dove si trattennero per un mese e dove morì, e fu seppellito, Andrea Rinuccini. Da Damasco – ed era già la fine di gennaio – raggiunsero Beirut, con altri pellegrini «apettando navile per tornare in Cristianità». Il passaggio opportuno fu finalmente individuato – ed era ormai maggio – in una cocca veneziana a due ponti, proveniente dal Ponente, «grandissimo legno», sì, ma che «per lo lungo cammino non avea potutosi conciare [calatafare] in quell’anno, onde mettea assai acqua, per modo che tra dì e notte se n’avea a votare circa a cento cogna». Fino al golfo di Antalia i venti furono favorevoli, ma poi sopraggiunse una delle terribili tempeste che rendono il Mediterraneo mare imprevedibile ed insidioso in ogni stagione: «quivi ci prese un nodo di vento con tanta tempesta e fortuna che ci spezzò le bonette [le cime] della vela e avolseci la vela all’albero e trasportocci insino in Barberia, venendoci assaissime volte l’acqua sovra coverta per modo che poca speranza ci era rimasa, e così ci condusse presso alla terra forse cinquanta miglia. Poi per la grazia di Dio cominciò a rabonacciare mettendo in mare certe reliquie appropriate alla fortuna». Ripresa, in qualche modo, la rotta giusta, i pellegrini arrivarono a Venezia e da lì, dopo esser stati onorati dal doge in persona, rientrarono, per la via di Bologna, a Firenze dopo undici mesi e mezzo di viaggio. Un racconto, quello del Frescobaldi, che ben esemplifica le difficoltà cui un pellegrino andava incontro anche quando – a differenza dei pellegrini della galea vecchia e malridotta naufragata al largo di Valona – il viaggio era affrontato con larghezza di mezzi, capacità di scelte consapevoli, appoggi importanti. Le insidie, sia del mare, sia a terra, non erano poche; le condizioni di trasporto erano almeno disagevoli. Lo spazio a disposizione di ogni passeggero era minimo e totale l’assenza di intimità, salvo piccoli ambienti riparati da qualche tavola di legno per i comandanti o i passeggeri più illustri, o più danarosi; pressoché totale l’esposizione alle intemperie; frequenti le malattie,
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anche per la sporcizia, la compagnia obbligatoria dei parassiti, le carenze di un vitto monotono, l’umidità costante. Nel 1270, ad esempio, una grande nave veneziana a due ponti, noleggiata per la seconda crociata di Luigi IX, di 36 metri di lunghezza per 13,30 di larghezza, doveva trasportare, oltre all’equipaggio, ben 2.000 pellegrini39. L’accordo concluso nel 1233 tra il comune di Marsiglia da una parte e i Templari e gli Ospedalieri dall’altra, garantiva agli Ordini militari di far caricare e scaricare nel porto della città quattro navi l’anno di loro proprietà, con l’autorizzazione a far salire a bordo di ognuna di esse fino a 1.500 pellegrini, oltre i mercanti che volessero approfittare del viaggio; così navi di 1.000 e più pellegrini sono ricordate sia negli statuti marsigliesi di vent’anni dopo, sia in documenti genovesi. Quanto ai pericoli, un altro esempio ci è offerto dal tormentato viaggio di ritorno compiuto da Roberto da Sanseverino nel 1458. Partito il 12 ottobre da Acri su una nave mercantile, si trovò ad affrontare tutta una serie di tempeste, durante le quali, scrive, le onde colpivano l’imbarcazione in maniera tale che «pariva fussero bombarde grosse». I pellegrini e i marinai non vedevano che «celo e acqua». Moltiplicarono i voti, mentre constatavano quanto fosse vero il detto secondo il quale era pericoloso trovarsi in mare per la festa di santa Caterina; ma l’apparizione di tre candelotti accesi sull’albero della nave li convinse di una straordinaria protezione divina. Quando, ormai a corto di viveri e acqua, riuscirono a toccare terra ad Ancona, «gli paria uscire de le tenebre et ritonare ad la luce, partirsi de l’inferno e ritornare al paradiso e resissitare da morte a vita». Poi si preoccuparono di sciogliere il voto principale con un pellegrinaggio collettivo a Loreto40.
167. Navi quattrocentesche presenti nella Leggenda di S. Orsola di Vittore Carpaccio. Opera conservata alla Galleria dell’Accademia di Venezia.
Come si è detto, dalla seconda metà del Trecento Venezia, grazie ad un’organizzazione raffinata dei servizi in città e ad un’offerta articolata dei trasporti marittimi, aveva il quasi totale monopolio del viaggio dei pellegrini, come riconosceva nei fatti, nel 1405, lo stesso arcivescovo di Genova, Pileo de Marini, richiedendo un salvacondotto per potersi imbarcare nella città lagunare. Lo Stato veneziano stabilì regole precise per i patroni delle navi cariche di pellegrini: essi dovevano assicurare loro due pasti adeguati al giorno e occuparsi di organizzare le loro visite ai luoghi santi, compreso il monte Sinai se essi lo avessero desiderato. Il senato vigilava sull’applicazione di queste leggi. Quanto alla scelta del tipo di imbarcazione, ricordiamo che, nel 1470, Anselmo Adorno, giunto insieme al figlio Giovanni, da Bruges a Genova, città da cui si era trasferito nelle Fiandre, un paio di secoli prima, il suo antenato Opicino Adorno, volendo recarsi in pellegrinaggio in Terra Santa, si pose il problema se scegliere una nave o una galea41: rivoltosi ad amici et fautores nostri, questi gli consigliarono la nave in considerazione della stagione estiva in cui affrontava il viaggio. Essi affermarono che, se «d’inverno, quando il mare si gonfia per le molte burrasche, quando rigidi venti soffiano in continuazione e provocano numerose e lunghe tempeste, allora in questa stagione le galee sono più sicure, perché possono sempre, in caso di pericolo imminente in mare, fuggirlo rifugiandosi in un porto…; in estate questi eventi sono rari e, quando avvengono, durano poco tempo: perciò in tale stagione sono da scegliere grandi navi in cui avrai comodità molto maggiori che non sulle galee». Così fece l’Adorno, pur attratto – lui non aduso ai viaggi marittimi – dalla maggiore sicurezza delle galee: si imbarcò, il 7 maggio, su una grande nave genovese (e le navi più grandi erano allora proprio genovesi), di poco meno di 800 tonnellate di stazza, con 110 uomini di equipaggio. D’altra parte – aggiunge – «sconsiglio fortemente a tutti coloro che tengono alla vita di imbarcarsi sulle ‘galee dei pellegrini’ che, annualmente, sono armate a Venezia per la festa dell’Ascensione, tanto per la strettezza e l’angustia dello spazio, quanto per la grande quantità di gente di diverse nazioni che si trasmette vicendevolmente, con l’alito, le malattie».
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Le tappe, in successione, furono la Corsica (arrivo il 12 maggio), la Sardegna (18 maggio), le coste tunisine (25 maggio), occasione per una lunga ed interessante digressione sui modi di vita dei musulmani e sulle caratteristiche degli arabi (cioè, dei beduini) e Tunisi (27 maggio). A Tunisi l’Adorno si imbarcò, il 15 giugno, su una nave genovese, più grande della precedente, con un patrono genovese e, tra i passeggeri, un centinaio di maures (cioè di musulmani delle città e delle coste), uomini e donne, in parte mercanti, in parte pellegrini a La Mecca, e qualche ebreo. La nave partì, al suono delle trombette, il 17 giugno. Il quadro del Mediterraneo era mutato per la grande espansione ottomana, il cui obiettivo più significativo fu, nel 1453, la conquista di Costantinopoli. Lo stesso Adorno a volte lo sottolinea nella sua opera, la quale – ricordiamo – non è un diario di viaggio, ma cerca di dare un insieme completo di informazioni, sia pure con frequenti riferimenti alle esperienze direttamente fatte. Così, ad esempio, dopo aver dato una descrizione generale di tutta la Sicilia, passa ad un capitolo de Morea sive Romenia et eius civitatibus, nel quale, dopo rapidi richiami al suo passato antico e prossimo, aggiunge che «il gran Turco l’ha di recente presa quasi tutta, salvo qualche città marittima che i Veneziani hanno ancora
168. Viaggio in mare di pellegrini. Navicula penitentiae di Hans Burgkmair, Augsburg 1511.
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in loro possesso. In primo luogo i Veneziani hanno la città di Modone, dove noi abbiamo fatto scalo al ritorno». Dà notizia della conquista turca, «da pochi anni»42, di Corinto («città in altri tempi molto più illustre di oggi»), di ripetuti attacchi turchi a Nauplia, dell’esecuzione capitale di una spia che si era finto convertito al cristianesimo: insomma, l’espansione ottomana che continua e Venezia che cerca di salvare almeno le basi marittime del suo impero navale. È pure notevole che ormai l’Adorno debba tenersi ben lontano da Costantinopoli e che possa fare confusione e porre nei pressi di Corinto la colonia italiana, soprattutto genovese, di Galata-Pera, situata sulla riva nord del Corno d’Oro43. L’Adorno, che era arrivato a Gerusalemme dall’Egitto e dal deserto del Sinai, descrive anche la rotta del ritorno Beirut-Cipro-Rodi-Brindisi, considerata la città più importante della Puglia, anche rispetto a Bari, ormai definita mediocre. Beirut, in effetti, era divenuta il principale porto del litorale libanese e ciò spiega come gli Adorno vi trovassero subito un passaggio su una nave veneziana pronta a partire. La grande espansione ottomana non aveva del tutto chiuso l’accesso dei mercanti e dei pellegrini al Levante, salvo, s’intende, nei momenti in cui l’impero ottomano cercava di riprendere la sua espansione verso l’ovest. In generale in queste posizioni cristiane avanzate ci si sentiva sempre in situazione precaria; di Rodi, ad esempio, l’Adorno, dopo averla descritta sempre pronta alla difesa, riferisce le voci continue di attacchi turchi ed invita i principi cristiani a soccorrerla, perché «se fosse perduta, l’audacia, già grande, dei Turchi diventerebbe incontenibile»; osserva anche che l’avversione turca verso i religiosi (gli Ospedalieri) che ne sono i signori è assai più forte che contro i veneziani. Rodi sarà conquistata – com’è noto – nel 1522 da Solimano il Magnifico, che l’anno prima si era impadronito di Belgrado. Per ciò che più direttamente interessava i pellegrini e la Terra Santa, il cambiamento più importante fu la conquista del sultanato mamelucco d’Egitto e quindi della Siria e della Palestina, oltre che dei luoghi santi specifici dell’Islam, La Mecca e Medina (1514-17).
169. Gerusalemme, centro di convergenza del mondo. Mappa di inizio dell’Itinerarium Sacrae Scripturae di Heinrich Bünting, edito a Magdeburgo (Jacobus Lucius, 1585).
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Note F. Cardini, Dal Medioevo alla Medievistica, Genova 1989, pp. 243-251, per una prima informazione sul punto e su quanto segue. Per le fonti, fondamentale introduzione in J. Richard, Les récits de voyages et de pèlerinages, Turnhout 1981, fascicolo della collana «Typologie des sources du Moyen Âge Occidental». Cfr. anche E. Menestò, Relazioni di viaggi e di ambasciatori, in Lo spazio letterario del Medioevo, vol. I, t. II, Roma 1988, pp. 535-600. 2 Itinerarium Burdigalense, in Corpus Christianorum, Séries latina (d’ora in poi CCSL), vol. CLXXV, Turnholt 1965, pp. 1-26. 3 Per un quadro generale e anche per le singole indicazioni cfr. M. Tangheroni, Commercio e navigazione nel Medioevo, Roma-Bari 1996, cap. I. 4 Cfr. l’epistola CVIII di san Gerolamo, edita e commentata in Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria di Paola, a cura di C. Mohrmann, vol. IV*, Milano 1975. 5 Egeria si rivolge a delle dominae venerabiles sorores. 6 Itinerarium Egeriae, in CCSL, vol. CLXXV, cit., pp. 27-103; una buona traduzione italiana in Eteria, Diario di viaggio, Alba 1966. Cfr. anche gli Atti del Convegno Internazionale sulla «Peregrinatio Egeriae». Nel centenario della pubblicazione del «Codex Aretinus 405» (già «Aretinus VI, 3»), Arezzo 1989. 7 Teodosio, De situ Terrae Sanctae, in CCSL, vol. CLXXV, cit., pp. 113-125. 8 Questo l’incipit: «Praecedente beato Antonino martyre, ex eo quod a civitate Piacentina egressus sum, in quibus locis sum peregrinatus, id est sancta loca». Proprio per questo il testo fu a lungo noto come opera di un Antonino Piacentino. È edito nel vol. cit., alle pp. 127-153. 9 Si veda F. Cardini, Gerusalemme Toro, di rame, di luce. Pellegrini, crociati, sognatori d’Oriente fra XI e XV secolo, Milano 1991, alle pp. 3-43, le quali, a dispetto del sottotitolo, vertono su questo tema proprio soprattutto nell’alto medioevo. 10 Beda, Historia ecclesiastica gentis Anglorum, ed. C. Plummer, Oxoniae 1896, p. 316. 11 Adamnan, De locis sanctis libri tres, edito in CCSL, vol. CLXXV, cit., pp. 175-234. 12 A. Pertusi, Bisanzio e l’irradiazione della sua civiltà, in Centri e vie di irradiazione della civiltà nell’alto medioevo, Spoleto 1964, pp. 86-87. I testi sono editi in T. Tobler, A. Molinier, Itinera Hierosolymitana et descriptiones Terrae Sanctae bellis sacris anteriora, Osnabrück 1966 (repr). 13 A. Pertusi, Bisanzio, cit., pp. 83-84. 14 Su tutto questo ci permettiamo di rimandare alla nostra sintesi in M. Tangheroni, Commercio, cit., cap. V. 15 Il lettore desideroso di approfondimenti può partire da J. Riley-Smith, Breve storia delle crociate, Milano 1994. 16 In realtà la flotta pisana, fermatasi a saccheggiare alcune isole bizantine, giunse a Giaffa all’inizio di settembre del 1099, a Gerusalemme conquistata da un mese e mezzo, ma fu decisiva per il consolidamento delle posizioni crociate. Daiberto divenne il primo patriarca latino di Gerusalemme. 17 V. von Falkenhausen, Taranto, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo, Bari 1993, pp. 466-467. 18 P. Corsi, Bari e il mare, in Itinerari, cit., p. 108. 19 Il suo racconto è edito in CC, Continuatio Mediaevalis, vol. CXXXIX, alle pp. 59-77. 20 J. Pryor, The voyages of Saewulf, nel vol. appena citato, alle pp. 35-57, ove si può trovare un interessante confronto del racconto con le correnti ed i venti dominanti, nonché con i passaggi più problematici tra isola ed isola. 21 Per la tipologia delle imbarcazioni cfr., oltre a M. Tangheroni, Commercio, cit., J. Pryor, Geography, Technology and War. Studies in the Maritime History of the Mediterranean, 649-1571, Cambridge 1988. 22 J. Pryor, The voyages, cit., p. 57. 23 Per visualizzare questi itinerari e quelli delle altre crociate, cfr. J. Riley-Smith, The atlas of the Crusades, New York 1990. 24 Cfr. F. Cardini, Gerusalemme, cit., pp. 52-53, il quale osserva anche che questa scelta ridusse «il litorale fra Alessandretta e Gaza a un endemico stato di miseria, dal quale esso si sarebbe ripreso solo nel Novecento». 25 S. de Sandoli, The Peaceful Liberation of the Holy Places in the XIV Century, Il Cairo 1990; Custodia di Terrasanta 1342-1942, Gerusalemme 1951. 26 Libro d’Oltremare di Fra Niccolò da Poggibonsi, ed. A. Bacchi della Lega, Bologna 1881, rist. anast. Bologna 1968, pp. 95-96. 27 F. Cardini, Gerusalemme, cit., p. 53. 28 Id., I pellegrinaggi, in Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione nel Mezzogiorno normanno-svevo, Bari, pp. 275-299; P. Corsi, Il trasporto dei crociati: la Puglia, in Le crociate. L’Oriente e l’Occidente da Urbano II a San Luigi, 1096-1279, Milano 1997, pp. 226-232. 29 E. Pispisa, Messina, Catania, in Itinerari, cit., p. 149. 30 È questo, per esempio, il caso di un codice dell’Archivio Capitolare di Pisa che è attualmente studiato da Catia Rizzo. 31 Repertorio classico è quello di R. Röricht, Biblioteca Geographica Palestinae. Chronologisches Verzeichnis der von 333 bis 1878 verfassten Literatur über das Heilige Land mit dem Versuch einer Kartographie, 1
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nell’edizione rivista da D. Amiran, Jerusalem 1963. Cfr., inoltre, N. Schur, Jerusalem in Pilgrims and Travellers Accounts. A Thematic Bibliography of Western Christian Itineraries, 1300-1917, Jerusalem 1980. 32 J. Bredfeld, A Guidebook for the Jerusalem Pilgrimage in the Late Middle Ages. A case for Computer-Aided Textual Criticism, Hilversum 1994. 33 F. Cardini, Gerusalemme, cit., p. 54. 34 Itinerarium Symonis Simeonis ab Hybernia ad Terram Sanctam, ec. M. Esposito, Dublin 1960. 35 Oltre alla nota 26 cfr. anche Niccolò da Poggibonsi, Libro d’Oltremare (1346-1330), ed. da B. Bagatti, Gerusalemme 1945. 36 Cfr. F. Cardini, Gerusalemme, cit., p. 57. 37 G. Bartolini, F. Cardini, Nel nome di Dio facemmo vela. Viaggio in Oriente di un pellegrino medievale, Roma-Bari 1991, dove la Bartolini dà un’ottima edizione del testo del Frescobaldi, mentre il saggio di Cardini si sofferma sul viaggio dei pellegrini fiorentini, ma anche, in generale, del quadro complessivo; nel libro si trovano le indicazioni bibliografiche per gli altri «diari». 38 Per galee e navi a vela si rimanda a M. Tangheroni, Commercio, cit., pp. 196-207. 39 Ivi, pp. 218-239. 40 Viaggio in Terrasanta fatto e descritto per Roberto da Sanseverino, ed. G. Romagnoli, Bologna 1888, rist. anast. Bologna 1969. 41 Itinéraire d’Anselme Adorno an Terre Sainte (1470-1471), ed. e trad, francese di J. Heers e G. de Groer, Paris 1978. L’Adorno era partito da Bruges il 19 febbraio 1470 e fece ritorno, con i suoi compagni di pellegrinaggio, a Bruges il 4 aprile 1471. 42 Essa era avvenuta nel 1458. 43 Cfr. op. cit., p. 157 e n. 8.
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Anna Benvenuti
Roma
Così come l’immagine cristiana di Gerusalemme e della Palestina fu il frutto di una proiezione culturale, un ologramma memoriale ricostruito sulla scorta del testo evangelico e della tradizione apocrifa, anche la sacralità di Roma, pur se già in nuce fin dai primi secoli dell’era cristiana, fu il prodotto di una secolare «elaborazione». Prima ancora che la translatio costantinopolitana ne segnasse definitivamente il declino politico, il suo prestigio di capitale della diaspora le aveva assicurato un ruolo primario rispetto alla stessa Gerusalemme «storica», obliterata nella sua identità ebraica con la distruzione di Tito e non ancora «reinventata» nella sua accezione cristiana. Già il primo insorgere di un culto per gli apostoli rivelava la latente contrapposizione tra una Roma ecclesiale depositaria del potere carismatico di Pietro ed una Palestina escatologica, apocalittica, da cui ci si attendeva la conferma ed il compimento della Scrittura. Non tanto l’essere la Città Eterna corona sanctorum martirum l’avrebbe fin dai primi secoli qualificata quale meta e polo privilegiato di pellegrinaggio, quanto piuttosto il suo ruolo di continuatrice diretta e legittima della primitiva Ecclesia gerosolimitana. È comunque nel quadro di quest’antica concorrenza tra la capitale evangelica e quella apostolico-pietrina che va colta la lunga storia della consuetudine memoriale cristiana e del suo corollario più evidente: il «ritorno» verso l’epoca fondante delle origini nella metafora spirituale di un viaggio compiuto non tanto nello spazio quanto nel tempo della rievocazione e dell’immedesimazione.
170. Una delle prime immagini congiunte degli apostoli Pietro e Paolo. Particolare della lastra di chiusura del loculo di Asellus, risalente al IV secolo e rinvenuta a Roma nella catacomba di Sant’Ippolito. Oggi è conservata nei Musei Vaticani.
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Fondazioni imperiali e memoria dei martiri Nella costruzione della propria superiorità spirituale su tutto l’ecumene, Roma aveva tuttavia valorizzato, accanto all’eredità apostolica, anche il suo straordinario patrimonio di memorie martiriali, la cui elaborazione liturgica era già in via di costituzione almeno a partire dal II secolo, quando iniziava la commemorazione del dies natalis di alcuni martiri. Un elenco del IV secolo, la Depositio martyrum, ne ricordava trentadue e già un secolo dopo a questo numero se ne erano aggiunti altri settanta. Per lo più essi erano sepolti nei vasti cimiteri sotterranei suburbani, come quello di Callisto o, il più famoso, ad catacumbas sulla via Appia. Custode di tanto sangue versato per la costituzione del corpo mistico della Chiesa, la Roma del III-IV secolo ricordava già, nelle liturgie del 29 giugno, il natale dei suoi eroi più illustri, gli apostoli Pietro e Paolo, di cui si veneravano le tombe sotto il monte Vaticano e sulla via Ostiense, ma anche nella catacomba della via Appia, detta poi di san Sebastiano, dove il culto popolare li associava e li rendeva oggetto di una deferente tradizione devota, così come attestano già i primi pellegrini e le loro iscrizioni votive, quale quella del vescovo di Ierapoli Abercio, tra il 170 ed il 200. Tuttavia, solo con la definitiva legittimazione del IV secolo e con il conseguente impulso dato dalla famiglia imperiale alla memoria cristiana – sia pure con le caratteristiche della conversione costantiniana e quindi con i suoi numerosi compromessi rispetto alla tradizione – inizia la storia di una Roma ormai in declino come caput mundi ma in ascesa progressiva come caput fidei. Città mondana e carnale – la stessa da cui si allontanavano con disprezzo ascetico san Gerolamo o le sue aristocratiche discepole per rivivere nei luoghi dei Vangeli le emozioni spirituali della fuga dal mondo – cristianizzata malgré soi dalla volontà ambigua di un imperatore che aveva in parte trasformato il Cristo nel proprio divus comes, la Roma cristiana si accingeva dal colle del Laterano, la sede decentrata nel pomerium che Costantino aveva destinato ai vescovi eredi di Pietro, a riconquistare quel mondo che il tardo impero andava progressivamente perdendo.
171. Affresco di un banchetto celeste sopra un loculo delle catacombe dei Santi Pietro e Marcellino a Roma.
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172. Ricostruzione della basilica costantiniana di San Giovanni in Laterano a Roma.
Con la costruzione delle basiliche cimiteriali appena fuori dalle mura aureliane, ed in genere con le grandiose opere di architettura sacra avviate nel IV secolo, si modificava lo stesso assetto della città, nella quale si venivano in questo modo creando, pur nella complessiva recessione demografica ed urbanistica, poli direzionali estranei alla sua antica struttura: per volontà e donazione costantiniana, la cattedrale e la sede del vescovo erano state previste nella periferica area lateranense dove l’insediamento della nuova realtà ufficiale della chiesa cristiana, ancora tollerata ma non al punto da consentire allo stesso imperatore di imporne la presenza entro il circuito della tradizione sacra cittadina, non urtava la suscettibilità dei conservatori pagani. Immersa nel verde da grandi tenute residenziali patrizie – ed in particolare del patrimonio privato di Costantino – la grande costruzione sul colle del Laterano, dedicata in origine al Salvatore prima della successiva intitolazione a san Giovanni Battista (VI secolo), doverosamente munifica come si conveniva ad una donazione imperiale, era tuttavia particolarmente eccentrica rispetto allo sviluppo topografico urbano, e scomoda sarebbe restata a lungo. Tuttavia la basilica costantiniana o aurea, a motivo della ricchezza degli arredi e dei fregi che la ornavano, la omnium Urbis et Orbis Ecclesiarum mater et caput andò rapidamente affermando – come vuole Gregorovius – «la sua supremazia su tutte le altre chiese del mondo e anzi accampò la pretesa che si fosse trasfusa in lei la santità del tempio di Gerusalemme dal momento che sotto il suo altare si custodiva l’Arca sacra dei Giudei. Tuttavia questa chiesa episcopale la cui presa di possesso in forma solenne costituisce l’atto iniziale del pontificato di ogni papa, venne oscurata dal duomo di Pietro, principe degli Apostoli» (F. Gregorovius, Storia di Roma, Roma 1966, I, p. 78 s.). I giardini di Agrippina, in prossimità del tempio di Cibele, avrebbero così rivaleggiato con il verde Laterano nel prestigio della gerarchia sacrale della Roma cristiana. In base alla leggenda, lo stesso Costantino aveva celebrato la consecratio della basilica eretta sul luogo del martirio di Pietro dando il primo colpo di vanga e asportando, in ossequio al simbolismo numerico degli apostoli, dodici ceste di terra per le fondamenta dell’edificio. Nel V
173. Ricostruzione della basilica costantiniana di San Pietro in Vaticano a Roma. 174. Riproduzione in una stampa settecentesca della basilica di San Paolo fuori le mura. L’immagine è precedente all’incendio del 1832, e mostra l’ottimo stato di conservazione dell’impianto paleocristiano.
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secolo Paolino di Nola lasciava una delle prime descrizioni della basilica vaticana in cui traspare, al di là dell’entusiasmo del devoto visitatore, l’immagine della vastità e dell’imponenza dell’edificio. Esso era allora circondato da poche cappelle funerarie, secondo la consuetudine della sepoltura ad sanctos che a partire da questi anni andava prendendo sempre più piede: era infatti invalso l’uso di farsi seppellire presso un santo importante che, come il patronus nella società romana, assicurava ai suoi clientes la protezione nel giudizio finale. Più tardi a queste costruzioni si sarebbero aggiunti tutta una serie di edifici destinati all’accoglienza dei pellegrini ed altre strutture di sostegno, quali chiostri, cappelle e abitazioni per il clero. Accanto a Pietro anche l’altro corifeo della fede cristiana, Paolo, doveva, nella tradizione, il suo templum a Costantino. Secondo il Liber pontificalis, papa Silvestro avrebbe richiesto all’imperatore di onorare la memoria dell’apostolo dei gentili con una basilica posta a circa un miglio dalla città, sulla via Ostiense, dove si voleva che la pia matrona Licinia ne avesse seppellito il corpo. Solo più tardi, sullo scorcio del IV secolo, gli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio avrebbero ordinato al prefetto dell’Urbe, Sallustio, di erigere, al posto di quella che probabilmente era una semplice cappella funeraria, una chiesa più grande e degna dell’apostolo. Ancora al novero delle fondazioni della famiglia imperiale la tradizione assegnava la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, grandiosa cappella privata – ricavata nell’ala di un non meglio identificato palazzo Sessorio, nei pressi della Porta Maggiore, Sessoriana appunto – in cui l’imperatrice Elena avrebbe deposto una reliquia della vera Croce. Al pari della basilica Heleniana in Jerusalem – come del resto le Lateranorum aedes, compresa quella domus Faustae su cui era sorta la basilica lateranense – altre proprietà e costruzioni private della famiglia imperiale rientrarono nel novero dei principali monumenti cristiani di Roma: così la chiesa catacombale di Sant’Agnese, fuori della porta Nomentana, avrebbe finito con l’inglobare il mausoleo delle figlie di Costantino, Elena e Costantina, ingenerando poi, nella stratificazione dei culti, una contaminatio che in epoca medievale trasformava la seconda, ricordata da Ammiano Marcellino come peccatrice, in una santa vergine venerata col nome di Costanza. Per estensione, anche il mausoleo dell’imperatrice Elena, sulla via Labicana, in virtù della sua prossimità ad una chiesa catacombale dedicata a san Pietro e san Marcellino, avrebbe giustificato l’attribuzione a Costantino di questo edificio sacro. In realtà il fondatore della Roma cristiana poteva rivendicare il suo diretto patronato solo sulla basilica lateranense, anche se la tradizione avrebbe associato il suo nome a quasi tutte le chiese più antiche della città.
175. Pianta della basilica di Sant’Agnese a Roma, con il caratteristico mausoleo rotondo di Santa Costanza: due esempi congiunti delle grandi tipologie architettoniche paleocristiane.
Dispersi prevalentemente nell’area suburbana del pomerium, i grandi complessi basilicali richiedevano, ai visitatori intenzionati a compiere per intero la peregrinatio romana, diversi giorni di sosta, come testimonia san Paolino di Nola, fermatosi in Roma dieci giorni «pro apostolorum et martyrum veneratione». Tra le più suggestive tappe della romeria, in questi primi secoli dell’era cristiana, erano le sepolture sotterranee che si affacciavano, coerentemente con la legislazione romana che vietava la commistione tra la città dei vivi e quella dei morti, lungo le principali direttrici stradali extraurbane. Le catacombe erano nate intorno al I secolo dell’era cristiana quali tombe private di facoltose famiglie, anche se aperte ad altri fedeli. Dall’inizio del III secolo fino all’età costantiniana esse continuarono a dilatarsi, prendendo il nome o dal pontefice che le aveva costruite o dal martire più famoso che in esse trovava riposo. Con l’editto di Milano e con la pubblicità del culto vennero meno le ragioni che le avevano giustificate, e pur recedendo l’uso cimiteriale, restò loro la funzione memoriale e cultuale, destinata tuttavia a venire progressivamente meno, specialmente tra VII e IX secolo, con la traslazione di molti corpi di martiri dalle catacombe alle basiliche urbane. Questo processo andò di pari passo con l’elaborazione del culto dei santi, la cui definizione subì un’evoluzione decisiva a partire
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proprio dal IV secolo, quando si diffuse la consuetudine di celebrare il sacrificio della messa su altari resi sacri dalla presenza dei resti di un martire o di un santo. Il Liber pontificalis assegna all’epoca ed alla volontà di papa Felice (269-275) l’inizio della commemorazione liturgica dei martiri; se così fosse, omettendo le riserve che la critica ha avanzato a questo proposito, le celebrazioni avvenivano nelle catacombe extraurbane, dove precocemente si introdusse l’uso di realizzare minuscole cappelle negli arcosoli, utilizzando come piani di altare le lastre di copertura delle tombe: qui, nell’anniversario della depositio o in quello del dies natalis, si celebrava la messa. Prima del VI secolo, comunque, almeno in Roma non esistono attestazioni di un uso di reliquie per la consacrazione di altari, come di contro avveniva in altre zone della cristianità dove fin dal IV secolo si conosce questa consuetudine. Per lo più non si trattava di porzioni o parti intere di corpi santi, ma di brandea, cioè fasce o nastri di tessuto che, messi in contatto con la tomba del martire, si «caricavano» della virtù sacrale del corpo in essa custodito, divenendo reliquie portatili ed adatte al trasferimento in nuovi altari, possibilmente a quel santo dedicati. La Chiesa occidentale rimase a lungo ostile alla violazione dei sepolcri dei santi ed allo smembramento dei loro resti, a differenza di quanto avveniva in Oriente. In Occidente ed a Roma in particolare la continuità della legislazione relativa alle profanazioni delle sepolture creò la consuetudo (detta appunto romana) dell’uso di reliquie rappresentative, proprio come i brandea, con cui i pontefici preservarono, nonostante le insistenti richieste non solo bizantine, i sacri cadaveri dallo scempio della frammentazione e dalla profanazione. 176. Sant’Agnese. Particolare del mosaico absidale della omonima chiesa paleocristiana di Roma.
Centro di raccolta e di distribuzione delle reliquie L’ufficializzazione del culto e l’istituzionalizzazione del cristianesimo a partire dal IV secolo permise di dare altri caratteri, più formali, al culto delle reliquie, fino a quel momento limitato alla sola area delle catacombe e vincolato al rigido divieto di manomettere i santi corpi, proibizione ancora in uso nel VI secolo, quando papa Gregorio Magno ad essa si riferiva ricordando la proibizione di tangere le reliquie direttamente. L’unico modo legittimo e compatibile con la tradizione, da parte del papato, per rispondere alla crescente domanda di un’Europa povera di martiri e di memorie, fu la moltiplicazione dei brandea che, posti in una pisside più o meno vicino al sepolcro di un martire, ne acquisivano la virtù. Anche se furono a pieno titolo considerati reliquie, si conservò la consapevolezza di una differenza tra essi e i corpi santi, introducendo una serie di differenze terminologiche che – come attesta il Liber diurnus dei pontefici romani – rinviavano alle differenti forme di consacrazione in uso: quando si voleva, ad esempio, edificare un oratorio (o basilica) dedicato ad un santo si domandavano al pontefice i sanctuaria necessari; da Roma si provvedeva a predisporre il materiale occorrente, e quindi si davano istruzioni al vescovo locale, che avrebbe effettuato la consacrazione e la dedicazione. In alcuni casi, come per i brandea ottenuti presso la confessione di san Pietro, si usarono termini più specializzati (palliola), – da cui sarebbe derivato il pallium concesso agli arcivescovi – e si poterono produrre beneficia anche di quei personaggi, come gli angeli, che reliquie non potevano aver lasciato. Questo insieme di consuetudini ebbe profonde ripercussioni nella morfologia stessa degli edifici ecclesiastici. La presenza di corpi santi determinò infatti la necessità di una cripta di sepoltura e, conseguentemente, l’elevazione del piano del presbiterio sul quale insisteva l’altare, a sua volta incardinato sulla tomba. Le due parti, l’inferiore e la superiore, rese comunicanti da un pozzetto (umbilicus) – spesso a sua volta aperto su un’ulteriore nicchia ricavata nella lastra di copertura del sepolcro, protetta da una grata detta
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cataracta –, consentiva un accesso ritualizzato al «cuore» sacrale dell’altare e permetteva la consacrazione dei brandea così come, in particolari ricorrenze, il contatto ravvicinato con il corpo santo. Attraverso queste aperture, che Agostino definisce «finestrelle della memoria», le preghiere dei fedeli prendevano la via del cielo, infiltrandosi nelle arche sotterranee dei loca sanctorum. Se il Liber diurnus attesta la persistenza della consuetudo romana circa la non violabilità delle reliquie conservate nei sacrari dell’Urbe, non altrettanto severi si fu quando si trattò di «importare» reliquie e di procedere a quelle che in Occidente, lontani dal fasto sacro delle translationes bizantine, continuarono a chiamarsi esumazioni e quindi ad essere soggette alle rigide norme funerarie del diritto romano. Nel III secolo i fedeli della città apostolica ottenevano, ad esempio, di poter ricondurre a Roma le reliquie di papa Ponziano e del vescovo Ippolito, i cui corpi erano rimasti in Sardegna, terra d’esilio; allo stesso modo rientrava in città anche il corpo di papa Cornelio, morto a Centocelle, mentre si acquisivano reliquie di oscura provenienza, come quelle dei Santi Quattro Coronati, giunti sul biondo Tevere dalla lontana Pannonia, forse in conseguenza di movimenti di profughi da quelle terre esposte alle invasioni. Ormai la prassi di acquisire reliquie dovunque fosse possibile procurarsene era invalsa anche nella parte occidentale della cristianità. A Cimitile (Nola) san Paolino ne avrebbe fatto incetta, così come Godenzo a Brescia o Vittricio a Rouen, mentre dovunque – come attestano gli autori – da Cipriano a Gregorio di Nissa, cresceva la domanda «privata» di reliquie, fossero esse poi poste a fondamento di edifici sacri per pietosa volontà di generosi donatori o mantenute nei tesori domestici quale presidio apotropaico e salvifico. La cura con cui i pontefici, ad iniziare da Gregorio Magno, perseguirono una quasi capillare politica di acquisizioni di reliquie apostoliche con cui addensare, attorno a Pietro, la prima generazione dei testimoni del Cristo, è rivelatrice di un atteggiamento di lunga durata che si dispiega dall’età gregoriana fino ai trionfi della Chiesa del Rinascimento, quando Pio II si preoccupava di recuperare la testa dell’apostolo Andrea dopo che Patrasso era caduta in mano ai turchi. La collezione dei capita apostolici aveva radici lontane: da
177. Chiostro del XIII secolo della chiesa dei Quattro Santi Incoronati a Roma. La costruzione medievale sostituisce l’edificio del IV secolo, eretto per accogliere le reliquie dei quattro martiri.
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178. Ricostruzione della basilica paleocristiana di Santa Lorenza, costruita sulla via Tiburtina a Roma.
179. Ricostruzione esemplare per identificare i caratteri paleocristiani, in una stampa del ’700 della basilica di San Clemente a Roma.
quelli di Luca e Matteo procurati da Gregorio Magno fino ai teschi di san Giovanni Evangelista, Filippo, Giacomo Minore, Giuda Taddeo, Simone Zelota e altri; ed è emblematico che uno degli eventi più sacrileghi ricordati tra i pur numerosi episodi blasfemi del sacco di Roma del 1517 sia stata proprio una partita a pallone giocata con il cranio di san Pietro. Quando nel 1154 l’abate islandese Nikolas di Munkathvera aveva visitato come devoto pellegrino la Città Eterna, egli aveva potuto venerare, nell’altar maggiore della basilica di San Pietro, le reliquie di quei «discepoli di Cristo che seguirono Pietro a Roma», a riprova della completezza della translatio apostolica realizzatasi al seguito del principe degli apostoli. A parte l’incetta «specializzata» con cui il papato nel lungo periodo della sua storia medievale perfezionò l’immagine della propria legittimità carismatica importando reliquie della prima generazione evangelica, fu essenzialmente il suo ruolo di dispensatrice di sacro a imporre l’opinione di Roma come omphalos della più antica e legittima tradizione apostolica e martiriale. La grande diffusione di brandea spiega le numerose iscrizioni che, particolarmente in Africa, tramandano la presenza di «reliquie» dei santi Pietro, Paolo o Lorenzo, di cui la Chiesa romana, gelosa custode dei loro corpi, mai volle privarsi neppure in porzioni ridottissime. La sacralizzazione per contatto consentiva anche di ricavare porzioni individuali di reliquie che potevano essere indossate in appositi «amuleti», prevalentemente medaglioni o in anelli. Gregorio di Nissa è testimone di queste forma di devozione a proposito della sorella Macrina, che era solita portare una collana da cui pendevano una croce di ferro ed un anello che conteneva una reliquia della vera croce. In questa «produzione» di sacralità si amplificava anche l’uso dello spazio ecclesiale, ormai non più occasione di memoria ma vera e propria sede epifanica ove ci si attendeva il contatto con la realtà celeste di cui partecipavano i santi. Esempio di questa dilatazione è dato in Roma dallo sviluppo architettonico e devozionale del culto di san Lorenzo, divenuto, nella secolare elaborazione della sua leggenda agiografica e del suo culto, il patrono della città apostolica. Secondo la tradizione, egli aveva subito il martirio sotto l’imperatore Decio presso le terme di Olimpia, sulla via Tiburtina. Qui, nelle catacombe del campo Verano se ne indicava la tomba, come testimonia il poeta spagnolo Prudenzio. La leggenda che attribuisce a Costantino la costruzione delle principali basiliche romane estende anche a quella laurenziana questo privilegio di fondazione: probabilmente sul luogo del martyrion (ove si voleva che l’imperatore avesse fatto edificare la primitiva basilica che dal livello del suolo permetteva, grazie ad una duplice scala, una per scendere e l’altra per salire, l’accesso al sepolcro sotterraneo) fu eretta, al tempo di papa Sisto III (432-440), una più grande costruzione, il terzo dei grandi edifici basilicali extra moenia dopo San Paolo e San Pietro. A livello del sottosuolo invece sarebbe sorta la basilica inferiore voluta da Pelagio II (579-590) sul finire del VI secolo, mentre gli interventi medievali di Onorio III e di Innocenzo IV avrebbero dato al sito l’attuale conformazione, al di là dei danni recati dall’ultima guerra. La concentrazione romana delle memorie laurenziane, distribuite nel labirinto devozionale e liturgico della città, doveva determinare anche il particolare rilievo assunto dalla commemorazione del santo nel circulus anni. La festa di Lorenzo veniva, in ordine di importanza, subito dopo quelle degli apostoli Pietro e Paolo ed era preceduta da una solenne vigilia che a Roma si celebrava nella basilica di San Lorenzo al Verano, luogo dove sia la Depositio martyrum sia il Martirologio Geronimiano identificavano la sepoltura; anche se l’Agro Verano riassunse tutta la complessa stratigrafia dei monumenti sorti attorno al sepolcro, numerose chiese romane avrebbero testimoniato la fortuna cultuale del patrono dell’Urbe: San Lorenzo in Lucina, dove secondo la tradizione si conserva la graticola, San
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Lorenzo in Damaso, sorta sulle case del papa che aveva esaltato il culto dei martiri, San Lorenzo in Panisperna, ove si era soliti dispensare ai poveri il pane e prosciutto che avrebbero dato nome alla chiesa, infine San Lorenzo in Palatio, l’oratorio privato del papa nel patriarchio lateranense, ove accanto all’immagine acheropita del Salvatore, la Veronica, si custodivano le reliquie più importanti della Città Eterna. Molte delle antiche dedicazioni laurenziane sono scomparse, sommerse da altri titoli, ma si calcola che nella sola Roma le chiese poste sotto l’invocazione di Lorenzo fossero più di una trentina. A questa concentrazione memoriale corrispondeva un’imponente dilatazione liturgica. La basilica del Verano era una delle cinque chiese patriarcali nelle quali il servizio liturgico era assicurato dai preti dei titoli urbani, a differenza della basilica lateranense, dove lo stesso servizio era assolto dai vescovi suburbicari. Essa era quindi compresa nel novero delle cinque stationes (appunto le cinque basiliche patriarcali, a cominciare dall’arcibasilica lateranense, San Pietro in Vaticano, San Paolo fuori le Mura, Santa Maria Maggiore, San Lorenzo al Verano o fuori le Mura) nelle quali si svolgeva la liturgia romana solenne; proprio dal Verano, per Settuagesima, prendeva l’avvio il grande percorso dei catecumeni che illustrava, nello spazio memoriale della Città Eterna, i tempi in cui si rinnovava la promessa della Redenzione. Accanto a questi, altri imponenti edifici di culto si aprivano, già tra IV e V secolo, alla devozione dei pellegrini: Santa Maria Maggiore sull’Esquilino, presto destinata ad assolvere, assieme a Santa Sabina (sull’Aventino) e a Santo Stefano Rotondo, la funzione di basiliche suffraganee rispetto alla troppo decentrata cattedrale di San Giovanni in Laterano. Santa Maria Maggiore, ricostruita da Sisto III nel 432 sul nucleo più antico della fondazione del vescovo Liberio (metà del IV secolo), segna in Roma l’ingresso delle dedicazioni alla Vergine e con esso l’inizio ufficiale di un culto mariano in precedenza assente. Successivo sarebbe stato il titolo di Santa Maria in Trastevere, dato alla chiesa completamente ricostruita da Giulio I tra il 337 e il 354. Antichissima e venerata era anche la chiesa di San Clemente, posta tra il Laterano e il Colosseo, intitolata al vescovo omonimo, successore di Pietro, le cui fondamenta poggiavano su un antico santuario di Mitra.
182. me le riu sec 4. t.
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180. La barca della chiesa condotta da Pietro e Paolo. Lampada ad olio paleocristiana, conservata al Museo Archeologico di Firenze.
181. Interno della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma in una stampa del ’700.
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182. Prime basiliche cristiane, tituli (immobili messi a disposizione da fedeli benestanti per le riunioni di culto) e oratori a Roma tra III e V secolo. 1. t. Damasi; 2. t. Lucinae; 3. t. Marci; 4. t. Marcelli; 5. t. Apostolorum; 6. t. Vestinae; 7. t. Gai; 8. t. Cyriaci; 9. t. Pudentis; 10. t. Praxidae; 11. t. Aequitii; 12. t. Eusebii; 13. t. Matthaei; 14. t. Nicomedis; 15. t. Clementis; 16. t. Aemilianae; 17. t. Pammachii e t. Vizantis; 18. t. Crescentianae; 19. t. Fasciolae; 20. t. Tigridae; 21. t. Priscae; 22. t. Sabinae; 23. t. Anastasiae; 24. t. Caeciliae; 25. t. Chrysogoni; 26. t. Julii o Callisti; (?) t. Laurentii.
Con il V secolo si compiva l’esproprio cristiano sulla Roma pagana. L’antica remora che aveva escluso l’area del centro pagano, con l’insieme dei suoi imponenti monumenti pubblici, dall’occupazione cristiana sarebbe progressivamente caduta, mentre andava sempre più prendendo piede la consuetudine del pellegrinaggio ad limina, pur tra le recriminazioni dei teorici dell’ascesi cristiana, i quali negavano il valore spirituale del contatto fisico con i luoghi santi ed in particolare le eccessive sollecitazioni mondane cui poteva dar luogo il viaggio di devozione. Tra le voci polemiche nei confronti di questa prassi si sarebbe levata anche quella, autorevolissima, di Agostino d’Ippona, il quale, pur non disconoscendo il significato memoriale delle tombe apostoliche e delle sepolture dei martiri, denunciava certe deviazioni ed esteriorità nella pratica poco penitenziale della peregrinatio romana, esposta alla rumorosa simplicitas del popolo ed alla sua sete di guadagno. Anche un convinto fautore della ricarica devozionale che si poteva ottenere con la visita alle tombe apostoliche come Paolino di Nola avrebbe denunciato la fatica e la deconcentrazione spirituale che si accompagnavano alla circuitazione dei loca sancta romani. Tuttavia, l’inevitabile perfezionamento formale del culto degli apostoli avrebbe sempre più arricchito la concentrazione carismatica di Roma. Già partire dal IV secolo e con maggiore impulso nel V, anche lo sviluppo di una specifica liturgia incentrata sulla celebrazione dei corifei della fede cristiana, Pietro e Paolo, avrebbe recato un contributo significativo alla definizione dell’apostolicità
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romana. Il 29 giugno, dies bifestus dedicato ad entrambi gli apostoli, acquistò una sempre più decisa intensità, celebrato com’era nei tre siti più significativi della memoria martiriale romana: la basilica di San Pietro in Vaticano, quella di San Paolo sulla via Ostiense, ed infine l’ecclesia apostolorum, cioè san Sebastiano ad catacumbas. Attorno a queste coordinate topografiche, rinnovate ritualmente nel tempo della celebrazione liturgica, si sarebbe coagulata l’identità spirituale di Roma, col suo carico emotivo profondo, così come ce lo testimonia al principio del V secolo il poeta spagnolo Prudenzio, descrivendo la folla variopinta dei pellegrini che si accalcava sul ponte Adriano (poi sostituito dal ponte Sant’Angelo) diretta in San Pietro, circondata dal verde argenteo degli olivi e sovrastata dal colle Vaticano. Roma avrebbe continuato ad attrarre pellegrini con flusso regolare nel V e VI secolo, sempre più consapevole della propria funzione di deposito sacro, enorme confessione apostolica sulla quale sarebbe andata costruendosi la legittimità stessa del papato e la sua funzione vicariale rispetto alla sempre più latitante presenza civile dell’impero. Nonostante gli imperatori bizantini avessero legiferato in merito al furto ed al commercio di reliquie, come attesta una costituzione del 386 trasmessa dal Codex Theodosianum, le membra martyrum furono tuttavia assai precocemente oggetto di scambi, commerci, furti e falsificazioni. Contribuiva a far di esse una «merce» pregiata l’opinione di una loro virtù apotropaica valida non solo per i singoli fedeli ma anche per le città che le ospitavano. La dilatazione dell’idea di patrocinio dalla sfera del costume sociale romano a quella della simbolica cristiana costituì una delle fasi più significative dell’evoluzione del culto dei santi. Trasferita la delega della tuitio e della defensio dal pater familias terreno al patronus celeste, la terminologia ed i significati del fenomeno tesero a fondersi, adattandosi, come già era avvenuto per gli antichi, anche ai rapporti collettivi di sottomissione cultuale: così anche nel mondo cristiano città o territori poterono adottare, come già in uso nel mondo classico, un patrono celeste. Questa funzione difensiva, apotropaica e ad un tempo taumaturgica, sarebbe divenuta una delle chiavi fondamentali nell’uso delle reliquie, e per questo esse vennero intese anche quale baluardo da opporre agli invasori o elemento sacrale da integrare al sistema difensivo urbano. Nelle città cristiane, concepite come riproduzioni della Gerusalemme celeste, le basiliche e le chiese che componevano il sacro recinto cittadino, così come attestano i più antichi «versus» celebrativi e poi le «laudes civitatum», con le reliquie sommerse nei loro altari o nelle cripte, erano il «vero» circuito che proteggeva la città dai pericoli esterni. Non era difficile procurarsi illegalmente una reliquia. Già la depositio martyrum romana del IV secolo testimonia il furto di un santo corpo. Le guide per i pellegrini che i devoti viaggiatori a Roma utilizzarono tra VII e IX secolo contenevano esatte indicazioni sui santuari suburbani ed una candela bastava a percorrere quei labirinti che apparivano ai visitatori come un enorme deposito sacro da cui, nonostante i divieti della consuetudo romana, era facile asportare qualche «ricordo». Già dall’epoca di Gregorio Magno, anche la severità delle origini doveva attenuarsi e diventò più facile concedere ad abati o vescovi in visita ai limina apostolici reliquie da riportare ai loro paesi. L’evangelizzazione delle regioni settentrionali comportò un aumento del movimento di reliquie verso le nuove comunità, ancora sospese nel percorso di acculturazione che creava mutuazioni e sincretismi tra la fresca tradizione pagana ed il nuovo credo. Reliquie necessarie alle fondazioni monastiche, gli avamposti dell’evangelizzazione dell’Occidente, viaggiarono nei bagagli di tutti i missionari, e quando non era possibile procurarsene legittimamente si poteva o ricettarne o acquisirne, tanto più che nella stessa Roma, così gelosa custode dei suoi tesori sacri, fin dal IX secolo si incontrano tracce di «imprenditori» specializzati nel settore,
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183. In età carolingia ripresero a Roma i grandi progetti urbanistici. La cosiddetta Civitas Leonina, iniziata da papa Leone III (793-816) e compiuta da papa Leone IV (847-855), realizzò un muro di protezione per una vasta area intorno a San Pietro: inizia così l’assetto medievale della città, con la preminenza della basilica petrina. Pianta della Civitas Leonina: 1. basilica di S. Pietro; 2. Schola Langobardorum; 3. Schola Francorum; 4. Schola Frisonum; 5. Schola Saxonum.
come il diacono Deusdona che, in virtù della sua carica all’interno della struttura ecclesiale dell’Urbe, poteva con facilità accedere ai grandi ossari delle catacombe e sostituire con anonimi resti qualche parte di corpo santo ed avviare le reliquie così acquisite a compratori d’oltralpe. Tra i suoi clienti ci furono personaggi insigni, come Rabano Mauro, che di questi tesori non solo arricchì la sua Fulda, ma li destinò a fondamento di una quantità di oratori appositamente costruiti. Lo stato di abbandono dei cimiteri sotterranei e le distruzioni cui erano andate incontro col passare del tempo dovevano contribuire ad attenuare l’ostilità romana verso le traslazioni, così, mentre da una parte alcune reliquie venivano trafugate, dall’altra si fece più sistematico il trasferimento dei sacri corpi entro le mura cittadine; al contempo si iniziò anche ad assecondare le richieste che giungevano da più parti d’Europa, nel delicato momento di passaggio nel quale la lenta ma costante conversione dei popoli germanici assicurava un ruolo di eccellenza e di prestigio politico al ceto episcopale delle nuove nationes. Alle mozioni spirituali, memoriali e carismatiche del pellegrinaggio ad limina vennero così aggiungendosi anche quelle politico-ecclesiali, specie all’indomani della crisi iconoclasta che, a partire dall’VIII secolo, separava la Chiesa d’occidente da ogni residua dipendenza nei confronti del potere imperiale bizantino: sempre più numerosi sarebbero stati i vescovi che si spingevano a Roma dalle più lontane periferie della cristianità europea per attingere alla fonte di legittimità promanante dalla cattedra di Pietro. Custode delle chiavi dei cieli e quindi mediatore per l’accesso al limen sovraterreno, egli divenne il santo più popolare d’Occidente, come dimostra anche la fortuna del suo titulus nelle dedicazioni, e di quelle cattedrali in particolare, ove ebbe rivali solo da parte del «megalodiacono» Lorenzo.
Verso l’età aurea del pellegrinaggio «Vedi Roma e poi muori» sarebbe divenuto un proverbio che tuttavia rispecchiava un nuovo modo di vivere il pellegrinaggio quando, con la diffusione sul continente europeo della filosofia penitenziale del monachesimo irlandese ed anglosassone, si cominciò a concepire la vita stessa come peregrinatio, esilio volontario in terra. Stranieri e morti al precedente sistema di vita, i pellegrini partivano per un viaggio dal quale era lecito ed
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auspicabile non aspettarsi un ritorno, parafrasi dell’estraneità del credente, cittadino solo della patria celeste, dalle prospettive transeunti ed effimere del secolo. Insieme col monachesimo iro-franco si sarebbe diffusa la pratica del pellegrinaggio giudiziario, penitenza con cui si espiavano i peccati gravi o di natura pubblica che comportavano l’esclusione dalla comunità dei fedeli. Prassi di riconciliazione, la peregrinatio sarebbe così divenuta sistema culturale che accomunava peccatori e santi, i primi per espiare, i secondi per conquistare con i meriti ascetici del contemptus saeculi la patria celeste. Con la crescita della fortuna europea del pellegrinaggio a Roma andarono moltiplicandosi anche le sue strutture di sostegno: ogni «nazione» di pellegrini, da quelle anglosassoni alle germaniche, tese a costruirsi propri hospitia nelle vicinanze della basilica vaticana (scholae), affiancandosi ai primitivi luoghi deputati all’ospitalità degli stranieri eretti in Roma fin dagli inizi del V secolo (come la domus del nobile romano Pammacchio o gli ospedali edificati nel secolo successivo da papa Simmaco presso le basiliche di San Pietro, San Paolo e San Lorenzo). Questi nuclei permanenti di stranieri, ognuno dotato di propri chierici e di cimiteri, contribuirono a determinare un assetto particolare alla cittadella apostolica, specialmente dopo che, per ragioni difensive, papa Leone IV decise di racchiudere entro una cinta di mura – che da lui prese il nome di Leonina – il Vaticano e la Nova Roma sorta attorno alla basilica di Pietro. Essi furono anche il fulcro dell’osmosi che si sarebbe realizzata tra centro e periferia occidentale della cristianità – diverso sarebbe rimasto il rapporto dell’Oriente con Roma, destinato a sfociare già dall’VIII secolo in una serie di contrasti teologico-dogmatici poi perfezionati nell’XI secolo con la rottura definitiva dello scisma d’Oriente – grazie all’opera dei monaci missionari che dalla cittadella leonina e dalla protezione apostolica accordata dai pontefici romani, si sarebbero mossi per evangelizzare un’Europa non cristiana o ancora scarsamente cristianizzata. Sant’Amandio nel VII secolo venne a Roma pellegrino prima di ricevere dallo stesso san Pietro, apparsogli in visione, l’ordine di dedicarsi alla predicazione ed alla evangelizzazione delle Fiandre. Anche Wilfrido avrebbe attinto all’apostolicità romana prima di portare il messaggio di Cristo ai pagani frisoni, seguito in questa missione da san Willibrord, poi vescovo col nome romano di Clemente, anch’egli pellegrino ad limina; per non parlare del più famoso evangelizzatore della Germania, il monaco Winfrido, battezzato alla romanità degli apostoli col nome di Bonifacio. Missus sancti Petri ed ispiratore di una religiosità tutta petrina, egli avrebbe ravvivato con il suo esempio la prassi del pellegrinaggio in Roma informando le nuove chiese della Germania e del regno franco ad una sensibilità apostolico-romana che avrebbe in seguito avuto esiti significativi anche sul piano politico.
184. San Bonifacio, uno dei grandi fautori della Germania e dell’Europa cristiana, diede nuovo impulso al pellegrinaggio a Roma. Qui viene raffigurato mentre officia un battesimo in un manoscritto dell’inizio dell’XI secolo, conservato a Fulda.
Sul finire del X secolo, pressoché arrestate le scorrerie saracene che si insinuavano nel cuore del continente, arrivando a mettere in pericolo gli stessi paesi alpini, avviato il definitivo processo di stanziamento dei normanni nel bacino settentrionale della Senna, bloccati ed infine decimati gli ungari da Ottone I nel 955, iniziava per il travagliato Occidente un periodo di relativa stabilità, preludio all’atteso scoccare del millennio con tutte le sue escatologiche promesse. La paura per l’imminente Apocalisse avrebbe fatto scattare, nelle coscienze dei credenti, il bisogno di redimere, con opere spiritualmente meritorie, i propri peccati; così mentre da una parte l’Europa andava coprendosi – secondo la suggestiva immagine di Rodolfo Glabro – di «un bianco mantello di chiese», anche il pellegrinaggio raggiungeva la sua età aurea. Si sarebbero perfezionati, a partire da questo periodo, i percorsi europei del cammino di Santiago, mentre altri itinerari si snodavano fino alle Alpi, oltre le quali si irradiava il fascino mai sopito di Roma. Santuari di confine presidiavano i valichi più frequentati, come il San Bernardo, il Moncenisio o il Monginevro, mentre l’intensificarsi delle comunicazioni fra la penisola ed il continente rifondava una viabilità attorno alla quale andava componendosi e riorganizzandosi la rete degli insediamenti e
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185. Riproduzione dell’edicola sovrastante il Santo Sepolcro a Gerusalemme, realizzato nel Medioevo nella chiesa di Santo Stefano a Bologna.
con essa una serie di stationes caratterizzate dalla presenza di prestigiose reliquie. Il tragitto abituale dei pellegrini diretti a Roma, quella via Romea che ad essi doveva il suo nome, determinava così lungo il suo tracciato la crescita di numerosi centri devozionali, dove suggestioni gerosolimitane o compostellane si alternavano ai culti locali di martiri e santi: Mantova ad esempio, toccata da uno dei percorsi che raggiungevano sia Roma, sia i porti adriatici da cui i pellegrini potevano imbarcarsi verso la Terra Santa, perfezionava le leggenda che la voleva custode di una reliquia del sangue di Cristo; Bologna riproduceva nel complesso monumentale di Santo Stefano i principali monumenti sacri di Gerusalemme; Lucca, dove si venerava nell’immagine lignea del Santo Volto la vera effigie del Cristo: era questo, secondo la tradizione, il leggendario crocifisso di Nicodemo che il mare, agente di tante miracolose traslazioni, aveva portato sulle coste di Luni consentendo all’antica capitale del ducato e poi marca di Tuscia di inserirsi proficuamente nel reticolo viario e culturale dell’iter romano; o ancora Pistoia, sulla quale si riverberava il prestigio compostellano grazie all’attiva presenza di una reliquia di san Giacomo; ed infine Bolsena, dove l’omaggio alla martire Cristina rappresentava una delle ultime soste devote dei romei. Causa e a un tempo effetto di questa capillare sacralizzazione dell’Europa, il pellegrinaggio diffondeva lungo le sue strade un patrimonio di leggende e di culti che si prestavano anche a catalizzare le istanze di autocelebrazione del mondo cittadino e dei suoi attivi ceti di imprenditori e mercanti: così la supremazia adriatica di Venezia e le sue aspirazioni egemoniche sul Mediterraneo orientale avrebbero trovato espressione nel culto di san Marco e motivato la leggendaria traslazione delle sue reliquie da Alessandria d’Egitto. Analogamente, la fortuna commerciale dei mercanti di Bari, vera cerniera col mondo arabo e bizantino, giustificava, nella seconda metà dell’XI secolo, il furto delle reliquie di san Nicola vescovo di Mira, facendo dell’emporio pugliese concorrente di Venezia il centro cultuale più importante in Europa di questo antico patrono della sicurezza navale bizantina. Altre città come Pisa, non contenta di annoverare tra i suoi tesori sacri inestimabili reliquie, rinnovano la propria legittimità inviando rappresentanti cittadini a caricarsi del carisma gerosolimitano, come san Ranieri o più tardi santa Bona; i loro culti avrebbero efficacemente sintetizzato gli interessi religiosi e commerciali che univano il mondo mercantile delle città italiane al levante. Parallelamente al declinare del dominio musulmano nel Mediterraneo, andavano infatti consolidandosi i traffici delle città marinare italiane con il mondo orientale e con essi il diffondersi di una maggiore familiarità coi luoghi d’oltremare che avrebbe giustificato, insieme al proliferare di reliquie, anche quello di una quantità di leggendarie traslazioni. Era del resto questo il periodo in cui si andava perfezionando quella singolare relazione osmotica tra la Terra Santa e l’Occidente cristiano che avrebbe generato simultaneamente di là dal mare quella che l’Halbwachs definisce una topografia leggendaria dei Vangeli, di qua quella che si potrebbe chiamare una topografia apocrifa della diaspora, fatta di miracolose transfetationes che trasferivano nel povero mondo sacrale dell’Europa i protagonisti della primitiva epopea cristiana di Palestina. Non estraneo a questo percorso sarebbe stato proprio il desiderio, da parte delle chiese europee, di reagire alla sempre più pressante richiesta di obbedienza del primato romano nel secolo successivo alla riforma gregoriana. Ed è in questa luce che va anche letta la ricerca di legittimazione di chiese locali o nazionali, come in Spagna, ove si addensava il culto regio di Santiago, o in Francia, che affidava ai santi di Betania (le sante Marie, Maddalena compresa, Marta e Lazzaro) una tradizione di apostolicità in qualche modo competitiva con la romana; o infine l’Inghilterra, che attorno al «mito» di Giuseppe d’Arimatea ed al particolarissimo ruolo che i più antichi apocrifi gli attribuivano quale primo testimone della resurrezione, avrebbe elaborato non solo il complesso percorso del romanzo del Graal ma anche la giustificazione di una propria dignità «para-apostolica».
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Analogo percorso di legittimazione, anch’esso non avulso dalla latente intenzione di contrapporsi in qualche modo al sempre più pressante centralismo romano, sarebbe stato quello che riempiva le principali città portuali italiane, da Genova a Pisa, da Amalfi a Venezia, da Ancona a Bari – le stesse peraltro coinvolte nelle varie spedizioni militari d’oltremare – di reliquie di apostoli o di personaggi evolutisi dalla tradizione apocrifa dei Vangeli.
Il pellegrinaggio tra culmine e declino della teocrazia romana Contraltare locale alla potenza universale di Roma, ed in qualche modo risposta alla sua ambizione teocratica, reliquie trafugate, traslate, comprate, scambiate tra la Palestina e Bisanzio avrebbero offerto un’importante occasione di legittimità ai particolarismi cultuali delle chiese locali; ed era proprio contro questo frantumarsi della memoria cristiana delle origini, quella che aveva avuto in Gerusalemme ed in Palestina il suo fulcro storico ed anche il suo «deposito», che Roma avrebbe imposto l’eredità apostolica e la cattedra di Pietro quale punto d’arrivo, terminale unico, per dignità ed antichità, della diaspora vera e leggendaria che aveva riprodotto in Europa, tassello dopo tassello, il grande mosaico della memoria evangelica. E questo in maniera tanto più impellente tra XII e XIII secolo, quando da una parte la piega presa dagli eventi nel regno cristiano di Gerusalemme, dall’altra l’evolversi dell’impiego della croce verso obiettivi altri rispetto alla riconquista fisica dei luoghi santi, rendeva possibile e giustificava ideologicamente per il papato l’affermazione del suo primato ecumenico. Il movimento di reliquie di questi anni, che spesso era stato occasione per rifondazioni architettoniche, nuove edificazioni o consacrazioni, aveva determinato l’ampliamento di
186. In Santa Maria in Trastevere, la più antica chiesa mariana di Roma, alla fine del XIII secolo Pietro Cavallini realizzava i famosi mosaici con scene della vita di Maria. Qui si vede l’arrivo e l’adorazione dei Re Magi.
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105. Dall’età paleocristiana la raccolta delle reliquie diffuse ovunque un patrimonio prezioso per la ricerca di sacralità del pellegrino; Roma fu la città dove se ne concentrò il maggior numero. Mosaico con scena del trasporto delle reliquie, Museo di Apamea, Siria.
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106-107. La basilica di San Giovanni in Laterano, dove era miracolosamente apparsa l’immagine del Salvatore, in occasione del giubileo del 1350 fu inclusa da papa Clemente VI tra le chiese da visitare per lucrare l’indulgenza. Facciata e navata centrale.
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108. Il chiostro duecentesco della basilica di San Giovanni in Laterano, opera dei Vassalletto.
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109. La basilica di San Paolo fuori le Mura, o basilica Ostiense, era visitata dai pellegrini fin dal primo giubileo, poichÊ in essa erano conservate le spoglie dell’apostolo Paolo, da onorare assieme a quelle di Pietro.
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110. La basilica di Santa Maria Maggiore fu aggiunta da papa Urbano VI alle altre tre basiliche che i pellegrini erano tenuti a visitare durante il terzo giubileo del 1390.
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111. L’abside di Santa Maria Maggiore, la piÚ antica delle chiese romane dedicate alla Vergine, con il mosaico del Redentore in trono con la Madre, opera di Jacopo Torriti, 1295.
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112-113. Il colonnato e una veduta d’insieme della basilica cinquecentesca di San Pietro, dove erano custodite le spoglie dell’Apostolo che fin dai tempi antichi avevano attirato a Roma i pellegrini.
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114-115. Particolari dell’interno e dell’esterno della cupola michelangiolesca di San Pietro.
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116-117. Le statue di san Pietro e Paolo in piazza San Pietro a Roma.
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118. Il Sancta Sanctorum della basilica di Santa Croce in Gerusalemme, dove sono custodite le reliquie di Cristo che sant’Elena portò da Gerusalemme.
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119. L’interno della basilica di San Lorenzo fuori le Mura che, per l’anno giubilare 1575, completò il numero delle sette chiese stazionali. Il mosaico sull’arco trionfale risale al VI secolo.
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120. Ugo da Carpi, La Veronica tra i santi Pietro e Paolo. Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro in Vaticano, inizi del XVI secolo.
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un proprium festivo locale cui si era abbinata l’erogazione di benefici spirituali con cui incentivare la generosità dei fedeli chiamati a contribuire alle spese edilizie. Questo ed altri fattori avevano favorito una proliferazione delle indulgenze locali nella quale i papi, a cominciare da Innocenzo III, cominciarono a ravvisare gli indizi di una pericolosa dispersione di autorità e di prestigio per la Chiesa, anche a fronte di situazioni scandalose o ridicole. Così nel riassetto normativo tentato con il concilio lateranense del 1215, accanto al problema delle reliquie e della loro «mobilità» si affrontò anche quello della disciplina delle indulgenze. Limitando la libertas episcopale nel disporre di questa dispensa spirituale si andava a colpire un’altra tessera dell’autonomia ecclesiastica locale a favore della sola plenitudo potestatis pontificia. Considerate tesoro universale e quindi non più soggette alla dilapidazione soggettiva dei vescovi ma solo alla sovrana discrezione del papa, le indulgenze divennero un argomento di estrema importanza nella riflessione canonistica del XIII secolo; ad essa portò un contributo determinante l’elaborazione compiuta dagli Ordini Mendicanti, i quali costituirono una tessera fondamentale nello sviluppo della giurisdizione romana. Alla domanda «Se un vescovo possa concedere indulgenze», Tommaso d’Aquino rispondeva «Potestas faciendi indulgentias plene residet in papa», restando ai vescovi la possibilità di emanarle solo «secundum ordinatione papae».
187. Francesco alter Christus, xilografia della Cronaca di Norimberga. La devozione a Francesco da parte dei suoi discepoli, divenuta poi vera devozione popolare, farà dei luoghi francescani in Italia una meta alternativa di pellegrinaggio.
188. Affresco di Giotto nella chiesa superiore di San Francesco ad Assisi in cui si raffigura papa Innocenzo III che conferma la regola a Francesco.
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Sola dispensatrice della riserva di salvezza, Roma iniziava anche ad accrescere il patrimonio delle indulgenze legate alle basiliche apostoliche, mentre progressivamente l’antica attenzione posta sulla cerimonialità liturgica si trasferiva sui limina ecclesiali, che divenivano essi stessi soggetto sacro e non più sfondo di un’azione penitenziale: al pellegrinare, cioè, si sostituiva, soppiantandone il significato profondo, il solo raggiungimento della meta, ancorché corredato delle necessarie devozioni. Mentre le speranze di un recupero materiale dei luoghi santi si affievolivano insieme col crescere della consapevolezza dell’incapacità di sostenere lo sforzo bellico, agli ideali armati della guerra santa si sostituivano quelli inermi e pacifici dei missionari nei nuovi orizzonti aperti all’Occidente dalla conquista mongola. Mutato il clima spirituale e culturale, così come quello politico ed economico, la lontana Gerusalemme di Palestina tornava a essere oggetto di nostalgie nel pensiero religioso cristiano, specialmente da quando, nel 1291, insieme a San Giovanni d’Acri – ultimo baluardo sopravvissuto alla riconquista musulmana – cadevano le ultime speranze di una signoria occidentale sui luoghi santi. Anche se il pellegrinaggio oltremarino non si interruppe neppure durante le successive spedizioni crociate, che tuttavia non sarebbero mai più riuscite a riconsegnare alla cristianità la sua patria spirituale, erano ormai profondamente mutati gli orizzonti culturali e religiosi del viaggio ai luoghi santi, in un’epoca in cui le necessità commerciali e gli interessi geografici spingevano sempre più a est di Gerusalemme la curiosità dell’Occidente. In questo quadro, la lenta operazione culturale con cui si era trasferito in Europa il patrimonio di memorie legate alla Palestina diveniva capace di produrre nuovi orizzonti di devozione, con i quali ci si allontanava definitivamente dal «bisogno» d’oltremare. La serie di miracoli eucaristici che nel XIII secolo produsse in Europa reliquie fresche del sangue di Cristo grondato da particole consacrate è una riprova di come ormai fosse chiaro, nelle coscienze dei fedeli, che il lontano Calvario di Palestina poteva essere trasferito in ogni altare dove il mistero della transustanziazione rinnovava il sacrificio di Cristo. Mentre – come aveva sostenuto Innocenzo III –, la Gerusalemme storica diventava «miserabile», l’Occidente era ormai in grado non solo di riprodurre in sé l’antica suggestione sacrale dell’oltremare evangelico, ma di evocare ed attualizzare nuovi modelli religiosi in cui la cristomimesi si spingeva fino alla sovrapposizione: così Francesco d’Assisi, alter Christus nella rappresentazione dei suoi discepoli, avrebbe generato una nuova Terra Santa serafica tra Umbria e Toscana, autorizzando gemellaggi simbolici come quelli che facevano di Assisi una nuova Betlemme o del monte della Verna un nuovo Calvario. Né è un caso che proprio sul finire del secolo, uno dei maestri del movimento spirituale francescano, Pietro di Giovanni Olivi, spingesse fino alle sue estreme conseguenze questa sovrapposizione impostando, in maniera canonisticamente ineccepibile, un’indulgenza ad instar S. Sepulchri applicabile alla culla della primitiva comunità apostolica francescana: la Porziuncola. La plenitudo potestatis invocata dal Laterano IV per consentire al pontefice romano di arginare l’abuso locale di indulgenze si convertiva sul finire del XIII secolo, grazie all’interpretazione dei Mendicanti, in potente strumento teocratico liberamente impugnabile dai papi anche al di là della consuetudine canonica e questo grazie ad un’equiparazione, concettualmente fondamentale, tra peregrinatio e crociata. In base a questo nesso anche i pellegrini in partibus fidelium poterono essere equiparati a quelli, armati o meno, in partibus infidelium, e condividere con essi i privilegi spirituali che tradizionalmente erano stati riservati a quanti avevano assunto, con la crux super vestem, l’obbligo della difesa della fede ovunque, in Oriente come in Occidente, la Chiesa ravvisasse dei nemici. Già alcuni precedenti, come appunto il privilegio remissoriale di Assisi, ma più an-
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189. San Pietro. Particolare dell’affresco del Giudizio Universale realizzato da Pietro Cavallini a Roma, nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere.
190. La Veronica, durante una caduta della Via Crucis, porge a Cristo la stoffa che sarà poi tramandata col nome di «Veronica». Incisione del 1511 di Albrecht Dürer.
cora la Perdonanza concessa da Celestino V a Santa Maria di Collemaggio dell’Aquila nel 1295, dovevano illustrare questo percorso, introducendo il «nuovo» fenomeno di un’indulgenza plenaria applicata a un pellegrinaggio esclusivamente occidentale. Fino a quel momento le modeste indulgenze che si erano accompagnate alla visita dei monumenti romani, pur essendosi arricchite nel corso del XIII secolo in virtù della discrezionalità pontificia assicurata dalla lettura delle disposizioni conciliari lateranensi, non avevano comunque minimamente assunto questo carattere particolare; ma già ai tempi di Gregorio IX i periodi di remissione dei peccati concessi ai pellegrini petrini davano avvio a quel processo di dilatazione che culminerà con l’indulgenza del giubileo, mentre progressivamente si veniva perfezionando la teoria della superiorità della basilica di San Pietro su tutte le altre chiese di Roma e del mondo. Nel pensiero del papato dugentesco essa diveniva Gerusalemme celeste, come sottolineava nel 1279 Niccolò III, e nonostante qualche detrattore questa immagine avrebbe dominato nelle coscienze di quei pellegrini che sempre più numerosi guardavano a Roma quale sola capitale cristiana: il luogo in cui si poteva vedere nella «Veronica nostra» di dantesca memoria il vero volto del Cristo e l’immagine trionfante della sua Chiesa. Grazie alla munificenza delle concessioni di Niccolo IV il potenziale spirituale di Roma si dilatava enormemente nell’ultimo scorcio del Duecento, e nella generale straordinaria dotazione di tutte le chiese romane, San Pietro avrebbe giocato la parte del leone. Questo concentrarsi di «santità» sulla basilica pontificia procedeva di pari passo con un sempre più fermo progetto di centralizzazione che avrebbe conosciuto il suo culmine nell’età di Bonifacio VIII: non è un caso che tra i primi atti del suo pontificato si collochi proprio la revoca di quella indulgenza di Collemaggio che rischiava di vanificare, con la sua immediata fortuna, ma anche con la sua relativa giustificazione formale – a differenza di quella di Assisi che invece il papa confermò – la pertinace ricomposizione del thesaurus ecclesiae compiuta da Roma per tutto il XIII secolo. Tuttavia, pur in questo imponente processo di potenziamento dei diritti pontifici sulla disciplina delle indulgenze, lo straordinario tesoro affidato alle celebrazioni del centesimo anno non sarebbe stato programmato, se è da accettare senza riserve la preziosa testimonianza del cardinal Stefaneschi. Spinto dal concorso di fedeli e dalla sempre più intensa aspettativa, il papa avrebbe equiparato, nel tenore e nella formula della concessione, i pellegrini dell’anno centesimo ai crucesignati delle sue numerose crociate politiche: così i romei di quell’anno singolare ebbero come premio della loro fatica lo stesso grande perdono promesso ai missionari francescani tra i tartari, agli alleati del papa nella sua guerra contro i siciliani, o a quanti combattevano sotto i colori pontifici contro i Colonna. Apoteosi e ad un tempo declino della teocrazia romana, il giubileo chiudeva un’epoca. Di lì a poco il seggio apostolico si trasferiva ad Avignone e iniziava la lunga crisi che per più di un secolo avrebbe sconvolto le coscienze europee. Con tutto ciò gli anni santi si fecero più frequenti, dapprima ogni cinquant’anni, poi ogni trentatré per consentire, almeno una volta nella vita, la possibilità di aver accesso al perdono generale, mentre andavano moltiplicandosi i luoghi in cui era possibile lucrare le prestigiose indulgenze delle basiliche romane, eredi di quelle oltremarine. Questo processo di banalizzazione contribuì a quella svalutazione ideologica del pellegrinaggio che caratterizzò gli ambienti spirituali del secondo Trecento e del Quattrocento. Il primo umanesimo, rileggendo i Padri della Chiesa, trovò nelle parole di sant’Agostino o nella diffidenza di san Girolamo un’autorevole conferma alle riserve nei confronti di una prassi devozionale i cui significati spirituali profondi erano stati completamente sopraffatti da una venale esteriorità. Prendeva così piede una sorta di pellegrinaggio interiore, un viaggio dell’anima non più attraverso i luoghi fisici ma in quelli spirituali dell’immedesimazione e dell’identificazione
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mistica in Cristo. Attraverso questo passaggio si giunse nell’età moderna alla riproduzione della Via Dolorosa che i pellegrini percorrevano a Gerusalemme e fu possibile trasferire tutto l’itinerario della Passione dovunque una collina o un monte consentissero la riproduzione del Calvario. Era nata la Via Crucis, e di conseguenza la serie di rappresentazioni e di sacri monti cui questa devozione avrebbe dato origine in Occidente: con essi l’immagine dolorosa della Veronica, protesa in un atto di pietà, diveniva patrimonio comune e immagine definitiva che neppure la riforma gregoriana del martirologio avrebbe saputo strappare all’immaginario religioso.
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Fernando López Alsina
Santiago
191. Il vescovo Teodomiro scopre la tomba di san Giacomo, secondo una miniatura di un esemplare della prima metà del XIII secolo della Historia compostelana, oggi presso la biblioteca dell’Università di Salamanca.
Santiago gode, con Roma e Gerusalemme, di una posizione privilegiata nella storia del pellegrinaggio cristiano. Le tre città divennero meta dei grandi pellegrinaggi del medioevo. A dodici secoli di distanza il pellegrinaggio jacopeo appare in grado di entrare con particolare vitalità nel terzo millennio. Tuttavia Compostella non era ancora nata quando Gerusalemme e Roma erano potenti centri di spiritualità, visitati da genti appartenenti a tutti i popoli della cristianità; prima ancora che nascesse il pellegrinaggio cristiano entrambe le città avevano la propria storia multisecolare. A Compostella accade tutto l’opposto. I tratti confusi di una storia tardoantica che non va oltre l’interesse locale vengono dimenticati rapidamente quando il chiarore brillante delle luci del IX secolo inizia ad attrarre l’attenzione della cristianità verso la chiesa di Santiago, da poco fondata supra corpus apostoli.
Il progetto della città levitica La relativa modernità rispetto a Roma o Gerusalemme e l’assenza di un passato significativo situano la Compostella che si forma nel IX secolo nelle condizioni migliori per disegnare un progetto di città di pellegrinaggio del quale le due città sante offrivano ormai un paradigma. Uno dopo l’altro, gli elementi di questo progetto urbano si sviluppano progressivamente e si plasmano nella trama urbana e nella sua architettura via via che vengono recepiti e intesi da coloro a cui sono destinati e la cristianità occidentale risponde alla chiamata facendo crescere il pellegrinaggio al sepolcro dell’Apostolo e disegnando i cammini di Santiago sul vecchio continente. Dal IX secolo Santiago di Compostella inizia a configurarsi come una città strettamente legata alle modalità proprie della celebrazione di un culto religioso e acquista progressivamente il proprio profilo urbano caratteristico, alcuni tratti del quale sono riconoscibili ancor oggi. Questo profilo urbano si costruisce progressivamente su due livelli – quello concettuale e quello fisico – sempre a partire dalle realtà anteriori al IX secolo, ereditate dall’antichità. La chiave per intendere entrambi gli ordini è l’edificazione di una piccola chiesa, fondata in una data incerta durante la terza decade del secolo IX, al fine di ospitare il culto sepolcrale di san Giacomo Maggiore. Sul piano fisico, l’eredità più visibile che la Compostella medievale riceve dall’antichità è la sua localizzazione, che condiziona il quadro fisico in cui si svilupperà la città. Il luogo va probabilmente messo in relazione con la mansio o dimora romana di Asseconia. Dopo questa prima constatazione occorre però interrogarsi su altri possibili lasciti e analizzare in che misura erano ancora vivaci all’inizio del IX secolo.
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Il primo nome che ricevette Santiago nel IX secolo fu quello di Arcis Marmoricis. Il toponimo rimase in uso fino all’XI secolo, a volte nella forma Santiago de Arcis. Non si giunse mai ad affermare esplicitamente che questo fosse stato il nome del luogo prima del IX secolo, tuttavia il termine che si applica al nuovo nucleo organizzato intorno alla chiesa jacopea pare esser stato coniato alla luce delle antiche fonti letterarie, che dichiaravano che l’apostolo Giacomo giaceva sepolto ad Aca Marmarica. Non si può andar oltre all’ipotesi di una connessione, poiché di fatto le prime versioni della traslazione del corpo dell’Apostolo in Galizia, redatte nei secoli IX e X, evitano con cura di nominare il luogo dove viene sepolto. Senza dubbio la prima grande proposta per definire la Compostella medievale fu elaborata dai fondatori dei nucleo primitivo. Nel suo aspetto materiale si potrebbe confondere con qualunque altro piccolo insediamento ecclesiastico di carattere rurale del IX secolo. Non è altro che un piccolo agglomerato di tre chiese: San Giacomo, San Giovanni Battista e il Salvatore di Antealtares. L’insieme viene isolato dallo spazio circostante e delimitato da confini spaziali molto precisi, che configurano il locus sanctus o luogo consacrato. Questo nuovo ambito, di circa tre ettari di superficie, nato in conseguenza di un’esigenza canonica, condizionerà la pianta della città storica. Come indicano la Concordia di Antealtares e i diplomi del Tumbo A, la fondazione del primo agglomerato è un’impresa regia ed episcopale ad un tempo. L’archeologia conferma queste evidenze. Sulla lapide sepolcrale di Teodomiro di Iria, trovata durante gli scavi nel sottosuolo della cattedrale, è impressa la croce asturiana di Alfonso II. La partecipazione del re Casto all’organizzazione del culto jacopeo è un corollario del ruolo avuto dal culto di Santiago nell’organizzazione del nucleo asturiano e nell’istituzionalizzazione di una monarchia cristiana nell’ultimo terzo dell’VIII secolo. Oltre che garante della continuità dalle origini apostoliche, nell’Inno di Mauregato si invoca l’apostolo Giacomo come protettore della comunità, del re, del clero e del popolo, attribuendo un caratteristico ruolo intercessore al martire, che viene invocato come «capo sfolgorante d’oro dell’Hispania». Come ha sottolineato Jean Bryère, quando il cristiano vuole fare chiarezza su un aspetto della propria vita e della propria fede spontaneamente interroga il Vecchio e il Nuovo Testamento. Per il cristiano la storia del popolo di Dio è la sua storia. La comparsa del sepolcro di san Giacomo in pieno secolo IX permette di volgere gli occhi al modello di Gerusalemme come città santa e alla storia del popolo d’Israele. Le formulazioni teoriche assumeranno un’importanza cruciale per il futuro del nucleo asturiano, per l’instaurazione nella penisola del culto sepolcrale e per la configurazione della città di Compostella.
192. Parte di una pala d’altare rappresentante la translatio del corpo di san Giacomo e le tradizioni relative al suo arrivo in Galizia. Camerino, Museo diocesano.
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Le circostanze storiche specifiche sono interpretate in chiave religiosa alla luce delle immagini dell’Antico Testamento. Si stabilisce l’identificazione della nuova chiesa asturiana con il popolo eletto d’Israele e la fedeltà all’Alleanza con Yahvè. Si denuncia l’accettazione passiva del dominio politico musulmano e si propone come alternativa l’incoronazione di un principe cristiano, come modalità per ristabilire l’Alleanza. Alfonso II sarà il primo principe asturiano a venire unto re e si farà promotore del neogoticismo ad Oviedo, la nuova capitale che doveva corrispondere alla Toledo dei visigoti. I chierici della chiesa asturiana che si sottraggono all’autorità del metropolita di Toledo sono i sacerdoti del nuovo popolo eletto, che offriranno sacrifici e orazioni per impetrare l’espulsione dei musulmani e la conquista della nuova terra promessa. Nella configurazione della frontiera occidentale tra cristianità e Islam, si erge poderosa la figura dell’apostolo Giacomo. Questo sfondo culturale, legato ai chierici che ispirano l’azione di Alfonso II, è la chiave per comprendere la prima dimensione urbana del locus sanctus di Compostella come città levitica. La città levitica appare in diversi passi dell’Antico Testamento con alcuni tratti ben definiti. Secondo il libro dei Numeri (Nm 35) Yahvè dispose che nella ripartizione della Terra Promessa non si delimitasse alcun territorio per i leviti. Ognuna delle altre tribù avrebbe ceduto loro, sul proprio rispettivo territorio, alcune città nelle quali potessero abitare e i pascoli intorno ad ogni città per gli animali e il bestiame, per un totale di quarantotto città. Lo spazio attribuito ad ogni città levitica come pascolo doveva venir delimitato tramite una circonferenza di un miglio di raggio, facendo centro sulla città, «circuitum mille passum spatio», secondo la traduzione della Vulgata. Delle quarantotto città solo sei avrebbero goduto di un regime speciale, come città di asilo per gli omicidi, nelle quali non si sarebbe potuta esercitare la vendetta del sangue. Il libro di Giosuè descrive la ripartizione del paese tra le tribù; enumera le sei città privilegiate (Gs 20) e le altre quarantadue città che vennero concesse alla tribù di Levi (Gs 21). Nell’anno 834, seguendo probabilmente questo modello biblico, Alfonso II concesse alla chiesa compostellana uno spazio di tre miglia attorno al tempio, segregandolo dal territorio al quale era in precedenza appartenuto e cedendo alla sede jacopea i corrispondenti diritti su di esso. Il martire, testimone della propria fede all’interno di una comunità particolare, si trasforma in intercessore e protettore. La miracolosa comparsa del suo sepolcro fino allora nascosto veniva interpretata come manifestazione della sua disposizione favorevole ad accettare questo ruolo tutelare. L’intervento di Alfonso II nell’accettazione del significato dell’inventio, nella fondazione della chiesa jacopea e nella cessione delle tre miglia rende manifesto il riconoscimento ufficiale da parte della monarchia del ruolo attribuito al culto di san Giacomo nella comunità politica asturiana. Rivelando il suo sepolcro l’apostolo Giacomo risponde alla comunità che lo invoca e accetta il patrocinio sulla monarchia e sul regno.
193. Le fasi dello sviluppo della città di Santiago secondo la ricostruzione di Fernando López Alsina: In alto: Locus Sancti Jacobi (850-880); Al centro: Villa Sancti Jacobi (900-1040); In basso: Civitas Sancti Jacobi (ca. 1150).
ante
izia.
Il tempio della città levitica, la basilica compostellana, viene innalzato al rango di chiesa episcopale; Teodomiro di Iria e i suoi successori vi stabiliscono la propria residenza. La chiesa asturiana e i suoi pastori, liberi dalla tutela islamica e confermati nella celebrazione della discussa liturgia ispanica, hanno ristabilito la fedeltà all’Alleanza. Strumento del rinnovamento è il culto dell’apostolo Giacomo. Il vescovo di Iria, ministro principale di questo culto, e i monaci di Antealtares, leviti ai quali Alfonso II consegna l’area delle tre miglia, sono l’espressione del sacerdozio del popolo eletto, nel suo cammino storico, come un nuovo Israele verso la Terra Promessa. Le tre miglia simbolizzano l’aspirazione di Compostella a porsi come città levitica. Nel IX secolo l’influenza del modello gerosolimitano e il significato del circuito delle tre miglia, come delimitazione di una proposta urbana, sono percettibili solo su questo piano simbolico. Dal punto di vista economico e sociale Compostella continua ad essere
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uno spazio puramente rurale, diretto da un centro anch’esso rurale, circondato da questo circuito di tre miglia e delimitato dai segnali di confine costituiti dai milladoiros. Quando, forse per opera di Ordoño II, il circuito raddoppia e raggiunge le sei miglia di raggio, la simmetria con il modello levitico diviene ancora più evidente. Se i leviti di una città di asilo disponevano di un circuito di un miglio e Israele contava un totale di sei città d’asilo, i sacerdoti del santuario compostellano – la città levitica del regno delle Asturie – dispongono di un circuito di sei miglia sottoposto al loro controllo. Questo parallelismo simbolico attribuisce al clero della basilica compostellana una rilevanza particolare all’interno della chiesa del León e delle Asturie. La preminenza che, nel regno asturiano, veniva conferita ad una sede episcopale dal fatto di possedere un circuito di sei miglia era un’idea familiare a Pelayo di Oviedo.
Compostella come luogo apostolico La giovane Compostella propone letture simboliche dello spazio urbano ispirandosi ai grandi centri di pellegrinaggio già esistenti. Una seconda proposta si richiama alla Roma cristiana e presenta Compostella come luogo apostolico. La elaborano Alfonso III (866-910) e Sisnando, quarto vescovo di Iria-Compostella, nel corso di un’altra tappa molto caratteristica dell’evoluzione del regno asturiano, segnata dalla continua espansione territoriale nei confronti della Spagna musulmana, alla quale la Cronaca profetica, ispirata anch’essa all’Antico Testamento, vaticinava una fine imminente. Alcuni diplomi di Alfonso III attribuiscono il successo delle campagne militari all’intercessione efficace dell’apostolo Giacomo. La sede apostolica di Compostella viene così ad occupare una posizione particolare nell’organizzazione ecclesiastica del territorio. Alfonso III attua una politica selettiva nei confronti delle antiche sedi episcopali a vantaggio di Compostella. Se da un lato insedia vescovi in sedi antiche molto meridionali come Coimbra, dall’altro evita accuratamente di
194. Notizia nel Chronicon Iriense della costruzione della basilica di Alfonso III consacrata dal vescovo Sisnando il 6 maggio 899.
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121. Cristo invia l’apostolo Giacomo Maggiore a predicare in Hispania. Miniatura francese della seconda metà del XVI secolo, Heures de François de Guise, Musée Condé, Chantilly, ms. 64/1671, f. 185v.
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122. L’apostolo Giacomo Maggiore predica a un gruppo di sei uomini. Miniatura fiamminga da un libro d’ore verso il 1500, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 28345, f. 264v.
123. San Giacomo raffigurato con l’abbigliamento e il libro caratteristici degli apostoli in una miniatura del Liber Sancti Jacobi, XII secolo. Codex Calixtinus, Tesoro della cattedrale di Compostella, f. IV r.
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124. Veduta d’insieme di Santiago, la città che l’afflusso dei pellegrini ha fatto sviluppare attorno al sepolcro di san Giacomo Maggiore.
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125. La facciata della cattedrale di Santiago dà un aspetto barocco a un edificio che ha conservato all’interno tutti i tratti della chiesa di pellegrinaggio medievale.
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126. Particolare del timpano della facciata, dominato dalla statua di Santiago.
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127. La scalinata della piazza ÂŤde las PlaterĂasÂť conduce alla porta dallo stesso nome, da cui si accede alla chiesa dal lato meridionale.
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128. Nel fregio sovrastante la porta «de las Platerías», immediatamente alla sinistra di Cristo, è raffigurato l’apostolo Giacomo con il libro in mano, 1116 circa.
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129. La porta ÂŤdel PerdonoÂť o porta santa.
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130. Sul pilastro centrale del Portico della Gloria, sotto il Cristo in trono, è san Giacomo ad accogliere i pellegrini. Questa opera del maestro Mateo documenta l’arrivo in Galizia, tramite la via di pellegrinaggio, della sensibilità artistica borgognona, 1188.
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131. Particolare di alcuni dei ventiquattro Anziani raffigurati sulla cornice del Portico della Gloria mentre accordano gli strumenti in attesa del giorno del Giudizio.
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132. La navata destra della cattedrale vista dal Portico della Gloria.
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133. Statua policroma di san Giacomo posta sull’altar maggiore della cattedrale, XIII secolo, con ritocchi successivi; la pellegrina d’argento e il bordone d’oro sono settecenteschi.
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134. La navata centrale e l’altar maggiore della cattedrale di Santiago.
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135. Capo Finisterre, estremo margine occidentale del Camino.
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195. Ricostruzione secondo Hauschild della basilica di Alfonso III, edificio di maggior grandezza del cosiddetto arte asturiano.
farlo a Braga e a Dumio, ad essa strettamente legata. Braga, secondo la Cronaca di Braga (1109 ca.), fu attribuita al luogo di Santiago e posta al suo servizio. Dall’altra parte, e in modo complementare, il titolo dumiense viene attribuito ad una nuova sede, creata da Alfonso III nella parte settentrionale dell’attuale provincia di Lugo, radicata nella chiesa di San Martino di Mondoñego, alla quale viene donata anche la località di Dumio, prossima a Braga. Alfonso III esclude deliberatamente dalla nuova configurazione del regno asturiano-leonese l’insieme Braga-Dumio, che nei secoli precedenti era stato il centro ecclesiastico del nord-est peninsulare. In questo ruolo subentra il vescovo di Iria, titolare della sede apostolica e del tempio della città levitica. Il vescovo Sisnando I è il primo prelato iriense a sottolineare il carattere apostolico della propria sede. Nell’XI secolo il suo successore, Cresconio, susciterà le riserve di papa Leone IX e del concilio di Reims del 1049 poiché reclamerà impropriamente il «culmen apostolici nominis» che poteva venir utilizzato solo dal vescovo di Roma. Due erano i fondamenti dell’apostolicità compostellana. Il primo è il possesso del corpo di san Giacomo, affermato in modo ininterrotto dal momento dell’inventio del sepolcro. Il secondo è l’origine apostolica della sede in conseguenza della predicazione di san Giacomo in Spagna e nelle terre d’Occidente. Intenzionalmente messo in penombra alla fine dell’XI secolo, questo secondo fondamento è all’opera dai primi tempi della storia della sede compostellana. Non dobbiamo essere tratti in errore dal fatto che nessuno dei testi compostellani anteriori al 1150 si riferisce esplicitamente alla predicazione di san Giacomo in Spagna e che, notoriamente, lo stesso Diego Gelmírez la nega nell’Historia Compostellana. Per contro, il Codice Calixtino combinerà simultaneamente entrambi i fondamenti, la presenza sepolcrale e la predicazione apostolica. Fino al XII secolo i due fondamenti non riuscirono a fondersi. I due viaggi di san Giacomo ad Occidente erano stati riferiti in testi e tradizioni che si ignoravano reciprocamente. La tradizione della missio di san Giacomo in Occidente aveva dato luogo allo sviluppo di una prima geografia della sua attività, imperniata nei dintorni di Iria e di Padrón. La fondazione precoce dell’attuale chiesa di San Giacomo di Padrón nel X secolo, proprio nel luogo dove stava il padrón (o colonna), permette di constatare che la regione del basso Ulla era stata incorporata nello scenario delle attività dell’apostolo Santiago. Lo stesso si può dire della tradizione che suppone l’esistenza di ventiquattro antichi vescovi santi nella sede di Iria, che servivano a garantire il nesso di successione continuata con la fondazione nel I secolo. Il secondo viaggio di san Giacomo in Galizia, quello che vi portò il suo corpo senza vita, prende forma nella translatio, chiave per la presenza del sepolcro. La versione più antica, dell’XI secolo, non stabilisce nessuna relazione con un primo viaggio in missione apostolica e giustifica l’arrivo del corpo in Galizia non in base ad una precedente predicazione ma per l’intervento divino che guidò la nave. Tuttavia, ci sono indizi sufficienti che permettono di affermare che alla base dell’adozione del titolo apostolico per la chiesa compostellana vi fu anche l’affermazione di un primo viaggio, la missio in Occidente di san Giacomo vivo. A questo riguardo l’argomento usato dai vescovi catalani per respingere le pretese dell’abate Cesareo di Montserrat è molto significativo. La pretesa autorità che la chiesa di Santiago si arrogava per intervenire negli affari dell’antica Tarraconense era priva di fondamento perché san Giacomo era giunto in Spagna da morto e non da vivo. Questo ragionamento presuppone l’utilizzo dell’argomento contrario da parte di Cesareo, della sede compostellana e dei vescovi che presero la decisione in concilio: san Giacomo aveva esercitato la sua missione in Spagna. Con la sua aspirazione all’apostolicità Compostella rivendicava le caratteristiche proprie della sede apostolica romana. La concezione
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apostolica del locus sanctus si usa come principio ordinatore del programma di costruzioni edilizie e di riforme ecclesiastiche attuato a Compostella da Sisnando I e da Alfonso III, che trasformerà un locus ecclesiastico e rurale in un nucleo aperto, adatto all’installazione e all’organizzazione di una comunità locale preurbana in senso proprio. L’applicazione a Compostella del nuovo modello apostolico lascia la propria impronta nell’agglomerato preurbano, che viene sottoposto a un completo rinnovamento. Si ricostruisce, ampliandola, la chiesa di Santiago; sul suo lato settentrionale viene aggiunta la chiesa di San Giovanni Battista e l’insieme viene consacrato nell’899. Vengono edificate nuovamente la chiesa monastica del Salvatore di Antealtares e quella di San Felice di Lobio. Viene costruita la chiesa di Santa Maria della Corticella, con tre altari dedicati a santo Stefano, santa Colomba e san Silvestro. Quest’ultimo titolo racchiude una delle chiavi per l’interpretazione simbolica del nuovo paesaggio di una Compostella idealmente urbanizzata ad immagine di Roma. Il modello per il luogo apostolico di Compostella non può essere altro che il luogo apostolico del Laterano e la stessa Roma. Se, nel IV secolo, un papa Silvestro e un imperatore Costantino avevano fondato la basilica del Salvatore e il battistero di San Giovanni in Laterano, presso il luogo apostolico di Pietro, Sisnando e l’imperatore Alfonso III consacrano la basilica del Salvatore di Antealtares e il battistero di San Giovanni in un nuovo Laterano – Compostella – edificato vicino al sepolcro dell’apostolo Giacomo. La perfetta sincronia tra il ricordo di papa Silvestro nel titolo dell’altare della Corticella e l’inizio dell’uso del titolo di vescovi della sede apostolica è, a questo riguardo, sufficientemente eloquente. Il modello romano farà sentire il suo peso in diversi momenti della storia della sede compostellana. Gli esempi si moltiplicano durante l’episcopato di Diego Gelmírez. «Ad instar romane curie» Gelmírez dispose che tutti gli anni, nella litania maggiore – il giorno della festa di san Marco – clero e popolo compostellano si recassero nella chiesa di Santa Croce del monte del Gozo. Il vescovo si preoccupò di introdurre nella basilica usi romani e ottenne da papa Pasquale II che i dignitari della chiesa compostellana, nei giorni più solenni, potessero portare in testa mitre ornate di pietre preziose, «come fanno i cardinali presbiteri o diaconi della sede apostolica». Di fatto, Gelmírez aveva istituito nella sede compostellana sette cardinali presbiteri «secondo il costume della chiesa di Roma». Ad imitazione della cancelleria pontificia, Diego Gelmírez incorpora nei documenti episcopali il simbolo pontificio. Queste innovazioni si riflettevano anche in diversi aspetti del comportamento del primo arcivescovo di Compostella; furono proprio quelli che offrirono il destro ai suoi detrattori per accusarlo davanti ad Onorio II, poiché tanto nel suo abbigliamento quanto nel ricevere le offerte dei pellegrini si comportava impudentemente come un papa «apostolico more». Le stesse tendenze diventano evidenti nel caso del regime delle indulgenze e degli anni giubilari. Uno degli anacronismi più clamorosi nel quale incorre la bolla Regis aeterni, attribuita a papa Alessandro III, consiste nell’invocare la supposta concessione di un anno giubilare alla chiesa di Santiago fatta da papa Callisto II (1119-1124) «eisdem modo et forma, quo Romana ecclesia habet». L’affanno di prendere come riferimento il parallelo romano conduce in questo caso a proporre che nel XII secolo a Compostella si celebrasse un anno giubilare simile a quello romano, pur essendo certo che il primo anno santo romano era stato celebrato nel 1300. È sicuro che la città apostolica di Compostella, per la quale dal primo terzo del X secolo sono documentati pellegrini provenienti da oltre i Pirenei, conobbe uno sviluppo rapido. Lo dimostrano anche la natura e le caratteristiche del sistema difensivo di cui la dotò il vescovo Sisnando II poco prima della sua morte nell’anno 968, per proteggerla dalle incursioni normanne. Non è assodato, se pur probabile, che già prima di quell’anno si
196. Ingresso della chiesa di Santa María de la Corticela, che verrà incorporata nella cattedrale romanica.
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fosse edificata una prima cerchia difensiva sul perimetro del locus. In ogni caso, l’opera di Sisnando II è di un’ambizione senza precedenti a Santiago, e priva di paralleli nella Galizia altomedievale. L’ambizione del sistema difensivo e la complessità della sua esecuzione spiegano perché la Cronaca iriense qualifica come architetto il direttore dei lavori. Scavi recenti effettuati nella zona della Azibecheria – muro e torri del X secolo – e a Senra – fossato del X secolo riutilizzato da una torre delle mura del secolo seguente – hanno permesso di localizzare con precisione le due parti di queste difese del X secolo erette in questi due diversi circuiti. Come indicatore dello sviluppo demografico basta prendere in considerazione il dato che verso il 968, a circa 140 anni dalla fondazione della chiesa di Santiago, la superficie dello spazio suburbano che allora veniva considerato necessario difendere è la stessa che verrà compresa nella seconda e ultima muraglia della città, costruita nell’XI secolo sul fossato del secolo precedente.
L’universalismo dello spazio urbano 197. Dalla piazza delle Platerías si accede alla cattedrale per portali che conservano la struttura, anche esterna, dell’edificio romanico.
198. Santiago. Tumbo A, Alfonso VI, rex e pater patrie.
Fin dalla nascita Compostella aveva mostrato la vocazione a divenire centro di un grande pellegrinaggio. La prima versione della traslazione del corpo di san Giacomo viene messa in bocca a un vescovo di Gerusalemme. Nulla di più logico, poiché san Giacomo era morto nella Città Santa. Dato che il sepolcro apostolico non si trova in Oriente, il vescovo Leone esorta i vescovi occidentali ad accorrere fiduciosi al sepolcro apostolico. Nello stesso IX secolo si dice del sepolcro jacopeo che è oggetto di una diffusissima venerazione. Così effettivamente avvenne e Santiago, come Gerusalemme e Roma, iniziò a trasformarsi in centro di un nuovo e grande pellegrinaggio. Agli albori del secondo millennio gli stranieri o francigenae attraversano i Pirenei e si dirigono a Compostella per un cammino che diviene unico a Puente la Reina. Si tratta di una via pubblica, dove vengono riscossi pedaggi e si garantisce la libertà di circolazione. Mercanti e pellegrini jacopei si confondono con estrema frequenza e anche ai pauperes Christi vengono indebitamente richiesti i pedaggi. Gli abusi che si commettevano sui pellegrini «di Italia, Francia e Germania» inducono nel 1072 Alfonso VI a sopprimere il pedaggio di Santa Maria de Autares, all’ingresso in Galizia. Non è una notizia letteraria, ampliata per propagandare il pellegrinaggio jacopeo; è piuttosto la constatazione documentata dell’esistenza, almeno dalla prima metà dell’XI secolo, di un importante flusso di stranieri provenienti da tre grandi aree geografiche totalmente distinte, in cammino verso Compostella. Il concorso di diversi popoli d’Occidente, vera prova del successo del culto jacopeo, favorirà la terza interpretazione simbolica, la lettura universalizzante di uno spazio urbano legato a un cammino dal mare di Frisia, aperto dall’imperatore Carlomagno. Nella seconda metà dell’XI secolo è avvenuto questo importante mutamento, che si innesta sulle tradizioni jacopee. Durante l’episcopato di Diego Peláez, la Concordia di Antealtares, redatta nel 1077, esprime il nuovo clima che si respira nella chiesa leonese e nelle relazioni con il papato. Il vescovo Leone, nei secoli dell’alto medioevo autore della lettera che informava della translatio del corpo di san Giacomo, è ora il papa Leone. Per la chiesa leonese Roma si è trasformata in fonte ultima dell’autorità e l’origine del culto jacopeo viene testificata con un anacronistico documento pontificio del IX secolo. Chiamando in causa papa Leone III (795-816) si pretende di proteggere non solo la translatio, ma anche la scoperta del sepolcro e una nuova cronologia dell’avvenimento. Ormai si è formata anche la leggenda dell’intervento dell’imperatore Carlomagno.
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Il valore simbolico di città che si fa universale tramite il pellegrinaggio viene espresso in dettaglio nel Codice Calixtino, nel quale le imprese narrate dallo Pseudo-Turpino e l’apertura del cammino sono il prologo obbligato al libro V, che descrive le vie di pellegrinaggio e la stessa città. La metropoli compostellana intorno al 1140, sede di un arcivescovado influente e residenza di una società urbana inquieta ed attiva, viene descritta nel libro V con una stilizzazione voluta, attenta ad elencare solo ciò che ritiene essenziale e definitorio. La Guida del XIII secolo contempla la città dal monte del Gozo, milladoiro della città levitica, dal quale giungeva a Santiago il gran pellegrinaggio d’Occidente. Qui il pellegrino maturava l’intima convinzione di aver raggiunto finalmente la meta tante volte desiderata. Di tutte le pietre miliari che circondavano Compostella questa fu l’unica ad esser trasformata in altare, a causa dei riti di ringraziamento che venivano ripetuti dagli stessi pellegrini. Il promontorio che chiude l’alta valle del Sar, quasi alla sorgente del fiume, ribattezzato dai pellegrinaggi come monte del Gozo-monte del Gaudio, viene presentato nel libro V come riferimento obbligato per la percezione corretta della città: «il fiume Sar, che scorre tra il monte del Gozo e la città di Santiago» o «il Sar è ad Oriente, tra il monte del Gozo e la città». Nella visione nuova e originale di Compostella come meta del cammino di pellegrinaggio, il monte del Gozo si trasfigura in simbolo dell’incontro tra la città e il cammino. Non a caso avviene qui la parte principale del quarto miracolo del libro II, memento permanente per tutti i pellegrini jacopei dei valori spirituali della solidarietà, con i quali doveva presentarsi a Compostella il vero pellegrino di Santiago. Un altro mezzo ugualmente efficace per manifestare l’universalità di Compostella è il modo di presentare la mappa ecclesiastica dell’Occidente. Nel Codice Calixtino (V,5) si elencano i corpi santi che riposano sul cammino di san Giacomo e che devono venir visitati dai pellegrini. Le quattro grandi vie che attraversano la terra francese, sommariamente presentate nel primo capitolo, si trasformano in una successione gerarchizzata di stazioni che porta alla meta dell’itinerario, costituita dal sepolcro di san Giacomo. Anche dal punto di vista dei grandi santuari d’Occidente, Santiago ottiene un posto singolare grazie al pellegrinaggio. Come viene indicato in un altro passo (I,17), se la Galizia può rallegrarsi perché possiede il corpo di san Giacomo e la Spagna perché ha ricevuto la sua predicazione, tramite il pellegrinaggio jacopeo san Giacomo ha esteso il proprio patrocinio, oltre il felice popolo di Galizia e di Spagna, a tutte le nazioni occidentali che attira verso il suo sepolcro. Il significato universale della città si trasferisce alla descrizione del libro V, che evita le impressioni personali come quelle che annoteranno nei loro resoconti viaggiatori e pellegrini a partire dal XV secolo. Qui tutto pare accuratamente selezionato e misurato. Della localizzazione si esamina solo la posizione tra il Sar e il Sarela, che consente di introdurre il mitico mondo del Gozo. Immediatamente viene proposto l’ingresso nella città attraverso una qualunque delle sette porte aperte nelle mura costruite dal vescovo Cresconio nell’XI secolo. Naturalmente non si dice nulla delle mura, che isolano dall’esterno, poiché l’intento è di spingere il lettore ad accedere all’interno, come un pellegrino, e attirarlo verso il centro simbolico della città. Al centro ideale delle dieci chiese che vengono normalmente enumerate nella città, brilla gloriosa la prima di tutte: quella del gloriosissimo apostolo Giacomo. Elencando le altre nove si tiene ben presente il punto di vista di un pellegrino: San Pedro è situata «presso il cammino francese», la Trinità è «il cimitero dei pellegrini» e Santa Susanna si eleva «presso la via di Padrón».
199. Colonna con effigie dell’apostolo Matteo, procedente da San Paio de Antealtares (ca. 1152).
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200. Cattedrale di Santiago. a. Sezione longitudinale; b. Vista dal lato meridionale secondo Conant.
Immediatamente il codice porta il pellegrino all’ultima tappa del cammino e lo pone all’esterno di una cattedrale costruita magnificamente, ne valuta le dimensioni, le finestre e i dieci portici, anche se, dei tre grandi ingressi, caratterizza solo quello settentrionale – quello «francigeno» –, dal cui accesso «entriamo noi, gli stranieri». Lì c’è l’«ospizio dei pellegrini poveri» e più oltre la fonte «che mitiga la sete dei pellegrini» e il Paradiso, dove «si vendono gli emblemi di Santiago ai pellegrini». Dopo aver spiegato i repertori scultorei delle tre entrate principali e presentato le nove torri ancora in corso di edificazione – opere nelle quali «rifulge magnificamente gloriosa la cattedrale di Santiago» – il testo introduce il pellegrino all’interno della basilica. I tredici altari secondari vengono citati nell’ordine più conveniente, cioè sempre dalla Porta Francigena, senza dimenticare l’avvertenza che sull’altare di santa Maria Maddalena «si cantano
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le messe mattutine per i pellegrini». Il venerato corpo di san Giacomo giace onorato sotto l’altare principale. La basilica fiorisce per lo splendore dei miracoli di san Giacomo, quanti sono tristi si consolano e accorrono tutti i popoli stranieri da tutti i climi del mondo. La percezione della città espressa dagli autori del Calixtino non ha nulla a che vedere con la palpitante realtà urbana descritta da Giraldo di Beauvais nel libro II dell’Historia Compostellana. Si offre una costruzione che sottolinea gli elementi essenziali e definitori che rendevano unica la Compostella del XII secolo. Vengono integrate le immagini altomedievali, levitica e apostolica, che arricchiscono la costruzione, ma anzitutto si presenta per la prima volta l’immagine viva e possente del termine finale del grande pellegrinaggio d’Occidente, che raggiungeva a Compostella la meta di una geometria simbolica, al cui centro si situa il sepolcro di san Giacomo. Come le precedenti, anche questa terza grande interpretazione dello spazio urbano trova la propria ragion d’essere in determinate circostanze storiche. La vitalità del pellegrinaggio multinazionale e la realtà del cammino vengono utilizzate come argomenti decisivi a favore delle aspirazioni della Chiesa compostellana, secondo lo Pseudo-Turpino miticamente legittimate dallo stesso Carlomagno. L’introduzione della liturgia romana sotto Alfonso VI fu accompagnata da una ferma difesa della romanità della Chiesa ispa-
201. Pianta degli scavi realizzati nel sottosuolo della cattedrale da Chamoso Lamas. Si noti l’antico mausoleo apostolico (B), la chiesa preromanica detta di Alfonso III (C) e le tracce del suo piccolo portico (D). 202. Pianta complessiva della cattedrale romanica secondo Conant. Sulla sinistra la antecedente chiesa di Santa María de la Corticela che verrà inglobata nel nuovo edificio.
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nica esposta nel 1074 da papa Gregorio VII. La Chiesa compostellana, che vede messa in pericolo l’apostolicità della sede e il proprio statuto nella Chiesa leonese, si piega alle esigenze di Roma e nell’Historia Compostellana si afferma esplicitamente che l’apostolo san Giacomo predicò solo a Gerusalemme. Si sacrifica la missione per rivendicare il sepolcro, meta del pellegrinaggio. Sepolcro che, come tutta la Spagna musulmana, era stato liberato da quello stesso imperatore che attribuì funzioni privilegiate alla chiesa jacopea: «stabilì… nella città di Compostella… che tutti i prelati, principi e re cristiani… obbedissero al vescovo di Santiago… e si determinò che da quel giorno in avanti la chiesa si denominasse sede apostolica… e che in onore dell’Apostolo del Signore venissero conferiti dalle mani del vescovo della stessa città i pastorali episcopali e le corone reali».
Il giubileo compostellano Grazie alla propria modernità rispetto a Roma o a Gerusalemme, Compostella ebbe l’opportunità di costruire il proprio significato storico ricorrendo al fondo comune della cultura generata dal pellegrinaggio cristiano. Ispirandosi a questo linguaggio condiviso, al cui sviluppo contribuì in modo decisivo, seppe trovare il proprio luogo nella geografia dei
203. Particolare della discussa Bolla (copia del XV secolo) con cui Alessandro III conferma nel 1181 il giubileo compostellano concesso da Callisto II (1119-1124).
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grandi centri di pellegrinaggio. Alla fine del medioevo Compostella continua ad attingere a questo patrimonio comune. Il concetto veterotestamentario di anno giubilare era stato applicato nel XII secolo all’indulgenza plenaria legata alla partecipazione alla crociata e Roma l’aveva associato nel 1300 al pellegrinaggio ai sepolcri apostolici di Pietro e Paolo. Nel XV secolo anche Compostella introduce, con notevole successo, il concetto di anno giubilare. Fin dal primo momento il giubileo compostellano riscuote una grande accettazione popolare e gode anche di un indubbio sostegno istituzionale. L’anno santo del 1434 ottiene l’appoggio del re di Castiglia Giovanni II, che concede un salvacondotto a favore dei cristiani di Italia, Gallia, Germania, Ungheria, Danimarca, Svezia, Norvegia e di altri luoghi, perché possano liberamente passare per il suo regno in pellegrinaggio verso il sepolcro di san Giacomo. Alla fine del XV secolo giungono a Compostella pellegrini «dalle quattro parti del mondo». All’inizio del XVI secolo viene pubblicata la bolla Regis aeterni, nella quale si riporta in modo fittizio l’origine dell’anno compostellano al XII secolo. Ma l’aspetto più importante della bolla è la novità che essa intende introdurre. Negli anni ordinari la chiesa jacopea aspira a dare antichità all’offerta di un’indulgenza plenaria durante la celebrazione di tre feste: la dedicazione della basilica, il giorno di san Giacomo Maggiore e il giorno della traslazione. Erano tre anche le feste annuali nelle quali gli ebrei erano obbligati a pellegrinare a Gerusalemme. Secondo gli Atti degli Apostoli (2,1-13) nel giorno di Pentecoste erano riuniti a Gerusalemme ebrei di tutte le nazioni del mondo. La grande speranza di Israele si compiva così nel momento in cui tutte le nazioni radunate ricevevano la Buona Novella della Salvezza. Il tempio apostolico di Compostella, che attraeva anch’esso tutti i popoli dell’orbe, aspirava ad offrire loro la Salvezza attraverso l’indulgenza plenaria di una via peregrinalis che – come affermava il Codice Calixtino – conduce alla Vita.
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Franco Cardini
Gerusalemme
Il segno della santità
204. Statua cananea in basalto raffigurante una divinità o un sovrano proveniente da Tel Hazor, XV-XII secolo a.C. Conservata al Museo del Kibbutz Ayyelet ha Shahar, Israele.
Gerusalemme. Yirushalaim, Jerusalem, al-Quds. È la Città Santa delle tre fedi sorte dal ceppo abramitico, la città nella quale ebrei, cristiani e musulmani s’incontrano e si riconoscono. Fondata quasi cinquemila anni or sono su uno dei bianchi speroni rocciosi delle colline di Giudea che fanno da spartiacque tra Mediterraneo e mar Morto, non lontano dal luogo dove, un po’ a nord-est, il Giordano si getta nel chiuso mare di sale e di bitume, Gerusalemme è ancora così, shel zahav, ve shel mehoshet, ve shel or («d’oro, di rame, di luce»), come la vede invece una bella canzone israeliana. Gerusalemme non è propriamente una città-santuario: non è né Delfi, né Benares, né Lhasa, né Lourdes. Essa è tuttavia la città che ospita i santuari, o meglio i luoghi santi, delle tre grandi religioni abramitiche. E, poiché esse si distinguono da tutte le altre per esser caratterizzate dall’irruzione del Divino nella storia, la sacralità specifica di Gerusalemme non s’intende – al di là delle vicende di edifici e di venerabili reliquie – se di essa non si traccia, appunto, la storia. Dalle tavolette di Ebla sappiamo che almeno dalla seconda metà del terzo millennio a.C. esisteva un toponimo dello stesso suono che incontriamo nella Bibbia: JerushalimJerushalaim. Come tutte le città antiche, e le città sacre soprattutto, Gerusalemme aveva forse molti nomi, di cui uno – quello più segreto e terribile – restava ignoto a tutti: perché il conoscerlo avrebbe equivalso a lasciare la sua più intima essenza in balìa di chi lo conosceva. È probabile che il nome sia connesso con la radice semitica dalla quale scaturisce anche il verbo jarah («fondare») e dal nome della divinità semitica Shalim o Shalem, correlato senza troppa certezza alla parola che indica la pace. Ma il sito era indicato anche con altri termini, quali Jebus (che rinvia alle genti semite dei gebusei), oppure Sion o Zion, riferito più propriamente a quel che pare all’antica fortezza della città, quella che si trovava sulla collina dell’Ofel a sud dell’impianto dell’attuale città vecchia; un altro nome noto era Ariel, interpretato come «altare infocato dei sacrifici di Dio». Per quel che ne sappiamo dai reperti, l’area gerosolimitana dovette essere insediata fin dal paleolitico, mentre alla prima età del bronzo si dovette la fondazione della città vera e propria con una popolazione mista. Nella seconda metà del II millennio a.C. gli habiru («nomadi»: da questa parola deriva il nome tanto degli ebrei quanto degli arabi) provenienti dal sud-ovest, dall’Egitto attraverso il Sinai, invasero quella che la Bibbia chiama la «terra di Canaan», l’area gior-
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dano-palestinese attorno al mar Morto, spartendosi quella ch’era ormai per loro la Terra Promessa secondo il loro sistema anfizionico delle dodici tribù. Ma i gebusei di Shalem, ben installati nella loro rocca sull’Ofel, resistettero a lungo.
Il Tempio Tra l’XI e il X secolo a.C. la città fu conquistata dal re David, che fino ad allora aveva soggiornato in Hebron e che ora pose sull’Ofel la sua rocca con il tabernacolo che custodiva l’Arca dell’Alleanza trasportata da Kiriat-Jearim. David ampliò e rafforzò la cinta muraria, estese il controllo fino al settentrionale monte Moriah, fondò secondo la tradizione all’interno della cerchia urbana un sepolcreto dinastico che ancor oggi viene identificato negli edifici al piano terra del Cenacolo. Il figlio di David, Salomone, il regno del quale occupa i decenni centrali del X secolo a.C., fece un passo avanti nel consolidamento – inviso alla parte più tradizionalista del suo popolo, fedele alle origini nomadi – dell’idea che Gerusalemme era la nuova capitale «federale» dell’anfizionia tribalica d’Israele. Con lui si costruì un ampio terrapieno che livellò l’area tra Ofel e Moriah, a sua volta spianato in modo da offrire accoglienza a due nuove costruzioni contigue: il Tempio e il palazzo reale. Il primo Tempio era distinto in tre parti: un grande spazio all’aperto con l’altare per gli olocausti e le piscine per le abluzioni; un vestibolo coperto con l’altare dei profumi e quello dei «pani della proposizione»; infine il Santo dei Santi, che custodiva l’Arca. L’adiacente palazzo reale comprendeva una vasta sala del trono, un vestibolo che per la moltitudine di colonne che l’ornavano era detto «Casa della Foresta del Libano» e un harem. Attorno a questo centro sacrale, culturale e amministrativo ferveva la vita d’una grande città cosmopolita. Salomone aveva segnato il culmine della potenza ebraica, ma anche il punto d’arrivo di un equilibrio fra tradizioni religiose e struttura etnopolitica d’Israele.
205. Ricostruzione settecentesca immaginifica della marcia del popolo ebraico, nel corso dell’Esodo, al seguito dell’Arca.
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206. Ritratto di Alessandro Magno. Ornamento in avorio dal letto di legno della tomba di Filippo, rinvenuto a Vergina, in Macedonia.
Dopo di lui si aprì un periodo denso di difficoltà e di lotte interne che spianò la strada alla conquista assira e poi babilonese. Nel 587 il re babilonese Nabucodonosor, impadronitosi di Gerusalemme, fece deportare gli ebrei in Babilonia, distrusse il Tempio dalle fondamenta, ne depredò i tesori e profanò gli arredi; anche l’Arca fu trafugata, molto probabilmente distrutta. Nel 538 l’editto di Ciro, il Gran Re di Persia, consentiva agli ebrei di rientrare in patria. Siria e Palestina vennero ora unite sotto un unico potere e costituirono la V satrapia dell’impero persiano: ma Gerusalemme era un ammasso informe di rovine. Tra il 520 e il 515 s’intraprese la ricostruzione del secondo Tempio sul medesimo impianto del primo, la collina del Moriah: era altrettanto grande di esso, per quanto più povero e di costruzione meno accurata. Inoltre l’insieme doveva apparire più modesto di quello del tempo di Salomone in quanto mancava, a sud, la mole del palazzo reale che non sarebbe più stato ricostruito. Gerusalemme e la Giudea – che forse aveva goduto di una certa autonomia all’interno delle strutture della V satrapia – si sottomisero pacificamente ad Alessandro Magno, che promise il mantenimento delle libertà cultuali dei vari popoli soggetti, a somiglianza di quanto avevano fatto i persiani. Sotto il governo dei suoi successori, dapprima i lagidi ellenistico-egizi, poi i seleucidi ellenistico-siriaci, e con la contemporanea diffusione della cultura ellenistica, si svilupparono tendenze alla perdita dell’identità etnica. Sotto Antioco IV Epifarne (175-164 a.C.) l’osservanza della legge mosaica venne ridimensionata e nella pratica ostacolata da una serie di decreti che ne snaturavano o ne impedivano l’applicabilità; i tesori del Tempio vennero di nuovo intaccati con vari pretesti; infine si consentì l’ingresso in città dei culti idolatrici d’origine ellenica e soprattutto nel 167 il Tempio – il cui tesoro era stato di nuovo depredato – fu dedicato a Zeus Olimpico: nel sacro recinto fu inaugurata una statua del dio che aveva i sembianti del monarca siriaco. Quello fu l’episodio che il profeta Daniele avrebbe definito «l’abominazione della desolazione posta nel Luogo santo». È questo il contesto della rivolta armata detta dei Maccabei (168-164: il nome proviene dalla parola ebraica «martello», soprannome di Giuda figlio del sacerdote Mattatia e capo della rivolta), insorti per la difesa della tradizione religioso-nazionale; e delle dissidenze religiose, come quelle portate avanti da gruppi quali gli asidei (gli hassidim, i «pii», precursori di quello che più tardi sarebbe stato il partito dei farisei) e gli esseni. Nel 165 a.C. Giuda Maccabeo riconquistò parte di Gerusalemme e procedette alla purificazione del Tempio profanato dal culto idolatrico. Ma la lotta civile durò a lungo e spaccò in due anche terribilmente. I seleucidi, già alle prese con l’espansionismo romano e con quello partico, non poterono che accettare il ritorno della Giudea all’indipendenza sotto la guida di una dinastia avviata da un fratello di Giuda Maccabeo, Simone, che senza ambire alla corona si limitò a concentrare su di sé le due cariche di sommo sacerdote e di governatore. Sotto tale dinastia, detta degli asmonei – che a partire dalla fine del II secolo rivendicarono la corona – Gerusalemme conobbe un nuovo periodo di benessere economico e di splendore, attirando di nuovo a sé i molti ebrei che la diaspora aveva portato verso l’Egitto, la Siria e la Mesopotamia. Si costruirono nuovi edifici, bei mercati e mura più ampie fino a includere l’intera valle del Tyropeon; si riprese l’usanza di inumare i defunti sulle pendici occidentali del monte degli Olivi, a est della mole del Tempio, vale a dire lungo quella valle di Giosafat che, secondo una tradizione d’origine profetica (che tendeva a identificare lo spazio gerosolimitano con quello cosmico), sarebbe stato il luogo del Giudizio Universale; e ancora oggi in quell’area si possono ammirare alcuni monumenti sepolcrali imponenti (le tombe dette «di Assalonne», «di san Giacomo», «di Zaccaria», «di Giasone»).
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Con i sovrani asmonei si approfondì il dissenso tra i due «partiti» dei sadducei – cui apparteneva la maggior parte dei sacerdoti e degli aristocratici, che proclamavano una fedeltà alla Torah e al Tempio che escludesse i successivi apporti profetici e che guardavano con favore alla fusione di potere religioso e potere politico – e dei farisei, che avevano il loro nucleo nel gruppo degli «scribi» e che intendevano ampliare lo studio della scrittura alle sue varie interpretazioni, mentre erano favorevoli a una rigorosa distinzione tra religione e politica. Allo scoppio di una guerra civile i romani – che ormai avevano occupato la Siria – decisero di assumere il ruolo dei pacificatori. Nel 63 Pompeo entrò in Gerusalemme, affidò il sommo sacerdozio a un asmoneo abbastanza malleabile e conquistò il Tempio. Penetrato nel «Santo dei Santi», si stupì trovandolo vuoto. L’Arca era infatti scomparsa nel saccheggio di Nabucodonosor. Marco Antonio prima, Augusto poi, individuarono l’uomo giusto per Roma nel figlio di un ministro idumeo degli asmonei che si era imparentato con la dinastia al potere e poteva pertanto rappresentare una certa continuità di governo. Gli idumei, l’antico popolo di Edom che abitava il meridione del Negev, erano originariamente nomadi semiti convertiti e circoncisi a forza dai discendenti di Giuda Maccabeo. Il personaggio che fra il 37 a.C. e il 4 d.C. occupò il trono di Giudea fu Erode detto «il Grande»: uomo crudele ma abile e astuto, che per la storia della città di Gerusalemme è importante anzitutto perché ricostruì, con un fasto imponente, il Tempio estendendone la spianata fino alle attuali dimensioni (un rettangolo di circa 500 metri per 300 circondato da portici a colonne sostenendone la mole – una vera, formidabile acropoli – con un ci-
207. Valle di Giosafat, presso Gerusalemme. Da sinistra a destra si vedono due delle tombe più famose, quella della famiglia di Hezir e quella di Zaccaria.
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208. Pianta approssimativa del tempio ricostruito da Erode, dal 20-19 al 10-9 a.C., elaborata in base alla descrizione di Giuseppe Flavio e della Mishna, trattato Middôt (Misure del Tempio). 1. Fortezza Antonia 2. Portici 3. Portico di Salomone 4. Portico reale (Basilica) 5. Cortile dei Gentili 6. Balaustrata 7. Atrio delle donne 8. Atrio dei Sacerdoti 9. Santuario 10. Ponte (arco di Wilson) 11. Scalinata (arco di Robinson) 12. Ponte di Hulda 13. Porta di Susa (oggi Aurea) 14. Porta Bella 15. Porta di Nicanore 16. Atrio degli Israeliti 17. Altare degli olocausti 18. Rampa dell’altare 19. Conca delle abluzioni 20. Luogo delle macellazioni 21. Vestibolo 22. Santo 23. Santo dei Santi 24. Camera del Santuario 25. Camera dei lebbrosi 26. Camera della legna 27. Camera dei Nazirei 28. Camera degli olii 29. Altre camere 30. Portici 31. Porte (disegni di A. Aletti)
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clopico muro, una delle reliquie del quale è il cosiddetto «Muro Occidentale», meta ancor oggi del pellegrinaggio ebraico e impropriamente chiamato il «Muro del Pianto». L’edificio del Tempio vero e proprio era un corpo rettangolare di 180 metri per 120, circondato da muraglie marmoree alte 20 metri. Erode edificò anche la Fortezza Antonia a guardia del lato di nord-ovest della spianata del Tempio. Senza dubbio il nuovo, sontuoso Tempio rafforzò la tradizione del pellegrinaggio, richiamando a una Gerusalemme ormai entrata nell’ambito pacificatore dell’impero romano (e la pace sarebbe durata più o meno ininterrotta fino al 66 d.C.) una folla di giudei della diaspora, ch’era già imponente se, a detta degli Atti degli Apostoli, gli ebrei riuniti nella Santa Città per la festa della Pentecoste, ciascuno con il costume e la lingua del paese che lo ospita, sono «parti, medi, elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e della Libia cirenaica, romani, cretesi e arabi» (At 2,9-11). Al tempo di Erode «il Grande», le mura cittadine furono ampliate sino a lambire i due colli, il Gareb a occidente e Bezetha a nord. Il nuovo perimetro era caratterizzato da forti dislivelli, specie a sud: 620 soli metri sul livello del mare nell’angolo di sud-ovest, ben 760 in quello di sud-ovest scelto da Erode per edificarvi la sua reggia-fortezza sull’impianto del quale – meglio conosciuto come Cittadella, o Torre di David – i successivi padroni di Gerusalemme avrebbero eretto e conservato la loro dimora fortificata. La Gerusalemme erodiana non era proprio una grande città, ma aveva dimensioni per il tempo ragguardevoli: si è calcolato che poteva raggiungere i trentamila abitanti circa. Morto Erode, nel 6 d.C. la Giudea divenne quindi direttamente provincia romana: i procuratori fissarono però la loro abituale residenza sul mare, nella bella e piacevole Cesarea, e accettarono di venire a Gerusalemme soltanto per le grandi solennità ebraiche. La città era governata dal sommo sacerdote e dal sinedrio, il consiglio degli anziani e dei sa-
209. Disegno del tempio di Gerusalemme all’epoca di Erode il Grande, realizzato da Antonio Molino secondo la ricostruzione ipotizzata da Comte de Vogue.
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pienti; tuttavia, i romani continuarono a riconoscere una qualche autorità al figlio minore di Erode «il Grande», cioè a Erode «Antipa» tetrarca di Galilea e Perea (4-39), e quindi al nipote Erode «Agrippa» (37-44). Erode «il Grande», secondo la tradizione, aveva cercato di uccidere il piccolo Gesù, spaventato dalla profezia che annunziava la nascita in Betlemme d’un nuovo re dei giudei; sotto Erode «Antipa» morirono – per quanto le responsabilità del tetrarca, soprattutto nel secondo caso, siano molto modeste – Giovanni il Battista e Gesù stesso; la tradizione vuole che Erode «Agrippa» perseguitasse e facesse morire Giacomo il Maggiore e imprigionare Pietro. Gerusalemme continuava a uccidere i profeti. Quando parla di un Tempio distrutto e quindi edificato di nuovo, Gesù parla del suo corpo. Diversamente dice di Gerusalemme e del Tempio di Erode, dei quali profetizza piangendo la distruzione. Crocifisso sul Golgotha, l’altura tondeggiante a pochi passi dalle mura occidentali (il «secondo muro») lungo la via di Damasco, Egli trovò lì vicino, in un sepolcro nuovo posto a sua disposizione da Giuseppe d’Arimatea, una sepoltura per tre giorni. Secondo i calcoli oggi seguiti dalla maggior parte dei biblisti, Gesù – nato fra l’8 e il 6 a.C. – è stato crocifisso trentasei-trentottenne, il 7 aprile dell’anno 30 d.C. In tale anno la Pasqua ebraica cadeva nel giorno corrispondente all’8 aprile del calendario attuale: la Resurrezione avvenne quindi il giorno 9. Il luogo dell’esecuzione e quello della sepoltura di Gesù, suburbani secondo la normativa e la pratica del tempo, dovettero diventar presto una meta di pellegrinaggio. Non siamo però informati al riguardo. Erode «Agrippa», poco dopo l’evento situabile nell’anno 30, ampliò il perimetro urbano costruendo un nuovo tratto di cinta muraria a nord in modo da inglobarvi i nuovi quartieri di Bezetha e di Gareb (il «terzo muro»): in tal modo, Calvario e Sepolcro vennero inglobati entro la cerchia muraria. Dopo il saggio e moderato governo di Erode «Agrippa», i romani ricondussero la Giudea a provincia direttamente amministrata, inviandovi procuratori duri e avidi: ne nacque una rivolta che, nel 66, Nerone decise di reprimere inviando in Palestina un formidabile corpo di spedizione militare. Sotto il comando di Tito i romani, penetrati in Gerusalemme, presero e incendiarono il Tempio il 29 agosto del 70, lo stesso giorno nel quale, nel 587 a.C., esso era stato preso e distrutto dai babilonesi. Stavolta, però, il sacro edificio non sarebbe mai più stato ricostruito. Tito dette ordine di distruggere la città dalle fondamenta e partì per Roma, dove celebrò un trionfo durante il quale furono fatti sfilare anche gli arredi più sontuosi strappati dal Tempio, a cominciare dall’aureo candelabro a sette bracci, la menorah. La distruzione del Tempio era un gravissimo colpo inflitto alla tradizione ebraica: essa comportava la scomparsa di un centro non solo religioso-sacrale, ma anche geostorico; con il Tempio finivano i pellegrinaggi e il sacerdozio con il relativo culto sacrificale. Tutto ciò metteva in serio rischio l’identità stessa d’Israele: che tuttavia si salvò nella misura in cui, accanto al culto sacrificale del Tempio, essa era legata al culto della parola di Dio che si celebrava attraverso la lettura della Sacra Scrittura nelle sinagoghe. Le rovine di Gerusalemme servivano ormai da base per i quartieri della X legione Fretensis, rimasta a presidio della Giudea; ma gli ebrei cominciavano alla spicciolata a dirigersi di nuovo alla volta della città distrutta e a riprendere il pellegrinaggio alla devota memoria delle reliquie della sua santità. Se del Tempio c’erano ormai solo le rovine, la Parola restava viva: in pochi anni si organizzarono tra i ruderi ben sei sinagoghe attive. Nel 130 l’imperatore Adriano, in visita nell’area orientale dell’impero, sostò anche a Gerusalemme che decise di riedificare come Aelia Capitolina; il Tempio stesso, riedificato, avrebbe dovuto essere dedicato a Giove. Adriano attuò per l’occasione una precisa politica di esaugurazione: la nuova città e il nuovo Tempio avrebbero in un certo senso eredi-
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tato la sacralità dell’antico insediamento, ma al tempo stesso avrebbero dovuto costituire, per il nazionalismo religioso degli ebrei, una sorta di profanazione deterrente. Una serie di editti volti a spazzare l’identità ebraica, quali il divieto della circoncisione e del riposo sabbatico, chiarirono che l’intento di Adriano era appunto quello di eliminare l’ebraismo come dimensione religioso-culturale. Il pellegrinaggio ebraico alla Città Santa, così profanata e manipolata, durò ancora un po’ di tempo: quindi il loro centro religioso e culturale si spostò piuttosto a Tiberiade, dove si trasferì il sinedrio e si completò lo studio della legge avviandone quella forma d’interpretazione autorevole che sarebbe stata chiamata la Mishna.
La Gerusalemme cristiana Già a partire dal regno di Erode «Agrippa» la tensione fra gli ebrei tradizionalisti, sia pure appartenenti a gruppi e a scuole differenti tra loro, e quelli che ritenevano che Gesù di Nazareth fosse veramente il Messia si era andata facendo molto forte, come dimostrano episodi quali l’uccisione di Giacomo «il Maggiore» ordinata da quel re, la lapidazione di Stefano – della quale era in qualche modo responsabile quell’ebreo di Tarso, Saul, che sarebbe poi divenuto san Paolo – e l’assassinio di Giacomo «il Minore» da parte del gran sacerdote Anania, che nel 62 lo aveva fatto precipitare dal «pinnacolo del Tempio», cioè da quella cuspide di sud-est dell’imponente edificio erodiano dove si congiungevano il Portico Reale (a sud) e il Portico di Salomone (a est): era il «pinnacolo» sul quale il diavolo aveva trasportato Gesù per tentarlo. È dall’episodio del 62 che uno dei sepolcri monumentali della valle di Giosafat ha assunto il nome di «sepolcro di san Giacomo», naturalmente in ossequio a una leggendaria tradizione.
210. Veduta dei resti del Cardo Romano, presso Tiberiade.
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211. Attuale veduta del mare di Galilea dal Monte delle Beatitudini.
La rivalità tra gli ebrei e quelli che noi chiamiamo giudeocristiani si traduceva anche in una concorrenza sul piano del proselitismo, da entrambi fortemente perseguito. D’altronde, già dal 49, quegli ebrei che credevano già arrivato il Messia (o, in greco, il Cristo) nella persona di Gesù di Nazareth si erano riuniti in quello che si considera il primo concilio ecumenico della Chiesa cristiana e – pur nella piena adesione alla sostanza del Patto tra Dio e Israele – ne aveva sancito il carattere solo propedeutico, aprendosi (su una linea del resto già presente nei profeti e forte quindi all’interno del movimento farisaico) al tema dell’universalità del messaggio della rivelazione, il che comportava un distacco dal rigore della norma mosaica. A differenza del giudaismo, ora il cristianesimo non imponeva più ai «proseliti» provenienti «dalle genti», d’origine cioè pagana, la circoncisione e il rispetto dei precetti mosaici sul piano dell’alimentazione e del riposo sabbatico. Con ciò il cristianesimo, pur animato da una «prima generazione» d’origine interamente ebraica, si staccava dal giudaismo. Dovette essere uno strappo duro, doloroso, ben più drammatico di quello dei riformati del XVI secolo (ma si ricordi che Lutero, rompendo formalmente la norma del digiuno cattolico del venerdì, s’ispirò proprio a questo altissimo modello): nella reciproca accusa– di «tradimento» degli ebrei nei confronti dei cristiani, di «cecità» di questi nei confronti di quelli – risiede il nucleo d’un’avversione reciproca che avrebbe condotto a drammatici episodi di lotta fino al IV secolo. Cominciava intanto in Gerusalemme un pellegrinaggio cristiano: favorito anche dal fatto che, dopo il bando che Adriano comminò a tutti i circoncisi ai quali si vietava di risiedere in Aelia Capitolina, i giudeocristiani ne furono allontanati mentre quelli di origine «etnica», cioè convertiti provenienti dalle gentes pagane, furono ammessi a restare indisturbati. Paradossalmente, l’interdizione adrianea aveva giocato un ruolo contraddittorio: da una parte, intendendo cancellare qualunque traccia dei luoghi di culto ebraici e considerando tali – non a torto, del resto – anche quelli che si riferivano a Gesù di Nazareth, aveva
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obiettivamente penalizzato anche quei non-ebrei che ormai dopo il concilio del 49 erano affluiti liberamente e in gran numero nella Chiesa (peraltro a sua volta oggetto, a partire da Nerone, di persecuzioni); dall’altra, erigendo sui luoghi santi cristiani vistosi monumenti cultuali pagani, aveva contribuito a nasconderli sì, ma anche a sottolinearne la presenza, a indicarne l’ubicazione e infine a «sigillarli» e a consentirne un’intatta conservazione sotto i nuovi edifici. Fra il II e il III secolo, tacitamente tollerati, gli ebrei ricominciarono a visitare Aelia Capitolina cercando, sotto la crosta profanatrice dei monumenti romani, le tracce dei loro luoghi santi (e identificando quel «muro occidentale» del Tempio erodiano, presso il ponte detto «di Wilson» ch’era il viadotto collegante la spianata del Tempio alla «città alta» ad ovest di essa). Abbiamo traccia anche di un pellegrinaggio cristiano: che, data la tensione con gli ebrei, non si volgeva al Tempio bensì batteva Gerusalemme e la Terra Santa alla ricerca dei luoghi ricordati nel Vangelo. Quindi la «piscina probatica» di Bezetha, la «natatoria» di Siloe, la Porta Aurea del recinto del Tempio dalla quale Gesù era entrato trionfalmente nella Città Santa nella domenica delle Palme, il Cenacolo, il Getsemani, il Calvario, il Sepolcro, il luogo del monte degli Olivi sacro alla memoria dell’Ascensione, le memorie mariane (la casa di sant’Anna e di Maria presso la piscina di Bezetha, i luoghi della «Santa Sion» dove la Vergine e gli apostoli avevano vissuto dopo la morte, la Resurrezione e l’Ascensione del Salvatore e dove avevano ricevuto lo Spirito Santo, i luoghi della «dormizione» e del sepolcro di Maria); e ancora, nelle vicinanze, Betania per il miracolo di Lazzaro, Gerico per la quaresima nel deserto, il Giordano per il battesimo; e un po’ più discoste Betlemme per la nascita del Salvatore ed Ein Karem (Montana Iudaeae) per la Visitazione di Maria ad Elisabetta; e infine, in Galilea, i luoghi del «Mare» (cioè il lago di Tiberiade), il Tabor sacro alla Trasfigurazione, la Santa Casa di Nazareth. Stava nascendo lentamente una topografia evangelica in parte collegata alla memoria orale, in parte esito di leggende e di tradizioni.
I luoghi santi cristiani Com’è noto, nel 313 gli imperatori Costantino e Licinio, vincitori sui loro avversari al termine d’una dura guerra civile, pagarono il debito contratto con una sostanziosa parte dell’opinione pubblica dell’Urbe e dell’impero, soprattutto con molti reparti militari ch’erano da tempo guadagnati al cristianesimo: e con l’editto di Milano concessero alla Chiesa cristiana libertà di culto. Nel 325 si riunì a Nicea il primo vero e proprio concilio ecumenico della Chiesa finalmente libera. In tale occasione Macario vescovo di Aelia Capitolina,
212. Mare di Galilea, costa orientale.
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213. Gerusalemme nella carta di Madaba e, a destra, nella planimetria attuale con identificazione dei principali monumenti: 1. Porta di Damasco; 2. Chiesa del Santo Sepolcro; 3. Chiesa della Madre di Dio; 4. Area del Patriarchio; 5. Foro bizantino; 6. Chiesa della casa di Caifa (?); 7. Basilica della Santa Sion o della Dormitio; 8. Coenaculum (?); 9-10. Piscina e chiesa della Siloam; 11. Chiesa di S. Sofia e pretorio (?); 12. Chiesa della Piscina Probatica; 13. Spianata del Tempio; 14. Fortezza Antonia (?).
suffraganeo di quello di Cesarea Marittima, parlò all’imperatrice Elena della situazione della sua città, dei monumenti pagani che nascondevano e profanavano i luoghi santi della Redenzione, dell’opportunità di far risorgere Gerusalemme nel segno non dell’ebraismo bensì del cristianesimo. Naturalmente il nome imposto alla città dall’imperatore Adriano era intoccabile: l’impero teneva alla sua continuità, niente che fosse stato voluto da un legittimo princeps era formalmente sconfessabile. Ma, di fatto, i cristiani l’avevano sempre chiamata Gerusalemme: e tale fu il nome che da allora in poi rientrò nell’uso. L’anno successivo, nel 326, l’ottantenne imperatrice Elena partì per la Terra Santa. Senza dar segno alcuno di curarsi del Tempio, essa individuò tre luoghi santi cristiani degni di particolare devozione. Si trattava – come fu detto – di tre «mistiche spelonche», dal momento che esse corrispondevano anzitutto a un sepolcro scavato nella roccia e rinvenuto sotto il tempio di Venere-Astarte fatto demolire, quindi, dall’imperatrice; alla grotta naturale del monte degli Olivi nella quale, secondo la tradizione, Gesù avrebbe istruito i discepoli (e dove avrebbe dettato loro il Pater Noster); e a un’altra grotta naturale, quella di Betlemme, che i pagani avevano cercato di esaugurare mutandola in luogo sacro ad Adone. Il breve soggiorno di Elena non dovette portar altro frutto – e fu, intendiamoci, cosa fondamentale – se non quello dell’identificazione dei tre luoghi santi sui quali, forse immediatamente, fu deciso di erigere altrettanti santuari nella forma che i cristiani andavano privilegiando e che nella stessa Roma avevano adottato: quella della basilica a tre o cinque navate in cui si officiassero certo le cerimonie liturgiche, ma ci si potesse anche e soprattutto riunire secondo le tradizioni dell’Assemblea dei Fedeli, cioè proprio dell’ekklesìa, l’Ecclesia: la Chiesa. I nuovi edifici di assemblea e di culto si differenziavano pertanto nettamente dai santuari pagani, templa appunto (dal greco temno: «dividere», «separare»), spazi sacri esclusivamente dedicati al Divino e segregati rispetto ai fedeli i quali ordinariamente non potevano accedervi. Costantino, sempre con il consiglio e l’appoggio dei più influenti membri della Chiesa, dovette far proprie le «scoperte» e le istanze della madre. Furono gli architetti imperiali – pochi anni dopo la fondazione della «Nuova Roma» poi chiamata Costantinopoli, e non senza l’uso di modelli edilizi e simbolici tratti dalle due capitali dell’impero – a fondare la Gerusalemme cristiana che, con i suoi luoghi santi, in modo più o meno implicito ignorava la sacralità ebraica. Non è chiaro quando si siano cominciate a creare e a diffondere le leggende relative al soggiorno gerosolimitano di Elena – che a suo modo potremmo definire una specie di modello di pellegrinaggio –, alle sue scoperte di «archeologia sacra», ai suoi ritrovamenti di reliquie. Senza dubbio già alla fine del IV secolo circolava il primo nucleo di quella che poi
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sarebbe stata la popolare legenda crucis e che nel Duecento il domenicano Giacomo da Varazze avrebbe tradotto in un testo che è davvero un «romanzo del Santo Legno». L’imperatrice, con l’aiuto della comunità cristiana locale, avrebbe rinvenuto la roccia del Calvario e a poca distanza da essa la grotta artificiale del sepolcro nuovo donato da Giuseppe d’Arimatea e sito in un suo giardino addossato a uno sperone roccioso: lì Gesù sarebbe stato seppellito. Ma, poco a est dei due luoghi santi così individuati, ed evidentemente liberati prima dal materiale che a partire dal 135 era servito come basamento al tempio di Venere-Astarte, si rinvenne una profonda cisterna nella quale erano state gettate non si sa quando le tre croci servite per l’esecuzione di Gesù e dei due ladroni. Un miracolo (un defunto risorto al contatto del Santo Legno) servì a riconoscere la croce di Gesù e a distinguerla dalle altre due: essa divenne da allora, naturalmente, la principale tra le reliquie della cristianità. Smembrata in tre parti a loro volta inserite poi in reliquiari preziosi, essa fu conservata nella basilica gerosolimitana che s’iniziò a costruire da allora, nel sacro palazzo imperiale di Costantinopoli e, in Roma, nella basilica denominata appunto «di Santa Croce in Gerusalemme», a poca distanza da altre reliquie gerosolimitane legate con la Passione che, sempre secondo la leggenda, Elena avrebbe inviato nella vecchia capitale e che si sarebbero custodite presso la basilica patriarcale romana di San Giovanni in Laterano (la colonna della Flagellazione, la «Scala Santa» ecc.). Dal punto di vista storico, sappiamo soltanto che sulla roccia del Calvario liberata dai detriti del monumento pagano fu piantata una croce commemorativa presto oggetto di venerazione. Non fu innovazione da poco, anzi atto rivoluzionario, l’introduzione tra le genti dell’impero romano dell’adorazione della croce: essa, come simbolo d’un supplizio abietto e disonorante, ispirava probabilmente orrore e repulsione anche a molti nuovi cristiani. Nella simbolica catacombale e paleocristiana, infatti, la croce figura raramente e sempre dissimulata: prevalgono altri segni, come il pesce (l’ichthous greco, acrostico della frase appunto greca che suonava «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore»), il canestro dei pani, l’Agnello, il Buon Pastore, il tralcio d’uva, l’anfora o il calice simboli dell’Acqua di Vita, la fenice simbolo della Resurrezione, il chrismon (cioè il bigamma costituito dalle due lettere greche iniziali delle parole Iesus Christos o semplicemente Christos). Per far accettare la croce la si dovette impreziosire di gemme e incoronare di lauro, farne insomma un simbolo trionfale, di vita e di vittoria. Le tre primarie basiliche costantiniane di Gerusalemme seguivano uno schema rigorosamente simile: in tutti e tre i casi il rispettivo centro cultuale era costituito dalla cripta, che nel caso di quella entro la cerchia urbana di Gerusalemme – in greco detta dell’Anàstasis, «la Resurrezione» – era la cisterna del ritrovamento delle tre croci, nel caso di quella sul monte degli Olivi (chiamata appunto in Eleona, «nell’Uliveto») era la grotta dell’insegnamento di Gesù ai discepoli, nel caso della basilica della Natività di Betlemme era la grotta nella quale il Bambino era nato da Maria. Altre chiese cristiane intanto sorgevano, valorizzando se non addirittura creando ex novo altri luoghi santi: è molto difficile dire se e da quando attestati, e se venerati con continuità dai tempi di Gesù a quelli della loro trasformazione in santuario. Nella seconda metà del IV secolo sorsero un edificio a sud della città, denominato «Santa Sion», che raccoglieva su iniziativa del vescovo Giovanni II i luoghi dell’Ultima Cena e della Pentecoste e una chiesa esattamente sul culmine del monte degli Olivi, quindi più alta di quella in Eleona, voluta dalla patrizia Pomenia per celebrare l’Ascensione. Quest’ultima chiesa – che fu detta Imbomon, dall’espressione greca che significa «sulla cima» – aveva una forma circolare con la parte centrale scoperta per sottolineare l’ascesa di Gesù ai cieli. L’idea della chiesa scoperta riprendeva forse l’esempio della cupola dell’Anàstasis, provvista – a somiglianza del Pantheon di Roma e di altri modelli costantinopolitani – di un oculus centrale che comunicava col cielo aperto.
214. Stampa del 1609 realizzata da Bernardino Amico della Cappella dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi.
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La storia del complesso dell’Anàstasis è comunque talmente complessa e straordinaria che vale la pena ci si soffermi un istante su di essa. Avviato presumibilmente subito dopo la visita dell’imperatrice, il santuario venne inaugurato a distanza di una decina d’anni, nel 335, alla presenza dello stesso Costantino: ma non sappiamo se, a quella data, esso fosse davvero ultimato. Si trattava di un imponente complesso impiantato in senso est-ovest tra la sezione settentrionale del cardo maximus di Aelia Capitolina e la sezione occidentale del decumanus. Esso constava di quattro distinte parti: una basilica a cinque navate – il martyrion, dal quale si aveva accesso alla cripta-cisterna del ritrovamento delle croci – il cui ingresso, che guardava a oriente, era preceduto da un atrio quadrangolare aperto, i propilei del quale interrompevano il colonnato occidentale fiancheggiante il cardo; un cortile quadrangolare addossato all’abside e fornito di portici nel cui angolo sudorientale si ergeva la porzione di roccia appartenuta al Calvario e incapsulata in una sorta di cappella-torretta alta circa cinque metri e sormontata da una croce; infine, con ingresso sul cortile, un edificio a pianta centrale, un grande cilindro sormontato da una cupola che custodiva al suo interno, al centro, l’edicola del Sepolcro. Essa era il cuore di tutto il complesso. Si era cominciato con l’isolare la porzione di roccia della parete rocciosa contenente il vestibolo e la camera sepolcrale (una piccola tomba giudaica del I secolo, di tipologia consueta); sbancando la roccia sottostante, si era ricavato un cilindro roccioso al cui interno era contenuto il Sepolcro; lo si era quindi coperto di marmi lavorati, conferendogli un aspetto abbastanza simile alle tombe ellenistico-imperiali che si possono vedere nella valle di Giosafat; infine se n’era fatto centro per costruirvi attorno l’edificio a pianta centrale che poteva ricordare santuari come il Pantheon, ma la tipologia del quale – una struttura circolare all’interno della quale girava un deambulacro colonnato a forma di corona circolare, mentre la parte centrale era chiusa da una cupola emisferica – richiama da vicino tipi di mausoleo romano ben noti, ad esempio quello di Costanza sulla Nomentana a Roma. La «rotonda» dell’Anàstasis e l’edicola del Sepolcro sarebbero state entrambe a loro volta oggetto, specie nell’alto medioevo, di una serie di più o meno fedeli imitazioni a scopo devozionale in Occidente.
215. Planimetria del complesso costantiniano del Santo Sepolcro, comprendente la parte absidale con l’Anastasis, il triportico e il Martyrion.
I pellegrini Il pellegrinaggio cristiano si distingue sin dalle origini da ogni altra pur analoga forma devozionale presente sia nell’ebraismo, sia nel mondo pagano o nei vari sistemi mitico-
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religiosi che – come il mazdaismo, l’induismo, il buddhismo – conoscono l’idea del viaggio verso un luogo sacro. Mentre l’alya ebraica è propriamente un «salire» a Gerusalemme, al «Luogo Alto» del Tempio per adorare Dio nel punto della terra più ripieno della Sua Shekinah e riannodare il Patto tra Lui e Israele, il pellegrino cristiano volge i suoi passi verso le testimonianze storiche del passaggio di Gesù sulla terra, verso la memoria di quell’evento tutto speciale nella storia stessa del disegno provvidenziale della Redenzione che è l’Incarnazione del Figlio di Dio: il punto nel quale il Divino ha fatto in modo centrale e definitivo irruzione nella storia santificando la stessa natura umana e in un certo senso accorciando la distanza esistente tra il Sacro e l’Umano nella dimensione dello scambio, della contiguità, del dialogo fondato sull’adeguazione del modello: il dialogo ch’è appunto la sostanza della santità. Per questo correttamente infatti noi parliamo non già di luoghi sacri per indicare quelli santificati dal passaggio di Cristo, bensì di luoghi santi. Il cristiano dei primi secoli, che si sentiva strappato violentemente dalla tradizione ebraica o ad essa in qualche modo (sia pure mai totalmente) estraneo, non avvertiva la
l’Eti
216. Disegno di ampolle (con recto e verso) che i pellegrini riportarono come «memoria» da Gerusalemme. Sono conservate nel tesoro della cattedrale di Monza, Italia. Vi si raffigura la croce (recto) e la resurrezione di Cristo (verso), nella prima, e la croce e resurrezione (recto) con gli apostoli (verso) nella seconda.
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217. Affresco siriano del Monastero di San Mosè l’Etiope a Nabak, raffigurante Atanasio, uno dei padri della Chiesa che visitò Gerusalemme.
218. Sempre dal Monastero di San Mosè l’Etiope, in Siria, affresco di Basilio il Grande.
santità di Gerusalemme tanto come luogo privilegiato della dimora di Dio tra gli uomini quanto piuttosto come luogo storico della Passione da una parte e figura escatologica – la «Gerusalemme Celeste» dell’Apocalisse – dall’altra. E, poiché Gerusalemme era legata appunto ai Tempi Ultimi – nella valle di Giosafat tutto il genere umano si sarebbe adunato per il Giudizio Universale –, il viaggio alla sua volta diveniva immagine della vita stessa. Il cristiano si volgeva a Gerusalemme nella misura in cui si sentiva peregrinus, vale a dire «straniero» in questa vita, concepiva la dimora sulla terra come un transitorio passaggio in terra straniera e anelava alla patria celeste. Giungere a Gerusalemme e abitarvi come peregrinus in terra straniera significava essersi per sempre lasciato alle spalle la vita come esperienza terrena e prepararsi alla Visio Pacis. A Gerusalemme si veniva originariamente per lasciare questa vita e venir sepolti nella valle di Giosafat, pronti a risorgere nel giorno finale. Anche in questo senso la cristianizzazione di Gerusalemme divenne profonda e capillare. Si è calcolato che Aelia Capitolina non potesse ospitare più di cinquantamila abitanti, meno della metà dell’opulenta metropoli dei tempi erodiani. Ma dopo la visita di sant’Elena essa cominciò a ripopolarsi, mentre sorgevano nuovi edifici e soprattutto ospizi per ospitarvi i pellegrini e monasteri per i religiosi che – uomini e donne – decidevano di rimanervi per sempre. Gerusalemme si venerava quale Mater Ecclesiarum, la prima e il modello di tutte le comunità cristiane. La sua comunità rimase in effetti straordinariamente ampia e attiva, con sacerdoti, diaconi, catecumeni, monaci e monache, laici disposti al lavoro quotidiano e all’assistenza. Un elemento fondamentale per lo sviluppo della Città Santa provenne dalla casa imperiale. Vi giunsero, pellegrini illustri, Eutropia suocera di Costantino, l’imperatore Teodosio, i Padri della Chiesa Atanasio, Basilio e Gregorio di Nissa. Poco più di un secolo dopo la visita di sant’Elena un’altra imperatrice, Eudossia, moglie di Teodosio II, prima vi compì un viaggio nel 438 e più tardi vi si stabilì. Energica, colta, volitiva, Eudossia era stata allontanata dalla corte costantinopolitana per i suoi intrighi: ma la sua natura non le impediva di coltivare forti interessi religiosi e perfino teologici. Una volta in Gerusalemme dette impulso a una serie di opere pubbliche e ampliò le mura a sud fino a includervi l’area del Sion, che – come sappiamo – corrispondeva in realtà all’impianto più antico della città e all’insediamento prima gebuseo, più tardi davidico: ma che dalla distruzione della città ad opera di Tito in poi era rimasta fuori dall’impianto urbano. Fu grazie a lei che si fondarono a nord dell’impianto murario la chiesa dedicata a Santo Stefano e, sul Sion, una chiesa sul luogo della casa di Caifa dove Gesù era stato interrogato nella notte della Passione; fu, ancora, Eudossia a caldeggiare la devozione alla Vergine presso la piscina di Siloe, detta da allora «fontana della Madonna». L’imponenza della Gerusalemme imperiale fu incrementata anche dal fatto che ad essa si volsero molti appartenenti all’aristocrazia romana: la Città Eterna infatti, privata del suo rango di capitale e depauperata dai molti prelievi ornamentali e monumentali con cui si era invece arricchita Costantinopoli, era in fase di rapida decadenza. Il prestigio della rinnovata Gerusalemme – se ne può ancora vedere lo splendore nel mosaico pavimentale della chiesa di San Giorgio della città giordana di Madaba – era tale che nel 451, al concilio di Calcedonia, il vescovo Giovenale non ebbe difficoltà a farle attribuire il titolo di Chiesa patriarcale, con autorità su tutte le comunità ecclesiastiche di Palestina e d’Arabia. Tra quei pellegrini che sceglievano di restar per sempre in Terra Santa, meritano particolare menzione alcuni circoli di colti, raffinati e devoti personaggi – di solito donne con i loro consiglieri spirituali – che si recarono in Terra Santa per compiervi un’esperienza di vita comunitaria. Nel 371 si erano stabiliti sul monte Sion la matrona Melania, che vi fondò un monastero femminile, e il suo confidente spirituale Rufino, al quale essa affidò
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la guida di una comunità maschile. Pochi anni più tardi, nel 385, Gerolamo – deciso a tradurre la Scrittura direttamente dall’ebraico in latino –, si trasferì da Roma a Gerusalemme: lì fu poco dopo raggiunto da due sue allieve spirituali, la colta e raffinata matrona Paola e sua figlia Eustochio, che insieme con il maestro visitarono la Terra Santa e con lui stabilirono poi di eleggere la loro residenza in Betlemme. All’esodo dei membri più pii dell’aristocrazia romana verso Gerusalemme appartiene anche la vicenda di Melania junior, nipote dell’omonima matrona compagna di Rufino: essa giunse in Terra Santa nel 413, provenendo da una vita romana condotta con la madre, il marito, i figli e la servitù già sotto il segno d’una disciplina domestica di tipo monastico. Giunta a Gerusalemme, la matrona Melania aveva in un primo momento sperimentato la vita anacoretica, alla quale molti si davano in quel tempo vivendo specie nelle grotte e nelle tombe abbandonate sulle pendici del monte degli Olivi. Vita da anacoreta vi aveva condotto santa Pelagia, una bellissima e famosa attrice antiochena che, convertitasi, aveva abbandonato lusso e dissolutezza e si era rinchiusa in una grotta non lontana dalla chiesa dell’Imbomon. Anche il dibattito teologico, tanto vivo tra i secoli IV e VI, interessò Gerusalemme, per quanto non si può dire che esso riuscisse a produrvi forti e originali scuole di pensiero. Il vescovo Cirillo è famoso per i suoi scritti dedicati soprattutto a catecumeni e neofiti; il suo successore Giovanni sostenne una polemica con Gerolamo, che lo accusava di propendere per certe tesi origeniane e nel 414 contestò con forza la sua decisione di accogliere l’irlandese Pelagio, noto per l’eterodossia delle sue posizioni riguardanti la Grazia. Alle polemiche teologiche dette il suo contributo, verso la metà del V secolo, anche quella che
219. Affresco di San Cirillo di Alessandria, altro padre della Chiesa che visitò Gerusalemme (Nabak, Siria).
220. San Gerolamo, il grande traduttore della Bibbia in latino, raffigurato nel suo studio. Per svolgere la sua opera san Gerolamo rimase a lungo a Betlemme e nei luoghi santi (Antonello da Messina, National Gallery, Londra).
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136. Alla porta di Damasco conduce la strada per Gerusalemme proveniente dalla Siria, 1537-38.
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137. La cinta di mura racchiude la città vecchia di Gerusalemme e tutti i Luoghi Santi, come aveva progettato nel ’500 l’imperatore Solimano il Magnifico, che la fece costruire su basi antiche e medievali.
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138. La spianata del Tempio con la moschea detta Cupola della Roccia e, dietro, la moschea al-Aqsa. Il luogo è santo per gli ebrei, che onorano il sacrificio di Abramo; per i cristiani, poiché nella fortezza Antonia che sorgeva all’estremità della spianata Cristo fu mandato al supplizio; per i musulmani, che ricordano il viaggio in cielo di Maometto.
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139. Il parco archeologico, la parte piĂš antica di Gerusalemme.
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140. La città di Hebron – in arabo Mashad Ibrahim al-Khalil (luogo di Abramo, amico di Dio) – racchiude il santuario che, secondo la tradizione, ospita le tombe dei patriarchi: Abramo, Sara, Rebecca, Isacco, Giacobbe e Lea.
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141-142. Veduta dell’interno e dell’esterno della cupola della Qubbat as-Sahra, o Cupola della Roccia. La moschea, un capolavoro della prima architettura islamica influenzata da Bisanzio, fu trasformata in chiesa dai crociati e tornò al culto islamico con il Saladino nel 1187.
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143. Gerusalemme era centro di attrazione dei cristiani già nel V secolo, quando fu raffigurata sull’arco trionfale di Santa Maria Maggiore in Roma.
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144. Il monaco tedesco che a metà del secolo realizzò la carta Walsperger, riproponeva l’immagine medievale per cui il mondo, costituito da Europa, Asia e Africa, aveva al suo centro la città di Gerusalemme.
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145. La piazzetta di accesso e l’edificio del Santo Sepolcro, così come fu risistemato in epoca crociata.
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146. La Rotonda o Anàstasis all’interno del Santo Sepolcro è la parte più antica, originariamente l’unica esistente, fatta costruire dall’imperatore Costantino attorno al sepolcro di Cristo in modo che ne irraggiasse la luce nel mondo.
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147. Le rovine della basilica detta Eleona («oliveto») e la moderna chiesa del Pater Noster, sulla grotta dove Gesù insegnò il Padre nostro agli apostoli.
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148. Uno degli antichissimi ulivi dell’Orto degli Ulivi, a oriente della città vecchia, oltre la valle del Cedron.
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149. L’interno della chiesa di Sant’Anna, edificata dai crociati nelle vicinanze del luogo dove la tradizione voleva sorgesse la casa di Anna e Gioacchino. Ăˆ uno dei migliori esempi di romanico in Terra Santa.
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150. In secondo piano l’esterno della chiesa di Sant’Anna e in primo piano gli scavi archeologici dei bagni noti come Piscina Probatica o Piscina di Bethesda.
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151. La cappella francescana della Flagellazione, di fondazione crociata, profondamente restaurata nel XX secolo.
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152. L’interno dell’edificio crociato costruito sul Monte Sion nel Cenacolo, il luogo dove Gesù istituì l’Eucarestia durante l’Ultima Cena.
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153. In primo piano la chiesa di Tutte le Nazioni, edificata nel luogo dove Gesù pregò prima dell’arresto e, dietro di essa, sulla via che conduce alla cima del Monte degli Ulivi, la chiesa ortodossa russa di Maria Maddalena.
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154. Sul luogo dell’Ascensione l’imperatore Costantino e poi i crociati eressero un santuario di cui è rimasta l’edicola intorno all’altare, successivamente trasformata in cappella ottagonale.
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155. La piscina di Siloe.
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156. La Via Dolorosa, nella città vecchia, conduce al Golgota, dell’epoca crociata compreso nell’edificio del Santo Sepolcro; sul percorso sono disposte le stazioni della via crucis.
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157. Fin dal IV secolo i pellegrini localizzarono la valle di Giosafat, luogo del giudizio universale, nella valle del Cedron, a oriente della città vecchia.
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158. Il monastero crociato e gregoriano della Santa Croce, edificato a più riprese tra l’XI e il XIX secolo nel cuore del bosco dove sarebbe cresciuto l’albero da cui si ricavò la croce di Cristo.
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159. Arazzo commemorativo del pellegrinaggio a Gerusalemme del conte palatino Ottheinrich all’inizio del ’500. In primo piano sono inginocchiati i pellegrini; dietro di loro è la città di Gerusalemme, nella quale avvengono, frammisti, scene di pellegrinaggio ed episodi biblici e della Passione del Signore. Atelier di Bruxelles, 1541, Bayerisches Nationalmuseum, Monaco.
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appariva quasi la padrona della Città Santa, l’imperatrice Eudossia la quale, figlia di un filosofo ateniese, aveva ereditato dal padre il gusto per la disputa. Essa non era lontana da simpatie monofisite: e dopo il concilio di Calcedonia dette parecchio filo da torcere all’imperatore Marciano, che sosteneva l’ortodosso patriarca Giovenale, appoggiando in sua vece un patriarca monofisita. Le questioni legate al concilio di Calcedonia e al monofisismo si trascinarono comunque a lungo, tanto più che molte Chiese – dalla Siria all’Armenia, dall’Egitto all’Etiopia – non se la sentivano di accettare il principio calcedoniano della duplice natura di Cristo. Quanto a Gerusalemme, fu necessaria nel 516 addirittura una «pacifica» marcia di diecimila monaci sulla Città Santa, guidati dai due Padri del Deserto Saba e Teodosio, per convincere il patriarca Giovanni ad accettare la soluzione ortodossa. D’altronde, non bisogna credere che questa densità di esperienze spirituali avesse trasformato Gerusalemme in una roccaforte dello spirito. La città era sì piena di ricchi e di aristocratici che, magari sinceramente, vi si erano trasferiti da Roma e da altri grandi centri dell’impero; era senza dubbio visitata da pellegrini che spesso decidevano di rimanervi per sempre: ma non per questo tutte le esperienze che vi si facevano erano ispirate alla santità. Al contrario, per molti segni appare come la vita mondana vi fosse intensa e le occasioni di peccato frequenti. Lo stesso Gerolamo se ne rendeva conto – per questo aveva scelto forse la pur vicina, ma più quieta Betlemme – e ne scriveva a un amico, Paolino di Nola, dissuadendolo dal recarvisi. Nascevano così, strettamente collegate, la letteratura di pellegrinaggio e la letteratura contra peregrinantes, che avrebbe avuto notevoli sviluppi soprattutto da parte di alcuni mistici medievali (interessati semmai alla peregrinatio animae, quella interiore alla ricerca della Gerusalemme dello spirito che sta in ciascun credente) per sfociare poi, al tempo della Riforma, nella dura requisitoria di Erasmo da Rotterdam.
Tra Giustiniano ed Eraclio L’impero di Giustiniano (527-565) coincise con la massima fioritura di Gerusalemme e della Palestina nella fase aperta dalla fondazione dei grandi santuari cristiani. I pellegrini continuarono ad affluirvi in gran numero, per quanto sembra che ormai la pratica del viaggio seguito dal ritorno fosse divenuta consueta e fosse diminuito il numero di quanti
221. Ricostruzione della basilica della Natività a Betlemme, fatta riedificare da Giustiniano sulla precedente opera costantiniana.
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vi si trasferivano per sempre. Il commercio e l’economia della zona si avvantaggiarono molto del favore imperiale e della floridezza del movimento di pellegrinaggio; anche le strade erano buone, sicure, ben servite da ospizi efficienti. Oltre a restaurare e rafforzare alcuni santuari – come la basilica della Natività, danneggiata in seguito a una rivolta dei samaritani; la lavra di San Saba, che fu cinta di mura come una fortezza; il monastero georgiano della Santa Croce, a ovest della Città Santa – egli ne fece costruire di nuovi, come la nuova chiesa della Vergine detta appunto Nea («Nuova»), oggi purtroppo scomparsa ma attestata da scavi archeologici e dall’effigie del mosaico di Madaba. Il periodo giustinianeo fu molto favorevole anche al reinsediamento degli ebrei, che nel corso dei secoli II-IV avevano visto progressivamente perder vigore il bando loro comminato da Adriano, che li escludeva da Aelia Capitolina. Fu l’imperatrice Eudossia a causare il ritiro del bando: e a testimonianza di ciò viene chiamato «Talmud di Gerusalemme» il commento della Mishna terminato in quel torno di tempo dai dottori della legge della scuola di Tiberiade. A Gerusalemme si trasferirono dopo il ritiro del bando alcuni ebrei, tutto sommato non troppi: facevano da guida ai pellegrini sfruttando le loro conoscenze veterotestamentarie oppure esercitavano professioni a carattere mercantile o artigianale. Dopo Giustiniano, le faccende orientali dell’impero peggiorarono gravemente: prosperità e sicurezza diminuirono, la pressione fiscale aumentò, le persecuzioni contro i cristiani eterodossi attirarono sul governo di Costantinopoli una serie di antipatie che indirettamente favorirono gli eterni nemici di Bisanzio, i sasanidi di Persia. Il Gran Re Cosroe II fu infatti indotto a sferrare una vigorosa offensiva contro le province orientali dell’impero, anche perché molto ben informato del malcontento circolante tra i sudditi di esso. Come accadeva ormai da oltre un millennio, gli ebrei furono un elemento importante nelle decisioni del Gran Re. In contatto con i persiani attraverso le molte comunità giudaiche sparse nell’impero sasanide, gli ebrei guardavano con una certa considerazione al sistema mitico-religioso mazdaico, caratterizzato da una visione così fortemente spirituale del supremo dio della luce Ahuramazda da poterne avvicinare in qualche modo i connotati a quelli di Jahvè, mentre tanto gli ebrei quanto i mazdei (e, più tardi, i musulmani) provavano orrore dinanzi all’idea dell’Incarnazione. Il fatto che l’imperatore Eraclio (610-641) avesse avviato una politica persecutoria nei confronti degli ebrei non fu secondario nelle vicende del 614: infatti, appena l’esercito persiano passò i confini, i dottori della legge di Tiberiade incitarono la loro gente ad armarsi e unirsi a loro, magari con l’intento di recuperare per intero la Terra Promessa. Furono, ancora, gli ebrei di Gerusalemme ad aprir ai persiani le porte di Gerusalemme dopo un assedio
222. Raffigurazione del Dio supremo Ahura Mazdá, con la ruota alata che simboleggia il cielo, cioè l’ambito di luce in cui il Dio risiede. Religione iniziata da Zarathustra all’inizio del I millennio a.C., influenzò gli Ebrei dai primi secoli della nostra era.
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223. Pianta della Cupola della roccia, costruzione musulmana sulla roccia di Moriah, luogo sacro degli Ebrei, considerato luogo del non consumato sacrificio di Isacco.
durato solo alcuni giorni. Gli invasori si dettero a un orrido massacro, accompagnato dalla distruzione e dal saccheggio dei principali santuari (la leggenda vuole che fosse risparmiata la sola basilica betlemita della Natività, in omaggio al mosaico che presentava i magi nel costume nazionale persiano adoranti il Bambino: in effetti, il Fanciullo Divino nato dalla viva roccia e associato alla stella è una figura mitica del culto mithraico connesso col mazdaismo e le analogie con la pagina evangelica di Matteo che descrive l’adorazione dei magi sono molte). Il patriarca Zaccaria e migliaia di cristiani furono deportati a Ctesifonte, capitale dell’impero persiano, dove quale preda trionfale fu recata anche la reliquia della Vera Croce ch’era custodita nella basilica dell’Anàstasis: altre reliquie, come il calice dell’Ultima Cena, furono disperse. Tutto l’Oriente imperiale fu messo a ferro e a fuoco: i persiani occuparono anche l’Egitto e, in Anatolia, giunsero fino a Calcedonia. Per la verità, passata la spietata fase del massacro, della deportazione e del saccheggio, il Gran Re si mostrò moderato. Affidò Gerusalemme al monaco Modesto, poi patriarca, e questi poté immediatamente avviare un sia pur modesto restauro della chiesa dell’Anàstasis. La controffensiva di Eraclio, tra il 624 e il 630, fu coronata da straordinario successo: attaccò per primo in Armenia e Media, respinse una controffensiva avaro-persiana ch’era giunta ad assediare di nuovo Calcedonia e Costantinopoli, si gettò sulla Georgia e da lì discese lungo il corso del Tigri fino a Ctesifonte mentre la compagine statale persiana si squagliava e Cosroe veniva imprigionato e ucciso, recuperò nel 629 la reliquia della Vera Croce, liberò i deportati cristiani e rientrò con loro in Gerusalemme nel marzo del 630 a piedi scalzi, recando, secondo la tradizione, la Croce sulle spalle. Palestina, Siria ed Egitto furono recuperati. Ma la splendida vittoria doveva portare ad esiti di tanto breve durata che Eraclio sarebbe vissuto – come vedremo – abbastanza da constatarne il carattere effimero.
La conquista musulmana La brillante campagna militare di Eraclio aveva sortito risultati inattesi e insperati forse da parte dello stesso imperatore, ma non aveva affatto risolto le cose. L’impero versava in crisi economica ed era minacciato tanto da nord quanto da sud, mentre le sue province asiatiche e africane erano esauste del suo pesante fiscalismo non meno che della pesante vigilanza politico-religiosa che si traduceva in continue misure oppressive e repressive. Anche l’altro colosso imperiale, il persiano, era entrato in una crisi irreversibile: dopo Cosroe II si erano rapidamente alternati sul trono molti sovrani, nessuno dei quali era però riuscito a riorganizzare la compagine statale.
224. Disegno tratto dal mosaico pavimentale di Beit Alfa’, Palestina, che raffigura il sacrificio di Isacco da parte di Abramo. Dio chiama Abramo ad un gesto di fede incondizionata, interrompendogli poi il sacrificio del figlio. Dio mostra così di gradire solo la fede di Abramo.
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L’offensiva arabo-musulmana, partita dalla penisola arabica immediatamente dopo la morte del profeta Muhammad nel 632, si avvantaggiò senza dubbio anche della crisi dei due imperi: avrebbe infatti fagocitato in pochi anni quello persiano e messo in difficoltà quello bizantino giungendo di nuovo a minacciare le mura della sua stessa capitale. L’infaticabile Eraclio guidò di nuovo le sue truppe in Oriente cercando di contrastare l’avanzata araba alla quale si univano (come era accaduto nel 614 al tempo dell’assalto dei persiani) anche tutti gli scontenti del pesante giogo bizantino, dagli ebrei a molti cristiani eterodossi: ma, in questo caso, un elemento di bruciante entusiasmo religioso si era aggiunto alla forza guerriera, e molti erano i casi di cristiani che si andavano convertendo all’Islam (si può anzi dire che la vera forza trainante e travolgente delle conquiste islamiche tra Siria, Anatolia, Africa settentrionale e Spagna sia stata la conversione). Eraclio cercò di arrestare gli arabi sul fiume Yarmuk: ma, constatata la superiorità delle loro forze, si ritirò portando con sé la Vera Croce e altre reliquie gerosolimitane. A Gerusalemme, il patriarca Sofronio aveva organizzato una resistenza che durò due anni: alla fine, nel 638, egli decise – visto che era inutile attendere oltre i soccorsi imperiali – di consegnare la città al successore del profeta, il califfo Umar ibn al-Khatthab. Vestito di un umile abito da nomade, coperto da un mantello pieno di toppe, il califfo incontrò Sofronio sul monte degli Olivi; indi, cavalcando un vecchio cammello, entrò con lui in città dopo avergli assicurato che la vita e le proprietà dei cristiani sarebbero state rispettate e i loro luoghi santi lasciati intatti. Visitò la chiesa dell’Anàstasis e, giunta l’ora della preghiera canonica, l’eseguì fuori dell’edificio per evitare che i musulmani ne rivendicassero la proprietà; chiese poi di essere accompagnato al luogo dove sorgeva il Tempio, si addolorò vedendolo ridotto a un deposito di rifiuti e cominciò di sua mano, aiutato dai suoi, a ripulirlo (alcune fonti sostengono che obbligò anche il patriarca a fare altrettanto) finché non riuscì a far affiorare, sotto lo spesso strato di lordure, la santa roccia del Moriah. Qui egli stabilì un oratorio: più tardi vi sarebbe stato fondato lo splendido santuario che ancor oggi vi sorge, e che di solito impropriamente viene chiamato «moschea di Umar». I musulmani chiamavano e continuano a chiamare Gerusalemme al-Quds, «la Santa», e considerano centro di santità anzitutto la roccia del Moriah, dove, secondo una tradizione ebraica accettata un po’ distrattamente dai cristiani ma fervidamente condivisa dall’Islam, Abramo avrebbe offerto il proprio figlio Isacco in sacrificio a Dio, indi sarebbe disceso un angelo al tempo di una grande peste durante il regno di David e infine sarebbe stata collocata l’Arca dell’Alleanza nel Tempio: quello sarebbe stato, cioè, il luogo del Sancta Sanctorum (ma, a detta di altri, la roccia sarebbe servita da supporto invece per l’altare degli olocausti). Secondo una tradizione sviluppata dalla sura 17 del Corano (la sura del Viaggio notturno), il profeta Muhammad fu trasportato in una notte del 619 dalla Mecca a Gerusalemme, e da lì, dalla roccia del Moriah, intraprese un’ascesa ai cieli sul cavallo antropocefalo al-Buraq. Sulla roccia di Abramo, dove il califfo Umar aveva fatto costruire una semplice moschea in legno, nel 687 il califfo Abd al-Malik fece erigere quella che propriamente si chiama il Qubbet as-Sakhra, «la Cupola della Roccia». Usando forse maestranze locali, ma certo architetti damasceni e quindi di scuola bizantina, i committenti musulmani dell’edificio, che con la sua splendida cupola dorata sembra ancora sovrastare Gerusalemme, intesero in qualche modo far concorrenza alla cupola dell’Anàstasis, alla quale peraltro s’ispirarono: come s’ispirarono altresì con molta probabilità alla chiesa dell’Imbomon sulla cima del monte degli Olivi, caratterizzata a sua volta da un sacello ottogonale (l’ottagono non compare come figura geometrica dell’Anàstasis) e commemorante, al pari del Qubbet as-Sakhra, un’ascesa ai cieli. A sud della grande moschea, sempre sulla spianata detta Haram esh-Sharif, sorge addossata a quel che in età erodiana era il Portico Reale la moschea detta di al-Aqsa («la Lontana»), dal nome che nel Corano è dato a Gerusalemme. Con le
225. Siamo nella Palestina islamica. Nel Rockefeller Museum di Gerusalemme si conservano i reperti artistici del Palazzo Ommayade di Khirbet al Mafiar (724-743). Sotto: rosone in stucco. In basso: figura di donna in stucco policromo.
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sue sette navate di tipo bizantino e le sue cupole argentate, la moschea di al-Aqsa completa lo splendido complesso sacro musulmano: la sua costruzione e i successivi rifacimenti compresero alcuni secoli, dall’età umayyade fino a quella ayyubide (secoli VII-XIII).
Tra umayyadi, abbasidi e fatimidi Gerusalemme, al-Quds, è dopo la Mecca e Medina la terza Città Santa dell’Islam sunnita, e una delle prime anche di quello sciita. Pur non essendo obbligatorio, il pellegrinaggio a Gerusalemme è raccomandato nell’Islam, e in certi momenti – quando per motivi politici la Mecca era irraggiungibile – è stato dichiarato addirittura sostitutivo del grande haj verso la città della Ka’aba. Entrando in possesso di Gerusalemme, i musulmani erano fermamente intenzionati a rispettare ebrei e cristiani che, come «popoli del Libro», avevano diritto a mantenere il loro culto sia pure con qualche limitazione. Dal VII ai primi dell’XI secolo Gerusalemme visse sostanzialmente in pace: i pellegrini cristiani continuarono ad affluire indisturbati ai loro luoghi santi – com’è testimoniato anche dai molti resoconti di viaggio redatti in latino – mentre si avviava una ripartizione della città in quartieri, ordinata in modo che i rispettivi fedeli abitassero ciascuno presso i propri luoghi santi. I musulmani occuparono quindi l’area nordorientale e centrale, attorno al Haram esh-Sharif; i cristiani greci – ma anche gli occidentali, che sembra cominciarono ad avervi loro ospizi dal IX secolo – s’insediarono a nord-ovest, nell’area prospiciente la basilica dell’Anàstasis; gli armeni e i georgiani si sistemarono a sud-ovest, verso il Sion e soprattutto attorno alla loro grande, bella e venerata chiesa di San Giacomo; gli ebrei si addossarono invece nell’area meridionale, tra i cristiani-orientali e il «muro occidentale» del recinto del Tempio. Questa è la ripartizione etnoreligiosa della città ch’è stata rispettata, nonostante i numerosi conflitti, almeno fino alla guerra arabo-israeliana del 1967.
226. Veduta esterna dell’importante chiesa di San Giacomo a Gerusalemme, luogo di venerazione e raccolta per i cristiani georgiani e armeni.
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Il pellegrinaggio cristiano, riprendendo dopo la sosta forzata del lungo periodo di guerre corrispondente alla prima metà del VII secolo, aveva intanto mutato carattere. Dopo la fase dell’entusiasmo connesso con l’edificazione della Gerusalemme cristiana, se n’era avviata un’altra, rigorosamente legata alla disciplina penitenziale: il pellegrino era sentito anzitutto come peccatore penitente e la Chiesa tendeva a formalizzare con chiarezza i suoi diritti e i suoi doveri. Anche gli itinerari a e da Gerusalemme diventavano sempre più obbligati, per necessità di assistenza e di sicurezza: lungo la via per il grande pellegrinaggio a Gerusalemme, specie in Italia, si allineavano ospizi e santuari minori dov’era possibile lucrare indulgenze varie e ottenere ospitalità. Le descrizioni della chiesa dell’Anàstasis relative a questo periodo sottolineano, confrontate con quelle di prima dell’invasione persiana, come i danni subiti dal sacro edificio fossero stati ingenti e i restauri affrettati; in cambio – come testimonia un pellegrino dell’870, il monaco bretone Bernardo –, presso il Santo Sepolcro era stato aperto un ospizio per i pellegrini di lingua e rito latino, che sembra essere stato quello inaugurato per volontà di Carlomagno e col permesso del califfo di Baghdad Harun ar-Rashid. Tale edificio era stato costruito insieme con la chiesa di Santa Maria detta Latina, servita dai monaci di un adiacente monastero benedettino e posta molto vicino alla chiesa del Sepolcro, leggermente a sud-ovest di essa. Ma le lotte interne all’Islam non risparmiarono a lungo la Città Santa. Al di là dei dati specifici del frazionamento del potere califfale, delle lotte dinastiche e dell’opposizione tra sunniti e sciiti, bisogna dire che per quel che riguarda tutta l’area del Vicino Oriente e della cosiddetta «fertile mezzaluna» esiste un elemento geostorico che a intervalli sia pure irregolari si reimpone, e che noi conosciamo dall’età biblica. La zona compresa tra mar di Levante e Giordano, tra Libano e mar Rosso, è un’area di scorrimento carovaniero e di confine, di solito contesa tra chi detiene il potere tra Siria e Mesopotamia e chi lo detiene in Egitto. Questa norma riaffacciò le sue pretese alla fine del X secolo, allorché l’Egitto divenne il centro del califfato sciita dei fatimidi (969-1171) che contrastarono il potere dei califfi sunniti della dinastia abbaside che risiedevano in Baghdad. Gerusalemme cadde ben presto in potere dei califfi egiziani, che avevano la loro capitale al Cairo: uno di essi,
227. Carta della Siria e della Palestina eseguita da Al Istakhiri nel 952. Nel X secolo si realizzarono molti atlanti maneggevoli, utilizzati soprattutto dai pellegrini diretti alla Mecca.
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al-Hakim (conosciuto poi come eretico dallo stesso Islam), si dette a perseguitare non solo i sunniti, ma anche gli ebrei e i cristiani: fece chiudere sinagoghe e chiese, svuotò monasteri, impedì i pellegrinaggi. Nel 1009, infine, ordinò la distruzione della chiesa gerosolimitana dell’Anàstasis e della stessa edicola del Sepolcro sottostante la cupola. Gli ordini del califfo furono poco e mal eseguiti, fors’anche per una certa resistenza dei musulmani di Gerusalemme ch’erano per la maggior parte sunniti e che la sospensione dei pellegrinaggi danneggiava anche sotto il profilo economico. Comunque i danni vi furono, e ingenti: gli scavi archeologici l’hanno confermato. Passato il ciclone rappresentato da al-Hakim, furono le stesse autorità musulmane a sollecitare il restauro degli edifici danneggiati e la ripresa dei pellegrinaggi. L’imperatore di Bisanzio Costantino Monomaco, che era considerato il naturale protettore dei cristiani locali (detti per questo «melkiti», «genti del re»: dalla parola araba malik che traduceva quella greca basileus, indicante l’imperatore) si occupò del restauro dell’Anàstasis e della cappella sovrastante la roccia del Calvario: alla metà dell’XI secolo, la risistemazione del sacro edificio era completata. Dal canto loro gli amalfitani, che da tempo costituivano una presenza mercantile potente e apprezzata, risistemarono fra terzo e quarto decennio del secolo il vecchio ospizio di Carlomagno che adesso, corredato anche di nuove chiese, occupò una ben ordinata area a sud-ovest del sepolcro detta Muristan («Ospizio»). Può darsi che qualche ulteriore fastidio sia provenuto ai cristiani locali, e soprattutto ai pellegrini, dal fatto che – nel continuo e alterno passare della Palestina dall’obbedienza fatimide a quella abbaside, che caratterizza l’XI secolo – i califfi di Baghdad si siano serviti delle milizie turche selgiuchide, fatte di gente neofita dell’Islam e piuttosto rozza. Notizie di soperchierie, di violenze e di ruberie giunsero spesso in Occidente e furono attribuite a questi barbari. Ma in realtà esse appaiono piuttosto come spiegazione a posteriori della crociata. Vero è semmai che i dintorni della città erano decisamente turbolenti, esisteva un brigantaggio endemico diffuso e che, per accedere a Gerusalemme e alla chiesa dell’Anàstasis, bisognava pagare dei pedaggi. Nonostante ciò, nella seconda metà dell’XI secolo i pellegrinaggi ripresero e divennero sempre più frequenti e numerosi, spesso addirittura dotati di scorte armate: il che significa che, tutto sommato, le condizioni del viaggio non dovevano essere proibitive.
La Gerusalemme crociata L’orda di guerrieri armati e di pellegrini originariamente seminermi che noi chiamiamo «prima crociata» si abbatté su Gerusalemme tra primavera e principio dell’estate 1099 e conquistò d’assalto la città il 15 luglio di quell’anno. La cortina muraria fu superata nell’angolo più vulnerabile, quello di nord-ovest; i «franchi» (come bizantini e saraceni chiamavano gli occidentali) dilagarono nella città massacrando quasi tutti gli abitanti musulmani ed ebrei. La città fu ripopolata dai cristiano-orientali che ne erano stati espulsi e da altri loro correligionari siriaci ed armeni: almeno in un primo tempo, infatti, fu proibito a musulmani e ad ebrei di soggiornarvi. Si ha la sensazione che la prima idea degli occidentali che avevano conquistato la Città Santa fosse di erigerla in signoria ecclesiastica o di affidarla addirittura in dominio eminente alla Chiesa di Roma. Si elesse infatti subito un patriarca latino (dal momento che ormai era in atto da quarantacinque anni uno scisma tra le due Chiese, si giudicò inopportuno affidarsi a un presule greco), mentre i capi militari della spedizione, in discordia tra loro, finirono con l’accordarsi di eleggere un principe malfermo in salute e non troppo energico, in modo che non avesse vera e propria autorità. Fu scelto per questo Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena: si disse che fosse sua volontà – o volontà di qualche
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prelato che glielo suggerì – il non voler «portare corona d’oro là dove il Cristo era stato coronato di spine». In altri termini non si procedette a eleggere un re, bensì un semplice Advocatus Sancti Sepulchri, un procuratore per gli affari mondani della Chiesa del Santo Sepolcro. Ciò significava che il potere signorile si affidava alla «chiesa del Santo Sepolcro», ch’era la cattedrale patriarcale: e infatti il patriarca Daiberto, ch’era arcivescovo di Pisa e ch’era giunto subito dopo la conquista della città con una numerosa flotta, dette chiari segni di ritenersi il detentore legittimo del potere. Ma la sua volontà, morto nel 1100 Goffredo, si scontrò con quella del di lui fratello Baldovino di Boulogne, che si era insignorito della città armena di Edessa ma che scese immediatamente a Gerusalemme e si fece aggiudicare la corona: regale, stavolta, per quanto non fosse chiaro sulla base di quale autorità si potesse eleggere un sovrano. Era nato il «regno franco di Gerusalemme», che durante due secoli si configurò come una monarchia elettiva con intermittenti caratteri dinastici, la corona della quale si trasmetteva anche in linea femminile. Baldovino I aveva preso dimora, appena incoronato, nella moschea di al-Aqsa, che i crociati chiamavano Templum Salomonis forse perché si era tramandata la memoria che l’area sud della spianata del Tempio era stata occupata, nel primitivo impianto, dal palazzo reale del grande sovrano e più tardi, nel complesso erodiano, dal Portico Reale che da lui prendeva nome. Più tardi i re crociati di Gerusalemme avrebbero preso dimora nella
228. Schema che riproduce un manoscritto del XII secolo. L’idealizzazione di Gerusalemme è chiaramente espressa: la croce definisce la struttura interna della città e il cerchio delle mura ne simboleggia la perfezione. 229. Manoscritto della metà del XII secolo, in cui si vede la cosiddetta Gerusalemme crociata. La cavalleria cristiana sotto le mura di Gerusalemme difende la città dai Saraceni.
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230. L’ex chiesa di San Giovanni dei Templari, oggi inglobata dalla Grande Moschea di Gerusalemme.
cittadella chiamata Torre di David, presso l’attuale Porta di Giaffa, lasciando la moschea di al-Aqsa all’Ordine religioso-militare dei pauperes milites Christi, che da allora assunsero la denominazione di Templari. I Templari usarono la moschea e i suoi ampli sotterranei (le «stalle di Salomone») come chiesa, fortezza, monastero, deposito di armi e di materiale; una fonte araba c’informa che nella chiesa essi ammettevano a pregare anche i musulmani di passaggio, almeno gli ospiti di riguardo, e non è improbabile che tenessero un oratorio adibito a moschea. Nella toponomastica crociata, l’area del Tempio aveva subito una sorta di curiosa dicotomia. Se la moschea di al-Aqsa, in mano ai Templari, era il Templum Salomonis, il Qubbet as-Sakhra fu affidato a un gruppo di canonici regolari agostiniani e denominato Templum Domini: in quanto chiesa, fu dedicato alla Vergine. Altri canonici regolari agostiniani servivano il Santo Sepolcro, mentre nel monastero e nell’ospedale di Santa Maria Latina s’insediò un altro Ordine religioso-militare, quello dei cavalieri di San Giovanni (che sarebbe divenuto più tardi l’Ordine di Rodi e poi di Malta). Il relativamente breve regno «franco» ha lasciato a Gerusalemme tracce molto forti, per quanto alcune di esse siano meno evidenti di quanto dovrebbero a causa delle successive superfetazioni urbanistico-architettoniche e dei molteplici adattamenti. I crociati, pur servendosi di manodopera locale e dimostrandosi molto permeabili agli usi e ai costumi del luogo, mantennero nelle loro costruzioni fedeltà allo stile architettonico del tempo, il romanico-protogotico, e senza dubbio utilizzarono architetti e maestranze specializzate provenienti dall’Europa. Restauri recenti hanno riportato in luce la Gerusalemme crociata soprattutto per quel che riguarda tre significativi monumenti romanico-gotici che hanno conservato o hanno recuperato di recente la loro impronta caratteristica. L’esempio più commovente del contributo «franco» al fascino di Gerusalemme è la chiesa di Sant’Anna, costruita su quella che, secondo la tradizione, era la casa gerosolimitana di Anna e Gioacchino, tra la piscina di Bezetha e il lato nord del Haram esh-Sharif, lungo la strada che, tagliando in senso est-ovest il quartiere musulmano di Gerusalemme, costituisce la continuazione della Via Dolorosa e termina alla Porta dei leoni (meglio nota come Bab Sitti Mariam, «Porta della Signora Maria»). Il restauro recente ha restituito tanto alla facciata quanto all’interno di questa chiesa non grande ma molto bella le sue purissime linee francosettentrionali; l’interno, ora di semplice pietra grigia, è scandito in nudi e robusti pilastri. Fuori città, a ovest, nella valle del Kedron, i crociati riedificarono la distrutta basilica «di Santa Maria in valle di Giosafat». L’interno della chiesa è oggi costituito da una specie di navata in discesa, interamente occupato da un ampio, vertiginoso scalone che scende fino a una cripta occupata dal sepolcro vuoto che tradizionalmente corrisponde a quello per breve tempo occupato dal corpo della Vergine che morì sul Sion, fu qui trasportata dagli apostoli e venne quindi assunta in cielo. La chiesa corrisponde solo alla cripta della superba basilica del XII secolo, distrutta dal Saladino come distrutte furono le adiacenti grandi chiese, anche quelle crociate, del Getsemani, del Sion (ora sostituita da una colossale ricostruzione moderna), dell’Eleona e dell’Imbomon. Complesse e affascinanti risultano le avventure della basilica dell’Anàstasis in periodo crociato: anzi, della basilica del Santo Sepolcro, com’essi la chiamavano e come ancor oggi i pellegrini occidentali in genere la definiscono. Alla fine dell’XI secolo i crociati si trovarono dinanzi un edificio che ancor manteneva qualche segno dell’antica gloria costantiniana, ma che era nel suo insieme sconvolto, rabberciato, fatiscente. Le due successive distruzioni dei persiani (614) e di al-Hakim (1009) avevano fatto quasi scomparire la grande basilica del Martyrion, ridotta a qualche cappella a ovest della «rotonda» – danneggiata ma nel complesso in piedi –, mentre la cappella-torre del Calvario si ergeva poco discosta,
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con il piccolo oratorio detto «cappella di Adamo» al piano terra. Il Calvario fu usato come sepoltura per i re di Gerusalemme, mentre le regine elessero a loro sepolcreto la chiesa della tomba della Vergine in val di Giosafat. I crociati sconvolsero completamente, in modo in fondo geniale, la planimetria bizantina, che le ricostruzioni di Modesto e di Costantino Monomaco avevano sostanzialmente rispettato. Il cortile tra la «rotonda» del Santo Sepolcro e la basilica, ormai ridotta a un ammasso di rovine oppure occupata da costruzioni di fortuna, venne coperto e si trasformò a sua volta in una nuova basilica absidata in stile romanico-protogotico: l’abside della basilica era ora volto a oriente (al contrario di quella costantiniana) e guardava quindi verso la «rotonda»: insomma, «rotonda» e basilica, pur essendo separate da un grande arco trionfale, figuravano adesso congiunte in un unico edificio coperto che ospitava anche alcune cappelle radiali, la cappella elevata del Calvario e l’ingresso alla cripta di Sant’Elena da cui si accedeva alla cisterna nella quale erano state ritrovate nel 326 le tre croci. Al posto della cupola che sovrastava l’edicola del Sepolcro fu costruito una specie di tronco di cono ligneo provvisto di un grande oculus; accanto ad esso, a ovest, una cupola più piccola, coperta in piombo argentato, sovrastava la navata centrale della basilica e il cosiddetto «coro dei greci», sul pavimento del quale una pietra ancora esistente segnava (e segna) il punto che, secondo la tradizione e l’immaginario cosmologico medievale, Gesù avrebbe indicato come l’umbilicus mundi, il centro del mondo. Nei mappamondi dei secoli XI-XIII e anche oltre, infatti, Gerusalemme figurava al centro dell’ecumène.
231. Il Paradiso, metafora della città ideale. All’inizio del XII secolo, quando l’Europa è interessata alla rinascita cristiana, il Paradiso viene raffigurato dal Liber Floridus di Lamberto di Saint Omer come una città idealizzata, una nuova Gerusalemme. 232. Gerusalemme al centro del mondo. Il mappamondo del XIII secolo qui riprodotto è ad un tempo una descrizione geografica e una spiegazione cosmogonica in cui Gerusalemme sta al centro.
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Tra i molti particolari degni di nota dove l’età crociata ha lasciato la sua impronta, va considerato il portale sud della basilica, a doppio ingresso, che ne costituisce anche l’entrata principale immediatamente prospiciente la cappella del Calvario e la «Pietra dell’Unzione»: se ne può ammirare sul posto la splendida linea, mentre gli architravi di pietra, finemente scolpiti, sono custoditi al Rockefeller Museum e rappresentano, con i capitelli della basilica di Nazareth, il più bell’esempio di scultura crociata che ci rimane e in senso assoluto due capolavori della scultura medievale. Di altre realizzazioni crociate, come le chiese sul Sion (la Dormizione, San Pietro in Gallicantu), ci restano solo rare vestigia archeologiche; così della chiesa di Santa Maria, ora in pieno quartiere ebraico – nell’area meridionale della città, non lontana da quella eretta sulla casa di Caifa – dove alla fine del XII secolo si fondò un Ordine dedicato a Maria e riservato a cavalieri d’origine tedesca (è quello divenuto poi famoso come Ordine teutonico).
Ayyubidi, mamelucchi, ottomani Il Saladino entrò in Gerusalemme nell’ottobre del 1187: secondo l’esempio del califfo Umar che l’aveva conquistata nel 638 rispettò i santuari originariamente cristiani, ma restituì al culto musulmano le moschee che i crociati avevano trasformato in chiese: prime fra tutte le due della spianata del Tempio, dalle cupole delle quali vennero tolti i simboli cristiani e che con lavacri di acqua profumata furono purificate da quella che i musulmani giudicavano una profanazione politeista (dal momento che «politeismo» è, dal punto di vista islamico, il dogma trinitario). Lasciò partire i franchi indisturbati, con i loro averi, pretendendo come riscatto solo somme irrisorie e spesso condonando anche quelle. In cambio incamerò beni immobiliari e mobili, specie degli Ordini militari (come l’intera sede degli Ospitalieri), fece distruggere i santuari cristiani posti fuori delle mura urbane e trasformò in madrasa (scuola coranica) la chiesa di Sant’Anna. Naturalmente fece spezza-
233. Architrave est del Santo Sepolcro, con decorazione di epoca crociata con plurimi influssi classici e mediorientali.
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re o fondere le campane delle chiese, il suono delle quali è considerato abominevole tra i musulmani, e restaurò il sistema dei pedaggi per i pellegrini alle porte cittadine e a quelle delle chiese cristiane, a cui furono preposti custodi musulmani (come ancor oggi al Santo Sepolcro e altrove). Alla scomparsa del Saladino, nel 1193, il suo grande impero personale non gli sopravvisse: i suoi discendenti se lo spartirono, dando nuova vita a una costante geostorica di continuo presente – come abbiamo visto – nella vita della Terra Santa, la tensione e la rivalità per il suo controllo tra chi governa la Siria (o la Mesopotamia) e chi detiene invece il potere in Egitto. I sultani della dinastia ayyubide, discendenti del Saladino, si divisero infatti quelle sue regioni: Gerusalemme toccò all’ayyubide del Cairo, al-Malik al-Kamil, che stipulò nel 1229 con l’imperatore Federico II una tregua che prevedeva nella pratica lo smantellamento nella Città Santa di ogni difesa militare, il ritorno dei luoghi santi cristiani ai fedeli del Cristo e il controllo del Haram esh-Sharif da parte dei musulmani. Una soluzione forse ideale per equità: che tuttavia non durò a lungo. Nel 1244 alcuni guerrieri mercenari provenienti dall’Asia centromeridionale – dal Kwarezm, tra Uzbekistan e Turkmenistan – assalirono e saccheggiarono Gerusalemme dandosi a massacri e a profanazioni. Intanto, favorita dal Saladino – secondo le tradizioni islamiche –, s’insediava in Gerusalemme una numerosa comunità ebraica, composta in gran parte da famiglie profughe da Francia e da Inghilterra, dove già cominciava a profilarsi per loro un regime di restrizioni e di persecuzioni e dove erano affiorate più volte, nei loro confronti, accuse di profanazione di ostie consacrate e di infanticidi rituali. Nello stesso periodo, molti ebrei soprattutto
234. L’imperatore Federico II si incontra con il Sultano alle porte di Gerusalemme. Miniatura conservata alla Biblioteca Vaticana.
235. Il Santo Sepolcro in un’incisione del XV secolo (B. Breydenbach, Le sante peregrinazioni di Gerusalemme).
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dalla Francia stavano riparando nella Spagna islamica. Gerusalemme era già stata visitata, in periodo crociato, da illustri ebrei quali il grande Maimonide e il viaggiatore spagnolo Beniamino da Tudela; in età ayyubide il grande organizzatore della cultura ebraica gerosolimitana fu un altro spagnolo, Moshè ben Nahman, conosciuto come il Nahmanide. Rinasceva così una comunità ebraica a Gerusalemme. A metà del XIII secolo i califfi del Cairo furono rovesciati dai loro schiavi-soldati, i mamelucchi, che insediarono sul trono un loro sultano. Nei confronti di Gerusalemme quello mamelucco fu almeno sulle prime un buon governo. Gli schiavi-padroni si mostrarono solleciti nei confronti dell’Islam ma rispettosi dei diritti di ebrei e di cristiani, corretti verso i pellegrini – che infatti affluirono tra Due e Cinquecento in grande numero, rendendo possibile addirittura un trasporto mediante «navi di linea» organizzate da Venezia; e arricchendo le casse sultaniali e le borse dei mercanti musulmani –, promotori dell’abbellimento della città: restaurarono le mura, abbellirono il Haram esh-Sharif – costruendovi tra l’altro alcuni minareti e collocando attorno alla Cupola della Roccia gli eleganti portici detti mawazin (bilance, perché secondo la leggenda qui gli angeli appenderanno le bilance per pesare le anime) –, eressero molte madrase. I mamelucchi pensarono bene anche, per meglio governare, di metter le une contro le altre le comunità soggette. A onor del vero lo fecero sempre con moderazione: favorirono tuttavia, ad esempio, i cristiani contro gli ebrei, e soprattutto i francescani anche perché, nel Trecento, l’ordine era sostenuto dai sovrani angioini di Napoli che avevano nei sultani mamelucchi dei buoni alleati. Nel 1309 i frati minori furono formalmente autorizzati a
236. Raffigurazione di Gerusalemme del 1493, un anno dopo la scoperta dell’America. Opera di Hartmann Schedel, è tratta dal suo Weltchronik (Historia aetatum mundi et descritio urbium cum figuris ligneis pictis), pubblicata a Norimberga. Si tratta di una delle prime opere a stampa con illustrazioni xilografiche dedicata a un mercato dotto-popolare.
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insediarsi nel Santo Sepolcro, sul Sion, a Betlemme. Roberto re di Napoli acquistò nel 1333 dal sultano la proprietà del Cenacolo, che trasferì nel 1342 all’Ordine dei Minori: ciò costituì l’avvio sostanziale della custodia francescana di Terra Santa (il guardiano del convento francescano del Sion sarebbe poi divenuto il Custode di Terra Santa) e consentì la sistemazione, in belle forme gotiche, della sala del Cenacolo sul monte Sion. Ma applicarono rigorosamente la pratica giuridica musulmana consistente nell’impedire che si potessero restaurare gli edifici di culto delle comunità soggette che si deteriorassero: il che è la ragione del fatto che molte chiese cristiane apparivano ai pellegrini e ai viaggiatori in un pietoso stato cadente, che forse incontrava il gusto dei romantici ma che conferiva al paesaggio una desolazione ancor evidente in molte descrizioni e in molti disegni cinque-ottocenteschi. Il governo mamelucco andò comunque degenerando nel corso del Quattrocento, anche per cause politiche interne all’Egitto. Una lettura seriale dei diari dei pellegrini occidentali da metà Trecento ai primi del Cinquecento mostra una Gerusalemme in progressivo abbandono, con un’amministrazione sempre più trascurata e immorale, una popolazione sempre più rarefatta e impoverita, una reazione alle stesse calamità naturali – carestie, pestilenze, terremoti – sempre più fiacca. Si calcola che i gerosolimitani fossero quasi cinquantamila a metà Duecento e si fossero ridotti a circa diecimila due secoli e mezzo più tardi. I turchi ottomani, che nel 1453 si erano impadroniti di quel che restava dell’impero bizantino e della sua capitale, ridussero nel 1516 sotto il loro potere la Palestina e l’Egitto. Gerusalemme, inserita territorialmente nella provincia che aveva come capoluogo Damasco, sarebbe restata per quattro lunghi secoli nelle mani dei sultani turchi. Il sultano Solimano «il Magnifico» (1520-66), figlio di Selim, mostrò di voler molto valorizzare il possesso di Gerusalemme. Si occupò anzitutto del suo approvvigionamento idrico: riparò una vecchia diga che chiudeva l’area a monte della valle della Gehenna, a sud della città, creando così la celebre «Vasca del Sultano»; restaurò l’acquedotto che portava a Gerusalemme l’acqua proveniente da Betlemme e da Hebron; infine fece costruire in città una serie di belle fontane e legò il suo nome a un totale rifacimento della cinta muraria. La città vecchia di Gerusalemme è ancora racchiusa nella bella cinta muraria edificata dal sultano. Solimano si dedicò anche alla Cupola della Roccia, che gli stessi mamelucchi avevano curato ma che con il tempo si era andata usurando: rovinati, in special modo, apparivano soprattutto i mosaici che ornavano le mura esterne e per farsi un’idea dei quali si dovrebbe forse pensare a quelli delle moschee damascene. Ma nel XVI secolo l’arte musiva, molto legata alla cultura bizantina cristiana, si era andata perdendo: il sultano rimediò facendo coprire la moschea di splendide piastrelle di ceramica azzurra proveniente dalla città persiana di Kashan; questa è la copertura parietale che ancor oggi si può ammirare e che conferisce alla bella moschea un’aria che la distingue dagli edifici sacri islamici arabi e turchi per imparentarla piuttosto al mondo indopersiano e asiatico-centrale, dove tale tipo di decorazione è molto diffuso. Attente cure Solimano dedicò anche alla cittadella detta «Torre di David», che con lui acquistò definitivamente l’aspetto che tuttora conserva. È probabile che, più che gli attacchi d’un Occidente cristiano che stava ormai sulle difensive, il sultano temesse sorprese da parte della Persia. D’altro canto, i rapporti tesi con l’Europa e la necessità di differenziare la politica ottomana rispetto a quella mamelucca dovettero giocare in un senso che non fu favorevole per i cristiani di rito latino. I mamelucchi li avevano favoriti, e soprattutto avevano mostrato considerazione per i francescani: in reazione a tali scelte, il sultano d’Istanbul favorì invece la comunità ebraica e giunse addirittura – avvalendosi d’un principio già sancito dal
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Saladino, secondo il quale l’autorità musulmana che governasse Gerusalemme avrebbe avuto diritto di considerare i luoghi santi cristiani come sua proprietà – a cacciare tra il 1523 e il 1551 i frati minori prima dal Cenacolo e poi addirittura dal loro stesso celebre e venerato convento del monte Sion. Oltre agli ebrei, il sultano favoriva rispetto ai latini i greci ortodossi. Al riguardo bisogna ricordare non solo che la Chiesa di Costantinopoli, dopo il 1453, era fatta di sudditi del sultano, ma anche che molti prelati ortodossi avevano sempre dichiarato di «preferire il turbante alla tiara», cioè che il governo dei turchi, che avrebbero almeno consentito loro di mantenere la loro identità, era preferibile a un accordo con la Chiesa latina che avrebbe imposto di rinunziare a riti e a tradizioni. Da quando il Saladino aveva riconquistato Gerusalemme, i patriarchi cristiani avevano sì guardato alla Chiesa bizantina, ma erano sempre appartenuti alla gente araba; dal 1534 cominciarono ad esser greci e si stabilì anzi che non potessero essere altrimenti; col favore del sultano anche le proprietà degli immobili annessi al Santo Sepolcro e della relativa chiesa andarono rapidamente ellenizzandosi. Il patriarca ecumenico di Costantinopoli si considerava al tempo stesso il capo della cristianità orientale anche dal punto civile – dal momento che la legge coranica non era applicabile ai cristiani – e un funzionario del sultano. Con il regno di Solimano la città di Gerusalemme e i relativi luoghi santi delle tre fedi assunsero definitivamente – con poche varianti – l’aspetto che mantengono ancor oggi. Nonostante la controversa ridefinizione dello status della città di Gerusalemme imposta di fatto dopo il 1967 e i lavori di restauro e ristrutturazione che alcuni edifici hanno subito, l’assetto generale permane quello strutturato dal grande sultano del secolo XVI. Naturalmente anche questa storia è tuttora aperta: ma per una conoscenza generale dei fatti e dei monumenti il regno di Solimano può esser proposto come un plausibile punto d’arrivo.
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Riferimenti iconografici Illustrazioni a colori Akademie der Wissenschaften und der Literatur Mainz: Corpus Vitrearum Deutschland, Freiburg i.Br. (R. Becksmann): 24 Amendola Aurelio, Pistoia: 26, 29 Archivi Giraudon/Alinari: 10, 11, 121 Archivio di Stato di Lucca: 18 Archivio Fotografico Vasari: 15, 19, 111 Artothek, Peissenberg: 27 Badische Landesbibliothek Karlsruhe: 13 Badisches Landesmuseum, Karlsruhe: 34 BAMS photo – Rodella: 114, 115 Bayerische Staatsbibliothek, München: 30, 37, 122 Bayerisches Nationalmuseum, München: 159 Bibliothèque Municipale de Toulouse: 23 Bibliothèque Royale Albert Ier, Bruxelles: 12 Cancogni Michela e Erio Forli, Pietrasanta: 66 Caucci von Saucken Paolo: 77 Clichés Bibliothèque Nationale de France: 33, 96, 98 Fabbrica di San Pietro in Vaticano: 120 Germanisches Nationalmuseum, Nürnberg: 83 Isber Melhem: 105 Jaca Book/Adros Studio: 36, 128, 132 Jaca Book/Mauro Magliani: 40, 48, 55, 84, 118, 119 Jaca Book/Mendrea: 8, 20 Kvíz Jaroslav, Praha: 54 Lensini, Siena: 57 Lobato Xurxo: 131, 133 Mendrea Dinu, Radu e Sandu: 101, 102, 146, 149, 154, 155, 156 MNAC Photographic Services: 9
Museo Diocesano, Lérida: 21 Rodella Basilio, Montichiari: 31, 32, 46, 47, 51, 53, 56, 89, 90 Rodriguez Carlos: 70, 72, 73, 80, 129, 130 Scala: 16, 17, 22, 35, 85 © Shutterstock: 1 (Vladislav T. Jirousek), 2 (Diego Grandi), 3 (Atosan), 7 (Henk Bogaard), 28 (Pavel Cheskidov), 38 (Marc Venema), 39 (Kevin George), 41 (Matyas Rehak), 42 (Igor Rogozhnikov), 44 (Rob Crandall), 49 (Walencienne), 50 (Roberto Lo Savio), 52 (Borisb17), 58 (Bildagentur Zoonar GmbH), 61 (Mi. Ti.), 62 (VitalyPeklich), 63 (ValerioMei), 68 (leonardo_da_gressignano), 71 (Sergey Dzyuba), 74 (FlareZT), 75 (Francisco Javier Gil), 76 (Pecold), 78 (David Herraez Calzada), 79 (Botond Horvath), 81 (bepsy), 82 (joserpizarro), 87 (Circumnavigation), 88 (aydinsertbas), 91 (Koraysa), 92 (Oscar Espinosa), 93 (Kartinkin77), 94 (Michal Szymanski), 97 (Boris Diakovsky), 99 (JekLi), 100 (Mosab Bilto), 104 (Maxim Tarasyugin), 106 (Henning Marquardt), 107 (Pen_85), 108 (Mojmir Fotografie), 109 (s74), 110 (Nattee Chalermtiragool), 112 (Chanclos), 113 (Viacheslav Lopatin), 116 (Igor Plotnikov), 117 (jjphotos), 124 (David Harding), 125 (Jose Ignacio Soto), 126 (Alfonso de Tomas), 127 (joan_bautista), 134 (Takashi Images), 135 (jx1306), 136 (Renata Sedmakova), 137 (Roman Yanushevsky), 138 (ClimaxAP), 139 (rasika108), 140 (David Rabkin), 141 (wong yu liang), 142 (VanderWolf Images), 145 (Richard Sevcik), 147 (Rostislav Ageev), 148 (John Theodor), 150 (chromoprisme), 151 (Flik47), 152 (Robert Hoetink), 153 (kavram), 157 (alefbet), 158 (Zhukov) Soprintendenza Beni Artistici e Storici, Milano: 103 The Master and Fellows of Corpus Christi College, Cambridge: 95 The Metropolitan Museum of Art, Gift of J. Pierpont Morgan, 1917: 25 Vannini Sandro: 42, 43, 59, 60, 64 (Sergio Galeotti), 65 (Sergio Galeotti) Zodiaque, Ste. Marie-de-la-Pierre-qui-Vire: 14, 45, 67, 69
Illustrazioni in bianco/nero Aletti A., disegno: 208 Archivio Vasari: 186 Caucci von Saucken Paolo: 118, 123, 124, 127, 129, 137, 144 Cecchi L., disegno: 9 Ciol Elio: 108 Delahoutre Michel: 5 Isber Melhem: 217, 218, 219 Jaca Book/Mauro Magliani: 6, 42, 44, 176 Langé Santino: 13 Lanzi Fernando: 17, 18 Lavayen Carlos: 19 Lobato Xurxo: 31, 33, 46, 96
Meazza Carlo: 12 Mendrea Dinu, Radu e Sandu: 11, 70, 204, 210 Photo Israel Antiquities Authority/Dinu Mendrea: 233 Rodella Basilio: 110, 111 Scala: 158 © Shutterstock: 4 (Vadim Petrakov), 17 (tetrisfun), 114 (Borisb17), 128 (zummolo), 135 (David Herraez Calzada), 207 (EcoPrint), 211 (alefbet), 212 (Semenov1980), 226 (Rostislav Glinsky) Stabin Angelo: 2, 86 Vannini Sandro: 177 Vautier Mireille: 10 Zodiaque, Ste. Marie-de-la-Pierre-qui-Vire: 32, 78, 79, 92, 138 Volumi di riferimento
Archéologia, 328, 11/96 Cantieri Medievali, Jaca Book, 1995 Ciudades Antiguas del Mediterráneo, Lunwerg Editores, 1998 El Camino de Santiago, Lunwerg Editores Hell V. u. H., Eie grosse Wallfahrt des Mittelalters, E. Wasmuth, 1964 Huellas Jacobeas, Xunta de Galicia, 1998 Hutter I., Holländer H., Kunst des frühen Mittelalters, Belser 1987 L’arte paleocristiana, Jaca Book, 1998
La Navigation dans l’Antiquité, Edisud, 1997 La Storia dei Giubilei, vol. I, Giunti, 1997 Le Religioni, Jaca Book, 1993 Santiago, Camino de Europa, Xunta de Galicia, 1993 Santiago. L’Europa del pellegrinaggio, Jaca Book, 1993 Stopani Renato, La via francigena, Le Lettere, 1998 Sulle orme di San Giacomo di Compostella, Arca, 1994 Wallfahrt kennt keine Grenzen, Schnell & Steiner, 1984
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