This Hard Land sulle strade di Springsteen
This Hard Land sulle strade di Springsteen fotografie di
parole di
Daria Addabbo
Gino Castaldo
Sommario
International © 2019 by Editoriale Jaca Book Srl, Milano All rights reserved
Prima edizione italiana ottobre 2019
i
Photo Editing Marco Finazzi
Impaginazione e grafica Paola Forini
Stampa e confezione Tiskarna Vek, Koper
this hard land
Editoriale Jaca Book Via Frua 11, 20146 Milano Tel. 02.48561520, fax 02.48193361 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
il lavoro
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la notte
iv
la strada
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il tunnel dell’amore
159
the promised land
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vii il sogno
231
Una notte è per sempre
260
Sono arrivata per la prima volta negli Stati Uniti...
267
vi
ISBN 978-88-16-60596-1
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my hometown
iii
v
7
ii
epilogo
Daria Addabbo
THIS HARD LAND And in the morning we’ll make a plan Well if you can’t make it Stay hard, stay hungry, stay alive If you can And meet me in a dream of this hard land
(This hard land)
Un giorno, aveva più o meno sedici anni, Bruce andò a fare una
Era Dio, o almeno così sembrava, ma non esattamente quel Dio di cui
passeggiata sul monte Sinai, o meglio no, era dalle parti di Freehold,
gli avevano parlato in chiesa, piuttosto uno strano Dio del rock, una
non poteva essere il Sinai, forse un piccolo monte locale, o forse neanche
divinità apocrifa e non autorizzata, ma non per questo meno potente
perché il New Jersey è piatto come una tavola.
e autoritaria.
Immaginiamo che fosse almeno una collina, un falsopiano, un’altura in
«…E nulla potrà distoglierti da questo compito. Potrai fare la tua
cima alla quale si trovò di fronte un grande vecchio con barba bianca
vita, amerai le donne, verrai amato, avrai dei figli, ma non potrai mai
e capelli a cascata fino alle spalle, alto, vestito di pelle scura, pieno di
abbandonare lo scopo essenziale della tua vita. All’inizio sembrerà
borchie argentate con un bastone che alzò verso il cielo dicendo con
tutto facile, crederai di essere onnipotente, giovane, forte, avrai davanti
voce imperiosa: «Ehi tu! Come ti chiami?».
masse di gente adorante, ma col tempo sarà sempre più dura, perché
«Mi chiamo Bruce, signore, Bruce Springsteen» rispose tremante il
non potrai smettere, dovrai combattere contro demoni feroci, scaverai
ragazzo.
dentro te stesso fino a scoprire quello che ora non vorresti mai sapere
«Non male, non ti servirà neanche un nome d’arte, suona bene…
di essere, alla fine ti sembrerà un destino crudele, una prigione, dovrai
Ebbene tu, ragazzo, hai una missione…».
suonare fino a quando le tue dita non si spezzeranno e la tua voce non
«Io?» chiese lui incredulo.
sarà che un vecchio stanco ruggito, ma non sfuggirai al tuo destino,
«Il destino del rock è nelle tue mani…» continuò il vecchio, la voce
dovrai scavare in questa dura e maledetta terra, disseppellire promesse
maestosa riverberata da un invisibile Lexicon 480 di cui il ragazzo
bugiarde e tradimenti, dovrai fronteggiare un male oscuro che ti inseguirà
ancora non supponeva l’esistenza ma che avrebbe imparato presto a
per tutta la vita. Ma non puoi fare altro, non hai scelta. È il tuo solo e
conoscere. Era la voce del tuono. Era la folgore elettrica dei suoi sogni.
unico destino. E ora va, datti da fare. Non c’è tempo da perdere».
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I
MY HOMETOWN
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Now Main Street’s whitewashed windows and vacant stores seems like there ain’t nobody wants to come down here no more (My hometown) La chiesa di Freehold, St. Rose of Lima, è ancora lì, immutabile. Come molti luoghi della provincia è un condensato di autoindulgenza e frustrazione, di promesse e moniti terribili. Facile farne una metafora per un ragazzo in cerca di una missione: da uno stesso luogo uscivano alternativamente novelli sposi proiettati a palla di cannone verso la vita vera e bare portate a spalla da sconsolati parenti. Battesimi, funerali e matrimoni, ovvero nascere, amare e morire, in uno stesso luogo. Bruce ci andava con la sorella a raccogliere il riso residuo dei matrimoni. In un’altra chiesa, in un’altra provincia, dall’altra parte del mondo, per ragioni completamente diverse, più o meno nello stesso periodo, un’immaginaria vecchina di nome Eleanor Rigby faceva lo stesso, andava a raccogliere il riso lasciato per terra dopo i matrimoni. Anche Liverpool a quei tempi era una periferica provincia dell’impero, una scura e ingrata città di lavoratori. Ma se nella provincia inglese si specchiava l’incerto destino di un impero, in quella americana si riflettono i vizi e le virtù della democrazia. Ed è questa la questione che a Springsteen interessa più di ogni altra. Nel tempo di una sola canzone come My hometown (da Born in the u.s.a., 1984) il paesaggio cambia, scorrono intere epoche, all’inizio c’è un padre col suo cucciolo sul sedile di una vecchia Buick che mostra al figlio il panorama e gli dice: «Guarda bene, questa è la tua città», poi arrivano le tensioni, anche in provincia gli anni Sessanta portano bagliori ideali e
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scontri, bianchi e neri che si guardano in cagnesco, poi ancora la crisi, il lavoro che scompare, l’infinita desolazione senza luce, il cucciolo dell’inizio è ormai a sua volta padre, vuole scappare e dice anche lui al figlio: «Guarda bene, questa è la tua città», ma ora il significato è completamente diverso. C’è silenzio, una casa dopo l’altra, tra irreali parcheggi dispersi nella nebbia, club di reduci dal Vietnam, file di casette working class tinteggiate pastello come per cercare a ogni costo una dignitosa grazia, con immigrati messicani, ucraini, turchi, che nel corso degli anni si sono radicati silenziosamente, un dismesso luna park di desideri spolpati, lasciati a marcire in un angolo, con insegne di cartapesta e screpolati «tunnel of love», qualche tendina scostata, la diffidenza degli sguardi, verande nelle quali sedersi a guardare il nulla, e in mezzo slanci di imprevista empatia. Cemento, legno, case che sembrano precarie, spostabili. Sono strade solitarie, dove è facile inciampare nelle macerie del sogno americano. Prima che fosse proiettata di forza dalla storia nella catastrofe delle Torri Gemelle, My city of ruins era molto più semplicemente dedicata alla desolazione di Asbury Park, al suo inesorabile declino dopo anni di furore, era l’elegia per una provincia che aveva brillato di nottate ruggenti e poi si era spenta, come se l’oscurità in agguato ai confini della città avesse mangiato sempre di più terreno alla luce. Quell’immagine era stata fissata una volta per sempre nel 1978, nella devastante potenza di Darkness on the edge of town. Le tenebre sono lì, sembrava dire nella canzone che aveva dato il titolo all’album: «everybody’s got a secret, Sonny», tutti hanno un segreto, «something that they just can’t face, some folks spend their whole lives trying to keep it», qualcosa che non possono affrontare, e alcuni passano l’intera vita a custodirlo, per poi cercare di disperdere tutto nelle tenebre, lì al confine della città.
La provincia esige il suo tributo attraverso confini sociali netti, e quando Bruce era ragazzo quei confini erano più chiari: gli italiani da una parte, dall’altra gli irlandesi, poi i neri, e infne i ricchi sul lungomare. La provincia è il limite tra il luogo e il non luogo, dove si esiste oppure si è niente, eppure lì in quelle strade c’è la verita dalla quale Springsteen non può stare troppo lontano. È lì lo splendore malinconico e irrinunciabile del riscatto umano, lì c’è l’America di oggi, quella che al miracolo di un presidente nero ha contrapposto una grottesca parodia presidenziale della dignità umana, lì ci sono gli uomini dentro le gabbie che Bruce ha cantato in Jackson cage, lì le strade dove si poteva lanciare l’auto verso l’ebbrezza di una notte per sentirsi re e regine. Da lì vengono i «nati per correre», i «cuori affamati», lì ci sono le scintille d’amore spente sul terreno arido della realtà. Sono terre cattive ma «we’ll keep pushin’ till it’s understood, and these badlands start treating us good» (Badlands, 1978), cantava, sono terre cattive ma bisogna sfidarle perché ci diano qualcosa. Ci sono anche le Backstreets, le strade secondarie dove ci si nasconde, ma quando Springsteen le evocava nel 1975 c’era ancora un forte sentore di gloria: «remember all the movies, Terry, we’d go see trying to learn how to walk, like the heroes we thought we had to be», ricorda tutti i film che abbiamo visto per imparare a camminare come gli eroi che volevamo essere. Ma la provincia chiede il suo tributo di vite umane e infatti «after all this time to find we’re just like all the rest», dopo tutto ci siamo accorti di essere come tutti gli altri, «stranded in the park and forced to confess, to hiding on the backstreets», intrappolati in un parcheggio, costretti a confessare e nasconderci nelle strade secondarie. Lo stesso marchio impresso nel volto della ragazza in Candy’s room: «there’s a sadness hidden in that pretty
face, a sadness all her own from which no man can keep Candy safe», una malinconia da cui nessun uomo potrà mai salvarla. Tutte le immagini di quella terra sono intrise di solitudine e oscurità. Eppure lui non se n’è mai andato del tutto, come se avesse paura di perdere l’anima che è lì, piantata in quella terra. Ancora oggi la residenza del Boss è lì, la casa dalla quale non può fare a meno di vedere la sua terra, con tutti i suoi disperati cittadini, eroi involontari di quella strana, speciale, unica provincia che vive al confine tra il possibile nulla e il possibile tutto, dalla quale s’intravede il profilo scintillante della Big Apple, il più favoloso e immaginifico paese dei balocchi inventato dalla moderna cultura urbana dell’Occidente, la «grande mela», il frutto proibito che gli artisti hanno sempre voluto mordere. Bruce, il provinciale di lusso, vive esattamente sul ciglio, e il disco che meglio fotografa questo crinale è il suo secondo e più ingenuo album, con un titolo che allora lo definiva al 100%: The wild, the innocent and the E street shuffle. Metà disco, racconta Bruce, è ambientato nel nostro angolo del New Jersey, l’altra metà sono le mie fantasie su New York, dove c’è tutto quello che un ragazzo del New Jersey può sognare. E la fantasia più grande l’ha cantata nel pezzo di chiusura, l’amatissima New York City serenade. Sembra di vederlo di notte, in cima a una collinetta del Jersey da cui si intravede lo scintillante skyline della grande mela: «it’s midnight in Manhattan», è mezzanotte a Manhattan, «this is no time to get cute, it’s a mad dog’s promenade», non è il momento per essere carini, è una passeggiata per pazzi, «so walk tall or baby don’t walk at all», dunque cammina a testa alta o non camminare affatto. Sembra proprio di vederlo, il ragazzo con la chitarra che sta cantando rivolto alle stelle la sua serenata a New York.
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La casa al 39½ Institute Street, in cui Springsteen ha trascorso la sua infanzia – Freehold, New Jersey
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Lev – Long Branch, New Jersey
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Tony’s Freehold Grill – Freehold, New Jersey
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Asbury Park – New Jersey
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Veterans of Foreign Wars – Freehold, New Jersey
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Long Branch – New Jersey
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Saint Rose of Lima – Freehold, New Jersey
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Freehold, New Jersey
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Convention Hall – Asbury Park, New Jersey
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Nathalia - Long Branch, New Jersey
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Lavanderia automatica, Long Branch, New Jersey Nelle pagine seguenti: Wonder Bar - Freehold, New Jersey
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Claudio - Long Branch, New Jersey
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Freehold, New Jersey
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Mike, Veterans of Foreign Wars – Freehold, New Jersey
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Staten Island Ferry – New York
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II
IL LAVORO
I work for the country out on 95
come ha ironicamente ammesso nel racconto al Walter Kerr Theatre
All day I hold a red flag and watch the traffic pass me by
di Broadway – in alcuni video impersona lavoratori, vedi lo scavatore
In my head I keep a picture of a pretty little miss
di Glory days o il meccanico di I’m on fire, ha sempre mantenuto un
Someday, mister, I’m gonna lead a better life than this
approccio working class, anche nelle pose di palco, in quella rude e
(Working on the highway)
muscolosa tenuta rock, nei vestiti semplici, scarni, ha sempre cercato di assomigliare ai lavorarori che andavano ad ascoltarlo, perché accanto a loro è cresciuto, è comunque uno di loro, ha sempre respirato quel
Pur non avendo mai fatto un solo giorno di vero lavoro, almeno per
lavoro che in una strada di provincia può assumere l’odore di una nuvola
come lo intendeva suo padre, nessuno come Springsteen ha incarnato
di caffè tostato, o il costante rumore di fondo dei telai meccanici di una
meglio il verso che John Lennon cantò nel 1970: «A working class hero is
fabbrica di tappeti, come nelle vie di Freehold.
something to be». «Bisogna essere un eroe della working class», appun-
Quando per la prima volta lui e i suoi amici andarono a suonare in
to, e molti eroi del rock lo sono stati, va detto, incarnando il riscatto da
California, per misurarsi con la scena hippie, racconta Bruce, era come
una provenienza umile, tutt’altro che aristocratica, e neanche borghese.
se fossero arrivati gli operai del New Jersey, questo sembravano a con-
Ma nessuno è stato come lui, perché questo tema è stato il crocevia, la
fronto delle ghirlande, dei vizi, della libertà floreale e della strafottenza
boa lacerante e contraddittoria della sua vita, il lavoro odiato, quello
psichedelica che si respirava nelle zone alte del rock, dove l’etica del
quotidiano, asservito, alienante, opprimente proiezione del fallimento
lavoro era assente se non addirittura apertamente dileggiata. Bruce no,
di ogni aspirazione umana, quello da cui sfuggire finché si è giovani e
era comunque di un’altra razza, lui i lavoratori li capiva, il suo riscatto
audaci, ma anche il rispetto, la dignità, l’orgoglio di chi si batte ogni
era il loro riscatto, era a loro che doveva rispondere, pur senza mai
santo giorno per guadagnarsi da vivere, per mantenere i figli, sgobban-
arrivare alla mistica del lavoro, quella che in modo osceno era stata
do senza alcun appagamento, sudando solo ed esclusivamente perché
evocata dai nazisti con la scritta posta all’ingresso dei campi di con-
non c’è altro modo, perché va fatto, perché la vita è dura e il lavoro è
centramento, Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, dannatamente
comunque un dono rispetto a chi non ce l’ha, infine perché il lavoro è la
beffarda (anche se da parte dei nazisti non c’era la minima ironia, ci
condizione normale in cui vive il 99,9% di chi segue e ama le sue canzoni.
credevano davvero). Springsteen viveva lo spasmo doloroso dell’at-
Lui, che non ha mai lavorato davvero un solo giorno della sua vita –
taccamento al lavoro dei suoi simili, e da rockstar si è sempre posto
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il problema di dover trovare un nesso tra il suo status e la condizione
effimera, del sogno americano. Anche il poliziotto amaro di Highway
è il bello degli uomini, è la tenera consapevolezza di quella luce che
the highway, 1984). Si può scavare l’asfalto mentre automobili rombanti
dei lavoratori, fino a concepire un’intera minacciosa e febbrile risposta
patrolman gestiva col fratello una fattoria, «ma i prezzi del grano con-
ognuno può trovare anche nel buio fitto. Contraddizioni infinite di
vanno altrove, chissà dove, magari per fermarsi davanti a un’altra gabbia,
in forma di disco, talmente personale da volerla realizzare in perfetta
tinuavano a scendere, finché era quasi come essere derubati» e allora
una rockstar che si ostina a parlare di lavori ingrati e laceranti, con
magari no, semplicemente per scappare. In fin dei conti Bruce cantava
solitudine. Si intitola Nebraska (settembre 1982) e descrive la crisi eco-
diventa poliziotto e si trova a inseguire il fratello che nel frattempo è
al centro la figura paterna, com’era in Factory (1978), che inizia con i
la fuga dal lavoro. Out in the street (The river, 1980) è un’ode felice alla
nomica, l’avvio dell’America di Reagan, che governò dal 1981 al 1989,
deragliato. Il protagonista di State trooper prega un poliziotto: «New
fischi della mattina e finisce col fischio di fine turno: «I see my daddy
fine del turno, quando si può andar fuori a spassarsela: «Mettiti il tuo
aprendo e chiudendo gli anni Ottanta. È ossessionato dalla necessità
Jersey Turnpike, guidando in una notte bagnata sotto le luci della
walking through them factory gates in the rain, factory takes his hear-
vestito migliore piccola e, tesoro, sistemati per benino i capelli, perché
di restituire quello che gli è stato dato in termini di fortuna e soldi.
raffineria, lì fuori dove scorrono i grandi fiumi neri». Disperazione
ing, factory gives him life, the working, the working, just the working
c’è un party, dolcezza, laggiù sotto le luci al neon, per tutto il giorno hai
Diventa antagonista. Inizia il disco con una coppia che sembra quella
sorda, grigiore, senza via d’uscita, al massimo la speranza di una lot-
life». Springsteen che un lavoro vero non l’ha mai fatto si interroga
lavorato alla catena di montaggio, ma stanotta te la spasserai un po’. Io
che anni dopo sarà la protagonista di Natural born killers: «Volevano
teria. In Used cars canta: «Mio padre si suda lo stesso lavoro mattina
sul senso di questo lavoro alienante e tetro, meccanico, è davvero così
lavoro cinque giorni a settimana caricando casse giù al porto, mi prendo
sapere perché ho fatto quello che ho fatto, bene, signore, credo che
dopo mattina, io rientro a casa per le stesse sporche strade dove sono
che bisogna vivere? Anche in Youngstown il lavoro è odioso, ma c’è
i soldi guadagnati faticosamente e mi trovo con la mia ragazza giù all’i-
ci sia solo malvagità in questo mondo», dice uno dei due, spiegando
nato”. Pure la spacconata di Open all night è venata di duro lavoro:
la dignità, l’occuparsi della propria famiglia, come in American land:
solato e lunedì, quando il capo dà il via, ho già il venerdì nella testa».
l’elementare verità. E poi Johnny 99: «Well they closed down the auto
«Il capo non mi sopporta, così mi mette a fare il turno di notte, questo
«Lei mi ha incontrato nella valle di acciaio fuso e fuoco, abbiamo fatto
Questo semplice passaggio è la chiave. Cosa possono fare di meglio un
plant in Mahwah late that month», hanno chiuso lo stabilimento a
significa una notte in macchina, per ritornare dalla mia piccola nelle
l’acciaio che ha costruito le città col nostro sudore e le nostre mani».
ragazzo e una ragazza per spassasserla una sera? Ma è ovvio, andare a un
Mahwah il mese scorso, «Ralph went out lookin’ for a job but couldn’t
prime ore mattutine, le tue idee diventano confuse». Fino a Reason to
Dunque il lavoro è una prigione, ma nei padri c’è l’orgoglio della condi-
concerto di Springsteen, che quindi rivela la sua straordinaria singolarità
find none», Ralph ha cercato un lavoro, ma non l’ha trovato, «he came
believe: «Mary Lou amava Johnny, di un amore profondo e sincero, lei
zione, della fatica, della responsabilità. Si può avere rispetto ma bisogna
nella totale identificazione psicanalitica tra spettatore e artista. Lui è lo
home too drunk from mixin’ Tanqueray and wine, he got a gun shot a
diceva – Tesoro, lavorerò ogni giorno, per portare i soldi a casa – un
scappare finché si è giovani, perché quello che vede nel padre, nei padri
spettatore ideale, il lavoratore di base, è il meccanico e lo scaricatore,
night clerk now they call’m Johnny 99», è tornato a caso ubriaco per
giorno lui uscì e scomparve e da quel momento lei aspetta in fondo a
della working class, è alienazione e infelicità. Ci sono uomini dentro
ma è allo stesso tempo il working class hero popolare ed esaltante che
aver mescolato Tanqueray e vino, ha preso una pistola, ha sparato a
una strada polverosa che il giovane Johnny ritorni, è una cosa che mi
queste gabbie, c’è fumo, ci sono ingranaggi, macchine che sfrecciano
porta in alto i sentimenti di una generazione e li trascende in un paradiso
un guardiano notturno, ora lo chiamano Johnny 99. Il lavoro è così, ti
è sempre sembrata strana, signore, come alla fine di ogni dura giornata
davanti a una bandierina rossa sventolata tra i gas di scarico (Working on
di energia rock.
devasta quando c’è, ti fa impazzire quando non ce l’hai.
la gente trovi sempre una ragione per credere». Una canzone che ac-
C’è sempre un lavoro perso, una chiusura, un tradimento sociale, una
quista vita propria, parte sommessa su disco, con voce e chitarra nella
promessa mancata. Il tema è pressante, ossessivo. Anche in Mansion
solitudine della sua stanza, e dal vivo diventa un’esplosione, come se
on the hill c’è la differenza di classe, la villa distante e irraggiungibile,
volesse convincere prima di tutto sé stesso: «la gente trova sempre una
come quella del grande Gatsby, che rappresenta la realizzazione, magari
ragione per vivere», anche partendo da condizioni terribili, in fondo
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Raffineria di petrolio – Linden, New Jersey
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Long Branch – New Jersey
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American Diner – Shrewsbury, New Jersey
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Fabbrica NestlÊ - Freehold, New Jersey Nelle pagine seguenti: Lev – Long Branch, New Jersey
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Sunny – Freehold, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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John – Freehold, New Jersey
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Brad – Long Branch, New Jersey
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Jared – Freehold, New Jersey
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Nick – Long Branch, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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Jennifer – Asbury Park, New Jersey
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III
LA NOTTE
At night sometimes it seemed
a dirlo, «belongs to lovers». Non solo, la notte è il luogo dei concerti, che
You could hear the whole damn city crying
sono la seconda vita di Sprinsgteen, o la prima, a seconda dei punti di
(Backstreets)
vista. Di notte si grida, si guida, si gareggia (Racing in the streets), si può arrivare a guidare un’auto rubata «on a pitch black night», ovviamente
Bisogna aspettare la notte per sentire la voce di una città che piange.
in una notte nera come la pece, «and I’m telling myself I’m gonna be
Bisogna aspettare la notte per incontrare un certo tipo di eroi deragliati,
alright», mi dico che andrà tutto bene, «but I ride by night and I travel
per vedere demoni e fantasmi circolare liberamente per le strade. E
in fear that in this darkness I will disappear» (Stolen car), corro nella
guarda caso eroi, fantasmi e demoni sono esattamente le creature che più
notte ma ho paura che l’oscurità mi faccia scomparire. Di notte può
attraggono Springsteen. Basta sfogliare le sue canzoni, una dopo l’altra,
immaginare di essere un cobra tirato a nuovo che striscia nella notte
per scoprire una verità inconfutabile: a dispetto di quell’abbagliante
(Open all night) e all’alba lasciare la radio accesa su stazioni gospel dove
immagine da guerriero di ogni battaglia, da lucifero portatore di luce,
«lost souls callin’ long distance salvation», anime perse chiedono una
la stragrande maggioranza delle sue canzoni è ambientata di notte. Anzi,
salvezza da lontano, «hey, mister deejay, woncha hear my last prayer hey,
interi dischi sono ambientati di notte. Dunque la sua arma nascosta è
ho, rock’n’roll, deliver me from nowhere». Ascolta la mia preghiera, Mr.
l’ambiguità, l’ingannevole e onirica opacità della notte, perché solo lì può
Deejay, solo il rock’n’roll può salvarci e il suo regno è la notte. Giusto ai
parlare il linguaggio dei sogni, liberare i demoni come animali selvaggi
confini della città dove «you can ride this road ’till dawn without another
tenuti troppo a lungo in gabbia, è il momento in cui la realtà si fonde e
human being in sight», si può guidare fino all’alba senza incontrare esseri
confonde coi suoi simboli, è il momento in cui i fantasmi reclamano al
umani, «just kids wasted on something in the night», solo ragazzi che si
mondo dei vivi il loro diritto di cittadinanza.
perdono in qualcosa nella notte (Something in the night). Candy’s room è
Non siamo in quella folta e autorevolissima fila di autori e cantori che a
un tuffo nella notte, Streets on fire manco a dirlo e poi Prove it all night,
diverso titolo hanno inneggiato alla notte, nottambuli del jazz, famelici
un lui e una lei che in poche ore di buio devono dimostrarsi di essere
vampiri rock, lupi mannari e lunatici di ogni estrazione.
tutto quello che possono essere.
Le canzoni di Springsteen respirano nel buio, la notte è una condizione,
Ma sebbene Darkness inneggi così insistentemente sull’idea di oscurità,
uno stato, sembra quasi che si aspetti il tramonto per cominciare a vivere,
la più bella, o meglio la più romantica, delle canzoni sulla notte rimase
ma anche per celebrare l’amore come si deve, «because the night», manco
fuori dal disco. Non era adatta, pensò il Boss, con grande disappunto
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dei luogotenenti. Because the night finì per essere un magnifico regalo
quelle di tutte le grandi storie che si sono consumate in una notte, come
Vagabondi dell’anima, vagabondi reali, fuggiaschi, sbandati, vale per
we’re gonna get to that place
a Patti Smith, agli amanti della notte, al rock. Ma, forse il capo aveva
il finale di Giulietta e Romeo, come il sogno a occhi aperti di Eyes wide
tutti quelli che non si riconoscono nelle immagini di facciata del sogno
where we really want to go
ragione, la canzone era solo arrivata un poco troppo tardi. Sarebbe stata
shut di Kubrick, come nel primo film in bianco e nero di George Romero
americano. Bruce utilizza sempre il «noi», e questo fa la differenza, lui sta
perfetta come climax emotivo di Born to run.
sui morti viventi, che iniziava al tramonto e terminava all’alba.
parlando per tutti. Siamo tutti nati per correre, e ci sono questioni che
Insieme, Wendy, riusciremo a convivere con la tristezza. Bruce passa dal
Anche l’idea della notte, esattamente come un individuo, può crescere
In una sola notte si può morire e rinascere.
non possiamo rimandare, noi dobbiamo sapere.
«noi» alla prima persona singolare, è lui l’eroe distrutto che non si arrende,
nel tempo, evolversi, invecchiare. Tra la notte di Born to run (1975) e
La drammaturgia di Born to run (la canzone), un’ode al tempo e al luogo
quella di Wrecking ball (2012) c’è esattamente la differenza che ci può
dove tutto ciò che importa può avvenire, vale un romanzo:
essere tra un uomo di 25 anni e quello stesso uomo a 62 anni. La notte
che si aggrappa alla sua ultima speranza. Un giorno, te lo prometto, ci I wanna know if love is wild
arriveremo in quel posto…
girl I wanna know if love is real
di Born to run è epica, grandiosa, sospesa e allo stesso tempo definitiva,
In the day we sweat it out
quella di Wrecking ball è cupa, dolceamara, autobiografica: «so raise
in the streets of a runaway American dream
Dobbiamo scoprire se l’amore è qualcosa di reale. Dobbiamo andare fino
but till then tramps like us
up your glasses and let me hear your voices call», alzate i vostri calici e
At night we ride through
in fondo, fino alla fine.
baby we were born to run.
fatemi sentire le vostre voci che chiamano, «’cause tonight all the dead
mansions of glory in suicide machines The highway’s jammed with broken heroes
E quel giorno cammineremo nel sole, ma per ora dobbiamo rimanere al
on a last chance power drive
riparo della notte, perché vagabondi come noi, piccola, sono nati per correre.
are here, so bring on your wrecking ball», perché stanotte tutti i morti sono qui, e allora lancia la tua palla demolitrice. Amen. La seconda
Durante il giorno ci sfoghiamo nelle strade di uno sfuggente sogno
guarda verso il passato, la prima guardava verso il futuro.
americano, ma è di notte che corriamo attraverso case gloriose in
Il fatto che per incidere un disco che narrativamente si sviluppa tutto
macchine da suicidio.
nell’arco di una sola notte d’estate ci abbia messo ben 16 mesi (e 16 ore
And we’ll walk in the sun
Eccoli gli eroi del suo mondo, eroi spezzati che riempiono le autostrade di notte inseguendo la loro ultima possibilità di salvezza. E non ci sono più
soltanto per l’ultimo solo di Clarence) spiega la natura di Springsteen,
We gotta get out while we’re young
sintesi perfetta di perfezionismo ed esplosiva esuberanza. Ma comunque
’cause tramps like us,
ci sia arrivato, Born to run (il disco) è una delle massime celebrazioni
baby, we were born to run
dello sfuggente e diabolico fascino della notte. Una notte che inizia
posti per nascondersi Everybody’s out on the run tonight but there’s no place left to hide
con Thunder road e finisce con Jungleland, che è a sua volta la storia di
Dobbiamo uscirne, dobbiamo scappare da queste trappole finché siamo
together Wendy we’ll live with the sadness
un’intera notte, un dramma in più atti che si conclude con una scena
abbastanza giovani per farlo, perché i vagabondi come noi sono nati per
I’ll love you with all the madness in my soul
che sembrerebbe preludere a una livida e inanimata alba da film. Come
correre.
someday girl I don’t know when
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Freehold, New Jersey
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Karlos – Red Bank, New Jersey
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Red Bank, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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Asbury Park, New Jersey
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Rumson, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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Roberto – Freehold, New Jersey
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The Stone Pony – Asbury Park, New Jersey
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Margaritaville Casino – Atlantic City, New jersey
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Rehearsal Studio – Red Bank, New Jersey
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Brad – Red Bank, New Jersey
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The Stone Pony – Asbury Park, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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IV
LA STRADA
A piedi e col cuore leggero prendo la grande strada,
ho chiesto quale fosse la strada per tornare a casa e lui rispose: «take a
pieno di salute, libero, il mondo avanti a me,
right at the light, keep goin’ straight until night and then, boy, you’re
il lungo e bruno sentiero davanti a me che mi guida ovunque io scelga
on your own», gira a destra verso la luce, vai avanti fino a notte e sarai
Walt Whitman
da solo, un viaggio che non si è mai fermato, rilanciato nella vertigine di Born to run, attraversando le tenebre ai confini della città, passando su fiumi, praterie sconfinate, per autostrade affollate, treni, strade di
È significativo che il più bel vangelo apocrifo scritto in terra americana
provincia, ripercorrendo i sentieri della frontiera, sempre avanti, fino
sia un libro intitolato alla strada. On the road di Jack Kerouac fu scritto
all’ultimo Western stars, che inizia in autostop, senza meta, senza mappe,
su un unico ininterrotto «scroll» lungo 36 metri che una volta srotolato
solo seguendo le condizioni del tempo e il vento, con una dichiarazione
sembrava a sua volta una strada, come ebbe a sottolineare il suo autore.
di amore, libertà e solitudine, e finisce in un bar che sembra fissato sul
Quel flusso continuo fu pensato al ritmo del bebop, ma funziona perfet-
bordo di una strada verso il nulla. Quando alla fine arriva al Moonlight
tamente anche col rock, c’è la stessa sensazione di perdita, l’inebriante
Motel, è su una strada dove nessuno viaggia e nessuno va, forse solo
annullamento della distanza tra vita e arte. Più che letteratura sembra
due giovani che spariscono sotto lenzuola fruscianti nelle ore del tardo
un manuale di esistenza: chi lo legge percepisce la straordinaria bellezza
pomeriggio, al tramonto. Sembra una scena da film, lui pensa a quello
dell’essere «on the road», un ribollente misto di frenesia, vitalità e poesia,
che una volta lei gli ha detto: «è meglio aver amato», sì, pensa lui, «è
una perfetta definizione per sintetizzare la musica del Boss, il quale aveva
vero, è meglio aver amato», mentre prende da una busta di carta una
perfino un suo Dean Moriarty, ovvero il suo amico Matt Delia, con cui
bottiglia di Jack Daniel’s.
organizzò, dopo Nebraska, uno dei tanti «coast to coast». Matt era il
Sulla strada, secondo il maestro Dylan, più precisamente sulla Highway
driver ideale, il conoscitore di carburanti e motori, era «quel gran genio
61 che collegava la sua Duluth a New Orleans, una striscia di asfalto
del mio amico…», quello che con un cacciavite in mano sa fare miracoli.
lunga 1356 miglia, può accadere di tutto, persino che Dio dica ad
Solo in America ci si può mettere in viaggio su un sentiero di parole,
Abramo di uccidere suo figlio, che un giocatore annoiato cerchi di
o su un’autostrada fatta di musica. Springsteen di fatto non ha mai
provocare la terza guerra mondiale, che la quinta figlia della dodicesima
smesso, dal primo pezzo apparso, Blinded by the light, dove il fuggitivo
notte dica al padre che nella sua carnagione c’è qualcosa di strano. E
nella notte racconta: «asked him which was the way back home», gli
tutto questo su una sola delle mille strade d’America, oblunghe, infi-
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nite arterie che nel corso del tempo hanno trasportato gente, civiltà,
Le strade del Boss hanno bisogno di automobili, che sono a loro volta
si parla, ci si discute, le si doma a bordo di macchine luccicanti, così
musica, con incroci dove un peccatore blues può incontrare il diavolo
totem, feticci, simboli metallici, macchine da sucidio, contenitori di
come all’alba del rock’n’roll fece Elvis Presley. Non dimentichiamolo: la
e stringere un patto di ferro.
amore, sesso ed emozioni, con dettagli di parafanghi, luci, borchie
prima Cadillac rosa della storia è la sua, oggi esposta nel piccolo museo
A ogni re il suo scettro. Quello di Springsteen è una strada, la sua
cromate, ali slanciate, carrozzerie spavalde da indossare come armature
di fronte a Graceland.
medicina, la bacchetta magica, per sottomettere i demoni, molto
da combattimento.
Non solo Cadillac. Bruce viaggia anche su Chevrolet. Nel video di
più che un’occasione di viaggio. Out in the street, urlava, dalla parte
In Cadillac ranch (The river, 1980) c’è puro divertimento, ma anche
Hello sunshine c’è un’automobile, astratta, quasi avulsa dal paesaggio
opposta della prigione-lavoro, la libertà, se esiste, è fuori: «baby,
l’ambiguità del totem. Le Cadillac del resto sono ovunque, nella mito-
che scorre metafisico, una Chevrolet El Camino, modello del ’69, ov-
out in the street I just feel all right, meet me out in the street, little
logia del cinema, nelle strofe letterarie, ma c’è anche un riferimento alla
vero la stessa automobile che evocava decenni primi in Racing in the
girl, tonight». L’appuntamento è là fuori, col cielo per soffitto e un
dissacrante opera d’arte, intitolata proprio Cadillac ranch, dove dieci auto
streets, il racconto delle corse in macchina per le strade della provincia
pavimento di asfalto.
datate dal 1949 al 1963 sono state piantate nel deserto a testa in giù, con
del New Jersey, nei rodei notturni che dalla sua cittadina di Freehold
La strada è stata la sua casa, quando in nessun luogo chiuso trovava pace.
i cofani sepolti nella sabbia, dal gruppo d’arte californiano Ant Farm, gli
portavano verso la vita notturna di Asbury Park, con locali aperti fino
In strada c’era il fuoco che nessuna casa poteva contenere: «I’m wan-
stessi ripresi nel video di 57 channels (Human touch, 1992), dove un’altra
alle cinque di mattina.
dering, a loser down these tracks», un perdente per queste strade che
vettura va a sfondare un muro di televisori in una performance chiamata
La targa è del New Jersey. C’è una portiera che sbatte.
sono una maledizione, «I’m dying, but girl I can’t go back», ti dico che
Media Burn. E insiste. Anni dopo arriva addirittura una seconda canzone
Dalla strada si sentono passi che risuonano nella notte.
sto morendo, ma non posso tornare indietro, «’cause in the darkness
con Cadillac nel titolo, Pink Cadillac (1984), uscita come retro di Dancing
Un uomo sta andando, da qualche parte.
I hear somebody call my name», qualcuno nella notte chiama il mio
in the dark, ancora più marcatamente metafora sessuale, neanche troppo
nome, «and when you realize how they tricked you this time, and it’s
nascosta, sul filo di una tradizione iniziata con la Mustang Sally di Wilson
all lies», ti rendi conto che ti hanno fregato ancora una volta, sono
Pickett1, proseguita da molte voci americane, compresa quella straziante
tutte bugie, «but I’m strung out on the wire in these streets of fire»,
di Janis Joplin, che chiude la sua breve storia di vita e musica incidendo
ma sono imprigionato nel filo spinato, in queste strade di fuoco. E non
una preghiera: «Oh lord, per favore, mi compri una Mercedes Benz?».
basta, la verità è che non c’è altra possibile dimora: «I live now only
Un collegamento con automobili provenienti dalla vecchia Europa,
with strangers, I talk to only strangers», vivo solo con estranei, parlo
dove di lì a poco i Kraftwerk immagineranno in musica un’autostrada
solo con loro, «I walk with angels that have no place», cammino con
robotica che è quanto di più lontano si possa immaginare dalle strade
angeli senza fissa dimora.
di Springsteen. In America no, le strade sono vive, antropomorfe, ci
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È anche una canzone in cui Springsteen canta versi che starebbero bene in bocca a una donna, e infatti, sebbene abbia messo il veto a una versione di Bette Midler del 1983 (cosa che infastidì molto la Midler, che l’aveva già incisa), le versioni successive furono quasi tutte brillantemente femminili, soprattutto quella di Natalie Cole che andò in classifica. 1
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Alle pagine precedenti: Coconino County, Arizona Motel – Bakersfield, California
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Albuquerque, New Mexico
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Asbury Park, New Jersey
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Ocean Avenue – Long Branch, New Jersey
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Oceanport, New Jersey
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Wonder Bar – Asbury Park, New Jersey
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Staten Island, New York
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Eatontown, New Jersey
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Freehold, New Jersey
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Freehold, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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Asbury Park, New Jersey
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Colts Neck, New Jersey
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Quel che resta dell’albero amato da Springsteen, in Randolph Street – Freehold, New Jersey
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Neptune, New Jersey Nelle pagine seguenti: Eatontown, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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V
IL TUNNEL DELL’AMORE
Because the night belongs to lovers
sua riserva d’amore sugli amici, fratelli d’elezione che più volte gli hanno
Because the night belongs to lust
salvato la vita, come ammette in Tenth avenue freeze-out.
Because the night belongs to lovers
Parte della storia della E Street Band è costruita su questo mito.
Because the night belongs to us
Benché fossero amici da tempo, all’inizio Little Steven non c’era. Aveva
(Because the night)
mancato i primi due album. Ma all’inizio di Born to run, andò a trovare Bruce al Record Plant, proprio nei giorni in cui stavano registrando Tenth avenue freeze-out, e non riuscivano a chiudere un buon arrangiamento
L’amore, secondo Springsteen, è una prateria sconfinata, una miccia, una
per i fiati dei fratelli Brecker. In modo informale, senza ruolo, fu Steven
partita a dadi, «un’impresa rischiosa», e le sue eroine femminili sono
a dare la linea, e da quel momento non si staccò più dalla band, almeno
compagne di fuga, complici di una notte, amate, rispettate, esaltate, ma
fino all’altro disco che più o meno dieci anni dopo iniziava di nuovo con
di sicuro non sono mogli. O perlomeno così è stato per una parte della
la parola «born», Born in the u.s.a., tanto da creare la leggenda che a lui
sua vita. Lei poteva essere unica, speciale, inarrivabile ma solo nello
fosse dedicata Bobby Jean: «we liked the same music, we liked the same
spazio di una notte, come la protagonista di She’s the one, che «ha gli
bands», amavamo la stessa musica, le stesse band. Sembra proprio che
occhi che brillano come il sole di mezzanotte» o la sirena di Candy’s
parli all’amico. Solo un piccolo rimprovero: «I wished you would have
room che può addirittura dirgli: «baby if you wanna be wild, you got
told me», vorrei che me lo avessi detto, ma alla fine prevale il languore, la
a lot to learn», se vuoi impazzire hai ancora molto da imparare, e poi
voglia di salutare il fratello che molla la band, e diventa una vera canzone
passare alle istruzioni: «close your eyes, let them melt, let them fire, let
d’amore: «now we went walking in the rain, talking about the pain from
them burn», chiudi gli occhi, lasciali sciogliere, lascia che prendano
the world we hid, now there ain’t nobody nowhere, nohow gonna ever
fuoco, lasciali bruciare, «’cause in the darkness there’ll be hidden worlds
understand me the way you did», camminavamo nella pioggia parlando
that shine», perché nell’oscurità ci saranno mondi nascosti che brillano.
della paura che avevamo nascosto al mondo, nessuno mi capirà mai come
Chi non vorrebbe sentire il sussurro di simili promesse? Sesso e amore
facevi tu, «maybe you’ll be out there on that road somewhere», forse
sono tappe fondamentali di un romanzo di formazione, nel quale però
sarai lì fuori, da qualche parte, «in some bus or train traveling along, in
l’amicizia gioca un ruolo decisivo. Il giovane Bruce, che a diciannove
some motel room there’ll be a radio playing, and you’ll hear me sing this
anni rimane a Freehold solo e senza famiglia, riversa buona parte della
song», sarai in qualche autobus o treno viaggiando lontano, in qualche
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stanza di un motel, dove ci sarà una radio che suona, e mi ascolterai
sensi di I’m on fire. E del resto relazioni stabili nella sua biografia non se
honey I’m tougher than the rest». È sabato sera, tu sei vestita di blu
con la doppia faccia di Two faces, i fidanzatini del Tunnel of love, i litigi
cantare questa canzone, e tutto solo per dirti: «I miss you baby, good
ne vedono. Succede all’improvviso. Tutto cambia e prova l’irresistibile
[…] Scegli me bellezza, sono più tosto degli altri. In All that heaven
di coppia di One step up, gli imbrogli di Brilliant disguise: «So tell me
luck goodbye, Bobby Jean». Fa sorridere di piacere la dolce ambiguità
desiderio di sposarsi, di creare qualcosa di stabile. Di mogli ce ne saranno
will allow ci sono promesse da luna park, e poi il brusco ritorno sulla
what I see when I look in your eyes, is that you baby or just a brilliant
maschio/femmina che il testo avalla. Potrebbe essere una donna, po-
addirittura due, ma il tragitto che compie, come sempre nella sua vita,
terra, crudo, drammatico: si fa l’amore, ma Bobby non è stato attento,
disguise», dimmi cosa vedo quando guardo nei tuoi occhi, sei tu o sei
trebbe essere Little Steven.
ha la rotonda bellezza della metafora.
Jane è rimasta incinta, e lui scappa.
solo un brillante travestimento? E in finale la malinconia struggente di
Ma fa davvero differenza? Amore, amicizia. Per un istante sembrano
Potremmo dire che nel mezzo del cammino della sua vita, entra nel
Nelle strade di Sprinsgteen il «tunnel of love» esiste davvero, è ancora lì,
Valentine’s day, bellissimo pezzo che ha avuto scarsa fortuna nei suoi con-
sovrapporsi.
tunnel dell’amore con Julianne Phillips e ne esce con Patti Scialfa. Il
screpolato e dimesso, con la facciata rosa, e Bruce lo racconta nei minimi
certi. È stato suonato solo 6 volte dal vivo e tutte nel 2005. Parla di morte,
The Big Man, Clarence Clemons, era l’opposto, era l’amico scelto dall’al-
primo matrimonio è puro impulso, forse non esattamente la donna
dettagli: «fat man sitting on a little stool takes the money from my hand»,
di sogni, di un viaggio in macchina e dei pensieri che vengono su una
tra parte della strada, quello che irrompe nella storia del gruppo in una
perfetta per lui, sta di fatto che le cose iniziano presto ad andare male.
l’uomo grasso sullo sgabello prende i miei soldi dalla mano, «while his
brutta autostrada, dove l’unica consolazione è pensare «stringimi forte,
notte buia e maestosa, come quando nei film l’eroe arriva accompagnato
Ma ormai Bruce è dentro la questione e, dopo aver provato gioie e
eyes take a walk all over you», mentre i suoi occchi ti squadrano dalla
dolcezza, dimmi che sarai per sempre mia e dimmi che sarai il mio unico
da un tuono e da un fulmine che acceca. Clarence era il totem, la roccia
disillusioni del matrimonio, decide di voltare pagina, smetterla con
testa ai piedi, «hands me the ticket, smiles and whispers good luck»,
San Valentino». All’uscita del tunnel trova ad aspettarlo una ragazza del
nera attorno alla quale girava l’intero mondo.
tutto, perfino con la E Street Band, e comporre un intero disco dedi-
mi porge due biglietti, sorride e dice buona fortuna. Ma di fortuna ne
territorio, col cognome italiano, come sua madre, Patti Scialfa. Scopre
Il primo disco in cui timidamente si affacciano immagini di famiglia e re-
cato al tema, fino all’ardire di intitolarlo Tunnel of love, che esce il 9
arriva davvero poca. Nel disco ci sono tutte le fasi dell’amore: c’è l’uomo
che solo grazie all’amore ci si può tuffare nel buio e rinascere nella luce.
lazioni stabili è The river (1980) e a dirla tutta non sempre sono immagini
ottobre 1987. L’album si esaurisce in un giro al luna park, nel breve
molto incoraggianti. Da una parte gioca con l’idea della coppia: «two hearts
viaggio di una barchetta per innamorati attraverso il tunnel dell’amore.
are better than one», due cuori sono meglio di uno, dice, e se deve pren-
Si entra col cuore che batte all’impazzata e si esce con l’anima gonfia
dere una cotta è di un attimo, «oh, oh, I gotta crush on you tonight», sono
di consapevolezze, orizzonti, rimpianti, nuove certezze, figli, respon-
scorribande, avventure da Drive in: «ho chiamato Dirty Annie al telefono,
sabilità più mature. All’inizio è solo desiderio, uno shout ruvido che
l’ho portata al Drive in giusto per stare solo con lei» (You can look), si
dice: «ho tutto, sono ricco, ho la casa piena di Rembrandt, ma non
spinge perfino a dirlo in un titolo: I wanna marry you, ma è solo la storia
ho te, baby, I ain’t got you, e non sarò sodisfatto finché non ti avrò tra
triste di una ragazza che lavora con due figli a carico. In The river, la cop-
le mia braccia». Ma subito dopo si rimane invischiati, ci sono prove
pia è teatro di un dramma. Le sue migliori canzoni d’amore sono quelle
da sostenere. L’eroe è un eroe del sabato sera di provincia, più forte
che evocano immagini di fuoco e vertigine, un inno all’appartenenza
degli altri, o almeno così vuol far credere: «Well it’s Saturday night,
collettiva dell’amore come Because the night o il puro scatenamento dei
you’re all dressed up in blue […] And if you’re rough enough for love,
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Lev e Svetlana – Long Branch, New Jersey
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Elizabeth – Long Branch, New Jersey
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Stazione del Greyhound bus – Bristoll, Tennessee
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Long Branch, New Jersey
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In volo sull’Oceano Atlantico Nelle pagine seguenti: Asbury Park, New Jersey
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Asbury Park, New Jersey
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Lev e Svetlana – Long Branch, New Jersey
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The Stone Pony – Asbury Park, New Jersey
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Elizabeth e Adrian – Long Branch, New Jersey
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Asbury Park, New Jersey
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Nathalia – Oceanport, New Jersey Nelle pagine seguenti: Oceanport, New Jersey
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Roberto – Freehold, New Jersey
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Long Branch, New Jersey
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VI
THE PROMISED LAND
Mister I ain’t a boy, no I’m a man
Chuck Berry la sua Promised Land l’ha scritta in prigione dopo aver
and I believe in a promised land
preso in prestito l’atlante della biblioteca interna al carcere, ed è una
(The promised land)
descrizione letterale, un vero viaggio, con tappe reali, e una chiusa fantastica: «tell the folks back home this is the promised land callin’, and the
Credere nella Terra Promessa. Questo è il punto cruciale. Ci hanno
poor boy’s on the line», dite alla gente a casa che a chiamare è la «terra
creduto fin dall’antichità. Ci hanno creduto gli americani per ogni
promessa», e che il povero ragazzo è al telefono1. Anche in questo caso la
metro conquistato di frontiera. Ci credono tutti quelli che si guardano
Terra Promessa s’identificava con un luogo preciso: la California, che fin
intorno e vedono qualcosa che non c’è, ma che ci potrebbe essere. Ci
dai tempi della febbre dell’oro era gradualmente ascesa al rango di terra
hanno creduto gli schiavi africani deportati in America quando nelle
ideale, fertile, dal clima perfetto, una terra felice e accogliente, che infatti
chiese protestanti sentivano leggere la Bibbia che parlava di un popolo
attirava ciclicamente stuoli di lavoratori in cerca di migliori condizioni di
oppresso fuggito dalla servitù verso una Terra che gli era stata promessa
vita, e che alla metà degli anni ’60 si rivelò improvvisamente al mondo
direttamente da Dio, quel Dio «che progetta la frontiera, e costruisce la
come il paradiso in terra dei teenager: gaudenti surfer, studenti in rivolta,
ferrovia». Un’idea, certo, astratta, un luogo ideale, una condizione dell’a-
hippies che volevano ribaltare il mondo. Era la terra dei verdi pascoli, era
nima che poteva essere ovunque, come quando Bruce lascia esplodere
la terra dei Beats e dell’utopia, con uno stuolo di artisti innamorati che
l’orgogliosa rabbia dei tempi di Darkness on the edge of town: «I packed
fecero da imbonitori per alimentare il mito. I Beach Boys sembravano
my bags and I’m heading straight into the storm» canta in The promised
gli abitanti del paradiso, ragazzi allegri che dicevano: venite qui, questo
land, ho fatto le valigie e cammino a testa alta dritto nella tempesta, «gon-
è il paese dei balocchi, una terra da sognare, la California dreamin’ dei
na be a twister to blow everything down that ain’t got the faith to stand
Mamas and Papas; altri ci arrivavano dall’Inghilterra, come Eric Burdon,
its ground», vorrei essere un ciclone per abbattere tutto ciò che non ha
che in un pezzo descrisse San Francisco come una città abitata da angeli.
abbastanza fede per rimanere attaccato alla sua terra, per spazzare via
Chiunque all’epoca avrebbe scommesso a occhi chiusi: se c’era un luogo
i sogni che ti devastano. Un’idea, un’astrazione, ma non è sempre stato
dove brillava la luce della rivoluzione dell’amore, quello era la California.
così. Per Marcus Garvey e i suoi seguaci, per Bob Marley e tutti i ferventi
Lo stesso Bruce nel ventre di «quella» Terra Promessa si è tuffato più
rastamen la Terra Promessa esisteva, era molto lontana, ma esisteva: era
volte, fisicamente. Prima ancora di lui partirono i genitori, nel 1969, con
la madre Africa dove, per essere liberi, bisognava un giorno ritornare.
la sorellina piccola, lasciandolo solo a sopravvivere con la sua chitarra.
197
Come vecchi emigranti, misero tutto sul tetto della vecchia Rambler e at-
Steinbeck, il probo lavoratore Tom Joad. Questa volta in California
mondo, «families sleepin’ in their cars in the Southwest, no home no
sarò là, ovunque ci siano uomini che lottano per un posto dove stare o
traversarono l’America, un’immagine indimenticabile, anche perché era
vuole viverci, stabilmente, ma sono gli anni più smarriti e incerti e, per
job no peace no rest», famiglie che dormono nelle loro macchine nel
per un lavoro decente o per una mano che li aiuti, ovunque ci sia gente
già stata raccontata innumerevoli volte da film e canzoni. Da Ovest verso
ridiventare sé stesso, nel 1996 rifà la strada al contrario, torna a casa, nel
Sud-Ovest, niente casa, niente lavoro, niente pace, niente riposo. Un
che sta lottando per essere libera, guarda nei loro occhi, mamma, e tu
Est, da un oceano all’altro, esattamente nella direzione della frontiera.
New Jersey, per non andarsene mai più.
paesaggio che potrebbe essere antico o modernissimo, è la desolazione
vedrai me. Perché questo e solo questo è quello che conta davvero per
«Le uniche notizie sulla West Coast» racconta Bruce «erano arrivate
Non prima però di aver relizzato, direttamente dal ventre della Terra
delle terre dell’Oklahoma devastate dalle tempeste di sabbia, oppure la
Bruce, stare dalla parte giusta.
tramite una mia ex ragazza hippie che aveva consigliato ai miei di
Promessa, un disco intitolato The ghost of Tom Joad, il cui immaginario
povertà figlia del nuovo ordine mondiale.
trasferirsi a Sausalito, la pretenziosa trappola per turisti vicino a San
sottotitolo è «The promised land, parte seconda».
«The highway is alive tonight, but nobody’s kiddin’ nobody about
Francisco. Quando ci arrivarono, si resero conto che non faceva per
Bruce capisce che in quell’idea si gioca una consistente parte dell’iden-
where it goes», l’autostrada è viva questa notte, ma nessuno prende
loro e, stando a mia madre, chiesero a un benzinaio: “Dov’è che abita
tità americana, e i toni ora sono molto diversi, la protesta è sempre più
in giro nessuno su dove vada a finire. Bruce è seduto accanto alla luce
la gente come noi?”».
dolente.
dell’accampamento, «searchin’ for the ghost of Tom Joad», in cerca del
Li per lì Bruce si accontentò. Per un ragazzo di Freehold che voleva fare
Dai tempi di Darkness è successo di tutto, il Paese è cambiato, Bruce è
fantasma di Tom Joad,
rock bastava Asbury Park. Ma qualche tempo dopo sentì il richiamo
cambiato, la sua consapevolezza è diventata sempre più acuta e veritie-
c’è una promessa che aleggia, una promessa evangelica incarnata da un
delle sirene dell’Ovest e così gli Steel Mill decisero di tentare la fortuna
ra, c’è stato The river, l’incontro coi veterani2, poi ancora Nebraska, la
prete «waitin’ for when the last shall be first and the first shall be last»,
in California.
stessa Born in the u.s.a. E per andare fino in fondo sceglie di nuovo la
che aspetta che gli ultimi diventino i primi e i primi diventino ultimi. Le
Fu un viaggio terribile, ma arrivarono presto le visioni: la luce del deserto,
solitudine da cantastorie.
promesse sono scese dal cielo, ma sono scese troppo in basso, sono vicine
le strade senza fine, e poi Big Sur, Esalen, l’incontro con i genitori a San
In The ghost of Tom Joad evoca la più potente narrazione del miraggio
al fango, «in a cardboard box ‘neath the underpass, got a one-way ticket
Mateo, i concerti in giro, le difficoltà. Bruce capisce in poco tempo di
della Terra Promessa e del disincanto: la storia dell’originale Tom Joad
to the promised land», in una scatola di cartone trovi un biglietto per la
essere un figlio del New Jersey e che solo lì può compiersi il suo destino.
raccontata da Steinbeck in Furore. Riporta quell’antica epopea alla con-
terra promessa ma è un biglietto di sola andata. Tutto è stato concepito
Il richiamo però si ripresenta, ciclicamente.
temporaneità, e in quello che scrive su cosa è diventata l’America non
perché Bruce possa pronunciare la celebre frase che Tom Joad, imper-
Dopo Nebraska, prepara con gli amici una Ford del ’69 e va verso Ovest,
c’è alcuna pietà: «men walkin’ ‘long the railroad tracks, goin’ someplace
sonato da Henry Fonda, pronuncia alla fine del film The grapes of wrath:
solo per svernare in una villetta affittata. Poi nel 1989 arriva la svolta
there’s no goin’ back», vede uomini che camminano lungo i binari della
«wherever there’s a cop beatin’ a guy, wherever a hungry newborn baby
radicale. Fa le valigie con Patti Scialfa e sale su un van, come prima di
ferrovia, diretti da qualche parte dove non c’è ritorno, «shelter line
cries, where there’s a fight ’gainst the blood and hatred in the air, look
lui avevano fatto i genitori, e prima ancora milioni di illusi e speranzosi
stretchin’ round the corner», la fila per un ricovero gira dietro l’angolo,
for me Mom I’ll be there», ovunque ci sia un poliziotto che picchia un
lavoratori, come prima di lui aveva fatto l’americano ideale di John
«welcome to the new world order», benvenuti nel sistema del nuovo
ragazzo, ovunque un neonato pianga per la fame, cercami, mamma, io
198
Molto simile al protagonista di Johnny B. Goode che suonava la chitarra in una capanna, ma che un giorno avrebbe avuto il suo nome scritto su un’insegna luminosa. 2 «È nuvoloso a Pittsburgh, sta piovendo a Saigon…», canta nella poco conosciuta ma splendida A good man is hard to find, scritta nel 1982 e pubblicata in Tracks (1998). 1
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Skyline di Manhattan – New York
200
201
Albuquerque, New Mexico
202
203
Kingman, Arizona
204
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Morristown, Tennesse
206
Route 66 – Albuquerque, New Mexico
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Albuquerque, New Mexico
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Coconino County, Arizona
212
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Nashville, Tennessee
214
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California
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217
Gallup, New Mexico
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219
Emanuel – Bakersfield, California
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Arizona
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223
Amarillo, Texas
224
225
State Fair – Oklahoma City, Oklahoma
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227
Carlos – Albuquerque, New Mexico
228
VII
IL SOGNO
I’m working on a dream and our love will make it real someday (Working on a dream) Poche ore dopo l’attacco terroristico che cancellò per sempre ogni possibile certezza d’invulnerabilità del mondo occidentale, Springsteen era in auto, stava andando a prendere i figli a scuola. Al semaforo si affiancò un tizio che abbassò il finestrino e gli disse: «Ora abbiamo bisogno di te». Fu così che Bruce si risvegliò, rinacque per la centesima volta, e si rimise all’opera. Pochi mesi dopo uscì The rising (2002), il primo disco dopo sette anni, l’intervallo più lungo di tutta la sua carriera. Era anche il primo in studio con la E Street Band dopo 18 anni. Ma del resto sono quelli i momenti in cui ci si stringe intorno alla famiglia, e quando si era rimesso in tour col gruppo, tre anni prima, aveva scritto un pezzo per l’occasione: The land of hope and dreams. La vita collettiva, di cui una band è sempre e comunque una rappresentazione, deve rimanere un luogo di speranza e sogni. I sogni che l’11 settembre sembrava aver cancellato per sempre. Nella torre che stava per crollare, Springsteen aveva colto l’incredibile meraviglia umana dei pompieri che salivano andando incontro al fuoco mentre tutti gli altri cercavano
di scappare: «up the stairs, into the fire, may your strength give us strength, may your hope give us hope», canta in Into the fire, su per le scale, dentro al fuoco, possa la tua forza darci forza, possa la tua speranza darci speranza, come fosse una litania, una preghiera. Aveva trovato nuovi eroi del sogno americano da contrapporre ai cieli vuoti di Empty sky, alla rabbia, alla voglia di vendetta, all’incubo di Paradise, il menzognero paradiso del kamikaze, la più colossale e nefasta bugia dell’era contemporanea che spinge militanti fanatici a buttare via la propria vita, uccidere altre vite, in cambio di una ricompensa nell’aldilà. Aveva trovato dei valorosi pompieri che al contrario rischiavano la propria vita per salvarne altre. Anche quando alla fine del disco racconta la sua «city of ruins», la valle di lacrime della desolazione, non può fare a meno di incitare chiunque sia in ascolto, che siano i suoi compatrioti di Asbury Park, per i quali originariamente era stata pensata la canzone, oppure il mondo intero atterrito dalla distruzione delle torri gemelle: «come on rise up, come on rise up, rise up, rise up…». Non c’è mai sconfitta definitiva, anche quando si è perso tutto, finché c’è vita c’è speranza di redenzione, e allora su, andiamo, sollevati, sollevatevi, ma è come se lo dicesse a sé stesso, sono i suoi demoni a incalzarlo, l’inconfessabile depressione, risorgi Bruce, devi farlo
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ogni sera, e per questo ogni concerto è una battaglia senza quartiere: o si vince o si muore. Un concerto, a pensarci bene, è sempre un sogno, ma anche quello può diventare una bugia («is a dream a lie if it don’t come true or is it something worse», un sogno se non si avvera è una bugia, o qualcosa di peggio, The river), se non si pulisce la ruggine che va a formarsi ogni giorno sugli ingranaggi della passione. I sogni devono avverarsi per non diventare il veleno che corrode le nostre vite («you wake up in the night with a fear so real spend your life waiting for a moment that just don’t come», ti svegli di notte con la paura di dover aspettare un momento che non arriva, Badlands). I sogni vanno protetti («Wendy let me in [...] I wanna guard your dreams and visions», Born to run). I sogni vanno seguiti, fino in fondo, come diceva in Follow that dream, a costo di cantare canzoni di altri come questa che era di Elvis, anzi era la sua canzone preferita di Elvis. E lo fa di nuovo con Dream baby dream, incisa da un gruppo dal terrificante e poco sognante nome di Suicide. La sua versione toglie al pezzo ogni sotterranea malizia, anche se di sicuro qualche residuo dell’amarezza dell’originale sopravvive anche nell’innocenza di un videoclip che diventa il suo più esplicito e commosso tributo alla comunità dei fan. Ci sono
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tanti modi di occuparsi dei sogni degli altri, grandi o piccoli che siano. A volte basta poco, un piccolo gesto, basta utilizzare un piccolo, romantico pezzo dei Drifters, Save the last dance for me, chiedere alla E Street Band di essere accondiscendente, diventare per un attimo un’orchestrina da balera, far salire una donna sul palco e ballarci insieme sapendo che per alcune di loro potrebbe essere «il» momento indimenticabile della vita. D’altra parte i sogni non sono solo le nostre aspirazioni, i sogni ci sono sempre, tutte le notti. Quando dormiamo noi sogniamo, e in genere, anche se non lo sappiamo, sogniamo la verità. Bruce lo impara da grande, quando si decide ad andare da uno psicanalista e comincia a considerare i sogni come una parte rilevante, oscura ma del tutto naturale, della vita. Grazie alla psicanalisi inizia a capire i sogni, a decifrarli, infine a lavorarci. Nasce Working on a dream (2009) in un lampo di ottimismo verosimilmente dovuto alla presidenza Obama, un evento che aveva tutte le sembianze di un sogno che si avvera. Ma nel frattempo aveva finalmente acquisito il sogno come un linguaggio e comincia a provarne gli effetti nelle sue canzoni, passo dopo passo: entrano simboli e visioni, orizzonti lunghi, paesaggi interiori, e continua fino a quando può permettersi il totale abbandono. Western stars è finalmente un sogno, dall’inizio alla fine, costruito su una filigrana trasparente attraverso la quale
immagini e narrazioni risultano sempre sfocate, troppo luminose o troppo scure, un disco del crepuscolo che in quanto terra di mezzo tra il giorno e la notte è la terra priviliegiata dei sogni. Bruce è solo, come si è soli nei sogni, e va attraversando terre e paesaggi fluttuanti, archetipi dell’immaginario collettivo e di quello personale, viaggia su macchine irreali e frequenta bar popolati di fantasmi. Come in un sogno incontra la sua adolescenza, rivede la California pop di quand’era ragazzo, rimpiange le possibili vite che
non ha potuto vivere, vede sé stesso specchiarsi nelle nuvole e nei paraurti cromati delle automobili. Chiede una pausa dal furore. Si illude di poter sfuggire alla sua missione: ho fatto, ho dato, sembra dirci, ora posso concedermi un incolpevole languore, senza doveri, senza obblighi, senza dover rendere conto, senza dove pagare il prezzo dell’onore. Posso riposarmi, guardare di notte le western stars, le stelle dell’Occidente, senza pensare più a nulla. Si può essere liberi, alla fine.
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Motel – Elk City, Oklahoma
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Asbury Park, New Jersey
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Brad – Red Bank, New Jersey
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Rumson, New Jersey
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Las Vegas, Nevada
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Dallas, Texas
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Albuquerque, New Mexico
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Long Branch, New Jersey
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Lev – Long Branch, New Jersey
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Ron – Nevada
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Flagstaff, Arizona
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Lev – Long Branch, New Jersey
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EPILOGO
Una notte è per sempre
I swear I’ll drive all night just to buy you some shoes (Drive all night) 16 luglio 2016, Roma, Circo Massimo Intorno alle 23 il concerto è ormai maturo, ci sono già state 22 canzoni, il pubblico è già morto e rinato più volte, la notte è profonda, ha avvolto le rovine della vecchia città, ha ispirato il Boss a cantare per i fantasmi del passato e per quelle 56.329 anime che sono lì, vive e pulsanti nell’immensa distesa che si apre di fronte al palco. Ma c’è ancora qualcosa che deve accadere, qualcosa d’inaspettato. A volta nei concerti succede, c’è una scintilla, un salto emotivo, un impercettibile scatto che ci mette in allarme, ci avverte di prestare ancora più attenzione perché stiamo per assistere a un momento irripetibile. Comincia con poche note di pianoforte di Roy Bittan, un riff sospeso con una scansione semplice di batteria, di quelle che non mettono fretta, Max Weinberg è intenso e rilassato, batte come uno spirito guida, deve solo tracciare un sentiero. Bruce entra, inizia a seguire la strada, si capisce che è il suo canto della notte, o almeno di quella notte, e canta con voce pacata: «When I lost you, honey, sometimes I think I’ve lost my guts too», quando ti ho perso credo di aver perso anche il mio coraggio, ma si capisce subito che lo sta dicendo soprattutto a sé stesso, prega invano Dio perché gli mandi una parola che valga la pena di salvare, quello stesso Dio che gli aveva imposto la missione: «like prisoners of our lives, I get shivers down my spine and all I wanna do is hold you tight», tutto quello che voglio è solo abbracciarti, l’unica cosa che conta veramente, col mondo che sta franando intorno.
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A volte, gli artisti lo sanno, e il pubblico lo scopre in epifanie di un momento, è questione di miracoli, si lavora, si suda, si soffre, perché a un certo punto gli spiriti scendano dal cielo, si rinnovi il miracolo impalpabile di convergenza tra la persona, il momento, la folla, l’aria che c’è intorno, i sassi e la polvere secolare, tutto concorre a che alla fine accada, e spesso questo significa semplicemente essere fino in fondo dentro qualcosa. Quello che sta succedendo è la cosa più bella e difficile del mestiere dell’artista: Bruce si sta mostrando a nudo, è lì, c’è la sua disperazione, e urla al cielo di Roma: «I swear…», lo giuro, guiderò tutta la notte, «just to buy you some shoes», solo per comprarti un paio di scarpe, pur di poter tornare a dormire tra le tue braccia. Una frase che vuol dire tutto e niente, il desiderio più semplice, in bilico sullo scenario di una vita completamente diversa. Intorno la gente trattiene il respiro, in silenzio assoluto, si percepisce ogni minima sfumatura di quello che sta avvenendo sul palco, i vuoti tra una parola e l’altra, i respiri, le gocce di sudore, i sussurri dell’aria, ogni accordo un metro conquistato nella grande salita dell’esistenza. Quella notte l’hanno capito tutti: Bruce era interamente, disperatamente, totalmente dentro Drive all night. Tutto sembrava puntare al miracolo, e quando è partita la cadenza lenta, tutto si è fermato, il mondo intorno si è messo ad ascoltare: «tonight there’s fallen angel and they are waiting for us down in the street…». Ci sono angeli caduti, sono lì in strada e ci aspettano. Ci sono stranieri che gridano la loro sconfitta, e a quel punto Bruce spezza la tensione, urla «let them go» e la voce si rompe, e quando canta di nuovo «I swear…», lo giuro, è sempre più disperato, spezzato, sta affondando in un abisso di rimpianti, finché arriva a salvarlo un sassofono, un lungo assolo di Jake Clemons che è un’ancora, ma anche il costante ricordo di qualcosa che è perso per sempre, quello sì, irrimediabilmente: lo zio, the
Big Man Clarence Clemons, il grande amico, la parte black della sua inestinguibile fiamma. Ma il sax termina e Bruce rimane di nuovo solo, un naufrago in un oceano solenne e silenzioso che assomiglia al buio della notte. Sta mettendo tutto quello che ha nella canzone. «There’s machines and there’s fire», ci sono macchine e ci sono fuochi, e guarda caso sono lì, ai margini della città, «on the edge of town», esattamente come le tenebre, ma niente può farci del male davvero, ora, perché tu hai il mio amore, «you got, you got, you got my love…», insiste, ripete, è un crescendo incredibile, come se la notte fosse un abisso nero in cui gettarsi, a capofitto, in alto, ancora più in alto, «you got my love», poi di nuovo tutto si abbassa, di nuovo il silenzio e ricomincia sussur-
rando, «don’t cry now», gli occhi chiusi, «don’t cry now», finché una voce lieve dal coro arriva in soccorso, ripete «don’t cry now», e lui si riprende, riacquista forza, asciuga i tuoi occhi, pretty darling, il sussurro diventa un urlo e lui ripete il giuramento: guiderò tutta la notte solo per comprarti un paio di scarpe, «so drive all night, drive all night again». Ora il gruppo arriva in forza, la musica sale, il sax irrompe di nuovo e in un modo o nell’altro si arriva in porto. Springsteen quella sera era dentro una canzone, c’era il prima, c’era il dopo, c’erano la sua e le nostre vite, tutto per quei dieci minuti di verità. Ma alla fine, non è questo lo scopo ultimo e supremo dell’arte? E del rock? Raccontare la vita, mentre accade.
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Concerto di Bruce Springsteen, 16 luglio 2016, Circo Massimo, Roma Foto di Giovanni Menna, Pink Cadillac
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sono arrivata per la prima volta negli stati uniti... Daria Addabbo
Sono arrivata per la prima volta negli Stati Uniti nel 2015, con un budget limitato e un libro in tasca pieno di sottolineature: ero lì per realizzare un progetto fotografico lungo l’itinerario di viaggio che la famiglia Joad, protagonista del romanzo Furore di Steinbeck, intraprese dall’Oklahoma per raggiungere la ricca California, nella speranza di condizioni di vita migliori. Non conoscere una parola di inglese non mi ha impedito di noleggiare un’automobile e percorrere più di 4.000 chilometri, in gran parte lungo la Route 66, la Mother Road, come la definisce Steinbeck per la prima volta. Durante la preparazione del lavoro su Furore, ho ascoltato con attenzione l’album di Bruce Springsteen The Ghost of Tom Joad e in seguito, con avidità, tutta la sua produzione musicale. I temi trattati nei suoi testi, così ricchi di immagini e dettagli visivi, mi hanno rivelato uno Springsteen sofisticato fotografo. «Mi misi addosso la vestaglia la mattina, guardai l’anello del fornello diventare rosso, rimasi ipnotizzato dalla tazza del caffè, mi misi gli stivali e feci il letto. La zanzariera sbatte fuori dai cardini e mi tiene sveglio tutta la notte. Come guardo fuori dalla finestra, la sola cosa che vedo è un lampo secco sulla linea dell’orizzonte, solo un lampo secco e tu nella mia mente». Una manciata di immagini, da Dry Lightning, così evocative da dipingere con efficacia, e in solo poche rime, uno stato d’animo, una storia. Come Steinbeck, anche Springsteen parlava con un linguaggio a me familiare, tanto da generare l’urgenza di approfondirlo, e di creare un nuovo racconto. L’entusiasmo era molto alto, come spesso mi accade durante la genesi di un nuovo progetto, e in seguito si rivelò anche contagioso. Ho infatti avuto la fortuna di condividere questa avventura con un compagno di viaggio d’eccezione, Gino Castaldo, che, con coraggio e un po’ di sana follia, mi ha dato credito sulla base di sole intuizioni.
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Nell’aprile del 2018 sono quindi nuovamente tornata negli Stati Uniti, nel New Jersey, dove Springsteen è nato e tuttora vive, con l’intento di rappresentare i temi delle sue canzoni, ma anche di abbozzare un ritratto attuale degli Stati Uniti: la condizione della working class, la crisi della classe media, l’American Dream deluso, ma sempre presente, le violente contraddizioni, le tensioni mai sopite tra bianchi e afroamericani, l’immigrazione e le fratture sociali dell’America di Trump. Sono trascorsi quarant’anni da quando Springsteen ha «fotografato» questi luoghi e, inevitabilmente, le condizioni sono cambiate. Avevo immaginato un lavoro dinamico: volevo fossero presenti la velocità e il movimento, le corse in macchina e gli ardori giovanili, temi assolutamente protagonisti di gran parte della sua produzione musicale. La realtà con cui mi sono invece scontrata era tutt’altra: la noia e la solitudine sono state compagne assidue e le corse che avevo immaginato si sono trasformate in staticità. La noia si è però mostrata – e a ben pensarci nemmeno sorprendentemente – un ingrediente fondamentale: in questi territori si infila dentro le fessure, sotto le porte, insieme al vento e alla nebbia e così è inevitabile finire dentro un parcheggio o in un centro commerciale o in un bar, in cui trascorrere il tempo in attesa, senza saper bene di cosa. Proprio in un bar ho incontrato uno dei protagonisti del mio lavoro. Si chiama Claudio, un anziano uomo di origini umbre che vive a Long Branch da sessant’anni. Un giorno gli ho chiesto di poter andare a casa sua, dove ho fatto una scoperta curiosa. Claudio vive infatti nella casa che ha acquistato nel 1974 dalla famiglia di Patti Scialfa, la moglie di Springsteen. Questo lavoro non ha mai voluto essere un pellegrinaggio laico nei luoghi del Boss, ma la parte più romantica di me ha letto in tale coincidenza un forte segnale.
Senza troppi punti di riferimento, ho lanciato la macchina lungo le strade provinciali del New Jersey, molto spesso avvolte nella nebbia. Una delle prime mete è stata ovviamente Freehold, la città natale di Springsteen. Nonostante avessi ben chiaro cosa ricercare, in questa cittadina di circa 12.000 abitanti, molti dei quali oggi di origini latine, ho faticato non poco a incontrare i protagonisti delle storie del Boss. Con una buona dose di emozione sono giunta di fronte al famoso civico 39½ di Institute Street. Avvicinatami a persone che parlavano con marcato accento ispanico, con il mio «collaudato Spanglish», ho chiesto informazioni sulla casa in cui Springsteen trascorse gran parte della sua giovinezza. Non solo non hanno saputo raccontarmi niente, ma non avevano la minima idea di chi fosse Springsteen, neanche dopo aver mostrato loro una sua foto e canticchiato qualche nota di Born in the u.s.a. D’un colpo ho percepito con chiarezza che il tempo trascorso avrebbe avuto ovviamente un peso consistente sul mio lavoro. Il mio compito è quello di documentare con lealtà ciò che vedo: era necessario dunque pensare a un nuovo registro narrativo. Il primo topos della poetica del Boss che ho affrontato è quello del lavoro, un tema a me molto caro. Il sogno americano è la speranza che i figli possano avere una vita migliore di quella dei propri padri. Il concetto che chiunque possa raggiungere una posizione sociale ed economica più elevata, la mobilità sociale, è il cardine dell’American Dream. Ma il sogno molto spesso viene infranto, e ciò che rimane è solo il senso di sconfitta. Springsteen lo ha raccontato come pochi altri. Ho conosciuto molti «soldati della working class»: Lev, Osman, Roberto, Brad, Jared, il giovanissimo Nick, che lavora in una Pharmacy e ha la passione per le automobili (già possiede una Mustang), Nathalia, Svetlana, Emanuel, la maggior parte di origini straniere, in luoghi come autolavaggi, autofficine, supermercati, lavanderie
automatiche, tavole calde e fabbriche, come la Nescafè, dove per un periodo ha lavorato Douglas, il padre di Bruce. Sempre alla ricerca di lavoratori, un giorno ho parcheggiato la macchina di fronte a un negozio di alimentari. Alla cassa era seduta Nathalia, di origini brasiliane. Sembrava annoiata e indossava sulla testa orecchie da coniglietta, decorazioni pasquali decise dall’azienda. Forse era proprio la «Queen of the Supermarket» che stavo cercando. I protagonisti delle canzoni di Springsteen trascorrono tutta la settimana a faticare, svolgendo lavori insopportabili, perché uninspiring, privi di ispirazione, aspettando la sirena del venerdì che celebra la fine del lavoro. Spesso sono anche reduci di guerra, tornati a casa chiedendosi il senso dell’orrore visto, pronti a spogliarsi della divisa militare per infilarne un’altra, quella della working class. Ma per tutti, finito il lavoro, si rientra nelle proprie abitazioni, ci si cambia e si indossano gli abiti della festa. La casa è spesso inquadrata di notte, con luci domestiche a illuminarne la vita all’interno: spesso ci sono le note di Roy Orbison a colmare il silenzio e una donna, con cui si faranno le valigie per fuggire. A Long Branch ho avuto modo di entrare in diverse case, una su tutte quella di Lev e Svetlana, una coppia di origini ucraine, veri e propri personaggi springsteeniani. Lui, ex veterinario nel suo paese di origine, oggi svolge lavori nel campo dell’edilizia, un autentico jack of all trades, un tuttofare; lei lavora come collaboratrice domestica presso una ricca famiglia di russi ebrei. Lui si prende cura di lei, e lei di lui. Un giorno, allacciandosi il casco, in sella a una Kawasaki, la sua baby, mi ha detto: «Amo moltissimo mia moglie, un giorno le comprerò una Tesla». Lo ha fatto. La casa come luogo del ritorno, ma anche punto di partenza per la fuga, che avviene sempre di notte, lungo la strada e in automobile,
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con la radio perennemente accesa, che amplifica il terrore della solitudine. Infinite lingue d’asfalto conducono i sogni verso una realizzazione, o almeno verso la speranza che sia possibile. E si corre via, sempre in due, perché per Springsteen la coppia è l’embrione del mondo da ricostruire. Nelle affascinanti immagini notturne i protagonisti delle canzoni di Springsteen cavalcano la strada senza mai fermarsi, come in un interminabile lungometraggio, in direzione della sconosciuta Promised Land. Una Promised Land che hanno immaginato tanti giovani ragazzi arrivati negli Stati Uniti, e che io ho incontrato lungo il viaggio. Due storie molto significative, quelle di Roberto, di origini ecuadoriane, e di Elizabeth, del Salvador. Il primo vive a Long Branch da un paio di anni. È venuto da solo, in Ecuador ha lasciato anche suo fratello gemello, che chiama affettuosamente ñaño. Oggi lavora nelle costruzioni, precedentemente sparecchiava i tavoli in un ristorante. Parla benissimo l’inglese. Lavora dodici ore al giorno e vive in un basement, condividendo la stanza con altre persone, dormendo in un letto a castello. Elizabeth è arrivata negli Stati Uniti a diciassette anni. Anche lei ora risiede a Long Branch e anche lei ha lasciato tutta la famiglia. Il viaggio verso il confine con gli Stati Uniti è stato estenuante. Condotta da un coyote, ha attraversato il deserto senza cibo e acqua, camminando notte e giorno. Racconta che il momento più doloroso è stato quando, fermatisi a mangiare del pollo fritto in un rumorosissimo e affollato Kentucky Fried Chicken di una città della Virginia di cui non ricorda il nome, alla stazione del Greyhound si è dovuta separare dal suo gruppo. Dice di non aver mai provato un senso di smarrimento e solitudine tanto forte.
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L’ultimo importante appuntamento era con la famosa cittadina di Asbury Park: tempio della musica del New Jersey, è stata la casa della creatività di Springsteen. Anche in questo caso, ciò che ho trovato ha ribaltato le mie aspettative: il fervore di cui avevo letto era completamente assente. Famosi locali come lo Stone Pony e il Wonder Bar, in cui era possibile immaginare i lustri di un passato glorioso del rock, mi sono apparsi come palcoscenici per anime solitarie, parcheggiate al bancone, di fronte a un bicchiere di birra, a fare i conti con la propria solitudine e, ancora una volta, con la noia. La provincia è anche questo: un territorio con il suo uniforme e grigio «color parcheggio», luci al neon, silenzi, aree vuote, in cui il globale divora il locale, evidenziando una costante tensione verso le luci della grande città, nel caso specifico Manhattan. Se Springsteen non avesse però conosciuto tutto ciò, probabilmente non avrebbe sentito l’urgenza di correre via così veloce, alla ricerca di un riscatto sociale e territoriale. Il mio interesse per la provincia e per gli Stati Uniti credo sia nato negli anni Novanta, ascoltando l’album di Guccini Fra la via Emilia e il West. Le prime immagini di provincia e americane che ho amato, e che forse sono state il germe della mia attuale passione, le ho trovate nei versi delle canzoni di questo album. «Basso il sole all’orizzonte colorava la vetrina e stampava lampi e impronte sulla pompa da benzina» potrebbe essere un quadro di Hopper, un fotogramma di Thelma & Louise, o un’immagine cantata dallo stesso Springsteen. La «ragazza bionda senza averne l’aria» di Guccini che serve birra al bancone ha molti tratti in comune con la Theresa di I’ll work for your love: «Theresa, versami da bere in uno di quei bicchieri che hai spolverato e guarderò sulla tua schiena le costole come stazioni della via crucis».
Ho cercato di realizzare un racconto, puntando la lente su storie piccole e locali: nessun eroe, nessun protagonista, soltanto persone che vivono nella paura di rimandare i propri sogni e rimanere imprigionati in qualche parcheggio. Niente mi predestinava a una vita da fotografa, i temi che ho provato a raccontare li sento anche miei. Questi luoghi li conosco e nel tempo ho imparato a leggerli e amarli. Una persona molto cara un giorno mi ha detto che il verso di De Andrè «sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso» gli aveva sempre fatto pensare a me, anche prima di conoscermi. La mia personale declinazione dell’American Dream è il mio lavoro. Mi sbilancio e affermo che sognare è un’elettricità ancora necessaria e Springsteen questa necessità ce l’ha cantata meglio di chiunque altro. Un sogno che non si avvera, scrive in The River, è una bugia.
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Grazie Grazie a Mary, mia moglie, per aver sopportato un marito che cerca l’ispirazione in piena notte. Grazie a Marina D’Amico per aver corretto i miei testi con amore e per la sua sviscerata passione per il Boss. Gino Castaldo
A Federico per essere al mio fianco da sempre, per avermi sostenuta in ogni mia scelta e avermi dato il coraggio per realizzare tutti i miei sogni. A Marco Finazzi, costante punto di riferimento, che mi ha condotto anche nell’editing fotografico del libro che state leggendo. Ad Alessandro Portelli per le numerose e illuminanti chiacchierate sugli Stati Uniti e su Springsteen. A tutti gli amici che hanno reso possibile realizzare questo lavoro, attraverso donazioni sotto forma di un “crowdfunding analogico”: Ginevra e Matteo, Monica e Andrea, Sara T, Ale D.P, Simona e Mirko, Giulia e Guido, Lollo e Michela, Elena e Fede, Patrizia e Lorenzo, Roberto, Francesca, Silvia e Sebastian, Francesco e Camilla, Costanza P, Ariel, Lorenzo e Caterina, Riccardo e Alessandra, Alice, Pietro, Lorenzo e Giacomo, Francesca, Roberto, Anna e Lorenzo, Bettina, Sara C, Chiara E, Andrea, Rosemary e Dario, Giacomo Z e Alessandra F, Fabiana F, Stefano e Barbara, Michela, Valentina O e Federica P, Elisabetta e Luca, Ester, Alessandro, Dario e Giulia, Luca e Maria, Paolo, Eugenia e Greta, Sonia F, Marco, Barbara Tea e Nina, Fabrizio, Giulia e Federico, Roberto, Katya, Bianca e Federico, Andrea, Chiara, Marta ed Emma, Emanuela M, Barbara e Iside, Francesco e Pino, Stefano e Valeria, Simona P, Michela G, Giuliana, Donatella, Loris e Louis, Angela, Gianni e Luca, Bruno, Tiziana e Francesco, Jacopo P, Ferdinando, Carlotta e Luigi, Enzo e Simonetta. A papà, Simo, Ale e Nina. Ai ragazzi di Pink Cadillac. A Malcom Pagani per aver pubblicato su «Vanity Fair Italia» questo lavoro. Agli amici del New Jersey: Roberto, Lev, Svetlana, Elizabeth, James, Osman, Karlos, Claudio e Nathalia. Grazie a Vera Minazzi e a tutta la squadra di Jaca Book, che hanno reso possibile la creazione di questo progetto editoriale. Daria Addabbo